Sui Kraftwerk sono stati spesi fiumi di inchiostro. I tedeschi hanno cambiato le sorti della musica elettronica, fornendole nuova energia e soprattutto una nuova direzione attraverso la fusione e sintesi di arti (il Gesamtkunstwerk, su cui tornano ad insistere negli anni Novanta i Dopplereffekt col disco omonimo). I primi tre album, “Kraftwerk”, “Kraftwerk 2” e “Ralf & Florian”, co-prodotti con Conny Plank e pubblicati tra 1970 e 1973, sono figli del krautrock e della musique concrète (Luigi Russolo, John Cage, Karlheinz Stockhausen, Pierre Schaeffer, Edgard Varèse, Pierre Boulez, Kid Baltan, Iannis Xenakis, Cecil Leuter, Delia Derbyshire, Luciano Berio, Bruno Maderna, Can, Neu!, Amon Düül), ma da “Autobahn” (1974, pure questo co-prodotto col compianto Plank seppur i crediti sul disco fossero poco chiari) in poi le cose prendono una piega diversa. Il suono si tinge di futuro, imbocca nuovi sentieri e pare generato dalle apparecchiature che l’immaginario collettivo lega alla fantascienza o alle cabine di pilotaggio delle astronavi. L’effetto è straniante ancora oggi, figuriamoci come e quanto lo fu ai tempi. Era “il suono che viene dal domani”, come recita un vecchio slogan pubblicitario della Roland nei primi anni Ottanta.
Dopo aver viaggiato veloci sull’autostrada (“Autobahn”) i tedeschi salgono a bordo del treno (“Trans-Europe Express”) e anni dopo inforcheranno una bicicletta (“Tour De France”). Il rombo del motore, il suono del clacson, le fronde degli alberi che si muovono per lo spostamento d’aria, lo sferragliare delle carrozze sui binari, le pedalate, il cambio, la catena e le ansimate: rumore e movimento diventano musica e viceversa. Le fonti d’ispirazione sono tematiche inconsuete accomunate dalla “spinta in avanti”, dove “avanti” sta per “futuro”. In fin dei conti ai tempi il passato non è così attrattivo, e teorizzare il domani appare ben più intrigante che guardarsi indietro. Renderanno protagonisti pure il contatore Geiger (in “Geiger Counter”), il telefono (in “The Telephone Call”, l’unica cantata da Bartos) e la calcolatrice (in “Pocket Calculator”, che portano a Discoring in versione italiana presentati da Jocelyn).
I Kraftwerk incarnano la novità a tutto tondo, non solo per il suono che propongono ma anche per la presenza scenica. Non si presentano al pubblico come l’ennesima delle band, sul palco non c’è un leader che canta e gli altri dietro che suonano strumenti tradizionali come batterie e chitarre, anzi, gli strumenti spesso li inventano loro stessi per soddisfare le proprie esigenze. Appaiono tutti uguali, disumanizzati, quasi privi di espressioni, emozioni e mimiche facciali, incravattati come impiegati bancari, coi volti di un pallore cereo e coi capelli accuratamente tagliati in modo uniforme. Dei tec(h)nocrati filosofi che stanno al polo opposto dello stereotipo delle rock star e del divismo in generale, e per alcuni di loro tale atteggiamento non è mai mutato (si veda la “non intervista” a Florian Schneider in Brasile nel 1998). Di tradizionale nel concept dei Kraftwerk non c’è nulla e per questo faticheranno ad imporsi nella natia Germania, dove vengono tacciati da certa stampa come pazzoidi premipulsanti generatori di suono metronomico, contrariamente a quanto avviene in Giappone agli Yellow Magic Orchestra, più volte definiti “i Kraftwerk con gli occhi a mandorla” (tra le due band corrono diverse analogie ma altrettante sostanziali differenze). Comunque nel corso del tempo la musica dei tedeschi arriva anche a chi non ha mai sentito parlare di kosmische musik ed ispira più generazioni future, imponendo standard stilistici ancora validi dopo oltre quarant’anni.
Francia, 1978
Il settimo album dei Kraftwerk, “The Man Machine” (col retrocopertina ispirato dall’opera suprematista “Dlia Golosa” di El Lissitzky) viene presentato a Parigi ad aprile del 1978. In quell’occasione, come si legge nell’illuminante libro “Kraftwerk Publikation” di David Buckley, i giornalisti (a cui fu chiesto di vestirsi di rosso) incontrarono quattro manichini in cima al grattacielo Tour Montparnasse. «Camicie rosse, pantaloni neri e cravatte nere, capelli alla Subbuteo, facce che approssimano in modo lugubre quelle dei membri umani del gruppo. Ralf a sinistra di tre quarti, Florian, che tiene tra le braccia un flauto, a destra, Karl e Wolfgang al centro che suonano synth e batteria elettronica. Mentre una delle nuove canzoni viene diffusa dall’impianto, una voce vocoderizzata intona “we are the robots”. I manichini erano sul palco, in posa con gli strumenti, dall’aspetto super-cool». Quei manichini vengono realizzati da una società di Monaco chiamata Obermaier specializzata nella costruzione di bambole, marionette e manichini per l’appunto. Flür ricorda che le facce furono create da un calco di creta e solo successivamente si passò alle teste in poliestere, verniciate con colore spray e a cui vennero aggiunti capelli, ciglia ed occhi di vetro scelti con assoluta fedeltà in base alle caratteristiche somatiche dei membri del gruppo. I manichini erano fatti completamente a mano e per questo parecchio dispendiosi, pare costarono quattromila marchi l’uno.
Straordinariamente realistici, vengono mostrati per la prima volta al grande pubblico il 29 maggio 1978 per il lancio di “The Robots”, durante il programma televisivo 19:30 presentato sulla ZDF da Thomas Gottschalk. In assenza del tour per “The Man Machine” (“claim” già usato sui manifesti della tournée americana del 1975), si punta alle ospitate ed apparizioni promozionali in varie manifestazioni, tra cui la Mostra Internazionale Di Musica Leggera a Venezia, presentata da Pippo Baudo e trasmessa in eurovisione dalla Rai nel 1978. Poiché non c’è la possibilità di portare i manichini sul palco, vengono piazzati sulle poltrone in prima fila, seppur riservate ad ospiti d’onore. I cameramen, ignari di quanto stesse accadendo, inquadrano parimenti gli otto Kraftwerk, come si può vedere in questa registrazione mandata in onda da una tv sovietica. Il pubblico accoglie calorosamente quei circa tre minuti di innovazione e la strategia viene replicata quando i tedeschi approdano a Domenica In, “intervistati” da Corrado, suscitando timore nei più piccoli. Nell’album figura uno dei brani più noti e commercialmente fortunati dei Kraftwerk, “The Model”, apparentemente dedicato ad Amanda Lear (almeno secondo quanto lei stessa dichiara nel libro “Discoinferno” di Carlo Antonelli e Fabio De Luca), pubblicato come singolo dopo “The Robots” ma in vetta alle classifiche britanniche circa tre anni più tardi, quando viene usato come B side di “Computer Love”.
Ad onor del vero però i manichini entrano nel mondo dei Kraftwerk già qualche tempo prima con “Showroom Dummies”, nella tracklist di “Trans-Europe Express” del 1977, considerato da molti il loro primo pezzo ballabile. Come ricorda Buckley nel citato libro, «il filmato promozionale che accompagnava il brano introduceva quattro manichini calvi che, in varie fasi, rimpiazzeranno la band e suoneranno le percussioni in modo robotico». Flür sottolinea che a loro non interessava salire sul palco come una rock band, erano timidi, non sapevano muoversi o tantomeno ballare. Uno staticismo che evidenzia le inclinazioni robotiche tipiche della loro musica e dei concept degli album più noti. I manichini potevano quindi diventare dei robot a cui far eseguire degli ordini, una sorta di cloni da mandare in tour e sostenere i lavori più stressanti, degli avatar diremmo oggi. Robot come simbolo di transumanesimo ma anche come satira della produzione di massa che andava delineandosi negli anni Settanta in Europa. Insomma, doppelgänger dalla duplice valenza, di cui Flür però ne evidenzia anche i lati negativi. Nel suo libro “Io Ero Un Robot” ricorda che «a Parigi, quando i robot furono piazzati davanti ai giornalisti come rimpiazzo dei musicisti in carne ed ossa, la stampa non rimase favorevolmente impressionata e nel corso della serata aveva fatto a pezzi i manichini. Dubito che il nostro pubblico sarebbe stato molto contento di pagare per vedere dei robot motorizzati. Forse in qualche occasione eccezionale la trovata avrebbe attirato una certa attenzione, nelle comparsate televisive o durante gli eventi speciali per la stampa, ma il nostro seguito umano aveva la comprensibile necessità di vedere coi suoi occhi il quartetto elettronico in carne ed ossa dietro le macchine musicali. Inoltre allestire i robot con le componenti necessarie, con parecchi motori ed un sacco di elettronica, sarebbe stato troppo costoso per noi all’epoca, anche se per un po’ il nostro assistente Günther Spachtholz si trastullò coi motorini elettrici per finestrini progettati dall’industria automobilistica sperando di portare con quelli i robot alla vita. Fortunatamente non ne cavò nulla, a me l’idea non piaceva affatto e continuavo a chiedermi il motivo per cui avessimo realizzato quei pupazzi così costosi. In origine servivano per dare spettacolo durante i concerti ma poi finirono con lo starsene in un angolo della sala prove, in eterna attesa».
Tra robotizzazione e virtualizzazione umana: gli anni Ottanta
Negli anni Ottanta gli “elettricisti” incidono nella loro “centrale elettrica” altri due seminali album, “Computer World” del 1981, che predice l’uso dell’elettronica domestica ed offre prodromi di techno, electro ed hip hop, e il discusso “Electric Cafe” (un presagio sugli internet point?), pronto sin dal 1983 ma pubblicato tre anni più tardi, diventato manifesto della techno pop ormai dilagante (“Techno Pop”, tra l’altro, è il titolo che si preventivò inizialmente e con cui poi viene ristampato nel 2009). In mezzo ai due long playing il singolo del 1983 che riprende il binomio rumore-musica, “Tour De France”: dopo auto e treni tocca alla bicicletta, diventata una vera ossessione per Hütter che per il ciclismo, pare, rischia anche di morire in un incidente.
Nel libro di Buckley si legge che i robot entrano in scena durante il tour di “Computer World”: «vestiti identici alla controparte umana, salivano sul palco durante il bis posizionandosi accanto ai propri alter ego con dieci diodi lampeggianti sulla cravatta». Si tratta degli stessi manichini usati pochi anni prima per il lancio di “The Man Machine” visto che i diodi lampeggianti piazzati sulle cravatte, alimentati da una pila a 9 volt opportunamente nascosta, già figurano nel video di “The Robots” dove si possono vedere anche un contatore elettronico sulla fronte ed una bocca mobile che pronuncia la parte in russo del testo proiettata sul viso del robot con la dissolvenza incrociata dato che le applicazioni del morphing erano pressoché sconosciute. Naturalmente i manichini vengono adoperati pure per la copertina di “Computer World”: sul retro insieme alla nuova consolle studiata appositamente per i live, nell’interno intenti a suonare strumenti in miniatura. Per i successivi dieci anni le uniche foto promozionali della band sarebbero state scattate unicamente alla controparte robotica, simile alle creature col cervello positronico di Isaac Asimov. Una sostituzione che marginalizza la componente umana, analoga a quella che inscenano i Daft Punk quando dichiarano di essersi trasformati in robot dopo l’esplosione del loro studio.
In seguito i Kraftwerk contattano Rebecca Allen che si occupa di simulazione ed animazione facciale in 3D. La collaborazione inizia nel 1984 quando prende corpo l’ipotesi di far eseguire dei compiti ai robot sul palco durante i concerti. La Allen esamina i manichini costruiti dalla Obermaier ma non propone di rimpiazzarli con nuovi androidi fisici bensì virtuali. Per il video di “Musique Non Stop”, primo singolo estratto da “Electric Cafe”, la cineasta americana realizza dei modelli computerizzati partendo dall’analisi delle teste di quei manichini. I tedeschi siglano la collaborazione a modo loro, inserendo nel brano una voce femminile che simula quella della Allen. Anche la copertina dell’album nasce dalla computerizzazione dei quattro volti degli autori, digitalizzati, avatarizzati e non così distanti dagli stilemi cubisti.
Italia, 1990
Il 1990 è importante per i Kraftwerk perché segna il ritorno all’attività live dopo ben nove anni di assenza. A febbraio approdano in Italia per un tour “segreto”: pare che la loro casa discografica, la EMI, fosse all’oscuro di questa iniziativa, nata presumibilmente per testare i nuovi brani destinati all’album “The Mix” del 1991, che poi tanto nuovi non sono visto che si tratta di reinterpretazioni ottenute con tecnologia digitale di pezzi già editi (un’alternativa al più canonico greatest hits insomma). Quattro le date: al Teatro Tivoli di Bologna (7 febbraio), alla discoteca Extra Extra di Padova (8 febbraio), alla Casa Del Popolo di Grassina, in provincia di Firenze, (9 febbraio), ed allo Psycho Club di Genova (11 febbraio). Importante novità nella line up: insieme a Ralf Hütter, Florian Schneider e Karl Bartos c’è Fritz Hilpert che prende il posto di Wolfgang Flür, uscito dalla (formazione classica della) band nel 1987. Qualche mese più tardi (agosto) abbandona anche Bartos per divergenze interne. Per una strana coincidenza però, mettendo in fila le iniziali dei loro nomi, KRFW, per giunta nell’ordine offerto sulla copertina di “The Man Machine”, si ottiene l’acronimo quasi perfetto di Kraftwerk, che per una consistente fetta di fan restano i quattro che si esibivano coi nomi evidenziati in tubi fluorescenti al neon azzurro (i neon lights, ispiratori del brano omonimo).
Ma c’è un altro evento che lega Kraftwerk, Italia e 1990, ovvero i robot che dall’anno successivo avrebbero segnato profondamente la loro immagine. In pochissimi sanno che gli androidi immortalati sulla copertina dell’album “The Mix” e del remix-single “The Robots”, entrambi pubblicati nel 1991, sono stati materialmente realizzati nel nostro Paese (in Lombardia) nonché ideati da un pugliese nativo di Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, Giovanni Marinosci, affiancato dal tecnico Fabio Bovero che invece si è occupato della parte elettronica. Entrambi vengono citati nei crediti di “The Mix” sotto la voce “hardware”, ma senza opportune delucidazioni è impossibile risalire a cosa abbiano fatto di preciso. Tra l’altro in copertina figurano solo i loro cognomi sparsi in una lista di persone dalla nazionalità quasi certamente mitteleuropea (Blank, Bölcke, Metzner, Ott, Pagenberg e Rehberg). Qualcuno avrebbe potuto legittimamente pensare a due collaboratori di presunte origini italiane o persino a pseudonimi. Anche il logo della “cyber-creatura” (protagonista sulla copertina della ristampa di “The Mix” del 2009) deriva da bozzetti preparatori rinvenibili su ormai ingialliti fax che nel settembre del 1990 viaggiano tra il Kling Klang Studio e l’Italia e che mostriamo in esclusiva nella gallery in fondo all’articolo insieme ad altre numerose fotografie d’archivio che immortalano Micromo, il manichino “che muove la moda”. Attualmente pare che nessuno nel mondo abbia mai svelato questi retroscena, sia su internet che su libri.
Nel tour del 1991, quando la line up vede l’ingresso del portoghese Fernando Abrantes poi rimpiazzato da Henning Schmitz, il climax degli show è rappresentato proprio dai robot che sembra riscuotessero più applausi di quanti ne ottenessero i musicisti in carne ed ossa. Quei manichini robotizzati («dalla faccia arcigna, senza le parti dalla vita in giù, dotati di bastoni metallici che sembravano protesi al posto di braccia e gambe» come li descrive Flür nel suo libro) si trasformano nel trademark di Hütter & co. tanto da finire in innumerevoli video e spettacoli live, come questo, questo, questo o questo, sulla copertina del libro di Gabriele Lunati intitolato “Kraftwerk Il Suono Dell’Uomo-Macchina – Una Forma Ben Organizzata D’Anarchia” (2005), di quello di Tim Barr intitolato “Kraftwerk: From Düsseldorf To The Future (With Love)” (1998) e di quello di Pascal Bussy intitolato “Kraftwerk: Man, Machine And Music” (1993), nella video intervista realizzata nel 2009 per la BBC dalla giornalista Miranda Sawyer, e su tanto materiale pubblicitario e promozionale. Gli automi che si muovono sul palco diventano a tutti gli effetti uno show nello show.
La testimonianza di Giovanni Marinosci della MAC Project che ideò i robot
Negli anni Ottanta gestivo un’emittente radiofonica ed una televisiva ma avevo voglia di cambiare. Nella mia vita c’è sempre stato un rincorrersi di intuizioni e desiderio di inventare cose nuove. Un caro amico, Luigi Como, aveva un’officina che fabbricava stampi in ferro per mattoni ma di tanto in tanto realizzava, conto terzi, dei manichini per società che si occupavano di allestimento negozi e fiere. A dire il vero erano più sagome che manichini, fatte in ferro ed alluminio e con elementi stilizzati che ricordavano il corpo umano. Guardando uno di quegli pseudo manichini mi venne l’idea di creare una società che si occupasse proprio di manichini dotati di automazione. Ricordo il primo esemplare che realizzammo come un’opera d’arte: era dominato da forme geometriche, sia testa che gambe erano dei triangoli col vertice rivolto in basso. Poi, nel congiungimento tra busto, testa, gambe e braccia c’erano delle viti che rendevano possibili i movimenti. Era un autentico prototipo a cui affibbiai il nome Micromo. In seguito lo perfezionammo e le viti furono sostituite da vari motori sparsi tra busto, collo, spalle e gomiti. Per coprire cavi e connettori RCA che correvano lungo le braccia chiesi a mia mamma di cucire delle maniche di stoffa. Il movimento di ogni arto era memorizzabile attraverso la memoria EEPROM (Electrically Erasable Programmable Read-Only Memory) attraverso cui si poteva richiamare una sequenza di posizioni. Fondamentale in tal senso fu l’apporto di Fabio Bovero con cui ero in contatto sin da quando avevo la radio e con cui lavorammo alla digitalizzazione del segnale in tempi non sospetti.
Tra i primi clienti interessati a Micromo ci furono la Standa, la Rinascente e la Fiat che commissionò una serie di quattro o cinque manichini-robot destinati alla presentazione di un’auto. Ormai la MAC Project (MAC era l’acronimo di Marinosci And Como) iniziava a farsi conoscere e nel 1989, per ampliare la rete contatti, partecipammo ad una fiera che si teneva a Düsseldorf, dedicata al settore degli allestimenti per negozi, la Kunststoffmesse. Al nostro stand si presentò un signore di circa quarant’anni particolarmente incuriosito dai robot. Ci chiese se fosse possibile farli muovere a ritmo di musica, poi disse di chiamarsi Florian Schneider e di essere un membro dei Kraftwerk. Avendo avuto a che fare col mondo della radio, conoscevo artisticamente la band. Da lì partì una serie di comunicazioni e scambi di idee e suggerimenti, rigorosamente via fax. Non parlare la lingua tedesca purtroppo fu un limite.
I robot per i Kraftwerk vennero realizzati ed assemblati nell’officina di Luigi Como, a Desio. Loro erano in quattro ma ce ne commissionarono cinque, uno era di scorta laddove fossero sorti imprevisti. Non ricordo con esattezza il costo totale ma credo si aggirasse dai cinque ai sette milioni di lire. I primi Micromo erano provvisti di potenziometri per pilotare gli arti ma quel tipo di tecnologia imponeva un numero limitato di movimenti. Fortunatamente mentre lavoravamo ai robot per i Kraftwerk iniziò a svilupparsi la plastica conduttiva ma l’unico produttore si trovava in Francia. Lo contattammo per farci realizzare dei potenziometri conduttivi ad hoc con cui ampliammo il numero di movimenti possibili a circa un milione di posizioni. Il problema era risolto. Le teste in plastica invece le realizzò la Almax della famiglia Catanese, a Mariano Comense, col pantografo su disegni o sul calco dei Kraftwerk stessi. Se ben ricordo i tedeschi le vollero completamente bianche perché avrebbero provveduto personalmente a farle dipingere con le proprie fattezze.
Nel 1992 la MAC Project chiuse ed iniziai una nuova avventura legata ai trasporti in elicottero. Qualche anno fa però un fan sfegatato dei Kraftwerk (Marco Mottoi, da Nuoro, nda), venuto a conoscenza di questa vicenda mi chiese se loro ricordassero e così lo invitai a scrivere una mail alla band, col solo fine di salutarli. Non so se la abbiano letta ma non hanno mai risposto. Non mi aspettavo nulla se non un “ciao, come stai?”. Ai tempi avevo poco più di trent’anni e non mi importava far sapere al mondo che dietro quell’idea ci fossi io, però a posteriori, sapendo che i Kraftwerk hanno fatto di quei robot un vero e proprio marchio di fabbrica, sarei un bugiardo se dicessi che non mi piacerebbe veder accreditata a me quell’invenzione.
La testimonianza di Fabio Bovero della BiTEL Microprogetti che curò la parte elettronica
Tutto nasce intorno alla fine del 1988 da un’idea di Giovanni Marinosci, un personaggio vulcanico del genere “una ne fa e cento ne pensa”. Intendeva creare un manichino movibile destinato ad allestire le vetrine dei negozi di abbigliamento. Per la realizzazione contattò due sue vecchie conoscenze, Luigi Como, titolare di un’azienda meccanica, e il sottoscritto, tecnico elettronico. Ai tempi Giovanni era proprietario di un’emittente radio/tv a Desio ed è per quello che ci conoscevamo, giacché curavo la manutenzione per le sue apparecchiature.
Dopo vari esperimenti riuscimmo finalmente a realizzare Micromo, il manichino che si muoveva. Il marchingegno era dotato di ben otto motori che muovevano spalle, gomiti, polsi, testa e ruotavano il busto. Le gambe invece erano fisse. Alla base era montata la parte elettronica che, previa programmazione fatta da noi a seconda delle richieste, poteva fare assumere a Micromo una serie di posizioni che cambiavano ciclicamente. Era inoltre possibile selezionare vari programmi che corrispondevano a sequenze di posizioni. Il tutto funzionava egregiamente e l’affidabilità era buona, specialmente dopo aver affinato qualche dettaglio sia meccanico che elettronico. Micromo venne presentato nel 1989 agli operatori del settore moda e in varie catene di negozi di abbigliamento (per un certo periodo venne esposto anche alla Rinascente di Milano), ma non riscosse un gran successo e le vendite non decollarono. Nel frattempo Florian Schneider dei Kraftwerk venne a conoscenza della “creatura” e contattò la MAC Project di Giovanni Marinosci e Luigi Como che produceva Micromo per poter realizzare i robot con le sembianze dei componenti della band.
Schneider ci inviò via fax dei disegni come guida e ci consegnò le teste dei manichini (alquanto impressionanti!) che erano la copia quasi perfetta dei quattro musicisti. Il resto dovevamo realizzarlo noi ma a differenza del prodotto originario, quello coi movimenti fissi e pre-programmati, i “Kraftwerk robot” dovevano essere pilotati dai loro computer che utilizzavano durante i concerti. Il protocollo di comunicazione era il MIDI ma ai tempi non sapevo neanche cosa fosse. Alla fine un loro tecnico, un tale Joachim Ott (finito tra i credit sulla copertina di “The Mix”, nda), realizzò un’interfaccia per convertire il segnale MIDI in dati ad 8 bit paralleli che ci consentirono di comandare il convertitore DAC che determinava le posizioni dei robot. Dopo qualche mese (dai tre ai cinque, non ricordo bene) la personalizzazione dei manichini dei Kraftwerk giunse a completamento: tolta qualche difficoltà tecnica nell’interfacciamento dell’elettronica, non incontrammo altri ostacoli. Il tutto funzionava in modo perfetto originando un risultato spettacolare, tanto che i robot iniziarono ad essere utilizzati in molti concerti in tutto il mondo.
In questo video del 1991 si possono vedere bene i nostri manichini-robot. La base quadrata su cui poggiano le “gambe” contiene tutta l’elettronica di comando, lungo una “gamba” corre il cavo di interconnessione, nelle parte alta della “gamba” c’è invece un connettore a 25 poli che consente di staccare il busto per un trasporto più comodo. Ogni movimento è costituito da un motoriduttore con una coppia conica ed un potenziometro che riporta la posizione all’elettronica. Il posizionamento è analogico: viene programmata una tensione compresa tra -5 e +5 volt, questa informazione entra in un comparatore a cui viene applicata la tensione rilevata dal potenziometro che sente la posizione e quando le due informazioni sono uguali il motore si ferma. Se la tensione di comando è inferiore a quella rilevata dal potenziometro di posizione il motore gira da una parte, se è superiore cambia la rotazione fino a fermarsi raggiunta l’uguaglianza. La tensione di comando viene fornita da un convertitore digitale-analogico (DAC) pilotato dall’uscita della scheda di interfaccia con il MIDI. Per me fu una bellissima esperienza anche perché non avevo mai realizzato prima di quel momento aggeggi del genere.
(Giosuè Impellizzeri)
* Un sentito ringraziamento è rivolto a Biagio Lana: senza il suo input questo articolo non sarebbe mai stato sviluppato.
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