Come raccontato in plurime occasioni nei libri della trilogia di Decadance ed anche su queste pagine virtuali, tanti artisti che si sono distinti negli anni Novanta cominciano la loro avventura già nel decennio precedente. È il caso di Roberto Gallo Salsotto che debutta nel mondo discografico nel 1986 quando incide, per l’Ibiza Records di Claudio Cecchetto, “Different Generation” di Toyboys, un progetto condiviso col fratello Enzo nato sulle coordinate più pop dell’italo disco e per cui viene girato anche un videoclip. «Intorno alla metà del dicembre 1985 ci presentammo a Radio DeeJay con una cassetta con su inciso il provino (in realtà una versione quasi definitiva) di “Different Generation”» racconta oggi il compositore. «Parlammo con l’allora direttore artistico, Massimo Carpani, che pur trovando il brano interessante ci congedò con un classico “vi faremo sapere”. Tre giorni dopo fummo convocati da Cecchetto nel suo studio: entusiasta del pezzo, aveva già deciso nome del progetto, copertina del disco e look. A metà gennaio ’86 entrammo nel Rimini Studio per rifare il master ed arricchire la produzione con l’ausilio di un arrangiatore, Marco Sabiu. A maggio venne pubblicato il singolo che, contemporaneamente, fu utilizzato come sigla estiva del famoso programma televisivo trasmesso da Italia 1, DeeJay Television. Arrivammo a Cecchetto senza alcun background, fu quella la nostra prima esperienza discografica. Fortunatamente lui badava al sodo e non a chi eri o da dove venivi. Successivamente ci fu chiesto di lavorare ad un album. Cominciammo a scrivere alcuni pezzi ma qualche mese dopo, purtroppo, Cecchetto decise di “vendere” i contratti di tutti i suoi artisti (Sandy Marton, Tracy Spencer, Taffy, Via Verdi, Tipinifini etc) a varie major, si dice per problemi di tipo finanziario. A noi toccò la CGD, nota etichetta specializzata in musica italiana che però aveva ben poco a che fare col nostro genere. Per tale ragione rescindemmo il contratto nel 1987 e quella bella avventura finì».

I fratelli Gallo Salsotto non demordono. Proprio nel 1987, per la Rolls Record, realizzano “Emotion’s Game” di Kris Tallow (ironica inglesizzazione in scia a Den Harrow, Joe Yellow o Jock Hattle) oggi diventata una rarità sul mercato del collezionismo. L’italo disco però è ormai quasi al capolinea. Il brano, realizzato presso lo studio di Bruno Palumbo, raccoglie un discreto successo in Francia, ma è l’ultimo che i fratelli incidono insieme, sospendendo la collaborazione per circa un decennio. Roberto insiste con la musica dance e negli anni Novanta produce brani filo house (“Inside My Brain” di Colored, “Read My Lips” di People In Town e “Burn In His Hands” di P. Lion). Poi, con l’arrivo della prima ondata italodance, sforna insieme a Max Boscolo, Gianni Drigo e Maurizio Braccagni, i tre singoli di Dynamic Base, “Africa”, con una citazione di “New Year’s Day” degli U2, “Make Me Wonder”, con le chitarre di “Ghostdancing” dei Simple Minds, ed “All Of My Life”. In Italia sta per esplodere il fenomeno dance insieme ad un non trascurabile indotto legato alle radio, alle performance in discoteca e alle migliaia di compilation immesse settimanalmente sul mercato. «Dopo l’uscita di Kris Tallow passò qualche anno prima che tornassi a pubblicare musica perché dovetti imparare a produrre da solo visto che era molto difficile trovare etichette disposte ad investire sulla realizzazione di progetti. Era consuetudine delle label infatti acquisire brani già finiti e pronti per la stampa» prosegue Salsotto. «Nel periodo che va dal ’91 al ’93 le tendenze cambiavano di continuo, era essenziale produrre velocemente, prima che quei suoni passassero di moda. L’indotto prima citato, molto importante, era però riservato ai brani dei pochi “eletti” che passavano in radio, una su tutte Radio DeeJay e in particolare nel DeeJay Time di Albertino che, di fatto, condizionò pesantemente l’intero mercato discografico italiano. I dischi si vendevano ancora quindi se eri in grado di lavorare bene, qualcosa riuscivi sempre a portarla a casa».
Nel 1994 Roberto Gallo Salsotto stringe una partnership col citato Maurizio Braccagni che si rivela proficua e genera un vero fiume di pubblicazioni, più e meno note. «A presentarci furono i titolari della Dancework, Fabrizio Gatto e Claudio Ridolfi, etichetta con cui lavoravo già da diverso tempo» spiega a tal proposito il compositore. «Braccagni cercava qualcuno che avesse uno studio di registrazione per realizzare vari progetti. Durante i primi tempi lavoravamo insieme nel mio studio ma mi accorsi che in lui crescesse la voglia di indipendenza. Avevamo stili differenti e spesso le mie scelte, seppur da lui avallate, non lo rappresentavano pienamente. Poco tempo dopo infatti aprì un suo studio e cominciammo a lavorare separatamente su progetti condivisi. Ognuno, insomma, elaborava le proprie versioni e da quando adottammo questo metodo le differenze stilistiche a cui facevo riferimento divennero piuttosto evidenti». Tra le produzioni più fortunate nate sull’asse Braccagni/Salsotto c’è “Everybody Gonfi Gon” di Two Cowboys, apparsa nel 1994 sulla Welcome del gruppo Dancework. Registrato presso lo Stockhouse Studio di Salsotto, a Muggiò, a pochi chilometri da Monza, il brano gira su festose atmosfere country, rimarcate dalla grafica in copertina, che pochi mesi dopo vengono traghettate nuovamente nella dance dagli svedesi Rednex nella fortunata “Cotton Eye Joe”, dai britannici Grid dell’ex Soft Cell Dave Ball in “Swamp Thing” (preceduto da “Texas Cowboys” del ’93 già parzialmente immerso in quella salsa) e dal team bresciano DJ Creator nella meno nota “Talk About”. A dirla tutta, quell’accoppiata stilistica è già stata testata nelle discoteche nel 1992, ma senza particolari riscontri, attraverso “Mu-Sika” di Lost Tribe, un progetto in cui c’è lo zampino di Albertino. «”Everybody Gonfi Gon” fu il primo disco con cui io e Braccagni riuscimmo nell’impresa di arrivare alla quinta posizione della classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito» rammenta con comprensibile orgoglio Salsotto. «Partecipammo in prima persona, nelle vesti di artisti, ad importanti manifestazioni d’oltremanica, su tutte quella ad Hyde Park, a Londra, dove si tenne un evento paragonabile al nostro Festivalbar, e Top Of The Pops, in televisione. Finalmente anche per noi si prospettò la possibilità di entrare tra gli “eletti” a cui accennavo prima. Non avremmo potuto sognare un esordio migliore di quello. Realizzammo il pezzo di getto in appena ventiquattro ore (l’indomani curammo solo le rifiniture). Maurizio mi portò un disco promozionale spagnolo sconosciuto che conteneva un giro di violino in chiave western. Lui sosteneva che fosse fortissimo e che avremmo dovuto rifarlo con una base più “tamarra”. Una volta accesi gli strumenti fu facile perché, in effetti, quel giro di violino richiamò da solo i giusti arrangiamenti. Braccagni aveva proprio ragione sulle sensazioni provate sentendo quel violino. Il resto è storia. Gli strumenti che utilizzammo all’epoca erano due campionatori Akai S1000, sintetizzatori Roland JV-1080, Oberheim Matrix 1000, Korg 03R/W e qualche expander di minor importanza, oltre ad un registratore digitale a quattro tracce per i master, un Akai DR4. Il tutto pilotato dal noto Atari ST Mega 4 e il software Cubase che utilizzo ancora oggi».
“Everybody Gonfi Gon” diventa un successo internazionale, trainato da un videoclip e licenziato in buona parte d’Europa ma pure in Messico, Giappone ed Australia. Il clima euforico però, come accennato proprio da Gallo Salsotto nell’intervista finita in Decadance Appendix, viene rovinato da una battaglia legale andata avanti per quasi un decennio, mossa dall’etichetta iberica Clik, detentrice dei diritti del poco noto “Western (Everybody Go See Go)” di Falkon Krest, a cui i due italiani si ispirano campionando il giro di violino e il breve hook vocale da cui deriva il titolo foneticamente simile. «A gestire internazionalmente il disco fu la major britannica London Records» spiega Salsotto. «Arrivare così in alto nella UK sales chart fece da volano al lancio in molti altri Paesi. Vendette davvero tanto ma non sono in grado di fornire numeri ufficiali perché, nonostante la valanga di 12″ e compilation sparse per il mondo, non abbiamo mai avuto accesso ai rendiconti per motivi di carattere legale. Citati in giudizio per plagio per quel giro di violino che, ahimè, non ci apparteneva, non potemmo beneficiare dei proventi generati dal successo di “Everybody Gonfi Gon”. Perdemmo clamorosamente la causa civile, durata ben otto anni, e gli incassi andarono agli autori originali. Provammo a trovare un accordo con la controparte ma non ci riuscimmo. Comunque, nonostante ciò, per noi “Everybody Gonfi-Gon” rappresentò un importante trampolino di lancio per lavorare ad alti livelli. Realizzammo un secondo singolo di Two Cowboys, sfruttando un nuovo giro di violino questa volta originale, ma non vide mai luce a causa del parere negativo espresso della London Records, contraria ad usare ancora quello strumento. La previsione si rivelò sbagliata visto che poco tempo dopo arrivarono i Rednex con “Cotton Eye Joe”. Sfruttando la nostra idea, gli svedesi ricavarono un successo mondiale ben superiore a quello dei Two Cowboys.

Non riuscendo a bissare il risultato, decidemmo di non utilizzare più quel nome riprendendolo solo su espressa volontà della 3 Beat Records di Liverpool per “marchiare” la realizzazione del remix del brano “The Sunshine After The Rain” di New Atlantic Feat. Berri. Quella versione (costruita su un basso di moroderiana memoria ed usata anche per il videoclip, nda) la produssi da solo ma poiché il nome Two Cowboys era di proprietà congiunta con Maurizio, lui venne coinvolto comunque nei crediti. Il risultato fu clamoroso e il pezzo finì nella top ten britannica. Ricevetti dalla 3 Beat pure una targa che certificava il raggiungimento di 120.000 copie vendute solo oltremanica, targa che ho appeso orgogliosamente nel mio studio. Di Two Cowboys restano altri remix (“All I Need Is Love” di Indiana, di cui parliamo qui, “Dance The Night Away” di Nina, nda) prodotti quando lanciammo il duo di produzione MBRG (acronimo delle nostre iniziali) lavorando a svariati progetti di seconda fascia pubblicati da Discomagic e moltissimi remix per la Energy Production per artisti come J.K. e Whigfield».

Ancor prima di creare Two Cowboys, di cui viene annunciato un nuovo singolo, mai uscito, a dicembre ’95, Salsotto avvia un’altra collaborazione destinata a lasciare il segno nella pop dance degli anni Novanta, quella con DJ Dado che affianca sin dal disco d’esordio, “Peace & Unity” del 1993. Inizialmente l’Italia pare non essere particolarmente interessata (pezzi come “The Same” e “Face It” passano del tutto inosservati) ma con “X-Files”, cover dell’omonimo di Mark Snow composto per la celebre serie televisiva, cambia tutto. Da quel momento per DJ Dado si apre una stagione più che fortunata costellata di successi come “Metropolis (The Legend Of Babel)” (remake dell’omonimo di Giorgio Moroder scritto per la versione del 1984 del film “Metropolis” di Fritz Lang), “Revenge” o la reinterpretazione di “Shine On You Crazy Diamond” dei Pink Floyd che confluisce nella sigla DD Pink. Senza omettere sia la lunghissima lista di remix (da Molella ad Alexia, da Bibi Schön a Datura passando per Jean-Michel Jarre, Vasco Rossi e Boy George che, con “When Will You Learn” si aggiudica la nomination ai Grammy Awards per la miglior registrazione di musica dance), sia la deviazione pop partita nel 1997 con “Coming Back” e proseguita con “Give Me Love” e “Forever”, cantati da Michelle Weeks, e “Ready Or Not” in coppia con Simone Jay. «Nei primi anni Novanta ero particolarmente attivo, nonostante dividessi il tempo tra un lavoro full time in un negozio di hi-fi/video (lasciato nel ’94 per dedicarmi esclusivamente alla produzione discografica) e l’attività in studio effettuata solo durante le ore notturne» racconta ancora Salsotto. «Realizzavo, prevalentemente da solo, molte produzioni e tra quelle ne destinai alcune ad un progetto che un mio caro amico voleva proporre al titolare di un negozio di dischi di Viale Monza, a Milano, un tal Flavio D’Addato. Ai tempi D’Addato cercava qualcuno che gli realizzasse dei dischi su cui potesse apporre il proprio nome in copertina. Fu così che nacque il percorso artistico di DJ Dado. Ci volle qualche anno prima che arrivasse al successo che tutti conoscono, partendo da “Rhythm Of Pleasure” che firmò come Flavio Dado nel ’93. Solo nel 1996 la dea bendata bussò alla porta di questo progetto che, nonostante non avesse beneficiato della “spinta” di Albertino (che ad “X-Files” preferisce “The Truth” di Trinity, prodotta dal britannico Ian Anthony Stephens, nda) riuscì ad imporsi pesantemente in Italia e all’estero. Così, per il terzo anno di fila, fui capace di piazzare un singolo nella top ten del Regno Unito, dopo Two Cowboys del 1994 e New Atlantic del 1995, impresa quasi impossibile per un italiano. “X-Files” resta il disco che, a livello internazionale, ha dato maggiori soddisfazioni, almeno in termini numerici. In studio lavoravo sempre da solo, sia sulle produzioni che su tutti gli innumerevoli remix marchiati DJ Dado, eccezion fatta per i brani prodotti dal 1997 in poi che videro l’inserimento nel team di Charlie Aiello e Miki Giorgi, noti come Antiqua, che portarono a quel cambiamento di sonorità, più pop, sostenuto dalle voci di Michelle Weeks e Simone Jay. In merito alla gestione dei ruoli, io ho sempre curato interamente la parte musicale, D’Addato invece si occupava esclusivamente della parte gestionale del “brand”, oltre alla sua attività da DJ decollata ovviamente grazie al successo discografico. Senza voler urtare la sensibilità dei numerosi fan di DJ Dado che ora si chiederanno cosa facesse concretamente per “meritarsi” il successo ottenuto, ricordo che nel mondo della dance è stata una consuetudine produrre musica a cui dare successivamente un volto rappresentativo, quasi sempre diverso da chi realmente partecipava alla creazione della stessa. Mi vengono in mente Den Harrow negli anni Ottanta, Corona nei Novanta e Billy More nei Duemila, ma ne esistevano davvero tantissimi altri (e a tal proposito si rimanda a questo ampio reportage, nda). Nel 1999 decisi di interrompere la collaborazione con Flavio D’Addato per problemi interpersonali. Nonostante la notorietà raggiunta, volli ricominciare con altri progetti e nuove collaborazioni che, fortunatamente, non tardarono ad arrivare».

Un altro successo di Salsotto risalente agli anni Novanta è “I’m Missing You” di Fabrica, che strizza l’occhio ad “Offshore” di Chicane (ma una delle versioni, la Nothin’ But Mix, ammicca anche agli Everything But The Girl remixati da Todd Terry che quell’anno, il 1997, ispira pure Kortezman e Marascia per “Obsession” di Obsession, poi diventato ufficialmente un singolo di Chase). A pubblicare Fabrica è la Dance Pool del gruppo Sony, la stessa che l’anno dopo manda in stampa il follow-up “I Believe” e nel 1999 “Talk To Me” di D.E.A.R., interpretato da Melody Castellari. «Il progetto Fabrica sancì il ritorno alla collaborazione con mio fratello dopo oltre un decennio» spiega Salsotto. «”I’m Missing You” segnò anche la sinergia con una major che, assicuro, non era impresa facile. Nonostante avessi la fortuna di essere amico dell’A&R della Dance Pool, Mauro Bonasio, che certamente creò un vantaggio nell’approccio, arrivare a pubblicare un disco con Sony fu del tutto inaspettato e sorprendente. Ad un’etichetta indipendente ci si presentava col master confrontandosi direttamente con chi decideva mentre in una multinazionale c’era tutta una scala gerarchica da risalire, con visioni di mercato e metodologie di lavoro molto più complesse che purtroppo, nella maggior parte dei casi, non portavano a nulla di concreto. Alla luce di ciò, era più piacevole lavorare con le indipendenti seppur le major abbiano sempre rappresentato un punto di arrivo maggiormente prestigioso. Fortunatamente nella mia carriera ho lavorato sia con major che indipendenti».

Il 2000 vede Salsotto ancora protagonista con Sally Can Dance (insieme ad Alessandro Viale, Davide Scarpulla ed Emanuele Cozzi alias Paps N Skar, con cui peraltro collabora a singoli di successo come “Turn Around”, “You Want My Love (Din Don Da Da)”, “Get It On” e “Loving You”), Dema-J, superEva, Billy More, 5 Elements e Souvenir D’Italie, giusto per citarne alcuni. Sono pure gli anni in cui decide, insieme al fratello, di uscire allo scoperto col cognome anagrafico dopo decine di fantasiosi pseudonimi, incidendo brani come “Downtown”, “No Time For Lies”, “No Control” e “Remains The Same”, in cui si registra la presenza di un’impronta eurotrance à la Alice Deejay. Fu un periodo di radicale trasformazione, non solo a livello stilistico ma anche (e soprattutto) tecnologico. In ambito musicale è rimesso praticamente tutto in discussione e l’Italia, a detta di tanti, pare si sia lasciata cogliere piuttosto impreparata. Svariate etichette e quasi tutti i distributori chiudono battenti, persino storiche emittenti cessano di esistere (su tutte Radio Italia Network) o prendono le distanze da quello che per anni era sembrato un filone aurifero inesauribile. Mentre le possibilità di rilancio si azzerano, la dance nostrana finisce col perdere appeal sul fronte internazionale e la seconda ondata italodance, specialmente quella che abbraccia i primi anni Duemila, non riesce a raccogliere gli stessi risultati di circa dieci anni prima quando detona l’italo house. Si era semplicemente chiuso un ciclo?

«Le difficoltà che la discografia mondiale stava per affrontare da lì a poco derivarono principalmente dalla carenza di nuove mode e sonorità, oltre che dalla trasformazione tecnologica in atto» sostiene Salsotto. «Alle nuove leve di produttori mancò l’educazione musicale che i precedenti decenni avevano dato invece a quelli della mia generazione. Scherzosamente amo definire i nati negli anni Ottanta come “vittime di Gigi D’Agostino”, artista talmente geniale ed unico da togliere spazio ed ispirazione ai ragazzi di quel periodo. Analizzando il sound pop dance italiano dal 2000 in poi, ci si imbatte in un genere nato dalla fusione dell’hands up tedesca, il basso in levare di D’Agostino ed una tarantella napoletana, il tutto sapientemente frullato dall’estro di personaggi come Gabry Ponte e i suoi “seguaci” che hanno dato vita all’italodance che per qualche tempo ha monopolizzato il mercato italiano (fortunatamente solo quello!). Unica e doverosa menzione spetta al grande Benny Benassi che riuscì ad esportare nel mondo un sound che nulla divideva con le “tarantelle”, filone di cui non sono mai stato un estimatore. In Europa, nel frattempo, i generi cambiavano, si spaziava dalla trance alla nuova eurodance (che ha anticipato l’EDM in stile Avicii) e alla techno commerciale dei dischi della Kontor, tutti splendidi prodotti che, salvo poche eccezioni di chi decise di importarli, da noi non trovarono spazio. Dopo la fine del sodalizio con DJ Dado, cominciai la stretta collaborazione con Alessandro Viale che a sua volta mi diede la possibilità di incrociare i destini di altri importanti compositori coi quali ho realizzato parecchie produzioni come Roby Santini (Billy More e Souvenir D’Italie), Davide Scarpulla ed Emanuele Cozzi (Paps N Skar, Sally Can Dance, D.E.A.R.). Con loro i risultati sono stati notevoli nonostante il periodo davvero irto di problemi. Parallelamente provai a fare musica con un taglio più internazionale con un progetto che per la prima volta portava il mio cognome in copertina, Sals8, ottenendo ottimi risultati in giro per il mondo tranne che in Italia. “Downtown”, ad esempio, fu particolarmente apprezzato in Francia e in Sud America. A quel punto tentai di internazionalizzare il sound di alcuni dischi, e a testimonianza ci sono le versioni che realizzai per “Love Is Love” e “Che Vuoto Che C’è” di Paps N Skar o il remix di “Looking 4 A Good Time” di Hotel Saint George intitolato Doccia Energizzante Tonificante. Il tentativo, seppur apprezzato, non sortì alcun effetto.
A questa penuria di offerta stilistica si aggiunse la vera mazzata portata da internet che in breve tempo cambiò la fruizione della musica in tutto il mondo. Con l’avvento delle linee ADSL, la diffusione del formato MP3, di Napster e di altri sistemi di file sharing che seguirono il medesimo modello dello scambio gratuito di musica tra soggetti privati, i prezzi più accessibili dei masterizzatori CD nonché la totale assenza di legislazioni atte a tutelare il comparto musicale, assistemmo in brevissimo tempo alla morte del supporto fisico (CD e soprattutto vinile), allo sgretolamento dei fatturati, al conseguente impoverimento dei budget stanziati per nuove produzioni, alla chiusura di molte etichette indipendenti e non, la fine di tanti negozi di dischi e, conseguentemente, dei distributori. Importanti programmi radiofonici, come il DeeJay Time e la DeeJay Parade, vennero sospesi ed alcune emittenti, come Italia Network e Discoradio, furono persino smantellate. Insomma, abbiamo assistito alla capitolazione di tutti coloro che facevano parte di questo comparto da cui è nata una spirale negativa che ancora oggi non si è interrotta. Penso che le responsabilità che hanno portato il music business a questo punto siano molteplici. Forse la scintilla che ha dato inizio al cambiamento la si deve ricercare nella nascita delle radio libere, nella seconda metà degli anni Settanta, e al loro esponenziale moltiplicarsi negli anni a venire. Prima, se volevi ascoltare il pezzo di un artista, dovevi comprare il suo disco alimentando il meccanismo. Con le radio invece non era più obbligatorio acquistare nulla se non un dispositivo hi-fi casalingo o portatile (su tutti il Walkman della Sony). Quello, a mio avviso, doveva essere considerato il primo campanello d’allarme su ciò che il futuro ci avrebbe riservato ossia un’offerta musicale che supera di gran lunga la domanda. In passato eravamo noi a cercare la musica, ora è lei che cerca noi, e le conseguenze le stiamo vivendo ormai da tempo».
In un quadro simile si fatica parecchio a trovare novità autentiche dal punto di vista creativo. Si ritiene ormai consolidato credere che di musica che si riascolterà volentieri tra qualche decennio ne esista sempre meno. «In ambito dance direi che nessuno stia facendo nulla di memorabile» afferma senza tergiversare Salsotto. «In tempi recenti, l’ultimo “fenomeno” in grado di lasciare un segno indelebile degno di entrare a far parte dei libri di storia è stato Avicii che, pur non avendo inventato nulla di nuovo, ha saputo modernizzare e plasmare a suo gusto uno stile riconoscibile e, visto il consenso mondiale ottenuto, direi unico. A causa di tutto quello che è avvenuto in questo settore, dal 2012 ho abbandonato la produzione discografica dance dedicandomi al pop/rock e siglando un ritorno alle mie origini musicali giovanili. Da un paio di anni a questa parte però curo corsi personalizzati per tutti coloro che vogliono apprendere nel minor tempo possibile l’arte della produzione di musica dance/elettronica, mettendo a disposizione i trucchi del mestiere appresi in tantissimi anni di fortunata carriera. Con questo impegno didattico consento agli allievi di saltare il superfluo ed andare dritti al sodo, risparmiando tempo ed energie» conclude il compositore. (Giosuè Impellizzeri)
© Riproduzione riservata