La discollezione di Nevio M.

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Nevio M. e parte della sua collezione tra cui la prima produzione discografica, “Sunset” (Sarasate Tribal Nation, 1995)

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo “Equinoxe” di Jean-Michel Jarre, che comprai nel 1979 dietro suggerimento del fratello maggiore di un caro amico, grande appassionato di musica. A conti fatti direi che fu un consiglio prezioso.

L’ultimo invece?
Tra gli ultimi che ho preso c’è “Reprise” di Moby, un doppio album in edizione limitata che contiene le rivisitazioni delle sue tracce storiche come “Natural Blues”, “Go”, “Porcelain”, “Why Does My Heart Feel So Bad?” e “Lift Me Up”.

Quanti dischi annovera la tua collezione?
Non li ho mai contati ma qualche anno fa un amico appassionato di numeri fece un calcolo e stimò una soglia intorno ai diecimila pezzi. Difficile stabilire anche quanto denaro abbia speso, sicuramente tantissimo ma non me ne pento affatto.

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Altri dischi della collezione di Melari, qui riposti su scaffali di ferro

Dove è collocata e come è organizzata?
È suddivisa tra scansie di ferro e di legno, ma anche in vari bauli e ceste. Ho tentato di adottare una sorta di indicizzazione secondo il genere musicale ma mi sono accorto che non è affatto un’impresa facile.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ovviamente cerco di tenere i dischi in un ambiente asciutto ed ogni tanto effettuo una bella spolverata e pulita prima dell’ascolto o dell’uso. Ho iniziato ad adoperare le copertine plastificate da qualche anno ma solo per le copie più nuove.

Ti hanno mai rubato un disco?
Ahimè sì: ad essere trafugato dal mio flight case nell’ormai lontano 1987 fu “Africa, Center Of The World” di Roy Ayers, ma qualche anno fa l’ho recuperato grazie a Discogs.

C’è un disco a cui tieni di più?
Potrebbe sembrare banale e scontato ma è la mia prima produzione, “Sunset”, pubblicata nel 1995 dalla Sarasate Tribal Nation.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una cifra considerevole?
Il secondo album degli Orbital uscito nel 1993 che purtroppo mi sfuggì all’epoca.

Quello che regaleresti volentieri o che ti sei pentito di aver comprato?
Mi è capitato di prendere dischi che non trasmettevano granché ma mi servivano in determinate situazioni o serate. Adesso fanno ugualmente parte del mio percorso musicale e per questa ragione non li rinnego.

Quello con la copertina più bella?
Non ho dubbi, l’album dei Velvet Underground e Nico con la banana disegnata da Andy Warhol.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Il primo acquisto lo feci da Sangiorgi Dischi a Faenza, nel 1979, che (r)esiste ancora oggi. In seguito andavo da Tatum a Forlì, Disco Più e Dimar a Rimini, Nannucci a Bologna ed altri ancora. L’atmosfera di quei luoghi era unica, all’epoca si faceva di tutto per accaparrarsi la copia di un disco che magari era arrivato in quantità limitata e spesso per riuscirci bisognava diventare amici del negoziante. I negozi di dischi erano i veri “social” dei tempi, lì dentro ci si conosceva e ci si confrontava, e lo dico senza retorica. Oggi il confronto e la socialità, seppur si viva nell’epoca dei social network, paiono paradossalmente scomparsi.

Nei primi anni Novanta collabori con Piero Zannoni alias Piero Zeta nel negozio di dischi Mixopiù, a Faenza, di cui abbiamo parlato dettagliatamente nel libro Decadance Extra. Come e cosa ricordi di quel punto vendita, a circa un trentennio dall’inaugurazione?
Venivo da un anno sabbatico, mi ero preso una pausa dal mondo notturno col fine di riordinare le idee per capire come andare avanti, e partimmo davvero con pochissime risorse. Tuttavia nell’arco di qualche mese eravamo già diventati un punto di riferimento per tanti DJ della zona. Io curavo la parte più progressive ed underground, Piero invece si occupava di techno, trance ed hardcore. Erano anni di forte fermento tra musica, locali e moda, tutto era splendidamente nuovo, bello ed intrigante.

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Flight case di Nevio M da cui affiorano alcuni EP della sua discografia e sui quali si scorge anche l’adesivo del negozio di dischi Mixopiù

Sempre negli anni Novanta incidi diverse produzioni, per la citata Sarasate Tribal Nation in compagnia di Marco Capelli, futuro Andrea Doria intervistato qui, per la Ental Records diretta da Piero Zeta e per la Sound Of Rome del gruppo romano A&D Music And Vision, a cui si aggiungono comparsate sulla Tube di Marco Dionigi, intervistato qui, sulla Hex Sound Technology Research del gruppo Enterprise di Einstein Doctor DJ intervistato qui, e sulla Sushi, uno dei tentacoli della modenese American Records di Bob One a cui abbiamo dedicato qui una monografia. Quali erano le ragioni principali che spingevano i DJ come te a cimentarsi nella creazione di brani propri?
Poter creare una traccia da zero e poi vedere il risultato apprezzato dal pubblico che la balla non ha prezzo, ancora oggi provo bellissime emozioni e sensazioni. Quando ciò avviene vuol dire che la gente che balla è in sinergia e sintonia con chi ha ideato quel pezzo. Ho sempre creato e prodotto musica con questo intento e non certamente a scopo di lucro altrimenti avrei optato per una strada più commerciale. Con Marco Capelli, che allora si faceva chiamare ancora MC Hair, c’era un’intesa speciale, ci capivamo al volo e produrre musica con lui, senza togliere nulla agli altri con cui ho avuto il piacere di collaborare in studio, è stato molto divertente. Facevamo le cose che più ci piacevano e i clubber dimostravano di apprezzare, cosa potevamo volere di più?

Militare tra le fila di alcune case discografiche ha sempre fatto la differenza, non solo per un ritorno di immagine e prestigio ma anche perché, obiettivamente, alcune realtà contano su una credibilità e popolarità tale da riuscire a smarcare i propri artisti dal mare magnum di concorrenza. C’era qualche label, italiana o estera, con cui ti sarebbe piaciuto collaborare?
Avrei voluto incidere per la svedese Hybrid di Cari Lekebusch e per la Planet Rhythm Records co-fondata da Adam Beyer, ma nutrivo un debole pure per la britannica Bush. Purtroppo non c’è mai stata l’occasione di stringere sinergie con nessuna di esse.

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Altri dischi della collezione di Melari su scaffali di legno. In basso, tra gli altri, si scorge “Phase II” di Bohannon (1977)

Dopo anni di silenzio sei tornato ad armeggiare in studio lavorando ancora con Piero Zeta. Comporre musica oggi e pubblicarla però pare essere diventato quasi un passatempo vista la facilità di approccio: la tanto osannata democratizzazione ha finito forse col banalizzare quella che un tempo era considerata un’attività artistica?
Il mio ritorno in studio è legato al puro divertimento, senza pretese. Adesso sono in auge metodi differenti per stabilire la validità di una produzione, in primis le visualizzazioni online, ben diversi rispetto a quelli di qualche decennio fa. Ecco perché non ripongo alcuna aspettativa nelle nuove mie nuove creazioni discografiche.

Negli anni Novanta alcuni DJ, anche particolarmente noti, si affidavano a musicisti ed ingegneri del suono per realizzare le proprie produzioni. Si dice che alcuni sapessero a malapena accendere un computer e collegare un sintetizzatore ma grazie alla popolarità del proprio nome, conquistata in discoteca o in radio, riuscirono ad alimentare per lungo tempo il proprio repertorio discografico. Era forse una strategia non così dissimile da quelle degli anni precedenti descritte in questo reportage e dalle tanto criticate odierne?
Negli anni Ottanta, così come nei Novanta, esistevano artisti e persino “gruppi” totalmente inventati a tavolino, che non sapevano né suonare né tantomeno cantare, ma offrivano a musiche prodotte in studio da altri la propria immagine che catalizzava l’attenzione delle giovani generazioni. Un caso su tutti, che fece scalpore a livello internazionale, quello dei Milli Vanilli. Adesso tale procedura non è più applicata soltanto alla sfera delle produzioni discografiche ma anche alle esibizioni dei DJ. Se un prodotto vende vuol dire che è vincente ma non dobbiamo confondere ciò con l’arte, quella è davvero un’altra cosa.

Sei stato tra i resident del Cellophane di Rimini, uno di quei posti diventati mitologici nei racconti di chi oggi, su internet ma non solo, lamenta la cronica assenza di club nati con l’intento di promuovere musica. Come descriveresti il Cellophane a chi non ha mai avuto l’occasione di metterci piede?
Tra i tantissimi locali in cui ho prestato servizio, quello che mi è rimasto più nel cuore è proprio il Cellophane. Per quanto mi sforzi, faccio fatica a spiegare a parole l’atmosfera che si respirava e viveva tra quelle mura. Era un posto scuro e basso ma con un’acustica pazzesca, il Club con la C maiuscola per eccellenza. La gente veniva da ogni parte d’Europa per divertirsi ed io facevo altrettanto: in quei quattro anni di residenza mi sono espresso musicalmente al massimo, dando e ricevendo tantissimo.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando al Cellophane?
“Konception” di Plastikman: quando lo mettevo, prima di iniziare la serata, creava un’atmosfera pazzesca in pista e la gente iniziava a battere le mani a tempo;
“Cellule” di J.J.Jam, una produzione italiana di DJ Pareti meglio noto come Sinus, che è stata per un po’ la mia sigla di apertura;
“Tone” di Emmanuel Top, l’Attack Records di colore arancione: ricordo ancora i cori del pubblico talmente forti da sovrastare la musica.

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Un ultimo scatto sui dischi di Melari protetti dalle copertine plastificate

Al netto della nostalgia, credi che la musica figlia degli anni che stiamo vivendo verrà ricordata tra qualche decennio così come è successo a quella del passato oggi tanto celebrato, oppure c’è stato un cortocircuito che ha creato una frattura dando origine ad un prima e un dopo?
Le mode e la musica vanno avanti e si evolvono, è inevitabile, chi vivrà vedrà. Quello di cui sono certo è che gli anni Novanta non verranno dimenticati.

E sul DJing post Duemila invece cosa pensi? L’industrializzazione di un settore un tempo pionieristico ha fatto più bene o male?
Sono del parere che dal 2004 in avanti ci sia stato un appiattimento generale e l’Italia ha pagato un caro prezzo. Paesi come Spagna, Germania e Regno Unito hanno capito tempestivamente che il comparto necessitava di essere “industrializzato” e rivisto, noi al contrario siamo stati a guardare ed oggi ne subiamo le conseguenze.

Ritieni che le nuove frontiere tecnologiche digitali stiano svilendo l’arte del DJing?
Il vinile avrà sempre un fascino che nessun file digitale potrà mai trasmettere, alla stregua di un libro che si apre, si tocca, si annusa e si legge. È ormai un rito mettere il disco sul piatto e godersi la musica, tuttavia non faccio mistero che anche io mi sono abituato, per comodità, ad usare le pen drive per le serate in discoteca, seppur continui comunque a comprare dischi. Il mondo va avanti e non trovo giusto criticare le nuove generazioni solo perché usano consolle digitali, computer o qualsiasi altro mezzo tecnologicamente più avanzato di quelli che usavamo noi.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone i motivi.

James Brown - Revolution Of The MindJames Brown – Revolution Of The Mind
Un doppio LP del 1971 che acquistai nel 1983 alla Dimar, a Rimini, un negozio molto grande specializzato in rarità e che trattava anche dischi fuori catalogo. All’epoca lo pagai uno sproposito, duecentomila lire. Me ne innamorai perché conteneva, tra le altre, una versione di “Soul Power” che sentii mettere da TBC (Claudio Tosi Brandi) al Cosmic di Lazise, sul Lago di Garda, e rimasi fortemente incantato dal groove e dall’effetto che produceva sul dancefloor.

The KLF - What Time Is LoveThe KLF – What Time Is Love?
Sono parecchio legato a questa traccia dei britannici KLF uscita originariamente nel 1988 e ripubblicata a più riprese negli anni successivi. Ritengo sia stato uno dei brani capostipite del genere trance (insieme ad altri come “The Age Of Love” degli Age Of Love e “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo rispettivamente qui e qui, nda) e progressive, un filone giunto nel decennio successivo caratterizzandone indelebilmente buona parte. Un pezzo a cui tanti DJ e produttori si sono ispirati per le proprie creazioni.

Moby - GoMoby – Go
Un brano dance/trance del 1991 in cui Moby campiona uno stralcio di “Laura Palmer’s Theme” di Angelo Badalamenti, dalla colonna sonora della serie televisiva di successo “Twin Peaks”, e lo unisce magistralmente ad un pezzetto di “Go”! dei Tones On Tail ‎ed un altro da “Love’s Gonna Get You” di Jocelyn Brown. Un disco che fa riaffiorare in me fantastici ricordi.

A. Paul - JuiceA. Paul – Juice
Pubblicata nel 1994 sulla portoghese Question Of Time di J Daniel (quello di “…To Eden”, che spopola in Italia nel 1996 come “disco nave”, nda), “Juice” è una traccia che corre su strutture elettroniche tribali, poi si ferma in una lunga pausa per quindi ripartire con energia. Lo adoravo ai tempi dell’uscita ed è uno di quei pezzi che mi ricorda l’approdo come DJ resident al Cellophane di Rimini dove lo ho proposto, praticamente ininterrottamente, per un’intera stagione riuscendo a creare atmosfere impareggiabili. L’interesse fu tale che nel 1995 la UMM decise di prenderlo in licenza per l’Italia.

Plastikman - MusikPlastikman – Musik
Questo doppio album prodotto da Richie Hawtin per la Plus 8 Records nel 1994 si sviluppa su suoni minimali ed acidi, disegnando traiettorie parecchio innovative per l’epoca. Come annunciavo prima, solitamente ad inizio serata suonavo “Konception”, traccia sui 115 bpm che, abbinata a luci strobo, fumo e laser, generava un’atmosfera pazzesca che non potrò mai dimenticare. Le produzioni di Plastikman erano spesso presenti nei miei set, adoravo il suo modo di fare musica e non a caso possiedo la discografia completa.

Various - Insomnia CompilationVarious – Insomnia Compilation
Una compilation su CD, cassetta e vinile, commercializzata nel 1994 dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. In particolare la versione su vinile, doppia e limitata alle appena 500 copie, è rara e piuttosto costosa sul mercato dell’usato. Svariati i pezzi racchiusi al suo interno ma quello più famoso era “Free Your Mind” di Olimpo, progetto dietro il quale si celavano Francesco Farfa e Joy Kitikonti (intervistati rispettivamente qui e qui, nda). Gran parte della restante tracklist fu realizzata dal giovane Rexanthony e dalla madre Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), la produzione di Antonio Bartoccetti (intervistato qui, nda) mentre la selezione a firma di Antonio Velasquez, direttore artistico dell’indimenticato locale di Ponsacco.

Stefano Noferini - Trumba LumbaStefano Noferini – Trumba Lumba
Il brano in questione era racchiuso nel primo volume della compilation “DJ’s United Grooves” (di cui parliamo qui, nda), per cui il mio socio Piero Zeta ricopriva ruolo di coordinatore. Si trattava di un progetto ambizioso che metteva insieme tanti DJ italiani, da Alfredo Zanca a Marco Bellini, da Simona Faraone a Massimo Cominotto passando per Killer Faber, Buba DJ, MC Hair e lo stesso Zeta. A “Trumba Lumba”, inoltre, è legato un aneddoto: erano le diciannove di un sabato pomeriggio e mi trovavo a Faenza, nel Mixopiù. Piero entrò portando un acetato in formato 10″ appena “sfornato” con su inciso, per l’appunto, “Trumba Lumba”. Penso che neanche Noferini stesso lo avesse ancora. «Tieni, così stasera lo suoni in anteprima al Cellophane!» mi disse, e così fu.

Emmanuel Top - Turkich BazarEmmanuel Top – Turkich Bazar
“The music was new, black polished chrome, and came over the summer like liquid night”: era questa la famosissima frase campionata da “Black Polished Chrome” di Jim Morrison che apriva e scandiva il ritmo di “Turkich Bazar” di Emmanuel Top del 1994. Il resto era edificato con una Roland TR-909 ed una Roland TB-303 e il gioco era fatto. Ad onor del vero potrei citare pure tutti gli altri brani apparsi sulla Attack Records in quel periodo perché credo abbiano lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’elettronica che si suonava nei club negli anni Novanta. Non nascondo di essermi ispirato proprio alle tracce di Emmanuel Top per i pezzi finiti in “Mental Flow EP”, la mia seconda produzione su Sarasate Tribal Nation.

Pink Floyd - Wish You Were HerePink Floyd – Wish You Were Here
Su questo capolavoro targato 1975 voglio raccontare un altro aneddoto. Ero ancora un ragazzino ed un mio amico mi invitò a casa sua per ascoltare un nuovo disco che aveva acquistato il fratello, fedele appassionato di rock. Mise sul giradischi “Wish You Were Here” e in quel momento mi si aprì un mondo. Rimasi praticamente incantato ed estasiato nell’ascoltare le note di “Shine On You Crazy Diamond”. Negli anni a seguire lo comprai sia su vinile che CD.

Namito - Stone FlowerNamito – Stone Flower
Secondo me “Stone Flower”, edito nel 2019 dall’americana Sol Selectas, è uno dei dischi da club più belli usciti negli ultimi anni. 114 bpm, ambientazioni new age, tastiere, cori di voci suadenti, un bellissimo connubio insomma. Una traccia che avrei voluto fare io.

(Giosuè Impellizzeri)

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JP Energy – DJ chart ottobre 1997

JP Energy, Trend, ottobre 1997


DJ: JP Energy
Fonte: Trend Discotec
Data: ottobre 1997

1) Placid Angles ‎- The Cry
Primo album che John Beltran incide sotto le sembianze di Placid Angles, “The Cry” si sviluppa su un itinerario pieno di dilatazioni IDM ed ambientali ed invita l’ascoltatore ad entrare in un mondo sonico assai peculiare, fatto di movimenti contorti e sezioni melodiche scomposte. Dalle seducenti “Ocean” e “Fate” alla nodosa “Casting Shadows (On Warm Sundays)”, dalle sognanti “Now And Always” e “Decembers Tragedy” alla riposante “Lavinia” passando per la malinconica “Everything Under The Sun” e i guizzi technofoni di “Scarlett Season” ed “Her Elements”. Quello di Beltran, immerso in una strana formula alchemica in cui frenesia e placidità vengono messe in contrasto, è un lavoro che va ben oltre le classiche esigenze del disco da dancefloor destinato ai soli DJ, e non certamente a caso la Peacefrog Records lo commercializza anche in formato CD.

2) Mr. James Barth ‎- High Society
Lo svedese Cari Lekebusch firma questo 12″ con uno dei suoi molteplici alias, Mr. James Barth. “Workin’ The Truth” è un anello di house loopistica venata da severe scie melodiche kraftwerkiane, “Hold Still” è un azzeccato reprise di “Everybody Hold Still” di Grace Jones, con tutto l’apparato vocale processato nel vocoder. Il lato a è occupato per intero da “Smooth Talkin'”, dub cosmico rallentato dalle tinte fosche e profusione di suoni cristallini. Il tutto sull’indimenticata Svek di Stoccolma che pubblica il disco anche in formato CD, oggi particolarmente ricercato dai collezionisti.

3) Notturno – The After Hours EP
Dietro Notturno armeggia un tal Nicola Johnston che all’attivo ha una manciata di EP editi dalla britannica Melt Records di York. Il primo dei due è proprio “The After Hours” in cui l’artista fa sfoggio della capacità di dare ad un suono ubicato tra house e techno un indirizzo onirico, e questo probabilmente ha a che fare col moniker scelto per la breve esperienza in ambito discografico. “She’s So Groovy”, col bassline a stantuffo tenuto a bada da un celestiale pad, e “Need Some”, messo a bagno in una mistura dreamy, sono i pezzi dell’extended play che meglio risaltano, ma degna di menzione è pure la lunga “She Loves That Kind Of Thing”, deep house quasi sussurrata e dalle venature trancey. Musica notturna che non fa baccano ma che tiene svegli.

4) Saints & Sinners ‎- Peace
Il duo Saints & Sinners debutta nel ’97 sulla tedesca Sounds Good Records con questo disco che prova ad aprire un nuovo scenario e ridefinire il concetto di house music lanciando evidenti occhiate a retaggi trance. Non c’è nessuna euforia però, il risultato è qualcosa che oltremanica chiamano progressive e che conosce gloria tra la fine degli anni anni Novanta e i primi Duemila con artisti tipo Sasha, John Digweed e Steve Lawler. Alle due versioni di “Night On Earth” che dà il titolo al disco si aggiunge “Peace”, escursione da cui affiorano forme ritmiche appena accennate ed una fioritura armonica evocatrice di un mondo senza tempo, l’embrione di una cellula sonora che vedrà un’evoluzione grazie a talenti come James Holden, Nathan Fake, Gui Boratto o Dominik Eulberg. Proprio “Peace” conoscerà una seconda giovinezza qualche anno dopo attraverso una serie di remix firmati, tra gli altri, da Oliver Lieb e Michael Woods.

5) John Tejada – 12 Volts Of Soft Spread
Instancabile ed iperprolifico, Tejada incide dischi sin dai primi anni Novanta bilanciando minimalismo post millsiano a micro impalcature melodiche. In tal senso il brano che apre il disco su Palette Recordings, “Soft Spread”, risulta particolarmente esplicativo attraverso zigzaganti scie che tagliano l’intricato campo percussivo, e lo stesso avviene in “Begin” con le sue strutture ritmiche elementari prive di orpelli da cui si innalza un’esplosione di vitalità attraverso il turbinio di ipnotici accordi. Nettamente più intrippata “Spider Belly”, spoglia ed essenziale come l’ondata innescata da Hawtin circa un decennio più tardi.

6) Trybet – Nautical One
Formato da Aric Rist e Mike Parker, il duo statunitense dei Trybet si muove per qualche anno nel segmento techno. L’ultimo EP inciso per la Geophone dello stesso Parker è proprio “Nautical”, composto da due versioni: “Nautical One” sale in progressione in una spirale vagamente goana riprendendo fiato grazie ad un paio di break, “Nautical Two” non si allontana dalle medesime coordinate ed offre una più convincente parentesi acid. Nel 2016 entrambi i brani vengono rimessi in circolazione in formato digitale attraverso i remaster di Adam Jay e due anni più tardi, a sorpresa, giunge pure un inedito, “Shinjugai”, realizzato nel 1996 ma rimasto chiuso nel cassetto per oltre un ventennio.

7) Bleep – Mr. Barth In The Sahara
Geir Jenssen utilizza lo pseudonimo Bleep tra 1989 e 1990 per firmare un album ed alcuni 12″, tutti per la belga SSR Records. Tra questi c’è “The Launchpad” che sul lato b annovera “Mr. Barth In The Sahara” in cui, per poco più di tre minuti, il norvegese incastra con dovizia ammalianti arpeggi sfilacciati in filamenti che rammentano il cinguettio tipico dell’acid in un telaio ritmico che infonde al tutto potenza, forza ed energia quasi al punto di esplodere. Da lì a poco l’artista nativo di Tromsø sveste i panni di Bleep per inaugurare una nuova fase della carriera marchiata col moniker Biosphere ed illuminata da un successo di proporzioni mondiali, “Novelty Waves”, estratto dall’album “Patashnik” e scelto dalla Levi’s per sincronizzare un noto spot televisivo.

8) Graham Gouldman – Animalympics
L’LP del britannico Graham Gouldman affonda le radici nel rock, anche con approcci un po’ mielosi (“Away From It All”, “Love’s Not For Me”, “We’ve Made It To The Top”). A smuovere la prevedibilità è “Go For It”, con derive disco socciane e per cui l’autore mette in risalto le virtù di bassista, ma soprattutto “Bionic Boar”, penultimo brano del lato b in cui pare rivolgersi alla tecnologia in cerca di ispirazione e dove tutto assume tinte più futuriste, seppur soltanto per poco più di tre minuti, occhieggiando a Yellow Magic Orchestra, Gary Numan e John Foxx. Non è chiara la ragione per cui nella chart il titolo sia stato italianizzato ne “Le Olimpiadi Degli Animali” e ad oggi pare non esista neppure una versione nostrana di questo album targato 1980.

9) Logan – Afterhours
Meglio noto come Gallen, negli anni Novanta Regis Weber firma Logan una manciata di EP tra cui “Two Parts Of Our Lives” sulla tedesca VooDoo Records. All’interno trova alloggio la traccia “Afterhours”, ascensione techno spirituale con rimandi ad Underground Resistance dai beat rigidamente definiti, una ridotta gamma cromatica ed un saliscendi di chord a strappo incrociati alla dolcezza di pad che fluttuano come in assenza di gravità e dolci come pasta di zucchero.

10) Craig Leon – Nommos
Nato in Florida nel ’52, a poco più di vent’anni Leon si trasferisce a New York dove inizia a lavorare per la Sire occupandosi di band come Ramones, Blondie e Suicide. Nel 1981, forte dell’esperienza accumulata, si cimenta in un LP, “Nommos”, destinato alla Takoma, che manda in orbita un suono in cui sperimenta tecniche nuove prendendo la world music facendola transitare nei circuiti di sintetizzatori modulari per ricavarne qualcosa di piacevolmente surreale. Ritmi africani elettrificati, placidità ambientale futurizzata, onde tonali che si infrangono su muri di percussioni flangerizzate: “Nommos” scruta nel futuro e lo rende palpabile specialmente nella lunga “Four Eyes To See The Afterlife”, oltre tredici minuti di galleggiamento spaziale che offre nuove prospettive alle visioni new age di Eno, Roedelius o Grosskopf. Diventato a posteriori un cult, viene ristampato nel 2013 dalla Superior Viaduct di San Francisco.

(Giosuè Impellizzeri)

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