No, non si tratta di un errore, seppur possa sembrare tale. L’articolo che segue cerca di ribaltare per qualche minuto il dualismo tra la techno della Città dei Motori e la house della Città del Vento proponendo una prospettiva diversa (e inversa) delle cose, ma non certamente per mettere in discussione passaggi epocali della storia della musica dance dell’ultimo quarantennio circa. L’intento, piuttosto, è porre l’accento sulla massima libertà creativa dei compositori localizzati nelle due metropoli statunitensi che, a conti fatti, non hanno considerato techno e house due realtà antitetiche come invece avvenne in Europa (e specialmente in Italia) negli anni Novanta. Nel Vecchio Continente la produzione dance parve più irreggimentata, da noi non mancò neppure chi ne parlò in termini divisivi e avrebbe voluto erigere un muro tra la techno e l’house asserendo che non si potesse parteggiare per entrambe. I dischi segnalati convergono quindi in due blocchi, indicizzati in ordine alfabetico, che però non hanno la benché minima pretesa di essere esaustivi anzi, non è escluso che in futuro si possano aggiungere nuovi autori e titoli per rendere l’indagine più completa.
L’house di Detroit…
Aaron-Carl – Crucified
Come i suoi coetanei, Aaron-Carl Ragland si appassiona di musica da ragazzino e con una tastiera economica e un registratore a quattro piste realizza un demo per Mike Banks che lo scrittura immediatamente per la Soul City. Nel ’96 così esce “Crucified”, un brano garage pieno di sentimento, parecchio newyorkese sotto il profilo stilistico. «Ron Murphy e Mad Mike sono stati i miei mentori in quel periodo» afferma l’artista nella sua biografia. «Mi hanno insegnato a fare grandi dischi dopo aver visto in me il potenziale e non avrebbero accettato nulla che fosse al di sotto delle mie possibilità. Mike era solito fare riunioni con tutti i produttori delle sue etichette, faceva ascoltare i brani più forti in circolazione e poi ci spronava a tornare a casa e fare di meglio». Per la Soul City Ragland realizza altri tre dischi, “Make Me Happy”, soulful made in Detroit, “Midnite Jams Vol. 1” e “Wallshaker”, per poi aprire i battenti della sua personale etichetta, la Wallshaker Music, attraverso la quale affinerà ulteriormente il tiro mettendo a segno una club hit come “My House” e stringendo varie collaborazioni, su tutte quella con gli Scan 7 per “4 Types Of People”. A interrompere tragicamente la sua creatività è un linfoma che gli toglie la vita il 30 settembre 2010 quando ha soli 37 anni.
Andrés – Trues
Humberto Hernandez, figlio di un noto percussionista cubano, cresce nel mondo hip hop militando in gruppi come Da’ Enna C. e 12 Tech Mob e facendosi notare come DJ Dez. Col supporto dalla KDJ di Moodymann di cui si parla più avanti, nel 1997 si trasforma in Andrés e firma “Trues”, solo il primo di una lunga serie di produzioni da cui affiora un suono deep house finemente decorato da riferimenti funk, jazz e soul. Se l’ipnosi ciclica ha la meglio su “Trues” e “And This Club Song”, “Piece Of Mind” veleggia su un percorso più brioso e funkeggiante, con una micro porzione sullo sfondo trapiantata da “Wanna Be Startin’ Somethin'” di Michael Jackson. Hernandez prosegue la carriera sotto l’egida di Moodymann che pubblica, su Mahogani Music, tutti i suoi album, a oggi quattro, nei quali mette a punto una caleidoscopica vena creativa dalla quale emerge “New For U”, costruito sulle atmosfere di “Time Is The Teacher” di Dexter Wansel e diventato bestseller per il marketplace di Discogs nel 2012 con 497 copie.
Blake Baxter – Brothers Gonna Work It Out
Il “principe della techno” alle prese con un brano che pare provenire da New York o Londra. Non a caso a pubblicarlo nel ’92 è la branch britannica della tedesca Logic Records, che nel “pacchetto” inserisce anche una versione più tagliente, la Black Planet, realizzata da Moritz von Oswald e Thomas Fehlmann. La Red Planet Mix che apre il lato a o la Pump Da Bass Mix sul lato b, però depongono a favore di costrutti house, con suoni orchestrali tagliuzzati e fatti dialogare con brevi parti parlate. Quello stesso anno la Logic Records di Michael Münzing e Luca Anzilotti (meglio noti come 16 Bit, Off e Snap!) immette sul mercato pure “One More Time”, edificato su “Let No Man Put Asunder” di First Choice, uno dei classici più rimaneggiati da chi allora si dedica alla nuova musica dance. Due anni più tardi tocca a un altro pezzo di Baxter dichiaratamente house, “Touch Me”, potenziato dal remix degli X-Press 2, a cui segue “2Gether” firmato con lo pseudonimo Renee.
Bridgett Grace – Love To The Limit
Nel settore discografico dalla fine degli anni Ottanta, la Grace balza agli onori della cronaca per aver interpretato “Take Me Away” dei Final Cut (Anthony Srock e Jeff Mills), pubblicato originariamente nel 1989 ma esploso in Europa solo due anni più tardi durante la rave age. È sempre Mills, affiancato da Mike Banks, a produrre per la neonata Happy Records la sua “Love To The Limit”, nel 1992, su tessiture garage, che non sfugge al radar della Network Records di Birmingham guidata da Neil Rushton e Dave Barker, pronta a ripubblicarlo nel Vecchio Continente.
Broad Mix Music – Can’t Live Without Your Love
Prodotto nel 1992 dalla compianta Kelli Hand sulla sua Acacia Records, “Can’t Live Without Your Love” è un pezzo che intreccia classici suoni garage alla solare vocalità di Davina Bussey, vocalist cresciuta a Detroit che negli anni Ottanta tenta la carriera nel pop ma che viene ricordata più per il suo contributo alla house music, come si dirà più avanti. Sul 12″ presenziano vari remix tra cui quelli di Chez Damier e Stacey Pullen a cui se ne aggiungono altri due anni più tardi, quando il brano viene ripubblicato in Europa dalla britannica Other. La Hand, scomparsa prematuramente nel 2021 a soli 56 anni e considerata la “first lady della techno di Detroit”, aveva già bazzicato territori house con “Think About It”, col contributo di Robert Hood come ingegnere del suono, e “Living For Another”, remixato da Stacey ‘Hotwaxx’ Hale, altra primattrice del DJing detroitiano. Pubblicati entrambi nel 1990 a nome Etat Solide, finiscono nel catalogo della UK House Records che subito dopo cambia nome in Acacia Records.
Chez Damier & Stacey Pullen – Forever Mix 1
Sebbene la produzione di Pullen affondi le radici nella techno, c’è qualche episodio che lo traghetta sulle sponde della house come questo “Forever Mix 1”, realizzato nel 1993 a quattro mani con Chez Damier e racchiuso nel “Classic EP” sulla Serious Grooves di Antonio Echols, fratello di Santonio. L’asse artistico col DJ di Chicago porta a un risultato mosso dalla leggiadria e sofficità di suoni vibranti, inchiodati a una linea ritmica che corre via senza grandi variazioni. Più atmosferica la versione incisa sul lato b, “Forever Mix 2”, coi primi due minuti in modalità beatless. Il brano viene ripubblicato nel ’95 dalla Balance dopo un opportuno remaster di Chez Damier e Ron Trent e col titolo “Forever Monna”, lo stesso che contraddistingue le ristampe più recenti inclusa quella sull’italiana Back To Life del 2021.
D-Ha – Happy Trax Vol. V
Proveniente dal collettivo Members Of The House di cui si parla più avanti, Lawrence Derwin Hall incide sotto la sigla D-Ha diversi brani nei primi anni Novanta, destinandoli alla Happy Records che li disloca in vari volumi della serie “Happy Trax” condivisi insieme all’amico Mike Banks. Il quinto, del 1994, è ad appannaggio del solo Hall e contiene tre tracce ricche di gaudiose melodie pianistiche e frammenti vocali dalla prorompente organicità: “Tuk My Luv”, “Stories” e “Happy’s Theme”. Degne di menzione anche “Rock Ya Body” e “Now’s The Time” (dal volume 4), “Cha Cha” e “Lift Me Up” (dal volume 3) e “Soul Kitchen” (dal volume 2).
Davina – Don’t You Want It
I brani usciti tra 1984 e 1987 non riescono a sortire grandi risultati ma negli anni Novanta per Davina Bussey arriva la rivincita. Determinante risulta l’incontro con Mike Banks che nel 1992 produce “Don’t You Want It” per la citata Happy Records, sublabel house della Underground Resistance, nata per colmare, così come viene chiaramente spiegato attraverso i crediti sul disco, il vuoto lasciato della Motown che aveva spostato il suo quartiere generale a Los Angeles, in California. «Moltissimi musicisti di talento, cantanti, scrittori, vocalist e altre persone associate all’industria musicale sono state abbandonate. Anche le loro speranze e i loro sogni sono stati lasciati morire. Noi di Happy Records siamo determinati a mantenere vivi quei sogni con le nostre produzioni di Detroit, perché senza speranza non siamo nulla. Ci auguriamo possiate sentire l’emozione nei nostri dischi perché per noi questo non è un hobby, è il nostro destino. Grazie per aver acquistato Happy Records». Davina rinnoverà il sodalizio con la house music nel ’93 attraverso “Let Me Be Me” e “Love & Happiness EP”, entrambi sulla Nocturnal Images Records, a cui segue “I’m Ready (For Your Love)” degli italiani M.C.J. (Andrea Gemolotto e Massimino Lippoli) di cui parliamo qui.
DJ Scott – Solid Grooves
Un debutto di pregio per Patrick Scott che ai tempi, per la prima apparizione sulla Soiree Records International di Derrick Thompson, si firma DJ Scott: in “Music Man” è alle prese con un suono vellutato che si dipana tra esili impalcature pianistiche che fanno da contrappunto a frammenti di organo e un messaggio vocale flash, a cui si somma qualche svirgolata funky della Classic Example Mix. Il tutto orchestrato con dovizia su un tappeto ritmico finemente curato, sia nella costruzione percussiva che nei geometrismi degli hi-hat. Sul lato b “The Specialist”, edificata seguendo una procedura analoga al precedente e trovando il giusto equilibrio tra componenti tribaleggianti e lascive vene melodiche abbracciate a un bassline rotondo. Dopo aver inciso una manciata di dischi come Key Statements, per Scott, nel frattempo ribattezzatosi Scott Grooves, si aprono le porte della scozzese Soma sulla quale nel 1998 viene pubblicato il pezzo più noto del suo repertorio, “Mothership Reconnection”, rifacimento di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton eternato da un remix dei Daft Punk. Ps: “Music Man” finisce recentemente in una compilation della Soiree Records International che raduna i brani realizzati da Scott nei primi anni di attività. L’occasione si rivela propizia per tirare fuori dagli archivi anche due inediti, “On My Way” e “Anything 4 You”.
Donnie Mark – Stand Up For The Soul
Tra i primi dischi della Simply Soul fondata da J.D. Simpson e distribuita dalla Submerge, “Stand Up For The Soul” di Donnie Mark è house di matrice garage, con una nitida impronta soul a caratterizzare l’apparato vocale. Oltre alla dub a opera di D-Ha, ci sono due versioni remix sul lato b, Grand Club Mix ed Explosive Soul Mix, entrambe firmate da Terrence Parker, tra i cantori più ispirati della house music della Città dei Motori. Donnie Mark riappare qualche tempo più tardi sulla Soul City di Mike Banks con “Hold On”, un altro pezzo dalle chiare reminiscenze soul. Per quanto riguarda invece la Simply Soul, val la pena segnalare altri pezzi commercializzati nel primo scorcio degli anni Novanta, da “Love So Good” di Robyn Lynn a “Soul Beats” di Seven Grand Housing Authority passando per “Soul Beats #2” di 2 Sweat Doctors e “Night Creepin'” di Eddie Flashin’ Fowlkes di cui si parla qui sotto.
Eddie Flashin’ Fowlkes – Mad In Detroit! EP
Contraddistinto da un titolo che gioca con la fonetica e il doppio senso tra mad e made, questo EP di Fowlkes targato ’92 mostra i due volti sonori dell’artista. Il primo è tendenzialmente legato alla house (genere a cui si accosta già nel 1986 con “Goodbye Kiss” su Metroplex) attraverso le due versioni di “Mr. E.”, la Mysterious Mix e la Ficticious Mix, con brevi inserti pianistici e virtuosi assoli di tastiera. Un ribollire di suono funkeggiante lo si sente poi in “Night Creepin'”, sulla citata Simply Soul, e “I’m A Winner Not A Loser” finita nel catalogo della londinese Infonet di Chris Abbot e cantata da Wonder Schneider.
Eddie, Santonio, Art Forest – Detroit Techno Soul
Sono in tre (Eddie Fowlkes, Santonio Echols, che con Saunderson aveva già spopolato in epoca new beat con “Rock To The Beat”, e Arthur Forest) a costruire questo straordinario pezzo designato per tagliare il nastro inaugurale della M.I.D. Records, solo uno tra le dozzine di marchi discografici nati a Detroit tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il titolo pare del tutto fuorviante almeno per gli europei che nel momento in cui esce il disco, nel 1991, sono abituati a identificare ben altro con la parola “techno”. La ALF Mix che apre il lato a è un susseguirsi di spintoni e carezze, asperità e linearità, un continuo contrasto che fa il paio con la 5 A.M. Mix di Santonio e “Visitors”, traccia conclusiva in cui gli autori si divertono a tagliuzzare la voce per poi farla volare come si fa con pezzettini di carta davanti a un ventilatore acceso. Fowlkes ed Echols ci riprovano l’anno dopo con “Turn Me Out”, cantata da Janice Rawley in un duetto (virtuale) con Loleatta Holloway che esegue frammenti campionati di “Love Sensation”. Tra le sei versioni c’è persino una Radio Mix, approntata forse con l’ambizione di approdare al mondo dell’FM, cosa che però non accade. Per la M.I.D. Records è l’ultima apparizione.
Gari Romalis – Fult Tilt Production EP
Prodotto da Terrence Parker per la sua Intangible Records & Soundworks, questo extended play del 1995 segna il debutto di Gari Romalis e mette insieme cinque tracce, le ennesime in cui la house ritrova la disco e il funk in un fraterno abbraccio. “N-The Daze” apre il sipario lasciando rivivere frammenti di “Try It Out” di Gino Soccio su ritmiche aggiornate ai tempi, e il discorso prosegue con “Can U Dig It” dove, è chiaro, il modello ispirativo resta quello del passato che si fonde col presente. “Groovin'” vira verso una house più classicheggiante dai richiami latini, “The Game” punta al metti e togli sampledelico, “I’m Tryin’ 2 B Strong” infila nella centrifuga elementi di “Holdin’ On” di Michael Watford per ricavarne un tool prevalentemente strumentale e dalle puntellature ritmiche più solide, quasi saltellanti. Dopo un altro paio di pubblicazioni (tra cui un EP sulla scozzese Soma), Romalis interrompe l’attività in studio di registrazione. Tornerà nel 2012 dando avvio a una ricchissima parata di uscite tuttora in divenire. Ps: per un errore tipografico, sul “Fult Tilt Production EP” il nome dell’artista viene scritto con la y finale. L’imprecisione si ritrova anche sulla ristampa effettuata nel 2014 dalla tedesca Chiwax Classic Edition.
Gary Martin – Bliss
Martin ha i piedi ben saldi nella techno, sia chiaro, ma nel corso della sua trentennale carriera si è mosso anche in direzioni house, seppur attraverso un suono ribelle, mutante e in perenne contrasto con una classificazione radicale. Nel libro “Techno” Christian Zingales descrive il suo suono come un trait d’union tra «il ruggito funk meccanico della techno e la grande passione per l’exotica degli anni Cinquanta e Sessanta, un matrimonio fatto di vivande futuristiche che, opportunamente shakerate, rilasciano quel gioco aromatico di retro e post». È il caso di “Do It”, con sax e piano, contenuto nell’EP “Bliss” che nel ’93 apre il catalogo della Go Girl Records, a cui segue presto “Take Me”, coi vocal di Simone Taylor a incorniciare un reticolo che già spinge verso rive technoidi. Dopo i primi due dischi la Go Girl Records cambia nome in Teknotika e Gary Martin va avanti spedito come un treno pure attraverso il progetto parallelo Gigi Galaxy, ma di tanto in tanto tornando a toccare le sponde della house come ad esempio avviene in alcuni pezzi racchiusi nel suo primo album, “Viva La Difference”.
Juan Atkins – Beat Track
Quando nel 1987 esce questo disco, su un’etichetta fittizia chiamata Red Parrot 228, di techno non se ne parla ancora, perlomeno in forma ufficiale. «I suoi creatori», come scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”, «erano felici di farsi etichettare come “house” e gettarsi nella scena di Chicago» e l’ascolto di “Beat Track” palesa come non ci siano ancora sostanziali differenze tra le musiche prodotte nelle due città, fatta eccezione per alcune tracce uscite negli anni precedenti come “No UFO’s”, “Night Drive (Thru-Babylon)”, “Play It Cool” di Model 500, “Triangle Of Love” di Kreem o “Let’s Go” di XRay che, di fatto, preannunciano un nuovo itinerario creativo e concettuale. Da “Beat Track” emerge la sampledelia che shakera sample funky con l’aggiunta di scratch in modalità hip hop, tutti in una gabbia ritmica grezza, come quelle che contraddistinguono la maggior parte delle produzioni chicagoane. Non a caso il brano viene ripubblicato l’anno seguente su un’etichetta della Città del Vento, la House Musik, a nome Red Parrot. Atkins flirterà poco con la house: si ricorda, tra le altre, “You’re My Type (Make Your Body Move)” del progetto One On One condiviso con Rona Johnson (che approda pure su Metroplex con “By Your Side” in modalità downtempo) e Vision di cui si parla dettagliatamente più avanti.
Low Key – Rainforest
“Rainforest” è il primo disco che, nel 1992, Claude Young firma Low Key per la Serious Grooves di Antonio Echols, fratello del più noto Santonio, ed è nel contempo anche il primo del catalogo. La traccia che dà il titolo è una fioritura armonica di chord posizionata su un tapis roulant di batteria che si spoglia e poi si agghinda nuovamente di elementi percussivi. Medesime atmosfere si rincorrono nelle due “Lovemagic”, con sussurri vocali in un ventaglio di suoni delicati. Nelle vesti di Low Key, Young inciderà altri due mix, “Try Me Baby”, con spunti scat, e “I Cant Stop” in cui sfoggia una marcata dose di ipnotismo.
Mad Mike – Happy Trax # 1
Il repertorio di Mike Banks è imponente. La sterminata lista di produzioni, spesso privata intenzionalmente di coordinate autoriali, riserva più di qualche sorpresa come questo EP del 1992 su Happy Records comprendente tre tracce, “Heartbeat Of A Groove”, “Clap It Up (Happy Claps)” e “Trance Patrol”, in cui pulsa cuore techno su suoni house. Proprio “Trance Patrol” giunge in Italia attraverso la Downtown del gruppo bresciano Time Records che l’affida alle mani degli Unity 3 (Marco Franciosa, Mario Scalambrin e Paolo Chighine) reduci dal successo di “The Age Of Love Suite” pubblicata oltremanica dalla NovaMute. Banks incide altri volumi della serie “Happy Trax” attraverso ganci garage (“Give It To Me”, “Mad Scatter”, “Gotta Gimme Your Love”) e soluzioni percussive (“Take Me Higher”, “Soulnite”, “Work Me”). La sua è una sorta di figura mitologica bicefala, mezza house e mezza techno.
Marcellus Pittman – Come See
Seppur discograficamente più giovane rispetto alla maggior parte dei colleghi detroitiani qui elencati, Pittmann opera nello stesso alveo sonoro. In questo disco, con cui inaugura la sua Unirhythm, spennella i beat con delicati fraseggi jazz (“Come See”) per poi decorarli con deliziosi interventi pianistici (“A Mix”). Voluto da Theo Parrish nel collettivo The Rotating Assembly, l’artista vanta un rigoglioso repertorio da cui affiorano diverse collaborazioni proprio con Parrish, suo mentore, e James Curd. Senza omettere l’adesione a 3 Chairs, partito nel ’97 da un’idea di Rick Wilhite, Kenny Dixon Jr. alias Moodymann e Theo Parrish, e T.O.M. Project, ancora con Parrish e Omar S.
Mark Flash – Timbales Calientes – Hot Timbales
Come riportato nella biografia ufficiale, Mark Flash inizia a mettere a punto le sue abilità da produttore musicale per la Soul City di Mike Banks ma restando dietro le quinte (che sia lui uno degli artefici dei pezzi di The Choir Boys e Marc Pharaoh?). Debutta come Mark Flash nel 1998 attraverso la Upstart che manda in stampa un 12″ in cui esprime le doti da percussionista attraverso un percorso tambureggiante (“Timbales Calientes”) poi raggiunto da un buon esempio di tesco (techno disco) che cresce con un breve ma efficace hook vocale e un perdurante filtraggio delle frequenze (“Work”), e completato da “Fight It!” in cui convergono house, funk e disco fatte balbettare con un accurato lavoro di sampling. Metodologia di lavoro analoga si ritrova in “House Ballads Part One” del 2002, sulla britannica Footwork, e in “Soul Power” del 2006, potenziato da un remix del prolifico Mike Monday che rischia di diventare un inno mainstream. Entrato a far parte del collettivo Underground Resistance, Flash mostrerà via via attitudini più intrinsecamente techno.
Members Of The House – Share This House
Il collettivo Members Of The House debutta negli ultimi anni Ottanta su ITM Records con “Share This House” in cui non è difficile individuare diversi punti di contatto con la house chicagoana, presenti altresì nei brani dell’album “Keep Believin'” come “I Can’t Live Without You”, “Summer Nites” e “It’s Not The Same” cantata da Yolanda Reynolds. Prodotto dal compianto Don Davis, il pezzo tartaglia il verbo jack su uno scheletro ritmico fatto di ostinati clap e vorticosi rullanti. Il team, in cui figurano tra gli altri pure Mike Banks e Jeff Mills, incide parecchi pezzi tra cui “Don’t Do It Like Dat” (una specie di risposta a “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jessie Saunders), “Reach Out For The Love” e “These Are My People” partita dalla Shockwave Records – che nel ’92 tiene a battesimo Drexciya con “Deep Sea Dweller” – e giunta in diversi Paesi del mondo (da noi è un’esclusiva della campana UMM del gruppo Flying Records).
Metro D – What Is A Dancer?
Dietro Metro D armeggiano i fratelli Burden (Lawrence, Lenny e Lynell) coadiuvati dal rapper Anthony Terrell Langston e dalla vocalist Armeace Starks: “What Is A Dancer?” prende elementi hip hop e li mescola a delicati fraseggi di pianoforte che avanzano a strappi, intervallati dal suono metallico di un hammer. Edito dalla 430 West nel 1991 e arricchito dalle grafiche del compianto Dan Sicko, il disco annovera pure un remix di Anthony Shakir che enfatizza la tavolozza ritmica, ed “Elevation!”, sul lato b, che batte ancora la traiettoria hip house con qualche svirgolata funky. I Burden, meglio noti come Octave One, danno alle stampe un secondo atto di Metro D, “In The City” del ’92, un EP ancora più house del precedente, contenente griglie ritmiche (“Methodology”) e suadenti sax (“Feel It”, “All The Luv”, “Tomorrow (Like This Dub)”). Nel loro repertorio si rintracciano altre gemme house/garage, come “Jackie’s Theme” e “In The Breeze”, entrambe da “Day By Day” firmato Never On Sunday sempre su 430 West.
Mike Huckaby – Deep Transportation Vol. 1
Tra i commessi che nei primi anni Novanta lavorano dietro il bancone del Record Time di Detroit c’è Mike Huckaby, un ventiquattrenne appassionato di musica e tecnologie. Dopo aver curato una manciata di remix (“I Feel Weak” di Eddie Fowlkes e “Work It” di Chris Simmonds) si dedica a creare il suo sound che prende le mosse dalla house quanto dal soul e dal jazz. Il debutto nel ’95 sulla Harmonie Park dell’amico Rick Wade, il primo volume di “Deep Transportation” che, fedele al titolo, trasporta l’ascoltatore nelle profondità di musiche tentacolari come “Luv Time”, che elabora un campionamento carpito dall’intro di “Carry On, Turn Me On” dei francesi Space, o “Disco Time” che invece accoglie nelle rotondità percussive uno scampolo vocale di “Let’s Go Down To The Disco” degli Undisputed Truth. L’anno seguente arriva il secondo volume con cui Huckaby continua a rimaneggiare con destrezza e creatività frammenti di musica del passato (in “We Can Make It” trapianta le voci di “Together Forever” di Exodus mentre in “Love Filter” incastra la chitarra di “Love Rescue” di Project). La sua attività discografica andrà avanti contestualmente al volontariato che lo spinge a insegnare la produzione di musica elettronica a giovani generazioni. Considerato uno dei nomi più granitici della house made in Detroit, Huckaby si spegne ad aprile del 2020 ad appena 54 anni.
MK – Somebody New
Inizia con questo brano, uscito nel 1989 sulla KMS di Kevin Sauderson, la discografia solista di Marc Kinchen che sceglie di firmarsi con la sigla MK. “Somebody New” è una stratificazione tra voci campionate, archi, organi e blocchi ritmici ogni tanto mandati in reverse. Nella Music Institute Goodbye Mix, curata dal fratello di Kinchen, Scott, di cui si parla nel dettaglio più avanti, salgono in superficie le tastiere di pianoforte collocate su piattaforme scorrevoli. Il lato b si apre con le atmosfere più noir di “The Rains” a cui mette mano il citato Saunderson, e si chiude con “Mirror / Mirror”, da cui emerge in modo piuttosto evidente lo stile Inner City. Per Kinchen, che l’anno prima aveva inciso “1st Bass” sulla Express Records di Clifton Thomas incluso nell’EP dei Separate Minds condiviso con Terrence Parker e Lou Robinson, è solo questione di tempo: la hit arriva nel ’91, “Burning”, con la voce di Alana Simon che rinnova la collaborazione per “Always” e un intero album, “Surrender”, spinto a lambire sponde r&b. Nonostante gli ottimi propositi, l’artista non riesce nel difficile compito di creare nuovi successi internazionali ma verrà abbondantemente ricompensato sul fronte remix: senza il suo apporto infatti, “Push The Feeling On” dei Nightcrawlers sarebbe rimasto confinato all’anonimato come raccontato qui.
Moodymann – The Day We Lost The Soul
È arduo scegliere un disco in un repertorio così vasto come quello di Kenneth Dixon Jr., meglio noto come Moodymann. “The Day We Lost The Soul”, pubblicato nel 1995, è tra i primi firmati col suo alter ego più noto e mette subito a fuoco le coordinate entro cui si muove. Devoto da sempre alla house music, il suo è un suono flessuoso che si inerpica nei pertugi del soul, del funk e della disco, mettendo in rilievo un sostanzioso background che lo colloca a una distanza abissale dalla pletora di presunti “house producer”. I campionamenti (“What’s Going On” di Marvin Gaye in “Tribute! (To The Soul We Lost)”, “He’s The Greatest Dancer” delle Sister Sledge in “One Nite In The Disco” e “You Can’t Hide From Yourself” di Teddy Pendergrass in “Shades Of ’78′”) attestano da un lato i suoi riferimenti, dall’altro una inesauribile vivacità creativa. Il disco, tornato in commercio nel 2001 ma privato di “One Nite In The Disco” e “Shades Of ’78′” forse per problemi di mancati clearance, è uno dei primi a essere pubblicato sulla sua KDJ, affiancata in tempi più recenti dalla Mahogani Music. Quasi del tutto refrattario alle interviste, Moodymann inciderà parecchi 12″ e altrettanti album oggetto di spasmodiche ricerche dei collezionisti, oltre a prendere parte a progetti come Urban Tribe, con Anthony Shakir, Carl Craig, e Sherard Ingram, e 3 Chairs in compagnia di Theo Parrish e Rick Wilhite a cui si è poi aggiunto Marcellus Pittman.
Norm Talley – Grove Street Shuffle
Così come recita una biografia in Rete, la dipendenza dalla musica per Norm Talley inizia da tenera età. Consumatore abituale di jazz e disco, viene introdotto al DJing da Ken Collier, resident all’Heaven, che abita a soli tre isolati di distanza. Attivo in consolle dai primi anni Ottanta, si avvicina alla produzione discografica intorno alla fine del decennio successivo. Nel ’97, per la City Boy di Eddie ‘Flashin’ Fowlkes, realizza “Grove Street Shuffle” al cui interno raccoglie tre brani. “Powder”, imperniato sulla ripetizione ciclica di loop, “Grove Street Shuffle”, un saliscendi su scanalature jazzy contenente un campionamento di “Problèmes D’Amour” del nostro Alexander Robotnick, un pezzo di cui parliamo qui e che a Detroit ha lasciato il segno, e “Hold Me”, un’infusione deepeggiante che procede su un serrato groove. Dopo qualche altro disco, Talley si ferma per dedicarsi a progetti paralleli come City Boy Players e The Beatdown Brothers, quest’ultimo in compagnia di Mike Clark e Delano Smith. Tornerà a incidere a proprio nome nel 2009, questa volta prendendoci più gusto e contando sul supporto di numerose etichette tra cui la FXHE Records di Omar S che nel 2017 manda in stampa il primo (e sinora unico), album, “Norm-A-Lize”.
Omar S – Just Ask The Lonely
Analogamente a Marcellus Pittman, anche Alexander Omar Smith, noto come Omar S, è tra i più giovani di questa carrellata di artisti detroitiani ed è pure un altro capace di veleggiare con assoluta padronanza tra techno e house. La sua discografia, avviata nei primi anni del nuovo millennio e quasi esclusivamente relegata alla propria etichetta, la FXHE Records, è ricolma di musica che il più delle volte sfugge alle definizioni categorizzanti della stampa. Smith infatti passa con disinvoltura dalla disco/house (“Day”) a echi cosmici (“Psychotic Photosynthesis”), da minimalismi sotto effetto lsd (“Blown Valvetrane”) a scheletri ritmici e tappeti volanti nello spazio (“Incognigro” e “Automatic Night”, rispettivamente in coppia con Kai Alcé e Luke Hess). Le sue intenzioni sono chiare sin dal primo album uscito nel 2005, “Just Ask The Lonely”, in cui passa in rassegna un grande campionario, ora delicatamente poggiato su arazzi deep (“I Love U Alex”, “100% House”, “Congaless”), poi spostato su membrane puntute (“A Victim”) e materie granulose con inserti di vecchie drum machine (“Jit”). A guidare Smith è sostanzialmente la totale libertà creativa che se ne infischia delle richieste del mercato e delle tendenze effimere del momento. Quella stessa libertà che nitidamente filtra dalle grafiche che accompagnano la sua musica (Microsoft Paint per Windows 95?) e che si riflette nell’abnegazione all’indipendenza, visto che continua a gestire senza intermediari attraverso il proprio sito web la vendita di dischi, CD, file digitali, merchandising e gli ingaggi da DJ. Una netta presa di posizione contro la mercificazione dell’arte e il “sistema” che regolamenta il mondo della musica, e in tal senso fortemente esplicativo risulta il titolo di un suo album pubblicato nel 2020, “Simply (Fuck Resident Advisor)”.
Paperclip People – Throw
Considerato il suo alter ego più house oriented (seppur nato con una tripletta di pezzi non propriamente ascrivibili a tale segmento stilistico, “Oscillator – Electronic Flirtation Device”, “Paper Clip Man” e “Gypsy Man (He’s A Hobo)”), Paperclip People è uno dei tanti volti di Carl Craig. Con “Remake”, del 1994, fa rivivere le atmosfere di “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching in una sinuosa spirale psichedelica, più impetuosa e meno seducente rispetto a quanto fanno i nostri Sueño Latino qualche tempo prima nel pezzo omonimo. Proprio nel ’94 Craig dà alle stampe “Throw” che il citato Zingales, in “Techno”, descrive come «15 minuti di minimalismo techno-disco, un giro hi-nrg debosciato tipo Moroder in eroina, archi a mezz’aria, tastiere deep, equalizzazioni». Il pezzo sfonda in Europa dove viene licenziato un po’ ovunque e fa circolare il nome dell’autore anche in ambienti trasversali. Da noi è un’esclusiva della D:vision Records che, forse per la presenza di “Remake” sul lato b, affida una versione edit a Massimino Lippoli che dei citati Sueño Latino fu uno degli artefici e istigatori. Di Craig in botta house si ricordano altre prodezze come “Love Is The Message” di FRS, un taglia e cuci di scampoli funk/disco che Sven Van Hees pubblica su Global Cuts, e “The Wonders Of Wishing” di Urban Culture dal lirismo quasi commovente, uscita su Eclipse Records, sublabel della KMS di Kevin Sauderson.
Paris – I Can Feel It
Pochi mesi dopo l’uscita di “Nude Photo” realizzato a quattro mani con Derrick May su Transmat, il giovane Thomas Barnett incide il primo brano da solista siglato con lo pseudonimo Paris. «Juan Atkins, che avevo conosciuto attraverso May il quale gli affidò il lavoro di editing di “Nude Photo”, mi disse che stava noleggiando lo studio della Metroplex e ne approfittai per lavorare lì su alcuni demo» spiega l’artista in questa intervista. «”I Can Feel It” era uno di quelli e una volta pronto mi proposero di pubblicarlo su Metroplex ma declinai l’offerta, volevo provare a fare da solo perché convinto di aver capito come fare. Col senno di poi avrei dovuto lasciare che Atkins e la Metroplex si occupassero di tutto. Avevo appena diciannove anni e commisi tanti errori in fase di promozione». La traccia, realizzata con una tastiera Yamaha DX7 II FD per il basso, i suoni di sintetizzatore e i gli archi, e un paio di batterie Roland (TR-808 e TR-909) per le ritmiche, rivela tutta la primitività tipica della prima ondata di produzioni di Chicago, con strutture ritmiche scheletriche e un pianale di arrangiamenti meccanici che tradisce inesperienza e anche una buona dose di naturale immaturità. Due le versioni, la Radio Mix e l’Extended Mix curata da Juan Atkins, solcate su un 12″ per cui Barnett crea un marchio ad hoc e one shot, Tomorrow. A ripubblicarlo, nel 2020, è l’italiana Omaggio.
Reese – You’re Mine
Tra i primi pseudonimi adottati da Kevin Saunderson, Reese è ricordato perlopiù in virtù di “Rock To The Beat” e “Inside-Out”. Nel repertorio però c’è pure “You’re Mine”, del 1989, un pezzo che scrive insieme a Chez Damier, Marc Kinchen e Flozelle Crosby. La Techno Hip Mix è un incrocio tra i suoni che fanno la fortuna di Inner City, un campionamento da “Walkin’ On Sunshine” di Rocker’s Revenge e uno stuolo di riferimenti hip house che ai tempi la collocano nel filone europeo trainato dai belgi Technotronic. Sul lato b due versioni remix, Red Zone Mix e Def Mix, a cura di un futuro divo della house music, David Morales. A seguire giungono altri rimaneggiamenti che palpeggiano quella zona grigia tra house e techno. A firmarli Bad Boy Bill, Anthony ‘Shake’ Shakir, Psyche alias Carl Craig e Derrick ‘Mayday’ May.
Rick Wade – Late Night Basix
Nasce a Buchanan, piccolo paese agricolo nel Michigan ai confini con l’Indiana, ma è a Detroit che Rick Wade entra in contatto con la house e la techno, lavorando come commesso in un negozio di dischi della città, il Record Time. L’amico Dan ‘DBX’ Bell, che condivide l’esperienza lavorativa in quel posto, lo incoraggia a pubblicare la sua musica e così nel 1994 esce il primo disco, “Late Night Basix”, su un’etichetta creata per l’occasione, la Harmonie Park. L’apertura con “Nothing To Fear” ad appannaggio di un suono pulsante, tra singhiozzanti fiati, un messaggio vocale che si ripete e pianoforti che si intrufolano riempiendo gli spazi. La prima versione non prevede alcuna linea di basso ma l’autore, come racconta qui, apporta delle modifiche su suggerimento di Mike Huckaby che considera uno dei suoi mentori. A curare il remix di “Nothing To Fear” invece è il citato Bell che gioca col campionatore a frazionare il sample vocale lasciandolo volteggiare in aria con palloncini gonfiati a elio. Sul lato b Wade continua a esprimere il proprio concetto di house music attraverso due brani (“I Do Believe”, “I Can Feel It”) simili nella costruzione e nella scelta dei suoni. Il volume 2 giungerà solamente quattro anni più tardi ma nel frattempo Wade non dorme sugli allori e sfodera altri pezzi venati di jazz (“Angry Pimp”), di atmosfere notturne (“Night Track”) e di collisioni funk/disco (“Discolicious”, firmato come Dr. Low-Tech).
Rick Wilhite – Soul Edge
Il primo remix lo realizza nella seconda metà degli anni Ottanta per “Time To Party” dei NASA, su Express Records, un altro di quei dischi meticci tra spinte propulsive detroitiane e classicismi ritmici chicagoani. Occorre tempo però per elaborare lo stile in cui si sente proiettato maggiormente, e infatti questo “Soul Edge” arriva praticamente dieci anni più tardi, col benestare di Moodymann che lo vuole sulla propria KDJ. Ad aprire le danze è il remix di “Get On Up!!” di Theo Parrish (non è dato sapere che fine abbia fatto l’originale), un incalzante turbinio di house avvolta su spirali jazz spezzate in più punti da una voce femminile che declama a gran voce il titolo. Sul lato b si srotola il vibe percussivo di “What Do You See?”, edificata sottraendo uno scampolo vocale da “Coming On Strong” di Caroline Crawford, un vecchio pezzo di fine anni Settanta prodotto da Hamilton Bohannon, innestato a sua volta in uno stantuffo in cui scorre un frammento di “Love In C Minor” di Cerrone, stropicciato dai filtri in un metti e togli che i francesi poi sdoganeranno nel mondo pop favoriti dalla stampa (cieca) che chiamerà quel trend “french touch” convinta che la disco/funk in salsa house fosse nata all’ombra della Torre Eiffel. A chiudere è il citato Moodymann che appronta la sua versione di “What Do You See?” non scombinando gli elementi di partenza e ricavandone quindi un potente gancio filtered house pre french touch. Wilhite torna su KDJ coi due volumi di “The Godson EP” in cui prosegue il lavoro di sutura tra disco music e house music (“Drum Patterns & Memories”) e calandosi progressivamente nei meandri di un suono più nebbioso e oscuro (“Good Kiss”). Oltre a militare nel progetto 3 Chairs, vale davvero la pena segnalare il suo primo (e sinora unico) album, “Analog Aquarium”, pubblicato nel 2011 dalla Still Music di Chicago guidata da Jerome Derradji, un lavoro sfaccettato in cui Wilhite esprime al meglio la vocazione stilistica stringendo, di traccia in traccia, alleanze con colleghi come Billy Love, Marcellus Pittman, Calvin Morgan e Osunlade.
Sade – Surrender Your Love (Illegal Remixes)
È il 1995 quando viene messa in circolazione questa white label sulla fittizia Illegal Detroit: a essere solcati sono due remix di “Give It Up” dei britannici Sade (l’originale è nell’album “Stronger Than Pride” del 1988) realizzati da Kenny Larkin e Stacey Pullen. Entrambe le versioni, simili tra loro, ondeggiano su una linea di percussioni tribaleggianti punteggiata dall’inconfondibile voce di Sade Adu, con un sax sussurrato che si insinua dolcemente nelle fenditure. Il lavoro dei due DJ di Detroit però non troverà mai modo di essere ufficializzato e per questo rimane, di fatto, una pubblicazione illegale. A spiegarne le ragioni è proprio Kenny Larkin in un post su Facebook del 25 agosto 2019: «quando pubblicai il bootleg in questione, scoprii molto velocemente che Sade odiava chi remixava la sua musica senza permesso. Durante le prime settimane il 12″ vendette circa ottomila copie, poi ricevetti formalmente dal suo management l’invito a interrompere la distribuzione. Ma come fecero a scoprire che fossi io l’autore, se il disco era una white label con un timbro che recava solo la dicitura Illegal Detroit? A spifferarlo fu il settimanale Mixmag Update che menzionò il mio nome in un articolo. Poco tempo dopo ricevetti la loro lettera con cui mi intimavano di smetterla. È stato divertente finché è durato». Nell’arco di quasi un trentennio il disco si è trasformato in un piccolo feticcio per gli appassionati che oggi sono disposti a spendere anche cifre ragguardevoli per assicurarsene una copia, come testimonia lo storico del marketplace di Discogs.
Scottie Deep – Fathoms
Scottie Deep è l’alter ego di Scott Kinchen, detroitiano che debutta nel ’91 con “It’s Dangerous” di 2 The Hard Way in tandem con Kevin Saunderson, una sorta di summa tra i suoni di “The Original Video Clash” di Lil’ Louis e il mood di Inner City. L’anno dopo Kinchen fonda la sua etichetta, la Aztonk, sulla quale darà vita a una serie di produzioni house a partire da “You Can’t Go Wrong” di D.D.S. (sul lato b c’è “I Love The Way” con un sample preso da “There But For The Grace Of God Go I” dei Machine, lo stesso che usa Todd Terry in “Hear The Music” di Gypsymen) a cui segue per l’appunto “Fathoms”, il primo firmato Scottie Deep. Intriso di suoni ovattati come un organo presumibilmente di un Korg M1 ai tempi in praticamente tutti gli studi di registrazione di chi produce house music, il brano coccola l’ascoltatore con un metti e togli ritmico e un breve ma incisivo passaggio vocale. A curare il remix è il fratello di Kinchen, Mark, meglio noto con l’acronimo MK. Scott, sbarcato su Strictly Rhythm nel ’93 con “Soul Searchin'”, intensifica l’attività lanciandosi in diverse avventure parallele (come Tympanum, con Kenny Dickerson e Anthony Shakir, Fathoms NY, che approda sulla nostra Heartbeat, Kitchen Sync, Daddy’s Moods e Time Bomb) ma non riuscendo a eguagliare i risultati del fratello minore seppur, come dichiara in questa intervista di Alexandra Cronin del 24 agosto 2019, sia stato lui a insegnargli tutto. È il tipico caso in cui l’allievo supera il maestro.
Servo Unique – Servo Unique
Unica uscita sulla Luxury Records, “Servo Unique” è un disco border line del 1993, che fatica a essere incasellato con precisione nella house o nella techno. Percussioni e un paio di sequenze vocali (vagamente somiglianti a “Let Me Be” di Cajmere) riscaldano di continuo la mistura proto tech house di “Ba’ Dum Bah Da”, un taglio più technoide è invece quello di “Let’s Swing It” sul lato b che però mostra suoni ai tempi sfruttati principalmente in produzioni di matrice house. A distanza di ormai un trentennio ha conquistato valore e richieste sul mercato del collezionismo, probabilmente in virtù della popolarità e credibilità dell’autore, Jeff Mills.
Shake – Club Scam EP
Presente con “Sequence 10” nell’epocale “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)” del 1988, Anthony ‘Shake’ Shakir è uno dei veterani della prima ondata techno di Detroit seppur mai celebrato in pompa magna e per questo finito, insieme ad altri, nell’ombra. È attivo principalmente nella techno e nell’electro tuttavia la sua creatività è in grado di sfondare i confini e raggiungere la house. Basta ascoltare “Club Scam”, il primo EP che nel ’93 firma Shake per la Trance Fusion, costruito su loopismi geometrici (“Thats What I Want”, con un ricamo sampledelico proveniente da “Mesopotamia” dei B-52’s) e ipnotici rendez-vous tra voci e brevi assoli tastieristici. Nel 1997, lasciandosi alle spalle altre gemme housy come “Get A Feeling” ed “Happy To Be Here”, sarà tempo del “Club Scam II”, questa volta sulla Frictional Recordings che fonda con l’amico Claude Young, per cui tira dentro anche retaggi disco/funk velocizzati (“The Floor Filler”) e “Plugged In”, forse costruita sulle parti di “I’m Here Again” di Thelma Houston, la stessa che ispira l’arcinota “What You Need” di Powerhouse Feat. Duane Harden.
Sight Beyond Sight – Good Stuff
Obiettivamente simile ai brani degli Inner City, “Good Stuff” è un pezzo che combina vocalità (di Andrea Gilmore) a riccioli di suono newyorkese intrecciati a stab. Il tutto piazzato su un piedistallo ritmico con qualche bpm in più rispetto alla canonica velocità di crociera della house. A produrlo Keith Tucker, Anthony Horton e Tommy Hamilton, da lì a breve uniti in Aux 88 nel credo dell’electro. Il 12″, edito nel ’93 dalla 430 West, contiene anche un remix degli Octave One che si muove sinuoso su curve deepeggianti e ampie arcate di pad ambientali al cui interno trovano alloggio pochi interventi vocali della Gilmore. Nel 1994 arriva un nuovo pezzo a nome Sight Beyond Sight, “No More Tears”, ancora più house del precedente. Tucker & soci incideranno anche un terzo brano spassionatamente deep house, “R U Sure?”, finito nella compilation “Soul From The City” su Submerge nel 1995, “la collection definitiva sulla house di Detroit” così come recita il sottotitolo in copertina.
Terrence Parker – Hold On
A differenza della maggior parte dei produttori di Detroit che concentrano le proprie energie sulla musica techno, Terrence Parker è tra coloro che invece si lanciano a capofitto nella house. Le prime prove negli ultimi anni Ottanta (si senta “We Need Somebody” sulla Express Records di Clifton Thomas di cui si è già detto sopra) ma è nei Novanta che dà il meglio di se stesso, a partire proprio da “Hold On” finito nel catalogo Trance Fusion, sublabel della saundersoniana KMS. La title track è rivista in tre versioni, Spiritual Mix, Club Mix e Garage Mix, tutte connesse al suono newyorkese con vocalità e vivace partitura musicale a rivelare una familiarità con gli strumenti che va ben oltre l’assemblaggio di campionamenti ritagliati da pezzi preesistenti. Sul disco c’è spazio anche per un altro brano, “Come With Me”, con frammenti vocali presi da “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys a fare da cornice a un leggiadro tappeto deep. A coadiuvare il lavoro di Parker è Claude Young, altra colonna statuaria del suono detroitiano, con cui stringerà una proficua collaborazione siglata come Younger Than Park che rivelerà solide connessioni tra la house music e la città dei motori attraverso brani come “Woman”, “Ooh Baby” e “Can’t Turn Back”, tutti pubblicati dalla citata Serious Grooves di Antonio Echols. Parker va avanti anche in solitaria incidendo dozzine di tracce sotto pseudonimi: tra le tante si segnalano “Dynamic Audio” di 2 Sweat Doctors (su Simply Soul), “Make It Better” di Madd Phlavor (su KMS) e “Love’s Got Me High” di Seven Grand Housing Authority sulla Intangible Records & Soundworks che lui stesso crea nel 1993.
The Hard Hats – Tear Down The House!
Tra le primissime produzioni messe sul mercato nel 1987 dalla Incognito Records di Clifton Thomas, “Tear Down The House!” è un pezzo che affonda le radici in una house profondamente venata di percussioni ma che nel contempo ripesca certe sfumature ai tempi in voga nell’eurodisco. A fungere da motore è il potente disegno di basso funkeggiante incorniciato da un vocal sample opportunamente giocato col campionatore. Un brano semplice quanto ingenuo, che potrebbe essere uscito pure da uno studio di Chicago. I crediti autoriali, completamente omessi, affiorano dalla stampa britannica su Groove & Move Records che consentono di collegare il progetto one shot The Hard Hats ai musicisti David McMurray (che si era già cimentato l’anno prima con una manciata di pezzi house, “Hot Box” e “Get Smart -Prep It Up-“ di The Preps, sempre prodotti da Clifton Thomas per l’Express Records) e Randy Jacobs, entrambi collaboratori della band Was (Not Was).
Underground Resistance Featuring Yolanda – Living For The Nite
Un altro pezzo, targato ’91, che risente in modo inequivocabile del mood saundersoniano: “Living For The Nite”, prodotto da Jeff Mills e Mike Banks e cantato da Yolanda Reynolds, riprende il discorso lì dove era finito “Your Time Is Up” l’anno prima, che peraltro inaugura il catalogo dell’etichetta omonima del gruppo, Underground Resistance. Diverse le versioni incise sul mix, seppur derivate dalla stessa idea. Il brano sbarca anche in Italia attraverso la napoletana UMM diretta da Angelo Tardio, come raccontato qui, che commissiona un paio di remix a un astro nascente nostrano, Digital Boy. A cedere è persino Albertino che vuole “Living For The Nite” nella DeeJay Parade del sabato pomeriggio dove resta per dieci settimane arrivando a toccare la quinta posizione il 31 agosto. L’anno dopo la Reynolds interpreta un’altra traccia per gli UR, la solare “Children Of The World”, confluita nel catalogo della Happy Records.
Unit 2 – Sunshine
Gli Unit 2 (i musicisti Niko Marks e Raphael Merriweathers Jr.) debuttano nel 1992 proprio attraverso “Sunshine”, una gemma della house prodotta a Detroit dagli Underground Resistance con pochi elementi (pianoforte, voci, sezione ritmica) e una buona dose di divagazioni jazzy. Il brano è recentemente resuscitato per mano del bulgaro KiNK e degli italiani Tiger & Woods che lo hanno reinterpretato in due versioni per le generazioni del nuovo millennio. Un paio di anni più tardi il duo affida alla 430 West il follow-up “Keep Your Head Up”, co-prodotto con Mike Banks. In parallelo approntano come 365 Black “Home Land” che include un paio di piacevoli alternative alla ricetta, la lisergica “Deliver Me” e la tribaleggiante “Just The Way You Love Me” in cui si riconosce un campionamento di possibile provenienza afro usato l’anno prima e l’anno dopo per due brani italiani agli antipodi l’uno dall’altro, rispettivamente “Gengennarugengè” di Z100 e “Like A Flute” di Cosmic Traveller.
Van Renn – The Real Thang
Paul Van Buren Randolph debutta nel ’93 sulla Nocturnal Images Records di Davina Bussey attraverso “The Real Thang”, un pezzo attraverso il quale riesce a mettere in evidenza la passione per il soul. A incoraggiarlo in modo incisivo è Mike Banks, con cui tempo prima suona in due band di Detroit, i Mechanix e i Cherubim. «Era convinto che la house e la techno avessero bisogno di musicisti tradizionali ma dalle ampie vedute e soprattutto senza pregiudizi, come me insomma» racconta in questa intervista qualche tempo fa. Il successo per Randolph arriva due anni dopo quando “The Real Thang” diventa “The (Real) Love Thang” e viene (ri)pubblicato nel Vecchio Continente attraverso vari remix tra cui quello di Rob Dougan che, come spiegato qui, fa la differenza e finisce nei circuiti mainstream (la licenza per l’Italia se l’aggiudica il gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che la convoglia su Nitelite Records, subito dopo “Everyone Has Inside” di Gala). Prima dell’exploit europeo Van Renn, nel frattempo diventato L’Homme Van Renn, offre alla 430 West “The Man” contenente un pezzo strepitoso dalle venature gospel, “(Never Will Forget) Love And Affection”. A produrlo è l’amico Mike Banks che lo definisce “il primo uomo dell’underground”. Il seguito giunge nel ’96 sulla Soul City, “Luv + Affection”, occasione in cui Banks si divide il lavoro in studio coi fratelli Burden.
Vision – Other Side Of Life / Touch Me
Nata nel 1990 proprio con questo disco, la Interface Records di Juan Atkins parte con un seducente carico di house music trasognata e rigata dalla sensuale voce di Tracey Amos che ben si accorda col mood malinconico del brano inciso sul lato a, “Other Side Of Life”, ritoccato in una Dub Mix da Anthony ‘Shake’ Shakir che riduce al minimo gli interventi vocali. Sul lato b invece “Touch Me” che innesca un saliscendi emozionale tra lunghe arcate armoniche intrecciate alla vocalità della Amos a vibranti linee di tribalismi percussivi. Due i remix, firmati da Eddie ‘Flashin’ Fowlkes e Jay Denham. Quello che pare esaurirsi in un episodio one shot rivela però un seguito e ciò avviene grazie al supporto di un’etichetta italiana, la Flying Records, che nel 1992 pubblica “Is This Real?” seguito l’anno dopo da “Coming Home”, entrambi cantati da Dianne Lynn e caratterizzati dal moniker con la s finale, un’aggiunta forse involontaria. «Incontrai Juan Atkins al New Music Seminar di New York dove mi fece ascoltare alcuni brani inediti» racconta oggi Angelo Tardio, co-fondatore della casa discografica napoletana e già artefice, come si è visto prima, di alcune licenze Underground Resistance messe a segno su UMM. «Mi piacquero e gli proposi di sviluppare una serie di remix partendo dalle sole acapellas e fu così che uscirono il doppio “Is This Real?” e “Coming Home” (scritti entrambi da Anthony Shakir, nda) di cui la Flying Records deteneva i diritti di esclusiva nel mondo, Stati Uniti esclusi, assicurati per un’inezia, appena 500 dollari a titolo. Decisi di pubblicarli su Flying Records e non su UMM perché l’intento era cercare di fare crossover e uscire dai soli club specializzati, non a caso bypassammo l’uso delle copertine generiche col buco centrale per elaborare degli artwork con tanto di logo realizzato ad hoc da Patrizio Squeglia». Sono parecchi i remix commissionati da Tardio, alcuni dei quali ripubblicati dalla Tribal America insieme alla Juan’s Dub e Shake Dub, inedite sino a quel momento. A realizzarli sono tutti artisti affiliati alla Flying Records: i fratelli Visnadi, Roberto Masi dei Blast, Giuseppe ‘MAN-D.A.’ Manda e Ivan Iacobucci. «Cercavo di creare team di lavoro per spingere quanto più possibile il made in Italy» prosegue Tardio «ma quella volta non mancò un grande nome d’oltreoceano, Danny Tenaglia. Coadiuvato da Kerri Chandler, realizzò due versioni negli studi della Flying Records in occasione di una serata che tenne in Italia. Una si chiamava Dead Horse Dub, titolo scelto per la vicinanza alle scuderie dell’Ippodromo di Agnano, limitrofe alla sede della Flying Records in Via Raffaele Ruggiero. A impazzire per “Coming Home”, tra gli altri, era Claudio Coccoluto e infatti qualche anno dopo uscì pure un suo remix sulla britannica Stress Records» (di cui parliamo qui, nda). La sinergia tra Napoli e Detroit si chiude con “Forever My Sunset” uscito però a nome Dianne Lynn, ancora scritto da Shakir e prodotto da Atkins su licenza Metroplex. «Nessuno di questi tre titoli divenne un successo da classifica ma non disattesero del tutto le aspettative, ne vendemmo parecchi, nell’ordine di diverse migliaia ciascuno» conclude Tardio.
… e la techno di Chicago
3.2.6. – Just Like Heaven (Dance Mania)
Il debutto nel 1989 sulla Muzique Records con “Falling”, spalleggiato da Armando Gallop, che già lascia intravedere un’attitudine techno nell’assemblaggio delle parti. Due anni dopo la conferma su Dance Mania con un ricco EP, comprendente ben sette pezzi, che pare davvero un ipotetico Transmat. Forse ispirato da “Strings Of Life”, Dion Williams si lancia a capofitto di un suono che sembra scendere dal cielo a bordo di un disco volante pilotato da un alieno sotto effetto di anfetamine (“Just Like Heaven”), in “Love Is….” e “Magic Fingers” spennella la tela bianca con colori acidi, “Butterfly” è un ritmo brutale da cui si levano spirali di melodie sbilenche sovrapposte ad archi che tracciano ricordi bladerunneriani. Sconosciuto ai più, il disco diventa un cult per gli estimatori ed è l’ultimo a essere realizzato da Williams che trae lo pseudonimo dal numero civico dello stabile in cui c’era il Music Box guidato da Ron Hardy, al 326 di North Lower Michigan Avenue.
3 Down – Deep Trip
Nato sull’asse collaborativo Chicago-Detroit, “Deep Trip” è un pezzo del 1991 rimasto nell’ombra nonostante avesse tutte le caratteristiche per spopolare negli anni dell’esplosione europea della techno. Le cinque versioni incise sul disco, licenziato nel Regno Unito dalla The One After D legata al gruppo Network Records, derivano pressoché dalla stessa idea e veleggiano su un percorso ritmico di stampo breakbeat punteggiato da vari campionamenti come “Let The Music (Use You)” di The Night Writers e “Pleasure Principle” delle Parlet (gli stessi che si sentono rispettivamente in “DJ’s Take Control” di SL2 e “Tranqi Funky” degli Articolo 31). La Techno Mix è tra le più immediate e avanza sulle rasoiate degli amen break e sugli stab che tracimano gli argini sostenuti da una serie di graffi degli scratch. A coadiuvare il lavoro di Kevin Saunderson che pubblica il brano sulla sua KMS sono Martin Bonds e un amico di Chicago, Anthony Pearson alias Chez Damier che proprio in quegli anni ricopre ruolo di A&R per la stessa etichetta sulla quale pubblica alcuni pezzi come “Can You Feel It”, accompagnato dalla dicitura in copertina “techno disco”.
Boo Williams – A New Beginning
Willie Griffin inizia a pubblicare musica a nome Boo Williams nel 1994, spinto dagli amici Glenn Underground e Tim Harper coi quali, in un futuro non lontano, figurerà nella formazione Strictly Jaz Unit. “A New Beginning” esce quell’anno sulla Relief Records di Curtis Alan Jones e parte con la title track in cui si palesa presto la fascinazione techno dei suoni, con cowbell ubriachi e rullanti nervosi tipici della scuola di Chicago. L’effetto viene replicato in “The-B-W-Groove”, una sorta di reprise. Più house oriented il lato b con “Phasis” e “Quicksand”. Le armi di Williams sono affilate e lo si capisce quando su Djax-Up-Beats arriva “New Breed” in cui trovano alloggio altri pezzi di techno squadrata come “Endangered Species” o “Kiss’en Asses”.
DJ Deeon – Induced EP
Considerato uno degli iniziatori della ghetto house insieme a DJ Funk, DJ Slugo, Parris Mitchell e DJ Milton, DJ Deeon ha prodotto musica per circa trent’anni. Il suo stile è caratterizzato da strutture ritmiche ad anelli che procedono secondo una formula fondata su minimalismo ed essenzialità. Non è la microhouse teutonica però, la ghetto house di Chicago è meno sexy e più rozza, a volte ai confini con la techno così come testimonia il pezzo di apertura dell'”Induced EP” (Cosmic Records, 1995), “On Da Run”, dall’incedere quasi millsiano rotto qua e là da interventi vocali. “The Funk Electric” è una sbornia di elementi della TR-909, gli stessi che si sentono in “And I Sexxx” e “Sex Part 1”, in quest’ultima con l’aggiunta di una corposa dose di quel tipico suono che definisce la ghetto house che si muove come un ubriaco che cerca di ballare su una scala mobile. A fermare l’infaticabile Deeon, che in piena pandemia si prese la briga di lanciare un’etichetta, la Ghetto Rhythm Composers, è la prematura scomparsa avvenuta il 18 luglio 2023 a 57 anni.
DJ Hyperactive – Chicagoan EP
Questo extended play del ’94, il secondo che Joseph Manumaleuna alias DJ Hyperactive realizza per la sua Contact, mette immediatamente in risalto le caratteristiche del proprio imprinting. Pochi gli elementi ma elaborati con massima scrupolosità come rivela “Chicago”, dove lo scandire metronomico di un roccioso bassdrum (i Daft Punk prenderanno nota per “Rollin’ & Scratchin'”, e non certamente a caso citeranno Hyperactive in “Teachers”) incornicia un tormentoso hook che ripete il titolo sul quale si inerpica un velenoso serpente di TB-303. La costruzione resta la medesima in “Rhythm In Acid” dove il bassline disegna grandi arabeschi, forse ispiratori di “Post Nasal Acid” di Winx. Il lato b è occupato per intero da “It’s My Life” dove spuntano arcate melodiche ad addolcire la mistura. Sempre nel ’94 Hyperactive approda alla Drop Bass Network con due dischi, “Hard Rhythmic Motions” e “Don’t Fuck With Chicago”, in cui spinge gli acidismi verso lidi hardcore con distorsioni e saturazioni. Seguiranno parecchi altri EP (alcuni dei quali editi dalla britannica Missile) e un album, “I’m Only Buggin'” che la svedese Hybrid di Cari Lekebusch pubblica nel 1996, anno in cui Manumaleuna crea Fuzz Face, il seguito al progetto Sync creato a quattro mani con Woody McBride.
DJ Milton – Scream
Parte proprio con “Scream” la carriera discografica di Milton Jones: pubblicato nel 1994 dalla Dance Mania, il disco si articola attraverso sei tracce di suoni ruvidi innestati su schemi ritmici dall’intenzionale minimalismo. Da “Scream”, in cui affiorano urla voluttuose forse prese da qualche vecchia VHS porno, ad “House Clap”, con la base quasi identica alla precedente ma con inserti acidi, da “Saturn”, con schemi percussivi geometrici, a “Ride That M.F.”, chiaro ripescaggio della house balbettante di qualche anno prima ma col pitch della velocità aumentato, sino a “Hit It (Rx)” e “Late Nite Creep”. Prodotto parzialmente col sopraccitato DJ Deeon e masterizzato dal mitologico Mark Richardson, il lavoro segue la ricetta della ghetto house tuttavia tanta techno generata e propagata in Europa nei primi anni Novanta risulterà più debitrice a dischi come questo che a quelli di Detroit. La carriera di Milton si ferma nel 2000 per guai seri con la giustizia, omicidio e rapimento aggravato: viene condannato a poco meno di quarant’anni di reclusione che attualmente sta scontando in un penitenziario dell’Illinois come confermato in questo documento ufficiale.
DJ Rush – Drum Major EP
Isaiah Major produce quintali di musica sin dai primissimi anni Novanta, è complesso quindi identificare un disco rappresentativo in un repertorio talmente vasto. La scelta cade sul primo EP ceduto alla tedesca Force Inc. Music Works nel ’95, riempito con una techno mutante che prima sferraglia lungo binari arroventati dal sole (“Electric Indigo”, forse un tributo all’omonima DJ austriaca?) e poi somministra un cocktail allucinogeno a un ipotetico organista jazz (“Prick Ryder”). La carica ritmica di Rush è inarrestabile e lo si capisce quando parte “Bang Bang” che sembra essere stato programmato sul cratere di un vulcano, nell’attesa di una possibile eruzione. “Punish Me”, infine, spiazza l’ascoltatore con una visione techno funk in cui i bpm calano per lasciare spazio a virtuosismi ritmici. Nel corso degli anni Major velocizzerà la sua musica traghettandola verso il genere schranz che cavalca a inizio millennio anche come Russian Roulette.
DJ Skull – Nuclear Fall Out
“Nuclear Fall Out” è il terzo disco che nel 1994 Ron Maney affida all’olandese Djax-Up-Beats, dopo “Stomping Grounds” e “Met”L”gear”. “Target Kill” avanza con un passo spedito, falciante, pronto a mordere, “Crash Dummy” è un classico scheletro ghetto che lascia ribollire all’interno una strana mistura alchemica, “Get Wicked” è un tripudio di snare ma probabilmente l’apice arriva con la title track, “Nuclear Fall Out”, un ordigno innescato da una serpentina acida che poi deflagra insieme a chiari riferimenti tratti da “Circus Bells” di Robert Armani, un classico della techno chicagoana di cui si parla dettagliatamente più avanti. A differenza di gran parte dei Djax-Up-Beats illustrati da Alan Oldham, questo reca la firma dello stesso Maney.
Ellery Cowles – Glaxy Of Interval
Con “Glaxy Of Interval”, giunto dopo “Sonic Control” e co-prodotto col sopraccitato DJ Skull, Cowles conferma la collaborazione con la Djax-Up-Beats di Miss Djax che negli anni Novanta è un ponte tra la Città del Vento e il Vecchio Continente. La title track fluttua su nubi tossiche di layer strumentali phaserizzate, “Planet Sex” s’infila in un corridoio buio e tenebroso, “Playing With Bass” fa salire la temperatura attraverso rullanti arroventati e sgambettanti, “Orbit Syquest 270” chiude con una visione in cui Detroit e Chicago sembrano davvero toccarsi con un dito come avviene nell’opera michelangiolesca nella volta della Cappella Sistina. Lontano dalla prolificità di molti colleghi, Ellery Cowles incide diversi altri dischi alcuni dei quali atterrati su etichette europee come la Hybrid di Cari Lekebusch e le parigine D3 Elements e Technorama.
Gene Farris – Blue Squad 001
Farris ha ampiamente dimostrato di essere un talento sia nella house che nella techno e questo avviene sin dalle prime battute del suo percorso produttivo in cui si poggia da un lato alla tedesca Force Inc. Music Works di Achim Szepanski e dall’altro alla Relief Records di Curtis Alan Jones. “Blue Squad 001” è il primo scelto nel 1995 dal citato Szepanski, probabilmente attratto dall’intreccio delle linee acide di “Pipe Dream”, una traccia che, come recitano i crediti, è un tributo a DJ Rush, amico e mentore di Farris stesso. Il disco riserva ancora curvilinee acide con “Unholy” oltre a una chiusura ad appannaggio del pungente ipnotismo, “Tribal Warfare”, il cui schema viene riadattato per “Sight ‘n’ Sound” uscita l’anno seguente su Relief Records.
Glenn Underground – The Unborn
Dopo “Future Shock” del 1993, Glenn Crocker alias Glenn Underground destina alla Djax-Up-Beats un secondo EP con cui mette in risalto l’abilità nel programmare ritmi non convenzionali, distanti dalla tradizionale costruzione house. Basta poggiare la puntina su “The Unborn” per afferrare il discorso al volo e rendersi conto di quanto possa essere libero da vincoli compositivi il territorio techno. In barba al titolo che lascerebbe presagire qualcosa di ancora più elaborato, “Teck-Na-Logie” vira verso quella che da noi, qualche anno prima, viene definita ambient house, seppur a reggere il tutto sia un possente impianto ritmico. Con “101 Dolmations” la corsa riprende sfociando in una sorta di techno jazzata inviperatissima. La chiusura è (ancora) sotto il segno di suoni ambientali, “New Age Experience”, che fanno bene il paio con quelli di “Teck-Na-Logie”. Val la pena segnalare anche alcuni brani che nel ’95 Crocker firma con lo pseudonimo Jellybean su Relief Records come “Drop Dead Zone” e “Twilight Drone”, ulteriori sviluppi di un suono personale che tiene bene in alto il vessillo della techno made in Chicago.
Green Velvet – Portamento Tracks
Nato nel 1968, Curtis Alan Jones comincia a incidere musica con la Clubhouse Records e mette presto a segno ottimi risultati, su tutti “Brighter Days” che firma Cajmere e che arriva anche in Italia attraverso la D:vision Records. Quando nel ’93 lancia la Relief Records, come appendice della Cajual Records, esce allo scoperto con un nuovo pseudonimo, Green Velvet, con cui mette da parte le costruzioni vellutate deep house a favore di misture intrise di jackismi di traxxiana memoria, così come si ascolta in questo EP del 1995. I suoni grassi di “I Want To Leave My Body”, poi la cassa rocciosa di “Flash” che dà il via a una serie di trivelle di rullanti in stile “Spastik” di Plastikman e infine le spirali psichedeliche di “Explorer”: Jones inietta suoni e costruzioni technoidi in circuiti house e va oltre con una bonus track senza titolo che fa volteggiare in aria rumorismi e distorsioni insieme a un campione vocale ripetuto con ossessione. Nel 2001 l’ingresso nelle classifiche generaliste con “La La Land” scandita da un tono di voce da pastore protestante e arditamente connessa vicendevolmente ad house e techno, modalità usata dall’artista anche in progetti collaterali come Geo Vogt (“Glitch” che marcia su severità EBM) e Gino Vittori con cui si cimenta in una rivisitazione di “Remember” di Gino Soccio (“Self-Evident”).
Joe Lewis – Funky Disco
Joe Lewis è tra coloro che hanno visto nascere l’house music nonostante il suo nome sia finito nel dimenticatoio o comunque tra quelli secondari, ingiustamente se si pensa a pezzi come “The Love Of My Own”, realizzato con Larry Heard, “Set Me Free” o “Midnight Dancin'”, tutti sulla propria Target Records. Quando nasce il sodalizio con la Relief Records il suo suono si irrigidisce e acquista velocità e una nuova gamma cromatica. “Funky Disco” è uno dei 12″ che Lewis pubblica per l’appunto sull’etichetta di Green Velvet e dai quali emerge questo cambio di registro prima attraverso i ritmi a stantuffo della title track (a dispetto del titolo, di funky e disco non se ne vede l’ombra) e poi dalle stropicciature vocali di “Let Yourself Go” che un po’ suona come versione dopata del suono onirico del citato Heard ricontestualizzato su un frammento preso da “Nude Photo” di Rythim Is Rythim. Tra le altre, non manca la nota acida, “Confusion Land”, una possibile risposta a “Land Of Confusion” di Armando Gallop.
K-Alexi Shelby – All For Lee-Sah
Tra i veterani della house della Windy City, Keith Alexander Shelby inizia ad armeggiare in studio negli anni Ottanta vantando pubblicazioni su etichette passate alla storia come D.J. International Records e la detroitiana Transmat. Proprio quest’ultima, nel 1989, pubblica “All For Lee-Sah”, un pezzo a metà strada tra acid house e techno corroborato da inserti vocali recitati quasi in modalità paranoica. Il lato b si apre con “My Medusa” dove TB-303 e TR-808 viaggiano in parallelo sviscerando le loro rispettive energie (un frammento della micidiale combo viene campionato dai belgi Atomizer per “Atom-B” del ’91). A chiudere è la simile “Vertigo”, dove l’acid line della scatola argentata della Roland continua a dimenarsi. A editare tutti i brani sul 12″ è Derrick May mentre l’artwork è di Alan Oldham che accompagnerà Shelby in una tappa del viaggio in Europa sulla Djax-Up-Beats (“Sex-N-R-001”, 1993).
Kareem Smith – Church Bells
È la Djax-Up-Beats a supportare il giovane Kareem Smith nella sua parabola artistica non intensa, iniziata nel ’91 dalla Saber Records in compagnia di Steve Poindexter di cui si parla più avanti. “There’s Some Hoes” è una brutalizzazione del suono ghetto, girata su un breve quanto ossessivo frammento vocale che non molla mai la presa. “Feel The Drums” è un’escursione in compagnia di una TR-909, “Lasertag ’96” è un cubo di Rubik dato alle fiamme, “Church Bells” pare un reprise non celato di “Circus Bells” di Robert Armani, descritta più giù.
L.A. Williams – Jedi Knight
Abile intagliatore di house e deep house, Lawrence Williams non disdegna affatto la techno che produce a fasi alterne. In questo “Jedi Knight”, mandato in stampa dalla Clashbackk Recordings nel 1996, si apprezzano prima le massicciate ritmiche sotto effetto ipnosi (“Logan’s Run”) e poi gli scontri fotonici tra sensualità e asperità acide (“Vadapod”). Dal ricco e variegato repertorio si evidenzia un piccolo gioiello techno del 1998, “This Is A Test”, e la tripletta destinata all’olandese Djax-Up-Beats tra ’95 e ’97 che Williams realizza in compagnia di Herbert Jackson e Spanky dei Phuture sotto lo pseudonimo Group X.
Lester Fitzpatrick – Frantic Frenzy
Un ottimo esempio della vena produttiva di Fitzpatrick è offerto da “Frantic Frenzy”, il primo EP che destina alla Relief Records nel 1995. Il brano di apertura, “Frantic Frenzy” per l’appunto, è un rullo compressore che si muove nei meandri del distorsore tirandosi dietro una tempesta di suonini in loop. Segue il sinusoidale “Tone Control” dove l’autore costruisce abilmente labirinti ipnotici. Il carico di intricati loopismi si ritrova sul lato b con “Mental Hardware”, dove i suoni sono tenuti insieme da un reticolo di filo spinato, e “Frequency Response”, continuum del precedente che ondeggia su un beat di impostazione ghetto. Dalla poderosa discografia di Lester Fitzpatrick emergono altre gemme come “Danger Room” sulla britannica Missile Records, con una cassa quasi Rotterdam style, e “Smash Traxx Vol. 1” sulla belga Minimalistix che elabora il ritmo su schemi millsiani.
Lil’ Louis – The Original Video Clash
Il ban della BBC a causa di contenuti considerati troppo hot per essere mandati in onda non basta ad arginare il successo di “French Kiss” che, nel 1989, diventa un bestseller di dimensioni ciclopiche: licenziato da FFRR e dalla Epic, vende centinaia di migliaia di copie (tanti siti oggi riportano la cifra stellare di sei milioni ma senza mai specificarne la fonte). Per Marvin Burns, meglio noto come Lil’ Louis, è un tripudio ineguagliabile e ineguagliato. Circa un anno prima di conoscere il grande successo il DJ affida alla Dance Mania un brano in cui taglienti blipperie low-fi si infilano nei meandri di una rete ritmica che deflagra in più punti, lasciando scorrere magma e lapilli. Minimalismo, ciclicità, rotazione, visione techno: queste le linee sulle quali Burns crea “The Original Video Clash” che manda in frantumi i sound system e spinge alcuni concittadini a realizzare delle pseudo cover come Tyree Cooper e Mike Dunn, rispettivamente con “Video Crash” e “Magic Feet”. Molti anni più tardi salta fuori che in realtà anche quello di Louis è un rifacimento di un pezzo realizzato da Marshall Jefferson nel salotto di casa sua, alla presenza di vari amici tra cui Sterling Void, Kym Mazelle (che intona qualcosa sopra, in una sorta di jam session) e lo stesso Louis. «Lil’ insistette affinché dessi una copia su nastro a lui e non a Ron Hardy come ero solito fare, per suonarla in una delle sue feste» rammenta Jefferson in una vecchia intervista. «Una volta tornato a casa però, rimosse la parte vocale, fece delle modifiche e la pubblicò senza il mio nome. A quel punto, visto che in circolazione c’erano diversi dischi derivati dalla stessa idea, decisi di non accodarmi col mio, non volevo che il pubblico pensasse che avessi copiato». Il fatto che Lil’ Louis abbia aggiunto “The Original” nel titolo lascia supporre che la sua sia la versione originale e la perdita del nastro con la registrazione del vero originale di Jefferson (come confermato in questa intervista del 3 agosto 2009) rende inoppugnabile la vicenda. Tuttavia pare che Louis abbia deciso, una quindicina di anni or sono, di riconoscergli i diritti senza esitazione. «Adesso il denaro che genera il pezzo è poco o nullo ma giustizia è fatta» chiosa Jefferson.
Mike Dearborn – Unbalanced Frequency
Il debutto nel 1990 insieme a George Perry per “Make The Music” sulla Housetime Records che già lascia intravedere scenari technofili, gli stessi che l’anno dopo si ritrovano in “1991 (A New Age)” sulla Muzique Records di Armando e Steve Poindexter. La conferma arriva nel 1992 con “Unbalanced Frequency” sulla Djax-Up-Beats di Miss Djax con annesso artwork di Alan Oldham. Serpentine incandescenti (“Outer Limits”) e cordami ritmici (“8514”) si alternano alle sgroppate di 909 sul lato b (“Simply Complex”, “Harmonic Distortion”). È solo il primo disco di una lunga serie che Dearborn destina all’etichetta olandese, incluso un album, “Muzikal Journey”, crocevia di lame arroventate e febbricitanti propulsioni in cui c’è spazio pure per il remix di “Move” ad opera dei tedeschi Hardfloor. Gran parte del resto del repertorio convergerà nel catalogo della Majesty Recordings, l’etichetta da lui stesso fondata e gestita.
Paul Johnson – Foreign Music
Ingiustamente ricordato dal grande pubblico solo per “Get Get Down” del ’99, costruito abilmente su un campionamento tratto da “Me And The Gang” di Hamilton Bohannon, il compianto Paul Johnson è stato uno degli assoluti protagonisti della scena di Chicago. La house music ha la meglio nel suo sconfinato repertorio ma non mancano gemme techno tipo quelle racchiuse nel “Foreign Music” (Djax-Up-Beats, 1993) come “Time Warp” o “U.F.O.”, a cui se ne sommano altre confluite nel doppio “Psycho Kong” dell’anno dopo. È sempre Johnson a realizzare, proprio nel 1994, “F_____n Suckin” per il progetto Traxmen su Dance Mania, in cui si recita una filastrocca farcita di parolacce su una base martellante e ipnotica. Inciso sul lato b del secondo volume di “Basement Traxx”, il pezzo parte dalle discoteche specializzate ma pian piano conquista favori nel nostro Paese finendo nel circuito generalista grazie al supporto di Albertino e Radio DeeJay.
Robert Armani – Armani Trax
Il suo vero nome è Robert Woods ma si ribattezza Robert Armani pare per tributare lo stilista italiano Giorgio Armani. Il debutto nel 1990 con “Armani Trax”, su Dance Mania, che riagguanta i minimalismi ritmici della house dei primordi per renderli autentici protagonisti e non più solo basi su cui innestare qualcosa. La traccia “Armani Trax” è esplicativa in tal senso, uno scheletro di pochi elementi che si rincorrono per tutta la stesura. Simile il contenuto del pezzo sul lato b destinato a diventare un classico, “Circus Bells”, dove il suono di una campana liquefatta e strisciante diviene una sorta di putrella costruttiva, un elemento portante e di sostegno per tutto il resto. A glorificarla ci penseranno i tedeschi Hardfloor nel 1993 attraverso uno dei primi remix della loro carriera. Sia “Armani Trax” che “Circus Bells” vengono riletti in due versioni da Armando Gallop, indicato altresì come presenter sull’etichetta centrale. Armani bissa la presenza su Dance Mania nel ’91 con “Ambulance” aperto dalla traccia omonima, una marcetta in cui shakera un lancinante suono che pare un sonar impazzito per qualche problema tecnico sopraggiunto negli abissi marini. Il pezzo raccoglie consensi in Europa, Italia compresa, dove giunge attraverso l’Extreme Records del gruppo Energy Production. Proprio in Italia l’artista trova da lì a breve un valido alleato discografico, l’etichetta capitolina ACV, che tra 1992 e 1997 pubblicherà ben sei album a cui si sommano numerosi EP.
Steve Poindexter – Demolition Man
Poindexter è un altro che assimila i traxismi pre novantiani per fonderli coerentemente coi suoi apporti trasformandoli in qualcosa di più muscolare e lanciarli in circuiti ad alto voltaggio. A venirne fuori è una felice sintesi riscontrabile in questo EP, pubblicato su Djax-Up-Beats nel 1997, in cui le cose appaiono chiare sin dal principio, quando parte “Demolition” che mette l’ascoltatore tra incudine e martello. “Return To The Getto” occhieggia al suono ghetto della Dance Mania, e probabilmente il titolo è un indizio rivelatore. “Express” è una pallina da flipper impazzita che urta contro il vetro lesionandolo, “Bring The Noice” scalpita ancora sui disegni ritmici fatti da clapperie e nervosi rullanti. Poindexter ha inciso anche un album, “Man At Work”, incentrato sulle squadrettature ritmiche tipiche della scuola chicagoana. A pubblicarlo, nel 1996, la romana ACV.
Terrance McDonald – Wreck The Floor
Lasciandosi alle spalle un timido esordio su Saber Records nel ’91, per Terrance McDonald si aprono le porte della Djax-Up-Beats che nel 1994 manda in stampa “Wreck The Floor”, coprodotto con l’amico DJ Skull. Le danze iniziano col brano omonimo, in buona sostanza una versione uptempo della house chicagoana targata ’85-’86 che scommette tutto sull’essenzialità e il minimalismo. Con “Electric Energy” l’autore inietta più elementi nei circuiti della sua musica, dotandola di soffici cuscini ottenuti con lunghi lead. Più ovattata l’edificazione dei suoni di “Pick Up The Pace”, issata da un breve messaggio vocale che ripete meccanicamente il titolo. Chiudono la rotolante “Hokus Pokus” e la seducente “Love Craze”. McDonald affida all’etichetta di Miss Djax un’altra manciata di EP in cui la techno divampa in modo ancora più intenso, “Hyper-Tension” e “X.S. NRG”, usciti entrambi nel 1995 ma sotto lo pseudonimo DJ Metal X.
Timewalkers – Melodic Butterfly
Nel 1994, quando la belga Lightning Records (a cui fa capo la Bonzai guidata da Fly intervistato qui) inaugura il catalogo Unique Vinyl Movement con “Melodic Butterfly”, non esiste Discogs per individuare le coordinate autoriali. Sul centrino è riportato il nome di un certo Felix Stallings ma in pochi, specialmente in Italia, sanno chi sia. Il brano si presenta in due versioni, simili tra loro: la Thee Dark Mix lascia ondeggiare corone di fiori su un sequencer dal sapore quasi moroderiano, la Thee Lite Tribal Mix mette da parte le nuances più ombrose a favore di un panorama più cristallino. Dopo qualche mese la Unique Vinyl Movement commercializza un secondo (e ultimo) disco di Timewalkers, “This Is What I Believe In”, con cui l’autore prosegue la missione elaborando accuratamente la programmazione ritmica ed edificando un castello di suoni vaporosi dalle punte filo acide. Stallings concentrerà le energie su altri progetti come Aphrohead e soprattutto Felix Da Housecat con cui sfonderà nel pop nei primi anni del nuovo millennio quando incide l’album “Kittenz And Thee Glitz” trainato dall’arcinota “Silver Screen-Shower Scene” in coppia con la reginetta dell’electroclash, Miss Kittin.
Time For Techno Presents The Unknown – Get On It (Housetime Records)
Il nome che Derrick Carter sceglie per questa apparizione su Housetime Records del 1989 è già indicativo, ma ascoltare i cinque pezzi racchiusi all’interno dell’EP fuga definitivamente ogni dubbio. “Get On It” mostra il punto di avvio rappresentato da frequenze phaserizzate, pattern mandati in reverse, vocalizzi balbettanti, da “Velocity” in avanti si viaggia in dimensioni decisamente techno, “Abstract Expressionism” è una acid svisata con frequenti effetti backwards che diventano una vera e propria gimmick, “Non-Music No. 3” avanza a scatti come un androide pilotato da remoto, “Spirit Of Sound” chiude con annotazioni funk/disco ma fatte ribollire in un blocco ritmico duro come granito. Carter diventa un gigante della house ma non disdegnerà, seppur a tratti, di calarsi ancora in territori confinanti con la techno come avviene ad esempio con “Science Of Numbers” di Symbols & Instruments (KMS, 1989) “Shock Therapy” (Exploding Plastic Inevitable, 1994) o “Limbo Of Vanished Possibilities” di Tone Theory (Plink Plonk, 1995).
(Giosuè Impellizzeri)
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