Discommenti (aprile 2024)

Legowelt - The Sad Life Of An Instagram DJ

Legowelt – The Sad Life Of An Instagram DJ (Selvamancer)
Titolo decisamente sarcastico e pungente per questo nuovo EP che Danny Wolfers firma col suo moniker più noto e con cui anticipa l’arrivo di un LP destinato alla statunitense L.I.E.S. Records di Ron Morelli. L’eroe olandese imprime in cinque tracce tutta la sua verve creativa flirtando con l’electro e la techno, lanciando prima rasoiate filo acide in “Alpha Juno Storm Watch” e “Soundblaster Pro Tripper” per poi immergersi in spettrali acque lacustri popolate da qualche mitologica creatura sottomarina sopravvissuta alle ere geologiche (“Kawai K4 Acid Spring”) e saltellare al ritmo di pattern a metà strada tra il jack di Chicago e la raw techno scarnificata degli Unit Moebius (“No One Wants To Buy My NFT”). Chiude la title track, dove traiettorie melodiche dal retrogusto cinematografico sposano flessuosi incastri ritmici. A pubblicare il 12″ è l’iberica Selvamancer, che proprio di recente ha messo in circolazione uno stuzzicante EP di Gesloten Cirkel.

Terror - Data Surfer EP

T/Error – Data Surfer EP (New Interplanetary Melodies/Kuro Jam Recordings)
A distanza di qualche anno dal progetto “Kimera Mendax” di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui, New Interplanetary Melodies e Kuro Jam Recordings tornano in partnership per sviluppare una nuova ed emozionante sound experience. Questa volta il fumetto, la cui uscita è attesa per il prossimo autunno, s’intitola “Data Surfer”, proprio come l’EP che lo preannuncia nel migliore dei modi possibili. La musica di T/Error paga il tributo alla più viscerale tradizione electro/techno di Detroit, con continui rimandi e omaggi al suono abrasivo e fiammeggiante di Drexciya e Underground Resistance, un sound che, nonostante abbia sulle spalle oltre trent’anni, continua a fornire il mood giusto per immaginare il mondo del futuro diventando alfiere della longevità, contrapposta alla caducità della maggior parte delle produzioni contemporanee. Di questo disco, arricchito dall’inserto illustrato di Mattia De Iulis e dalle grafiche di Enrico Carnevale e nei negozi dallo scorso 4 aprile, si possono spendere solo parole di elogio. Tracce come “Data Surfer” e “Last Brute In The Firmament” rappresentano la soundtrack perfetta per sogni e utopie/distopie sci-fi, sganciate dai rassicuranti elementi da song structure, segnate da geometrismi ritmici e immerse in severe soluzioni armoniche. Spazio anche a varchi IDM (“Redundant Flux Form”) e galleggiamenti spaziali (“Minimum Lenght”), finalizzati ad allargare ulteriormente l’atto compositivo. Riservati al formato digitale sono ulteriori tre pezzi, “Shadows”, “From The Deep” e “Space Time Coordinates” con cui l’artista capitolino s’imbarca su rotte interspaziali, forse immaginando di trovarsi a bordo di una navicella in cerca di nuovi pianeti alternativi alla Terra su cui poter vivere. Alla fine sarà necessario tirare un sospiro per allentare la tensione accumulata.

Modula Feat Gino Saccio - Che È Stato

Modula Feat. Gino Saccio – Che È Stato? (Archeo Recordings)
Filippo Colonna Romano alias Modula è una new entry per l’etichetta fiorentina Archeo Recordings guidata da Manu Archeo (intervistato qui), che nell’ultimo decennio si è meritatamente ritagliata spazio grazie a un’incessante attività di recupero e valorizzazione di musiche oscure o dimenticate con una particolare predilezione nei confronti del sound balearico. Per l’occasione il musicista napoletano si lancia in un’ardita reinterpretazione di “Who Dunnit?” di Gino Soccio ironicamente ribattezzato Gino Saccio in copertina (era il pezzo che apriva il lato b dell’album “Face To Face” del 1982): mantenendo l’impronta funk disco, l’autore ne ricalibra la dinamica e ricostruisce le tessiture grazie all’apporto del chitarrista Daniele Sarpa, del bassista Mirko Grande e del batterista Pellegrino Snichelotto, a cui si aggiungono Rosario Esposito e Antonella Mauri che invece si occupano della nuova partitura vocale, in dialetto partenopeo. È sempre Pellegrino Snichelotto a rileggere ulteriormente il tutto attraverso un rework intitolato I Feel Glow, in cui l’impronta balearica assume contorni più delineati. A completamento del 7″, limitato alle 350 copie di cui 50 su vinile colorato, è l’artwork di Maurizio Schirò.

Rodion & Mammarella - Musica E Computer

Rodion & Mammarella – Musica E Computer (Slow Motion)
Un album che parte dalle sollecitazioni della prima computer music e che si sviluppa attraverso riferimenti al mondo delle library e a quello più ballereccio che ammica al Moroder metronomico e macchinico: si può sintetizzare così il contenuto di questo LP realizzato sull’asse creativo di Rodion e Fabrizio Mammarella e registrato presso il Museo del Synth Marchigiano. Suoni e ritmi provengono da strumenti come Crumar DS-2, Elka Synthex, Davoli Davolisint, Viscount R64, Eko Ritmo 20 ed Elka Drumstar 80, tutti cimeli che gli appassionati (quelli veri) conoscono più che bene e per i quali sarebbero disposti a fare anche qualche follia economica. Sono proprio queste macchine a ridurre la distanza tra passato e presente in un brillante percorso che trabocca di vitalità attraverso pastosi disegni di basso arpeggiati, vocoderizzazioni vocali e palpitanti griglie di batteria.

Max Skiba & Snax - Pushing My Button

Max Skiba & Snax – Pushing My Button (Skylax Records)
È davvero un piacere ritrovare in attività Maximilian Skiba, talento di cui si erano perse le tracce da un po’ di anni. Per l’occasione il polacco ricompatta la sinergia con Snax, con cui aveva già duettato nel 2010 per “One To Pray”, e riormeggia sull’etichetta francese di Hardrock Striker che pubblicò un suo EP nel 2009, inspiegabilmente passato quasi inosservato nonostante prodotto in modo eccelso. “Pushing My Button” riparte proprio da quelle atmosfere, affondando le radici in un’elegante disco funky house che, così come recitano le note promozionali, traccia magistrali parallelismi con classici senza tempo come “Kiss Me Again” dei Dinosaur o “Is It All Over My Face?” dei Loose Joints, e rende omaggio al passato iniettandoci dentro, con sapienza, un appeal moderno. Skiba, insomma, non si limita a scopiazzare o ritagliare l’ennesimo dei sample per parodiare l’osannato ieri ma cerca di lanciare un ponte tra epoche lontane facendo leva sulle proprie doti da musicista prendendo le debite distanze dai banali assemblatori di loop che affollano i tempi che viviamo. A “Pushing My Button” e “In Motion” si sommano i remix: a mettere le mani sul primo è Apollon Telefax che traghetta tutto verso sponde italo disco giocando con un forte richiamo a “Hold Me Back” di WestBam; al secondo invece ci pensa Maltitz che opta per un saliscendi balearico dai riflessi aciduli.

JP Energy - Strano EP

JP Energy – Strano EP (Sound Migration)
A pochi mesi dalla ristampa del “Mathama EP” (si legga Discommenti di settembre 2023), riaffiora un altro vecchio disco del repertorio di Gianpiero Pacetti alias JP Energy, originariamente pubblicato nel 1993 su Progressive Music Production. Lo “Strano EP”, allora realizzato con la produzione esecutiva di Francesco Zappalà e l’apporto del musicista Stefano Lanzini, ha retto magnificamente l’incedere dei decenni e si ripresenta col medesimo bagaglio sognante di influenze oniriche che pagano l’ispirazione all’elettronica pre house/techno, specialmente quella cinematografica di Vangelis, Tangerine Dream ma soprattutto Jean-Michel Jarre, artista che folgorò Pacetti nell’infanzia come lui stesso racconta in questa intervista. Melodie epiche dunque si rincorrono in “Down To The Moon”, arpeggi celestiali e struggenti scalano gli appigli ritmici di “Dolphin Dance”, “Alvorada” accosta percussioni batucada a ipnotici arabeschi, “Les Architectes Du Temps” chiude come tutto è iniziato, con una scia melliflua che accarezza l’anima di chi ascolta: «ai tempi la composi immaginando un gruppo di gnomi che al mattino se ne andavano a lavorare nella foresta coi loro attrezzi sulle spalle» ricorda l’autore. A integrare questa reissue, oggetto di una rimasterizzazione ad hoc, è il remix che E-Talking ha realizzato di “Alvorada”, puntando a un’elaborazione ritmica più marcata. Un EP che, in barba all’intelligenza artificiale e alle diavolerie tecnologiche dell’ultim’ora, dimostra come al di là dei suoni ci voglia anche il cuore per comporre certa musica.

Punx Soundcheck Feat. Boy George - Be Electric (The Remixes)

Punx Soundcheck Feat. Boy George – Be Electric (The Remixes) (Icon Series)
Dalle viscere dei ricordi dell’electroclash d’oltremanica, riecco in azione i Punx Soundcheck con la loro proverbiale energia. Estratto dall’album “Punx In 3D” uscito lo scorso autunno e scandito da chiari echi hi nrg di derivazione orlandiana, “Be Electric” si ripresenta ora in versione singolo con l’aggiunta di vari remix ognuno dei quali con una precisa identità. Si passa dall’electro pop di Roland Sebastian Faber, che ha preso il posto di Arif Salih nella lineup del progetto, alle strutture technoidi di The Model, dai lapilli lavici di Mick Wills agli irrigidimenti monolitici di Ascii Disko passando per le movenze vellutate dei nostri Hard Ton e gli spezzettamenti breaks frammisti a elementi ragga di Greg May. In circolazione finirà sia il 12″ che il CD, limitato ad appena 100 copie.

Francesco Passantino & Friends - Venticinque EP

Francesco Passantino & Friends – Venticinque EP (Tractorecords)
In occasione del venticinquennale di attività discografica, Francesco Passantino riporta in vita il marchio Tractorecords, ibernato dal 2016. Nell’EP il DJ spezzino, ma da molti anni di stanza a Berlino, fa confluire le diverse sfaccettature che hanno colorito la sua carriera da produttore nell’ultimo quarto di secolo partendo da “Vision”, una nuvola di soffici pad su cui si posano uno scheletro ritmico e voci fuori campo, in apparenza captate da qualche radio lasciata distrattamente accesa. Registrata live al Club Der Visionaere la scorsa estate insieme a Daniele Ricca e Francesco Monaco con cui Passantino forma i Resilience Groove, la traccia è incapsulata nel minimalismo più rarefatto misto a bolle dub. Con “Undici” però la tavolozza dei suoni cambia e insieme a essa anche il registro ritmico, a vantaggio di una combinazione che rimanda ai tempi dorati della progressive trance, con una serpentina di bassline che ondeggia nervosa e pilota la sezione di batteria con qualche occhiata all’Emmanuel Top del periodo Attack. “Mahatma Groove” ripesca a piene mani proprio da quell’immaginario, con riccioli filo acid e onde trancey che si infrangono sulla parete ritmica. Spazio infine a un pezzo che arriva dal 1999, contenuto nel primo volume di “Electribe EP” su Subway Records che Passantino firmò con l’amico Davide Calì (intervistato qui) e che negli ultimi anni è diventato un piccolo cimelio per i collezionisti. Trattasi di “Ascolta”, in cui matrici kraftwerkiane in stile “It’s More Fun To Compute” si uniscono a grandi arcate trance svolazzanti. La tiratura del 12″ sarà limitata alle 150 copie.

Maxx Klaxon - Nothing Can Tear Us Apart

Maxx Klaxon – Nothing Can Tear Us Apart (Self released)
Per Maxx Klaxon vale un po’ il discorso fatto qualche riga sopra per i Punx Soundcheck. Il musicista electropop newyorkese fece capolino nella scena durante la fase finale del boom electroclash ma poi dileguandosi e facendo perdere le proprie tracce. Ora rieccolo, a un triennio da “From The Air”, con un EP in vendita su Bandcamp che riparte proprio dai suoni che tra 2003 e 2004 spopolarono in Europa mettendo d’accordo sia giovani che nostalgici. “Nothing Can Tear Us Apart” intreccia new wave, synth pop e blippeggianti echi electro, rispettando i canoni della song structure. A mettere il pezzo su binari ritmici più marcati è Daniel Cousins alias Albatross Heights nel suo Duct Tape Remix mentre Chris Ianuzzi, nell’Exploidoid Remix, sporca i vocal col distorsore e costruisce un castello di dissonanze glitch dal retrogusto psichedelico. La chiusura è dettata da “Freedom Tape”, composizione strumentale trascinata da un lacrimoso arpeggio poggiato su un soffice cuscino di pad malinconici. Se fosse uscito a inizio millennio, sarebbe stato perfetto per un’etichetta tipo l’International DeeJay Gigolo.

Michele Mininni - Pop Archetypes

Michele Mininni – Pop Archetypes (Hell Yeah Recordings)
Ben lontano dalle logorree produttive di certi artisti, Michele Mininni è stato sempre parsimonioso sul fronte produzioni, puntando piuttosto al “poco ma buono”. Colto ma non disposto a prendersi mai troppo sul serio, al compositore pugliese si riconosce l’imprevedibilità sotto il profilo creativo e la capacità di non farsi intrappolare e imprigionare nei cliché, e forse è stata proprio questa propensione a condizionare, in qualche modo, la quantità del suo repertorio. Assente dal panorama discografico da diversi anni (fatta eccezione per la fugace comparsata della scorsa estate su Dischi Spranti, di cui abbiamo parlato in Discommenti di luglio 2023), Mininni ora rompe il silenzio e lo fa con un album, il primo della carriera, destinato alla Hell Yeah Recordings di Marco Gallerani e figlio di una moltitudine di ascolti eterogenei. Tra accelerazioni, divagazioni, dilatazioni, sfasamenti ritmici e ribaltamenti armonici sottesi a una minuziosa cesellatura di ogni singolo suono, “Pop Archetypes”, ulteriormente impreziosito dalla copertina di Sandro Leucci che occhieggia ai décollage di Mimmo Rotella, è un manifesto multicolore e multietnico in cui passa in rassegna una gamma assai vasta di riferimenti che rendono complesso l’incasellamento in un genere preciso. Più semplice, piuttosto, stabilire la non appartenenza al pop a dispetto del titolo, forse scelto provocatoriamente per creare un’antitesi coi contenuti. «Non è stato facile trovare il titolo, seppur intitolare i brani sia una delle cose che mi piace di più del fare musica, perché rappresenta la sintesi massima fra i due linguaggi» spiega Mininni, contattato per l’occasione. «La sfida si presentava ancora più ardua visto che era la prima volta che davo il titolo a un album e quindi ho ceduto all’ironia, anche per prendere le distanze dalla serietà e dalla mia vita, cosa che mi è sempre riuscita abbastanza bene. In realtà cercavo qualcosa che avesse più angoli di interpretazione e che racchiudesse tutte le sfaccettature del disco e le mie influenze di “popular music”. Poi mi hanno sempre “rimproverato” di fare musica per pochi, quindi ecco servito un bel disco “pop” riconoscibile come un camaleonte».

“Pop Archetypes” prende dunque di mira gli archetipi del pop e li fa a pezzi, canzonando gli esiti pronosticabili della maggior parte della musica attualmente in circolazione, quella prodotta in quattro e quattr’otto e altrettanto celermente dimenticata perché sostituita da altra che arriva subito dopo come banale scatolame in una catena di montaggio. Per mettere in circolazione un LP come questo, oggi, del resto serve anche un po’ di coraggio. «Sinora avevo pubblicato solo EP e mai avrei pensato di incidere un album in vita mia» prosegue l’autore. «Dai tempi di “Rave Oscillations” su R&S, nel 2017, nelle recensioni si parlava di attesa dell’esordio su lunga distanza e mi veniva da sorridere, perché preso dalle cose della vita, dal mio lavoro e anche, lo ammetto, dalla mia inesorabile pigrizia, mi sembrava pura utopia. Negli ultimi anni, diciamo dalla pandemia, mi ero allontanato dalla musica e avevo finito di ascoltare ossessivamente le ultime uscite. Insomma, mi sono preso una lunghissima pausa depurativa ma non me lo sono imposto, è andata semplicemente così. Poi lo scorso anno ho riaperto per gioco il sequencer, cosa che non accadeva dal 2018, per creare la colonna sonora di un video promozionale di quindici secondi su YouTube. È nato tutto così. Da lì è come se le cose, piano piano, fossero venute a me. Da quel momento è partita la sfida verso me stesso. Lo dico sinceramente: dietro quel sorriso davanti alla richiesta di un LP si celava anche amarezza, perché è una cosa che sotto sotto mi faceva sentire incompleto. Era come dire “sì ok, cinque EP, ma…”. In me c’era un tarlo latente che diceva “ne sarò capace?” Quell’episodio ha innescato tutto, ed eccoci qui».

A caratterizzare in modo preponderante “Pop Archetypes” è anche il timing limitato della maggior parte dei pezzi che lo compongono, una sorta di sintesi massimale con cui Mininni conduce l’ascoltatore in una dimensione ermetica fatta di interludi o pseudo tali che fungono da collettori di emozioni. «Non c’è una ragione precisa dietro tale scelta, non me lo sono imposto» spiega l’autore, chiarendo come lo sviluppo di un progetto simile richiedesse una struttura estremamente variegata ma allo stesso tempo sintetica perché il rischio della prolissità era altissimo. «Il risultato è un percorso degustazione che alla fine del pasto deve lasciarti sazio ma non al punto di esplodere, in modo che dopo qualche tempo, si spera il prima possibile, in quel ristorante ci torni ovvero riascolti il disco». Nella scansione narrativa regna l’imprevedibilità: si provi, ad esempio, a mettere su prima “Vertigo” e poi “Bangkok Tempo” per provare quell’ebrezza che emerge dalle produzioni che escono dalla monodimensionalità. Ci sono passaggi in cui si fatica davvero a scorgere punti di connessione col passato produttivo mininniano, si senta “Urban Voodoo”, tra le più lunghe della playlist, con cui si innescano cinque minuti di adrenalina muscolare, o “The Magic Of Synesthesia”, dove le irregolarità ritmiche cullano melodie barcollanti in salsa psichedelica, o ancora “Wet Market”, un cut-up tra voci, scratch e pulsazioni breakbeat, “Golden Room”, una fuga in direzioni lounge, “Kundalini” e “Congoflash” immerse in nuance chiaroscurali da cui si propaga una forma mutante di world music. «Prima ancora d’iniziare sono partito da un concetto chiarissimo: non volevo che l’LP fosse la somma dei miei precedenti EP e non desideravo risultasse rassicurante altrimenti non avrei intrapreso il percorso perché mi sarei annoiato» mette in chiaro Mininni. «L’ipotesi di una rottura col passato mi ha fornito il giusto entusiasmo per stressarmi perché per me fare musica è incredibilmente stressante. L’idea era quindi di creare tasselli di un puzzle che fossero riconducibili alla forma canzone e che bastassero pur nella loro brevità. È stato uno sforzo di sintesi e sottrazione, anche negli arrangiamenti. A differenza di alcune mie cose del passato, ho dovuto togliere e non aggiungere. Ho misurato gli ingredienti con estrema attenzione, dietro c’è un lavoro di centinaia di ascolti volto a trovare la perfezione formale alla quale ambivo nella mia testa, sia nei singoli brani che nel loro stare bene assieme. Ho perso il conto di quante volte ho ascoltato il disco per scegliere la scaletta definitiva. Ho scartato anche dei pezzi, cosa per me incredibile, vista la mia storica stitichezza produttiva. Invece d’improvviso, addirittura abbondanza».

In “Pop Archetypes”, complesso organismo composito, si toccano sponde IDM, broken beat e drum n bass, poi si vira verso una world music impazzita, astrattismi e tropicalismi balearici con pochi spiragli però sulla dance music in senso stretto. Forse una precisa scelta per prendere le distanze da una scena che ormai appare creativamente depotenziata e narcotizzata? «Tutto ciò che è racchiuso nel disco non parte da analisi o metabolizzazioni dello scenario attuale, è semplicemente una conseguenza» afferma ancora l’autore. «Credo che il concetto di “conseguenza” sia stato dimenticato e che purtroppo sia proprio alla base dell’appiattimento dello scenario attuale. Quando si decide a tavolino che si vuol far ballare, ad esempio, si scelgono strumenti adatti, trick, strutture e suoni specifici. Insomma, dal semplice foglio bianco si passa a canalizzare in modo rigoroso e scientifico tutto il processo sulla base di regole già scritte, riducendo molto spesso il risultato a mero prodotto con finalità esclusivamente pratiche. Tradotto: mi serve un pezzo per far ballare, così come mi serve una pinza per svitare quel dado. Ecco, per me quella è la morte della creatività. La conseguenza è quella cosa che si esplica partendo da un presupposto di libertà e rivendicazione della propria unicità e che dà un risultato magari imprevedibile. Per la serie “questo sono io, poi si può anche ballare”. Magari ottieni una bomba dancefloor, ma lo è perché non sei partito da un presupposto finalistico ed esclusivamente pratico. È quello che sta accadendo alle canzoni di Sanremo: soprattutto nell’era dello streaming e di TikTok, assistiamo alla ricerca ossessiva del tormentone che condiziona le strutture dei brani fino a renderli tutti abbastanza simili. Chi ha ascoltato un po’ di musica in vita sua, riconosce in quei “mind games” musicali il perfido tentativo di creare dipendenza e viralità in funzione dei nuovi mezzi di comunicazione. Tentativo legittimo, perché l’esposizione porta monetizzazione, ma che riduce la musica a una grande lotteria dell’attenzione, in cui a vincere sono sempre meno attori».

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Discommenti (febbraio 2024)

Slowaxx - Shapes Interfusion

Slowaxx – Shapes Interfusion (Broken District)
Si tratta del primo album che Riccardo Chiarucci ha realizzato combinando parti registrate in studio a sessioni live condivise con vari musicisti. Il lavoro è pervaso da atmosfere in perenne bilico tra funk, acid jazz, abstract e broken beat, con punte di straordinaria vitalità e virtuosismi (si senta “Pantere Rosee”, dove le improvvisazioni generano un percorso un filo cervellotico ma decisamente d’impatto). Il featuring del rapper Young A.M.A. decora “Y.B.A” e “No Secret”, costruite tenendo bene a mente l’estetica e il piglio compositivo che marchiò a fuoco etichette come Mo Wax e Talkin’ Loud, “Emoyeni” mette in loop meccanico il rhodes suonato da Luca Sguera, “Femmes” si cala in un mood lounge, ma Chiarucci si supera con “Stazione Funk”, col telaio ritmico ridotto all’osso sul quale si innestano a stantuffo irresistibili pistonate boogie. Il risultato lascia immaginare un’ipotetica jam session tra George Clinton e James Lavelle a indicare la strada di possibili nuove collisioni musicali.

Jimy K - She's Gone Away

Jimy K. – She’s Gone Away (Bordello A Parigi/Giorgio Records)
Diversi mesi fa Massimo Portoghese della barese Giorgio Records ne preannunciò l’uscita proprio attraverso le pagine di questo blog (si legga Discommenti di settembre 2023): a essere riportato in superficie dal buio dell’oblio in cui era piombato è “She’s Gone Away”, un pezzo italo disco prodotto nel 1984 da Rodolfo Grieco e scritto insieme a Naimy Hackett. Uscito ai tempi su Eyes, ora si ripresenta su un 12″ stampato in tandem dalla citata Giorgio Records e l’olandese Bordello A Parigi che, oltre alla Vocal 12″ Version e all’Instrumental 12″ Version, vogliono pure la Vocal 7″ Version, quarant’anni fa destinata alla versione 45 giri. Tutte sono state restaurate dai nastri originali da Tommy Cavalieri presso il Sorriso Studio di Bari. Particolarmente ambito dai collezionisti (nel 2023, attraverso il marketplace di Discogs, è stato venduto per 250 €), “She’s Gone Away” torna dunque a pulsare di vita coi suoi tagli oscuri, orli frastagliati funkeggianti e l’alternanza vocale maschile/femminile.

Ten Lardell - Anterspace 03

Ten Lardell – Anterspace 03 (Anterspace)
Dal 2022 Ten Lardell è apparso sul mercato con la sua pseudo etichetta, l’Anterspace, e dischi simili a white label promozionali. Nessuna info aggiuntiva oltre al numero di catalogo e titoli delle tracce, un’essenzialità tipica di chi è fermamente convinto che la musica sia sufficiente a trasmettere il proprio messaggio. Anche a questo giro il misterioso artista mantiene intatta la comunicazione con una techno/electro di matrice tipicamente drexciyana e di red planetiana memoria, basta poggiare la puntina su “The Far Moog Sector” o “Black Gaze” per capire quali siano i suoi riferimenti. Contorsioni acquatiche sorrette da accordi che squarciano le tenebre si ritrovano pure in “Vibranium Prt 1” mentre “Year 6900” lascia scorrere immagini distopiche di città rase al suolo da orde di robot ribelli. Ma chi opera dietro Ten Lardell? Un giovane talento appassionato o un veterano esperto che gioca a nascondino? Le ipotesi, al momento, restano tutte aperte.

l'oggetto - Musica Da Discoteca Vol.3

l’oggetto – Musica Da Discoteca Vol.3 (MKDF Records)
È tempo del terzo (e pare ultimo) volume per Marco Scozzaro, artista multidisciplinare italiano di stanza nella Grande Mela che dal 2021 veste i panni de l’oggetto, scritto rigorosamente senza maiuscole. L’intento resta quello di trovare un’identità ben definita esplorando e tributando la vicendevole contaminazione che riguardò la house music in un ping pong continuo di influenze tra Chicago, Detroit, New York e… la riviera adriatica italiana. “Aquatico” si muove sotto il pelo dell’acqua, incrociando pesci e vegetazione marina in un caleidoscopio di colori, “Fluido” mette in relazione nervosismi ritmici con rassicuranti pad e sinuose arcature filo acide per un risultato che gioca con perizia sui contrasti, “DeepOrg” solletica l’ascolto con pennellate chiare su fondo scuro, “AltVers” tira il sipario con una serie di soluzioni che sembrano uscire dal catalogo Irma o MBG International Records. Il tutto a 120 bpm, le pulsazioni di un sogno sincronizzato sulla musica della discoteca di un tempo che fu.

The Exaltics - Das Heise Experiment - The Remixes

The Exaltics – Das Heise Experiment – The Remixes (Solar One Music)
Escono su vinile arancione marmorizzato quattro remix di altrettanti brani tratti dall’album “Das Heise Experiment” che The Exaltics pubblicò nel 2013 sulla britannica Abstract Acid. “Dreizehn” diventa “Dreizehn Habits” e rivive per mano degli ADULT. in un trattamento che ripialla la materia ritmica e la interfaccia a rigonfiamenti new wave, “Sieben” viene riletta da Gesloten Cirkel (l’unico remixer qui a non essere nativo di Detroit) in un moto sussultorio con darkismi funerei, “Acht” è ciberneticizzata da K1 (Keith Tucker) e per finire “Zwoelf” rimodulata da Arpanet arpionando atmosfere ambientali e geometrismi post kraftwerkiani. Dedicato ai collezionisti è invece il box set pensato per celebrare il decennale dell’album che contiene, oltre ai remix sopra descritti, la riedizione dell’album stesso in colore bianco, un 7″, un CD, una cassetta, una collection di file, un fumetto, un poster e degli adesivi. Appena cento le copie, già sold out ovviamente.

Dopplereffekt - Infinite Tetraspace

Dopplereffekt – Infinite Tetraspace (Curtis Electronix)
Trincerato dietro Rudolf Klorzeiger, Gerald Donald torna ad animare uno dei progetti più apicali della sua carriera, Dopplereffekt, pietra angolare dell’electro dell’ultimo trentennio, affiancato per l’occasione dalla moglie Michaela To-Nhan Barthel e da una certa Beatrice Ottman. Il disco è diviso idealmente in due sezioni: la prima si muove su materie ritmiche con “Programmable Organism” ed “Entity From Tetraspace”, segnate da riverberi metallici, striscianti bassline, effetti che salgono e scendono a spirale, arpeggi velenosi e un brillante impasto cromatico; la seconda invece si tuffa nelle ambientalizzazioni attraverso “Tachyon Intelligence”, un sogno-incubo, e “Computronium”, immersa in un’atmosfera pensosa e fantascientifica. A pubblicare il 12″ è un’etichetta italiana, la barese Curtis Electronix, che negli ultimi anni si è fatta notare in primis per le produzioni di CEM3340 ma ospitando pure diverse incursioni estere di artisti come Detroit’s Filthiest, Galaxian e DJ Overdose.

Global Goon - Nanoclusters

Global Goon – Nanoclusters (Central Processing Unit)
Sebbene non sia proprio recentissimo, questo mini album che Jonathan Taylor firma col suo moniker più noto non merita affatto di passare inosservato nel diluvio quotidiano di nuove pubblicazioni. L’artista britannico si diverte a flirtare con più riferimenti stilistici, come del resto faceva già negli anni Novanta nelle prime apparizioni su Rephlex. In “Nanoclusters” regna un pulsare dinamico di emozioni, ora rivelate da scuffiate sintetiche (“Khroxic Mould”), poi da irradiamenti dark (“Metallik”), varchi armonici malinconici (“Syntheseers”, “Digit Six”, l’eccelsa “Calcula” che lascia dietro una scia cosmica siderale) e pure sapienti lavori sui filtri che sottolineano i movimenti arcuati dei suoni (“Metro Esc”). Non manca il volo nel freestyle agghindato di funky (“Snapterisk”) e persino un’escursione in madide ruderie in botta hardcore (“Metal Glass”), dalle cadenze ritmiche più accentuate.

Various - You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5

Various – You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5 (Moustache Records)
Analogamente a quanto avvenuto col Vol. 4 del 2022, anche questo quinto atto della serie “You Can Trust A Man With A Moustache” sta destando attenzioni così forti da mandare in sold out la tiratura di 500 copie a pochi giorni dall’uscita e, conseguentemente, alimentare le speculazioni da parte dei venditori privati. Difficile poi capirne poi il perché visto che si tratta di un various dignitoso ma privo di particolari slanci da renderlo un must have. Dentro c’è l’italo disco 2.0 di Tending Tropic (“Hondebrok”), l’electro house che Cafius ha scolpito riciclando il riff di un classico eurodance dei Le Click (“Tonight Is The Night”), la post EBM degli Im Kellar (“Not To Be Compromised”) e per finire una versione sotto steroidi che Adrian Marth ricava dall’eurodisco (“Icon Of The Night”). Un 12″ senza infamia e senza lode, che pare uscito dagli anni che seguirono il boom electroclash.

The Hacker - No Senor

The Hacker – No Señor (Italo Moderni)
Michel Amato non ha mai fatto mistero della sua viscerale passione per la new wave e l’industrial più oscure e tenebrose parimenti a tutta la scuola EBM, e questo disco, uscito da poco sull’iberica Italo Moderni, ne è ulteriore testimonianza. “No Señor” ripesca a piene mani dal campionario di Liaisons Dangereuses, Cabaret Voltaire, No More, Front 242, D.A.F. e soprattutto Nitzer Ebb (mettete su “Let Your Body Learn” e magari provate a mixarli insieme) e l’effetto viene ulteriormente riverberato nel remix di Terence Fixmer, un altro che in tempi non sospetti rimise mano a tutto quel repertorio declinandolo in chiave technoide e ottenendo quella che fu ribattezzata TBM (techno body music). A completare il quadro le due parti di “Me & My Sequencer”: la prima con l’aggiunta di tocchi di matrice dopplereffektiana, la seconda con un piglio ancora più militaresco con vampate di spippolamenti analogici.

Abyssy - Extra Meta

Abyssy – Extra Meta (New Interplanetary Melodies)
È un progetto decisamente sostanzioso quello messo in piedi da Andrea ‘Mayo Soulomon’ Salomoni che torna sull’etichetta fiorentina di Simona Faraone (intervistata qui) con un album, in uscita il 22 febbraio, a cui si aggiungerà un EP il 14 marzo. Mediante un ricco armamentario fatto di intramontabili cimeli che, alla stregua dei migliori whisky, più invecchiano e più diventano ambiti (dai classici Roland – MC-202, TR-808, TR-909, Juno-60 – a Yamaha DX100 passando per Korg MS-10 ed E-mu SP 1200), il compositore bolognese colloca le sue opere in scansioni ritmico-armoniche non convenzionali e si lancia a capofitto in un’avventura che muove più corde dei suoi gusti e sensibilità. Si fluttua su materie gassose e ritmi destrutturati (“Samba Temperado”, “Quantum”, “Vectrex”) ma poi si torna coi piedi per terra per marciare insieme a grovigli di ricordi chicagoani (“Mars Trax”, “Acid Rio”, “A Mixed Feeling”) e poi attivare la connessione con la rivisitazione di stilemi italo disco (“Italodoppler”) ma con l’aggiunta di elementi onirici. Nell’EP Salomoni infonde altre tangibili prove del suo talento, prima disegnando arazzi kraut di göttschinghiana memoria (“Busy Line”, “C3C6”, un possibile omaggio al monolitico “E2-E4”?) e poi rituffandosi nelle atmosfere soleggiate e ridenti di un suono meticcio tra house e italo disco (“Lower Milky Way”). A tutto questo si sommano quattro ulteriori tracce destinate al solo formato digitale, “Supernova”, “Ordinateur Numerique”, “Choices” e “Drumatic”, tra iniezioni di theme music, divagazioni low-fi, esplorazioni ambientali issate su scheletri ritmici e misteriosi tam tam che rompono il silenzio delle oscurità spaziali.

Innershades - Explorer EP

Innershades – Explorer EP (Altered Circuits)
Terza apparizione su Altered Circuits per Thomas Blanckaert che in questo extended play continua a spingere verso l’alto una techno frammista a preponderanti elementi electro. I riferimenti a Detroit si palesano proprio nella title track, “Explorer”, un susseguirsi di lanci melodici e cortine fumogene filo acid su una rete ritmica in sincopi. L’aderenza allo stile della Città dei Motori si rende ancora più evidente in “Aquaculture”, un incrocio tra il primo Atkins su Metroplex e il suono acquatico dei Drexciya e il titolo, in tal senso, non lascerebbe adito ad alcun dubbio. Dallo stesso ceppo il prolifico produttore belga ricava pure “Super 6” e “Unknown Depths”, ulteriori slanci verso quel suono che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha fatto sognare un’intera generazione facendole sentire l’accelerazione del futuro ben prima dell’arrivo di internet, degli smartphone o dell’intelligenza artificiale.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Discommenti (novembre 2023)

Andy Romano - Monday

Andy Romano – Monday (Bordello A Parigi)
Andy Romano si fece notare tra 2008 e 2010 con una serie di produzioni di taglio italo disco, tutte finite nei cataloghi di etichette estere. MySpace stava per cedere il passo a Facebook e il movimento che gravitava intorno al revivalismo dance degli anni Ottanta era ancora perlopiù relegato a piccole case discografiche indipendenti guidate da collezionisti incalliti desiderosi di ridare linfa vitale alle musiche che contraddistinsero la loro giovinezza. Poi, improvvisamente, di Romano si perdono le tracce e di lui non si è saputo più nulla. L’ennesima delle meteore insomma, ma rimpianta perché in studio ci sapeva fare davvero. Alla musica l’artista preferisce il lavoro di character designer nel settore dei videogiochi, del cinema e dell’editoria. A distanza di tredici anni dall’ultima apparizione però il nome del capitolino rispunta fuori, forse istigato dalla recente ristampa di “Every Time Feel Allright” su Cold Blow, con un EP destinato all’olandese Bordello A Parigi che sembra provenire da un vecchia bobina incisa nel biennio 1982-1983. “Monday” incrocia il tiro hi nrg di Bobby Orlando a tradizionali ouverture melodiche italo, e “Cyber Black Spaceship” ne segue la scia evidenziandone il lato cosmico. “Loredane” infine si cala del tutto nel classico stilema italo attraverso una canzoncina d’amore cantata (intenzionalmente) in un inglese stentato e immersa in zuccherose melodie: a venirne fuori è una specie di “Galactic Reaction” dei Milkways sovrapposta alla giocosità di “Amoureux Solitaires” di Lio con l’aggiunta di una spruzzata del romanticismo di Savage e Felli.

Robotron, The Egyptian Lover -Pornographix

Robotron Feat. The Egyptian Lover – Pornographix (Skynet Cybersonix)
Adalbert Kupietz torna a vestire i panni di Robotron e per l’occasione vanta al suo fianco un partner d’eccezione, il mitologico Egyptian Lover, con cui realizza il terzo episodio su Skynet Cybersonix. “Pornographix” nasce come riadattamento di un vecchio brano intitolato “Pornographics” che lo stesso Kupietz firma in solitaria come Interfunk nel 2009. La V1.0, sul lato a, intreccia schemi robotici dalle tinte fredde che accentuano l’atmosfera cupa a classiche ansimate e vocal dell’artista losangelino innamorato della Terra dei faraoni, la V2.0, sul b, avanza su una velocità di crociera più sostenuta, con geometrismi ritmici controbilanciati da effettistica spaziale e contrappunti melodici che omaggiano il remix che Heinrich Mueller realizza nel 2001 per “What Use” dei Tuxedomoon su International Deejay Gigolo Records. Come di consueto per Skynet Cybersonix, sono appena duecento gli esemplari, numerati a mano con annesso un cartoncino illustrato. Una parte della tiratura è stampata su vinile di colore argento marmorizzato ma solo cinquanta copie annoverano un ulteriore bonus diventato già ambito dai collezionisti, un poster.

Break 3000 - Emolotion EP

Break 3000 – Emolotion EP (Mondo Phase Rec.)
Così come avvenuto per Christian Gleinser (si veda Discommenti di settembre 2023), anche l’olandese Peter Gijselaers finisce nelle maglie della retromania. Il suo progetto Break 3000, partito in sordina nel 1999, si ritaglia spazio durante il boom dell’electroclash. Per Gijselaers, tuttavia, risulta decisiva la partnership con Felix B Eder con cui dà avvio ai Dirt Crew, cavalcando la moda della minimal house e in tal senso “808 Lazerbeam” resta un piccolo classico degli anni in cui i DJ iniziano a mixare senza cuffia con il laptop al posto dei giradischi. L’esperienza come Break 3000 finisce inevitabilmente nel dimenticatoio, arenandosi in mezzo alla giungla di produzioni che a inizio millennio giocano a riavvolgere il nastro, flirtando coi suoni new wave, synth pop e italo disco. Adesso però è tempo di riscoperta e al recente “The Rise Of Poseidon I” sull’argentina Calypso’s Dream segue questo EP che ripesca quattro brani del repertorio dell’artista nativo dei Paesi Bassi. Investire su musica vecchia, del resto, pare essere la grande vocazione dell’industria discografica contemporanea. «Sono due le ragioni che mi hanno spinto a credere in pezzi già editi» spiega Matteo Pepe alias Uabos, fondatore della neonata Mondo Phase Rec.: «la prima è strettamente personale, perché quello di Break 3000 è un disco che amo da sempre, fisso nelle mie prime serate da DJ e che mi distingueva a quel tempo visto che nel 2003 la scena milanese offriva raramente musica di questo genere. Mi sono sentito subito rappresentato da quei suoni, semplici, d’impatto, graffianti, con un’inclinazione punk che sposava l’electroclash oltre a reminiscenze italo disco; la seconda ragione è rappresentata dal fatto che questo tipo di suono risulta essere quanto mai attuale: i DJ più giovani amano cose simili e i produttori ne prendono spunto. Ho provato a cercare nuovi artisti disposti a produrre electroclash ma, nonostante ci siano tantissime cose valide in circolazione, mi pare che l’attitudine con cui vengano prodotte non sia proprio la stessa. Per far partire la mia etichetta invece avevo bisogno proprio di quel suono e approccio, non volevo lasciare spazio a diverse interpretazioni. Con la stampa di “Emolotion EP” quindi ritengo di aver lanciato un messaggio chiaro e preciso».

“Emolotion” è tratta da un various edito su Meuse Muzique Records nell’autunno 2003, “Plastique People” e “C’Mon Girl” provengono da “The Electronic Kingdom EP” mentre “Follow” è un inedito, prodotto ai tempi ma mai dato alle stampe. Anello di congiunzione di tutte è un suono meccanico retrò segnato da curvature melodiche un filo ingenue e voci robotiche. L’ispirazione paga il tributo ad artisti come David Carretta, The Hacker e l’Anthony Rother che, proprio in quel momento storico, riesce a rendere più accessibile la sua musica attraverso le pubblicazioni su Datapunk partite con “Back Home”. Al momento le reazioni del mercato paiono più che buone: «ho stampato 350 copie e il disco è quasi sold out» spiega Pepe. «Non credo però di far uscire la versione digitale dei brani (operazione già portata a termine da Gijselaers il 15 marzo 2023 attraverso Bandcamp , nda) ma non escludo che possa essere una possibilità da applicare alle prossime pubblicazioni. Nonostante i pezzi suonassero già bene, mi è sembrato logico rinfrescarli ricorrendo al remastering di Emanuel Geller presso il Salz Mastering Studio, a Colonia, con cui Peter lavora di solito. Il suono è assolutamente fedele all’originale, gli ha dato solo una “spintarella” per allinearlo allo standard attuale. Peter è davvero una persona fantastica ed estremante cordiale e gentile, possiede ancora quell’approccio positivo che a volte si perde col tempo. Non confidavo troppo in una suo assenso e invece nell’arco di appena ventiquattro ore mi ha risposto positivamente. Dopo aver chiuso l’accordo, la finalizzazione dell’EP è stata rapida: abbiamo discusso della tracklist ma lui si è sempre rivelato propositivo e ha riposto fiducia in una persona come me, nonostante non avessi maturato altre esperienze in ambito discografico ad eccezione di quelle come artista. Probabilmente l’unico dettaglio che ci ha impegnati di più è stato il nome da dare all’EP. Inizialmente non era d’accordo nell’intitolarlo come il suo cavallo di battaglia, “Emolotion”, ma poi ha capito che quella era la scelta giusta per fini commerciali. Attualmente stiamo ragionando su un possibile ritorno dietro la consolle come Break 3000, visto che gran parte della sua carriera è legata al progetto Dirt Crew. A breve pubblicheremo sul canale Soundcloud di Mondo Phase Rec. un suo vecchio mixato riproposto su Radio Raheem che trovo fantastico».

La retromania teorizzata da Simon Reynolds nell’omonimo libro del 2010 sta probabilmente toccando il suo apice: tutto è commemorativo, anche nella musica che un tempo puntava al futuro e non certamente al passato. Credere più in ciò che è stato piuttosto che in ciò che sarà è forse sintomo della perdita di fiducia nel domani? Nella musica dance elettronica, questo procedimento mentale rischia di limitare possibili nuove sollecitazioni artistiche? «Penso che in qualsiasi epoca ci sia stata una rivisitazione del passato, probabilmente ci aiuta a comprendere ciò che è stato prima e ci sprona nella ricerca del nuovo rispetto a qualsiasi ambito culturale» risponde Pepe in merito. «È anche vero però che viviamo un periodo in cui la società ci spinge a non avere grande fiducia per il futuro, e questo ovviamente si ripercuote in tutti gli ambiti della vita e probabilmente stimola meno a indagare strade non battute invitando, al contrario, a guardare con nostalgia il passato e rimanere stanziati in una zona di comfort. Che venti, trenta o quarant’anni fa ci fossero più stimoli nello sperimentare penso sia indubbio, ma in che tipo di società vivevamo? La paura di Reynolds che questa ossessione per il retrò predomini rispetto alla volontà di ricercare nuove forme penso sia fondata, tuttavia mi sembra di vedere comunque un progresso delle cose e la nostra evoluzione è ovviamente figlia di ciò che c’è stato prima, nel bene e nel male. Evocare e reinterpretare il passato può portare alla creazione di opere uniche, e connettere il presente col passato può aiutare a trovare nuove strade. Insomma, se gestita con equilibrio la retromania può arricchire la cultura contemporanea e rappresentare un ponte positivo e un collante generazionale».

Dopo Break 3000 la Mondo Phase Rec. proseguirà nel solco delle ristampe o scommetterà su qualche nuovo talento? «Ho voglia di battere il ferro finché è caldo» afferma Uabos. «Le prossime tre pubblicazioni sono praticamente pronte ma non svelo i nomi per pura scaramanzia. Colgo l’occasione per invitare a mandare dei demo a mondophase@gmail.com, a patto che siano in linea con la direzione musicale intrapresa. Il nostro è un collettivo che abbraccia varie forme creative. Ho avviato, ad esempio, una collaborazione col fotografo Alessandro Sorci con cui per anni abbiamo creato le immagini dei flyer delle nostre serate, foto che ora sono sulle cartoline all’interno della copertina del disco. Mi piacerebbe stringere più sinergie di questo tipo, correlate a discipline differenti rispetto alla musica, ma al momento è difficile a causa di budget molto bassi. Per ora, quindi, spingerò solo sulla musica. Dopo aver trascorso vent’anni dietro la consolle, ho sentito l’esigenza di dare una mia visione personale al mondo del clubbing contemporaneo, scegliendo la direzione da prendere, da quella musicale alla visiva e grafica. Per me il Mondo Phase richiama connessioni con diverse fasi e aspetti, rispecchia le diversità delle esperienze globali, il cambiamento attraverso il tempo e le fasi di crescita e sviluppo. Ogni fase ha contribuito a definire il mondo in cui viviamo oggi ed esprime concetti legati all’evoluzione e alla mutevolezza».

Livio Improta - Fondamentalismi

Livio Improta – Fondamentalismi (Tiella Sound)
Dopo aver inaugurato il catalogo con Daniele Tomassini alias Vaisa, che frugava negli interstizi ambient/IDM facendo leva su ritmi destrutturati ascritti a tragitti warpiani, la giovane etichetta fondata da Luca ‘Bigote’ Evangelista prosegue il cammino con la musica del DJ Livio Improta. Sono dieci i pezzi, prodotti parecchi anni fa ma rimasti nel cassetto per alcune vicissitudini, con cui l’artista campano arpiona stili complementari e li mescola facendoli palpitare e muovere in varie direzioni per ricavarne qualcosa che assomiglia a un patchwork audio in grado di riservare più di qualche sorpresa. Da tracce erranti tra dolci carezze e ruvide spigolosità (“Posidone”, “80123”, “Intransigenza”), a pulsazioni irregolari intrecciate a spasmi di glitch (“Fondamentalismi”), da vivaci contrasti tra luci e ombre (“Comunicando”, “Alpha”) sino a soluzioni ballabili (“Cuma, “Iblis”, da cui affiora una sorta di acid virata dub in salsa low-fi, “Marechiaro”) per atterrare infine su tessiture noise intrecciate a un metafisico spoken word in italiano (“Omega”). Un LP con cui Improta abbraccia un astrattismo che disorienta l’ascoltatore ed elude il facile incasellamento stilistico a favore di una totale libertà creativa, propensione che oggi purtroppo manca alla stragrande maggioranza di coloro che si dedicano alla composizione di musica elettronica. L’LP uscirà il prossimo 8 dicembre e sarà limitato alle 200 copie.

Bosconi Stallions III

Various – Bosconi Stallions Vol.III (Bosconi Records)
È un itinerario polimorfico quello riservato dal terzo atto della “Bosconi Stallions”, compilation che celebra i quindici anni di attività dell’etichetta fiorentina mettendo insieme dodici pezzi di altrettanti artisti, accomunati dalla nazionalità italiana e dalla propensione a esplorare varie sfaccettature della dance elettronica. All’interno si toccano molteplici lidi stilistici giocati sia sulle sfumature che sui contrasti, rimbalzando dalla techno alla house passando per l’electro, tutto con un piglio ballabile che a conti fatti risulta essere il leitmotiv dell’intera raccolta. Si transita, tra gli altri, dalle spigolosità ritmiche dei Minimono ai ventagli melodici di Feel Fly e Lucretio, dalla sgroppata di Queen Of Coins, che paga il tributo a tanti eroi dell’epopea electroclash con tinte vivaci e brillanti, al lancio nell’iperspazio di Twovi e Data Memory Access. Nota di merito per due colonne statuarie della scena nostrana, Marco Passarani e Alexander Robotnick che, rispettivamente con “Bungy Bungy Bungy” e “It’s So Easy”, annodano house e matrici italo disco con la loro riconosciuta padronanza e consapevolezza. A coronare il tutto è l’artwork di Niro Perrone, in bilico tra realtà e immaginazione, un confine che gli artisti coinvolti nel progetto valicano più volte.

MG Project - Friends

MG Project Feat. Miss Dee – Friends (Three-Bù Records)
Un gradito ritorno sulle scene discografiche quello di Marco Moreggia, tra i primi DJ a portare la house music a Roma a metà degli anni Ottanta come lui stesso racconta qui. Dai tempi del Devotion e de I Ragazzi Terribili è cambiato davvero tutto, mondo compreso, ma l’artista non ha perso la voglia di produrre house per i club, seppur l’attività in studio non sia mai rientrata tra le sue priorità. In questo pezzo prodotto con Stefano Guerra e la newyorkese Miss Dee, al momento disponibile solo in formato digitale, si sente odore di sound britannico, forse per i ghirigori progressive o per le aperture melodiche morbidamente accarezzate dalla luce che un po’ ricordano “Right On!” dei Silicone Soul (Curtis Mayfield docet). A condire il tutto una patina tribaleggiante, fraseggi jazzati di sax e un vocal hook preso da “Never Be Alone” dei Simian, ma meglio noto per la versione dei francesi Justice. Ulteriore rimando al passato è offerto dal nome dell’etichetta stessa, omonima di un progetto di Moreggia che prende vita tra 1991 e 1992 attraverso un paio di fugaci apparizioni sulla Mystic Records. «Ho voluto far rivivere Three-Bù, mantenendo senza variazioni lo storico logo disegnato a mano da Luigi Bonavolontà, perché per me rappresenta un momento molto importante legato a I Ragazzi Terribili» spiega il DJ in un post su Facebook dello scorso 6 novembre. «Three-Bù Records sará un’etichetta aperta a tutti quegli artisti che hanno qualcosa da dire e a quelli che non si adeguano ai soliti cliché. Ci impegneremo a costruire passo dopo passo la nostra storia non identificandoci in un genere preciso e saremo aperti a tutta la musica di qualità che fa ballare ma anche sognare». Annunciato giusto un paio di giorni fa è “Paradise” di Stefano Di Carlo Feat. S. Minnozzi, la cui uscita è attesa per la fine del mese in corso.

Skatebård - Spektral

Skatebård – Spektral (Digitalo Enterprises)
Arriva dalla fredda Norvegia questo album assemblato con una serie di inediti scritti e prodotti tra 2001 e 2005. L’Intro apre le porte del regno degli Asi mandando l’ascoltatore in compagnia di mostri della mitologia nordica ma ciò avviene per appena quaranta secondi perché “Vaskemaskin” trascina immediatamente sulla pista coi suoi turbinii incontrollati madidi di sudore che girano come lame roventi. L’effetto è simile in “Den Anarkistiske Anode”, rivista da DJ Sotofett, un sinuoso serpente di loopismi techno sporcati dal distorsore, e “Seventh”, che riaggancia ipnotismi in stile Maurizio. Con “Bassi” l’artista placa momentaneamente gli impeti più animaleschi adagiandosi su un fondo catramoso fatto di punteggiature housy in stile Chicago della prima ora. Sulle stesse coordinate si colloca “Ei Anna Framtid”, un take beatless di “Future” pubblicata dalla finlandese Keys Of Life nel 2003 che ora diventa un glaciale arabesco ambient techno a cui segue “Strengje”, house mutante scandita dai blip. La chiusura fa nuovamente calare la pressione: “Spektral-Electro” lambisce oscure galassie electroidi mentre in lontananza lampeggiano colori fluo tra nuvole minacciose. Bård Aasen Lødemel continua a toccare con disinvoltura più generi musicali marchiandoli puntualmente con la tipica impronta nordica di atmosfere tristi e riflessive, probabilmente derivata dalla cronica latitanza di sole nella Terra dei vichinghi.

Ma Spaventi & Demuro - La Molecola Del Tempo

Ma Spaventi / Demuro – La Molecola Del Tempo (New Interplanetary Melodies)
“Anno Domini 1987. La Grande Guerra Nucleare è terminata senza vincitori. Enormi nembi giallastri vagano tra i continenti a oscurarne il cielo. Il pianeta è amorfo, il suolo pregno di esalazioni tossiche. La bellezza, bandita dalla realtà, sopravvive solo nei ricordi di pochi scampati. Nessuna megalopoli, nessun parlamento, nessuna famiglia: tutto ciò che l’uomo aveva eretto al centro ora è periferico, sporadico, incerto. La distruzione dello spazio ha dissipato anche il tempo. Dell’uno e dell’altro non restano che frammenti sparsi, destinati a sgretolarsi sotto l’impeto di venti sulfurei e depressioni caustiche. La Società Degli Ultimi Esseri, nelle rare isole di terra fertile, vive stretta intorno all’estrema speranza. Rimangono solo pochi giorni per ingabbiare la molecola del tempo: presto l’ultimo nocciolo di energia sarà spento. L’esperimento finale è appena iniziato: troppo fantasiosi gli esiti per essere previsti, troppo confuse le probabilità per essere calcolate”: si legge così sul retro della copertina di questo avventuroso disco, l’incipit da cui (ri)parte il viaggio di MarcoAntonio Spaventi ed Enrico Demuro, a poco più di un anno di distanza da “The Great Walk”. “La Molecola Del Tempo” è un album intriso di pathos e intensità emotive che viaggiano speditamente da un pezzo all’altro disegnando prima atmosfere accomodanti e benevole, poi scure, con suoni minacciosi che si stagliano su un cielo livido e plumbeo, imperscrutabile, a incorniciare il tramonto della civiltà su scenari di inconsolabile devastazione. Un’immagine distopica, tipica della narrativa fantascientifica e cinematografica d’antan (si veda, ad esempio, la serie “Ora Zero E Dintorni” prodotta in Italia nel 1980) ma via via sempre più temibilmente contemporanea a giudicare dalla situazione attuale in cui versa la Terra. È legittimo pensare che a ispirare gli autori sia stato un evento in particolare, e il fatto che il disco sia stato composto, arrangiato e prodotto tra la fine di agosto 2019 e marzo 2021, abbracciando buona parte del periodo pandemico, avvalora l’ipotesi che il Covid-19 possa avere ricoperto un ruolo centrale nel processo creativo. A fugare i dubbi sono proprio gli artefici, contattati per l’occasione: «Verso la fine del 2019 la mia vita personale ha subito diversi cambiamenti molto importanti che mi hanno portato a lasciare quella comfort zone a cui ero abituato negli anni precedenti» spiega Spaventi. «L’arrivo del Covid-19 subito dopo ha certamente contribuito ad aumentare il senso di insicurezza e di crisi. La musica però, ancora una volta, mi ha dato la possibilità di trovare un momento di riposo mentale, di creatività che alimenta la rinascita. Le ambientazioni e, più in generale, la sonorità del disco, sono frutto proprio di questo particolare equilibrio. La ricerca sonora da una parte, che porta soddisfazione e senso di comfort, il sapore amaro e di disagio del mondo attuale dall’altro». Simile la prospettiva di Demuro: «La lunga parentesi della pandemia, i periodi di “reclusione domestica”, le nuove problematiche e le incertezze hanno influito nella fase creativa della musica e del concept. Nel mio caso a giocare un ruolo sono state anche le letture che ho affrontato in quel periodo. Ritengo ci sia una grande difficoltà a leggere con lucidità il nostro presente storico e costruire il futuro rimediando, in maniera consistente, alle falle del sistema capitalistico neoliberista e alla crisi crescente dei nostri sistemi democratico-liberali. Nel frattempo si sono aperti e riaperti nuovi scenari bellici attorno a noi, quindi mi sembra tutto di grande attualità».

Nonostante ci siano diversi anni a separare il concepimento dalla pubblicazione dell’album, “La Molecola Del Tempo” risulta essere perfettamente contemporaneo, proprio per la persistente fase di difficoltà che il nostro Pianeta si trova ad affrontare. Cambiare qualcosa forse avrebbe potuto dare un valore aggiunto? «Per me è perfetto così» afferma lapidario Spaventi. «Finire un disco è un’impresa colossale proprio perché non si vuole lasciare nulla al caso e si cura tutto nei minimi dettagli per creare un’opera che possa sostenere il passare del tempo». Pure Demuro è contento del risultato finale, «ma mi sarebbe piaciuto aggiungere parti di batteria e di percussioni suonate» dice «per renderlo un po’ meno sintetico/programmato e più suonato insomma. Auspico che questa possa essere la direzione del nostro prossimo disco, capiremo come fare». “La Molecola Del Tempo” garantisce all’ascoltatore un’autentica avventura verso “Nuovi Orizzonti”, per poi spingersi “Nel Vortice Di Una Vertigine” e toccare “Il Punto Di Fusione”, prendendo in prestito alcuni dei titoli in tracklist. Un sogno che diventa un incubo, atmosfere rasserenanti che si trasformano in severe, a tratti ansiogene con un filo di mestizia: davvero nulla si ripete meccanicamente, è un flusso emozionale che prima ti accarezza e poi ti fa gelare il sangue, forse un parallelo alla vita terrena che dà e toglie, purtroppo non sempre in modo bilanciato.

Per raggiungere questo risultato gli autori hanno adoperato una lista lunghissima di strumenti, di vecchia e nuova generazione. «Poco importa che una macchina sia vecchia o nuova se il suono e il prodotto che ne ricavo soddisfano le mie esigenze» afferma Spaventi. «La tecnologia mi affascina da sempre analogamente alla ricerca sonora». A supporto dell’intreccio tra ieri e oggi è anche Dimuro il quale sostiene che «l’interazione tra vintage e nuove tecnologie può aprire a nuove soluzioni sonore. Noi abbiamo privilegiato sintetizzatori di ieri abbinati a sequencer moderni che rendono la produzione più veloce e compressa. Abbiamo bisogno di nuove tecnologie per correggere i nostri errori ma il discrimine è nell’utilizzo, l’etica e le modalità d’impiego. La tecnologia senza etica è rovinosa perché procede eternamente in modo acefalo ma a me onestamente pare ormai troppo tardi per cambiare la sua dinamica evolutiva, e forse non è mai stato possibile farlo». Aver creato l’album in un periodo particolare come quello pandemico, ha per forza di cose inciso sul modus operandi con cui è stato realizzato. «Siamo stati costretti a lavorare per lo più a distanza ma qualche volta, soprattutto nella fase finale, ci siamo incontrati in studio» racconta Spaventi. «Ci si rimbalzava le sessioni fino a quando il materiale non era completo per essere missato. Un aneddoto particolare riguarda “Molecolare”, tra i pezzi più vecchi del disco. La sessione iniziale venne creata da me nel 2019, tra le ultime nel mio studio di allora. Ho sperimentato tantissimo con effetti e missaggio ma il tutto è maturato a dovere solo quando Enrico ha aggiunto le sue particolarissime linee di basso. Per scambiare materiale facevamo spesso ricorso al cosiddetto “bounce” che non consisteva in tutta la sessione ma solo di un file stereo, risultato del missaggio parziale del brano. Su questa base Enrico ha aggiunto, più o meno, tutti i suoi bassi. Quando ho importato le sue takes nella mia sessione originale però, il groove e il modo in cui il basso si appoggiava al ritmo non stavano più su. È un problema comune a chi produce col computer dovuto alla “latenza” del sistema. Sono millisecondi che il computer aggiunge via via per gestire tutto il calcolo del prodotto audio. Niente, il basso di Demo non ne voleva proprio sapere di starci dentro, neanche dopo tentativi di aggiustamenti manuali. Soluzione? Usare il missaggio parziale e sistemarlo in mastering: la fase finale del pezzo è proprio il premix originale che aveva un groove unico. Questo per dire che non importa di come si arriva al risultato, l’importante è che suoni nel modo giusto».

Uno dei pezzi che simboleggiano meglio il messaggio di Spaventi e Demuro è “Cadetti Dello Spazio-Tempo”, accompagnato anche da un videoclip girato tra Castelfiorentino e Marghera nel 2023 da Sabina Ismailova ma altrettanto convincente risulta “Cinematica Terrestre”, destinato a essere la bonus track del formato digitale uscito lo scorso 26 maggio. Con “Elettromagnetica” si alzano venti che spazzano via i nembi giallastri di cui si diceva all’inizio. Ma purtroppo è solo la sensazione suscitata dalla musica, le condizioni in cui versa la Terra continuano a non essere delle migliori e più di qualcuno probabilmente oggi vorrebbe trovarsi altrove. Chiedersi che volto avrà il nostro pianeta tra qualche decina d’anni è più che comprensibile, ma anche domandarsi che fine farà la musica. «Il passato non ha mai regalato epoche in cui tutto era perfetto» sostiene Spaventi. «Si stava meglio all’età della pietra, o quando ci si ammazzava per un tozzo di pane, si moriva di peste o inceneriti al rogo? O, ancora, alla fine dell’Ottocento quando le industrie pompavano fumo nero di carbone senza filtri o quando tutto il mondo era in guerra, meno di cento anni fa? Certo, al giorno d’oggi si potrebbe fare sicuramente meglio, vista la conoscenza accumulata dall’umanità dall’inizio della nostra storia. Tutto sommato però sono contento di vivere negli anni Duemila piuttosto che nel Duecento. Tra dieci anni sarà lo stesso, forse un po’ più caldo, un po’ più arido, un po’ più costoso e con tecnologia AI sempre più invadente. Ma sono certo che la musica sopravviverà insieme ai sintetizzatori vintage, perché ci sono quelli come noi che vivono e si nutrono di cose belle». Di opinione diversa è Dimuro il quale ammette candidamente che gli piacerebbe vivere nel Medioevo, un periodo storico affascinante, o militare tra le fila del Terzo Stato durante la Rivoluzione Francese o ancora scoprire il Nuovo Mondo imbarcato con Amerigo Vespucci: «oggi non ci sono, a livello globale, reali politiche di cambiamento radicali. Forse ci troviamo su una barca che affonda e cerchiamo solo di tapparne le piccole falle» aggiunge. «Ovviamente la Terra sopravvivrà e si trasformerà, magari senza gli esseri umani. Spero che in qualche modo la musica riesca a cavarsela, è la più grande forma di bellezza umana artificiale». Adatto a sonorizzare una pellicola catastrofica o un videogame survivalista, il disco di Spaventi e Demuro, prodotto da Simona Faraone (intervistata qui) sulla sua New Interplanetary Melodies, è la soundtrack calzante per restituire all’ascoltatore l’immagine di una Terra andata quasi tutta in pezzi, a un passo dall’essere inghiottita dal buio e dal silenzio eterno. Probabilmente un mondo perfetto non è mai esistito e mai ci sarà, ma nessuno ci impedisce di sognarlo ancora.

Noamm - Electroporation EP

Noamm – Electroporation EP (Tiger Weeds)
Batte bandiera ellenica questo EP sull’ateniese Tiger Weeds. A firmarlo il talentuoso Noamm, che negli ultimi anni ha dimostrato in molteplici occasioni di essere un abile intagliatore di materie electro. La partenza è diretta e senza fronzoli con la severa e minimalista “Electroporation” seguita da “Science We Trust” ed “Exobiology Radiation Assembly”, entrambe intrise di sequenze cybermeccaniche sovrapposte a brevi porzioni melodiche. La medesima andatura da androide si ritrova in “Electroporation II” e “Tele-Vision” probabilmente le più convincenti del disco, dove l’autore sfodera dal taschino il tesserino di adesione al club dopplereffektiano. Per “Intuition”, infine, pigia il pedale dell’acceleratore e riagguanta stilemi industrial / wave con l’aiuto della magnetica voce di Angelique Noir. Nel complesso è un extended play diligentemente prodotto, seppur non offra particolari guizzi estrosi perché si attiene a un modello creativo largamente battuto nell’ultimo ventennio.

Sonic Transmutations

Various – Sonic Transmutations (Clone Records)
Se la fiorentina Bosconi Records compie quindici anni – si legga qualche riga più sopra -, le candeline che spegne l’olandese Clone Records sono poco più del doppio, trentuno. Per festeggiare l’importante traguardo dunque, l’etichetta-distributore di Serge Verschuur mette sul mercato una compilation decisamente maxi visto che il box set racchiude ben otto dischi per un totale di 33 tracce. All’headquarter di Rotterdam parlano di un cofanetto “che riunisce talenti veterani ed emergenti iconoclasti” e, a leggere la tracklist, è difficile sconfessare tale definizione. Tra i veterani Anthony Rother, Dopplereffekt, Legowelt, Dexter, Detroit In Effect, E.R.P., The Exaltics e Alden Tyrell, tra gli emergenti invece Lenson, Alberta Balsam, Alex Ranzino, Dim Garden, PRZ e l’italiano Kreggo, tutti accomunati da una notevole forza espressiva e uniti nel credo della techno e dell’electro. Un possibile regalo da farsi o da fare, in previsione delle ormai non lontane strenne natalizie.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di Nico De Ceglia

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
In realtà sono stati due. Ero solo un bambino ma già affascinato dal mondo della musica. Insieme alla mia migliore amica d’infanzia, decisi di investire la paghetta in due 45 giri, scegliendo tra le hit del periodo. Io optai per l’energia dei Knack con il classico “My Sharona” e “You And Me”, successo pop disco di un gruppo olandese chiamato Spargo, credo l’unico della loro carriera. La mia amica invece scelse “Video Killed The Radio Star” dei Buggles e “I Was Made For Lovin’ You” dei Kiss. Non avevo nemmeno un giradischi quindi usavamo di nascosto quello di suo fratello maggiore quando non era a casa, alzando il volume al massimo e sentendoci adulti e speciali.

L’ultimo invece?
Il nuovo album di Loraine James intitolato “Gentle Confrontation”. È un lavoro molto personale che fonde influenze IDM, glitch, R&B ed elettronica, oltre a intrecciare elementi digitali e acustici.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Il numero di dischi della mia collezione è in continua fluttuazione, purtroppo non dovuto a una costante crescita. Nel corso degli anni ho dovuto separarmi da una considerevole quantità di vinili in più di un’occasione, a causa di traslochi in appartamenti dove non potevo portare con me l’intera raccolta. L’ultimo di questi dolorosi addii risale a tre anni fa, quando ho dovuto prendere la difficile decisione di separarmi da oltre cinquecento titoli tra quelli che avevo lasciato a casa di mia madre, a Roma. Ho spedito una quantità ancora maggiore a Londra ma per motivi logistici e di costi sono stato costretto a scremare quei cinquecento. È un po’ che non conto quelli che ho ancora a casa, molti sono ancora imballati in vari cartoni il che rende la quantificazione più complicata. Credo comunque che oscillino tra i duemila e i tremila. Per quanto riguarda i costi, anche in questo caso è difficile stabilirli in modo preciso. Nella collezione ci sono molti titoli che ho ricevuto come promo nel corso degli anni, sia come DJ che giornalista, e molti altri durante il periodo in cui ho lavorato a BBC Radio 1 con Pete Tong.

Dove è collocata e come è organizzata?
Avevo un sistema di catalogazione basato su generi, artisti ed etichette, ma anche quello ha subito le conseguenze dei vari traslochi e si è disfatto nel tempo. Mi sono ripromesso più volte di iniziare a ricostruire un certo ordine ma continuo a rimandare. Attualmente gli acquisti più recenti e i dischi che utilizzo più spesso quando faccio set in vinile sono sistemati in un’apposita libreria in salone, oltre che in flight case pronti per le serate. Quelli a cui accedo meno frequentemente invece sono sparsi tra un’altra libreria, varie scatole sigillate e diverse borse che conservo con cura in un ripostiglio.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Purtroppo devo ammettere di non essere particolarmente rigoroso su questo aspetto, e i puristi potrebbero storcere il naso a sentirlo. Tuttavia, allo stesso tempo, posso affermare di aver sempre prestato grande attenzione alla cura dei miei dischi, e negli anni ho puntualmente ricevuto apprezzamenti per le loro condizioni impeccabili. Solo alcuni di quelli che avevo lasciato a casa dei miei, in Italia, hanno subito piccoli danni alle copertine a causa delle variazioni eccessive di temperatura nella stanza in cui erano conservati.

Ti hanno mai rubato un disco?
Una volta è successo che alcuni dischi siano scomparsi da casa mia, e il sospetto ricadde su una persona che era stata ospite qualche tempo prima. Tuttavia il danno più grande me lo causò mio padre che, con buone intenzioni ma ingenuamente, concesse l’accesso ai miei dischi che erano conservati a casa sua, al figlio di un amico che stava iniziando a fare il DJ. Considerando la grande quantità di dischi, secondo lui darne via qualcuno non avrebbe fatto molta differenza. Ho scoperto tutto ciò solo molto tempo dopo quando, cercando alcuni titoli che sembravano svaniti nel nulla, me lo rivelarono. Sono riuscito a recuperare solo alcuni di quei dischi ma purtroppo altri, di cui mi sono ricordato negli anni successivi, sono rimasti irrimediabilmente perduti.

Nico De Ceglia e UR
Nico De Ceglia e un disco marchiato Underground Resistance

C’è un disco a cui tieni di più?
Ci sono diversi titoli che hanno un significato davvero speciale per me. Sono una persona che spesso associa oggetti e momenti a preziose memorie. Tra questi, per esempio, gli album che ho comprato con i primi risparmi appena entrato nell’adolescenza occupano un posto particolare nel mio cuore. Parlo di dischi come “Love” dei Cult e “Black Celebration” dei Depeche Mode, che sono intrisi di ricordi di quel periodo. Lo stesso vale per i primi 12″ di house e rap, quando queste scene stavano emergendo, dischi a cui ho dedicato interi pomeriggi ad allenarmi a metterli a tempo e che hanno un posto speciale nel mio cuore. Poi ci sono tanti altri titoli a cui tengo per motivi personali. La lista sarebbe abbastanza lunga.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti volentieri?
Negli anni ho acquistato vari dischi di cui mi sono pentito una volta ascoltati a casa o dopo averli suonati in un club. Al contrario, ovviamente, ci sono stati titoli che avevo inizialmente scartato ma che ho rimpianto dopo averli ascoltati in un club. Nel corso del tempo ho fatto una sorta di pulizia degli errori, almeno per la maggior parte di essi. Qui a Londra, i vari Music & Video Exchange che comprano e vendono dischi, si sono sempre dimostrati estremamente utili, già in tempi pre Discogs.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una cifra significativa?
Un titolo che mi è stato alquanto difficile trovare, tanto che alla fine ho dovuto accontentarmi di una copia non ufficiale, è stato quello della colonna sonora del film “Solaris” composta da Cliff Martinez. Fu pubblicata in un numero molto limitato e per anni non ci sono state ristampe o altre edizioni. Un album che invece ho sempre desiderato e per cui sarei disposto a sborsare una cifra importante ma ragionevole, visto che alla fine copie in giro se ne trovano, è il leggendario “The Black Album” di Prince nella sua versione originale, considerando che nel corso degli anni sono state diffuse diverse copie non ufficiali. Poi ci sono alcuni lavori di Moodymann e Aphex Twin, il trittico colorato “Z Record” su Underground Resistance e alcune rare stampe dei Coil e Can, tutti titoli per cui sarei disposto a spendere cifre più alte.

Quello con la copertina più bella?
Ci sono davvero molte copertine che meriterebbero di essere menzionate. Dall’estetica sempre curata di Björk e Pet Shop Boys al minimalismo dei Depeche Mode di “Violator”, dall’impatto industriale dei primi Nine Inch Nails, Front 242, Nitzer Ebb fino a quelle che hanno segnato nuove scene come nel caso dei primi Massive Attack, Nirvana, New Order o Aphex Twin e l’intera produzione della Warp Records in generale. O ancora copertine iconiche come quella di “I Get Wet” di Andrew W.K. o quelle dominate dalla palette rosso, bianco e nero dei White Stripes. Una copertina che mi viene in mente per la sua immagine unica è quella del promo del singolo “Before” dei sopraccitati Pet Shop Boys. Raffigura il primo piano di una parte intima (lascio a voi il piacere di scoprire di quale si tratti) nelle varianti blu, rosa e bianco e nero. Quando uscì era un promo molto ricercato, tanto per la sua audacia quanto per l’esclusività.

Che negozi di dischi frequentavi da ragazzino e adolescente?
Da bambino, quando vivevo a Napoli, ho iniziato a esplorare i negozi di dischi praticamente da subito. Ricordo di aver costretto mia madre a fare una sosta fissa in un negozio che, se la memoria non mi inganna, si chiamava Top Music ed era uno dei punti di riferimento per i dischi nel quartiere Vomero, dove vivevamo. Nel frattempo mi perdevo tra gli scaffali pieni di vinili, affascinato dall’atmosfera e dalle copertine, anche se ovviamente a quell’età non conoscevo né gli artisti né altro. All’epoca, come ho accennato prima, non avevo nemmeno un giradischi a casa, era solo pura attrazione e passione. Quando ci siamo trasferiti vicino Roma, da adolescente, i miei punti di riferimento divennero i negozi storici della Capitale come Disfunzioni Musicali, il paradiso per gli acquisti alternativi e gli import, un vero tempio dove trovavi i titoli più oscuri, e per quanto riguarda la dance, posti come Goody Music di Claudio Donato, che è ancora in attività, ed altri come Re-Mix e Mix Up. Facevo anche ordini per corrispondenza dai pilastri della scena dance italiana, Disco Più di Rimini e Disco Inn di Modena. Ogni singolo negozio di dischi per me era un tempio magico, e anche quello di quartiere meno fornito diventava una tappa obbligata. Il semplice tocco delle pile di vinili e lo sfogliare con le mani tra i vari titoli mi trasportavano in una dimensione unica. Quando poi ho iniziato a frequentare i negozi specializzati in musica dance, si è aperta un’ulteriore dimensione. Trovarmi tra persone appassionate come me per questo nuovo e unico fenomeno, che il mondo esterno non aveva ancora scoperto e guardava con leggerezza e sospetto, fu un’esperienza straordinaria. Ci sentivamo unici, speciali. Sapere che in certi giorni e orari specifici dovevi visitare un negozio per beccare quelle rare chicche che arrivavano in pochissime copie prima dell’uscita ufficiale, ascoltare i consigli di chi lavorava nel negozio e conosceva i tuoi gusti. trovare una postazione libera, mettere su le cuffie, posare la puntina sul vinile e lasciarsi trasportare dalla musica… non saprei davvero dove fermarmi nel descrivere l’unicità e l’immensa magia di quegli anni.

Cosa ricordi relativamente all’avvento della house e della techno in Italia? Era complesso approvvigionarsi di nuovi titoli? Che “filtro” usavi per orientarti nel mare magnum di pubblicazioni settimanali? Seguivi, ad esempio, programmi radiofonici specializzati, leggevi riviste o ti affidavi semplicemente ai suggerimenti dei negozianti stessi?
Magia. Furono anni di pura magia e scoperta. La house e la techno, così come il rap, hanno rappresentato su vari aspetti le ultime grandi rivoluzioni musicali. Da allora non ci sono stati generi altrettanto rivoluzionari ma solo derivazioni e surrogati. Posso considerarmi incredibilmente fortunato ad aver vissuto in quel periodo. I miei primi approcci a questo movimento erano legati a programmi radio, sia nazionali che locali, che andavano in onda principalmente nei fine settimana e durante la notte, ma anche nel pomeriggio dopo la scuola. Da Italia Network ai mixati di Dimensione Suono, dal DeeJay Time ai programmi pomeridiani di Centro Suono che era un punto di riferimento per noi di Roma e dintorni, passando per gli eccezionali anni di Planet Rock e Suoni e Ultrasuoni: ero un avido ascoltatore di tutti questi programmi. Li registravo diligentemente su varie cassette e poi li editavo sulla doppia piastra, creando una forma primordiale di remix e di edit. Le riviste specializzate che arrivarono poi rappresentarono un’altra preziosa risorsa. Dalle inglesi Mixmag e DJ, quando riuscivo a recuperare delle copie, alle italiane come Discotec, Rumore e DiscoiD, ogni opportunità di scoprire e leggere su nuovi artisti, club e dischi non veniva mai persa. C’erano nomi di cui mi fidavo e che seguivo più ciecamente di altri. Tutto il team serale di Radio 2, quello legato a Planet Rock e ai successivi show, era ovviamente una garanzia, esperti unici nei vari generi, e DJ nostrani come Massimino, Ralf, Claudio Coccoluto e Luca Colombo, solo per citarne alcuni, erano delle vere guide di cui leggevo ogni classifica e recensione. Ricordo che Massimino e Claudio Coccoluto, per esempio, mi fecero scoprire alcuni di quei dischi house che sono rimasti tra i miei preferiti di sempre, come “Tonite” dei Those Guys. Non era poi così difficile trovare copie in giro una volta che arrivavano le versioni importate o venivano licenziati da etichette italiane, la vera sfida era accaparrarsi i leggendari promo.

Stop The Racism (16 febbraio 1991)
Il flyer di “Stop The Racism!”, il rave che si tiene a febbraio del 1991 e che segna la prima apparizione live in Italia di Adamski

Negli anni Novanta la scena della musica dance cambia nel profondo, sia nel comparto discografico che sotto il profilo organizzativo nei locali. A Roma prende piede un format importato dal Regno Unito, quello dei rave. Come hai dichiarato pubblicamente qualche tempo fa, il primo a cui partecipi è “Stop The Racism!”, svoltosi il 16 febbraio 1991 a Monterotondo. Cosa ricordi di quell’evento?
Sono trascorsi più di trent’anni ma come potrei dimenticarlo? Forse non ne ricordo tutti i dettagli ma indelebili sono l’emozione, l’eccitazione e l’energia di essere lì, di vedere esibirsi dal vivo artisti come Adamski e Digital Boy, di cui avevo sempre sentito parlare e visto nei video, e poi sentire le prime note di “Killer” (di cui parliamo qui, nda) e urlare all’unisono col resto della folla entrando in una sorta di trance. Erano tutte esperienze nuove non solo per noi, ma per la maggior parte delle persone presenti. Sentirsi parte di qualcosa di così grande, capire che fosse la nascita di un movimento ed essere al corrente che la maggioranza dei tuoi coetanei nemmeno sapeva dell’esistenza di tutto ciò è stato incredibile. Vissi quell’esperienza insieme al mio migliore amico, appena patentato come me. Prendemmo la macchina di suo padre e ci avventurammo verso il luogo del rave, che distava un bel po’ dalla zona in cui abitavamo. La mattina dopo, quando era ora di tornare a casa, ci perdemmo irrimediabilmente nelle strade della provincia romana. Non esistevano strumenti come Google Maps o navigatori e nemmeno telefoni cellulari per avvisare casa. Dopo ore di guida senza meta, chiamammo da una cabina telefonica trovando i nostri genitori estremamente preoccupati che si erano già contattati diverse volte cercando di capire cosa fare. Loro non sapevano nemmeno dove fossimo andati e anche se glielo avessimo detto, non avrebbero capito. Facile immaginare la situazione. Qualche anno dopo, con altri amici, abbiamo guidato fino a Monaco e ritorno per un Tribal Gathering nell’ex aeroporto. In quel caso i genitori non furono nemmeno informati del viaggio. I tempi erano profondamente diversi da oggi e le avventure irresponsabili costituivano una parte integrante dell’esperienza stessa.

DMM luglio 1995
Un articolo apparso sulla rivista DMM – Dance Music Magazine a luglio 1995 dedicato a Frankie Knuckles e Franco Moiraghi. A firmarlo sono Nico De Ceglia e Marco Malinverno

Nel ’92 inizi a scrivere di musica per la rivista DMM – Dance Music Magazine diretta da Carlo De Blasio. Come organizzavi il lavoro editoriale in epoca pre internettiana?
Fu la mia prima esperienza come giornalista. Era una storia completamente nuova per me, ma così come avevo fatto con la mia prima trasmissione radiofonica qualche anno prima, decisi di lanciarmi e li contattai per chiedere di collaborare. Ricordo di aver ricevuto una copia del primo numero della rivista al SIB di Rimini e, una volta tornato a Roma, pieno di entusiasmo, mi proposi a Carlo per scrivere. Mi chiesero subito di realizzare un profilo di Radio Dimensione Suono per il numero successivo, se non erro il secondo o forse il terzo. Non avevo mai fatto nulla del genere in precedenza, ero del tutto inesperto, e non sapevo nemmeno cosa volesse indicare il numero di “cartelle” da inviare. Per evitare di far trasparire la mia impreparazione, chiamai quelli di Planet Rock. In onda c’era il leggendario Luca De Gennaro, credo con Gennaro Iannuccilli e non ricordo chi altro. Lasciai un messaggio, sicuro che dalla loro vasta esperienza mi avrebbero aiutato. Spiegai che, durante le mie ricerche da studente universitario, mi ero imbattuto nel termine “cartella giornalistica” e chiesi di spiegarmi cosa significasse quel formato. Mi risposero in onda poco dopo, e da lì ho iniziato a scrivere il mio primo articolo. A essere a conoscenza di questo simpatico aneddoto erano solo i miei, non l’ho mai rivelato ad altri prima di questa intervista. Inizialmente facevo tutto in modo molto artigianale, prendendo appunti con penna e block notes, cercando di scrivere il più possibile. Poi tornavo subito a casa per trascrivere tutto al fine di evitare di dimenticare dettagli importanti. In seguito ho acquistato un registratore portatile che ha reso la mia vita più facile. La trascrizione degli articoli era ovviamente fatta a mano, prima con carta e penna, successivamente con una macchina da scrivere. Infine inviavo tutto in redazione tramite fax. Era il metodo di quegli anni, molto più complicato rispetto ai giorni nostri, ma in quell’epoca non si vedevano pro o contro, era semplicemente la modalità che tutti seguivano.

Nel 1995 ti trasferisci a Londra: quali ragioni ti convincono a lasciare l’Italia per emigrare oltremanica?
Londra in quegli anni rappresentava l’epicentro non solo della scena musicale ma anche delle nuove tendenze in moda, arte, società e molto altro. Come tanti, seguivo costantemente tutto ciò che accadeva in questa città attraverso le varie riviste, assorbendo ogni ispirazione e rimanendo affascinato da ogni aspetto. Ho trascorso circa due mesi nella Capitale britannica durante un’estate con un amico, e decisi subito che l’anno successivo mi sarei trasferito lì, nonostante fossi già impegnato con gli studi universitari a Roma. Londra aveva un fascino unico e il richiamo era irresistibile. Quando mi sono trasferito, la città non ha deluso le mie aspettative anzi, è stata ancora più intrigante e coinvolgente di quanto avessi immaginato. Purtroppo, non posso dire la stessa cosa della Londra di oggi. Nel corso degli anni, molte delle caratteristiche che rendevano la città unica sono state erose o cancellate, inclusi il tessuto della nightlife e della scena musicale che ora appaiono notevolmente ridotti.

Come racconti in un’intervista di Luca Schiavoni pubblicata da DJ Mag Italia il 20 maggio del 2012, nella Capitale britannica diventi un referente del negozio riminese Disco Più: «mi affidarono il compito di “scavare” tra i promo per procurare le esclusive che si trovavano solo a Londra. Dovevi avere buoni amici nei negozi di dischi che te li conservavano sotto banco». Come ricordi quei tempi vissuti da “promo hunter”?
Incontrai Gianni Zuffa, il proprietario di Disco Più, diverse volte al SIB di Rimini. Quando decisi di trasferirmi a Londra, nacque l’idea di agire come procacciatore di dischi promozionali, sfruttando sia i contatti che loro avevano già, sia cercandone di nuovi. Noi italiani eravamo tra i più ossessionati dalla ricerca di titoli inediti e rari, alcuni dei quali nel corso degli anni sono diventati veri e propri oggetti del desiderio. È stata un’esperienza assai stimolante ed eccitante. C’era una sorta di competizione con altri procacciatori di promo di negozi diversi, ma è sempre stata amichevole e leale, nessuno cercava di rubare i contatti agli altri. Ci si svegliava presto per essere i primi a passare dai vari negozi, ma a volte bisognava tornarci più volte durante la stessa giornata perché le consegne non si concentravano in un unico orario. Ogni settimana facevamo il giro degli uffici delle etichette e dei distributori. Eravamo costantemente aggiornati su ogni nuova uscita, senza trascurare alcun genere musicale. Inoltre c’erano eventi annuali come il Winter Music Conference di Miami, attesissimo proprio per le stampe promozionali esclusive che avrebbero fatto impazzire per mesi i DJ. I titoli ambiti si susseguivano continuamente. Lo scorso anno la rivista inglese Faith mi ha chiesto di stilare una classifica dei promo più ricercati in quegli anni in Italia, ma sarebbe stata un’impresa ardua realizzarne una definitiva. Ho stilato invece una lista delle etichette più ambite, menzionando alcune di esse come Junior Boy’s Own, AM:PM, MAW, Strictly Rhythm, F Communications, Wave, Azuli, Roulé, Freetown, Underground Resistance, Talkin’ Loud …

TheBlueGallery dicembre 1995
La rubrica “The Blue Gallery” che Nico De Ceglia cura per il magazine mensile DiscoiD (dicembre 1995)

A novembre del ’95 parte The Blue Gallery, la tua rubrica contenuta nel magazine gratuito di informazione discografica legato proprio al Disco Più, DiscoiD, a cui peraltro sono destinate anche alcune interviste da te curate per la rubrica “Label Of The Month”, e in seguito concretizzi la collaborazione con Italia Network e Roberto Corinaldesi. Ritieni che, ai tempi, iniziative di questo tipo alimentassero in qualche modo l’attenzione nei confronti di (certa) musica, solitamente fuori dalle orbite pop(olari)? Gli appassionati di techno, house e derivati, che leggevano avidamente recensioni e segnalazioni e che seguivano programmi di settore in radio, si sono estinti con lo sdoganamento del web o si sono trasformati in qualcos’altro?
L’idea della mia rubrica The Blue Gallery nacque parallelamente all’inizio della collaborazione con Disco Più. Volevo creare una sorta di galleria immaginaria in cui esporre ogni mese le ultime novità in arrivo. Un concept simile emerse anche durante il mio periodo a Italia Network, dove presentavo in diretta telefonica da Londra un nuovo disco ogni giorno. In seguito, dopo Corinaldesi, continuai la missione quotidiana con Marco Biondi su quella che sarebbe diventata RIN. Senza dubbio, tali iniziative erano strumenti vitali in quegli anni per diffondere nomi e suoni emergenti. Io stesso, in quanto appassionato, attingevo da ogni singola fonte di informazione musicale, ed è stato naturale passare dal ruolo di fruitore all’altro lato, in cui avevo l’opportunità di diffondere tali novità. Il web ha completamente rivoluzionato e frammentato queste abitudini, così come molte altre. Ha fornito incredibili strumenti che hanno reso molto più facile la scoperta e gli aggiornamenti costanti su ogni cosa, ma ha anche reso tutto meno specifico e meno diretto agli appassionati, abbattendo divisioni di genere nella nostra scena e neutralizzando, per esempio, quelle anteprime esclusive che erano un elemento fondamentale nel percorso di un disco. Purtroppo l’accesso globale ha portato anche a una massificazione estrema, con la quasi scomparsa delle scene più alternative e underground a favore di un flusso sonoro più facilmente praticabile e di consumo. Negli ultimi anni si è addirittura dato più rilievo ai contenuti visivi a discapito di quelli sonori. Tuttavia gli appassionati, sia delle vecchie che nuove generazioni, sono ancora presenti e capaci di scoprire le varie gemme in mezzo al marasma e alla vastissima offerta di materiale disponibile. È una categoria che ha dovuto e saputo evolversi, scoprendo nuovi strumenti di ricerca unici rispetto all’era pre web.

Black Market homepage 2000
L’homepage del sito di Black Market nel 2000

Per un certo periodo hai lavorato negli uffici di Black Market. Di cosa ti occupavi?
Black Market è stato un luogo simbolo per tutti i DJ e appassionati di dischi che visitavano Londra. Io stesso corsi subito a farci un salto la prima volta che venni qui in vacanza, per poi diventare un assiduo frequentatore quando mi trasferii. Nel periodo in cui mi occupavo di ricerca promo lo visitavo più volte al giorno, conoscevo molto bene quindi tutti quelli che lavoravano in negozio, sia al piano terra nella sezione house e techno che nel basement dedicato a jungle e drum’n’bass. Naturalmente avevo contatti anche con coloro che lavoravano negli uffici al piano di sopra incluso il capo, David Piccioni. All’inizio del nuovo millennio, quando l’idea di avere una presenza online cominciò a divenire essenziale per ogni store, mi contattò proprio David. Stava pianificando il primo sito web del negozio e mi offrì l’opportunità di supervisionarne i contenuti e il database. Sebbene fosse una novità per me, la mia esperienza passata mi diede la sicurezza necessaria e la prospettiva di unirmi a un team e a un’azienda che ammiravo profondamente non poteva che farmi dire di sì. Nel corso della creazione del sito, ho curato le classifiche settimanali per il negozio, ho stabilito nuovi contatti con le etichette e mi sono occupato di inserire ogni singolo disco che ci arrivava nel database. Quest’ultimo compito era particolarmente appagante per me dato che, fatta eccezione per il manager del negozio, ero il primo a mettere le mani su tutte le nuove uscite che arrivavano quotidianamente. Black Market era una tappa obbligata per i DJ di ogni calibro e provenienza. Basta citarne uno e con molta probabilità l’ho incontrato lì in quegli anni. È stata un’esperienza incredibile che mi ha preparato per il passo successivo con Pete Tong e BBC Radio 1. Durante il mio periodo lavorativo da Black Market, ho anche iniziato a stilare una classifica settimanale online per la prestigiosa rivista inglese Muzik, che purtroppo chiuse i battenti nel 2003. In seguito ho curato classifiche e recensioni per Ministry, il mensile del Ministry Of Sound, che però ebbe vita breve. Per un periodo sono stato anche membro del panel che stilava la leggendaria Buzz Chart per Update, classifica di riferimento in quegli anni. Al Ministry Of Sound ho pure avuto il mio primo programma radiofonico inglese, andando in diretta ogni due settimane per due ore. Nel programma presentavo novità musicali e ospitavo artisti dal vivo. Svariati amici italiani, come Stefano Fontana e Luca Bacchetti, vennero a trovarmi quando si trovavano in città, e ho avuto il piacere di accogliere nomi come Swayzak, Richard Sen, Rob Mello e molti altri. La radio del Ministry è stata una delle prime a sperimentare le trasmissioni via internet, attiva ben prima di molte altre giunte in seguito.

Nico De Ceglia at Winter Music Conference di Miami 1997
De Ceglia al Winter Music Conference di Miami nel 1997 mentre mostra un adesivo del free mag DiscoiD

Nel 2001 incontri Pete Tong e inizi a collaborare con lui sia come A&R per la FFRR che a BBC Radio 1 «cercando di fargli scoprire le cose più “underground”, come se fossimo ancora nell’era dei white label, riuscendo a mettere un po’ del nostro tocco e dando modo ad alcuni artisti italiani di essere presenti nello show», parafrasando ancora la sopramenzionata intervista di Luca Schiavoni del 2012. Ricordi almeno tre pezzi made in Italy che segnalasti a Tong e i suoi relativi commenti a caldo?
È stata un’esperienza straordinaria quella con Pete. Ho lavorato con lui per dodici anni, affiancandolo nella selezione settimanale per lo show. Nel corso del tempo questo rapporto lavorativo si è sviluppato in una sincera amicizia e stima reciproca. Ancora oggi, quando mi imbatto in titoli promettenti che potrebbero catturare il suo interesse, non esito a consigliarglieli. Come ho sottolineato in passato, Pete era già in contatto con la maggior parte dei grossi nomi della scena, ed era riconosciuto per il suo significativo impatto sul panorama dance internazionale. Se sceglieva di suonare un brano in radio poteva davvero cambiare il destino di quel disco e dell’artista che lo aveva creato. Il mio ruolo, oltre a effettuare con cura una preselezione tra l’enorme quantità di promo e acetati che arrivavano in ufficio ogni settimana, era far scoprire a Pete i titoli più alternativi e underground. Ho portato poi un po’ di estetica e attitudine italiana in un team che fino a quel momento era stato completamente inglese. Abbiamo creato subito una sintonia e Pete si è fidato immediatamente dei miei suggerimenti. Il mio arrivo nello show avveniva sulla scia di un paio di anni eccellenti per le produzioni italiane all’estero. Basti pensare ai numeri uno di Black Legend e Spiller in Regno Unito l’anno precedente, e alle tracce di Planet Funk e Par-T-One, ancora freschi successi in quel momento. Fra i nomi nostrani che ho contribuito a promuovere in quei primi anni a BBC Radio 1 ci sono Moony, Alex Gaudino, Antillas, Stylophonic, Psycho Radio, Pasta Boys, Santos, Pink Coffee, Nufrequency… per citarne solo alcuni. Poi ne sono arrivati molti altri, tra cui Tale Of Us, giusto prima della mia uscita dalla radio, e Fango, subito dopo. Non ricordo nei dettagli i commenti di Pete su questi lavori, ma è innegabile che fossero molto positivi, essendo poi stati artisti che hanno ricevuto il suo supporto in radio e nei club. Un aneddoto divertente? Tutti gli italiani che Pete incontrava in giro per il mondo gli dicevano puntualmente che erano miei amici.

Ci sono state anche “sviste”, ossia pezzi che gli avevi consigliato ma di cui non riuscì a cogliere subito le potenzialità?
Sono numerosi i titoli che negli anni avevo suggerito e che per varie ragioni furono trascurati per poi essere rivalutati, ma preferisco non entrare nei dettagli.

«È facile notare produzioni di fattura più che mediocre presenti in classifica e vendere migliaia di copie. Molti si fidano troppo di quanto gli venga detto da alcune persone non riuscendo ad analizzare da sole il valore delle singole produzioni o comprando un disco solo perché viene imposto dal mercato. […] Si tende quindi a far nascere mode che poi verranno puntualmente oscurate per dare spazio ad altre, e questo è un meccanismo schifoso»: a sostenere ciò è Lory D in una tua intervista pubblicata su DMM a febbraio del 1993. A distanza di poco più di trent’anni, la situazione è rimasta la stessa? Probabilmente a essere cambiate sono solo le modalità di persuasione?
Ricordo con piacere l’incontro con Lory D per l’intervista finita sulle pagine di DMM, occasione in cui andai a trovarlo nel suo studio a Roma. Rispetto a molti altri artisti dell’epoca, Lory era già avanti sia musicalmente che nella visione di come stava evolvendo la scena. Come non dargli ragione per quelle parole e come non vedere ancora oggi il loro significato, forse ancora più evidente di allora. Nel 1993 il mercato aveva già la sua quota di prodotti di qualità mediocre, proprio come oggi. D’altra parte, il consumatore medio tende ad accontentarsi di ciò che gli viene offerto, senza scavare a fondo per scoprire il resto. Tuttavia, trent’anni fa, era più facile evitare questi prodotti scadenti e concentrarsi su altro nel vasto panorama delle uscite discografiche. Oggi la massificazione ha raggiunto proporzioni enormi e il prodotto scadente e mediocre sembra dominare. Ci vogliono molto più tempo ed energie per scartare tali prodotti e concentrarsi su quelli di valore. I social media inoltre rappresentano uno strumento perfetto per amplificare il mediocre e dare voce a molte persone senza particolari talenti, se non la capacità di promuovere se stessi.

Una quindicina di anni fa circa hai dato avvio alle tue produzioni discografiche prevalentemente legate all’attività di remixer, su tutte il progetto Hyena Stomp condiviso con un altro italiano trapiantato a Londra, Severino Panzetta. Col senno di poi, avresti iniziato prima tale percorso artistico, quando comporre e incidere musica era più gratificante e remunerativo?
Hyena Stomp è stato un progetto affascinante. Abbiamo cercato di coniugare in un progetto artistico la nostra lunga amicizia e la passione per la scena club. Ci siamo dedicati principalmente ai remix, lavorando su brani di artisti come Tevo Howard & Tracey Thorn, DJ Hell, The 2 Bears o Ali Love, ma abbiamo anche dato vita a produzioni originali per label come la Rebirth. Dopo qualche anno abbiamo deciso di mettere in gioco i nostri veri nomi firmando remix per Róisín Murphy, Basement Jaxx, Ashley Beedle e tanti altri. Prima di Hyena Stomp, avevo già lavorato su progetti con altri amici, e anche dopo ho continuato a esplorare varie direzioni musicali. Ricordo con orgoglio il remix realizzato per “The Wanderer”, il classico di Romanthony pubblicato su Glasgow Underground sotto lo pseudonimo Photo 51, in collaborazione col talentuoso Franky Redente. Inoltre ci sono stati altri lavori firmati con Rui Da Silva, ma sono consapevole che avrei potuto investire più tempo in studio e sviluppare una discografia maggiormente consistente nel corso degli anni. Spesso mi trovavo a gestire una miriade di progetti contemporaneamente e questo mi ha impedito di dedicare periodi lunghi alla produzione. Qualche tempo fa, un po’ deluso dall’evoluzione dell’industria musicale, ho deciso di prendermi una pausa e concentrare le mie energie altrove, in attesa che tornasse l’ispirazione. Ora credo di essere pronto per nuove avventure in studio e non solo.

Ipotizziamo che The Blue Gallery appaia ancora mensilmente su DiscoiD e che le collaborazioni con la FFRR e BBC Radio 1 siano ancora in essere: quali sono i tre brani che segnaleresti attraverso questi canali?
È importante sottolineare che ciò che inserivo nella mia rubrica su DiscoiD e suonavo nei miei set non sempre si adattava allo show di Pete su BBC Radio 1, che aveva un approccio tendenzialmente più mainstream. Tuttavia i tre brani che ho selezionato qui avrebbero sicuramente trovato posto nei miei spazi. Comincerei con l’album “Stars Planets Dust Me” dei A Mountain Of One, reinterpretato magistralmente da Ricardo Villalobos. Basta menzionare i nomi per capire la ragione per cui ho scelto questo disco. Villalobos aveva già realizzato lo scorso anno una splendida versione del singolo “Black Apple Pink Apple” tratto dall’album, e questa collaborazione si è poi estesa a una reinterpretazione dell’intero lavoro. Nel tipico stile del cileno, ogni traccia è stata sottoposta a un raffinato processo di ristrutturazione, spogliata degli elementi originali e arricchita da tocchi discreti in punti strategici. Restando nel territorio di brani lunghi oltre i dieci minuti, vorrei menzionare il remix creato da Lovefingers per “Return To Centaurus” dei Mildlife. Con ben quattordici minuti e mezzo di durata, questo brano si snoda in un movimento lento, ipnotico e sensuale, idealmente definito nella presentazione che accompagna il promo come “erotic disco”. Infine, com’era tradizione nel mio spazio su DiscoiD così come nei miei programmi radiofonici e DJ set, ho sempre dato spazio a etichette e artisti che magari erano meno noti nel circuito grosso ma che meritavano il supporto. Oggi più che mai, questi talenti indipendenti e di nicchia dovrebbero ricevere l’attenzione che meritano. In tale contesto evidenzio la prossima uscita di David Agrella sulla sua etichetta AGR. David è un amico che vive a Londra da diversi anni e sta attirando l’attenzione grazie al suo stile distintivo. La precedente uscita includeva i remix di Baby Ford e GNMR, questa nuova contiene le tracce originali insieme ai remix di Priori e Domenico Rosa, a conferma della coerenza sonora.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone i motivi.

The Knack - My SharonaThe Knack – My Sharona
Ho già spiegato in apertura il significato che per me ricopre questo 45 giri del 1979, il mio primo acquisto discografico quando ero ancora un bambino, insieme a un altro degli Spargo. Tuttavia, tra i due, “My Sharona” era senza dubbio quello a cui tenevo di più. Un disco dal sound ribelle che mi faceva sentire più vicino al mondo degli adulti, sicuramente quello che ho ascoltato e riascoltato di più fra i due nel corso degli anni.

Depeche Mode - Black CelebrationDepeche Mode – Black Celebration
Ero già rimasto affascinato dai precedenti lavori dei Depeche Mode, e l’anno prima avevo acquistato sia il singolo “Shake The Disease” che la raccolta “The Singles 81-85”. Poi corsi a comprare “Stripped” che anticipò l’uscita dell’album. Con questo LP del 1986 si consolidava l’evoluzione verso sonorità più cupe e industriali che i Depeche Mode avevano iniziato qualche tempo prima. Era un sound perfettamente in linea con lo spirito alternativo e dark che stava emergendo in me nei primi anni dell’adolescenza.

Public Enemy - Fear Of A Black PlanetPublic Enemy – Fear Of A Black Planet
L’estetica militante, i messaggi altamente politicizzati e diretti e anche l’uso abile e all’epoca ancora innovativo di campioni e drum machine nella composizione delle canzoni: tutti questi elementi catturarono la mia immaginazione e il mio lato ribelle quando ero adolescente. Come nel caso dei Depeche Mode, anche i Public Enemy erano già presenti nella mia playlist grazie ai loro precedenti lavori, ma fu questo album, anticipato dal singolo “Fight The Power” utilizzato da Spike Lee nel film “Do The Right Thing” e che ovviamente acquistai, a farmi sentire una connessione ancora più forte con la band. Poi ebbi l’opportunità di vederli dal vivo a Roma in un tour in cui condivisero il palco coi Run-DMC e Derek B.

Róisín Murphy - Ancora Ancora Ancora (Severino & Nico De Ceglia Remix)Róisín Murphy – Ancora Ancora Ancora (Severino & Nico De Ceglia Remix)
Come accennato prima, ho realizzato vari progetti in studio con l’amico Severino di Horse Meat Disco, tra qui questo. Róisín aveva appena finito di lavorare a un disco in cui reinterpretava dei classici italiani di Mina, Lucio Battisti, Gino Paoli, Patty Pravo e altri e ci offrì l’opportunità di remixare la sua versione del classico di Mina, “Ancora Ancora Ancora”. Decidemmo di mantenerlo a bassi bpm e di dare un tocco balearic disco, scelta che poi si è rivelata vincente. La nostra versione è diventata un vero e proprio anthem nei set di artisti leggendari come DJ Harvey. Róisín ci inviò alcune copie del white label appena stampato che conservo con cura. Un lavoro di cui siamo molto fieri e che ci regala soddisfazioni ancora oggi, a distanza di quasi dieci anni dall’uscita.

The Orb - Little Fluffy Clouds (Danny Tenaglia Remix)The Orb – Little Fluffy Clouds (Danny Tenaglia Remix)
Un amico che lavorava in un negozio di dischi di seconda mano, dove molti noti DJ vendevano i vinili che non funzionavano nei loro set, mi procurò questo acetato (mai transitato dal marketplace di Discogs sino a questo momento, nda) del classico degli Orb con remix annessi di Tenaglia e una versione Fluffapella mai pubblicata. Un Tenaglia in gran forma creò due versioni da viaggio (D-Tour Mix e Down Tempo Groove) che uscirono insieme ad altri qualche tempo dopo. Gli acetati erano spesso utilizzati dalle etichette per offrire ad alcuni DJ considerati veri e propri tastemaker un accesso esclusivo alle tracce prima della loro uscita ufficiale. Non so chi di questi DJ abbia deciso di cedere la propria copia ma è stata sicuramente una gradita sorpresa per me poter prenderne possesso.

Underground Resistance w Yolanda - Your Time Is UpUnderground Resistance w/ Yolanda – Your Time Is Up
Si tratta dello UR001, il numero uno del catalogo Underground Resistance, prodotto da Jeff Mills e Mike Banks, che segnò l’inizio di una storia e di una legacy che avrebbero influenzato numerosi fra noi DJ e producer nel corso degli anni. “Your Time Is Up” aveva quei synth che ai tempi erano già familiari per lavori di Inner City e altri, più house che techno, ma ricopre un significato enorme per essere stata la prima uscita della label.

Aphex Twin - Selected Ambient Works 85-92Aphex Twin – Selected Ambient Works 85-92
Cosa aggiungere su questo capolavoro di Aphex Twin che non sia già stato detto o scritto? Le sue intricate trame sonore, le sperimentazioni soniche futuristiche e l’uso pionieristico della tecnologia lo rendono un punto di riferimento essenziale per ogni collezione di musica elettronica. Uno di quegli album che ha ridefinito i confini del sound elettronico, ispirando generazioni di produttori e DJ. Seminale.

Theo Parrish - Falling Up (Carl Craig Remix)Theo Parrish – Falling Up (Carl Craig Remix)
Theo Parrish remixato da Carl Craig: una combinazione destinata all’eccellenza. Quando i primi DJ iniziarono a suonare questa versione, divenne subito un oggetto del desiderio per molti di noi. In qualche negozio arrivarono dei 10″ in tiratura limitata e ne recuperai uno per me e uno per Pete Tong, inserendolo immediatamente nel mio set nei weekend. La reazione della pista, alimentata dal crescendo sincopato creato da Craig, fu semplicemente estatica. In quegli anni Craig sfornava lavori eccellenti uno dietro l’altro, potevi facilmente creare un set intero solo con la sua musica e non avresti mai sbagliato.

Coil - The Ape Of NaplesCoil – The Ape Of Naples
In questa top ten meriterebbe di essere inserita l’intera discografia dei Coil ma alla fine ho scelto questo titolo perché è l’ultimo album, creato prima della scomparsa di John Balance. Ho avuto la fortuna di vedere diverse delle loro esibizioni dal vivo, e ogni volta è stata un’esperienza straordinaria. “The Ape Of Naples” rappresentò per i Coil un periodo ancora altamente creativo, in cui misero in circolazione, come da abitudine, materiale inedito e brani reinterpretati, seguendo la loro caratteristica estetica. Questo album trasuda di malinconia e poesia dark che catturano l’essenza del loro genio artistico.

Metro Area - MiuraMetro Area – Miura
Come potrei esimermi dall’includere questo classico senza tempo, tratto dall’unico album realizzato da Morgan Geist e Darshan Jesrani nelle vesti di Metro Area? L’intero LP contiene varie perle ma “Miura”, col suo inconfondibile groove preso in prestito da una versione di “Funkytown” dei Lipps Inc. e quel basso incessante su due note che si ripetono all’infinito, rimane una traccia intramontabile. Ancora oggi la ritrovi in set di molti disc jockey. Non a caso lo scorso febbraio, l’EP 4 contenente “Miura” è stato ristampato e rimasterizzato. Senza dubbio un must per qualsiasi collezione da DJ.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Discommenti (settembre 2023)

Hyperstellar - Polaris EP

Hyperstellar – Polaris EP (The DJ Hell Experience)
Ruben Benabou, parigino, è l’artista che si cela dietro lo pseudonimo Hyperstellar. Attratto tanto dalle atmosfere delle colonne sonore quanto dalle potenzialità di generi come electro e techno, catalizza l’attenzione di Gerald Donald che lo vuole nel collettivo Daughter Produkt. Adesso dalla sua parte vanta un altro veterano della club culture, DJ Hell (a proposito, concedete un ascolto al recente remix realizzato per “Be A Queen” di Miss Djax), il quale lo precetta per la sua nuova etichetta che ha raccolto il testimone dell’International Deejay Gigolo a cui spetta comunque una citazione sull’artwork. Due i pezzi dell’EP: “Sibyl”, sintesi perfetta degli interessi musicali del transalpino, con ritmo e pathos, euforia e fase REM, e “Polaris”, naturale continuum di “Monarchy”, finita in una compilation della Zone nel 2021, un zigzagare verso l’ignoto in mezzo a filigrane low-fi che lasciano piombare l’ascoltatore in un pozzo apparentemente senza fondo, risucchiato dalle tenebre e da arabeschi armonici. Una doppietta che fa tesoro della lezione impartita dai decani della scena francese (David Carretta, The Hacker, Vitalic, Kiko, Arnaud Rebotini, giusto per citarne alcuni) e che nel contempo si proietta nel presente con assonanze a Gesaffelstein.

Tobor Experiment – Available Forms

Tobor Experiment – Available Forms (Bearfunk)
È stato necessario aspettare dodici anni per disporre del seguito di “Tobor Experiment Disco Experience” ma l’attesa è ampiamente ripagata. Supportato ancora dalla londinese Bearfunk di Stevie Kotey, il sound designer Giorgio Sancristoforo prosegue quindi il viaggio incantato immergendosi in pozioni alchemiche di musica fusion, exotica, easy listening e jazz psichedelico. Nove i brani della tracklist in cui mette magistralmente a punto i suoi distillati sonori, tutti saltati fuori da ipotetiche sonorizzazioni per pellicole di epoca space age. Spazio anche a una cover, “Halgatron” del compianto Detto Mariano, originariamente solcata sul lato b del 7″ con la sigla di “Jeeg Robot”. La visione retrofuturistica è il motore del disco e questo lo si evince anche dalla copertina e dal packaging (in formato gatefold) graficamente ineccepibile e comprendente un booklet di otto pagine: l’impatto visivo generato è pari a quello sonoro. Un balzo temporale indietro di cinquant’anni, per tornare a immaginare il futuro così come lo si sognava un tempo, provando un piacevole brivido emozionale.

Christian Gleinser - With A Different Eye EP

Christian Gleinser – With A Different Eye EP (Rapid Eye Movement)
Probabilmente nessuno tra coloro che incidevano musica nei primi anni Duemila avrebbe scommesso un solo centesimo bucato sulla possibilità che un giorno i propri dischi sarebbero stati rivalutati e ristampati per la generazione successiva. Analogamente a quanto avvenuto coi pezzi meno noti degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, anche quelli usciti a inizio millennio si stanno quindi lentamente trasformando da inutilità vendute per una manciata di spiccioli in rarità o addirittura “must have” proprio come le produzioni di Christian Gleinser. Attivo nei primi anni del nuovo secolo nel duo Nitsch & Gleinser insieme all’amico Daniel Nitsch e artefice di un suono meticcio tra electro, techno, chiptune e synth pop che spopolò trainato dal boom dell’electroclash, il tedesco, ormai inattivo nel frangente musicale, vede risorgere due tracce della sua prima apparizione da solista (“Look Into My Eye EP”, Superfancy Recordings, 2004). Da “Lies” e “Labyrinth” riaffiorano elementi classici per gli anni più rosei di quello che fu dipinto come neo pop: bassline arpeggiate e in ottava, melodie composte in preda alla nostalgia da Commodore 64, Atari VCS 2600 o Amiga 500 e voci vocoderizzate. Il lato b accoglie invece due inediti prodotti tra 2002 e 2005, “The Time Is Coming” e “Constant Transience”, attraverso cui l’artista dimostra ancora una volta di avere un particolare feeling col sid style. A coordinare l’operazione è la neonata Rapid Eye Movement di Jacopo, già al lavoro sulla seconda uscita, la riedizione di un EP diffuso solo su CD in un limitatissimo numero di esemplari.

Heinrich Mueller - False Vacuum Vol 2

Heinrich Mueller – False Vacuum Vol 2 (WéMè Records)
A distanza di cinque anni esatti la belga WéMè Records dà alle stampe il secondo capitolo riepilogativo sull’attività da remixer di Gerald Donald, presenza statuaria dell’electro di Detroit. Ultradyne, Cisco Ferreira, Jauzas The Shining & Victoria Lukas, Albert Van Abbe, Duplex, Fasenuova, The Exaltics, l’italiano 6D22 alias Giorgio Luceri: sono solo alcuni degli artisti che l’enigmatico artista ha rimaneggiato nel suo studio-laboratorio, infondendo costantemente una dose di astrazione mista a divagazioni scientifiche. Un compendio essenziale, impreziosito ulteriormente da tre pezzi solcati per la prima volta su vinile, per i supporter di Donald che, è bene ricordarlo, operò insieme al compianto James Stinson dietro le quinte dei Drexciya e che nel corso di un trentennio si è reinventato più volte coniando progetti destinati a marchiare a fondo la storia dell’electro contemporanea (Arpanet, Dopplereffekt, Japanese Telecom, Xor Gate…). Parte della tiratura è su vinile turchese disponibile sul sito dell’etichetta.

Cristalli Liquidi & Deux Control - Rosso Carnale

Cristalli Liquidi & Deux Control – Rosso Carnale (Artifact)
Per il ritorno del progetto Cristalli Liquidi, assente dai radar da circa un triennio, Bottin (intervistato qui) continua a trasformare funambolicamente musiche del passato riadattandole su nuove matrici. Ora tocca a “Fiore Rosso Carnale” di Annie Pascal, scritto da Pasquale Panella e musicato da Enrico Fusco, modificarsi in un pezzo italo disco intriso di malinconia, quella stessa malinconia che contrassegnò gran parte della dance nostrana nel primo lustro degli Ottanta. A svelare la genesi di “Rosso Carnale” è proprio l’autore: «inizialmente il brano mi è stato commissionato da BDC (Bonanni/Del Rio Catalog), una coppia di collezionisti d’arte che volevano realizzare una tiratura di pochissime copie per la loro etichetta Bon Bon per cui avevo già prodotto una cover di “Bambola” di Patty Pravo cantata dai Diva. Mi hanno chiesto di pensare a qualcosa di esclusivo e il brano l’ho proposto io, poi però non siamo riusciti a metterci d’accordo sui dettagli. Io pensavo a un’edizione d’artista, eventualmente anche un pezzo unico, loro invece avrebbero voluto inserire il 45 giri di “Rosso Carnale” in un oggetto da collezione, una scatola in ceramica con dentro altre cose come avevano già fatto con “Bambola”. Insomma, un progetto più articolato di cui la musica di Cristalli Liquidi era, anche giustamente, solo una parte. L’idea mi piaceva però sentivo che stonava un po’ con quello che avevo fatto come Cristalli Liquidi fino a quel momento, così ho preferito ritirare il pezzo e farlo uscire su Artifact. La tiratura è sempre limitata, ma sono duecento copie e non quindici e il prezzo è quello di un disco 12″, alla portata di DJ e appassionati. La grafica è di Lapo Belmestieri (Industrie Discografiche Lacerba). Un po’ mi dispiace di aver rinunciato all’edizione deluxe ma, pur essendo un “gruppo” di nicchia (per non dire peggio), Cristalli Liquidi ha un’identità e un “carattere” che talvolta mi obbligano a delle rinunce. Anni fa, per esempio, ho declinato l’offerta di aprire i concerti di un certo cantante pop perché mi sarei sentito fuori luogo mentre non avrei avuto problemi a fare un DJ set come Bottin nello stesso contesto. Si potrebbe obiettare che Cristalli Liquidi alla fine sono sempre io, ma la verità è che quando faccio cose come Cristalli Liquidi mi sento di lavorare per un progetto che ha una sua autonomia e che, in futuro, potrebbe essere portato avanti anche da qualcun altro».
Ad affiancare Bottin, per l’occasione, è il duo italo francese dei Deux Control ossia Edoardo Cianfanelli alias Rodion e Justine Neulat. «Una volta completata l’Italo Version ho pensato, invece di commissionare un remix, di chiedere ai Deux Control di farne una cover, reinterpretando il brano a modo loro senza usare alcuna delle parti originali, neppure la voce» continua Bottin. «Mi hanno mandato quella che sul disco è indicata come Deux Dub che mi è piaciuta tantissimo perché, al contrario della mia che è molto connotata in stile italo disco, potrebbe essere degli anni Ottanta come pure degli anni 8000. Pur essendo un traccia molto diversa dalla mia, Rodion e Justine hanno mantenuto la velocità (111 bpm) e la tonalità del brano originale. Questo dettaglio mi ha indotto a provare a incollare la mia voce sopra la loro versione, una sorta di duetto posticcio. Poi ci è venuta l’idea di mettere la voce di Justine sopra la main version. Alla fine ci siamo trovati con una canzone in due versioni in cui non importa più quale sia l’originale (che poi è una cover) e quale la copia (la cover della cover). Questo meccanismo di dissimulazione dell’autorialità è la chiave di tutto il progetto Cristalli Liquidi (come ben evidenziato in questo articolo/intervista del 2018 a cura di Jacopo Tomatis, nda), e anche nell’album non sempre è chiaro quali sono i brani originali e quali le cover. Si tratta di un procedimento di mise en abyme anacronistica non poi così diverso da quanto fatto con “Volevi Una Hit” nei confronti degli LCD Soundsystem».
Recentemente il pubblico generalista sta riscoprendo l’italo disco o parte di essa attraverso citazioni più o meno riuscite ma con quasi venticinque anni di ritardo rispetto alla prima ondata che ne recuperò le caratteristiche. Da essere un genere stantio e ancorato a un passato nostalgico da brizzolati revivalisti, l’italo disco così è parzialmente (ri)entrata nel gergo comune, complice anche il retromarketing che contribuisce a mitizzare smodatamente il passato. Ma come reagirebbe Bottin se “Rosso Carnale” diventasse un successo radiofonico e finisse nel calderone del pop? «Ne sarei felice ma non accadrà mai e posso spiegarne anche il perché. Questa riscoperta (che poi è la terza o la quarta) dell’italo disco non è dell’italo disco in quanto tale, è un’idealizzazione dell’italo disco di cui si esasperano certi suoni o certi stilemi, ma il mood è completamente diverso. Per esempio manca del tutto quella malinconia da dancefloor alla Valerie Dore che ho invece cercato di “canalizzare” in “Rosso Carnale”, oppure quell’idea di futuro e di futurità. Non che oggi non si creda nel futuro: siamo tutti convinti, chi più, chi meno, che il mondo non finirà domani, ma abbiamo smesso di pensare che il futuro ci porterà della cose nuove e una vita migliore. Crediamo nel futuro ma non nel progresso. Questa disillusione fa sì che molta musica elettronica di oggi non cerchi più di evocare con i suoni un’allegoria del futuro».
Pubblicato in digitale su Bandcamp a giugno con l’aggiunta di un’acappella esclusiva, “Rosso Carnale” viene solcato pure su 12″ dalla Artifact in un’edizione limitata che, come anticipato sopra, si fermerà alle duecento copie. Che per Cristalli Liquidi sia l’incipit di un secondo album, dopo quello del 2017 su Bordello A Parigi? «Vorrei che il progetto continuasse oltre l’attuale ubriacatura anni Ottanta alla “Stranger Things”» illustra ancora Bottin. «Con questo non voglio dire che “I Ragazzi Del Computer” o “Automan” fossero meglio delle serie Netflix, o che Baltimora e Den Harrow fossero qualitativamente migliori dei The Kolors. Non sono un nostalgico e soprattutto non mi interessano i giudizi di valore. Il prossimo singolo dei Cristalli Liquidi potrebbe però avere un sound molto diverso rispetto a quello di “Rosso Carnale”. Anzi, l’avrà, perché l’ho già completato».

DMX Krew - Still Got It

DMX Krew – Still Got It (Cold Blow)
Il nuovo disco di Edward Upton, l’ennesimo di una discografia infinita e in continua evoluzione, si ispira al funk del folletto di Minneapolis e non certamente a caso è racchiuso in una copertina-parodia del promo di “Let’s Work”. “Still Got It” (affiancata da una versione Dub) elettrifica pezzi tipo “Sexy Dancer” o “Uptown” mettendo insieme vocalità, sinuose bassline, vocoder e ampi virtuosismi alla tastiera con immancabile pitch bend. Sul lato b “Paranoia”, registrato nel 1999 ai tempi di “We Are DMX” su Rephlex, e “Cold Dub”, che tirava il sipario sull’album “Kiss Goodbye” del 2005, inciso solo su CD e destinato al solo mercato nipponico ma che la Cold Blow, come annunciato proprio nelle note in copertina, promette di ristampare presto.

Cybotron – Maintain The Golden Ratio (Tresor)
Anticipato da un single sided messo in vendita presso lo stand Metroplex in occasione del Movement Festival svoltosi durante la scorsa primavera, questo disco segna il ritorno del progetto detroitiano Cybotron. Scritto e prodotto da Juan Atkins, autentico punto cardinale della techno, e Laurens von Oswald, nipote del più noto Moritz, “Maintain”, atteso sulla berlinese Tresor, riparte dal punto in cui tutto ebbe inizio. Come in una seduta medianica, si evocano gli spiriti di “Alleys Of Your Mind”, “Cosmic Cars” e “Clear”: a venire fuori è qualcosa che profuma di passato ma contemporaneamente anche di futuro, quel futuro che un tempo si anelava leggendo romanzi di fantascienza dai quali si levavano utopie di ogni genere. Inchiodato su campiture monocromatiche e atmosfere noir e crepuscolari che un po’ ricordano “Hacker” di Anthony Rother, “Maintain” scandisce metronomicamente il tempo e trascina in un mondo cibernetico, abitato da androidi sullo sfondo di pianeti non appartenenti al nostro sistema solare. “The Golden Ratio”, sul lato b, prende le mosse da una serpentina acida che si avvolge in una nebulosa di lead sincronizzata su ipnotiche frammentazioni ritmiche. L’effetto finale suona meno drammatico se paragonato alla severità del precedente. L’EP1 compreso nel numero di catalogo lascia ipotizzare un seguito e, perché no, anche un album che in qualche modo possa riabilitare il progetto con cui Juan Atkins e Rik Davis predissero il futuro nel 1981.

JP Energy - Mathama EP

JP Energy – Mathama EP (Evasione Digitale)
Dopo aver rimesso in circolazione “Punto G” di Marco Bellini e Skeela ed “Escandalo Total/Sweet Revenge” di Andrea Giuditta, Evasione Digitale, l’etichetta portata avanti da Andrea Dallera e Andrea Dama, prosegue la missione di recupero e valorizzazione della progressive italiana d’antan ma questa volta oltrepassa il confine della ristampa mettendo le grinfie su un EP di inediti prodotti nel 1999. Il cerimoniere è Gianpiero Pacetti alias JP Energy, DJ di lungo corso che aveva anticipato l’uscita del disco un paio di mesi fa attraverso un’intervista pubblicata proprio su queste pagine. «Mathama era un posto sul fiume del mio paese dove andavo a fare il bagno da piccolo, pensare a quei momenti evoca ricordi meravigliosi» spiega Pacetti ricontattato per l’occasione. Tre i pezzi, prodotti con Mario Giardini alias Macro DJ nello studio allestito nel retrobottega del negozio di dischi Mandragora, il cui l’artista lombardo fa collidere urgenze ritmiche lineari e svolazzi melodici, incontrastato trademark della corrente progressive nostrana nata nei primi anni Novanta sulla spinta di alcuni DJ toscani e pian piano diffusasi in tutto il Paese, con conseguente depauperamento creativo e cannibalizzazione pop. Pacetti però è un antidivo per eccellenza e risiede al polo opposto del pop, e questo lo si capisce subito poggiando la puntina su “Iridium”, crocevia di pulsazioni di batteria e atmosfere sospese da spy story avvolte nel cuscino di arpeggi lasciati volteggiare in aria. Simile il contenuto di “Voyage (1999 Mix)”, scandita da un pulsante disegno di basso e un’infiorescenza a corimbo di suoni astrali captati da un universo parallelo. Chiude “Cobalt” in cui fanno capolino frenetici riferimenti electronic body music ma virati sempre in quella chiave melodica che fu la cifra distintiva delle produzioni progressive made in Italy negli anni Novanta.

Dressel Amorosi - Synthporn - Cargo

Dressel Amorosi – Synthporn / Cargo (Four Flies Records)
Come anticipato in Discommenti di giugno in cui si parlava di “Buio In Sala”, riecco in azione il duo Dressel Amorosi con un atteso 7″ contenente due brani. “Synthporn”, sul lato a, sembra uscire da una vecchia pellicola blaxploitation, tra fraseggi funky e atmosfere rilassate frutto di un’ipotetica jam session tra Armando Trovajoli e Lalo Schifrin, “Cargo”, sul retro, gira su un blocco ritmico più marcato ma mantenendo inalterato lo spiccato vibe funkeggiante che, a conti fatti, risulta l’elemento di raccordo dei pezzi dei due musicisti capitolini. Sulla rampa di lancio c’è anche il loro secondo album, “Spectrum”, la cui pubblicazione è attesa per il prossimo 17 novembre.

Sissy - Queen Of Discoteque

Sissy – Queen Of Discoteque (Giorgio Records)
Il mercato delle ristampe ha ormai raggiunto dimensioni ciclopiche: probabilmente il numero delle reissue oltrepasserà presto (o forse è già avvenuto?) quello delle produzioni inedite e ciò lascia riflettere su quanto siano profondamente “retrodipendenti” gli anni che viviamo. In tale contesto si inserisce la barese Giorgio Records partita nel 2019 e diretta da Massimo Portoghese, l’ennesima delle etichette indipendenti che si pone l’obiettivo di riabilitare nomi e musiche sepolti dalla polvere degli anni. Per l’occasione a resuscitare, dopo circa un quarantennio, è “Queen Of Discoteque” di Sissy, un pezzo che risentì dell’influsso freestyle statunitense mischiato a retaggi funk ma scarsamente italo nel senso più stretto del termine e forse per questo commercialmente sfortunato. «La tiratura originale su Eyes contò appena duemila copie, decisamente poche per i tempi» racconta Portoghese. «Il disco non fu supportato da alcun tipo di promozione e probabilmente anche questo giocò a svantaggio della sua riuscita. A cantare il brano fu Patrizia Luraschi, autrice anche del testo e ideatrice del progetto insieme a Pierpaolo Beretta. Per “Queen Of Discoteque” (a differenza di “Coloured Rhymes”, ristampato a inizio 2023 dall’olandese Lusso Records, nda) si affidarono al Maestro Rodolfo Grieco che si occupò della produzione ma nel momento in cui non ci furono più nuove idee da intavolare, il progetto si arenò».
Rimasto nel dimenticatoio per quasi quattro decenni, tolta qualche apparizione in compilation riepilogativa e una manciata di bootleg, “Queen Of Discoteque” ritorna quindi nei negozi di dischi attraverso una ristampa meticolosamente curata in ogni dettaglio, dalla copertina al restauro del master a firma Tommy Cavalieri. «Non è stata un’operazione veloce, ho tampinato il Maestro Grieco per almeno tre anni» spiega ancora Portoghese. «Non potemmo procedere con la licenza perché alcune persone mi anticiparono di pochissimo ma lui, sin da subito, si mostrò scettico e, per mia fortuna, ha preferito aspettare prima di ufficializzare il tutto. Quando capì che non se ne faceva più niente, iniziammo a progettare la ristampa su Giorgio Records. Si è fidato di me e oggi ci vogliamo molto bene, è una bravissima persona. Una peculiarità distintiva dell’operazione è la presenza di due versioni inedite, Unreleased Vocal e Unreleased Instrumental: le ho trovate restaurando il nastro originale. Credo furono tagliate per realizzare il formato 7″».
Contesissimo nel mercato dell’usato, sul quale da anni viaggia a cifre tutt’altro che modiche, “Queen Of Discoteque” si prende dunque la rivincita. «In cantiere ho un’altra produzione del Maestro Grieco alias Rudy Brown (come si firmò ai tempi di Sissy, nda), “She’s Gone Away” di Jimy K, uscita sempre su Eyes nel 1984. Praticamente introvabile, è un cult, scritto insieme a Naimy Hackett, che conto di pubblicare prima di Natale. Seguirà, nel 2024, “You’ll Be In Paradise” di Salentino, con le versioni originali del 1985 a cui si affiancheranno un rework di Franz Scala della Slow Motion Records e un edit dell’amico James Penrose alias Casionova» conclude Portoghese.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

L’house di Detroit e la techno di Chicago

No, non si tratta di un errore, seppur possa sembrare tale. L’articolo che segue cerca di ribaltare per qualche minuto il dualismo tra la techno della Città dei Motori e la house della Città del Vento proponendo una prospettiva diversa (e inversa) delle cose, ma non certamente per mettere in discussione passaggi epocali della storia della musica dance dell’ultimo quarantennio circa. L’intento, piuttosto, è porre l’accento sulla massima libertà creativa dei compositori localizzati nelle due metropoli statunitensi che, a conti fatti, non hanno considerato techno e house due realtà antitetiche come invece avvenne in Europa (e specialmente in Italia) negli anni Novanta. Nel Vecchio Continente la produzione dance parve più irreggimentata, da noi non mancò neppure chi ne parlò in termini divisivi e avrebbe voluto erigere un muro tra la techno e l’house asserendo che non si potesse parteggiare per entrambe. I dischi segnalati convergono quindi in due blocchi, indicizzati in ordine alfabetico, che però non hanno la benché minima pretesa di essere esaustivi anzi, non è escluso che in futuro si possano aggiungere nuovi autori e titoli per rendere l’indagine più completa.

L’house di Detroit…

Aaron-Carl - Crucified

Aaron-Carl – Crucified
Come i suoi coetanei, Aaron-Carl Ragland si appassiona di musica da ragazzino e con una tastiera economica e un registratore a quattro piste realizza un demo per Mike Banks che lo scrittura immediatamente per la Soul City. Nel ’96 così esce “Crucified”, un brano garage pieno di sentimento, parecchio newyorkese sotto il profilo stilistico. «Ron Murphy e Mad Mike sono stati i miei mentori in quel periodo» afferma l’artista nella sua biografia. «Mi hanno insegnato a fare grandi dischi dopo aver visto in me il potenziale e non avrebbero accettato nulla che fosse al di sotto delle mie possibilità. Mike era solito fare riunioni con tutti i produttori delle sue etichette, faceva ascoltare i brani più forti in circolazione e poi ci spronava a tornare a casa e fare di meglio». Per la Soul City Ragland realizza altri tre dischi, “Make Me Happy”, soulful made in Detroit, “Midnite Jams Vol. 1” e “Wallshaker”, per poi aprire i battenti della sua personale etichetta, la Wallshaker Music, attraverso la quale affinerà ulteriormente il tiro mettendo a segno una club hit come “My House” e stringendo varie collaborazioni, su tutte quella con gli Scan 7 per “4 Types Of People”. A interrompere tragicamente la sua creatività è un linfoma che gli toglie la vita il 30 settembre 2010 quando ha soli 37 anni.

Andrés - Trues

Andrés – Trues
Humberto Hernandez, figlio di un noto percussionista cubano, cresce nel mondo hip hop militando in gruppi come Da’ Enna C. e 12 Tech Mob e facendosi notare come DJ Dez. Col supporto dalla KDJ di Moodymann di cui si parla più avanti, nel 1997 si trasforma in Andrés e firma “Trues”, solo il primo di una lunga serie di produzioni da cui affiora un suono deep house finemente decorato da riferimenti funk, jazz e soul. Se l’ipnosi ciclica ha la meglio su “Trues” e “And This Club Song”, “Piece Of Mind” veleggia su un percorso più brioso e funkeggiante, con una micro porzione sullo sfondo trapiantata da “Wanna Be Startin’ Somethin'” di Michael Jackson. Hernandez prosegue la carriera sotto l’egida di Moodymann che pubblica, su Mahogani Music, tutti i suoi album, a oggi quattro, nei quali mette a punto una caleidoscopica vena creativa dalla quale emerge “New For U”, costruito sulle atmosfere di “Time Is The Teacher” di Dexter Wansel e diventato bestseller per il marketplace di Discogs nel 2012 con 497 copie.

Blake Baxter - Brothers Gonna Work It Out

Blake Baxter – Brothers Gonna Work It Out
Il “principe della techno” alle prese con un brano che pare provenire da New York o Londra. Non a caso a pubblicarlo nel ’92 è la branch britannica della tedesca Logic Records, che nel “pacchetto” inserisce anche una versione più tagliente, la Black Planet, realizzata da Moritz von Oswald e Thomas Fehlmann. La Red Planet Mix che apre il lato a o la Pump Da Bass Mix sul lato b, però depongono a favore di costrutti house, con suoni orchestrali tagliuzzati e fatti dialogare con brevi parti parlate. Quello stesso anno la Logic Records di Michael Münzing e Luca Anzilotti (meglio noti come 16 Bit, Off e Snap!) immette sul mercato pure “One More Time”, edificato su “Let No Man Put Asunder” di First Choice, uno dei classici più rimaneggiati da chi allora si dedica alla nuova musica dance. Due anni più tardi tocca a un altro pezzo di Baxter dichiaratamente house, “Touch Me”, potenziato dal remix degli X-Press 2, a cui segue “2Gether” firmato con lo pseudonimo Renee.

Bridgett Grace - Love To The Limit

Bridgett Grace – Love To The Limit
Nel settore discografico dalla fine degli anni Ottanta, la Grace balza agli onori della cronaca per aver interpretato “Take Me Away” dei Final Cut (Anthony Srock e Jeff Mills), pubblicato originariamente nel 1989 ma esploso in Europa solo due anni più tardi durante la rave age. È sempre Mills, affiancato da Mike Banks, a produrre per la neonata Happy Records la sua “Love To The Limit”, nel 1992, su tessiture garage, che non sfugge al radar della Network Records di Birmingham guidata da Neil Rushton e Dave Barker, pronta a ripubblicarlo nel Vecchio Continente.

Broad Mix Music - Can't Live Without Your Love

Broad Mix Music – Can’t Live Without Your Love
Prodotto nel 1992 dalla compianta Kelli Hand sulla sua Acacia Records, “Can’t Live Without Your Love” è un pezzo che intreccia classici suoni garage alla solare vocalità di Davina Bussey, vocalist cresciuta a Detroit che negli anni Ottanta tenta la carriera nel pop ma che viene ricordata più per il suo contributo alla house music, come si dirà più avanti. Sul 12″ presenziano vari remix tra cui quelli di Chez Damier e Stacey Pullen a cui se ne aggiungono altri due anni più tardi, quando il brano viene ripubblicato in Europa dalla britannica Other. La Hand, scomparsa prematuramente nel 2021 a soli 56 anni e considerata la “first lady della techno di Detroit”, aveva già bazzicato territori house con “Think About It”, col contributo di Robert Hood come ingegnere del suono, e “Living For Another”, remixato da Stacey ‘Hotwaxx’ Hale, altra primattrice del DJing detroitiano. Pubblicati entrambi nel 1990 a nome Etat Solide, finiscono nel catalogo della UK House Records che subito dopo cambia nome in Acacia Records.

Chez Damier & Stacey Pullen - Forever Mix 1

Chez Damier & Stacey Pullen – Forever Mix 1
Sebbene la produzione di Pullen affondi le radici nella techno, c’è qualche episodio che lo traghetta sulle sponde della house come questo “Forever Mix 1”, realizzato nel 1993 a quattro mani con Chez Damier e racchiuso nel “Classic EP” sulla Serious Grooves di Antonio Echols, fratello di Santonio. L’asse artistico col DJ di Chicago porta a un risultato mosso dalla leggiadria e sofficità di suoni vibranti, inchiodati a una linea ritmica che corre via senza grandi variazioni. Più atmosferica la versione incisa sul lato b, “Forever Mix 2”, coi primi due minuti in modalità beatless. Il brano viene ripubblicato nel ’95 dalla Balance dopo un opportuno remaster di Chez Damier e Ron Trent e col titolo “Forever Monna”, lo stesso che contraddistingue le ristampe più recenti inclusa quella sull’italiana Back To Life del 2021.

D-Ha - Happy Trax Vol. V

D-Ha – Happy Trax Vol. V
Proveniente dal collettivo Members Of The House di cui si parla più avanti, Lawrence Derwin Hall incide sotto la sigla D-Ha diversi brani nei primi anni Novanta, destinandoli alla Happy Records che li disloca in vari volumi della serie “Happy Trax” condivisi insieme all’amico Mike Banks. Il quinto, del 1994, è ad appannaggio del solo Hall e contiene tre tracce ricche di gaudiose melodie pianistiche e frammenti vocali dalla prorompente organicità: “Tuk My Luv”, “Stories” e “Happy’s Theme”. Degne di menzione anche “Rock Ya Body” e “Now’s The Time” (dal volume 4), “Cha Cha” e “Lift Me Up” (dal volume 3) e “Soul Kitchen” (dal volume 2).

Davina - Don't You Want It

Davina – Don’t You Want It
I brani usciti tra 1984 e 1987 non riescono a sortire grandi risultati ma negli anni Novanta per Davina Bussey arriva la rivincita. Determinante risulta l’incontro con Mike Banks che nel 1992 produce “Don’t You Want It” per la citata Happy Records, sublabel house della Underground Resistance, nata per colmare, così come viene chiaramente spiegato attraverso i crediti sul disco, il vuoto lasciato della Motown che aveva spostato il suo quartiere generale a Los Angeles, in California. «Moltissimi musicisti di talento, cantanti, scrittori, vocalist e altre persone associate all’industria musicale sono state abbandonate. Anche le loro speranze e i loro sogni sono stati lasciati morire. Noi di Happy Records siamo determinati a mantenere vivi quei sogni con le nostre produzioni di Detroit, perché senza speranza non siamo nulla. Ci auguriamo possiate sentire l’emozione nei nostri dischi perché per noi questo non è un hobby, è il nostro destino. Grazie per aver acquistato Happy Records». Davina rinnoverà il sodalizio con la house music nel ’93 attraverso “Let Me Be Me” e “Love & Happiness EP”, entrambi sulla Nocturnal Images Records, a cui segue “I’m Ready (For Your Love)” degli italiani M.C.J. (Andrea Gemolotto e Massimino Lippoli) di cui parliamo qui.

DJ Scott - Solid Grooves

DJ Scott – Solid Grooves
Un debutto di pregio per Patrick Scott che ai tempi, per la prima apparizione sulla Soiree Records International di Derrick Thompson, si firma DJ Scott: in “Music Man” è alle prese con un suono vellutato che si dipana tra esili impalcature pianistiche che fanno da contrappunto a frammenti di organo e un messaggio vocale flash, a cui si somma qualche svirgolata funky della Classic Example Mix. Il tutto orchestrato con dovizia su un tappeto ritmico finemente curato, sia nella costruzione percussiva che nei geometrismi degli hi-hat. Sul lato b “The Specialist”, edificata seguendo una procedura analoga al precedente e trovando il giusto equilibrio tra componenti tribaleggianti e lascive vene melodiche abbracciate a un bassline rotondo. Dopo aver inciso una manciata di dischi come Key Statements, per Scott, nel frattempo ribattezzatosi Scott Grooves, si aprono le porte della scozzese Soma sulla quale nel 1998 viene pubblicato il pezzo più noto del suo repertorio, “Mothership Reconnection”, rifacimento di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton eternato da un remix dei Daft Punk. Ps: “Music Man” finisce recentemente in una compilation della Soiree Records International che raduna i brani realizzati da Scott nei primi anni di attività. L’occasione si rivela propizia per tirare fuori dagli archivi anche due inediti, “On My Way” e “Anything 4 You”.

Donnie Mark - Stand Up For The Soul

Donnie Mark – Stand Up For The Soul
Tra i primi dischi della Simply Soul fondata da J.D. Simpson e distribuita dalla Submerge, “Stand Up For The Soul” di Donnie Mark è house di matrice garage, con una nitida impronta soul a caratterizzare l’apparato vocale. Oltre alla dub a opera di D-Ha, ci sono due versioni remix sul lato b, Grand Club Mix ed Explosive Soul Mix, entrambe firmate da Terrence Parker, tra i cantori più ispirati della house music della Città dei Motori. Donnie Mark riappare qualche tempo più tardi sulla Soul City di Mike Banks con “Hold On”, un altro pezzo dalle chiare reminiscenze soul. Per quanto riguarda invece la Simply Soul, val la pena segnalare altri pezzi commercializzati nel primo scorcio degli anni Novanta, da “Love So Good” di Robyn Lynn a “Soul Beats” di Seven Grand Housing Authority passando per “Soul Beats #2” di 2 Sweat Doctors e “Night Creepin'” di Eddie Flashin’ Fowlkes di cui si parla qui sotto.

Eddie Flashin' Fowlkes - Mad In Detroit! EP

Eddie Flashin’ Fowlkes – Mad In Detroit! EP
Contraddistinto da un titolo che gioca con la fonetica e il doppio senso tra mad e made, questo EP di Fowlkes targato ’92 mostra i due volti sonori dell’artista. Il primo è tendenzialmente legato alla house (genere a cui si accosta già nel 1986 con “Goodbye Kiss” su Metroplex) attraverso le due versioni di “Mr. E.”, la Mysterious Mix e la Ficticious Mix, con brevi inserti pianistici e virtuosi assoli di tastiera. Un ribollire di suono funkeggiante lo si sente poi in “Night Creepin'”, sulla citata Simply Soul, e “I’m A Winner Not A Loser” finita nel catalogo della londinese Infonet di Chris Abbot e cantata da Wonder Schneider.

Eddie, Santonio, Art Forest - Detroit Techno Soul

Eddie, Santonio, Art Forest – Detroit Techno Soul
Sono in tre (Eddie Fowlkes, Santonio Echols, che con Saunderson aveva già spopolato in epoca new beat con “Rock To The Beat”, e Arthur Forest) a costruire questo straordinario pezzo designato per tagliare il nastro inaugurale della M.I.D. Records, solo uno tra le dozzine di marchi discografici nati a Detroit tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il titolo pare del tutto fuorviante almeno per gli europei che nel momento in cui esce il disco, nel 1991, sono abituati a identificare ben altro con la parola “techno”. La ALF Mix che apre il lato a è un susseguirsi di spintoni e carezze, asperità e linearità, un continuo contrasto che fa il paio con la 5 A.M. Mix di Santonio e “Visitors”, traccia conclusiva in cui gli autori si divertono a tagliuzzare la voce per poi farla volare come si fa con pezzettini di carta davanti a un ventilatore acceso. Fowlkes ed Echols ci riprovano l’anno dopo con “Turn Me Out”, cantata da Janice Rawley in un duetto (virtuale) con Loleatta Holloway che esegue frammenti campionati di “Love Sensation”. Tra le sei versioni c’è persino una Radio Mix, approntata forse con l’ambizione di approdare al mondo dell’FM, cosa che però non accade. Per la M.I.D. Records è l’ultima apparizione.

Gari Romalis - Fult Tilt Production EP

Gari Romalis – Fult Tilt Production EP
Prodotto da Terrence Parker per la sua Intangible Records & Soundworks, questo extended play del 1995 segna il debutto di Gari Romalis e mette insieme cinque tracce, le ennesime in cui la house ritrova la disco e il funk in un fraterno abbraccio. “N-The Daze” apre il sipario lasciando rivivere frammenti di “Try It Out” di Gino Soccio su ritmiche aggiornate ai tempi, e il discorso prosegue con “Can U Dig It” dove, è chiaro, il modello ispirativo resta quello del passato che si fonde col presente. “Groovin'” vira verso una house più classicheggiante dai richiami latini, “The Game” punta al metti e togli sampledelico, “I’m Tryin’ 2 B Strong” infila nella centrifuga elementi di “Holdin’ On” di Michael Watford per ricavarne un tool prevalentemente strumentale e dalle puntellature ritmiche più solide, quasi saltellanti. Dopo un altro paio di pubblicazioni (tra cui un EP sulla scozzese Soma), Romalis interrompe l’attività in studio di registrazione. Tornerà nel 2012 dando avvio a una ricchissima parata di uscite tuttora in divenire. Ps: per un errore tipografico, sul “Fult Tilt Production EP” il nome dell’artista viene scritto con la y finale. L’imprecisione si ritrova anche sulla ristampa effettuata nel 2014 dalla tedesca Chiwax Classic Edition.

Gary Martin - Bliss

Gary Martin – Bliss
Martin ha i piedi ben saldi nella techno, sia chiaro, ma nel corso della sua trentennale carriera si è mosso anche in direzioni house, seppur attraverso un suono ribelle, mutante e in perenne contrasto con una classificazione radicale. Nel libro “Techno” Christian Zingales descrive il suo suono come un trait d’union tra «il ruggito funk meccanico della techno e la grande passione per l’exotica degli anni Cinquanta e Sessanta, un matrimonio fatto di vivande futuristiche che, opportunamente shakerate, rilasciano quel gioco aromatico di retro e post». È il caso di “Do It”, con sax e piano, contenuto nell’EP “Bliss” che nel ’93 apre il catalogo della Go Girl Records, a cui segue presto “Take Me”, coi vocal di Simone Taylor a incorniciare un reticolo che già spinge verso rive technoidi. Dopo i primi due dischi la Go Girl Records cambia nome in Teknotika e Gary Martin va avanti spedito come un treno pure attraverso il progetto parallelo Gigi Galaxy, ma di tanto in tanto tornando a toccare le sponde della house come ad esempio avviene in alcuni pezzi racchiusi nel suo primo album, “Viva La Difference”.

Juan Atkins - Beat Track

Juan Atkins – Beat Track
Quando nel 1987 esce questo disco, su un’etichetta fittizia chiamata Red Parrot 228, di techno non se ne parla ancora, perlomeno in forma ufficiale. «I suoi creatori», come scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”, «erano felici di farsi etichettare come “house” e gettarsi nella scena di Chicago» e l’ascolto di “Beat Track” palesa come non ci siano ancora sostanziali differenze tra le musiche prodotte nelle due città, fatta eccezione per alcune tracce uscite negli anni precedenti come “No UFO’s”, “Night Drive (Thru-Babylon)”, “Play It Cool” di Model 500, “Triangle Of Love” di Kreem o “Let’s Go” di XRay che, di fatto, preannunciano un nuovo itinerario creativo e concettuale. Da “Beat Track” emerge la sampledelia che shakera sample funky con l’aggiunta di scratch in modalità hip hop, tutti in una gabbia ritmica grezza, come quelle che contraddistinguono la maggior parte delle produzioni chicagoane. Non a caso il brano viene ripubblicato l’anno seguente su un’etichetta della Città del Vento, la House Musik, a nome Red Parrot. Atkins flirterà poco con la house: si ricorda, tra le altre, “You’re My Type (Make Your Body Move)” del progetto One On One condiviso con Rona Johnson (che approda pure su Metroplex con “By Your Side” in modalità downtempo) e Vision di cui si parla dettagliatamente più avanti.

Low Key - Rainforest

Low Key – Rainforest
“Rainforest” è il primo disco che, nel 1992, Claude Young firma Low Key per la Serious Grooves di Antonio Echols, fratello del più noto Santonio, ed è nel contempo anche il primo del catalogo. La traccia che dà il titolo è una fioritura armonica di chord posizionata su un tapis roulant di batteria che si spoglia e poi si agghinda nuovamente di elementi percussivi. Medesime atmosfere si rincorrono nelle due “Lovemagic”, con sussurri vocali in un ventaglio di suoni delicati. Nelle vesti di Low Key, Young inciderà altri due mix, “Try Me Baby”, con spunti scat, e “I Cant Stop” in cui sfoggia una marcata dose di ipnotismo.

Mad Mike - Happy Trax # 1

Mad Mike – Happy Trax # 1
Il repertorio di Mike Banks è imponente. La sterminata lista di produzioni, spesso privata intenzionalmente di coordinate autoriali, riserva più di qualche sorpresa come questo EP del 1992 su Happy Records comprendente tre tracce, “Heartbeat Of A Groove”, “Clap It Up (Happy Claps)” e “Trance Patrol”, in cui pulsa cuore techno su suoni house. Proprio “Trance Patrol” giunge in Italia attraverso la Downtown del gruppo bresciano Time Records che l’affida alle mani degli Unity 3 (Marco Franciosa, Mario Scalambrin e Paolo Chighine) reduci dal successo di “The Age Of Love Suite” pubblicata oltremanica dalla NovaMute. Banks incide altri volumi della serie “Happy Trax” attraverso ganci garage (“Give It To Me”, “Mad Scatter”, “Gotta Gimme Your Love”) e soluzioni percussive (“Take Me Higher”, “Soulnite”, “Work Me”). La sua è una sorta di figura mitologica bicefala, mezza house e mezza techno.

Marcellus Pittman - Come See

Marcellus Pittman – Come See
Seppur discograficamente più giovane rispetto alla maggior parte dei colleghi detroitiani qui elencati, Pittmann opera nello stesso alveo sonoro. In questo disco, con cui inaugura la sua Unirhythm, spennella i beat con delicati fraseggi jazz (“Come See”) per poi decorarli con deliziosi interventi pianistici (“A Mix”). Voluto da Theo Parrish nel collettivo The Rotating Assembly, l’artista vanta un rigoglioso repertorio da cui affiorano diverse collaborazioni proprio con Parrish, suo mentore, e James Curd. Senza omettere l’adesione a 3 Chairs, partito nel ’97 da un’idea di Rick Wilhite, Kenny Dixon Jr. alias Moodymann e Theo Parrish, e T.O.M. Project, ancora con Parrish e Omar S.

Mark Flash - Timbales Calientes - Hot Timbales

Mark Flash – Timbales Calientes – Hot Timbales
Come riportato nella biografia ufficiale, Mark Flash inizia a mettere a punto le sue abilità da produttore musicale per la Soul City di Mike Banks ma restando dietro le quinte (che sia lui uno degli artefici dei pezzi di The Choir Boys e Marc Pharaoh?). Debutta come Mark Flash nel 1998 attraverso la Upstart che manda in stampa un 12″ in cui esprime le doti da percussionista attraverso un percorso tambureggiante (“Timbales Calientes”) poi raggiunto da un buon esempio di tesco (techno disco) che cresce con un breve ma efficace hook vocale e un perdurante filtraggio delle frequenze (“Work”), e completato da “Fight It!” in cui convergono house, funk e disco fatte balbettare con un accurato lavoro di sampling. Metodologia di lavoro analoga si ritrova in “House Ballads Part One” del 2002, sulla britannica Footwork, e in “Soul Power” del 2006, potenziato da un remix del prolifico Mike Monday che rischia di diventare un inno mainstream. Entrato a far parte del collettivo Underground Resistance, Flash mostrerà via via attitudini più intrinsecamente techno.

Members Of The House - Share This House

Members Of The House – Share This House
Il collettivo Members Of The House debutta negli ultimi anni Ottanta su ITM Records con “Share This House” in cui non è difficile individuare diversi punti di contatto con la house chicagoana, presenti altresì nei brani dell’album “Keep Believin'” come “I Can’t Live Without You”, “Summer Nites” e “It’s Not The Same” cantata da Yolanda Reynolds. Prodotto dal compianto Don Davis, il pezzo tartaglia il verbo jack su uno scheletro ritmico fatto di ostinati clap e vorticosi rullanti. Il team, in cui figurano tra gli altri pure Mike Banks e Jeff Mills, incide parecchi pezzi tra cui “Don’t Do It Like Dat” (una specie di risposta a “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jessie Saunders), “Reach Out For The Love” e “These Are My People” partita dalla Shockwave Records – che nel ’92 tiene a battesimo Drexciya con “Deep Sea Dweller” – e giunta in diversi Paesi del mondo (da noi è un’esclusiva della campana UMM del gruppo Flying Records).

Metro D - What Is A Dancer

Metro D – What Is A Dancer?
Dietro Metro D armeggiano i fratelli Burden (Lawrence, Lenny e Lynell) coadiuvati dal rapper Anthony Terrell Langston e dalla vocalist Armeace Starks: “What Is A Dancer?” prende elementi hip hop e li mescola a delicati fraseggi di pianoforte che avanzano a strappi, intervallati dal suono metallico di un hammer. Edito dalla 430 West nel 1991 e arricchito dalle grafiche del compianto Dan Sicko, il disco annovera pure un remix di Anthony Shakir che enfatizza la tavolozza ritmica, ed “Elevation!”, sul lato b, che batte ancora la traiettoria hip house con qualche svirgolata funky. I Burden, meglio noti come Octave One, danno alle stampe un secondo atto di Metro D, “In The City” del ’92, un EP ancora più house del precedente, contenente griglie ritmiche (“Methodology”) e suadenti sax (“Feel It”, “All The Luv”, “Tomorrow (Like This Dub)”). Nel loro repertorio si rintracciano altre gemme house/garage, come “Jackie’s Theme” e “In The Breeze”, entrambe da “Day By Day” firmato Never On Sunday sempre su 430 West.

Mike Huckaby - Deep Transportation Vol. 1

Mike Huckaby – Deep Transportation Vol. 1
Tra i commessi che nei primi anni Novanta lavorano dietro il bancone del Record Time di Detroit c’è Mike Huckaby, un ventiquattrenne appassionato di musica e tecnologie. Dopo aver curato una manciata di remix (“I Feel Weak” di Eddie Fowlkes e “Work It” di Chris Simmonds) si dedica a creare il suo sound che prende le mosse dalla house quanto dal soul e dal jazz. Il debutto nel ’95 sulla Harmonie Park dell’amico Rick Wade, il primo volume di “Deep Transportation” che, fedele al titolo, trasporta l’ascoltatore nelle profondità di musiche tentacolari come “Luv Time”, che elabora un campionamento carpito dall’intro di “Carry On, Turn Me On” dei francesi Space, o “Disco Time” che invece accoglie nelle rotondità percussive uno scampolo vocale di “Let’s Go Down To The Disco” degli Undisputed Truth. L’anno seguente arriva il secondo volume con cui Huckaby continua a rimaneggiare con destrezza e creatività frammenti di musica del passato (in “We Can Make It” trapianta le voci di “Together Forever” di Exodus mentre in “Love Filter” incastra la chitarra di “Love Rescue” di Project). La sua attività discografica andrà avanti contestualmente al volontariato che lo spinge a insegnare la produzione di musica elettronica a giovani generazioni. Considerato uno dei nomi più granitici della house made in Detroit, Huckaby si spegne ad aprile del 2020 ad appena 54 anni.

MK - Somebody New

MK – Somebody New
Inizia con questo brano, uscito nel 1989 sulla KMS di Kevin Sauderson, la discografia solista di Marc Kinchen che sceglie di firmarsi con la sigla MK. “Somebody New” è una stratificazione tra voci campionate, archi, organi e blocchi ritmici ogni tanto mandati in reverse. Nella Music Institute Goodbye Mix, curata dal fratello di Kinchen, Scott, di cui si parla nel dettaglio più avanti, salgono in superficie le tastiere di pianoforte collocate su piattaforme scorrevoli. Il lato b si apre con le atmosfere più noir di “The Rains” a cui mette mano il citato Saunderson, e si chiude con “Mirror / Mirror”, da cui emerge in modo piuttosto evidente lo stile Inner City. Per Kinchen, che l’anno prima aveva inciso “1st Bass” sulla Express Records di Clifton Thomas incluso nell’EP dei Separate Minds condiviso con Terrence Parker e Lou Robinson, è solo questione di tempo: la hit arriva nel ’91, “Burning”, con la voce di Alana Simon che rinnova la collaborazione per “Always” e un intero album, “Surrender”, spinto a lambire sponde r&b. Nonostante gli ottimi propositi, l’artista non riesce nel difficile compito di creare nuovi successi internazionali ma verrà abbondantemente ricompensato sul fronte remix: senza il suo apporto infatti, “Push The Feeling On” dei Nightcrawlers sarebbe rimasto confinato all’anonimato come raccontato qui.

Moodymann - The Day We Lost The Soul

Moodymann – The Day We Lost The Soul
È arduo scegliere un disco in un repertorio così vasto come quello di Kenneth Dixon Jr., meglio noto come Moodymann. “The Day We Lost The Soul”, pubblicato nel 1995, è tra i primi firmati col suo alter ego più noto e mette subito a fuoco le coordinate entro cui si muove. Devoto da sempre alla house music, il suo è un suono flessuoso che si inerpica nei pertugi del soul, del funk e della disco, mettendo in rilievo un sostanzioso background che lo colloca a una distanza abissale dalla pletora di presunti “house producer”. I campionamenti (“What’s Going On” di Marvin Gaye in “Tribute! (To The Soul We Lost)”, “He’s The Greatest Dancer” delle Sister Sledge in “One Nite In The Disco” e “You Can’t Hide From Yourself” di Teddy Pendergrass in “Shades Of ’78′”) attestano da un lato i suoi riferimenti, dall’altro una inesauribile vivacità creativa. Il disco, tornato in commercio nel 2001 ma privato di “One Nite In The Disco” e “Shades Of ’78′” forse per problemi di mancati clearance, è uno dei primi a essere pubblicato sulla sua KDJ, affiancata in tempi più recenti dalla Mahogani Music. Quasi del tutto refrattario alle interviste, Moodymann inciderà parecchi 12″ e altrettanti album oggetto di spasmodiche ricerche dei collezionisti, oltre a prendere parte a progetti come Urban Tribe, con Anthony Shakir, Carl Craig, e Sherard Ingram, e 3 Chairs in compagnia di Theo Parrish e Rick Wilhite a cui si è poi aggiunto Marcellus Pittman.

Norm Talley - Grove Street Shuffle

Norm Talley – Grove Street Shuffle
Così come recita una biografia in Rete, la dipendenza dalla musica per Norm Talley inizia da tenera età. Consumatore abituale di jazz e disco, viene introdotto al DJing da Ken Collier, resident all’Heaven, che abita a soli tre isolati di distanza. Attivo in consolle dai primi anni Ottanta, si avvicina alla produzione discografica intorno alla fine del decennio successivo. Nel ’97, per la City Boy di Eddie ‘Flashin’ Fowlkes, realizza “Grove Street Shuffle” al cui interno raccoglie tre brani. “Powder”, imperniato sulla ripetizione ciclica di loop, “Grove Street Shuffle”, un saliscendi su scanalature jazzy contenente un campionamento di “Problèmes D’Amour” del nostro Alexander Robotnick, un pezzo di cui parliamo qui e che a Detroit ha lasciato il segno, e “Hold Me”, un’infusione deepeggiante che procede su un serrato groove. Dopo qualche altro disco, Talley si ferma per dedicarsi a progetti paralleli come City Boy Players e The Beatdown Brothers, quest’ultimo in compagnia di Mike Clark e Delano Smith. Tornerà a incidere a proprio nome nel 2009, questa volta prendendoci più gusto e contando sul supporto di numerose etichette tra cui la FXHE Records di Omar S che nel 2017 manda in stampa il primo (e sinora unico), album, “Norm-A-Lize”.

Omar S - Just Ask The Lonely

Omar S – Just Ask The Lonely
Analogamente a Marcellus Pittman, anche Alexander Omar Smith, noto come Omar S, è tra i più giovani di questa carrellata di artisti detroitiani ed è pure un altro capace di veleggiare con assoluta padronanza tra techno e house. La sua discografia, avviata nei primi anni del nuovo millennio e quasi esclusivamente relegata alla propria etichetta, la FXHE Records, è ricolma di musica che il più delle volte sfugge alle definizioni categorizzanti della stampa. Smith infatti passa con disinvoltura dalla disco/house (“Day”) a echi cosmici (“Psychotic Photosynthesis”), da minimalismi sotto effetto lsd (“Blown Valvetrane”) a scheletri ritmici e tappeti volanti nello spazio (“Incognigro” e “Automatic Night”, rispettivamente in coppia con Kai Alcé e Luke Hess). Le sue intenzioni sono chiare sin dal primo album uscito nel 2005, “Just Ask The Lonely”, in cui passa in rassegna un grande campionario, ora delicatamente poggiato su arazzi deep (“I Love U Alex”, “100% House”, “Congaless”), poi spostato su membrane puntute (“A Victim”) e materie granulose con inserti di vecchie drum machine (“Jit”). A guidare Smith è sostanzialmente la totale libertà creativa che se ne infischia delle richieste del mercato e delle tendenze effimere del momento. Quella stessa libertà che nitidamente filtra dalle grafiche che accompagnano la sua musica (Microsoft Paint per Windows 95?) e che si riflette nell’abnegazione all’indipendenza, visto che continua a gestire senza intermediari attraverso il proprio sito web la vendita di dischi, CD, file digitali, merchandising e gli ingaggi da DJ. Una netta presa di posizione contro la mercificazione dell’arte e il “sistema” che regolamenta il mondo della musica, e in tal senso fortemente esplicativo risulta il titolo di un suo album pubblicato nel 2020, “Simply (Fuck Resident Advisor)”.

Paperclip People - Throw

Paperclip People – Throw
Considerato il suo alter ego più house oriented (seppur nato con una tripletta di pezzi non propriamente ascrivibili a tale segmento stilistico, “Oscillator – Electronic Flirtation Device”, “Paper Clip Man” e “Gypsy Man (He’s A Hobo)”), Paperclip People è uno dei tanti volti di Carl Craig. Con “Remake”, del 1994, fa rivivere le atmosfere di “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching in una sinuosa spirale psichedelica, più impetuosa e meno seducente rispetto a quanto fanno i nostri Sueño Latino qualche tempo prima nel pezzo omonimo. Proprio nel ’94 Craig dà alle stampe “Throw” che il citato Zingales, in “Techno”, descrive come «15 minuti di minimalismo techno-disco, un giro hi-nrg debosciato tipo Moroder in eroina, archi a mezz’aria, tastiere deep, equalizzazioni». Il pezzo sfonda in Europa dove viene licenziato un po’ ovunque e fa circolare il nome dell’autore anche in ambienti trasversali. Da noi è un’esclusiva della D:vision Records che, forse per la presenza di “Remake” sul lato b, affida una versione edit a Massimino Lippoli che dei citati Sueño Latino fu uno degli artefici e istigatori. Di Craig in botta house si ricordano altre prodezze come “Love Is The Message” di FRS, un taglia e cuci di scampoli funk/disco che Sven Van Hees pubblica su Global Cuts, e “The Wonders Of Wishing” di Urban Culture dal lirismo quasi commovente, uscita su Eclipse Records, sublabel della KMS di Kevin Sauderson.

Paris - I Can Feel It

Paris – I Can Feel It
Pochi mesi dopo l’uscita di “Nude Photo” realizzato a quattro mani con Derrick May su Transmat, il giovane Thomas Barnett incide il primo brano da solista siglato con lo pseudonimo Paris. «Juan Atkins, che avevo conosciuto attraverso May il quale gli affidò il lavoro di editing di “Nude Photo”, mi disse che stava noleggiando lo studio della Metroplex e ne approfittai per lavorare lì su alcuni demo» spiega l’artista in questa intervista. «”I Can Feel It” era uno di quelli e una volta pronto mi proposero di pubblicarlo su Metroplex ma declinai l’offerta, volevo provare a fare da solo perché convinto di aver capito come fare. Col senno di poi avrei dovuto lasciare che Atkins e la Metroplex si occupassero di tutto. Avevo appena diciannove anni e commisi tanti errori in fase di promozione». La traccia, realizzata con una tastiera Yamaha DX7 II FD per il basso, i suoni di sintetizzatore e i gli archi, e un paio di batterie Roland (TR-808 e TR-909) per le ritmiche, rivela tutta la primitività tipica della prima ondata di produzioni di Chicago, con strutture ritmiche scheletriche e un pianale di arrangiamenti meccanici che tradisce inesperienza e anche una buona dose di naturale immaturità. Due le versioni, la Radio Mix e l’Extended Mix curata da Juan Atkins, solcate su un 12″ per cui Barnett crea un marchio ad hoc e one shot, Tomorrow. A ripubblicarlo, nel 2020, è l’italiana Omaggio.

Reese - You're Mine

Reese – You’re Mine
Tra i primi pseudonimi adottati da Kevin Saunderson, Reese è ricordato perlopiù in virtù di “Rock To The Beat” e “Inside-Out”. Nel repertorio però c’è pure “You’re Mine”, del 1989, un pezzo che scrive insieme a Chez Damier, Marc Kinchen e Flozelle Crosby. La Techno Hip Mix è un incrocio tra i suoni che fanno la fortuna di Inner City, un campionamento da “Walkin’ On Sunshine” di Rocker’s Revenge e uno stuolo di riferimenti hip house che ai tempi la collocano nel filone europeo trainato dai belgi Technotronic. Sul lato b due versioni remix, Red Zone Mix e Def Mix, a cura di un futuro divo della house music, David Morales. A seguire giungono altri rimaneggiamenti che palpeggiano quella zona grigia tra house e techno. A firmarli Bad Boy Bill, Anthony ‘Shake’ Shakir, Psyche alias Carl Craig e Derrick ‘Mayday’ May.

Rick Wade - Late Night Basix

Rick Wade – Late Night Basix
Nasce a Buchanan, piccolo paese agricolo nel Michigan ai confini con l’Indiana, ma è a Detroit che Rick Wade entra in contatto con la house e la techno, lavorando come commesso in un negozio di dischi della città, il Record Time. L’amico Dan ‘DBX’ Bell, che condivide l’esperienza lavorativa in quel posto, lo incoraggia a pubblicare la sua musica e così nel 1994 esce il primo disco, “Late Night Basix”, su un’etichetta creata per l’occasione, la Harmonie Park. L’apertura con “Nothing To Fear” ad appannaggio di un suono pulsante, tra singhiozzanti fiati, un messaggio vocale che si ripete e pianoforti che si intrufolano riempiendo gli spazi. La prima versione non prevede alcuna linea di basso ma l’autore, come racconta qui, apporta delle modifiche su suggerimento di Mike Huckaby che considera uno dei suoi mentori. A curare il remix di “Nothing To Fear” invece è il citato Bell che gioca col campionatore a frazionare il sample vocale lasciandolo volteggiare in aria con palloncini gonfiati a elio. Sul lato b Wade continua a esprimere il proprio concetto di house music attraverso due brani (“I Do Believe”, “I Can Feel It”) simili nella costruzione e nella scelta dei suoni. Il volume 2 giungerà solamente quattro anni più tardi ma nel frattempo Wade non dorme sugli allori e sfodera altri pezzi venati di jazz (“Angry Pimp”), di atmosfere notturne (“Night Track”) e di collisioni funk/disco (“Discolicious”, firmato come Dr. Low-Tech).

Rick Wilhite - Soul Edge

Rick Wilhite – Soul Edge
Il primo remix lo realizza nella seconda metà degli anni Ottanta per “Time To Party” dei NASA, su Express Records, un altro di quei dischi meticci tra spinte propulsive detroitiane e classicismi ritmici chicagoani. Occorre tempo però per elaborare lo stile in cui si sente proiettato maggiormente, e infatti questo “Soul Edge” arriva praticamente dieci anni più tardi, col benestare di Moodymann che lo vuole sulla propria KDJ. Ad aprire le danze è il remix di “Get On Up!!” di Theo Parrish (non è dato sapere che fine abbia fatto l’originale), un incalzante turbinio di house avvolta su spirali jazz spezzate in più punti da una voce femminile che declama a gran voce il titolo. Sul lato b si srotola il vibe percussivo di “What Do You See?”, edificata sottraendo uno scampolo vocale da “Coming On Strong” di Caroline Crawford, un vecchio pezzo di fine anni Settanta prodotto da Hamilton Bohannon, innestato a sua volta in uno stantuffo in cui scorre un frammento di “Love In C Minor” di Cerrone, stropicciato dai filtri in un metti e togli che i francesi poi sdoganeranno nel mondo pop favoriti dalla stampa (cieca) che chiamerà quel trend “french touch” convinta che la disco/funk in salsa house fosse nata all’ombra della Torre Eiffel. A chiudere è il citato Moodymann che appronta la sua versione di “What Do You See?” non scombinando gli elementi di partenza e ricavandone quindi un potente gancio filtered house pre french touch. Wilhite torna su KDJ coi due volumi di “The Godson EP” in cui prosegue il lavoro di sutura tra disco music e house music (“Drum Patterns & Memories”) e calandosi progressivamente nei meandri di un suono più nebbioso e oscuro (“Good Kiss”). Oltre a militare nel progetto 3 Chairs, vale davvero la pena segnalare il suo primo (e sinora unico) album, “Analog Aquarium”, pubblicato nel 2011 dalla Still Music di Chicago guidata da Jerome Derradji, un lavoro sfaccettato in cui Wilhite esprime al meglio la vocazione stilistica stringendo, di traccia in traccia, alleanze con colleghi come Billy Love, Marcellus Pittman, Calvin Morgan e Osunlade.

Sade - Surrender Your Love Illegal Remixes

Sade – Surrender Your Love (Illegal Remixes)
È il 1995 quando viene messa in circolazione questa white label sulla fittizia Illegal Detroit: a essere solcati sono due remix di “Give It Up” dei britannici Sade (l’originale è nell’album “Stronger Than Pride” del 1988) realizzati da Kenny Larkin e Stacey Pullen. Entrambe le versioni, simili tra loro, ondeggiano su una linea di percussioni tribaleggianti punteggiata dall’inconfondibile voce di Sade Adu, con un sax sussurrato che si insinua dolcemente nelle fenditure. Il lavoro dei due DJ di Detroit però non troverà mai modo di essere ufficializzato e per questo rimane, di fatto, una pubblicazione illegale. A spiegarne le ragioni è proprio Kenny Larkin in un post su Facebook del 25 agosto 2019: «quando pubblicai il bootleg in questione, scoprii molto velocemente che Sade odiava chi remixava la sua musica senza permesso. Durante le prime settimane il 12″ vendette circa ottomila copie, poi ricevetti formalmente dal suo management l’invito a interrompere la distribuzione. Ma come fecero a scoprire che fossi io l’autore, se il disco era una white label con un timbro che recava solo la dicitura Illegal Detroit? A spifferarlo fu il settimanale Mixmag Update che menzionò il mio nome in un articolo. Poco tempo dopo ricevetti la loro lettera con cui mi intimavano di smetterla. È stato divertente finché è durato». Nell’arco di quasi un trentennio il disco si è trasformato in un piccolo feticcio per gli appassionati che oggi sono disposti a spendere anche cifre ragguardevoli per assicurarsene una copia, come testimonia lo storico del marketplace di Discogs.

Scottie Deep - Fathoms

Scottie Deep – Fathoms
Scottie Deep è l’alter ego di Scott Kinchen, detroitiano che debutta nel ’91 con “It’s Dangerous” di 2 The Hard Way in tandem con Kevin Saunderson, una sorta di summa tra i suoni di “The Original Video Clash” di Lil’ Louis e il mood di Inner City. L’anno dopo Kinchen fonda la sua etichetta, la Aztonk, sulla quale darà vita a una serie di produzioni house a partire da “You Can’t Go Wrong” di D.D.S. (sul lato b c’è “I Love The Way” con un sample preso da “There But For The Grace Of God Go I” dei Machine, lo stesso che usa Todd Terry in “Hear The Music” di Gypsymen) a cui segue per l’appunto “Fathoms”, il primo firmato Scottie Deep. Intriso di suoni ovattati come un organo presumibilmente di un Korg M1 ai tempi in praticamente tutti gli studi di registrazione di chi produce house music, il brano coccola l’ascoltatore con un metti e togli ritmico e un breve ma incisivo passaggio vocale. A curare il remix è il fratello di Kinchen, Mark, meglio noto con l’acronimo MK. Scott, sbarcato su Strictly Rhythm nel ’93 con “Soul Searchin'”, intensifica l’attività lanciandosi in diverse avventure parallele (come Tympanum, con Kenny Dickerson e Anthony Shakir, Fathoms NY, che approda sulla nostra Heartbeat, Kitchen Sync, Daddy’s Moods e Time Bomb) ma non riuscendo a eguagliare i risultati del fratello minore seppur, come dichiara in questa intervista di Alexandra Cronin del 24 agosto 2019, sia stato lui a insegnargli tutto. È il tipico caso in cui l’allievo supera il maestro.

Servo Unique - Servo Unique

Servo Unique – Servo Unique
Unica uscita sulla Luxury Records, “Servo Unique” è un disco border line del 1993, che fatica a essere incasellato con precisione nella house o nella techno. Percussioni e un paio di sequenze vocali (vagamente somiglianti a “Let Me Be” di Cajmere) riscaldano di continuo la mistura proto tech house di “Ba’ Dum Bah Da”, un taglio più technoide è invece quello di “Let’s Swing It” sul lato b che però mostra suoni ai tempi sfruttati principalmente in produzioni di matrice house. A distanza di ormai un trentennio ha conquistato valore e richieste sul mercato del collezionismo, probabilmente in virtù della popolarità e credibilità dell’autore, Jeff Mills.

Shake - Club Scam EP

Shake – Club Scam EP
Presente con “Sequence 10” nell’epocale “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)” del 1988, Anthony ‘Shake’ Shakir è uno dei veterani della prima ondata techno di Detroit seppur mai celebrato in pompa magna e per questo finito, insieme ad altri, nell’ombra. È attivo principalmente nella techno e nell’electro tuttavia la sua creatività è in grado di sfondare i confini e raggiungere la house. Basta ascoltare “Club Scam”, il primo EP che nel ’93 firma Shake per la Trance Fusion, costruito su loopismi geometrici (“Thats What I Want”, con un ricamo sampledelico proveniente da “Mesopotamia” dei B-52’s) e ipnotici rendez-vous tra voci e brevi assoli tastieristici. Nel 1997, lasciandosi alle spalle altre gemme housy come “Get A Feeling” ed “Happy To Be Here”, sarà tempo del “Club Scam II”, questa volta sulla Frictional Recordings che fonda con l’amico Claude Young, per cui tira dentro anche retaggi disco/funk velocizzati (“The Floor Filler”) e “Plugged In”, forse costruita sulle parti di “I’m Here Again” di Thelma Houston, la stessa che ispira l’arcinota “What You Need” di Powerhouse Feat. Duane Harden.

Sight Beyond Sight - Good Stuff

Sight Beyond Sight – Good Stuff
Obiettivamente simile ai brani degli Inner City, “Good Stuff” è un pezzo che combina vocalità (di Andrea Gilmore) a riccioli di suono newyorkese intrecciati a stab. Il tutto piazzato su un piedistallo ritmico con qualche bpm in più rispetto alla canonica velocità di crociera della house. A produrlo Keith Tucker, Anthony Horton e Tommy Hamilton, da lì a breve uniti in Aux 88 nel credo dell’electro. Il 12″, edito nel ’93 dalla 430 West, contiene anche un remix degli Octave One che si muove sinuoso su curve deepeggianti e ampie arcate di pad ambientali al cui interno trovano alloggio pochi interventi vocali della Gilmore. Nel 1994 arriva un nuovo pezzo a nome Sight Beyond Sight, “No More Tears”, ancora più house del precedente. Tucker & soci incideranno anche un terzo brano spassionatamente deep house, “R U Sure?”, finito nella compilation “Soul From The City” su Submerge nel 1995, “la collection definitiva sulla house di Detroit” così come recita il sottotitolo in copertina.

Terrence Parker - Hold On

Terrence Parker – Hold On
A differenza della maggior parte dei produttori di Detroit che concentrano le proprie energie sulla musica techno, Terrence Parker è tra coloro che invece si lanciano a capofitto nella house. Le prime prove negli ultimi anni Ottanta (si senta “We Need Somebody” sulla Express Records di Clifton Thomas di cui si è già detto sopra) ma è nei Novanta che dà il meglio di se stesso, a partire proprio da “Hold On” finito nel catalogo Trance Fusion, sublabel della saundersoniana KMS. La title track è rivista in tre versioni, Spiritual Mix, Club Mix e Garage Mix, tutte connesse al suono newyorkese con vocalità e vivace partitura musicale a rivelare una familiarità con gli strumenti che va ben oltre l’assemblaggio di campionamenti ritagliati da pezzi preesistenti. Sul disco c’è spazio anche per un altro brano, “Come With Me”, con frammenti vocali presi da “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys a fare da cornice a un leggiadro tappeto deep. A coadiuvare il lavoro di Parker è Claude Young, altra colonna statuaria del suono detroitiano, con cui stringerà una proficua collaborazione siglata come Younger Than Park che rivelerà solide connessioni tra la house music e la città dei motori attraverso brani come “Woman”, “Ooh Baby” e “Can’t Turn Back”, tutti pubblicati dalla citata Serious Grooves di Antonio Echols. Parker va avanti anche in solitaria incidendo dozzine di tracce sotto pseudonimi: tra le tante si segnalano “Dynamic Audio” di 2 Sweat Doctors (su Simply Soul), “Make It Better” di Madd Phlavor (su KMS) e “Love’s Got Me High” di Seven Grand Housing Authority sulla Intangible Records & Soundworks che lui stesso crea nel 1993.

The Hard Hats - Tear Down The House!

The Hard Hats – Tear Down The House!
Tra le primissime produzioni messe sul mercato nel 1987 dalla Incognito Records di Clifton Thomas, “Tear Down The House!” è un pezzo che affonda le radici in una house profondamente venata di percussioni ma che nel contempo ripesca certe sfumature ai tempi in voga nell’eurodisco. A fungere da motore è il potente disegno di basso funkeggiante incorniciato da un vocal sample opportunamente giocato col campionatore. Un brano semplice quanto ingenuo, che potrebbe essere uscito pure da uno studio di Chicago. I crediti autoriali, completamente omessi, affiorano dalla stampa britannica su Groove & Move Records che consentono di collegare il progetto one shot The Hard Hats ai musicisti David McMurray (che si era già cimentato l’anno prima con una manciata di pezzi house, “Hot Box” e “Get Smart -Prep It Up-“ di The Preps, sempre prodotti da Clifton Thomas per l’Express Records) e Randy Jacobs, entrambi collaboratori della band Was (Not Was).

Underground Resistance Featuring Yolanda - Living For The Nite

Underground Resistance Featuring Yolanda – Living For The Nite
Un altro pezzo, targato ’91, che risente in modo inequivocabile del mood saundersoniano: “Living For The Nite”, prodotto da Jeff Mills e Mike Banks e cantato da Yolanda Reynolds, riprende il discorso lì dove era finito “Your Time Is Up” l’anno prima, che peraltro inaugura il catalogo dell’etichetta omonima del gruppo, Underground Resistance. Diverse le versioni incise sul mix, seppur derivate dalla stessa idea. Il brano sbarca anche in Italia attraverso la napoletana UMM diretta da Angelo Tardio, come raccontato qui, che commissiona un paio di remix a un astro nascente nostrano, Digital Boy. A cedere è persino Albertino che vuole “Living For The Nite” nella DeeJay Parade del sabato pomeriggio dove resta per dieci settimane arrivando a toccare la quinta posizione il 31 agosto. L’anno dopo la Reynolds interpreta un’altra traccia per gli UR, la solare “Children Of The World”, confluita nel catalogo della Happy Records.

Unit 2 - Sunshine

Unit 2 – Sunshine
Gli Unit 2 (i musicisti Niko Marks e Raphael Merriweathers Jr.) debuttano nel 1992 proprio attraverso “Sunshine”, una gemma della house prodotta a Detroit dagli Underground Resistance con pochi elementi (pianoforte, voci, sezione ritmica) e una buona dose di divagazioni jazzy. Il brano è recentemente resuscitato per mano del bulgaro KiNK e degli italiani Tiger & Woods che lo hanno reinterpretato in due versioni per le generazioni del nuovo millennio. Un paio di anni più tardi il duo affida alla 430 West il follow-up “Keep Your Head Up”, co-prodotto con Mike Banks. In parallelo approntano come 365 Black “Home Land” che include un paio di piacevoli alternative alla ricetta, la lisergica “Deliver Me” e la tribaleggiante “Just The Way You Love Me” in cui si riconosce un campionamento di possibile provenienza afro usato l’anno prima e l’anno dopo per due brani italiani agli antipodi l’uno dall’altro, rispettivamente “Gengennarugengè” di Z100 e “Like A Flute” di Cosmic Traveller.

Van Renn - The Real Thang

Van Renn – The Real Thang
Paul Van Buren Randolph debutta nel ’93 sulla Nocturnal Images Records di Davina Bussey attraverso “The Real Thang”, un pezzo attraverso il quale riesce a mettere in evidenza la passione per il soul. A incoraggiarlo in modo incisivo è Mike Banks, con cui tempo prima suona in due band di Detroit, i Mechanix e i Cherubim. «Era convinto che la house e la techno avessero bisogno di musicisti tradizionali ma dalle ampie vedute e soprattutto senza pregiudizi, come me insomma» racconta in questa intervista qualche tempo fa. Il successo per Randolph arriva due anni dopo quando “The Real Thang” diventa “The (Real) Love Thang” e viene (ri)pubblicato nel Vecchio Continente attraverso vari remix tra cui quello di Rob Dougan che, come spiegato qui, fa la differenza e finisce nei circuiti mainstream (la licenza per l’Italia se l’aggiudica il gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che la convoglia su Nitelite Records, subito dopo “Everyone Has Inside” di Gala). Prima dell’exploit europeo Van Renn, nel frattempo diventato L’Homme Van Renn, offre alla 430 West “The Man” contenente un pezzo strepitoso dalle venature gospel, “(Never Will Forget) Love And Affection”. A produrlo è l’amico Mike Banks che lo definisce “il primo uomo dell’underground”. Il seguito giunge nel ’96 sulla Soul City, “Luv + Affection”, occasione in cui Banks si divide il lavoro in studio coi fratelli Burden.

Vision - Other Side Of Life Touch Me

Vision – Other Side Of Life / Touch Me
Nata nel 1990 proprio con questo disco, la Interface Records di Juan Atkins parte con un seducente carico di house music trasognata e rigata dalla sensuale voce di Tracey Amos che ben si accorda col mood malinconico del brano inciso sul lato a, “Other Side Of Life”, ritoccato in una Dub Mix da Anthony ‘Shake’ Shakir che riduce al minimo gli interventi vocali. Sul lato b invece “Touch Me” che innesca un saliscendi emozionale tra lunghe arcate armoniche intrecciate alla vocalità della Amos a vibranti linee di tribalismi percussivi. Due i remix, firmati da Eddie ‘Flashin’ Fowlkes e Jay Denham. Quello che pare esaurirsi in un episodio one shot rivela però un seguito e ciò avviene grazie al supporto di un’etichetta italiana, la Flying Records, che nel 1992 pubblica “Is This Real?” seguito l’anno dopo da “Coming Home”, entrambi cantati da Dianne Lynn e caratterizzati dal moniker con la s finale, un’aggiunta forse involontaria. «Incontrai Juan Atkins al New Music Seminar di New York dove mi fece ascoltare alcuni brani inediti» racconta oggi Angelo Tardio, co-fondatore della casa discografica napoletana e già artefice, come si è visto prima, di alcune licenze Underground Resistance messe a segno su UMM. «Mi piacquero e gli proposi di sviluppare una serie di remix partendo dalle sole acapellas e fu così che uscirono il doppio “Is This Real?” e “Coming Home” (scritti entrambi da Anthony Shakir, nda) di cui la Flying Records deteneva i diritti di esclusiva nel mondo, Stati Uniti esclusi, assicurati per un’inezia, appena 500 dollari a titolo. Decisi di pubblicarli su Flying Records e non su UMM perché l’intento era cercare di fare crossover e uscire dai soli club specializzati, non a caso bypassammo l’uso delle copertine generiche col buco centrale per elaborare degli artwork con tanto di logo realizzato ad hoc da Patrizio Squeglia». Sono parecchi i remix commissionati da Tardio, alcuni dei quali ripubblicati dalla Tribal America insieme alla Juan’s Dub e Shake Dub, inedite sino a quel momento. A realizzarli sono tutti artisti affiliati alla Flying Records: i fratelli Visnadi, Roberto Masi dei Blast, Giuseppe ‘MAN-D.A.’ Manda e Ivan Iacobucci. «Cercavo di creare team di lavoro per spingere quanto più possibile il made in Italy» prosegue Tardio «ma quella volta non mancò un grande nome d’oltreoceano, Danny Tenaglia. Coadiuvato da Kerri Chandler, realizzò due versioni negli studi della Flying Records in occasione di una serata che tenne in Italia. Una si chiamava Dead Horse Dub, titolo scelto per la vicinanza alle scuderie dell’Ippodromo di Agnano, limitrofe alla sede della Flying Records in Via Raffaele Ruggiero. A impazzire per “Coming Home”, tra gli altri, era Claudio Coccoluto e infatti qualche anno dopo uscì pure un suo remix sulla britannica Stress Records» (di cui parliamo qui, nda). La sinergia tra Napoli e Detroit si chiude con “Forever My Sunset” uscito però a nome Dianne Lynn, ancora scritto da Shakir e prodotto da Atkins su licenza Metroplex. «Nessuno di questi tre titoli divenne un successo da classifica ma non disattesero del tutto le aspettative, ne vendemmo parecchi, nell’ordine di diverse migliaia ciascuno» conclude Tardio.

… e la techno di Chicago

326 - Just Like Heaven

3.2.6. – Just Like Heaven (Dance Mania)
Il debutto nel 1989 sulla Muzique Records con “Falling”, spalleggiato da Armando Gallop, che già lascia intravedere un’attitudine techno nell’assemblaggio delle parti. Due anni dopo la conferma su Dance Mania con un ricco EP, comprendente ben sette pezzi, che pare davvero un ipotetico Transmat. Forse ispirato da “Strings Of Life”, Dion Williams si lancia a capofitto di un suono che sembra scendere dal cielo a bordo di un disco volante pilotato da un alieno sotto effetto di anfetamine (“Just Like Heaven”), in “Love Is….” e “Magic Fingers” spennella la tela bianca con colori acidi, “Butterfly” è un ritmo brutale da cui si levano spirali di melodie sbilenche sovrapposte ad archi che tracciano ricordi bladerunneriani. Sconosciuto ai più, il disco diventa un cult per gli estimatori ed è l’ultimo a essere realizzato da Williams che trae lo pseudonimo dal numero civico dello stabile in cui c’era il Music Box guidato da Ron Hardy, al 326 di North Lower Michigan Avenue.

3 Down - Deep Trip

3 Down – Deep Trip
Nato sull’asse collaborativo Chicago-Detroit, “Deep Trip” è un pezzo del 1991 rimasto nell’ombra nonostante avesse tutte le caratteristiche per spopolare negli anni dell’esplosione europea della techno. Le cinque versioni incise sul disco, licenziato nel Regno Unito dalla The One After D legata al gruppo Network Records, derivano pressoché dalla stessa idea e veleggiano su un percorso ritmico di stampo breakbeat punteggiato da vari campionamenti come “Let The Music (Use You)” di The Night Writers e “Pleasure Principle” delle Parlet (gli stessi che si sentono rispettivamente in “DJ’s Take Control” di SL2 e “Tranqi Funky” degli Articolo 31). La Techno Mix è tra le più immediate e avanza sulle rasoiate degli amen break e sugli stab che tracimano gli argini sostenuti da una serie di graffi degli scratch. A coadiuvare il lavoro di Kevin Saunderson che pubblica il brano sulla sua KMS sono Martin Bonds e un amico di Chicago, Anthony Pearson alias Chez Damier che proprio in quegli anni ricopre ruolo di A&R per la stessa etichetta sulla quale pubblica alcuni pezzi come “Can You Feel It”, accompagnato dalla dicitura in copertina “techno disco”.

Boo Williams - A New Beginning

Boo Williams – A New Beginning
Willie Griffin inizia a pubblicare musica a nome Boo Williams nel 1994, spinto dagli amici Glenn Underground e Tim Harper coi quali, in un futuro non lontano, figurerà nella formazione Strictly Jaz Unit. “A New Beginning” esce quell’anno sulla Relief Records di Curtis Alan Jones e parte con la title track in cui si palesa presto la fascinazione techno dei suoni, con cowbell ubriachi e rullanti nervosi tipici della scuola di Chicago. L’effetto viene replicato in “The-B-W-Groove”, una sorta di reprise. Più house oriented il lato b con “Phasis” e “Quicksand”. Le armi di Williams sono affilate e lo si capisce quando su Djax-Up-Beats arriva “New Breed” in cui trovano alloggio altri pezzi di techno squadrata come “Endangered Species” o “Kiss’en Asses”.

DJ Deeon - Induced EP

DJ Deeon – Induced EP
Considerato uno degli iniziatori della ghetto house insieme a DJ Funk, DJ Slugo, Parris Mitchell e DJ Milton, DJ Deeon ha prodotto musica per circa trent’anni. Il suo stile è caratterizzato da strutture ritmiche ad anelli che procedono secondo una formula fondata su minimalismo ed essenzialità. Non è la microhouse teutonica però, la ghetto house di Chicago è meno sexy e più rozza, a volte ai confini con la techno così come testimonia il pezzo di apertura dell'”Induced EP” (Cosmic Records, 1995), “On Da Run”, dall’incedere quasi millsiano rotto qua e là da interventi vocali. “The Funk Electric” è una sbornia di elementi della TR-909, gli stessi che si sentono in “And I Sexxx” e “Sex Part 1”, in quest’ultima con l’aggiunta di una corposa dose di quel tipico suono che definisce la ghetto house che si muove come un ubriaco che cerca di ballare su una scala mobile. A fermare l’infaticabile Deeon, che in piena pandemia si prese la briga di lanciare un’etichetta, la Ghetto Rhythm Composers, è la prematura scomparsa avvenuta il 18 luglio 2023 a 57 anni.

DJ Hyperactive - Chicagoan EP

DJ Hyperactive – Chicagoan EP
Questo extended play del ’94, il secondo che Joseph Manumaleuna alias DJ Hyperactive realizza per la sua Contact, mette immediatamente in risalto le caratteristiche del proprio imprinting. Pochi gli elementi ma elaborati con massima scrupolosità come rivela “Chicago”, dove lo scandire metronomico di un roccioso bassdrum (i Daft Punk prenderanno nota per “Rollin’ & Scratchin'”, e non certamente a caso citeranno Hyperactive in “Teachers”) incornicia un tormentoso hook che ripete il titolo sul quale si inerpica un velenoso serpente di TB-303. La costruzione resta la medesima in “Rhythm In Acid” dove il bassline disegna grandi arabeschi, forse ispiratori di “Post Nasal Acid” di Winx. Il lato b è occupato per intero da “It’s My Life” dove spuntano arcate melodiche ad addolcire la mistura. Sempre nel ’94 Hyperactive approda alla Drop Bass Network con due dischi, “Hard Rhythmic Motions” e “Don’t Fuck With Chicago”, in cui spinge gli acidismi verso lidi hardcore con distorsioni e saturazioni. Seguiranno parecchi altri EP (alcuni dei quali editi dalla britannica Missile) e un album, “I’m Only Buggin'” che la svedese Hybrid di Cari Lekebusch pubblica nel 1996, anno in cui Manumaleuna crea Fuzz Face, il seguito al progetto Sync creato a quattro mani con Woody McBride.

DJ Milton - Scream

DJ Milton – Scream
Parte proprio con “Scream” la carriera discografica di Milton Jones: pubblicato nel 1994 dalla Dance Mania, il disco si articola attraverso sei tracce di suoni ruvidi innestati su schemi ritmici dall’intenzionale minimalismo. Da “Scream”, in cui affiorano urla voluttuose forse prese da qualche vecchia VHS porno, ad “House Clap”, con la base quasi identica alla precedente ma con inserti acidi, da “Saturn”, con schemi percussivi geometrici, a “Ride That M.F.”, chiaro ripescaggio della house balbettante di qualche anno prima ma col pitch della velocità aumentato, sino a “Hit It (Rx)” e “Late Nite Creep”. Prodotto parzialmente col sopraccitato DJ Deeon e masterizzato dal mitologico Mark Richardson, il lavoro segue la ricetta della ghetto house tuttavia tanta techno generata e propagata in Europa nei primi anni Novanta risulterà più debitrice a dischi come questo che a quelli di Detroit. La carriera di Milton si ferma nel 2000 per guai seri con la giustizia, omicidio e rapimento aggravato: viene condannato a poco meno di quarant’anni di reclusione che attualmente sta scontando in un penitenziario dell’Illinois come confermato in questo documento ufficiale.

DJ Rush - Drum Major EP

DJ Rush – Drum Major EP
Isaiah Major produce quintali di musica sin dai primissimi anni Novanta, è complesso quindi identificare un disco rappresentativo in un repertorio talmente vasto. La scelta cade sul primo EP ceduto alla tedesca Force Inc. Music Works nel ’95, riempito con una techno mutante che prima sferraglia lungo binari arroventati dal sole (“Electric Indigo”, forse un tributo all’omonima DJ austriaca?) e poi somministra un cocktail allucinogeno a un ipotetico organista jazz (“Prick Ryder”). La carica ritmica di Rush è inarrestabile e lo si capisce quando parte “Bang Bang” che sembra essere stato programmato sul cratere di un vulcano, nell’attesa di una possibile eruzione. “Punish Me”, infine, spiazza l’ascoltatore con una visione techno funk in cui i bpm calano per lasciare spazio a virtuosismi ritmici. Nel corso degli anni Major velocizzerà la sua musica traghettandola verso il genere schranz che cavalca a inizio millennio anche come Russian Roulette.

DJ Skull - Nuclear Fall Out

DJ Skull – Nuclear Fall Out
“Nuclear Fall Out” è il terzo disco che nel 1994 Ron Maney affida all’olandese Djax-Up-Beats, dopo “Stomping Grounds” e “Met”L”gear”. “Target Kill” avanza con un passo spedito, falciante, pronto a mordere, “Crash Dummy” è un classico scheletro ghetto che lascia ribollire all’interno una strana mistura alchemica, “Get Wicked” è un tripudio di snare ma probabilmente l’apice arriva con la title track, “Nuclear Fall Out”, un ordigno innescato da una serpentina acida che poi deflagra insieme a chiari riferimenti tratti da “Circus Bells” di Robert Armani, un classico della techno chicagoana di cui si parla dettagliatamente più avanti. A differenza di gran parte dei Djax-Up-Beats illustrati da Alan Oldham, questo reca la firma dello stesso Maney.

Ellery Cowles - Glaxy Of Interval

Ellery Cowles – Glaxy Of Interval
Con “Glaxy Of Interval”, giunto dopo “Sonic Control” e co-prodotto col sopraccitato DJ Skull, Cowles conferma la collaborazione con la Djax-Up-Beats di Miss Djax che negli anni Novanta è un ponte tra la Città del Vento e il Vecchio Continente. La title track fluttua su nubi tossiche di layer strumentali phaserizzate, “Planet Sex” s’infila in un corridoio buio e tenebroso, “Playing With Bass” fa salire la temperatura attraverso rullanti arroventati e sgambettanti, “Orbit Syquest 270” chiude con una visione in cui Detroit e Chicago sembrano davvero toccarsi con un dito come avviene nell’opera michelangiolesca nella volta della Cappella Sistina. Lontano dalla prolificità di molti colleghi, Ellery Cowles incide diversi altri dischi alcuni dei quali atterrati su etichette europee come la Hybrid di Cari Lekebusch e le parigine D3 Elements e Technorama.

Gene Farris - Blue Squad 001

Gene Farris – Blue Squad 001
Farris ha ampiamente dimostrato di essere un talento sia nella house che nella techno e questo avviene sin dalle prime battute del suo percorso produttivo in cui si poggia da un lato alla tedesca Force Inc. Music Works di Achim Szepanski e dall’altro alla Relief Records di Curtis Alan Jones. “Blue Squad 001” è il primo scelto nel 1995 dal citato Szepanski, probabilmente attratto dall’intreccio delle linee acide di “Pipe Dream”, una traccia che, come recitano i crediti, è un tributo a DJ Rush, amico e mentore di Farris stesso. Il disco riserva ancora curvilinee acide con “Unholy” oltre a una chiusura ad appannaggio del pungente ipnotismo, “Tribal Warfare”, il cui schema viene riadattato per “Sight ‘n’ Sound” uscita l’anno seguente su Relief Records.

Glenn Underground - The Unborn

Glenn Underground – The Unborn
Dopo “Future Shock” del 1993, Glenn Crocker alias Glenn Underground destina alla Djax-Up-Beats un secondo EP con cui mette in risalto l’abilità nel programmare ritmi non convenzionali, distanti dalla tradizionale costruzione house. Basta poggiare la puntina su “The Unborn” per afferrare il discorso al volo e rendersi conto di quanto possa essere libero da vincoli compositivi il territorio techno. In barba al titolo che lascerebbe presagire qualcosa di ancora più elaborato, “Teck-Na-Logie” vira verso quella che da noi, qualche anno prima, viene definita ambient house, seppur a reggere il tutto sia un possente impianto ritmico. Con “101 Dolmations” la corsa riprende sfociando in una sorta di techno jazzata inviperatissima. La chiusura è (ancora) sotto il segno di suoni ambientali, “New Age Experience”, che fanno bene il paio con quelli di “Teck-Na-Logie”. Val la pena segnalare anche alcuni brani che nel ’95 Crocker firma con lo pseudonimo Jellybean su Relief Records come “Drop Dead Zone” e “Twilight Drone”, ulteriori sviluppi di un suono personale che tiene bene in alto il vessillo della techno made in Chicago.

Green Velvet - Portamento Tracks

Green Velvet – Portamento Tracks
Nato nel 1968, Curtis Alan Jones comincia a incidere musica con la Clubhouse Records e mette presto a segno ottimi risultati, su tutti “Brighter Days” che firma Cajmere e che arriva anche in Italia attraverso la D:vision Records. Quando nel ’93 lancia la Relief Records, come appendice della Cajual Records, esce allo scoperto con un nuovo pseudonimo, Green Velvet, con cui mette da parte le costruzioni vellutate deep house a favore di misture intrise di jackismi di traxxiana memoria, così come si ascolta in questo EP del 1995. I suoni grassi di “I Want To Leave My Body”, poi la cassa rocciosa di “Flash” che dà il via a una serie di trivelle di rullanti in stile “Spastik” di Plastikman e infine le spirali psichedeliche di “Explorer”: Jones inietta suoni e costruzioni technoidi in circuiti house e va oltre con una bonus track senza titolo che fa volteggiare in aria rumorismi e distorsioni insieme a un campione vocale ripetuto con ossessione. Nel 2001 l’ingresso nelle classifiche generaliste con “La La Land” scandita da un tono di voce da pastore protestante e arditamente connessa vicendevolmente ad house e techno, modalità usata dall’artista anche in progetti collaterali come Geo Vogt (“Glitch” che marcia su severità EBM) e Gino Vittori con cui si cimenta in una rivisitazione di “Remember” di Gino Soccio (“Self-Evident”).

Joe Lewis - Funky Disco

Joe Lewis – Funky Disco
Joe Lewis è tra coloro che hanno visto nascere l’house music nonostante il suo nome sia finito nel dimenticatoio o comunque tra quelli secondari, ingiustamente se si pensa a pezzi come “The Love Of My Own”, realizzato con Larry Heard, “Set Me Free” o “Midnight Dancin'”, tutti sulla propria Target Records. Quando nasce il sodalizio con la Relief Records il suo suono si irrigidisce e acquista velocità e una nuova gamma cromatica. “Funky Disco” è uno dei 12″ che Lewis pubblica per l’appunto sull’etichetta di Green Velvet e dai quali emerge questo cambio di registro prima attraverso i ritmi a stantuffo della title track (a dispetto del titolo, di funky e disco non se ne vede l’ombra) e poi dalle stropicciature vocali di “Let Yourself Go” che un po’ suona come versione dopata del suono onirico del citato Heard ricontestualizzato su un frammento preso da “Nude Photo” di Rythim Is Rythim. Tra le altre, non manca la nota acida, “Confusion Land”, una possibile risposta a “Land Of Confusion” di Armando Gallop.

K-Alexi Shelby - All For Lee-Sah

K-Alexi Shelby – All For Lee-Sah
Tra i veterani della house della Windy City, Keith Alexander Shelby inizia ad armeggiare in studio negli anni Ottanta vantando pubblicazioni su etichette passate alla storia come D.J. International Records e la detroitiana Transmat. Proprio quest’ultima, nel 1989, pubblica “All For Lee-Sah”, un pezzo a metà strada tra acid house e techno corroborato da inserti vocali recitati quasi in modalità paranoica. Il lato b si apre con “My Medusa” dove TB-303 e TR-808 viaggiano in parallelo sviscerando le loro rispettive energie (un frammento della micidiale combo viene campionato dai belgi Atomizer per “Atom-B” del ’91). A chiudere è la simile “Vertigo”, dove l’acid line della scatola argentata della Roland continua a dimenarsi. A editare tutti i brani sul 12″ è Derrick May mentre l’artwork è di Alan Oldham che accompagnerà Shelby in una tappa del viaggio in Europa sulla Djax-Up-Beats (“Sex-N-R-001”, 1993).

Kareem Smith - Church Bells

Kareem Smith – Church Bells
È la Djax-Up-Beats a supportare il giovane Kareem Smith nella sua parabola artistica non intensa, iniziata nel ’91 dalla Saber Records in compagnia di Steve Poindexter di cui si parla più avanti. “There’s Some Hoes” è una brutalizzazione del suono ghetto, girata su un breve quanto ossessivo frammento vocale che non molla mai la presa. “Feel The Drums” è un’escursione in compagnia di una TR-909, “Lasertag ’96” è un cubo di Rubik dato alle fiamme, “Church Bells” pare un reprise non celato di “Circus Bells” di Robert Armani, descritta più giù.

L.A. Williams - Jedi Knight

L.A. Williams – Jedi Knight
Abile intagliatore di house e deep house, Lawrence Williams non disdegna affatto la techno che produce a fasi alterne. In questo “Jedi Knight”, mandato in stampa dalla Clashbackk Recordings nel 1996, si apprezzano prima le massicciate ritmiche sotto effetto ipnosi (“Logan’s Run”) e poi gli scontri fotonici tra sensualità e asperità acide (“Vadapod”). Dal ricco e variegato repertorio si evidenzia un piccolo gioiello techno del 1998, “This Is A Test”, e la tripletta destinata all’olandese Djax-Up-Beats tra ’95 e ’97 che Williams realizza in compagnia di Herbert Jackson e Spanky dei Phuture sotto lo pseudonimo Group X.

Lester Fitzpatrick - Frantic Frenzy

Lester Fitzpatrick – Frantic Frenzy
Un ottimo esempio della vena produttiva di Fitzpatrick è offerto da “Frantic Frenzy”, il primo EP che destina alla Relief Records nel 1995. Il brano di apertura, “Frantic Frenzy” per l’appunto, è un rullo compressore che si muove nei meandri del distorsore tirandosi dietro una tempesta di suonini in loop. Segue il sinusoidale “Tone Control” dove l’autore costruisce abilmente labirinti ipnotici. Il carico di intricati loopismi si ritrova sul lato b con “Mental Hardware”, dove i suoni sono tenuti insieme da un reticolo di filo spinato, e “Frequency Response”, continuum del precedente che ondeggia su un beat di impostazione ghetto. Dalla poderosa discografia di Lester Fitzpatrick emergono altre gemme come “Danger Room” sulla britannica Missile Records, con una cassa quasi Rotterdam style, e “Smash Traxx Vol. 1” sulla belga Minimalistix che elabora il ritmo su schemi millsiani.

Lil' Louis - The Original Video Clash

Lil’ Louis – The Original Video Clash
Il ban della BBC a causa di contenuti considerati troppo hot per essere mandati in onda non basta ad arginare il successo di “French Kiss” che, nel 1989, diventa un bestseller di dimensioni ciclopiche: licenziato da FFRR e dalla Epic, vende centinaia di migliaia di copie (tanti siti oggi riportano la cifra stellare di sei milioni ma senza mai specificarne la fonte). Per Marvin Burns, meglio noto come Lil’ Louis, è un tripudio ineguagliabile e ineguagliato. Circa un anno prima di conoscere il grande successo il DJ affida alla Dance Mania un brano in cui taglienti blipperie low-fi si infilano nei meandri di una rete ritmica che deflagra in più punti, lasciando scorrere magma e lapilli. Minimalismo, ciclicità, rotazione, visione techno: queste le linee sulle quali Burns crea “The Original Video Clash” che manda in frantumi i sound system e spinge alcuni concittadini a realizzare delle pseudo cover come Tyree Cooper e Mike Dunn, rispettivamente con “Video Crash” e “Magic Feet”. Molti anni più tardi salta fuori che in realtà anche quello di Louis è un rifacimento di un pezzo realizzato da Marshall Jefferson nel salotto di casa sua, alla presenza di vari amici tra cui Sterling Void, Kym Mazelle (che intona qualcosa sopra, in una sorta di jam session) e lo stesso Louis. «Lil’ insistette affinché dessi una copia su nastro a lui e non a Ron Hardy come ero solito fare, per suonarla in una delle sue feste» rammenta Jefferson in una vecchia intervista. «Una volta tornato a casa però, rimosse la parte vocale, fece delle modifiche e la pubblicò senza il mio nome. A quel punto, visto che in circolazione c’erano diversi dischi derivati dalla stessa idea, decisi di non accodarmi col mio, non volevo che il pubblico pensasse che avessi copiato». Il fatto che Lil’ Louis abbia aggiunto “The Original” nel titolo lascia supporre che la sua sia la versione originale e la perdita del nastro con la registrazione del vero originale di Jefferson (come confermato in questa intervista del 3 agosto 2009) rende inoppugnabile la vicenda. Tuttavia pare che Louis abbia deciso, una quindicina di anni or sono, di riconoscergli i diritti senza esitazione. «Adesso il denaro che genera il pezzo è poco o nullo ma giustizia è fatta» chiosa Jefferson.

Mike Dearborn - Unbalanced Frequency

Mike Dearborn – Unbalanced Frequency
Il debutto nel 1990 insieme a George Perry per “Make The Music” sulla Housetime Records che già lascia intravedere scenari technofili, gli stessi che l’anno dopo si ritrovano in “1991 (A New Age)” sulla Muzique Records di Armando e Steve Poindexter. La conferma arriva nel 1992 con “Unbalanced Frequency” sulla Djax-Up-Beats di Miss Djax con annesso artwork di Alan Oldham. Serpentine incandescenti (“Outer Limits”) e cordami ritmici (“8514”) si alternano alle sgroppate di 909 sul lato b (“Simply Complex”, “Harmonic Distortion”). È solo il primo disco di una lunga serie che Dearborn destina all’etichetta olandese, incluso un album, “Muzikal Journey”, crocevia di lame arroventate e febbricitanti propulsioni in cui c’è spazio pure per il remix di “Move” ad opera dei tedeschi Hardfloor. Gran parte del resto del repertorio convergerà nel catalogo della Majesty Recordings, l’etichetta da lui stesso fondata e gestita.

Paul Johnson - Foreign Music

Paul Johnson – Foreign Music
Ingiustamente ricordato dal grande pubblico solo per “Get Get Down” del ’99, costruito abilmente su un campionamento tratto da “Me And The Gang” di Hamilton Bohannon, il compianto Paul Johnson è stato uno degli assoluti protagonisti della scena di Chicago. La house music ha la meglio nel suo sconfinato repertorio ma non mancano gemme techno tipo quelle racchiuse nel “Foreign Music” (Djax-Up-Beats, 1993) come “Time Warp” o “U.F.O.”, a cui se ne sommano altre confluite nel doppio “Psycho Kong” dell’anno dopo. È sempre Johnson a realizzare, proprio nel 1994, “F_____n Suckin” per il progetto Traxmen su Dance Mania, in cui si recita una filastrocca farcita di parolacce su una base martellante e ipnotica. Inciso sul lato b del secondo volume di “Basement Traxx”, il pezzo parte dalle discoteche specializzate ma pian piano conquista favori nel nostro Paese finendo nel circuito generalista grazie al supporto di Albertino e Radio DeeJay.

Robert Armani - Armani Trax

Robert Armani – Armani Trax
Il suo vero nome è Robert Woods ma si ribattezza Robert Armani pare per tributare lo stilista italiano Giorgio Armani. Il debutto nel 1990 con “Armani Trax”, su Dance Mania, che riagguanta i minimalismi ritmici della house dei primordi per renderli autentici protagonisti e non più solo basi su cui innestare qualcosa. La traccia “Armani Trax” è esplicativa in tal senso, uno scheletro di pochi elementi che si rincorrono per tutta la stesura. Simile il contenuto del pezzo sul lato b destinato a diventare un classico, “Circus Bells”, dove il suono di una campana liquefatta e strisciante diviene una sorta di putrella costruttiva, un elemento portante e di sostegno per tutto il resto. A glorificarla ci penseranno i tedeschi Hardfloor nel 1993 attraverso uno dei primi remix della loro carriera. Sia “Armani Trax” che “Circus Bells” vengono riletti in due versioni da Armando Gallop, indicato altresì come presenter sull’etichetta centrale. Armani bissa la presenza su Dance Mania nel ’91 con “Ambulance” aperto dalla traccia omonima, una marcetta in cui shakera un lancinante suono che pare un sonar impazzito per qualche problema tecnico sopraggiunto negli abissi marini. Il pezzo raccoglie consensi in Europa, Italia compresa, dove giunge attraverso l’Extreme Records del gruppo Energy Production. Proprio in Italia l’artista trova da lì a breve un valido alleato discografico, l’etichetta capitolina ACV, che tra 1992 e 1997 pubblicherà ben sei album a cui si sommano numerosi EP.

Steve Poindexter - Demolition Man

Steve Poindexter – Demolition Man
Poindexter è un altro che assimila i traxismi pre novantiani per fonderli coerentemente coi suoi apporti trasformandoli in qualcosa di più muscolare e lanciarli in circuiti ad alto voltaggio. A venirne fuori è una felice sintesi riscontrabile in questo EP, pubblicato su Djax-Up-Beats nel 1997, in cui le cose appaiono chiare sin dal principio, quando parte “Demolition” che mette l’ascoltatore tra incudine e martello. “Return To The Getto” occhieggia al suono ghetto della Dance Mania, e probabilmente il titolo è un indizio rivelatore. “Express” è una pallina da flipper impazzita che urta contro il vetro lesionandolo, “Bring The Noice” scalpita ancora sui disegni ritmici fatti da clapperie e nervosi rullanti. Poindexter ha inciso anche un album, “Man At Work”, incentrato sulle squadrettature ritmiche tipiche della scuola chicagoana. A pubblicarlo, nel 1996, la romana ACV.

Terrance McDonald - Wreck The Floor

Terrance McDonald – Wreck The Floor
Lasciandosi alle spalle un timido esordio su Saber Records nel ’91, per Terrance McDonald si aprono le porte della Djax-Up-Beats che nel 1994 manda in stampa “Wreck The Floor”, coprodotto con l’amico DJ Skull. Le danze iniziano col brano omonimo, in buona sostanza una versione uptempo della house chicagoana targata ’85-’86 che scommette tutto sull’essenzialità e il minimalismo. Con “Electric Energy” l’autore inietta più elementi nei circuiti della sua musica, dotandola di soffici cuscini ottenuti con lunghi lead. Più ovattata l’edificazione dei suoni di “Pick Up The Pace”, issata da un breve messaggio vocale che ripete meccanicamente il titolo. Chiudono la rotolante “Hokus Pokus” e la seducente “Love Craze”. McDonald affida all’etichetta di Miss Djax un’altra manciata di EP in cui la techno divampa in modo ancora più intenso, “Hyper-Tension” e “X.S. NRG”, usciti entrambi nel 1995 ma sotto lo pseudonimo DJ Metal X.

Timewalkers - Melodic Butterfly

Timewalkers – Melodic Butterfly
Nel 1994, quando la belga Lightning Records (a cui fa capo la Bonzai guidata da Fly intervistato qui) inaugura il catalogo Unique Vinyl Movement con “Melodic Butterfly”, non esiste Discogs per individuare le coordinate autoriali. Sul centrino è riportato il nome di un certo Felix Stallings ma in pochi, specialmente in Italia, sanno chi sia. Il brano si presenta in due versioni, simili tra loro: la Thee Dark Mix lascia ondeggiare corone di fiori su un sequencer dal sapore quasi moroderiano, la Thee Lite Tribal Mix mette da parte le nuances più ombrose a favore di un panorama più cristallino. Dopo qualche mese la Unique Vinyl Movement commercializza un secondo (e ultimo) disco di Timewalkers, “This Is What I Believe In”, con cui l’autore prosegue la missione elaborando accuratamente la programmazione ritmica ed edificando un castello di suoni vaporosi dalle punte filo acide. Stallings concentrerà le energie su altri progetti come Aphrohead e soprattutto Felix Da Housecat con cui sfonderà nel pop nei primi anni del nuovo millennio quando incide l’album “Kittenz And Thee Glitz” trainato dall’arcinota “Silver Screen-Shower Scene” in coppia con la reginetta dell’electroclash, Miss Kittin.

Time For Techno - Get On It

Time For Techno Presents The Unknown – Get On It (Housetime Records)
Il nome che Derrick Carter sceglie per questa apparizione su Housetime Records del 1989 è già indicativo, ma ascoltare i cinque pezzi racchiusi all’interno dell’EP fuga definitivamente ogni dubbio. “Get On It” mostra il punto di avvio rappresentato da frequenze phaserizzate, pattern mandati in reverse, vocalizzi balbettanti, da “Velocity” in avanti si viaggia in dimensioni decisamente techno, “Abstract Expressionism” è una acid svisata con frequenti effetti backwards che diventano una vera e propria gimmick, “Non-Music No. 3” avanza a scatti come un androide pilotato da remoto, “Spirit Of Sound” chiude con annotazioni funk/disco ma fatte ribollire in un blocco ritmico duro come granito. Carter diventa un gigante della house ma non disdegnerà, seppur a tratti, di calarsi ancora in territori confinanti con la techno come avviene ad esempio con “Science Of Numbers” di Symbols & Instruments (KMS, 1989) “Shock Therapy” (Exploding Plastic Inevitable, 1994) o “Limbo Of Vanished Possibilities” di Tone Theory (Plink Plonk, 1995).

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Discommenti (luglio 2023)

Dischi Spranti

Various – Dischi Spranti (Dischi Spranti)
Max Nocco annunciò la nascita della Dischi Spranti attraverso un’intervista pubblicata un anno fa proprio su queste pagine. Per il debutto la neoetichetta salentina, curata dallo stesso Nocco e Marco Erroi, raccoglie otto tracce in un collage multicolore ancorato all’area elettronica. Si parte con Franza e la sua “What Game Are We Playing?” dove la linea di basso si accartoccia e finisce in una spirale di raggi luminosi, e Francesco Fisotti affiancato da Done e la loro “E Mi Chiamerai?”, un ganglio tra funk, boogie e hip hop con liriche in italiano. Con “Shibui” di Queemose giungono echi orientaleggianti incastrati in un comparto ritmico che affonda le radici in umori balearici, “My Ghetto Acid” di Rah Toth And The Brigante’s Orchestra è straniante afrobeat in slow motion da cui filtrano echi jazz mutanti trafitti da lascive lingue acide, “Mamanera” di Populous salda reggae, calypso e moombahton con inserti raggamuffin, “Dhalsim” di Kamaji torna a frugare in riferimenti orientali (forse un rimando al personaggio indiano del capcomiano “Street Fighter”?) spezzettati e srotolati su un tappeto uptempo, “Wonderboy” di Wonderboy pare nascere dalle viscere di “Need You Tonight” degli INXS innescando una cascata di suoni cristallini e agitando romanticismi new wave. In fondo c’è “Ylenia” di Michele Mininni, pronto a portare per mano l’ascoltatore verso aree di cosmo inesplorato, tra leftfieldismi sorridenti in salsa kraut. Un’iniziativa musicocentrica quella della Dischi Spranti, limitata alle 410 copie di cui 20 in versione splatter, 20 marmorizzate e 70 trasparenti, tutte numerate, le restanti invece su tradizionale plastica nera. A impreziosirle ulteriormente è l’arte di Massimo Pasca che ne ha curato la copertina. Un’opera davvero “spranta” dunque, termine derivato dal dialetto salentino che, come chiarito nell’info sheet promozionale, «è qualcosa tra il verace e il grezzo, l’irruento e il veloce, ma soprattutto vera e autentica», e oggi il mondo della musica ha bisogno più che mai di autenticità.

The Exaltics - The 7th Planet

The Exaltics – The 7th Planet (Clone West Coast Series)
L’electro è un genere su cui si è lanciata una pletora di artisti o presunti tali. L’altissima concentrazione produttiva ha prevedibilmente finito con l’appiattire la creatività e banalizzare certe formule diventate ordinarie e vacue quanto l’uso contemporaneo degli aggettivi “iconico” o “visionario”. Tuttavia esistono delle eccezioni come Robert Witschakowski alias The Exaltics che, nell’ultimo quindicennio, ha saputo dare un indirizzo personalizzato all’electro senza imitare o scomodare i geni del passato. La sua è stata un’escalation costante sviluppata attraverso un cospicuo repertorio a cui da una manciata di settimane si è aggiunto un nuovo album, il terzo per l’olandese Clone, dopo “Some Other Place” del 2014 e “II Worlds” del 2019. Le sorgenti ispirative restano le stesse a cui ci ha ormai abituati, passate magistralmente in rassegna in “The 7th Planet”, aperto da un intro (“Landing Process”) e chiuso da un outro (“We Would Do It”) che hanno il chiaro sapore di viaggi interspaziali. All’interno si articola un percorso dominato da geometrismi ritmici, bassi corpulenti e impianti armonici meccanici (“Lets Fly The Gravity Fighter”, “Higher Levels”, “Resurface”, “The Long Goodbye”), incapsulati sotto un’atmosfera severa, rigida, ulteriormente rafforzata dagli interventi vocali di Paris The Black Fu (“Did You See Them” e la meravigliosa “Lif Eono Ther Planets”, cupa e oppressiva ma dall’incontenibile vitalità). Di rilievo pure “They’re Coming From Everywhere” e “We Never Had A Chance” dove i riferimenti al suono acquatico di Drexciya sono evidenti ma, come sostenuto all’inizio, l’intenzione dell’artista tedesco va ben oltre lo scimmiottamento e l’epigonismo. Parte della tiratura è solcata su vinile rosso marmorizzato.

Orlando Voorn - Outerworld

Orlando Voorn – Outerworld (Trust)
Ennesima produzione per il prolifico e instancabile artista dei Paesi Bassi, questa volta al debutto sull’austriaca Trust. Comune denominatore è un’estetica affine alla scuola techno di Detroit che parte da un saliscendi pneumatico (“Shockwave”, per cui è stato realizzato anche un videoclip) dal quale si passa a un carrello elevatore impazzito issato da taglienti blipperie e sequenze mandate in reverse (“Outerworld”) e poi a un ascensore che precipita violentemente negli abissi marini (“Reverse Psychology”) alla ricerca di possibili nuove forme di vita subacquee. Nella nota conclusiva, “Space Trap” – una possibile storpiatura intenzionale e ironica del più canonico Space Trip? – , Voorn si cimenta in una base trap per l’appunto lanciata nelle oscurità spaziali.

Manhattan Project - More Time Delivery - Stay Forever

Manhattan Project – More Time Delivery/Stay Forever (Flashback Records)
Analogamente a quasi tutti i generi musicali, anche l’italo disco annovera artisti nazionalpopolari celebri persino nelle balere, e altri la cui notorietà è invece circoscritta a piccoli nuclei di adepti proprio come nel caso di Manhattan Project, guidato da Riccardo Maggese e passato alla storia con un 12″ del 1986, a cui abbiamo dedicato qui un ampio approfondimento, commercializzato in una copertina in tessuto firmata da Riccardo Naj-Oleari che senza dubbio ha contribuito ad alimentarne il culto. In qualche modo, questo ritorno inizia esattamente lì dove era finita quella timida comparsata di trentasette anni or sono e lo si intuisce subito osservando l’etichetta centrale, parodia di quella della City Record, e ascoltando “More Time Delivery” che porge immediatamente il gancio a “Guinnesmen”. Bassline nervosa, ampie planate di synth lead, un’impronta vocale romantica: gli ingredienti dell’italo più classica ci sono davvero tutti. “Stay Forever”, sul lato b, prosegue nello stesso solco, ma con un pizzico di eurodisco in più. A produrre il mix è il finlandese Kimmo Salo per la sua Flashback Records impegnata ormai da un ventennio sul fronte del recupero dell’italo disco. Degna di menzione anche la copertina con cui il designer Juan Calia cerca apertamente il parallelismo grafico e cromatico con quella di “That’s Impossible/Guinnesmen”, ormai un cimelio per cui i collezionisti più incalliti sono disposti a spendere più di qualche centone.

Jensen Interceptor - The Fontainebleau Plus Remixes

Jensen Interceptor – The Fontainebleau Plus Remixes (Monotone)
Mikey Melas, il fecondo produttore che ha preso l’alias artistico da una vecchia auto sportiva, approda sull’etichetta di Larry McCormick alias Exzakt con un brano, sinora riservato a una compilation giapponese del 2016, che pare essere saltato fuori da un nastro inciso durante il periodo della breakdance e dei ghettoblaster. Dall’ossessivo beat emerge un frammento vocale carpito da un classico hip hop, “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock, presenza praticamente fissa nelle performance ai campionati DMC a cavallo tra anni Ottanta e primi Novanta. A rendere il tutto più emozionante e brioso sono però i remix dai quali si irradiano nuovi fasci di suoni e ritmi: Exzakt e BFX arroventano la materia sino a renderla incandescente, Salome ne sollecita le torsioni velocizzando l’esecuzione e inserendo nuovi fill di batteria e qualche richiamo hoover, Cisco ‘The Advent’ Ferreira col figlio Zein si divertono a sfibrare un lungo pattern ritmico, e infine DJ Godfather arricchisce il tutto con nuovi elementi melodici. Old school never die.

Scandinavia Bass Dreams

Various – Scandinavia Bass Dreams (Stilleben Records)
Ennesimo various EP per la Stilleben Records, piccola etichetta svedese fondata da Luke Eargoggle alla fine degli anni Novanta e legata a doppio filo all’electro. Ad aprire le danze sono “NoTV” e “The Broadcast” dei Television, neo progetto islandese messo su da Thorgerdur e Kuldaboli e sviluppato attraverso strutture ritmiche convenzionali ridotte all’asso, impianti melodici altrettanto minimalisti guidati dal gusto per il cibernetico e atmosfere spaziali. Sul lato b “Velour” di Br.Beta, dove i protagonismi melodici sono limitati e la malinconia new wave viaggia su binari kraftwerkiani, e infine “Olivedal” di Sir Kenneth Ray, ennesima incursione in un suono rasserenante, placido, pacato, che lascia immaginare androidi con un cuore umano pulsante sotto la pelle in titanio.

Moana Pozzi - Dance Hits

Moana Pozzi – Dance Hits (Mondo Groove)
Era prevedibile che nel flusso interminabile di ristampe finisse anche il nome di Moana Pozzi, coinvolta in alcuni progetti discografici alla fine degli anni Ottanta come descritto qui. A trainare l’EP è “Supermacho”, un brano pubblicato originariamente nel 1989 dalla romana ACV Sound su un picture disc limitato a un centinaio di copie pare mai distribuite e per questo conteso a prezzi piuttosto considerevoli sul mercato dell’usato. A produrlo Paolo Rustichelli intrecciando ciò che restava dell’italo disco con un pulsante impianto ritmico a metà strada tra house music ed eurodisco. È sempre Rustichelli, trincerato dietro il moniker Jay Horus, a comporre “Impulsi Di Sesso” destinato al film (erotico ovviamente) “Diva Futura – L’Avventura Dell’Amore”, e “Let’s Dance”, finito sul lato b del 7″ “L’Ultima Notte”, pure questo sembra mai distribuito ufficialmente. A completare è “Bonita”, un inedito che, come spiega la Mondo Groove nelle note introduttive, era utilizzato dalla Pozzi per le sue esibizioni e in cui la vocalità ammiccante fa il verso alla sensualità di Jane Birkin. Cult o trash? Il confine diventa labile.

Konerytmi - Teoreema EP

Konerytmi – Teoreema EP (Domina Trxxx)
È diventato piuttosto complicato stare dietro a tutte le uscite di Konerytmi, l’ennesimo dei moniker che nel 2020 Kirill Junolainen ha aggiunto al suo già imponente repertorio. Per questo EP su Domina Trxxx l’artista russo trapiantato a Turku, in Finlandia, ripesca a piene mani dall’immenso calderone stilistico che contraddistinse le annate 1998-2002 fatto di continui rimandi retrò (electrofunk, italo disco, new wave, synth pop). Così quando parte “Breikkitanssi” si ha l’impressione di avere a che fare con una sorta di nuova “Space Invaders Are Smoking Grass”, “Teoreema” fruga nei vintagismi ritmici di 808iana memoria con ghirigori melodici, “Avaruusunelma” ha il sapore delle prime prove strumentali targate DMX Krew, “Tikkukaramelli” sterza verso una specie di house chicagoana, scheletrica, essenziale e minimalista. Quasi in contemporanea nei negozi è arrivato pure “Astrodanssi EP” su Electro Music Coalition, con cui l’instancabile Junolainen maneggia ambientalismi aphexiani e incandescenti filamenti acidi, a cui seguirà presto “Tietovirta EP” sulla sopramenzionata Stilleben Records.

PRZ - Synthetic Man

PRZ – Synthetic Man (Clone West Coast Series)
Gal Perez è alla seconda prova su Clone dopo “Wishmaker EP” del 2021. Questo nuovo disco riprende il discorso lasciato in sospeso dal precedente, su una possente formula electro techno drexciyana (“LFO Brain”, “Double Data”). Il lato b, con la title track “Synthetic Man”, parte alla volta di un suono più ruvido che ruota come una trivella producendo schegge acide che schizzano via come scintille durante un impegnativo lavoro di saldatura. A tirare il sipario è “Pulsar” con cui l’autore si lancia ancora a capofitto in soluzioni stinsoniane intersecate a sibilanti riff che accrescono il livello di tensione.

Dana

Dana – Estate (Disco Segreta)
Devota alla riscoperta di tesori nascosti della nostra produzione disco/filo disco/post disco ancorata al segmento temporale ’68-’89, la Disco Segreta sapientemente guidata da Carlo Simula si conferma come una delle “etichette di salvataggio” più attente e meticolose. Per l’occasione rimette in circolazione due pezzi (gli unici del repertorio?) dei Dana, band attiva tra ’77 e ’80 e capitanata dal cantante e musicista sardo Gianni Virdis. “Estate” esce originariamente nel ’77 sulla Tekno Record di Franco Idini in formato 7″, ed è un ridente pezzo disco funky dedicato alla stagione calda e in tal senso la Disco Segreta non avrebbe potuto scegliere momento migliore per rilanciarlo. Il lato b prosegue il discorso con “S’Inghelada” in cui il mood resta il medesimo con inserti vocali in vernacolo sardo con tanto di falsetto tipico della moda musicale di quel periodo influenzata dal successo planetario di “Saturday Night Fever”. Rimasti confinati a una diffusione regionale, come avveniva a tanti 45 giri prodotti da piccole indipendenti, e pare penalizzati da una masterizzazione e stampa non eccelsi, i brani dei Dana tornano quindi a riecheggiare a distanza di quasi mezzo secolo adeguatamente rimasterizzati e solcati su un 12″ colorato da 180 grammi. Appena cento però le copie stampate da Disco Segreta, destinate a trasformarsi a loro volta in memorabilia negli anni a venire.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di JP Energy

JP 1
I dischi di Gianpiero ‘JP Energy’ Pacetti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Avevo dodici anni e un caro amico, un pomeriggio dopo la scuola, mi fece ascoltare una musicassetta di un “certo” Jean-Michel Jarre. Si intitolava “Oxygène” e di quell’album mi colpì in particolare la parte V. Rimasi praticamente folgorato e corsi ad acquistarlo. Da quel momento si aprì un mondo e in me crebbero un entusiasmo e una curiosità molto forti nei confronti della musica elettronica al punto da farne motivo di studio e di percorso artistico della mia vita.

L’ultimo invece?
È un doppio di Freaky Chakra che mi lasciai sbadatamente sfuggire ai tempi dell’uscita, nel 1998, intitolato “Blacklight Fantasy” in cui si trova la traccia omonima finita nel film “Miami Vice” del 2006. Molti pezzi che propongo nei club spesso fanno parte di colonne sonore cinematografiche e a tal proposito potrei citare un’altra traccia che è stata un mio cavallo di battaglia, “Blue” di LaTour, inserita nel celebre “Basic Instinct” e solcata su un 12″ colorato, blu ovviamente. Uno dei motti che ho sempre portato avanti con forza, citandolo anche sui flyer accanto al mio nome, è stato “music for film”, immaginando che il pubblico venuto per ascoltare la mia musica potesse vivere, per l’appunto, un film nel club.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Sono arrivato a toccare la soglia dei 7000 dischi ma credo che a fare la differenza non sia la quantità bensì la qualità della musica selezionata con sapienza e gusto. Al momento ne possiedo circa 3000, sugli scaffali sono rimasti quelli radicati nel mio cuore. Spesso, in passato, ho acquistato dischi col preciso intento di capirli e studiarli, trattandoli quasi come cavie da laboratorio perché dovevo imparare e capire qualsiasi cosa. Credo pertanto di aver speso in vinile circa novanta milioni delle vecchie lire.

Dove è collocata e come è organizzata?
Tutti i miei dischi si trovano su una scaffalatura in metallo da me costruita e saldata visto che la metallurgia è un’altra grande passione che mi porto dietro insieme alla musica elettronica. Sono ordinati secondo l’etichetta e numero di catalogo e spesso riesco a riconoscerli dalla costola laterale o persino dallo spigolo della copertina. Sono lì, pronti al combattimento, come instancabili guerrieri.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Trovandosi in casa sono ben protetti dall’umidità. Per questa ragione non uso copertine supplementari in plastica ma mi limito a pulirli periodicamente con Vetril o semplicemente con acqua e sapone, un metodo vecchio ma sempre efficace.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo sì. Avvenne quando lavoravo come resident durante la stagione estiva al Cotton Club di Bardolino, sul Lago di Garda. Suonavo tutte le sere e per evitare il continuo trasporto presi l’abitudine di lasciare in consolle la valigia dei dischi. Nello specifico mi rubarono “Heaven And Hell” di Vangelis, per fortuna anni dopo sono riuscito a riacquistarlo a buon prezzo in un negozio di Portobello, a Londra.

C’è un disco a cui tieni di più?
No, considero importanti tutti i dischi che ho deciso di tenere, citarne uno per me sarebbe impossibile, è come se mi chiedessi di indicare il quadro più bello o il pittore più bravo. L’arte è fatta di confronti, senza essi non potremmo capirla. Per quanto riguarda la musica, sta a noi DJ interpretarla e selezionarla per poi cercare di persuadere qualcun altro ad apprezzarla, così come si fa coi capolavori su tela.

Quello che regaleresti volentieri o che ti sei pentito di aver comprato?
Ne regalerei molti, senza un motivo particolare, e nel contempo mi sono pentito di averne comprati parecchi ma del resto il rischio maggiore per coloro che volevano intraprendere il mestiere di DJ era proprio quello di toppare qualche acquisto. Per imparare a “leggere” la musica era inevitabile sbagliare, e questo risultava economicamente svantaggioso. Prima di acquistare un disco, infatti, si rifletteva dieci volte se fosse davvero quello giusto e solamente dopo si metteva mano al portafogli. Era un sistema che dava la giusta importanza alla musica. Oggi invece, grazie a internet e alla sua gratuità, ciò viene meno e di conseguenza tracce meravigliose possono essere ignorate. Per questo motivo ritengo che il vinile come supporto rappresenti ancora la scocca portante di un disc jockey.

Quello che ti piacerebbe possedere?
“You” dei Boytronic, con la versione strumentale sul lato b, preferibilmente in formato 12″. Purtroppo ho solo l’album da cui il pezzo venne estratto, “The Working Model”.

JP 2
JP Energy e la sua copia di “Oxygène” di Jean-Michel Jarre

Quello con la copertina più bella?
Sono tanti i dischi racchiusi in copertine meravigliose. Dovendone indicare una, probabilmente tornerei ancora al citato “Oxygène” col pianeta Terra che, sotto la superficie strappata, rivela un teschio umano. Nel 1976 Jarre fu illuminato in tutto e per tutto nel realizzare quell’album.

Nell’intervista finita nel libro Decadance Extra del 2015, affermi che la tua più grande passione sia mettere i dischi e non crearli. Tuttavia a partire dai primissimi anni Novanta hai iniziato a frequentare gli studi di registrazione incidendo diverse produzioni, da “Neo Sound” di Psycho 60 ad “Atmosphere Tropical” di Maldido Primitivo, insieme a Marco Biondi e Paolo Armaroli, da “The First EP” di Dinamic Duo con Francesco Zappalà a una serie di EP a nome JP Energy come “Strano”, prodotto dal citato Zappalà su Progressive Music Production, e una tripletta su Spectrum – Civiltà Del Suono (“Prima Dell’Alba/Forbidden Planet”, “Il Ritmo Digitale”, “I Have A Pessimistic Outlook Of Life”). Ai tempi, per un DJ come te, cosa voleva dire creare musica?
Fare esperienze in studio per me era una forma di confronto con coloro che la musica la inventavano e creavano già da tempo. Ho sempre sostenuto che un buon disc jockey, di solito, non è mai un abile produttore e viceversa, un valido produttore difficilmente si rivela un capace disc jockey. Per techno ed elettronica in generale, gli anni Novanta sono stati eccezionali e rivoluzionari, chi aveva coraggio e intelligenza artistica poteva osare, e non poco, e io l’ho fatto, con conseguenze positive (poche) e negative (molte) che mi sono portato dietro. Le rivoluzioni hanno i loro uomini e io sono stato parte di quella rivoluzione, con buona pace di tutti coloro che hanno preferito sfruttare quel momento in modo opportunistico da incapaci o parassiti. In studio conoscevo a memoria tutti i banchi dei miei sintetizzatori, dal Roland Jupiter-6 all’ARP 2600, dal Roland Juno-106 al Chroma Polaris, dal Roland JD-800 al Sequential Prophet-5. Era entusiasmante e in tutto questo mi aiutava un bravo musicista, Paolo Armaroli. Smanettavo continuamente quelle potenti macchine e a volte occorrevano ore per ottenere un solo suono tanta era la mia meticolosità. I dischi poi nascevano spesso dai miei stati d’animo ma la produzione, nonostante l’ardente passione, non prese mai il sopravvento, il mio ruolo è sempre stato quello di suonare dischi creati da altri. Non a caso avevo chiuso definitivamente nel cassetto varie tracce scritte e prodotte ai tempi ma qualche mese fa si è fatta avanti una giovane etichetta, la Evasione Digitale, proponendomi la pubblicazione su vinile. Il 12″ dovrebbe uscire a metà settembre e di questo ne sono felice ma non ripongo aspettative velleitarie, continuo a considerarmi un DJ e non un produttore. Basti pensare che non possiedo le copie di tutti i dischi che ho fatto e recuperarle oggi potrebbe voler dire spendere parecchio denaro viste le quotazioni raggiunte da alcuni su Discogs, su tutti “Prima Dell’Alba/Forbidden Planet” che anni addietro è stato venduto per 290 €.

Le produzioni discografiche però sono state determinanti per la carriera di molti DJ, talvolta riuscendo persino a supplire discutibili doti in consolle. A posteriori, avresti voluto investire più risorse ed energie nell’ambito produttivo?
No, come dicevo prima la mia vera e profonda passione è stata, è e sarà sempre mettere dischi come disc jockey. Il compito di questo è selezionare musica, saperla interpretare, leggerla, studiarla profondamente per poi proporla al pubblico ipnotizzandolo. Si tratta di vera e propria arte. Il disc jockey è intuito, gusto, velocità di ragionamento, sguardo sempre attento alla pista. Prima di mettere il primo disco, mi soffermo qualche secondo sulle persone che ho davanti per creare una connessione empatica. Non mi sono mai fatto aggredire anzi, ho sempre “aggredito”, consapevole del mio particolare suono, affrontando il tutto con coraggio e senza paura.

C’è un disco che avresti voluto produrre?
“Could This Be Love?” di Kerry Shaw, nella Chameleon Mix, uscito sulla britannica Parlophone nel 1993. A circa metà della stesura fa ingresso un giro di synth strepitoso, sia nel suono che nell’esecuzione. Ho sempre considerato quel pezzo uno dei più belli della techno, insuperabile.

JP 4
JP Energy in consolle al Cyber Garage di Flero (Brescia). Alle spalle il logo del suo negozio di dischi, Mandragora

In Decadance Extra racconti pure che per i primi sei mesi il pubblico del Cyber Garage ti fischiò regolarmente, spinto anche da chi occupava prima di te la consolle. Che fine avevano fatto i frequentatori a cui facevi riferimento in un’intervista del settembre 2005 menzionata in “Mondo Techno” di Andrea Benedetti (intervistato qui), che ai tempi della cosiddetta “musica afro” erano pronti a recepire? Col passare degli anni sono forse venuti meno anche quei proprietari di locali che, citandoti ancora, «lasciavano liberi i DJ di fare come volevano»?
Quello del Cyber Garage fu solo uno dei tanti episodi che, a malincuore, ho vissuto. Gli ipocriti tronfi che mi affiancavano in consolle tentavano di allontanare le persone dalla pista ma alla fine è stato il pubblico a decidere e scegliere. Nella stagione 2006, al Mazoom di Desenzano del Garda, mi capitò che l’art director, in preda chissà a quale delirio, sia corso in consolle per dirmi che stessi facendo ballare troppo e che la mia sala, di conseguenza, stava portando via gente alle altre piste. Praticamente ovunque ho trovato ignoranti che, per usare un termine alla Marco Biondi, amico di vecchia data (intervistato qui, nda), entravano a gamba tesa per mettere i bastoni tra le ruote del mio entusiasmo. Dopo tanti anni di permanenza in quel settore sono arrivato al “capolinea”, non ne potevo più, e benedico il giorno in cui mandai tutti al diavolo. Ciò non ha spento ovviamente il mio amore per la musica elettronica. Liberato da coloro che vivono quel mondo con invidia e gelosia, i famosi “vanity DJ”, mi sono ritagliato più tempo per esplorare e apprezzare il suono che più mi piace perché il problema maggiore non era certamente rappresentato dal pubblico con cui confrontarmi bensì dal rapporto coi DJ coi quali dividevo la consolle.

«La serata non la fai quando sei in discoteca dietro la consolle ma a casa mentre prepari la borsa dei dischi. In quella borsa ci sono infinite scelte: emozioni del momento, memoria storica, ascolti radiofonici casuali che ti portano a scavare nell’archivio e recuperare qualche vecchio vinile. Poi dovrai individuare il disco giusto per quella particolare serata e per quel particolare pubblico, e avere la forza di mettere da parte il brano fruibile troppo facilmente»: così scriveva nel 2007 Claudio Coccoluto in “Io, DJ”, ripubblicato giusto di recente in una versione aggiornata curata dal figlio Gianmaria. Quanto è rimasto di questo approccio nel moderno DJing? Buona parte di coloro che oggi si professano DJ, specialmente quelli coinvolti nei maxi eventi, mi sembrano totalmente scollegati e agli antipodi da tale rapporto con la musica, a prescindere dal supporto adoperato.
Coccoluto aveva ragione. Quello che descriveva nel libro lo chiamo mestiere, portato avanti da gente come il maestro Hell o “lo zio” Sven (Väth, nda). Loro sono autentici disc jockey che arrivano da uno studio assai approfondito della musica e quindi sono in grado di manipolarla e proporla al pubblico con massima consapevolezza. Per essere un DJ non basta saper mixare due brani, la differenza la fa la sequenza che può essere micidiale. Come in tutti i lavori, occorre umiltà ed esperienza, doti che oggi purtroppo mancano a buona parte di coloro che si cimentano in questa professione, più attenti all’apparire che all’essere a discapito della musica.

JP 3
Una delle opere realizzate da Pacetti con una testa di manichino

Nella primavera del 1995 a Brescia apri il tuo negozio di dischi, Mandragora, rimasto per anni un punto di riferimento per chi era alla ricerca di musica diversa rispetto a quella che circolava maggiormente nel nostro Paese e che tu proponevi nei club, come testimonia questa chart del 1997. Quali sono le prime cose che ti tornano in mente ripensando a quel posto?
Correva il maggio del 1995 quando alzai la saracinesca di Mandragora Dischi – Dischi Per Disc Jockey, così com’era scritto sulle buste. Fu un’avventura che intrapresi con tanto coraggio, un po’ di ingenuità (che non fa mai male), tanta passione e un conto corrente davvero misero. Feci quel passo anche in barba a Francesco Zappalà visto che, sino a pochi mesi prima, lavoravo da lui a KZ Sound, a Milano. Fu proprio Francesco ad avanzare la proposta di aprire in società un nuovo negozio a Brescia ma nel momento di concretizzare si tirò indietro. Così nacque Mandragora. Ogni settimana arrivavano dai tre ai quattro colli di dischi dalla Germania, Paesi Bassi e Regno Unito e mensilmente riuscivo a vendere dalle 5000 alle 6000 copie. Il sabato sera chiudevo alle 21:00 e tutto era sold out. Fu così per undici anni. In seguito cedetti l’attività con una giacenza di appena 38 dischi. Oltre all’arredamento, interamente costruito da me, avevo appeso ai muri delle sculture che avevo realizzato modificando le teste dei manichini usati dai parrucchieri. In un angolo poi avevo allestito una specie di parlatoio in ferro da dove, il sabato pomeriggio, tenevo orazioni sulla musica elettronica. Da questi aneddoti è facile intuire come Mandragora pulsasse di vita, non era un semplice negozio ma un luogo massonico dedito alla rivoluzione, un motore endotermico trainante, arte insomma.

In Decadance Extra, tra le altre cose, hai anche affermato che tra i clienti di Mandragora c’erano svariati famosi DJ, di continuo passaggio a Brescia perché a pochi chilometri di distanza sorgeva la Media Records, vero crocevia di personaggi che gravitavano in quel mondo, ma aggiungendo che la maggior parte di essi comprava dischi solo per «catturare idee e ispirazioni per le proprie produzioni e non per proporli durante le serate». Mancava dunque il coraggio per promuovere musica diversa? Ci si accontentava di dare al pubblico quello che si aspettava per evitare eventuali disapprovazioni?
Come dicevo prima, gli anni Novanta hanno rappresentato un’opportunità straordinaria per chi voleva fare il disc jockey. Tuttavia ritengo che solo in pochi abbiano avuto il coraggio di esprimere la propria vocazione musicale. Quando vendevo dischi alla maggior parte dei DJ della Media Records lo facevo sempre con un certo rammarico: ero sicuro che difficilmente li avrebbero suonati nei club. Li acquistavano col preciso intento di copiarli, storpiandoli brutalmente. La maggior parte di questi “fenomeni” ha sempre pensato, con presunzione fuori da ogni limite, di potersi sostituire alla grande scuola techno attraverso una personale reinterpretazione della stessa. Basti pensare a quante varianti nacquero in Italia in quegli anni, dalla mediterranean progressive alla tribal space, dall’underground all’italo piano passando per la percussion astral. Insomma, una serie di stronzate inventate di sana pianta da chi non aveva idee e creatività ma era ossessionato dal voler diventare DJ a tutti i costi. Se da un lato c’era poca proposta da parte dei disc jockey, dall’altro c’erano anche i proprietari dei locali che non avevano alcuna esperienza. Non ne ho mai trovato uno disposto a darmi carta bianca, la maggior parte di quelli con cui ho avuto a che fare erano imprenditori improvvisati con ben poca intelligenza. Se mi avessero lasciato lavorare in pace, probabilmente qui al nord ci sarebbero ancora un paio di club degni del rispetto internazionale.

JP 6
Una foto del maggio 1989 che immortala l’ingresso dello Space Boat, discoteca galleggiante a forma di astronave ormeggiata sul Lago di Garda in cui JP Energy lavora tra ’89 e ’91

Quando un DJ fallisce la sua missione?
Nel momento in cui non studia la propria musica in modo approfondito, quando vuole far credere a se stesso di avere passione ma non ne ha, quando è povero di umiltà, quando non sa confrontarsi e comunicare con chi gli sta intorno.

Nel tuo passato c’è anche l’esperienza a Radio Azzurra: cosa pensi dell’FM tricolore contemporaneo?
Quando sono in automobile accendo la radio con la speranza di poter ascoltare buona musica, non necessariamente elettronica, ma è impossibile restare fermo su una frequenza per più di un paio di minuti. Mi sembra sia solo un flusso studiato a tavolino che mira al consumismo senza divulgazione e cultura musicale. Faccio fatica anche a distinguere un’emittente dall’altra, sono praticamente tutte uguali. Nel periodo in cui ho lavorato a Radio Azzurra, nel triennio 1989-1990-1991, ho cercato in tutti i modi di sfruttare il nome che a quel tempo aveva la radio bresciana per divulgare nuovi messaggi musicali ma non mi fu permesso. Non c’è stata la volontà e il coraggio di guardare avanti, la direzione era fermamente convinta che si potesse e dovesse proseguire col vecchio palinsesto. Se mi avessero assecondato, almeno in qualcosa, avrei costruito una sorta di radio del futuro, ma ai disc jockey afro ciò dava molto fastidio. Il loro più grande errore fu non comprendere l’entità della grande rivoluzione che stava incombendo nei primi anni Novanta e, con fare presuntuoso, rifiutarono la sfida.

Gli anni Novanta hanno conosciuto il proliferare di riviste e free magazine che, in qualche modo, alimentavano l’interesse nei confronti della musica. Quasi interamente estinto nella forma cartacea, il settore ha trovato nuovo terreno fertile in Rete dove però, a detta di molti, velocità e immediatezza fanno spesso il paio con approssimazione e inesperienza. Ci sono realtà che consiglieresti per accrescere il proprio sapere?
Non conosco siti particolarmente attendibili. Navigo poco, preferisco leggere ancora un buon libro (cartaceo) di musica. Non avendo filtri, il mondo del web è manipolabile e quindi difficilmente credibile. Visto che chiunque può accedere e scrivere ciò che vuole, è chiaro che la faccenda sia particolarmente complessa. Le mie fonti sicure, dalle quali attingo sia nella sfera musicale che in quella della metallurgia, sono ancora rappresentate dai vecchi e cari libri. Ormai internet è un mezzo usato più per apparire e tutto diventa potenzialmente fuorviante.

JP 5
Uno scatto risalente alla metà degli anni Novanta con JP Energy e Lello B nella discoteca torinese Le Palace

Viviamo in un’era impazzita per tutto ciò che è rétro e commemorativo. La musica elettronica, in particolare, trabocca di rifacimenti e riciclaggi ovvi e scontati, piuttosto diversi rispetto a quelli più fantasiosi generati dall’ondata sampledelica una trentina di anni fa. La nostalgia sta dunque bloccando la nostra capacità culturale di guardare avanti oppure siamo diventati incalliti nostalgici perché la cultura ha smesso di progredire?
Fare musica di un certo tipo comporta sacrificio, passione, dedizione, ingegno e volontà ma in pochi oggi riescono ad associare tutte queste qualità. È più facile lanciarsi a capofitto nel passato, così come fanno certe radio che propongono solo musica datata, e sperare di vivere una seconda giovinezza. Del resto gran parte della musica contemporanea è fatta da interpreti che nascondono le proprie incapacità dietro l’autotune e turnisti/strumentisti a buon mercato. La musica del passato, in un modo o nell’altro, ritorna, sta a noi che la selezioniamo capire quanto sia efficace.

Come ti poni rispetto all’industrializzazione del divertimento? Quella che sembrava una conquista sta forse rivelando un nefasto effetto boomerang?
La rovina della musica techno/elettronica, in Italia, è legata alla mitizzazione della figura del disc jockey, miseramente sfruttata per mere vanità personali. La musica, per me, è un affare serio e resta una delle ultime grandi forme di comunicazione. Dovremmo imparare a viverla e ascoltarla anche se, a volte, ci sembrerà un po’ strana.

Estrai dalla tua collezione una serie di dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

The Alan Parsons Project - I RobotThe Alan Parsons Project – I Robot
In questa traccia che apriva l’album omonimo del 1977 ho sempre sentito tutta la musica possibile e immaginabile. La trovo di una completezza impressionante seppur non ci sia un testo cantato ma soltanto meravigliosi cori. Del resto, come affermava il Maestro Ryuichi Sakamoto, non sempre il cantato è necessario, anzi.

Love And Rockets - Ball Of ConfusionLove And Rockets – Ball Of Confusion
Dalle ceneri dei Bauhaus nacquero i Love And Rockets che hanno inventato un rock n roll elettronico che lascia esterrefatti. Seppero trasformarsi lasciandosi alle spalle scheletri e stereotipi che non avrebbero portato più a nulla. Ai tempi dell’uscita, nel 1985, trovai questo brano superlativo, wave giocata in anticipo nell’intero contesto di popular music.

The KLF - What Time Is LoveThe KLF – What Time Is Love?
Un’arma letale che diede inizio alla rivoluzione, un disco semplicemente seminale. La genialità, in “What Time Is Love?”, risiede nei suoni che sono stati usati, dalla cassa al giro di basso “rubato” alla colonna sonora di “Jesus Christ Superstar” (nello specifico il brano “Heaven On Their Minds (Judas)”, nda) che si esalta all’infinito nella sua metamorfosi elettronica.

Revelation - First Power (Domination Dub)Revelation – First Power (Domination Dub)
Tra il 1989 e il 1990 Tommy Musto e Frankie Bones hanno scritto e prodotto brani di notevole fattura ma questa traccia, uscita sulla Atmosphere Records e attribuibile a Mundo Muzique, è veramente magica. Per quelli come me, ai tempi, mettere pezzi come questo voleva dire fare rivoluzione. Il disco, memorabile, in sala suonava in modo etereo e avvolgente.

Zen Paradox - The Light At The End...Zen Paradox – The Light At The End… ?
Possiedo tre copie di questo mix pubblicato nel 1994 dalla prestigiosa etichetta belga Nova Zembla su licenza dell’australiana Psy-Harmonics e l’ho suonato allo sfinimento. Ho perso il conto delle volte che ho aperto i set con “The Light At The End… ?”. Un capolavoro assoluto, in stesura e ricerca dei suoni, una traccia di finezza esemplare, per me era davvero impossibile non proporla.

Der Zyklus - Der TonimpulstestDer Zyklus – Der Tonimpulstest
Der Zyklus è l’ennesimo degli pseudonimi di Gerald Donald (qui affiancato da Anthony “Shake” Shakir, nda). “Der Tonimpulstest” e “Die Dämmerung Von Nanotech”, pubblicate nel 1998 dalla International DeeJay Gigolo, sono il ricordo e parte di ciò che mi ha identificato al Cyber Garage. Erano i suoni che ho usato per cambiare quel locale, proposti come alternativa alle solite, grossolane e monotone, cassone di TR-909. I suoni sono freddi e spigolosi, privi di particolari allunghi in eco o riverberi, ma il risultato è notevole per ricerca ed efficacia. Un disco perfetto per rappresentare “la cultura dei robot”, slogan che rimandava ai romanzi di fantascienza di Isaac Asimov che coniai con l’intenzione di far capire al pubblico che anche i robot potevano avere una cultura e che i suoni “freddi” della musica elettronica, alla fine, non erano tali come si credeva anzi, potevano colpire il cuore in modo ancora più intenso rispetto a quelli generati dagli strumenti tradizionali.

Petar Dundov - Distant ShoresPetar Dundov – Distant Shores
Si dice che la musica venga portata avanti da coloro che, con genialità, inventano qualcosa di nuovo e che poi ispirerà altri a fare lo stesso. Ebbene Dundov, con questa traccia del 2010 sulla belga Music Man Records, ha scritto un capitolo importante della musica elettronica contemporanea. “Distant Shores” è rivoluzionaria nella rivoluzione, suonarla per me è stato sempre assai emozionante, lasciata scorrere sino alla fine degli oltre dodici minuti: per persuadere il pubblico bisogna avere il coraggio di non cambiarla prima.

Exillon - Mind Techno ControlExillon – Mind Techno Control
Una traccia lunga una vita, pure questa da suonare per intero dall’inizio alla fine dei quasi dieci minuti. La stesura, da brividi, la rende unica e personale, molto vicina allo stile di Detroit. Pubblicato dalla spagnola Frigio Records nel 2013, “Mind Techno Control” è un pezzo che bisogna saper proporre e gestire per colpire positivamente il proprio pubblico.

Agoria - Altre VociAgoria – Altre Voci
Con questo pezzo di Agoria, racchiuso nell’album “Go Fast” uscito nel 2008, torna il concetto “music for film” di cui parlavo prima. Qui l’artista francese esplora con indiscussa bravura il collegamento tra musica e oscuro. L’abilità del disc jockey che intende passare un pezzo come questo risiede nel saperlo collocare al momento giusto del proprio programma.

Keen K-P. Muench - The SpiralKeen K/P. Muench – The Spiral (Makina Girgir Twilight Remix)
Una delle più belle tracce che abbia mai sentito e suonato negli ultimi anni. Solcata su un vinile trasparente dalla Perfect Stranger Records nel 2009, “The Spiral”, remixata da Makina Girgir, possiede una magia unica derivata dall’intreccio tra i suoni e la parte cantata. Non mi stancherò mai di proporla e me la porterò pure nel viaggio con Xibalba.

ZK Bucket - Your Body (The Drifter Remix)ZK Bucket – Your Body (The Drifter Remix)
Estratta dall’EP intitolato “Excess Labour” e pubblicato dalla berlinese Zaun Records nel 2016, la versione di The Drifter di “Your Body” è una delle tracce uscite nel periodo pre pandemico che ho suonato all’esasperazione. A colpirmi di più è il sapore del suono intriso di passato ma riproposto in chiave odierna. Oggi è davvero difficile scovare musica di tale fattura.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Discommenti (maggio 2023)

Intergalactic Gary

Intergalactic Gary – Industrial Models (Viewlexx)
Per l’etichetta di I-f, gli ultimi anni sono trascorsi sotto il segno del ritrovato legame con le tinte gotiche e industriali che in questo caso vedono come protagonista John Scheffer alias Intergalactic Gary, DJ dalla poderosa preparazione e partner in crime proprio di I-f in act come The Parallax Corporation e The Conservatives che, nei primi anni Duemila, ridisegnarono le traiettorie italo disco in una salsa più scura. Non particolarmente prolifico sotto il profilo compositivo, Scheffer assembla quattro tracce che scrutano nelle tenebre contraddistinte da distorsioni e subitanee variazioni ritmiche. “Industrial Model” è la più appetibile per la pista, il resto si contorce sotto la spinta di pistoni e bracci idraulici che provocano scintille (“The ELKA Experiment”, “Remodel”) sino alla funerea “Elements And Space”. La colonna sonora di uno scenario distopico, con giganteschi poli industriali abbandonati sotto un cielo plumbeo carico di pioggia. Per certi versi, la musica più adatta ai tempi bui che viviamo.

Let's Go Into Space 7

Various – Let’s Go Into Space 7 (Private Records)
Settimo atto per la compilation tematica promossa da Private Records, tra le “etichette di salvataggio” più attive e propositive nell’ultimo decennio circa. Per l’occasione il fondatore/curatore Janis Nowacki mette insieme otto pezzi tratti dall’archivio della cecoslovacca Supraphon: filo conduttore, oltre al genere musicale, tendenzialmente synth disco, è l’ardua reperibilità sul mercato dell’usato. «Materiale che non ha nulla da invidiare all’italo disco in termini di rarità e valore collezionistico» afferma con sicurezza Nowacki, invitando a sincerarsi delle quotazioni su Discogs, fatta eccezione giusto per una manciata di titoli abbordabili a costi irrisori. Da “Digi – Digi” delle Filigrán, una specie di risposta cecoslovacca alle Flirts di Bobby Orlando, a “Jupiter” di Odysseus, da “Módní-Líbezná” di Magda Malá e Allegro a “Kolik Týdnů Ještě Zbývá” e “Báječně Spát” di Kamila Olšaníková & Sirius, da “Hodili Mě Do Vody” dei Maximum Petra Hanniga a “Den Co Den” di Arnošt Pátek per finire su “Diskotango” di Arašid. Una collection di pregio per i collezionisti, con qualche inevitabile deriva kitsch, ma che con molta probabilità è destinata a diventare a sua volta una rarità anche in virtù della tiratura limitata alle 500 copie.

Gina Breeze

Gina Breeze Ft. Ted Rogers – Freak (DJ Hell Queer Rave Retouch 2023) (The DJ Hell Experience)
Originariamente pubblicata nel 2020 sulla Me Me Me (era in “Live For Love”), “Freak” rivive in una versione di Hell che inietta energia nei circuiti ritmici e spinge verso sponde techno EBM con un imprinting abrasivo e graffiante che fa il verso a quello del Fixmer di inizio carriera che proprio Hell supportò dal 1999 in avanti. Un buon punto a vantaggio della DJ britannica di stanza a Manchester, new entry per The DJ Hell Experience, l’etichetta che il noto DJ tedesco ha lanciato pochi anni fa e che sembra aver preso definitivamente il posto dell’indimenticata International DeeJay Gigolo, inattiva ormai dal 2019.

Italcimenti

Italcimenti – Under Construction (Bosconi Records)
Un album che proprio nuovo non è visto che risale al 2005, quando viene pubblicato solo in formato CD. Diciotto anni più tardi ci pensa la fiorentina Bosconi Records a solcare l’LP di Maurizio Dami e Lapo Lombardi per l’occasione nascosti dietro lo pseudonimo Italcimenti, ironica parodia di Italcementi con trasformazione annessa dei due musicisti in operai con tanto di pala e piccone, intenti a prendere la vecchia italo disco e strapazzarla aggiornandola coi suoni dell’electro house che a metà anni Duemila vive il suo momento dorato. Tanti i pezzi racchiusi all’interno, tutti opportunamente rimasterizzati da Niccolò Caldini del suo Tea Room Mastering, da “Trigger Happy”, rigato da melodie cinematografiche, a “Disco Tamarro”, ancorato a un mood squisitamente pfunk, dal sinuoso “Bencio” (in circolazione dal 2004, si veda la raccolta “Pop Fiction” sulla francese Hot Banana di Kiko) a “Bela Lugosi Is Dead”, cover synth technoide del classico dei Bauhaus sino a “Like A Dreamer”, una sorta di take della pietra miliare che Dami realizza nel 1983 come Alexander Robotnick, “Problèmes D’Amour”, di cui parliamo approfonditamente qui. All’appello rispondono pure due inediti, l’Italo Club Mix di “Beyond The Mind” (l’unico che vide luce su 12″ nel 2005), e “Somewhat You Need” che i più attenti però conoscono già visto che su YouTube, dal 2008, c’è un divertente videoclip home made che a oggi conta più di cinquantamila visualizzazioni.

Speakwave

Speakwave – Cartographic Venture (Bordello A Parigi)
L’artista originario di Strasburgo affida alla prolifica Bordello A Parigi questo EP con cui rimaterializza l’alter ego Speakwave. Nel complesso pare una summa delle declinazioni stilistiche che il francese convoglia, da ormai un ventennio a questa parte, nei suoi due progetti, il più noto Dynarec, ricco di influssi e diramazioni drexciyani, e Chris Kalera, attraverso il quale dà sfogo alla passione per l’electro pop in stile Pet Shop Boys, band di cui è accanito fan. Questo lo capiamo subito da “Coming On Monday” con una sezione vocale, da lui stesso interpretata, che suona come chiaro omaggio a Neil Tennant. “Exposition To Revolution” si lancia a capofitto in atmosfere incantate mentre “Cartographic Venture” galleggia su un materasso di nuvole e fioriture melodiche poi sospinte sui declivi stereofonici di un sogno scandito da interventi vocali che un po’ ricordano “Konfektion” di Heckmann ed Henze.

Art P

Art P/Die Synthetische Republik – Genscher Pull ‘N’ Push/Der Böse Osten (The Outer Edge)
La retromania teorizzata da Simon Reynolds nell’omonimo libro del 2011 è ormai diventata parte integrante del nostro presente, basti pensare al retro marketing attraverso il quale un numero crescente di aziende fa leva sul passato e sulla nostalgia per catturare l’attenzione del pubblico. In questo momento storico il passato offre un’idea di certezza che controbilancia con efficacia le tante incognite del presente, tra pandemia, crisi economica, conflitti bellici e preoccupanti cambiamenti climatici. L’ambito discografico, nello specifico, ha registrato un aumento esponenziale delle realtà interamente dedite al recupero di materiale vintage, edito e non, e nel 2022 alla lista si è aggiunta la berlinese The Outer Edge, diretta da DJ Scientist, che per l’occasione torna a riabilitare la musica degli Art P dopo “No Message” dello scorso autunno. Creato a Brema nel 1982 dall’incontro tra Jens-Markus Wegener e Frank Grotelüschen, il progetto resta confinato per ben quarant’anni in nastri di cassette autoprodotte su una pseudo etichetta, la P.A.P., acronimo di Programming Art Productions. Ora è giunto il tempo di una diffusione maggiore e soprattutto non più legata ai confini geografici, difficilmente valicabili ai tempi in assenza di una casa discografica ben organizzata. Sul 12″ finiscono “Genscher Pull ‘N’ Push”, registrato nell’ottobre ’82 e contenente un testo politico rivolto ad Hans-Dietrich Genscher, allora ministro federale degli affari esteri della Germania Ovest, una versione remix di “Polaroid” ritoccata dal citato Scientist e “Der Böse Osten” di Die Synthetische Republik (Wegener e Olav Neander), recuperata da un nastro del 1984. Nelle note introduttive la Outer Edge parla di proto techno ma fondamentalmente si tratta di minimal synth, «un filone apparentemente inesauribile di elettronica do-it-yourself dei primi anni Ottanta, low budget e di norma pubblicata in proprio spesso solo su cassetta, da gruppi che sarebbero diventati i Depeche Mode o i Soft Cell se fossero stati capaci di scrivere una canzone, oppure cloni dei Suicide, DAF e Fad Gadget» come descrive Reynolds nel sopraccitato libro. Vista la presenza di testi in tedesco, appare sensato parlare più di Neue Deutsche Welle che di techno. In un futuro non lontano potremmo forse aspettarci i reissue di Dual Frequency, Eiskalte Engel, Die Hornissen o Partner Eins?

Giano Electronics Vol. 1

Various – Giano Electronics Vol. 1 (Giano Electronics)
Partenza esaltante per la romana Giano Electronics che mette nero su bianco le sue intenzioni con un ricco extended play composto da cinque tracce. T/Error sfodera beat taglienti in “Neuromancer” che incorniciano sussulti electro e graffiate acide, JFrank, con “Premeditatio Malorum”, si cala in cervellotiche poliritmie, Akkaelle batte sull’incudine la materia di “Capacitor Discharge” spappolandola in mille frammenti che volano via come lapilli vulcanici. Poi gli Anywave con “Cphrigyan Acid”, decorata da riccioli di 303 e un metti e togli di elevazioni breaks, e a chiudere “A Few Thoughts Away” di Heinrich Dressel che intaglia con maestria synth music dall’imprinting cinematografico, sospesa in atmosfere tenebrose, a tratti spettrali, sotto le quali si dipana un’algida marzialità meccanica.

Ekman

Ekman – The Strange Vice Of.. Ekman – Part 1/2 (Crème Organization)
Uscirà tra poche settimane questa raccolta di inediti suddivisa in due 12″ che colloca al centro la musica dell’olandese Ekman e riporta in attività l’etichetta di DJ TLR, destandola dal torpore in cui era piombata negli ultimi anni. Facendo leva su un suono che vaga tra electro scarnificata e dark ambient con qualche piacevole deriva acid, Roel Dijcks merita di essere accostato a connazionali come Rude 66, Legowelt, I-f o Ra-X ai quali, probabilmente, si è ispirato per creare la sua musica ma senza correre il rischio di essere liquidato come l’ennesimo dei copycat. La sua visione genera tracce che eludono l’epigonismo, e l’ascolto di alcuni dei pezzi qui radunati come “A Way Home”, “How Deep The Grooves”, “Witching World”, “The Remains Of Zion” e “Devil Birds Of Deimos” depongono pienamente a suo favore.

Obergman

Obergman – Invariant Hyperbola (Infiltrate)
Destinato a una delle sublabel della londinese Constant Sound di James ‘Burnski’ Burnham, questo nuovo EP conferma le doti di Ola Bergman alias Obergman. Partito nel 2001 dalla Skam con un suono fortemente connesso all’IDM britannica più astrattista, lo svedese si è progressivamente avvicinato all’electro di matrice donaldiana che ha messo a punto nell’ultimo decennio attraverso una serrata serie di pubblicazioni su etichette come Abstract Forms, Brokntoys e soprattutto la Stilleben Records di Luke Eargoggle. Qui è alle prese con quattro tracce dalle venature cibernetiche, accomunate sia dalla ciclicità meccanica delle parti, sia dal minimalismo della tavolozza sonora come si evince da “Norma Cluster”, spinta da un disegno di basso robotico. Pad quasi romantici scandiscono “Dragonfly44” mentre “Sterile Neutrino” (forse un’allusione a “Sterilization” e “Myon-Neutrino” di Dopplereffekt?) riproduce lo sferragliare di androidi. Infine la title track, “Invariant Hyperbola”, probabilmente la più riuscita del disco, ideale soundtrack per un viaggio interspaziale che porta sul pianeta Nettuno: dopo aver macinato milioni di chilometri però lo sconcerto nello scoprire che qualcuno ha misteriosamente impiantato lì delle ciclopiche pale eoliche.

Komakino

Komakino – Outface (30 Yrs Jubilee Edition) (Esprit De La Jeunesse)
Nel mare magnum infinito di ripescaggi, remix, cover e reissue finiscono pure i Komakino (i tedeschi Ralph Fritsch, meglio noto come Fridge, e Detlef Hastik) con uno dei brani più noti del loro repertorio che quest’anno taglia il traguardo dei trent’anni. Incluso in “Energy Trance EP” edito nel ’93 dalla Suck Me Plasma di Talla 2XLC, “Outface” polarizza l’attenzione europea due anni più tardi quando viene rimesso in circolazione dalla Maddog in una nuova versione, la Full Size, diventata un classico dell’hard trance e accompagnata da un videoclip che aiuta a guadagnare una platea più ampia e trasversale (da noi lo mette spesso Molella nella prima edizione di “Molly 4 DeeJay”, come descritto qui, e un paio di comparsate le registra persino nel DeeJay Time di Albertino). Anticipato a febbraio dalla reinterpretazione dell’italiano Dusty Kid in battuta spezzata e con un frammento pare carpito da “Technotronic” di The Pro 24’s (poi diventata “Pump Up The Jam” dei Technotronic), il pacchetto messo sul mercato dalla Esprit De La Jeunesse, etichetta del gruppo Systematic capeggiato da Marc Romboy, codificato come Jubilee Edition e accompagnato da un artwork che riadatta quello del menzionato “Energy Trance EP”, conta tre remix: Egbert trapianta senza particolare inventiva frammenti dell’originale in una nuova base ritmica che pecca di anonimato, Robert Babicz plana tra luccicanti riflessi melodici e intrecciature acide, e infine Petar Dundov ondeggia tra paratie armoniche e incantate sequenze di arpeggi che poi precipitano in un gorgo impetuoso. Curiosità: sul vinile è finita la Full Size nonostante titolo e durata in copertina facciano riferimento alla G60 Mix ossia la versione del ’93 che però è stata diffusa in digitale.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Michele Mausi, una passione per la musica che attraversa il tempo

I più giovani hanno conosciuto la sua musica recentemente ma in realtà il nome di Michele Mausi circola nel settore da oltre trent’anni. Schivo e riservato, è rimasto sempre dietro le quinte e probabilmente questa è la prima volta che sviscera la sua storia in lungo e in largo, parlando dei lontani esordi come DJ radiofonico, della passione per il rock, il metal e i Depeche Mode, della prima esperienza nello studio di Roberto Zanetti alias Savage, delle esigue produzioni discografiche uscite nel corso dei Novanta (tra cui una manciata sulla lombardoniana Subway Records) e dei tanti limiti coi quali la sua regione, la Puglia, ha dovuto fare i conti prima dell’avvento di internet. Non mancano riferimenti al programma radiofonico che conduceva su Radio Company, The Groove Night, alle serate che lo hanno visto protagonista in locali come il Metropolis, il Fabula e il Guendalina e ricordi di quelle in trasferta all’Insomnia di Ponsacco. Archiviato il passato, Mausi riavvia l’attività produttiva dopo quasi venti anni di silenzio mettendo a punto la sua idea di techno che manipola il minimalismo ritmico innestando frenesie hardgroove, a tratti schranz, ed elementi dub e dark ambient. Per propagarla ha creato poi la propria etichetta, la [R]3volution Records, sulla quale ospita anche artisti navigati come Steve Bicknell, Alexander Kowalski, Stanislav Tolkachev, Arnaud Le Texier, Jonas Kopp e Ritzi Lee.

Che tipo di ascolti hanno contraddistinto la tua adolescenza?
Sono sempre stato un divoratore di musica fin dall’età di dodici/tredici anni. Correva la metà degli anni Ottanta e alternavo l’ascolto della dance/elettronica dell’epoca alla nascente house music con l’apprendimento dei rudimenti del DJing stazionando nelle consolle delle discoteche e osservando con attenzione l’operato di chi metteva i dischi. Contestualmente iniziai a scoprire la grande passione per la musica rock, prog, hard rock e metal, e non disdegnavo l’hip hop. Partendo dai Led Zeppelin, Deep Purple, Pink Floyd e Doors, passando per Sex Pistols, Clash, U2, Depeche Mode fino ad arrivare ai Metallica, Nirvana, Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers, Anathema, System Of A Down, Korn, Rage Against The Machine, Green Day, Public Enemy, De La Soul, Beastie Boys, Eric B. & Rakim, e potrei continuare con un elenco pressoché infinito.

Hai mai frequentato il conservatorio o imparato a suonare qualche strumento?
Purtroppo no, e questo è uno dei miei più grandi rimpianti perché avrei tanto voluto imparare a suonare la batteria o la chitarra.

Ritieni che saper leggere lo spartito sia un aiuto o un limite per chi produce musica elettronica?
Saper leggere uno spartito non è mai un limite, a prescindere dal genere che si compone. Tuttavia non lo ritengo fondamentale per un produttore di musica come quella che faccio io, una delle tante variazioni afferenti la techno.

Ci fu qualcuno a spiegarti i rudimenti del mestiere e a farti appassionare al DJing?
Nasco come DJ radiofonico nel 1987 in piccolissime emittenti locali in Puglia, avendo da subito le idee chiare su quello che volevo realizzare. Con amici e colleghi, sull’onda dell’eclatante successo dell’italo house, mi divertivo a realizzare, seppur con approssimazione e strumentazioni rudimentali, bootleg di canzoni pop dance dei tempi. In parallelo, presso alcuni piccoli locali delle province toscane di Siena e Arezzo, dove ogni anno trascorrevo le vacanze estive, iniziai a muovere i primi passi come DJ in discoteca, cimentandomi nelle aperture o chiusure delle serate. Nel 1988 feci un provino e venni assunto da una radio pugliese, Centro Radio, che poi cambiò nome in Radio Company, dove ho lavorato sino al 2005 come direttore artistico della programmazione notturna. Il programma che conducevo, The Groove Night, ha fatto un po’ la storia della radiofonia del sud Italia, con particolare riferimento al fenomeno del DJing, della musica house, progressive, tech house e techno. Dal 1991 al 1994, inoltre, ho preso parte al progetto radiofonico notturno Mix FM gestito da Faber Cucchetti all’interno del palinsesto di una radio romana: conoscere tanti DJ che gravitavano nel mondo della notte della Capitale mi diede la possibilità di lavorare in vari locali della città e, più in generale, del centro Italia. Proprio quell’esperienza, unita a qualche buon consiglio di Faber, mi fornirono l’ispirazione per realizzare il citato programma The Groove Night.

Perché, col passare del tempo, l’FM ha ridotto drasticamente lo spazio per offerte musicali diverse da quelle del mainstream generalista?
Sicuramente ci sono persone più titolate di me che potrebbero fornire un’opinione maggiormente obiettiva. Non sono un editore radiofonico ma credo che ormai la radio sia incatenata a logiche di ascolti e di stream con la sola e unica finalità di attirare investimenti pubblicitari. Del resto quasi la totalità delle emittenti nazionali o multiregionali in Italia è in mano a tre/quattro gruppi editoriali. In tutta franchezza vedo poco spazio sull’FM per offerte musicali differenti da quelle attuali o alternative. D’altro canto però ci sono ottime opportunità per il web: oggi chi vuole fruire di determinati contenuti sa dove andarseli a cercare. La funzione della radio intesa come mezzo di diffusione di musica alternativa ormai è venuta meno.

303 Trance Factor
Il disco di 303 Trance Factor, con un sample di “The Dominatrix Sleeps Tonight” di Dominatrix, è il primo a cui Mausi partecipa, nel 1991

Sul fronte produzioni discografiche invece, come inizi?
Tutto cominciò tra 1990 e 1991 in Toscana: grazie alla grande amicizia con Alessandro Terzi alias Alex T. iniziai a frequentare gli studi di registrazione dove lui realizzava le sue produzioni destinate alle grandi etichette milanesi dell’epoca, da Discomagic a Dig It International. Fu così che conobbi Roberto Zanetti alias Savage, che mi diede la possibilità di mettere piede nel suo Casablanca Recording Studio a Massa per realizzare una versione di “S.l.e.e.p. Tonight” di 303 Trance Factor: si chiamava After-Hour Factor Frequency e chiudeva il lato b. Nei crediti stampati sulla copertina il mio nome non c’era ma quella, di fatto, fu la mia prima produzione discografica. A pubblicarla la DWA (a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda), etichetta destinata a un più che roseo futuro con artisti simbolo dell’eurodance come Corona, Alexia, Ice MC e Double You.

Quindi non disponevi di un tuo studio?
Qui tocchiamo un tasto dolente: sino al 2014 non ho mai posseduto uno studio di registrazione o una strumentazione di mia proprietà, e questo ha rappresentato a lungo un limite. La mia vita artistica dell’epoca era caratterizzata da molte idee ma pochi mezzi a disposizione per trasformarle in qualcosa di tangibile. Per realizzare i miei dischi quindi sono sempre stato costretto ad appoggiarmi a studi altrui, ovviamente a pagamento e investendo parecchie risorse economiche.

Rain Danza
Con “Rain Danza” Mausi approda alla Subway Records del gruppo Discomagic

Il primo disco pubblicato a tuo nome è stato “Rain Danza”, edito nel 1994 dalla Subway Records. Come arrivasti all’etichetta milanese nata sotto l’ombrello della lombardoniana Discomagic?
A invitarmi a Milano fu Emilio Lanotte che lavorava per il gruppo discografico di Severo Lombardoni. Arrivai alla sede della Discomagic, in Via Mecenate, di buon mattino dopo aver viaggiato in auto tutta la notte. Emilio mi presentò Claudio Diva e Nando Vannelli, che ai tempi dirigevano artisticamente la Subway Records, ai quali feci ascoltare un DAT che conteneva quattro tracce, “Rain Danza”, “After The Storm Has Gone” e due versioni di “Death’s Angel” (una delle quali finirà nella tracklist della compilation “Elettronico Tribale” di Marco Dionigi, intervistato qui, nda). Quella sera stessa ero già sulla via del ritorno col mio primo contratto discografico firmato, un assegno da un milione e duecentomila lire in tasca e la macchina piena di dischi della Subway Records e di altre etichette techno e progressive, anche estere, distribuite da Discomagic. I quattro brani vennero suddivisi e stampati su due dischi e per soddisfare la richiesta di Claudio e Nando, che volevano aggiungere al mio nome un acronimo o qualcosa del genere, lì, su due piedi, mi venne in mente J. & M. Project.

Con quali strumenti realizzasti quei brani?
Incisi le tracce in uno studio di registrazione che noleggiavo, pagando un tot per ciascun pezzo, dall’idea iniziale all’incisione su DAT. Sono trascorsi quasi trent’anni ma ricordo, come se fosse un sogno, che usavamo una batteria elettronica Roland TR-909, un sintetizzatore Roland Juno-106 e il Cubase come sequencer. La realizzazione dei brani richiese circa quattro mesi di lavoro e a Milano non mi chiesero di apportare modifiche forse perché rispecchiavano in pieno le caratteristiche stilistiche della label di quel momento. A pensarci bene, oggi, forse li avrei accorciati un po’. Nonostante fossero due uscite distinte, con altrettanti numeri di catalogo attigui, furono commercializzate nello stesso momento e in virtù di ciò mi piace ripensare a esse come un’uscita unica o come un doppio. Sebbene la Subway Records mi fece un contratto che prevedeva la cessione in toto di tutti i diritti, so che i due mix vendettero circa 3500 copie, tra Italia e Spagna. Numeri da capogiro se si pensa che attualmente, con la techno, si fatica a vendere 300 copie in tutto il mondo. Quella doppietta su Subway Records rappresentò al meglio il genere tribal progressive che proponevo tra 1994 e 1995. Qualche aneddoto? Analogamente alla maggior parte dei brani composti ai tempi, anche i miei includevano sample presi da altre produzioni: il vocal di “Rain Danza”, ad esempio, arrivava da “They Say It’s Gonna Rain” di Hazell Dean, del 1985, mentre “Death’s Angel” era un agglomerato di citazioni. I titoli delle versioni, Take A Look e Just Before, pagavano il tributo a “For Whom The Bell Tolls” dei Metallica del 1984 nel cui testo figurava per l’appunto “take a look to the sky/just before you die”, poi c’era un passaggio recitato con la mia voce di “To Live Is To Die” del 1988, sempre dei Metallica, e infine i cori erano prelevati da “Pimpf” dei Depeche Mode, del 1987, ma fatti girare al contrario.

In “Astral Grooves Vol. 1”, pubblicato dalla Marcon Music nel 1995, c’era “Strange Love”, cover di “Strangelove” dei Depeche Mode. Nutri(vi) quindi un debole per la band di Basildon?
Certo. I Depeche Mode sono sempre stati un punto fermo sin dalla mia preadolescenza e hanno influenzato tutte le mie produzioni degli anni Novanta. Secondo me non puoi parlare di musica elettronica se non conosci a memoria almeno le loro pietre miliari. Del resto i Depeche Mode sono sempre stati oggetto di remix da parte di produttori techno (e non solo), da Josh Wink a Speedy J, da Underground Resistance a Ricardo Villalobos passando per Timo Maas, Danny Tenaglia, Underworld e Dave Clarke, giusto per citarne alcuni. Sin dagli esordi in consolle la Hands And Feet Mix di “Enjoy The Silence” realizzata da François Kevorkian era un must nei miei set, specie in apertura di serata, e non c’è stata una sola volta che non abbia riempito la pista. L’EP “Astral Grooves Vol. 1” da te citato conteneva pure l’Optical Spectrum Remix di “After The Storm Has Gone”, uscita l’anno prima su Subway Records, che ai tempi fu la traccia di quel disco più suonata dai DJ, su tutti Francesco Farfa (intervistato qui, nda) e Gianni Parrini.

Astral Grooves 1
Il primo (e unico) volume di “Astral Grooves” edito da Marcon Music nel 1995

Come mai mollasti la Subway Records in favore della pugliese Marcon Music con sede a Spinazzola?
Non ricordo molto bene come andarono le cose, sono passati troppi anni. Forse rimasi deluso dall’accordo che mi fu prospettato dalla Subway Records per le produzioni successive e fui invece allettato dall’opportunità di avere una casa discografica a pochi chilometri da casa. Non sarebbe più stato necessario recarmi a Milano per far ascoltare le mie nuove produzioni visto che all’epoca, per varie ragioni, era preferibile presentarsi nell’ufficio degli A&R di persona coi propri DAT. In quel periodo molti artisti, non solo pugliesi, si avvicinarono alla Marcon Music. Grazie anche ad alcuni amici, che col senno di poi definirei “cattivi consiglieri”, la label di Spinazzola mi fece una proposta economicamente più intrigante rispetto a quella della milanese ma gli esiti purtroppo furono assolutamente deludenti.

Nonostante su quel disco fosse scritto “Vol. 1”, non è mai uscito un seguito di “Astral Grooves”, perché?
È facile spiegare la ragione: da lì a poco la Marcon Music chiuse i battenti e anche in malo modo. Tempo dopo, con un po’ di consapevolezza in più, scoprii che l’etichetta viveva già una forte crisi nel momento stesso in cui firmai l’accordo, difatti non ci fu nemmeno il tempo per fare una buona promozione del disco.

Dopo qualche anno di assenza riappari sulla Richter Records di Daniele Costantini alias Lele Kroover: come si sviluppò quella collaborazione?
La sinergia risale al periodo in cui lavoravo insieme a Sabino Cannone, dal 1996 al 1998. Conobbi Lele in occasione di alcune serate a Foggia e mi chiese di collaborare con la sua etichetta. Tra i risultati ci fu “Excess”, inclusa in “I.U.D (Intrauterine Device)”, per la quale io e Sabino ci firmammo The Blackmen, uno dei vari pseudonimi con cui celavamo i nostri veri nomi.

Analogamente alla Marcon Music però, anche la Richter Records si arena dopo poche uscite.
Quello di Richter Records non lo considero un progetto determinante o un momento topico della mia carriera di produttore. Anche in quel caso si trattò di un’iniziativa promettente solo sulla carta ma che, in sostanza, si rivelò ben poca cosa e infatti credo che Richter Records abbia pubblicato appena cinque/sei dischi. Purtroppo il mondo della musica techno (e non solo) è stato costellato di personaggi pieni di buoni propositi ma che, chiamati alla prova dei fatti, hanno lasciato molto a desiderare.

Audionauts
Il disco degli Audionauts finisce nel catalogo Headquarter, una delle etichette della bolognese Expanded Music

Per un paio d’anni quindi collabori con Sabino Cannone con cui realizzi un 12″ per la bolognese Headquarter del gruppo Expanded nelle vesti di Audionauts, pure quello siglato come Pt.1 ma a cui non segue nient’altro. Perché non continuaste?
Ricordo con molto piacere quella partnership. Ai tempi il nostro set-up era parecchio ricco: sintetizzatori Roland (JX-8P, Juno 106, D-550), Korg (M1), Yamaha (DX7 II), expander (Roland U-220), batterie elettroniche Roland (R-8, TR-909, TR-808, TR-727), poi l’immancabile BassLine Roland TB-303, altre macchine Ensoniq, Doepfer e Buchla e un campionatore Akai S1000. La maggior parte dei sample era realizzata da Sabino che era solito creare ampi layer di suoni (straprocessandoli) per poi campionarli e usarli assieme alla stregua di strumenti “nuovi”. Poi mixavamo il tutto in un banco Soundcraft Spirit (prima) e Behringer 8 Bus (poi). Per quanto concerne l’effettistica, utilizzavano due Lexicon LXP-15 e un modulo Yamaha. Contavamo pure sull’apporto di alcuni compressori e stereo enhancer usati sul master. A livello di DAW invece, iniziammo con Cubase 2.0 e poi passammo a Cubase VST. Insieme all’attuale, fu uno dei momenti più importanti e prolifici della mia carriera, sebbene agli atti risulti appena una sola produzione, quella di Audionauts apparsa per l’appunto sulla Headquarter gestita da Fabrice. In realtà era soltanto la punta dell’iceberg in quanto proprio in quel periodo, ancora una volta con grandi e buoni propositi, io e Sabino producemmo una vasta quantità di materiale destinata però a rimanere in archivio. Possiedo ancora un’audiocassetta con tante tracce finite e altre solo abbozzate. Proprio da una di quelle proviene il riff principale di una delle mie prime produzioni su [R]3volution Records ovvero “Old School Never Dies”. Audionauts purtroppo non andò avanti perché Sabino Cannone, artefice al 50% nonché proprietario dello studio, si trasferì a Milano per motivi di lavoro e preferì seguire progetti musicali di altro genere.

Il repertorio discografico è stato determinante per la carriera di molti DJ. A posteriori, avresti investito più risorse nell’attività produttiva durante gli anni Novanta?
Sì assolutamente, se avessi avuto la possibilità. In estrema franchezza, la localizzazione geografica non aiutava molto. La scena techno barese, a parte la Minus Habens Records di Ivan Iusco (di cui parliamo qui, nda) che peraltro seguiva un genere diverso dal mio, non offriva granché sul fronte produzioni discografiche. Non c’era, per intenderci, tutto quello che potevi trovare in altre città come un substrato composto da distributori, etichette e importatori. Rimanendo al sud, mi viene subito in mente Napoli, dove in quegli anni muovevano i primi passi artisti destinati a fare la storia della techno underground internazionale come Gaetano Parisio alias Gaetek (intervistato qui, nda) e Marco Carola.

Su quali etichette ti sarebbe piaciuto vedere incisa la tua musica?
Senza subbio sulla berlinese Tresor, sulla prima Drumcode (che non ha nulla da spartire con quella attuale), ma pure sulla Soma e R&S, solo per citare alcune di quelle che seguivo con più interesse. Agganciare certe realtà comportava però un trasferimento a Londra o in Germania ma all’epoca feci scelte differenti.

Michele Mausi in studio (2023)
Un recente scatto che immortala Michele Mausi nel suo studio di registrazione

Da qualche anno a questa parte le tue energie profuse nella composizione sono di gran lunga superiori rispetto al passato. Cosa o chi ti ha fatto tornare la voglia di creare musica?
Dopo il biennio di collaborazione con Sabino Cannone ho cercato costantemente di ricostruire l’equilibrio perfetto e l’alchimia con qualcosa di più concreto alla base, come uno studio di registrazione. Nel 2012 iniziai a ripensare a quel periodo e tornò forte la voglia di riprendere a produrre musica. In tal senso è risultato fondamentale l’incontro e il sodalizio con Daniele Petronelli col quale ho messo a fattor comune la mia esperienza e conoscenza di una certa tipologia di techno e lui l’abilità da produttore discografico. Senza il suo contributo [R]3volution Records non sarebbe mai esistita. Rispetto agli anni Novanta, oggi è infinitamente più semplice produrre musica, in teoria basterebbe un personal computer. Nonostante questo credo però sia ancora fondamentale disporre di uno studio di registrazione come luogo fisico in cui finalizzare i propri progetti. Nel contempo trovo indispensabile l’utilizzo di strumenti “veri” per realizzare la mia musica, tenendo sempre Ableton Live come riferimento per la post-produzione. Attualmente dispongo di un set up composto da Roland SH-101, Roland TR-8, Roland TB-3, Moog Minitaur, Clavia Nord Lead 2x, Behringer Neutron, Korg Triton, Arturia Analog Lab, Arturia Modular V3, Arturia ARP 2600 V, Arturia Mini, Roland Jupiter-8, Roland System-1, Softube Model 72, Akai APC 40 MKII e una scheda audio Apollo Twin. A parte alcuni sistemi semi-modulari sopra indicati, sto approcciando gradualmente a sistemi completamente modulari che offrono una totale libertà di creazione ed elaborazione suoni, cosa di fondamentale importanza per essere individuati e riconosciuti nel genere che seguo.

Con quali obiettivi nasce la tua etichetta, la citata [R]3volution Records?
[R]3volution Records è da sempre il mio sogno, un progetto pensato a lungo partito con investimenti importanti che oggi iniziano gradualmente a rientrare. Nasce nel 2016 con l’obiettivo di pubblicare solo la mia musica con l’inserimento di remix firmati da artisti di riferimento della scena, cosa effettivamente avvenuta nelle prime pubblicazioni. Determinante è stato l’accordo stretto con l’attuale distributore, la Triple Vision di Rotterdam subentrata ad altri partner/distributori poco affidabili e scarsamente performanti, che ci ha fornito visibilità e soprattutto credibilità nella scena techno a livello mondiale. Abbiamo iniziato a ricevere tantissime demo provenienti da artisti di tutto il globo e questo mi ha convinto ad allargare gli orizzonti e pubblicare una serie di trilogie ed EP solisti arricchiti da remix. Nel 2021 ho creato un secondo catalogo attraverso [R]3volution Uncod3d, sublabel destinata a dare voce ai tanti talenti emergenti che quotidianamente ci inviano le proprie demo. Con questa ulteriore ramificazione stiamo gradualmente portando sull’etichetta principale solo gli artisti più affermati.

The Black Hole EP
Con “The Black Hole EP” la [R]3volution Records debutta sul mercato discografico

Come conti di procedere nel prossimo futuro?
L’obiettivo rimarrà produrre techno di qualità e senza compromessi. In tutta onestà, oggi fare ciò significa poter puntare al pareggio dei costi nella più rosea delle aspettative. Stiamo ripensando al numero di uscite da pubblicare su vinile visto che i tempi di stampa sono arrivati a toccare l’inverosimile, ventotto settimane dopo l’approvazione del test pressing: ciò vale a dire che, salvo rare eccezioni, nei negozi arriva musica prodotta almeno otto/dieci mesi prima. Dal punto di vista artistico penso di continuare su questa linea, ponendo l’attenzione su raccolte in vinile di vari artisti affiancate a pubblicazioni solo digitali mantenendo in essere i due cataloghi.

Su [R]3volution Records sono apparsi anche artisti navigati come Steve Bicknell, Alexander Kowalski, Stanislav Tolkachev, Arnaud Le Texier, Jonas Kopp e Ritzi Lee. Quali sono altri che ti piacerebbe ospitare?
Senza dubbio i miei preferiti di sempre, Jeff Mills, Luke Slater, Surgeon, Regis, Oscar Mulero, James Ruskin, The Advent, Tensal…

Le tue vecchie chart apparse su DiscoiD nel 1995 rivelano l’interesse per un bacino stilistico fatto essenzialmente da techno, trance ed acid con dischi su Harthouse, Psy-Harmonics, R&S, 909 Pervertions, Platipus, Bonzai, M-Track, Urban Sound Of Amsterdam e Jus’ Trax, per citarne alcune, ma una particolare attenzione la rivolgevi pure ad artisti come Cari Lekebusch, Surgeon, James Ruskin e Steve Stoll. Dove trovavi questo materiale? Ti recavi anche all’estero per reperire con più facilità musica non capillarmente distribuita nel nostro Paese?
In effetti all’epoca, per poter fare la differenza, era indispensabile avere accesso a fonti di approvvigionamento privilegiate. Non avevo la possibilità di recarmi all’estero, un problema comune a tutti quelli che, come me, si trovavano nel meridione, tuttavia avevo rapporti continuativi con negozi di dischi in Italia che effettuavano importazioni dirette come Disco Più di Rimini, Zero Gravity di Udine (di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra, nda) e Remix di Roma. Ai tempi il mio nome si trovava anche nella promo list di alcuni distributori e importatori come Flying Records o Discomagic, e allora erano davvero pochissimi i DJ del sud Italia a ricevere promo.

Michele Mausi, DiscoiD 1995
Una vecchia foto di Mausi tratta dal magazine DiscoiD (1995)

La consultazione di quelle classifiche fa riaffiorare anche i nomi di alcuni locali pugliesi in cui lavoravi come il Camelot, il Renoir e il Domus Area. A quali club sono legati i tuoi ricordi più emozionanti di quegli anni?
Quelli citati erano locali in cui ho suonato come ospite per delle one night. I club ai quali sono maggiormente legato erano quelli che ospitavano, in modo più o meno frequente, serate destinate a un pubblico più underground come il Guendalina dei primi anni, il Madà, il Fabula, il Metropolis, il Remake, il Jubilee e ovviamente il Divinae Follie. Alla lista aggiungerei poi l’Insomnia in Toscana e il Cellophane, l’Ecu e il Gheodrome in Romagna. Non posso esimermi dal citare infine l’after hour itinerante che io stesso organizzavo in collaborazione con le principali organizzazioni e PR di allora, l’Evolution Fuori Orario.

Sei stato tra i pochissimi in Puglia a proporre un certo tipo di techno, legata prevalentemente al minimalismo di Jeff Mills o a quello berlinese in stile Basic Channel, in un momento storico in cui questa tipologia sonora aveva ben poca presa commerciale e la techno, per il grande pubblico, era davvero tutt’altro. Tale scelta ha pregiudicato in qualche modo la tua carriera rispetto a quella di coloro che invece preferivano proporre un suono facilmente “decodificabile” e assimilabile?
Non sono mai stato capace di assecondare le masse e seguire l’onda delle mode del momento come molti facevano ai tempi e continuano a fare ancora adesso. Da una certa prospettiva, questo potrebbe essere considerato un limite ma anche un punto di forza. Nella musica, così come nella vita, ho sempre fatto ciò che sentivo e quasi mai ciò che avrei dovuto fare, a prescindere dalla convenienza o dal tornaconto personale. Tanti artisti sono finiti nell’oblio, altri invece hanno deciso di sfruttare il DJing per qualcosa di lucrativo (scelta che non condivido ma che rispetto) facendo passare per techno ciò che assolutamente non lo è. Non diventerò mai ricco producendo musica ma mi resta almeno la certezza di non dover scendere a compromessi per fare ciò che amo di più.

C’è un pezzo che usavi come “arma segreta” per dare una scossa al tuo pubblico e che avresti voluto produrre?
Mi metti un po’ in difficoltà visto che sono tantissimi i brani che avrei voluto produrre e che usavo come “armi letali”. I primi che mi vengono in mente sono titoli accomunati dall’uso della TB-303 e diventati un po’ commerciali, ossia gli Attack Records di Emmanuel Top (in particolare “Tone”, “Stress” e “Turkich Bazar” a cui aggiungo “Rubycon” finito su Le Petit Prince), poi le prime produzioni di Plastikman e il First Remix di “Pullover” di Speedy J.

Al netto della nostalgia, ritieni che esista ancora la club culture? C’è stato un ricambio generazionale tra coloro che frequentavano le discoteche in primis per la musica proposta?
Parlando di club culture autentica, in Italia direi proprio di no, a parte pochi festival. All’estero, da quello che so, esistono luoghi dove (r)esiste ancora, come a Berlino, nel Sud America o in Spagna. Purtroppo in un mondo dove tutto si è appiattito e massificato, musica compresa, parlare di club in riferimento al genere proposto è complicato e assistere a quello che fanno le nuove generazioni non fa certamente sperare in meglio.

È vero che internet ha ucciso l’underground?
Da un certo punto di vista sì, ma guardando le cose da un’altra prospettiva, forse internet potrebbe in qualche modo alimentare l’underground stesso.

Per chi è stato un affare trasformare i disc jockey in rock star?
Sostanzialmente per le aziende che producono e vendono equipment, ma anche per i social media.

Se potessi rivivere un giorno (o un anno) del mondo che abbiamo raccontato in questa intervista, quale sceglieresti e perché?
Il passato è passato ma rivivrei volentieri tutto il 1997 che per me rappresentò l’apice. Tuttavia sono ottimista e guardo al futuro quindi direi che l’anno migliore deve ancora arrivare.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata