Negozi di dischi del passato: Disco International a Ivrea

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Disco International col titolare Maurizio De Stefani

Quando apre i battenti Disco International?
Il negozio venne inaugurato a dicembre 1979 nel centro della città, dopo mesi di lavori di ristrutturazione di un vecchio magazzino chiuso da tempo. Il giorno dell’apertura invitammo alcuni dei DJ e speaker in onda sulle radio locali più “importanti” per far capire fin da subito che da quel momento anche ad Ivrea sarebbe stato possibile trovare gli ambiti dischi d’importazione, fino ad allora acquistati nei negozi di Torino, Biella o Milano. Io stesso ero “costretto” a comprare dischi nel capoluogo piemontese, facendomi aiutare peraltro da mio fratello, più grande di me di nove anni, che per riunioni di lavoro si recava a Torino una volta al mese. Non ancora maggiorenne, davo a lui la lista coi titoli che cercavo e coi pochi soldi guadagnati in radio riuscivo ad accaparrarmi le novità discografiche prima degli altri. Fu proprio quello il motivo che mi fece balenare l’idea di aprire un negozio di dischi che mancava ad Ivrea. A quel punto mio fratello smise di fare di rappresentante ed io, che nel frattempo raggiunsi la maggiore età, mi rimboccai le maniche e dalla nostra collaborazione nacque Disco International.

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Una foto del Disco International scattata nel 1993

Perché optaste per quel nome?
Emerse da un “consulto” coi colleghi della radio in cui lavoravo. Eravamo in cerca di un nome che potesse dare l’idea di qualcosa che non fosse il solito negozio di dischi e cassette. Volevamo creare un punto di riferimento per i DJ, per le discoteche (che stavano proliferando in maniera esponenziale), per le radio e per i semplici appassionati di musica dance. L’abbinamento tra le parole Disco, pertinente sia per il prodotto trattato che per il concetto di discomusic o discoteca più in generale, ed International, a rimarcare il concetto di musica che arrivava dall’estero e quindi d’importazione, ci sembrò adeguato oltre che essere facile da ricordare e da pronunciare.

Che investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
Essendo trascorsi più di quarant’anni non ricordo precisamente quanti soldi occorsero per partire, ma tra qualche piccolo prestito e l’aiuto di papà, che era andato da poco in pensione e pure lui commerciante, seppur di tutt’altro genere, riuscimmo ad alzare la saracinesca del Disco International che nell’arco di qualche anno divenne una bella realtà.

Operavano altri negozi di dischi analoghi nell’eporediese?
Come anticipavo prima, c’erano altri negozi di musica ma non trattavano dischi d’importazione e soprattutto non vendevano i cosiddetti “discomix” da discoteca, ovvero i dischi grandi come gli LP ma con uno/due brani per lato e “costruiti” in modo differente da quelli che venivano solitamente trasmessi per radio. Le stesure infatti, oltre ad essere più lunghe, contavano su un intro ed un outro strumentali che permettevano al DJ di mixare il brano con quello successivo. Oggi può sembrare banale ma allora rappresentò una vera e propria novità nel mercato musicale.

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Un altro scorcio del Disco International: in evidenza i flight case per i DJ e la cabina telefonica

Com’era organizzato il punto vendita?
Era grande circa una settantina di metri quadri e composto da un enorme banco di lavoro simile ad una grande consolle da discoteca che contava tre giradischi (ai tempi considerata avanguardia!) ed un mixer. Un reparto era destinato alle musicassette a cui, in seguito, si aggiunsero i Compact Disc, uno agli LP ed uno ai mix contestualmente a tutta l’attrezzatura destinata ai DJ. In fondo al negozio, infine, si trovava la sala d’ascolto con un’altra consolle attraverso cui era possibile ascoltare dischi in maniera più approfondita. A decorazione dell’ambiente c’erano un jukebox anni Settanta funzionante ed una cabina telefonica britannica, originale e non una replica prodotta in Italia.

Che generi musicali trattavate con particolare attenzione?
Per ovvie ragioni la nostra priorità era rivolta al materiale d’importazione, motivo per cui era nato il negozio stesso, ma trovandoci nel centro storico della città con grande passaggio di gente, non mancava nulla delle novità anzi, col passare del tempo il catalogo si ampliò sensibilmente in modo da avere sempre o quasi tutte le discografie di artisti italiani e stranieri.

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
Non so rispondere in modo preciso ma ricordo benissimo le seicento copie di una compilation di Sanremo di fine anni Ottanta, le oltre mille copie, tra LP, CD e cassetta, di “Oro Incenso & Birra” di Zucchero, e le mille (e forse di più) di “…But Seriously” di Phil Collins. Senza dimenticare ovviamente le centinaia di copie di mix di alcuni titoli dance.

Praticavate anche commercio per corrispondenza?
Raramente. A tal proposito ho un paio di ricordi: ogni tanto giungevano ordini da un negozio in Toscana, in difficoltà nel trovare certi mix, e per qualche anno un DJ faceva ordini settimanali dalla Sardegna.

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Una borsa con la serigrafia del Disco International, solo uno dei tanti gadget marchiati con il logo del negozio che finisce anche su slipmat, t-shirt, giubbotti k-way, toppe per jeans, portachiavi ed ovviamente adesivi

Quali furono i tre bestseller?
Ho già menzionato qualche risposta sopra quelli legati alla musica leggera. Per quanto concerne la dance invece cito “The Glow Of Love” dei Change, un LP del 1980 che inizialmente arrivò d’importazione su Warner Bros./RFC Records sebbene il gruppo fosse italiano per metà, prodotto da Jacques Fred Petrus e Mauro Malavasi. Era un disco conosciuto quasi esclusivamente dai DJ ma ogni volta che mostravo le novità ai clienti “normali” proponevo questo album composto da sei brani, uno più bello dell’altro, convincendoli ad acquistarlo. Poi, col passare dei mesi, grazie alla programmazione radiofonica e la pubblicazione italiana, su Goody Music Records, il disco divenne un vero successo, con ben quattro singoli estratti confermando in pieno le mie previsioni. Un altro successo fu “Dance Hall Days” dei Wang Chung, uscito alla fine del 1983: appena lo sentii passare in radio ne ordinai cento copie, cosa che non avevo mai fatto prima di allora ma i fatti poi mi hanno dato ragione. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, è il 12″ di debutto dei Daft Punk, “The New Wave”, uscito nel 1994 sulla scozzese Soma. Della stampa import arrivarono pochissime copie ma ogni volta che riuscivo a trovarne una la prendevo e la vendevo subito a quei DJ che iniziavano ad inserire nei propri programmi house più elettronica. A forza di richieste (anche mie!), dopo qualche mese la Flying Records decise di licenziarlo e pubblicarlo in Italia su UMM, e qui scatta l’aneddoto: in qualità di negozio, ricevevo il “servizio novità” dalla Flying Records che consisteva nell’invio di una copia di tutto quello che sarebbe uscito nel corso del mese successivo, un servizio che l’etichetta/distributore di Napoli destinava anche alle radio e ai DJ famosi. Una sera, al Due di Cigliano, c’era ospite Fargetta. Appena finì il suo set, io e Sergio (Datta) iniziammo con “Alive”, incisa sul lato b di “The New Wave”. A quel punto Fargetta tornò in consolle per chiederci il titolo del disco e glielo rivelai senza problemi, aggiungendo che fosse una delle novità appena giunte dalla Flying Records. Pochi giorni dopo “Alive” aprì una puntata del DeeJay Time.

C’erano DJ noti a frequentare Disco International? Ad essi erano riservati trattamenti particolari?
Da Disco International passavano tutti i DJ della zona, assai ampia poiché non si limitava ad Ivrea e al Canavese ma abbracciava anche il Biellese, la cintura torinese e la Valle D’Aosta. Tra i tanti c’era Gigi D’Agostino col quale, in quel periodo, divisi la consolle dell’Ultimo Impero, del Due e del Palladio e col quale diedi vita al progetto discografico Voyager (di cui parliamo qui, nda), insieme all’amico comune Sergio Datta. Non abbiamo mai riservato trattamenti particolari a nessuno ma quando arrivavano poche copie di un titolo importante poteva esserci una preferenza nei confronti di chi comprava di più o lavorava in un locale importante.

Quale fu la richiesta più stramba o particolare avanzata da un cliente?
Le assurdità erano all’ordine del giorno, soprattutto quelle legate a titoli ed autori sbagliati. A volte bisognava mettercela davvero tutta per interpretare ciò che la gente chiedeva al bancone, e in tal senso direi che il primato se lo giocano “il nuovo 45 giri di Sabrina Palermo” (Sabrina Salerno) e “il disco di Rondissone Veneziano” (Rondò Veneziano). Rondissone, per giunta, è un paesino non distante da Ivrea.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
Tante, forse troppe. Non è possibile stabilire una media perché molto dipendeva dal periodo di uscita, tipo quei dischi che miravano a diventare strenne natalizie, quelli pubblicati in primavera, quando tutti volevano essere i depositari del pezzo dell’estate, o quelli che arrivavano sugli scaffali a settembre, un altro periodo decisivo dell’anno perché c’era tanta voglia di musica nuova dopo almeno un mese di stasi quasi completa.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare? Ti fidavi dei consigli e suggerimenti dei distributori?
Mi fidavo dei distributori ma fino ad un certo punto, era il mio “fiuto” a determinare gli acquisti, e devo ammettere che spesso ho avuto ragione.

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Un portachiavi a forma di disco in vinile marchiato Disco International

Quanto pesava sul rendimento di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ particolarmente “di grido”?
Nei primi anni Ottanta non c’erano ancora i network bensì affermate realtà radiofoniche locali e, a seconda della zona, un disco spinto dalle emittenti private e dai DJ locali più conosciuti poteva sicuramente ottenere riscontri migliori rispetto ad altri. Con la nascita dei network e col carisma di alcuni speaker, Albertino su tutti, il mercato prese un’altra piega e lo ho potuto constatare in prima persona, vedendo crescere sensibilmente le vendite e la popolarità delle mie produzioni nel momento in cui venivano trasmesse dalle radio che coprivano l’intero Paese o selezionate dai DJ importanti.

È capitato di vendere tante copie di un disco proprio in virtù dell’appoggio pubblicitario a cui si faceva riferimento?
Sì, assolutamente. Il caso più eclatante è quello di “Blue (Da Ba Dee)” degli Eiffel 65: rimase sugli scaffali per mesi nella più completa indifferenza, poi, all’improvviso, dopo il passaggio in una nota radio, iniziò a vendere con risultati ormai noti a tutti.

Quale invece quello che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più ma che rimase confinato all’anonimato o quasi?
“A Caus’ Des Garçons” dell’omonimo duo francese, uscito nel 1987. All’epoca lavoravo in una discoteca in Valle D’Aosta e lì, grazie alla propensione verso la musica transalpina, riuscii a metterlo in un certo periodo, ma per il resto fu praticamente ignorato.

Spesso i negozi di dischi erano pure la culla di produzioni discografiche o il crocevia di persone che bazzicavano gli studi di registrazione. La tua attività discografica, iniziata nei primi anni Ottanta, ha mai conosciuto un rapporto stretto col Disco International oppure sono sempre rimaste due attività indipendenti l’una dall’altra?
Disco International mi ha permesso di conoscere persone e colleghi, e le idee per i vari progetti discografici che si sono succeduti nel corso del tempo sono quasi sempre partite da lì. Il mio disco di debutto ad esempio fu firmato 4 M International ed era una chiara citazione del nome del negozio.

4 M International - Space Operator
“Space Operator”, primo ed unico disco che Maurizio De Stefani e Maurizio DiMaggio realizzano come 4 M International nel 1982

Il disco a cui ti riferisci è “Space Operator” di 4 M International, progetto del 1982 che ti vide in coppia con Maurizio DiMaggio e che venne spalleggiato dalla Good Vibes. Diventato un piccolo cult dell’italo disco della prima ora, è stato ristampato a più riprese negli ultimi anni. Puoi raccontare le fasi della produzione di quel disco?
Nei primi mesi del 1982 ero a casa seduto davanti ad una tastiera per strimpellare note, memore delle lezioni di pianoforte che presi per quattro anni da ragazzino. Un giorno buttai giù quello che poi divenne il motivo principale di “Space Operator” ma mancava un efficace giro di basso per renderlo dance. In quell’istante mi venne in mente il disegno di basso di “Nice ‘N’ Nasty” della Salsoul Orchestra, provai a risuonarlo e calzava a pennello. Ne parlai quindi con Maurizio DiMaggio a cui ero legato da un bel rapporto di amicizia e lavoro. L’idea gli piacque e scrisse un testo che divenne il “rap spaziale” del brano. Mancava la parte ritmica che prendemmo da “Drums Power”, una traccia completamente strumentale incisa sul lato b della cover di “Long Train Runnin'” dei Doobie Brothers ad opera dei Traks ma ai tempi era ancora un disco senza etichetta. Approntammo prima proprio la parte strumentale, poi in altri due passaggi suonai il motivo solista e il basso. Infine DiMaggio completò il tutto col rap. Insomma, in appena due ore, in uno studio torinese, “Space Operator” era completato. A quel punto pensammo al nome dell’artista e visto che ad accomunarci era sia lo stesso nome che un cognome “d’arte”, i Maurizio divennero quattro. Alla sigla, come anticipavo prima, aggiungemmo International per omaggiare il negozio Disco International. Contentissimi di ciò che avevamo fatto, ci mettemmo subito all’opera per farlo uscire. DiMaggio, che collaborava con la Full Time Records, lo propose a Franco Donato che gestiva la sede milanese dell’etichetta (nel quartier generale di Roma c’era invece il fratello Claudio). Decise di pubblicarlo ma pochi giorni dopo aver chiuso l’accordo, con assoluto tempismo, nei negozi arrivò la versione ufficiale del disco dei Traks su Best Record, con tanto di crediti dei produttori di “Drums Power”, i fratelli Pietro e Paolo Micioni. Senza farci prendere dallo sconforto, contattammo gli autori, due mostri sacri della dance di quel momento, e gli facemmo sentire il nostro pezzo. Gli piacque e ci diedero l’autorizzazione per farlo uscire, a patto che lo avessero firmato come autori in SIAE e citando sull’etichetta la provenienza (“based on Traks”). A noi venne comunque data la possibilità di riportare i nostri nomi. “Space Operator” uscì a dicembre, nonostante fosse stato pianificato per settembre, ma in Italia faticò a carburare. Diverso il responso in altre parti del mondo dove venne accolto con assoluto piacere e fu oggetto di entusiastiche recensioni su riviste specializzate in musica dance. Tempo dopo giunsero richieste addirittura dal Giappone e ci accorgemmo di far parte anche noi dell’italo disco. Il resto è storia recente. Con l’avvento dei supporti digitali, è stato messo in circolazione in formato liquido nel 2009 a cui sono seguite ristampe su vinile nel 2014 e nel 2018 con un’efficace rimasterizzazione. L’ultima edizione è del 2021 su etichetta Mr. Disc Organization, impreziosita da un nuovo remix di Donato Dozzy. Siamo entrati nelle classifiche di mezza Europa, sia quelle legate alla vendita dei dischi fisici che quelle di download e streaming, e come ciliegina sulla torta la versione originale è stata inclusa nel volume 27 della prestigiosa compilation “I Love ZYX Italo Disco Collection” edita dalla tedesca ZYX.

Nel 1983 produci la cover di “Copacabana” di Barry Manilow per il progetto Rio seguita l’anno dopo da “Poppa Joe” di Acapulco, anche questa una cover dell’omonimo degli Sweet. La tua non sembrò però un’attività discografica studiata a tavolino bensì una breve parentesi all’interno di quel mondo in cui i DJ iniziarono ad avventurarsi grazie alla maggiore accessibilità economica delle strumentazioni. Furono gli anni Novanta infatti a conoscere in modo preponderante la tua vena creativa attraverso molteplici progetti condivisi con l’amico e collega Sergio Datta come Niño Nero, Voyager, Wendy Garcia, Orkestra, Modello 2, G.S.M. e Divine Dance Experience, giusto per citarne alcuni. Quali furono, a prescindere ovviamente dall’incanalamento stilistico, le sostanziali differenze relative all’approccio alla produzione discografica dei due decenni? In termini economici, credi che gli anni Novanta, soprattutto gli ultimi, stessero già accendendo dei campanelli d’allarme sulla crisi che avrebbe interessato da lì a breve il mercato fonografico?
A dire la verità quella cover di “Copacabana”, uscita peraltro su un’etichetta distribuita dalla Full Time, la Spice 7, non la produssi io. Non ho mai capito se quel Maurizio De Stefani citato sul centrino fosse un’altra persona o se per qualche motivo a me sconosciuto misero il mio nome poiché ero sotto contratto con loro. La cover di “Poppa Joe” invece la volli fortemente perché avevo sentito quel brano l’anno prima al Bandiera Gialla: vedendo la reazione positiva della pista, pensai di farne una nuova versione, uscita su Carrere, quella che nello stesso anno pubblicò “Self Control” di Raf. In realtà, come giustamente affermi, ai tempi la mia non era una vera e propria attività discografica a differenza di quanto avvenne negli anni Novanta, quando la vena creativa mi portò grandi soddisfazioni con tante produzioni condivise con Sergio Datta, amico da sempre e da più di trent’anni collega in consolle. Le produzioni relative agli anni Ottanta, pochine se confrontate con le successive, furono fini a sé stesse. Negli anni Novanta invece, quando la musica “da ballo” divenne quella della cassa in quattro, fu abbastanza semplice per i DJ diventare produttori, ma sempre affiancati dai musicisti. Noi, ad esempio, avevamo ed abbiamo ancora dalla nostra parte Michele Generale che, da ottimo musicista jazz, trasformammo in produttore dance di successo. Dopo l’esordio con “Asi Me Gusta A Mi (Esta Si Esta No)” di Niño Nero, nel 1991, abbiamo proseguito dando una certa cadenza alle uscite in modo da essere presenti continuamente sul mercato creando nel contempo più progetti dai nomi differenti per evitare di inflazionarci e di confrontarci anche in diversi ambiti stilistici. La crisi economica del mercato iniziò a farsi sentire verso la fine degli anni Novanta, con l’avvento dei masterizzatori e i CDJ nelle discoteche: era economicamente appetibile scegliere un CD masterizzato con una ventina di tracce scaricate gratuitamente da internet piuttosto che comprare venti dischi nuovi.

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare in modo sensibile vendite e fatturato?
Nei primi anni Duemila: oltre ai masterizzatori e i primi sistemi per scaricare musica gratuitamente dalla Rete, il cambio tra lira ed euro aggiunse ulteriori difficoltà ad un comparto in crisi da qualche tempo.

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Uno slipmat “griffato” Disco International

Furono dunque le nuove tecnologie ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Sì, certamente. Ormai i nuovi DJ lavorano quasi esclusivamente con computer portatili e controller ed io stesso adopero le chiavette USB, per comodità ma pure perché la maggior parte delle nuove uscite è disponibile solo in formato digitale. Ovviamente quando si presenta la giusta occasione non esito ad assemblare un bel set solo con dischi in vinile.

Quando chiude Disco International?
Nel 2003 ci trasferimmo in una nuova locazione nelle vicinanze della prima ma nel 2004 decidemmo, a malincuore, di vendere il negozio che chiuse qualche anno dopo. Per noi, che l’avevamo aperto nel 1979 con l’entusiasmo di chi ama a dismisura la musica “reale”, stava sparendo quella magia che solo un disco in vinile poteva dare. La decisione fu assai sofferta, venne meno un pezzo di vita che amavo. Tuttavia quando manca l’ebbrezza e fai un lavoro a contatto con la gente, rischi di trasmettere quel senso di demoralizzazione anche ai clienti, e questa cosa vale anche per chi fa il DJ.

Riusciresti ad indicare, in termini economici, l’annata più fortunata?
Non ricordo nel dettaglio ma il periodo più bello e proficuo fu quello compreso tra la metà degli anni Ottanta e la seconda parte degli anni Novanta.

Pensi che in futuro ci potrà essere ancora spazio per i negozi di dischi?
In Italia la vedo dura. C’è un parziale “ritorno” del vinile ma mi pare più un oggetto di nicchia che di consumo, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi come in Francia ad esempio. L’anno scorso sono stato nello storico negozio Fnac a Parigi, sugli Champs-Élysées, che fino a qualche tempo fa trattava migliaia di CD di ogni genere. Adesso tutto quel materiale è relegato ad un angolino, il resto dello spazio è occupato da valanghe di LP, nuovi, originali, ristampe…

Cosa c’è adesso al posto del Disco International?
Nella prima sede uno studio dove fanno tatuaggi, nella seconda invece un centro estetico.

Qual è la prima cosa che ti viene in mente ripensando al negozio?
Il profumo delle copertine dei dischi nuovi appena arrivati mentre aprivo gli scatoloni.

(Giosuè Impellizzeri)

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Voyager – Hypnotribe (Discomagic Records)

Voyager - HypnotribeLe carriere di numerosi personaggi legati agli anni Novanta iniziano già nel decennio precedente, quando in Italia la musica dance è praticamente tutta ascrivibile ad un unico genere, l’italodisco. Il discorso vale anche per Sergio Datta, DJ dal 1981 ed artista discografico dal 1984, anno in cui debutta con “You Must Dance” di System Band, a cui l’anno dopo segue “El Gringo” di Anticamera. «Quando “You Must Dance” venne pubblicato in Italia dalla Babalú Records il nome era S.S. Band, la doppia S stava per Sandro e Sergio, ma i nostri discografici sostennero che qualcuno avrebbe potuto equivocare attribuendo ad esso un significato nazista e quindi ostacolare le vendite (migliaia di copie ai tempi). Così, quando il disco fu ripubblicato all’estero, optammo per System Band» oggi chiarisce Datta.

«Sia S.S. Band che Anticamera nacquero da idee mie e di Sandro Pitzalis, col contributo di un musicista, Maurizio Leone, che tra l’altro venne immortalato con noi su entrambe le copertine, e di Stefano Roletti, il nostro tecnico e factotum, che non figurava nell’artistico ma che era a tutti gli effetti il quarto componente di S.S. Band ed Anticamera, anche sul piano finanziario. Inoltre nella pubblicazione di S.S. Band furono coinvolti pure Mario Bernardi, fonico dello studio A dei G7 Recordings Studios di Torino, e Gualtiero Gatto, proprietario di quegli studi nonché editore del brano. In Anticamera invece presero parte diverse ragazze immagine. Il mio approdo alla discografia fu una naturale evoluzione all’attività del DJ, nonostante le difficoltà e i rilevanti costi che la tecnologia di allora imponeva, tra affitto degli studi di registrazione, fonici, turnisti, nastri, trasferte ed altro. Dai primi anni Novanta in poi, con la rivoluzione digitale, tutto divenne più semplice e soprattutto economico».

Dopo qualche anno di pausa, Datta si riaffaccia quindi sul mercato discografico attraverso nuovi progetti come Niño Nero ed Orkestra ma soprattutto Voyager, del 1993, connesso alla progressive trance. «Facevo già coppia in studio con Maurizio De Stefani ed attraverso Voyager ampliammo la collaborazione facendo entrare un nuovo elemento nel team, Gigi D’Agostino, conosciuto qualche mese prima in occasione del remix di una nostra produzione, “Sexo Sexo” di Wendy Garcia. A Gigi, che all’epoca era un promettente DJ con cui condividevamo la consolle del Due di Cigliano ed instaurammo un rapporto di amicizia anche al di fuori dell’attività in discoteca, piaceva molto la versione originale, quella che ebbe parecchio successo nel Regno Unito e che rimase per diversi mesi nella classifica di Italia Network, subito dietro a “Yerba Del Diablo” dei Datura. Ci chiese di poter fare un remix ed accettammo. La sua versione, firmata Noisemaker, finì su PLM Records insieme a quelle di Mr. Marvin e di Le.B alias Lello B., oltre ad una nostra rivisitazione. Per Gigi e Lello fu l’esordio discografico. Successivamente creammo Voyager che gravitava intorno a quattro presenze. Oltre a me, Maurizio e Gigi c’era anche Michele Generale, musicista e proprietario del Mik Studio, a San Giorgio Canavese, dove videro luce tutte le nostre produzioni uscite dal 1991 al 2002. Non ricordo esattamente le ragioni che ci spinsero ad optare per Voyager ma credo che ad ispirarci fu la passione comune per la fantascienza. In studio Michele metteva in pratica ciò che noi DJ cercavamo di trasmettergli. Certo, era un po’ una “lotta” perché la formazione musicale di un DJ è radicalmente differente da quella di un musicista, ma comunque il nostro era un vero lavoro di team, a partire dalla scelta dei campioni da usare sino all’immagine da apporre in copertina. Trascorrevamo giorni interi (e soprattutto notti) sull’elaborazione di un suono, di un loop, di una melodia. Poi talvolta capitava di perdere tutto il lavoro svolto a causa di un black out improvviso (lo studio era in aperta campagna) o di una distrazione per la stanchezza».

Voyager in consolle

I Voyager in consolle al Due di Cigliano (Vercelli) nel 1993: da sinistra Sergio Datta, Gigi D’Agostino e Maurizio De Stefani

Il lato a ospita “Hypnotribe” rivista in due versioni: la Noisemaker Mix realizzata da Gigi D’Agostino punta a soluzioni minimaliste, analoghe a quelle che avrebbe battuto da lì a breve il citato Lello B. ma con totale assenza di melodia, e la Batucante, prevedibilmente connessa a percussioni batucada che l’anno prima sono protagoniste in pezzi di successo come “Give It Up” di The Good Men e “Batucada” di DJ Dero. Il lato b invece, con le due versioni (Extended Mix e Progressive Mix) di “Baseball Furies”, guarda in modo diretto verso la dream progressive che sarebbe scoppiata commercialmente un paio di anni più tardi. Entrambe anticipano quanto D’Agostino promuove su BXR nel biennio 1996-1997 e suonano come prodromi della futura mediterranean progressive. «Volevamo pubblicare un disco che contenesse due idee distinte in linea con le tendenze di allora. “Hypnotribe” era più essenziale e “dritta”, “Baseball Furies” tipicamente progressive. Sul disco i pezzi li firmò solo D’Agostino perché, molto intelligentemente, si era già iscritto alla SIAE contrariamente a noi, ma i pezzi furono creati in modo corale. La cosiddetta “mediterranean progressive” ha radici profondissime a San Giorgio Canavese. Dallo studio di Generale passarono davvero in tanti, da Gianni Parrini a Giacomo Orlando, dal sopracitato Lello B. a Daniele Gas e molti altri. Anche Luca Noise è nato discograficamente al Mik Studio, qualche anno dopo. Gli strumenti che adoperavamo erano essenzialmente una tastiera collegata in MIDI con banchi di suoni, una drum machine Roland TR-808, una Roland Bassline TB-303 ed un campionatore Akai S1000 con cui capitava di “catturare” suoni dall’ambiente reale e poi fonderli nella ritmica. Una volta, ad esempio, usammo il rumore delle forbici come elemento percussivo. Registravamo su nastro multipista e poi realizzavamo il master su DAT. Tempistiche? A volte “partorivamo” la traccia in appena una notte, in altre occorrevano quindici giorni o un mese. Le ispirazioni erano diverse ma non essendo un musicista non era nel mio DNA creare melodie dal nulla. Il DJ, in consolle e in studio, rielabora, trasforma, unisce, taglia, mischia, rivolta e stravolge cose già sentite creando dell’altro, magari inedito. Proprio in questo risiede l’arte del DJ. “Baseball Furies” si intitola così perché contiene un campione vocale femminile tratto dal film “I Guerreri Della Notte” estrapolato dalla versione originale in lingua inglese che si chiamava “The Warriors”. Il frame ritraeva la bocca della speaker radiofonica mentre esclamava “baseball furies dropped the ball, made an error, our friends are on second base and tryin’ to make it all the way home”. Adesso la si può trovare in un secondo su YouTube ma ai tempi non era così facile, ed infatti campionammo la frase da una mia videocassetta originale del film. In quel momento la progressive era molto diversa dalla house classica, dall’acid, dalla new beat, dalla techno, dall’hip house e dall’eurodance tradizionale, rappresentava un movimento avanguardista, una club culture, e la suonavano solo nei locali “di tendenza” e nelle serate “più avanti”. Diede vita a concetti e figure professionali che avrebbero segnato profondamente il mondo delle discoteche da lì in poi. I PR ed art director nacquero proprio con queste serate, le grafiche promozionali iniziarono ad essere sempre più curate ed emersero grandi coreografie con imponenti e spettacolari scenografie. Partirono eventi che riuscivano a muovere migliaia di persone da ogni parte d’Italia, con orari prolungati e line up importanti. Basta guardare qui, qui, qui e qui per farsi un’idea di cosa intendo. Tornando a parlare del disco di Voyager, non ricordo esattamente quante copie vendette ma siamo nell’ordine di qualche migliaio. In assenza di internet potevi ipotizzare qualcosa, relativamente al mercato italiano, in base alle ristampe o ai passaggi radiofonici ma non conoscemmo mai il numero esatto di copie vendute, né dei singoli e né tantomeno delle compilation in cui quei pezzi finirono. Su licenze e vendita all’estero poi il buio più totale. Di buono c’era che al momento della stipula del contratto, Lombardoni pagava sempre un cospicuo acconto». La Discomagic Records ripubblica “Baseball Furies” annoverando alcune nuove versioni tra cui i remix di Gianni Parrini e di Gigi D’Agostino. Marginali variazioni riguardano la copertina. «A realizzarla fu il grafico che lavorava alla Discomagic, a Milano, ma l’immagine fu fornita personalmente da me».

Voyager - City Of Night

La copertina di “City Of Night”, edito da Discomagic nel 1994

Nel 1994, ancora sull’etichetta guidata dal compianto Severo Lombardoni, i Voyager pubblicano un nuovo 12″, “City Of Night”, cover dell’omonimo dei Rational Youth del 1982. «Fu una mia idea quella di riprendere quel pezzo perché, nel periodo “afro” nei primi anni Ottanta, lo suonavo spesso nei miei set». Successivamente il progetto Voyager viene portato avanti dai soli Datta e De Stefani che, tra 1995 e 1996, incidono altri due singoli, per la Metrotraxx e la Subway Records, entrambe etichette appartenenti al cosmo Discomagic. «C’era molto fermento e tante possibilità, si trattava essenzialmente di fare delle scelte. D’Agostino era artisticamente cresciuto, non aveva legami sentimentali ed essendo caratterialmente un “solista” poco incline alle collaborazioni, colse al volo l’opportunità che gli venne proposta ed entrò a far parte della Media Records. Io invece ero sposato, mia moglie era in dolce attesa e conducevo un’altra attività lavorativa di cui mi occupo tuttora. Fare il DJ a tempo pieno avrebbe significato stare lontano da casa e non poter vivere e curare gli affetti personali. Scelsi questi ultimi e in tutta franchezza non me ne sono mai pentito».

Nel 1996, anno di consacrazione mediatica della progressive, Datta, De Stefani e Generale incidono per la UMM il secondo volume di “Save The Planet” di Divine Dance Experience che contiene “To The Rhythm”, oggetto di un buon airplay radiofonico (entra persino nella DeeJay Parade). Per alcuni è un momento intramontabile ma per altri è più tristemente l’inizio della fine perché sancisce la disintegrazione di un movimento nato anni prima nell’oscurità delle discoteche specializzate e poi trascinato in contesti completamente diversi con una conseguente flessione creativa. «Senza dubbio quel periodo rappresentò l’apice del clubbing e dei festival italiani legati alla musica progressive. Il “Save The Planet ’95”, a cui prima facevo riferimento, fu un evento epocale. Poi, come sempre accade, iniziò un lento decadimento del fenomeno che si esaurì del tutto tra 2002 e 2003. Dal ’98 inoltre tornò in voga la house cantata, soprattutto quella americana e francese sulla spinta di Daft Punk, Martin Solveig e Bob Sinclar. Tuttavia, se anche le nuove generazioni continuano a ballare ed apprezzare la musica prodotta negli anni Novanta, significa che facemmo un buon lavoro. Personalmente resto legato a tutti i dischi che ho prodotto, anche perché non ci siamo mai fossilizzati solo su un genere. Con Maurizio De Stefani, tra l’altro, continuo a collaborare ancora oggi, e a noi si è unito il musicista Andrea Demarchi». (Giosuè Impellizzeri)

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