La discollezione di Alessandro Tognetti

Alessandro Tognetti discollezione 1
Una panoramica della collezione di dischi di Alessandro Tognetti

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
I primi che ho comprato erano dei 45 giri di celebri artisti, Pink Floyd, Renato Zero, Lucio Dalla, John Travolta & Olivia Newton-John. Tra quelli anche “A Me Mi Piace Vivere Alla Grande” del prematuramente scomparso Franco Fanigliulo, un mio compaesano che portò il brano al Festival Di Sanremo nel 1979 suscitando un piccolo scandalo dovuto al testo.

L’ultimo invece?
Per mia figlia ho comprato “Exuvia”, il doppio di Caparezza, per me invece una ventina di mix degli anni Ottanta che mi mancavano.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Ne ho circa dodicimila ma non sono in grado di calcolare l’equivalente speso. Non ho mai pensato a quanti soldi abbia investito in vinile, prima ero un semplice appassionato ascoltatore che comprava dischi per se stesso, poi è diventata una professione ma ho continuato ad acquistarli anche per puro piacere personale e non solo per soddisfare le esigenze lavorative.

Come è organizzata la tua raccolta? La hai indicizzata secondo un metodo?
Ho seguito varie classificazioni, per autore, titolo, anno, etichetta, locale in cui suonavo… ormai conosco la posizione occupata dai dischi di quasi tutta la mia raccolta.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Saltuariamente li spolvero e lavo facendo molta attenzione. Quelli più importanti sono protetti da copertine plastificate.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo sì. Nel 1991 prestai circa settanta dischi a un amico a cui furono rubati. Col tempo li ho ricomprati quasi tutti.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno, per me sono tutti importanti.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti volentieri?
A volte si sbaglia nel fare acquisti ma non li rinnego e li tengo comunque per me.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una somma importante?
Sono in cerca soprattutto di dischi usciti negli anni Ottanta ma non faccio pazzie, posso vivere anche senza.

Quello con la copertina più bella?
“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles.

Credo che Muzak e Good Music, rispettivamente a La Spezia e Genova, siano stati due dei negozi di dischi che hai frequentato più assiduamente. Che ricordi ti riaffiorano ripensando a essi?
A Muzak e Good Music aggiungerei pure Dee Jay Doc a Ponsacco (di cui parliamo qui, nda). Quando arrivavo in negozio trovavo la mia “casella” coi dischi che il rivenditore aveva già scremato per me. Accendevo il piatto e iniziavo la selezione. Per molti anni mi recavo a Londra per fare acquisti, almeno una volta al mese. Dopo l’uscita di “Naked” su UMM, nel 1992, i negozianti d’oltremanica iniziarono ad avere un occhio di riguardo per me visto che il pezzo divenne una hit nei locali più cool della capitale britannica.

Tognetti con le produzioni
Tognetti con le sue prime produzioni discografiche, “Last Day”, “Naked” e “Different Places” di Man Myth Magic

Incidi il tuo primo disco nel 1992, “Last Day”, oggi particolarmente ricercato dai collezionisti. Cosa provava un DJ come te, negli anni in cui la discografia house/techno era ancora legata a una sorta di artigianato, nel vedere il proprio nome abbinato a una produzione discografica?
“Last Day” fu un parto, non finivamo mai di modificarlo. Ero alla mia produzione di debutto quindi un novizio. Lo realizzai nello studio di Leo Rosi a Serricciolo, vicino al Duplè. In quel periodo vivevo la favola di quel locale, Leo invece era un grande musicista dall’imprinting marcato che produceva sin dai tempi dell’italo disco. Rappresentavamo due mondi che si scontravano, campionamenti ossessivi contro melodie. Alla fine uscì un prodotto che a distanza di trent’anni continua a essere ricercato, basti vedere le quotazioni su Discogs. Abbiamo ricevuto parecchie richieste per ristamparlo, analogamente a quanto è avvenuto un anno fa con “Different Places” di Man Myth Magic.

Dopo “Last Day” arriva il citato “Naked”, prodotto nello studio di Alex Neri e Marco Baroni e di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui, che finisce nel catalogo di una delle etichette più importanti del periodo, la napoletana UMM. Incidere per una label di quella caratura cambiò qualcosa nella tua carriera da DJ?
Così come accennavo prima, “Naked” divenne una club hit nel Regno Unito, tuttavia fu snobbato da molti DJ “underground” (ai tempi si chiamavano così). Forse avevano ragione però la versione col sax, la Sax At Work, la suonavano in tanti, anche la domenica. La UMM (a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda) era una label che destò interesse a livello europeo e questo mi aiutò ulteriormente a trovare spazio nel mercato italiano. Poi, il fatto che l’avessi realizzato nello studio di Neri e Baroni, rappresentò un’ulteriore garanzia.

A chiudere l’ideale trilogia di matrice house è “Different Places” di Man Myth Magic, disco che realizzi con Mario Più e Franco Falsini (intervistato qui) per l’etichetta di quest’ultimo, l’Interactive Test, e per il quale, come raccontasti anni fa, si prospettò un remix degli Underworld. A distanza di ormai un trentennio è stato ristampato dalla Chroma, analogamente a una miriade di produzioni passate inosservate al momento della pubblicazione originaria ma trasformate in cult dall’incedere del tempo. La propensione per il recupero di materiale d’antan, ormai sfociata in ossessione a giudicare dalla quantità piombata sul mercato, è forse un segnale che la creatività in generi come house e techno si sia esaurita?
I dischi belli resistono al passare del tempo, non ho dubbi. Non saprei dire però se questa dei recuperi di materiale d’archivio sia solo una moda del momento o se invece durerà, vedremo.

Dal 1995 in avanti proietti l’attività discografica verso dimensioni progressive, un genere che, come tu stesso raccontavi diversi anni fa, era considerato di serie b da riviste e radio. Da cosa derivava tale disprezzo?
La progressive fu un fenomeno nato in contemporanea tra la Toscana e la Gran Bretagna. I DJ che suonavano o producevano quel genere venivano puntualmente snobbati dai fighetti della house ma acclamati dal pubblico che divenne sempre più numeroso. Italia Network, l’emittente che in quel periodo nel nostro Paese faceva il bello e il cattivo tempo per certa musica, difficilmente passava dischi progressive, secondo me sbagliando. Non saprei indicare le ragioni per cui avvenne ciò.

Tognetti dischi
Una parte dei dischi di Tognetti

Negli anni Novanta molti locali italiani creano una forte fidelizzazione del proprio pubblico: c’è chi è disposto a sobbarcarsi centinaia di chilometri pur di sentire il proprio DJ preferito e non manca persino chi organizza trasferte in pullman per raggiungere le agognate mete. A fare la fortuna di queste discoteche sono i DJ resident, soprattutto in Toscana, idolatrati da folle di giovani. Con l’affermazione degli special guest però, provenienti in primis dall’estero, cambia tutto, e tanti DJ resident si ritrovano depauperati del loro ruolo, ridotti a banali “warmuppisti” da avidi booker e dalla “divizzazione” di personaggi la cui notorietà non sempre è pari alla capacità in consolle. Gli imprenditori e gli art director italiani hanno sbagliato qualcosa?
Nel periodo di boom il pubblico andava nei locali per sentire due DJ suonare per cinque ore. Poi i DJ divennero cinque per suonare un’ora a testa. I gestori pensarono di poter aumentare l’affluenza semplicemente raddoppiando o triplicando i nomi sui flyer. Fu un errore madornale che ruppe la magia.

I popolarissimi DJ che si esibiscono di fronte a folle oceaniche con movenze da ballerini, intenti a pigiare continuamente tasti e ruotare manopole senza un apparente valido motivo, sono il risultato di una spettacolarizzazione con cui il DJing in principio non aveva alcun punto di contatto. Il fatto che oggi buona parte del pubblico preferisca riprendere il tutto col proprio smartphone anziché ballare è un segno indicativo che sia cambiato qualcosa nel rapporto con la musica?
Negli ultimi anni vedo bravissimi DJ old school (ne cito due su tutti, Sven Väth e Francesco Farfa) che rimangono tra i top, ma nel contempo sono emersi tanti “DJ ballerini”, sia uomini che donne, e la cosa mi fa sorridere. Il panorama attuale però pare offrire proprio questo tipo di prodotto che sembra funzionare.

Credi ci siano radicali differenze tra coloro che partecipavano alla Love Parade ed eventi simili organizzati negli anni Novanta e quelli che ora vanno in visibilio per il Tomorrowland?
Anche in questo caso è un discorso legato ai tempi che viviamo. Al momento questa formula funziona ma preferisco non commentare.

Tra le centinaia di locali in cui hai lavorato ci sono stati il Duplè, l’Insomnia e l’Imperiale, rimasti impressi a fuoco nella memoria di un’intera generazione che oggi ne parla, con parecchia nostalgia, come fenomeni irripetibili. Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando a ognuno di essi?
Procedo in ordine cronologico partendo dal Duplè nel biennio 1991-1992: “Moog Eruption” di Digital Orgasm, che molti ricordano come “Disco Duplè ’91”. Lo proponeva Roby J nell’estate di quell’anno e alla riapertura del locale, a settembre, lo faceva suonare a me; “Long Wave” di New Latin Age, un capolavoro di Giorgio ‘MBG’ Canepa che mi ricorda ancora Roby J. Conservo gelosamente una cassetta con su inciso questo brano; “No Fate” di Zyon, un pezzo che mi rappresentava molto e che proposi per diversi mesi.
Insomnia, 1992-1993: “Wow! Mr. Yogi (Control The Mind)” di The Overlords, un disco che scartai la prima volta che l’ascoltai, per ricredermi però una settimana dopo; “Sugar Daddy” di Secret Knowledge, che presi a Londra in formato promozionale e fu un successo immediato, un autentico viaggio progressivo; “The Sheltering Sky” di Cosmo Vitelli che possiedo in doppio promo, solo per intenditori.
Imperiale, 1994-1995: “Saxomatic” di Aldrin Buzz, un pezzo marchiato con un buffo nome che parodiava quello del secondo uomo che mise piede sulla luna, l’astronauta Buzz Aldrin; “Mystic Force” di Mystic Force, una produzione su cui c’è davvero poco da dire, un capolavoro assoluto; “Hymn” di Moby, che credo di essere stato tra i primi a suonare quando era ancora un promo.

Nel 2018 hai pubblicato il tuo primo libro, “Un Esercito Senza Divisa”, a cui due anni dopo è seguito “Una Tribù Che Balla”: come ti sei ritrovato nella dimensione da scrittore? Conti di dare un seguito alle opere in un prossimo futuro?
Vedere pubblicato il mio primo libro mi ha fatto rivivere la stessa emozione provata quando uscì il mio primo disco. Non avrei mai pensato di scrivere un romanzo, in realtà doveva essere una sorta di trattato storico ma poi mi sono accorto che un autore aveva pubblicato un libro impeccabile sullo stesso argomento e il progetto rimase fermo per un mese. Una notte sognai Roby J, mio grande amico nonché incredibile DJ con cui ho avuto la fortuna di condividere le migliori consolle. In quel sogno mi suggerì di scrivere un romanzo e mi spronò ad andare avanti nel mio proposito di scrittura. La mattina mi svegliai felice ma perplesso. Decisi di seguire il suo consiglio e, come sempre, aveva ragione lui. “Una Tribù Che Balla”, alla fine, si è rivelato una sorta di romanzo giallo che si intreccia con una storia nelle discoteche degli anni Novanta. È stato un grande successo anche se un paio di colleghi hanno detto che è troppo autocelebrativo. Colgo quindi l’occasione per precisare che non è stato scritto per far vedere quanto fossi bravo, ho usato il mio nome solo perché ho vissuto in prima persona molte, o forse tutte, le vicende raccontate. Il vero protagonista del romanzo in realtà è il pubblico delle serate nei club che si è riconosciuto e ha apprezzato il libro. Al momento sto lavorando al seguito di “Una Tribù Che Balla” ma con la pigrizia che mi contraddistingue quindi non so quando uscirà.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegando le ragioni.

Orbital - IIIOrbital – III
Il disco comprendeva tre tracce, “Satan”, “L.C.1” e “Belfast”, che proponevo puntualmente durante la mia esperienza all’Imperiale nel 1991, quando il locale faceva il famoso Mezzanotte-Mezzogiorno con un pubblico che permetteva di sperimentare sonorità veramente all’avanguardia.

Ecstasy Boys - Seven Steps To HeavenEcstasy Boys – Seven Steps To Heaven
Rischio di essere monotono ma pure questo disco, pubblicato dalla newyorkese Quark, mi ricorda Roby J: glielo sentii suonare al Barattolo, una discoteca a Marina di Pietrasanta, in Versilia. Ai tempi serviva molto coraggio per proporre un brano di questo tipo, da veri intenditori.

Tune - Change The BeatTune – Change The Beat
Comprai “Change The Beat” a Modena, al Disco Inn in Via Don Minzoni, e nel 1991 divenne uno dei pezzi che caratterizzava quasi tutti i miei DJ set. Un paio di anni dopo, insieme a Gianni Bini (intervistato qui, nda) e Leo Rosi, realizzai persino una cover, “After Tune” di 2 Matrix, su etichetta Whirlpool, che contava su un inserimento vocale. La traccia originale, pubblicata dalla belga R&S Records e composta dall’olandese Jochem Paap meglio noto come Speedy J, girava appena su sei suoni ma l’effetto creato in pista era fantastico.

Phenix - RevelationsPhenix – Revelations
Un 12″ sulla Atmosphere Records di Frankie Bones che, con pezzi come “The Final Conflict” e “Overture”, proietta immagini degli after hour al Duplè allo stato puro. Ottima anche la traccia che chiudeva il lato b, “Clockwise”, in cui l’autore campionò alcune voci dal film “Blade Runner”. Sicuramente uno dei dischi che ho suonato di più durante l’estate del 1991.

Interdance - Vol. 1Interdance – Vol. 1
Acquistato e proposto assiduamente nel 1990, divenne una club hit l’anno successivo. Delle quattro tracce incise, quella che preferivo era “B.O.A.C.”, la prima del lato b. Un’ottima produzione italiana del BHF Team formato da Paolo Bisiach, Christian Hornbostel e Mauro Ferrucci (questi ultimi due intervistati rispettivamente qui e qui, nda).

Don Carlos - AloneDon Carlos – Alone
Non saprei come definire propriamente “Alone” (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda), sicuramente era tra quelli che mi aiutavano a creare atmosfera. Edito nel 1991 dalla bolognese Calypso Records, sottoetichetta della Irma, fu realizzato da Carlo Troja mescolando ritmi house con sonorità jazz afroamericane e con qualche occhiata alla disco.

Flow - Another TimeFlow – Another Time
“Another Time” era un disco-viaggio capace di uscire dal genere strettamente house proposto dall’etichetta che lo pubblicò nel 1992, la Bottom Line Records di New York fondata da Edward Goltsman. Senza alcun dubbio, uno dei miei dischi preferiti di sempre.

Olimpo - Free Your MindOlimpo – Free Your Mind
Prodotto da Francesco Farfa e Joy Kitikonti (intervistati rispettivamente qui e qui, nda), “Free Your Mind” è un brano simbolo di una generazione, inserito nella ricercatissima “Insomnia Compilation” del 1994, selezionata da Antonio Velasquez e limitata alle appena 500 copie. Piccolo aneddoto: due tracce della tracklist furono realizzate anche da me, nonostante il mio nome non appaia nei crediti. “West Coast” di Solid Foundation lo composi con Fulvio Perniola e Ricky Le Roy scopiazzando un pezzo tratto dal catalogo della Guerilla di William Orbit e Disc O’Dell, mentre “Harmony” di Atlantis lo feci a quattro mani col solo Perniola.

Marvin Gardens - My Body And SoulMarvin Gardens – My Body And Soul
Quando proponevo questo disco al Duplè veniva giù il locale. Analogamente a quanto avvenuto per “Wow! Mr. Yogi (Control The Mind)” di The Overlords, scartai “My Body And Soul” (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda) al primo ascolto: non mi piaceva la cassa e, per le sonorità che proponevo in quel momento, ritenevo che la parte vocale fosse fin troppo lunga. Mi sbagliai e la settimana successiva tornai in negozio per comprarlo.

Density - Yes (I Love You Baby)Density – Yes (I Love You Baby)
Una traccia tratta da uno dei tanti EP prodotti da Giorgio Canepa alias MBG, un altro capolavoro del DJ genovese. Ricordo con piacere quando lo proponevo nell’estate 1992 al Duplè e nei locali in cui suonavo, un brano che metteva felicità.

(Giosuè Impellizzeri)

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UMM, un’avventura memorabile

Block - Block
“Block” di Block, primo disco pubblicato dalla Flying Records nel 1988

Napoli, 1988: la Flying Records, con la sede al 25 di Via Santo Strato, a Posillipo, pubblica “Block” dell’artista omonimo, un brano a metà strada tra house e hip hop sul modello marrsiano proveniente dal catalogo della britannica Vinyl Solution e prodotto da Jonathan Saul Kane. È il primo tassello di un’incredibile avventura imprenditoriale che durerà circa un decennio e lascerà un profondo solco del proprio passaggio nella scena musicale italiana e non solo. Fondata da Flavio Rossi e Angelo Tardio, la società in accomandita semplice Flying Records opera inizialmente come distributore, importando musica dall’estero e ripubblicando in Italia alcuni titoli stranieri per cui nutre interesse, le “licenze”, allora strategiche e determinanti perché in grado, da un lato, di garantire prestigio, dall’altro, potenziali riscontri economici importanti. Il team della Flying Records brillerà presto sotto questo profilo rivelandosi scaltro nell’individuare con tempismo musica e artisti nuovi su cui scommettere e trasformare il tutto in opportunità di crescita. È il caso di “Let’s Play House” dei Kraze, giunto dopo la hit “The Party”, “Let There Be House” di Deskee, “Wiggle It” dei 2 In A Room e “3 Feet High And Rising”, primo album dei De La Soul. L’attività poi si consolida attraverso la produzione di musica inedita di artisti messi sotto contratto come Joy Salinas, Dino Lenny e Digital Boy, di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui: in breve Flying Records diventa una sorta di polo industriale, organizzato sul modello di grandi realtà estere e mosso da una vocazione che intreccia imprenditoria e creatività.

Tardio nel deposito Flying Records di Posillipo (intro)
Angelo Tardio nella prima sede della Flying Records a Posillipo (1989 circa)

I tempi per la musica da discoteca sono propizi, il mercato è letteralmente invaso da produzioni house e techno e i numeri lasciano intravedere un più che roseo futuro. Ciò permette la nascita e la proliferazione di un numero indefinito di etichette messe nella condizione di poter esprimere il proprio potenziale anche senza cercare necessariamente il consenso del grande pubblico. Questo avviene in virtù della fitta rete di DJ sparsi nel mondo disposti a supportare quel tessuto connettivo che si autoalimenta grazie a continue novità, nomi nuovi e inedite traiettorie stilistiche. La musica underground brulica nel sottosuolo e non ha affatto bisogno di essere gestita come quella delle multinazionali con ingenti investimenti in attività promozionali, tournée nazionali e internazionali o costosi videoclip. Gran parte dei mix è priva persino della copertina, rimpiazzata da generiche bianche o nere col buco centrale, economiche ma pratiche perché consentono ai DJ di consultare istantaneamente i titoli. In buona sostanza si tratta di musica che nasce e vive di passione, senza sovrastrutture legate al divismo da stadio pop/rock, immessa sul mercato talvolta macinando poche centinaia di copie ma a volte svariate migliaia, a seconda di particolari condizioni. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il nome degli autori è celato dietro alter ego di fantasia, totalmente anonimi, e questo rende il tutto ancora più viscerale perché disconnesso da fidelizzazioni di sorta, ma del resto la storia di generi come house e techno è ancora agli inizi e sono davvero pochi gli artisti a vantare repertori discografici di rilievo. Proprio in questa dimensione nel 1991, tra le mura della Flying Records, nasce UMM, acronimo di Underground Music Movement, l’etichetta che Angelo Tardio, ex DJ in discoteca, nelle radio private e con qualche esperienza sul piccolo schermo, crea con lo scopo di dare voce alla musica che più gli piace, non tenendo conto delle classifiche, delle esigenze e delle richieste del mercato mainstream, coperte invece dal brand omonimo del gruppo campano, Flying Records per l’appunto.

UR feat. Yolanda
“Living For The Nite” di Underground Resistance Feat. Yolanda, prima licenza messa a segno da UMM nel 1991

1991, fiammata rave
A tagliare il nastro inaugurale della UMM è un disco prodotto tra Perugia e Londra dai D.B.M., apparente duo formato da Kurt D.J. e Giulio Benedetti. Il brano si intitola “Real Dream” e pesca a piene mani dal repertorio ravey, con spezzettamenti ritmici breakbeat, voci campionate, pianate e qualche stab ad acuire la tensione. Simili le coordinate entro cui è inscritto “The Voice Of Rave” del progetto omonimo dietro cui armeggia il ligure Luca Pretolesi, giunto da poco alla Flying Records come Digital Boy. In rilievo uno dei pezzi sul lato b, “Raveology”, dove pulsa un groviglio di ritmo e bassline rivelando la sua potenza insieme a voci gutturali, probabilmente quelle dell’MC di Pretolesi stesso, l’americano Ronnie Lee, il futuro Ronny Money ed MC Rage di cui parliamo qui. Dopo una doppietta italiana sul piatto arriva la prima licenza messa a segno da Angelo Tardio, “Living For The Nite” degli Underground Resistance, un disco proveniente da Detroit dalle matrici house interpretato vocalmente da Yolanda Reynolds che riporta ai grandi successi ottenuti pochi anni prima da Kevin Saunderson e Paris Grey come Inner City. Tra i remix pubblicati a distanza di qualche settimana, oltre alla Deep In The Nite Mix approntata dallo stesso Tardio sotto l’alias Funk Master Sweat, due sono firmati da Digital Boy che così ripaga quello che gli Underground Resistance realizzano per la sua “This Is Mutha F**ker!”. Detroit è una parola di riferimento per chi ai tempi opera in ambito house/techno come Ivan Iacobucci, da Bologna: il suo EP, intitolato “Detroit 909” e firmato KGB, è un anello di congiunzione tra l’italo house sognante e più agitate partiture ritmiche. Alla delicatezza della title track si contrappone la ruvida “Scream (Wake Up!)” che riagguanta il mood rotolante di “Theme From S-Express” di S’Express con un graffiante vocal (di A Bitch Named Johanna?), e la percussiva “Bondage” sul lato b, con slanci technoidi. Chiari riferimenti al modello della musica rave si incontrano anche nell’EP di Tony Carrasco intitolato, per l’appunto, “Selections From The Rave”: il DJ newyorkese, con esperienze maturate al mitico Studio 54, mette a segno pezzi di estrazione eterogenea, dalla sinuosa “Trip City” alla rilassata “Funky-Ology” passando per l’ossessiva “Time Bomb (I Can’ttt Wait)” e la deliziosa “Swiss Chocolate” scritta insieme al sassofonista Nicola Calgari con cui continua a collaborare per “The System” di The Faust, a cui mette mano anche Andrea Panigada. Maggiormente proiettato nel cosmo technoide, il disco vede l’inserimento di parti rappate di Fausto Guio, da Brooklyn, seppur il suo nome non figuri tra i crediti. Il medesimo team appronterà nel Bips Studio di Milano un secondo disco che UMM pubblica nel corso dell’anno, “Buckwild”.

A metà strada tra house e techno è anche “Angel Of Love” di Jo Smith, cantante britannica diventata nota anni dopo interpretando pezzi eurodance (su tutti “Wonder” di Cerla & Moratto) per l’occasione prodotta da Paolo Casa col supporto del citato Elvio Moratto e Fulvio Zafret e remixata a Roma da Luca Cucchetti. Viene proprio dalla Capitale “Secret Doctrine” di The True Underground Sound Of Rome Featuring Stefano Di Carlo, collettivo fondato da Chicco Furlotti e animato dai DJ Leo Young e il compianto Mauro Tannino. Messo inizialmente in circolazione dalla Male Productions in formato promozionale, viene ripubblicato da UMM con l’ambizione di diffonderlo più capillarmente oltremanica e oltreoceano. Proviene giusto dagli States “These Are My People” dei Members Of The House, un disco house/garage partito dalla Shockwave Records (la stessa sulla quale, poco tempo dopo, debuttano i mitologici Drexciya con “Deep Sea Dweller”) e prodotto dagli Underground Resistance, lieti di riapparire sulla label di Tardio a poca distanza da “Living For The Nite”. Torna pure Iacobucci, questa volta come DJ Ivan, con “All Night” prodotta insieme a Enrico Mantini, a cui fa seguito “Your Body” con cui Iacobucci stringe la collaborazione con Nicola Dragani e Andrea Cosma. Seppur ascritto ancora a quella (club) house italica, riscaldata da fiati ed eterei pad, in “Carbonized (You Gotta Put Me On)” vibrano linee ruvide che lambiscono l’acid, contestualmente a balbettanti frammenti vocali. A produrlo, dietro il nome Aspro Marinetti, è il torinese Stefano Righi meglio noto come Johnson Righeira e passato alla storia con l’amico Stefano Rota coi Righeira. A bazzicare contemporaneamente house e techno è pure Emanuele Luzzi alias Onirico col suo “Stolen Moments” a cui abbiamo dedicato qui un ampio approfondimento. Tra i più ricercati del catalogo, l’EP è stato ristampato un paio di volte, l’ultima nel 2022. Le porte di UMM si aprono anche per Lino Lodi e Stefano Mango che nel loro S.MA.L.L. Studio di Maniago, in provincia di Pordenone, assemblano “Check It Out” di Eighteenhours, avvalendosi di un remixer d’eccezione, Mr. Marvin, che cura le due versioni dai toni sensuali sul lato b. Lodi e Mango proseguiranno la carriera prediligendo un suono crossover (Face The Bass, Pan Position, Express Of Sound tra i loro act più noti) e lasciando nel dimenticatoio Eighteenhours. Dal Veneto arrivano i fratelli Gianni e Paolo Visnadi con “NOFutureNOPast”, quasi un mini album tante le tracce racchiuse all’interno, ben sei, con divagazioni tribaleggianti (“Hunts Up”), luccichii trance (“Asaid Asaid”), affondi downtempo (“Dreams”, “The Good Place”). Romana invece la provenienza del disco dei G.M. (G per Giancarlino – Battafarano, M per Micioni – i fratelli Pietro e Paolo), un quattro tracce da cui emergono l’estatica “L.O.V.E. Ambient” e “You Got Your Love” in cui fa capolino la voce di Giulia Puzzo alias Julie P., pure lei dalla Città Eterna. La prima annata di UMM, dunque, rivela un’attività tentacolare: Tardio ha le idee chiare su che musica investire denaro e risorse, sia quella importata dall’estero, sia quella prodotta entro i confini nazionali, e questo ribalta la sua posizione da sfegatato esterofilo emersa ai tempi di Musical Soup su Telepartenope nel 1981, quando poco più che ventenne viene definito “Il Mister Fantasy del Vesuvio” paragonato a Carlo Massarini e passa in tv i pezzi di Adam And The Ants e di altri gruppi new wave britannici.

1992-1993, esplosione underground
I fratelli Visnadi dimostrano di avere un mucchio di frecce al proprio arco e tirano fuori un altro EP da sei tracce che firmano CYB, “Snake Bit”, trainato dal brano omonimo, una serpentina ipnotica spinta a lambire il bleep e l’acid. Poi stab nervosi (“Ovverture”), un’altra scorribanda all’interno di un suono gommoso ed elastico (“Five”) e una visione deep house velocizzata (“Unisound”). Spietata techno hooveristica si ritrova in “Fury” degli Underground Resistance, un’altra licenza tratta dal catalogo dell’etichetta detroitiana che sul lato b vede l’altrettanto ciclonica “Cyclone”. Provenienti dall’estero sono pure “Endangered Music” di Endangered Species, un disco particolare ai confini tra jazzdance e deep house partito dalla britannica V4 Visions, e “Strong To Survive / Fuck You Up” di Blake Baxter, originariamente sulla Incognito di Detroit. Completamente italiana invece la produzione di “Desafinado” a firma Rhythm 3 Request, team veneto in cui figurano Paolo Verlanzi e Vic Palminteri che nello Yellow Studio di Jesolo approntano un dolciastro anthem italo house issato su un pattern tribaleggiante, forse ispirato da “Koro-Koro” di No Smoke. Romana invece la produzione del primo volume di Progetto Tribale, nuova avventura di Giancarlino Battafarano e dei fratelli Micioni alle prese con un sound che, come annuncia il nome stesso, attinge a piene mani dalla musica africana. È sufficiente ascoltare “Tribal Makossa” per capire quanto fossero in ritardo coloro che, almeno dieci anni più tardi, si sono illusi di aver creato la corrente tribal house. Suadenti fiati si rincorrono in “Don’t You Ever Stop” di Tranquil, act one shot del newyorkese ma di chiare origini italiane Dino “Blade” Bellafiore. Sul lato b “Smoke Signals” remixata da un altro statunitense figlio di immigrati italiani, Ralph D’Agostino noto come Ralphie Dee. Sono rave techno, con flessioni breaks e urla da stadio, sia le matrici di “F.U.C.K.” di M.A.S.E.R., un’altra produzione proveniente dalla Capitale a cui mette mano pure il compianto Stefano Facchielli alias D. Rad, sia quelle di “Elevator EP” dei Noisee Boyz, da cui si ergono bene pezzi come “Most Illogical” o “Quadra Wave”, ricolmi di suoni a onda quadra collocati in stesure cervellotiche. I Visnadi riappaiono con la dream house di “Don’t Make Me Wait” di EDN a cui segue “Chrystol Dance” di Nu-World, pezzo venato di funk con un sample all’interno tratto da “Crystal World” dei Crystal Grass e preso in licenza dalla Tom-Tom Club d’oltremanica. Verlanzi e soci ritornano col secondo disco di Rhythm 3 Request, “Form The Pages Of Our Mind” (ma è plausibile che per un refuso il “from” sia diventato “form”), un EP in c’è dolcezza (“Feel The Rhythm”, “Delicious”) ma anche energia percussiva (“Back Frog”). Secondo atto per i capitolini Progetto Tribale intitolato, semplicemente, “Volume 2”, ed è spiccatamente tribaleggiante anche la vena di “Baa. Daa. Laa.” degli A.T.S., (acronimo di African Tribal System) dietro cui si celano i fratelli Maurizio e Michele Divito e Antonio Ursi. A distanza di qualche mese il brano riappare attraverso un paio di remix dei Visnadi. Più aderente al suono soffuso e “foggy” tipico della house prodotta in quel periodo per i club sono i sei pezzi racchiusi nel “Volume 1” dei Transitive Elements, nome che tiene insieme l’asse creativo di Argentino Mazzarulli ed Enrico Mantini. Su tutti spicca la radiosità di “Octivation (Zone Dub)”, ripescata nel 2017 nel secondo volume della compilation olandese “Welcome To Paradise”, e “Artico”, un metti e togli tra ritmo e vocalità. L’utilizzo delle percussioni afro è predominante anche in “Let The Bongos Sing” degli Home-Grown (Miles Morgan e Sean Casey), proveniente dalla Tomato Records. Giunge d’oltralpe (dall’olandese Natural Records) pure “Pot Of Gold” dei Chestnut, house solidificata intorno a slanciate vene percussive e rivista in più remix tra cui quello di Frank De Wulf. È il primo doppio mix per la UMM.

L’attenzione che Angelo Tardio riserva alla sua etichetta è tangibile. Perennemente intento ad ascoltare musica nuova proveniente da ogni angolo del globo, individua un nuovo gruppo britannico, i Lionrock, prodotti dal DJ Justin Robertson, che vuole su UMM con “Roots ‘N’ Culture (Part 1)” e “Lionrock”, per l’appunto, e a ruota “Set Me Free” dei Nightmares On Wax, proveniente dal catalogo Warp Records, e “Life / This” dei Tribal Technology / MAD @ Chris (questi ultimi col supporto vocale di Tori Amos), individuati in una raccolta della t:me di Nottingham. Ralphie Dee & Dino Blade nuovamente in azione con “Calypso Interlude”, altra parentesi aperta sulle infinite potenzialità offerte dalla combinazione tra house e afrobeat. Il brano verrà ripescato l’anno seguente con due remix provenienti dai Paesi Bassi, uno di Maarten van der Vleuten alias DJ G-Spot, l’altro di Hole In One, spinto dal successo di “X-Paradise”. Come un autentico fiume in piena, la UMM intercetta “Nush” dei debuttanti Nush (Danny Harrison e Danny Matlock) e “Samba” con cui Todd Terry avvia un nuovo act, House Of Gypsies. Il DJ newyorkese, tra i guru della house, riappare poco dopo con “Can You Feel It” di CLS, pubblicato prima su un doppio e poi su un singolo destinato ai remix di Giuseppe ‘MAN-D.A.’ Manda, ai tempi venditore per Flying Records, e i Fresh n’ Funk ovvero Carmine Tortora (partner in crime di Tardio nel progetto Kwanzaa Posse) e Roberto Masi dei Blast.

Visnadi - Four Journeys
La copertina di “Four Journeys” dei Visnadi

Tardio continua a credere nelle facoltà compositive dei Visnadi pubblicando “Four Journeys” (all’interno pure una traccia dai riflessi techno prodotta con Floriano Fusato, “Transpassage”), supporta Maurizio Verbeni con “Pump The Voice”, scandito da un esotico xilofono, e il team dei Submission (Ivan Iacobucci, Ennio Carusillo e Sergio Macciocu) che per la loro prima (e unica) apparizione sfoderano un piacevolissimo pezzo garage, “Trouble”. Altrettanto convincente l’esordio degli Statement (tra gli autori i DJ Fernando Opera e Patrizio Squeglia, ai tempi grafico per Flying Records) con “Our Concept”, in cui i confini tra house music, jazz e funk diventano labili. Un altro colpaccio messo a segno da Tardio è rappresentato da “Work In Progress EP” dei britannici Rejuvination (Glenn Gibbons e Jim Muotune), preso in licenza dalla neonata Soma. È il cinquantesimo mix dell’etichetta partenopea. A seguire arriva “Naked” di Alessandro Tognetti, inciso nel Bass Recording Studio di Alex Neri e Marco Baroni. Il brano galleggia sulle classiche atmosfere della italo (deep) house di quel periodo. A spiccare è la Carol Version, scandita da un sax e una suadente voce femminile erroneamente scambiata per quella di Carolina Damas, la venezuelana diventata nota qualche anno prima per “Sueño Latino”. A sgombrare ogni dubbio è lo stesso Tognetti in questa intervista: «La voce era tratta da un’acappella inglese. Optammo per Carol Version perché, banalmente, in quel periodo la mia fidanzata si chiamava Carol». Tardio è sempre sul pezzo: dalla britannica Guerilla prende in licenza “Land Of Oz” degli Spooky e dalla newyorkese One Records “The Conversation” degli Orchestra 7 prodotto da un vero fuoriclasse della house d’oltreoceano, Roger Sanchez. Il materiale accumulato è talmente tanto da riempire una compilation, edita sia su doppio vinile in formato gatefold che CD, intitolata “The Remixes”. All’interno, come è facile presumere dal titolo, solo remix, da Progetto Tribale a KGB e Visnadi passando per House Of Gypsies, Underground Resistance Feat. Yolanda e Blake Baxter. In copertina, sulla vista aerea della costa campana, si rinviene un messaggio in cui Tardio alias Funk Master Sweat prima spiega le motivazioni che lo hanno spinto a creare un’etichetta non disposta a sposare le classiche leggi commerciali e poi rimarca come il termine “underground” sia finito con l’identificare altro nel mercato generalista, in netto contrasto coi dettami di UMM. Per l’occasione promette di restare fedele al credo di partenza e lo dimostra subito mandando in stampa “Dreams EP” di The Neverending Dreams, team di produzione in cui, tra gli altri, spicca il nome del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano, “Don’t Give Up” degli Statement, “The Ultimate Result” di Enrico Mantini e “Solution EP Vol. 1” di Stefano Noferini registrato, analogamente a “Naked” di Tognetti, presso lo studio di Neri e Baroni in provincia di La Spezia, da dove proviene pure “Good Time” dei Mantras.

Alex Party - Alex Party
“Alex Party” del progetto omonimo, diventato popolare col titolo “Read My Lips”

Macinando più pubblicazioni al mese, UMM inizia a ritagliarsi un posto di assoluto rilievo tra le etichette house che contano a livello internazionale, e si accaparra altre licenze di pregio, come “Schmoo” degli Spooky (con remix degli Underworld sul lato b), “More Than Just A Dance” di Phantasia alias DJ Pierre, “This Some Bad Weed” dei Soundcraft, “Every Now And Then” di Ralph Falcon e “House Ala Carte” di Jovonn, che di fatto la pongono su un piedistallo e la elevano dal classico fare discografico italiano. La vocazione internazionale è palese, la direzione di Tardio non lascia adito a dubbi di sorta ma senza tradire un certo made in Italy, come quello dei Gradiva con cui i Visnadi allacciano i rapporti col DJ Alex Natale e tirano fuori “To The Funky Beat” che preannuncia lo stile di Alex Party, giunto poco dopo col brano omonimo in cui trovano alloggio uno stralcio vocale preso da “Read My Lips” dei DSK, già riciclato un paio di anni prima dai People In Town, e quello di “Weekend” dei Class Action, coverizzato con successo da Todd Terry nel 1988. Il brano esploderà nel Regno Unito nel 1994 col titolo “Read My Lips”. I Visnadi incidono nuove versioni di “Hunt’s Up” con suoni più elettronici (Christian Zingales, in “Techno”, descrive la Trance Mix come «una psicotica cattedrale sintetica lanciata ad alta velocità verso il nulla dove risuonano a grande effetto le mortali spirali da caduta libera di uno dei sample vocali più letali della storia, quello di “Scream For Daddy” di Ish già usato dagli S-Express in “Theme From S-Express”») e “Moovin’ Groovin'” con cui calano il sipario su EDN. Da Roma si fanno risentire i Progetto Tribale (Giancarlino, D. Rad e i fratelli Micioni) col “Volume 3”, l’ultimo destinato a UMM (il quarto finisce l’anno dopo nel catalogo D:vision). Nel brano di chiusura, “Tribal Thanx”, tributo downtempo a tanti miti della musica, c’è la voce di Marina Restuccia, ai tempi attiva come Jamie Dee e da lì a breve proiettata nella carriera pop come Marina Rei.

Fortemente determinato a proseguire con lo stesso passo, Tardio continua a iniettare linfa vitale nei circuiti della sua etichetta bilanciando produzioni nostrane ad altre importate dall’estero. In rapida sequenza escono “I Know You Can Hear Me”, unica apparizione dei The Miners (Giancarlino, Marco Scocchi e D. Rad), “Pleasures’ EP” dei 2 Guys (apparizione one shot dei Visnadi) trainata dalla estatica “Deep Blue Night”, “The Anixus EP” degli Anixus, richiestissimo sul mercato dell’usato e ristampato pochi anni fa, e “I Want You Now” dei Global Cut (Massimiliano Rovelli, Mimmo Mennito, dipendente Flying Records nel settore import, e Giampiero Mendola). D’oltralpe giungono invece il secondo volume di “Wildtrax” di Wildchild (che un paio di anni dopo spopola con “Renegade Master”), e “I Can’t Get No Sleep” dei Masters At Work Featuring India, originariamente sulla Cutting Records dei fratelli Aldo e Amado Marin e potenziato dal remix di Marc ‘MK’ Kinchen. L’interesse nutrito per la musica di Vega e Gonzalez convince a rilevare anche il loro primo LP intitolato, semplicemente, “The Album”. All’interno pezzi come “Can’t Stop The Rhythm”, “All That” e “The Buff Dance”. Il tutto viene pubblicato sia su vinile (doppio) che CD, scelta condivisa pure per “Gargantuan”, l’album degli Spooky. Doppia è altresì la compilation “Tribute – DJ Collection Vol. 2”, tratta dal catalogo della Hi-Bias Records, riempita con dodici tracce in perenne bilico tra deep house e garage. Dall’etichetta canadese giunge anche “Love Attack” di Groove Sector, progetto del DJ italo svizzero Stéphane Stillavato meglio noto come Willow. “Syxtrax” è un EP che, come promette il titolo, contiene sei tracce erranti tra progressive, trance e techno. A produrle gli infaticabili fratelli mestrini Visnadi che per l’occasione rispolverano il loro progetto più technofilo, CYB. Giungono da Cassino invece, in provincia di Frosinone, i tre amici (Claudio Coccoluto, Savino Martinez e Dino Lenny) che approntano “Friend”. Per l’occasione si fanno chiamare HWW, acronimo di House Without Windows ironizzando sul fatto che il loro studio amatoriale sia talmente piccolo da essere privo di finestre. È un periodo particolarmente florido per i DJ italiani che, sparsi un po’ in tutto lo Stivale, mettono su piccoli studi di registrazione facilitati da prezzi più accessibili delle strumentazioni, alcune tecnologicamente quasi obsolete ma perfette per le nuove forme della musica dance. Da Bologna arrivano i due volumi di “The Grunge EP” degli Underground Ghosts (Ivan Iacobucci e Nick Dragani), da Jesolo “Keep The Children Free”, ultima apparizione per i Rhythm 3 Request probabilmente ispirati dall’ipnotismo di “Plastic Dreams” di Jaydee di cui parliamo dettagliatamente qui, da Palermo i cugini Dario e Mario Caminita con “I Can’t Quite Understand / So Good” di Klaiff, da Pescara Enrico Mantini che, affiancato da Marco Fioritoni, appronta le quattro tracce per il secondo volume di Transitive Elements. Ultima volta su UMM pure per gli Statement con “C’Mon And Get It!”, con un sample carpito a “I Got My Mind Made Up” degli Instant Funk, a cui fa seguito “The Land Of Flux” di 3 Of Us, team perugino che destina tutti i lavori successivi alla SVR – Seven Valley Records. Il brano attinge a piene mani da “Fluxland” dell’omonimo artista olandese (Ramon Roelofs, meglio noto come Charly Lownoise) e conoscerà un successo generalista attraverso un’altra cover messa a segno dagli XL, edita dalla Reflex Records nel 1994.

Fathers Of Sound - Revelation
“Revelation” dei Fathers Of Sound

Tardio non perde mai di vista il mercato estero: dalla Vibe Music di Chicago prende “Strawberry” di Georgie Porgie, impreziosita dai remix di Maurice Joshua e degli UBQ Project (Aaron Smith e Terry Hunter), dalla One Records di New York invece “I Need You” di Nu-Solution, progetto one shot di Roger Sanchez accompagnato dalla voce di Tonya Wynne che conta così tanti remix (tra cui quelli di Ralph Falcon, StoneBridge e del nostro Luca Colombo) da necessitare un doppio mix. Ralphie Dee & Dino Blade approntano il seguito di “Calypso Interlude” ovvero “Deranged EP”, un extended play in cui si intersecano varie traiettorie stilistiche, mentre Maurizio ‘Jazz Voice’ Verbeni inaugura Degression con “Doctor Jazz” in cui, prevedibilmente, scorrono partiture jazzate in un caleidoscopico puzzle di sample. Ai nastri di partenza ci sono i Fathers Of Sound (i toscani Gianni Bini e Fulvio Perniola affiancati da Paolino Bova intervistato qui) con “Revelation”, una traccia che sintetizza le atmosfere nebbiose della prog d’oltremanica con divagazioni detroitiane di UR o Kevin Saunderson. Il disco è un single sided che sul lato b accoglie un disegno inciso per esteso su tutta la facciata, un etched come si dice in gergo. Sono sempre i Fathers Of Sound a occuparsi della produzione sia di “I Can’t Forget You” di Anthony White, cantante originario di Philadelphia che vanta un’apparizione sulla Salsoul Records, “I Can’t Turn You Loose” del ’77, sia di “Inside Out”, brano che segna il debutto discografico di Stefano Noto, affermato DJ fiorentino. Con un flusso produttivo che non conosce soste ed esitazioni, in circa un biennio di attività UMM raggiunge un ambito traguardo, la centesima uscita. Per l’occasione Tardio appronta una raccolta intitolata, per l’appunto, “Cento”, che raduna brani inediti realizzati da artisti che gravitano intorno all’orbita della sua etichetta. Da Alex Neri e Stefano Noferini con “In Progress” a Ivan Iacobucci con “All Right”, da A.T.S. con “Kio Kisinza” a “Love” di MAN-D.A. passando per una nuova versione di “C’Mon And Get It” degli Statement, “Insanity” di Valez remixata dai Fathers Of Sound e “Tribal Acid” di Claudio ‘Cocodance’ Coccoluto. Il tutto viene riversato su doppio vinile e CD, suggellato da una copertina decorata con caratteri argentei in rilievo.

UMM è un marchio consolidato ma il suo fondatore non dorme sugli allori anzi, si pone sempre nuovi obiettivi da raggiungere e questo gli permette di incrementare il catalogo e allargare il roster artistico. Tra i nuovi arrivati ci sono Joy Kitikonti e Francesco Farfa, intervistati rispettivamente qui e qui, uniti come Hoyos Corya: il loro pezzo si intitola “Oyo” e segue la scia della prima ondata progressive toscana, quella che ibrida la house con elementi presi da techno e trance. Un nuovo act è pure quello di Enrico Mantini e Pietro De Rosa, Mood 2 Create, sviluppato su quattro tracce deep house quasi interamente strumentali, riscoperte dall’olandese 4 Lux di Gerd che le ristampa nel 2017. “Victim Of Obsession”, costruita sul campionamento vocale preso da “Set It Out” di Midway, viene pubblicata invece come The White Fluid. La creatività di Mantini è al diapason e poco dopo giunge “The Device EP” con altri cinque brani (tra cui “U Can Use It” e “I Will Be True”) che contribuiscono a definire il filone della house italiana da club dei primi anni Novanta. Non sono da meno Ivan Iacobucci e Nick Dragani che per il “Sea EP” s’inventano un altro pseudonimo, Nottambula, e i fratelli Visnadi che dal cilindro magico tirano fuori “Racing Tracks”, un brano che, come racconta Paolo Visnadi in questa intervista, «fu prodotto di getto, in un pomeriggio, con strumenti come il sintetizzatore Sequential Circuits Prophet-5, un campionatore Kurzweil, un processore di effetti Lexicon PCM 70 e un mixer Soundcraft TS24» aggiungendo che fu suonato dal vivo e tutta la sua struttura venne sviluppata interamente in tempo reale. Contraddistinto da rumori stradali che lanciano un parallelismo con “Autobahn” dei Kraftwerk, “Racing Tracks” viene illuminato di nuova luce nel 2013 da Maceo Plex che lo riedita nel suo “DJ-Kicks” su Studio !K7 per poi essere ristampato nel 2018 dalla romana Mr. Disc Organization. Sul fronte licenze, arrivano “Critical (If You Only Knew)” dei Wall Of Sound (John Ciafone e Lem Springsteen, meglio noti come Mood II Swing), tre nuove versioni di “Little Bullet” degli Spooky, dal citato album “Gargantuan”, “Can’t Stop The Rhythm” e i remix di “When You Touch Me” dei Masters At Work (finiti su un singolo, un doppio e un triplo in edizione limitata), “You Don’t Know” di The Hot Project, con un vocione in stile Louis Armstrong, e “Deep Inside” di Hardrive, una club hit internazionale prodotta da Little Louie Vega, cantata da Barbara Tucker e proveniente dal catalogo Strictly Rhythm poi affidata, per ulteriori tre versioni, ad Alex Natale e i Visnadi. Sono proprio loro ad approntare il nuovo Alex Party trainato da “Nu-Nu-Now” (contenente due brevi campionamenti vocali tratti da “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys e “Let No Man Put Asunder” delle First Choice), rampa di lancio per un suono che nell’arco di qualche anno riesce a conquistare il mainstream. Dal loro 77 Studio di Mestre esce pure “See On” di Roby Sartarelli alias Long Leg. Gianni Bini e Fulvio Perniola si occupano del nuovo di Anthony White, “Love Me Tonight” riproposto un paio di anni dopo con nuovi remix e contenente un campionamento dell’acappella di “Let Me Love You” di Imarri (poi usata dagli Shapeshifters in “Lola’s Theme”), e di “Insanity (The Essence)” di Valez, pregustato in anteprima in “Cento”, poi “Gosp” dei veneti L.W.S. guidati dal DJ Walterino, con un sample trovato in una compilation di musica gospel, e Argentino Mazzarulli che inaugura il moniker A.R.G.E.N.T.I.N.O. con “Keeping Depth EP”, riscaldato di continuo da influssi tribaleggianti. Menzione a parte per “Take You Right” dei Blast, progetto che batte bandiera siciliana portato avanti dal cantante Vito De Canzio alias V.D.C., il DJ Roberto Masi e il tecnico del suono Fabio Fiorentino, destinati a uscire presto dalle tenebre dell’underground.

Blast + CYB
Sopra “Crayzy Man” dei Blast, tra i primi successi internazionali di UMM, sotto “It’s Too Funky” dei CYB, scelto per inaugurare la UMM Progressive

1994/1995, consolidamento ed exploit: il doppio binario di UMM
Il grande boom mainstream dell’eurotechno, scoppiato tra 1991 e 1992, va progressivamente esaurendosi nel 1993. Il pubblico generalista, spesso influenzato dalle programmazioni dei network radiofonici, è in cerca di una nuova tendenza da seguire e la trova nella house music che torna quindi a fare crossover tra i club underground e le maxi discoteche, come avvenuto già alla fine degli anni Ottanta con l’invasione della cosiddetta “spaghetti house”. Un crescente numero di brani nati per un pubblico ristretto di DJ e amatori si ritrovano quindi nelle programmazioni delle radio e persino nelle classifiche di vendita. È il caso di “Crayzy Man” dei Blast che, dopo i tiepidi riscontri di “Take You Right”, vengono proiettati in una scena completamente diversa da quella di partenza. «Buona parte del merito nel successo di “Crayzy Man” va riconosciuto ai Fathers Of Sound che, con la loro F.O.S. In Progress, stravolsero l’originale dotandola di sonorità più aperte e tipiche della house internazionale» afferma il cantante del gruppo, Vito De Canzio, in questa intervista, aggiungendo che i toscani riuscirono a valorizzare le idee «portando il brano a un livello superiore, facendolo uscire dai confini della house da club e traghettandolo nel mondo commerciale con un appeal vendibile e radiofonico». Il successo è tale da richiedere un videoclip girato al Cretto di Burri, vicino ai ruderi di Gibellina: «era un paesaggio lunare reso ancora più alieno dalla fotografia del regista Emanuele Mascioni e dalle idee visionarie di Patrizio Squeglia. Poi ci fu la trovata della palla, un grosso globo dipinto di argento che molti ipotizzarono fosse stato inserito digitalmente in post produzione seppur in quel periodo di digitale c’era ancora ben poco. In realtà si trattò solo di una palla gonfiata spinta dal vento che soffiava quel giorno» conclude De Canzio. Uscito a fine febbraio, “Crayzy Man” conquista un’audience sempre più vasta ed eterogenea. Tra i supporter anche Albertino che, a metà aprile, vuole il brano nella DeeJay Parade settimanale dove resta per cinque settimane. Si fa avanti la multinazionale MCA che lo pubblica negli Stati Uniti e nel Regno Unito con altri remix tra cui quello di Junior Vasquez. Si tratta di uno dei primi dischi targati UMM a raccogliere risultati di questo tipo e, per la gioia delle casse della Flying Records, non l’ultimo. La vocazione di Tardio però non è cercare pezzi che facciano intenzionalmente gola ai programmatori delle radio anzi, per lui certi responsi sono completamente irrilevanti ai fini del leitmotiv della UMM che, per definizione, deve continuare a rappresentare il movimento della musica underground. Il caso vuole però che dopo “Crayzy Man” dei Blast giunga un altro brano capace di sparigliare le carte e incuriosire anche i DJ non specializzati, e a firmarlo sono i fratelli Visnadi nelle vesti di CYB. Il disco, come testimonia il titolo in copertina, nasce in virtù di due remix di “Now”, originariamente incluso in “Syxtrax”, ma ad avere la meglio è la traccia incisa sull’altro lato, “It’s Too Funky”, dove a fare da padrone è l’ipnotico riff di tastiera che corre su un ritmo serrato dal quale, come un geyser, erutta a più riprese un breve ma efficace hook vocale. Le richieste sono tante e giustificano la pubblicazione anche su CD, ai tempi formato secondario e quasi irrilevante per i DJ. Non è propriamente house però, piuttosto un ibrido che si spinge a lambire le sponde progressive e infatti Tardio per occasione vara una sorta di etichetta sussidiaria, la UMM Progressive, ma senza ricorrere a un nuovo logo e numerazione. L’unica indicazione, oltre a un layout grafico marginalmente modificato, è la presenza delle lettere PR accanto al catalogo, monogramma che si rinviene nelle quattro uscite successive: “Spice” di Timeless, ennesima incarnazione artistica dei Visnadi, “State Of Panic” di Sonar (Dino Lenny e Savino Martinez affiancati da Coccoluto come sound engineer nel solito HWW Studio), sviluppato sul campionamento di un pezzo senza titolo di Emmanuel Top uscito l’anno prima, “Context Control EP” dell’olandese Trance Induction e “1/2 Transphunk EP” dei francesi Motorbass. Italianissima invece la produzione di “Let Yourself Go” di L.W.S. Featuring Long Leg, un mosaico di sample afro e funky loopati su base house, e “Locomotive Vocale” dei Lineout, prodotto ancora da Walterino come remake dell’omonimo del compositore francese Hugues Le Bars, sincronizzato in uno spot televisivo del liquore Grand Marnier negli ultimi anni del decennio precedente. A “Crayzy Man” dei Blast UMM aggiunge ora un’altra hit internazionale, presa in licenza con assoluto tempismo dalla newyorkese Strictly Rhythm. Trattasi di “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, progetto lanciato un paio di anni prima da Erick Morillo e Ralph Muniz che ora si afferma grazie a un brano, interpretato da Mark Quashie alias The Mad Stuntman, che incrocia house e raggamuffin. Supportato da un videoclip diretto da Craig K. McCall, “I Like To Move It” vende oltre un milione di copie in tutto il mondo e trova modo di eternarsi nel nuovo millennio col riadattamento per il film d’animazione “Madagascar”. Proveniente da un’altra etichetta newyorkese d’eccezione, la Easy Street, è “Get By” di Gayland che, per la pubblicazione in Italia, viene arricchita dai remix di Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi e Paolo Martini. Importati dall’estero sono pure “Morel’s Grooves Pt. 5” di George Morel, “No Love Lost” di Ce Ce Rogers, “Fall Down / Freedom” dei Punchin’ e “The Frenzy Dance” dei Juzt 2 Brothers, pezzo prodotto dai fratelli Danny e Victor Vargas sulla falsariga di “I Like To Move It” dei Reel 2 Real e affidato, pochi mesi dopo, alle mani di Franco Moiraghi che realizza un incisivo remix. Prodotti “in casa” sono invece “People” dei Degression, il terzo volume (conclusivo) di Transitive Elements e “Ohh-D-Dub” di Frank Ozono, quest’ultimo ad opera dal team L.W.S. composto da Leonardo Bertoncello Brotto, Walterino Biasin e Stefano Amerio, prossimi a un exploit internazionale.

X-Static - I'm Standing
“I’m Standing”, il primo successo degli X-Static

A flirtare con le classifiche che contano sono pure i Visnadi che, insieme a Max Artusi e Ricky Stecca, creano un nuovo (ed ennesimo) progetto, X-Static. Il brano si intitola “I’m Standing”, è cantato da Cristina Dori e viene pubblicato oltremanica dalla Positiva insieme a vari remix tra cui quello dei Kamasutra, edito anche da UMM in un secondo 12″ col centrino viola. A innamorarsi del pezzo, con un pizzico dello stile di StoneBridge nella Velvet Mix e con una linea più aggressiva nella Heavy Organ Mix, sono tanti influenti DJ britannici tra cui Pete Tong, Judge Jules e Jeremy Healy. Percorso inverso, dalla Gran Bretagna all’Italia, per “Best Thing” di Miss Bliss, la DJ londinese Ayalah Bentovim meglio nota come Sister Bliss da lì a breve nella formazione dei Faithless. L’unica versione solcata sul disco, col solito logo inciso sul lato b, è realizzata dai Fathers Of Sound. A seguire, dai Paesi Bassi, c’è “Pepper” di Speedy J, diventato popolare dalle nostre parti per “Pullover” e “Something For Your Mind”, alle prese con un suono più trancey e warpiano, e infatti l’etichetta è UMM Progressive. Sospinta verso lidi simili è anche la raccolta in limited edition, edita su CD e triplo vinile, “UMM In Progress”, selezionata da Francesco Zappalà. All’interno diverse gemme che il DJ promuove nel suo Virtual Sound, da “Heaven” di Moby a “Flex” dei Bandulu, da “Joy” di Quadripart a “Electronique (Live At The Casino Montreux)” di Pink Elln & Atom Heart passando per l’esclusiva “Slave To The Moon” dei Visnadi, “(RE:EVOLUTION) Live At The Warfield” degli Shamen, “State Of Panic” di Sonar e un paio di sue stesse produzioni, “Free Brain” di Virtual Age e “Raggamountain” di The Kosmik Twins, prodotte rispettivamente con Ferdinando ‘Mr. Ferdy’ Colloca e Biagio ‘Baby B’ Lana. Il package è impreziosito dalle fotografie di Emanuele Mascioni effettuate su una scultura di Patrizio Squeglia, “Ettore & Andromeda”, perfettamente calata nel contesto del “suono virtuale” a cui si fa riferimento in copertina. Il Code 1 lascia ipotizzare un seguito che però non arriverà mai.

Nella scia della trance che va diffondendosi sempre più capillarmente in Europa si inseriscono i trevigiani Attraction col brano omonimo mentre decisamente più house oriented sono “Tossin’ N Turnin'” di Darryl Pandy, “Nadir” di Mark Ray Featuring Natalie Mundy, “New York Express” di Hardhead (un’altra “mina” presa dalla Strictly Rhythm e prodotta da Armand Van Helden) e “No Pay Day”, secondo e ultimo brano di Gayland riproposto in seguito coi remix di Paolo Martini e Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi. In mezzo a queste licenze estere c’è anche un made in Italy, “I’m A Bitch”, con cui il team degli L.W.S. fa il giro d’Europa. Ispirato dall’omonimo di quattro anni prima di A Bitch Named Johanna uscito sulla statunitense Project X Records, Biasin, Bertoncello Brotto e Amerio coniano un progetto ex novo chiamato Olga. La versione principale è la House Nation Mix (un nome-tributo per uno dei capisaldi della house chicagoana, “House Nation” di The House Master Boyz And The Rude Boy Of House, Dance Mania, 1986), in cui i vocal di Johanna Jimenez troneggiano su una trascinante base venata da un suono portante simile a quello di un organo, allora particolarmente in auge nei club. «Partimmo proprio dall’acappella di A Bitch Named Johanna a cui sovrapponemmo un groove ritmico e un basso» spiega Biasin in questa intervista. «Optammo per Olga perché ci sembrò un nome adatto a rappresentare la prostituta (bitch, nda) di cui si parlava nel testo. Visto il successo ottenuto anche nel mainstream, affidammo l’immagine del progetto a un’amica, Simona Sessa, che portò “I’m A Bitch” in tutte le discoteche italiane» (e che finisce sulla copertina del singolo pubblicato da UMM oltremanica, nda). Sull’onda dell’entusiasmo, Biasin e soci affidano a UMM un’altra loro produzione, “Afrikaans’ Holiday” di Afrikaans, a metà strada tra house e progressive trance, che fatica però a uscire dall’anonimato. Di tutt’altro regime invece l’andamento dei Reel 2 Real che, dopo i remix di “I Like To Move It” a firma Alex Party, riappaiono sull’etichetta campana con un nuovo brano, “Go On Move”, che in realtà tanto nuovo non è. La prima versione circola dal 1993 su Strictly Rhythm ma è con la Erick ‘More’ 94 Vocal Mix che Morillo riesce a fornire il giusto follow-up ad “I Like To Move It”, escludendo le parti funkeggianti a favore di una linea melodica che fa il verso al precedente e una parte vocale più estesa interpretata da Mad Stuntman. Accompagnato da un videoclip e reintitolato “Go On Move ’94”, il pezzo diventa un successo estivo. Le versioni a disposizione sono tante al punto da spingere UMM a pubblicarle su due mix, il primo col centrino bianco, il secondo nero. A separarle, nel catalogo in costante crescita, è “Just A Little Bit Higher” di Johnny Vicious.

adv Reel 2 Real
L’advertising che nell’autunno ’94 annuncia l’uscita dell’album dei Reel 2 Real su UMM

Dino Lenny e Savino Martinez firmano un nuovo UMM Progressive, “No More Mind Games” di B.O.D., in linea col suono di etichette britanniche come Platipus e Hooj Choons. Dallo scrigno Strictly Rhythm Tardio prende “Congo” che David Morales firma The Boss, un susseguirsi di ritmi latini intrecciati a pianate e organi, e “Las Mujeres (The Women)” di Fiasco, pure questo nato sul crocevia tra house music e percussioni latino americane. Con “The Bang EP” Roberto Carbonero, Marcello Salerno e Roberto Corinaldesi danno avvio al progetto U.S.E., acronimo di Underground Sound Evolution. Come “contorno”, Tardio rileva un altro paio di licenze, “La Fiesta” di The Spanish Society, dalla “solita” Strictly Rhythm, e “Dub It / Set Me Free” di Coco Steel & Lovebomb dalla britannica Warp Records. Ad affiancarle i due remix di “Te Ame Con Salsa” di Hildelgard (il primo realizzato da Carmine ‘KeyB’ Tortora e Beppe ‘MAN-D.A.’ Manda, il secondo da Robert Passera che pochi anni prima incide un piccolo cult, “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo dettagliatamente qui) e quello di “Love Me Or Leave Me” di Armante a firma Fathers Of Sound. In autunno è tempo di un nuovo Reel 2 Real, “Can You Feel It?”, costruito da Morillo ancora sullo schema di “I Like To Move It” e ripubblicato da UMM su due mix, attigui nel catalogo e con un punto in comune, la presenza su entrambi della Erick ‘More’ Club Mix, quella che si sente in radio. Il resto spazia nelle sfaccettature house coi remix di Roger Sanchez, DJ Duke e Jules & Skins sino a toccare, inaspettatamente, l’eurodance con la versione dei Factory Team in uno stile simile a quello dei bortolottiani Cappella mashuppato al telaio ritmico che il team veronese appronta in quei mesi per “Only Saw Today / Instant Karma” e “Sweet Music” del britannico Amos. “Can You Feel It?” è uno dei singoli estratti da “Move It!”, il primo album dei Reel 2 Real che la UMM si aggiudica per l’Italia pubblicandolo su doppio vinile, CD e cassetta. Ispirato proprio al suono dei Reel 2 Real è “I’m A Real Sex Maniac” di Dick, racchiuso in un’ironica copertina (doppiata su un adesivo allegato) che rimanda alle illustrazioni dei test psicologici e tematicamente collegato a Olga da riferimenti sessuali. A produrlo ancora gli L.W.S. con risultati apprezzabili in tutta Europa. Le licenze continuano a iniettare linfa vitale nei circuiti della UMM, seppur non sempre con l’appoggio dei DJ e della critica. Dalla britannica Zoom Records di Billy Nasty e David Wesson arriva “Throwing Caution To The Wind” dei Sourmash, con spinte goane, mentre dall’olandese NANADA Music l’EP di Ethics, trainato dal brano “La Luna” che vivrà una seconda vita a distanza di circa un anno. Passato praticamente inosservato è pure “The New Wave”, tratto dal catalogo della scozzese Soma, contenente tre pezzi (più un edit di uno di essi) di matrice techno (“The New Wave”, “Assault”, “Alive (New Wave Final Mix)”) messi a punto da un esordiente duo francese, i Daft Punk.

Alex Party - Don't Give Me Your Life
“Don’t Give Me Your Life”, una sonora conferma per gli Alex Party

Dopo i remix di “Gosp” di L.W.S. e “Joy” di Quadripart (quest’ultimo in formato doppio), arriva il nuovo degli Alex Party, “Don’t Give Me Your Life”, che ricalca alcuni elementi di “Nu-Nu-Now” (dal precedente “Alex Party 2”) amplificandone la portata pop grazie a una parte vocale interpretata da Robin Campbell alias Shanie. L’effetto è esplosivo e tra i primi a “capitolare” ci sono i britannici: come certificato da BPI (British Phonographic Industry), il brano diventa disco d’oro con 400.000 copie vendute oltremanica. Un gradito ritorno è anche quello dei Blast con “The Princes Of The Night”: a fare la differenza è ancora il remix dei Fathers Of Sound intitolato F.O.S. In Progress, ma le versioni sono tante (incluse quelle di JX e Red Jerry) da occupare due 12″, venduti separatamente e con copertine di colore differente. Bini e Perniola, infaticabili, trovano il tempo per approntare sia “Keep Looking Up” di Rhona Johnson, un pezzo garage portato al Midem di Cannes a inizio ’95, e “Want Me, Love Me”, brano di debutto di una giovane newyorkese di origini italiane che si affermerà nel mondo del piccolo e grande schermo, Justine Mattera. Reduce dal successo britannico di “Cocaine” del ’91, Dino Lenny sposta la sua attenzione verso scenari trance e progressive. Con una mano riattiva, per l’ultima volta, Sonar mediante “Mellow Monday”, lasciandosi affiancare dai fidi Martinez e Coccoluto, con l’altra inaugura S.O.P. con “Esta Buena”. S.O.P. e il citato B.O.D. sono collegati non solo dalla tipologia sonora ma anche da un’ironica linea concettuale promossa dall’artista cassinese: S.O.P. è l’acronimo di Sister Of ♀ (Pussy), B.O.D. di “Brothers Of ♂ (Dick). Si trincerano dietro una sigla pure Pietro De Rosa ed Enrico Mantini che raccolgono tre tracce (tra cui “Use It (… To Eliminate You)”) in un EP firmato DM Construction. In solitaria Mantini realizza invece “What U Want” con la voce di Cameron Borrelli alias X Woman, ristampato proprio di recente su Purism. Batte bandiera olandese “Yell Song” di Clusia Fortal, attorcigliato a suoni forse un po’ datati, e arriva un nuovo singolo dei Reel 2 Real, “Raise Your Hands”, simile ai precedenti ma con minori potenzialità commerciali, ottenuto rimaneggiando “Asuca” che Morillo firma R.A.W. l’anno prima sempre su Strictly Rhythm. Un’altra licenza di indiscusso valore è rappresentata da “Jumpin'” di Todd Terry, incisa su un single sided e con campionamenti presi da “Bostich” degli Yello e “Keep On Jumpin'” dei Musique, brano che l’americano coverizzerà pochi anni dopo con le voci di Martha Wash e Jocelyn Brown.

depliant merchandise
Uno dei primi depliant del merchandise griffato UMM

Su CD arriva “Mixes Collected”, una pregevole raccolta dei Visnadi a cui segue il “Conception EP” degli Alito, progetto one shot romano animato da Massimo Berardi (intervistato qui) e Luca Cucchetti a cui si affianca, per “Take Control”, Paolo Zerla. Colorito da una sezione con un’armonica a bocca è “Everybody Clap Yo Hands”, da “Voices Of Faith EP” di Victor Simonelli, tribaleggiante la linea portante di “Higher (Feel It)”, ultimo pezzo che Erick Morillo firma R.A.W., in bilico tra garage e un suono più ruvido le versioni di “House Music” di MAN-D.A. & Keyb T., proteso in modo chiaro verso la trance è l’EP degli Upgrade One Point Two. Tra le voci più emozionanti della house a stelle e strisce, Ce Ce Rogers approda sull’etichetta napoletana con “Come Together”, Michele Violante e Paolo Martini si uniscono come Old Skool, Alessandra Argentino esordisce con “Work This Pussy” (prodotto da Roberto Ferrante e Vincenzo Bottiglieri e pubblicato anche su CD singolo) che fa il verso alle liriche piccanti di Olga, Paolo Martini, Michele Violante e Roberto Corinaldesi si occupano di “We Got A Love” sviluppata da un’idea di Major Healey, cantata da Sabrynaah Pope e poi data in pasto ai Fathers Of Sound e Alex Neri, Erick Morillo remixa “Them Girls Them Girls” dei pupazzi Zig + Zag facendone quasi un nuovo Reel 2 Real che, nel contempo, riappaiono col quinto singolo estratto da “Move It!”, “Conway”, giunto sul mercato attraverso una miriade di versioni tra cui quelle di Armand Van Helden e dei CYB che UMM pubblicherà in un secondo 12″ nei primi mesi del 1995. L’ottima reputazione dell’etichetta sortisce continue attenzioni internazionali anche in virtù di una ricca linea di abbigliamento e merchandising promossa a partire dal 1993 attraverso semplici depliant inseriti nelle copertine dei dischi. La ricetta pare semplice ma non è facilmente replicabile: «prendiamo ritmi house, li speziamo con melodie italiane e serviamo caldo il risultato» dichiara ironicamente lo schivo Angelo Tardio a David Stansfield di Billboard in un articolo pubblicato il 2 luglio ’94, uno dei pochi in cui è possibile ritrovare le sue testimonianze di allora. E aggiunge: «abbiamo dato in licenza “Crayzy Man” dei Blast a un’etichetta del Regno Unito e ora il pezzo è praticamente in tutte le classifiche d’oltremanica. Ci sono grandi piani anche per i Fathers Of Sound, artefici della versione di punta di “Crayzy Man”. Alla luce di questi strepitosi risultati mi sento di dire che il 1994 sia stato l’anno migliore per la dance targata Flying Records».

The Bucketheads - The Bomb EP
The Bucketheads, successo di proporzioni planetarie portato in Italia da UMM

Diventata con merito un avamposto italiano della house music, la UMM inizia il 1995 tagliando il traguardo delle duecento pubblicazioni e confermando il suo ruolo primario nel segmento underground, tag identificativa di un genere-contenitore che va dalla garage alle dub strumentali dai suoni ombrosi. Arrivano “Mayo” dei Flying Squad (Fabio Locati e Salvo Doria), tra saliscendi di conga afro e striature progressive, “Dance Now” di Franco Moiraghi Feat. Amnesia, dove emerge un canto spiritual, “Swing & Move” di Orbiting Eskimo Dance Society, prodotto da Craig Bevan e remixato dal team degli L.W.S., e “Delicious Poem” dei Delicious Inc. (Nello Nicita, Jamie Lewis, Jose Orellana e René S.) al lavoro sul ritaglio ritmico preso dal brano di Bucketheads edito qualche mese prima sulla newyorkese Henry Street Music di cui si parlerà più avanti. I Visnadi propongono il nuovo CYB, “Come On Boy”, ipnotica marcetta pubblicata anche su CD che non divide nulla con l’omonimo dei modenesi DJ H. Feat. Stefy di qualche anno prima a eccezione del titolo e dell’hook vocale, e un’apprezzata licenza è “Just Can’t Take It” di Reggie Rough Feat. Annette Taylor impreziosita dal remix dei Fathers Of Sound seppur a funzionare di più sia la Club Mix di Joey Moskowitz, già presente nella prima tiratura su E Legal. Aria di remix pure per “Don’t Give Me Your Life” degli Alex Party, ritoccata tra gli altri da Dancing Divaz, ai tempi una sorta di “re Mida” della house d’oltremanica. Dalla Planet Blue arriva “Jungle Dreams” dei Naked Souls e dalla citata Henry Street Music di Johnny “D” De Mairo “The Bomb EP” del citato Bucketheads, progetto di Kenny “Dope” Gonzalez. L’impulso creativo di uno dei due brani inclusi, “These Sounds Fall Into My Mind”, viene espresso mediante il magistrale uso di un sample preso da “Street Player” dei Chicago, e diventa presto una smash hit di dimensioni planetarie, con relativo videoclip a basso costo diretto da Guy Ritchie e Alex De Rakoff girato nel centro di Londra con una super8. Il successo è tale da rendere quasi inutile la presenza del brano finito sul lato b, “I Wanna Know”, pure questo ispirato da un pezzo del passato, “Motivation” degli Atmosfear.

Salerno, Carbonero e Corinaldesi con una mano danno alle stampe il secondo U.S.E. intitolato “Bad Boy”, con l’altra approntano “Danger Zone” di Dangerous Society, Justine Mattera ritorna con “Be Sexy”, ancora prodotto dai Fathers Of Sound ormai consacrati a livello internazionale (nel ’96 mixeranno uno dei volumi della saga “Renaissance”) e riappare pure Ce Ce Rogers con nuove versioni di “Come Together”, preso in licenza dall’americana Groove On di George Morel. Tra i remix, usciti anche all’estero, quello degli L.W.S. e dei New Wave Explorers (Mario Conte e Patrizio Squeglia). Arrivano da oltre i nostri confini la doppia a-side “Juice / The Way” dei portoghesi A. Paul e J Daniel, “Love” di Quadripart (sormontato dal campionamento di “The Visitors” di Gino Soccio) e “The Tribal Recordings” di Kuyoe’s Children in origine su Nervous Records da cui emerge l’afro house di “Mosquito Drums”. Made in Lazio invece “Play House” di Sohante Feat. B.S.J., un pezzo senza troppe pretese prodotto da Claudio Coccoluto, remixato da Dino Lenny e sui mettono le mani pure Enrico ‘BSJ’ Ferrari e Sante Pucello, quest’ultimo trasformatosi da lì a breve in Santos. I Visnadi, nel frattempo, riportano in vita per l’ultima volta il progetto Cool Jack inizialmente coprodotto con Angelino Albanese, partito nel ’92 con “Just Come” e proseguito l’anno dopo con “Try The Feeling” con la voce di Tom Hooker. È proprio il cantante americano, noto per aver interpretato alcuni brani di successo di Den Harrow, a occuparsi di “Get Me Going”. Tra le tante versioni anche il remix degli onnipresenti L.W.S. e di Walterino. Sono sempre i Visnadi a produrre, insieme a un certo Gianfri DJ, il nuovo Gradiva intitolato “I Gotta Know”, una sorta di Alex Party ma con meno potenzialità di airplay radiofonico. Coccoluto e Martinez invece si ribattezzano ironicamente Mimì E Cocò per “Bandit”, una traccia animata dalle percussioni e vari campionamenti funk/disco. Marchiate col catalogo Progressive sono le uscite di Xyrex (Franco Canneto, Enrico Aprico e David Rossato sotto la guida di Zenith), “Heaven” dei già citati New Wave Explorers, “Volume 1” di Esoteric Society (Floriano Fusato, Emanuele Vola e Alberto Guerretta), i remix di “Traum” di Positive & Gianni Parrini, “Los Parajso De Los Locos” di Mediterraneo Feat. Franchino (prodotto da David Togni e Alessandro Del Fabbro con remix annesso di Mario Più) e “You Got To Be There” del team iberico Kadoc. Batte bandiera portoghese invece “Work In Progress” di L.L. Project (Luís Leite e il noto Rui Da Silva) a cui seguono “A Lollipop For You” di Dick, poco fortunato follow-up di “I’m A Real Sex Maniac”, “Justify” dei Bound Beat, “Let Me In” degli Old Skool, “Come Together” dei Double FM, “Don’t Give A Damn” di Vena, “Inner Waterfall” di Positive Shah, “Back To Roots” dei Delicious Inc., “20 Hz” di Channel 3 e diverse licenze estere, “God’s An Astronaut” dei Blunt Funkers (con remix di StoneBridge & Nick Nice), “Black, Sinister, Science EP” dei Kings Of Tomorrow, “Mad House (Volume 1)” di Charlie Casanova trainato da “You Can Have It”, suonatissima nei club house d’oltreoceano, “The Dynamic Cutz Vol. 2” di Johan S., “Dance With Me” di Latin Impact e “Can U Feel It” di The Squad, progetto nato a Miami dalla collaborazione tra il nativo George Acosta e l’italiano, ma trapiantato in Florida, Chicco Secci. Prodotto da Mousse T. per la Peppermint Jam e avvalorato dal remix di StoneBridge & Nick Nice e da una versione di Bini e Perniola, “We’ve Got Love” di Ve Ve Brown è annunciata come una potenziale hit ma nonostante gli ottimi presupposti non riesce a scavalcare la palizzata dell’underground.

Alex Party - Wrap Me Up
“Wrap Me Up”, la hit estiva degli Alex Party

Osannato dalle radio sparse per il globo (in particolare quelle italiane, britanniche, francesi, spagnole e australiane) è invece “Wrap Me Up” con cui gli Alex Party toccano uno dei punti più alti della carriera. Il brano, doverosamente accompagnato da un videoclip, è una sorta di modernizzazione della vecchia italo house di fine anni Ottanta, con pianoforti in evidenza ma senza uso e abuso di campionamenti a favore di una parte vocale cantata ancora da Shanie che lo colloca, di fatto, in contesti eurodance. Tra i successi estivi made in UMM, oltre a The Bucketheads in licenza dagli States, anche il nuovo dei Blast, “Sex And Infidelity”. Sul lato b compare il remix dei Ti.Pi.Cal. ma a fare la differenza è la versione confezionata in Svezia dagli infaticabili StoneBridge & Nick Nice. Per una curiosa coincidenza Alex Party, The Bucketheads e Blast appaiono consecutivamente nella tracklist del secondo volume della “Alba” di Albertino, tra i bestseller italiani della stagione nel settore compilation. Non sottraendosi proprio al redditizio mondo di quel comparto, la UMM pubblica su CD e cassetta “The Bomb Collection”, una raccolta house con tracce prevalentemente tratte dal catalogo (tra le eccezioni “Dance Your Funky” di Pagany Feat. Shaneen e “Planet Funk” di Alex Neri). Il tutto mixato da Paolo Martini. Dopo circa due anni riappare “I Can’t Get No Sleep” dei Masters At Work Featuring India: sul precedente i remix erano di Mark “MK” Kinchen, adesso sono firmati da James Preston e David Morales. Analogamente a quanto avvenuto sullo UMM 072, anche in questo caso la logo side è occupata dal simbolo della Cutting Records da cui, per l’appunto, il brano è preso in licenza. Ulteriori versioni vengono solcate su un secondo mix. Importato dall’estero è anche “It Must Be Love” di Club Freaks interpretato da Angel Williams che, peraltro, firma come artista la versione originale su Herbal House Records. A contraddistinguere la stampa italiana sono due remix dei Kamasutra (Alex Neri, Marco Baroni e Mr. Muzak). Con un frammento preso da “Atom-B” di Atomizer, gli italiani S-Naked costruiscono la loro “Now I Know”. Ad armeggiare dietro le quinte sono Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea, meglio noti come Ti.Pi.Cal., che orchestrano il tutto su una voce che ricorda quella di VDC dei Blast. Progetto nuovo di zecca è pure quello di Gianmarco Silvi, Mimmo Turone e Monia Piazzi, The Grind Company, che consuma la sua unica apparizione col poco noto “When We Grind” scandito da una voce maschile suadente e ammiccante in stile “Men Adore…” dei Fierce Child. Scarsi riscontri per “Just A Groove” di Geetraxx, prodotto a Milano presso il Gianburrasca Studio di Marcello Catalano, intervistato qui, insieme a Walter Bassani. Sul lato b il remix di un certo Alex Gee, salernitano che lavora nel capoluogo lombardo come promoter per la Flying Records e destinato a una rosea carriera con le sue coordinate anagrafiche, Alex Gaudino.

In autunno è tempo del nuovo The Bucketheads che però non riesce a replicare i fasti del precedente. “Come And Be Gone” si muove su coordinate simili, un metti e togli di sample disco/funk su telai house, ma è privo del quid che potrebbe trasformarlo in una hit trasversale. Sul lato b c’è un remix di “These Sounds Fall Into My Mind”, a onor del vero più simile a un re-edit piuttosto che a un remix. Un altro one shot nato e morto su UMM è 123 Prospect: con un occhio allo stile dei morilliani Reel 2 Real, Ciro ‘DJ Bubu’ Sasso e Martin ‘Monster’ Aurelio approntano “Get Loose” con l’intervento vocale di David Lavoy. Insieme a nuove licenze messe a segno da Tardio, “El Cojo” di Boriqua Brothas, “The Thing I Like” di Aaliyah coi remix di Paul Gotel e “Love Rendez Vous” degli M People, arrivano “Heroes” di Gianni Parrini Feat. Principe Maurice (cover del classico di David Bowie), “Neid” di DJ Ginger, il primo volume di “Save The Planet” dei Divine Dance Experience, “Revenge” di Kriminal Elements, il secondo volume di Esoteric Society e nuove versioni di “My House / No More Mind Games” di B.O.D. (tutti su UMM Progressive), i remix di “We Got A Love” di Violante Project e di “Wrap Me Up” degli Alex Party e “Blow” di Ricky Soul Machine & Jackmaster Pez, un doppio mix a cui abbiamo dedicato un articolo qui e impreziosito da una versione di Johnny Vicious. Tocca poi a “Don’t You Want My Love / Disco Boom” di Mauro MBS, un altro collage sampledelico (assemblato con Albino Barbero nel suo Rockhattle Studio di Cavallirio, in provincia di Novara) che attinge a piene mani dall’immenso campionario disco funk degli anni Settanta, “You Can’t Touch” di The Tribute, un single sided realizzato in Svizzera da Dario Mancini alias Djaimin intervistato qui, e “The World Around”, traccia con cui Roberto Carbonero, Marcello Salerno e Roberto Corinaldesi chiudono la trilogia di U.S.E. partita circa un anno prima.

Moiraghi - Feel My Body
“Feel My Body” di Moiraghi Feat. Amnesia garantisce ottimi riscontri nell’autunno ’95

Menzione a parte merita “Feel My Body” di Frank ‘O’ Moiraghi Feat. Amnesia, un pezzo edificato come una specie di mash-up tra la base di “Utopia – Me Giorgio” di Giorgio Moroder e i ritagli vocali di “Feel My Body” di Talena Mix. Il successo, supportato adeguatamente da un videoclip, abbraccia prima i club e poi le discoteche generaliste. Pensata come etichetta destinata ai DJ, la UMM convoglia la quasi totalità delle sue pubblicazioni su 12″ ma di tanto in tanto concedendo spazio anche a qualche raccolta come “100% Rendimento Compilation”: il primo volume esce in autunno, prevede la pubblicazione sia su CD che cassetta, e raccoglie sedici tracce selezionate da Christian Hornbostel (intervistato qui) ed estratte dall’omonimo programma in onda su Radio Italia Network. Pochi mesi dopo è la volta del secondo volume la cui tracklist accoglie (prevedibilmente) alcune tracce del catalogo UMM. Sull’onda di “Feel My Body” Franco Moiraghi e Marco Dalle Luche realizzano “Listen To The Rhythm” come Manumission ma con risultati diversi. Alessandra Argentino torna (per l’ultima volta) sulla label campana con “Love 2 Love”, ancora prodotta da Roberto Ferrante e Vincenzo Bottiglieri e contando su un remixer come Don Carlos che con “Alone”, di cui parliamo qui, aveva dato una nuova spinta alla house nostrana a inizio decennio, Positive Shah sgancia il suo “The Shah EP” su due dischi di cui uno single sided, Violante e Corinaldesi si reinventano come VHC e il pezzo “You” che vola sulle ali della garage più sognante, i Visnadi (all’opera su uno dei remix della rediviva “Deep Inside” di Hardrive) e Massimo Zennaro dei Fishbone Beat e Paraje, intervistato qui, confezionano “No Smoking” come Ashman. Sono sempre i Visnadi, in compagnia di Roberto ‘Long Leg’ Sartarelli e la cantante Cristina Dori, ad approntare il nuovo X-Static, “Move Me Up” di cui parliamo qui, pensato per replicare i fasti di “I’m Standing” ma con risultati meno dirompenti sul fronte internazionale, analogamente a quanto accade a “Lick It Up” di Olga, questa volta realizzato dal team L.W.S. con Johanna Jimenez giunta appositamente in Italia dagli States. Successo quasi esclusivamente italiano è anche quello raccolto da “I Try” degli Activa, team di produzione in cui figurano Andy Mathee, Paolo Reverdy, Gino Cavazzana e Gabriele Pastori. La voce è di Kimberly Lawson mentre il remix di Alex Gee (Alex Gaudino). Durante l’ultimo scorcio del ’95, tra gli anni maggiormente prolifici per UMM, escono “It’s Time To Come” dei CYB, che un po’ ricorda “Petal” dei Wubble-U, “Eau De Chanté” dei Delicious Inc., “Atmosphere” di House Culture che Marcello Salerno produce con Moreno Pezzolato, “Sam Traxx EP” di Sam Traxx alias Samuel Paganini, “The Lion And Other Stories” dei Visnadi, “A Forest” degli L.W.S. (cover dell’omonimo dei Cure) e “I Wanna See You Jumpin’ Around” ancora degli L.W.S. ma pubblicato a nome Jack Romer, l’ennesimo dei nom de plume coniati col fine di eludere l’inflazione. Il 1995 è l’anno in cui UMM pubblica più dischi in assoluto, circa un centinaio. La Flying Records ormai è un colosso internazionale con filiali in due Paesi chiave del business discografico, Regno Unito e Stati Uniti e, come afferma Angelo Tardio in un articolo di Mark Dezzani pubblicato da Billboard l’1 luglio, «rappresentiamo la più piccola major e la più grande indipendente ma, a parte le infrastrutture, siamo consapevoli che sia la musica a muovere il mercato». Gli esordi ormai sono lontani, la società conta su un efficiente ramo distributivo e un poderoso parco clienti, tuttavia la situazione sta per ribaltarsi radicalmente.

Future Traxx Vol. 1
Con “Future Traxx Vol. 1” la UMM raggiunge la pubblicazione numero 300

1996, il vento sta cambiando
Con occhiate decise al fortunato stile dei siculi Blast, i The Groovers (Roberto Bajotti e Antonello Ferrari) assemblano “Ride On The Power” avvalendosi della voce di Wayne Lewis, Gianni Parrini invece, spalleggiato da Floriano Fusato, riempie un doppio mix con quattro versioni di “Cosmopolis” oltre a compilare e mixare il terzo volume di “Trance & Progressive”, compilation su CD e cassetta. In copertina una rielaborazione futuristica dell’uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci. UMM raggiunge quindi l’uscita numero 300, “Future Traxx Vol. 1”, compilation edita su triplo vinile, CD e cassetta che, fedele al titolo, raccoglie e anticipa alcune delle pubblicazioni imminenti e future. Un’approfondita lettura dei crediti rivela un importante cambiamento dietro le quinte: Angelo Tardio abbandona la Flying Records lasciando le redini della UMM nelle mani di due nuovi A&R, Giuseppe Manda e Maurizio Clemente. Accanto a loro Paolo D’Alessandro opera nel ruolo di international business affair manager. Frammisto tra trance e progressive è “Dream To The Beat” di I.D.C.C., neo progetto attivato da Floriano Fusato e Gianni Parrini col contributo vocale di Who alias Dr. Felix. Su UMM Progressive confluiscono anche “Tinnitus” di Timelock alias Marcel Franke, “Pianosphera” di DJ Ginger, in chiave smaccatamente dream, “Friends” dei F.E.N., l’EP di Mediterraneo Feat. Franchino, contenente pezzi osannati dai “guerrieri” della progressive toscana come “Viaje” e “C’era Una Volta”, “The Nighttrain” degli spagnoli Kadoc, diventato un successo mainstream, “Age Of White” di Spiritualist, il secondo volume di “Save The Planet” dei Divine Dance Experience (Sergio Datta, Maurizio De Stefani e Michele Generale), le cui vendite vengono alimentate da un paio di tracce finite nell’airplay radiofonico come “To The Piano” (con un innesto melodico ispirato da “Fantasia” di Cosmic Baby) e “To The Rhythm”, e “Bassline” di S.O.P., ennesima produzione generata nell’HWW Studio a Cassino da Dino Lenny, Claudio Coccoluto e Savino Martinez. Una delle prime hit house dell’anno è “Deep In You” di Tanya Louise, pezzo in circolazione sin dal 1994 ma che adesso trova modo di affermarsi grazie al remix di StoneBridge usato per sincronizzare il videoclip. Le versioni a disposizione sono così tante da riempire un doppio e un singolo.

L’attività sul fronte licenze, determinante per l’etichetta, viene debitamente tenuta in vita: arrivano “Do It / It’s Gone / Ball Chains” di Glenn Underground, “I’m So Grateful” dei Kings Of Tomorrow (un doppio che raduna remix prestigiosi di Angel Moraes, Matthias Heilbronn e Joey Negro), “I’ll Take You To Love” di Naked Music NYC, “Treat Me Right” di Temple Of The Groove, anche questo in doppio mix, “Shout-N-Out” dei Lood, triumvirato tra Little Louie Vega e i Mood II Swing, e “In Your Soul” dei Latino Circus. Tra i made in Italy, invece, “Talking About” di Male Force, i remix di “Crayzy Man” dei Blast a firma Kamasutra, l’EP di Roberto Masi e Fabio Fiorentino, “Jam Experience Part 1 EP” di Walterino 4 L.W.S., “One Night” di Saxation, “Odissey” di Mell Ground, “Free Your Mind” dei Funkcyde e “Hold On” di House Tribute. La mole del materiale, come è facile presumere dal numero dei titoli elencati, è ancora tanta, UMM mette sul mercato più dischi al mese ma qualcosa sta iniziando a cambiare. In primis c’è da considerare l’ondata progressive che domina il mercato italiano e conquista la priorità. Il successo di “Children” di Robert Miles, di cui parliamo qui, apre di fatto una tendenza che finisce col penalizzare la house music, specialmente quella sul versante garage. Gli effetti non tardano a palesarsi: Frank ‘O Moiraghi prova a bissare “Feel My Body” con “Baby Hold Me”, attingendo gli elementi vocali ancora da “Feel My Body” di Talena Mix, ma non riuscendoci, e obiettivi falliti sono pure quelli dei The Groovers con “You’re My Woman” e di Tanya Louise con “Lovely Day”, pubblicata speranzosamente anche su CD. Giungono nuove versioni di “Read My Lips” degli Alex Party che aiutano a tenere alte le quotazioni del brand sul mercato internazionale ma con poca presa su quello domestico rapito, per l’appunto, dalle formule della dream progressive. Vale davvero la pena ricordare però che i Visnadi, nel frattempo, spopolano con “Don’t Stop Movin'” di Livin’ Joy, progetto partito nel ’94 con “Dreamer” che macina oltre un milione di copie oltremanica ma viene snobbato in Italia, con la voce di Janice Robinson poi sostituita da Tameka Starr e sotto la guida della Undiscovered che, tra i fondatori, annovera Angelo Tardio, ex honcho della UMM.

Sunset People - Dreaming Ain't Enough
“Dreaming Ain’t Enough” dei Sunset People è l’unico UMM a essere pubblicato in formato 10″

Dall’estero Manda e Clemente prendono in licenza “Where Love Lives” di Alison Limerick, con remix di Dancing Divaz, David Morales, Frankie Knuckles, Romanthony e i Perfecto di Paul Oakenfold, “Final” degli Hustlers Convention (meglio noti come Full Intention), “I Love You” di Vicky Martin, “Dreaming Ain’t Enough” dei Sunset People (Andrew “Doc” Livingstone, Victor Simonelli, l’unico del catalogo a essere solcato in formato 10″), “I Wanna Live 4 U” dei Rhythm Of Soul, “Alright Now” di Soul Symphony, “Theme From Circus” di Energy Factor alias Ralphi Rosario e “Love Commandments” di Gisele Jackson che troverà successo l’anno dopo col futuro remix speed garage dei Loop Da Loop. Grandi energie vengono spese per assemblare “Feel The Light” di The Family Presents A Tony Humphries Project, pubblicato anche su CD singolo e anticipato da un doppio promo con vari remix tra cui quelli di Victor Simonelli e Oscar G dei Murk. Confinati ai club restano “Move On Your Body” del trevigiano Lys, “Don’t You Know” del napoletano Corvino Traxx, prodotto insieme a Marco Carola, e “Gimme Love” dei Kasto, nuova incarnazione dei siculi Ti.Pi.Cal. con la voce di John Biancale. I New Wave Explorers si fanno risentire per l’ultima volta con “Whatever”, garage di ottima fattura meritevole di raccogliere più frutti, e un discorso simile spetta anche a “2 Be Free” di Funk Revelation, neo act messo su dai cugini Frank e Max Minoia reduci dall’exploit internazionale ottenuto con Joy Salinas nei primi anni Novanta di cui parliamo qui. In scia arrivano i remix di “Back Home” di Joe Smooth realizzati da Tommy Musto, “Never Again” di The Groove Master, “Be Yourself” di Sawaya, “Do You Want It” di The Sound Of One (alias Lenny Fontana), “4 Your Love” di House Of Taste, “Good Tymz” di Romanthony, “National Groove EP” di Luis Radio & Studio 32 e “Assassin” di Martini, rivisitazione del brano scritto da Peter Nashel per lo spot del noto drink. A firmare le due versioni sono Junior Vasquez e Joe T. Vannelli con la voce di Justine Mattera. Riservata al solo CD la compilation “The Best Of The Best” che setaccia il catalogo raccogliendo poco più di una decina di tracce con particolare predilezione per conclamati successi internazionali come Alex Party, Blast e X-Static. In alcune copie finisce la LSC – Levi’s Stretch Cash, tessera che permette di accedere a iniziative nelle jeanserie del noto marchio statunitense, lo stesso che due anni dopo coinvolge numerosi DJ italiani (da Francesco Farfa a Massimino Lippoli, da Leo Mas a MBG, da Mario Scalambrin a Joe T. Vannelli passando per Francesco Zappalà, Leo Sound, Tony Cosa, Lisa Alison, Killer Faber, Alex Neri, Gigi D’Agostino, Massimo Cominotto e altri ancora) in un’iniziativa legata al modello 417.

CYB - I Love You Darling
“I Love You Darling” dei CYB, un discreto successo commerciale

1997, la disfatta
Nei primi mesi del ’97 la dream progressive, che ha tenuto banco per tutto l’anno precedente, inizia a perdere quota. Il mercato italiano è saturato da prodotti simili o smaccatamente uguali (difficile tenere il conto esatto dei cloni usciti di “Children”) e questo determina anche la veloce parabola discendente di un movimento nato nei club e lontano dalle classifiche di vendita, dalle radio e dal pubblico generalista. Tuttavia l’eclissi non è repentina, nel primo scorcio dell’anno funzionano ancora tracce strumentali o quasi, come “I Love You Darling” di CYB, progetto che i Visnadi riportano per la penultima volta nei negozi con la complicità di Ottorino ‘Ottomix’ Menardi. Convogliato prevedibilmente sul tentacolo Progressive e anche in formato CD, il pezzo, non pretenzioso e forse fin troppo cheesy per apparire su UMM, conquista il favore di Albertino che lo inserisce nella compilation “DeeJay Parade” tornata dopo la pausa occupata dai sei volumi “Alba” usciti tra ’95 e ’96. UMM Progressive pure per il terzo e ultimo volume di Esoteric Society, curato da Floriano Fusato, e per “The Grid EP” degli Upuaut (Steve Battarra e Andrea Bracconi). Solcato su un 12″ rosso è “Desire” di The 3angle, ennesimo progetto proveniente dal team palermitano di Tignino, Piparo e Callea che, nel frattempo, mantengono vivo Ti.Pi.Cal. inaugurando una nuova fase della carriera con la cantante Kimara Lawson.

Alex Party - Simple Things
Con “Simple Things” gli Alex Party non riescono a ripetere il successo dei precedenti

In primavera tornano gli Alex Party: “Simple Things”, cantato ancora da Shanie, riparte lì dove era finita “Wrap Me Up” circa due anni prima ma, forse a causa di un ritornello non efficace, risulta incapace di garantire gli stessi risultati e a poco servono i due remix incisi sul lato b realizzati oltremanica dai Rhythm Masters. Prodotto a Londra da Cricco Castelli è “Time’s Gonna Work” di Lorraine Lowe mentre arriva dagli States “Love Tight” di Victor “Overdose” Sanchez. Assemblato in Liguria da Miki Talarico è “Gost” di Future Bass, dalla Campania giungono “Please Come” di Money System, “Itaparica” di Wigwam e “Test Pressing EP” di The Quartet prodotta da Salvatore Oppio e Salvatore Trinchillo. Su UMM Progressive tocca a “Vibrations” di D.S.P., “Orange” di Lys e “Racing Tracks ’97” dei CYB. Prodotto da Nick Morris e Jamie Lewis al B.S.S. Studio di Messina è “Paradise People” di N.J.P., Daniele Danieli ed Enrico Santacatterina si occupano di “Hold Me Back” di Rosa Garett, Oscar B. & Fabio “Red” Faltoni firmano “Don’t Stop” e i siciliani Tignino, Piparo e Callea tirano fuori dal loro Entroterra Studio “Message Of Love” di S-Naked.

X-Static - True Love
“True Love” di X-Static tira il sipario sulla UMM di casa Flying Records

Sebbene il seguito di “Deep In You” non centri l’obiettivo, UMM pubblica il primo e unico LP di Tanya Louise intitolato, banalmente, “The Album”. Dal lavoro edito su triplo vinile in edizione limitata e in CD, viene estratto anche un singolo, “Tougher”, scritto insieme a Joe Smooth. Limitato a una tiratura su white label è il disco di Key Dopa Feat. Adri, prodotto da Giancarlo Chieco e Donato Settanni, incapace di uscire dall’anonimato. A passare inosservato è pure il nuovo X-Static intitolato “True Love”, prodotto dai Visnadi e Ricky Stecca con evidenti rimandi ad Alex Party e cantato dalla triestina Federica Micheli, già voce per alcune produzioni uscite dal Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto come “Automatik Sex” ed “Elektro Woman” di Einstein Doctor DJ, intervistato qui, ed “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do. È l’ultimo disco che la Flying Records pubblica su UMM: la struttura napoletana, dopo aver vissuto anni memorabili, non riesce a risolvere le criticità gestionali e finanziarie e fallisce schiacciata dai debiti. Ma la storia della UMM non è ancora finita.

grafico uscite UMM
Un grafico che mostra l’attività della UMM dal 1991 al 1997 in relazione al numero di pubblicazioni annue. L’apice nel 1995 quando sul mercato arrivano circa 100 uscite nell’arco di 12 mesi
Abduction - Proud Mary
Con “Proud Mary” di Abduction la Media Records riavvia la UMM nell’autunno ’98

Marchio uguale mood diverso, la UMM del post Flying Records
Brescia, 1998: dopo aver acquisito i diritti per l’utilizzo in ambito discografico, la Media Records di Gianfranco Bortolotti rilancia il marchio UMM. Così, in autunno, il brand nato sette anni prima torna nei negozi di dischi con “Proud Mary” di Abduction, progetto curato da Mario Più e Mauro Picotto. Il brano gira su campionamenti tratti dall’omonimo dei Creedence Clearwater Revival scritto da John Fogerty e annovera una versione di Enrico Rossi e Stefano D’Andrea. Sotto il profilo grafico, l’etichetta si ripresenta con un logo simile a quello originale ma abbinato a immagini dell’iconografia religiosa, in quel periodo usate da Bortolotti per declinare alcuni advertising della Media Records. Sui dischi invece le diciture “this side” e “that side” vengono sostituite da “Jesus Icon” e “Apostles Icon”. Nel 1999 seguono “Keep On” degli House Breaker (Luca Lento, Roberto Terranova e Vincenzo Callea) in scia al cosiddetto french touch che prende piede nel mainstream, e “For Your Love” di Jim De Vitt, arrangiato da Raf Marchesini e Paolo Sandrini. Poi una nuova e lunga pausa sino al 2001, quando la direzione artistica viene affidata a Enrico Ferrari alias Barry Saint Just, reduce dal successo internazionale di “You See The Trouble With Me” di Black Legend. Per Ferrari si tratta di una sorta di ritorno su UMM, per la quale nel 1995 ha già inciso “Play House” di Sohante, insieme ai ragazzi dell’HWW Studio (Coccoluto, Martinez, Lenny). Con Angelo ‘Fun-K’ Raggi realizza “Everybody Everywhere” e “That’s A Trip” di Elephant & Shepherd a cui collabora il tastierista Gianni Abruzzese. Sul fronte remix i due ritoccano “New School Fusion” dei Rhythmcentric, un pezzo preso in licenza dagli States prodotto da DJ Foxx e DJ Sensé che sul lato a annovera due versioni dei Basement Boys. In solitaria invece “Electro Y.A.M.”, che celebra il vibe tribaleggiante degli anni migliori della UMM. Il 2002 è una delle annate più prolifiche del nuovo corso, seppur il cambio di passo rispetto ai tempi più rosei della Flying Records sia ben più che evidente. Arrivano “Shake Da Shake” di Furilla, “No Reason” dei Mambana (con remix di Axwell), “Kiss Me More” di CRW Feat. Veronika, “My Heart” dei redivivi 49ers, “Blow Your Mind (I Am The Woman)” di LP Project alias Lisa Pin-Up, “I Want Your Sex” di Soho Boy, cover dell’omonimo di George Michael prodotto da DJ Pagano con la voce di Alessandro Perrone, “To Me / Time Flies” di Masters, i remix di “Like I Love You” di Justin Timberlake a firma Deep Dish e Basement Jaxx, “Macumba / Voodoo” di Dogon Tribe e “On The Road” di Funky Punk, rimaneggiamento di “On The Road Again” degli spagnoli Barrabas.

Il mercato discografico dei 12″ destinati ai DJ sta per entrare nella crisi più nera, da un lato alimentata dalla diffusione della pirateria informatica e dei software peer-to-peer, dall’altro dai nuovi sistemi messi a disposizione dalle aziende come CDJ più performanti e sistemi digitali tipo Final Scratch. Il disco in vinile non è più l’unico supporto adoperabile dai DJ e questo rivoluziona irreversibilmente il comparto incidendo negativamente sulle vendite che crollano in modo verticale. Le conseguenze emergono presto, con moria generalizzata di etichette indipendenti e chiusura di distributori. Nessuno esce indenne dalla digital storm, neppure le realtà più consolidate come la Media Records costretta a ridurre progressivamente il numero di pubblicazioni annue. Nel 2003 su UMM è la volta di “Good Enough” di Fabio M, “I Won’t Be Waiting” e “Make A Move” di Furilla (la Plastic Dub Mix viene messa in moto dal campionamento di “Lost Angeles” di Giorgio Moroder), “Talk 2 Me” dei K-Klass, “Move Your Feet” dei Junior Senior potenziata dal remix dei Filur, “Get Set” di Masters, le versioni di Furilla di “Let The Sunshine In” dei 49ers, “Number One” di The Cat & Mr Cool e “Gipsy” dei tedeschi Gipsy, ripubblicata anche con remix di Robbie Rivera. Seppur il marchio resti lo stesso, appare evidente una discontinuità col passato, non tanto per la quantità di pubblicazioni la cui soglia viene erosa dalle ragioni economiche legate al mercato non più ricettivo come quello degli anni Novanta, quanto al mood profondamente differente. La UMM rinata a Brescia nel ’98 appare radicalmente diversa rispetto a quella partorita a Napoli nel ’91. Un’operatività portata avanti a fasi alterne sommata a un non chiaro obiettivo finisce con lo smontare l’apparato originario. All’etichetta ripartita in Lombardia manca dunque la visione, la ricerca e soprattutto l’incubazione di nuovi talenti. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila la casa discografica bortolottiana punta quasi tutto su BXR che garantisce risultati di assoluto pregio, così come raccontiamo qui, e probabilmente è anche ciò a determinare un livello di attenzione ridotto per UMM e un’altra storica etichetta house nata tra le sue mura, Heartbeat, a cui abbiamo dedicato qui una monografia, entrambe protagoniste di una parabola in costante flessione. Qualche stimolo in più viene destinato alla Shibuya Records partita nel 2000 e affidata ad Alberto Casella, intervistato qui, sulla quale “atterrano” nomi come Bob Sinclar e Celeda, ma pure quello si rivelerà essere un fuoco di paglia.

La corsa di UMM riprende nel 2004 con “My Mood” ed “Anything Is Mother” di Furilla, “Just Fuck” di Tom Neville, “Essential” di Fabrizio Rubessi, “Fast Driving / Helium” dei finnici Dallas Superstars e “Slip Away” di Mohito Feat. Howard Jones con remix di Steve Angello. La discografia è claudicante e si sta impantanando, Bortolotti ha lasciato la direzione della casa discografica a Filippo Pardini e non c’è più tanta pianificazione o strategia. Alla manciata di uscite anonime del 2005, “You And I” di Junior Brasco e “Fuck Me” di Greg Access & Pawel Labrentz, segue nel 2006 “2K6 EP” di Club House, edificato sulle cover di “Speed Of Sound” e “Don’t Stand So Close To Me” rispettivamente dei Coldplay e dei Police, e nel 2007 una doppia compilation su CD banalmente intitolata “Best Of UMM” che fruga nel catalogo mettendo insieme classici di un passato ormai remoto e nuovi remix usciti poco tempo prima come quello di “Now” dei CYB realizzato dai Cosmic Gate e quello di “I’m Standing” di X-Static approntato da Francesco Diaz. Nel frattempo il brand UMM passa ancora di mano e viene utilizzato dal team della filiale britannica della Media Records diretto da Pete Pritchard e David Louca che lo usa per marchiare una serie di pubblicazioni tipo “Be Free With Your Love” di Miami Dub Machine, “Jus Luv Bass” di Deepgroove, “Moonlight Party” di Fonzerelli e “What You Gonna Do?” di Jonathan Ulysses, musicalmente agli antipodi di quello che erano i contenuti dell’etichetta diretta da Tardio.

UMM last logo
Il logo UMM che accompagna l’ultimo tentativo di rilancio

A gennaio del 2017, dopo dieci anni di silenzio, Gianfranco Bortolotti “riaccende” la fiammella di UMM: nei negozi arrivano due 12″, “Eighteen EP” di Ten Words e “Snow In The Desert EP” di Joy Kitikonti, entrambi annessi alla corrente della “bigroom techno”. Gli scarsi riscontri convincono a tirare i remi in barca e rivedere la strategia per rispondere meglio a un mercato dinamico e in perenne evoluzione e ripartire, questa volta solo in digitale, nel 2018 con un nuovo A&R, Marco Dionigi. «La UMM cambia veste e rotta, del resto sono stato chiamato proprio per cambiare tutte le carte in tavola» afferma il DJ veneto in un comunicato stampa diffuso in Rete. «Bortolotti mi ha interpellato perché voleva dare a UMM una nuova identità. Proprio come me, lui non ama guardare al passato: è un visionario come lo sono io, ed è rimasto molto colpito dalle produzioni nu disco. Mi ha chiesto quindi di prendere in mano la label e costruirci sopra una nuova realtà musicale che mantenga però la posizione di fare musica d’avanguardia e puro clubbing sound». Per l’occasione Dionigi aggiunge che punterà su vari artisti senza dimenticare demo, sia italiane che estere, ma alla fine otto delle nove uscite finite negli store sono firmate da lui. Il sipario si chiude a maggio del 2019 col “Deeper EP” del salernitano Francesco Romano.

La testimonianza di Angelo Tardio

Tardio @ Flying Posillipo
Tardio intento ad ascoltare dischi nella prima sede della Flying Records a Posillipo (1989 circa)

Cosa ricordi dei primi anni di attività della Flying Records?
A Posillipo eravamo in due garage attigui, in uno allestimmo l’ufficio, nell’altro, più simile a uno scantinato, la parte amministrativa. Cominciammo in sordina comprando dischi dai distributori milanesi tipo New Music International, Non Stop, Discomagic e Giucar e vendendo limitatamente ai confini regionali della Campania. Poi, circa un anno dopo, convinti delle nostre capacità, pensammo di espanderci e a quel punto tirai dentro Mario Nicoletti che divenne una persona chiave per l’azienda. Avevamo voglia di crescere e l’ambizione non ci mancava ma non era sufficiente, essere meridionali e nuovi nel settore purtroppo giocò a nostro svantaggio. Tanti negozianti del nord ci chiudevano il telefono in faccia ma, a conti fatti, fu proprio questo atteggiamento a spronarci ulteriormente. Cominciammo a prendere le prime licenze dall’estero e poi a stampare produzioni italiane, anche di successo. Nell’arco di poco tempo proprio quelli che quando dall’altra parte della cornetta sentivano nominare la Flying Records riappendevano il ricevitore senza neanche salutare furono costretti a ricredersi e a fare ordini da noi. Ricordo ancora quando importammo “Bad” di Michael Jackson dal Canada, con copertina in formato gatefold non ancora disponibile in Italia: ne vendemmo migliaia! La Sony, che in quel periodo acquisì la Epic, ci accusò di rovinare il suo fatturato. Insomma, la Flying Records dei primi tempi era un luogo in cui si faceva ricerca continua, con una predilezione per le cose più appetibili che potevano trovare un consenso nel mercato italiano.

Quali motivi ti spinsero a creare la UMM nel 1991?
Mi nutro di musica da sempre e negli anni Settanta ho fatto anche il DJ. Rock, soul, jazz, synth pop, new wave, dub, house, techno, breakbeat, trance, ambient, l’unica distinzione che ho sempre fatto è quella tra musica bella e brutta. Rincorrere le cose commerciali non era ciò che sognavo di fare e, sentendo crescere in me un impulso creativo, avvertii presto l’esigenza di creare qualcosa di completamente mio e di cui avrei potuto sentirmi diretto artefice. La UMM fu il risultato.

UMM Alter
Il fuoristrada Alter, uno dei modelli più noti della casa automobilistica portoghese UMM

Ricordi qualcosa sulla creazione del nome e del logo?
Per l’occasione svelo un dettaglio che non avevo mai raccontato prima di questo momento: il nome dell’etichetta nacque su suggerimento del mio socio di allora, Flavio Rossi, che era un patito di auto fuoristrada. Tra le sue preferite c’era la portoghese UMM (acronimo di União Metalo Mecânica, nda) e lanciò l’idea di usare la medesima sigla. A quel punto studiai un nuovo significato da attribuire alle tre lettere, in linea con quanto avessi in mente. Non mi interessava nulla delle classifiche, avevo semplicemente il desiderio di selezionare la musica che più mi piaceva, anche a rischio di vendere pochissime copie. L’accordo stretto con Rossi prevedeva che nessuno, tranne me, avrebbe dovuto e potuto sindacare sulle scelte legate a UMM. Per quanto riguarda il logo invece, ci pensò Patrizio Squeglia, amico con cui collaboravo sin dal 1983, anno in cui realizzò la copertina del primo disco che produssi, “Come On Closer” di Pineapples Featuring Douglas Roop. Lui creava idee, io vagliavo e proponevo eventuali alternative. In merito al logotipo, ricordo che optammo per un font mai più usato da nessuno in seguito, per quanto concerne il logo invece, la scelta cadde su un globo contraddistinto da una sorta di rete, quasi una connessione internet primordiale, la rappresentazione grafica del movimento della musica underground irradiato sul pianeta.

Cosa ti torna in mente ripensando ai primi mesi di UMM?
Il destino volle che proprio mentre nasceva UMM vivessi un periodo assai doloroso della mia vita dovuto alla malattia e alla prematura morte di mio padre. Per qualche mese fui costretto quindi a trascurare un po’ il lavoro e infatti le prime uscite su UMM furono il frutto di scelte condivise, al 70% mie e al 30% di altri, tra venditori e referenti della sede britannica della Flying Records che aveva aperto da poco a Londra. Alcune pubblicazioni, come “Detroit 909” di K.G.B. ad esempio, vennero pubblicate prima oltremanica e a testimonianza c’è anche il numero di catalogo diverso, 003, che divenne 004 per l’Italia. “Powerful” di Fighting 4 uscì su UMM solo nel Regno Unito, da noi fu deciso di convogliarlo su etichetta Flying Records. Lo 001, “Real Dream” dei D.B.M., venne scelto da Flavio Rossi dopo averlo fatto sentire ai venditori, lo 005 invece uscì solo in white label ed era di Shamal, progetto dietro cui operava il team siciliano formato da Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea (con quella ragione sociale nel 1992 firmeranno “Freedom Party” per la milanese Palmares Records, nda). A volte stampavamo qualche centinaio di copie per capire se il progetto potesse funzionare o meno e quindi vagliavamo se proseguire con la pubblicazione ufficiale. La Flying Records dei primi anni Novanta contava su un team di circa una settantina di persone sparse tra Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti (fra le quali il promoter Claudio Arillotta, intervistato qui, nda), e visto l’importante ruolo che giocava allora la scena britannica, alcune decisioni erano determinate da chi operava a Londra e aveva il polso della situazione. Dopo aver avuto il tempo di organizzarmi però, ebbi il pieno controllo di UMM, etichetta che ho concepito in modo diverso dalle classiche, soprattutto quelle italiane. Per rimarcarlo decisi di sostituire il lato A e B con le indicazioni This Side e That Side. Non volevo seguire il modello della discografia tradizionale abituata a solcare sul lato A il pezzo forte e relegare al B il resto, per me non esisteva quella suddivisione.

Nel corso degli anni alcuni numeri del catalogo sono stati saltati, tra cui il 200. Errori o “buchi” intenzionali?
Difficile dare una spiegazione dopo così tanto tempo. Poteva trattarsi di white label a cui assegnammo il numero di catalogo e poi decidemmo di non pubblicare per qualche ragione, ma anche di banale casualità dovuta alla miriade di vorticosi avvenimenti di allora. In alcuni periodi UMM ha immesso sul mercato più di dieci uscite al mese quindi è legittimo pensare a qualche svista.

Conservi una copia di tutti gli UMM?
No, nemmeno uno. Del resto non ho avuto l’accortezza di conservare neanche una t-shirt o le mie produzioni tipo Kwanzaa Posse.

C’è un brano che avresti voluto prendere in licenza per UMM ma al quale, a causa di accordi non andati in porto, hai dovuto rinunciare?
Certo, più di uno. Il primo che mi viene in mente è “Plastic Dreams” di Jaydee (intervistato qui, nda), originariamente su R&S Records: feci di tutto per averlo ma Giacomo Maiolini offrì una cifra spropositata accaparrandoselo per la sua Downtown. Non mi sono mai piaciute le aste ma quella volta forse avrei fatto meglio a gareggiare, è una spina che mi è rimasta nel fianco. Un altro titolo è legato ancora al gruppo R&S Records di Renaat Vandepapeliere, “Selected Ambient Works 85-92” di Aphex Twin, che però uscì sulla sublabel Apollo. In quel caso non c’entrava il denaro bensì la precisa scelta, di Vandepapeliere, di non licenziarlo a nessuno per mantenere il completo controllo dell’opera. Potrei citarne anche un terzo, “Some Lovin'” dei Liberty City, progetto dei Murk e rilevato per l’Italia dalla D:vision Records. Tuttavia riuscii a coinvolgere ugualmente Oscar Gaetan e Ralph Falcon che vennero nello studio della Flying Records per registrare il remix di “Musika”, un singolo del mio progetto Kwanzaa Posse uscito nel 1993. Proprio in quello studio, allestito sul progetto acustico di Robert Quested ed equipaggiato con un magnifico mixer Amek Angela, qualche tempo dopo giunse Todd Terry e mi fece ascoltare in anteprima “Jumpin'” che presi all’istante per UMM.

Qual è stata la licenza più complicata da acquisire?
Senza ombra di dubbio “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, ma non a causa di ragioni economiche come qualcuno potrebbe pensare, visto che ero in ottimi rapporti con Mark Finkelstein della Strictly Rhythm e questo mi metteva peraltro su una corsia preferenziale rispetto ai competitor. Le problematiche sorsero invece con Erick Morillo che impose una lunga serie di condizioni a cui dovetti sottostare, ma ero talmente convinto delle potenzialità del pezzo da non arrendermi di fronte a tutte quelle difficoltà.

Daft Punk + Blake Baxter
Daft Punk e Blake Baxter, tra le pubblicazioni meno fortunate della UMM

Tra le svariate decine di artisti sbarcati nel nostro Paese attraverso UMM ci sono stati anche i Daft Punk: come ricordi “The New Wave”, ormai diventato un cult sul mercato del collezionismo?
Ascoltai un promozionale a Miami che mi fecero sentire gli amici della Soma, etichetta per cui nutrivo molto rispetto e che pubblicò la musica del duo francese prima di essere messo sotto contratto dalla Virgin. La sensazione che provai dopo aver ascoltato “The New Wave”, “Assault” ed “Alive” fu simile a quella che generò in me l’anno prima “Racing Tracks” dei Visnadi. Era musica che viaggiava su un suono diverso, non paragonabile a nient’altro in circolazione ai tempi. Rimasi fortemente affascinato da quel disco e, da supporter del suono fuori dai canoni tradizionali, lo volli nel catalogo UMM nonostante in Flying Records non piacesse praticamente a nessuno, tranne a me e a Patrizio Squeglia. I risultati purtroppo furono impietosi, vendette forse un centinaio di copie e i resi finirono al macero. Non avevo certamente la pretesa di vederlo in cima alle classifiche di vendita ma ero convinto che, in virtù di quanto fatto sino a quel momento, ci saremmo potuti permettere di pubblicare anche pezzi così particolari ma i fatti non mi diedero ragione. “The New Wave” dei Daft Punk, a malincuore, resta uno dei più grandi flop targati UMM.

Che responsi sortirono invece le uscite degli Underground Resistance e di Blake Baxter del 1991?
Le licenze degli Underground Resistance andarono decisamente meglio rispetto a quella dei Daft Punk, complice il momento d’oro che viveva la musica dei rave. In numeri, credo viaggiassero dalle duemila alle tremila copie, non di più. Di “Strong To Survive / Fuck You Up” di Blake Baxter invece ne vendemmo poche centinaia. Con Jeff Mills e Mike Banks, incontrati al New Music Seminar a New York (come raccontato qui, nda) dove parlammo a lungo di musica, c’era stima e rispetto reciproci. Ai tempi tante cose nascevano così, in modo spontaneo, senza sovrastrutture o pianificazioni a tavolino ma per puro amore nei confronti di ciò che si stava facendo. Credo che gli Underground Resistance capirono subito che dall’altra parte ci fosse un amante della musica e non qualcuno che volesse speculare sulla loro creatività.

Quali sono stati i bestseller del catalogo UMM?
Per quanto riguarda le produzioni italiane, senza dubbio “Alex Party”, successivamente nota come “Read My Lips”, “Don’t Give Me Your Life” e “Wrap Me Up” degli Alex Party e “I’m Standing” degli X-Static. Pure “Crayzy Man” dei Blast (di cui parliamo qui, nda) raccolse ottimi risultati e pochi mesi dopo lo seguì “I’m A Bitch” di Olga (di cui parliamo qui, nda): il successo fu tale da richiedere la presenza di una ragazza a cui affidare l’immagine del progetto e che tenne centinaia di serate nelle discoteche. Sul fronte licenze invece, i primi che mi vengono in mente sono “These Sounds Fall Into My Mind” di Bucketheads, “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, “Jumpin” di Todd Terry e “Deep Inside” di Hardrive, successi conclamati ovunque.

Quale invece il meno fortunato e che, a tuo avviso, avrebbe meritato di più?
“NOFutureNOPast” dei Visnadi, uscito nel ’91, un disco bellissimo, seminale per tante idee racchiuse all’interno, da cui fu estratto “Hunt’s Up” in varie versioni tra cui la memorabile Live Mix registrata in presa diretta con improvvisazioni stranianti, analogamente a quelle che i Visnadi riproposero in “Racing Tracks”, altro pezzo alieno incompreso soprattutto qui in Italia. Solamente venti anni più tardi (2013) se ne iniziò a parlare, grazie a Maceo Plex che ne fece un edit per il suo “DJ-Kicks”, e Richie Hawtin e Ricardo Villalobos che lo hanno ripetutamente inserito nei loro set e questo mi ha gratificato, seppur con immenso ritardo. Non ho rimpianti comunque, sono sempre stato convinto delle mie scelte e l’obiettivo di UMM non era certamente quello di muovere grandi numeri seppur in qualche caso ciò sia avvenuto.

Quanto incideva UMM sul fatturato della Flying Records? Ci sono state annate più floride di altre?
Quando mollai la società, a fine ’95, Flying Records fatturava 43 miliardi di lire annui di cui una quindicina provenienti da UMM. Gli anni d’oro furono quelli compresi tra 1992 e 1995 e a farmelo capire sono stati anche i negozi di dischi più importanti del mondo, sparsi tra Londra, New York e Miami, che destinavano uno scaffale esclusivamente alle uscite UMM. Per me fu davvero appagante.

Nel 1994, con un disco dei CYB, si apre il sentiero parallelo della UMM Progressive. Fu la necessità di trovare un più corretto incasellamento stilistico a spronarti nel creare una variazione del brand?
Esattamente: decisi di avviare UMM Progressive per raccogliere quei brani che finivano in territori differenti dalla house. Da divoratore di musica globale, non accettavo di rinchiudermi in un solo genere o pormi confini di sorta ma piuttosto avevo l’ardente desiderio di abbracciare qualsiasi cosa mi piacesse, che fosse di matrice house o techno. Forse avrei dovuto varare UMM Progressive già l’anno prima, quando pubblicai diversi brani e l’album degli Spooky, dal catalogo della Guerilla di William Orbit. Apprezzavo molto quel nuovo filone, progressive per l’appunto, che nasceva nel Regno Unito e in cui confluivano elementi house, breakbeat, techno, ambient e trance. Poi è capitato che, tra i tanti, ci fossero pure pezzi più commerciali finiti nelle programmazioni radiofoniche e nelle compilation dance, come “It’s Too Funky” dei CYB, ma non fu un’operazione intenzionale anzi, mi stupii nel trovare allineati i gusti del mercato generalista coi miei.

UjaMM'n
Il logo della UjaMM’n

In quello stesso anno, il 1994, tra le mura della Flying Records nasce la UjaMM’n, a posteriori considerata una sublabel o comunque un’etichetta vicina a UMM viste le spiccate analogie del logo. In realtà però di similitudini sul fronte musicale, almeno nel primo periodo, ne correvano ben poche. Esisteva una relazione tra le due?
Flying Records era diventata un ombrello di una moltitudine di generi, incluso l’hip hop (dopo i De La Soul rinsaldammo la partnership con la Tommy Boy e portammo in Italia Naughty By Nature e Queen Latifah), il rock e la musica italiana. UjaMM’n, da pronunciare youjammin’, nacque per coprire il segmento soul, new jazz e fusion, e fu affidata al compianto Francesco Diana che mi teneva aggiornato facendomi puntualmente ascoltare tutto ciò su cui lavorava. Le analogie del logo a cui ti riferisci servivano, banalmente, a far capire che fosse un “satellite” della Flying Records. In assenza di uno strumento potentissimo come internet, ci si ingegnava in altri modi per lanciare messaggi agli acquirenti.

L’attività di UMM ti ha messo in contatto con centinaia di persone, tra musicisti, DJ e case discografiche. Quali sono i nomi che riaffiorano nella tua memoria ripensando a questa avventura?
I fratelli Gianni e Paolo Visnadi, tra coloro che hanno inciso più dischi in assoluto per UMM, da quelli rimasti nell’underground ad altri diventati hit planetarie. Ci conoscemmo nei primi anni Novanta discutendo di artisti che nulla avevano da spartire con la dance come Steve Reich e Brian Eno. Mi dissero che avevano proposto invano i loro pezzi a diverse case discografiche e dopo averne ascoltati alcuni capii immediatamente che fossero cose di spessore, ignorate dagli altri perché incapaci di comprenderne le potenzialità. Pubblicare i loro primi dischi per me fu una scelta coraggiosa, di pancia direi, perché si trattava di musica apparentemente senza mercato, specialmente per l’Italia. Fortunatamente potevo contare su un valido supporto distributivo giacché Flying Records, nel frattempo, aveva consolidato la propria attività e l’apertura di una filiale a Londra e poi una a New York, a Broadway, condividendo lo stesso stabile della Irma, mi aprì le porte del mondo intero. Il nostro rapporto si rinsaldò ulteriormente con “Four Journeys” e “Hunt’s Up”. Dopo aver messo in circolazione quei pezzi iniziò un vero e proprio pellegrinaggio da parte di tantissimi che ambivano a vedere la propria musica stampata su UMM compresi futuri grandi DJ di fama mondiale. Altri due amici con cui ho condiviso il percorso stringendo una relazione duratura sono stati Gianni Bini e Fulvio Perniola ossia i Fathers Of Sound. “Revelation”, del 1993, resta uno dei miei preferiti del catalogo. Quando me lo fecero ascoltare per la prima volta impazzii letteralmente al punto da non chiedere di approntare nuove versioni, quella era sufficiente e infatti il disco era un single sided, inciso solo da un lato, sull’altro c’era una favolosa serigrafia. Al brano è legato anche il ricordo di una UMM Night presso il Warsaw Ballroom di Miami, dove c’erano almeno duemila persone e non si riusciva neanche a camminare. Bini e Perniola aprirono il set proprio con “Revelation” e lasciarono il segno in un locale house per eccellenza, paragonabile al Warehouse di Chicago, mi viene ancora la pelle d’oca a ripensarci. Il resto lo fece un formidabile sound system. Tra i referenti di case discografiche mi tornano in mente i fratelli Marin della Cutting Records da cui presi in licenza il primo album dei Masters At Work: rimasero sorpresi quando si resero conto che stesse vendendo più la stampa italiana di quella americana! Esterrefatto fu pure il citato Finkelstein della Strictly Rhythm nel momento in cui sentì la Heavy Weather Mix di “Deep Inside” di Hardrive che commissionai ai Visnadi. Menzionerei infine Francesco Zappalà per la spettacolare raccolta “UMM In Progress – Code 1” accompagnata da una copertina altrettanto speciale, che immortalava una scultura futuristica realizzata da Patrizio Squeglia allestita in un cubo di vetro. Spero che qualcuno sia riuscito a salvarla dopo la chiusura della Flying Records.

Kwanzaa Posse
Sopra Tardio in consolle, sotto le copertine dei tre 12″ di Kwanzaa Posse usciti tra ’91 e ’93 e impreziositi dai remix di Jam El Mar & Mark Spoon, Massive Attack e Murk

Oltre a ricoprire ruolo di A&R, in quegli anni operavi anche in studio di registrazione come Funk Master Sweat e nel team Kwanzaa Posse. Quali sono i tuoi ricordi più belli legati a questi progetti?
Come Funk Master Sweat firmai diversi remix principalmente per dischi licenziati o prodotti dalla Flying Records come “Feel It” di Adonte, “Soul Magic” di YBU, “Friends” di Amii Stewart e “Living For The Night” di Underground Resistance Featuring Yolanda. Con quello pseudonimo produssi anche delle tracce tra cui “House Of Latin” e “Detroit” finite in un EP in cui ospitammo i KCC (Keith Franklin, Cisco Ferreira e Colin McBean, nda). Kwanzaa Posse invece nacque per dare sfogo a un’altra mia esigenza, miscelare gli stili che programmavo come DJ nel 1976 ovvero disco, rock, funk e tanta musica nera. Sostanzialmente una maniera con cui creare la musica che più mi piaceva senza dover sottostare agli obblighi di mercato, proprio come stavo facendo in parallelo per UMM. Alla base di Kwanzaa Posse (il termine “kwanzaa” lo presi in prestito dal vocabolario Swahili e significa “primizie”) c’era un melting pot di stili, musiche, culture e sonorità, un mix eterogeneo ma ragionato che rappresentava più che bene il mio lato artistico. Ad aiutarmi in studio furono Carmine ‘KeyB’ Tortora, musicista napoletano che conosceva benissimo jazz, funk, folk e musica africana in genere, ed Enzo ‘Soul Fingers’ Rizzo, ingegnere del suono che mise a disposizione la sua esperienza per ottenere il meglio di quel distillato sonoro. Debuttammo nel 1991 con “Wicked Funk”, brano a metà strada tra acid jazz, afro e funk contenente un campionamento (autorizzato, ci tengo a sottolinearlo) di “Sorrow Tears And Blood” di Fela Kuti. Tra i remix quello dei tedeschi Jam El Mar e Mark Spoon: incontrai Mark al New Music Seminar di New York e gli feci sentire il pezzo in albergo, seppur fosse poco più di una demo. Con la sua classica giovialità ed esuberanza, mi disse subito che lo avrebbe voluto pubblicare su Logic Records, etichetta per cui ai tempi ricopriva ruolo di A&R. Ma non era tutto: la traccia gli piacque al punto da volerne fare un remix insieme al suo amico Jam El Mar con cui stava lavorando a un album, “Breaks Unit 1”, e con cui avrebbero dato avvio al progetto Jam & Spoon. “Wicked Funk” vendette diverse migliaia di copie ma ad oggi non è mai stato ristampato. Girava a 104 bpm e questo lo rese assai coraggioso visto che era il periodo in cui la maggior parte dei produttori si lanciava a capofitto nella techno a velocità elevate. Gli ottimi riscontri ci fecero guadagnare parecchie richieste come remixer, specialmente per la Francia. Mettemmo le mani su “Qui Sème Le Vent Récolte Le Tempo” di MC Solaar, “Didi” di Khaled, “Vive Ma Liberté” di Arno, “Maman” di Nina Morato, “Voilà, Voilà…” di Taha, “Sexe Faible” di Jérôme Dahan, “C’est Déjà Ça” di Alain Souchon e diversi brani per la band Les Negresses Vertes che vinsero il disco d’oro e oggi sono considerati evergreen. Nel 1992 mi occupai anche del singolo di debutto dei 99 Posse, “Dì Original Trappavasciamuffin Stailì”, contenente “Rafaniello” e “Salario Garantito”, con cui tagliammo il nastro inaugurale della Crime Squad, l’etichetta hip hop della Flying Records sulla quale poi debuttarono gli Articolo 31, i Sangue Misto, DJ Flash, i Sottotono e tanti altri. A seguire i remix di “Curre Curre Guagliò” ancora dei 99 Posse, “Here Comes Bo Diddley” di Edoardo Bennato & Bo Diddley, “Qui Gatta Ci Cova” di Tullio De Piscopo, “New State” degli scozzesi Hue & Cry, “Señor Matanza” dei Mano Negra e altri ancora. Nel 1994, proprio per i Mano Negra e sempre sotto il moniker Kwanzaa Posse, produssi “Casa Babylon”, l’ultimo album prima del loro scioglimento. Manu Chao, entusiasta del risultato, tornò a Napoli e insieme realizzammo in circa un mese l’album “Radio Bemba”, di cui conservo ancora il master, che però non venne mai pubblicato. Parte di quel lavoro fu riciclato molti anni più tardi in “Radio Bemba Sound System” da cui fummo omessi dai crediti perché, a parere del francese, i pezzi furono completamente trasformati. Nel frattempo Kwanzaa Posse era andato avanti con altri due singoli, “African Vibrations” del 1992, che tra i remix annoverava quelli di MBG e dei Massive Attack realizzato a Napoli, e “Musika” del 1993, impreziosito dalle versioni dei Visnadi e, come dicevo qualche riga sopra, dei Murk.

fax David Byrne
Il fax spedito a Tardio da David Byrne il 21 maggio 1996

A differenza di UMM, Kwanzaa Posse era un progetto di mia proprietà e libero da oneri contrattuali e che potei proseguire anche dopo aver abbandonato la Flying Records. Nel 1996 infatti remixammo “Senza Rimorso” di Zucchero, “Memobox” degli Üstmamò ma soprattutto producemmo il primo album dei King Chango per la Luaka Bop, l’etichetta di David Byrne dei Talking Heads. Conservo ancora il fax che David mi mandò nella primavera di quell’anno. In seguito ci dedicammo alle colonne sonore e musica destinata alle sonorizzazioni televisive. “Visions”, ad esempio, fu utilizzata per circa quattro anni come sigla di testa e coda di un programma di moda della Rai, Oltremoda.

Nel 1996 abbandoni la Flying Records e stringi una collaborazione con la Time Records creando tre nuove etichette, Suntune, Sunlite e Moonlite, che si ritagliano presto spazio nello scenario discografico. A fortunate licenze (“Keep Pushin'” di Boris Dlugosch, “Fever” di Djaimin & Djaybee, “Get Up (Everybody)” di Byron Stingily, “Are You Ready For Some More?” dei Reel 2 Real, “U” di Scot Project, “Guitara Del Cielo” di Barcelona 2000 intervistato qui, “The Lost City” di Graham Gold) si sommano vari made in Italy (“Be (What U Wanna Be)” degli Activa, “Zoe” di Paganini Traxx, “Journey # One” di Nu-Bass alias Bini & Perniola, “The Deep” di Val Weller, “Live EP” di Walterino, “Ye, Ye” di Tribal FM) che, di fatto, innestano su quella triade di marchi bresciani parte dell’aura della UMM. Quali ragioni ti portarono via dalla casa discografica napoletana e come mai, nonostante i rincuoranti risultati, il sodalizio col gruppo guidato da Giacomo Maiolini durò appena un biennio?
Lasciai la Flying Records poiché in netto disaccordo con la politica gestionale del mio socio. Nel primo quinquennio degli anni Novanta l’azienda crebbe in maniera esponenziale, ci eravamo trasferiti da Posillipo ad Agnano, in via Raffaele Ruggiero, dove rilevammo un’immensa parte industriale destinata al deposito, allo studio a cui facevo prima riferimento, agli uffici dell’amministrazione, e al reparto publishing con la società editoriale Blue Flower. Senza ovviamente dimenticare la nascita delle filiali a Milano, in Via Mecenate, a Londra e a New York. Flying Records era diventata una S.p.A. ma poiché socio di minoranza, alla fine si faceva sempre quello che volevano loro. La goccia che fece traboccare il vaso fu il rifiuto di un’allettante proposta da quattro miliardi di lire avanzata da un’importante compagnia discografica olandese intenzionata a rilevare la proprietà. Per principio decisi di andare via, senza prendere un solo centesimo e vedendo tristemente polverizzarsi tutto il mio lavoro nell’arco di pochissimo tempo. A quel punto Maiolini, che mi conosceva già, mi propose di continuare a fare con lui ciò che avevo fatto con UMM. Sulla carta avevo la massima libertà e per circa un anno effettivamente fu così e credo che i risultati si siano visti. Suntune era quella che avrebbe raccolto l’eredità di UMM, Sunlite fu ideata per le ricette più pop e Moonlite l’equivalente della UMM Progressive, destinata quindi a prodotti di matrice trance/techno come ad esempio “Zoe” di Paganini Traxx, un pezzo in stile Underworld che raccolse grande successo all’estero, specialmente nel Regno Unito dove fu ripubblicato da una delle etichette dance della Sony. Il primo anno in Time lo ricordo pieno di passione, diedi anima e cuore a quel progetto per farlo funzionare sottraendo anche energie necessarie ad Undiscovered, etichetta che avevo creato nel ’94. Dopo la prima fase, incoraggiante direi, iniziarono però gli screzi con Maiolini e intuii che non ci fosse la sensibilità per capire che i progetti di successo si costruiscono col tempo, necessario per creare profilo, direzione e personalità. Del resto i primi dischi della UMM vendettero poche centinaia di copie ma a Brescia non avevano nessuna intenzione di attendere anzi, pretendevano tutto e subito. Lì non trovai nessuno spirito da musicofilo ma solo conti da ragioniere. Dopo il mio abbandono Suntune, Sunlite e Moonlite finirono nell’oblio ma Maiolini creò subito un marchio nuovo per proseguire su un percorso simile, Rise, che affidò, ironia della sorte, ancora a un ex dipendente della Flying Records, Alex Gaudino.

Poco fa parlavi della Undiscovered, etichetta nata nel 1994 sull’asse Napoli-Londra dalla sinergia tra te, Angelo Bernardo, Mario Nicoletti e Doug Osborne e trainata dai successi dei Livin’ Joy a partire da “Dreamer”, presto approdata a Top Of The Pops. Perché creasti una realtà parallela mentre eri ancora impegnato con la Flying Records?
I motivi erano i medesimi che mi spinsero a mollare tutto alla fine del 1995. Io puntavo alla sostanza, a coltivare nuovi talenti, a sinergie che avrebbero rivelato i frutti sulle lunghe distanze, Rossi invece spingeva per aumentare il volume di produttività delle compilation e investiva centinaia di milioni di lire in spot televisivi, su imitazione dei classici discografici milanesi e dell’Italia settentrionale in genere. Insomma, nell’aria si respirava già un certo malessere e così cercai di creare un’alternativa in caso di rottura. Ad aprire il catalogo di Undiscovered fu il promo di “Dreamer” dei Livin’ Joy che generò un risultato spiazzante, tutte le grandi compagnie avanzarono delle offerte ma alla fine scegliemmo la MCA dove lavorava una persona che stimavo molto, Steve Wolf, che a sua volta era amico stretto di Pete Tong. Come certificato da BPI, “Dreamer” ha conquistato un disco di platino, uno d’oro e uno d’argento pari a un milione e duecentomila copie vendute solo sul territorio britannico, ma ciò non fu sufficiente a destare l’interesse degli addetti ai lavori italiani che lo ignorarono, forse perché troppo distante dai loro gusti. A remare contro fu anche la totale assenza di promozione, io non potevo certamente sbilanciarmi perché lavoravo ancora in Flying Records. Qualcosa cambiò due anni dopo con “Don’t Stop Movin'”, disco d’oro nel Regno Unito con quattrocentomila copie vendute e arrivato in Italia grazie alla Zac Records che, nel frattempo, aveva stretto una partnership di esclusiva con MCA.

BPI Certificazioni
Le certificazioni BPI (British Phonographic Industry) relative alle vendite oltremanica di “Dreamer” e “Don’t Stop Movin'” dei Livin’ Joy. Si rinviene anche un dato più recente legato a “Don’t Give Me Your Life” degli Alex Party, disco d’oro con 400.000 copie all’attivo

In modo inversamente proporzionale rispetto alle tue interviste e dichiarazioni, tra cui quelle affidate a Billboard e Rossella Rambaldi, UMM ha vantato svariate decine di pubblicazioni annue toccando l’apice nel 1995 quando ne escono circa un centinaio: ritieni di aver peccato di troppa prolificità?
Nel 1995 sapevo che sarei andato via ma ritardai al massimo quella decisione perché nutrivo un vero affetto e amore per UMM. Conscio che la fine fosse comunque vicina, diedi fondo alle energie e il risultato fu avere così tante uscite. Sulle scelte, dunque, non ho rimpianti e rifarei tutto, sulla capacità di gestione, per tutelare il marchio ad esempio, col senno di poi mi sarei sicuramente dato più da fare visto ciò che avvenne dopo il mio abbandono.

Tra ’96 e ’97 la UMM viene guidata da Giuseppe Manda e Maurizio Clemente, dal ’98 in avanti riparte invece sotto l’egida della Media Records: che idea ti sei fatto su quelle fasi?
Sarò schietto: per me tutto quello che è uscito su UMM dal 1996 in avanti non rifletteva più il concept originale, dal logo alla musica. L’unico elemento comune nella gestione Manda/Clemente fu rappresentato da quei progetti che avevo già approntato io e che attendevano solo di essere pubblicati, per il resto mi sembra che ad avere la meglio fosse un riflesso commerciale, aumentato in modo sensibile negli anni a seguire.

UMD
Il logo dell’etichetta milanese UMD

Nel 1993 la milanese Dig It International lancia una nuova etichetta house, la UMD, acronimo di Underground Music Department: era una chiara risposta a UMM?
Più che risposta la definirei uno scimmiottamento totale, al 100%. Si trattò di un progetto partorito dalla tipica scuola milanese che puntava solo al mercato, pensando di poter sfruttare nomi e slogan per raggiungere velocemente i consensi del pubblico, un tipo di ideologia e approccio che non mi appartiene.

Nei primi anni Novanta il termine “underground” finisce con l’identificare un macro genere in cui confluisce un ampio range di house music, dalla solare garage con la vocalità in primo piano a soluzioni che privilegiano il ritmo e suoni più scuri e dub. Credi che a ispirare questo tipo di utilizzo del termine in Italia sia stata anche la UMM?
Il contributo offerto da UMM per collegare quella parola a un genere è sicuramente stato fondamentale. Come ho detto più volte, non ho mai pensato di soddisfare le esigenze commerciali o compiacere il mercato. Il mio intento era, semplicemente, far sentire alla gente quello che io reputavo valido perché in quel momento storico c’era tantissima musica interessante in circolazione. Non ho mai attuato strategie di marketing sotto il profilo di nomi e nomenclature, ho preferito rimarcare il valore che c’era dietro l’underground con la musica stessa e non con le parole come invece hanno fatto altri.

Ad aiutare la diffusione del marchio UMM è stato anche il comparto del merchandising, iniziato in Flying Records e poi proseguito con l’acquisizione da parte della società Moda&Musica dei fratelli Pasquale e Gennaro Cristillo. Che ricordi hai in merito?
L’idea sorse nel 1993 quando stampammo cento t-shirt destinate esclusivamente ai DJ e produttori con cui lavoravamo, dai Visnadi ai Fathers Of Sound passando per Claudio Coccoluto, DJ Pippi e David Morales. Le mandammo anche ai De La Soul visto che fummo noi a licenziare in Italia il loro primo album, “3 Feet High And Rising”, che nel 1989 vendette circa 45.000 copie facendoci guadagnare la stima incondizionata di Tom Silverman della Tommy Boy. L’iniziativa doveva finire lì ma il riscontro fu pazzesco e le richieste crebbero smisuratamente. Alle t-shirt abbinammo bomber, slipmat e borse portadischi ma non volevo separare il merchandising dalla musica, per me non doveva essere il mercato a dirci cosa fare bensì l’esatto opposto. Non mi piaceva l’idea, ad esempio, di inondare i negozi con decine di modelli diversi, era una strategia che non combaciava più con la natura della UMM. Quando Flying Records fallì, nel 1997, i diritti per lo sfruttamento del marchio UMM nel campo dell’abbigliamento, analogamente a quelli discografici passati nelle mani della Media Records, vennero ceduti ad una società campana che diede subito un segno di discontinuità col passato non usando più il font originale. Col rispetto per ciò che hanno fatto i Cristillo prendo però doverosamente le distanze: quella non era certamente la UMM e rimasi indignato per quanto venne riportato dopo la prematura scomparsa di Gennaro sia su Il Mattino, quando venne definito “il fondatore della storica etichetta discografica UMM”, sia su Caserta News che invece ne parlava come “l’ideatore del marchio UMM”.

Quanto Angelo Tardio c’è stato nella UMM?
Tolte alcune delle prime uscite del 1991 che scelsero altri per motivi prima esposti, UMM è stata al 100% mia tra 1992 e 1995. Ero pronto a raccogliere idee e suggerimenti ovviamente, ma a decidere sono stato sempre e solo io.

Se ipoteticamente domani potessi tornare alla guida della UMM, quali sono i brani o gli artisti che pubblicheresti?
Mi piace molto la musica di Henrik Schwarz e Dino Lenny, ma anche le cose più recenti che Paolo Visnadi ha realizzato con Matteo Bruscagin. Visto il fortissimo rigurgito degli anni Novanta che viviamo, tornerei dalle persone con cui ho instaurato un maggiore feeling e intesa proponendo di creare degli edit di alcuni pezzi pubblicati in passato per valorizzare idee non sviluppate a dovere. Inoltre, visto l’amore che nutro per il dub, l’afro e il downbeat, probabilmente creerei una sublabel destinata a questi stili così come feci con UMM Progressive.

Nel 2019 Nick Gordon Brown ha scritto un articolo per il sito della Defected annoverando, tra etichette come Warp, XL Recordings, Soma, Ninja Tune, R&S Records e Kompakt, anche UMM: per quali ragioni credi sia riuscita a lasciare un solco tanto profondo del proprio passaggio?
Forse perché è stata pura, vera e non ha strizzato l’occhio a niente. Contava su un progetto grafico accattivante che procedeva di pari passo alla musica, e poggiava su una logica dell’essenzialità, legata alla musica stessa e non ad altro. La nostra era una missione genuina e artigianale, alimentata dalla passione e non da velleità economiche, e questa onestà alla fine ha dato i suoi frutti. La gente capisce quando qualcosa è sincera e fatta col cuore. Il marchio divenne potente e ad accorgersene furono anche grandi nomi di fama mondiale che fecero ulteriormente crescere la nostra credibilità. Uscire su UMM era “figo”, faceva curriculum, in un periodo in cui house music voleva dire rivoluzione. Oggi invece è un genere come tanti altri, tristemente inghiottito dalla globalizzazione.

Quali sono le tre parole con cui sintetizzeresti l’epopea della UMM?
Ricerca, connessione e unicità.


La testimonianza di Patrizio Squeglia

Patrizio Squeglia alla consolle del My Way di Napoli (1989)
Un giovane Patrizio Squeglia in consolle al My Way di Napoli nel 1989

Come e cosa ricordi del periodo in cui ti venne chiesto di approntare il logo di UMM?
È importante fare qualche premessa. Dal 1988 stavo vivendo un momento magico come DJ. Ero molto popolare nella nightclubbing cosiddetta underground, proponendo musica che mi piaceva senza mediazioni, come avevo fatto già in passato durante le prime esperienze nei club punk e new wave. Questo approccio a un certo tipo di suono non banale, poco pop e per nulla convenzionale, fece sì che la mia visione estetica dell’underground fosse ben chiara e soprattutto molto sentita, senza fare alcuno sforzo mentale per cercare di capire o interpretare cosa stesse per succedere in quegli anni perché io stesso stavo partecipando attivamente al cambiamento. Quando mi fu presentato il progetto della label dedicata alla musica che amavo e proponevo quindi fu abbastanza semplice arrivare a una soluzione efficace, anche perché stavo realizzando qualcosa che piaceva a me e a quelli come me, senza pressioni esterne che potessero condizionarmi nelle proposte. Altra premessa che ritengo importante riguarda il mio metodo di lavoro come creativo. Non so se sia un difetto o un pregio che mi porto dietro dagli studi artistici e che nemmeno i docenti dell’epoca riuscirono a cambiare: non ricorro a bozze o a schizzi cartacei e non realizzo prove materiali su un progetto grafico, ma penso continuamente alla soluzione finale senza stendere giù appunti. Quando nella mia mente visualizzo ciò che mi piace metto in opera il quasi definitivo, e anche con UMM successe esattamente la stessa cosa. Ricordo la pressione del CEO della Flying Records, Flavio Rossi, che giustamente reclamava qualcosa da vedere senza però ottenere nulla da me per il motivo descritto. Poi un giorno, in tarda mattinata, misi insieme tutto quello che avevo in testa e in un’oretta circa buttai giù il logo UMM compreso dell’icona a forma di globo. Unica bozza, unica opzione, lo guardai pochi minuti e senza esitazioni lo presentai esclamando «questo è il logo UMM, per me è giusto così» e dopo un breve silenzio Flavio Rossi e Angelo Tardio approvarono. Pensai subito di aver centrato l’obiettivo. Quelle tre lettere bold così severe e imponenti avevano la giusta intenzione rappresentativa del mondo clubbing che stava scrivendo la storia della musica underground, erano qualcosa di esteticamente massiccio e solido in linea con la musica che dovevano rappresentare.

Come annunciavi poche righe fa, per UMM realizzi, oltre al logotipo, anche un simbolo/logo globoidale, utilizzato principalmente per le logo side dei dischi ma poi finito anche sulle copertine, sia dei mix 12″ che dei CD e cassette. Cosa rappresentava esattamente?
Il globo composto da una griglia imperfetta, dai tratti irregolari e brush, faceva riferimento a quello che era il lato “oscuro e misterioso” del club, fatto da un suono sperimentale per un pubblico che voleva appunto sperimentare qualcosa di nuovo da costruire e vivere liberamente senza porsi limiti.

cataloghi merchandise UMM (1994 e 1996-97)
Altri cataloghi del merchandising UMM: a sinistra quello del ’94, a destra quello del ’96/’97

Quanto fu determinante, nel successo di UMM, la creazione del merchandising e dell’abbigliamento streetwear brandizzato?
Logo e produzioni UMM vivevano in simbiosi correndo sullo stesso binario, uno si nutriva e supportava l’altro e questo rese credibile sia la grafica che i progetti pubblicati. La copertina generica nera, così come la scelta del colore della label che cambiava in base alla produzione, non era mai casuale, c’era una scelta accurata in base al brano che doveva rappresentare. Se l’etichetta avesse improvvisamente pubblicato musica pop non credo che il logo avrebbe avuto lo stesso riscontro nel merchandising, per il semplice motivo che non sarebbe stato credibile, soprattutto in un segmento come quello del club e quando parlo di club non intendo la discoteca generica. Le prime t-shirt con il logo UMM sul fronte e il globo sul retro, rigorosamente in nero con stampa argento (colore identificativo del brand) furono solo cento. Riuscii a farle realizzare dopo aver battagliato contro lo scetticismo della presidenza Flying Records anche perché i pochi esemplari sarebbero andati tutti in regalo ai top DJ internazionali che ricevevano periodicamente i promo dalla nostra distribuzione, quindi non potevamo sapere quale sarebbe stata la reazione, soprattutto degli americani che in quegli anni erano già maestri nel merchandising. Un giorno, uno di questi DJ di cui però non ricordo il nome, ci chiamò chiedendo cosa fosse quella t-shirt trovata nella spedizione insieme ai promozionali (i famosi white label), mostrando molto apprezzamento. A quel punto capii che avevo dato vita a qualcosa che stava andando oltre le aspettative. La prima vera collezione, se così si può definire, la realizzai alla metà del 1993 e da lì in poi fu un crescendo senza freni. Ricordo camion pieni di merchandising UMM che partivano per tutto il Paese e mezzo mondo.

Quello di UMM diventa un marchio talmente crossover da finire anche in posti davvero lontani dall’universo sonoro originario, come a un concerto dei Lùnapop o sulla t-shirt del bassista di Vasco Rossi al Festivalbar 2001 mentre esegue “Stupido Hotel”. Il brand stava contagiando anche chi non aveva la benché minima di idea di cosa fosse originariamente?
Quando avvenne ciò il marchio era stato rilevato da una compagnia di abbigliamento. Credo però che entrambi i casi da te segnalati fossero solo ed esclusivamente operazioni commerciali e non certamente scelte artistiche.

Essendo un’etichetta destinata ai DJ, gran parte delle copertine del catalogo UMM era monocolore col buco centrale. Tuttavia, di tanto in tanto, alcune pubblicazioni venivano accompagnate da artwork creati appositamente, come avviene per “Four Journeys” ed “Hunt’s Up” dei Visnadi, “Syxtrax” e “Come On Boy” dei CYB, “I’m A Real Sex Maniac” di Dick, “The Princes Of The Night” dei Blast, “Be Sexy” di Justine, “Don’t Give Up” e “C’Mon And Get It!” degli Statement, “Wrap Me Up” degli Alex Party e “Heroes” di Gianni Parrini Feat. Principe Maurice giusto per citarne alcune. In base a quale criterio si decideva se dotare un disco di copertina o optare per quella generica?
Solitamente la personalizzazione della copertina era condizionata dagli accordi contrattuali con l’artista e ovviamente obbligata quando il progetto in questione era un album, ma non esisteva una logica precisa. Tra le tante che ho realizzato ricordo con piacere quelle per i Visnadi, sempre attentissimi alla grafica, ma anche “Be Sexy” della giovanissima Justine Mattera che sfiancammo durante lo shooting che la ritraeva come una bambola gonfiabile. Con lei rammento grandi risate e complicità.

UMM In Progress
La scultura Ettore & Andromeda realizzata da Squeglia finita sulla copertina di “UMM In Progress” (1994)

Particolarmente intrigante era anche la copertina di “UMM In Progress”, raccolta selezionata da Francesco Zappalà uscita nel 1994 che ospitava la foto di una tua scultura, Ettore & Andromeda. Esisteva forse qualche nesso con Ettore E Andromaca di Giorgio De Chirico?
No, non c’era alcun riferimento specifico a qualcosa, era una scultura surreale animata da due personaggi inventati che riportavano i nomi della mitologia ellenica, Ettore e Andromeda per l’appunto. Creai quell’opera in maniera istintiva cercando di sposarla col suono proposto da Francesco. La scultura, ahimè, andò distrutta durante un trasloco ma in compenso conservo sia l’LP e il CD che gli scatti originali.

In un’intervista che ti feci diversi anni fa affermasti che «la grafica è stata una componente essenziale della musica, in passato non esisteva la comunicazione e lo scambio globale di informazioni di oggi quindi la scelta di un disco era spesso stimolata in modo sensibile dall’immagine che lo accompagnava». In relazione a questo concetto, credi che il messaggio veicolato dalla musica contemporanea sia parzialmente depotenziato rispetto a quello del passato, in cui l’artwork era chiamato a svolgere un ruolo importante, oppure quel vuoto è stato colmato da altro? La musica senza immagini (stampate), insomma, è assimilata e percepita in modo differente?
Nonostante ci siano diversi creativi molto capaci e propositivi, l’immagine di copertina adesso non riesce più ad avere lo stesso valore di un tempo perché è ridotta ai minimi termini attraverso i quali è impossibile apprezzare né i dettagli né l’impegno profuso per realizzare la stessa opera. La comunicazione su un nuovo progetto oggi parte prima dai numeri e dagli algoritmi, poi arriva tutto il resto, inutile girarci intorno. È il bello e il brutto dell’evoluzione dell’essere umano, nulla di grave.

Oltre a curare lo stile di UMM, hai inciso anche diversi brani confluiti nel suo catalogo coi team di produzione Statement e New Wave Explorers: cosa rammenti in merito?
Ricordo l’assoluta libertà di fantasticare senza pressione, di mettere insieme idee, suoni e sensazioni, di tenere al primo posto la voglia di creare qualcosa che mi piacesse veramente e che sarei stato orgoglioso di proporre nei club. Di questo sarò sempre grato a tutta la Flying Records che mi ha permesso di cimentarmi nelle vesti di produttore.

Analogamente ad Angelo Tardio, anche tu lasci la Flying Records nel 1996 iniziando nuove collaborazioni a partire da quella con la bresciana Time. Quanto fu doloroso abbandonare una realtà in cui avevate profuso così tante energie? E, ancor di più, quanto fu duro assistere al suo progressivo declino?
La scelta di abbandonare la Flying Records fu molto difficile ma inevitabile. La presidenza si era circondata di figure che si vendevano come pseudo manager e cominciavano a soffocare quella che invece era stata la vera forza della compagnia ovvero la libertà artistica, il curiosare, proporre e sperimentare. Si cominciava a parlare di commerciale, di budget, di licenziamenti ed altro simile, insomma si stava delineando quella che voleva essere una vera e propria azienda strutturata ma senza avere né i mezzi e forse tantomeno le figure giuste per diventarlo. I miei timori erano fondati visto che, a poco più di un anno dall’addio, la Flying Records fallì. Il ricordo più amaro che ho è legato ai giorni immediatamente successivi alla chiusura: mi recai presso lo studio di registrazione adiacente l’azienda e con grande rammarico notai sulla strada, accantonati come spazzatura, una montagna di master, pellicole, bobine e stampe fotografiche di quello che un tempo era l’archivio produzione. Stiamo parlando quindi degli originali di Blast, Articolo 31, Alex Party, 99 Posse, Joy Salinas e tantissimi altri.

Dopo il fallimento della Flying Records, la UMM viene riavviata a più riprese dalla Media Records che, dal 1998, la affianca a nuove declinazioni grafiche. Che idea ti sei fatto di quei tentativi?
Che Gianfranco Bortolotti e Diego Leoni siano stati due protagonisti indiscussi della scena dance/house degli anni Novanta, e che la Media Records abbia un posto di rilievo nella storia della musica italiana è fuori discussione, ma entrambi non hanno mai avuto un buon rapporto con la scena underground. Difatti il primo tentativo di rilanciare la UMM sfumò velocemente e, in tutta sincerità, non mi spiego nemmeno perché ci abbiano riprovato a distanza di anni. La magia di UMM ha una data ben precisa di nascita e di fine, pensare di rifare qualcosa che ha avuto successo in un determinato arco di tempo e in circostanze e/o momenti storici che non possono ripetersi non ha alcun senso.

Fanzine Gigantic
La fanzine che Gigantic ha dedicato a UMM nel 2021

Nel 2021 la galleria d’arte milanese Gigantic ha pubblicato, nell’ambito del progetto Night Of The Fanzines, il volume “1991/96 Dal Logo Alla Musica” dedicato proprio a UMM. Un riconoscimento al merito per ciò che ha rappresentato l’etichetta, nel panorama internazionale, negli anni più floridi?
I ragazzi di Gigantic organizzano ogni anno una mostra dedicata al mondo della fanzine. Partecipare per me ha rappresentato una grande gratificazione, soprattutto per il supporto che dovevo usare, una fanzine artigianale e grezza, così come è sempre stato nello spirito di UMM, nulla di patinato insomma. Alla mostra prendono parte vari artisti che presentano contenuti diversi con un unico filo conduttore, la fanzine. È stato molto bello e divertente, il tutto coronato da un grande apprezzamento da parte del pubblico che, in tutta onestà, non mi aspettavo.

Che eredità lascia la UMM?
Nel mio caso è, ad esempio, essere invitati nel 2022 alla presentazione di un album di un collettivo della scena rap milanese, Make Rap Great Again, e scoprire dagli stessi protagonisti di essersi liberamente ispirati al progetto UMM per quelle che sono state le impostazioni grafiche della loro etichetta. Ma potrei citare anche un episodio del 2020, quando la Defected pubblicò un post su Instagram dedicato alle “leggendarie etichette dance”: tra Warp, XL Recordings, Junior Boy’s Own, Soma, R&S Records, Kompakt, Nervous, Nu Groove, Trax Records, D.J. International e altre ancora spiccava benissimo la UMM.


La testimonianza di Giuseppe Manda

Giuseppe Manda alla Flying Records 1991-1992
Giuseppe Manda negli uffici della Flying Records in una foto scattata tra 1991 e 1992

Come ricordi la tua avventura con la Flying Records?
Iniziai a lavorare in Flying Records quando era ancora una piccola distribuzione con gli uffici e magazzini allestiti in un garage di Posillipo. In quel momento per me iniziò un fantastico percorso professionale e personale, eravamo una squadra imbattibile e a confermarlo sono i tanti risultati ottenuti. Qualche tempo dopo ci spostammo in una nuova location ad Agnano dove, insieme a Mimmo Mennito, mi occupavo della vendita sul territorio nazionale delle produzioni Flying Records e della miriade di dischi import che arrivavano dall’estero. Da lì a breve giunse l’ennesima intuizione di Angelo Tardio che aprì un mondo: nasceva UMM, supportata da una forte distribuzione nazionale e internazionale e da uno straordinario apparato grafico concepito da Patrizio Squeglia.

Come si profilò per te, nel 1996, la possibilità di ricoprire il ruolo di A&R della UMM insieme a Maurizio Clemente?
L’uscita di Angelo Tardio dall’assetto societario lasciò un vuoto che necessitava di essere colmato. Poiché negli anni precedenti avevo già collaborato con UMM, la proprietà decise di affidare a me e Maurizio Clemente la direzione di quella label. La Flying Records iniziava però la sua fase calante e questo non facilitò sicuramente le cose nel nostro breve percorso alla guida di una delle etichette italiane più iconiche del panorama mondiale. A Tardio devo tantissimo, grazie a lui iniziai a remixare e produrre musica presso lo studio della Flying Records ed ebbi l’onore di mettere le mani su brani di artisti del calibro di Blake Baxter, Todd Terry, Juan Atkins e Underground Resistance.

The Family - Feel The Light
“Feel The Light” di The Family (1996)

Quali sono le produzioni UMM uscite durante la tua direzione artistica che ricordi con maggior piacere?
Senza dubbio “Feel The Light” di The Family, un progetto di Tony Humphries. Martellai tanto Maurizio Clemente per convincere il DJ statunitense e, dopo un po’ di tentennamenti iniziali, riuscimmo nell’intento. Non fu semplice organizzare la cosa, sia da parte mia che di Maurizio che gestiva il contatto diretto con l’artista. Programmammo tanti remix del brano affidandoli ad Oscar Gaetan, DJ Vibe, Victor Simonelli e allo stesso Humphries ma alcuni uscirono solo su un doppio promo che anticipò la pubblicazione ufficiale. Anche io ebbi l’onore di mettere le mani sul pezzo confezionando la Man-Da Dub. Viste tutte le energie spese però, mi aspettavo che l’iniziativa, così laboriosa, raccogliesse qualche risultato in più.

Rispetto alle annate precedenti, il numero delle pubblicazioni UMM si riduce in modo sensibile tra 1996 e 1997. Certe uscite vengono persino confinate al formato white label, come avviene ad una delle ultime, la 384. Come mai?
Il mercato iniziava a conoscere una netta flessione e la Flying Records non aveva più la forza economica del passato. Alcune uscite furono limitate ai white label per evitare spese inutili e rientrare nei costi di tante compilation andate male e investimenti pubblicitari fallimentari. La chiusura di Flying Records fu un colpo al cuore, seppur per noi dipendenti fosse prevista. Terminava l’era di un’azienda che aveva fatto storia non solo nella dance ma anche nel rock e nell’hip hop. Nel 1997 finiva quindi un ciclo irripetibile della mia vita e di coloro che, come me, diedero l’anima in quegli anni.

Hai avuto modo di seguire la UMM del post Flying Records?
Ad essere onesto ne so ben poco. Dopo il fallimento della Flying Records seppi che i diritti del marchio UMM vennero ceduti a due aziende, una che si occupava di abbigliamento e una intenzionata a proseguire l’iter discografico. Sono sempre stato convinto che il successo di UMM sia stato decretato da un insieme di fattori ma soprattutto dalla collaborazione di persone in grado di far girare nel verso giusto gli ingranaggi della macchina, ma non rinunciando al divertimento. Alla luce di ciò resto del parere che non basta riprodurre un marchio per attribuire la stessa valenza a un prodotto, per giunta non appartenente a un determinato periodo storico.

Onirico repress 2022
La copertina della ristampa più recente di “Stolen Moments” di Onirico (Back To Life, 2022)

In tempi recenti hai creato la Flash Forward e la Back To Life, due etichette nate con lo scopo di ripubblicare brani house/techno del passato tra cui “Stolen Moments” di Onirico (UMM, 1991). Il lavoro svolto per l’etichetta napoletana circa venticinque anni fa ti ha in qualche modo aiutato a gestire una casa discografica, seppur il contesto in cui operi oggi sia profondamente differente da quello del passato?
Sì, senza dubbio. L’esperienza in Flying Records mi ha arricchito di informazioni che mi sono servite nei progetti nati successivamente, a partire da quelli nati quando lavoravo in Karma Distribuzioni e poi quelli di Flash Forward e Back To Life, etichette che guardano artisticamente al passato ma con la consapevolezza che sia tutto totalmente cambiato.

C’è un aneddoto legato alla Flying Records che vorresti raccontare?
Certo, ed è antecedente al periodo in cui svolsi ruolo di A&R. Come ogni anno partimmo per il Midem di Cannes dove la Flying Records aveva solitamente uno stand. La sera, terminata la giornata di lavoro, ci spostavamo in gruppo per seguire i vari eventi organizzati. All’uscita di un locale, appena messe le chiavi nella serratura dell’auto, spuntarono all’improvviso almeno una ventina di poliziotti delle forze speciali armati di pistole, mitra e fucili e, tra mille urla in francese, ci ammanettarono e scaraventarono in diverse auto, così come solitamente fanno coi peggiori criminali. Fummo portati in una grande centrale di polizia e, senza alcuna spiegazione, ci ritrovammo tutti insieme in una megacella di detenzione. A quel punto la paura crebbe a dismisura e iniziammo a nutrire sospetti l’uno dell’altro. Si passava dalla risata isterica del compianto Francesco Diana, che lavorava per il reparto hip hop, ai pianti di un giovane Alessandro Massara, in quel periodo in forze al reparto rock e in seguito diventato presidente della Universal. Trascorremmo circa due ore da incubo terminate con le scuse della polizia che aveva preso un evidente abbaglio, probabilmente dovuto alla targa di una delle nostre auto. La frittata però era fatta, l’indomani tra i corridoi del Midem ci salutavano tutti col sorrisino e mimando il gesto delle manette. Ogni volta che ripenso a quella storia rido come un bambino ma nel contempo mi tornano in mente i momenti terribili di quando mi fecero sdraiare a terra a faccia in giù e mi ammanettarono, proprio come un malvivente.


La testimonianza di Maurizio Clemente

Maurizio Clemente WMC 97
Maurizio Clemente al Winter Music Conference di Miami nel 1997

Tra 1992 e 1994 avevi già lanciato alcune etichette, la Rena Records, la Zippy Records e la Nite Stuff, a cui si aggiunse poi la Equal Records: quanto fu determinante ciò per il ruolo ricoperto in UMM?
Nite Stuff e Zippy Records erano distribuite proprio dalla Flying Records e rappresentavano prove tangibili dei buoni risultati raggiunti. In virtù di questo mi fu offerto il ruolo di A&R insieme a Giuseppe Manda. Fu un’esperienza fantastica dirigere un’etichetta dal profilo così alto e rispettato nell’ambito della dance music internazionale.

Ci sono produzioni UMM uscite durante la tua direzione artistica che ricordi con maggior piacere?
È difficile ricordare i titoli visto che sono trascorsi più di venticinque anni ma sicuramente “Feel The Light” di The Family, progetto di Tony Humphries. Andando un po’ più indietro invece, citerei la compilation “House Underground United” pubblicata nel ’94 su Nite Stuff e che lanciammo in occasione del SIB/Nightwave di Rimini.

Quali invece quelle da cui ti aspettavi risultati migliori?
Su tutti “We Got A Love” di Martini & Hardcorey con la voce di Sabrynaah Pope e remixata, tra gli altri, dai Fathers Of Sound, artefici di un suono che mi piaceva moltissimo.

Rispetto alle annate precedenti, il numero delle pubblicazioni UMM si riduce in modo sensibile tra 1996 e 1997. Alcuni numeri del catalogo sono saltati e certe pubblicazioni diffuse solo in formato white label: come mai?
Negli ultimi tempi puntavamo ai white label sia per risparmiare sul packaging, sia per stampare solo sul venduto. L’aria che si respirava in Flying Records in quel periodo era carica di tristezza, eravamo un team coeso ma sapevamo che le cose non stessero andando per il verso giusto. La maggior parte di noi attribuiva la debacle all’apertura degli uffici all’estero.

adv tour estivo '98
L’adv del tour estivo UMM nell’estate ’98

Nell’estate del 1998, poco prima che la Media Records rilanciasse il marchio, si tenne un tour della UMM in vari locali come l’Echoes, il Momà, l’Aqua Disco Village, il Sottovento e il Fabula con vari DJ tra cui Luca Fares, Lello Mascolo e il compianto Ricci: chi lo organizzò?
Si trattava di una tournée ideata per sensibilizzare i club. La organizzammo facendo leva sui miei contatti di allora intrecciati a quelli messi a disposizione dalla Media Records.

Nell’autunno di quell’anno l’etichetta di Gianfranco Bortolotti rimette sul mercato il marchio UMM. Hai avuto modo di seguire quella fase?
Sono a conoscenza dei vari tentativi nati con l’obiettivo di rilanciare UMM ma nessuno di essi mi sembra abbia dato i risultati sperati.

Che eredità lascia la UMM?
UMM nacque e si sviluppò in un periodo storico in cui le distribuzioni italiane erano in diretta competizione con gli Stati Uniti e riuscirono, con astuzia, a ritagliarsi grosse fette di mercato. A oggi, a detta di tutti, UMM resta l’etichetta italiana all’altezza di colossi d’oltreoceano come Nervous Records e Strictly Rhythm.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Nevio M.

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Nevio M. e parte della sua collezione tra cui la prima produzione discografica, “Sunset” (Sarasate Tribal Nation, 1995)

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo “Equinoxe” di Jean-Michel Jarre, che comprai nel 1979 dietro suggerimento del fratello maggiore di un caro amico, grande appassionato di musica. A conti fatti direi che fu un consiglio prezioso.

L’ultimo invece?
Tra gli ultimi che ho preso c’è “Reprise” di Moby, un doppio album in edizione limitata che contiene le rivisitazioni delle sue tracce storiche come “Natural Blues”, “Go”, “Porcelain”, “Why Does My Heart Feel So Bad?” e “Lift Me Up”.

Quanti dischi annovera la tua collezione?
Non li ho mai contati ma qualche anno fa un amico appassionato di numeri fece un calcolo e stimò una soglia intorno ai diecimila pezzi. Difficile stabilire anche quanto denaro abbia speso, sicuramente tantissimo ma non me ne pento affatto.

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Altri dischi della collezione di Melari, qui riposti su scaffali di ferro

Dove è collocata e come è organizzata?
È suddivisa tra scansie di ferro e di legno, ma anche in vari bauli e ceste. Ho tentato di adottare una sorta di indicizzazione secondo il genere musicale ma mi sono accorto che non è affatto un’impresa facile.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ovviamente cerco di tenere i dischi in un ambiente asciutto ed ogni tanto effettuo una bella spolverata e pulita prima dell’ascolto o dell’uso. Ho iniziato ad adoperare le copertine plastificate da qualche anno ma solo per le copie più nuove.

Ti hanno mai rubato un disco?
Ahimè sì: ad essere trafugato dal mio flight case nell’ormai lontano 1987 fu “Africa, Center Of The World” di Roy Ayers, ma qualche anno fa l’ho recuperato grazie a Discogs.

C’è un disco a cui tieni di più?
Potrebbe sembrare banale e scontato ma è la mia prima produzione, “Sunset”, pubblicata nel 1995 dalla Sarasate Tribal Nation.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una cifra considerevole?
Il secondo album degli Orbital uscito nel 1993 che purtroppo mi sfuggì all’epoca.

Quello che regaleresti volentieri o che ti sei pentito di aver comprato?
Mi è capitato di prendere dischi che non trasmettevano granché ma mi servivano in determinate situazioni o serate. Adesso fanno ugualmente parte del mio percorso musicale e per questa ragione non li rinnego.

Quello con la copertina più bella?
Non ho dubbi, l’album dei Velvet Underground e Nico con la banana disegnata da Andy Warhol.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Il primo acquisto lo feci da Sangiorgi Dischi a Faenza, nel 1979, che (r)esiste ancora oggi. In seguito andavo da Tatum a Forlì, Disco Più e Dimar a Rimini, Nannucci a Bologna ed altri ancora. L’atmosfera di quei luoghi era unica, all’epoca si faceva di tutto per accaparrarsi la copia di un disco che magari era arrivato in quantità limitata e spesso per riuscirci bisognava diventare amici del negoziante. I negozi di dischi erano i veri “social” dei tempi, lì dentro ci si conosceva e ci si confrontava, e lo dico senza retorica. Oggi il confronto e la socialità, seppur si viva nell’epoca dei social network, paiono paradossalmente scomparsi.

Nei primi anni Novanta collabori con Piero Zannoni alias Piero Zeta nel negozio di dischi Mixopiù, a Faenza, di cui abbiamo parlato dettagliatamente nel libro Decadance Extra. Come e cosa ricordi di quel punto vendita, a circa un trentennio dall’inaugurazione?
Venivo da un anno sabbatico, mi ero preso una pausa dal mondo notturno col fine di riordinare le idee per capire come andare avanti, e partimmo davvero con pochissime risorse. Tuttavia nell’arco di qualche mese eravamo già diventati un punto di riferimento per tanti DJ della zona. Io curavo la parte più progressive ed underground, Piero invece si occupava di techno, trance ed hardcore. Erano anni di forte fermento tra musica, locali e moda, tutto era splendidamente nuovo, bello ed intrigante.

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Flight case di Nevio M da cui affiorano alcuni EP della sua discografia e sui quali si scorge anche l’adesivo del negozio di dischi Mixopiù

Sempre negli anni Novanta incidi diverse produzioni, per la citata Sarasate Tribal Nation in compagnia di Marco Capelli, futuro Andrea Doria intervistato qui, per la Ental Records diretta da Piero Zeta e per la Sound Of Rome del gruppo romano A&D Music And Vision, a cui si aggiungono comparsate sulla Tube di Marco Dionigi, intervistato qui, sulla Hex Sound Technology Research del gruppo Enterprise di Einstein Doctor DJ intervistato qui, e sulla Sushi, uno dei tentacoli della modenese American Records di Bob One a cui abbiamo dedicato qui una monografia. Quali erano le ragioni principali che spingevano i DJ come te a cimentarsi nella creazione di brani propri?
Poter creare una traccia da zero e poi vedere il risultato apprezzato dal pubblico che la balla non ha prezzo, ancora oggi provo bellissime emozioni e sensazioni. Quando ciò avviene vuol dire che la gente che balla è in sinergia e sintonia con chi ha ideato quel pezzo. Ho sempre creato e prodotto musica con questo intento e non certamente a scopo di lucro altrimenti avrei optato per una strada più commerciale. Con Marco Capelli, che allora si faceva chiamare ancora MC Hair, c’era un’intesa speciale, ci capivamo al volo e produrre musica con lui, senza togliere nulla agli altri con cui ho avuto il piacere di collaborare in studio, è stato molto divertente. Facevamo le cose che più ci piacevano e i clubber dimostravano di apprezzare, cosa potevamo volere di più?

Militare tra le fila di alcune case discografiche ha sempre fatto la differenza, non solo per un ritorno di immagine e prestigio ma anche perché, obiettivamente, alcune realtà contano su una credibilità e popolarità tale da riuscire a smarcare i propri artisti dal mare magnum di concorrenza. C’era qualche label, italiana o estera, con cui ti sarebbe piaciuto collaborare?
Avrei voluto incidere per la svedese Hybrid di Cari Lekebusch e per la Planet Rhythm Records co-fondata da Adam Beyer, ma nutrivo un debole pure per la britannica Bush. Purtroppo non c’è mai stata l’occasione di stringere sinergie con nessuna di esse.

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Altri dischi della collezione di Melari su scaffali di legno. In basso, tra gli altri, si scorge “Phase II” di Bohannon (1977)

Dopo anni di silenzio sei tornato ad armeggiare in studio lavorando ancora con Piero Zeta. Comporre musica oggi e pubblicarla però pare essere diventato quasi un passatempo vista la facilità di approccio: la tanto osannata democratizzazione ha finito forse col banalizzare quella che un tempo era considerata un’attività artistica?
Il mio ritorno in studio è legato al puro divertimento, senza pretese. Adesso sono in auge metodi differenti per stabilire la validità di una produzione, in primis le visualizzazioni online, ben diversi rispetto a quelli di qualche decennio fa. Ecco perché non ripongo alcuna aspettativa nelle nuove mie nuove creazioni discografiche.

Negli anni Novanta alcuni DJ, anche particolarmente noti, si affidavano a musicisti ed ingegneri del suono per realizzare le proprie produzioni. Si dice che alcuni sapessero a malapena accendere un computer e collegare un sintetizzatore ma grazie alla popolarità del proprio nome, conquistata in discoteca o in radio, riuscirono ad alimentare per lungo tempo il proprio repertorio discografico. Era forse una strategia non così dissimile da quelle degli anni precedenti descritte in questo reportage e dalle tanto criticate odierne?
Negli anni Ottanta, così come nei Novanta, esistevano artisti e persino “gruppi” totalmente inventati a tavolino, che non sapevano né suonare né tantomeno cantare, ma offrivano a musiche prodotte in studio da altri la propria immagine che catalizzava l’attenzione delle giovani generazioni. Un caso su tutti, che fece scalpore a livello internazionale, quello dei Milli Vanilli. Adesso tale procedura non è più applicata soltanto alla sfera delle produzioni discografiche ma anche alle esibizioni dei DJ. Se un prodotto vende vuol dire che è vincente ma non dobbiamo confondere ciò con l’arte, quella è davvero un’altra cosa.

Sei stato tra i resident del Cellophane di Rimini, uno di quei posti diventati mitologici nei racconti di chi oggi, su internet ma non solo, lamenta la cronica assenza di club nati con l’intento di promuovere musica. Come descriveresti il Cellophane a chi non ha mai avuto l’occasione di metterci piede?
Tra i tantissimi locali in cui ho prestato servizio, quello che mi è rimasto più nel cuore è proprio il Cellophane. Per quanto mi sforzi, faccio fatica a spiegare a parole l’atmosfera che si respirava e viveva tra quelle mura. Era un posto scuro e basso ma con un’acustica pazzesca, il Club con la C maiuscola per eccellenza. La gente veniva da ogni parte d’Europa per divertirsi ed io facevo altrettanto: in quei quattro anni di residenza mi sono espresso musicalmente al massimo, dando e ricevendo tantissimo.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando al Cellophane?
“Konception” di Plastikman: quando lo mettevo, prima di iniziare la serata, creava un’atmosfera pazzesca in pista e la gente iniziava a battere le mani a tempo;
“Cellule” di J.J.Jam, una produzione italiana di DJ Pareti meglio noto come Sinus, che è stata per un po’ la mia sigla di apertura;
“Tone” di Emmanuel Top, l’Attack Records di colore arancione: ricordo ancora i cori del pubblico talmente forti da sovrastare la musica.

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Un ultimo scatto sui dischi di Melari protetti dalle copertine plastificate

Al netto della nostalgia, credi che la musica figlia degli anni che stiamo vivendo verrà ricordata tra qualche decennio così come è successo a quella del passato oggi tanto celebrato, oppure c’è stato un cortocircuito che ha creato una frattura dando origine ad un prima e un dopo?
Le mode e la musica vanno avanti e si evolvono, è inevitabile, chi vivrà vedrà. Quello di cui sono certo è che gli anni Novanta non verranno dimenticati.

E sul DJing post Duemila invece cosa pensi? L’industrializzazione di un settore un tempo pionieristico ha fatto più bene o male?
Sono del parere che dal 2004 in avanti ci sia stato un appiattimento generale e l’Italia ha pagato un caro prezzo. Paesi come Spagna, Germania e Regno Unito hanno capito tempestivamente che il comparto necessitava di essere “industrializzato” e rivisto, noi al contrario siamo stati a guardare ed oggi ne subiamo le conseguenze.

Ritieni che le nuove frontiere tecnologiche digitali stiano svilendo l’arte del DJing?
Il vinile avrà sempre un fascino che nessun file digitale potrà mai trasmettere, alla stregua di un libro che si apre, si tocca, si annusa e si legge. È ormai un rito mettere il disco sul piatto e godersi la musica, tuttavia non faccio mistero che anche io mi sono abituato, per comodità, ad usare le pen drive per le serate in discoteca, seppur continui comunque a comprare dischi. Il mondo va avanti e non trovo giusto criticare le nuove generazioni solo perché usano consolle digitali, computer o qualsiasi altro mezzo tecnologicamente più avanzato di quelli che usavamo noi.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone i motivi.

James Brown - Revolution Of The MindJames Brown – Revolution Of The Mind
Un doppio LP del 1971 che acquistai nel 1983 alla Dimar, a Rimini, un negozio molto grande specializzato in rarità e che trattava anche dischi fuori catalogo. All’epoca lo pagai uno sproposito, duecentomila lire. Me ne innamorai perché conteneva, tra le altre, una versione di “Soul Power” che sentii mettere da TBC (Claudio Tosi Brandi) al Cosmic di Lazise, sul Lago di Garda, e rimasi fortemente incantato dal groove e dall’effetto che produceva sul dancefloor.

The KLF - What Time Is LoveThe KLF – What Time Is Love?
Sono parecchio legato a questa traccia dei britannici KLF uscita originariamente nel 1988 e ripubblicata a più riprese negli anni successivi. Ritengo sia stato uno dei brani capostipite del genere trance (insieme ad altri come “The Age Of Love” degli Age Of Love e “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo rispettivamente qui e qui, nda) e progressive, un filone giunto nel decennio successivo caratterizzandone indelebilmente buona parte. Un pezzo a cui tanti DJ e produttori si sono ispirati per le proprie creazioni.

Moby - GoMoby – Go
Un brano dance/trance del 1991 in cui Moby campiona uno stralcio di “Laura Palmer’s Theme” di Angelo Badalamenti, dalla colonna sonora della serie televisiva di successo “Twin Peaks”, e lo unisce magistralmente ad un pezzetto di “Go”! dei Tones On Tail ‎ed un altro da “Love’s Gonna Get You” di Jocelyn Brown. Un disco che fa riaffiorare in me fantastici ricordi.

A. Paul - JuiceA. Paul – Juice
Pubblicata nel 1994 sulla portoghese Question Of Time di J Daniel (quello di “…To Eden”, che spopola in Italia nel 1996 come “disco nave”, nda), “Juice” è una traccia che corre su strutture elettroniche tribali, poi si ferma in una lunga pausa per quindi ripartire con energia. Lo adoravo ai tempi dell’uscita ed è uno di quei pezzi che mi ricorda l’approdo come DJ resident al Cellophane di Rimini dove lo ho proposto, praticamente ininterrottamente, per un’intera stagione riuscendo a creare atmosfere impareggiabili. L’interesse fu tale che nel 1995 la UMM decise di prenderlo in licenza per l’Italia.

Plastikman - MusikPlastikman – Musik
Questo doppio album prodotto da Richie Hawtin per la Plus 8 Records nel 1994 si sviluppa su suoni minimali ed acidi, disegnando traiettorie parecchio innovative per l’epoca. Come annunciavo prima, solitamente ad inizio serata suonavo “Konception”, traccia sui 115 bpm che, abbinata a luci strobo, fumo e laser, generava un’atmosfera pazzesca che non potrò mai dimenticare. Le produzioni di Plastikman erano spesso presenti nei miei set, adoravo il suo modo di fare musica e non a caso possiedo la discografia completa.

Various - Insomnia CompilationVarious – Insomnia Compilation
Una compilation su CD, cassetta e vinile, commercializzata nel 1994 dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. In particolare la versione su vinile, doppia e limitata alle appena 500 copie, è rara e piuttosto costosa sul mercato dell’usato. Svariati i pezzi racchiusi al suo interno ma quello più famoso era “Free Your Mind” di Olimpo, progetto dietro il quale si celavano Francesco Farfa e Joy Kitikonti (intervistati rispettivamente qui e qui, nda). Gran parte della restante tracklist fu realizzata dal giovane Rexanthony e dalla madre Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), la produzione di Antonio Bartoccetti (intervistato qui, nda) mentre la selezione a firma di Antonio Velasquez, direttore artistico dell’indimenticato locale di Ponsacco.

Stefano Noferini - Trumba LumbaStefano Noferini – Trumba Lumba
Il brano in questione era racchiuso nel primo volume della compilation “DJ’s United Grooves” (di cui parliamo qui, nda), per cui il mio socio Piero Zeta ricopriva ruolo di coordinatore. Si trattava di un progetto ambizioso che metteva insieme tanti DJ italiani, da Alfredo Zanca a Marco Bellini, da Simona Faraone a Massimo Cominotto passando per Killer Faber, Buba DJ, MC Hair e lo stesso Zeta. A “Trumba Lumba”, inoltre, è legato un aneddoto: erano le diciannove di un sabato pomeriggio e mi trovavo a Faenza, nel Mixopiù. Piero entrò portando un acetato in formato 10″ appena “sfornato” con su inciso, per l’appunto, “Trumba Lumba”. Penso che neanche Noferini stesso lo avesse ancora. «Tieni, così stasera lo suoni in anteprima al Cellophane!» mi disse, e così fu.

Emmanuel Top - Turkich BazarEmmanuel Top – Turkich Bazar
“The music was new, black polished chrome, and came over the summer like liquid night”: era questa la famosissima frase campionata da “Black Polished Chrome” di Jim Morrison che apriva e scandiva il ritmo di “Turkich Bazar” di Emmanuel Top del 1994. Il resto era edificato con una Roland TR-909 ed una Roland TB-303 e il gioco era fatto. Ad onor del vero potrei citare pure tutti gli altri brani apparsi sulla Attack Records in quel periodo perché credo abbiano lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’elettronica che si suonava nei club negli anni Novanta. Non nascondo di essermi ispirato proprio alle tracce di Emmanuel Top per i pezzi finiti in “Mental Flow EP”, la mia seconda produzione su Sarasate Tribal Nation.

Pink Floyd - Wish You Were HerePink Floyd – Wish You Were Here
Su questo capolavoro targato 1975 voglio raccontare un altro aneddoto. Ero ancora un ragazzino ed un mio amico mi invitò a casa sua per ascoltare un nuovo disco che aveva acquistato il fratello, fedele appassionato di rock. Mise sul giradischi “Wish You Were Here” e in quel momento mi si aprì un mondo. Rimasi praticamente incantato ed estasiato nell’ascoltare le note di “Shine On You Crazy Diamond”. Negli anni a seguire lo comprai sia su vinile che CD.

Namito - Stone FlowerNamito – Stone Flower
Secondo me “Stone Flower”, edito nel 2019 dall’americana Sol Selectas, è uno dei dischi da club più belli usciti negli ultimi anni. 114 bpm, ambientazioni new age, tastiere, cori di voci suadenti, un bellissimo connubio insomma. Una traccia che avrei voluto fare io.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Simona Faraone

01 - Faraone discollezione
Parte della collezione di dischi di Simona Faraone

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo lo acquistai nel 1979 ed era la stampa americana, su Casablanca, del 12″ di “No More Tears (Enough Is Enough)” di Barbra Streisand e Donna Summer recante la dicitura “this is a 12-inch single” prima del titolo, sulla copertina. Si trattava di un single sided, inciso solo sul lato a. All’epoca fu una vera hit in cui la Summer duettava con la Streisand, ed era la stessa versione estesa di ben 11:40 che compariva in “Greatest Hits – On The Radio Volumes 1 & 2” di Donna Summer e in “Wet” di Barbra Streisand ma in versione editata di 8:19. Ero una fan della Streisand che seguivo sia come cantante che come attrice, e con questo disco iniziai la mia prima piccola collezione, costituita soprattutto da LP del genere pop/musica leggera anche di artisti italiani (Loredana Bertè, Stadio, Matia Bazar, Mina) a cui si aggiungeva qualche album disco prodotto in Italia o negli Stati Uniti tipo “Kano” e “New York Cake” dei Kano, pubblicati su Full Time Records che acquistai praticamente appena usciti da Goody Music, il negozio del produttore discografico Claudio Donato. Quando iniziai a fare la speaker in una radio locale divenni una cliente fissa di Goody Music (di cui parliamo in Decadance Extra, nda). Ero completamente immersa nel funk, nel soul e nell’r&b dei primissimi anni Ottanta, generi di cui quel negozio era molto ben fornito. A seguire iniziai ad orientarmi verso rap ed hip hop che esplodevano in quegli anni e di cui Goody Music divenne un importante riferimento a Roma.

L’ultimo invece?
“Visitors From The Galaxy Revisited”, un doppio LP coi remix della bellissima colonna sonora di Tomislav Simović realizzata per il cult movie sci-fi del 1981 diretto dal regista yugoslavo Dušan Vukotić. In realtà il disco è uscito nel 2021 sulla Fox & His Friends ma io sono riuscita a recuperarlo solo due mesi fa nel negozio Oblique Strategies // Utopie Musicali di Roma che aveva ancora delle copie a disposizione. Lo considero un piccolo capolavoro di musica acid house, electro, techno, leftfield ed abstract, sonorità alle quali mi sono recentemente riavvicinata attraverso i miei DJ set. La componente sci-fi e l’ispirazione alla Galassia Arcana, tra le suggestioni del progetto 291outer Space pubblicato nel 2018 sulla mia label New Interplanetary Melodies, non potevano non attirare il mio interesse. La compilation, curata da Leri Ahel e Zeljko Luketic (intervistati qui, nda) include anche parti della soundtrack originale ancora inedite e rivisitate dai dieci artisti coinvolti tra i quali Drvg Cvltvre, Ali Renault, Repeated Viewing, Anatolian Weapons, Credit 00 e il capitolino Heinrich Dressel.

Quanti dischi raccoglie la tua collezione?
Non mi definisco una collezionista nel senso canonico del termine ma un’appassionata di musica e, come tutti i DJ che hanno iniziato negli anni Ottanta, ho negli scaffali dischi di vari generi. La mia non è una collezione imponente, ad oggi buona parte dei dischi trance, progressive e techno degli anni Novanta e di altri generi li ho messi in vendita su Discogs tramite il canale del mio compagno, più bravo di me a gestire queste cose. Ovviamente quelli a cui tengo di più sono ancora qui, ma è stato necessario fare spazio in casa dopo una serie di traslochi avvenuti negli ultimi anni, soprattutto da quando sono tornata a vivere a Firenze. Oltre alla mia raccolta infatti, ci sono pure i dischi del mio compagno, Marco Celeri di Roots Underground Records, anche lui DJ. Al momento avrò circa 4000 dischi. Nell’ultimo biennio ho rallentato un po’ con l’acquisto di nuovi prodotti dovendo scegliere su cosa investire. Essendo sempre più impegnata nella produzione discografica con la mia etichetta con cui sto cercando di sviluppare un catalogo di spessore con stampe anche piuttosto costose, i miei sforzi economici sono rivolti tutti in quella direzione. Il supporto alla musica indipendente rimane comunque costante, la piattaforma a cui faccio riferimento è Bandcamp dove acquisto le versioni digitali di tutto ciò che ritengo interessante. Quando posso, ovviamente, compro anche dischi in vinile. Il mio negozio di fiducia è il Music Box di Perugia a cui se ne aggiungono altri sparsi in Italia.

02 - Faraone discollezione
Un altro frammento della raccolta della Faraone sistemato in un modulo Kallax

Come è organizzata? Usi un metodo per indicizzarla?
Non c’è mai stato un criterio univoco che sono riuscita a mantenere nel tempo. All’inizio mi basavo sulla cronologia di acquisto ma poi fu necessario suddividerli per generi musicali e per etichette, soprattutto nel periodo in cui la mia attività da DJ divenne più intensa e buona parte di essi transitavano di continuo dagli scaffali ai flight case. Adesso, dopo i vari traslochi a cui facevo prima riferimento, li ho divisi a zone, distribuendoli in vari moduli Kallax da quattro e da otto e in una libreria, tutti dislocati in casa, tra corridoio, soggiorno e studio dove c’è la parte più consistente. Una sezione apposita è occupata invece dalle ristampe degli album di Sun Ra, con cofanetti ed edizioni speciali, ed è una raccolta in continuo aggiornamento. La mia collezione di musica comprende anche una discreta sezione in CD, soprattutto di genere jazz oltre che di elettronica. Tra gli altri, ho una bella selezione (su vinile e CD) della discografia della Irma Records e l’opera completa in CD de “La Grande Storia Del Jazz” edita da De Agostini coi relativi fascicoli allegati. Il compact disc è un supporto che non disdegno affatto, non sono radicale come altri seppur resti una profonda sostenitrice della musica incisa sui microsolchi del vinile. Quando devo acquistare un album che mi piace molto e c’è anche la versione in CD, non ci penso due volte a prenderlo. Possiedo anche diversi libri di musica e l’opera enciclopedica della UTET “Storia Della Musica”. Fino a poco tempo fa, accanto alla collezione di dischi e CD, c’era anche una poderosa raccolta di videocassette VHS e DVD, libri ed opere specializzate in cinema, essendo un’appassionata. Anche in questo caso, per fare spazio in casa, sono stata costretta a ridimensionarla limitandola ai pezzi più importanti.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ho sempre cercato di avere cura dei miei dischi ma non in modo maniacale. Alcuni si sono conservati meglio di altri. Le copertine plastificate le utilizzo solo per alcuni, principalmente gli album.

Hai mai subito il furto di un disco?
Ho due aneddoti a riguardo. Nell’autunno del 1990 ebbi una breve residenza al Luxuria (ex Le Stelle) di Roma, e siccome suonavo quasi tutte le sere, lasciavo il mio flight case sotto la consolle. L’errore fu non chiuderlo a chiave. Uno dei DJ della domenica pomeriggio pensò bene di dare un’occhiata alla mia valigetta e trafugò la copia di “Dance” di Earth People su Underworld Records, una bella produzione di Pal Joey che all’epoca infiammava i dancefloor. Me ne accorsi immediatamente il giorno successivo perché i dischi nella valigetta erano messi in un ordine ben preciso che verificavo ogni volta prima di iniziare la serata, non era una scaletta ma piuttosto una suddivisione in base ai generi musicali. Lo riferii alla direzione del locale e qualcuno, non ricordo esattamente chi, recuperò presto il disco mancante. Il giovane DJ che se ne era impossessato aveva pensato bene di oscurare anche il centrino con un adesivo che poi sono riuscita a rimuovere, fortunatamente senza troppi danni. Il secondo episodio avvenne durante il mese precedente nello stesso anno, il 1990, quando venni invitata al Coliseum di Mantova in occasione di una serata promozionale col produttore Albert One col quale avevo collaborato durante la stagione estiva al Country Club di Siziano, in provincia di Pavia, dove ero stata resident sotto la sua direzione artistica. Avevo acquistato dei dischi nuovi appositamente per la serata e prima di andare al locale passammo in albergo per lasciare i bagagli col mio fidanzato dell’epoca. Eravamo con la sua auto e purtroppo la serratura del bagagliaio, in cui avevo lasciato per l’appunto i miei flight case, era un po’ difettosa e non chiudeva perfettamente. Quando uscimmo dall’hotel trovammo il baule aperto: la busta dei dischi appena comprati era sparita. Per fortuna non rubarono le due valigette in metallo, probabilmente troppo pesanti ed ingombranti per la fuga.

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Alcuni LP di Sun Ra della collezione di Simona Faraone

C’è un disco a cui tieni di più?
Non uno in particolare bensì artisti di cui amo seguire tutta la loro discografia: Sun Ra, Pharoah Sanders, Herbie Hancock, Donald Byrd, George Duke, Archie Shepp, Billy Cobham, Lonnie Liston Smith, Flora Purim, i Funkadelic di George Clinton e tutte le cose uscite sulla Black Fire partendo dagli Oneness Of Juju.

Quello che ti sei pentita di aver comprato?
Sono tanti i dischi che nel tempo non mi sono più piaciuti, soprattutto quelli che furono acquistati in funzione di una determinata serata e che poi non ho più proposto. Molti li ho già venduti o regalati, ma credo sia una cosa normale che capiti a tutti i DJ, soprattutto nei primi anni di attività. Io inoltre ho lavorato in due negozi di dischi a Roma, Goody Music e Discoland: tra le mani mi passava un mucchio di musica e la tentazione di acquistare tutto o quasi era davvero troppo forte.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposta a spendere una somma importante?
Ovviamente alcune stampe originali dei primi album di Sun Ra appartenenti al variegato catalogo della El Saturn Records. In particolare un album del 1985, “Children Of The Sun”, che ritengo uno dei più rappresentativi della filosofia cosmica di Sun Ra e di cui mi piace moltissimo anche la copertina sulla quale campeggia il disegno elementare di un sole composto dal suo nome e dal titolo dell’album stesso, come era nello stile dell’etichetta, tra l’altro ancora attualissimo. In “Children Of The Sun” in realtà figurano brani precedentemente pubblicati in un altro album del 1983, “Ra To The Rescue”, alcuni con titoli diversi. Attualmente su Discogs ci sono solo quattro copie disponibili di “Ra To The Rescue” di cui una di un seller italiano che la vende a poco meno di mille euro. Pure in questo caso la cover originale fu disegnata a mano dallo stesso Sun Ra. Di “Children Of The Sun” invece esiste una versione ancora più rara dal titolo “When Spaceships Appear” edita dalla Saturn Research, con la stessa tracklist ma con copertina e disegni completamente diversi. Nel momento in cui viene pubblicata questa intervista su Discogs non c’è nessuna copia in vendita.

Quello con la copertina più bella?
Nella mia collezione ce ne sono diverse ma dovendo scegliere ne cito due. La prima è quella di “Cosmic Vortex (Justice Divine)” di Weldon Irvine (1974) disegnata da Dennis Pohl, pittore ed artista visuale statunitense che negli anni Settanta realizzò diversi artwork per dischi rock e jazz. Di “Cosmic Vortex (Justice Divine)” mi piace lo stile visionario e carico di simboli che rimandano ad un certo tipo di cosmogonia dalla quale mi sento molto attratta. La seconda invece è quella di “Bitches Brew” di Miles Davis (1970) illustrata da Mati Klarwein, pittore mistico newyorkese di origini ebraico-tedesche scomparso nel 2002 e di cui sono una grande fan. Klarwein rappresentò perfettamente le intenzioni di questo album “totale” di Davis ovvero la riconciliazione tra la musica jazz e il funk, proprie della cultura afroamericana, e il rock riferito alla cultura dei bianchi. In ogni caso si tratta di un disco rivoluzionario sia nella musica che nella copertina. Lo stesso Klarwein esprimeva nelle sue opere la necessità di abbattere le barriere tra cultura ebraica e musulmana e modificò il suo nome in Abdul Mati Klarwein.

04 - Faraone discollezione
Un’altra sezione della discollezione di Simona Faraone

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato a praticare il DJing?
Come anticipato prima, il negozio in cui iniziai a sviluppare la mia attitudine al DJing fu Goody Music, storico riferimento per i DJ romani sin dalla fine degli anni Settanta e in cui lavorai come commessa nei primi anni Novanta. Ritengo che lavorare in un negozio di dischi sia un’esperienza molto formativa e sono contenta di averla fatta. In quel periodo a Roma c’erano diversi negozi specializzati in house e techno, come MixUp, ReMix e Trax, giusto per citare i più noti. Quando mi trasferii a Firenze, nel 1994, divenni subito cliente di un altro storico negozio, Disco Mastelloni di Roberto Bianchi, scomparso alcuni anni fa (ed intervistato nel libro Decadance Extra, nda) al quale, con alcuni DJ toscani, abbiamo dedicato alcuni eventi in tributo alla sua storia. Un altro riferimento per i miei acquisti negli anni Novanta fu il negozio di Piero Zeta a Faenza (Mixopiù, di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra, nda). Piero poi mi coinvolse in un progetto legato ad alcune etichette dell’American Records di Bob One (“DJ’s United Grooves”, di cui parliamo qui, nda). I negozi di dischi sono luoghi importanti per tenere viva la cultura della musica su supporto fisico (vinile, CD). Per i DJ ritrovarsi in quei posti, in quegli anni così emblematici per la nascita di generi musicali che hanno dato luogo ad una vera svolta nel mercato della musica dance in senso ampio, era decisamente fondamentale, faceva parte dell’attività stessa dei DJ. Oggi, tramite internet, abbiamo la possibilità di accedere all’acquisto di dischi che non sempre sono reperibili sul territorio in cui si vive, e questo è un bene ma nel contempo ha generato un certo distacco dal contatto fisico con gli scaffali dei negozi. Il digging fatto sul posto, insomma, non è la stessa cosa se fatto in Rete seppur alla fine la sostanza non cambia perché se riesci a trovare un bel disco sei felice comunque. Riconosco che la mia rimanga una visione un po’ romantica.

Quali erano gli artisti che seguivi maggiormente prima dell’avvento di house e techno?
Negli anni Ottanta i miei riferimenti erano nomi come Prince And The Revolution, Morris Day, Sheila E., Wendy & Lisa, The Time e tutta la scena del cosiddetto funk di Minneapolis che fondeva elementi funk e rock col synth pop e la new wave, tornati recentemente di grande attualità. Allo stesso tempo, soprattutto nel periodo in cui lavoravo come conduttrice radiofonica, ero immersa nel raffinato r&b di Alexander O’Neal, Luther Vandross, Kashif e James Ingram. A dare una svolta importante a quella scena fu il leggendario produttore Quincy Jones col suo album “The Dude” del 1981 e coi tre album prodotti per una superstar come Michael Jackson (“Off The Wall”, il mio preferito, “Thriller” e “Bad”). Ammetto di essere stata anche una grande fan di Madonna fin dai suoi esordi. Ho quasi tutto quello che ha pubblicato fino ai primi anni Duemila, incluso lo scandaloso libro “Sex” prodotto col fotografo Steven Meisel e l’art director Fabien Baron. Oggi non la seguo più ma all’epoca, come altre teenager della mia generazione, rimasi molto colpita dalla sua personalità e dal suo coraggio. L’album che preferisco del suo repertorio è l’eponimo “Madonna” del 1983, di cui possiedo anche la ristampa del 1985 quando venne reintitolato in “The First Album”. Mi piacevano tanto anche Cindy Lauper e Sheena Easton. Nel settore più “dance” apprezzavo moltissimo l’etichetta Prelude Records che ebbe il merito di dare una svolta alla disco music nei primi anni Ottanta con un suono peculiare (Sharon Redd, The Strikers, D-Train, Gayle Adams, Unlimited Touch) anzi, alcune produzioni potrebbero essere considerate quasi proto house. Possiedo diversi dischi di questa storica label che suono tuttora.

05 - Faraone discollezione
Altri dischi della raccolta della Faraone collocati in un modulo Kallax

La nascita di generi come house, techno e gli innumerevoli derivati ha spalancato le porte di un mercato discografico redditizio che, per un quindicennio circa, ha sostenuto un intero comparto, dal mainstream alle frange più settoriali con le debite proporzioni. Con l’arrivo del nuovo millennio però i numeri si sono progressivamente ridotti, provocando una moria generalizzata di etichette indipendenti. Che fine ha fatto l’esercito di acquirenti che un tempo supportava il cosiddetto “disco mix”? Possibile che quasi tutti si siano convertiti ai formati liquidi? O forse, ad un certo punto, è mancato il ricambio generazionale di chi comprava assiduamente musica elettronica (soprattutto quella da ballo) solcata su 12″?
In Italia paghiamo lo scotto del passaggio alle tecnologie digitali che, all’inizio degli anni Duemila, ha causato la notevole riduzione della stampa dei dischi in vinile. La clientela un tempo interessata ad acquistare dischi è progressivamente diminuita. Diversi negozi non ce l’hanno fatta a sopravvivere ed hanno chiuso i battenti, altri si sono reinventati seller su Discogs lavorando soprattutto col mercato dell’usato, altri ancora battono prevalentemente il terreno delle fiere. Forse l’Italia è il Paese che ha il numero minore di negozi di dischi rispetto ad altri Paesi europei come Germania, Regno Unito o Paesi Bassi dove sono ancora attivissimi ed alcuni dei quali dettano i trend del mercato. Il problema, tuttavia, è anche generazionale. Oggi i cosiddetti millennials sono più attratti da generi musicali di rapido consumo come la trap, che a suo modo è un filone interattivo, ma ormai anche la musica è finita in mano agli influencer che riescono a condizionare le scelte degli artisti da seguire. Le nuove generazioni sono fortemente condizionate dalla macchina di propaganda della Rete. Un esempio è offerto dai Måneskin che dovrebbero rappresentare le nuove frontiere del rock e le cui virtù (con pochi meriti in realtà, rispetto ad altre band meno note di loro coetanei) vengono gonfiate ad uso e consumo del “sistema” stesso che li indica come esempi da seguire per orientare scelte anche di altro tipo e che ridisegna questa generazione secondo un canone preciso. Proprio il contrario di quello che il rock degli albori aveva fatto. In relazione al vinile, in questi ultimi anni c’è stata una riscoperta da parte delle nuove generazioni ma si tratta comunque di una minoranza. Le major hanno ripreso a stampare dischi, monopolizzando le poche pressing plant rimaste in attività e rendendo la vita sempre più difficile alle piccole etichette indipendenti che invece investono realmente energie e denaro per promuovere gli artisti e le nuove scene musicali, senza speculazioni. Non so se tutto questo potrà avere un futuro sereno nei prossimi decenni.

In un’intervista che ti feci molti anni fa, confluita nel libro Decadance Appendix, dichiarasti che, «l’unico movimento musicale italiano davvero significativo, dopo l’afro-cosmic di fine anni Settanta/inizio Ottanta, fu quello progressive toscano dei primi anni Novanta, nato con la denominazione “The Sound Of Tirreno”. Quello che veniva proposto all’Imperiale da Miki, Farfa e Roby J era un vero viaggio ipnotico-sonoro attraverso le più svariate contaminazioni musicali influenzate soprattutto dalla scena elettronica francese (Jean-Michel Jarre, gli Space di Didier Marouani, Alec R. Costandinos -sebbene egiziano di nascita-, Charlie Mike Sierra, Arpadys, Black Devil) ma anche dalla psichedelia, dall’house ruvida di Chicago nelle sfumature acid, da reminiscenze italo disco (“The Visitors” di Gino Soccio, ad esempio, era un cult) e da continui rimandi alla synth disco di Moroder. A ciò, ovviamente, si sommavano le nuove sonorità europee che, attraverso memorabili etichette, stavano allineandosi ad un sound innovativo che non era più molto legato alla techno dei primi Novanta, ma più fluido e in continua progressione. Per questo si decise di identificarlo, in Italia, come progressive». Se ti chiedessi di riassumere, in cinque dischi, l’essenza del cosiddetto “The Sound Of Tirreno”, quali menzioneresti e perché?
1) Major Ipnotic Key Institute “The Sound Of Tirreno” (Major Ipnotic Key Institute, 1993)
Major Ipnotic Key Institute era il moniker artistico con cui il DJ Miki The Dolphin lanciò l’omonima etichetta fortemente identitaria. Miki è considerato l’autentico mentore del movimento progressive che nacque storicamente al Club Imperiale di Tirrenia dove era resident insieme a Francesco Farfa e Roby J coi quali aveva costituito una triade illuminata. I titoli delle due tracce incise su questo disco sono semplicemente emblematici, “The Sound Of Tirreno” e “Renaissance In Florence”;
2) Hysteria “Love Nature” (P&P, 1994)
La P&P era una sublabel della New Music International di Pippo Landro (intervistato qui, nda) e in questo EP aveva messo insieme alcuni dei protagonisti del cosiddetto “Sound Of Tirreno”, con quattro versioni della title track curate da Miki, Francesco Farfa, Joy Kitikonti, Riccardino, Jay, Simone Pancani e Vanni. In realtà Hysteria era un progetto del DJ/producer veneto Marco Cordi e “Love Nature” era stato già pubblicato con discreto successo nel 1991 proprio su etichetta New Music International ma fu coi quattro remix prima descritti che questo brano entrò nelle hit della progressive, in particolar modo con le versioni curate da Miki, Francesco Farfa e Joy Kitikonti. Una delle “tracce climax” nei leggendari set di Farfa era la Joy & Kaya Remix ed altrettanto memorabile la “Miki” P.O.V.;
3) DJ Miki “Templares” (Interactive Test, 1993)
Produzione di Miki affiancato da Franco Falsini (intervistato qui, nda), mente vulcanica e fondatore della pionieristica etichetta fiorentina Interactive Test senza la quale non sarebbe nato il movimento progressive per come lo abbiamo conosciuto. Due le tracce, “Children Inside” e “Templares”;
4) Open Spaces “Open Spaces” (Interactive Test, 1991)
Conobbi Franco Falsini nel 1991 quando partecipò al rave romano Stop The Racism, a cui partecipò anche Adamski (intervistato qui, nda). Falsini si esibiva con un progetto live dal nome piuttosto evocativo, Open Spaces per l’appunto, che aveva fondato con suo fratello Riccardo alias Rick 8 e in cui c’era una forte componente visuale curata da Elisabetta Brizzi, sua storica compagna. All’epoca non sapevo ancora nulla sulla sua precedente storia di musicista con la formazione prog rock Sensations’ Fix di cui poi ho acquistato alcuni album. Di questo 12″ segnalo la traccia che chiudeva il lato b, “WorldBit Generation”, forse un omaggio al famoso rave che si svolse a Cafaggiolo, nel Mugello, nel 1990, il World Beat Dance in cui Franco e Riccardo furono tra i protagonisti. Considero Interactive Test una label seminale per la scena progressive toscana e Falsini un autentico mito vivente. Le prime produzioni tra cui questo disco (recentemente ristampato da La Bella Di Notte, nda) per me rappresentano l’anello di congiungimento tra il primo periodo house-techno che vissi a Roma e il movimento toscano nel quale transitai dal 1993/1994 sino al 1998;
5) Farfability “Farf – Ability” (Interactive Test, 1992)
È il disco con cui conobbi Francesco Farfa (intervistato qui, nda) e lo considero emblematico dello stile unico dei suoi DJ set visionari, quel “Farfa Sound” che poi divenne il suo marchio distintivo. La produzione fu costruita insieme al partner di studio di quegli anni, Joy Kitikonti (intervistato qui, nda) e raccoglieva due tracce, “Don’t Mess With The Kids” e “The Narrator Device”, sintesi perfetta della sua tecnica di missaggio e del suo gusto musicale. Un disco che va suonato dal primo all’ultimo solco.

Non hai mai investito molte energie sul fronte della discografia personale perché, come spiegasti qui nel 2018, alla composizione hai anteposto la ricerca musicale e la selezione di dischi. In quell’occasione rimarcasti anche una verità legata alla consacrazione della figura del “DJ protagonista” degli anni Novanta che, per completare la propria dimensione artistica e professionale, ricorreva per l’appunto alla produzione di musica a proprio nome ma molto spesso senza alcuna capacità. «Tanti DJ si legarono a filo stretto con partner di studio che poi erano i veri esecutori materiali dei loro progetti discografici» dicesti. Oggi alcuni vantano corpose discografie di cui però rammentano poco e nulla perché, a detta di chi operava realmente negli studi di registrazione, erano capaci a malapena di accendere un computer o un sintetizzatore. Questo tipo di approccio alla musica ha forse “drogato” il mercato, mettendo sullo stesso piano chi aveva diritto ad essere annoverato tra i compositori e chi invece metteva il proprio nome sulla copertina solo in virtù della popolarità acquisita in discoteca o in radio?
Credo che un mercato sano debba rimanere tale e quindi alimentarsi con le produzioni di artisti di talento ed investimenti da parte di etichette consapevoli. Ogni forma di speculazione in una direzione o nell’altra non trova il mio appoggio. Purtroppo le regole del mercato non le faccio io o le persone che la pensano come me. Alla fine comunque paga la perseveranza e i giusti meriti vengono sempre riconosciuti.

06 - Faraone discollezione
Alcune uscite della New Interplanetary Melodies

Hai convogliato poche risorse nell’attività da compositrice ma ben diverso è il discorso relativo al ruolo di produttore esecutivo dietro l’etichetta New Interplanetary Melodies, fondata nel 2016 e di cui abbiamo parlato in più di qualche occasione. All’attivo ha diversi 12″, doppi mix abbinati anche a fumetti, un paio di CD e persino una cassetta racchiusa in un sacchetto di juta contenente semi (veri!) di basilico limone, «”arma” usata per inverdire aree dove la vegetazione è stata compromessa» come recita testualmente il messaggio stampato sull’allegato. Cosa significa oggi tenere in vita un’etichetta discografica come la tua? Quali sono le ragioni che ti persuadono a proseguire il cammino? Fin dove ti spingerai in futuro?
Quando ho dato vita alla New Interplanetary Melodies, il cui catalogo è disponibile in formato fisico e digitale su Bandcamp, avevo una visione ben precisa che, a distanza di alcuni anni, sono contenta mi venga riconosciuta. Le “edizioni fonografiche dal mondo di domani”, citando ed omaggiando Sun Ra, sono tasselli di un unico percorso al quale stanno contribuendo artisti italiani straordinari dei quali vado molto orgogliosa. Come anticipavo qualche riga sopra, sto investendo tutte le mie risorse in questa direzione. Le ultime uscite del 2022 sono state “Foto” di Ennio Colaci (secondo CD dell’etichetta, dopo “Ambient Loops” di Massimo Amato pubblicato nel 2021) e la musicassetta “The Great Walk” di Gifted Culture Collective, un progetto cosmico-esoterico con influenze baleariche e jazz, frutto di registrazioni di live session di alcuni anni fa nello studio di MarcoAntonio Spaventi ad Amsterdam e da cui sono stati estratti “cinque funghetti” così come li ha definiti Christian Zingales nella recensione sul numero di luglio/agosto della rivista Blow Up. Le prossime uscite previste per il 2022 sono l’EP “Sacrificio” di Feel Fly, già brillantemente recensito da Zingales (intervistato qui, nda), l’album “Radamanto” di Strata-Gemma, progetto jazz-psichedelico-elettronico di Niccolò Bruni aka Billy Bogus della Pizzico Records, e l’EP “Spiritual Safari” di Angelo Sindaco coi featuring di Abyssy (moniker di Mayo Soulomon, artista già apparso sulla label), Marcela Dias e Stromboli. Nel 2023 pubblicherò l’album “La Molecola Del Tempo” di MarcoAntonio Spaventi ed Eric Demuro, ideale colonna sonora di uno sci-fi movie il cui soggetto è stato scritto dallo stesso Demuro con Riccardo Agostini e che si inserisce perfettamente nella mission futuristica della label. Il pezzo forte arriverà nell’autunno 2023 con l’opera di tredici tracce in doppio vinile (LP + EP 12″) del citato Mayo Soulomon/Abyssy, a cui si sommeranno due bonus track in digitale. Soulomon tornerà dunque su New Interplanetary Melodies con un disco tutto suo, dopo averne avviato il catalogo nel 2016 con l’EP “Magnetic Archive” e l’EP “Two Scorpios” del 2017. Sarà un disco incredibile che metterà insieme i suoi lavori degli ultimi anni. A seguire ci sarà il ritorno degli 291outer Space capitanati da Luca “Presence” Carini ed Ivan Cibien con una parziale rinnovata formazione di musicisti che sveleranno il prequel della saga. La space-opera “Escape From The Arkana Galaxy” uscita nel 2018 è stata la vera hit della label, ad oggi sold out e stampata in cinquecento copie. C’è grande attesa quindi per il prequel. La saga si completerà in futuro con un terzo disco, il sequel, conclusivo della storia. Posso anticipare infine che in cantiere c’è pure un ambizioso progetto con la cantante NicoNote che ha partecipato al secondo volume di “Kimera Mendax” con “Orizzonti Perfetti”. Per la pubblicazione però bisognerà attendere il 2024.

Anni fa mi raccontarono di un DJ che, blindato dal ruolo primario ricoperto per un noto locale, indicava ai colleghi che lavoravano nella stessa discoteca, prima dell’inizio di ogni serata, i pezzi da non inserire nel proprio programma perché li avrebbe messi lui. A te è mai capitato di dover sottostare ad angherie di questo genere?
Non mi è mai capitato e sinceramente lo trovo poco simpatico ma so che, soprattutto in ambito mainstream, è una pratica piuttosto frequente. Denota poca sicurezza da parte di chi esercita questo genere di ingerenze oppure arroganza e monopolizzazione di un certo tipo di musica. Tante lineup vengono concepite con questa logica, specie nei festival o nelle programmazioni di alcuni superclub: certi brani devono essere suonati solo da certi DJ e tutto questo per rimanere nell’Olimpo dei top DJ. Alcuni disc jockey vengono automaticamente esclusi per non incorrere in tale rischio. Per fortuna oggi, nelle mie rare esibizioni in consolle, non devo tenere conto di certe dinamiche ma anche in passato, quando ero in auge nel periodo d’oro degli anni Novanta, ho sempre suonato quello che volevo, a modo mio e secondo la mia sensibilità. Nel contempo però non trovo giusto l’approccio di quei DJ che cercano di imitare palesemente il gusto e lo stile di altri particolarmente bravi e famosi, scopiazzando le playlist e mimandone persino le movenze in consolle.

Qual è il disco che hai usato più spesso per recuperare un momento d’impasse della pista?
Non ho mai avuto un disco riempipista ricorrente, ho sempre amato sfidare il dancefloor proponendo brani spesso difficili. Ottenere risultati in questo modo dà più soddisfazione. In altri casi non sono stata compresa ma va bene lo stesso.

Lo scorso 6 aprile, a Francoforte sul Meno, ha aperto i battenti il MOMEM – Museum Of Modern Electronic Music. Credi che in Italia possa mai nascere un progetto analogo capace di conferire autorevolezza e dignità culturale alla musica elettronica, visto con sospetti e pregiudizi mai sfatati da tempo immemore?
Questa domanda meriterebbe un lungo approfondimento. Tutto ciò che altrove, in Europa, risulta fattibile, qui in Italia diventa, al contrario, molto complicato e i fattori sono molteplici. Il periodo storico-politico che stiamo attraversando non è dei più semplici, il futuro dipenderà da come cambieranno le cose, se cambieranno. Ci sono alcuni lodevoli tentativi promossi da festival che si avvalgono di strutture importanti, ma bisogna ricominciare dalla base. Si tratta di un fattore culturale e, nonostante ci siano stati ottimi esempi in passato, c’è ancora molto da fare e su cui lavorare.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legata spiegandone le motivazioni.

Archie Shepp - A Sea Of FacesArchie Shepp – A Sea Of Faces
Album registrato negli studi milanesi della Phonogram nel 1975, “A Sea Of Faces” fu la seconda uscita di una coraggiosa etichetta italiana, la Black Saint fondata da Giacomo Pellicciotti e specializzata in avant-garde e free jazz. Adoro questo disco per il brano “Hipnosis”, che occupa per intero tutto il lato a per ventisei interminabili minuti, e per la bellissima “Song For Mozambique / Poem: A Sea Of Faces” che invece apre il lato b.

Sun Ra And His Arkestra Featuring Pharoah Sanders Featuring Black Harold - LiveSun Ra And His Arkestra Featuring Pharoah Sanders Featuring Black Harold – Live
Un raro episodio di featuring su un disco di Sun Ra e la sua Arkestra che possiamo eccezionalmente ascoltare in un’esibizione live alla Judson Hall risalente al 1964 con colui che, in seguito, divenne un altro mostro sacro del free e spiritual jazz, Pharoah Sanders, affiancato da Black Harold. Uscita unica nella discografia della El Saturn Records che lo pubblicò originariamente nel 1976, per i fan di Sun Ra, come me, è stato un vero colpo poter trovare questo disco in ristampa nel 2017, sulla Superior Viaduct di San Francisco. Lo acquistai in un negozio di Padova, alcuni anni fa, il giorno dopo aver partecipato come DJ ad una serata dedicata proprio a Sun Ra in cui suonai diversi pezzi della sua discografia. Diciamo quindi che il disco era lì ed aspettava che lo prendessi. All’interno della copertina c’è un inserto con note critiche e storiche a cura di John Corbett.

Herbie Hancock - MwandishiHerbie Hancock – Mwandishi
Dopo Sun Ra e Pharoah Sanders, Herbie Hancock è l’artista di cui colleziono più dischi. Questo LP del 1971, in particolare, è uno dei migliori esempi di free spiritual jazz e fusion che suona ancora molto attuale e che segna una svolta nella discografia di Hancock che, in seguito, ha sperimentato molte altre formidabili contaminazioni diventando, di fatto, uno dei musicisti più eclettici della scena jazz americana. Il brano che suono più spesso è “Ostinato (Suite For Angela)” che apre il lato a. “Mwandishi” è il nome swahili che Hancock si era dato in quel periodo e la scelta fu condivisa anche dal sestetto di musicisti che lo affiancò in studio ognuno dei quali, a sua volta, adottò altri nomi nella medesima lingua. Un disco fortemente identitario che ribadisce le origini africane dell’artista nella cosiddetta swahili coast.

Devadip Carlos Santana & Turiya Alice Coltrane - IlluminationsDevadip Carlos Santana & Turiya Alice Coltrane – Illuminations
Un album del 1974 parecchio mistico nato dalla collaborazione tra l’inedita coppia formata da Carlos Santana ed Alice Coltrane accompagnati dai loro nomi in sanscrito, rispettivamente Devadip e Turiya. Acquistai “Illuminations” ad una fiera del disco alcuni anni fa. Bellissima anche la copertina, illustrata da Michael Wood.

Mtume Umoja Ensemble - Alkebu-Lan - Land Of The Blacks (Live At The East)Mtume Umoja Ensemble – Alkebu-Lan – Land Of The Blacks (Live At The East)
Un LP risalente al 1972 abbastanza raro da reperire attraverso la stampa originale sulla Strata-East. Io presi una ristampa giunta sul mercato alcuni anni fa (ma pare non ufficiale, nda). Si tratta di un impressionante album-manifesto di speech/poetry della Mtume Umoja Ensemble rivolto ad una consapevole Black Nation.

The Pyramids - King Of KingsThe Pyramids – King Of Kings
“King Of Kings” uscì originariamente nel 1974 sulla Pyramid Records ma quella che possiedo io è la ristampa risalente al 2012 sulla tedesca Disko B, peraltro ben quotata su Discogs. Idris Ackamoor, che recentemente ha pubblicato tre ottimi album sulla britannica Strut, nel 1973 costituì un eccezionale ensemble, i Pyramids, che uscirono allo scoperto con tre LP sull’omonima label, “Lalibela”, “King Of Kings” e “Birth / Speed / Merging”. Un disco di grande potenza evocativa, un capolavoro di jazz spirituale. I Pyramids erano musicisti in stato di grazia, fortemente ispirati anche dal luogo in cui registrarono l’album, non distante da un sito di tumuli funerari di nativi americani.

Sun Ra - The Heliocentric Worlds Of Sun Ra 1-2Sun Ra – The Heliocentric Worlds Of Sun Ra, Vol. 1/2
Sun Ra spinge i musicisti della Solar Arkestra oltre le regole dell’esecuzione classica, verso il caos cosmico, e questi due volumi, usciti rispettivamente nel 1965 e nel 1966, sono il passaggio ad uno stile più radicale che caratterizzerà buona parte della sua produzione successiva, più orientata alla space age. Io ho le ristampe del 2009 su ESP Disk limitate alle mille copie.

Sun Ra - LanquiditySun Ra ‎- Lanquidity
Possedevo già l’album del 1978 ma quando lo scorso anno è stato pubblicato il cofanetto comprendente quattro dischi, il booklet illustrato e le versioni alternative di Bob Blank mai uscite prima, non potevo esimermi dal prenderlo. L’album è stato completamente rimasterizzato in alta qualità e tutti i brani sono stati solcati a 45 rpm per una resa migliore. La versione estesa di “That’s How I Feel” è la mia preferita. “Lanquidity” resta uno degli album più belli e sofisticati di Sun Ra.

Pharoah Sanders - PharoahPharoah Sanders ‎- Pharoah
Trattasi di un LP molto ben quotato e ricercato di Pharoah Sanders, pubblicato dalla India Navigation nel 1977. Io però ho la ristampa non ufficiale del 2008. Un disco meraviglioso e “Love Will Find A Way” è la più bella canzone d’amore di sempre.


(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Corrado Monti

02 - Monti two
Uno sguardo d’insieme sulla collezione di dischi di Corrado Monti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Risale al 1978 ed è un 45 giri di Rino Gaetano, “Gianna”, brano portato quell’anno al Festival Di Sanremo. Il primo LP invece è stato “Uprising” del mio mito Bob Marley, mentre il primo disco mix “Sweet Little Woman” di Joe Cocker, ascoltato da una cassetta del compianto Riccardo Cioni che mi faceva venire puntualmente la pelle d’oca.

L’ultimo invece?
Uno degli svariati 12″ degli Africanism usciti su Yellow Productions nei primi anni Duemila. Era il periodo in cui iniziai a scaricare musica dal web che poi masterizzavo su CD da infilare nei Pioneer CDJ-100S.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Circa cinquemila.

Dove è collocata e come è organizzata?
Si trova nella mia casa ma ha subito almeno quattro traslochi e qualche vendita, per cui non posso certamente affermare di averla trattata benissimo. Nei primi anni Novanta inoltre, quando mi dedicai ad altri generi musicali, vendetti parte dei dischi del decennio precedente perché ipotizzai che si sarebbero trasformati solo in zavorra inutile. Per quanto riguarda l’indicizzazione, per gli anni Ottanta ho optato per l’ordine alfabetico, sia per i mix che gli LP. Tutto il materiale che va dal 1990 in poi invece è disposto per anno.

Segui particolari accorgimenti per la conservazione?
Non ho mai eseguito lavaggi o usato copertine plastificate, infatti quando mi ritrovo ad ascoltarne alcuni è un dramma, tra scricchiolii e salti della puntina. I miei dischi erano paragonabili ad “attrezzi da lavoro”, l’uso che ne facevo era intenso tra serate doppie/triple ed after hour. A volte, per ovviare a questi problemi tecnici, ci passo sopra un panno imbevuto di alcool che, evaporando, non lascia residui. Probabilmente è giunta l’ora di acquistare una delle tante macchine lavadischi disponibili sul mercato.

Ti hanno mai rubato un disco?
Fortunatamente non ho mai vissuto il furto di dischi ma è capitato di averne prestati alcuni e poi di essermene dimenticato di farmeli restituire, ma forse non erano titoli a cui tenevo particolarmente. Di certi invece, come “The House Of God” di D.H.S., ne ho due copie probabilmente perché le prime si erano irreparabilmente rigate.

03 - i dischi di Marley
Alcuni LP di Bob Marley presenti nella collezione di Monti

C’è un disco a cui tieni di più?
Indistintamente a tutti quelli di Bob Marley, perché il reggae mi scorre delle vene, ma anche agli album di gruppi come Deep Purple, The Doors, Pink Floyd e Police.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Mi piacerebbe possedere “Murder Rap Trap” dei Culture Club in formato 12″ ma anche altre tracce che ascoltavo in vecchie cassette “afro” di fine anni Settanta/inizio Ottanta di cui però non sono mai riuscito a scoprire né il titolo né tantomeno gli autori. Neanche Shazam, in tempi recenti, è stato capace di aiutarmi nell’ardua identificazione. Uno di quelli che ho ricercato ed acquistato invece è “Up All Night” di Claudja Barry, del 1982. Come accennavo prima, ho venduto alcuni dischi che consideravo ormai inutili ma a posteriori è emerso qualche rimorso, come per “Strange” di Interfront.

Quello che regaleresti volentieri?
Nessuno direi, a meno che il riascolto dovesse far riaffiorare qualcosa davvero “indigeribile”.

04 - copertina più bella
“The Bass EP”, il disco di Corrado Monti edito dalla Sushi nel 1999

Quello con la copertina più bella?
Non ho mai comprato dischi per la copertina: seppur questa rappresentasse sicuramente uno stimolo maggiore per l’occhio, alla fine ho sempre lasciato decidere l’orecchio. Le copertine dei dischi di Fausto Papetti, ad esempio, erano particolarmente attraenti perché puntualmente dominate da bellissime donne poco vestite, ma non ne ho mai acquistato nessuno. Trovo bellissimo il retro di “Kaya” di Bob Marley & The Wailers e citerei anche quella del mio “The Bass EP”, pubblicato dalla Sushi nel 1999, che scelsi personalmente da un disegno.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato la carriera da DJ, nel 1982?
Ero cliente assiduo di Magic Sound, un piccolissimo negozio a Pontedera: a differenza di un altro più grande che vendeva dischi patinati ma solo di musica commerciale, quel microscopico punto vendita, forse di appena venti m², era specializzato in prodotti più ricercati tra cui dischi mix destinati ai DJ che, ai tempi, erano decisamente meno di oggi. A volte andavo a Firenze da Disco Mastelloni (gestito dal compianto Roberto Bianchi intervistato in Decadance Extra, nda) o alla Galleria Del Disco. Spesso ordinavo dischi sentiti attraverso qualche cassetta o in programmi radiofonici del citato Cioni che fu il mio ispiratore, almeno sino al 1983/1984. Poi, a partire dal 1987/1988, con l’avvento della house music, cominciai a fare acquisti da Disco Più di Rimini facilitato dai preascolti incisi su cassetta: era bellissimo aspettare il pacco con la cassettina per ascoltare le nuove uscite! Negli anni Novanta, infine, ho fatto qualche puntatina al Black Market Records di Londra.

Che tipo di musica proponevi negli anni Ottanta, prima della nascita di house e techno?
Di alternativo, per noi DJ, c’erano la new wave e la cosiddetta afro, filoni però relegati a piccoli spazi all’interno di una serata. Talvolta erano gli stessi clienti a chiedere determinati titoli che, se non avevo in valigetta, cercavo ed eventualmente acquistavo qualora fossero stati di mio gradimento.

L’avvento di house e techno, in seguito, mutò in qualche modo il pubblico delle discoteche?
Il pubblico si divise presto in base alle proprie preferenze: da un lato chi cercava DJ capaci di proporre musica non trasmessa dalle radio, dall’altro chi invece si accontentava dei DJ “da zibaldone”, che mettevano le hit del momento senza particolari doti tecniche e tantomeno legate alla selezione. Fu allora che, a mio avviso, l’attività del disc jockey conobbe un’ulteriore evoluzione che passò dal semplice mettere a tempo due dischi ad una figura più artistica fatta di gusto musicale e sensibilità. È troppo facile farsi apprezzare dal pubblico proponendo solo successi o, al giorno d’oggi, fare i fenomeni con set assemblati in modo perfetto grazie alla tecnologia.

01 - Monti one
Un recente scatto di Corrado Monti insieme alla sua collezione

In una breve intervista pubblicata a marzo 1997 dalla rivista Tutto Discoteca dichiari di aver raggiunto la popolarità al Concorde di Pistoia, «arrivando al punto di realizzare poster e cartoline come un autentico divo». Ritieni che, sulle lunghe distanze, la figura del “DJ superstar” si sia rivelata un’arma a doppio taglio perché ha giocato a svantaggio delle peculiarità un tempo intrinseche al DJing stesso?
Alla fine è il mercato a decidere. Un DJ può diventare superstar grazie al grande apprezzamento del pubblico, perché dispone di mezzi e conoscenze giuste o se sa vendersi bene. Io ho vissuto un buon periodo culminato, così come raccontavo in quell’intervista di ormai venticinque anni fa, da poster e cartoline, e in virtù di ciò non me la sento di giudicare. Per un certo periodo sono stato considerato un DJ di massa, in grado di riempire le piazze, ma non essendo un animatore non ho avuto vita lunga in tal senso. Non potevo assolutamente competere coi DJ-animatori del genere pop, dal canto mio davo più peso alla tecnica e alla scelta musicale e quando arrivarono nuovi generi mi sentii decisamente più a mio agio. La nascita della figura del vocalist poi mi esonerò dal parlare al microfono ma nel contempo mi fece uscire dalla dimensione del “DJ star” che firmava autografi, cosa che avveniva specialmente nel periodo in cui suonavo al Babylon di Capannoli e mettevo musica a Radio Valdera, ascoltatissima in Toscana. Spesso erano addirittura le mamme a venire sui palchi delle feste in piazza chiedendo il poster per le figlie ed io mi imbarazzavo, forse più di loro. C’è un aneddoto che vorrei raccontare per rendere ancora meglio l’idea di quanto fossi diventato popolare: era il periodo pasquale in cui i preti facevano il giro delle case per le benedizioni. Il parroco venne anche da me e, finito il rito, mi disse: «ma io ti conosco!». Gli risposi che mi sembrava strano, in quanto erano già diversi anni che non frequentavo la chiesa o gli oratori, ma a quel punto mi interruppe: «no no, ti conosco perché nelle camere delle ragazzine al posto dei crocifissi è appeso il tuo poster!».

Hai lavorato in centinaia di discoteche dello Stivale, dall’Insomnia al Covo Di Nord Est, dal Dadarà all’Illiria passando per l’Underground City, La Villa, il Madame Claude, il Domina, il Kama Factory, il Titanic, il Palace e il Mithos, giusto per citarne alcune, nonché in eventi simbolo del clubbing nostrano come Exogroove e Syncopate. Cosa resta oggi di quell’universo multicolore e multisuono? Perché il nuovo millennio ha visto il progressivo decadimento delle discoteche (soprattutto quelle più grandi) nonostante la musica elettronica sia entrata praticamente in ogni ambito?
Non saprei rispondere adeguatamente, sto cercando di rientrare nel giro e la pandemia mi ha impedito, nell’ultimo biennio, di riaffacciarmi al nuovo universo dei locali italiani. Tanti colleghi sostengono che ormai tutto è cambiato ma sono del parere che quell’euforia tipica degli anni Novanta iniziò a svanire già nei primi anni Duemila, non è quindi un fenomeno regressivo iniziato recentemente.

05 - dischi memorabilia
Il “disco trapano”, “Children” di Robert Miles e “Are You Insible” di Amazone

Scegli tre dischi che riportano la tua memoria ad altrettanti locali in cui hai suonato, spiegandone le ragioni.
Il primo era stampato su etichetta nera e vinile bianco. Anche la copertina era priva di qualsiasi riferimento. Quando lo mettevo all’Insomnia di Ponsacco venivano spesso in consolle per capire cosa fosse (“We Have Arrived” di Mescalinum United, Planet Core Productions, 1991, nda). In verità non era niente di così speciale, solo un rumore con cassa techno sotto. Lo ribattezzai “disco trapano” perché il noise sviluppato era davvero simile a quello di un trapano in funzione;
Il secondo è “Are You Invisible” di Amazone, uscito su Nova Zembla nel 1994. Fu il primo pezzo che misi al Kama Kama e quasi tremavo per l’emozione;
Il terzo è “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda): forse fui tra i primi a suonarlo e lo mettevo così spesso al punto che tanti iniziarono a pensare che lo avessi fatto io. Una volta un tizio mi offrì da bere al bar (forse al Madame Claude in Piazza San Babila, a Milano) perché convinto che quel pezzo fosse il mio! Per non deluderlo non gli rivelai la verità ma era talmente su di giri che forse non se lo sarebbe neanche ricordato.

Hai dato avvio alla tua carriera da produttore discografico nel 1992 con “God” di Cody J., sulla Luxus Records, che prima rimaneggiava “The House Of God” di D.H.S. sul minimalismo di una Casio VL-Tone VL-1 (“God”), poi scombinava l’hoover sound di “Dominator” degli Human Resource (“Loose Controll”) ed infine, imprevedibilmente, virava verso paradisiache soluzioni house venate di jazz in “All Right”. Cosa ricordi di questo disco?
Essendo trascorsi ormai trent’anni le memorie sono davvero vaghe. Rammento di essere andato nello studio livornese di Diego Persi Paoli e Luigi Agostini in cui c’erano un campionatore, una tastiera, un computer e un masterizzatore CD della Marantz, forse la “macchina” più all’avanguardia tra tutte. In buona sostanza il disco era frutto di un puzzle di campionamenti da collegare e mischiare, sia per “God” che “Loose Controll”. Persi Paoli era un musicista e quindi, di comune accordo, decidemmo di fare un pezzo suonato dal vivo senza uso del campionatore allo scopo di dare un po’ di “anima” al tutto con un tocco umano, e così nacque “All Right”. Tutte le tracce comunque furono realizzate a mo’ di prove, non pensavo che qualche etichetta le avrebbe potute stampate sul serio. Fu una sorpresa decisamente inaspettata e la presi per tale, difatti con una copia realizzai un orologio da parete.

06 - le produzioni discografiche
Corrado Monti e le sue produzioni discografiche uscite negli anni Novanta

Nel corso degli anni Novanta intensifichi l’attività da produttore incidendo per etichette come Acid Milano, S.O.B., Tuscania Movement, Sushi (una delle label dell’American Records di cui parliamo qui) e Tabloid Trance, oltre a remixare “Everybody” di Ensaime per la Signal del gruppo Media Records. Consideri l’attività discografica un’appendice di quella da DJ? Sono due ruoli che possono viaggiare in parallelo oppure bisognerebbe fare un distinguo netto, perché saper far ballare il pubblico non equivale ad essere un asso in studio e viceversa?
Sono sincero: io e la tecnologia abitiamo da sempre su mondi differenti. I pezzi del mio repertorio nacquero da mie idee ma vennero sviluppati, di volta in volta, da chi sapeva usare le macchine in studio (come spiegato in questo ampio approfondimento, nda). Ritengo comunque che il DJing e l’attività discografica possano procedere di pari passo, non a caso ci sono personaggi diventati DJ solo perché hanno inciso produzioni importanti e, al contrario, ottimi DJ che invece hanno inciso pochissimo o proprio nulla. Adesso, per chi è sconosciuto e non ha alle spalle un background solido o un locale-vetrina, forse quello di buttarsi a capofitto nel mondo delle produzioni è l’unico modo per tentare di emergere dall’anonimato.

Quanto contava, ai tempi, affiancare al DJing l’attività in studio di registrazione? Essere ingaggiato da etichette discografiche di successo poteva fungere da volano per la propria carriera?
Certamente. Incidere un disco che superasse un certo numero di copie vendute dava senza ombra di dubbio uno slancio alla carriera e spesso riusciva persino ad aprire le porte dell’estero.

The Moab
Il disco di The Moab edito da Looking Forward nel ’93

Nel 1993, per la Looking Forward del gruppo LED Records guidato da Luigi Stanga intervistato qui, realizzi “Overtribe” di The Moab in coppia con Joy Kitikonti. Secondo i crediti, il concept fu di Marco Mottoi, a firmarlo per la SIAE invece fu Francesco Farfa. Fu quindi un lavoro di gruppo?
Il “conceived” riportato sul centrino fu oggetto di un qui pro quo: il disco avrebbe dovuto raccogliere anche una traccia tribale di un mio carissimo amico sardo, Marco Mottoi per l’appunto, ma alla fine quel pezzo fu escluso dalla stampa. Poiché le grafiche erano state già approntate, fu deciso di lasciarle così. Farfa (intervistato qui, nda) invece firmò i pezzi in SIAE perché, banalmente, né io né tantomeno Joy e Marco eravamo iscritti.

L’anno seguente, sempre con Kitikonti intervistato qui, remixi “I’m In Heaven” di Candice destinato ancora alla Looking Forward. Ci sono brani sui quali ti sarebbe piaciuto mettere le mani o produrre in quel periodo?
Non ho dubbi, in quei memorabili anni mi sarebbe piaciuto essere l’artefice di “Children” di Robert Miles, un successo planetario.

Hai mai remixato o composto musica con l’unico fine di proporla nelle tue serate senza pubblicarla in modo ufficiale?
Sì, seppur abbia iniziato piuttosto in ritardo rispetto ad altri colleghi, intorno ai primi anni Duemila quando andai a vivere in Sardegna e l’amico Marco Mottoi installò Reason sul mio PC. Con quel software realizzai qualche demo che poi suonai durante le serate.

L’ultimo tassello della tua carriera discografica risale al 2002, anno in cui la Presslab Records di Omar Neri pubblica “She Loves Sunshine” di Moody Mas. Hai accantonato l’attività in studio per qualche particolare ragione?
Fondamentalmente mollai perché mi trasferii in Sardegna, intenzionato a rimanerci per il resto della vita. Poi le vicissitudini mi hanno riportato in Toscana ma ormai avevo perso i contatti con amici e studi di registrazione. In seguito la morte di mia mamma e la nascita di mio figlio mi allontanarono del tutto dal mondo delle produzioni, volevo dedicarmi solo alla famiglia. Colgo però l’occasione per annunciare un possibile ritorno discografico in un futuro non lontano.

Escludendo il profilo tecnico soggetto ad ovvi upgrade, quanto e come è cambiato il DJing negli ultimi due decenni? Te la senti di fare previsioni sul prossimo futuro?
Io vengo dalla generazione che ha visto nascere i giradischi con la regolazione dei giri, quando iniziai avevo due Lenco con la rotella. Poi, per due decenni, non cambiò quasi nulla, sino all’avvento dei CDJ, seguiti dal “finto vinile” collegato al PC e dagli MP3. È stato tutto talmente veloce che non sono stato in grado di stare al passo coi tempi e sono rimasto al primo scalino, quello dei CDJ. Non nego che andare a suonare con una chiavetta USB sia decisamente meno faticoso e più pratico rispetto agli ingombranti e pesanti flight case ma in questo quadro manca tutta la poesia e il fascino che avevano i dischi, insieme alla memoria fotografica legata alla copertina o all’etichetta centrale. Adesso si fa davvero fatica a ricordarsi titoli ed autori, escono migliaia di tracce ogni settimana e fare ricerche è oggettivamente assai complicato. Futuro? Visti i tempi che viviamo spero solo ci sia la salute.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato.

The Police - Reggatta De BlancThe Police – Reggatta De Blanc
Un LP del 1979 che include vari brani di reggae bianco. Tra i miei preferiti “The Bed’s Too Big Without You”, l’arcinota “Message In A Bottle” e “Walking On The Moon” trainata da quel bassone ed atmosfere dark, un pezzo che mi faceva venire i brividi e continua a farmi impazzire ancora adesso.

Sugarhill Gang - Rapper's DelightSugarhill Gang – Rapper’s Delight
Ancora un pezzo risalente alla fine degli anni Settanta. “Rapper’s Delight” è stato il 45 giri che accese in me la passione per l’hip hop che ascolto regolarmente ancora oggi. Ai tempi del liceo facevo francese così cercai qualche amico che, studiando invece la lingua inglese, potesse scrivermi il testo. Lo imparai a memoria senza conoscerne il significato, tranne qualche parola. Quando lo mettevo in discoteca spesso mi armavo di microfono e lo rappavo dal vivo. Nonostante siano trascorsi più di quarant’anni me lo ricordo ancora.

Pink Floyd - The WallPink Floyd – The Wall
Conoscevo già i dischi precedenti della band ma questo è irresistibile. Quando capita di ascoltarlo mi viene la pelle d’oca e certamente non a caso ne possiedo due copie. Rimasi affascinato dal fatto che tutti i brani della tracklist fossero legati tra loro con varie storie all’interno, come un’unica traccia. All’epoca vidi anche il film (“The Wall”, diretto nel 1982 da Alan Parker, nda) ed infatti appena arrivò eMule, una ventina di anni fa circa, uno dei primi file che scaricai fu proprio quello. Possiedo anche il 7″ di “Another Brick In The Wall” che suonavo in discoteca negli anni Ottanta perché in quella versione partiva con la cassa, soprattutto a fine serata nel cosiddetto “momento revival”, e con quello non rischiavo mai di deludere il pubblico. Mi piace tutto di quel disco, il basso, la chitarra, il cantato, i cori… e poi inevitabilmente nella mia memoria riappaiono le scene del film.

Tangerine Dream - ExitTangerine Dream – Exit
Grazie ai Tangerine Dream, nei primi anni Ottanta, partì il mio amore per la musica elettronica, spronato tanto da melodie ed armonie quanto dai suoni spaziali. “Exit” fu il primo LP che comprai della band fondata da Edgar Froese, Conrad Schnitzler e Klaus Schulze. Alcuni brani racchiusi all’interno, come “Choronzon” e l’omonimo “Exit”, li mettevo quando suonavo il sabato pomeriggio al Paco ma sul finire della serata, per i pochi afecionados ed amanti della cosiddetta “afro”. Curiosità: ad aprire il disco era la traccia intitolata “Kiew Mission” che sembra scritta oggi. La citazione dei vari continenti nasceva per scongiurare la minaccia nucleare che si temeva durante la Guerra Fredda. Gli stessi timori continuiamo a provarli ancora adesso, purtroppo.

Yellowman - Nobody Move Nobody Get HurtYellowman – Nobody Move Nobody Get Hurt
Un LP che mi fece scoprire ed appassionare al raggamuffin e che ho cercato a lungo dopo aver ascoltato alcune tracce di esso in una cassetta afro, probabilmente di TBC. In seguito ho ampliato la conoscenza ed ho acquistato altri album del giamaicano Winston Foster alias Yellowman che si prestavano perfettamente al DJing perché essendo incisi a 33 giri potevano essere suonati a 45. Aumentandone la velocità, i pezzi risultavano più accattivanti e funzionavano meglio in pista.

The Cure - Standing On A BeachThe Cure – Standing On A Beach
Uscita nel 1986, questa è una raccolta dei singoli più venduti durante la prima decade della carriera dei Cure. Menzione particolare per “A Forest”, uno dei miei brani preferiti da sempre, che peraltro mi ha ispirato nella produzione di una traccia contenuta nel mio “Triaxis” su Acid Milano ossia la Nocturnal Vibe In After Version. I Cure rientravano nella rosa di quelle band rock, new wave e punk, come Cult, Siouxsie & The Banshees, Smiths, U2 o Clash, a cui ricorrevo a fine serata per far pogare il pubblico, specialmente quello composto dai più scalmanati. La pista si apriva, la gente si metteva in cerchio ed apparivano i dark seguiti dai punk, ed era il finimondo.

Bruce & Bongo - GeilBruce & Bongo ‎- Geil
Un mix che comprai quasi per scommessa dopo uno scherzoso battibecco nato nel sopraccitato Magic Sound di Pontedera con un altro DJ e i titolari dello stesso negozio che ne dicevano peste e corna. Non che a me piacesse così tanto ma ero convinto che avrebbe funzionato alla grande. Alla fine la pista mi ha dato ragione e la stessa cosa avvenne anche per un singolo di Spagna, forse “Easy Lady”. Nessuno dei due ha conquistato il mio gusto personale ma non nego che servivano entrambi per riempire la pista.

Frankie Knuckles - Your LoveFrankie Knuckles – Your Love
Mi risulta difficile non citare Knuckles con uno dei brani che hanno fatto parte della mia carriera da DJ. “Your Love” mi piaceva perché era trasversale tra house ed elettronica, e fu il disco che usavo maggiormente per iniziare la serata dopo il preascolto. Da lì in poi partivo con l’house ma anche con la new beat e le prime cose techno che arrivavano in Europa. Mi è sempre piaciuto mescolare i vari generi, chiaramente lì dove la situazione lo permetteva, ed infatti nel corso degli anni Novanta amavo propormi sia in serate house che techno. Questo giovò non poco alle mie finanze, visto che non relegarmi esclusivamente ad un filone musicale mi diede la possibilità di moltiplicare il numero delle serate mensili.

Jaydee - Plastic DreamsJaydee – Plastic Dreams
Un altro disco che ho sfruttato davvero tanto è stato “Plastic Dreams” (di cui parliamo qui, nda). Lo amavo per le atmosfere che riusciva a creare e forse, inconsciamente, anche perché la tastiera suonata in quel modo mi ricordava il tocco di Ray Manzarek dei Doors, altra band a me particolarmente cara, col suo mitico Vox Continental.

Massive Attack - ProtectionMassive Attack ‎- Protection
Intorno alla metà degli anni Novanta si affacciò un nuovo genere musicale che mi investì come un tir in discesa senza freni, il trip hop. Rimasi ammaliato dai Portishead e da Tricky ma a stregarmi letteralmente furono i Massive Attack, prima con “Protection” e poi con “Mezzanine”. Quando abitavo a Milano andai ad un loro concerto che è rimasto indelebilmente impresso nella mia memoria. Da allora mi hanno accompagnato nei pre e nei post serate, la loro musica mi svuotava la mente e mi rilassava le orecchie. Da “Protection” e “Mezzanine”, tra l’altro, ho preso alcuni spunti che ho inserito in un paio di tracce del mio “The Bass EP”: campionai “Weather Storm” e “Dissolved Girl” rispettivamente per “Mental Bass” e “Massive Bass”.

(Giosuè Impellizzeri)

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BXR, una squadra di DJ alla conquista del mondo

Negli anni Novanta la musica destinata alle discoteche, composta da DJ e team di musicisti ed arrangiatori, è in prevalenza marchiata con pseudonimi. Ciò avviene per moda, per questioni legate ad esclusive discografiche ma anche per differenziare le inclinazioni stilistiche del proprio repertorio. «L’effetto fondamentale è il distanziamento, una rottura col tradizionale impulso pop di associare la musica ad un essere umano in carne ed ossa» scrive Simon Reynolds in “Futuromania”. «L’anonimato ha l’effetto di scardinare i meccanismi della fedeltà al gruppo o al marchio, l’abitudine di seguire la carriera degli artisti tipica del pubblico rock». In egual modo le etichette indipendenti diffondono i propri prodotti attraverso un fiume di sublabel, marchi creati ad hoc per diversificare l’offerta e nel contempo evitare l’inflazione vista l’alta prolificità. La bresciana Media Records di Gianfranco Bortolotti, attiva sin dalla fine del 1987, è tra quelle che nel corso del tempo collezionano più sottoetichette. Ad inizio decennio già vanta la Baia Degli Angeli, la GFB, l’Inside, la Pirate Records, la Signal (contraddistinta da una singolare numerazione del catalogo), l’Underground, la Heartbeat (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) e la Whole Records. A queste, nel 1992, se ne aggiunge un’altra, la BXR, il cui nome deriverebbe dall’antica denominazione della città di Brescia, Brixia, opportunamente modificata in una sorta di sigla a fare il paio con la citata GFB, acronimo di GianFranco Bortolotti. A sottolineare la connessione con le fasi storiche del comune lombardo è pure il logo, la testa di una leonessa, citando Giosuè Carducci che ne “Le Odi Barbare” parla di Brescia come “leonessa d’Italia”. Il payoff invece è il medesimo dell’etichetta-madre, “The Sound Of The Future”.

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Sopra il disco di debutto della BXR (1992), sotto il primo logo dell’etichetta

1992-1994, un avvio nell’ombra
Il primo brano pubblicato su etichetta BXR, nel 1992, è “Space (The Final Frontier)” di DJ Spy. Ispirato al suono nordeuropeo che scavalca la palizzata dei rave e fa ingresso nelle classifiche di vendita (il 1991 ha visto consacrare dal grande pubblico tracce come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Activ 8 (Come With Me)” degli Altern8, “Dominator” degli Human Resource, “Inssomniak” di DJPC, “Mentasm” di Second Phase, “Ambulance” di Robert Armani, “Adrenalin” degli N-Joi, “Who Is Elvis?” dei Phenomania – di cui parliamo qui, “Charly” ed “Everybody In The Place” dei Prodigy, “Pullover” di Speedy J ed “Anasthasia” dei T99, quasi tutte provenienti dall’area anglo-germanica-olandese), il pezzo è un veloce riassunto del modello edificato su amen break e stab. Prodotto da Max Persona e Pagany, che insieme ad Antonio Puntillo e Roby Arduini formano il team veronese ai tempi al lavoro in pianta stabile presso la struttura di Bortolotti, quello del fittizio DJ Spy è un veloce, ingenuo e non troppo ragionato assemblaggio di frammenti tratti da altri brani più fortunati del catalogo Media Records di quel periodo, come “What I Gotta Do” di Antico, “The Music Is Movin'” di Fargetta (di cui parliamo qui nel dettaglio), “Take Me Away” di Cappella, “Mig 29” di Mig 29, “We Gonna Get…” di R.A.F. e “2√231” di Anticappella, giusto per citarne alcuni dietro cui, peraltro, armeggiano gli stessi autori. Il sample vocale principale è tratto dal monologo di Star Trek e ciò spiega la ragione del titolo. L’assenza di un’idea compiuta e definita rende però “Space (The Final Frontier)” solo una delle centinaia di cloni generati dal filone rave, che attrae pletore di produttori sparsi in tutto il continente ambiziosi di replicare i risultati economici delle hit ma talvolta senza particolari slanci creativi.

Calamitate dagli elementi caratteristici che segnano il boom commerciale della (euro)techno tra 1991 e 1992 sarebbero state pure Marina Motta e Donatella Valgonio, le due ragazze che avrebbero operato dietro le quinte di Davida. La loro “I Know More”, secondo disco edito da BXR, rappresenta perfettamente la declinazione italiana della techno nordeuropea, ottenuta con la fusione di pochi elementi presi a modello e semplificati il più possibile per essere “digeriti” da un vasto pubblico. In realtà la Valgonio, conduttrice e speaker radiofonica contattata per l’occasione, rivela di non aver mai partecipato al progetto Davida. «Conobbi Gianfranco Bortolotti quando iniziò a muovere i primi passi nel mondo della musica» spiega, «e in quel periodo era Mario Albanese, all’epoca mio marito, ad occuparsi dei contatti con musicisti e discografici. Io, semplicemente, cantavo, così come feci prima con “Baby, Don’t You Break (My Heart)” di Argentina, l’unico pubblicato dalla Media Records nel 1986 (quando si chiama ancora Media Record, nda) e poi con “Summer Time”, sempre di Argentina ma finito sulla Memory Records a mia insaputa, ai tempi mi dissero che sarebbe stato ricantato da un’altra cantante. Non ho più avuto la possibilità e la fortuna di collaborare con la Media Records che nel frattempo divenne un colosso della discografia. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita artistica se avessi collaborato con Bortolotti. Tengo a precisare comunque che Mario Albanese non ha alcuna colpa perché la prima a non crederci fino in fondo ero proprio io che continuavo a sentirmi come un pesce fuor d’acqua nonostante i suoi ripetuti incoraggiamenti». È plausibile dunque ipotizzare che i nomi della Valgonio e della Motta siano stati usati a mo’ di pseudonimi, così come avviene per “I’m The Creator” di DJ Creator finito nel catalogo di un’altra etichetta della Media Records, la Pirate Records. I risultati di vendita non esaltanti delle prime due uscite, uniti alla progressiva attenuazione della popolarità della rave techno palesatasi nel corso del ’92, probabilmente convince Bortolotti a non insistere su quella formula. Il terzo 12″ su BXR, difatti, guarda nella direzione della garage house, quella che arriva da Londra e da New York. Enrico Serra, Gianluca Brachini e Gianluigi Gallina realizzano, presso l’H.O.G.I.C.A. Studio, “Here With Me” di Miss Mary, pezzo da cui emerge il calore del funk e dell’r&b e che riporta in vita certe atmosfere tipiche della prima house pianistica nostrana con cui qualche anno prima proprio la Media Records si impone all’attenzione internazionale. Nonostante i buoni spunti, Miss Mary non lascia il segno e si rivela incapace di far decollare il marchio BXR temporaneamente messo in stand by. Riappare nel 1994 con “Day By Day” di Laura Becker, che Alex Pagnucco e Davide Ageno realizzano mescolando i classici elementi dell’eurodance ottenendo una sorta di ibrido tra Le Click, Intermission e Corona ma con meno appeal per l’assenza di un efficace ritornello. La prevedibilità e la scontatezza dei suoni e della stesura fanno il resto lasciando il progetto nel quasi totale anonimato, quello stesso anonimato che una manciata di decenni più avanti lo trasforma in un cimelio per i collezionisti disposti a spendere cifre consistenti per entrare in possesso delle pochissime copie in circolazione. È l’ultimo tentativo di riscatto per la BXR, un’iniziativa che, a dirla tutta, in questa prima fase non conta su particolari energie e risorse. Basti pensare all’esigua quantità delle pubblicazioni (appena quattro in un biennio circa, decisamente un’inezia per i tempi) ma anche alla quasi inesistente promozione. Se a ciò si somma la scarsa identità, dovuta ad un mancato focus stilistico, è facile comprendere le ragioni per cui il tutto appaia soltanto un progetto embrionale dal basso potenziale, un’idea non sviluppata a dovere, col fiato corto ed incapace di farsi largo in mezzo ad una giungla di realtà discografiche indipendenti. Ma è solo questione di tempo, la BXR si riprenderà tutto e con gli interessi.

La rinascita sotto una nuova stella
Il 1995 imprime bruschi cambiamenti al mainstream dance italiano a partire dalla velocità di crociera che, complice l’influenza mutuata dalla scena tedesca, aumenta sino a toccare soglie inimmaginabili sino a poco tempo prima. Il fenomeno, iniziato negli ultimi mesi del ’94, si consolida e trascina gran parte dei principali esponenti dell’ambiente danzereccio nostrano, dai Bliss Team a Molella, dai Mato Grosso ai Club House, da Ramirez a Z100 passando per Cerla & Moratto, Double You, Da Blitz, JT Company e Digital Boy che è tra i primi a dare il la a questa adrenalinizzazione ritmica arrivata a sfondare la soglia dei 160 bpm. Nella seconda metà dell’anno, insieme alla velocizzazione e all’avvicinamento a filoni come makina ed happy hardcore, si registra un secondo sostanziale mutamento rappresentato dalla popolarizzazione di formule sino a quel momento adottate in prevalenza nelle discoteche specializzate. La cosiddetta progressive fa breccia in un numero sempre più consistente di ascoltatori sino a prevalere sulla eurodance tradizionale costruita su strofa, ponte e ritornello. La spallata decisiva giunge grazie a Robert Miles che con la Dream Version della sua “Children” (di cui parliamo qui) di fatto inaugura una stagione inedita che vede la supremazia quasi assoluta di brani strumentali. È una sorta di nuovo 1991-1992 insomma, ma questa volta non è una tendenza importata dall’estero bensì germogliata e svezzata entro i nostri confini.

secondo logo BXR
Il secondo logo con cui la BXR torna sul mercato nel 1996

Tale nuova fase risulterà decisiva per la BXR che rinasce proprio sotto la stella della progressive, forma ammorbidita della techno/trance d’impostazione mitteleuropea segnata da evidenti presenze melodiche che attingono dall’ambient, dalle colonne sonore cinematografiche, dal funky, dall’afro e dalla new beat. Così l’etichetta riappare dopo circa due anni di silenzio con più vigore e consapevolezza, accompagnata da una nuova numerazione col prefisso 10 e soprattutto un nuovo logotipo meno anonimo del primo, forgiato su caratteri di bladerunneriana memoria (la B è simile ad un 3 ed infatti inizialmente c’è chi crede che il nome sia 3XR) ed immerso in una dimensione spaziale che rispecchia la vocazione più internazionale, in contrasto con quella di partenza fin troppo legata alla realtà autoctona bresciana. Al nome viene altresì aggiunto un suffisso, Noise Maker, usato a mo’ di payoff, derivato da quello dell’etichetta sulla quale tra 1994 e 1995 Gigi D’Agostino, artista che tiene a battesimo la BXR, pubblica alcuni brani determinanti per la nascita della (mediterranean) progressive, la Noise Maker per l’appunto, gestita dalla Discomagic di Severo Lombardoni.

Homepage del primo sito Media (1996)
L’homepage del primo sito della Media Records (1996)

La nuova immagine della BXR proiettata nel futuro coincide anche col lancio del primo sito internet della Media Records che, tra le altre cose, permette di fare un tour virtuale nella sede a Roncadelle, accedere al cyber shop in cui acquistare il merchandising nonché immergersi nel suono di un juke-box virtuale, una specie di Spotify ante litteram fruibile attraverso il lettore multimediale RealPlayer. A guidare artisticamente la BXR è Mauro Picotto che, come racconta nel suo libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” (recensito qui), voleva radunare dei disc jockey che suonavano nei club, «veri, non quelli usati come immagine dalle grandi case discografiche». Ed aggiunge: «Parlai a Bortolotti del mio progetto e l’idea gli piacque subito visto che aveva già tentato una sortita simile con la Heartbeat. Il primo DJ che contattai ed invitai ad unirsi fu Gigi D’Agostino, uno degli ideatori del party torinese Le Voyage. Ricordo ancora il suo arrivo all’Hotel Continental di Roncadelle (ubicato nello stesso stabile della Media Records, nda) con una vecchia Chrysler Voyager da sette posti, era già un personaggio. […] Gigi però uscì quasi subito dal progetto, evidentemente soffriva qualcosa o qualcuno del mondo BXR, non mi è mai stato chiaro. Comunque gli offrimmo l’opportunità di creare una sua label esclusiva, la NoiseMaker, per continuare ad esprimersi secondo la sua stessa direzione artistica».

Mediterranean progressive, una parentesi su genesi, evoluzione e dissolvimento
Come raccontato nel 2015 da Gianfranco Bortolotti in questa intervista, il termine “mediterranean progressive” fu da lui approvato su suggerimento di Mauro Picotto o di Riccardo Sada (giornalista ai tempi in forze alla Media Records) dopo aver letto una recensione di Pete Tong che parlava, per l’appunto, di mediterranean progressive in riferimento a quei dischi provenienti dall’Italia (come “Sound Of Venus” di Lello B., Subway Records, “Atmosphere” di Voice Of The Paradise, Area Records, o “Advice” di Nuke State, Metrotraxx) che finivano in un’area grigia non essendo facilmente incasellabili nella techno, nella house e tantomeno nella progressive d’oltremanica in stile Sasha e John Digweed. Un filone che da noi pulsava già da qualche anno, irradiato da etichette indipendenti localizzate prevalentemente tra Lombardia, Toscana e Piemonte, ma senza ottenere riscontri commerciali importanti ed infatti Roland Brant lamenterà, in un’intervista, di essere stato ignorato dal grande pubblico nonostante seguisse questo genere da diverso tempo.

RAF by Picotto e compilation Diva
Sopra “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto (GFB, 1995), pare il primo disco a raggiungere il mercato con la dicitura “mediterranean progressive”, usata nello specifico come titolo della versione principale; sotto le copertine di due compilation curate da Claudio Diva uscite nel 1996

Alla Media Records intercettano la tendenza che vede salire le quotazioni commerciali della progressive e pianificano strategicamente di adottare tale dicitura in occasione del (ri)lancio della BXR, nei primi giorni del 1996. Sulle riviste, allora primarie fonti di informazione, la BXR viene presentata come l’etichetta che seguirà un nuovo genere, la mediterranean progressive, catalizzando l’attenzione del grande pubblico. «Il fine era distinguerci da ciò che altri facevano nel Nord Europa» spiega Bortolotti nell’intervista sopraccitata. «Per un fatto oggettivo l’Italia era (ed è) un Paese mediterraneo, quindi da lì nacque la fusione». È bene rammentare però che la tag “mediterranean progressive” aveva già timidamente fatto capolino nel mercato discografico attraverso “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto, pubblicata su un’altra etichetta della Media Records, la GFB, nell’autunno inoltrato del 1995, seppur il successo giunga a distanza di qualche mese, quando per l’appunto esplode il fenomeno progressive in tutta Italia e nei negozi arrivano un paio di compilation intitolate proprio “Mediterranean Progressive” edite dalla Discomagic e compilate da Claudio Diva, alla guida della Subway Records considerata tra le antesignane dei filoni dream e della stessa mediterranean progressive.

Il 1996, per il mainstream nostrano, è quindi l’anno della progressive, glorificata anche sull’etere da un numero imprecisato di programmi, incluso il Molly 4 DeeJay di Molella su Radio DeeJay di cui parliamo dettagliatamente qui. Produttori e promoter puntano tutto su questo genere, investendo denaro ed ambendo a sostanziosi ritorni. La Media Records, ad esempio, riporta in vita sotto il segno della progressive Antico, uno dei marchi che aveva contraddistinto la prima ondata “italo techno” ed ormai assente dal mercato da un quadriennio, ma anche un paio di etichette ibernate come la Pirate Records e la Underground (il nuovo corso di quest’ultima comincia con “The Test” di Mauro Picotto analizzato qui), oltre a contagiare la GFB, sulla quale appaiono i brani di R.A.F. By Picotto, e la Whole Records. Prevedibilmente la progressive diventa il nuovo pop e ciò attrae come una calamita parecchie critiche di chi è convinto che si tratti solo di un’indebita appropriazione di suoni, così come avvenuto qualche tempo prima con la techno. In un’intervista di Paolo Vites pubblicata ad ottobre del 1996, Killer Faber parla di grossa speculazione: «si incidono dischi copiati spudoratamente da altri, si creano mode musicali inesistenti, si immettono sul mercato centinaia di compilation tutte uguali saturando il mercato. Bisognerebbe rischiare e lanciare pochi ma veri artisti dance». A gennaio ’97 Massimo Cominotto raccoglie altre testimonianze in un’inchiesta intitolata “Prog E Contro”, come quella di Paolo Kighine: «Ultimamente la progressive ha preso i connotati da fenomeno di massa e per questo viene additata come commerciale. Questo, secondo me, dovrebbe essere un motivo in più per stimolare i miei colleghi ad offrire un prodotto di qualità elevata […]. L’etichetta “progressive” comunque lascia molto spazio all’immaginazione, puoi scartabellare tra vecchi pezzi acid house per curvare sugli Orb o KLF e magari finire sul made in Italy, l’importante è far stare bene il proprio pubblico». Più disilluso e diretto appare invece Christian Hornbostel: «Il termine “progressive” è già sprofondato nel caos, così come era avvenuto a suo tempo per l’omologo “underground”, diventando la risposta più inflazionata alla fatidica domanda “che genere suoni?”. Migliaia di DJ affermano di proporre progressive ed alcuni di loro si fanno addirittura la guerra per dimostrare al popolo italico di esserne gli assoluti inventori. Sono passati più di quattro anni da quando il vero fenomeno progressive (tutt’altra musica!) faceva la sua comparsa nel Regno Unito ma ecco che in Italia qualcuno ha pensato che il solo utilizzo del bassline 303 bastasse a giustificare la creazione di una nuova corrente musicale chiamandola “progressive”. Nessuno pertanto all’estero capisce l’italianissimo modo di definire progressive tracce che godono di ben altre definizioni. Non parliamo poi della confusione creata dalle compilation che di progressive hanno solo il nome. Dobbiamo dunque accettare a denti stretti che il significato di progressive sia un’amorfa terminologia creata per vendere incoerenti compilation in un mercato discografico già agonizzante, per dar lustro a DJ che si vantano di suonarla (mixando Alexia con DJ Dado ed una traccia su Attack) e per far contenti alcuni proprietari di locali che nella stessa serata propongono, con innocente orgoglio, revival, underground, liscio, latinoamericano e… progressive».

Gg e Picotto 1996
Gigi D’Agostino e Mauro Picotto in due foto del 1996, quando vengono lanciati dalla Media Records come alfieri della mediterranean progressive

Ma cosa è la progressive che si impone tra 1995 e 1997 al grande pubblico nostrano? «Forse è la sorellina della techno» sostiene Mauro Picotto in un’intervista raccolta da Riccardo Sada a novembre 1996. «È sicuramente nata grazie ai DJ della Toscana sotto altri nomi come “virtual music” per colmare un vuoto perché con un certo tipo di techno eravamo arrivati all’apice e c’era voglia di ripartire da zero, svuotando i brani di tanti suonini e suonacci superflui […]. Le produzioni progressive italiane si discostano da quelle estere perché hanno molta melodia, ormai l’Italia ha il suo imprinting». È la melodia, dunque, il punto focale di questo filone, e a tal proposito DJ Panda, ancora intervistato da Sada e quell’anno nelle classifiche con “My Dimension” di cui parliamo nello specifico qui, afferma che «a noi italiani la melodia viene fuori d’istinto perché abbiamo un animo mediterraneo. L’unico rischio è che questa progressive diventi troppo pop». I timori dell’artista si rivelano fondati ed infatti la sbornia progressive (o meglio, popgressive) del 1996 renderà sterile il filone, sino ad inflazionarlo ed obbligarlo ad una costante e netta flessione nel corso del 1997.

D'Agostino Planet 1
“Fly” di D’Agostino Planet riapre il catalogo della BXR dopo circa due anni di silenzio

1996-1997, il biennio della mediterranean progressive
Corrono i primi giorni del 1996 quando la napoletana Flying Records distribuisce “Fly” i cui promo girano tra gli addetti ai lavori già da qualche settimana. Autore è Gigi D’Agostino dietro il moniker D’Agostino Planet, nome perfetto per la nuova dimensione spaziale della BXR anzi, a dirla tutta qualcuno ritiene che l’etichetta possa gravitare esclusivamente intorno alla sua musica e che il pianeta immortalato sulla logo side del disco sia proprio il suo. Tale teoria sembrerebbe trovare riscontro in questa intervista a cura di Leonardo Filomeno e pubblicata da Libero il 14 settembre 2014, in cui D’Agostino afferma: «Nell’autunno del ’95 chiesi di poter fondare un’etichetta con dei principi precisi, libertà dei suoni, dei ritmi, dei tempi. In Media Records mi dissero che avevano una label sulla quale, in passato, avevano pubblicato dei brani e che in quel momento non era in uso, la BXR. Ricordo il primissimo 1001, il 1002, il 1003 e ricordo benissimo le ragioni del blocco della pubblicazione del 1004. Il resto ho preferito rimuoverlo». Il DJ torinese di origini salernitane, noto nelle discoteche piemontesi tipo il Due di Cigliano o L’Ultimo Impero di Airasca, ha già maturato diverse esperienze discografiche, come “Creative Nature” o “Hypnotribe” di cui parliamo rispettivamente qui e qui, ma rimaste sostanzialmente confinate alla platea dei soli appassionati. Con l’arrivo in Media Records le cose cambiano e “Fly”, primo tassello della rinnovata BXR, diventa anche il trampolino di lancio dell’ormai ufficializzata mediterranean progressive. Riadattamento ballabile del tema “Il Tempo Passa” composto da Giancarlo Bigazzi per il film “Mediterraneo” diretto da Gabriele Salvatores, “Fly” plana su struggenti melodie e lunghi accordi che si tuffano tra le onde di un sequencer ipnotico e rotolante che sembra autoalimentarsi per inerzia, senza mai perdere vigore per quasi tutti i nove minuti di durata.

Seguono altri tre brani sul 1002, “Melody Voyager”, “Marimba” ed “Acidismo”, che esaltano lo stile d’agostiniano di allora, stratificato, ritmicamente minimale ed asciutto, adornato da melodie intrecciate ad armonie tra il romantico e il malinconico con frequenti cambi tonali che giocano sui contrasti e fluttuano su nuvole cangianti. In un’intervista rilasciata a Federico Grilli per il magazine Tutto Discoteca Dance a marzo 1996, D’Agostino parla della progressive come «un suono emozionale, energetico e molto convincente» ma ammette di essere conscio che si stia entrando nella fase della commercializzazione: «se prima era un genere destinato a fare tendenza, ora è rivolto alla grande massa che ne fruirà in maniera positiva, come spesso accade in fenomeni simili. Il pubblico reagisce bene e sicuramente ora la risposta è amplificata dato che il fenomeno sta cambiando, prima era ristretto ad alcune realtà locali». Pochi mesi più tardi, ad agosto, l’artista affiderà alla stessa testata un’altra affermazione che conferma la fase ascendente e il desiderio di sfondare i confini alpini: «Credo che la progressive nostrana abbia buone possibilità per imporsi nel mercato europeo e quindi cercheremo di spingerla in ogni occasione, come ho fatto lo scorso 5 luglio al Ministry Of Sound di Londra», ed aggiunge: «la mediterranean progressive è nata dalla personalizzazione da me apportata alla progressive, con suoni minimali e melodie orecchiabili, un po’ spagnole, forse latine, no ecco, proprio mediterranee».

A trainare BXR e Gigi D’Agostino è la compilation “Le Voyage ’96” che Media Records realizza insieme alla Virgin. Gran parte della tracklist è occupata dai suoi brani e remix ma non mancano le già citate “Children” e “Bakerloo Symphony”, “Goblin” della coppia Tannino-Di Carlo ed un paio di titoli d’importazione, “Hit The Bang” di Groove Park (dal catalogo Bonzai, l’etichetta di Fly intervistato qui) e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. Le 80.000 copie vendute de “Le Voyage ’96” e le 60.000 dell’album “Gigi D’Agostino”, in tandem questa volta tra BXR e RTI Music, testimoniano che l’intuizione di scommettere sulla musica strumentale sia giusta e fanno da volano per nuove produzioni dello stesso D’Agostino come “Gigi’s Violin”, dove troneggia un violino talmente ammaliante da far ricordare i Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi, ed “Elektro Message”, versione vitaminizzata di “Live Line” dei tedeschi You. Nel frattempo BXR mette a segno la prima licenza, “Electronic Pleasure” degli N-Trance, ma optando per le versioni trance (quella che si sente in radio finisce invece nel catalogo Signal).

Mauro Picotto - My House
“My House” di Mauro Picotto viene ritirato dal mercato per ragioni ignote

Mauro Picotto si prende il 1004 con la sua “My House”, naturale seguito a “Bakerloo Symphony” che viene per l’appunto remixata sul lato b in due versioni a creare una sorta di tessuto connettivo. Per ragioni mai chiarite del tutto, il disco verrà ritirato dal commercio pochi giorni dopo essere stato distribuito nei negozi. “My House” riappare, insieme ad “Halleluja”, su Pirate Records nel “Progressive Trip”, l’unico che l’artista firma MP8, accorciamento dell’anglofonizzazione M-Peak-8 usata per la poco nota “I Can’t Bear” l’anno precedente. Considerati gli alfieri del movimento mediterranean progressive dell’etichetta bresciana, Picotto e D’Agostino realizzano a quattro mani “Angels’ Symphony” da cui emergono distintamente tutti gli elementi salienti del filone, forse già all’apice del successo. Sul mercato giunge una tiratura che parrebbe frutto di un errore o di un ripensamento, contenente due versioni (Plastic Mix e Tranxacid Mix) che spariscono dal 12″ distribuito con lo stesso numero di catalogo, 1006. I buoni riscontri procurano ad entrambi alcuni ingaggi come remixer, Picotto rilegge “Mantra” dei Datura, D’Agostino invece “The Flame” dei redivivi Fine Young Cannibals, oltre a spartirsi rispettivamente “Turn It Up And Down” e “U Got 2 Know” dei Cappella, un marchio ormai quasi sulla via del tramonto. Alla Media Records poi arrivano nuovi DJ ad infoltire le fila della BXR: il toscano Mario Più, prima con l’estivo “Mas Experience”, una romanza elettronica agghindata da virtuosi sentimentalismi sintetici utilizzata per lo spot dell’Aquafan di Riccione, e poi con l’autunnale “Dedicated”, dedicato alla futura moglie Stefania alias More ed aperto da una citazione straussiana del poema sinfonico “Così Parlò Zarathustra”, il veneto Saccoman con “Pyramid Soundwave” (di cui parliamo nel dettaglio qui), una sorta di rilettura trancey del classico dei Korgis, “Everybody’s Got To Learn Sometime”, e il laziale Bismark, invitato dall’amico Gigi D’Agostino, che con “Double Pleasure” mette a punto un suono bifase lanciato su tensioni alternate che ha già sperimentato in pezzi usciti precedentemente come “Brain Sequences” o “Chrome”.

D'Agostino-RondoVeneziano
Similitudini grafiche tra le copertine dell’album “Gigi D’Agostino” e de “La Serenissima” dei Rondò Veneziano: androidi argentei che suonano strumenti a corda con città futuristiche sullo sfondo

Gigi D’Agostino torna con “New Year’s Day”, rivisitazione strumentale dell’omonimo degli U2. Sul lato b la lunga “Purezza”, quasi dieci minuti di un ribollire celestiale che i fan hanno già conosciuto grazie al citato album “Gigi D’Agostino”, quello col robot violinista e lo skyline di una città del futuro in copertina che sembra rimandare (intenzionalmente o involontariamente?) alle androidizzazioni a cui talvolta vengono sottoposti i menzionati Rondò Veneziano – si veda l’artwork de “La Serenissima”, 1981. Ma in fondo la mediterranean progressive della BXR per certi versi potrebbe essere considerata una proiezione modernista dell’ensemble diretto da Reverberi, coi suoi barocchismi e contrappunti ricamati su arie melodiche zuccherose innestate su arrangiamenti melliflui. L’eurodance delle annate 1992-1994 adesso sembra davvero lontanissima e simbolo di un’età conclusa, rimpiazzata da un suono nuovo proiettato verso il futuro che avanza. «Fatta eccezione per i Cappella, che riscuotono ancora successo in Francia, stiamo invadendo l’Europa con la progressive» afferma con decisione Gianfranco Bortolotti in un articolo di Billboard risalente al 22 giugno 1996. «Il nostro slogan è “The Sound Of The Future” e credo che il più grande vantaggio della dance indipendente sia quello di potersi trasformare rapidamente abbracciando le nuove tendenze. Dalla nostra parte abbiamo quattro dei migliori rappresentanti della scena mediterranean progressive incluso il fondatore, Gigi D’Agostino». Per l’occasione il manager bresciano si conferma come un sostenitore convinto delle nuove tecnologie ed avanza un’ipotesi profetica: «Grazie alla collaborazione con Zero City, provider milanese che offre l’accesso gratuito ad internet, stiamo entrando in un progetto che ci permetterà di avere una visione chiara sul futuro dell’industria musicale. Prima di quanto previsto, la musica verrà venduta attraverso il web, coi clienti che pagheranno uno o due dollari ogni volta che scaricheranno le nostre ultime uscite». A fine ’96 arriva un altro DJ a dare manforte alla squadra della BXR, Riccardo Cenderello, da Sarzana (La Spezia), acclamato in discoteca come l’angelo biondo. Inizialmente noto come Ricky, si trasforma in Ricky Le Roy dopo aver prestato l’immagine ad un progetto di Alex Neri, DJ Le Roy per l’appunto, destinato alla Palmares Records. “First Mission” è, dunque, la sua prima missione discografica ufficiale, uno slancio nel cielo più terso a bordo di un tappeto volante che si ritaglia, grazie all’edenica vena melodica, un posto nell’airplay radiofonico nostrano.

Il 1997 si apre attraverso “My World” di Bismark con cui il DJ romano intinge i pennelli in una mistura agrodolce per realizzare un quadro dalle tinte cromatiche giustapposte. Alla luminosità degli archi corrispondono vortici acidi, binomio che viene ulteriormente sviluppato nei due remix approntati in Belgio da Jan Vervloet, in quel momento all’apice del successo col progetto Fiocco, che la BXR pubblica su un 10″ colorato. A realizzare una versione di “My World” è anche Pablo Gargano, italiano trapiantato nel Regno Unito intervistato qui, seppur questa non finisca nel catalogo dell’etichetta bresciana. Aria di remix pure per “Dedicated” di Mario Più, analogamente solcato su un 10″ splatter blu/nero. Nel contempo il DJ toscano rilegge “I Just Can’t Get Enough” dell’elvetico DJ Energy per la GFB, campionando “Conflictation” di Cherry Moon Trax. Il successo primaverile è comunque “No Name” di Mario Più & Mauro Picotto, una sorta di summa tra “Mystic Force” dell’omonimo artista australiano e “Landslide” dei britannici Harmonix condita con una melodia ricavata da “Close To Me” dei Cure e frammenti ambientali presi dalla pellicola spielbergiana “Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo”. Le potenzialità sono tante al punto che la Media Records lo pubblica anche in formato CD singolo. Si rifanno sentire Saccoman con “Open Your Heart”, trance di facile impatto issata da una melodia triggerata, e Ricky Le Roy col cupo “Tunnel”, più cavernoso e vitreo rispetto al precedente e per questo chiuso in un contesto che riduce al minimo la possibilità di raggiungere l’airplay radiofonico.

Con “Music (An Echo Deep Inside” D’Agostino cerca nuove dimensioni stilistiche. È il primo BXR ad includere l’inserto cartaceo su cui si rinvengono titoli e crediti

Discorso a parte per “Music (An Echo Deep Inside)” di Gigi D’Agostino, brano con cui il DJ torinese inizia ad allontanarsi dalla dimensione iniziale del suo sound, in primis con l’inserimento di una parte cantata incorniciata da una serie di frasi zigzaganti di violino ed un sibilo filmico morriconiano. Nella parte centrale il lirismo vocale è accentuato ed un po’ rammenta quanto sperimentato pochi mesi prima da Marco Grasso in “Melodream” di Bakesky (sulla milanese Diamond Pears diretta da Nando Vannelli) che sovrappone non memorabili stilemi progressive all’italiana agli elementi di un’orchestra (violini, viole, violoncelli, contrabassi, oboe, fagotto ed altro ancora). Anche a livello grafico c’è qualcosa di nuovo: la label copy è occupata, su entrambi i lati, da una foto dell’artista pertanto titoli e crediti finiscono su un inserto di carta infilato all’interno della copertina. La presenza di tale inserto diventa fissa quando l’etichetta rinnova la brand identity (con “Lizard”, 1998), e nel corso del tempo sarà oggetto di variazioni nelle dimensioni. Con “Music (An Echo Deep Inside)” D’Agostino prende le misure di una nuova dimensione artistica in cui immergersi, ma prima di avventurarsi sul percorso che lo trasformerà in uno degli idoli della seconda ondata italodance, si cimenta in una serie di tracce da cui affiora sia la passione per la sampledelia, sia il desiderio di creare qualcosa ex novo, che non assomigli al suo più recente passato forse perché si è già reso conto che l’epoca della mediterranean progressive sia ormai agli sgoccioli e il mercato si è stancato di brani strumentali. La cesura, tuttavia, non è netta ed immediata, “My Dimension”, “Psicadelica” (una specie di nuova “Fly” con ridotti varchi melodici), “Living In Freedom” e “Wondering Soul” (rilettura di “No Time” dei Guya Reg, edita dalla DBX Records di Joe T. Vannelli) contengono ancora chiari retaggi dell’epoca progressive ma in “Bam”, “Tuttobene” e “Locomotive” (rivisitazione di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, già riadattata con successo dagli U.S.U.R.A. in “Open Your Mind” nel ’92) l’artista dimostra la chiara volontà di andare oltre e rimettersi in discussione, anche a rischio di scontentare parte dei fan. Nella vivace “Rumore Di Fondo” rispolvera reticoli ritmici breakbeat, in “All In One Night” trova rifugio in una specie di trance epica trainata da un basso lanciato al galoppo, in “Gin Tonic” rallenta atipicamente i bpm. Non c’è un filo conduttore, sono tracce discontinue che abbracciano un’ampia gamma di sfumature sulla base di impeti creativi nuovi ed un pizzico eccentrici, ad attestare la voglia dell’artista di sperimentare mettendo in comunicazione e in relazione passato e presente, così come avviene in “Gin Lemon”, a posteriori configuratosi come un ibrido tra i cut-up meccanici di “Bla Bla Bla” o “Cuba Libre” e la vocalità umana di “Elisir”. Il pezzo è sequenziato su un sample celebre quanto simbolico per la house music continentale, il “pump up the volume” preso da “I Know You Got Soul” di Eric B. & Rakim ed eternato dai M.A.R.R.S. in “Pump Up The Volume” per l’appunto, di cui parliamo qui. Tutto questo avviene nel “Gin Lemon EP”, un avventuroso, eterogeneo e bizzarro triplo mix disponibile anche in versione colorata (verde, giallo, rosso) diventato ambito per i collezionisti. Altrettanto ricercata l’edizione su CD decorata dall’artwork di Tiberio Faedi intervistato in Decadance Extra, per cui sono stati già sborsati 450 €. Dall’extended play vengono estratti vari brani incisi su un 12″ contenente anche il remix di “Music (An Echo Deep Inside)” a firma Mario Scalambrin, vicino al modello utilizzato per la sua Van S Hard Mix di “Baby, I’m Yours” dei 49ers di cui parliamo qui. Nel contempo anche “Gin Lemon”, l’unico a colpire nel segno e finire nelle rotazioni radiofoniche, viene riversato su un singolo sul quale, tra le varie versioni, c’è pure una R.A.F. Zone Mix di Picotto in bilico tra hard house d’oltremanica e pizzicato style teutonico.

Mario Più (1997)
Mario Più in una foto del 1997

Progetto-miscellanea è anche quello di Bismark che incide un doppio mix intitolato “Project 696”, omonimo del programma radiofonico in onda su Power Station ai tempi condotto con Luca Cucchetti così come lui stesso racconta qui. All’interno sei tracce sviluppate intorno alla trance ma con ampie divagazioni che toccano solarità (“Female Vox”, “Trance Sensation”) e stratificazioni più scure (“Synthesis”) passando per echi mediterranean progressive (“Shadow”), rimbalzi à la “Chrome” (“Space Is The Place”) ed impervie modulazioni drum n bass miste a pulsioni speed garage (“Give Yourself 2 Me”). “Project 696” avrebbe dovuto anticipare l’uscita dell’album, così come annuncia lo stesso Bismark in un’intervista rilasciata a Barbara Calzolaio a novembre 1997, ma il progetto non andrà mai in porto. Sempre in autunno la BXR tira fuori un’altra hit destinata alle radio e al circuito più commerciale, “All I Need” di Mario Più Feat. More, un brano costruito sulla falsariga dei successi dei tedeschi Sash! che conquista licenze sparse per il mondo, Regno Unito e Stati Uniti inclusi con l’interesse mostrato dalla MCA. Una delle versioni remix, la Love Mix, uscita un paio di mesi più tardi, ricalca invece i suoni di “Come Into My Life” di Gala. Parallelamente Mario Più incide la strumentale “Your Love”, con l’aiuto e il supporto di Mauro Picotto e Francesco Farfa, destinata alle discoteche e per questo siglata con l’appellativo Club aggiunto al suo nome.

1998, un anno di transizione
Il primo BXR del 1998 è “All 4 One”, un EP contenente quattro tracce di altrettanti artisti. Da un lato Mario Più e Gigi D’Agostino, rispettivamente con una versione semistrumentale di “All I Need” (un possibile edit della Massive Mix?) e con la citata “All In One Night” presa dal descritto “Gin Lemon EP”, dall’altro Mauro Picotto e Ricky Le Roy, il primo con “Jump”, rivisitazione del marziale “Mig 29” di Mig 29, un classico hooveristico del 1991 tratto dal catalogo Pirate Records realizzato da Mauro ‘Pagany’ Aventino e Francesco Scandolari, il secondo con “Bridge”, riapparso poco tempo dopo col titolo “Speed” e modellato sulla falsariga dei successi dei B.B.E., “Seven Days And One Week” e “Flash”. Ai più attenti non passa inosservato il salto di parecchi numeri di catalogo, quasi una ventina (dal 25 al 43): ai tempi la Media Records spiega che la serie compresa tra il 1026 e il 1042 è destinata ad uso interno e non per dischi commercializzati ma in seguito emergerà una ragione più plausibile legata al fallimento del distributore, la Flying Records, a cui subentra temporaneamente la milanese Self. Sembra che il disallineamento del catalogo possa essere stato causato da quel passaggio ma non è dato sapere se ai diciassette numeri mancanti furono effettivamente attribuiti dei brani rimasti in archivio. Nei primi mesi dell’anno nei negozi arriva anche il nuovo di Saccoman, “Magic Moments”, ascritto a quel tipo di trance che il DJ programma come resident al Cocoricò di Riccione. A ruota segue Ricky Le Roy con “Speed”: se la Blond Angel Mix ha il tiro della hard house britannica sul modello di “Keep On Dancing” dei Perpetual Motion, la Sara Song Mix (già in circolazione col titolo “Bridge”, come annunciato poche righe sopra) batte più sul filone franco-teutonico con svirgolate acide e pause melodiche. Due i remix: quello techno di Francesco Farfa nascosto dietro Mr. Message, pseudonimo utilizzato poco tempo prima per lanciare la Audio Esperanto, e quello di Tony H chiamato Strobo Mix, presentato in anteprima nel suo programma del sabato notte su Radio DeeJay, “From Disco To Disco”, e costruito sullo stampo di “Black Alienation” che il compianto Zenith destina alla IST Records di Lenny Dee.

Mauro Picotto - Lizard
“Lizard”, il disco della svolta internazionale per Picotto e per la stessa BXR

La BXR naviga in una sorta di limbo: ormai la mediterranean progressive è un ricordo, per alcuni persino scomodo, ed urge scovare un nuovo filone da battere per tenere alto l’interesse. La svolta è dietro l’angolo ma nessuno lo sa ancora, incluso l’autore del brano che sancirà il “next step”, Mauro Picotto. L’accoglienza riservata alla sua “Lizard”, nella primavera del 1998, è piuttosto tiepida. Le quattro versioni racchiuse sul mix sono radicalmente diverse l’una dall’altra, ma una di esse risulterà determinante per gli sviluppi futuri, la Tea Mix, contraddistinta da un particolare disegno di basso (simile a quello della Explorer Version di “Dune” di Valez, Subway Records, 1994) la cui genesi viene raccontata dall’artista nel suo libro, “Vita Da DJ – From Heart To Techno” e che noi già svelammo, attraverso l’intervista al musicista Andrea Remondini, in Decadance Appendix nel 2012. L’effetto Larsen avvenuto al Joy’s di Mondovì genera una reazione euforica del pubblico e così Picotto, con l’aiuto del citato Remondini, cerca di riprodurlo in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando, un paio di mesi più tardi, arrivano i remix. In particolare, come raccontato qui, è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale e una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary e, forse, dal riff di “Prophecy” dei WW 3 (l’assonanza è particolarmente evidente nella Marathon Mix). Corre voce che a dare la spinta decisiva al brano sia stato Junior Vasquez dopo aver convinto John Creamer, l’A&R della Empire State Records (division della nota Eightball Records), a licenziarlo negli States. A ruota seguono Judge Jules, Graham Gold e soprattutto Pete Tong che lo inserisce in Essential Mix su BBC Radio 1 e che, poco tempo dopo, ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”. Il pezzo farà il giro del mondo aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per il DJ piemontese. “Lizard” è anche il primo disco che BXR pubblica con un rebranding grafico, contraddistinto ancora dall’immagine del pianeta ma avvolto in una sorta di spirale ciclonica e che per qualche tempo viene utilizzato (in ordine randomico?) insieme al primo, in uso dal 1996. Titoli e crediti, come preannunciato nel precedente paragrafo, finiscono su un inserto cartaceo allegato.

Gigi D'Agostino - Elisir
“Elisir” di Gigi D’Agostino, un successo dell’estate 1998 che però “disarciona” la BXR dalla posizione legata a generi come progressive e trance

Con l’arrivo dell’estate escono due dischi dichiaratamente pop che seguono la strada aperta da “All I Need”, “Sexy Rhythm” di Mario Più, ispirata da “Your Love” dei canadesi Lime, ed “Elisir” di Gigi D’Agostino, interpretata in incognito da David Michael Johnson che per la Media Records ha già inciso alcuni brani tempo prima tra cui la cover di “I Say A Little Prayer”. Come emerso dai contenuti del “Gin Lemon EP” uscito negli ultimi mesi del 1997, D’Agostino è in cerca di un’evoluzione e la trova, come lui stesso afferma in un’intervista del settembre ’98, in una via di mezzo tra house e progressive, «sempre con sonorità energetiche ma senza ritmi troppo ossessivi. I tempi cambiano, le ore corrono e si è già arrivati al nuovo capitolo». A dirla tutta di progressive in “Elisir” resta poco e niente, in prima linea c’è la marcetta che prende le mosse dalla verve sampledelica di “Gin Lemon” e la parte vocale (con qualche similitudine che vola a “Closer” di Liquid) esplosa nel ritornello sorretto dal pianoforte, ma questo non è il piano imperante in stile “Children” di Robert Miles, è piuttosto un elemento coadiuvante che l’autore adopera, con la complicità del musicista Paolo Sandrini, per creare un nuovo standard della dance. La posizione da DJ attivo solo in club di settore forse inizia a stare stretta a D’Agostino, vuole una nuova collocazione nella scena ma soprattutto nel mercato discografico, e questo lo si intuisce sin dai tempi di “Music (An Echo Deep Inside)” che intende andare oltre l’inflazionata mediterranean progressive. Ora riesce a trovare la quadra con una formula alchemica inaspettata per i suoi fan più incalliti e destinata a gettare i semi della seconda ondata italodance, attesa dalle grandi platee generaliste dopo la parentesi del biennio ’96-’97. “Elisir”, licenziato in parecchi Paesi europei ma anche negli States dove la Tommy Boy lo pubblica col titolo “Your Love”, viene salutato con tripudio dalle radio ed anche dalle tv. Memorabile l’apparizione ad “Italia Unz” su Italia 1, in cui D’Agostino sceglie di starsene comodamente sdraiato su un materassino gonfiabile piuttosto che mimare imbarazzanti performance in playback, lasciando invece il compito a David Michael Johnson di occuparsi del (pare necessario) lip-sync. Quella di “Sexy Rhythm” ed “Elisir” è una doppietta, disponibile anche in formato CD, che garantisce ottimi risultati alla Media Records, specialmente in riferimento ad “Elisir”, ma che nel contempo lascia spiazzato chi pensa alla BXR come etichetta legata a soluzioni meno commerciali e più vicine alla progressive (prima) e trance (poi). Che fine hanno fatto gli intenti di sfondare la barriera del prevedibile formato canzone? C’è forse la necessità di tornare a formule più canoniche e tradizionali per mantenere viva l’attenzione del pubblico?

Una foto dell’autunno 1998 in cui si scorge l’ideogramma che Picotto si “tatua” sui capelli: da lì a breve il simbolo diventa un elemento identificativo della sua immagine

A diversificare l’offerta, tenendo un piede nella dimensione più appetibile ai club e al frangente internazionale, sono comunque Tony H con “Zoo Future” (la versione destinata alle radio, la Lion Mix, ricicla il riff di “Get The Balance Right!” dei Depeche Mode) e Bismark con “Street Festival”, pensato come colonna sonora dell’omonimo evento che si tiene a Roma domenica 21 giugno e il nome delle quattro versioni (Colosseum Mix, Fori Imperiali Mix, Piazza Venezia Mix, Circo Massimo Mix) non lascia adito a dubbi sul legame con la Città Eterna. Alla manifestazione, organizzata sul modello della berlinese Love Parade ideata quasi dieci anni prima da Dr. Motte e Danielle de Picciotto intervistata qui, partecipano decine di DJ che si alternano su consolle allestite su camion. La Media Records ha un proprio carro sul quale si esibiscono praticamente tutti gli artisti della scuderia. Quell’estate al debutto su BXR ci sono anche i fratelli Giorgio ed Andrea Prezioso ed Alessandro ‘Marvin’ Moschini con “I Wanna Rock”, un divertente cut-up pubblicato pure su CD (con la copertina curata da Tiberio Faedi) ottenuto incrociando su una trascinante base hard house le chitarre di “Should I Stay Or Should I Go?” dei Clash ed un frammento vocale di “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock. L’idea però non raccoglie consensi analogamente a “Burning Like Fire / The Pinzel” che i tre firmano Stop Talking su GFB poche settimane prima. La rivincita, come si vedrà avanti, arriva circa dodici mesi più tardi. Ad anticiparla è “Hardcat” che Giorgio Prezioso realizza con Picotto come Tom Cat ma su Underground. La tornata autunnale continua ad alternare pezzi di estrazione trance/hard trance ad altri crossover: si passa così da “Distant Planet” di Saccoman, adorato da Talla 2XLC, a “Unicorn” di Mario Più, da “Under The Sea” di Ricky Le Roy ai remix di “Zoo Future” di Tony H (tra cui quello dei tedeschi DuMonde prossimi all’affermazione mondiale), da “Honey” di Mauro Picotto, ricamato sul giro di “Two Tribes” dei Frankie Goes To Hollywood ed affiancato sul lato b dalla coriacea “Smile” con una risata beffarda, a “Cuba Libre” di Gigi D’Agostino, un’ossessiva marcetta (licenziata negli States dalla Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez ma col nome Noise Maker) sincronizzata sui vocal di “Caught, Can We Get A Witness?” dei Public Enemy, già rispolverati con successo tempo prima dai Natural Born Chillers in “Rock The Funky Beat” in chiave drum n bass. A fine anno giunge “Spectra”, il primo col centrino su fondo verde e il pianeta irriconoscibile per la gradazione cromatica, con cui Mario Più e Mauro Picotto rinnovano il sodalizio e campionano la sezione ritmica di “Spastik” di Plastikman per innestare all’interno l’essenza del nuovo “BXR sound” che marchierà l’annata seguente.

Gigi D'Agostino - Bla Bla Bla
“Bla Bla Bla”, il primo successo messo a segno dalla BXR nel 1999

1999, verso ambiziosi obiettivi con hit internazionali e un nuovo logo
Per BXR il 1999 si apre all’insegna della neo eurodance di Mario Più Feat. More con “Run Away”: il DJ toscano continua ad alternare produzioni trance/hard trance ad altre di stampo prettamente pop come questa in cui, col tocco di Paolo Sandrini come arrangiatore, cerca di riagguantare l’essenza che ha fatto la fortuna dell’eurodance/italodance nostrana tra 1993 e 1994 con ovvi update del banco suoni e con l’esclusione del rap maschile a vantaggio di un’unica voce, quella femminile. Sul 12″ e sul CD singolo figura anche una versione di estrazione filo drum n bass, la Free Style Mix, forse pensata per il territorio britannico dove alcuni esperimenti simili, tipo quello di “Before Today” degli Everything But The Girl, destano particolare interesse. Il primo centro dell’anno, seppur in circolazione da diversi mesi (a dicembre ’98, quando è ancora privo di titolo, Picotto lo recensisce sulle pagine di DiscoiD definendolo «un pezzo che ha dell’incredibile»), è rappresentato da “Bla Bla Bla” di Gigi D’Agostino: edificato su una base simile a quella di “Elisir” e di “Cuba Libre”, la traccia diventa presto un autentico tormentone grazie al fulminante e ribaltante uso di un campionamento vocale tratto da “Why Did You Do It” degli Stretch, tagliato e montato a mo’ di filastrocca nonsense («l’ho realizzato pensando a tutta quella gente che parla tanto senza dir niente» dichiarerà poco tempo dopo l’autore, che in copertina vuole una massima del filosofo Voltaire). Il lato b è occupato per intero dalla Africanismo Mix di “Voyage”, poco più di quindici minuti trasognati e vissuti all’interno di uno shaker che frulla una particolare scansione ritmica che travalica i generi, a riprova della volontà di D’Agostino di dare costantemente una spinta in avanti alla sua musica. “Bla Bla Bla”, per cui viene realizzato un video-parodia de La Linea di Osvaldo Cavandoli, entra in dozzine di compilation e conquista il vertice di un numero imprecisato di classifiche. È il primo disco che BXR affida ad un nuovo distributore, la campana Global Net, lì dove lavora Daniele ‘Dany T’ Tramontano che a tal proposito rammenta: «Un mattino arrivarono in prima battuta diecimila copie di quel BXR e la sera ne erano rimaste forse appena cinquecento».

label variation
Due variazioni grafiche utilizzate dalla BXR tra 1998 e 1999

In primavera si ripresenta Mauro Picotto con “Pulsar”, un pezzo trance dedicato alla figlia primogenita Alessia che ricalca prevedibilmente lo schema di “Lizard” con l’aggiunta di un hook vocale che fa lo spelling del nome dello stesso artista. Tante le versioni approntate, due delle quali finite su un secondo 12″ codificato come Deeper Mixes. Nella stagione dei fiori si fanno risentire anche Bismark con gli affreschi melodici di “Parapapa”, e Tony H con “Sicilia…You Got It!”, che passa dalla tempestosa hard trance con tagli lavici acid della Etna Vulcan Mix alla ridente Taormina Mix, una specie di risposta a “Bla Bla Bla” che usa il campione vocale di “Ride The Pony” dei Peplab abbinato ad una linea melodica in stile “Profondo Rosso”. Curiosità: la Stromboli Mix viene pubblicata quasi contemporaneamente su Pirate Records ma con titolo ed autore differenti, “Mutation” di Pivot. Poco tempo dopo per la medesima etichetta Tony H realizza, con Picotto, “Venezia” di Venice, scandito da un fraseggio di violini che rilancia le atmosfere mediterranee di qualche anno prima. Riappare pure Saccoman con “The Bounce”: le due versioni sulla logo side, la Jumpin’ e la Pumpin’, girano sul classico disegno trance che il DJ veneto spinge in discoteca, mentre sulla info side trovano spazio la Surfin’, con una stesura ed evoluzione progressive che ricorda un classico di quattro anni prima, “Pleasure Voyage” di X-Form al quale abbiamo dedicato qui un articolo, e la Teain’ a firma Picotto, un incrocio tra la sua “Lizard”, un frammento di “Communication” di Mario Più di cui si parla più avanti, e le percussioni di “20Hz” di Capricorn. A ridosso dell’estate BXR prende in licenza per l’Italia “The Launch” dell’olandese DJ Jean, rivisitazione di “The Horn Song” di The Don del 1998 che funziona nei Paesi del Nord Europa ma che da noi fatica a spopolare seppur finisca in diverse compilation tra cui quella dedicata all’Energy mixata da Molella, e “Dream A Dream” dei Captain Jack, act hard dance di Colonia prodotto da Eric Sneo e remixato dai DuMonde. È tempo pure di una tripletta di remix, “Unicorn” di Mario Più, “Tunnel” di Ricky Le Roy e “Lizard” di Mauro Picotto che sbarca ufficialmente oltremanica attraverso la VC Recordings del gruppo Virgin. Proprio su “Lizard” mettono le mani il britannico Tall Paul, reduce dal successo di “Let Me Show You” di Camisra, e Gigi D’Agostino che disfa e ricostruisce il puzzle riciclando un frammento ritmico della sua “Elisir”. Proprio Picotto riporta in vita, per l’ultima volta, l’alter ego R.A.F. By Picotto per “America”, ennesimo derivato di “Lizard”. Sul lato b il remix di “Tuttincoro”, pubblicato a fine ’98 sulla Pirate Records e germogliato su “Leave In Silence” dei Depeche Mode.

Prezioso e Mario Più
Altre due hit annuali della BXR, “Tell Me Why” di Prezioso Feat. Marvin e “Communication” di Mario Più

Dopo il poco fortunato “I Wanna Rock”, i fratelli Prezioso si prendono la rivincita: accompagnati dalla voce di Marvin e con la collaborazione di Paolo Sandrini, incidono “Tell Me Why”, una hit dell’estate ’99 per cui viene girato un videoclip e che finisce al Festivalbar quell’anno presentato da Fiorello ed Alessia Marcuzzi. Nel pezzo i più attenti riconoscono due principali ispirazioni, la tastiera di “Talking In Your Sleep” dei Romantics e la strofa di “Family Man” di Mike Oldfield, ma quello dei Prezioso Feat. Marvin non è un collage figlio della sampledelia più macchinosa, sullo stile dei programmi radiofonici “blobbistici” di Giorgio, ma una canzone solare e perfetta per le platee delle megadiscoteche, non solo italiane a giudicare dal numero di licenze macinate in diversi Paesi del mondo. Va particolarmente bene in Svizzera, in Danimarca ma soprattutto in Austria e in Germania, piazzato rispettivamente in seconda e decima posizione della classifica di vendita. Proprio nella terra dei crauti i tre tengono parecchie serate ed apparizioni televisive come questa su RTL. Un’altra mina lasciata deflagrare dalla BXR nell’estate ’99 è “Communication” di Mario Più: colorita dal suono dell’interferenza del telefono cellulare, parallelamente usato dai Dual Band (Paolo Kighine e Francesco Zappalà) in “GSM” sulla modenese Stik, la traccia attinge (ancora) le forze dallo schema di “Lizard”, mietendo consensi grazie ad una potente dinamica del suono e rumorose rullate che fanno impazzire gli amanti dell’hard trance. Sul lato b figura “Hertz”, cover di un brano che Mario Più suona spesso nelle sue serate, “Pleasure” dei belgi The Squeakers pubblicato nel ’98 su etichetta Hertz. Il grande successo di “Communication” viene garantito però da un remix che giunge a distanza di qualche mese, quello realizzato oltremanica da Yomanda, scelto per sincronizzare il videoclip e sviluppato sulla base della More Mix. Il brano conquista il vertice della Top 40 Club Chart UK con circa 200.000 copie vendute, e l’autore viene ribattezzato “il Fatboy Slim italiano”. In autunno è tempo di una versione di Picotto firmata come Lizard Man. Parallelamente esce “Serendipity” con cui Mario Più rispolvera la melodia di “Showroom Dummies” dei Kraftwerk ed ufficializza la paternità del progetto DJ Arabesque, partito nel ’97 su etichetta Underground. Dopo i vari featuring per Mario Più, More (ex frontwoman dei T-Move Experience inizialmente nota come Jody Moore) incide il primo singolo da solista, “4 Ever With Me”. Il pezzo si inserisce in quella rosa di dance made in Italy al femminile interpretata da cantanti come Kim Lukas, Ann Lee o Neja. A fronte di ciò, il progetto traslocherà presto sulla division pop della BXR, la W/BXR, di cui si parla più avanti.

Mauro Picotto - Iguana
“Iguana”, il follow-up di “Lizard”, è una conferma per la carriera internazionale di Mauro Picotto

Se sino al 1998 il successo dell’etichetta è stato episodico ed occasionale, dal 1999 i trionfi diventano quasi sistematici. È il momento in cui la BXR catalizza l’attenzione della stampa internazionale che ne parla come squadra composta esclusivamente da DJ attivi nelle discoteche di settore e per questo particolarmente abili nell’intercettare i gusti del pubblico. «Abbiamo messo sotto contratto i più importanti disc jockey provenienti da differenti regioni italiane offrendo loro facoltà di produrre la musica che amano proporre durante le proprie serate» spiega Picotto in un articolo di Mark Dezzani pubblicato su Billboard il 12 giugno 1999. «Ci siamo accorti che esiste un grande mercato per la musica progressive/techno seppur le emittenti radiofoniche italiane, fatta eccezione per quelle specializzate, continuino a preferire house e pop dance» prosegue Bortolotti. «Abbiamo dunque deciso di alimentare e sviluppare ulteriormente questi generi più sperimentali e sfruttare internet per promuoverli anche se i software per scaricare illegalmente dalla Rete brani in formato MP3 metteranno presto in ginocchio il mondo della musica. Piuttosto che ignorare questa nuova realtà, però, useremo la tecnologia per portare online il nostro catalogo». Due le importanti novità autunnali: la prima riguarda il cambiamento di logo, con la X rossa in evidenza che manda definitivamente in soffitta le declinazioni grafiche precedenti, la seconda l’avvio di tre serie, Claxixx, Club e Superclub, rispettivamente contraddistinte dai colori bianco, nero ed argento e nate col fine di categorizzare in modo più accurato le pubblicazioni in base ai suoni e il pubblico di riferimento. Questa gradazione cromatica abbraccia inoltre le copertine generiche, sino a questo momento stampate in cinque colorazioni (rosso, nero, blu, giallo, celeste). Il primo ad essere interessato dal nuovo ordine/raggruppamento è “Iguana” di Mauro Picotto, follow-up di “Lizard” in cui l’autore torna ad utilizzare un sample vocale (preso da un live dei Kiss in cui la band esegue “Hotter Than Hell”) che ha già inserito nella sua prima produzione destinata alla Media Records, “We Gonna Get…” del 1991, ai tempi “ritagliato” da “Adrenalin” degli N-Joi. Sono svariate le versioni approntate tanto che nel complesso “Iguana” occupa tutte le serie, la Claxixx, la Club e la Superclub. Nel pacchetto è incluso anche un remix a firma Blank & Jones con cui i tedeschi ripagano la versione che Picotto realizza per la loro “After Love” uscita quasi in contemporanea. Il successo di “Iguana” tocca tutta l’Europa, in particolare la Germania dove resta per settimane al vertice delle classifiche di vendita. Viene prevedibilmente girato un videoclip diretto da Oliver Sommer e finito in high rotation su MTV, VIVA e tutte le principali tv musicali.

BXR Superclub apertura
Uno degli advertising con cui viene annunciata l’apertura del BXR Superclub, il 9 ottobre 1999

A consolidare ulteriormente la posizione, la promozione e la comunicazione di BXR, sono due progetti collaterali: uno su Italia Network, prossima a trasformarsi in RIN, chiamato Maximal, che porta in scena i DJ dell’etichetta con selezioni musicali in cui vengono palesate le coordinate dei brani selezionati, l’altro sul fronte discoteca con l’apertura, sabato 9 ottobre presso lo Shibuya di Rezzato, del BXR Superclub, il miglior palcoscenico che i DJ della Media Records potessero avere in quel momento, seppur rimanga in attività per appena una stagione (la serata di chiusura è del 20 maggio 2000). Maximal e il BXR Superclub veicolano in modo ferreo il suono del pianeta BXR, non più quello celeste del periodo mediterranean progressive bensì uno fiammeggiante rosso fuoco ben visibile sulla copertina del primo volume della “BXR Superclub Compilation”. Entrambe si rivelano presto come due straordinarie vetrine pubblicitarie in un periodo in cui il pubblico, o perlomeno quella parte di esso rappresentata dai fan più sfegatati, si emoziona e si sente fortunata ad ascoltare in anteprima i nuovi brani dei propri beniamini della consolle. Scommettendo su nomi nuovi anche a rischio di non centrare perfettamente l’obiettivo, la BXR mette a segno altre tre licenze, “Gouryella” dei Gouryella alias Tiësto e Ferry Corsten (dal catalogo Tsunami), il remix di “Madagascar” degli Art Of Trance (dal catalogo Platipus), e “The Day” di Lunatic House Sounds (dal catalogo DiKi Records, quella di Age Of Love di cui parliamo approfonditamente qui). Spazio anche agli artisti interni come Bismark con “Reactivate”, Massimo Cominotto con “Minimalistix” (il primo inciso per la BXR dopo un biennio vissuto su Underground), e Tony H con “Tagadà / www.tonyh.com”. «Il tagadà è una giostra techno con un movimento tipo centrifuga, e questo movimento mi fa pensare ad una rullata devastante con effetto energizzante sul corpo, lo stesso che il mio disco vuole ricreare» spiega l’autore ai tempi. «A “Tagadà” si aggiunge “www.tonyh.com”, proprio come il mio nuovo sito internet» conclude. Poi tocca a “Slave To The Rhythm”, cover dell’omonimo di Grace Jones realizzata dai PPK, progetto one shot nato sull’asse italo-britannico formato da Pete Pritchard, Mauro Picotto e Ben Keen alias BK (PPK è l’acronimo dei loro cognomi). Negli ultimi giorni dell’anno arriva infine “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, trance dolcemente immersa in atmosfere orientaleggianti rimarcate dalla grafica in copertina da cui affiorano i loghi degli autori.

Gigi D'Agostino - Tanzen
La copertina di “Tanzen” che nel ’99 apre il catalogo di W/BXR

Canalizzazioni tematiche per fare ordine
Il catalogo della BXR inizia a essere troppo eterogeneo: a produzioni di stampo progressive e trance se ne aggiungono altre prettamente pop ma tale sovrapposizione di mondi musicali, oltre a risultare dispersiva, disorienta i seguaci. Al fine di convogliare tutti quei pezzi dichiaratamente mainstream quindi, nel 1999 viene creata una “filiale” apposita, la W/BXR, partita col triplo “Tanzen” di Gigi D’Agostino che al suo interno raccoglie futuri successi (“The Riddle”, la strumentale “Passion” poi diventata “La Passion”, “Another Way”), nuove marcette ipnotiche à la “Cuba Libre” (“Acid”, “Movimento”, pubblicata l’anno prima su Underground e firmata come Noise Maker, “Coca & Havana”), rimembranze tranceoidi rilette a suo modo (“One Day”), una nuova versione di “Bla Bla Bla” intitolata Dark Mix, una sorta di remix della stessa, “A. A. A.”, realizzato da Mario Più e Ricky Effe, ed anche una hit mancata, “Star”. Per un anno circa la W/BXR raduna le ramificazioni della BXR destinate alle grandi masse generaliste, da “Let Me Stay” dei Prezioso Feat. Marvin ad “Around The World” di More passando per “Ritual Tibetan” dei Kaliya e le versioni vocali di “Techno Harmony” di Mario Più e di “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, quest’ultima interpretata dalla cantante algerina Amel Whaby. Dopo diciassette uscite, il progetto viene assorbito dalla ex Noise Maker ora NoiseMaker, riavviata con l’album “L’Amour Toujours” attraverso il quale D’Agostino si consacra a livello planetario radunando attorno a sé un oceano di supporter estatici, talvolta animati da una devozione ai limiti del fanatismo.

BXR Club, Gold, Sacrifice
I dischi inaugurali di BXR Club, BXR Gold e Sacrifice

Sempre del 1999 è una sottoetichetta di BXR chiamata BXR Club, nata con lo scopo di raccogliere le produzioni dal carattere più schiettamente clubby e con nessuna probabilità di fare crossover. A tagliare il nastro inaugurale è Gabry Fasano con “Jaiss Bangin'”, presto seguito da “Metempsicosi” di Ricky Le Roy (omonimo del gruppo di DJ a cui appartiene, fondato nella primavera del 1997), “Imperiale” di Mario Più & Mauro Picotto (con una pausa sonorizzata sulla melodia di “Merry Christmas Mr. Lawrence” di Ryuichi Sakamoto, dal film “Furyo”) e “Red Moon” ancora di Ricky Le Roy, che arriva a fine ’99 e chiude la breve parentesi rimpiazzata dalla categorizzazione distinta tra Claxixx, Club e Superclub di cui si è già detto sopra. Nell’estate del 2000 nasce la BXR Gold, espediente con cui la Media Records rimette in circolazione alcuni pezzi del repertorio BXR (ma non solo, qualcosa proviene dai cataloghi GFB ed Underground), organizzati in diversi EP che fanno felici i collezionisti seppur alla fine il progetto pecchi un po’ come esercizio autocelebrativo. Pochi mesi più tardi parte invece Sacrifice, etichetta che si colloca in posizione mediana tra Underground e BXR, sia per declinazione grafica che sonora. A marchiare la maggior parte delle pubblicazioni sono le lettere dell’alfabeto ellenico usate per siglare i nomi degli autori. A suggellare il tutto una linea di merchandising e l’apertura di branch sparse per l’Europa (Regno Unito, Germania, Benelux) che rappresentano un supporto valido ed utile per penetrare più capillarmente nei territori esteri.

Mauro Picotto - Pegasus
Sopra la copertina di “Pegasus”, sotto la foto da cui viene sviluppata la grafica

2000-2001, alla conquista del mondo con la supertechno
Uscita indenne dal temuto millennium bug, la BXR inizia il nuovo anno/secolo/millennio lanciando il sito web, che include anche un frequentatissimo forum, e riprendendo il discorso lasciato in sospeso a fine ’99 con “Arabian Pleasure” con canti esotici che fanno venire subito in mente dune, palmeti e qualche oasi. Adesso a marciare verso la calura desertica a bordo di un rullo compressore che fa il verso ai disegni di basso hi NRG di Bobby Orlando è Ricky Le Roy con “Tuareg”. Pronto probabilmente dall’autunno, esce in pieno inverno “Autumn” che dà avvio al progetto Lava, nato tra Italia e Germania dalla collaborazione tra Mauro Picotto, Riccardo Ferri e Tillmann Uhrmacher, DJ tedesco e noto speaker radiofonico su Sunshine Live dove conduce il programma Maximal, che divide solo l’omonimia con quello prima descritto e trasmesso da Italia Network. Come solista, Mauro Picotto sfodera “Pegasus”: la Tea Mix contiene ancora elementi lizardiani ma appare subito chiaro che il DJ si stia stancando di riciclare il basso “wuooom wuooom” ricavato da un vecchio BassStation Novation abbinato ad infinite rullate di snare, schema peraltro imitato da un numero sempre più consistente di competitor già dal 1998 (si sentano, ad esempio, “Enjoy” di Alex Castelli o “Zi-Muk” di CAP). La Superclub Mix di “Pegasus” difatti sposta il baricentro verso costrutti più intrisi di (hard)groovismo post millsiano, arricchito da una vena italo/europea. È uno dei primi brani con cui si inizia a parlare di supertechno, un nuovo filone che BXR, quell’anno premiata dalla rivista tedesca Raveline e corteggiatissima al Midem di Cannes e al Winter Music Conference di Miami, annuncia di seguire per scrollarsi di dosso il passato e restare fedele allo storico payoff della casa madre, “the sound of the future”. In copertina finisce l’elaborazione grafica di una foto scattata nei corridoi della Media Records da cui spicca il pittogramma asiatico giallo che Picotto si “tatua” all’altezza della tempia sinistra sin dall’autunno del ’98 e che diventa una vitale caratteristica della sua immagine pubblica nonché tag identificativa sulle copertine dei dischi. 

Mario Più - Techno Harmony
“Techno Harmony” conferma l’exploit internazionale di Mario Più

Analogamente a Massimo Cominotto, anche Joy Kitikonti approda su BXR dopo aver inciso svariati brani, pure sotto pseudonimi, su altre etichette del gruppo bortolottiano (Underground, GFB, Audio Esperanto). Il debutto sulla label, privo di botto ma solo posticipato di un anno circa, avviene attraverso “Agrimonyzer” in cui il DJ toscano fa sfoggio di numerose linee tambureggianti, retaggio delle esperienze giovanili come batterista. In particolare in una delle quattro versioni, la Hacker’s Mix, campiona il suono emesso dagli ormai obsoleti modem analogici a 56k, quella specie di telefonata non vocale che permetteva di entrare in Rete, un mondo che in quel momento inizia la corsa alla popolarizzazione su larga scala. Reduce dallo strepitoso successo oltremanica ottenuto con “Communication”, Mario Più appronta un follow-up mirato ad espandere la propria fanbase oltre i confini nazionali. In primavera è quindi la volta di “Techno Harmony”, una traccia nata in seno al fermento eurotrance che diventa canzone col titolo “My Love” grazie all’apporto vocale di Maurizio Agosti meglio noto come Principe Maurice, celebre performer del Cocoricò di Riccione. Come da copione, secondo una procedura in uso sin dai primi anni Novanta, la Media Records appronta un alto numero di versioni incise su vari 12″ e sul CD singolo. Gli sforzi vengono premiati, il brano vola alto nelle classifiche internazionali e conquista numerose licenze in primis nei Paesi chiave per la discografia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Mauro Picotto - Komodo
Con “Komodo” Mauro Picotto chiude la trilogia dei rettili e tocca l’apice della popolarità

Non da meno è certamente Mauro Picotto con “Komodo”, con cui chiude la trilogia rettiliana iniziata (non intenzionalmente) nel ’98. Annunciato come “Komodo Dragon” e col featuring dei Deep Forest che sarebbe stato legittimato da un campionamento della loro “Sweet Lullaby”, il pezzo, descritto dalla stampa come una specie di medley tra trance e world music, viene poi commercializzato più semplicemente come “Komodo” e trainato da un videoclip ancora diretto da Oliver Sommer in cui Picotto veste i panni di un investigatore che indaga su una serie di morti sospette. Il testo scritto ex novo sulla melodia di “Sweet Lullaby” diventa “Save A Soul” usato come sottotitolo. Sul 7″ allegato al doppio mix che la BXR pubblica in primavera inoltrata figura “Come Together”, brano downtempo (praticamente un mix tra “Save A Soul” e “Komodo”) che riflette un lato inedito di Picotto legato alla musica lounge e chillout. È il momento in cui l’artista piemontese tocca l’apice commerciale della carriera, finendo nelle lineup di eventi dalla risonanza internazionale come MayDay, Love Parade, Time Warp, Gatecrasher, Atlantis ed Homelands, in club come il Twilo di New York, nella Top 100 DJs di DJ Mag (al 27esimo posto) e sul palco di Top Of The Pops dove non mima azioni su una consolle spenta, così come solitamente è costretto a fare chi viene dal mondo delle discoteche per sottostare agli stringati tempi televisivi. Senza ovviamente tralasciare la sfilza di remix già approntati per artisti del calibro di System F e Blank & Jones a cui ne seguono molti altri di cui si parla più avanti. In Germania è un vero trionfo dove “Komodo” vende circa 300.000 copie. Davvero tante le versioni sfornate negli studi in Via Martiri Della Libertà come quella di Megamind, nome che Picotto usa prima con ruolo di remixer e poi come artista a partire da “Listen To Me” dell’autunno ’98, e quella di Saccoman. Quest’ultimo riappare con “Metamorph”, ennesima escursione nella trance di matrice tedesca ma variata, nella Part One Mix, in qualcosa di diverso e meno prevedibile. È quella che alla Media Records chiamano supertechno, «un’ulteriore evoluzione della tech-house classica ma rivista nello stile BXR» dirà in merito Mauro Picotto qualche tempo dopo. All’esordio su BXR c’è anche Franchino, vocalist popolarissimo in Toscana in locali come Imperiale ed Insomnia. Anche per lui, come per Cominotto e Kitikonti, dopo un paio di anni di training su Underground e GFB, si aprono le porte marchiate dalla X rossa e ciò avviene con “Calor”, traccia senza troppe pretese costruita su una parte più solare, trainata da un basso in ottava, ed una più scura ma un po’ anonima.

Svariati i pezzi presi in licenza dall’estero: i remix di “Schall” – inclusi quelli di Pascal F.E.O.S. e Thomas P. Heckmann – di Elektrochemie LK alias Thomas Schumacher (nel ’98 già approdato su GFB con “When I Rock”, su segnalazione di Picotto), “Communication Part II” di Armin Van Buuren, “Oasis” di Y.O.M.C., cover dell’omonimo dei Paragliders uscito cinque anni prima e diventato uno dei dischi del repertorio BXR più quotati sul mercato collezionistico, “Something About U” di The Act, “Pussylovers” di DJ Balloon (con uno stralcio vocale preso dal film “From Dusk Till Dawn” del ’96), “Digital Dialogue” di Nick Sentience, i remix di “Don’t Laugh” di Winx tra cui uno a firma Mauro Picotto (all’opera anche su “Time To Burn” degli Storm, “See The Light” dei DuMonde e “Running” dei Tyrell Corp.), e quelli di “Science Fiction” di Taucher, un buon successo in Germania sul quale mettono le mani i Cosmic Gate e Mario Più. Proprio quest’ultimo, dopo aver ottenuto un discreto responso oltralpe con “Serendipity”, ci riprova come DJ Arabesque e fa centro grazie a “The Vision”, eurotrance a presa rapida che fa letteralmente il giro del mondo macinando decine di licenze ed affermandosi completamente nel 2001. Più contenuti i risultati di “Dolphin” di Gee Moore, il DJ del Bora Bora di Ibiza con cui il team della Media Records inizia a collaborare l’anno prima con “All Fat Boys Dancing” finito su Underground. Fedele alla linea trance è Bismark che con “Make A Dream” europeizza il suo suono e fa breccia nella Kontor Records che lo ripubblica in Germania col remix di Azzido Da Bass. Dopo diversi mesi di programmazione su Italia Network, Maximal si trasforma in una compilation. Il primo volume, affidato a Ricky Le Roy, include tra le altre “Happy” di Cominotto e “Year 2000” di Tony H, rimaste confinate al formato CD.

La supertechno targata BXR continua a propagarsi in autunno con “Species” del citato Cominotto («un “disco da viaggio” privo di ritornelli a guidare l’ascoltatore, crossover tra trance e techno con qualche occhiata alla Detroit anni Novanta» come lo descrive ai tempi l’autore) ed un paio di feroci 12″ di Picotto contenenti quattro tracce tratte dal suo primo album (“Underground / Baguette”, “Bug / Eclectic”) ma non indirizzate al frangente radiofonico. Il follow-up di “Komodo” infatti è “Proximus” in cui trova alloggio un campionamento tratto da “Adiemus” di Karl Jenkins e che gli italiani hanno facoltà di ascoltare in anteprima attraverso un servizio messo a punto da Omnitel che trasforma il telefono cellulare in un juke-box chiamando il numero 2552. Immancabile il videoclip che chiude la serie diretta da Oliver Sommer, iniziata con “Iguana” e proseguita con “Komodo”: come Alberto Beltrame scrive qui il 27 maggio 2020, «al regista viene commissionato il compito di narrare le vicende dell’investigatore Mauro Picotto e della sua sexy antagonista, la misteriosa donna dagli occhi di drago […], un’assassina seriale che (nel video di “Proximus”, nda) sembra essere diventata ancora più potente e sfuggente, ma l’investigatore riuscirà a trovarla alla fine di un inseguimento» (a bordo di una Ferrari, nda). Negli ultimi frame il colpo di scena, la donna si trasforma in iguana e gli occhi di Picotto diventano gli stessi della donna-lucertola. Le numerose versioni aiutano la diffusione del brano sul fronte estero, quello a cui BXR ormai sembra ambire in modo deciso e non a caso il 20 dicembre Picotto raccoglie diversi premi ai German Dance Awards tenutisi ad Amburgo.

Mario Più - Sfyflex
Dopo circa cento pubblicazioni, la BXR abbandona il payoff Noise Maker

Nel frattempo i DJ della label bresciana continuano a radunare migliaia di adepti provenienti da diverse regioni d’Italia ogni sabato notte. Un autentico nomadismo che si alimenta anche grazie a nastri doppiati a profusione sui quali si rinvengono tanti dei pezzi che vengono testati con diversi mesi d’anticipo rispetto alle date di uscita ufficiali. È il caso di Mario Più con “Sfyflex”, finito sul lato b dei remix di “Techno Harmony” (con cui BXR perde definitivamente il payoff Noise Maker, diventato il nome di un’altra etichetta della Media Records curata artisticamente da Gigi D’Agostino), e di “Matrix”, pubblicato insieme a “Morpheus” in cui riaffiorano elementi di “Tryouts For The Human Race” degli Sparks, prodotta da Giorgio Moroder nel 1979, gli stessi riportati in superficie da Trisco nella sua “Musak”. Proprio “Matrix” è dedicata all’omonimo club, prima ospitato presso il fiorentino Central Park e poi al Ritmodromo di Coccaglio, dove Mario Più e i colleghi del gruppo Metempsicosi si trasferiscono nell’autunno 2000 dopo la fine del sodalizio con l’Insomnia di Ponsacco. Negli ultimi mesi dell’anno escono in rapida sequenza “All The Way” di Ricky Le Roy, trainato da una base in stile “Kernkraft 400 (Remix) di Zombie Nation o “The Greatest DJ” di Lexy & K-Paul, “Ogni Pensiero / È Controllo” di Franchino, al lavoro su una serie di interpolazioni prese dal film “Matrix”, “Just A Moment” di Bismark e “Global Players (My Name Is Techno)” di Mr. X & Mr. Y (WestBam ed Afrika Islam), preso in licenza dalla berlinese Low Spirit ed impreziosito dal remix di Beroshima. A questi si aggiungono “Weltklang” firmato da una new entry proveniente dalla filiale tedesca della BXR capeggiata da Robin Ewald ovvero Marco Zaffarano, consolidato nome che vanta produzioni su Harthouse e due album sull’indimenticata MFS, e “Tenshi” dei Gouryella, che non riesce però a raccogliere gli stessi risultati ottenuti all’estero.

Il 2001 vede proseguire la marcia trionfale di Mauro Picotto, nuovamente sotto i riflettori con un altro estratto dall’album, “Like This Like That”, melodicamente derivato da “Blue Fear” di Armin del 1997. Il DJ originario di Cavour, un piccolo paesino in provincia di Torino, conquista per l’ennesima volta le classifiche di vendita d’oltralpe con licenze sparse in tutto il mondo. Il videoclip, trasmesso massivamente da VIVA, contribuisce alla popolarizzazione della sua immagine. A dirigerlo è ancora Oliver Sommer che, come scrive Alberto Beltrame nel già citato articolo del 2020, «si basa sul parallelismo per opposizione di due mondi in un bellissimo gioco sul bianco e nero. Gli unici elementi che possono far ricordare la video-serie (“Iguana”, “Komodo”, “Proximus”, nda) sono l’intro e l’outro alla James Bond, potenzialmente leggibili come un vago richiamo all’investigatore Picotto ed alle sue avventure». È un momento propizio anche per Mario Più che torna con l’album “Vision”, una raccolta dei suoi maggiori successi con qualche anticipazione su ciò che avverrà nei mesi a venire come “Love Game”, ancora interpretato da Principe Maurice. Ispirato da “Back To Earth” di Yves Deruyter è Saccoman che riappare con “The Recall” seguito da Franchino e la sua “Magia Technologika” in cui rivivono fraseggi quasi mediterranean progressive. “Spring Time (Let Yourself Go)” è il follow-up di Lava che il compianto Tillmann Uhrmacher produce ancora con Picotto e il fido Riccardo Ferri. Dall’estero arrivano l’irlandese Darren Flynn, il britannico Simon Foy e l’elvetico DJ Pure, rispettivamente con “Spirit Of Sp@ce”, “Insideout” e “My Definition”, tutti in stile trance.

Joy Kitikonti - Joyenergizer
“Joyenergizer” porta il nome di Joy Kitikonti all’attenzione del grande pubblico

Su “My Definition” mette le grinfie, come remixer, Joy Kitikonti che si ripresenta con “Joyenergizer”, una traccia sviluppata, come lui stesso racconta qui, «partendo da una kick ottenuta col sintetizzatore Access Virus A, poi lavorata con LFO e processata attraverso vari plugin durante la costruzione su Logic». La Psico Mix travolge e stravolge con un’effettistica strisciante e liquefatta, particolarmente efficace nei break. Senza ombra di dubbio è la matrice del suono a fare la differenza e a giocare sull’unicità. Diversamente dalle sue precedenti produzioni, questa entra in classifica di vendita e ciò impone la realizzazione di un videoclip girato ad Ibiza.

Mentre Kitikonti dà alle stampe un pezzo capace di abbracciare un pubblico più eterogeneo e trasversale, Picotto (che ritocca “Joyenergizer” in un remix madido di sudore) prende qualche distanza dal mondo delle hit a presa rapida orientate alle radio e al pubblico generalista convogliando nel “Metamorphose EP” cinque tracce incise su un doppio mix pensate e destinate ai soli club. Allineati all’hardgroove che vive un momento particolarmente galvanizzante, i pezzi del piemontese mescolano tribalismi demolitori di scuola millsiana (“Prendi & Scappa”, “Wake Up”) a svirgolate di techno frammista ad affilate linee di sintetizzatore sullo stile dello sloveno Umek (“Verdi”, “Kebab”) passando per un intro ambientale beatless (“Luna“). 

Picotto - Metamorphose Awesome
Con “Metamorphose EP” e “Awesome!!!” Mauro Picotto inizia a prendere le distanze dal collaudato schema delle sue hit più popolari

«Ora preferisco fare dischi con più sound e meno melodia» dichiara l’artista pochi mesi prima dell’uscita dell’EP in un’intervista di Riccardo Sada pubblicata a febbraio. «So che così facendo perderò una buona fetta di mercato, magari quello italiano, ma probabilmente potrò conquistarne tanti altri. In Germania il vento soffia a mio favore così come nel Regno Unito e ad Ibiza che è una cosa a sé rispetto alla Spagna». Picotto ormai è nel gotha del DJing mondiale, vede riconfermare la propria presenza nella Top 100 DJs del magazine britannico DJ Mag in ottava piazza (posizione più alta in assoluto sinora conquistata da un italiano) e fa da apripista a colleghi che militano con lui tra le fila della BXR ossia Mario Più (54esimo) e Gigi D’Agostino (98esimo). Poi è la volta di Cominotto con “Trouble”, «una produzione in cui credo molto dopo aver visto gli effetti in locali tipo Cocoricò, Red Zone, Alter Ego e Supalova» come afferma lo stesso autore che aggiunge: «all’interno c’è una versione sfacciatamente tech-house, neologismo che tra le ilarità generali uso da qualche anno e che casualmente oggi rappresenta il crossover più seguito, non certamente per merito mio ma in questa porca Italia sono stato tra i primi a crederci». Seguono Ricky Le Roy con “Dancer” e Bismark con “Triplet”, entrambi con lo shuffle applicato alla batteria in memoria di un successo tedesco di qualche tempo prima, “The Darkside” di Hypetraxx. Accolti su BXR, dopo un “praticantato” su Underground, sono Sandro Vibot con “Everyday”, Zicky (ormai non più “Il Giullare”) con “Follow Me” e Fabio MC con “Mimic”. Lasciandosi alle spalle la comparsata del ’99 sulla effimera BXR Club, riappare pure Gabry Fasano: il “cacciabombardiere” del Jaiss, così come lo chiamano affettuosamente i fan, firma una doppia a side racchiusa in una cornice sonora dai tratti impetuosi e che trasuda energia, “Catapulta”, con un frammento ritmico carpito da un EP di Christian Fischer su Statik Entertainment del ’99 opportunamente velocizzato, e “Ringmo”, che si avvicina alla scuola di Chris Liebing. Attratti dalle manipolazioni del beat sono pure Mario Più, che in “Ayers Rock” inserisce il suono di un didgeridoo, ed Athos Botti, semplicemente noto come Athos, con l’incalzante “Infect”.

In autunno tornano l’ibizenco Gee Moore col percussivo “G-Tribe”, Bismark con “Primitive Love” e Saccoman con “Revelation” mentre Mario Più e Fabio MC (che su Underground danno avvio al progetto TK 401) firmano “Invaders / Away”. In solitaria invece Mario Più realizza “Sensation”, altro estratto dall’album “Vision” in chiave smaccatamente trance. Menzione a parte merita il secondo doppio mix dato alle stampe da Mauro Picotto, “Awesome!!!”, naturale prosieguo al “Metamorphose EP” di pochi mesi prima. Appare sempre più evidente come al DJ inizi a stare stretto il ruolo da coordinatore dell’etichetta e che soprattutto sia stanco di confezionare follow-up standard per accontentare le richieste del mercato discografico più mainstream. Non è certamente un caso che nessuna delle sei tracce incluse (tra cui “Cyberfood”, “Hong Kong” e “Bangkok”) attinga elementi dalle sue hit nazionalpopolari. A cambiare, oltre ai suoni, sono le stesure e soprattutto il mood. «Avevo saturato il mio gusto commerciale ed avvertii la necessità di compensarlo con qualcosa di più club» dirà lui stesso qualche mese più tardi. Picotto cerca nuove strade per rivoluzionare la sua carriera e le trova. Il cambiamento radicale arriverà alla fine del 2002.

“Gula-Matari” è l’ennesimo dei dischi con cui Cominotto traduce il suo spirito eclettico da DJ

2002, i primi scricchiolii
Massimo Cominotto è tra i DJ della scuderia BXR a saper resistere al richiamo della popolarità generalista. «Ci fu una corsa a chi faceva canzonette orecchiabili ma io non ne sono stato capace oppure, più semplicemente, non mi interessava comporle» dichiara in questa intervista del 2020. Alla sua fermezza da DJ si somma quindi la coerenza stilistica delle produzioni discografiche a cui ora si aggiunge “Gula-Matari”. Da un lato la Techno Mix che arde in loop circolari, dall’altro la Funky Mix che sovverte il rodato schema sonoro dell’etichetta bresciana con patchwork di micro sample fusion (presi da “Gula Matari” di Quincy Jones) inchiodati su un sostenuto pianale ritmico. «Vorrei vedere la faccia dei technofili mentre ascoltano fiati, chitarre wah wah e voci femminili» ironizza l’autore ai tempi dell’uscita. Più canonico invece il carattere che Ricky Le Roy infonde in “One Day”, tra suoni cristallini in cascata e aggressività hardgroove, la stessa che qualifica pure il “Percutor EP” di Fabio MC trainato dal pezzo “Klaude”. Ascritto al comparto techno groovy è anche Marco Zaffarano con “Re-Take” che sul lato b vede il remix di “Playback” a firma Picotto con inserti latini in scia a vari successi internazionali di quel periodo realizzati da artisti come Tomaz vs. Filterheadz, Cristian Varela o Renato Cohen. Fedelmente ancorato alla trance resta invece Bismark con la sua “E.R.K.”, ed è trance anche quella di “Like A Dream” del tedesco Andy Jay Powell, arricchita da un remix degli RMB (proprio quelli di “Universe Of Love” di cui parliamo dettagliatamente qui), e di “Believe Me”, quinto brano che Mario Più firma come DJ Arabesque. Retrogusto inaspettatamente house/disco invece per Franchino che ritorna con “Ficha No Caixa”, una specie di french touch velocizzato ai confini con apparati technoidi, segno della fusione tra mondi musicali che avviene nei primi anni Duemila quando la distanza tra house e techno diventa sempre più labile o si azzera del tutto.

Dopo diverse esperienze consumate su Underground, sbarca su BXR come artista anche Riccardo Ferri alias Ricky Effe, collaboratore di vecchia data di Media Records e fedele spalla di Mauro Picotto. Le due tracce solcate sul 12″, “Rectifier” e “Trythis”, occhieggiano all’hardgroove teutonica, la medesima con cui Picotto sta progressivamente sostituendo la formula techno trance, oggetto di un’evidente inflazione, ma non prima di lanciare i remix 2002 di “Pulsar” (tra cui uno a firma Tiësto ma stranamente ora escluso dalla pubblicazione italiana) e soprattutto “Back To Cali”, riverberato da un remix dell’infaticabile Push, tra gli artisti chiave della Bonzai. Col follow-up “Joydontstop”, costruito sul giro portante della citata “Schall” di Elektrochemie LK e per cui viene approntato un videoclip, Joy Kitikonti prova a bissare il successo di “Joyenergizer” ma raccogliendo solo parzialmente i risultati attesi mentre Athos campiona le voci da una puntata della serie televisiva “South Park” per “Oh My God!!!” che si afferma nel circuito dei club. Saccoman ritorna con “Deep In The Woods”, Zicky con “Yeah Man Bomboclat”, Fabio MC con “Prisma EP” e Bismark con “Fluid” ma qualcosa nel BXR Sound comincia a mutare. Se da un lato la costante vocazione all’europeizzazione (quell’anno la Media Records inaugura le filiali iberiche e scandinave) rende i prodotti appetibili sul fronte internazionale, dall’altro tende ad allinearli troppo ad uno standard che gioca a svantaggio dell’identità. Alcune nuove uscite, come “Into The Blue” di Saccoman o “Kiss Me” di Ricky Le Roy ad esempio, non lasciano il segno, tuttavia la spinta ottenuta nelle annate precedenti è talmente forte da non incrinare del tutto gli equilibri. Nella Top 100 DJs di DJ Mag infatti Picotto è 14esimo, Mario Più 82esimo e Joy Kitikonti 91esimo.

Mentre il tenace Cominotto continua ad incidere ciò che più gli aggrada (“Iron Butterfly”) senza preoccuparsi di trovare il modo per penetrare nelle classifiche di vendita, Bismark produce a quattro mani “The Theme Of Sphere” con lo svizzero Philippe Rochard. Alla brigata si aggiunge poi Angelo Pandolfi che come Pan Project firma “L’Amour Pour La Musique” ed “NRG”, due brani influenzati dallo stile di Gigi D’Agostino che però dividono poco e niente con la linea intrapresa dalla BXR, e a dirla tutta anche la resurrezione di “U Got 2 Know” dei Cappella, attraverso i remix di R.A.F. e Joy Kitikonti, non pare proprio una mossa azzeccata. Decisamente più pertinenti risultano “Capsule / Random” di Trasponder, secondo (ed ultimo) atto del progetto messo su l’anno prima da Gabry Fasano e Riccardo Ferri su Underground, “Flair / Return Of Memory” di Fabio MC (“Return Of Memory”, in particolare, è una piroetta nel suono belga della Bonzai, con rimandi a “Synthetic Apocalypse” dei Musix) e “96 Street” di Sandro Vibot. Una deviazione hard house, sullo stile di Sharp Boys, Tony De Vit, Malcolm Duffy ed Alan Thompson, viene presa grazie a Pagano, fattosi notare con alcune pubblicazioni sulla Fragile Records (etichetta del gruppo Arsenic Sound di Paolino Nobile intervistato qui) quell’anno nominato A&R della Nukleuz Italy: prima con “Work It”, realizzata con Marco ‘Maico’ Piraccini, e poi con “(You Better Not) Return To Me” (ripescando frammenti vocali di “Return To Me” di Fits Of Gloom, Baia Degli Angeli, 1994), il DJ nativo di Catania tenta di aprire nuovi spiragli nel mercato estero, in primis quello britannico dove il filone hard house vive uno spiccato fermento.

Above & Beyond - Far From In Love
“Far From In Love” di Above & Beyond, tra i primi 12″ attraverso cui filtra la nuova veste grafica della BXR

In autunno arrivano due licenze, “Ligaya” di Gouryella, nel frattempo diventato progetto solista di Ferry Corsten, e “Far From In Love” del trio Above & Beyond, oggetto di forti interessi nell’Europa centrale ma praticamente ignorati da noi. Sono tra i primi dischi con cui BXR rinnova ancora il layout grafico, minimalizzato e spinto verso il bicromatismo bianco/nero già adoperato da qualche anno per Underground e Sacrifice. La notizia che chiude il 2002 intristendo migliaia di fan è quella dell’abbandono di Mauro Picotto che lascia l’etichetta di Bortolotti dopo undici anni. «La Media Records è stato il mio primo sogno realizzato con successo» dichiara nell’intervista rilasciata allo scrivente pubblicata a dicembre, la prima in cui annuncia pubblicamente la decisione. «La scelta di lasciare è legata agli impegni e soprattutto ai miei sogni, e lo dico in modo chiaro perché vorrei che non venisse fuori nessuna storia strampalata o riportata in modo traviato. L’ultimo anno mi ha visto parecchio impegnato in giro per il mondo come DJ e questo mi ha portato, inevitabilmente, a trascurare gli studi di registrazione. Perché quindi continuare ad essere responsabile di un prodotto se non posso più controllarne la qualità? Così ho maturato la decisione di lasciare e per me è stata una cosa naturale, ho bisogno di obiettivi e stimoli nuovi. Per quanto riguarda le produzioni, continuerò a seguire il mio istinto, come ho sempre fatto. Farò quello che mi pare a seconda del mio umore e soprattutto senza vincoli, perché vorrei decidere in autonomia la data di pubblicazione di un nuovo brano. “Back To Cali”, ad esempio, è uscito ad un anno dalla sua produzione, quando ormai non era più in linea con ciò che proponevo nei miei set da DJ. Insomma, vorrei condividere le cose col mio pubblico nel momento in cui emozionano anche me e non vederle bloccate dalle leggi di mercato delle varie aziende». Per l’occasione Picotto spiega anche le ragioni che lo allontanano dalla trance da classifica e lo fanno uscire dalla comfort zone: «Mi sembra che nella trance non ci siano grandi novità e non ho più voglia di produrre brani in stile “Lizard”. Preferisco piuttosto rischiare e cercare cose nuove, non amo ripetermi eccessivamente. Talvolta i cambiamenti sono stimolanti e permettono di vedere nuove frontiere. Attenzione però, non sto rinnegando il mio recente passato. Sarò sempre legato a “Lizard”, che ho suonato per la prima volta su un acetato domenica 7 dicembre 1997 all’Ultimo Impero di Airasca e che, a mio avviso, ha aperto le porte ad uno stile musicale e rimarrà una pietra miliare. Il fatto che in Italia non venne presa in considerazione dai network radiofonici è stata la sua fortuna: essendo una club hit, ha visto allungarsi la vita più del doppio rispetto ai classici successi trasmessi in FM». L’occasione è giusta pure per fare dei paragoni con l’estero: «Musicalmente i club europei non hanno nulla a che vedere con la maggior parte di quelli italiani anche perché non vengono influenzati dai network. All’estero inoltre i palinsesti delle emittenti radiofoniche includono programmi tematici che accrescono l’informazione musicale del pubblico ed influiscono positivamente sulle vendite dei dischi. Tante produzioni che sono in classifica da noi invece non vengono minimamente prese in considerazione oltre le Alpi. […]. Il successo di questi anni mi ha portato un ricco bottino di soddisfazioni e sono fiero di essere stato il primo e sinora l’unico italiano ad aver solcato l’ambita soglia della top 10 della classifica annuale di DJ Mag. Non che sia così determinante nella vita di un DJ, sia chiaro, ma una certa visibilità non guasta mai. Adesso inizio a sentirmi appagato delle tante fatiche spese ad inizio carriera quando qualcuno, tra i colleghi, rideva dei miei sogni».

2003, il primo anno post Picotto
Il 2003 consegna una BXR con evidenti differenze rispetto a quella che il grande pubblico ha conosciuto negli anni precedenti, a partire dalla nuova impostazione grafica che minimalizza il logo ora ridotto alla sola X sino alla scuderia artistica che inizia a disgregarsi. Alcune partenze però sono presto rimpiazzate con nuovi arrivi. Attraverso “Trip On The Moon / M.I.R.” ed “Elektronic Atmosphere”, ad esempio, debuttano rispettivamente Paola Peroni, che già collabora con Media Records una decina di anni prima, e il DJ bresciano Giovanni Pasquariello alias Exile. A pochi mesi di distanza dall’esordio riappare Pagano con la doppia a side “Packet Of Peace” (cover dell’omonimo dei Lionrock, portato in Italia esattamente un decennio prima proprio attraverso una delle etichette della Media Records, la GFB) / “Blade“, e viene accolto l’olandese Marco V con “Simulated”, su licenza ID&T. Riconfermate le presenze del capitolino Bismark con “In My Heart” e del livornese Mario Più con “Devotion” contenente “C’era Una Volta Il West”, cover dell’omonimo di Ennio Morricone per cui viene girato un videoclip a Bormio, in montagna, sullo sfondo di un paesaggio innevato.

Mario Più e Joy Kitikonti in una foto del 2003, anno in cui diventano gli A&R della BXR

I prescelti per guidare la BXR post picottiana sono Mario Più e Joy Kitikonti che prima realizzano “Strance” firmata con gli pseudonimi DJ Arabesque e Jakyro e poi producono “Mossaic” del DJ colombiano Moss, approdato su Underground nel 2001 con “Bogotá Experiences”, e “Light My Fire” come Rocktronic Orchestra, cover dell’evergreen dei Doors. Saranno sempre loro due, uniti in parallelo come MariKit, gli artefici di gran parte delle versioni remix apparse durante l’annata su BXR. La linea stilistica predominante di questa fase è divisa tra trance/hard trance ed hardgroove, come attestano la nuova licenza per Marco V (“C:\del*.mp3 / Solarize”), “Freedom” di Ricky Le Roy, “Roraima / Logic Guitar” di Mario Più ed “Harem” di Paola Peroni, che tanto ammicca alla techno latina di cui si è già detto sopra. Il cremonese Eros Ongari alias Ronnie Play appronta “It’s Time To Dance”, una specie di rilettura italica dell’electroclash costruita sul giro di accordi di “Fade To Grey” dei Visage, Fabio MC staziona sul segmento hardgroove con la doppietta “Impact / Zelig” e “Priority / Reality”, Kitikonti prova ancora a sfruttare la scia di “Joyenergizer” con “Pornojoy”, trascinato in tv da un videoclip ispirato dai film erotici degli anni Settanta e per questo censurato a causa di contenuti considerati troppo espliciti, e Gee Moore si rifà vivo con “Slam Dunk Funk”. Sul fronte licenze tocca all’argentino DJ Dero (quello di “Batucada” e “La Campana”) con “Revolution 07”, scovato da Kitikonti e con remix annesso di Robbie Rivera, e ai tedeschi Tube-Tech con un’altra cover dei Doors di Jim Morrison, “The End”, arricchita dal remix dei Vanguard reduci dal successo ottenuto poco tempo prima col remake di “Flash” dei Queen.

Della BXR «che guardava avanti e che prende spunto dai DJ che suonavano musica diversa lasciando spazio alla creatività, senza supervisioni dei capi», come la descrive Bismark in un’intervista pubblicata a gennaio 2003, resta ormai ben poco. In autunno arrivano gli Spolvet (Andrea Vettori e Niccolò Spolveri) con “Rock The Sun”, in posizione mediana tra hardgroove ed hard trance, Joman (una delle tante impersonificazioni di Joy Kitikonti) con “Tronic Toys”, Zicky con “The Party Goes On” e i Kiper (Joy Ki-tikonti e Paola Per-oni) con “The Land Of Freedom”. A chiudere è “Incanto Per Ginevra” di Mario Più, dedicata alla nascita della figlia Ginevra immortalata in copertina. Nel frattempo Picotto e l’inseparabile Riccardo Ferri approdano alla britannica Primate Recordings con “Alchemist EP” trainato da “New Time New Place”: il doppio mix vende oltre dodicimila copie ma non genera introiti economici a causa del fallimento del distributore, la Prime Distribution. Picotto però non demorde e vara la sua personale etichetta, la Alchemy, inaugurandola con “Playing Footsie / Amazing” e sulla quale ospiterà alcuni artisti che lo seguono dopo l’abbandono della BXR ossia Massimo Cominotto, Gabry Fasano e il prematuramente scomparso Athos.

2004-2005-2006, gli ultimi anni di attività
L’inizio del nuovo millennio è nefasto per la discografia mondiale. Innumerevoli etichette indipendenti chiudono battenti sopraffatte dalla pirateria e dalla crisi che sembra non conoscere fine. L’atteso salto nel futuro che avrebbe garantito il 2000 in realtà riserva solo strade in salita e prospettive tutt’altro che rosee: le soglie di vendita di pochi anni prima («numeri notevoli sia in Italia che all’estero, che partivano da ventimila copie o giù di lì per nomi tipo Picotto, Più o Kitikonti» rammenta ancora Daniele Tramontano della Global Net in relazione a BXR) si assottigliano sensibilmente, la maggior parte dei distributori fallisce e l’invasione di nuovi equipment digitali sferra il colpo di grazia al mercato del disco in vinile, ridotto ormai ad una nicchia di utenza sempre più esigua. A tutto ciò si aggiunge l’introduzione dell’euro, un cambiamento epocale che mette a dura prova il potere di acquisto di chi, in Italia, continua a credere nel supporto analogico. La Media Records non esce indenne da questa “tempesta”, nonostante fosse preparata ed avvezza da anni alle nuove forme di fruizione della musica, e l’allontanamento di Gianfranco Bortolotti, ormai impegnato come architetto, e l’attività ridimensionata della BXR e di tutte le etichette del gruppo ne sono palesi testimonianze.

Mario Più - Champ Elisées
Con “Champ Elisées” Mario Più tenta di tornare al grande successo

Il senso di confusione e smarrimento sul versante stilistico non aiuta di certo gli A&R della label, disorientati come tanti di fronte a repentini mutamenti che vedono crollare tutte le vecchie certezze. «I DJ che suonano house si sono appropriati di sonorità techno, progressive ed elettroniche» dichiara Mario Più in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile 2004. Ed aggiunge: «C’è stato un notevole avvicinamento dei generi. Io stesso adesso posso esibirmi in locali house perché propongo un suono meno “duro”». Proprio Mario Più incide prima l’anonimo “Green Day EP” e poi “Champ Elisées” in compagnia di Gare Mat K, con cui prova a rilanciarsi nel mainstream abbracciando il mondo electro house che pare la tendenza più importante del momento. Il brano, immerso in atmosfere piuttosto malinconiche ed annunciato come primo singolo del nuovo album “From Dusk Till Dawn” rimasto nel cassetto sino al 2015, è interpretato vocalmente da una certa Catalina B. ed è imperniato su un giro di chitarra che fa il verso a quello di “A Forest” dei Cure. Exile ritorna con “Tragic Error…”, in balia di una techno frammista ad elementi elettronici, Ronnie Play ci riprova con “Walking On The Sunshine”, electro house un filo maldestra e grossolana con qualche propaggine rockeggiante, mentre Franchino (con la K nel nome al posto della ch) si ripresenta con “Solidão”, trance dai riflessi mediterranei forse composta pensando ai bei tempi che furono.

Spazio anche al team dei Trilogy con “Navaho”, che a seconda della versione imbocca sentieri progressive house ed electro house, e ad un paio di licenze estere, “White Scale” dei Subnerve (uscito originariamente nel 1996) e “One Way Out” di Niels Van Gogh col remix di Martin Eyerer che da lì a breve fonda la Kling Klong. A mitigare il proprio apparato stilistico è persino un integralista della techno, Fabio MC, in “Tridonic / Meteor-A”, composte ancora con Simone Pancani. I fasti della BXR ormai sono lontani. A rammentarli è “Iguana” di Mauro Picotto che riappare attraverso due versioni, A Different Starting Mix e il remix del giapponese Yoji Biomehanika che precipita in pozzi hardstyle. Nel corso dell’anno anche Mario Più lascia la Media Records per fondare la sua etichetta, la Fahrenheit Music, nonostante dichiari, in un’intervista pubblicata ad aprile, di non avere alcuna intenzione di mettersi in proprio: «Non andrei molto lontano, specialmente in questo periodo, e non avrei ragione di farlo perché in Media Records mi trovo benissimo, da una struttura così solida e consolidata ho tutto il supporto che mi serve». Per BXR il destino è ormai segnato. Ad inizio 2005 esce “Pulsar 2K5” di Mauro Picotto, ennesimo tentativo di tenere a galla un transatlantico che si sta inesorabilmente inabissando. In copertina si fa riferimento a due “unreleased mix” mai pubblicati in Italia ma che i fan conoscono bene, la Megavoices Mix e il remix di Tiësto. A tirare il sipario è Joy Kitikonti, prima insieme a Cristian Vecchio per il “Finally EP” e poi con Joys Audino per “Started”, nel segno dell’electro house.

BXR last logo
Il logo, il quinto, con cui la BXR riappare nel 2017

2017, un’effimera ripartenza
Tra le etichette che Gianfranco Bortolotti prova a lanciare e rilanciare a partire dal 2015 col gruppo Media Records EVO, oltre ad Underground, UMM ed Heartbeat, c’è anche la BXR, affidata all’A&R Philipp Kieser e marchiata con un nuovo logo. L’idea prende corpo ad inizio del 2016 ma bisogna attendere febbraio dell’anno successivo per vederla concretizzata attraverso la pubblicazione del “No Mercy EP” di 6470 alias Davide Piras. Il 12″ raduna quattro brani (“Our Cognitive Dissonance”, “No Mercy”, “Introspection”, “September 10”) affini alla techno ormai definitivamente sdoganata nel mainstream e richiesta nei circuiti EDM. A giugno segue, questa volta solo in formato digitale, “Mapping A Messiah EP” del bulgaro Ghost303 alias Ivan Shopov, ulteriore tentativo di salire sul treno in corsa di quella techno di cantiere drumcodiano adorata da folle oceaniche ma vacua sotto il profilo delle sollecitazioni creative. Si parla di una possibile terza uscita che avrebbe contato sulle jam session registrate in studio da Kieser, Piras e Shopov, ma il progetto non va in porto. L’altoatesino Kieser, in un comunicato stampa diramato a febbraio 2016, dichiara che il suo intento non è quello di limitarsi ad una strategia copia-incolla: «Ci lanceremo sulla scena con un sound autentico e totalmente all’avanguardia. Punteremo anche su facce nuove e nuovi talenti». Bortolotti aggiunge: «Nuovo A&R, nuovo vestito, nuova strategia, nuovo sound. BXR, come un caccia in ricognizione, sarà affiancata da due label, una alla sua sinistra, la Underground, l’altra alla sua destra, la Divergent, e come per UMM, sarà ricerca e stile orientati verso i clubgoer. Sarà dark, essenziale e culturalmente evocativa. Sara la mia anima. Essere, non esserci, è il suo destino».

Claxixx
Insieme a BXR si ripresenta anche Claxixx, questa volta come etichetta e non serie

Dell’annunciata futuretechno però, che avrebbe dovuto raccogliere il testimone della mediterranean progressive e della supertechno, non resta niente se non un’idea dall’esito caduco. Contestualmente alla temporanea riapparizione di BXR si segnala pure la nascita, a settembre del 2017, della Claxixx, contenitore che utilizza il medesimo nome di una delle serie della BXR con la finalità di rilanciare nuove versioni di classici tratti dal catalogo della Media Records, analogamente a quanto avviene su EDMedia. Alla fine il progetto si arena sul nascere col remix di “Tuareg” di Ricky Le Roy realizzato dal greco George V a cui fa seguito un inedito di Nicola Maddaloni intitolato “L-R”.

Rimasta operativa per circa dodici anni, la BXR lascia un’eredità importante, sia sotto il profilo manageriale per metodo di lavoro, creatività e capacità progettuale, sia sotto quello strettamente musicale raccolta da tantissimi fan sparsi per il mondo. L’alta tiratura e l’ampia disponibilità, fatta qualche eccezione, non la ha (ancora) trasformata in una label appetibile sul fronte ristampe ma senza ombra di dubbio rimane un ottimo esempio che attesta come la visione d’insieme, l’affiatamento e lo spirito di squadra possano fare la differenza in un Paese come l’Italia in cui la cooperazione, specialmente nel contesto musicale, è ancora una meta utopica.

(Giosuè Impellizzeri)

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Negozi di dischi del passato: Dee Jay Doc a Ponsacco

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Dee Jay Doc col titolare Paolo Bova

Quando apristi il negozio?
Era il dicembre del 1990. A seguito di problemi fisici causati dal lavoro in un supermercato, fui costretto a cambiare attività e quindi, essendo anche un DJ, decisi di aprire un negozio di dischi, del resto quello era il mio mondo.

01 - Dee Jay Doc esterna
L’ingresso del Dee Jay Doc in via Nazario Saurio, a Ponsacco

Perché optasti per il nome Dee Jay Doc?
L’idea giunse dopo aver visto la copertina di una compilation sulla quale si faceva riferimento ad un Doctor Dance. Da lì la scelta di usare la parola “Doc” abbinata a Dee Jay.

Che tipo di investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
L’investimento era prettamente strutturale e comprendeva arredamento, scaffalatura, insegne, accessori e prime forniture di dischi da pagare in contrassegno. Se non ricordo male, il totale di tutto ciò si aggirava intorno ai 25 milioni di lire.

Nelle immediate vicinanze c’erano altri negozi di dischi come il tuo?
A Pontedera solo un piccolo negozio trattava dischi mix. Io però aprii a Ponsacco, a circa tre chilometri di distanza, con l’intento di fare le cose in grande.

02 - punto ascolto e folder CD
Sopra un punto ascolto, sotto l’assortimento in formato CD

Come era organizzato il punto vendita?
A disposizione c’erano circa 60 m² più il magazzino. Inizialmente allestii un bancone con vari punti ascolto (quattro, se la memoria non mi inganna) provvisti di piatti e cuffie. In seguito ad un ridimensionamento del locale però l’aspetto mutò avvicinandosi a quello dei DJ point britannici con sei/otto punti ascolto davanti ad un bancone lungo circa dieci metri. Dietro c’erano espositori a cascata sempre in stile british (ed infatti comprai i materiali a Londra perché in Italia non erano disponibili) e varie vetrine destinate agli accessori per DJ come testine, mixer, diffusori, flight case ed altro ancora.

Che generi musicali trattavi con particolare attenzione?
Mi specializzai subito nella vendita di house music che, in quel momento, era il genere che stava prendendo piede, e nel contempo trattavo anche cataloghi nazionali ed internazionali di CD e musicassette che però abbandonai poco dopo. Le mie attenzioni maggiori erano riservate ai prodotti all’epoca definiti “underground”, a prescindere dall’indirizzo stilistico.

Quanti dischi vendevi mediamente a settimana?
Ad inizio attività intorno ai 1500 dischi settimanali ma in seguito arrivai a toccare la soglia di ben 5000 pezzi.

03 - scatti interno (1992-1993)
Altri scatti del Dee Jay Doc risalenti al 1992 e 1993: sopra a sinistra si scorgono, tra gli altri, “Passion” di Gat Decor, “Feel It” degli FPI Project, “Love Breakdown” di Rozalla e il remix di “Pacific Symphony” dei Transformer 2, a destra “Feel The Rhythm” di Jinny, “I’m Every Woman” di Whitney Houston, “Qui Sème Le Vent Récolte Le Tempo” di MC Solaar e “In Nomine Patris” degli Atahualpa, sotto invece le t-shirt con il logo del negozio

Vendevi anche per corrispondenza?
Sì, iniziai circa due anni dopo l’apertura, facilitato dal fatto che fossi fornitore dei vari DJ dell’Insomnia ed avessi molte esclusive in area techno/progressive (credo di essere stato il primo a trattare questo genere in Toscana). Molti DJ mi contattavano per acquistare titoli che avevano ascoltato nei set dei vari DJ del locale e che, il più delle volte, erano esclusive ottenute grazie ad una succursale a Londra. Pertanto, in virtù di ciò, avevo clienti provenienti da tutta Italia ed anche dall’estero, come Svizzera ed Austria, dove i famosi DJ dell’Insomnia erano davvero seguitissimi.

Quali furono i bestseller?
Sono state molte le esclusive di successo, alcune divenute vere e proprie hit anche a livello commerciale. In presenza di titoli d’importazione che giudicavo forti, avevo l’abitudine di proporre a varie etichette italiane l’acquisto di licenze. Qualche esempio? “Such A Feeling” dei Bizarre Inc, “Funk & Drive” di K&M, “One Kiss” di Pacha, “Funkatarium” di Jump ed altri ancora. Parlando di bestseller però, non posso non citare anche quei dischi che ho venduto in quantità elevata di artisti come Emmanuel Top, Robert Miles, Speedy J e Discorosso. Ognuno superava le 150/180 copie.

C’erano DJ particolarmente noti a frequentare il negozio?
Erano moltissimi, soprattutto in ambito techno. Da Francesco Farfa a Mario Più, da Miki Il Delfino a Leo Mas passando per Gianni Bini, Alex Neri e davvero tanti altri. Avevo un casellario con cui riservavo il primo ascolto di dischi rari e promozionali a tutti i clienti assidui, erano circa cinquanta nomi che settimanalmente passavano da me per fare acquisti.

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Alcuni volti noti immortalati da Dee Jay Doc: Alex Neri, Alessandro ‘Blade’ Staderini dei Jestofunk, Bruno Bolla, Olga De Souza – frontwoman del progetto Corona, Francesco Farfa, Gabry Fasano, Gianni Bini, Ivan Iacobucci, Kenny Carpenter e Leo Mas

Quale fu la richiesta più stramba che ricordi?
Sono state così tante che ho perso il conto. Indimenticabile la caccia a “My Body And Soul” di Marvin Gardens (di cui parliamo qui, nda) che qualche DJ trovò sugli scaffali delle mie giacenze e trasformò in una hit. Recuperare altre copie fu una vera impresa, dovetti scartabellare migliaia di dischi nel magazzino! Ricordo anche di un’esclusiva di “So Hard” dei Pet Shop Boys remixato da David Morales di cui esistevano solo venti copie. Dopo averne data una a Mauro Ferrucci seguì un’autentica invasione di persone che lo chiedevano, ma io ne avevo appena cinque. Analoga la storia di “Thrill Me”, un doppio promozionale dei Simply Red che creò scompiglio tra i top DJ house dell’epoca, e potrei citare ancora molti altri casi.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
È difficile dirlo: tra titoli commerciali, house e techno, credo si viaggiasse intorno alle 300/400 novità settimanali.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare dai distributori? Ti fidavi dei suggerimenti di qualche venditore?
Ogni lunedì mattina mi recavo dai grossisti di Milano per essere in prima linea all’arrivo del materiale d’importazione proveniente da Regno Unito e Stati Uniti. Inoltre, come accennavo prima, a Londra avevo un ufficio in cui una persona racimolava esclusive e promozionali sia nei vari negozi della capitale inglese (coi quali peraltro collaboravo facendo scambi), sia direttamente dalle etichette. Era importantissimo disporre di titoli in esclusiva, soprattutto per prodotti techno/progressive dovendo rifornire costantemente DJ ed appassionati che gravitavano intorno ai vari locali della zona (Insomnia, Jaiss, Imperiale etc.). Ad affiancarmi in negozio erano due collaboratori, entrambi DJ, che testavano i dischi in discoteca, ma comunque ero sempre in stretto contatto coi miei clienti che mi tenevano aggiornato sui titoli che riuscivano a garantire maggiore resa sulla pista. Poi, senza presunzione, probabilmente fu anche l’esperienza maturata come DJ e produttore a permettermi di individuare titoli forti sin dal primo ascolto, cosa particolarmente importante perché in caso di eventuali riordini dovevi essere scaltro e veloce per non perdere le quantità necessarie. Per fortuna godevo di un trattamento di riguardo grazie al buon rapporto coi distributori ai quali, come già detto, davo spesso suggerimenti per le licenze.

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Altri DJ che ai tempi comprano dischi da Dee Jay Doc: Lil’ Louis, Mario Più, Mauro Ferrucci, Miki Il Delfino, Nick Hussey, Paolo Martini, Ralf, il compianto Roby J, Stefano Bratti e Stefano Noferini


Quanto influiva il supporto di un network radiofonico o di un DJ “di grido” sul rendimento di un disco?
Moltissimo. Ho avuto la fortuna di collaborare con Italia Network per la compilazione delle classifiche e facevo anche fornitura di dischi alla radio, quindi sapevo in anteprima quali fossero i titoli “hot” che poi sarebbero stati richiesti dai clienti. I pezzi più suonati nei locali techno senza dubbio erano tra i più ambiti in assoluto ed io mi organizzavo per tempo, al fine di accontentare tutte le richieste. A volte, proprio grazie al supporto di DJ importanti, persino dischi “improbabili” potevano diventare vere e proprie hit.

È capitato di vendere tante copie di un disco proprio in virtù dell’appoggio pubblicitario di qualcuno?
Sì, è accaduto molte volte. Uno fu “Strange” di Interfront, un disco molto semplice e banale scovato tra le rimanenze di un grossista. Ne comprai circa 300 copie e grazie alla spinta dei DJ toscani le vendetti tutte in pochissimo tempo.

Quale invece quello che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più e che invece maturò vendite insoddisfacenti?
Anche in questo caso potrei stilare una lista interminabile ma su tutti metterei il remix che Roger Sanchez realizzò per “Don’t Go Breaking My Heart” di Elton John & RuPaul: a me piaceva tanto ma vendette pochissimo.

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Ultima carrellata sui volti che frequentavano il negozio di Paolo Bova a Ponsacco: Alessandro Tognetti, Andrea Giuditta, Charlie Hall degli Spiral Tribe, Daniele Gas (che gioca con la copertina di “Pium Paum (Vipula Vapula)” di Anna Falchi di cui parliamo qui), Enrico Delaiti, Franchino, Joy Kitikonti, Killer Faber, Luca Masini, Mr. Marvin, il compianto Riccardo Cioni, Simone Fabbroni, Stefano Noto, Valez e Francesco Zappalà, quest’ultimo ritratto insieme allo stesso Bova


Alcuni negozi di dischi sono stati pure la culla di produzioni discografiche e di etichette. È proprio il caso del Dee Jay Doc al cui interno germogliano, a metà anni Novanta, quattro label. Con quali motivazioni e finalità le fondasti?
Tutto nacque dalla mia voglia di creare e dalla fortuna di poter confrontarmi con tanti produttori coi quali avevo stretto rapporti di lavoro e di amicizia. Dietro le mie prime produzioni non c’erano grandi ambizioni e velleità ma col tempo ho imparato ad investire, anche economicamente, sui progetti più concreti. La visibilità che riuscivo a garantire a ciò che facevamo in studio ha influito positivamente sull’evoluzione dell’idea e contribuì ad ampliare il regime produttivo. Questo avvenne anche grazie alle collaborazioni instaurate con negozi londinesi e coi top producer britannici che prestavano molta attenzione ai prodotti che giungevano dalle mie etichette.

Le tue etichette, ossia Tuscania Movement, Noise From West Records, Nut In Bag Records e Minus 8 Records, abbracciavano un range musicale piuttosto vario, dalla house alla progressive trance. Puoi raccontare qualcosa in merito su ognuna di esse?
La Tuscania Movement è diretta discendente di un progetto che creai con Gianni Bini (intervistato qui, nda) e che giunse sul mercato proprio con quel nome nel ’93 attraverso la Informal Records di Andrea Gemolotto, Leo Mas e Fabrice. L’attività prese presto il largo grazie a successi e remix vari, ma l’impegno col negozio mi obbligò a lasciare tutto nelle mani di Gianni e Fulvio Perniola che cambiarono nome dando avvio ai Fathers Of Sound. Un paio di anni più tardi chiamai l’etichetta Tuscania Movement proprio in ricordo di quella esperienza e perché, di fatto, rispecchiava il sound house prodotto qui in Toscana. La Noise From West Records era invece di matrice techno e il nome sembrò più che appropriato per la nostra collocazione geografica. La Nut In Bag Records era destinata a progetti “ibridi” ed infine la Minus 8 Records raccoglieva brani con bpm molto bassi, destinati ai DJ che solitamente si occupavano del warm up nei locali. Dopo la chiusura del negozio creai la Beside Music per la gestione editoriale e del catalogo.

06 - T-Move Experience - Running In Real Time
“Running In Real Time” dei T-Move Experience, uno dei brani di punta del catalogo Tuscania Movement

“Running In Real Time” dei T-Move Experience, uno dei progetti che condividi con Stefano Marinari e di cui parliamo qui, resta senza dubbio uno dei capisaldi della tua discografia. Ad interpretare il brano, cover dell’omonimo dei Passport, è la fittizia Jody Moore, personaggio dietro cui si cela la voce di Giada Masoni e l’immagine di Stefania Di Stefano che da lì a breve inizia ad affiancare Mario Più come More. Perché in Italia si continuava ad alimentare il cosiddetto segmento delle “ghost singer”? Cosa ne pensi a riguardo di tale modus operandi (analizzato in questa inchiesta) e cosa rispondi a chi, a distanza di qualche decennio, accusa tanti produttori di essersi presi gioco dei propri fan?
Era una pratica ancora abituale in quegli anni. Molte voci erano di turnisti e turniste che non volevano o non potevano, per motivi contrattuali, prestare l’immagine a più etichette. Fondamentalmente nessun produttore si poneva il problema, l’importante era “macinare” produzioni. I featuring si usavano spesso per i prodotti house in cui le parti vocali arrivavano prevalentemente dall’estero e quindi non erano legate a particolari vincoli, ma in Italia ognuno era geloso delle proprie “voci” e per questa ragione circolavano stringenti contratti di esclusiva che non sempre appagavano gli artisti. Credo che gli stimoli fossero comunque talmente forti da andare oltre ogni polemica, e i quesiti legati al dietro le quinte alla fine non hanno fatto altro che accrescere ulteriormente l’interesse intorno ai brani e ai progetti coinvolti.

Tra ’96 e ’97 le tue etichette si uniscono in una partnership con la Media Records che ne cura il marketing: come nasce la sinergia col gruppo bresciano di Gianfranco Bortolotti?
Tutto iniziò durante un pranzo con Gianfranco Bortolotti e Diego Leoni, su invito di Mario Più che aveva da poco iniziato a collaborare con la Media Records. Forte dei numeri che stavo facendo con le mie etichette (si parla di 10.000, 15.000 e 20.000 copie a titolo), non fu difficile arrivare ad un accordo. L’affare era vantaggioso per entrambe le parti, considerando che da quel momento la Media Records avrebbe incassato anche i diritti editoriali del mio catalogo. Il punto di forza di quella partnership fu sicuramente l’intesa stretta dal primo contatto e la condivisione di progetti per il futuro che ai tempi includeva l’espansione al mondo digitale, settore in cui la Media Records era già preparata e particolarmente avanti rispetto ad altri competitor.

07 - busta 1998
Una busta del Dee Jay Doc risalente al 1998, quando il negozio si trasferisce da Ponsacco alla vicina Pontedera

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare le vendite e il fatturato?
I primi problemi sorsero nel 1998, dopo la chiusura amministrativa di vari locali techno in Toscana. I centocinquanta/duecento clienti fissi divennero improvvisamente cinquanta/sessanta. Purtroppo la mia struttura era tarata per un certo volume di affari visto che contava sul negozio a Ponsacco (trasferito proprio nel 1998 a Pontedera, in Via Montanara 13/15), l’ufficio a Londra, quattro dipendenti, lo studio di registrazione, affitti ed altro. Il fatturato calò del 60% circa ma purtroppo le spese rimasero invariate. Dopo un paio di anni di sofferenza chiusi i battenti.

Fu una decisione sofferta porre fine all’avventura del Dee Jay Doc?
Non immagini quanto! Misi un cartello sulla saracinesca con su scritto “chiuso per ferie” ma sapendo che in realtà non avrei più riaperto. Per un anno mi dedicai ad altri lavori trasferendomi all’estero ed interrompendo ogni contatto che avevo col mondo della musica per evitare il continuo sentimento di rammarico. Tutto quello che creai in circa dieci anni si era disintegrato in un solo colpo.

Ci fu qualcosa in particolare ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Per quanto riguarda il caso specifico del mio negozio, senza dubbio ad invertire la tendenza fu lo stop delle più importanti discoteche toscane che, di conseguenza, ridusse l’intero indotto degli appassionati. Ho solo sfiorato l’avvento del digitale che, dopo il 2000, ha inferto il colpo di grazia al comparto della vendita dei dischi in vinile.

Riusciresti ad indicare, in termini economici, l’annata più fortunata e quella meno?
Il 1993 sicuramente fu l’anno più redditizio. Il peggiore invece il 1998 visto che, come dicevo prima, segnò un crollo verticale del fatturato.

Pensi che in futuro ci sarà ancora spazio per i negozi “fisici” di dischi?
Certo, è possibile, ma chiaramente con criteri assai diversi rispetto al passato. Importantissimi risulteranno il grado di competenza e l’esperienza di chi potrà dedicarsi ad uno dei mestieri più belli di sempre. Il cliente percepisce tutto questo e viene conquistato dal suo “consigliere”.

Cosa c’è adesso al posto del Dee Jay Doc, al 49 di via Nazario Saurio a Ponsacco?
Lo studio di un commercialista.

Quali sono le prime cose che ti vengono in mente ripensando al tuo negozio di dischi?
Le notti insonni durante l’attività e la stima che hanno riposto in me i clienti, senza dimenticare i pomeriggi passati insieme a centinaia di artisti: ricordi indelebili della mia vita.

(Giosuè Impellizzeri)

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Mauro Tannino – DJ chart gennaio 1997

DJ: Mauro Tannino
Fonte: DiscoiD
Data: gennaio 1997

1) The Arc – Vol. 3
Del misterioso progetto tedesco The Arc, formato nel 1995 da Bernd Hollinger ed Oliver Linge, la Rete non ci consegna molto a parte le coordinate basiche di Discogs. In soccorso viene Linge che, contattato per l’occasione, racconta: «Incontrai Bernd all’Università di Francoforte dove studiavamo entrambi alla facoltà di Economia. Un giorno scoprimmo di condividere la passione per la musica elettronica. Lui aveva iniziato da poco ad allestire uno studio di registrazione casalingo e così, tra un esame e l’altro, cominciammo a buttare giù le idee per i primi brani. Io avevo già maturato qualche piccola esperienza nel settore discografico visto che nel ’93, insieme all’amico Olaf Pozsgay, incisi prima “Universe” per la Dance Ecstasy 2001 (incluso in “4 Sale!” di Headshop, nda) e poi “The Tempodrom” di Tempodrom per la Frankfurt Beat Productions. Decidemmo di lanciarci in quell’avventura fondando persino una nostra etichetta, la Crystal. Ad aprire il catalogo furono “Visions Of Tomorrow / Fruitsalad” di Hybris, un progetto che creai col citato Pozsgay (a cui segue, poco dopo, “Drop Zone” di Susuki L.T.D., nda), e “Grey Matter / Adamus” di The Arc. Quest’ultimo fu il più fortunato: nonostante fossimo totalmente sconosciuti, vendemmo circa tremila copie. Il pezzo trainante era quello inciso sul lato a, “Grey Matter”, in cui inserimmo un lungo spoken word di William S. Burroughs abbinato ad un bassline dark ispirato dai set di DJ Dag che sentivamo ai tempi. La seconda uscita di The Arc, intitolata “Vol. 2”, purtroppo non eguagliò le vendite della prima ma ci fece guadagnare comunque il rispetto della scena e numerose recensioni positive su riviste musicali di settore soprattutto grazie alla traccia “Echo Beach”. Sul 12″ finirono due versioni: l’Original arrangiata con Cubase, e la Live Mix realizzata in modo estemporaneo in studio, attivando e silenziando i canali del mixer senza un disegno prestabilito. Poiché l’automazione MIDI non esisteva ancora, fummo costretti a girare manualmente le manopole dell’equalizzatore parametrico del mixer e registrare dal vivo tutti i movimenti dei filtri. Artificioso ma dannatamente divertente! Il “Vol. 3” non riscosse molti consensi ma rammento una entusiastica recensione in cui venne paragonato ad una hit del passato. Per incidere la nostra musica usavamo varie macchine Roland (TR-606, TR-808, TR-909, SH-101, Alpha Juno-1, Jupiter-8, TB-303), un Minimoog ed altro ancora che non ricordo più». Il “Vol. 3”, scelto da Tannino, contiene “Just What You Want” e “Facts Of Life” con cui i due tedeschi danno prova di essere bravi programmatori di beat quanto validi intagliatori di onde acide. I presupposti per proseguire ci sono ma il nome The Arc si dilegua misteriosamente dai radar. «Quando completammo gli studi universitari iniziammo a lavorare non riuscendo a trovare più il tempo necessario da dedicare alla composizione di musica» spiega Linge. «Nel ’96 Bernd incise, sempre per la Crystal, “Eonlux”, attraverso cui raccolse nuovi ed appaganti riscontri, specialmente dall’Italia come ci disse qualcuno allora. Purtroppo dopo poco tempo lo persi di vista». Il nome The Arc viene riesumato nel 2000 dalla britannica Pied Piper che ripropone “Echo Beach” attraverso un nuovo remix degli Yekuana. «Secondo i ragazzi della Pied Piper, quel pezzo era una specie di hit underground nei club d’oltremanica e in virtù di ciò lo ripubblicarono, a cinque anni di distanza dall’originale, aggiungendo una nuova versione» conclude Linge. A differenza di Hollinger che si defila del tutto dalla scena discografica, Linge prosegue per qualche altro anno affiancato da Pozsgay col quale darà avvio a nuovi progetti-tandem come Skinner e Daktari, quest’ultimo avvalorato da un remix di Chris Liebing.

2) Abe Duque – The Blunt EP
Questo EP è uno dei primi che Carlos Abraham Duque Alcivar firma come Abe Duque. Edito dalla Sonic Groove di Adam X, si muove su quattro tracce di techno spiccatamente circolare. Dai reticolati ritmici di “Dumb” all’ipnotico estremismo di “Stupid”, dalle patch liquefatte di “Toy” alle sponde distorte di “Boy”. Il tutto prodotto nel suo studio, il The Cave Super Studios a New York, da dove uscirà, in futuro, pure “NY Muscle” di DJ Hell.

3) Oracle 9000 – Running With The Devil
Oracle 9000 è uno degli svariati pseudonimi dietro cui si cela l’allora prolificissimo Alfredo Violante, italiano trapiantato nella capitale britannica ed intervistato qui. Il disco esce sulla sua Supernova Records, autentico crocevia di techno ed hard trance da cui giungono discrete club hit come “Numera Stellas” di Solaris e “Life Is So Realistic” di Moogability. Violante, che nel ’96 penetra anche nel mainstream italiano con “Guitara Del Cielo” di Barcelona 2000, è ancora attivo ed intento a riportare in vita il progetto Supernova. Recentemente si è impegnato nel digitalizzare parzialmente il catalogo della Supernova Records rendendolo disponibile su Bandcamp seppur al momento alcune pubblicazioni siano ancora irreperibili proprio come “Running With The Devil”.

4) Kinetico – Voltage
Come il sopramenzionato Violante, Pablo Gargano o Cricco Castelli, giusto per citarne alcuni, Massimo Vivona è uno degli italiani che negli anni Novanta trovano più fortuna all’estero che in patria. Di origini siciliane, si costruisce una solida reputazione incidendo dischi in primis sulla propria Headzone ma anche su altre, come la Fax +49-69/450464 del compianto Pete Namlook a cui destina vari progetti (Gorn, Gamma, Xenon, Elevator). L’attività produttiva è tale da necessitare una moltiplicazione dell’identità attraverso vari pseudonimi come Kulprit, Luke Cage e Kinetico, quest’ultimo sviluppatosi su un’etichetta parallela alla Headzone, la Ground Groove. “Voltage” è un rullo compressore che avanza su scambi melodici filo goa e dilatazioni acide, accoppiata che contraddistingue buona parte della produzione vivoniana di quel periodo.

5) Mauro Tannino – Psycho Bubble
Tannino è tra i primi a gettare le fondamenta del movimento poi identificato “Sound Of Rome”. Come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, «dopo aver vissuto con Lory D l’esperienza di alcuni rave britannici, i due riportano lo stesso spirito a Roma coinvolgendo Chicco Furlotti, organizzatore della scena dance capitolina sin dagli anni Settanta (e fondatore della Male Productions/Male Records, che tiene a battesimo il progetto The True Underground Sound Of Rome, nda). Lory D e Mauro Tannino suonavano techno, electro, new beat, freestyle, breakbeat e quanto di più nuovo ci fosse in giro. La loro bravura non consistette solo nel far ascoltare nuove sonorità ma nel coinvolgere e convincere organizzatori, promoter ed altri operatori del settore musicale a seguire quella linea».

Le prime produzioni di Tannino
In alto i primi due dischi di The Underground Sound Of Rome, prodotti nel 1991 da Mauro Tannino, Stefano Di Carlo, Stefano Curti e Leo Young per la Male Productions (“Secret Doctrine” viene ripubblicato, su licenza, dalla UMM nello stesso anno); in basso “Night Passage” di 49th Floor, il 12″ con cui la Vibraphone Records debutta nel 1992

Un personaggio che, come Furlotti, è molto vicino a Tannino in quel periodo è Stefano Curti che, contattato pochi giorni fa, racconta: «Tornai a Roma nel 1988 dopo aver trascorso quattro anni a Londra. Venivo da esperienze immerse nel post-punk ed elettronica e stavo iniziando ad interessarmi al suono techno di Detroit. Andavo spesso al mitico Devotion dove conobbi il DJ resident, Paolo Di Nola (intervistato qui, nda) al quale chiesi se conoscesse qualcuno interessato a fare produzioni di house music ma non commerciali. Paolo mi parlò di Mauro Tannino e Stefano Di Carlo. Ci incontrammo trovandoci immediatamente d’accordo sul sound da sviluppare ovvero ritmi e suoni fortemente influenzati dallo stile di Detroit ma con melodie ed armonie mediterranee. Le prime cose che facemmo furono i due EP di The True Underground Sound Of Rome, “Clouds / Interface” e “Secret Doctrine”». Il nome di Tannino è legato a doppio filo alla label che Curti lancia nel 1992, la Vibraphone Records, diventata un’etichetta di culto nonostante le appena sette pubblicazioni uscite sino al ’93 e in cui Tannino è sempre presente. «Essendo l’unico DJ nel team di produzione della Vibraphone, Mauro divenne il nostro punto di riferimento per essere costantemente aggiornati sulle produzioni che contavano» prosegue Curti. «Il suo ruolo era farci sentire dischi che gli piacevano e fornire suoni e battute da campionare, anche da pezzi non necessariamente house. A ciò si aggiungeva il compito di controllare sempre che arrangiamenti e strutture dei brani fossero finalizzati alla scena club. Per tali ragioni in tutto il catalogo della Vibraphone sono presenti la sensibilità e lo spirito di Mauro ma la traccia che le sintetizza in modo più spiccato credo sia “Cyclops”, dal secondo disco di Minimal Vision del 1993, un brano con struttura minimale ciclica e molto spirituale. All’inizio vendevamo circa mille copie ad uscita. Solo a posteriori ci siamo accorti che l’apprezzamento per le nostre produzioni di allora stesse crescendo. Ciò conferma che un prodotto concepito con una certa purezza sia destinato ad essere valorizzato col passare del tempo. Ad ottenere i migliori riscontri fu probabilmente “Night Passage” di 49th Floor, il primo che pubblicammo. Calcolando anche le recenti ristampe direi che “The Bermuda Triangle” del progetto omonimo e Minimal Vision possano essere considerati i bestseller. Il meno fortunato invece resta “For The Love Of People” di The Elements. Trent’anni fa, ad incidere sulla riuscita di una produzione discografica era essenzialmente il supporto dei DJ di punta ma altrettanto determinanti potevano risultare i passaggi radiofonici su importanti emittenti, come ad esempio la londinese Kiss FM che programmò a raffica 49th Floor. Varie necessità, sia stilistiche che pratiche, mi convinsero però a sospendere l’attività della Vibraphone nel 1993. Si guadagnava davvero poco. Gli inediti rimasti nel cassetto sono stati utilizzati nelle recenti ristampe come bonus track». Nel 2015, dopo oltre un ventennio di assenza, prende avvio la “seconda vita” di Vibraphone Records, rivelatasi più costante e prolifica rispetto alla prima. Ad oggi si contano infatti ventuno uscite in cui si alternano ristampe ad inediti. Sarebbe bello poter far ascoltare a Tannino uno dei nuovi pezzi pubblicati. «Gli farei sentire almeno due brani» incalza Curti. «“Tanna”, scritto da Stefano Di Carlo e a lui dedicato, perché solare e sognante proprio come era il suo sound, e “Whispering Galleries”, scritto e prodotto da me, Di Carlo e Mauro Ruvolo, molto minimale e spirituale, una dimensione che lui apprezzava parecchio. Il primo lo abbiamo usato come bonus track nella ristampa di “The Bermuda Triangle” del 2015, il secondo invece figura nell’EP “Liquid Time” di The True Underground Sound Of Rome del 2016. Continuo a ricordare Mauro sempre carico al massimo, sorridente e scherzoso. Un vero raggio di luce».

Tannino @ Underground Club
In alto Mauro Tannino in consolle all’Underground Club di Roma, tra 1992 e 1993, in basso un flyer del locale ideato da Chicco Furlotti ed Enzo Iannuzzi

Tra il 1992 e il 1993 Tannino diventa il DJ dell’Underground Club, un locale ricavato nelle sale più interne del ristorante Le Grotte Di Costantino ed allestito in vere grotte naturali risalenti ai tempi dell’antica Roma. Ad idearlo sono il citato Chicco Furlotti ed Enzo Iannuzzi, proprietario del medesimo ristorante. Come si legge in un pubbliredazionale apparso sulla rivista Discotec a febbraio 1993, «il club sorge nelle viscere della terra e mette in evidenza la bellezza delle grotte, apprezzabile solo da un pubblico ristretto a causa della limitata capienza […]. Furlotti e il team della Male Productions sono alla continua ricerca di forme spettacolari di attrazione da proporre ad un pubblico sempre più esigente. I giovani sanno che qui possono capitare in avveniristiche serate-test utilizzate dal prolifico e qualitativo DJ Mauro Tannino per sondare sul campo l’efficacia delle sue frequenti nuove pubblicazioni». Discograficamente, le inclinazioni di Tannino sono piuttosto eterogenee ma accomunate da una vena melodica che acquista intensità e colori diversi a seconda dei team di produzione a cui prende parte. Se negli svariati progetti promossi tra 1992 e 1993 dalla Vibraphone Records di Stefano Curti punta a soluzioni tendenzialmente vicine alla deep house dalle tinte jazzistiche, attraverso la sinergia stretta con Stefano Di Carlo su Synthetic (si sentano tracce come “Vega”, “Terminal Velocity” – racchiuso in una copertina che evidenzia le sue acrobazie in cielo -, “Odissea”, “Domus” o “Nice Trip” – queste ultime due licenziate in Belgio dalla DiKi Records, quella di Age Of Love) si assiste alla formulazione di un suono più squadrato ed imparentato con la progressive trance / dream che in Italia vive un momento di eclatante popolarità tra 1995 e 1996. In solitaria le cose si evolvono ulteriormente. Abbandonando le sperimentazioni connesse al meticciato house/techno e le movenze romantiche e dolciastre della parentesi prog, Tannino imbocca un sentiero stilistico inchiodato ad una techno più rumorosa su cui insistono ossessivamente vortici acidi. È quanto avviene in “Psycho Bubble”, disco che nel 1996 apre il catalogo della sua Free Fly Record, etichetta che elabora musicalmente uno schema fisso a cui l’autore applica possibili varianti analogamente a quanto avviene nell’omonima disciplina del paracadutismo sportivo nata poco tempo prima e a cui Tannino aderisce con entusiasmo, il freefly per l’appunto. Le tre versioni del brano, codificate con un numero progressivo, derivano dalla medesima idea modulata di volta in volta con accortezze formali marginalmente differenti. “Free Fly” è pure il titolo di un suo brano che nel ’98 confluisce nell'”Overload EP”, sulla bergamasca Ipnotika, con tracce di colleghi come Massimo Cominotto, DJ Vortex ed Alberto Visi. Alla Free Fly Record, legata ad appena tre uscite, dal 1997 si affianca una seconda etichetta, la Killer Clown Records, che Tannino fonda insieme a Cristiano Balducci di cui parliamo qui. Sulle copertine dei tre 12″ editi da Free Fly Record (dopo “Psycho Bubble” tocca a “Zebresque” e “Sky Ball”) si rintraccia un indirizzo email, falsini@rdn.it. Chi, ai tempi, possiede un computer collegato in Rete attraverso un modem a 56k, avrebbe potuto usarlo per mandare un messaggio. A rispondere sarebbe stato Franco Falsini, intervistato qui, che oggi racconta: «Oltre all’indirizzo email, su quei dischi c’erano i numeri di telefono di Mauro e di Stefano Di Carlo che in quel periodo si era stabilito a Londra. Prima dell’avvento di internet, il telefono era il mezzo di comunicazione più veloce che si poteva disporre. Un giorno, proprio con una telefonata, Mauro mi fece i complimenti per una mia produzione di quel periodo al cui interno c’era la traccia “The Beginning Of An Idea” (si trattava del doppio “Open Space”, nda), uno degli ultimi dischi su Interactive Test ormai priva di logo. Attraverso quello stesso indirizzo email comprai i Kara Fonts pagandoli con carta di credito. Era l’unico modo per accaparrarsi font intriganti da usare sulle copertine dei dischi. I rapporti con Tannino iniziarono già diversi anni prima (tra i ringraziamenti su “Terminal Velocity”, ad esempio, c’è anche Open Space) ma faccio fatica a ricordare il momento esatto in cui le nostre strade si incrociarono. Mauro era molto amico sia di mio fratello, Riccardo, sia del gruppo Ashram guidato da Bettina Ciampolini. Pensare a lui mi riporta alla memoria le serate in cui abbiamo condiviso la consolle come quelle organizzate dalla Male Productions di Chicco Furlotti o quelle dei fratelli Serafini e di un altro personaggio di cui rammento solo il nome, Cesare. Lo 06, il Palladium e l’Arabesque erano i locali romani in cui ci siamo visti più volte, tutti posti in cui Mauro era davvero amatissimo. Ricordo anche il suo cane di taglia extralarge che portava ovunque utilizzando un box talmente grande da entrare a malapena nella Volvo Station Wagon. Era il suo compagno inseparabile, anche quando faceva i lanci col paracadute. Mi raccontò che a tutti gli atterraggi il cane arrivava sul posto esattamente nello stesso momento in cui metteva piede a terra. Mauro era un provetto paracadutista, aveva fatto corsi di lancio acrobatici con un gruppo molto accreditato di Skydive in Arizona, dove aveva soggiornato per un po’ di tempo. Mi diede anche un VHS che sto cercando di ritrovare in cui vennero immortalate varie imprese. Quel team nutriva una grande ammirazione nei suoi confronti al punto da chiamarlo The Wizard. Per capirne le ragioni bastava guardare qualche frame di quei video. Nei primi mesi del 2000 partecipò all’evento Skydive America organizzato a Palm Beach, in Florida. Come si legge qui, si piazzò settimo nella disciplina Atmosphere Dolphin Challenge. Era particolarmente spericolato e una volta venne a suonare al centro sociale L’Indiano, a Firenze, con un piede ingessato. Motivo? Si lanciò senza scarpe e l’impatto col terreno fu piuttosto violento. Tuttavia non mostrò alcun segno di sofferenza, mise sul piatto “The Age Of Love” e mi guardò sorridendo. Un giorno eravamo intenzionati a produrre qualcosa a quattro mani ed andammo nello studio in cui Mauro aveva realizzato molte delle sue produzioni. Una volta arrivati però trovammo il proprietario impegnato a riparare (invano) un hard disk difettoso. Adiratosi per gli scarsi risultati, lanciò quel pezzo di computer come un sasso sul muro. Visto il clima non proprio idilliaco, rimandammo la session che però il destino non ha più reso possibile. Quel maledetto 12 agosto del 2000 appresi della sua tragica scomparsa leggendo le pagine di Repubblica mentre mi trovavo a casa di Elisabetta che si occupava delle grafiche di Interactive Test».

Nessuno sa come si sarebbe evoluta la carriera e la musica di Tannino. Di lui restano decine di produzioni discografiche, alcune delle quali ristampate e rivalutate negli ultimi anni, ma pure infiniti ricordi di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo. Come scriveva Dario Olivero sulle pagine di Repubblica all’indomani della sua dipartita, «è difficile stabilire cosa sia successo. Mauro era un esperto, aveva fatto migliaia di lanci di quel tipo, era famoso a livello internazionale, sapeva il fatto suo. I suoi amici possono solo fare ipotesi su quanto sia avvenuto in quei 4.500 metri di caduta. Un incidente, un imprevisto in quella terra di nessuno che sta tra le leggi della fisica e il fattore umano. Un rischio che corre chiunque decide di sfidare il cielo». Tannino amava il paracadutismo almeno quanto la musica. Il sole del 12 agosto 2000 però è fatale e scioglie le sue ali. È l’ultimo volo per il mago.

6) Aquaplex – System
Prolifico team tedesco, gli Aquaplex capeggiati da Andreas Krämer si ritagliano una discreta popolarità anche dalle nostre parti dove l’acid trance vive una fase particolarmente fortunata tra 1995 e 1997 circa. “System” riprende il discorso di “Instinct” uscito pochi mesi prima: sciabolate di TB-303 affettano serrati beat di estrazione techno/hard trance (“Atmosphere”), concedendosi break e ripartenze issate da rullate (“Spirit”, una specie di “Acid Phase” o “Spherique” di Emmanuel Top ma in chiave più pumpin’). La traccia scelta da Tannino però è quella incisa sul lato b, “Victim”, un crescendo metallurgico che limita gli interventi acidi a favore di una spinta ritmica edificata sugli incastri.

7) Spinning Atoms – Enhanced Velocity
“Enhanced Velocity” è l’ultimo disco inciso dai belgi Spinning Atoms dopo “FF-Wind” e “Sub-Set”, entrambi del ’94. Le tre tracce incise sul 12″ partono dalla lezione dei decani di Detroit (“Summer School”), pigiando progressivamente il pedale dell’acceleratore (“Your Flexible Friend”) sino ad una estremizzazione che tocca l’apice con “Bubble Memory”, dove il telaio ritmico è dopato e i suoni si trasformano in un autentico vortice aspiratutto. Il brano verrà poi minimalizzato nel remix dei britannici Creeper (Chris Liberator e D.A.V.E. The Drummer), inciso su un doppio finito nel catalogo Prolekult.

8) Jakyro – Joy Full Noise
Inclusa nel primo disco che Joy Kitikonti incide per la Media Records, come lui stesso racconta qui, “Joy Full Noise” è una traccia con atmosfere trancey avvitate su una spirale acida. Il break centrale di impostazione cinematografica serve a prendere fiato prima di continuare la corsa. Sul disco, pubblicato dalla Underground, trova spazio pure il rifacimento in chiave progressive trance di un classico di John Carpenter, “Assault On Precinct 13”, rivisto in tre versioni.

9) Lochi – London Acid City
Nel ’96 i Lochi (Chris Liberator e Lawrie Immersion, tra le eminenze dell’acid techno d’oltremanica) incidono un brano che suona come una spassionata dichiarazione di intenti. “London Acid City” fa pulsare pneumaticamente il cuore degli aficionados di un filone stilistico che sembra voler riportare in auge il clima dei rave party organizzati nelle periferie del Regno Unito ma con un piglio più agitato, come a volersi beffare delle severe restrizioni thatcheriane. Il pezzo trova spazio nel doppio mix che apre il catalogo della Routemaster Records e l’anno dopo, trainato da un remix di Jon The Dentist, gode di una diffusione più capillare grazie ad una manciata di importanti licenze messe a segno in Europa (in Germania e in Spagna, rispettivamente sulla Tetsuo di Talla 2XLC e sulla Made In DJ del gruppo Blanco Y Negro). Nuove versioni (Acid House Remix, Minimal Techno Mix, 2006 Remix) giungono nel 2006 per festeggiare il decennale.

10) Fred Fresh – Logical Grooves
Pubblicato dalla Hybrid, l’etichetta svedese di Cari Lekebusch costretta a cambiare nome in H. Productions a causa dell’omonimia col gruppo britannico di Mike e Charlotte Truman, “Logical Grooves” si sviluppa su tre pezzi privi di titolo. La A1 evoca atmosfere spettrali di una ipotetica Detroit abitata da zombie che prendono il sopravvento dopo la crisi del settore legato ai motori, la A2 tira dentro l’acid insieme a beat di quella che parrebbe una TR-909 programmata a braccio ed infine la B si incammina in un corridoio di ossessivo minimalismo. Fresh, nativo di Minneapolis, è un vero virtuoso del 303 style, filone a cui fornisce la propria prospettiva attraverso una moltitudine di pubblicazioni firmate con altrettanti pseudonimi e destinate a svariate etichette anche di sua stessa ideazione come Electric Music Foundation, Analog Records USA ed Howlin’ Records.

(Giosuè Impellizzeri)

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Eta Beta J. – On The Road (From “Rain Man”) (S.O.B.)

Eta Beta J - On The Road (From Rain Man)L’affermazione commerciale della progressive iniziata nell’autunno del 1995 e protrattasi per tutto il 1996 e parte del 1997, si è consolidata attraverso l’uso di elementi distintivi come basso in levare e suoni acidi ottenuti col BassLine Roland TB-303, ma anche in virtù di apparati melodici frequentemente attinti da temi cinematografici. Da “Profondo Rosso” di Flexter (già riadattata dai City Center tra 1983 e 1984 in chiave italo disco) a “Metropolis (The Legend Of Babel)” di DJ Dado, da “L’Arcano Incantatore” di Prophecy (di cui abbiamo parlato qui) a “Phenomena” di Argento, passando per “Notre Dame (S’Aggira S’Aggira)” dei K.R.T., “L’Ultima Profezia” di Nostradamus, “Braveheart” dei Q-Base (ma a valorizzare con più fortuna la melodia di James Horner saranno, pochi mesi più tardi, i tedeschi Sakin & Friends di cui si parla nel dettaglio qui), “L’Ultimo Dei Mohicani” di Arkimed e “Love Theme” di Oliva Project. La BMG Ricordi realizza persino una compilation fondata su questo concept, “Movie Dance”, a testimonianza di come quella parentesi di musica strumentale, scarsamente indicata al segmento mainstream sino a poco tempo prima, abbia vissuto un momento di autentico protagonismo.

Alla popgressive, così come quel contenitore potrebbe essere definito a posteriori per evidenziarne le componenti pop(olari), aderisce anche il team degli Eta Beta J., formato da Albino Barbero, Tiziano Romanello e Pietro Caiazzo. Barbero è il primo dei tre a fare ingresso nel mondo discografico, sin dai tempi dell’italo disco, proseguendo poi con l’house music e l’eurodance mediante collaborazioni sparse su varie etichette come Media Records (J. Cap), Time Records (Etoile), Propio Records (Sexilia, Babooshka) ed Energy Production (Gitanica, Namby Pamby), giusto per citarne alcune. «Io invece iniziai a fare il DJ nel 1992» racconta oggi Caiazzo. «Qualche anno più tardi, intorno al 1995, cominciai a collaborare in studio con Romanello e Barbero. Arrivavo dalla discoteca Sandokan di Gravellona Toce dove proponevo musica progressive ad una clientela fatta in prevalenza di ventenni. Con Tiziano condividevo la passione per il DJing e fu proprio lui a darmi la possibilità e la fortuna di conoscere Albino, entrando a far parte del gruppo».

Gli Eta Beta J. appaiono nella primavera del 1996 quando la progressive viene sdoganata su tutto il territorio nazionale anche per merito del successo della Dream Version di “Children” di Robert Miles di cui abbiamo parlato qui. «Il progetto nacque da un’idea embrionale di Tiziano poi completata grazie al contributo di tutti e tre» spiega ancora Caiazzo. «Optammo per quel nome dai rimandi disneyani perché, banalmente, nello studio di Albino c’era un fumetto di Topolino». Il singolo di debutto è “On The Road (From “Rain Man”)”, rilettura progressive trance del brano scritto da Hans Zimmer (artefice di una delle prime tracce house prodotte nel Regno Unito, come illustrato minuziosamente in questo reportage) per la colonna sonora del film “Rain Man – L’Uomo Della Pioggia” del 1988, che affronta in tempi non sospetti il tema dell’autismo. Gli elementi della popgressive ci sono davvero tutti: basso in levare, ghirigori acidi, voci robotiche ma specialmente la linea melodica che rende il tutto proponibile in radio. Non a caso tra i primi a supportare il brano è Molella nel programma Molly 4 DeeJay (a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui), in quel periodo all’apice del successo. Il noto disc jockey di Radio DeeJay inserisce il pezzo, promosso Disco Makina a metà aprile, anche nella “Molly 4 Dee Jay Compilation” diventata il manifesto della stagione più fortunata e popolare del suo programma radiofonico. Sul lato b del disco invece “Eternal Dream”, composto sulla falsariga di “Moon’s Waterfalls” di Roland Brant che in quei mesi si sente davvero ovunque, e “The Second Dimension”, derivata dalla stessa idea della main track ma con l’aggiunta di un pianoforte dream à la Robert Miles. «Realizzammo “On The Road (From “Rain Man”)” nel Rockhattle Studio di Barbero, a Cavallirio, con la famosa DAW di Steinberg, Cubase, avvalendoci di due storiche macchine Roland usatissime in quel periodo, TR-808 e TB-303» rammenta Caiazzo. «Il pezzo venne finalizzato in trenta ore circa. Decidemmo di far leva sulla colonna sonora di “Rain Man” perché allora riprendere melodie di film era diventato un po’ il trend imperante in Italia. Arrivammo alla S.O.B. del gruppo Dig It International (che in quel periodo utilizza come logo la ricolorazione del simbolo della Sega Saturn, nota consolle di videogiochi, nda) grazie alle conoscenze di Barbero che collaborava con tutte le etichette discografiche più in auge nel nostro Paese. L’A&R della S.O.B. era Max Moroldo della Do It Yourself: dopo aver ascoltato il pezzo fu subito entusiasta e decise di pubblicarlo. Non ci fu mai alcuna interferenza esterna, in studio ci affidavamo solamente alle nostre emozioni che Albino riusciva a trasformare in musica facendo leva su maestria e competenza tecnica. Grazie al determinante supporto di Molella e di Radio DeeJay, con cui non avevamo avuto alcun rapporto prima di quel momento, il disco andò benissimo, sia in Italia che all’estero, tra Francia, Spagna e Germania. Calcolando anche le compilation, oltrepassammo la soglia delle diecimila copie vendute».

Ziet'O

Francesco Farfa e Joy Kitikonti realizzano una cover del brano di Hans Zimmer nel 1993, pubblicandola su Area Records

Nel 1996 il mercato discografico della dance è ancora florido, seppur inizino ad intravedersi alcune flessioni nel comparto. Nulla di ancora seriamente preoccupante però, infatti le etichette continuano a stampare dischi a nastro continuo senza fare leva su particolari filtri selettivi. Il successo in ambito generalista della progressive, che negli anni precedenti è un fenomeno di scala regionale e dalle sfumature stilistiche diverse a seconda della collocazione geografica, fornisce la spinta cruciale e il mercato si ritrova, nell’arco di pochi mesi, completamente invaso da prodotti simili, alcuni creati persino su idee del tutto identiche. È il caso di “X-Files” di Mark Snow ripresentata sia da DJ Dado nell’omonimo brano, sia dal britannico Ian Anthony Stephens alias Trinity in “The Truth”, o della colonna sonora di “Mediterraneo” di Giancarlo Bigazzi, a cui si ispirano Fabrizio Risso per “Mediterraneo” e Gigi D’Agostino per “Fly”, seppur attingendo da temi diversi. Anche della stessa “On The Road (From “Rain Man”)” ne esistono più versioni. Già nel 1989, ai tempi dell’uscita del film nelle sale italiane, Riccardo Ballerini dà vita ad un remake downtempo come E.J. Robinson, registrato e mixato presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. A riprendere il brano di Zimmer sono pure Francesco Farfa e Joy Kitikonti nascosti dietro il nome Ziet-O in “Rain Main”, edito dalla loro Area Records nel 1993 e riproposto in nuovi remix nel 1996 (forse per contrastare gli Eta Beta J.?) firmati dal compianto Roby J e Raoul Corya. Sempre su Area Records, tra 1994 e 1995, escono “The Sheltering Sky” di Ziet-O, rifacimento del main theme composto da Ryuichi Sakamoto per l’omonimo film di Bernardo Bertolucci, da noi noto come “Il Tè Nel Deserto”, e “Theme From Terminator II” del citato Risso, questa volta all’opera sul brano di Brad Fiedel appartenente al film di James Cameron, proprio lo stesso tema che rielaborano gli Eta Beta J. come follow-up di “On The Road (From “Rain Man”)”.

Eta Beta J - Terminator 2 Theme

La copertina di “Terminator 2 Theme”, secondo singolo degli Eta Beta J. pubblicato ancora da S.O.B. nel 1996

Nella loro “Terminator 2 Theme”, ancora su S.O.B., si rincorrono echi dream ed una svirgolata di hoover style, riportato in auge da Commander Tom con “Are Am Eye?” giusto pochi mesi prima. Il tutto immerso in immancabili atmosfere cinematografiche. «Preferivo “Terminator 2 Theme” a “On The Road (From “Rain Man”)”» sostiene Caiazzo, «perché rispecchiava meglio la mia essenza di DJ progressive. Delle cover realizzate su Area Records però non ne conoscevo proprio l’esistenza, le ho scoperte attraverso questa intervista». Sul 12″ c’è anche un altro brano, “Synthetico”, allineato alla corrente mediterranean progressive che trova nella BXR del gruppo Media Records i principali portabandiera. Per il ritorno degli Eta Beta J. bisogna attendere il 1997 quando riappaiono, con l’acronimo E.B.J., sulla Sativa del gruppo Dipiù di Lino Dentico. “System Working” resta saldamente ancorato alla formula progressive trance che però inizia a perdere terreno in Italia. Sul lato b il trio piemontese scommette ancora su una cover, “The Last Of The Mohicans” di Ciarán Brennan, resa celebre da Mohikana in “I Will Find You” del 1993. «Proseguimmo come E.B.J. con l’intento di dare avvio a produzioni e remix meno commerciali» rivela Caiazzo. «Continuammo a puntare sulle cover cinematografiche perché le intuizioni precedenti ci portarono fortuna ma preferimmo cambiare etichetta per una scelta commerciale». Sempre nel 1997, per un’altra delle label del gruppo Dipiù, la Sonica Records, i tre realizzano il remix di “Acid Fly” di Brain 3 (il tedesco Michael Baur). Nel ’98 invece, spingendosi verso l’hard trance, coniano per Sativa un progetto nuovo di zecca, Synthex, che debutta con “Come Into My World” entrato in numerose compilation. Nonostante i positivi riscontri però quella resta un’apparizione one shot. «A determinare la fugacità di Synthex fu la scena commerciale del periodo che ormai stava rivolgendo l’attenzione altrove» prosegue Caiazzo. «A quel punto si sciolse anche il progetto Eta Beta J. perché ognuno di noi prese strade diverse. Io mollai le produzioni e mi dedicai alle serate come DJ, diventando resident a Le Cave di Vintebbio, in provincia di Vercelli, e al Mirage di Arona, in provincia di Novara. Quella svolta mi fece perdere i contatti con Albino e Tiziano. Di quegli anni ricordo con piacere ogni esperienza maturata ma soprattutto l’importanza che rivestivano le discoteche nel mondo della notte. Poco più tardi, nel 2001, appesi le cuffie al chiodo. Abbandonai quando i miei artisti di riferimento erano Mario Più e Mauro Picotto. A distanza di quasi venti anni però sono tornato ad interessarmi di musica seguendo con particolare attenzione Armin van Buuren e la scena psy trance. Sono coinvolto inoltre in serate revival, precisamente quelle del format “Gli Anni 90” che coprirà tutto il centro e il nord Italia grazie al supporto dell’agenzia Jam For Live». (Giosuè Impellizzeri)

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Joy Kitikonti – Joyenergizer (BXR)

Joy Kitikonti - JoyenergizerQuando negli anni Ottanta la soglia d’accesso alla tecnologia per la composizione musicale si abbassa, si innesca un processo creativo che sfida le convenzioni. La nascita dell’electro, della new wave e dell’italo disco prima, della house e della techno poi, decreta una nuova era. Queste ultime due, in particolare, sono musiche che mandano in frantumi tutte le norme e generano una nuova figura professionale che prima non esisteva, quella del DJ-produttore, un attento conoscitore di musica, bravo a captare nuove tendenze e nel contempo capace di mettersi alla prova sul piano compositivo senza dover necessariamente chiedere sostegno ai musicisti ma soprattutto senza che l’inabilità di leggere il pentagramma e suonare uno strumento tradizionale sia più un limite oggettivo.

La musica che nasce sul crocevia tra sintetizzatori, batterie elettroniche e campionatori, è (s)travolgente. Può essere terribilmente banale o esageratamente efficace, ma al di là della resa il fattore a renderla unica è il poter essere approntata anche tra le mura domestiche. Paradossalmente molti suoni che lasciano scorgere il futuro non provengono affatto da studi di incisione iper milionari bensì da meno affascinanti home studio allestiti in camere da letto, cantine o persino polverosi garage. Sono tantissimi quindi i DJ che si cimentano in produzioni, allestendo alla meno peggio studi casalinghi fatti di pochissime cose, l’essenziale da cui tirare fuori il meglio. A provarci è anche Massimo Chiti Conti, meglio noto come Joy Kitikonti, che oggi racconta: «Quello sì che era un bel periodo. Era tutto in fermento. Facevo il DJ già da qualche anno, dal 1984 per l’esattezza, e nei primi Novanta decisi di creare un home studio per avere tutto a portata di mano e buttare giù le continue idee che mi venivano in mente. Ai tempi andare negli studi super professionali costava un occhio della testa quindi chi era motivato e non aveva denaro a sufficienza doveva arrangiarsi in qualche modo. C’era voglia di cambiare, di sperimentare, e non importava affatto essere musicisti diplomati al conservatorio. Ciò che contava, invece, erano la fantasia e la passione. Il mio primo studio si trovava a casa dei miei genitori, in un seminterrato. Tolsi i tavoli per le cene coi parenti e aggiunsi mixer, tastiere, monitor e il caro e vecchio Atari 1040ST con Cubase. Sento ancora l’odore di tutte quelle macchine. Molti dei primi dischi, realizzati sia come solista che in collaborazione con l’amico Francesco Farfa, furono fatti lì, mentre approfittavamo dei pranzi e delle cene preparate da mia madre Lia e in compagnia di mio padre Gino, colui che mi ha iniziato al mondo della musica spronandomi a suonare batteria e percussioni».

Joy Kitikonti 1976-1986

Due foto di un giovanissimo Chiti Conti: in alto strimpella la batteria del padre, nel 1976, in basso suona invece un Tama Drums, nel 1986

Dal 1992 Chiti Conti inizia ad incidere dischi, prima in modo saltuario e via via con più costanza sino a creare l’Area Records col citato Francesco Farfa (intervistato qui), col quale fa coppia in diversi progetti come Hoyos Corya, Ziet-O, X-Simble, Farmakit, Terre Forti e, successivamente, Miss Message. Pur non avendo maturato particolari formazioni accademiche, i due si rivelano piuttosto prolifici. «Non volevamo dimostrare di essere musicisti professionisti, stavamo semplicemente esprimendo ciò che sentivamo in precisi istanti della giornata o di un certo periodo» spiega Chiti Conti. «A volte bastava vedere una situazione particolare per strada, piuttosto che un volto o un quadro, per essere ispirati. Questo ci ha portati a creare vari pseudonimi in base al tipo di messaggio che intendevano lanciare. Sono state tutte esperienze bellissime e piene di creatività. Riguardo la formazione accademica, penso sia fantastico conoscere i meandri della musica ma l’importante, poi, è saper andare anche oltre i canoni. Charlie Parker disse: “impara tutto dalla musica, poi dimenticala e suona come ti detta l’anima”».

Jakyro UND 1996

Il primo disco che Chiti Conti realizza per la Media Records, uscito nel 1996 su Undeground e firmato con lo pseudonimo Jakyro

Nel 1996 per Chiti Conti si prospetta la svolta. Entra a far parte del roster artistico della Media Records intenta a creare la squadra dei DJ che animeranno per anni la BXR, rilanciata da poco. Il primo EP edito dall’etichetta capitanata da Gianfranco Bortolotti esce però sulla sublabel Underground ed è firmato Jakyro. A trainarlo è “The End”, remake di “Assault On Precinct 13” di John Carpenter. «Fu l’amico e collega Mario Più ad introdurmi alla Media Records» rammenta l’artista. «A Roncadelle conoscevano già le mie precedenti produzioni e da quel momento partì la collaborazione, inizialmente come Jakyro, Veru Monburu e P.I.N. Factory». Il primo disco edito dall’etichetta bresciana come Joy Kitikonti (per approfondire sulla genesi di questo pseudonimo si rimanda a questa videointervista a cura di Enrico Marchi) è “Etno Unite” ancora su Underground, etichetta che successivamente pubblicherà la fortunata “Raggattak” edificata sul sample preso da “A Who Seh Me Dun” di Cutty Ranks e che Chiti Conti firma Joman. Seguono “Pacific Unplugged” (GFB, 1998) ed “A Century Of Beatz” (Audio Esperanto, 1999) oltre a produzioni parallele e brani finiti nella compilation “The Very Best Of Trip Hop”.

con i dischi di Russ Meyers (1997)

Kitikonti coi dischi di Russ Meyer (1997)

«Ritengo che se una persona abbia molte idee, anche diverse tra di loro, dovrebbe provare a svilupparle. Per questa ragione ho creato, nel corso del tempo, vari pseudonimi, proprio per poter dare libero sfogo alla mia fantasia» dichiara. «Ho partecipato inoltre a molti progetti di altri artisti della BXR come Mario Più, Mauro Picotto (la citata “Pacific Unplugged” e “Deep Blue” finiscono nel pluridecorato “The Album”, nda), Sandro Vibot, Zicky, Ricky Le Roy, Stephan Krus, l’amico DJ Moss (manager del tour colombiano) ed altri ancora. Una delle più belle soddisfazioni è legata alla composizione di “The Very Best Of Trip Hop” per cui rimasi chiuso in casa per circa un mese, senza orari ma con la massima libertà di espressione. Altrettanto avvenne per “A Century Of Beatz”, finita sulla Audio Esperanto diretta da Farfa». Rispetto ad altri artisti che militano tra le fila della scuderia bortolottiana però, Kitikonti è tra quelli che non cercano sfacciatamente il successo discografico di grosse dimensioni, facendo leva su suoni iperrodati e schemi facilmente assimilabili dalle radio. «Non mi è mai piaciuta l’idea di avere un “marchio” stampato sulla pelle» afferma concisamente. «Ho sempre fatto le cose di pancia e di cuore piuttosto che pianificarle per soddisfare le esigenze commerciali. È la mia natura. Non nego tuttavia che sia ancora meglio quando la spontaneità viene premiata e riesce a raccogliere riconoscimenti e risultati economici».

Sebbene in Media Records dal 1996, Kitikonti inizia ad incidere per la BXR, ai tempi l’etichetta più rilevante del gruppo discografico con sede a Roncadelle e che in quel periodo è all’apice della popolarità, soltanto nel 2000. Il pezzo, uscito in primavera, si intitola “Agrimonyzer” ed è destinato ai club. Tutto cambia però l’anno seguente quando la stessa label pubblica “Joyenergizer” per cui viene persino girato un videoclip. Ad accorgersi di Kitikonti e della sua musica ora non sono più soltanto i DJ e il pubblico che frequenta un certo tipo di discoteche. «Sono particolarmente legato a quel periodo fatto di sorprese e soddisfazioni» dice l’artista in merito. «Con “Agrimonyzer” raccolsi riscontri molto positivi ma “Joyenergizer” ebbe l’effetto di un fulmine a ciel sereno. Fu realizzato negli studi BXR insieme al mitico Riccardo Ferri, uno dei miei produttori preferiti nell’ambito della musica elettronica. Iniziò tutto da una sorta di kick fatta con il sintetizzatore Access Virus A, poi lavorata con LFO e processata attraverso vari plugin durante la costruzione su Logic. Non impiegammo moltissimo tempo ma furono necessari vari test audio prima di ufficializzarla. A volte mi domando se saremmo ancora capaci di rifarla identica partendo da zero, ma credo proprio di no. Certi plugin non esistono più ma a mancare sarebbero anche la situazione e l’atmosfera. Riguardo il video, ricordo che mi trovavo a casa di Sandro Vibot per una cena tra amici quando ricevetti una telefonata da Picotto il quale mi disse che “Joyenergizer” fosse entrato in classifica, direttamente al primo posto. Aggiunse che il giorno dopo sarei dovuto partire per Ibiza per realizzare il video. Venendo da un mondo più underground, rimasi letteralmente stupito da quelle notizie, anche perché il disco era uscito da pochissimi giorni. “Joyenergizer” generò vendite consistenti seppur non rammenti il numero esatto di copie. Entrò in oltre 150 compilation. Non potrò mai dimenticare cosa avvenne durante una serata al Winter Music Conference, a Miami, quando Picotto (che remixa il brano con un vibe più technoide, nda) iniziò il suo set proprio col promo di “Joyenergizer”. Judge Jules, che lo aveva preceduto, rimase in consolle con lui e gli chiese “what’s this?” con una strana espressione sul volto. Mauro indicò me, che ero in pista, e dopo averlo mixato col successivo gli regalò la copia. La settimana seguente eravamo già in classifica su BBC».

a Buenos Aires (dicembre 2001)

Joy Kitikonti alla consolle di una discoteca a Buenos Aires, a dicembre del 2001, nel periodo in cui impazza la sua “Joyenergizer”

Il follow-up di “Joyenergizer” esce nel 2002, sempre su BXR. Si intitola “Joydontstop”, viene accompagnato da un nuovo videoclip e mostra qualche (ovvio) gancio col precedente, offerto intenzionalmente per creare un naturale continuum. «Anche “Joydontstop” fu realizzato con Ferri ed andò molto bene» ricorda Chiti Conti. «Dovevamo fare il follow-up di una hit, le aspettative erano molto alte e per questa ragione dovemmo optare per una soluzione più “commerciabile”. Personalmente preferisco di gran lunga “Joyenergizer”». L’effetto “Joyenergizer” si palesa presto: nel 2002 Kitikonti fa ingresso al 91esimo posto della Top 100 DJs del magazine britannico DJ Mag. Insieme a lui quell’anno, nella stessa classifica, ci sono due colleghi della BXR, Mauro Picotto e Mario Più. «La Top 100 DJs mi ha dato una discreta spinta ma alla fine ad aprirmi le porte in tutto il mondo fu proprio “Joyenergizer”» chiarisce. «Lo suonavano in molti, dai DJ techno ai trance, e grazie a quel successo iniziai a fare tantissime serate in varie parti del pianeta, tra Europa, Stati Uniti, Australia, Sud America e soprattutto in Colombia, dove sono stato innumerevoli volte e dove ho portato tutti i DJ del gruppo Metempsicosi ed anche altri colleghi italiani. Ho dei bellissimi ricordi dei giorni trascorsi insieme a DJ Moss e a Mirko Rispoli, amico e regista col quale realizzavamo foto e video di tutte le nostre serate. Prima del successo di “Joyenergizer” comunque lavoravo già tutti i weekend ma soprattutto in Italia. Mi capitava spesso però di fare serate sia in Francia con Tom Pooks, con cui collaboro ancora attraverso il progetto Family Piknik e la label Family Piknik Music, sia in Spagna al Florida 135 insieme a nomi importanti della scena techno internazionale».

con DJ moss nel vecchio studio (2001)

DJ Moss nello studio di Kitikonti, nel 2001: insieme realizzano diversi dischi come “Bogotà Experiences”, “Mossaic” ed “Ultramar EP”

A chiudere la trilogia, partita con “Joyenergizer” e proseguita con “Joydontstop”, è “Pornojoy”, del 2003, ma con risultati inferiori rispetto ai precedenti. A dirla tutta la sbornia di successo della BXR ormai era in fase calante, trend che progressivamente coinvolge in modo generalizzato l’intero panorama italiano con etichette e distributori che chiudono battenti ed artisti che spariscono letteralmente dalla scena. «Effettivamente “Pornojoy” non andò bene come gli altri due, ma raccogliemmo ugualmente molte soddisfazioni sul fronte compilation e col videoclip che fu censurato durante la fascia oraria protetta» prosegue Chiti Conti. «Stava prendendo sempre più piede l’era del digital download pirata, i software peer-to-peer erano in via di sensibile affermazione mentre i supporti fisici, vinile in primis, iniziavano a perdere quote consistenti di mercato. Di conseguenza diminuivano i guadagni per tutti».

Kitikonti comunque prosegue portando avanti sia la carriera da DJ che quella da produttore incidendo nuovi brani ancora per la BXR, etichetta per cui diventa A&R insieme a Mario Più dopo l’abbandono di Picotto nel 2002, e per altre giunte in seguito, quando la Media Records smette di essere operativa. Nel frattempo la generazione dei clubgoer cambia, il mondo della musica e della discoteca viene radicalmente trasformato e quella che era contemporaneità, d’un tratto, smette di essere tale diventando già materiale pseudo vintage da riportare in auge per un pubblico più giovane che la considera inedita. È quanto avviene a “Joyenergizer” che nel 2013 viene riproposta attraverso una cover da Sander van Doorn. «Mi ha fatto piacere che il DJ olandese abbia deciso di rifare il pezzo più noto della mia discografia, seppur il suo genere musicale non rientri affatto nelle mie corde» chiarisce Kitikonti. «A quella versione però è connessa anche una spiacevole vicenda che mi fece arrabbiare parecchio. Inizialmente van Doorn e il suo team volevano intitolare il pezzo “Energizer” rimuovendo il “Joy”, con l’intenzione di farlo passare per un pezzo nuovo ed ideato da loro. Discussi a lungo, sia con la Spinnin’ Records che lo pubblicava, sia con la ZYX, titolare dei diritti, in quanto nessuno mi aveva avvisato di ciò. Dopo un forte e pesante dibattito sono riuscito a spuntarla, obbligando l’olandese ad usare il titolo originale. Se decidi di fare una cover alla fine non puoi arbitrariamente cambiarne il titolo. Da quando si è aperta l’era digitale sono spuntate migliaia di etichette, migliaia di web radio e migliaia di produttori. La situazione è ancora un po’ caotica e credo ci vorrà del tempo per trovare il giusto equilibrio. Tuttavia trovo positivo il facile approccio odierno alla musica e sono contento del fatto che chiunque ormai possa avvicinarsi alla composizione senza dover spendere un patrimonio come avveniva in passato. Quando si tratta di arte e creatività c’è spazio per tutti e la musica, in modo particolare, scalda l’anima». (Giosuè Impellizzeri)

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