NicoNote: ritrovare l’unicità come valore è ancora una prerogativa dell’underground

Figura artistica piuttosto atipica per la scena nostrana, Nicoletta Magalotti individua nella trasversalità l’habitat in cui muoversi, frequentando i club quanto i teatri, senza alcun pregiudizio. Tra 1984 e 1988 è la voce dei Violet Eves, band nata nell’alveo della new wave, poi si muove lungo coordinate differenti alla ricerca di un’identità costruita pazientemente e con tenacia. Musica, teatro, poesia, avanguardia: NicoNote, nome con cui si ribattezza nel 1996, non pone alcun limite al proprio raggio d’azione e, come si legge nella sua biografia, unisce la dimensione performativa al clubbing, l’improvvisazione radicale al pop, e crea uno stato d’animo, un mondo in cui qualcosa “succede”. In un articolo di qualche tempo fa Christian Zingales ne parla come una “suprema chanteuse tra spleen rivierasco e sirene mitteleuropee”, definizione calzante per descrivere una personalità a tutto tondo come la sua che, attraverso suoni e voci, attraversa plurimi generi e atmosfere mescolando tutto in un linguaggio sonoro più unico che raro.

Da piccola avevi già mostrato inclinazioni per la musica, il teatro e l’arte in genere?
Ero una bambina molto piena di energia, curiosa, bilingue, sognatrice. Vivevo a Rimini nella zona del Grand Hotel, vicina ai dancing più in voga, sentivo le orchestre suonare fino a notte inoltrata. Durante le vacanze estive, che negli anni Settanta duravano sino al primo di ottobre, trascorrevo un paio di mesi in Austria, nella casa di mia nonna. Il gioco che preferivo era inventare personaggi e drammaturgie istantanee. C’era una veranda in stile liberty, con finiture di rame e antichi vetri soffiati, che dava sul giardino, nel retro della casa e sul lungofiume. Quello era il mio regno, lì costruivo scene a canovaccio, personaggi e storie che si evolvevano coinvolgendo nel gioco le mie cugine, amici e amiche, per me era un appuntamento magico. Nello stesso periodo scoprii in soffitta un baule appartenuto alla sorella di mia nonna, danzatrice fantasista che si esibiva nei cabaret e music hall europei negli anni Trenta e Quaranta. Dentro c’erano cappelliere e valigie con timbri di hotel di riviere lontane, da Vienna a Sarajevo passando dal Mar Nero e Salonicco, e i suoi vestiti di seta antica e paillettes con cui ci travestivamo per immergerci meglio nelle nostre avventure. Ero una sorta di regista, dramaturg prima attrice mentre il gruppo una proto compagnia in stile Camp surrealista. A Rimini, fin dalle elementari, studiavo pianoforte: gli esercizi mi annoiavano ma mi piaceva comporre canzoncine. Frequentavo danza classica con ardore ed entusiasmo ma a nove anni un feroce dolore quando la mia insegnante mi disse che dovevo smettere perché troppo cicciottella. Il primo strappo della realtà. Poi l’adolescenza tra body shaming e bullizzazioni, il liceo, l’impegno politico studentesco, la scoperta del teatro di ricerca legato al Festival di Santarcangelo, la scoperta del punk, gli Skiantos, Patti Smith a Bologna, lo Slego psychodancing, i Magazzini Criminali, le prove di “Wielopole, Wielopole” di Kantor a Firenze, sonorità prospettiche, Robert Ashley e Blue Gene Tyranny della Lovely Music, Frigidaire, “La Voce Del Padrone”, “O Superman” di Laurie Anderson, Fassbinder, Wim Wenders, Peter Handke, la mia prima compagnia il TIC Teatroincerca / Macchine Celibi, l’incontro con Akademia Ruchu, poi Yoshi Oida, il Roy Hart Theatre, Leo Toccafondi…

La passione per la musica, lo sport o altre discipline artistiche sbocciata ai tempi dei social network è differente rispetto a quella nata in epoca pre-web? La Rete partorisce artisti “veri” o, come asseriscono alcuni, solo un mare infinito di aspiranti tali?
Non so risponderti. Io sono una boomer per età anagrafica ma non mi permetto di giudicare perché ci sono esperienze che mi interessano, altre meno. Siamo qui, oggi. E dico siamo, al plurale, noi, tante individualità. In generale non sono attratta dalle classificazioni, lascio la loro visione agli analisti degli algoritmi e al marketing. Personalmente, quando qualcosa mi parla, lo riconosco, che arrivi dal web, che sia per strada, in teatro o altrove. Mi piace sorprendermi, la curiosità è fondamentale perché nutre l’intuizione e affina le antenne e io ho sempre attinto dalle mie antenne. Credo che l’essere umano, in quanto tale, sia sempre lo stesso di cento anni fa, con emozioni, paure, sofferenze, gioie. Il corpo, gli organi e il loro funzionamento restano i medesimi. Noi crediamo di essere presenze diverse ma i nostri organismi, in realtà, sono esattamente uguali a quelli dei nostri avi. A cambiare è il pensiero, lo sviluppo cognitivo e della percezione ma su una base di umanità, di caducità del nostro essere. La passione per l’arte e la creazione arriva sempre dal profondo.

1) Violet Eves
I Violet Eves in una vecchia foto

Nel 1984 incontri i Violet Eves e l’anno successivo debuttate con “Listen Over The Ocean” su Anemic Music. Come nacque la collaborazione con la band?
Nel 1984, poco prima dell’estate, entrai in contatto con vari musicisti della scena in Riviera. Avevo ventuno anni e dopo il liceo mi iscrissi alla facoltà di filosofia a Urbino ma invece di studiare per gli esami mi muovevo tra frequentazioni di Slego, Aleph e gruppi di proto raver tipo Sguinc Way. Come accennavo prima, ero stata attratta dalla scena teatrale che in Romagna aveva come epicentro il Festival di Santarcangelo, e fin dai tempi delle scuole mi ero lasciata coinvolgere da gruppi teatrali e workshop di teatro di ricerca che mi fecero scoprire la mia voce. Durante l’estate di quell’anno andavo agitando visioni nella nightclubbing che si stava creando inventandomi come performer e art director, dal Lady Godiva all’Insomnia Cattolica passando per Le Navi e il Lily Marlene di Misano Adriatico. Facevo tutto senza strutturarmi, semplicemente seguendo a mia creatività. In questo quadro partecipai ad alcune session musicali in maniera informale col compositore Giorgio Fabbri Casadei (apparso come chitarrista in “Fire Night Dance” di Peter Jacques Band, nda), già fondatore dei Rimini Beach Party e poi in gruppi come Ella Guru e Trio Magneto, il primo musicista col quale abbia cantato in vita mia. Successivamente, proprio con Giorgio e Leonardo Militi, formammo un nucleo sonoro dal nome temporaneo Merrie And The Melodies, ma era tutto molto basico e senza definizione. Tenni altre session con vari musicisti tra cui Gabriele Tommasini dei Violet Eves, una band di cui avevo sentito parlare ma che non conoscevo, e un amico che era in vacanza a Rimini, Decio Guardigli detto Groghi, coi quali incidemmo su cassetta “1/100”, un brano sospeso tra elettronica e ambient psichedelico. Per l’occasione creammo una proto band chiamata My Favourite Lie. Nel frattempo i Violet Eves, il gruppo in cui suonavano Gabriele e Leonardo, stavano rivedendo la propria lineup in cerca di nuove sinergie. Io, come dicevo, non li conoscevo ma ero incuriosita e mi invitarono a fare delle session insieme al batterista Franco Caforio e il chitarrista Renzo Serafini, anche lui lì per la prima volta. Era l’ottobre 1984 e quelle sessioni davano risultati molto concreti ed emozionanti, tra noi c’era un buon feeling e a dicembre completammo un demotape con cinque brani originali, “Listen Over The Ocean”, “F. M. Night”, “Bords De Mer”, “Lifeless Town” e “I Can’t Reach You”, tutti molto particolari e in varie lingue. Poiché non era stato ancora pubblicato nessun disco, decidemmo di continuare a usare il nome Violet Eves, considerando quel momento un nuovo inizio. A trasmettere per la prima volta quei pezzi fu il DJ Thomas Balsamini, in seguito fondatore del Velvet Club, su Radio San Marino, l’emittente della Riviera underground di quegli anni.

A quanto si narra, fu Piero Pelù a passare “Listen Over The Ocean” ad Alberto Pirelli che aveva da poco fondato la sua etichetta, l’IRA (acronimo di Immortal Records Alliance) e che decise di mettervi sotto contratto. Così nel 1985 vi ritrovate nella stessa scuderia dei Diaframma e Litfiba e incidete il primo album, “Incidental Glance”, distribuito da PolyGram. Come ricordi quel periodo?
Tramite Franco Fattori, DJ dello Slego e di Radio San Marino, la nostra demo arrivò nelle mani di Piero Pelù che a dicembre del 1984 si esibì proprio allo Slego coi Litfiba. Piero, a sua volta, fece ascoltare la demo a Pirelli che, intorno alla metà di gennaio del 1985, ci convocò a Firenze, in Via Del Castellaccio, la prima sede dell’IRA Records. Nella primavera 1985 nei negozi di dischi arrivò il nostro disco di debutto, “Listen Over The Ocean”, un EP contenente tre brani, “Listen Over The Ocean” sul lato a, “F. M. Night” e “Bords De Mer” sul b. Lo registrammo a Firenze, presso gli studi della mitica GAS (Global Art Studio) con Daniele Trambusti come ingegnere del suono. Pochi mesi dopo, a luglio, suonammo alla Rokkoteca Brighton a Settignano, grande emozione. Grande grande. Tutto quel momento è stato magico e irripetibile, spontaneità assoluta e tutta l’energia dei vent’anni, genialità della giovinezza ancora non mediata da mentalità di marketing. Fummo molto apprezzati, anche dalla stampa specializzata, e io parecchio elogiata, forse perché ero l’unica (o quasi) donna della scena underground. Per me fu un tratto distintivo alquanto forte nonché un’esperienza toccante. Si stava creando tutto in quegli anni, dai rock club ai festival. In estate registrammo “Incidental Glance” che uscì nell’inverno seguente. Suonammo moltissimo, anche all’estero tra Francia, Svizzera, Austria e Grecia: al Festival Biennale dei Giovani del Mediterraneo, alle Trans Musicales di Rennes, a Le Printemps di Burges e a Parigi. In particolar modo rammento il concerto a Les Bains Douches proprio nella capitale francese, nell’inverno 1985, un locale mitico in cui si esibirono qualche anno prima i Joy Division (tra l’altro registrando un live pubblicato ufficialmente molto tempo dopo). Il nostro suono nasceva sul crocevia tra new wave, dream pop e indie, fu un’esperienza decisamente interessante, un momento nuovo, l’inizio di una scena e per questo sono felice e orgogliosa di esserne parte.

“Incidental Glance” venne pubblicato anche in Giappone: ciò si tradusse in qualche sinergia o iniziativa con l’estremo oriente?
No, nulla. Fu una bella pubblicazione con grafica spaziale ma niente di più, seppur per noi una notizia sorprendente e in qualche modo gratificante.

2) I due album dei Violet Eves
Le copertine dei due album dei Violet Eves

Per incidere un secondo LP impiegate tre anni, arco di tempo impensabile per le dinamiche della discografia odierna. “Promenade” arriva dunque nel 1988 e la prima cosa che salta all’orecchio sono i testi in lingua italiana. Era una scelta dettata dal desiderio di abbracciare e conquistare un pubblico più trasversale e magari accattivarsi le simpatie delle emittenti radiofoniche?
Una scelta non scelta è sempre una scelta. In parte fu un desiderio artistico, in parte un po’ la spinta delle circostanze. Scrivevo già in inglese, francese e tedesco e mi parve giusto provare anche l’italiano, cercando una forma canzone che mi corrispondesse nella nostra lingua. Poi, dettaglio non certamente marginale, incidevamo per un’etichetta che aveva adottato come slogan “la nuova musica italiana cantata in italiano”. La scelta dell’italiano da un lato ci fece progredire, dall’altro ha segnato uno spartiacque nella produzione creativa. A produrre il disco fu Roberto Colombo che portò molta consapevolezza alla band, sia in fatto di organizzazione e struttura del lavoro artistico, sia in direzione di un nuovo approccio al lavoro. Registrammo “Promenade” in inglese e in italiano ma alla fine optammo per quest’ultima versione. Ricordo un impegno molto forte nella scrittura dei testi, inizialmente in inglese insieme a Anthony Charles Dewhurst, già collaboratore dei Baciamibartali. Poi tradussi tutto in italiano, con l’aiuto del paroliere Elio Aldrighetti detto Broz durante l’estate del 1987, in un torrido luglio segnato dai viaggi in treno Milano-Lambrate, senza telefoni cellulari per comunicare ritardi o cambi di bar dove incontrarsi, davvero un’altra dimensione. L’album prese vita attraverso numerose e intense fasi di pre-produzione e arrangiamento che misero la band di fronte a scelte sonore molto definite che, contestualmente all’adozione della lingua italiana, crearono uno squilibrio, un gap, tra il nostro grado di adesione alla musica italiana e l’approccio all’uso dell’italiano e alla composizione. “Promenade” uscì anche in Francia, prodotto del citato Colombo e con due ospiti preziosi quali Patrizio Fariselli e Mauro Pagani. Da quel momento in poi avremmo dovuto spingere forte e tenere duro anche senza certezze ma non riuscimmo a cementare la collaborazione. Comunque è bizzarro che proprio “Promenade” verrà ristampato a breve dalla veronese Saifam, etichetta che si occupa di ristampe d’autore, con la supervisione di Roberto Mancinelli, nostro fan da sempre e grande professionista nel settore musicale.

Sempre nel 1988, insieme ai Litfiba e ai Moda, i Violet Eves prendono parte a un tour che tocca anche il Tursport di Taranto, un posto che ha visto transitare band del calibro di Bauhaus, Simple Minds, Ultravox, Siouxsie & The Banshees, Cult, Style Council e New Order. A proposito di questi ultimi, Giuseppe Basile e Marcello Nitti scrivono in “’80, New Sound, New Wave”, che “The Beach”, incisa sul retro dell’arcinota “Blue Monday”, fu ispirata proprio da una spiaggia tarantina, il più bel ricordo della loro prima tournée italiana risalente al 1982. Ricordi qualcosa di quel luogo e del pubblico?
In quegli anni a Taranto c’era un scena molto forte dell’underground italiano, lì ci sentimmo amati e ricordo un Tursport gremito all’inverosimile. Aprimmo quel concerto così importante con un’intro strumentale, “Cartolina A Nicole”, per poi proseguire con “Big Goodbyes”, un brano lentissimo, una ballad proto trip hop, molto magica, quasi surreale direi. La serata si protrasse in festa con tutti i musicisti delle band e gli amici tarantini. Sebbene abbia dei ricordi nitidi, parliamo di un’epoca davvero lontana, un altro secolo… Sono tornata a Taranto recentemente, invitata a suonare proprio dai ragazzi che organizzarono il concerto dei Violet Eves allora, e ho ritrovato una bella situazione, molto emozionante.

Prima di sciogliervi però, coi citati Litfiba e Moda realizzate “Padam Padam”, cover dell’omonimo di Edith Piaf.
Per promuovere la tournée francese dei Litfiba coi Violet Eves in apertura, in programma tra febbraio e marzo 1989, nacque l’idea di un disco promozionale destinato espressamente al mercato francese, la cui realizzazione fu coordinata da Claude Guyot, co-fondatrice della IRA di base a Parigi. Fondamentalmente era un disco promo in edizione limitata, con la cover della Piaf sul lato a, rielaborata e cantata a tre voci da me, Piero Pelù e Andrea Chimenti, con arrangiamenti di Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo. Tutti e tre insieme, Andrea Chimenti, io e Piero Pelù, la cantammo dal vivo una volta sola, a Parigi nella serata IRA a La Cigale, nell’ottobre 1988. A fine concerto in chiusura “Padam Padam” tutte e tre le band insieme sul palco. Il teatro era stracolmo e sembrava dovessero venire giù i lampadari. La gente era strafelice. Grande emozione. La tournée in Francia del 1989 la affrontai da sola poiché la band era splittata proprio alla fine del 1988, proponendomi in versione unplugged voce e piano con Mauro Sabbione alle tastiere, aprendo tutti i concerti dei Litfiba, l’ultimo tour della formazione originaria con Maroccolo e Ringo e Giorgio Canali come fonico. Nei bis finali Piero mi chiamava sul palco e cantavamo “Padam Padam” come long suite a chiusura di serata. Tempi lontanissimi. Inabissati.

3) Nico lp
L’artwork del primo album da solista che Nicoletta Magalotti incide per la EMI nel 1992

La fine dell’avventura coi Violet Eves non ferma la tua vocazione artistica: nel 1989 presti la voce a una rivisitazione di “Estrellita” dei Panoramics, finita nell’album “Bugie Colorate” e poi remixata in chiave ballabile dai 3/5 dei futuri Planet Funk per la Flying Records, nel 1990 reinterpreti “Alba Chiara” di Vasco Rossi per una compilation della CGD, nel 1991 partecipi alla colonna sonora del film “L’Amico Arabo” di Carmine Fornari. Nel 1992 i tempi sono maturi per il tuo primo LP da solista, “Nicoletta Magalotti: Nico”, prodotto ancora da Pirelli, edito dalla EMI e contenente collaborazioni con Ghigo Renzulli (“Terra Elettrica”) e Teresa De Sio (“Amore Da Vendere”). Cosa voleva dire, ai tempi, avere il supporto di una multinazionale? Te lo chiedo perché, in un’intervista di qualche tempo fa, dichiarasti di essere «rimasta profondamente bruciata dal sistema».
Sì è vero, “Estrelllita”… beh ai tempi l’ho fatto mossa da amicizia. Mi sembrava un bel brano! Eh sì, il primo periodo dopo lo lo scioglimento dei Violet Eves… uno dei più neri del mio percorso. Ho imparato tanto. In quel preciso momento anche le etichette indipendenti, compresa la IRA, si stavano muovendo verso le major e io sono capitata in mezzo a un ingranaggio che non mi corrispondeva, con problematiche legate sia alla produzione musicale in senso stretto (non piaceva ciò che componevo), sia al body shaming, parecchio aggressivo e radicato nel settore. Così, dopo alcune fatiche discografiche, mi sono ritrovata senza contratto, senza un nuovo progetto chiaro. Bruciata. Ed è in questa fase che la mia strada incontra da un lato la collaborazione con il teatro della Societas Raffaello Sanzio per il progetto “Orestea (Una Commedia Organica?)” e, in parallelo, la collaborazione con il Cocoricò dove ho potuto creare ed elaborare un personalissimo percorso artistico parallelo, nella “sparizione”, abbracciando una dimensione laterale sotterranea, per giungere dove sono adesso.

Nel 1994 parte l’avventura del Morphine, «un piccolo spazio slegato dalla necessità di far ballare e, di conseguenza, fondato sulla frequentazione prevalente di gente del tutto diversa rispetto a quella delle due sale principali del Cocoricò» come descriveva qualche anno fa David “Love” Calò in questa intervista. Un eremo scollegato quindi dal classico concetto di discoteca, la bambola più piccola di un’ideale matrioska rappresentata dal tempio del divertimentificio di Viale Chieti. Come e cosa ricordi di quel posto e come lo descriveresti a coloro che non hanno mai messo piede?
Un gesto plastico tutta la notte. Un po’ underground cave anni Ottanta, un po’ Twin Peaks e un po’ factory di Andy Warhol, passato e futuro mescolati, glamour e rock n roll. Un posto da creare e ricreare ogni volta. Nascosta dal mondo, esistendo, creando uno spazio in movimento, dove ho sperimentato suono e voce, visioni, senza necessità di riflettori. Ricordo anche molto lavoro fatto di giorno per allestire il dispositivo “scenico” da condividere la sera con passanti passeggeri.

4) Nico e David
Nicoletta Magalotti e David “Love” Calò ai tempi del Morphine

Dal Morphine sono passati personaggi di multipla estrazione artistica, da Roberto Cacciapaglia a Manlio Sgalambro, da Arto Lindsay a Enrico Ghezzi, da Piero Pelù a Faust’O passando per Blaine Reininger dei Tuxedomoon, Barbara Alberti, Howie B e Aphex Twin. Ritieni che oggi ci siano ancora gli estremi per ricreare quel concept oppure il luogo legato al disimpegno, come la discoteca e nella fattispecie il Cocoricò stesso, è finito con l’essere cannibalizzato dalla globalizzazione e dal generalismo meno illuminato?
Mi fa piacere che il Morphine venga ricordato e riconosciuto come un luogo speciale, personalmente lo considero un’estensione della mia produzione artistica, una sorta di opera in divenire. Per me fu parecchio faticoso lavorare alla programmazione e ciò che descrivi in queste righe fu particolarmente arduo crearlo in quegli anni, non era affatto scontato come si potrebbe credere. Poi, nel tempo, ha assunto forza, diventando un punto di riferimento. Ricordo le varie telefonate per invitare gli ospiti, non era semplice rintracciare i contatti come del resto non era impresa facile portare in un locale notturno artisti che solitamente si esibivano nei teatri o in luoghi deputati. Rammento con affetto la prima volta che chiamai Manlio Sgalambro, la telefonata a Laura Betti e a Roberto Cacciapaglia o, ancora, la conversazione con la Materiali Sonori per organizzare la mitica serata con Roger Eno o la telefonata con Mister Cohen a New York, manager di Arto Lindsay… poi Mixmaster Morris e altri ancora. Se da un lato fu complesso mettere insieme una programmazione di quel tipo, dall’altro fu altrettanto difficile convincere l’azienda. Ciò che oggi viene narrato come frutto di un tempo più aperto al nuovo fu creato grazie a grande determinazione, abnegazione e dedizione al fare con immenso lavorio dietro le quinte, a tutti i livelli. Concordo con quanto affermi, purtroppo oggi tutto è stato cannibalizzato e sminuito ma ciò vale non solo per l’ambiente discoteca. Le esperienze e le creazioni interessanti sono fatte dalle persone e dalle circostanze, talvolta del tutto casuali. Sinergie che accadono e quindi possono ripetersi nuovamente in futuro. Perciò sono e resto fiduciosa.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente pensando al Morphine o che pensi siano i più appropriati per descrivere quel luogo?
Credo che ognuno abbia il suo “film” con la soundtrack originale, ed è davvero impossibile restringere a soli tre brani il sound del Morphine. Ho parecchie ore di volo con la musica di David “Love” Calò nonché una traiettoria di ascolti e sguardo esperienziale molto personale. Quindi, per rispondere alla domanda, cito i primi tre che mi vengono in mente:
“Kiss Me” dei Don Air, dall’album “Carpenter’s Delight” del 1999, che utilizzo ancora nei miei set come citazione sonica e ironica di un tempo cristallizzato;
“The Needle And The Damage Done” di Neil Young, tratto da “Harvest” del 1972, un album di un altro tempo e senza tempo. Un brano che David “Love” Calò ha passato forse una sola volta in tutta la storia del Morphine. Ricorderò sempre la sua faccia mentre poggiò sopra la puntina dopo una serie di pezzi di ambient cosmica e psichedelica. Mi guardò e disse, con caustica ironia: «il danno è fatto!»;
“Cavern” dei Liquid Liquid, dall’EP “Optimo” del 1983, con quel basso così trascinante. Un brano che ho ascoltato a ripetizione durante la mia esperienza clubbing che unisce le prime serate all’Aleph nei primi anni Ottanta con le notti al Morphine e che, a distanza ormai di quarant’anni, conserva immutato un forte appeal.

5) Al Morphine nel 2006
NicoNote al Morphine nel 2006

Per decenni il Duemila è stato designato dalla narrativa letteraria, dai fumetti e dal cinema, come la porta che avrebbe spalancato il futuro all’umanità. Per certi versi così è stato, se si pensa ad esempio alla massificazione del web, alla diffusione capillare degli smartphone o allo sviluppo dell’e-commerce, tuttavia in alcuni ambiti, come quello della musica, il futuro è progressivamente sparito lasciando spazio a un numero indefinito di surrogati derivativi e un mare magnum di ripescaggi. Il passato ha preso il posto del futuro, inghiottito da una sorta di macchina del tempo. Come mai è accaduto ciò? È corretto sostenere quindi che il futuro fosse ieri?
Il futuro si crea nel presente. Respiriamo profondamente, qui, ora.

Internet ha stravolto le regole del gioco in numerosissimi campi, incluso quello della musica, riducendo quasi a zero gli introiti derivati dalla vendita della stessa e smaterializzando i supporti fisici, rimasti in vita perlopiù alla stregua di feticci e simboli di resistenza contro l’inesorabile digitalizzazione. Tutto questo ha mutato anche la percezione nei confronti della musica stessa, minando le certezze della vecchia discografia, sia mainstream che underground. Se la prima però tenta di arginare i danni cavalcando capitalisticamente le nuove tipologie di fruizione, la seconda pare annaspare in un oceano con ben poche vie di salvezza. Tantissime etichette hanno chiuso battenti o ridotto drasticamente le proprie pubblicazioni, in assenza di un numero sufficiente di acquirenti. Il web, dunque, sta uccidendo l’underground, la vera vittima dei cambiamenti epocali post millennio?
Forse hai ragione eppure, nonostante le difficoltà, ci sono ancora editori ed etichette che creano, producono e agiscono. Penso a Rizosfera, New Interplanetary Melodies o Mille Plateaux… ma non solo. Credo sia necessario ribaltare la prospettiva. La necessità di fare sperimentazione è stata sempre importante per me e probabilmente lo sarà anche in futuro. Con la predisposizione underground non si può pensare ai “numeri” con voracità. Un ridimensionamento drastico sulle aspettative del mercato è un atteggiamento che esorto, ritrovare l’unicità come valore è ancora una prerogativa dell’underground. Credo che quello che viviamo sia un periodo in cui si debbano inventare nuove formule, nuovi formati e nuovi valori. Ciò che più mi affascina è che, come nelle novelle distopiche, assistiamo a una sorta di resistenza all’algoritmo e osserviamo questo fenomeno nei più giovani. Una resistenza estetica da parte di chi vuole una forma identitaria molto personale che non si confronta necessariamente col mezzo dei portali digitali ma cerca altri formati. Assistiamo alla rivalutazione della musica nella sua accezione di opera e non solo come prodotto ma proprio come oggetto artistico. La grande esplosione del vinile, il libro, la cassetta, la pennetta USB personalizzata, lo streaming su siti dedicati e privati, insomma un intreccio di formati dove ognuno di essi viene scelto e impreziosito, non dai numeri degli ascolti ma dalla qualità dell’opera. Non tutto il mio repertorio è stato riversato sul web, ultimamente lavoro molto nella direzione delle copie numerate con modulazioni di formati, dal vinile al libro, da USB al CD fino allo streaming illimitato. Un’ibridazione di formati insomma, un concetto che mi interessa sviluppare, del resto sperimentare è una caratteristica intrinseca dell’underground. Le piattaforme vanno riformulate, sono ancora molto bidimensionali, potrebbero creare contenuti o distribuirli come gesti artistici. Spesso ho immaginato di poter sperimentare in questo senso, sarebbe una vera nuova opportunità. Proviamo a immaginare tutte le metapossibilità che i mezzi dello spazio digitale ci offre: si potranno sperimentare portali con allargamento dello spazio acustico? Rilanciare e aprire qualcosa di più articolato e meta-sinestetico? C’è ancora molto margine per sperimentare, specialmente in un territorio come quello del do it yourself, in tutte le sue caleidoscopiche forme, senza steccati. Lo affermo come auspicio e attitudine underground e colgo l’occasione per lanciare qualche suggestione di possibile traiettoria: rifondare, aiutare, riattivare, promuovere, sostenere, divertirsi, sentire la vitalità della scena, vivere lo spettacolo dal vivo a 360 gradi.

Un discorso analogo si può fare relativamente alle riviste musicali, falcidiate anno dopo anno dai bit digitali. Sono in poche a resistere in area rock e post rock, forse nessuna tra quelle devote a elettronica e dintorni. Perché il nostro Paese è così povero di letteratura specializzata su house/techno e derivati? Perché non esiste un nutrito gruppo di scrittori e critici dediti esclusivamente alla musica da ballo, pari a quello del rock o del jazz? Forse la dance è stata oggetto di una sorta di ghettizzazione, la stessa che fece storcere il naso ai musicisti, giornalisti (fortunatamente con qualche eccezione, su tutte Dino D’Arcangelo, a cui tu e Pierfrancesco Pacoda avete dedicato un recente volume) e accademici sin dai primi anni Ottanta?
Sì, sono d’accordo, di fondo sussiste una diffidenza culturale nei confronti della dance elettronica e tutto il clubbing più in generale, per tanti motivi storici ma forse anche perché la linea di demarcazione tra i generi è fortissima. C’è sempre una specie di polarizzazione schematizzante, rock o jazz, indie o cantautorato, pop o elettronica. Inoltre la “piattaformizzazione” della musica cavalca la frammentazione per generi sui portali e questo va proprio a forzare ed esacerbare tale aspetto. Recentemente però avverto una maggiore apertura tra gli addetti ai lavori, tuttavia rimane ancora evidente la separazione tra linguaggi. Personalmente mi sono sempre mossa ibridando i generi nelle macro aree di musica, teatro, performance, clubbing e installazione. Mi sono permessa di fare contemporaneamente pop e ricerca, dance e sperimentazione sulla voce, senza attendere che i tempi fossero maturi. Scegliere la sperimentazione ha il suo prezzo da pagare. Per quanto riguarda Dino D’Arcangelo, grazie per averne fatto menzione, per me “Tenera È La Notte” è stato come chiudere un cerchio. Ho raccolto, insieme a Pacoda, gli articoli del giornalista pugliese contenuti nella rubrica omonima destinata a La Repubblica, la prima che si sia mai occupata di clubbing sulla stampa generalista in Italia per raccontare una scena che per molto tempo è stata fonte di creatività e sopravvivenza.

6) NicoNote Live ph. Chiara Maretti
Nicoletta Magalotti immortalata da Chiara Maretti durante una performance

I primi anni Duemila ti vedono attiva come Slick Station, Dippy Site (insieme ai M.A.S. Collective) e col compianto Stefano Greppi coi quali realizzi, rispettivamente, “Cosmic”, “Panorama Astratto (Softly Changing)” e “Living In A Video”. Nello stesso periodo con Andrea Felli e il sopraccitato Calò dai vita al collettivo AND tirando fuori un album per la Kom-Fut Manifesto, “Fashion Victims”. Le collaborazioni rappresentano ancora occasioni di arricchimento e scambio oppure si stanno trasformando in formule studiate a tavolino finalizzate alla capitalizzazione di fanbase?
La musica è un gioco d’insieme e le collaborazioni sono fondamentali. Nel dialogo puoi crescere o anche fermarti. Io faccio solo ciò che mi interessa e non ho mai pensato in termini di marketing o per compiacere ai fan. Se ciò avviene ovviamente mi fa piacere e torna molto utile ma non è la ragione che mi muove. A guidarmi e segnalarmi il cammino piuttosto è la motivazione, la vera bussola per individuare la giusta cifra e la temperatura di ogni collaborazione. Curiosità: i progetti citati risalgono a un periodo in cui mi divertivo a coniare di volta in volta nuovi moniker per far perdere le mie tracce. Qualche tempo dopo con Giovanni ‘Limo’ Limongelli, oltre a Slick Station, feci anche “Party Girl” per la Recycle Limited, che includeva i remix di Dapayk, Guido Nemola e Dachshund.

In questa intervista a cura di Domenico Magnelli e pubblicata da Polpetta Mag il 23 gennaio 2021, parlavi di quel periodo come «momento giusto per ridisegnare e riformulare nuove possibilità, continuare a fare ricerca […], riprendere il calore della fidelizzazione del proprio pubblico, ritornare a essere laboratorio di idee». Lo stop pandemico ha generato miriadi di riflessioni, elucubrazioni e buoni propositi ma, a detta di tanti, rimasti incastrati nella fantasia utopica di quel particolare momento storico. Credi che la club culture nostrana (o ciò che resta di essa) abbia tratto qualche valido insegnamento dalla pandemia?
Personalmente in questa fase sono attratta dall’idea di post clubbing, un universo transculturale che riesce a legare argomenti distanti tra loro, dentro e fuori il mondo accademico, dal mondo pop e da quello politico. Pratiche reali che affondano radici in esperienze visionarie, legate agli spazi, al suono e alla performatività, in forma ibrida. Penso dunque a pubblicazioni, eventi e gesti artistici supportati da editori, label, festival di musica o teatro e a nuovi formati partecipativi. Un esempio può essere la mia Limbo Session, collocabile in una pratica post clubbing dove l’evocazione della dancefloor si ibrida con la ricerca vocale, la letteratura, lo spazio e il clima di insieme. Mi sembra tra l’altro ci siano al momento molti artisti che hanno assorbito la lezione del clubbing come radice di una nuova pratica artistica.

Rispetto agli anni Ottanta e Novanta, il numero delle DJ donne è cresciuto esponenzialmente e questo è un gran bene perché, pare, stia riducendo il maschilismo che da tempo immemore affligge il settore. Non posso fare a meno però di constatare come tantissime puntino, parimenti ai colleghi uomini, sia ben chiaro, a doti che poco hanno da spartire con la musica, più legate piuttosto alle movenze e agli approcci degli influencer. I risultati sono sotto gli occhi di tutti sui social, dove i commenti sessisti piovono senza soluzione di continuità. Come ti poni rispetto a questa deriva di performance consumistiche legate a doppio filo alla “divizzazione” del personaggio? È forse un’occasione sprecata nonché appiglio per coloro che continuano a vedere la donna poco compatibile con certi ruoli?
È vero, adesso si vedono molte più donne nelle lineup dei festival ma questo, purtroppo, è spesso dovuto soprattutto all’introduzione delle quote rosa richieste per avere accesso ai finanziamenti europei. La situazione sarà davvero cambiata quando non ci sarà più bisogno di scegliere donne in consolle per soddisfare le quote rosa. Nella mia storia, comunque, sono sempre stata una outsider, donna e anche fuori formato. Adesso c’è una maggiore attenzione ai temi del body shaming e all’opera si vedono molte artiste, ma è stato faticoso arrivare fino a qui. Paradossalmente proprio il fatto di essere un’artista outsider mi ha dato la forza di proseguire e continuare la ricerca della mia unicità.

7) NicoNote foto by Ali Bedoin per lo shooting di Chaos Variations
NicoNote in in suggestivo scatto di Alì Beidoun in occasione dello shooting di “Chaos Variation V”

Nel corso dell’ultimo decennio hai pubblicato due album, “Alphabe Dream” del 2013 ed “Emotional Cabaret” del 2017, a cui si sono aggiunti, tra le altre cose, “Chaos Variation V” e “Limbo Session 1” rispettivamente firmati con Obsolete Capitalism e Wang Inc., e “Orizzonti Perfetti”, traccia destinata al secondo volume di “Kimera Mendax”, progetto di cui parliamo qui. Stai lavorando a nuove produzioni al momento?
Proprio nel 2023, dopo “Canzone Istantanea” finita nel primo volume della collana Le Crisalidi a sostegno del progetto della Lady Day Records contro la violenza di genere, è stata la volta di “Paradiso Inconsapevole”, un brano scritto insieme a DJ Rocca (intervistato qui, nda) e Chris Coco e pubblicato sull’etichetta di quest’ultimo, la britannica DSPPR. Ai titoli sopramenzionati aggiungerei “Samples”, un album autoprodotto nel 1999 e limitato a copie numerate, “Deja V.” del 2018, un album “segreto” che raccoglie le mie interpretazioni dei pezzi dei Violet Eves con la produzione di Renzo Serafini e gli arrangiamenti di Toni Canto, e alcuni featuring con artisti elettronici come Polychron + e Club Paradiso, una collaborazione sui backvocal per il duo islandese Klemens / Hanningan, prodotto da Howie B in uscita su Massive 92 Records, e l’intensa collaborazione sul progetto Donnacirco. Al momento sto lavorando a un concept album, in divenire, un rework di “Regola”, una suite ispirata a Hildegard von Bingen partita da una performance del 2003 ripresa e riportata in scena durante gli anni pandemici. Mi sto occupando della produzione artistica di nuovo materiale sonoro insieme al sound designer Demetrio Cecchitelli e al produttore Dani Marzi: l’album uscirà nel 2024 sulla New Interplanetary Melodies, etichetta di Simona Faraone (intervistata qui, nda) con la quale collaboro da alcuni anni. Una volta ultimate le registrazioni vorrei focalizzarmi sulla performance. Al di là delle pubblicazioni infatti, amo curare il suono condiviso direttamente col pubblico. Negli anni ho creato diversi lavori di drammaturgia sonora portati solo nella dimensione live come “Porpora”, “Fever 103°”, “Drinnen”, “Rhapsody” e altri.

Per quanto riguarda invece il teatro e la curatela, quali saranno i tuoi obiettivi nel 2023?
È in nuce una performance-storytelling dedicata allo scrittore Thomas Bernhard, insieme al saggista Luca Scarlini col quale ho sviluppato un dialogo ormai ventennale creando progetti in bilico tra suono e letteratura, dal barocco al gotico, da Satie a Ingeborg Bachmann. La serata dedicata allo scrittore austriaco verrà presentata al Festival Intermittenze a Riva Del Garda a settembre. Sul versante curatela invece, ho portato a varie istituzioni progetti che riprendono gli eventi destinati ai musei raccolti nel concept Effetto Doppler, sono in attesa di risposte. Nel frattempo proseguo con Syntonic, il mio appuntamento mensile su Radio Raheem, libero, ibrido e sempre differente, e vado avanti con grande entusiasmo nell’attività didattica sulla vocalità attraverso le mie lezioni a Bologna presso Lo Studio Spaziale.

In questa intervista abbiamo parlato di passato, di presente e di futuro. Quali sono i tre brani che evocano in te emozioni legate a ognuno di tali tempi?
Passato: “I Talk To The Wind” dei King Crimson, un pezzo surreale tratto da un album diventato un’icona. Coi Violet Eves ne facemmo una versione molto intensa che oggi ricordo con grande empatia. Inoltre il testo è speciale, racchiude saggezza e leggerezza. In occasione del mio cinquantesimo compleanno postai la song abbinata all’hashtag “canzone del giorno” e Claudio Coccoluto mi rispose immediatamente: «ottima scelta, auguri». Lo tengo nel cuore, il passato.
Presente: penso ad Alva Noto, la sua ricerca e le sue traiettorie tra ritmo e ambient sono segno della contemporaneità. A tal proposito segnalo una traccia che uscirà a maggio, “Die Untergründigen”, realizzata per uno spettacolo teatrale. Atmosfera, spazio, clima, elettronica raffinatissima ma non aulica. Eccolo il presente.
Futuro: lo desidero nell’aria, voluttuoso, leggero e soave, pieno di ardore e contemplazione. Propongo “Le Canzonette D’Amore” di Monteverdi, forme sonore fuori dal tempo. Arie leggiadre, astratte, angelicate, un auspicio alla bellezza.

(Giosuè Impellizzeri)

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