Discommenti (aprile 2024)

Legowelt - The Sad Life Of An Instagram DJ

Legowelt – The Sad Life Of An Instagram DJ (Selvamancer)
Titolo decisamente sarcastico e pungente per questo nuovo EP che Danny Wolfers firma col suo moniker più noto e con cui anticipa l’arrivo di un LP destinato alla statunitense L.I.E.S. Records di Ron Morelli. L’eroe olandese imprime in cinque tracce tutta la sua verve creativa flirtando con l’electro e la techno, lanciando prima rasoiate filo acide in “Alpha Juno Storm Watch” e “Soundblaster Pro Tripper” per poi immergersi in spettrali acque lacustri popolate da qualche mitologica creatura sottomarina sopravvissuta alle ere geologiche (“Kawai K4 Acid Spring”) e saltellare al ritmo di pattern a metà strada tra il jack di Chicago e la raw techno scarnificata degli Unit Moebius (“No One Wants To Buy My NFT”). Chiude la title track, dove traiettorie melodiche dal retrogusto cinematografico sposano flessuosi incastri ritmici. A pubblicare il 12″ è l’iberica Selvamancer, che proprio di recente ha messo in circolazione uno stuzzicante EP di Gesloten Cirkel.

Terror - Data Surfer EP

T/Error – Data Surfer EP (New Interplanetary Melodies/Kuro Jam Recordings)
A distanza di qualche anno dal progetto “Kimera Mendax” di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui, New Interplanetary Melodies e Kuro Jam Recordings tornano in partnership per sviluppare una nuova ed emozionante sound experience. Questa volta il fumetto, la cui uscita è attesa per il prossimo autunno, s’intitola “Data Surfer”, proprio come l’EP che lo preannuncia nel migliore dei modi possibili. La musica di T/Error paga il tributo alla più viscerale tradizione electro/techno di Detroit, con continui rimandi e omaggi al suono abrasivo e fiammeggiante di Drexciya e Underground Resistance, un sound che, nonostante abbia sulle spalle oltre trent’anni, continua a fornire il mood giusto per immaginare il mondo del futuro diventando alfiere della longevità, contrapposta alla caducità della maggior parte delle produzioni contemporanee. Di questo disco, arricchito dall’inserto illustrato di Mattia De Iulis e dalle grafiche di Enrico Carnevale e nei negozi dallo scorso 4 aprile, si possono spendere solo parole di elogio. Tracce come “Data Surfer” e “Last Brute In The Firmament” rappresentano la soundtrack perfetta per sogni e utopie/distopie sci-fi, sganciate dai rassicuranti elementi da song structure, segnate da geometrismi ritmici e immerse in severe soluzioni armoniche. Spazio anche a varchi IDM (“Redundant Flux Form”) e galleggiamenti spaziali (“Minimum Lenght”), finalizzati ad allargare ulteriormente l’atto compositivo. Riservati al formato digitale sono ulteriori tre pezzi, “Shadows”, “From The Deep” e “Space Time Coordinates” con cui l’artista capitolino s’imbarca su rotte interspaziali, forse immaginando di trovarsi a bordo di una navicella in cerca di nuovi pianeti alternativi alla Terra su cui poter vivere. Alla fine sarà necessario tirare un sospiro per allentare la tensione accumulata.

Modula Feat Gino Saccio - Che È Stato

Modula Feat. Gino Saccio – Che È Stato? (Archeo Recordings)
Filippo Colonna Romano alias Modula è una new entry per l’etichetta fiorentina Archeo Recordings guidata da Manu Archeo (intervistato qui), che nell’ultimo decennio si è meritatamente ritagliata spazio grazie a un’incessante attività di recupero e valorizzazione di musiche oscure o dimenticate con una particolare predilezione nei confronti del sound balearico. Per l’occasione il musicista napoletano si lancia in un’ardita reinterpretazione di “Who Dunnit?” di Gino Soccio ironicamente ribattezzato Gino Saccio in copertina (era il pezzo che apriva il lato b dell’album “Face To Face” del 1982): mantenendo l’impronta funk disco, l’autore ne ricalibra la dinamica e ricostruisce le tessiture grazie all’apporto del chitarrista Daniele Sarpa, del bassista Mirko Grande e del batterista Pellegrino Snichelotto, a cui si aggiungono Rosario Esposito e Antonella Mauri che invece si occupano della nuova partitura vocale, in dialetto partenopeo. È sempre Pellegrino Snichelotto a rileggere ulteriormente il tutto attraverso un rework intitolato I Feel Glow, in cui l’impronta balearica assume contorni più delineati. A completamento del 7″, limitato alle 350 copie di cui 50 su vinile colorato, è l’artwork di Maurizio Schirò.

Rodion & Mammarella - Musica E Computer

Rodion & Mammarella – Musica E Computer (Slow Motion)
Un album che parte dalle sollecitazioni della prima computer music e che si sviluppa attraverso riferimenti al mondo delle library e a quello più ballereccio che ammica al Moroder metronomico e macchinico: si può sintetizzare così il contenuto di questo LP realizzato sull’asse creativo di Rodion e Fabrizio Mammarella e registrato presso il Museo del Synth Marchigiano. Suoni e ritmi provengono da strumenti come Crumar DS-2, Elka Synthex, Davoli Davolisint, Viscount R64, Eko Ritmo 20 ed Elka Drumstar 80, tutti cimeli che gli appassionati (quelli veri) conoscono più che bene e per i quali sarebbero disposti a fare anche qualche follia economica. Sono proprio queste macchine a ridurre la distanza tra passato e presente in un brillante percorso che trabocca di vitalità attraverso pastosi disegni di basso arpeggiati, vocoderizzazioni vocali e palpitanti griglie di batteria.

Max Skiba & Snax - Pushing My Button

Max Skiba & Snax – Pushing My Button (Skylax Records)
È davvero un piacere ritrovare in attività Maximilian Skiba, talento di cui si erano perse le tracce da un po’ di anni. Per l’occasione il polacco ricompatta la sinergia con Snax, con cui aveva già duettato nel 2010 per “One To Pray”, e riormeggia sull’etichetta francese di Hardrock Striker che pubblicò un suo EP nel 2009, inspiegabilmente passato quasi inosservato nonostante prodotto in modo eccelso. “Pushing My Button” riparte proprio da quelle atmosfere, affondando le radici in un’elegante disco funky house che, così come recitano le note promozionali, traccia magistrali parallelismi con classici senza tempo come “Kiss Me Again” dei Dinosaur o “Is It All Over My Face?” dei Loose Joints, e rende omaggio al passato iniettandoci dentro, con sapienza, un appeal moderno. Skiba, insomma, non si limita a scopiazzare o ritagliare l’ennesimo dei sample per parodiare l’osannato ieri ma cerca di lanciare un ponte tra epoche lontane facendo leva sulle proprie doti da musicista prendendo le debite distanze dai banali assemblatori di loop che affollano i tempi che viviamo. A “Pushing My Button” e “In Motion” si sommano i remix: a mettere le mani sul primo è Apollon Telefax che traghetta tutto verso sponde italo disco giocando con un forte richiamo a “Hold Me Back” di WestBam; al secondo invece ci pensa Maltitz che opta per un saliscendi balearico dai riflessi aciduli.

JP Energy - Strano EP

JP Energy – Strano EP (Sound Migration)
A pochi mesi dalla ristampa del “Mathama EP” (si legga Discommenti di settembre 2023), riaffiora un altro vecchio disco del repertorio di Gianpiero Pacetti alias JP Energy, originariamente pubblicato nel 1993 su Progressive Music Production. Lo “Strano EP”, allora realizzato con la produzione esecutiva di Francesco Zappalà e l’apporto del musicista Stefano Lanzini, ha retto magnificamente l’incedere dei decenni e si ripresenta col medesimo bagaglio sognante di influenze oniriche che pagano l’ispirazione all’elettronica pre house/techno, specialmente quella cinematografica di Vangelis, Tangerine Dream ma soprattutto Jean-Michel Jarre, artista che folgorò Pacetti nell’infanzia come lui stesso racconta in questa intervista. Melodie epiche dunque si rincorrono in “Down To The Moon”, arpeggi celestiali e struggenti scalano gli appigli ritmici di “Dolphin Dance”, “Alvorada” accosta percussioni batucada a ipnotici arabeschi, “Les Architectes Du Temps” chiude come tutto è iniziato, con una scia melliflua che accarezza l’anima di chi ascolta: «ai tempi la composi immaginando un gruppo di gnomi che al mattino se ne andavano a lavorare nella foresta coi loro attrezzi sulle spalle» ricorda l’autore. A integrare questa reissue, oggetto di una rimasterizzazione ad hoc, è il remix che E-Talking ha realizzato di “Alvorada”, puntando a un’elaborazione ritmica più marcata. Un EP che, in barba all’intelligenza artificiale e alle diavolerie tecnologiche dell’ultim’ora, dimostra come al di là dei suoni ci voglia anche il cuore per comporre certa musica.

Punx Soundcheck Feat. Boy George - Be Electric (The Remixes)

Punx Soundcheck Feat. Boy George – Be Electric (The Remixes) (Icon Series)
Dalle viscere dei ricordi dell’electroclash d’oltremanica, riecco in azione i Punx Soundcheck con la loro proverbiale energia. Estratto dall’album “Punx In 3D” uscito lo scorso autunno e scandito da chiari echi hi nrg di derivazione orlandiana, “Be Electric” si ripresenta ora in versione singolo con l’aggiunta di vari remix ognuno dei quali con una precisa identità. Si passa dall’electro pop di Roland Sebastian Faber, che ha preso il posto di Arif Salih nella lineup del progetto, alle strutture technoidi di The Model, dai lapilli lavici di Mick Wills agli irrigidimenti monolitici di Ascii Disko passando per le movenze vellutate dei nostri Hard Ton e gli spezzettamenti breaks frammisti a elementi ragga di Greg May. In circolazione finirà sia il 12″ che il CD, limitato ad appena 100 copie.

Francesco Passantino & Friends - Venticinque EP

Francesco Passantino & Friends – Venticinque EP (Tractorecords)
In occasione del venticinquennale di attività discografica, Francesco Passantino riporta in vita il marchio Tractorecords, ibernato dal 2016. Nell’EP il DJ spezzino, ma da molti anni di stanza a Berlino, fa confluire le diverse sfaccettature che hanno colorito la sua carriera da produttore nell’ultimo quarto di secolo partendo da “Vision”, una nuvola di soffici pad su cui si posano uno scheletro ritmico e voci fuori campo, in apparenza captate da qualche radio lasciata distrattamente accesa. Registrata live al Club Der Visionaere la scorsa estate insieme a Daniele Ricca e Francesco Monaco con cui Passantino forma i Resilience Groove, la traccia è incapsulata nel minimalismo più rarefatto misto a bolle dub. Con “Undici” però la tavolozza dei suoni cambia e insieme a essa anche il registro ritmico, a vantaggio di una combinazione che rimanda ai tempi dorati della progressive trance, con una serpentina di bassline che ondeggia nervosa e pilota la sezione di batteria con qualche occhiata all’Emmanuel Top del periodo Attack. “Mahatma Groove” ripesca a piene mani proprio da quell’immaginario, con riccioli filo acid e onde trancey che si infrangono sulla parete ritmica. Spazio infine a un pezzo che arriva dal 1999, contenuto nel primo volume di “Electribe EP” su Subway Records che Passantino firmò con l’amico Davide Calì (intervistato qui) e che negli ultimi anni è diventato un piccolo cimelio per i collezionisti. Trattasi di “Ascolta”, in cui matrici kraftwerkiane in stile “It’s More Fun To Compute” si uniscono a grandi arcate trance svolazzanti. La tiratura del 12″ sarà limitata alle 150 copie.

Maxx Klaxon - Nothing Can Tear Us Apart

Maxx Klaxon – Nothing Can Tear Us Apart (Self released)
Per Maxx Klaxon vale un po’ il discorso fatto qualche riga sopra per i Punx Soundcheck. Il musicista electropop newyorkese fece capolino nella scena durante la fase finale del boom electroclash ma poi dileguandosi e facendo perdere le proprie tracce. Ora rieccolo, a un triennio da “From The Air”, con un EP in vendita su Bandcamp che riparte proprio dai suoni che tra 2003 e 2004 spopolarono in Europa mettendo d’accordo sia giovani che nostalgici. “Nothing Can Tear Us Apart” intreccia new wave, synth pop e blippeggianti echi electro, rispettando i canoni della song structure. A mettere il pezzo su binari ritmici più marcati è Daniel Cousins alias Albatross Heights nel suo Duct Tape Remix mentre Chris Ianuzzi, nell’Exploidoid Remix, sporca i vocal col distorsore e costruisce un castello di dissonanze glitch dal retrogusto psichedelico. La chiusura è dettata da “Freedom Tape”, composizione strumentale trascinata da un lacrimoso arpeggio poggiato su un soffice cuscino di pad malinconici. Se fosse uscito a inizio millennio, sarebbe stato perfetto per un’etichetta tipo l’International DeeJay Gigolo.

Michele Mininni - Pop Archetypes

Michele Mininni – Pop Archetypes (Hell Yeah Recordings)
Ben lontano dalle logorree produttive di certi artisti, Michele Mininni è stato sempre parsimonioso sul fronte produzioni, puntando piuttosto al “poco ma buono”. Colto ma non disposto a prendersi mai troppo sul serio, al compositore pugliese si riconosce l’imprevedibilità sotto il profilo creativo e la capacità di non farsi intrappolare e imprigionare nei cliché, e forse è stata proprio questa propensione a condizionare, in qualche modo, la quantità del suo repertorio. Assente dal panorama discografico da diversi anni (fatta eccezione per la fugace comparsata della scorsa estate su Dischi Spranti, di cui abbiamo parlato in Discommenti di luglio 2023), Mininni ora rompe il silenzio e lo fa con un album, il primo della carriera, destinato alla Hell Yeah Recordings di Marco Gallerani e figlio di una moltitudine di ascolti eterogenei. Tra accelerazioni, divagazioni, dilatazioni, sfasamenti ritmici e ribaltamenti armonici sottesi a una minuziosa cesellatura di ogni singolo suono, “Pop Archetypes”, ulteriormente impreziosito dalla copertina di Sandro Leucci che occhieggia ai décollage di Mimmo Rotella, è un manifesto multicolore e multietnico in cui passa in rassegna una gamma assai vasta di riferimenti che rendono complesso l’incasellamento in un genere preciso. Più semplice, piuttosto, stabilire la non appartenenza al pop a dispetto del titolo, forse scelto provocatoriamente per creare un’antitesi coi contenuti. «Non è stato facile trovare il titolo, seppur intitolare i brani sia una delle cose che mi piace di più del fare musica, perché rappresenta la sintesi massima fra i due linguaggi» spiega Mininni, contattato per l’occasione. «La sfida si presentava ancora più ardua visto che era la prima volta che davo il titolo a un album e quindi ho ceduto all’ironia, anche per prendere le distanze dalla serietà e dalla mia vita, cosa che mi è sempre riuscita abbastanza bene. In realtà cercavo qualcosa che avesse più angoli di interpretazione e che racchiudesse tutte le sfaccettature del disco e le mie influenze di “popular music”. Poi mi hanno sempre “rimproverato” di fare musica per pochi, quindi ecco servito un bel disco “pop” riconoscibile come un camaleonte».

“Pop Archetypes” prende dunque di mira gli archetipi del pop e li fa a pezzi, canzonando gli esiti pronosticabili della maggior parte della musica attualmente in circolazione, quella prodotta in quattro e quattr’otto e altrettanto celermente dimenticata perché sostituita da altra che arriva subito dopo come banale scatolame in una catena di montaggio. Per mettere in circolazione un LP come questo, oggi, del resto serve anche un po’ di coraggio. «Sinora avevo pubblicato solo EP e mai avrei pensato di incidere un album in vita mia» prosegue l’autore. «Dai tempi di “Rave Oscillations” su R&S, nel 2017, nelle recensioni si parlava di attesa dell’esordio su lunga distanza e mi veniva da sorridere, perché preso dalle cose della vita, dal mio lavoro e anche, lo ammetto, dalla mia inesorabile pigrizia, mi sembrava pura utopia. Negli ultimi anni, diciamo dalla pandemia, mi ero allontanato dalla musica e avevo finito di ascoltare ossessivamente le ultime uscite. Insomma, mi sono preso una lunghissima pausa depurativa ma non me lo sono imposto, è andata semplicemente così. Poi lo scorso anno ho riaperto per gioco il sequencer, cosa che non accadeva dal 2018, per creare la colonna sonora di un video promozionale di quindici secondi su YouTube. È nato tutto così. Da lì è come se le cose, piano piano, fossero venute a me. Da quel momento è partita la sfida verso me stesso. Lo dico sinceramente: dietro quel sorriso davanti alla richiesta di un LP si celava anche amarezza, perché è una cosa che sotto sotto mi faceva sentire incompleto. Era come dire “sì ok, cinque EP, ma…”. In me c’era un tarlo latente che diceva “ne sarò capace?” Quell’episodio ha innescato tutto, ed eccoci qui».

A caratterizzare in modo preponderante “Pop Archetypes” è anche il timing limitato della maggior parte dei pezzi che lo compongono, una sorta di sintesi massimale con cui Mininni conduce l’ascoltatore in una dimensione ermetica fatta di interludi o pseudo tali che fungono da collettori di emozioni. «Non c’è una ragione precisa dietro tale scelta, non me lo sono imposto» spiega l’autore, chiarendo come lo sviluppo di un progetto simile richiedesse una struttura estremamente variegata ma allo stesso tempo sintetica perché il rischio della prolissità era altissimo. «Il risultato è un percorso degustazione che alla fine del pasto deve lasciarti sazio ma non al punto di esplodere, in modo che dopo qualche tempo, si spera il prima possibile, in quel ristorante ci torni ovvero riascolti il disco». Nella scansione narrativa regna l’imprevedibilità: si provi, ad esempio, a mettere su prima “Vertigo” e poi “Bangkok Tempo” per provare quell’ebrezza che emerge dalle produzioni che escono dalla monodimensionalità. Ci sono passaggi in cui si fatica davvero a scorgere punti di connessione col passato produttivo mininniano, si senta “Urban Voodoo”, tra le più lunghe della playlist, con cui si innescano cinque minuti di adrenalina muscolare, o “The Magic Of Synesthesia”, dove le irregolarità ritmiche cullano melodie barcollanti in salsa psichedelica, o ancora “Wet Market”, un cut-up tra voci, scratch e pulsazioni breakbeat, “Golden Room”, una fuga in direzioni lounge, “Kundalini” e “Congoflash” immerse in nuance chiaroscurali da cui si propaga una forma mutante di world music. «Prima ancora d’iniziare sono partito da un concetto chiarissimo: non volevo che l’LP fosse la somma dei miei precedenti EP e non desideravo risultasse rassicurante altrimenti non avrei intrapreso il percorso perché mi sarei annoiato» mette in chiaro Mininni. «L’ipotesi di una rottura col passato mi ha fornito il giusto entusiasmo per stressarmi perché per me fare musica è incredibilmente stressante. L’idea era quindi di creare tasselli di un puzzle che fossero riconducibili alla forma canzone e che bastassero pur nella loro brevità. È stato uno sforzo di sintesi e sottrazione, anche negli arrangiamenti. A differenza di alcune mie cose del passato, ho dovuto togliere e non aggiungere. Ho misurato gli ingredienti con estrema attenzione, dietro c’è un lavoro di centinaia di ascolti volto a trovare la perfezione formale alla quale ambivo nella mia testa, sia nei singoli brani che nel loro stare bene assieme. Ho perso il conto di quante volte ho ascoltato il disco per scegliere la scaletta definitiva. Ho scartato anche dei pezzi, cosa per me incredibile, vista la mia storica stitichezza produttiva. Invece d’improvviso, addirittura abbondanza».

In “Pop Archetypes”, complesso organismo composito, si toccano sponde IDM, broken beat e drum n bass, poi si vira verso una world music impazzita, astrattismi e tropicalismi balearici con pochi spiragli però sulla dance music in senso stretto. Forse una precisa scelta per prendere le distanze da una scena che ormai appare creativamente depotenziata e narcotizzata? «Tutto ciò che è racchiuso nel disco non parte da analisi o metabolizzazioni dello scenario attuale, è semplicemente una conseguenza» afferma ancora l’autore. «Credo che il concetto di “conseguenza” sia stato dimenticato e che purtroppo sia proprio alla base dell’appiattimento dello scenario attuale. Quando si decide a tavolino che si vuol far ballare, ad esempio, si scelgono strumenti adatti, trick, strutture e suoni specifici. Insomma, dal semplice foglio bianco si passa a canalizzare in modo rigoroso e scientifico tutto il processo sulla base di regole già scritte, riducendo molto spesso il risultato a mero prodotto con finalità esclusivamente pratiche. Tradotto: mi serve un pezzo per far ballare, così come mi serve una pinza per svitare quel dado. Ecco, per me quella è la morte della creatività. La conseguenza è quella cosa che si esplica partendo da un presupposto di libertà e rivendicazione della propria unicità e che dà un risultato magari imprevedibile. Per la serie “questo sono io, poi si può anche ballare”. Magari ottieni una bomba dancefloor, ma lo è perché non sei partito da un presupposto finalistico ed esclusivamente pratico. È quello che sta accadendo alle canzoni di Sanremo: soprattutto nell’era dello streaming e di TikTok, assistiamo alla ricerca ossessiva del tormentone che condiziona le strutture dei brani fino a renderli tutti abbastanza simili. Chi ha ascoltato un po’ di musica in vita sua, riconosce in quei “mind games” musicali il perfido tentativo di creare dipendenza e viralità in funzione dei nuovi mezzi di comunicazione. Tentativo legittimo, perché l’esposizione porta monetizzazione, ma che riduce la musica a una grande lotteria dell’attenzione, in cui a vincere sono sempre meno attori».

(Giosuè Impellizzeri)

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Back To Lo-Tech, il primo LP firmato da Coccoluto e Martinez

Nel 1998 Claudio Coccoluto e Savino Martinez sono reduci da un successo internazionale, “Belo Horizonti”. Le strategie di marketing della discografia tradizionale avrebbero promosso a pieni voti e senza riserve la pubblicazione di un album con la medesima ragione sociale, The Heartists, con almeno una coppia di brani-clone da estrarre come singoli e dare in pasto alle radio secondo un protocollo banale, da fare invidia a chi continua a mandare convintamente in onda “All I Want For Christmas Is You” di Mariah Carey o “Last Christmas” degli Wham! nel periodo natalizio. I due però non hanno affatto programmato di cavalcare quella popolarità inaspettata e neanche cercata, peraltro amplificata e spostata sui binari della scena mainstream dalla versione approntata ad hoc dai tedeschi Bellini (per approfondire si legga qui), che farà di Airto Moreira uno dei re dei trenini delle balere insieme a Two Man Sound e Lu Colombo.

Dall’HWW Studio quindi i nostri tirano fuori un LP firmato The Dub Duo, nomignolo che sino a quel momento hanno utilizzato poco più di una manciata di volte in occasione di qualche remix (“The Player” delle First Choice, insieme a Paolo Martini, “C Lime Woman” di The People Movers), un pezzo destinato a una compilation austriaca (“Drum-O-Tronic”) e giusto un paio di 12″ ossia l’EP di esordio della the dub e “Hi Energy” sull’etichetta di Leo Young, la britannica Pronto Recordings. Proprio d’oltremanica è anche la label che nel 1998 pubblica “Back To Lo-Tech”, la NRK di Bristol, partita l’anno prima da un’idea di Nick Harris e Redg Weeks e subito presa in considerazione dai DJ internazionali. Il catalogo cresce rigoglioso e in fretta grazie al supporto di artisti influenti come il canadese Nick Holder, gli americani Gemini e Lenny Fontana, il tedesco Ian Pooley e il francese Dimitri From Paris che, per l’appunto, firmano le prime produzioni.

“Back To Lo-Tech” è un doppio mix ed è considerato un LP (come peraltro viene indicato sul sampler contenente due tracce con cui la NRK anticipa l’uscita) ma a onor del vero il duo cassinate non aveva affatto cantierizzato l’incisione di un album, perlomeno non con le caratteristiche che le case discografiche di un certo tipo ai tempi esigono. Nella DJ culture di quegli anni, a dirla tutta, non c’è proprio la velleità di incidere album, formato che interessa più da vicino la cultura rock e pop, nonostante non manchino esempi con cui le grosse compagnie discografiche applicano gli stessi modelli alla musica delle discoteche, si pensi a “Paradise” di Inner City (1989), “World Power” degli Snap! e “Dreamland” dei nostri Black Box (entrambi del 1990), “Experience” dei Prodigy (1992), “Homework” dei Daft Punk (1996) o “You’ve Come A Long Way, Baby” di Fatboy Slim (1998), giusto per citarne alcuni tra i più noti e rappresentativi. Nel gergo DJistico inoltre, c’è l’abitudine di chiamare “album” ogni doppio mix, seppur la presenza di due dischi tante volte serva, più banalmente, solo a radunare in un’unica tornata il materiale che, per numero, sfonda il muro del Single o dell’EP.

“Back To Lo-Tech” è proprio questo, un doppio riempito con musiche composte in tempi diversi e non concepite per essere incorniciate in uno stesso quadro, seppur tra una traccia e l’altra ci sia un filo logico. La matrice è ballereccia, contraddistinta da un magma di elementi, un ribollire di influenze e una concatenazione infinita di sample che restituiscono la portata del background e l’ampiezza di vedute degli autori, che rivolgono un occhio al passato e l’altro al futuro. In molti pezzi si fatica a capire dove finisce una cosa e inizia l’altra, le citazioni si mescolano all’istintività e ciò fa del disco una sorta di cubo di Rubik, un poliedro in costante movimento in cui ogni rotazione equivale al desiderio di sconfinare gli stereotipi della house music più consueta.

Il contenuto del disco

A1 – I Love You (Main): funk disco svisata nella house, con un breve hook vocale (forse lo stesso che usano i CYB per “I Love You Darling”?) che si ripete in modo ossessivo ma seguendo diverse variazioni. Il resto viene spinto da stantuffi di suono prog con un finale ad appannaggio di percussività latine che comunicano forza ed energia. Una seconda versione, più intrisa di loopismi etnici, raggiungerà i negozi di dischi nel 1999 attraverso un 12″ sul quale la NRK vuole, oltre alla Main (riscoperta nel 2007 attraverso un remix degli Headhonchos ovvero i capi dell’etichetta), pure la bonus track “The Dream Drummer”, costruita con la stessa metodologia compositiva incrociando pulsazioni ritmiche house a porzioni di latinismi, campionamenti fOnky e frammenti di amen break che lo rendono appetibile anche a chi, ai tempi, impazzisce per il cosiddetto chemical beat.

A2 – Mes Amis De Paris: poco più di undici minuti in un brioso susseguirsi di ricami funky, mood brasiliani, talkbox intubati e virtuosismi in saliscendi decisamente incantatori e suggestivi. Il break, intorno al settimo minuto, serve a riprendere fiato, poco prima di tornare a sudare. Provate a immaginare Stevie Wonder e gli Zapp che si esibiscono sotto effetto di LSD orchestrati da Nicky Siano tra le mura del Loft di David Mancuso.

B1 – One’O’One: qui l’interscambio tra house, funk e disco è serrato, a reggere quel continuum che a Chicago e New York sostennero da subito quando meccanizzarono la disco nera degli anni Settanta. Tra sample frullati e sparsi qua e là, sinuosi bassi che s’infilano tra gli archi, voci mandate in reverse e dilatate dall’eco che torna utile anche per allungare le forme d’onda, “One’O’One” è tra le più rappresentative del disco, con un retrogusto french touch e venature che un po’ ricordano “Life Is Changing” che Cricco Castelli costruisce per la Kult Records nel 1997 campionando “My Lady” dei Crusaders, idea che verrà poi abilmente doppiata da Topazz per la hit internazionale “The New Millenium”.

B2 – The Sailing Suite: un battito ritmico minimale si prende lo spazio della prima parte, facendo da pianale agli scampoli di quelli che parrebbero frammenti di una suite, presa a morsi e dilaniata da effetti digitali e suoni computerizzati. A circa metà stesura entra un sample orchestrale che spinge via l’ossessività dei loop ed esegue una piroetta sul palco di un teatro immaginario, di fronte a un pubblico sbigottito che non capisce cosa stia accadendo. Per circa due minuti la scena è sua, in una specie di ouverture psichedelica. Poi pian piano guadagna le quinte e sparisce nelle oscurità mentre continua ad accennare passi della sua danza, in lontananza.

C1 – Empty Town: l’effetto phaser sulla griglia ritmica che tambureggia, tom dilatati dall’eco, voci che declamano versi da sermone tipo Chuck Roberts, suoni che si accavallano e finiscono in un vortice mentre un sax esegue poche note come se fosse affetto da balbuzie. Tutto questo mentre sullo sfondo lampeggiano segni di philly disco trafitta e fatta a pezzi, le tessere di un puzzle che Coccoluto e Martinez riassemblano all’interno di una nuova cornice.

C2 – Gold Sands: l’incipit è cibernetico, quasi progressive, con pennellate sonore irregolari e discontinue. Quindi un crescendo strumentale e percussivo, addolcito da frasi di tastiera un po’ sbilenche. Si sente che dietro c’è la stessa mano di “Belo Horizonti” ma qui le sequenze sono più meccaniche, arrotondate da una filigrana melodica quasi orientaleggiante abilmente intrecciata a componenti latine.

D1 – Journey To The South: un beat pulito e pulsante con geometrie e minimalismi ritmici, rigato da linee di pad decorative che somigliano alla bava delle lumache quando strisciano, fa da innesto ad accordi in stile garage house newyorkese, con l’aggiunta di una sgroppata di vibe percussivo, autentico trademark coccolutiano che esprime una solare vitalità. Una traccia che omaggia la house di inizio anni Novanta, quando tutto è ancora in divenire.

D2 – God’s Footsteps: la spinta iniziale nei meandri di funkytudini sovrapposte a voci afro, effetti stranianti ed estensioni armoniche quasi sotto effetto doppler. Dopo il quinto minuto è tempo di un intervento di matrice jazzistica alla tastiera nato, forse, sulle ali dell’improvvisazione pensando alle orme che Dio avrebbe potuto lasciare durante una giornata di pioggia sulla spiaggia di Copacabana.

Coccoluto e Martinez (1998)
Coccoluto e Martinez in una foto del 1998, su gentile concessione di Savino Martinez

La testimonianza di Savino Martinez

Anche il meno abile dei discografici vi avrebbe consigliato d’incidere un album come The Heartists per capitalizzare il successo di “Belo Horizonti”, ma voi invece lo firmaste con uno pseudonimo che sino ad allora avevate utilizzato poco più di una manciata di volte, incuranti dell’anonimato. Perché?
La risposta è semplice: non avevamo l’abitudine di programmare le cose a tavolino. Il caso volle che in quel momento avessimo accumulato un discreto quantitativo di pezzi, tutti prodotti nell’HWW Studio durante gli ultimi anni, e poiché li sentivamo maggiormente vicini alle sonorità di The Dub Duo, decidemmo di convogliarli su quello pseudonimo. Non c’era alcuna tattica o strategia discografica anzi, il fatto di poter incidere un LP come The Dub Duo ci gasò parecchio perché era il nome che stilisticamente ci rappresentava più di ogni altro.

Che significato si celava dietro il titolo “Back To Lo-Tech”? Qual era la tecnologia “low” a cui alludevate?
Fu un’idea di Claudio e faceva riferimento a una modalità compositiva legata a una tecnologia che ormai iniziava a risultare datata per i tempi, quando l’analogico cominciò a essere rimpiazzato dal digitale. L’intero album, infatti, era guidato da una profonda ricerca per il sampling, attività che mi appassionava tantissimo e che mi spingeva ad attingere praticamente da ogni fonte. Avevo persino preso l’abitudine di “ritagliare” i campioni che ritenevamo interessanti e salvarli in un vero e proprio archivio in modo da velocizzare parte del processo creativo.

Lo-Tech
La copertina di “It’s Clear To Me” che Coccoluto e Martinez firmano Lo-Tech (D:vision Records, 1996)

Esisteva anche un legame con “It’s Clear To Me” che nel 1996 firmaste con lo pseudonimo Lo-Tech per la D:vision Records?
Sì, assolutamente, c’era una correlazione. Quel concetto di “vecchia tecnologia” ci apparteneva già da qualche anno e decidemmo di riutilizzarlo in occasione dell’uscita dell’album.

La copertina e i quattro centrini dell’LP volevano rimarcare ulteriormente il concetto, attraverso la bobina col nastro?
Certo, traduceva graficamente il senso del titolo. La scelta di un nastro magnetico parve la più azzeccata per descrivere la filosofia della low tech(nology), in netta contrapposizione con l’invasione dei supporti digitali che promettevano l’alta fedeltà, l’hi tech(nology).

Con quali strumenti realizzaste le tracce dell’album?
Come anticipavo prima, nel disco erano disseminate decine e decine di campionamenti effettuati secondo registrazioni multitraccia in assenza di sistemi di hard disk recording. In studio avevamo tre E-mu Emulator IV e diversi Akai (S3200, S1000 ed S950) che ci consentivano di elaborare i sample secondo la nostra creatività. Il resto lo facevamo con un ricco parco macchine che, tra le altre, includeva Oberheim Matrix-6, Oberheim OB-8, Roland JD-800, Roland TR-909, Roland Alpha Juno-1, Korg MS-20 e Korg Prophecy. Tra i rack invece Oberheim Matrix-1000, Roland JV-1080 (un vero classico di quegli anni), E-mu Audity 2000 ed E-mu Proteus. Tra gli outboard per l’effettistica, moduli Lexicon ed Ensoniq. A completare il tutto un mixer Soundcraft, un computer Apple e i monitor Yamaha NS-10, un altro simbolo degli studi di quel periodo.

Come arrivaste alla britannica NRK?
Senza ombra di dubbio “Belo Horizonti” ci fece conoscere parecchio in Europa e soprattutto oltremanica (dove la rivista DJ Mag dedica a Coccoluto la copertina del numero 193, luglio 1997, nda), un posto che ai tempi era un autentico punto di riferimento per i DJ e le produzioni discografiche house. La NRK era un’etichetta giovane ma all’attivo vantava già diverse produzioni importanti e valide. Non rammento di preciso come catturammo la loro attenzione, forse attraverso un contatto di Fabietto Carniel del Disco Inn o della manager Karen Goldie. Fatto sta che accettammo di buon grado la proposta di incidere un album, anche perché avrebbe creato un continuum rispetto a ciò che avvenne poco più di un anno prima con l’Atlantic Jaxx dei Basement Jaxx che pubblicò “Belo Horizonti”. Le etichette britanniche lavoravano molto bene, erano note per l’efficace promozione ed erano ambite specialmente per noi DJ italiani. Però, ci tengo a precisare, il contatto con NRK non fu cercato intenzionalmente come del resto gran parte delle cose che avvenivano ai tempi. Bastava entrare nel giro giusto e qualcosa accadeva, anche solo grazie al passaparola.

La label di Bristol pubblica l’album sia su doppio vinile che CD: era forse un segno dell’intenzione di andare oltre il mercato per soli DJ?
In quegli anni i successi dance a livello mondiale, partiti dalla creatività dei DJ, erano veramente tantissimi, e questo allargò sensibilmente la forbice del pubblico non più composto da soli appassionati ma anche ascoltatori generalisti. La scelta del CD probabilmente derivò proprio dalla volontà di intercettare anche quella fetta di mercato di ascoltatori fuori dal circuito dei DJ e che utilizzava il CD per gli ascolti domestici.

Quante copie vendette l’album?
Non ricordo di preciso ma sicuramente non generò numeri tali da renderlo un prodotto commerciale. In compenso però ottenne tante recensioni entusiastiche e ci bastarono per appagarci.

Qual è la prima parola che ti viene in mente ripensando a “Back To Lo-Tech”?
Divertimento. Buona parte della nostra vita di quegli anni si svolgeva in studio, eravamo veramente “malati” di musica e tutto quello che abbiamo fatto era guidato dalla sola passione. Tra me e Claudio si creò un’alchimia fantastica che ci permise di compensarci a vicenda. Visto che lui suonava praticamente ogni sera e aveva meno tempo di me da trascorrere in studio, buttavo giù le idee, ritagliavo i campioni da dischi jazz, funky o soul e mettevo in cantiere più opzioni. Poi, quando arrivava lui, ci confrontavamo, facevamo dei test sul suono, studiavamo le modalità di sviluppo della traccia e decidevamo come elaborare il sample e inserirlo nel contesto. L’uso del campionatore in “Back To Lo-Tech” si rivelò determinante, come del resto nella maggior parte delle nostre produzioni. Era proprio la personalizzazione del sample a dare carattere ai pezzi negli anni Novanta, cosa che oggi è ormai poco attuabile visto che si usano perlopiù librerie col conseguente appiattimento di sound e grooves che suonano tutti uguali. L’amore per ciò che stavamo facendo era talmente forte da tenerci in studio anche per tutta la notte. Talvolta Claudio, dopo aver finito di lavorare in discoteca, mi telefonava e, laddove fossi ancora in mezzo ai dischi e agli strumenti, mi raggiungeva per rimanerci sino al mattino. Che bellissima avventura.

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (settembre 2023)

Hyperstellar - Polaris EP

Hyperstellar – Polaris EP (The DJ Hell Experience)
Ruben Benabou, parigino, è l’artista che si cela dietro lo pseudonimo Hyperstellar. Attratto tanto dalle atmosfere delle colonne sonore quanto dalle potenzialità di generi come electro e techno, catalizza l’attenzione di Gerald Donald che lo vuole nel collettivo Daughter Produkt. Adesso dalla sua parte vanta un altro veterano della club culture, DJ Hell (a proposito, concedete un ascolto al recente remix realizzato per “Be A Queen” di Miss Djax), il quale lo precetta per la sua nuova etichetta che ha raccolto il testimone dell’International Deejay Gigolo a cui spetta comunque una citazione sull’artwork. Due i pezzi dell’EP: “Sibyl”, sintesi perfetta degli interessi musicali del transalpino, con ritmo e pathos, euforia e fase REM, e “Polaris”, naturale continuum di “Monarchy”, finita in una compilation della Zone nel 2021, un zigzagare verso l’ignoto in mezzo a filigrane low-fi che lasciano piombare l’ascoltatore in un pozzo apparentemente senza fondo, risucchiato dalle tenebre e da arabeschi armonici. Una doppietta che fa tesoro della lezione impartita dai decani della scena francese (David Carretta, The Hacker, Vitalic, Kiko, Arnaud Rebotini, giusto per citarne alcuni) e che nel contempo si proietta nel presente con assonanze a Gesaffelstein.

Tobor Experiment – Available Forms

Tobor Experiment – Available Forms (Bearfunk)
È stato necessario aspettare dodici anni per disporre del seguito di “Tobor Experiment Disco Experience” ma l’attesa è ampiamente ripagata. Supportato ancora dalla londinese Bearfunk di Stevie Kotey, il sound designer Giorgio Sancristoforo prosegue quindi il viaggio incantato immergendosi in pozioni alchemiche di musica fusion, exotica, easy listening e jazz psichedelico. Nove i brani della tracklist in cui mette magistralmente a punto i suoi distillati sonori, tutti saltati fuori da ipotetiche sonorizzazioni per pellicole di epoca space age. Spazio anche a una cover, “Halgatron” del compianto Detto Mariano, originariamente solcata sul lato b del 7″ con la sigla di “Jeeg Robot”. La visione retrofuturistica è il motore del disco e questo lo si evince anche dalla copertina e dal packaging (in formato gatefold) graficamente ineccepibile e comprendente un booklet di otto pagine: l’impatto visivo generato è pari a quello sonoro. Un balzo temporale indietro di cinquant’anni, per tornare a immaginare il futuro così come lo si sognava un tempo, provando un piacevole brivido emozionale.

Christian Gleinser - With A Different Eye EP

Christian Gleinser – With A Different Eye EP (Rapid Eye Movement)
Probabilmente nessuno tra coloro che incidevano musica nei primi anni Duemila avrebbe scommesso un solo centesimo bucato sulla possibilità che un giorno i propri dischi sarebbero stati rivalutati e ristampati per la generazione successiva. Analogamente a quanto avvenuto coi pezzi meno noti degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, anche quelli usciti a inizio millennio si stanno quindi lentamente trasformando da inutilità vendute per una manciata di spiccioli in rarità o addirittura “must have” proprio come le produzioni di Christian Gleinser. Attivo nei primi anni del nuovo secolo nel duo Nitsch & Gleinser insieme all’amico Daniel Nitsch e artefice di un suono meticcio tra electro, techno, chiptune e synth pop che spopolò trainato dal boom dell’electroclash, il tedesco, ormai inattivo nel frangente musicale, vede risorgere due tracce della sua prima apparizione da solista (“Look Into My Eye EP”, Superfancy Recordings, 2004). Da “Lies” e “Labyrinth” riaffiorano elementi classici per gli anni più rosei di quello che fu dipinto come neo pop: bassline arpeggiate e in ottava, melodie composte in preda alla nostalgia da Commodore 64, Atari VCS 2600 o Amiga 500 e voci vocoderizzate. Il lato b accoglie invece due inediti prodotti tra 2002 e 2005, “The Time Is Coming” e “Constant Transience”, attraverso cui l’artista dimostra ancora una volta di avere un particolare feeling col sid style. A coordinare l’operazione è la neonata Rapid Eye Movement di Jacopo, già al lavoro sulla seconda uscita, la riedizione di un EP diffuso solo su CD in un limitatissimo numero di esemplari.

Heinrich Mueller - False Vacuum Vol 2

Heinrich Mueller – False Vacuum Vol 2 (WéMè Records)
A distanza di cinque anni esatti la belga WéMè Records dà alle stampe il secondo capitolo riepilogativo sull’attività da remixer di Gerald Donald, presenza statuaria dell’electro di Detroit. Ultradyne, Cisco Ferreira, Jauzas The Shining & Victoria Lukas, Albert Van Abbe, Duplex, Fasenuova, The Exaltics, l’italiano 6D22 alias Giorgio Luceri: sono solo alcuni degli artisti che l’enigmatico artista ha rimaneggiato nel suo studio-laboratorio, infondendo costantemente una dose di astrazione mista a divagazioni scientifiche. Un compendio essenziale, impreziosito ulteriormente da tre pezzi solcati per la prima volta su vinile, per i supporter di Donald che, è bene ricordarlo, operò insieme al compianto James Stinson dietro le quinte dei Drexciya e che nel corso di un trentennio si è reinventato più volte coniando progetti destinati a marchiare a fondo la storia dell’electro contemporanea (Arpanet, Dopplereffekt, Japanese Telecom, Xor Gate…). Parte della tiratura è su vinile turchese disponibile sul sito dell’etichetta.

Cristalli Liquidi & Deux Control - Rosso Carnale

Cristalli Liquidi & Deux Control – Rosso Carnale (Artifact)
Per il ritorno del progetto Cristalli Liquidi, assente dai radar da circa un triennio, Bottin (intervistato qui) continua a trasformare funambolicamente musiche del passato riadattandole su nuove matrici. Ora tocca a “Fiore Rosso Carnale” di Annie Pascal, scritto da Pasquale Panella e musicato da Enrico Fusco, modificarsi in un pezzo italo disco intriso di malinconia, quella stessa malinconia che contrassegnò gran parte della dance nostrana nel primo lustro degli Ottanta. A svelare la genesi di “Rosso Carnale” è proprio l’autore: «inizialmente il brano mi è stato commissionato da BDC (Bonanni/Del Rio Catalog), una coppia di collezionisti d’arte che volevano realizzare una tiratura di pochissime copie per la loro etichetta Bon Bon per cui avevo già prodotto una cover di “Bambola” di Patty Pravo cantata dai Diva. Mi hanno chiesto di pensare a qualcosa di esclusivo e il brano l’ho proposto io, poi però non siamo riusciti a metterci d’accordo sui dettagli. Io pensavo a un’edizione d’artista, eventualmente anche un pezzo unico, loro invece avrebbero voluto inserire il 45 giri di “Rosso Carnale” in un oggetto da collezione, una scatola in ceramica con dentro altre cose come avevano già fatto con “Bambola”. Insomma, un progetto più articolato di cui la musica di Cristalli Liquidi era, anche giustamente, solo una parte. L’idea mi piaceva però sentivo che stonava un po’ con quello che avevo fatto come Cristalli Liquidi fino a quel momento, così ho preferito ritirare il pezzo e farlo uscire su Artifact. La tiratura è sempre limitata, ma sono duecento copie e non quindici e il prezzo è quello di un disco 12″, alla portata di DJ e appassionati. La grafica è di Lapo Belmestieri (Industrie Discografiche Lacerba). Un po’ mi dispiace di aver rinunciato all’edizione deluxe ma, pur essendo un “gruppo” di nicchia (per non dire peggio), Cristalli Liquidi ha un’identità e un “carattere” che talvolta mi obbligano a delle rinunce. Anni fa, per esempio, ho declinato l’offerta di aprire i concerti di un certo cantante pop perché mi sarei sentito fuori luogo mentre non avrei avuto problemi a fare un DJ set come Bottin nello stesso contesto. Si potrebbe obiettare che Cristalli Liquidi alla fine sono sempre io, ma la verità è che quando faccio cose come Cristalli Liquidi mi sento di lavorare per un progetto che ha una sua autonomia e che, in futuro, potrebbe essere portato avanti anche da qualcun altro».
Ad affiancare Bottin, per l’occasione, è il duo italo francese dei Deux Control ossia Edoardo Cianfanelli alias Rodion e Justine Neulat. «Una volta completata l’Italo Version ho pensato, invece di commissionare un remix, di chiedere ai Deux Control di farne una cover, reinterpretando il brano a modo loro senza usare alcuna delle parti originali, neppure la voce» continua Bottin. «Mi hanno mandato quella che sul disco è indicata come Deux Dub che mi è piaciuta tantissimo perché, al contrario della mia che è molto connotata in stile italo disco, potrebbe essere degli anni Ottanta come pure degli anni 8000. Pur essendo un traccia molto diversa dalla mia, Rodion e Justine hanno mantenuto la velocità (111 bpm) e la tonalità del brano originale. Questo dettaglio mi ha indotto a provare a incollare la mia voce sopra la loro versione, una sorta di duetto posticcio. Poi ci è venuta l’idea di mettere la voce di Justine sopra la main version. Alla fine ci siamo trovati con una canzone in due versioni in cui non importa più quale sia l’originale (che poi è una cover) e quale la copia (la cover della cover). Questo meccanismo di dissimulazione dell’autorialità è la chiave di tutto il progetto Cristalli Liquidi (come ben evidenziato in questo articolo/intervista del 2018 a cura di Jacopo Tomatis, nda), e anche nell’album non sempre è chiaro quali sono i brani originali e quali le cover. Si tratta di un procedimento di mise en abyme anacronistica non poi così diverso da quanto fatto con “Volevi Una Hit” nei confronti degli LCD Soundsystem».
Recentemente il pubblico generalista sta riscoprendo l’italo disco o parte di essa attraverso citazioni più o meno riuscite ma con quasi venticinque anni di ritardo rispetto alla prima ondata che ne recuperò le caratteristiche. Da essere un genere stantio e ancorato a un passato nostalgico da brizzolati revivalisti, l’italo disco così è parzialmente (ri)entrata nel gergo comune, complice anche il retromarketing che contribuisce a mitizzare smodatamente il passato. Ma come reagirebbe Bottin se “Rosso Carnale” diventasse un successo radiofonico e finisse nel calderone del pop? «Ne sarei felice ma non accadrà mai e posso spiegarne anche il perché. Questa riscoperta (che poi è la terza o la quarta) dell’italo disco non è dell’italo disco in quanto tale, è un’idealizzazione dell’italo disco di cui si esasperano certi suoni o certi stilemi, ma il mood è completamente diverso. Per esempio manca del tutto quella malinconia da dancefloor alla Valerie Dore che ho invece cercato di “canalizzare” in “Rosso Carnale”, oppure quell’idea di futuro e di futurità. Non che oggi non si creda nel futuro: siamo tutti convinti, chi più, chi meno, che il mondo non finirà domani, ma abbiamo smesso di pensare che il futuro ci porterà della cose nuove e una vita migliore. Crediamo nel futuro ma non nel progresso. Questa disillusione fa sì che molta musica elettronica di oggi non cerchi più di evocare con i suoni un’allegoria del futuro».
Pubblicato in digitale su Bandcamp a giugno con l’aggiunta di un’acappella esclusiva, “Rosso Carnale” viene solcato pure su 12″ dalla Artifact in un’edizione limitata che, come anticipato sopra, si fermerà alle duecento copie. Che per Cristalli Liquidi sia l’incipit di un secondo album, dopo quello del 2017 su Bordello A Parigi? «Vorrei che il progetto continuasse oltre l’attuale ubriacatura anni Ottanta alla “Stranger Things”» illustra ancora Bottin. «Con questo non voglio dire che “I Ragazzi Del Computer” o “Automan” fossero meglio delle serie Netflix, o che Baltimora e Den Harrow fossero qualitativamente migliori dei The Kolors. Non sono un nostalgico e soprattutto non mi interessano i giudizi di valore. Il prossimo singolo dei Cristalli Liquidi potrebbe però avere un sound molto diverso rispetto a quello di “Rosso Carnale”. Anzi, l’avrà, perché l’ho già completato».

DMX Krew - Still Got It

DMX Krew – Still Got It (Cold Blow)
Il nuovo disco di Edward Upton, l’ennesimo di una discografia infinita e in continua evoluzione, si ispira al funk del folletto di Minneapolis e non certamente a caso è racchiuso in una copertina-parodia del promo di “Let’s Work”. “Still Got It” (affiancata da una versione Dub) elettrifica pezzi tipo “Sexy Dancer” o “Uptown” mettendo insieme vocalità, sinuose bassline, vocoder e ampi virtuosismi alla tastiera con immancabile pitch bend. Sul lato b “Paranoia”, registrato nel 1999 ai tempi di “We Are DMX” su Rephlex, e “Cold Dub”, che tirava il sipario sull’album “Kiss Goodbye” del 2005, inciso solo su CD e destinato al solo mercato nipponico ma che la Cold Blow, come annunciato proprio nelle note in copertina, promette di ristampare presto.

Cybotron – Maintain The Golden Ratio (Tresor)
Anticipato da un single sided messo in vendita presso lo stand Metroplex in occasione del Movement Festival svoltosi durante la scorsa primavera, questo disco segna il ritorno del progetto detroitiano Cybotron. Scritto e prodotto da Juan Atkins, autentico punto cardinale della techno, e Laurens von Oswald, nipote del più noto Moritz, “Maintain”, atteso sulla berlinese Tresor, riparte dal punto in cui tutto ebbe inizio. Come in una seduta medianica, si evocano gli spiriti di “Alleys Of Your Mind”, “Cosmic Cars” e “Clear”: a venire fuori è qualcosa che profuma di passato ma contemporaneamente anche di futuro, quel futuro che un tempo si anelava leggendo romanzi di fantascienza dai quali si levavano utopie di ogni genere. Inchiodato su campiture monocromatiche e atmosfere noir e crepuscolari che un po’ ricordano “Hacker” di Anthony Rother, “Maintain” scandisce metronomicamente il tempo e trascina in un mondo cibernetico, abitato da androidi sullo sfondo di pianeti non appartenenti al nostro sistema solare. “The Golden Ratio”, sul lato b, prende le mosse da una serpentina acida che si avvolge in una nebulosa di lead sincronizzata su ipnotiche frammentazioni ritmiche. L’effetto finale suona meno drammatico se paragonato alla severità del precedente. L’EP1 compreso nel numero di catalogo lascia ipotizzare un seguito e, perché no, anche un album che in qualche modo possa riabilitare il progetto con cui Juan Atkins e Rik Davis predissero il futuro nel 1981.

JP Energy - Mathama EP

JP Energy – Mathama EP (Evasione Digitale)
Dopo aver rimesso in circolazione “Punto G” di Marco Bellini e Skeela ed “Escandalo Total/Sweet Revenge” di Andrea Giuditta, Evasione Digitale, l’etichetta portata avanti da Andrea Dallera e Andrea Dama, prosegue la missione di recupero e valorizzazione della progressive italiana d’antan ma questa volta oltrepassa il confine della ristampa mettendo le grinfie su un EP di inediti prodotti nel 1999. Il cerimoniere è Gianpiero Pacetti alias JP Energy, DJ di lungo corso che aveva anticipato l’uscita del disco un paio di mesi fa attraverso un’intervista pubblicata proprio su queste pagine. «Mathama era un posto sul fiume del mio paese dove andavo a fare il bagno da piccolo, pensare a quei momenti evoca ricordi meravigliosi» spiega Pacetti ricontattato per l’occasione. Tre i pezzi, prodotti con Mario Giardini alias Macro DJ nello studio allestito nel retrobottega del negozio di dischi Mandragora, il cui l’artista lombardo fa collidere urgenze ritmiche lineari e svolazzi melodici, incontrastato trademark della corrente progressive nostrana nata nei primi anni Novanta sulla spinta di alcuni DJ toscani e pian piano diffusasi in tutto il Paese, con conseguente depauperamento creativo e cannibalizzazione pop. Pacetti però è un antidivo per eccellenza e risiede al polo opposto del pop, e questo lo si capisce subito poggiando la puntina su “Iridium”, crocevia di pulsazioni di batteria e atmosfere sospese da spy story avvolte nel cuscino di arpeggi lasciati volteggiare in aria. Simile il contenuto di “Voyage (1999 Mix)”, scandita da un pulsante disegno di basso e un’infiorescenza a corimbo di suoni astrali captati da un universo parallelo. Chiude “Cobalt” in cui fanno capolino frenetici riferimenti electronic body music ma virati sempre in quella chiave melodica che fu la cifra distintiva delle produzioni progressive made in Italy negli anni Novanta.

Dressel Amorosi - Synthporn - Cargo

Dressel Amorosi – Synthporn / Cargo (Four Flies Records)
Come anticipato in Discommenti di giugno in cui si parlava di “Buio In Sala”, riecco in azione il duo Dressel Amorosi con un atteso 7″ contenente due brani. “Synthporn”, sul lato a, sembra uscire da una vecchia pellicola blaxploitation, tra fraseggi funky e atmosfere rilassate frutto di un’ipotetica jam session tra Armando Trovajoli e Lalo Schifrin, “Cargo”, sul retro, gira su un blocco ritmico più marcato ma mantenendo inalterato lo spiccato vibe funkeggiante che, a conti fatti, risulta l’elemento di raccordo dei pezzi dei due musicisti capitolini. Sulla rampa di lancio c’è anche il loro secondo album, “Spectrum”, la cui pubblicazione è attesa per il prossimo 17 novembre.

Sissy - Queen Of Discoteque

Sissy – Queen Of Discoteque (Giorgio Records)
Il mercato delle ristampe ha ormai raggiunto dimensioni ciclopiche: probabilmente il numero delle reissue oltrepasserà presto (o forse è già avvenuto?) quello delle produzioni inedite e ciò lascia riflettere su quanto siano profondamente “retrodipendenti” gli anni che viviamo. In tale contesto si inserisce la barese Giorgio Records partita nel 2019 e diretta da Massimo Portoghese, l’ennesima delle etichette indipendenti che si pone l’obiettivo di riabilitare nomi e musiche sepolti dalla polvere degli anni. Per l’occasione a resuscitare, dopo circa un quarantennio, è “Queen Of Discoteque” di Sissy, un pezzo che risentì dell’influsso freestyle statunitense mischiato a retaggi funk ma scarsamente italo nel senso più stretto del termine e forse per questo commercialmente sfortunato. «La tiratura originale su Eyes contò appena duemila copie, decisamente poche per i tempi» racconta Portoghese. «Il disco non fu supportato da alcun tipo di promozione e probabilmente anche questo giocò a svantaggio della sua riuscita. A cantare il brano fu Patrizia Luraschi, autrice anche del testo e ideatrice del progetto insieme a Pierpaolo Beretta. Per “Queen Of Discoteque” (a differenza di “Coloured Rhymes”, ristampato a inizio 2023 dall’olandese Lusso Records, nda) si affidarono al Maestro Rodolfo Grieco che si occupò della produzione ma nel momento in cui non ci furono più nuove idee da intavolare, il progetto si arenò».
Rimasto nel dimenticatoio per quasi quattro decenni, tolta qualche apparizione in compilation riepilogativa e una manciata di bootleg, “Queen Of Discoteque” ritorna quindi nei negozi di dischi attraverso una ristampa meticolosamente curata in ogni dettaglio, dalla copertina al restauro del master a firma Tommy Cavalieri. «Non è stata un’operazione veloce, ho tampinato il Maestro Grieco per almeno tre anni» spiega ancora Portoghese. «Non potemmo procedere con la licenza perché alcune persone mi anticiparono di pochissimo ma lui, sin da subito, si mostrò scettico e, per mia fortuna, ha preferito aspettare prima di ufficializzare il tutto. Quando capì che non se ne faceva più niente, iniziammo a progettare la ristampa su Giorgio Records. Si è fidato di me e oggi ci vogliamo molto bene, è una bravissima persona. Una peculiarità distintiva dell’operazione è la presenza di due versioni inedite, Unreleased Vocal e Unreleased Instrumental: le ho trovate restaurando il nastro originale. Credo furono tagliate per realizzare il formato 7″».
Contesissimo nel mercato dell’usato, sul quale da anni viaggia a cifre tutt’altro che modiche, “Queen Of Discoteque” si prende dunque la rivincita. «In cantiere ho un’altra produzione del Maestro Grieco alias Rudy Brown (come si firmò ai tempi di Sissy, nda), “She’s Gone Away” di Jimy K, uscita sempre su Eyes nel 1984. Praticamente introvabile, è un cult, scritto insieme a Naimy Hackett, che conto di pubblicare prima di Natale. Seguirà, nel 2024, “You’ll Be In Paradise” di Salentino, con le versioni originali del 1985 a cui si affiancheranno un rework di Franz Scala della Slow Motion Records e un edit dell’amico James Penrose alias Casionova» conclude Portoghese.

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (luglio 2023)

Dischi Spranti

Various – Dischi Spranti (Dischi Spranti)
Max Nocco annunciò la nascita della Dischi Spranti attraverso un’intervista pubblicata un anno fa proprio su queste pagine. Per il debutto la neoetichetta salentina, curata dallo stesso Nocco e Marco Erroi, raccoglie otto tracce in un collage multicolore ancorato all’area elettronica. Si parte con Franza e la sua “What Game Are We Playing?” dove la linea di basso si accartoccia e finisce in una spirale di raggi luminosi, e Francesco Fisotti affiancato da Done e la loro “E Mi Chiamerai?”, un ganglio tra funk, boogie e hip hop con liriche in italiano. Con “Shibui” di Queemose giungono echi orientaleggianti incastrati in un comparto ritmico che affonda le radici in umori balearici, “My Ghetto Acid” di Rah Toth And The Brigante’s Orchestra è straniante afrobeat in slow motion da cui filtrano echi jazz mutanti trafitti da lascive lingue acide, “Mamanera” di Populous salda reggae, calypso e moombahton con inserti raggamuffin, “Dhalsim” di Kamaji torna a frugare in riferimenti orientali (forse un rimando al personaggio indiano del capcomiano “Street Fighter”?) spezzettati e srotolati su un tappeto uptempo, “Wonderboy” di Wonderboy pare nascere dalle viscere di “Need You Tonight” degli INXS innescando una cascata di suoni cristallini e agitando romanticismi new wave. In fondo c’è “Ylenia” di Michele Mininni, pronto a portare per mano l’ascoltatore verso aree di cosmo inesplorato, tra leftfieldismi sorridenti in salsa kraut. Un’iniziativa musicocentrica quella della Dischi Spranti, limitata alle 410 copie di cui 20 in versione splatter, 20 marmorizzate e 70 trasparenti, tutte numerate, le restanti invece su tradizionale plastica nera. A impreziosirle ulteriormente è l’arte di Massimo Pasca che ne ha curato la copertina. Un’opera davvero “spranta” dunque, termine derivato dal dialetto salentino che, come chiarito nell’info sheet promozionale, «è qualcosa tra il verace e il grezzo, l’irruento e il veloce, ma soprattutto vera e autentica», e oggi il mondo della musica ha bisogno più che mai di autenticità.

The Exaltics - The 7th Planet

The Exaltics – The 7th Planet (Clone West Coast Series)
L’electro è un genere su cui si è lanciata una pletora di artisti o presunti tali. L’altissima concentrazione produttiva ha prevedibilmente finito con l’appiattire la creatività e banalizzare certe formule diventate ordinarie e vacue quanto l’uso contemporaneo degli aggettivi “iconico” o “visionario”. Tuttavia esistono delle eccezioni come Robert Witschakowski alias The Exaltics che, nell’ultimo quindicennio, ha saputo dare un indirizzo personalizzato all’electro senza imitare o scomodare i geni del passato. La sua è stata un’escalation costante sviluppata attraverso un cospicuo repertorio a cui da una manciata di settimane si è aggiunto un nuovo album, il terzo per l’olandese Clone, dopo “Some Other Place” del 2014 e “II Worlds” del 2019. Le sorgenti ispirative restano le stesse a cui ci ha ormai abituati, passate magistralmente in rassegna in “The 7th Planet”, aperto da un intro (“Landing Process”) e chiuso da un outro (“We Would Do It”) che hanno il chiaro sapore di viaggi interspaziali. All’interno si articola un percorso dominato da geometrismi ritmici, bassi corpulenti e impianti armonici meccanici (“Lets Fly The Gravity Fighter”, “Higher Levels”, “Resurface”, “The Long Goodbye”), incapsulati sotto un’atmosfera severa, rigida, ulteriormente rafforzata dagli interventi vocali di Paris The Black Fu (“Did You See Them” e la meravigliosa “Lif Eono Ther Planets”, cupa e oppressiva ma dall’incontenibile vitalità). Di rilievo pure “They’re Coming From Everywhere” e “We Never Had A Chance” dove i riferimenti al suono acquatico di Drexciya sono evidenti ma, come sostenuto all’inizio, l’intenzione dell’artista tedesco va ben oltre lo scimmiottamento e l’epigonismo. Parte della tiratura è solcata su vinile rosso marmorizzato.

Orlando Voorn - Outerworld

Orlando Voorn – Outerworld (Trust)
Ennesima produzione per il prolifico e instancabile artista dei Paesi Bassi, questa volta al debutto sull’austriaca Trust. Comune denominatore è un’estetica affine alla scuola techno di Detroit che parte da un saliscendi pneumatico (“Shockwave”, per cui è stato realizzato anche un videoclip) dal quale si passa a un carrello elevatore impazzito issato da taglienti blipperie e sequenze mandate in reverse (“Outerworld”) e poi a un ascensore che precipita violentemente negli abissi marini (“Reverse Psychology”) alla ricerca di possibili nuove forme di vita subacquee. Nella nota conclusiva, “Space Trap” – una possibile storpiatura intenzionale e ironica del più canonico Space Trip? – , Voorn si cimenta in una base trap per l’appunto lanciata nelle oscurità spaziali.

Manhattan Project - More Time Delivery - Stay Forever

Manhattan Project – More Time Delivery/Stay Forever (Flashback Records)
Analogamente a quasi tutti i generi musicali, anche l’italo disco annovera artisti nazionalpopolari celebri persino nelle balere, e altri la cui notorietà è invece circoscritta a piccoli nuclei di adepti proprio come nel caso di Manhattan Project, guidato da Riccardo Maggese e passato alla storia con un 12″ del 1986, a cui abbiamo dedicato qui un ampio approfondimento, commercializzato in una copertina in tessuto firmata da Riccardo Naj-Oleari che senza dubbio ha contribuito ad alimentarne il culto. In qualche modo, questo ritorno inizia esattamente lì dove era finita quella timida comparsata di trentasette anni or sono e lo si intuisce subito osservando l’etichetta centrale, parodia di quella della City Record, e ascoltando “More Time Delivery” che porge immediatamente il gancio a “Guinnesmen”. Bassline nervosa, ampie planate di synth lead, un’impronta vocale romantica: gli ingredienti dell’italo più classica ci sono davvero tutti. “Stay Forever”, sul lato b, prosegue nello stesso solco, ma con un pizzico di eurodisco in più. A produrre il mix è il finlandese Kimmo Salo per la sua Flashback Records impegnata ormai da un ventennio sul fronte del recupero dell’italo disco. Degna di menzione anche la copertina con cui il designer Juan Calia cerca apertamente il parallelismo grafico e cromatico con quella di “That’s Impossible/Guinnesmen”, ormai un cimelio per cui i collezionisti più incalliti sono disposti a spendere più di qualche centone.

Jensen Interceptor - The Fontainebleau Plus Remixes

Jensen Interceptor – The Fontainebleau Plus Remixes (Monotone)
Mikey Melas, il fecondo produttore che ha preso l’alias artistico da una vecchia auto sportiva, approda sull’etichetta di Larry McCormick alias Exzakt con un brano, sinora riservato a una compilation giapponese del 2016, che pare essere saltato fuori da un nastro inciso durante il periodo della breakdance e dei ghettoblaster. Dall’ossessivo beat emerge un frammento vocale carpito da un classico hip hop, “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock, presenza praticamente fissa nelle performance ai campionati DMC a cavallo tra anni Ottanta e primi Novanta. A rendere il tutto più emozionante e brioso sono però i remix dai quali si irradiano nuovi fasci di suoni e ritmi: Exzakt e BFX arroventano la materia sino a renderla incandescente, Salome ne sollecita le torsioni velocizzando l’esecuzione e inserendo nuovi fill di batteria e qualche richiamo hoover, Cisco ‘The Advent’ Ferreira col figlio Zein si divertono a sfibrare un lungo pattern ritmico, e infine DJ Godfather arricchisce il tutto con nuovi elementi melodici. Old school never die.

Scandinavia Bass Dreams

Various – Scandinavia Bass Dreams (Stilleben Records)
Ennesimo various EP per la Stilleben Records, piccola etichetta svedese fondata da Luke Eargoggle alla fine degli anni Novanta e legata a doppio filo all’electro. Ad aprire le danze sono “NoTV” e “The Broadcast” dei Television, neo progetto islandese messo su da Thorgerdur e Kuldaboli e sviluppato attraverso strutture ritmiche convenzionali ridotte all’asso, impianti melodici altrettanto minimalisti guidati dal gusto per il cibernetico e atmosfere spaziali. Sul lato b “Velour” di Br.Beta, dove i protagonismi melodici sono limitati e la malinconia new wave viaggia su binari kraftwerkiani, e infine “Olivedal” di Sir Kenneth Ray, ennesima incursione in un suono rasserenante, placido, pacato, che lascia immaginare androidi con un cuore umano pulsante sotto la pelle in titanio.

Moana Pozzi - Dance Hits

Moana Pozzi – Dance Hits (Mondo Groove)
Era prevedibile che nel flusso interminabile di ristampe finisse anche il nome di Moana Pozzi, coinvolta in alcuni progetti discografici alla fine degli anni Ottanta come descritto qui. A trainare l’EP è “Supermacho”, un brano pubblicato originariamente nel 1989 dalla romana ACV Sound su un picture disc limitato a un centinaio di copie pare mai distribuite e per questo conteso a prezzi piuttosto considerevoli sul mercato dell’usato. A produrlo Paolo Rustichelli intrecciando ciò che restava dell’italo disco con un pulsante impianto ritmico a metà strada tra house music ed eurodisco. È sempre Rustichelli, trincerato dietro il moniker Jay Horus, a comporre “Impulsi Di Sesso” destinato al film (erotico ovviamente) “Diva Futura – L’Avventura Dell’Amore”, e “Let’s Dance”, finito sul lato b del 7″ “L’Ultima Notte”, pure questo sembra mai distribuito ufficialmente. A completare è “Bonita”, un inedito che, come spiega la Mondo Groove nelle note introduttive, era utilizzato dalla Pozzi per le sue esibizioni e in cui la vocalità ammiccante fa il verso alla sensualità di Jane Birkin. Cult o trash? Il confine diventa labile.

Konerytmi - Teoreema EP

Konerytmi – Teoreema EP (Domina Trxxx)
È diventato piuttosto complicato stare dietro a tutte le uscite di Konerytmi, l’ennesimo dei moniker che nel 2020 Kirill Junolainen ha aggiunto al suo già imponente repertorio. Per questo EP su Domina Trxxx l’artista russo trapiantato a Turku, in Finlandia, ripesca a piene mani dall’immenso calderone stilistico che contraddistinse le annate 1998-2002 fatto di continui rimandi retrò (electrofunk, italo disco, new wave, synth pop). Così quando parte “Breikkitanssi” si ha l’impressione di avere a che fare con una sorta di nuova “Space Invaders Are Smoking Grass”, “Teoreema” fruga nei vintagismi ritmici di 808iana memoria con ghirigori melodici, “Avaruusunelma” ha il sapore delle prime prove strumentali targate DMX Krew, “Tikkukaramelli” sterza verso una specie di house chicagoana, scheletrica, essenziale e minimalista. Quasi in contemporanea nei negozi è arrivato pure “Astrodanssi EP” su Electro Music Coalition, con cui l’instancabile Junolainen maneggia ambientalismi aphexiani e incandescenti filamenti acidi, a cui seguirà presto “Tietovirta EP” sulla sopramenzionata Stilleben Records.

PRZ - Synthetic Man

PRZ – Synthetic Man (Clone West Coast Series)
Gal Perez è alla seconda prova su Clone dopo “Wishmaker EP” del 2021. Questo nuovo disco riprende il discorso lasciato in sospeso dal precedente, su una possente formula electro techno drexciyana (“LFO Brain”, “Double Data”). Il lato b, con la title track “Synthetic Man”, parte alla volta di un suono più ruvido che ruota come una trivella producendo schegge acide che schizzano via come scintille durante un impegnativo lavoro di saldatura. A tirare il sipario è “Pulsar” con cui l’autore si lancia ancora a capofitto in soluzioni stinsoniane intersecate a sibilanti riff che accrescono il livello di tensione.

Dana

Dana – Estate (Disco Segreta)
Devota alla riscoperta di tesori nascosti della nostra produzione disco/filo disco/post disco ancorata al segmento temporale ’68-’89, la Disco Segreta sapientemente guidata da Carlo Simula si conferma come una delle “etichette di salvataggio” più attente e meticolose. Per l’occasione rimette in circolazione due pezzi (gli unici del repertorio?) dei Dana, band attiva tra ’77 e ’80 e capitanata dal cantante e musicista sardo Gianni Virdis. “Estate” esce originariamente nel ’77 sulla Tekno Record di Franco Idini in formato 7″, ed è un ridente pezzo disco funky dedicato alla stagione calda e in tal senso la Disco Segreta non avrebbe potuto scegliere momento migliore per rilanciarlo. Il lato b prosegue il discorso con “S’Inghelada” in cui il mood resta il medesimo con inserti vocali in vernacolo sardo con tanto di falsetto tipico della moda musicale di quel periodo influenzata dal successo planetario di “Saturday Night Fever”. Rimasti confinati a una diffusione regionale, come avveniva a tanti 45 giri prodotti da piccole indipendenti, e pare penalizzati da una masterizzazione e stampa non eccelsi, i brani dei Dana tornano quindi a riecheggiare a distanza di quasi mezzo secolo adeguatamente rimasterizzati e solcati su un 12″ colorato da 180 grammi. Appena cento però le copie stampate da Disco Segreta, destinate a trasformarsi a loro volta in memorabilia negli anni a venire.

(Giosuè Impellizzeri)

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Thomas Barnett, tra gli alfieri dimenticati della techno di Detroit

Come ogni altro genere musicale, anche la techno ha i suoi protagonisti non celebrati a sufficienza e Thomas Barnett potrebbe essere uno di questi. Nativo di Detroit, debutta quando è solo diciannovenne al fianco di Derrick May per “Nude Photo” di Rythim Is Rythim, secondo disco della Transmat a cui segue, pochi mesi dopo, “I Can Feel It” che realizza nello studio della Metroplex di Juan Atkins a nome Paris. Incomprensioni ed estromissioni autoriali, descritte qui, lo allontanano da May e probabilmente non remano a suo favore, soprattutto sul fronte promozionale. Barnett riappare nel 1992 sulla britannica Infonet di Chris Abbot con “Liquid Poetry” con cui inaugura il moniker Subterfuge, entrato presto nell’orbita di un’altra etichetta europea, l’olandese Prime che pubblica vari 12″ e anche l’album “Synthetic Dream”. Nel ’96 per il detroitiano è tempo di varare la propria label, la Visillusion. Seguono altre produzioni su etichette tedesche, Climax Records, Psycho Thrill, Dreamhunter e Audiomatique Recordings, che traghettano l’artista nel nuovo millennio quando si reinventa ancora come Groove Slave e dà alle stampe nuovi EP con cui tiene viva l’attenzione per la techno che resta, indiscutibilmente, il suo riferimento primario.

01) Thomas Barnett (198x)
Un giovane Barnett negli anni Ottanta

Quando e come la musica è diventata parte integrante della tua vita?
La musica gravita intorno a me fin da bambino. Mio padre mi fece conoscere tutti i generi esistenti ai tempi e in famiglia ballavamo brani come “Love Rollercoaster” e “Fire” degli Ohio Players, “For The Love Of Money” e “I Love Music” degli O’Jays e “Fight The Power (Part 1 & Part 2)” degli Isley Brothers. Earth, Wind & Fire, Harold Melvin & The Blue Notes e Commodores erano praticamente in “alta rotazione” tra le mura di casa Barnett, così come Electric Light Orchestra, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Foreigner e Gary Wright, giusto per citarne alcuni. Poi, quando iniziai a scoprire cose per conto mio, mi imbattei nella musica di Yellow Magic Orchestra, Kraftwerk, Giorgio Moroder, Prince, Cameo, P-Funk All Stars, Rick James e The Gap Band, solo alcuni degli artisti che entrarono nella mia testa negli anni Settanta.

Come hai recentemente rivelato in un post su Facebook, la tua prima esperienza da DJ si consumò nel 1983 presso la Greg & Bud’s Video Arcade, a Detroit: «c’erano lunghe pause tra una canzone e l’altra e visto che ero un frequentatore abituale di quella sala giochi, chiesi di poter selezionare e cambiare la musica. Mi accordarono il permesso e fui pagato in partite gratuite ai videogiochi». Che musica facevi girare? Ricordi pure quali erano i tuoi videogame preferiti?
Quello a cui giocavo di più in assoluto era Robotron mentre sorseggiavo una Faygo Red Pop e mangiavo patatine Better Made aromatizzate alla salsa barbecue. Poi correvo nel retro e mettevo cose tipo “Wordy Rappinghood” e “The Genius Of Love” dei Tom Tom Club, “Let’s Work”, “Sexy Dancer” e “Controversy” di Prince, “Funkytown” dei Lipps Inc., “Private Idaho”, “Rock Lobster” e “Mesopotamia” dei B-52’s, “Trans-Europe Express” e “Numbers” dei Kraftwerk, “Flashlight” dei Parliament, “One Nation Under A Groove” dei Funkadelic…

Nasci e cresci a Detroit, un luogo dove, a detta di tantissimi, l’italo disco ha ricoperto un ruolo centrale per i DJ e i produttori della città, analogamente a quanto avviene a Chicago negli anni immediatamente precedenti alla nascita di house e techno. Anche tu hai stretto un rapporto con la musica dance esportata ai tempi dai confini italiani?
In quegli anni ero ancora giovanissimo, i miei genitori non mi permettevano di uscire di casa durante le ore notturne o frequentare le discoteche. L’unica connessione che avevo con quel tipo di musica derivava dalle cassette registrate che ci si passava tra amici e dai programmi mixati trasmessi in radio, tipo quelli degli Hot Mix 5. Tra gli artisti che apprezzavo di quel filone c’erano Gino Soccio, Alexander Robotnick (intervistato qui, nda), Klein & MBO, A Number Of Names e ovviamente Giorgio Moroder. Mi piaceva molto quel suono perché per me colmava il divario che si era creato tra la disco e l’elettronica che amavo in quel periodo.

Quando inizi invece a creare la tua musica, e che tipo di strumenti hai adoperato per ricavare le prime demo?
Cominciai a dilettarmi nella prima adolescenza con tastiere Casio e batterie Synsonics prima di passare a strumenti tipo Korg Poly-800 e Roland SH-101, quando avevo circa sedici anni. Si trattava dell’attrezzatura condivisa con Russell Rice, un amico che viveva nel mio stesso quartiere e col quale avevo allestito un piccolo studio nel seminterrato dei suoi genitori. In un primo momento potemmo contare sul supporto di un batterista un po’ più grande noi ma quando si iscrisse all’Università fummo costretti a procurarci una drum machine. Non ricordo quale fosse esattamente ma senza ombra di dubbio qualcosa di davvero basico e soprattutto priva di suoni che ci piacessero davvero.

2) Paris - I Can Feel It
“I Can Feel It” di Paris, il brano che Barnett realizza nello studio della Metroplex di Juan Atkins e pubblica nel 1987 pochi mesi dopo “Nude Photo” su Transmat

Nel 1987 esce “I Can Feel It” che firmi con lo pseudonimo Paris affiancato da Juan Atkins come ingegnere del suono. Cosa ricordi di quel disco, recentemente ristampato dall’italiana Omaggio?
Conobbi Juan Atkins attraverso Derrick May che gli affidò il lavoro di editing di “Nude Photo”. Juan mi informò che stava noleggiando lo studio della Metroplex e ne approfittai per lavorare lì su alcuni demo: “I Can Feel It” di Paris fu uno di quelli. Una volta pronto, mi proposero di pubblicarlo su Metroplex ma decisi di provarci in modo autonomo con un marchio creato per l’occasione, Tomorrow, perché ritenevo di aver capito come fare dopo l’uscita di “Nude Photo” su Transmat. Probabilmente avrei dovuto lasciare che Atkins e la Metroplex si occupassero di tutto, col senno di poi non avevo la benché minima idea di cosa stessi facendo. Avevo appena diciannove anni ed ero molto inesperto quindi commisi tanti errori in fase di promozione. L’equipment usato per “I Can Feel It” era decisamente elementare, una tastiera Yamaha DX7 II FD per il basso, i suoni di sintetizzatore e i gli archi, batterie Roland TR-808 e TR-909 per le ritmiche. Scelsi di chiamarmi Paris perché, banalmente, mi sembrò un nome cool.

Curiosamente il numero di catalogo del disco in questione era TB 002, che fine fece lo 001?
Non è mai esistito: volevo si generasse un po’ di curiosità e interesse per quella pubblicazione laddove qualcuno si fosse accorto di quel piccolo dettaglio.

03) Nude Photo
I “Nude Photo” su Prime (’93) e Finale Sessions Limited (’18), due tentativi per rivendicare la paternità del brano da cui Barnett viene esautorato

Pochi mesi prima di “I Can Feel It” di Paris, su Transmat esce il citato “Nude Photo” di Rythim Is Rythim che realizzi insieme a Derrick May. Che relazione c’era col “Nude Photo” edito a tuo nome dalla Prime nel ’93, utilizzato anche per veicolare in copertina tutta una serie di ricordi e avvenimenti legati alla genesi della traccia del 1987?
Quel disco conteneva due nuove versioni, My Nude Photo e Your Nude Photo, che realizzai nel 1991. A completamento c’era “Death Of Love (The Nude Photo Opera)” (finita anche nella tracklist di “Synthetic Dream”, album che Barnett firma Subterfuge e di cui si parla nel dettaglio più avanti, nda) nata con l’intento di offrire una visione più trippy e poco ortodossa del tema della traccia originale.

Nel 2018 invece la Finale Sessions Limited ha pubblicato un nuovo “Nude Photo” che contiene pure un remix di Chez Damier.
Mi convinsi a lavorare col compianto Michael Zucker della Finale Sessions per approntare un’uscita che finì per l’appunto su Finale Sessions Limited. Lì dentro, tra le altre, c’erano “Original Day” ispirata dagli albori dell’uomo e al lontano passato della Terra, e “Berlin Nights In Paris / Made In Detroit“.

Come mai dopo le uscite del 1987 hai interrotto la creazione di musica per qualche anno?
In realtà non mi sono mai fermato, ho continuato costantemente a comporre musica ma non pubblicandola. La situazione si sbloccò nel momento in cui Eddie Fowlkes mi diede alcuni consigli e così, a partire dal 1992, approdai su etichette europee come la britannica Infonet e l’olandese Prime.

Perché ricominciasti dal Vecchio Continente?
Le etichette di Detroit non disponevano del denaro sufficiente per pagare gli anticipi, cosa che invece erano solite fare quelle europee, così cedetti la mia musica a chi potesse retribuirmi il giusto compenso.

Sono in tanti (me compreso) a considerarti uno degli eroi della techno di Detroit non celebrati abbastanza. Oltre a Blake Baxter, James Pennington, Art Forest e Cliff Thomas che menzionasti in questa intervista del dicembre 2020, credi ci siano altri pionieri che possano rientrare nella categoria dei cosiddetti “unsung heroes”?
Di sicuro Detroit ha i suoi eroi non celebrati ma per me è difficile fare nomi non sapendo chi si stia facendo notare e chi no. Un vecchio proverbio afferma che “ogni cane ha il suo giorno”, sono certo che tutti coloro che si impegnano a fare qualcosa, prima o poi verranno ricompensati dalla vita.

04) Thomas Barnett (1993)
Thomas Barnett in uno scatto del 1993

Proprio negli anni in cui inizi a collaborare con le etichette europee, la techno esplode come fenomeno commerciale e ciò genera inevitabilmente una pletora di produzioni. Molte di queste però perdono l’imprinting iniziale e finiscono per andare ben oltre il concetto originario di techno contribuendo alla creazione di un nuovo ceppo stilistico basato perlopiù sulla codificazione sonora. Ritieni dunque esista una techno “vera” e una “falsa”? È giusto, come alcuni asseriscono, parlare di techno solo in riferimento a quella prodotta a Detroit?
Secondo me la techno non ha mai perso nulla anzi, continua a crescere contagiando un numero sempre più grande di persone in tutto il mondo. Non mi lascerei ingannare da chi sostiene ci sia un “vero” e un “falso”, è sempre esistita la musica che ci piace e quella che invece preferiamo evitare. Piuttosto, vedo la techno come un linguaggio universale da cui ci nutriamo, indipendentemente dal luogo in cui essa viene creata.

Nel 1996 fondi la Visillusion sulla quale pubblichi la tua musica e quella di colleghi come DJ Reggie e Joshua Harrison. C’è una ragione dietro la scelta del nome?
Visillusion nasce dalla fusione tra le parole “visual” e “illusion” per creare il concetto che descrive uno degli effetti che vorremmo trasmettere con la nostra musica. In tempi più recenti su Visillusion ho ospitato anche altri artisti come l’indonesiano Ecilo, il francese Cloudmasterweed, il detroitiano NVNTR e l’olandese Native 97.

05) Subterfuge - Synthetic Dream
La copertina di “Synthetic Dream”, l’album che Barnett firma Subterfuge nel ’93

“Frequencies From The Abyss” è stato il primo e sinora unico album a tuo nome, pubblicato nel ’99 dalla tedesca Dreamhunter solo su CD. Hai mai pensato di dare un seguito a quel lavoro oppure oggi non ha più molto senso elaborare formati di questo tipo, poco presi in considerazione dalla Spotify generation?
A onor del vero si trattò di un’operazione non ufficiale, “Frequencies From The Abyss” non sarebbe mai dovuto uscire. Il mio primo e unico album, a nome Subterfuge, resta quindi “Synthetic Dream”, edito dalla Prime nel 1993. Avevo quasi ultimato il follow-up ma, in seguito a un furto, trafugarono tutti gli strumenti dal mio studio che purtroppo contenevano in memoria i brani del secondo album. A causa di ciò il disco venne rinviato a tempo indeterminato. Negli anni a seguire ho pubblicato altre cose in varie compilation (come “Let There Be Light” finita in “Trance Atlantic”, sulla Volume del compianto Rob Deacon, nda), singoli ed EP. Ho scritto tanta musica per diversi LP ma non pubblicandola, probabilmente in un futuro non lontano farò uscire qualcosa sulla mia pagina Bandcamp.

I tuoi brani sono apparsi in pubblicità, pellicole cinematografiche e persino in film per adulti: scelte intenzionali o casuali?
Ho semplicemente cercato di far conoscere la mia musica in quanti più modi possibili. Non nutro riserve, quel che mi interessa è far arrivare ciò che faccio a un pubblico più vasto, non importa se con metodi alternativi ai tradizionali.

In passato si poteva guadagnare vendendo i propri dischi, oggi le edizioni limitate di trecento copie sono ormai uno standard e gli affari legati al mercato (o a ciò che resta di esso) risultano piuttosto inconsistenti. Pensi che tutto ciò possa, in qualche maniera, cambiare l’approccio degli artisti, specialmente nell’underground dove acquirenti e sostenitori sono sempre meno?
Gli artisti non smetteranno di comporre la loro musica. La tecnologia rende molto più facile la creazione per cui mi aspetto nuove persone in grado di fare magie sia con apparecchiature ordinarie che con quelle provenienti da studi professionali. In ogni caso quindi, la musica continuerà ad arrivare da qualche parte.

Durante la scorsa primavera hai remixato “About Damn Time” di Lizzo: la scena pop ha forse catturato la tua attenzione?
No anzi, non sono particolarmente attento a ciò che avviene nel pop contemporaneo. Ho deciso di realizzare quel remix dopo aver ascoltato, del tutto casualmente, il pezzo di Lizzo che mi ha colpito per diverse caratteristiche, hook in primis. Ho aggiunto alcune parti di batteria per rinforzarne la struttura per poi velocizzarla e riarrangiarla ottenendo un sapore diverso dall’originale. È stato molto divertente.

Da qualche anno a questa parte molti artisti pop/rock (inclusi gli italiani) hanno iniziato a usare con regolarità pattern ritmici filo dance e suoni di sintetizzatore al posto di strumenti tradizionali come chitarre, pianoforti o sassofoni. I confini tra pop e dance dunque si stanno talmente assottigliando che è difficile stabilire dove finisca uno e inizi l’altro, anche perché tutto suona “elettronico”. È forse un segno della globalizzazione?
Sì, credo che essere più “elettronici” faccia parte di una naturale evoluzione. Però gli stili e mode vanno e vengono, non penso che la musica basata su uno strumento classico tipo la chitarra possa scomparire del tutto, seppur i suoni elettronici prenderanno sempre più piede a livello commerciale, su questo non ho dubbi.

Ha ancora senso parlare di underground nel 2023, o internet sta uccidendo questo tipo di cultura?
Non ne sono sicuro, in un certo senso, forse, l’underground è diventato molto più grande rispetto a ciò che era una volta. La Rete non ha ucciso l’idea di underground ma l’ha fatta evolvere. Gli artisti commerciali esistono ancora e visto che quello che facciamo noi non sarà mai uguale a ciò che fanno loro, l’underground continuerà a vivere in una forma o in un’altra.

06) Low Tech Funk EP (2022, artwork by Abdul Qadim Haqq)
“Low Tech Funk EP”, tra le uscite più recenti su Visillusion. A realizzare la copertina è Abdul Qadim Haqq

Qualche anno fa hai pubblicato una manciata di dischi come Groove Slave, pensi di tornare a usare questo pseudonimo in futuro?
Sì assolutamente, in cantiere ho un progetto per cui riapparirò come Groove Slave. Sarà l’occasione adatta per presentare le mie nuove tracce house.

Per quanto riguarda Visillusion invece, cosa avverrà nel 2023 da poco iniziato?
Ho programmato varie pubblicazioni per quest’anno, diversi remix e pure qualche uscita in vinile.

Da ragazzino consideravo la techno la colonna sonora dei sogni del futuro, per me era il genere più adatto a descrivere l’accelerazione tecnologica, la musica perfetta per tutti gli scenari utopici che ci ha proposto di volta in volta la fantascienza. Oggi viviamo nel futuro e in un mondo dominato da macchine, algoritmi e intelligenze artificiali, ma paradossalmente la techno ha perso energia e visione per mostrare ciò che non esisteva ancora. Dobbiamo legittimamente pensare che il futuro e la techno fossero ieri?
C’è una gamma davvero ampia di techno al giorno d’oggi, credo non ci sia mai stata così tanta varietà nello scenario musicale. Ritengo si stia ancora producendo musica fantastica e ci siano ancora artisti entusiasmanti capaci di creare roba forte.

Qual è il pezzo techno che ti ha mostrato il futuro per l’ultima volta?
È difficile rispondere, c’è così tanta musica in circolazione che ogni settimana sento di avere nuovi artisti preferiti. Alcune tracce ovviamente spiccano su altre. Qualche esempio? “Panoramic Eggnog” di Steffrey Yan, “State Transition” di Olan! e “Bionic Jellyfish” di Ken Ishii.

(Giosuè Impellizzeri)

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Francesco Farfa – DJ chart marzo 1998

Francesco Farfa, DiscoiD marzo 1998



DJ: Francesco Farfa
Fonte: DiscoiD
Data: marzo 1998

1) Basic Implant – Reform EP Vol. 1
Prodotto dal tedesco Sven Dedek e pubblicato dall’allora debuttante Touch Tone Recordings, l’EP in questione raccoglie tre tracce di techno minimale, intagliata nei loop che grondano energia e sudore specialmente in riferimento a “Evoke”, tool agghindato da tutta una serie di micro percussioni e tom impazziti. Medesima metodologia di elaborazione per “Feinrasur”, intricato groviglio di loopismi millsiani. Più rilassata invece risulta essere “Meek Deep”, dove la circolarità e la ripetizione ossessiva viene sostituita da immersioni dub e deep per l’appunto, seppur resti intatto l’ipnotico minimalismo, indiscusso fil rouge del disco a cui, poco tempo dopo, segue il secondo volume.

2) Jammin’ Unit – Deaf Dub And Blind
Archiviate le prime fibrillanti scorribande acid sparse su Structure, DJ.Ungle Fever e Force Inc. Music Works, Cem Oral degli Air Liquide si rimette in discussione apportando significative variazioni alla sua tavolozza stilistica, emerse già nel primo album “Jammin’ Unit Discovers Chemical Dub” del 1995. “Deaf, Dub And Blind” rappresenta la prosecuzione di quel modo personale di intendere la techno che poi non è più solo techno, perché intersecata di volta in volta a riferimenti diversi. Sul doppio vinile c’è spazio per ben tredici tracce che diventano quattordici sul CD (con l’aggiunta di “The Remoteman” affogata nelle irregolarità ritmiche) in cui l’autore fa sfoggio del suo eclettismo: da partiture dub (“Dub Is In The Air”, “Thirst At Dawn”) a deviazioni filo reggae (“32° In The Shade”, “Over The Jordan”) passando per cyberbeat in slow motion (“Blind Television”), punteggiature minimali (“Handbagdub”) ed effervescenti scheletrismi ottenuti con una TR-808 (“Life On The Balkon”). Il doppio LP, pubblicato dalla britannica Blue Planet Recordings, è piuttosto raro e costoso per l’odierno mercato collezionistico.

3) Danny Tenaglia – Elements
Primo singolo estratto dall’album “Tourism”, “Elements” è uno dei pezzi con cui Tenaglia spopola nei club di tutto il mondo alla fine degli anni Novanta e che lo aiuta ad affrancarsi discograficamente dopo tanti lavori rimasti ad appannaggio dei soli DJ specializzati, da Deep State a The King Street Crew, da Soulboy ad Hambone passando per Code 718. Il doppio mix su Twisted America, commercializzato a fine ’97, conta due versioni, The DTour e The Chant (con un frammento vocale preso da “Hills Of Katmandu” di Tantra, arrangiato da Celso Valli), dalle quali emerge un suono intriso di tribalismi e sviluppi inattesi che mettono in crisi chi ai tempi pensa alla house music come genere esclusivamente antitetico alla techno. In aggiunta ci sono tre tool tra cui un’acappella usata a più riprese in svariati contesti. Tenaglia toccherà il cielo con un dito nel corso del ’98 grazie a un altro pezzo tratto da “Tourism”, “Music Is The Answer (Dancin’ And Prancin’)”, accompagnato dalla voce di Celeda.

4) Marco Dionigi – No Sense
“No Sense” è uno dei tre pezzi che il prolifico Dionigi inserisce in “Box Position”, EP edito da un’etichetta diretta in quel periodo da lui stesso, la Tube, caratterizzata da un logo e un nome che suonano come tributo alla copertina di “Tubular Bells” di Mike Oldfield. Ai tempi Dionigi inventa il proprio stile miscelando influenze più disparate e attualizzando quella che una volta veniva gergalmente chiamata “afro”, ma non curandosi però di ideare un nome che potesse, in qualche maniera, identificarlo. «La domanda peggiore che potessero farmi allora era quella di definire la mia musica, non sapevo mai cosa rispondere» racconta in questa intervista qualche anno fa. «Poteva essere una continuazione della cosiddetta afro anche se per stile, comprensibilmente, eravamo su un altro pianeta».

5) Lexicon – The Lessons
Quello dei Lexicon (Len Faki e Jon Silva) è un suono che nella seconda metà degli anni Novanta affonda le radici in territori meticci, con un approccio che cerca di andare oltre la convenzionalità. Questo si apprezza particolarmente in “The Lessons”, il primo dei due album che i tedeschi realizzano tra ’97 e ’98 per la Plastic City: “The Question” e “Kolt Silvers (Rolling Jeep Mix)” incrociano minimalismo techno a rotondità house, “Sexy Thang” tira fuori una chitarra in loop stile french touch su un frammento vocale balbettante, “Superstar” e “Phrunky” sparigliano le carte con innesti breaks e venature funkeggianti, “The Life Saver” è disco trafitta e velocizzata, “The Ryker” sposta il baricentro verso sponde electro cibernetiche con uncinate acide, “Summer Madness” centrifuga suoni acustici a digitali in una spirale sampledelica e psichedelica. Sul CD trovano spazio altre tre tracce (“Funk Corner”, “Placenta” e “Jazz Field”, oltre a una versione differente di “Sexy Thang”, più disco funk oriented) che sfondano ulteriormente le paratie tra i generi.

6) Joe Smooth – Disco Acid EP
Non è specificato ma è presumibile che Farfa facesse riferimento al primo volume della saga Disco Acid uscito a fine ’97 sulla londinese Nepenta. Quattro le tracce incluse al suo interno tra cui, è bene chiarirlo, non si scorge alcun riferimento acid al contrario di quelli disco, sfoggiati con disinvoltura in “Come On Everybody”, take di “Everybody Dance” dei Bumblebee Unlimited giocato coi filtri e spezzettato in tessere shakerate come fa un bartender con gli ingredienti di un cocktail. Ai due cuscini garage (“Oxygen” e “Change”), con melodie pianistiche in primo piano e tenere sofficità deep, si somma infine “Universal Nation”, tappeto ritmico venato di percussioni sul quale l’autore posa il celebre discorso di Martin Luther King. Passato alla storia per “Promised Land” del 1987, intorno alla metà degli anni Novanta Smooth registra comparsate su etichette italiane come UMM, V.O.T.U. e la Active Bass Music di Claudio Donato con cui stringe tra l’altro un rapporto di collaborazione. Nel contempo va avanti coi Disco Acid sino al 2004, quando affida il quinto e ultimo volume alla Trax Records di Chicago sulla quale torna dopo circa dieci anni di assenza.

7) Girl Eats Boy – Cool Disco (Remix)
Dietro Girl Eats Boy opera Lol Hammond, produttore che tra le altre cose vanta una collaborazione con Charlie Hall degli Spiral Tribe marchiata Drum Club e sviluppata attraverso tre album e parecchi singoli (su tutti “U Make Me Feel So Good” e “Sound System” remixata dal nostro Coccoluto). Come solista parte nel ’97 col supporto della Hydrogen Dukebox che manda in stampa prima “Thrilled By Velocity & Distortion” e poi “Comin’ In Loaded” da cui viene estratta “Cool Disco”, una specie di mix tra Propellerheads e Chemical Brothers. I tre remix solcati sul 12″ puntano più alla ballabilità, soprattutto quello dei System 7 dove un metti e togli strumentale fa quadrato intorno al breve messaggio vocale che ripete il titolo. Spassionato chemical beat nella reinterpretazione dei Chamber mentre gli A1 People ne ricavano qualcosa che suona come una sorta di house mutante con granulosità e rastremature electroidi.

8) Beroshima – Deebeephunky
“Deebeephunky” è uno dei primi dischi che Frank Müller destina alla sua nuova etichetta, la Müller Records, fondata dopo la chiusura della Acid Orange. Mollati gli istinti animaleschi dell’acid più tagliente e sfibrante, il berlinese si lancia in una techno muscolare e ricca di passaggi armonici e variazioni ritmiche da cui si innalzano cortine fumogene proprio come in “Deebeephunky (Just Money Is Honey)”, con astrattismi sullo sfondo a iniettare ulteriori vampate di energia. Effetti zigzaganti in reverse guidano “The Prisoner” mentre una sega circolare arroventata taglia come burro la massicciata di beat di “Seduction”. Nel nuovo millennio Beroshima virerà verso un suono con porzioni maggiori di melodia e riferimenti EBM per poi tornare alla techno con movenze dubbeggianti in tandem con l’amico Ulrich Schnauss.

9) Mr. Message – Let Me Take “U” Up
Uscita allo scoperto nell’autunno del 1997, Audio Esperanto è la piccola etichetta nata dalla sinergia tra Francesco Farfa e la Media Records. «Bortolotti creò una squadra di DJ molto ampia, schierata come l’Invincibile Armata spagnola, e aveva tutte le potenzialità per realizzare un grande progetto alternativo aggiungendolo ai numerosi successi collezionati negli anni passati» racconta Farfa in questa intervista. «Sia a lui che al socio Mauro Picotto piacque l’idea di Audio Esperanto perché spiccatamente alternativa a tutto ciò che girava in Media Records in quel periodo, e così iniziai a collaborare con loro». “Let Me Take “U” Up” è il brano con cui il DJ toscano, trincerato dietro lo pseudonimo Mr. Message, dà quindi avvio al progetto mettendo subito nero su bianco le sue intenzioni. Tre le versioni: la Long Train Mix, sul lato a, brulica di suoni prog techno marciando sotto un cielo plumbeo e scenari distopici tratteggiati da un break sospeso in atmosfere bladerunneriane. Sull’altro lato la Catch On Mix, in battuta spezzata con un pizzico di sound à la Fluke e scratch nell’alveo ritmico, e la Smile Vibe Mix, che chiude con evoluzioni tipiche del cosiddetto “sound of Tirreno” di cui Farfa viene ricordato tra gli iniziatori insieme a Miki Il Delfino. Con la ripubblicazione in Germania, “Let Me Take “U” Up” viene ulteriormente riletta in un remix da Toni Rios e WJ Henze in cui vanno dispersi però i caratteri originali a favore di una formula più generalista.

10) Freak Alliance – Mono Culture
Freak Alliance è solo una delle ragioni sociali con cui Klaus Krumme e Frank Thelen firmano musica negli anni Novanta. La loro techno è rocciosa, granitica, ritmicamente monolitica e geometrica come rivela “Reliance”. “Mono Culture” è una corsa su un rettilineo col pedale dell’acceleratore pigiato a fondo, “Outland” gioca coi doppiaggi incrociati dei suoni su una base saltellante. Il tutto sulla Overdrive di Andy Dux che crede nei Freak Alliance al punto da pubblicare anche un album su CD, “Division 1”, in cui gli autori esplorano vie meno danzerecce ai confini con l’ambient.

(Giosuè Impellizzeri)

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Negozi di dischi del passato: Disco International a Ivrea

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Disco International col titolare Maurizio De Stefani

Quando apre i battenti Disco International?
Il negozio venne inaugurato a dicembre 1979 nel centro della città, dopo mesi di lavori di ristrutturazione di un vecchio magazzino chiuso da tempo. Il giorno dell’apertura invitammo alcuni dei DJ e speaker in onda sulle radio locali più “importanti” per far capire fin da subito che da quel momento anche ad Ivrea sarebbe stato possibile trovare gli ambiti dischi d’importazione, fino ad allora acquistati nei negozi di Torino, Biella o Milano. Io stesso ero “costretto” a comprare dischi nel capoluogo piemontese, facendomi aiutare peraltro da mio fratello, più grande di me di nove anni, che per riunioni di lavoro si recava a Torino una volta al mese. Non ancora maggiorenne, davo a lui la lista coi titoli che cercavo e coi pochi soldi guadagnati in radio riuscivo ad accaparrarmi le novità discografiche prima degli altri. Fu proprio quello il motivo che mi fece balenare l’idea di aprire un negozio di dischi che mancava ad Ivrea. A quel punto mio fratello smise di fare di rappresentante ed io, che nel frattempo raggiunsi la maggiore età, mi rimboccai le maniche e dalla nostra collaborazione nacque Disco International.

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Una foto del Disco International scattata nel 1993

Perché optaste per quel nome?
Emerse da un “consulto” coi colleghi della radio in cui lavoravo. Eravamo in cerca di un nome che potesse dare l’idea di qualcosa che non fosse il solito negozio di dischi e cassette. Volevamo creare un punto di riferimento per i DJ, per le discoteche (che stavano proliferando in maniera esponenziale), per le radio e per i semplici appassionati di musica dance. L’abbinamento tra le parole Disco, pertinente sia per il prodotto trattato che per il concetto di discomusic o discoteca più in generale, ed International, a rimarcare il concetto di musica che arrivava dall’estero e quindi d’importazione, ci sembrò adeguato oltre che essere facile da ricordare e da pronunciare.

Che investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
Essendo trascorsi più di quarant’anni non ricordo precisamente quanti soldi occorsero per partire, ma tra qualche piccolo prestito e l’aiuto di papà, che era andato da poco in pensione e pure lui commerciante, seppur di tutt’altro genere, riuscimmo ad alzare la saracinesca del Disco International che nell’arco di qualche anno divenne una bella realtà.

Operavano altri negozi di dischi analoghi nell’eporediese?
Come anticipavo prima, c’erano altri negozi di musica ma non trattavano dischi d’importazione e soprattutto non vendevano i cosiddetti “discomix” da discoteca, ovvero i dischi grandi come gli LP ma con uno/due brani per lato e “costruiti” in modo differente da quelli che venivano solitamente trasmessi per radio. Le stesure infatti, oltre ad essere più lunghe, contavano su un intro ed un outro strumentali che permettevano al DJ di mixare il brano con quello successivo. Oggi può sembrare banale ma allora rappresentò una vera e propria novità nel mercato musicale.

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Un altro scorcio del Disco International: in evidenza i flight case per i DJ e la cabina telefonica

Com’era organizzato il punto vendita?
Era grande circa una settantina di metri quadri e composto da un enorme banco di lavoro simile ad una grande consolle da discoteca che contava tre giradischi (ai tempi considerata avanguardia!) ed un mixer. Un reparto era destinato alle musicassette a cui, in seguito, si aggiunsero i Compact Disc, uno agli LP ed uno ai mix contestualmente a tutta l’attrezzatura destinata ai DJ. In fondo al negozio, infine, si trovava la sala d’ascolto con un’altra consolle attraverso cui era possibile ascoltare dischi in maniera più approfondita. A decorazione dell’ambiente c’erano un jukebox anni Settanta funzionante ed una cabina telefonica britannica, originale e non una replica prodotta in Italia.

Che generi musicali trattavate con particolare attenzione?
Per ovvie ragioni la nostra priorità era rivolta al materiale d’importazione, motivo per cui era nato il negozio stesso, ma trovandoci nel centro storico della città con grande passaggio di gente, non mancava nulla delle novità anzi, col passare del tempo il catalogo si ampliò sensibilmente in modo da avere sempre o quasi tutte le discografie di artisti italiani e stranieri.

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
Non so rispondere in modo preciso ma ricordo benissimo le seicento copie di una compilation di Sanremo di fine anni Ottanta, le oltre mille copie, tra LP, CD e cassetta, di “Oro Incenso & Birra” di Zucchero, e le mille (e forse di più) di “…But Seriously” di Phil Collins. Senza dimenticare ovviamente le centinaia di copie di mix di alcuni titoli dance.

Praticavate anche commercio per corrispondenza?
Raramente. A tal proposito ho un paio di ricordi: ogni tanto giungevano ordini da un negozio in Toscana, in difficoltà nel trovare certi mix, e per qualche anno un DJ faceva ordini settimanali dalla Sardegna.

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Una borsa con la serigrafia del Disco International, solo uno dei tanti gadget marchiati con il logo del negozio che finisce anche su slipmat, t-shirt, giubbotti k-way, toppe per jeans, portachiavi ed ovviamente adesivi

Quali furono i tre bestseller?
Ho già menzionato qualche risposta sopra quelli legati alla musica leggera. Per quanto concerne la dance invece cito “The Glow Of Love” dei Change, un LP del 1980 che inizialmente arrivò d’importazione su Warner Bros./RFC Records sebbene il gruppo fosse italiano per metà, prodotto da Jacques Fred Petrus e Mauro Malavasi. Era un disco conosciuto quasi esclusivamente dai DJ ma ogni volta che mostravo le novità ai clienti “normali” proponevo questo album composto da sei brani, uno più bello dell’altro, convincendoli ad acquistarlo. Poi, col passare dei mesi, grazie alla programmazione radiofonica e la pubblicazione italiana, su Goody Music Records, il disco divenne un vero successo, con ben quattro singoli estratti confermando in pieno le mie previsioni. Un altro successo fu “Dance Hall Days” dei Wang Chung, uscito alla fine del 1983: appena lo sentii passare in radio ne ordinai cento copie, cosa che non avevo mai fatto prima di allora ma i fatti poi mi hanno dato ragione. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, è il 12″ di debutto dei Daft Punk, “The New Wave”, uscito nel 1994 sulla scozzese Soma. Della stampa import arrivarono pochissime copie ma ogni volta che riuscivo a trovarne una la prendevo e la vendevo subito a quei DJ che iniziavano ad inserire nei propri programmi house più elettronica. A forza di richieste (anche mie!), dopo qualche mese la Flying Records decise di licenziarlo e pubblicarlo in Italia su UMM, e qui scatta l’aneddoto: in qualità di negozio, ricevevo il “servizio novità” dalla Flying Records che consisteva nell’invio di una copia di tutto quello che sarebbe uscito nel corso del mese successivo, un servizio che l’etichetta/distributore di Napoli destinava anche alle radio e ai DJ famosi. Una sera, al Due di Cigliano, c’era ospite Fargetta. Appena finì il suo set, io e Sergio (Datta) iniziammo con “Alive”, incisa sul lato b di “The New Wave”. A quel punto Fargetta tornò in consolle per chiederci il titolo del disco e glielo rivelai senza problemi, aggiungendo che fosse una delle novità appena giunte dalla Flying Records. Pochi giorni dopo “Alive” aprì una puntata del DeeJay Time.

C’erano DJ noti a frequentare Disco International? Ad essi erano riservati trattamenti particolari?
Da Disco International passavano tutti i DJ della zona, assai ampia poiché non si limitava ad Ivrea e al Canavese ma abbracciava anche il Biellese, la cintura torinese e la Valle D’Aosta. Tra i tanti c’era Gigi D’Agostino col quale, in quel periodo, divisi la consolle dell’Ultimo Impero, del Due e del Palladio e col quale diedi vita al progetto discografico Voyager (di cui parliamo qui, nda), insieme all’amico comune Sergio Datta. Non abbiamo mai riservato trattamenti particolari a nessuno ma quando arrivavano poche copie di un titolo importante poteva esserci una preferenza nei confronti di chi comprava di più o lavorava in un locale importante.

Quale fu la richiesta più stramba o particolare avanzata da un cliente?
Le assurdità erano all’ordine del giorno, soprattutto quelle legate a titoli ed autori sbagliati. A volte bisognava mettercela davvero tutta per interpretare ciò che la gente chiedeva al bancone, e in tal senso direi che il primato se lo giocano “il nuovo 45 giri di Sabrina Palermo” (Sabrina Salerno) e “il disco di Rondissone Veneziano” (Rondò Veneziano). Rondissone, per giunta, è un paesino non distante da Ivrea.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
Tante, forse troppe. Non è possibile stabilire una media perché molto dipendeva dal periodo di uscita, tipo quei dischi che miravano a diventare strenne natalizie, quelli pubblicati in primavera, quando tutti volevano essere i depositari del pezzo dell’estate, o quelli che arrivavano sugli scaffali a settembre, un altro periodo decisivo dell’anno perché c’era tanta voglia di musica nuova dopo almeno un mese di stasi quasi completa.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare? Ti fidavi dei consigli e suggerimenti dei distributori?
Mi fidavo dei distributori ma fino ad un certo punto, era il mio “fiuto” a determinare gli acquisti, e devo ammettere che spesso ho avuto ragione.

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Un portachiavi a forma di disco in vinile marchiato Disco International

Quanto pesava sul rendimento di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ particolarmente “di grido”?
Nei primi anni Ottanta non c’erano ancora i network bensì affermate realtà radiofoniche locali e, a seconda della zona, un disco spinto dalle emittenti private e dai DJ locali più conosciuti poteva sicuramente ottenere riscontri migliori rispetto ad altri. Con la nascita dei network e col carisma di alcuni speaker, Albertino su tutti, il mercato prese un’altra piega e lo ho potuto constatare in prima persona, vedendo crescere sensibilmente le vendite e la popolarità delle mie produzioni nel momento in cui venivano trasmesse dalle radio che coprivano l’intero Paese o selezionate dai DJ importanti.

È capitato di vendere tante copie di un disco proprio in virtù dell’appoggio pubblicitario a cui si faceva riferimento?
Sì, assolutamente. Il caso più eclatante è quello di “Blue (Da Ba Dee)” degli Eiffel 65: rimase sugli scaffali per mesi nella più completa indifferenza, poi, all’improvviso, dopo il passaggio in una nota radio, iniziò a vendere con risultati ormai noti a tutti.

Quale invece quello che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più ma che rimase confinato all’anonimato o quasi?
“A Caus’ Des Garçons” dell’omonimo duo francese, uscito nel 1987. All’epoca lavoravo in una discoteca in Valle D’Aosta e lì, grazie alla propensione verso la musica transalpina, riuscii a metterlo in un certo periodo, ma per il resto fu praticamente ignorato.

Spesso i negozi di dischi erano pure la culla di produzioni discografiche o il crocevia di persone che bazzicavano gli studi di registrazione. La tua attività discografica, iniziata nei primi anni Ottanta, ha mai conosciuto un rapporto stretto col Disco International oppure sono sempre rimaste due attività indipendenti l’una dall’altra?
Disco International mi ha permesso di conoscere persone e colleghi, e le idee per i vari progetti discografici che si sono succeduti nel corso del tempo sono quasi sempre partite da lì. Il mio disco di debutto ad esempio fu firmato 4 M International ed era una chiara citazione del nome del negozio.

4 M International - Space Operator
“Space Operator”, primo ed unico disco che Maurizio De Stefani e Maurizio DiMaggio realizzano come 4 M International nel 1982

Il disco a cui ti riferisci è “Space Operator” di 4 M International, progetto del 1982 che ti vide in coppia con Maurizio DiMaggio e che venne spalleggiato dalla Good Vibes. Diventato un piccolo cult dell’italo disco della prima ora, è stato ristampato a più riprese negli ultimi anni. Puoi raccontare le fasi della produzione di quel disco?
Nei primi mesi del 1982 ero a casa seduto davanti ad una tastiera per strimpellare note, memore delle lezioni di pianoforte che presi per quattro anni da ragazzino. Un giorno buttai giù quello che poi divenne il motivo principale di “Space Operator” ma mancava un efficace giro di basso per renderlo dance. In quell’istante mi venne in mente il disegno di basso di “Nice ‘N’ Nasty” della Salsoul Orchestra, provai a risuonarlo e calzava a pennello. Ne parlai quindi con Maurizio DiMaggio a cui ero legato da un bel rapporto di amicizia e lavoro. L’idea gli piacque e scrisse un testo che divenne il “rap spaziale” del brano. Mancava la parte ritmica che prendemmo da “Drums Power”, una traccia completamente strumentale incisa sul lato b della cover di “Long Train Runnin'” dei Doobie Brothers ad opera dei Traks ma ai tempi era ancora un disco senza etichetta. Approntammo prima proprio la parte strumentale, poi in altri due passaggi suonai il motivo solista e il basso. Infine DiMaggio completò il tutto col rap. Insomma, in appena due ore, in uno studio torinese, “Space Operator” era completato. A quel punto pensammo al nome dell’artista e visto che ad accomunarci era sia lo stesso nome che un cognome “d’arte”, i Maurizio divennero quattro. Alla sigla, come anticipavo prima, aggiungemmo International per omaggiare il negozio Disco International. Contentissimi di ciò che avevamo fatto, ci mettemmo subito all’opera per farlo uscire. DiMaggio, che collaborava con la Full Time Records, lo propose a Franco Donato che gestiva la sede milanese dell’etichetta (nel quartier generale di Roma c’era invece il fratello Claudio). Decise di pubblicarlo ma pochi giorni dopo aver chiuso l’accordo, con assoluto tempismo, nei negozi arrivò la versione ufficiale del disco dei Traks su Best Record, con tanto di crediti dei produttori di “Drums Power”, i fratelli Pietro e Paolo Micioni. Senza farci prendere dallo sconforto, contattammo gli autori, due mostri sacri della dance di quel momento, e gli facemmo sentire il nostro pezzo. Gli piacque e ci diedero l’autorizzazione per farlo uscire, a patto che lo avessero firmato come autori in SIAE e citando sull’etichetta la provenienza (“based on Traks”). A noi venne comunque data la possibilità di riportare i nostri nomi. “Space Operator” uscì a dicembre, nonostante fosse stato pianificato per settembre, ma in Italia faticò a carburare. Diverso il responso in altre parti del mondo dove venne accolto con assoluto piacere e fu oggetto di entusiastiche recensioni su riviste specializzate in musica dance. Tempo dopo giunsero richieste addirittura dal Giappone e ci accorgemmo di far parte anche noi dell’italo disco. Il resto è storia recente. Con l’avvento dei supporti digitali, è stato messo in circolazione in formato liquido nel 2009 a cui sono seguite ristampe su vinile nel 2014 e nel 2018 con un’efficace rimasterizzazione. L’ultima edizione è del 2021 su etichetta Mr. Disc Organization, impreziosita da un nuovo remix di Donato Dozzy. Siamo entrati nelle classifiche di mezza Europa, sia quelle legate alla vendita dei dischi fisici che quelle di download e streaming, e come ciliegina sulla torta la versione originale è stata inclusa nel volume 27 della prestigiosa compilation “I Love ZYX Italo Disco Collection” edita dalla tedesca ZYX.

Nel 1983 produci la cover di “Copacabana” di Barry Manilow per il progetto Rio seguita l’anno dopo da “Poppa Joe” di Acapulco, anche questa una cover dell’omonimo degli Sweet. La tua non sembrò però un’attività discografica studiata a tavolino bensì una breve parentesi all’interno di quel mondo in cui i DJ iniziarono ad avventurarsi grazie alla maggiore accessibilità economica delle strumentazioni. Furono gli anni Novanta infatti a conoscere in modo preponderante la tua vena creativa attraverso molteplici progetti condivisi con l’amico e collega Sergio Datta come Niño Nero, Voyager, Wendy Garcia, Orkestra, Modello 2, G.S.M. e Divine Dance Experience, giusto per citarne alcuni. Quali furono, a prescindere ovviamente dall’incanalamento stilistico, le sostanziali differenze relative all’approccio alla produzione discografica dei due decenni? In termini economici, credi che gli anni Novanta, soprattutto gli ultimi, stessero già accendendo dei campanelli d’allarme sulla crisi che avrebbe interessato da lì a breve il mercato fonografico?
A dire la verità quella cover di “Copacabana”, uscita peraltro su un’etichetta distribuita dalla Full Time, la Spice 7, non la produssi io. Non ho mai capito se quel Maurizio De Stefani citato sul centrino fosse un’altra persona o se per qualche motivo a me sconosciuto misero il mio nome poiché ero sotto contratto con loro. La cover di “Poppa Joe” invece la volli fortemente perché avevo sentito quel brano l’anno prima al Bandiera Gialla: vedendo la reazione positiva della pista, pensai di farne una nuova versione, uscita su Carrere, quella che nello stesso anno pubblicò “Self Control” di Raf. In realtà, come giustamente affermi, ai tempi la mia non era una vera e propria attività discografica a differenza di quanto avvenne negli anni Novanta, quando la vena creativa mi portò grandi soddisfazioni con tante produzioni condivise con Sergio Datta, amico da sempre e da più di trent’anni collega in consolle. Le produzioni relative agli anni Ottanta, pochine se confrontate con le successive, furono fini a sé stesse. Negli anni Novanta invece, quando la musica “da ballo” divenne quella della cassa in quattro, fu abbastanza semplice per i DJ diventare produttori, ma sempre affiancati dai musicisti. Noi, ad esempio, avevamo ed abbiamo ancora dalla nostra parte Michele Generale che, da ottimo musicista jazz, trasformammo in produttore dance di successo. Dopo l’esordio con “Asi Me Gusta A Mi (Esta Si Esta No)” di Niño Nero, nel 1991, abbiamo proseguito dando una certa cadenza alle uscite in modo da essere presenti continuamente sul mercato creando nel contempo più progetti dai nomi differenti per evitare di inflazionarci e di confrontarci anche in diversi ambiti stilistici. La crisi economica del mercato iniziò a farsi sentire verso la fine degli anni Novanta, con l’avvento dei masterizzatori e i CDJ nelle discoteche: era economicamente appetibile scegliere un CD masterizzato con una ventina di tracce scaricate gratuitamente da internet piuttosto che comprare venti dischi nuovi.

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare in modo sensibile vendite e fatturato?
Nei primi anni Duemila: oltre ai masterizzatori e i primi sistemi per scaricare musica gratuitamente dalla Rete, il cambio tra lira ed euro aggiunse ulteriori difficoltà ad un comparto in crisi da qualche tempo.

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Uno slipmat “griffato” Disco International

Furono dunque le nuove tecnologie ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Sì, certamente. Ormai i nuovi DJ lavorano quasi esclusivamente con computer portatili e controller ed io stesso adopero le chiavette USB, per comodità ma pure perché la maggior parte delle nuove uscite è disponibile solo in formato digitale. Ovviamente quando si presenta la giusta occasione non esito ad assemblare un bel set solo con dischi in vinile.

Quando chiude Disco International?
Nel 2003 ci trasferimmo in una nuova locazione nelle vicinanze della prima ma nel 2004 decidemmo, a malincuore, di vendere il negozio che chiuse qualche anno dopo. Per noi, che l’avevamo aperto nel 1979 con l’entusiasmo di chi ama a dismisura la musica “reale”, stava sparendo quella magia che solo un disco in vinile poteva dare. La decisione fu assai sofferta, venne meno un pezzo di vita che amavo. Tuttavia quando manca l’ebbrezza e fai un lavoro a contatto con la gente, rischi di trasmettere quel senso di demoralizzazione anche ai clienti, e questa cosa vale anche per chi fa il DJ.

Riusciresti ad indicare, in termini economici, l’annata più fortunata?
Non ricordo nel dettaglio ma il periodo più bello e proficuo fu quello compreso tra la metà degli anni Ottanta e la seconda parte degli anni Novanta.

Pensi che in futuro ci potrà essere ancora spazio per i negozi di dischi?
In Italia la vedo dura. C’è un parziale “ritorno” del vinile ma mi pare più un oggetto di nicchia che di consumo, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi come in Francia ad esempio. L’anno scorso sono stato nello storico negozio Fnac a Parigi, sugli Champs-Élysées, che fino a qualche tempo fa trattava migliaia di CD di ogni genere. Adesso tutto quel materiale è relegato ad un angolino, il resto dello spazio è occupato da valanghe di LP, nuovi, originali, ristampe…

Cosa c’è adesso al posto del Disco International?
Nella prima sede uno studio dove fanno tatuaggi, nella seconda invece un centro estetico.

Qual è la prima cosa che ti viene in mente ripensando al negozio?
Il profumo delle copertine dei dischi nuovi appena arrivati mentre aprivo gli scatoloni.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Nevio M.

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Nevio M. e parte della sua collezione tra cui la prima produzione discografica, “Sunset” (Sarasate Tribal Nation, 1995)

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo “Equinoxe” di Jean-Michel Jarre, che comprai nel 1979 dietro suggerimento del fratello maggiore di un caro amico, grande appassionato di musica. A conti fatti direi che fu un consiglio prezioso.

L’ultimo invece?
Tra gli ultimi che ho preso c’è “Reprise” di Moby, un doppio album in edizione limitata che contiene le rivisitazioni delle sue tracce storiche come “Natural Blues”, “Go”, “Porcelain”, “Why Does My Heart Feel So Bad?” e “Lift Me Up”.

Quanti dischi annovera la tua collezione?
Non li ho mai contati ma qualche anno fa un amico appassionato di numeri fece un calcolo e stimò una soglia intorno ai diecimila pezzi. Difficile stabilire anche quanto denaro abbia speso, sicuramente tantissimo ma non me ne pento affatto.

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Altri dischi della collezione di Melari, qui riposti su scaffali di ferro

Dove è collocata e come è organizzata?
È suddivisa tra scansie di ferro e di legno, ma anche in vari bauli e ceste. Ho tentato di adottare una sorta di indicizzazione secondo il genere musicale ma mi sono accorto che non è affatto un’impresa facile.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ovviamente cerco di tenere i dischi in un ambiente asciutto ed ogni tanto effettuo una bella spolverata e pulita prima dell’ascolto o dell’uso. Ho iniziato ad adoperare le copertine plastificate da qualche anno ma solo per le copie più nuove.

Ti hanno mai rubato un disco?
Ahimè sì: ad essere trafugato dal mio flight case nell’ormai lontano 1987 fu “Africa, Center Of The World” di Roy Ayers, ma qualche anno fa l’ho recuperato grazie a Discogs.

C’è un disco a cui tieni di più?
Potrebbe sembrare banale e scontato ma è la mia prima produzione, “Sunset”, pubblicata nel 1995 dalla Sarasate Tribal Nation.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una cifra considerevole?
Il secondo album degli Orbital uscito nel 1993 che purtroppo mi sfuggì all’epoca.

Quello che regaleresti volentieri o che ti sei pentito di aver comprato?
Mi è capitato di prendere dischi che non trasmettevano granché ma mi servivano in determinate situazioni o serate. Adesso fanno ugualmente parte del mio percorso musicale e per questa ragione non li rinnego.

Quello con la copertina più bella?
Non ho dubbi, l’album dei Velvet Underground e Nico con la banana disegnata da Andy Warhol.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Il primo acquisto lo feci da Sangiorgi Dischi a Faenza, nel 1979, che (r)esiste ancora oggi. In seguito andavo da Tatum a Forlì, Disco Più e Dimar a Rimini, Nannucci a Bologna ed altri ancora. L’atmosfera di quei luoghi era unica, all’epoca si faceva di tutto per accaparrarsi la copia di un disco che magari era arrivato in quantità limitata e spesso per riuscirci bisognava diventare amici del negoziante. I negozi di dischi erano i veri “social” dei tempi, lì dentro ci si conosceva e ci si confrontava, e lo dico senza retorica. Oggi il confronto e la socialità, seppur si viva nell’epoca dei social network, paiono paradossalmente scomparsi.

Nei primi anni Novanta collabori con Piero Zannoni alias Piero Zeta nel negozio di dischi Mixopiù, a Faenza, di cui abbiamo parlato dettagliatamente nel libro Decadance Extra. Come e cosa ricordi di quel punto vendita, a circa un trentennio dall’inaugurazione?
Venivo da un anno sabbatico, mi ero preso una pausa dal mondo notturno col fine di riordinare le idee per capire come andare avanti, e partimmo davvero con pochissime risorse. Tuttavia nell’arco di qualche mese eravamo già diventati un punto di riferimento per tanti DJ della zona. Io curavo la parte più progressive ed underground, Piero invece si occupava di techno, trance ed hardcore. Erano anni di forte fermento tra musica, locali e moda, tutto era splendidamente nuovo, bello ed intrigante.

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Flight case di Nevio M da cui affiorano alcuni EP della sua discografia e sui quali si scorge anche l’adesivo del negozio di dischi Mixopiù

Sempre negli anni Novanta incidi diverse produzioni, per la citata Sarasate Tribal Nation in compagnia di Marco Capelli, futuro Andrea Doria intervistato qui, per la Ental Records diretta da Piero Zeta e per la Sound Of Rome del gruppo romano A&D Music And Vision, a cui si aggiungono comparsate sulla Tube di Marco Dionigi, intervistato qui, sulla Hex Sound Technology Research del gruppo Enterprise di Einstein Doctor DJ intervistato qui, e sulla Sushi, uno dei tentacoli della modenese American Records di Bob One a cui abbiamo dedicato qui una monografia. Quali erano le ragioni principali che spingevano i DJ come te a cimentarsi nella creazione di brani propri?
Poter creare una traccia da zero e poi vedere il risultato apprezzato dal pubblico che la balla non ha prezzo, ancora oggi provo bellissime emozioni e sensazioni. Quando ciò avviene vuol dire che la gente che balla è in sinergia e sintonia con chi ha ideato quel pezzo. Ho sempre creato e prodotto musica con questo intento e non certamente a scopo di lucro altrimenti avrei optato per una strada più commerciale. Con Marco Capelli, che allora si faceva chiamare ancora MC Hair, c’era un’intesa speciale, ci capivamo al volo e produrre musica con lui, senza togliere nulla agli altri con cui ho avuto il piacere di collaborare in studio, è stato molto divertente. Facevamo le cose che più ci piacevano e i clubber dimostravano di apprezzare, cosa potevamo volere di più?

Militare tra le fila di alcune case discografiche ha sempre fatto la differenza, non solo per un ritorno di immagine e prestigio ma anche perché, obiettivamente, alcune realtà contano su una credibilità e popolarità tale da riuscire a smarcare i propri artisti dal mare magnum di concorrenza. C’era qualche label, italiana o estera, con cui ti sarebbe piaciuto collaborare?
Avrei voluto incidere per la svedese Hybrid di Cari Lekebusch e per la Planet Rhythm Records co-fondata da Adam Beyer, ma nutrivo un debole pure per la britannica Bush. Purtroppo non c’è mai stata l’occasione di stringere sinergie con nessuna di esse.

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Altri dischi della collezione di Melari su scaffali di legno. In basso, tra gli altri, si scorge “Phase II” di Bohannon (1977)

Dopo anni di silenzio sei tornato ad armeggiare in studio lavorando ancora con Piero Zeta. Comporre musica oggi e pubblicarla però pare essere diventato quasi un passatempo vista la facilità di approccio: la tanto osannata democratizzazione ha finito forse col banalizzare quella che un tempo era considerata un’attività artistica?
Il mio ritorno in studio è legato al puro divertimento, senza pretese. Adesso sono in auge metodi differenti per stabilire la validità di una produzione, in primis le visualizzazioni online, ben diversi rispetto a quelli di qualche decennio fa. Ecco perché non ripongo alcuna aspettativa nelle nuove mie nuove creazioni discografiche.

Negli anni Novanta alcuni DJ, anche particolarmente noti, si affidavano a musicisti ed ingegneri del suono per realizzare le proprie produzioni. Si dice che alcuni sapessero a malapena accendere un computer e collegare un sintetizzatore ma grazie alla popolarità del proprio nome, conquistata in discoteca o in radio, riuscirono ad alimentare per lungo tempo il proprio repertorio discografico. Era forse una strategia non così dissimile da quelle degli anni precedenti descritte in questo reportage e dalle tanto criticate odierne?
Negli anni Ottanta, così come nei Novanta, esistevano artisti e persino “gruppi” totalmente inventati a tavolino, che non sapevano né suonare né tantomeno cantare, ma offrivano a musiche prodotte in studio da altri la propria immagine che catalizzava l’attenzione delle giovani generazioni. Un caso su tutti, che fece scalpore a livello internazionale, quello dei Milli Vanilli. Adesso tale procedura non è più applicata soltanto alla sfera delle produzioni discografiche ma anche alle esibizioni dei DJ. Se un prodotto vende vuol dire che è vincente ma non dobbiamo confondere ciò con l’arte, quella è davvero un’altra cosa.

Sei stato tra i resident del Cellophane di Rimini, uno di quei posti diventati mitologici nei racconti di chi oggi, su internet ma non solo, lamenta la cronica assenza di club nati con l’intento di promuovere musica. Come descriveresti il Cellophane a chi non ha mai avuto l’occasione di metterci piede?
Tra i tantissimi locali in cui ho prestato servizio, quello che mi è rimasto più nel cuore è proprio il Cellophane. Per quanto mi sforzi, faccio fatica a spiegare a parole l’atmosfera che si respirava e viveva tra quelle mura. Era un posto scuro e basso ma con un’acustica pazzesca, il Club con la C maiuscola per eccellenza. La gente veniva da ogni parte d’Europa per divertirsi ed io facevo altrettanto: in quei quattro anni di residenza mi sono espresso musicalmente al massimo, dando e ricevendo tantissimo.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando al Cellophane?
“Konception” di Plastikman: quando lo mettevo, prima di iniziare la serata, creava un’atmosfera pazzesca in pista e la gente iniziava a battere le mani a tempo;
“Cellule” di J.J.Jam, una produzione italiana di DJ Pareti meglio noto come Sinus, che è stata per un po’ la mia sigla di apertura;
“Tone” di Emmanuel Top, l’Attack Records di colore arancione: ricordo ancora i cori del pubblico talmente forti da sovrastare la musica.

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Un ultimo scatto sui dischi di Melari protetti dalle copertine plastificate

Al netto della nostalgia, credi che la musica figlia degli anni che stiamo vivendo verrà ricordata tra qualche decennio così come è successo a quella del passato oggi tanto celebrato, oppure c’è stato un cortocircuito che ha creato una frattura dando origine ad un prima e un dopo?
Le mode e la musica vanno avanti e si evolvono, è inevitabile, chi vivrà vedrà. Quello di cui sono certo è che gli anni Novanta non verranno dimenticati.

E sul DJing post Duemila invece cosa pensi? L’industrializzazione di un settore un tempo pionieristico ha fatto più bene o male?
Sono del parere che dal 2004 in avanti ci sia stato un appiattimento generale e l’Italia ha pagato un caro prezzo. Paesi come Spagna, Germania e Regno Unito hanno capito tempestivamente che il comparto necessitava di essere “industrializzato” e rivisto, noi al contrario siamo stati a guardare ed oggi ne subiamo le conseguenze.

Ritieni che le nuove frontiere tecnologiche digitali stiano svilendo l’arte del DJing?
Il vinile avrà sempre un fascino che nessun file digitale potrà mai trasmettere, alla stregua di un libro che si apre, si tocca, si annusa e si legge. È ormai un rito mettere il disco sul piatto e godersi la musica, tuttavia non faccio mistero che anche io mi sono abituato, per comodità, ad usare le pen drive per le serate in discoteca, seppur continui comunque a comprare dischi. Il mondo va avanti e non trovo giusto criticare le nuove generazioni solo perché usano consolle digitali, computer o qualsiasi altro mezzo tecnologicamente più avanzato di quelli che usavamo noi.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone i motivi.

James Brown - Revolution Of The MindJames Brown – Revolution Of The Mind
Un doppio LP del 1971 che acquistai nel 1983 alla Dimar, a Rimini, un negozio molto grande specializzato in rarità e che trattava anche dischi fuori catalogo. All’epoca lo pagai uno sproposito, duecentomila lire. Me ne innamorai perché conteneva, tra le altre, una versione di “Soul Power” che sentii mettere da TBC (Claudio Tosi Brandi) al Cosmic di Lazise, sul Lago di Garda, e rimasi fortemente incantato dal groove e dall’effetto che produceva sul dancefloor.

The KLF - What Time Is LoveThe KLF – What Time Is Love?
Sono parecchio legato a questa traccia dei britannici KLF uscita originariamente nel 1988 e ripubblicata a più riprese negli anni successivi. Ritengo sia stato uno dei brani capostipite del genere trance (insieme ad altri come “The Age Of Love” degli Age Of Love e “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo rispettivamente qui e qui, nda) e progressive, un filone giunto nel decennio successivo caratterizzandone indelebilmente buona parte. Un pezzo a cui tanti DJ e produttori si sono ispirati per le proprie creazioni.

Moby - GoMoby – Go
Un brano dance/trance del 1991 in cui Moby campiona uno stralcio di “Laura Palmer’s Theme” di Angelo Badalamenti, dalla colonna sonora della serie televisiva di successo “Twin Peaks”, e lo unisce magistralmente ad un pezzetto di “Go”! dei Tones On Tail ‎ed un altro da “Love’s Gonna Get You” di Jocelyn Brown. Un disco che fa riaffiorare in me fantastici ricordi.

A. Paul - JuiceA. Paul – Juice
Pubblicata nel 1994 sulla portoghese Question Of Time di J Daniel (quello di “…To Eden”, che spopola in Italia nel 1996 come “disco nave”, nda), “Juice” è una traccia che corre su strutture elettroniche tribali, poi si ferma in una lunga pausa per quindi ripartire con energia. Lo adoravo ai tempi dell’uscita ed è uno di quei pezzi che mi ricorda l’approdo come DJ resident al Cellophane di Rimini dove lo ho proposto, praticamente ininterrottamente, per un’intera stagione riuscendo a creare atmosfere impareggiabili. L’interesse fu tale che nel 1995 la UMM decise di prenderlo in licenza per l’Italia.

Plastikman - MusikPlastikman – Musik
Questo doppio album prodotto da Richie Hawtin per la Plus 8 Records nel 1994 si sviluppa su suoni minimali ed acidi, disegnando traiettorie parecchio innovative per l’epoca. Come annunciavo prima, solitamente ad inizio serata suonavo “Konception”, traccia sui 115 bpm che, abbinata a luci strobo, fumo e laser, generava un’atmosfera pazzesca che non potrò mai dimenticare. Le produzioni di Plastikman erano spesso presenti nei miei set, adoravo il suo modo di fare musica e non a caso possiedo la discografia completa.

Various - Insomnia CompilationVarious – Insomnia Compilation
Una compilation su CD, cassetta e vinile, commercializzata nel 1994 dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. In particolare la versione su vinile, doppia e limitata alle appena 500 copie, è rara e piuttosto costosa sul mercato dell’usato. Svariati i pezzi racchiusi al suo interno ma quello più famoso era “Free Your Mind” di Olimpo, progetto dietro il quale si celavano Francesco Farfa e Joy Kitikonti (intervistati rispettivamente qui e qui, nda). Gran parte della restante tracklist fu realizzata dal giovane Rexanthony e dalla madre Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), la produzione di Antonio Bartoccetti (intervistato qui, nda) mentre la selezione a firma di Antonio Velasquez, direttore artistico dell’indimenticato locale di Ponsacco.

Stefano Noferini - Trumba LumbaStefano Noferini – Trumba Lumba
Il brano in questione era racchiuso nel primo volume della compilation “DJ’s United Grooves” (di cui parliamo qui, nda), per cui il mio socio Piero Zeta ricopriva ruolo di coordinatore. Si trattava di un progetto ambizioso che metteva insieme tanti DJ italiani, da Alfredo Zanca a Marco Bellini, da Simona Faraone a Massimo Cominotto passando per Killer Faber, Buba DJ, MC Hair e lo stesso Zeta. A “Trumba Lumba”, inoltre, è legato un aneddoto: erano le diciannove di un sabato pomeriggio e mi trovavo a Faenza, nel Mixopiù. Piero entrò portando un acetato in formato 10″ appena “sfornato” con su inciso, per l’appunto, “Trumba Lumba”. Penso che neanche Noferini stesso lo avesse ancora. «Tieni, così stasera lo suoni in anteprima al Cellophane!» mi disse, e così fu.

Emmanuel Top - Turkich BazarEmmanuel Top – Turkich Bazar
“The music was new, black polished chrome, and came over the summer like liquid night”: era questa la famosissima frase campionata da “Black Polished Chrome” di Jim Morrison che apriva e scandiva il ritmo di “Turkich Bazar” di Emmanuel Top del 1994. Il resto era edificato con una Roland TR-909 ed una Roland TB-303 e il gioco era fatto. Ad onor del vero potrei citare pure tutti gli altri brani apparsi sulla Attack Records in quel periodo perché credo abbiano lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’elettronica che si suonava nei club negli anni Novanta. Non nascondo di essermi ispirato proprio alle tracce di Emmanuel Top per i pezzi finiti in “Mental Flow EP”, la mia seconda produzione su Sarasate Tribal Nation.

Pink Floyd - Wish You Were HerePink Floyd – Wish You Were Here
Su questo capolavoro targato 1975 voglio raccontare un altro aneddoto. Ero ancora un ragazzino ed un mio amico mi invitò a casa sua per ascoltare un nuovo disco che aveva acquistato il fratello, fedele appassionato di rock. Mise sul giradischi “Wish You Were Here” e in quel momento mi si aprì un mondo. Rimasi praticamente incantato ed estasiato nell’ascoltare le note di “Shine On You Crazy Diamond”. Negli anni a seguire lo comprai sia su vinile che CD.

Namito - Stone FlowerNamito – Stone Flower
Secondo me “Stone Flower”, edito nel 2019 dall’americana Sol Selectas, è uno dei dischi da club più belli usciti negli ultimi anni. 114 bpm, ambientazioni new age, tastiere, cori di voci suadenti, un bellissimo connubio insomma. Una traccia che avrei voluto fare io.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Simona Faraone

01 - Faraone discollezione
Parte della collezione di dischi di Simona Faraone

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo lo acquistai nel 1979 ed era la stampa americana, su Casablanca, del 12″ di “No More Tears (Enough Is Enough)” di Barbra Streisand e Donna Summer recante la dicitura “this is a 12-inch single” prima del titolo, sulla copertina. Si trattava di un single sided, inciso solo sul lato a. All’epoca fu una vera hit in cui la Summer duettava con la Streisand, ed era la stessa versione estesa di ben 11:40 che compariva in “Greatest Hits – On The Radio Volumes 1 & 2” di Donna Summer e in “Wet” di Barbra Streisand ma in versione editata di 8:19. Ero una fan della Streisand che seguivo sia come cantante che come attrice, e con questo disco iniziai la mia prima piccola collezione, costituita soprattutto da LP del genere pop/musica leggera anche di artisti italiani (Loredana Bertè, Stadio, Matia Bazar, Mina) a cui si aggiungeva qualche album disco prodotto in Italia o negli Stati Uniti tipo “Kano” e “New York Cake” dei Kano, pubblicati su Full Time Records che acquistai praticamente appena usciti da Goody Music, il negozio del produttore discografico Claudio Donato. Quando iniziai a fare la speaker in una radio locale divenni una cliente fissa di Goody Music (di cui parliamo in Decadance Extra, nda). Ero completamente immersa nel funk, nel soul e nell’r&b dei primissimi anni Ottanta, generi di cui quel negozio era molto ben fornito. A seguire iniziai ad orientarmi verso rap ed hip hop che esplodevano in quegli anni e di cui Goody Music divenne un importante riferimento a Roma.

L’ultimo invece?
“Visitors From The Galaxy Revisited”, un doppio LP coi remix della bellissima colonna sonora di Tomislav Simović realizzata per il cult movie sci-fi del 1981 diretto dal regista yugoslavo Dušan Vukotić. In realtà il disco è uscito nel 2021 sulla Fox & His Friends ma io sono riuscita a recuperarlo solo due mesi fa nel negozio Oblique Strategies // Utopie Musicali di Roma che aveva ancora delle copie a disposizione. Lo considero un piccolo capolavoro di musica acid house, electro, techno, leftfield ed abstract, sonorità alle quali mi sono recentemente riavvicinata attraverso i miei DJ set. La componente sci-fi e l’ispirazione alla Galassia Arcana, tra le suggestioni del progetto 291outer Space pubblicato nel 2018 sulla mia label New Interplanetary Melodies, non potevano non attirare il mio interesse. La compilation, curata da Leri Ahel e Zeljko Luketic (intervistati qui, nda) include anche parti della soundtrack originale ancora inedite e rivisitate dai dieci artisti coinvolti tra i quali Drvg Cvltvre, Ali Renault, Repeated Viewing, Anatolian Weapons, Credit 00 e il capitolino Heinrich Dressel.

Quanti dischi raccoglie la tua collezione?
Non mi definisco una collezionista nel senso canonico del termine ma un’appassionata di musica e, come tutti i DJ che hanno iniziato negli anni Ottanta, ho negli scaffali dischi di vari generi. La mia non è una collezione imponente, ad oggi buona parte dei dischi trance, progressive e techno degli anni Novanta e di altri generi li ho messi in vendita su Discogs tramite il canale del mio compagno, più bravo di me a gestire queste cose. Ovviamente quelli a cui tengo di più sono ancora qui, ma è stato necessario fare spazio in casa dopo una serie di traslochi avvenuti negli ultimi anni, soprattutto da quando sono tornata a vivere a Firenze. Oltre alla mia raccolta infatti, ci sono pure i dischi del mio compagno, Marco Celeri di Roots Underground Records, anche lui DJ. Al momento avrò circa 4000 dischi. Nell’ultimo biennio ho rallentato un po’ con l’acquisto di nuovi prodotti dovendo scegliere su cosa investire. Essendo sempre più impegnata nella produzione discografica con la mia etichetta con cui sto cercando di sviluppare un catalogo di spessore con stampe anche piuttosto costose, i miei sforzi economici sono rivolti tutti in quella direzione. Il supporto alla musica indipendente rimane comunque costante, la piattaforma a cui faccio riferimento è Bandcamp dove acquisto le versioni digitali di tutto ciò che ritengo interessante. Quando posso, ovviamente, compro anche dischi in vinile. Il mio negozio di fiducia è il Music Box di Perugia a cui se ne aggiungono altri sparsi in Italia.

02 - Faraone discollezione
Un altro frammento della raccolta della Faraone sistemato in un modulo Kallax

Come è organizzata? Usi un metodo per indicizzarla?
Non c’è mai stato un criterio univoco che sono riuscita a mantenere nel tempo. All’inizio mi basavo sulla cronologia di acquisto ma poi fu necessario suddividerli per generi musicali e per etichette, soprattutto nel periodo in cui la mia attività da DJ divenne più intensa e buona parte di essi transitavano di continuo dagli scaffali ai flight case. Adesso, dopo i vari traslochi a cui facevo prima riferimento, li ho divisi a zone, distribuendoli in vari moduli Kallax da quattro e da otto e in una libreria, tutti dislocati in casa, tra corridoio, soggiorno e studio dove c’è la parte più consistente. Una sezione apposita è occupata invece dalle ristampe degli album di Sun Ra, con cofanetti ed edizioni speciali, ed è una raccolta in continuo aggiornamento. La mia collezione di musica comprende anche una discreta sezione in CD, soprattutto di genere jazz oltre che di elettronica. Tra gli altri, ho una bella selezione (su vinile e CD) della discografia della Irma Records e l’opera completa in CD de “La Grande Storia Del Jazz” edita da De Agostini coi relativi fascicoli allegati. Il compact disc è un supporto che non disdegno affatto, non sono radicale come altri seppur resti una profonda sostenitrice della musica incisa sui microsolchi del vinile. Quando devo acquistare un album che mi piace molto e c’è anche la versione in CD, non ci penso due volte a prenderlo. Possiedo anche diversi libri di musica e l’opera enciclopedica della UTET “Storia Della Musica”. Fino a poco tempo fa, accanto alla collezione di dischi e CD, c’era anche una poderosa raccolta di videocassette VHS e DVD, libri ed opere specializzate in cinema, essendo un’appassionata. Anche in questo caso, per fare spazio in casa, sono stata costretta a ridimensionarla limitandola ai pezzi più importanti.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ho sempre cercato di avere cura dei miei dischi ma non in modo maniacale. Alcuni si sono conservati meglio di altri. Le copertine plastificate le utilizzo solo per alcuni, principalmente gli album.

Hai mai subito il furto di un disco?
Ho due aneddoti a riguardo. Nell’autunno del 1990 ebbi una breve residenza al Luxuria (ex Le Stelle) di Roma, e siccome suonavo quasi tutte le sere, lasciavo il mio flight case sotto la consolle. L’errore fu non chiuderlo a chiave. Uno dei DJ della domenica pomeriggio pensò bene di dare un’occhiata alla mia valigetta e trafugò la copia di “Dance” di Earth People su Underworld Records, una bella produzione di Pal Joey che all’epoca infiammava i dancefloor. Me ne accorsi immediatamente il giorno successivo perché i dischi nella valigetta erano messi in un ordine ben preciso che verificavo ogni volta prima di iniziare la serata, non era una scaletta ma piuttosto una suddivisione in base ai generi musicali. Lo riferii alla direzione del locale e qualcuno, non ricordo esattamente chi, recuperò presto il disco mancante. Il giovane DJ che se ne era impossessato aveva pensato bene di oscurare anche il centrino con un adesivo che poi sono riuscita a rimuovere, fortunatamente senza troppi danni. Il secondo episodio avvenne durante il mese precedente nello stesso anno, il 1990, quando venni invitata al Coliseum di Mantova in occasione di una serata promozionale col produttore Albert One col quale avevo collaborato durante la stagione estiva al Country Club di Siziano, in provincia di Pavia, dove ero stata resident sotto la sua direzione artistica. Avevo acquistato dei dischi nuovi appositamente per la serata e prima di andare al locale passammo in albergo per lasciare i bagagli col mio fidanzato dell’epoca. Eravamo con la sua auto e purtroppo la serratura del bagagliaio, in cui avevo lasciato per l’appunto i miei flight case, era un po’ difettosa e non chiudeva perfettamente. Quando uscimmo dall’hotel trovammo il baule aperto: la busta dei dischi appena comprati era sparita. Per fortuna non rubarono le due valigette in metallo, probabilmente troppo pesanti ed ingombranti per la fuga.

03 - Faraone discollezione
Alcuni LP di Sun Ra della collezione di Simona Faraone

C’è un disco a cui tieni di più?
Non uno in particolare bensì artisti di cui amo seguire tutta la loro discografia: Sun Ra, Pharoah Sanders, Herbie Hancock, Donald Byrd, George Duke, Archie Shepp, Billy Cobham, Lonnie Liston Smith, Flora Purim, i Funkadelic di George Clinton e tutte le cose uscite sulla Black Fire partendo dagli Oneness Of Juju.

Quello che ti sei pentita di aver comprato?
Sono tanti i dischi che nel tempo non mi sono più piaciuti, soprattutto quelli che furono acquistati in funzione di una determinata serata e che poi non ho più proposto. Molti li ho già venduti o regalati, ma credo sia una cosa normale che capiti a tutti i DJ, soprattutto nei primi anni di attività. Io inoltre ho lavorato in due negozi di dischi a Roma, Goody Music e Discoland: tra le mani mi passava un mucchio di musica e la tentazione di acquistare tutto o quasi era davvero troppo forte.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposta a spendere una somma importante?
Ovviamente alcune stampe originali dei primi album di Sun Ra appartenenti al variegato catalogo della El Saturn Records. In particolare un album del 1985, “Children Of The Sun”, che ritengo uno dei più rappresentativi della filosofia cosmica di Sun Ra e di cui mi piace moltissimo anche la copertina sulla quale campeggia il disegno elementare di un sole composto dal suo nome e dal titolo dell’album stesso, come era nello stile dell’etichetta, tra l’altro ancora attualissimo. In “Children Of The Sun” in realtà figurano brani precedentemente pubblicati in un altro album del 1983, “Ra To The Rescue”, alcuni con titoli diversi. Attualmente su Discogs ci sono solo quattro copie disponibili di “Ra To The Rescue” di cui una di un seller italiano che la vende a poco meno di mille euro. Pure in questo caso la cover originale fu disegnata a mano dallo stesso Sun Ra. Di “Children Of The Sun” invece esiste una versione ancora più rara dal titolo “When Spaceships Appear” edita dalla Saturn Research, con la stessa tracklist ma con copertina e disegni completamente diversi. Nel momento in cui viene pubblicata questa intervista su Discogs non c’è nessuna copia in vendita.

Quello con la copertina più bella?
Nella mia collezione ce ne sono diverse ma dovendo scegliere ne cito due. La prima è quella di “Cosmic Vortex (Justice Divine)” di Weldon Irvine (1974) disegnata da Dennis Pohl, pittore ed artista visuale statunitense che negli anni Settanta realizzò diversi artwork per dischi rock e jazz. Di “Cosmic Vortex (Justice Divine)” mi piace lo stile visionario e carico di simboli che rimandano ad un certo tipo di cosmogonia dalla quale mi sento molto attratta. La seconda invece è quella di “Bitches Brew” di Miles Davis (1970) illustrata da Mati Klarwein, pittore mistico newyorkese di origini ebraico-tedesche scomparso nel 2002 e di cui sono una grande fan. Klarwein rappresentò perfettamente le intenzioni di questo album “totale” di Davis ovvero la riconciliazione tra la musica jazz e il funk, proprie della cultura afroamericana, e il rock riferito alla cultura dei bianchi. In ogni caso si tratta di un disco rivoluzionario sia nella musica che nella copertina. Lo stesso Klarwein esprimeva nelle sue opere la necessità di abbattere le barriere tra cultura ebraica e musulmana e modificò il suo nome in Abdul Mati Klarwein.

04 - Faraone discollezione
Un’altra sezione della discollezione di Simona Faraone

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato a praticare il DJing?
Come anticipato prima, il negozio in cui iniziai a sviluppare la mia attitudine al DJing fu Goody Music, storico riferimento per i DJ romani sin dalla fine degli anni Settanta e in cui lavorai come commessa nei primi anni Novanta. Ritengo che lavorare in un negozio di dischi sia un’esperienza molto formativa e sono contenta di averla fatta. In quel periodo a Roma c’erano diversi negozi specializzati in house e techno, come MixUp, ReMix e Trax, giusto per citare i più noti. Quando mi trasferii a Firenze, nel 1994, divenni subito cliente di un altro storico negozio, Disco Mastelloni di Roberto Bianchi, scomparso alcuni anni fa (ed intervistato nel libro Decadance Extra, nda) al quale, con alcuni DJ toscani, abbiamo dedicato alcuni eventi in tributo alla sua storia. Un altro riferimento per i miei acquisti negli anni Novanta fu il negozio di Piero Zeta a Faenza (Mixopiù, di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra, nda). Piero poi mi coinvolse in un progetto legato ad alcune etichette dell’American Records di Bob One (“DJ’s United Grooves”, di cui parliamo qui, nda). I negozi di dischi sono luoghi importanti per tenere viva la cultura della musica su supporto fisico (vinile, CD). Per i DJ ritrovarsi in quei posti, in quegli anni così emblematici per la nascita di generi musicali che hanno dato luogo ad una vera svolta nel mercato della musica dance in senso ampio, era decisamente fondamentale, faceva parte dell’attività stessa dei DJ. Oggi, tramite internet, abbiamo la possibilità di accedere all’acquisto di dischi che non sempre sono reperibili sul territorio in cui si vive, e questo è un bene ma nel contempo ha generato un certo distacco dal contatto fisico con gli scaffali dei negozi. Il digging fatto sul posto, insomma, non è la stessa cosa se fatto in Rete seppur alla fine la sostanza non cambia perché se riesci a trovare un bel disco sei felice comunque. Riconosco che la mia rimanga una visione un po’ romantica.

Quali erano gli artisti che seguivi maggiormente prima dell’avvento di house e techno?
Negli anni Ottanta i miei riferimenti erano nomi come Prince And The Revolution, Morris Day, Sheila E., Wendy & Lisa, The Time e tutta la scena del cosiddetto funk di Minneapolis che fondeva elementi funk e rock col synth pop e la new wave, tornati recentemente di grande attualità. Allo stesso tempo, soprattutto nel periodo in cui lavoravo come conduttrice radiofonica, ero immersa nel raffinato r&b di Alexander O’Neal, Luther Vandross, Kashif e James Ingram. A dare una svolta importante a quella scena fu il leggendario produttore Quincy Jones col suo album “The Dude” del 1981 e coi tre album prodotti per una superstar come Michael Jackson (“Off The Wall”, il mio preferito, “Thriller” e “Bad”). Ammetto di essere stata anche una grande fan di Madonna fin dai suoi esordi. Ho quasi tutto quello che ha pubblicato fino ai primi anni Duemila, incluso lo scandaloso libro “Sex” prodotto col fotografo Steven Meisel e l’art director Fabien Baron. Oggi non la seguo più ma all’epoca, come altre teenager della mia generazione, rimasi molto colpita dalla sua personalità e dal suo coraggio. L’album che preferisco del suo repertorio è l’eponimo “Madonna” del 1983, di cui possiedo anche la ristampa del 1985 quando venne reintitolato in “The First Album”. Mi piacevano tanto anche Cindy Lauper e Sheena Easton. Nel settore più “dance” apprezzavo moltissimo l’etichetta Prelude Records che ebbe il merito di dare una svolta alla disco music nei primi anni Ottanta con un suono peculiare (Sharon Redd, The Strikers, D-Train, Gayle Adams, Unlimited Touch) anzi, alcune produzioni potrebbero essere considerate quasi proto house. Possiedo diversi dischi di questa storica label che suono tuttora.

05 - Faraone discollezione
Altri dischi della raccolta della Faraone collocati in un modulo Kallax

La nascita di generi come house, techno e gli innumerevoli derivati ha spalancato le porte di un mercato discografico redditizio che, per un quindicennio circa, ha sostenuto un intero comparto, dal mainstream alle frange più settoriali con le debite proporzioni. Con l’arrivo del nuovo millennio però i numeri si sono progressivamente ridotti, provocando una moria generalizzata di etichette indipendenti. Che fine ha fatto l’esercito di acquirenti che un tempo supportava il cosiddetto “disco mix”? Possibile che quasi tutti si siano convertiti ai formati liquidi? O forse, ad un certo punto, è mancato il ricambio generazionale di chi comprava assiduamente musica elettronica (soprattutto quella da ballo) solcata su 12″?
In Italia paghiamo lo scotto del passaggio alle tecnologie digitali che, all’inizio degli anni Duemila, ha causato la notevole riduzione della stampa dei dischi in vinile. La clientela un tempo interessata ad acquistare dischi è progressivamente diminuita. Diversi negozi non ce l’hanno fatta a sopravvivere ed hanno chiuso i battenti, altri si sono reinventati seller su Discogs lavorando soprattutto col mercato dell’usato, altri ancora battono prevalentemente il terreno delle fiere. Forse l’Italia è il Paese che ha il numero minore di negozi di dischi rispetto ad altri Paesi europei come Germania, Regno Unito o Paesi Bassi dove sono ancora attivissimi ed alcuni dei quali dettano i trend del mercato. Il problema, tuttavia, è anche generazionale. Oggi i cosiddetti millennials sono più attratti da generi musicali di rapido consumo come la trap, che a suo modo è un filone interattivo, ma ormai anche la musica è finita in mano agli influencer che riescono a condizionare le scelte degli artisti da seguire. Le nuove generazioni sono fortemente condizionate dalla macchina di propaganda della Rete. Un esempio è offerto dai Måneskin che dovrebbero rappresentare le nuove frontiere del rock e le cui virtù (con pochi meriti in realtà, rispetto ad altre band meno note di loro coetanei) vengono gonfiate ad uso e consumo del “sistema” stesso che li indica come esempi da seguire per orientare scelte anche di altro tipo e che ridisegna questa generazione secondo un canone preciso. Proprio il contrario di quello che il rock degli albori aveva fatto. In relazione al vinile, in questi ultimi anni c’è stata una riscoperta da parte delle nuove generazioni ma si tratta comunque di una minoranza. Le major hanno ripreso a stampare dischi, monopolizzando le poche pressing plant rimaste in attività e rendendo la vita sempre più difficile alle piccole etichette indipendenti che invece investono realmente energie e denaro per promuovere gli artisti e le nuove scene musicali, senza speculazioni. Non so se tutto questo potrà avere un futuro sereno nei prossimi decenni.

In un’intervista che ti feci molti anni fa, confluita nel libro Decadance Appendix, dichiarasti che, «l’unico movimento musicale italiano davvero significativo, dopo l’afro-cosmic di fine anni Settanta/inizio Ottanta, fu quello progressive toscano dei primi anni Novanta, nato con la denominazione “The Sound Of Tirreno”. Quello che veniva proposto all’Imperiale da Miki, Farfa e Roby J era un vero viaggio ipnotico-sonoro attraverso le più svariate contaminazioni musicali influenzate soprattutto dalla scena elettronica francese (Jean-Michel Jarre, gli Space di Didier Marouani, Alec R. Costandinos -sebbene egiziano di nascita-, Charlie Mike Sierra, Arpadys, Black Devil) ma anche dalla psichedelia, dall’house ruvida di Chicago nelle sfumature acid, da reminiscenze italo disco (“The Visitors” di Gino Soccio, ad esempio, era un cult) e da continui rimandi alla synth disco di Moroder. A ciò, ovviamente, si sommavano le nuove sonorità europee che, attraverso memorabili etichette, stavano allineandosi ad un sound innovativo che non era più molto legato alla techno dei primi Novanta, ma più fluido e in continua progressione. Per questo si decise di identificarlo, in Italia, come progressive». Se ti chiedessi di riassumere, in cinque dischi, l’essenza del cosiddetto “The Sound Of Tirreno”, quali menzioneresti e perché?
1) Major Ipnotic Key Institute “The Sound Of Tirreno” (Major Ipnotic Key Institute, 1993)
Major Ipnotic Key Institute era il moniker artistico con cui il DJ Miki The Dolphin lanciò l’omonima etichetta fortemente identitaria. Miki è considerato l’autentico mentore del movimento progressive che nacque storicamente al Club Imperiale di Tirrenia dove era resident insieme a Francesco Farfa e Roby J coi quali aveva costituito una triade illuminata. I titoli delle due tracce incise su questo disco sono semplicemente emblematici, “The Sound Of Tirreno” e “Renaissance In Florence”;
2) Hysteria “Love Nature” (P&P, 1994)
La P&P era una sublabel della New Music International di Pippo Landro (intervistato qui, nda) e in questo EP aveva messo insieme alcuni dei protagonisti del cosiddetto “Sound Of Tirreno”, con quattro versioni della title track curate da Miki, Francesco Farfa, Joy Kitikonti, Riccardino, Jay, Simone Pancani e Vanni. In realtà Hysteria era un progetto del DJ/producer veneto Marco Cordi e “Love Nature” era stato già pubblicato con discreto successo nel 1991 proprio su etichetta New Music International ma fu coi quattro remix prima descritti che questo brano entrò nelle hit della progressive, in particolar modo con le versioni curate da Miki, Francesco Farfa e Joy Kitikonti. Una delle “tracce climax” nei leggendari set di Farfa era la Joy & Kaya Remix ed altrettanto memorabile la “Miki” P.O.V.;
3) DJ Miki “Templares” (Interactive Test, 1993)
Produzione di Miki affiancato da Franco Falsini (intervistato qui, nda), mente vulcanica e fondatore della pionieristica etichetta fiorentina Interactive Test senza la quale non sarebbe nato il movimento progressive per come lo abbiamo conosciuto. Due le tracce, “Children Inside” e “Templares”;
4) Open Spaces “Open Spaces” (Interactive Test, 1991)
Conobbi Franco Falsini nel 1991 quando partecipò al rave romano Stop The Racism, a cui partecipò anche Adamski (intervistato qui, nda). Falsini si esibiva con un progetto live dal nome piuttosto evocativo, Open Spaces per l’appunto, che aveva fondato con suo fratello Riccardo alias Rick 8 e in cui c’era una forte componente visuale curata da Elisabetta Brizzi, sua storica compagna. All’epoca non sapevo ancora nulla sulla sua precedente storia di musicista con la formazione prog rock Sensations’ Fix di cui poi ho acquistato alcuni album. Di questo 12″ segnalo la traccia che chiudeva il lato b, “WorldBit Generation”, forse un omaggio al famoso rave che si svolse a Cafaggiolo, nel Mugello, nel 1990, il World Beat Dance in cui Franco e Riccardo furono tra i protagonisti. Considero Interactive Test una label seminale per la scena progressive toscana e Falsini un autentico mito vivente. Le prime produzioni tra cui questo disco (recentemente ristampato da La Bella Di Notte, nda) per me rappresentano l’anello di congiungimento tra il primo periodo house-techno che vissi a Roma e il movimento toscano nel quale transitai dal 1993/1994 sino al 1998;
5) Farfability “Farf – Ability” (Interactive Test, 1992)
È il disco con cui conobbi Francesco Farfa (intervistato qui, nda) e lo considero emblematico dello stile unico dei suoi DJ set visionari, quel “Farfa Sound” che poi divenne il suo marchio distintivo. La produzione fu costruita insieme al partner di studio di quegli anni, Joy Kitikonti (intervistato qui, nda) e raccoglieva due tracce, “Don’t Mess With The Kids” e “The Narrator Device”, sintesi perfetta della sua tecnica di missaggio e del suo gusto musicale. Un disco che va suonato dal primo all’ultimo solco.

Non hai mai investito molte energie sul fronte della discografia personale perché, come spiegasti qui nel 2018, alla composizione hai anteposto la ricerca musicale e la selezione di dischi. In quell’occasione rimarcasti anche una verità legata alla consacrazione della figura del “DJ protagonista” degli anni Novanta che, per completare la propria dimensione artistica e professionale, ricorreva per l’appunto alla produzione di musica a proprio nome ma molto spesso senza alcuna capacità. «Tanti DJ si legarono a filo stretto con partner di studio che poi erano i veri esecutori materiali dei loro progetti discografici» dicesti. Oggi alcuni vantano corpose discografie di cui però rammentano poco e nulla perché, a detta di chi operava realmente negli studi di registrazione, erano capaci a malapena di accendere un computer o un sintetizzatore. Questo tipo di approccio alla musica ha forse “drogato” il mercato, mettendo sullo stesso piano chi aveva diritto ad essere annoverato tra i compositori e chi invece metteva il proprio nome sulla copertina solo in virtù della popolarità acquisita in discoteca o in radio?
Credo che un mercato sano debba rimanere tale e quindi alimentarsi con le produzioni di artisti di talento ed investimenti da parte di etichette consapevoli. Ogni forma di speculazione in una direzione o nell’altra non trova il mio appoggio. Purtroppo le regole del mercato non le faccio io o le persone che la pensano come me. Alla fine comunque paga la perseveranza e i giusti meriti vengono sempre riconosciuti.

06 - Faraone discollezione
Alcune uscite della New Interplanetary Melodies

Hai convogliato poche risorse nell’attività da compositrice ma ben diverso è il discorso relativo al ruolo di produttore esecutivo dietro l’etichetta New Interplanetary Melodies, fondata nel 2016 e di cui abbiamo parlato in più di qualche occasione. All’attivo ha diversi 12″, doppi mix abbinati anche a fumetti, un paio di CD e persino una cassetta racchiusa in un sacchetto di juta contenente semi (veri!) di basilico limone, «”arma” usata per inverdire aree dove la vegetazione è stata compromessa» come recita testualmente il messaggio stampato sull’allegato. Cosa significa oggi tenere in vita un’etichetta discografica come la tua? Quali sono le ragioni che ti persuadono a proseguire il cammino? Fin dove ti spingerai in futuro?
Quando ho dato vita alla New Interplanetary Melodies, il cui catalogo è disponibile in formato fisico e digitale su Bandcamp, avevo una visione ben precisa che, a distanza di alcuni anni, sono contenta mi venga riconosciuta. Le “edizioni fonografiche dal mondo di domani”, citando ed omaggiando Sun Ra, sono tasselli di un unico percorso al quale stanno contribuendo artisti italiani straordinari dei quali vado molto orgogliosa. Come anticipavo qualche riga sopra, sto investendo tutte le mie risorse in questa direzione. Le ultime uscite del 2022 sono state “Foto” di Ennio Colaci (secondo CD dell’etichetta, dopo “Ambient Loops” di Massimo Amato pubblicato nel 2021) e la musicassetta “The Great Walk” di Gifted Culture Collective, un progetto cosmico-esoterico con influenze baleariche e jazz, frutto di registrazioni di live session di alcuni anni fa nello studio di MarcoAntonio Spaventi ad Amsterdam e da cui sono stati estratti “cinque funghetti” così come li ha definiti Christian Zingales nella recensione sul numero di luglio/agosto della rivista Blow Up. Le prossime uscite previste per il 2022 sono l’EP “Sacrificio” di Feel Fly, già brillantemente recensito da Zingales (intervistato qui, nda), l’album “Radamanto” di Strata-Gemma, progetto jazz-psichedelico-elettronico di Niccolò Bruni aka Billy Bogus della Pizzico Records, e l’EP “Spiritual Safari” di Angelo Sindaco coi featuring di Abyssy (moniker di Mayo Soulomon, artista già apparso sulla label), Marcela Dias e Stromboli. Nel 2023 pubblicherò l’album “La Molecola Del Tempo” di MarcoAntonio Spaventi ed Eric Demuro, ideale colonna sonora di uno sci-fi movie il cui soggetto è stato scritto dallo stesso Demuro con Riccardo Agostini e che si inserisce perfettamente nella mission futuristica della label. Il pezzo forte arriverà nell’autunno 2023 con l’opera di tredici tracce in doppio vinile (LP + EP 12″) del citato Mayo Soulomon/Abyssy, a cui si sommeranno due bonus track in digitale. Soulomon tornerà dunque su New Interplanetary Melodies con un disco tutto suo, dopo averne avviato il catalogo nel 2016 con l’EP “Magnetic Archive” e l’EP “Two Scorpios” del 2017. Sarà un disco incredibile che metterà insieme i suoi lavori degli ultimi anni. A seguire ci sarà il ritorno degli 291outer Space capitanati da Luca “Presence” Carini ed Ivan Cibien con una parziale rinnovata formazione di musicisti che sveleranno il prequel della saga. La space-opera “Escape From The Arkana Galaxy” uscita nel 2018 è stata la vera hit della label, ad oggi sold out e stampata in cinquecento copie. C’è grande attesa quindi per il prequel. La saga si completerà in futuro con un terzo disco, il sequel, conclusivo della storia. Posso anticipare infine che in cantiere c’è pure un ambizioso progetto con la cantante NicoNote che ha partecipato al secondo volume di “Kimera Mendax” con “Orizzonti Perfetti”. Per la pubblicazione però bisognerà attendere il 2024.

Anni fa mi raccontarono di un DJ che, blindato dal ruolo primario ricoperto per un noto locale, indicava ai colleghi che lavoravano nella stessa discoteca, prima dell’inizio di ogni serata, i pezzi da non inserire nel proprio programma perché li avrebbe messi lui. A te è mai capitato di dover sottostare ad angherie di questo genere?
Non mi è mai capitato e sinceramente lo trovo poco simpatico ma so che, soprattutto in ambito mainstream, è una pratica piuttosto frequente. Denota poca sicurezza da parte di chi esercita questo genere di ingerenze oppure arroganza e monopolizzazione di un certo tipo di musica. Tante lineup vengono concepite con questa logica, specie nei festival o nelle programmazioni di alcuni superclub: certi brani devono essere suonati solo da certi DJ e tutto questo per rimanere nell’Olimpo dei top DJ. Alcuni disc jockey vengono automaticamente esclusi per non incorrere in tale rischio. Per fortuna oggi, nelle mie rare esibizioni in consolle, non devo tenere conto di certe dinamiche ma anche in passato, quando ero in auge nel periodo d’oro degli anni Novanta, ho sempre suonato quello che volevo, a modo mio e secondo la mia sensibilità. Nel contempo però non trovo giusto l’approccio di quei DJ che cercano di imitare palesemente il gusto e lo stile di altri particolarmente bravi e famosi, scopiazzando le playlist e mimandone persino le movenze in consolle.

Qual è il disco che hai usato più spesso per recuperare un momento d’impasse della pista?
Non ho mai avuto un disco riempipista ricorrente, ho sempre amato sfidare il dancefloor proponendo brani spesso difficili. Ottenere risultati in questo modo dà più soddisfazione. In altri casi non sono stata compresa ma va bene lo stesso.

Lo scorso 6 aprile, a Francoforte sul Meno, ha aperto i battenti il MOMEM – Museum Of Modern Electronic Music. Credi che in Italia possa mai nascere un progetto analogo capace di conferire autorevolezza e dignità culturale alla musica elettronica, visto con sospetti e pregiudizi mai sfatati da tempo immemore?
Questa domanda meriterebbe un lungo approfondimento. Tutto ciò che altrove, in Europa, risulta fattibile, qui in Italia diventa, al contrario, molto complicato e i fattori sono molteplici. Il periodo storico-politico che stiamo attraversando non è dei più semplici, il futuro dipenderà da come cambieranno le cose, se cambieranno. Ci sono alcuni lodevoli tentativi promossi da festival che si avvalgono di strutture importanti, ma bisogna ricominciare dalla base. Si tratta di un fattore culturale e, nonostante ci siano stati ottimi esempi in passato, c’è ancora molto da fare e su cui lavorare.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legata spiegandone le motivazioni.

Archie Shepp - A Sea Of FacesArchie Shepp – A Sea Of Faces
Album registrato negli studi milanesi della Phonogram nel 1975, “A Sea Of Faces” fu la seconda uscita di una coraggiosa etichetta italiana, la Black Saint fondata da Giacomo Pellicciotti e specializzata in avant-garde e free jazz. Adoro questo disco per il brano “Hipnosis”, che occupa per intero tutto il lato a per ventisei interminabili minuti, e per la bellissima “Song For Mozambique / Poem: A Sea Of Faces” che invece apre il lato b.

Sun Ra And His Arkestra Featuring Pharoah Sanders Featuring Black Harold - LiveSun Ra And His Arkestra Featuring Pharoah Sanders Featuring Black Harold – Live
Un raro episodio di featuring su un disco di Sun Ra e la sua Arkestra che possiamo eccezionalmente ascoltare in un’esibizione live alla Judson Hall risalente al 1964 con colui che, in seguito, divenne un altro mostro sacro del free e spiritual jazz, Pharoah Sanders, affiancato da Black Harold. Uscita unica nella discografia della El Saturn Records che lo pubblicò originariamente nel 1976, per i fan di Sun Ra, come me, è stato un vero colpo poter trovare questo disco in ristampa nel 2017, sulla Superior Viaduct di San Francisco. Lo acquistai in un negozio di Padova, alcuni anni fa, il giorno dopo aver partecipato come DJ ad una serata dedicata proprio a Sun Ra in cui suonai diversi pezzi della sua discografia. Diciamo quindi che il disco era lì ed aspettava che lo prendessi. All’interno della copertina c’è un inserto con note critiche e storiche a cura di John Corbett.

Herbie Hancock - MwandishiHerbie Hancock – Mwandishi
Dopo Sun Ra e Pharoah Sanders, Herbie Hancock è l’artista di cui colleziono più dischi. Questo LP del 1971, in particolare, è uno dei migliori esempi di free spiritual jazz e fusion che suona ancora molto attuale e che segna una svolta nella discografia di Hancock che, in seguito, ha sperimentato molte altre formidabili contaminazioni diventando, di fatto, uno dei musicisti più eclettici della scena jazz americana. Il brano che suono più spesso è “Ostinato (Suite For Angela)” che apre il lato a. “Mwandishi” è il nome swahili che Hancock si era dato in quel periodo e la scelta fu condivisa anche dal sestetto di musicisti che lo affiancò in studio ognuno dei quali, a sua volta, adottò altri nomi nella medesima lingua. Un disco fortemente identitario che ribadisce le origini africane dell’artista nella cosiddetta swahili coast.

Devadip Carlos Santana & Turiya Alice Coltrane - IlluminationsDevadip Carlos Santana & Turiya Alice Coltrane – Illuminations
Un album del 1974 parecchio mistico nato dalla collaborazione tra l’inedita coppia formata da Carlos Santana ed Alice Coltrane accompagnati dai loro nomi in sanscrito, rispettivamente Devadip e Turiya. Acquistai “Illuminations” ad una fiera del disco alcuni anni fa. Bellissima anche la copertina, illustrata da Michael Wood.

Mtume Umoja Ensemble - Alkebu-Lan - Land Of The Blacks (Live At The East)Mtume Umoja Ensemble – Alkebu-Lan – Land Of The Blacks (Live At The East)
Un LP risalente al 1972 abbastanza raro da reperire attraverso la stampa originale sulla Strata-East. Io presi una ristampa giunta sul mercato alcuni anni fa (ma pare non ufficiale, nda). Si tratta di un impressionante album-manifesto di speech/poetry della Mtume Umoja Ensemble rivolto ad una consapevole Black Nation.

The Pyramids - King Of KingsThe Pyramids – King Of Kings
“King Of Kings” uscì originariamente nel 1974 sulla Pyramid Records ma quella che possiedo io è la ristampa risalente al 2012 sulla tedesca Disko B, peraltro ben quotata su Discogs. Idris Ackamoor, che recentemente ha pubblicato tre ottimi album sulla britannica Strut, nel 1973 costituì un eccezionale ensemble, i Pyramids, che uscirono allo scoperto con tre LP sull’omonima label, “Lalibela”, “King Of Kings” e “Birth / Speed / Merging”. Un disco di grande potenza evocativa, un capolavoro di jazz spirituale. I Pyramids erano musicisti in stato di grazia, fortemente ispirati anche dal luogo in cui registrarono l’album, non distante da un sito di tumuli funerari di nativi americani.

Sun Ra - The Heliocentric Worlds Of Sun Ra 1-2Sun Ra – The Heliocentric Worlds Of Sun Ra, Vol. 1/2
Sun Ra spinge i musicisti della Solar Arkestra oltre le regole dell’esecuzione classica, verso il caos cosmico, e questi due volumi, usciti rispettivamente nel 1965 e nel 1966, sono il passaggio ad uno stile più radicale che caratterizzerà buona parte della sua produzione successiva, più orientata alla space age. Io ho le ristampe del 2009 su ESP Disk limitate alle mille copie.

Sun Ra - LanquiditySun Ra ‎- Lanquidity
Possedevo già l’album del 1978 ma quando lo scorso anno è stato pubblicato il cofanetto comprendente quattro dischi, il booklet illustrato e le versioni alternative di Bob Blank mai uscite prima, non potevo esimermi dal prenderlo. L’album è stato completamente rimasterizzato in alta qualità e tutti i brani sono stati solcati a 45 rpm per una resa migliore. La versione estesa di “That’s How I Feel” è la mia preferita. “Lanquidity” resta uno degli album più belli e sofisticati di Sun Ra.

Pharoah Sanders - PharoahPharoah Sanders ‎- Pharoah
Trattasi di un LP molto ben quotato e ricercato di Pharoah Sanders, pubblicato dalla India Navigation nel 1977. Io però ho la ristampa non ufficiale del 2008. Un disco meraviglioso e “Love Will Find A Way” è la più bella canzone d’amore di sempre.


(Giosuè Impellizzeri)

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Stefano Sorrentino – Sans Egal (Streetlab Records)

Stefano Sorrentino - Sans Egal

Entrare in possesso di un disco, non necessariamente comprandolo al negozio ma anche prendendolo in prestito da un amico, leggere riviste, seguire programmi radiofonici, frequentare discoteche, ascoltare un nastro mixato di qualche DJ: più o meno così negli anni Novanta ci si appassiona alla musica da ballo che mettono nei locali e si propaga nell’etere. È andata in questo modo pure per il milanese Stefano Sorrentino, classe ’81, catapultato in quella dimensione grazie ad un’amica che gli regala l’album degli Snap!, “The Madman’s Return”, nella versione contenente la hit “Rhythm Is A Dancer”. «Di fatto, sino a quel momento, ignoravo l’esistenza della musica elettronica» afferma oggi con onestà. «Fu allora che scoprii letteralmente un nuovo mondo. Come ha fatto buona parte della mia generazione, passai l’adolescenza incollato su Radio DeeJay ad ascoltare il DeeJay Time di Albertino, ma pian piano iniziai ad appassionarmi anche a generi meno commerciali come la drum n bass. Quasi parallelamente approcciai alla composizione: il mio papà suona le tastiere e quindi sono cresciuto con la fortuna di averle a portata di mano anche se non colsi l’occasione sino ai dodici anni circa. Anziché imparare a suonarle eseguendo musica altrui però, mi focalizzai subito sulla creazione di tracce mie e sul sound design. I primissimi esperimenti li feci con un multitraccia a quattro piste, una Gem S2 e poco altro. Poi arrivò Cubase e a diciassette anni comprai il Roland JP-8080, il primo di una lunga serie di sintetizzatori. A parte qualche consiglio ricevuto da mio padre, dovetti imparare tutto da solo perché, purtroppo, non conoscevo altri musicisti che bazzicavano quegli ambienti. Adesso ho uno studio decisamente più equipaggiato e moderno ma confesso di divertirmi ancora tantissimo quando riaccendo quegli strumenti, forse proprio per le limitazioni che conferiscono più carattere rispetto ad alcuni dei loro eredi più evoluti».

Sorrentino (primi anni 2000)
Sorrentino in una foto dei primi anni Duemila

A diciotto anni Sorrentino incide il primo disco, “Sometime Love” di The Mockers, pubblicato dalla napoletana Bustin’ Loose Recordings ed impreziosito dal remix di Don Carlos. Tra 2000 e 2002 ne seguono altri come “Once In A Lifetime” di Y2K, “Back To Afrika” di Groove Juice, “How Do You Feel” di Shepan’ e “Take Your Time” di Danich. «Li ricordo come veri reperti archeologici» prosegue l’autore. «Iniziai a mandare demotape a varie etichette milanesi sin da quando avevo sedici anni, intorno al 1997. Facevo soprattutto jungle, musica legata ad un mercato obiettivamente assai ristretto in Italia ed infatti le reazioni furono scettiche. Un giorno, durante uno dei miei giri in Via Mecenate, incontrai Stefano Silvestri, ex dipendente della Dig It International e passato alla Bustin’ Loose Recordings, una realtà molto interessante e con una vocazione internazionale che sulla rampa di lancio aveva ambiziosi pezzi di Karen Ramirez e Planet Funk oltre al remix di “Flawless” di The Ones. Silvestri fece uscire “Sometime Love” ma in una versione completamente diversa rispetto alla mia demo originale, pertanto resta un disco che non sento propriamente “mio”. Tuttavia aver pubblicato qualcosa mi aprì nuove porte che mi permisero, appena raggiunta la maggiore età, di parlare coi discografici, ascoltare brani inediti e scoprire tanti retroscena. Se avessi proseguito su quella strada però probabilmente sarei diventato un pessimo A&R perché i miei pezzi di maggior successo sono quelli su cui non avrei mai puntato, e viceversa. Un esempio? “Back To Afrika” di Groove Juice che gli X-Press 2 inserirono nel loro Essential Mix su BBC Radio 1 suonando la Tribal Mix, una versione che avevo fatto giusto per riempire il disco».

Sorrentino ai tempi di Sans Egal
Sorrentino in studio ai tempi di “Sans Egal”

Inaspettato è pure il successo che bacia Sorrentino nell’autunno del 2001 grazie a “Sans Egal”: edita dalla veneta Streetlab Records del gruppo Jaywork, è una traccia ritmicamente riscaldata da componenti tribaleggianti ed avvolta da elementi funk che occhieggiano al passato. In particolare il modello sembra essere quello offerto da “Right On!” degli scozzesi Silicone Soul, una hit sapientemente costruita su un campionamento preso da “Right On For The Darkness” di Curtis Mayfield. Entusiasticamente recensito da Spiller su DiscoiD ad ottobre e programmatissimo da Alex Benedetti in Suburbia su RIN – Radio Italia Network, che peraltro lo vuole nella “Suburbia Compilation” insieme a pezzi di Ultra Natè, Una Mas, Sono, Jakatta, Filippo “Naughty” Moscatello ed Agent Sumo, “Sans Egal” promette più che bene anche in previsione di un possibile airplay radiofonico generalista. Stefano Sorrentino è artefice di una house competitiva a livello internazionale ed infatti sono diverse le licenze giunte d’oltralpe, su tutte quella della tedesca Brickhouse Records che sceglie il suo brano per inaugurare il catalogo della sublabel Brickhouse Tracks. «”Sans Egal” nacque dopo una notte passata nell’omonimo locale in zona Brera, a Milano» rivela Sorrentino. «Non era un pezzo creato per cercare il successo e tantomeno inseguendo un sound predefinito, assemblai semplicemente suoni ed armonie che mi piacevano e credo che a testimoniare ciò sia la stesura poco convenzionale. Creai il basso col citato Roland JP-8080, i tappeti con un sampler Yamaha A4000 mentre la maggior parte dei suoni rimanenti erano di un Korg Trinity e di un Roland JV-1080 con un layering improbabile di Minimoog e sitar. Vista la mia pessima fantasia nel creare nomi artistici, non riuscii ad inventare uno pseudonimo convincente in tempo per la stampa così la Brickhouse, prima licenziataria del disco, mi convinse ad usare il mio vero nome. Da un lato ciò si rivelò una scelta fortunata perché ottenni un sacco di visibilità, dall’altro invece decisamente meno perché, a causa di varie clausole contrattuali, non potei più firmare pezzi con le mie coordinate anagrafiche per diversi anni. Il successo di “Sans Egal” fu inaspettato quanto immediato, probabilmente perché girava su un sound fresco e diverso. Lo suonarono davvero tanti top DJ a partire da Pete Tong e Seb Fontaine su BBC Radio 1. La Cream, storica etichetta britannica legata all’omonimo locale di Liverpool ed appartenente alla Parlophone, pagò profumatamente la licenza con l’intenzione di incidere una versione cantata e fare crossover col pop (analogamente a quanto avvenuto con la citata “Right On!” dei Silicone Soul e diversi altri brani di quel periodo, nda). Purtroppo da lì a breve l’etichetta chiuse battenti e, fatta eccezione per una tiratura promozionale, “Sans Egal” non uscì mai nel Regno Unito, una vera sfortuna».

Il follow-up arriva nella primavera del 2002 e si intitola “House Freak” ma, pur rievocandone lo spirito con una dose ancora maggiore di funk, non riesce a bissarne i risultati. «”House Freak” rimase una white label a causa di un sample non autorizzato incastrato al suo interno» chiarisce Sorrentino. «La cosa mi mise un po’ di angoscia perché temevo serie ripercussioni legali. In quegli anni ebbi comunque l’opportunità di produrre tanti remix alcuni dei quali raccolsero un buon riscontro come ad esempio quello per “Cherish The Day” di Plummet, che uscì in Gran Bretagna su Manifesto, o quello di “Cry Little Sister (I Need U Now)” dei Lost Brothers che funzionò bene sia in Germania che oltremanica, complice qualche passaggio radiofonico di Judge Jules. In quel periodo trascorsi diversi pomeriggi negli studi della Motivo che era una vera hit factory, ed imparai molto da persone come Luca Moretti ed Andrea Corelli. Fu proprio quest’ultimo a pubblicare “Mighty Lover” e la compilation da me selezionata “Night Beat” sulla sua etichetta, la M.O.D.A., allora affiliata alla Warner».

Stellar Project - Get Up Stand Up
La copertina di Stellar Project, ripubblicato dalla Data Records del gruppo Ministry Of Sound

Sorrentino si rifà con gli interessi nel 2004 grazie a “Get Up Stand Up” di Stellar Project, un successo internazionale che cavalca l’allora imperante trend electro house. Partito dalla campana Absolutely Records, il pezzo finisce nell’orbita della statunitense Ultra e viene supportato da un videoclip he ne alimenta ulteriormente la visibilità. «Nel 2004, un po’ per caso, tornai in contatto con Stefano Silvestri» racconta a tal proposito l’autore. «Lui nel frattempo aveva abbandonato la Bustin’ Loose per avviare la Absolutely Records, nata come label di supporto per i Phunk Investigation con cui avevo fatto uno scambio di remix. Proprio da quella collaborazione nacque “Stellar” di Stellar Project (a riprova del mio scarso talento nell’inventare pseudonimi!), una traccia strumentale molto sognante che volevano tutti gli A&R a cui la feci ascoltare. Nonostante fosse una piccola etichetta, alla fine decisi di pubblicarla con la Absolutely Records in segno di riconoscenza per il contributo dei Phunk Investigation che realizzarono il remix. Artisticamente fu una scelta azzeccata perché lavorarono assiduamente alla riuscita del progetto, economicamente molto meno perché non mi furono saldate tutte le fatture. La fortuna fu che Pete Tong si innamorò del brano e lo suonò quasi ogni venerdì sera, per mesi, nella Essential Selection su BBC Radio 1. In pochi giorni scrissi un testo che proposi di cantare alla mia fidanzata che lo registrò più per farmi un favore che per ambizione artistica. L’intenzione ovviamente era trovare una cantante madrelingua che effettivamente giunse in seguito, Brandi Emma, e a quel punto il pezzo divenne “Get Up Stand Up”. Pete Tong però ci sorprese tutti e suonò la demo della versione cantata “in famiglia”, eleggendola Essential New Tune durante la diretta dal Winter Music Conference di Miami. Ricordo ancora tutte le telefonate incredule che ricevetti in diretta mentre Tong mandava in onda il disco, è uno dei ricordi più belli in assoluto che conservo. La settimana successiva licenziammo “Get Up Stand Up” in tutto il mondo, ottenendo importanti risultati di vendita. In Gran Bretagna si piazzò quattordicesimo sulla Data Records del gruppo Ministry Of Sound, in Francia sedicesimo su Sony mentre negli Stati Uniti conquistò la prima posizione della Billboard Dance Airplay, su Ultra. Non so esattamente quanto abbia venduto perché dopo un anno non ricevetti più i rendiconti ma sommando le compilation siamo comunque nell’ordine di qualche milione di copie. Nel 2008 fu la volta di un altro successo ovvero “Feel Your Love” di Kim Sozzi, un pezzo interamente scritto e prodotto da me. L’avevo pensato come follow-up di “Get Up Stand Up” ma le vicissitudini che seguirono mi fecero perdere interesse per la discografia. Kim aveva sentito una demo tramite la Ultra e mi chiamò sostenendo che fosse il brano perfetto per lei. In pochi giorni mi organizzai per farglielo cantare a New York e la Ultra lo pubblicò nell’arco di un paio di settimane appena. Fu un successo immediato sulle radio orientate alla dance della East Cost e quell’anno Kim tenne un numero incredibile di gig. Per me la soddisfazione maggiore fu restare in classifica nella Billboard Dance per ben quarantacinque settimane e conquistare la prima posizione della Year End 2009 davanti ad artisti del calibro di David Guetta e Lady Gaga. Pure il singolo successivo, “Secret Love”, per cui realizzai una versione come Stellar Project, raggiunse il vertice di Billboard nel 2010. Poi uscì l’album, “Just One Day”, per il quale produssi alcune tracce. L’esperienza con Kim Sozzi fu davvero rigenerante e mi fece riscoprire il piacere di pubblicare musica. Da allora però ho composto con la sola ambizione di divertirmi. Chissà, forse un giorno uscirà qualcosa di nuovo, per ora preferisco stare dall’altra parte del mixer o meglio, dentro gli strumenti musicali».

Sorrentino oggi (Suonobuono)
Un recente scatto di Sorrentino nel laboratorio di Suonobuono

Stefano Sorrentino abbandona quindi la composizione di musica per dedicarsi ad altro attraverso la sua società, la Suonobuono nata nel 2018. «Quell’anno vinsi un premio come “Inventore Dell’Anno” per alcuni brevetti che non hanno nulla a che fare con la musica e decisi di re-investire i soldi in qualcosa di divertente ma rischioso» illustra. «Così ho fondato Suonobuono, una mini azienda che produce strumenti musicali elettronici innovativi. È un’opportunità nata per combinare le conoscenze accumulate nella produzione musicale, nel disegno di circuiti e nel processamento dei segnali, tutto sommato sono le uniche cose che so fare nella vita. Il primo prodotto è stato il nABC+, un compressore sidechain che, unico nel suo genere, può essere pilotato non solo con segnali audio ma anche via MIDI e con segnali analogici modulari. La mole di lavoro necessaria per portare un prodotto di questo tipo sul mercato è stata davvero enorme ma la soddisfazione ha ripagato alla grande di tutto. Finora non ho avuto nemmeno un reso e tanti clienti mi hanno scritto spontaneamente per ringraziarmi. Uno di loro ha deciso di comprarne persino cinque unità! Da un anno sto lavorando ad un nuovo prodotto, molto più complesso ed ambizioso, che spero di poter presentare entro il 2022. Per lo sviluppo di alcuni dettagli ho coinvolto anche alcuni studenti, un tesista del Royal Institute Of Technology a Stoccolma e vari tirocinanti dei Politecnici di Milano e di Torino. Non aggiungo altro per pura scaramanzia». Oltre all’attività, Sorrentino ha cambiato anche il Paese di residenza mollando l’Italia per la Svezia. «Mentirei se dicessi di non rimpiangere l’Italia ma rifarei la stessa scelta» afferma. «Quando ci si trasferisce altrove si sacrificano, in una certa misura, famiglia, amici e la propria cultura in cambio di nuove esperienze e di una prospettiva allargata. Certamente mi mancano l’umorismo, il calore e soprattutto la spontaneità di tanti italiani. Sul fronte musica non sono particolarmente aggiornato, soprattutto in riferimento a generi più di nicchia. Sento l’assenza di un certo tipo di radio che proponeva suoni non necessariamente mainstream ma che allo stesso tempo faceva informazione come B Side di Alessio Bertallot (intervistato qui, nda) per intenderci, ma ammetto senza vergogna di apprezzare anche il pop, a patto che presenti elementi di originalità». (Giosuè Impellizzeri)

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