La dance rimasta nel cassetto

Annunciare l’uscita di un disco che poi però resta nel cassetto: capita più volte negli anni Novanta, quando la musica dance vive una delle sue fasi più entusiasmanti. È accaduto per motivi legali, connessi ad esempio all’uso non autorizzato di un campionamento, per scelta dell’autore o, più frequentemente, per un ripensamento della casa discografica.
Per l’occasione Luca Giampetruzzi e Giosuè Impellizzeri, che tornano a scrivere un articolo a quattro mani a distanza di diversi anni, fanno incetta di informazioni d’archivio e le mettono in fila per indagare e raccontare le vicende di brani sconosciuti perché mai pubblicati o usciti dopo decenni a insaputa degli stessi autori. Non manca neanche qualche caso legato a pezzi finiti sul mercato con il nome artistico diverso rispetto a quello dichiarato inizialmente. Il risultato finale è una gallery che conta circa una ventina di titoli legati a storie rimaste nell’ombra, arricchite da dichiarazioni riscoperte su vecchie riviste o raccolte ad hoc.

Aladino – Nasty Rhythm
Forte di una storia lunga ormai quarant’anni, la bresciana Time Records è una delle etichette dance più importanti nei Novanta, con diversi progetti di successo. Tra questi, a partire dal 1993, anche Aladino, nome legato al DJ e produttore Diego Abaribi, che esordisce nell’estate di quell’anno con “Make It Right Now” (di cui parliamo qui) e si conferma qualche mese dopo con “Brothers In The Space”, entrambi scanditi dalla voce di Emanuela Gubinelli meglio conosciuta come Taleesa. Nell’autunno del 1994, su alcune riviste, si parla di un LP per Aladino ma Abaribi, contattato per l’occasione, spiega che «nonostante fossero pronti diversi singoli, tra cui “Promise”, poi uscito come No Name, il progetto dell’album venne accantonato in quanto la Time puntava più al mercato dei singoli. Tra i pezzi già pronti c’era anche “Nasty Rhythm”, che a mio parere sarebbe stato il disco migliore tra quelli usciti a nome Aladino, era davvero forte. In quello stesso periodo decisi di lasciare l’ambiente musicale per dedicarmi all’azienda dolciaria di famiglia, quindi la traccia non venne mai pubblicata». Orfano del bravo produttore bresciano, il progetto Aladino vede un’altra uscita a ottobre 1995 con “Stay With Me”, prodotta dal duo Trivellato-Sacchetto e con la voce di Sandy Chambers.

Albertino Feat. The Outhere Brothers – ?
Speaker di successo e assoluto protagonista della scena radiofonica italiana fin dagli anni Ottanta, Albertino è diventato negli anni Novanta il punto di riferimento per il genere dance, grazie ai suoi programmi DeeJay Time e DeeJay Parade in onda su Radio DeeJay. Significativa anche la sua carriera a livello discografico che l’ha visto protagonista con alcune produzioni come “Your Love Is Crazy”, a cui abbiamo dedicato un articolo qui, e collaborazioni in vari progetti (Do It!, Lost Tribe – di cui parliamo qui – The End, Control Unit), soprattutto a inizio anni Novanta. Nel luglio 1995, come dichiarato dallo stesso Albertino attraverso un’intervista per la rivista di videogiochi The Games Machine realizzata da Stefano Petrullo, era in programma l’uscita di un disco realizzato con gli Outhere Brothers. «Dopo il successo ottenuto all’Aquafan a ferragosto (del 1994, nda) ero impazzito, mi sentii un po’ cantante e volevo fare un disco con gli Outhere Brothers. Loro mi mandarono la base da Chicago, tra l’altro molto bella, ma poi mi sono vergognato e non l’ho fatto… Se questa cosa fosse andata in porto però, penso che sarei arrivato al primo posto delle classifiche». Un disco con la voce di Albertino uscirà anni dopo, nel 2001, e arriva proprio al numero uno della classifica di vendita italiana: “Super”, realizzato insieme a Gigi D’Agostino.

Alex Party – Now It’s Time
Il progetto di Alex Natale e i fratelli Gianni e Paolo Visnadi è, soprattutto tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, uno dei più importanti tra quelli da esportazione, con una posizione numero due raggiunta nella classifica di vendita nel Regno Unito, a febbraio 1995, grazie a “Don’t Give Me Your Life”. Con “Wrap Me Up”, sempre nello stesso anno, diventano profeti in patria, visto che il brano interpretato da Shanie Campbell è uno dei grandi successi estivi per lo Stivale tricolore. Dopo il fallimento della Flying Records però, avvenuto alla fine del 1997 e quindi anche dell’etichetta UMM (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) in cui militavano Natale e i Visnadi, il progetto subisce un repentino stop che pare possa terminare a novembre del 1998 quando sul mercato appare una white label intitolata “Now It’s Time”. Il brano, tuttavia, non vede ufficialmente la luce perché gli autori, a dispetto del titolo, non sono convinti al 100% dell’operazione, e ciò fa calare (temporaneamente) il sipario sul progetto prodotto nel 77 Studio di Mestre. Il ritorno però è solo rimandato, visto che nell’estate del 2000 gli Alex Party ricompaiono con un singolo dal titolo “U Gotta Be” su etichetta Undiscovered, che ottiene ottimi riscontri ed è impreziosito da un remix ad opera degli Eiffel 65.

Claudio Coccoluto – Rio
L’uscita di “Rio” di Coccoluto non è mai stata annunciata pubblicamente ma pare che nel 1998 il pezzo fosse destinato all’etichetta milanese Reshape, tentacolo house del gruppo Dipiù guidato da Pierangelo Mauri. Costruita su campionamenti tratti da “Rio De Janeiro” di Gary Criss uscito su Salsoul Records nel 1977, la traccia nasce nell’HWW Studio di Cassino insieme all’inseparabile Savino Martinez che, come racconta qui, non ricorda nel dettaglio le ragioni per cui rimase chiusa nel cassetto ma ipotizza che la causa fosse legata alla mancata autorizzazione dell’uso del sample. Un paio di minuti di “Rio” finiscono sul canale Soundcloud della thedub: Martinez conserva ancora il DAT nel suo studio.

Countermove - Something
La copertina dell’album dei Countermove diffusa in formato digitale nel 2009

Countermove – Something
Nato alla fine del 1998, Countermove prende le mosse dalla new wave e dal synth pop, generi che gli autori Cristian Camporesi (intervistato qui) e Alberto Frignani conoscono più che bene e a cui puntano con l’aiuto di Davide Marani, cantante dal timbro molto simile a quello di Dave Gahan (è sua la voce di “A Question Of Time” di Tony H, artista di cui si parla più avanti, nonché di altre cover della band di Basildon come “Personal Jesus” dei Bond Street, “Little 15” dei Mustache e “Flexible” dei Miami Dub Machine”). “Myself Free”, uscito nella primavera ’99 e per cui viene girato anche un videoclip, apre la strada con discreti risultati che si cerca di replicare con “Unbelievable” del 2000. L’anima pop alla base del progetto spinge la Do It Yourself a prendere in considerazione l’ipotesi di pubblicare persino un album, “Something”. Alla fine però tutto si arena con l’EP omonimo diffuso solo in formato promozionale. «Quando incontrai Cristian e Alberto, c’erano già diverse canzoni allo stato di demo o poco più» spiega Marani, anni fa, sulle pagine di Decadance Appendix. «L’ingaggio con la Do It Yourself avvenne perché Molella, amico di Cristian, ascoltò un paio di brani probabilmente intravedendo il potenziale commerciale con dei remix ossia “Myself Free” e “Another Day”. Sul primo non si sbagliava affatto e da lì a poco ci chiesero di preparare l’album. Avevamo tempo sino al 10 settembre di quell’anno, il 1999. Nel frattempo uscì il secondo singolo, “Unbelievable”, spinto ancora dal remix di Molella & Phil Jay. Noi ci presentavamo come band pop o techno pop, ma con l’alto airplay radiofonico legato a un’etichetta prettamente dance tutti ci inquadrarono semplicemente come gruppo dance. A emergere fu dunque un’immagine “strozzata” e piuttosto riduttiva per chi, come noi, suonava anche la chitarra acustica ed eseguiva brani unplugged. “Dive” avrebbe dovuto anticipare l’uscita di “Something”, pianificata prima per ottobre, poi per dicembre, poi per gennaio 2000 in occasione del Midem, poi a febbraio … ma alla fine fu chiuso in un cassetto. Forse non era propriamente adatto al pubblico italiano visto che ricalcava gli schemi dei Depeche Mode, la passione che condividevo con Cristian e Alberto. In seguito l’etichetta ci chiese di scrivere qualcosa sulla falsariga di “Myself Free”: preparammo delle bozze ma nessuna andava bene. Il tempo passava e la scadenza del contratto era ormai prossima, non vedevamo l’ora di spedire una raccomandata con ricevuta di ritorno affinché non fosse rinnovato per tacito consenso. A posteriori, credo che finimmo nelle mani sbagliate: noi eravamo pop e facevamo pop ma l’etichetta era dance e vide il lucro solo in un paio di singoli remixati in chiave dance». Il 27 agosto 2009, a sorpresa, la Do It Yourself pubblica in digitale l’album dei Countermove, fortemente intriso di riferimenti derivati dalla band britannica oggi attiva con Martin Gore e Dave Gahan, forse proprio quei riferimenti che contribuirono a farlo naufragare circa dieci anni prima.

Datura & Carol Bailey – I Can Feel It
1997: il suono della dance made in Italy sta attraversando per l’ennesima volta una fase di cambiamento e in primavera le produzioni tornano ad avere un sapore pop, dopo l’abbuffata di dream progressive dei mesi precedenti. Sulle pagine della rivista DiscoiD si parla di un’inedita collaborazione marchiata Time Records, tra i Datura e Carol Bailey (cantante di cui parliamo qui), tra i nomi di maggior spicco dell’etichetta bresciana di Giacomo Maiolini. L’annuncio però cade nel vuoto visto che nei mesi seguenti si perdono le tracce del pezzo intitolato “I Can Feel It”. Tempo dopo Ciro Pagano dei Datura afferma che «si stava pianificando l’uscita, ma poiché il brano non piacque a uno speaker radiofonico di riferimento dell’epoca, si preferì seguire il suo suggerimento e non commercializzarlo, cosa che, a ogni modo, in quegli anni capitava spesso». Relativamente ai Datura, nel cassetto resta pure il remix di “Angeli Domini” realizzato dai tedeschi Scooter. Come spiegano Stefano Mazzavillani e il citato Pagano nell’intervista finita in “Decadance”, la ragione per cui ciò avvenne fu legata a un problema di tempistiche: «quando gli amici Scooter ci consegnarono quel remix, sulla rampa di lancio era già posizionato “Mantra”. All’epoca in Time Records non c’era la mentalità adatta per stampare un singolo nuovo con una traccia uscita in precedenza, seppur in versione inedita. Da lì a breve fu la Media Records di Gianfranco Bortolotti a dare inizio a questo tipo di pratica che permetteva di creare un filo conduttore tra una pubblicazione e l’altra dello stesso artista». Intorno al 1996 si parla anche di un nuovo album per i Datura, il secondo dopo “Eternity” del 1993: «circa un anno fa era pronto l’LP che però abbiamo bloccato perché troppo legato al nostro vecchio sound. Successivamente è nata “Voo-Doo Believe?” e abbiamo voltato del tutto pagina» chiariscono Pagano e Mazzavillani in un’intervista di Paolo Caputo apparsa sulla rivista Future Style nel 1997, aggiungendo che il progetto in tale direzione ormai non fosse più tra le priorità. «Fare un album è un lavoro importante che richiede un grande sforzo di tempo ed energie, sarebbe un peccato sprecarlo con tempi e modi che non sono ideali. Oggi in Italia la situazione commerciale e artistica nel mondo della dance è molto delicata, restiamo quindi in attesa di un segno». Quel segno, evidentemente, non è mai arrivato.

DJ Cerla & Moratto – Baby Love
A metà degli anni Novanta, tra i generi più apprezzati dai fruitori di musica dance, c’è la happy hardcore, caratterizzata da pianoforti sincopati, alti bpm e melodie felici, happy per l’appunto. Nonostante le produzioni di questo stile arrivassero principalmente dai Paesi nordeuropei, ad abbracciarlo sono anche alcuni artisti italiani, con fortune alterne. Tra questi i D-Juno, Tiny Tot (di cui parliamo qui), Russoff e l’accoppiata formata da Gabriele Cerlini, meglio noto come DJ Cerla, e il musicista Elvio Moratto. All’inizio del 1995 i due, accompagnati dalla voce di Jo Smith, scalano le classifiche di vendita con “Wonder” che ripesca la melodia di “Help Me (Get Me Some Help)”, brano del 1971 di Tony Ronald già ricostruito in versione happy hardcore qualche mese prima dagli olandesi Charly Lownoise e Mental Theo per “Wonderfull Days”.

Cerla & Moratto - Baby Love
La compilation in cui finisce “Baby Love”

Il seguito intitolato “Baby Love”, la cui pubblicazione è prevista per l’estate dello stesso anno, stranamente non vede ufficialmente la luce nonostante l’inserimento nella compilation “Festivalbar Superdance ’95”. «La Flying Records, nostra etichetta di quel periodo, ci chiese di realizzare velocemente un brano da destinare a un’importante compilation e così facemmo. Poi però, per l’uscita ufficiale, era necessario elaborarlo adeguatamente ma visto che non fu possibile farlo per vari motivi, non venne ritenuto abbastanza forte per la pubblicazione e quindi accantonato» spiega in merito DJ Cerla.

Freestylers – B Boy Breakers
Non è raro che negli anni Novanta si mettano sul mercato produzioni discografiche in formato white label disponibili in poche centinaia di copie: è una modalità che permette di testare le proprie idee con un investimento economico ridotto al minimo e praticabile anche senza il supporto di un distributore. Avviene più o meno così per il duo britannico dei Freestylers, formatosi nel 1996 dalla collaborazione tra Aston Harvey e Matt Cantor, entrambi reduci di diverse esperienze, anche di successo, come Uno Clio e Strike. In occasione della nuova avventura optano per uno pseudonimo inedito, Freestylers per l’appunto, con cui realizzano un remix di “Do You Wanna Get Funky” dei C+C Music Factory, originariamente del 1994. Lo solcano su un test pressing single sided con l’intenzione di inaugurare la loro nuova etichetta, la Freskanova, ma qualcosa non va per il verso giusto. Per gettare luce sull’accaduto risulta provvidenziale Nico De Ceglia (intervistato qui) che a dicembre ’97, attraverso le pagine di DiscoiD, chiede ragguagli a David Morgan, uno dei manager dell’etichetta: «il disco non è mai uscito per problemi irrisolti legati all’autorizzazione di alcuni samples. Tuttavia è diventato un classico nonostante sia praticamente impossibile trovarlo» spiega Morgan. «Sono ancora molti quelli che ci chiamano per avere informazioni a riguardo ma credo che solo tre o quattro persone ne posseggano una copia, oltre ovviamente agli stessi autori. Non uscirà mai anche se una sua commercializzazione probabilmente lo avrebbe reso un successo». Il primo disco della Freskanova è quindi destinato a rimanere nel cassetto, almeno parzialmente, visto che il secondo brano, “Beat Of The Year”, finisce sulla quinta uscita dell’etichetta firmata Freska Allstars. Qualche copia, nel corso degli anni, è transitata dal marketplace di Discogs subendo peraltro un sensibile incremento nella quotazione che il 26 aprile 2015 ha toccato i 332 €. Per i Freestylers e la loro Freskanova però è solo questione di tempo: nel ’98, grazie al boom commerciale del big beat, spopolano con “B-Boy Stance” col featuring del compianto Tenor Fly e trainato da un videoclip in alta rotazione su MTV. Il pezzo è estratto dall’album “We Rock Hard” da cui vengono prelevati altri singoli come “Ruffneck” e “Here We Go”, pubblicati anche in Italia dalla T.P. del gruppo Dipiù.

Gabry Ponte – Power Of Love
È convinzione generale che il primo singolo ufficiale del noto DJ torinese sia quello uscito nel 2001 intitolato “Got To Get”, che mette insieme “Dance Your Ass Off” dell’olandese R.T.Z. e “Feel That Beat” dei 2 Static. In realtà Gabry Ponte cerca la via solista già a gennaio 1999 con “Always On My Mind” (nulla a che vedere col brano omonimo contenuto nel suo primo album) del progetto The Gang @ Gabry Ponte, con la voce di Jeffrey Jey. Ad onor del vero però il primissimo tentativo risale addirittura al 1997 con una traccia intitolata “Power Of Love” realizzata insieme a Simone Pastore dei Da Blitz di cui parliamo qui, che si aggiungeva ad altri progetti curati da lui stesso all’interno della Bliss Corporation come Sangwara e Blyzart. Il brano non esce ufficialmente ma anni dopo viene inserito all’interno del catalogo di Danceria, portale attraverso cui l’etichetta di Massimo Gabutti (intervistato qui) e Luciano Zucchet vendeva la propria musica in formato digitale e ricercava giovani talenti attraverso un nutrito forum.

Molella & Phil Jay – Don’t You Want Me
Una problematica molto diffusa, fin dalla nascita della house music e dell’utilizzo dei campionatori come strumento per creare musica, è legata all’utilizzo dei sample, parti di altre canzoni già edite e magari di successo adoperati per creare brani inediti. Come visto più sopra nei casi di Claudio Coccoluto e dei Freestylers, non sempre gli autori o gli editori originali permettono l’uso di campionamenti tratti dal proprio repertorio e questo, di fatto, può bloccare l’uscita delle musiche che li contengono. È proprio quanto accaduto a “Don’t You Want Me”, follow-up di “With This Ring Let Me Go”, successo estivo del duo Molella e Phil Jay i quali, dopo aver rispolverato il brano “Let Me Go!” degli Heaven 17, targato 1982, tentano di fare il bis riprendendo una hit degli Human League dello stesso anno, “Don’t You Want Me”. L’operazione non va in porto a causa della mancata autorizzazione del “sample clearance” da parte degli autori come dichiarato dallo stesso Molella in una puntata del 2008 di Samples, programma condotto all’epoca da Paolo Noise e Wender su Radio 105.

Netzwerk - Love Is Alive
Annunciato come il nuovo Netzwerk, “Love Is Alive” esce come Johanna

Netzwerk – Love Is Alive
Progetto di punta della DWA (etichetta a cui abbiamo dedicato qui una monografia) fino a metà degli anni Novanta e passato nel 1997 alla scuderia della Dancework per il poco noto “Dream”, Netzwerk, animato dai toscani Gianni Bini, Fulvio Perniola, Marco Galeotti e Maurizio Tognarelli ha segnato il periodo eurodance grazie a diverse hit, in primis “Passion” (di cui parliamo qui) e “Memories”, entrambi interpretati da Simone Jackson, successivamente nota come Simone Jay come raccontiamo qui. Nel 1999 su Volumex, sublabel dell’etichetta milanese gestita da Fabrizio Gatto (intervistato qui) e Claudio Ridolfi, viene annunciato il nuovo singolo dei Netzwerk intitolato “Love Is Alive”. L’uscita ufficiale avviene però sotto un altro nome, Johanna, dietro il quale si nasconde Karen Jones, cantante precedentemente impegnata col progetto Bit Machine ad opera di Daniele Davoli e i suoi Black Box. Una delle quattro versioni è firmata dal compianto Alberto Bertapelle alias Brainbug, che pochi anni prima spopola a livello internazionale con “Nightmare”.

R.A.F. By Picotto - What I Gotta Do
L’info sheet che accompagna la tiratura promozionale di “What I Gotta Do” su GFB

R.A.F. By Picotto – What I Gotta Do
Per “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto probabilmente sarebbe più corretto parlare di ripensamento giacché il brano, alla fine, viene pubblicato ma con alcune modifiche e soprattutto con un nome d’artista diverso da quello pianificato in prima battuta. Le copie promozionali iniziano a circolare a gennaio del 1994 e contengono quattro versioni tra le quali svetta l’Extended Mix. In buona sostanza il pezzo è un rifacimento eurodance di “Days Of Pearly Spencer” di David McWilliams, un brano del 1967 che forse ispira Cerrone per “Supernature” e che viene coverizzato a più riprese da artisti sparsi per il mondo, tra cui Marc Almond e la nostra Caterina Caselli che lo reintitola in “Il Volto Della Vita”. Ai tempi Mauro Picotto, affiancato in studio da Steven Zucchini, ricorre anche a uno stralcio melodico di “Pure” dei GTO e un paio di frammenti vocali: uno è un campionamento preso da “My Family Depends On Me” di Simone e già usato in “What I Gotta Do” di Antico, l’altro è un rap di Ricardo Overman alias Mc Fixx It (“I love music yeah, can you feel it”) che si ritroverà qualche mese dopo in “Move On Baby” dei Cappella. “What I Gotta Do” finisce proprio nel secondo album di questi ultimi intitolato “U Got 2 Know”. Contattato con la speranza di poter aggiungere dettagli circostanziati, l’artista piemontese purtroppo non rammenta nello specifico le ragioni che spinsero la Media Records a cambiare il nome dell’artista ma ipotizza che ciò avvenne perché sorse l’esigenza di ultimare il nuovo album dei Cappella sottolineando, come peraltro già fatto nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” a cui abbiamo dedicato un articolo qui, come allora ci fosse chi produceva musica e chi invece decideva la modalità con cui pubblicarla, nomi e marchi inclusi. «Più che la traccia in sé, riascoltare il pezzo mi fa pensare a quanti ingredienti eterogenei cercai di incastrare» commenta Picotto. «Oltre alla melodia di “Days Of Pearly Spencer” e il campionamento di Simone, in “What I Gotta Do” c’erano anche un frammento di Herb Alpert e uno preso da un mix hip hop che comprai al Disco Più di Rimini. È pazzesco come un riff o una tonalità inconsueta possano fare riaffiorare ricordi ormai andati persi, ma del resto è questa la magia della musica». Vale la pena sottolineare infine che a “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto venne abbinato anche un numero del catalogo GFB in previsione di una pubblicazione ufficiale, lo 063, poi riassegnato a “Doop” dell’omonimo duo olandese (formato da Ferry Ridderhof e Peter Garnefski, già artefici del successo “Hocus Pocus”) che la Media Records prende in licenza per il territorio italiano.

Systematic – Upside Down
Una partenza sotto i migliori auspici colloca Systematic, a cui abbiamo dedicato qui un articolo/intervista, tra i progetti italiani meglio riusciti del ’94, anno di grazia dell’eurodance. Dopo lo sprint iniziale ottenuto con “I Got The Music” e “Love Is The Answer” però l’interesse si flette sino a lasciare quasi nell’anonimato “Stay Here (In My Heart)”, cantato da Sandy Chambers, e “Suite #1 D-Minor/Klavier Concert”, entrambi del ’96. Affidato a un nuovo team di produzione composto dal musicista Bruno Guerrini e dal giornalista Riccardo Sada, Systematic risorge nel 2000 con “Everyday”, ispirato dai primi successi messi a segno dagli Eiffel 65. L’interesse mostrato da vari Paesi europei lascia presagire un follow-up che viene effettivamente annunciato a febbraio del 2001 proprio da Riccardo Sada attraverso la sua rubrica Le Fromage sulle pagine del mensile d’informazione discografica DiscoiD.

Systematic - Upside Down
“Upside Down” esce nel 2021, venti anni dopo la sua creazione

Contattato per l’occasione, Sada spiega che l’intenzione era quella di dare un seguito al fortunato “Everyday” ma usando un riff potenzialmente utilizzabile per le suonerie dei telefoni cellulari, un segmento di mercato che in quel periodo iniziava a mostrare interessanti potenzialità e sbocchi commerciali. «Guerrini mi telefonò mentre ero in vacanza in Grecia e mi fece ascoltare un frammento della melodia ma mi resi subito conto che non fosse forte e immediata come quella di “Everyday”» ricorda il giornalista. «Il testo e la voce erano ancora di Ivano Fizio e i riferimenti agli Eiffel 65 non mancavano, tuttavia la Energy Production, proprietaria del marchio Systematic, preferì non investire denaro su “Upside Down”, essenzialmente nato dallo scarto della melodia di “Everyday”». A maggio del 2021, a un ventennio di distanza, l’etichetta di Raimondi e Ugolini pubblica in digitale “Upside Down” inserendolo peraltro nella tracklist di “Love Is The Answer”, un best of che raccoglie il repertorio del progetto Systematic.

Ti.Pi.Cal. - What I Like

Ti.Pi.Cal. – What I Like
Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea sono stati per anni, con il nome Ti.Pi.Cal. e altri, tre dei produttori più prolifici della scena dance italiana. Dopo un decennio costellato di hit legate al loro progetto più importante, Ti.Pi.Cal. per l’appunto, nell’estate del 2001 esce “Is This The Love”, brano che vede il ritorno alla parte vocale del cantante americano Josh Colow. Successivamente arriverà una pausa lunga ben dieci anni intervallata però, nel 2006, dal promo single sided su LUP Records di una traccia cantata da Kimara Lawson e dal titolo “What I Like”, caratterizzata da un insolito stile pop. A tal proposito, Vincenzo Callea chiarisce: «il brano risale al 2000 e doveva sancire il nostro passaggio dalla New Music International alla Time ma poi l’accordo con l’etichetta di Giacomo Maiolini saltò e quindi anni dopo uscì solo come promo, ricevendo qualche passaggio su Radio DeeJay. A dir la verità non sembrava neanche un disco dei Ti.Pi.Cal.». Il successo busserà ancora alla porte dei tre siciliani con “Stars”, tra le hit dance dell’estate 2011.

Tony H – Year 2000 (I Wanna Fly)
Entrato nella scuderia BXR nel 1998, Daniele Tognacca alias Tony H incide per l’etichetta della Media Records (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) “Zoo Future”, “Sicilia…You Got It!” e “Tagadà/www.tonyh.com”. A luglio del 2000 su DiscoiD viene annunciata l’uscita di un quarto disco, composto da “due versioni diversissime tra loro, una strumentale, l’altra cantata e dedicata all’estate di Ibiza”. Il trafiletto rimanda anche alla pubblicazione nel Regno Unito prevista a settembre. Di questo pezzo però, intitolato “Year 2000 (I Wanna Fly)” si perdono le tracce.

Tony H - Year 2000 (I Wanna Fly)
Una delle due compilation in cui finisce “Year 2000”

Contattato per l’occasione, Tognacca spiega che non riuscì a finalizzare il progetto per problemi di tempo perché, proprio in quel periodo, lasciò Radio DeeJay, dove era arrivato nel 1989, per approdare a Radio Italia Network che stava cominciando un nuovo percorso editoriale, e gli impegni in quella direzione finirono con l’assorbire tutte le sue energie. La lavorazione del brano non fu quindi portata a termine e si limitò a una sola versione che venne trasmessa come Disco Strobo in “From Disco To Disco”, su Radio DeeJay, nella puntata di sabato 29 aprile 2000. Quella stessa versione finisce nella tracklist del quarto volume della compilation “Collegamento Mentale” mixata dallo stesso Tony H e nel primo di “Maximal.FM” mixata da Ricky Le Roy, dove c’è un altro inedito confinato al CD in questione, “Happy” di Massimo Cominotto. Dal web però affiora una seconda versione di “Year 2000 (I Wanna Fly)” intitolata CRW Mix interpretata da Veronica Coassolo, in quel periodo voce del progetto CRW, che confermerebbe i dettagli emersi dal trafiletto su DiscoiD: a quanto riportato da un lettore del blog, a renderla disponibile anni addietro sul proprio profilo SoundCloud fu proprio Tognacca che però poi decise di rimuoverla. Sul fronte “annunciati ma mai pubblicati”, di Tony H si ricordano pure il mash-up “Hard Spice” del 1997, di cui parliamo qui, e “Delicious” che il DJ originario di Seregno presenta attraverso le pagine di DiscoiD a dicembre 2001 quando sta per partire il suo nuovo programma chillout su Radio Italia Network chiamato provvisoriamente “Delicious” per l’appunto ma poi diventato “Suavis”. Si segnala infine la ripubblicazione della Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” sotto il titolo “Mutation” e l’artista Pivot, su Pirate Records, l’ennesima delle etichette sussidiarie della Media Records. A oggi resta ignota la ragione per cui ciò avvenne.

USURA - Evolution - Magic Fly
L’advertising su cui si fa cenno a “Evolution/Magic Fly” (giugno ’96)

U.S.U.R.A. – Evolution/Magic Fly
Esplosi in tutta Europa tra 1992 e 1993 grazie a “Open Your Mind” che la bresciana Time Records pubblica su Italian Style Production a cui abbiamo dedicato qui una monografia, gli U.S.U.R.A. tentano di mantenere alte le proprie quotazioni per buona parte degli anni Novanta ma riuscendo solo parzialmente nell’impresa. Il team, rappresentato pubblicamente dai veneti Claudio Varola, Michele Comis ed Elisa Spreafichi ma completato, nell’attività in studio, dal produttore Valter Cremonini e dal musicista Alex Gilardi, continua a raccogliere consensi significativi sino al 1995. Nella seconda metà del decennio, quando l’eurodance cede il passo a nuove tendenze, il marchio perde quota. A “Flying High”, cantata dalla britannica Robin Campbell che aveva già interpretato dei brani per gli Alex Party, avrebbe dovuto fare seguito “Evolution/Magic Fly”, come annunciato da una pagina pubblicitaria della Time Records a giugno ’96. In realtà sul mercato, in estate, arriva “In The Bush”, remake house di un classico disco/funk del 1978 degli americani Musique. Contattato per l’occasione, Alex Gilardi rivela di non ricordare nulla in merito a “Evolution”, diversamente da “Magic Fly”, cover dell’omonimo degli Space del 1977. «Lo reinterpretammo in chiave dream progressive, così come voleva la moda del periodo, ma alla fine, su suggerimento di Giacomo Maiolini, rimase nel cassetto» afferma a tal proposito. Per gli U.S.U.R.A. ci sarà una nuova fiammata nel 1997 grazie al remix di “Open Your Mind” realizzato da DJ Quicksilver (e dal fido collaboratore Tommaso De Donatis). Sull’onda di questo risultato Maiolini affida proprio a loro “Trance Emotions” del 1998, rimasta l’ultima tessera del progetto nato a Padova di cui però si ipotizza un ritorno nel nuovo millennio.

Jinny - Don't Stop The Dance
La pagina pubblicitaria che annuncia “Don’t Stop The Dance” di Jinny (maggio ’95)

Nel 2002 infatti la Time distribuisce delle copie promozionali single sided con su inciso “Rage Hard”, rifacimento dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood. «Purtroppo non riuscimmo ad ottenere l’autorizzazione per l’uso dei sample e ritenemmo inutile proseguire, quindi quel promo venne siglato col nome Arsuu, anagramma di U.S.U.R.A.» spiega ancora Gilardi. Andando indietro negli anni e spulciando nella stampa dell’epoca, si ritrovano altri annunci della Time Records non andati a buon fine, come quelli relativi a possibili follow-up previsti per il 1995 di progetti curati dallo stesso team di produzione degli U.S.U.R.A. ovvero Silvia Coleman, Deadly Sins e Jinny. Per quest’ultimo in particolare, un advertising a maggio 1995 fa cenno a “Don’t Stop The Dance” ma ad uscire, poche settimane più tardi, è invece “Wanna Be With U” interpretata in incognito da Sandy Chambers. «Per un certo periodo eravamo come in fabbrica, la mole di musica che componevamo era talmente grande che divenne difficile se non impossibile tenere traccia di tutto. Non escludo quindi che “Don’t Stop The Dance” di Jinny (act di cui parliamo qui, nda) possa essere stato uno degli innumerevoli provini poi scartato per qualche motivo e magari riciclato, parzialmente o integralmente, per progetti di nome differente» conclude Gilardi.

(Giosuè Impellizzeri & Luca Giampetruzzi)

© Riproduzione riservata

Discommenti (settembre 2023)

Hyperstellar - Polaris EP

Hyperstellar – Polaris EP (The DJ Hell Experience)
Ruben Benabou, parigino, è l’artista che si cela dietro lo pseudonimo Hyperstellar. Attratto tanto dalle atmosfere delle colonne sonore quanto dalle potenzialità di generi come electro e techno, catalizza l’attenzione di Gerald Donald che lo vuole nel collettivo Daughter Produkt. Adesso dalla sua parte vanta un altro veterano della club culture, DJ Hell (a proposito, concedete un ascolto al recente remix realizzato per “Be A Queen” di Miss Djax), il quale lo precetta per la sua nuova etichetta che ha raccolto il testimone dell’International Deejay Gigolo a cui spetta comunque una citazione sull’artwork. Due i pezzi dell’EP: “Sibyl”, sintesi perfetta degli interessi musicali del transalpino, con ritmo e pathos, euforia e fase REM, e “Polaris”, naturale continuum di “Monarchy”, finita in una compilation della Zone nel 2021, un zigzagare verso l’ignoto in mezzo a filigrane low-fi che lasciano piombare l’ascoltatore in un pozzo apparentemente senza fondo, risucchiato dalle tenebre e da arabeschi armonici. Una doppietta che fa tesoro della lezione impartita dai decani della scena francese (David Carretta, The Hacker, Vitalic, Kiko, Arnaud Rebotini, giusto per citarne alcuni) e che nel contempo si proietta nel presente con assonanze a Gesaffelstein.

Tobor Experiment – Available Forms

Tobor Experiment – Available Forms (Bearfunk)
È stato necessario aspettare dodici anni per disporre del seguito di “Tobor Experiment Disco Experience” ma l’attesa è ampiamente ripagata. Supportato ancora dalla londinese Bearfunk di Stevie Kotey, il sound designer Giorgio Sancristoforo prosegue quindi il viaggio incantato immergendosi in pozioni alchemiche di musica fusion, exotica, easy listening e jazz psichedelico. Nove i brani della tracklist in cui mette magistralmente a punto i suoi distillati sonori, tutti saltati fuori da ipotetiche sonorizzazioni per pellicole di epoca space age. Spazio anche a una cover, “Halgatron” del compianto Detto Mariano, originariamente solcata sul lato b del 7″ con la sigla di “Jeeg Robot”. La visione retrofuturistica è il motore del disco e questo lo si evince anche dalla copertina e dal packaging (in formato gatefold) graficamente ineccepibile e comprendente un booklet di otto pagine: l’impatto visivo generato è pari a quello sonoro. Un balzo temporale indietro di cinquant’anni, per tornare a immaginare il futuro così come lo si sognava un tempo, provando un piacevole brivido emozionale.

Christian Gleinser - With A Different Eye EP

Christian Gleinser – With A Different Eye EP (Rapid Eye Movement)
Probabilmente nessuno tra coloro che incidevano musica nei primi anni Duemila avrebbe scommesso un solo centesimo bucato sulla possibilità che un giorno i propri dischi sarebbero stati rivalutati e ristampati per la generazione successiva. Analogamente a quanto avvenuto coi pezzi meno noti degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, anche quelli usciti a inizio millennio si stanno quindi lentamente trasformando da inutilità vendute per una manciata di spiccioli in rarità o addirittura “must have” proprio come le produzioni di Christian Gleinser. Attivo nei primi anni del nuovo secolo nel duo Nitsch & Gleinser insieme all’amico Daniel Nitsch e artefice di un suono meticcio tra electro, techno, chiptune e synth pop che spopolò trainato dal boom dell’electroclash, il tedesco, ormai inattivo nel frangente musicale, vede risorgere due tracce della sua prima apparizione da solista (“Look Into My Eye EP”, Superfancy Recordings, 2004). Da “Lies” e “Labyrinth” riaffiorano elementi classici per gli anni più rosei di quello che fu dipinto come neo pop: bassline arpeggiate e in ottava, melodie composte in preda alla nostalgia da Commodore 64, Atari VCS 2600 o Amiga 500 e voci vocoderizzate. Il lato b accoglie invece due inediti prodotti tra 2002 e 2005, “The Time Is Coming” e “Constant Transience”, attraverso cui l’artista dimostra ancora una volta di avere un particolare feeling col sid style. A coordinare l’operazione è la neonata Rapid Eye Movement di Jacopo, già al lavoro sulla seconda uscita, la riedizione di un EP diffuso solo su CD in un limitatissimo numero di esemplari.

Heinrich Mueller - False Vacuum Vol 2

Heinrich Mueller – False Vacuum Vol 2 (WéMè Records)
A distanza di cinque anni esatti la belga WéMè Records dà alle stampe il secondo capitolo riepilogativo sull’attività da remixer di Gerald Donald, presenza statuaria dell’electro di Detroit. Ultradyne, Cisco Ferreira, Jauzas The Shining & Victoria Lukas, Albert Van Abbe, Duplex, Fasenuova, The Exaltics, l’italiano 6D22 alias Giorgio Luceri: sono solo alcuni degli artisti che l’enigmatico artista ha rimaneggiato nel suo studio-laboratorio, infondendo costantemente una dose di astrazione mista a divagazioni scientifiche. Un compendio essenziale, impreziosito ulteriormente da tre pezzi solcati per la prima volta su vinile, per i supporter di Donald che, è bene ricordarlo, operò insieme al compianto James Stinson dietro le quinte dei Drexciya e che nel corso di un trentennio si è reinventato più volte coniando progetti destinati a marchiare a fondo la storia dell’electro contemporanea (Arpanet, Dopplereffekt, Japanese Telecom, Xor Gate…). Parte della tiratura è su vinile turchese disponibile sul sito dell’etichetta.

Cristalli Liquidi & Deux Control - Rosso Carnale

Cristalli Liquidi & Deux Control – Rosso Carnale (Artifact)
Per il ritorno del progetto Cristalli Liquidi, assente dai radar da circa un triennio, Bottin (intervistato qui) continua a trasformare funambolicamente musiche del passato riadattandole su nuove matrici. Ora tocca a “Fiore Rosso Carnale” di Annie Pascal, scritto da Pasquale Panella e musicato da Enrico Fusco, modificarsi in un pezzo italo disco intriso di malinconia, quella stessa malinconia che contrassegnò gran parte della dance nostrana nel primo lustro degli Ottanta. A svelare la genesi di “Rosso Carnale” è proprio l’autore: «inizialmente il brano mi è stato commissionato da BDC (Bonanni/Del Rio Catalog), una coppia di collezionisti d’arte che volevano realizzare una tiratura di pochissime copie per la loro etichetta Bon Bon per cui avevo già prodotto una cover di “Bambola” di Patty Pravo cantata dai Diva. Mi hanno chiesto di pensare a qualcosa di esclusivo e il brano l’ho proposto io, poi però non siamo riusciti a metterci d’accordo sui dettagli. Io pensavo a un’edizione d’artista, eventualmente anche un pezzo unico, loro invece avrebbero voluto inserire il 45 giri di “Rosso Carnale” in un oggetto da collezione, una scatola in ceramica con dentro altre cose come avevano già fatto con “Bambola”. Insomma, un progetto più articolato di cui la musica di Cristalli Liquidi era, anche giustamente, solo una parte. L’idea mi piaceva però sentivo che stonava un po’ con quello che avevo fatto come Cristalli Liquidi fino a quel momento, così ho preferito ritirare il pezzo e farlo uscire su Artifact. La tiratura è sempre limitata, ma sono duecento copie e non quindici e il prezzo è quello di un disco 12″, alla portata di DJ e appassionati. La grafica è di Lapo Belmestieri (Industrie Discografiche Lacerba). Un po’ mi dispiace di aver rinunciato all’edizione deluxe ma, pur essendo un “gruppo” di nicchia (per non dire peggio), Cristalli Liquidi ha un’identità e un “carattere” che talvolta mi obbligano a delle rinunce. Anni fa, per esempio, ho declinato l’offerta di aprire i concerti di un certo cantante pop perché mi sarei sentito fuori luogo mentre non avrei avuto problemi a fare un DJ set come Bottin nello stesso contesto. Si potrebbe obiettare che Cristalli Liquidi alla fine sono sempre io, ma la verità è che quando faccio cose come Cristalli Liquidi mi sento di lavorare per un progetto che ha una sua autonomia e che, in futuro, potrebbe essere portato avanti anche da qualcun altro».
Ad affiancare Bottin, per l’occasione, è il duo italo francese dei Deux Control ossia Edoardo Cianfanelli alias Rodion e Justine Neulat. «Una volta completata l’Italo Version ho pensato, invece di commissionare un remix, di chiedere ai Deux Control di farne una cover, reinterpretando il brano a modo loro senza usare alcuna delle parti originali, neppure la voce» continua Bottin. «Mi hanno mandato quella che sul disco è indicata come Deux Dub che mi è piaciuta tantissimo perché, al contrario della mia che è molto connotata in stile italo disco, potrebbe essere degli anni Ottanta come pure degli anni 8000. Pur essendo un traccia molto diversa dalla mia, Rodion e Justine hanno mantenuto la velocità (111 bpm) e la tonalità del brano originale. Questo dettaglio mi ha indotto a provare a incollare la mia voce sopra la loro versione, una sorta di duetto posticcio. Poi ci è venuta l’idea di mettere la voce di Justine sopra la main version. Alla fine ci siamo trovati con una canzone in due versioni in cui non importa più quale sia l’originale (che poi è una cover) e quale la copia (la cover della cover). Questo meccanismo di dissimulazione dell’autorialità è la chiave di tutto il progetto Cristalli Liquidi (come ben evidenziato in questo articolo/intervista del 2018 a cura di Jacopo Tomatis, nda), e anche nell’album non sempre è chiaro quali sono i brani originali e quali le cover. Si tratta di un procedimento di mise en abyme anacronistica non poi così diverso da quanto fatto con “Volevi Una Hit” nei confronti degli LCD Soundsystem».
Recentemente il pubblico generalista sta riscoprendo l’italo disco o parte di essa attraverso citazioni più o meno riuscite ma con quasi venticinque anni di ritardo rispetto alla prima ondata che ne recuperò le caratteristiche. Da essere un genere stantio e ancorato a un passato nostalgico da brizzolati revivalisti, l’italo disco così è parzialmente (ri)entrata nel gergo comune, complice anche il retromarketing che contribuisce a mitizzare smodatamente il passato. Ma come reagirebbe Bottin se “Rosso Carnale” diventasse un successo radiofonico e finisse nel calderone del pop? «Ne sarei felice ma non accadrà mai e posso spiegarne anche il perché. Questa riscoperta (che poi è la terza o la quarta) dell’italo disco non è dell’italo disco in quanto tale, è un’idealizzazione dell’italo disco di cui si esasperano certi suoni o certi stilemi, ma il mood è completamente diverso. Per esempio manca del tutto quella malinconia da dancefloor alla Valerie Dore che ho invece cercato di “canalizzare” in “Rosso Carnale”, oppure quell’idea di futuro e di futurità. Non che oggi non si creda nel futuro: siamo tutti convinti, chi più, chi meno, che il mondo non finirà domani, ma abbiamo smesso di pensare che il futuro ci porterà della cose nuove e una vita migliore. Crediamo nel futuro ma non nel progresso. Questa disillusione fa sì che molta musica elettronica di oggi non cerchi più di evocare con i suoni un’allegoria del futuro».
Pubblicato in digitale su Bandcamp a giugno con l’aggiunta di un’acappella esclusiva, “Rosso Carnale” viene solcato pure su 12″ dalla Artifact in un’edizione limitata che, come anticipato sopra, si fermerà alle duecento copie. Che per Cristalli Liquidi sia l’incipit di un secondo album, dopo quello del 2017 su Bordello A Parigi? «Vorrei che il progetto continuasse oltre l’attuale ubriacatura anni Ottanta alla “Stranger Things”» illustra ancora Bottin. «Con questo non voglio dire che “I Ragazzi Del Computer” o “Automan” fossero meglio delle serie Netflix, o che Baltimora e Den Harrow fossero qualitativamente migliori dei The Kolors. Non sono un nostalgico e soprattutto non mi interessano i giudizi di valore. Il prossimo singolo dei Cristalli Liquidi potrebbe però avere un sound molto diverso rispetto a quello di “Rosso Carnale”. Anzi, l’avrà, perché l’ho già completato».

DMX Krew - Still Got It

DMX Krew – Still Got It (Cold Blow)
Il nuovo disco di Edward Upton, l’ennesimo di una discografia infinita e in continua evoluzione, si ispira al funk del folletto di Minneapolis e non certamente a caso è racchiuso in una copertina-parodia del promo di “Let’s Work”. “Still Got It” (affiancata da una versione Dub) elettrifica pezzi tipo “Sexy Dancer” o “Uptown” mettendo insieme vocalità, sinuose bassline, vocoder e ampi virtuosismi alla tastiera con immancabile pitch bend. Sul lato b “Paranoia”, registrato nel 1999 ai tempi di “We Are DMX” su Rephlex, e “Cold Dub”, che tirava il sipario sull’album “Kiss Goodbye” del 2005, inciso solo su CD e destinato al solo mercato nipponico ma che la Cold Blow, come annunciato proprio nelle note in copertina, promette di ristampare presto.

Cybotron – Maintain The Golden Ratio (Tresor)
Anticipato da un single sided messo in vendita presso lo stand Metroplex in occasione del Movement Festival svoltosi durante la scorsa primavera, questo disco segna il ritorno del progetto detroitiano Cybotron. Scritto e prodotto da Juan Atkins, autentico punto cardinale della techno, e Laurens von Oswald, nipote del più noto Moritz, “Maintain”, atteso sulla berlinese Tresor, riparte dal punto in cui tutto ebbe inizio. Come in una seduta medianica, si evocano gli spiriti di “Alleys Of Your Mind”, “Cosmic Cars” e “Clear”: a venire fuori è qualcosa che profuma di passato ma contemporaneamente anche di futuro, quel futuro che un tempo si anelava leggendo romanzi di fantascienza dai quali si levavano utopie di ogni genere. Inchiodato su campiture monocromatiche e atmosfere noir e crepuscolari che un po’ ricordano “Hacker” di Anthony Rother, “Maintain” scandisce metronomicamente il tempo e trascina in un mondo cibernetico, abitato da androidi sullo sfondo di pianeti non appartenenti al nostro sistema solare. “The Golden Ratio”, sul lato b, prende le mosse da una serpentina acida che si avvolge in una nebulosa di lead sincronizzata su ipnotiche frammentazioni ritmiche. L’effetto finale suona meno drammatico se paragonato alla severità del precedente. L’EP1 compreso nel numero di catalogo lascia ipotizzare un seguito e, perché no, anche un album che in qualche modo possa riabilitare il progetto con cui Juan Atkins e Rik Davis predissero il futuro nel 1981.

JP Energy - Mathama EP

JP Energy – Mathama EP (Evasione Digitale)
Dopo aver rimesso in circolazione “Punto G” di Marco Bellini e Skeela ed “Escandalo Total/Sweet Revenge” di Andrea Giuditta, Evasione Digitale, l’etichetta portata avanti da Andrea Dallera e Andrea Dama, prosegue la missione di recupero e valorizzazione della progressive italiana d’antan ma questa volta oltrepassa il confine della ristampa mettendo le grinfie su un EP di inediti prodotti nel 1999. Il cerimoniere è Gianpiero Pacetti alias JP Energy, DJ di lungo corso che aveva anticipato l’uscita del disco un paio di mesi fa attraverso un’intervista pubblicata proprio su queste pagine. «Mathama era un posto sul fiume del mio paese dove andavo a fare il bagno da piccolo, pensare a quei momenti evoca ricordi meravigliosi» spiega Pacetti ricontattato per l’occasione. Tre i pezzi, prodotti con Mario Giardini alias Macro DJ nello studio allestito nel retrobottega del negozio di dischi Mandragora, il cui l’artista lombardo fa collidere urgenze ritmiche lineari e svolazzi melodici, incontrastato trademark della corrente progressive nostrana nata nei primi anni Novanta sulla spinta di alcuni DJ toscani e pian piano diffusasi in tutto il Paese, con conseguente depauperamento creativo e cannibalizzazione pop. Pacetti però è un antidivo per eccellenza e risiede al polo opposto del pop, e questo lo si capisce subito poggiando la puntina su “Iridium”, crocevia di pulsazioni di batteria e atmosfere sospese da spy story avvolte nel cuscino di arpeggi lasciati volteggiare in aria. Simile il contenuto di “Voyage (1999 Mix)”, scandita da un pulsante disegno di basso e un’infiorescenza a corimbo di suoni astrali captati da un universo parallelo. Chiude “Cobalt” in cui fanno capolino frenetici riferimenti electronic body music ma virati sempre in quella chiave melodica che fu la cifra distintiva delle produzioni progressive made in Italy negli anni Novanta.

Dressel Amorosi - Synthporn - Cargo

Dressel Amorosi – Synthporn / Cargo (Four Flies Records)
Come anticipato in Discommenti di giugno in cui si parlava di “Buio In Sala”, riecco in azione il duo Dressel Amorosi con un atteso 7″ contenente due brani. “Synthporn”, sul lato a, sembra uscire da una vecchia pellicola blaxploitation, tra fraseggi funky e atmosfere rilassate frutto di un’ipotetica jam session tra Armando Trovajoli e Lalo Schifrin, “Cargo”, sul retro, gira su un blocco ritmico più marcato ma mantenendo inalterato lo spiccato vibe funkeggiante che, a conti fatti, risulta l’elemento di raccordo dei pezzi dei due musicisti capitolini. Sulla rampa di lancio c’è anche il loro secondo album, “Spectrum”, la cui pubblicazione è attesa per il prossimo 17 novembre.

Sissy - Queen Of Discoteque

Sissy – Queen Of Discoteque (Giorgio Records)
Il mercato delle ristampe ha ormai raggiunto dimensioni ciclopiche: probabilmente il numero delle reissue oltrepasserà presto (o forse è già avvenuto?) quello delle produzioni inedite e ciò lascia riflettere su quanto siano profondamente “retrodipendenti” gli anni che viviamo. In tale contesto si inserisce la barese Giorgio Records partita nel 2019 e diretta da Massimo Portoghese, l’ennesima delle etichette indipendenti che si pone l’obiettivo di riabilitare nomi e musiche sepolti dalla polvere degli anni. Per l’occasione a resuscitare, dopo circa un quarantennio, è “Queen Of Discoteque” di Sissy, un pezzo che risentì dell’influsso freestyle statunitense mischiato a retaggi funk ma scarsamente italo nel senso più stretto del termine e forse per questo commercialmente sfortunato. «La tiratura originale su Eyes contò appena duemila copie, decisamente poche per i tempi» racconta Portoghese. «Il disco non fu supportato da alcun tipo di promozione e probabilmente anche questo giocò a svantaggio della sua riuscita. A cantare il brano fu Patrizia Luraschi, autrice anche del testo e ideatrice del progetto insieme a Pierpaolo Beretta. Per “Queen Of Discoteque” (a differenza di “Coloured Rhymes”, ristampato a inizio 2023 dall’olandese Lusso Records, nda) si affidarono al Maestro Rodolfo Grieco che si occupò della produzione ma nel momento in cui non ci furono più nuove idee da intavolare, il progetto si arenò».
Rimasto nel dimenticatoio per quasi quattro decenni, tolta qualche apparizione in compilation riepilogativa e una manciata di bootleg, “Queen Of Discoteque” ritorna quindi nei negozi di dischi attraverso una ristampa meticolosamente curata in ogni dettaglio, dalla copertina al restauro del master a firma Tommy Cavalieri. «Non è stata un’operazione veloce, ho tampinato il Maestro Grieco per almeno tre anni» spiega ancora Portoghese. «Non potemmo procedere con la licenza perché alcune persone mi anticiparono di pochissimo ma lui, sin da subito, si mostrò scettico e, per mia fortuna, ha preferito aspettare prima di ufficializzare il tutto. Quando capì che non se ne faceva più niente, iniziammo a progettare la ristampa su Giorgio Records. Si è fidato di me e oggi ci vogliamo molto bene, è una bravissima persona. Una peculiarità distintiva dell’operazione è la presenza di due versioni inedite, Unreleased Vocal e Unreleased Instrumental: le ho trovate restaurando il nastro originale. Credo furono tagliate per realizzare il formato 7″».
Contesissimo nel mercato dell’usato, sul quale da anni viaggia a cifre tutt’altro che modiche, “Queen Of Discoteque” si prende dunque la rivincita. «In cantiere ho un’altra produzione del Maestro Grieco alias Rudy Brown (come si firmò ai tempi di Sissy, nda), “She’s Gone Away” di Jimy K, uscita sempre su Eyes nel 1984. Praticamente introvabile, è un cult, scritto insieme a Naimy Hackett, che conto di pubblicare prima di Natale. Seguirà, nel 2024, “You’ll Be In Paradise” di Salentino, con le versioni originali del 1985 a cui si affiancheranno un rework di Franz Scala della Slow Motion Records e un edit dell’amico James Penrose alias Casionova» conclude Portoghese.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

NicoNote: ritrovare l’unicità come valore è ancora una prerogativa dell’underground

Figura artistica piuttosto atipica per la scena nostrana, Nicoletta Magalotti individua nella trasversalità l’habitat in cui muoversi, frequentando i club quanto i teatri, senza alcun pregiudizio. Tra 1984 e 1988 è la voce dei Violet Eves, band nata nell’alveo della new wave, poi si muove lungo coordinate differenti alla ricerca di un’identità costruita pazientemente e con tenacia. Musica, teatro, poesia, avanguardia: NicoNote, nome con cui si ribattezza nel 1996, non pone alcun limite al proprio raggio d’azione e, come si legge nella sua biografia, unisce la dimensione performativa al clubbing, l’improvvisazione radicale al pop, e crea uno stato d’animo, un mondo in cui qualcosa “succede”. In un articolo di qualche tempo fa Christian Zingales ne parla come una “suprema chanteuse tra spleen rivierasco e sirene mitteleuropee”, definizione calzante per descrivere una personalità a tutto tondo come la sua che, attraverso suoni e voci, attraversa plurimi generi e atmosfere mescolando tutto in un linguaggio sonoro più unico che raro.

Da piccola avevi già mostrato inclinazioni per la musica, il teatro e l’arte in genere?
Ero una bambina molto piena di energia, curiosa, bilingue, sognatrice. Vivevo a Rimini nella zona del Grand Hotel, vicina ai dancing più in voga, sentivo le orchestre suonare fino a notte inoltrata. Durante le vacanze estive, che negli anni Settanta duravano sino al primo di ottobre, trascorrevo un paio di mesi in Austria, nella casa di mia nonna. Il gioco che preferivo era inventare personaggi e drammaturgie istantanee. C’era una veranda in stile liberty, con finiture di rame e antichi vetri soffiati, che dava sul giardino, nel retro della casa e sul lungofiume. Quello era il mio regno, lì costruivo scene a canovaccio, personaggi e storie che si evolvevano coinvolgendo nel gioco le mie cugine, amici e amiche, per me era un appuntamento magico. Nello stesso periodo scoprii in soffitta un baule appartenuto alla sorella di mia nonna, danzatrice fantasista che si esibiva nei cabaret e music hall europei negli anni Trenta e Quaranta. Dentro c’erano cappelliere e valigie con timbri di hotel di riviere lontane, da Vienna a Sarajevo passando dal Mar Nero e Salonicco, e i suoi vestiti di seta antica e paillettes con cui ci travestivamo per immergerci meglio nelle nostre avventure. Ero una sorta di regista, dramaturg prima attrice mentre il gruppo una proto compagnia in stile Camp surrealista. A Rimini, fin dalle elementari, studiavo pianoforte: gli esercizi mi annoiavano ma mi piaceva comporre canzoncine. Frequentavo danza classica con ardore ed entusiasmo ma a nove anni un feroce dolore quando la mia insegnante mi disse che dovevo smettere perché troppo cicciottella. Il primo strappo della realtà. Poi l’adolescenza tra body shaming e bullizzazioni, il liceo, l’impegno politico studentesco, la scoperta del teatro di ricerca legato al Festival di Santarcangelo, la scoperta del punk, gli Skiantos, Patti Smith a Bologna, lo Slego psychodancing, i Magazzini Criminali, le prove di “Wielopole, Wielopole” di Kantor a Firenze, sonorità prospettiche, Robert Ashley e Blue Gene Tyranny della Lovely Music, Frigidaire, “La Voce Del Padrone”, “O Superman” di Laurie Anderson, Fassbinder, Wim Wenders, Peter Handke, la mia prima compagnia il TIC Teatroincerca / Macchine Celibi, l’incontro con Akademia Ruchu, poi Yoshi Oida, il Roy Hart Theatre, Leo Toccafondi…

La passione per la musica, lo sport o altre discipline artistiche sbocciata ai tempi dei social network è differente rispetto a quella nata in epoca pre-web? La Rete partorisce artisti “veri” o, come asseriscono alcuni, solo un mare infinito di aspiranti tali?
Non so risponderti. Io sono una boomer per età anagrafica ma non mi permetto di giudicare perché ci sono esperienze che mi interessano, altre meno. Siamo qui, oggi. E dico siamo, al plurale, noi, tante individualità. In generale non sono attratta dalle classificazioni, lascio la loro visione agli analisti degli algoritmi e al marketing. Personalmente, quando qualcosa mi parla, lo riconosco, che arrivi dal web, che sia per strada, in teatro o altrove. Mi piace sorprendermi, la curiosità è fondamentale perché nutre l’intuizione e affina le antenne e io ho sempre attinto dalle mie antenne. Credo che l’essere umano, in quanto tale, sia sempre lo stesso di cento anni fa, con emozioni, paure, sofferenze, gioie. Il corpo, gli organi e il loro funzionamento restano i medesimi. Noi crediamo di essere presenze diverse ma i nostri organismi, in realtà, sono esattamente uguali a quelli dei nostri avi. A cambiare è il pensiero, lo sviluppo cognitivo e della percezione ma su una base di umanità, di caducità del nostro essere. La passione per l’arte e la creazione arriva sempre dal profondo.

1) Violet Eves
I Violet Eves in una vecchia foto

Nel 1984 incontri i Violet Eves e l’anno successivo debuttate con “Listen Over The Ocean” su Anemic Music. Come nacque la collaborazione con la band?
Nel 1984, poco prima dell’estate, entrai in contatto con vari musicisti della scena in Riviera. Avevo ventuno anni e dopo il liceo mi iscrissi alla facoltà di filosofia a Urbino ma invece di studiare per gli esami mi muovevo tra frequentazioni di Slego, Aleph e gruppi di proto raver tipo Sguinc Way. Come accennavo prima, ero stata attratta dalla scena teatrale che in Romagna aveva come epicentro il Festival di Santarcangelo, e fin dai tempi delle scuole mi ero lasciata coinvolgere da gruppi teatrali e workshop di teatro di ricerca che mi fecero scoprire la mia voce. Durante l’estate di quell’anno andavo agitando visioni nella nightclubbing che si stava creando inventandomi come performer e art director, dal Lady Godiva all’Insomnia Cattolica passando per Le Navi e il Lily Marlene di Misano Adriatico. Facevo tutto senza strutturarmi, semplicemente seguendo a mia creatività. In questo quadro partecipai ad alcune session musicali in maniera informale col compositore Giorgio Fabbri Casadei (apparso come chitarrista in “Fire Night Dance” di Peter Jacques Band, nda), già fondatore dei Rimini Beach Party e poi in gruppi come Ella Guru e Trio Magneto, il primo musicista col quale abbia cantato in vita mia. Successivamente, proprio con Giorgio e Leonardo Militi, formammo un nucleo sonoro dal nome temporaneo Merrie And The Melodies, ma era tutto molto basico e senza definizione. Tenni altre session con vari musicisti tra cui Gabriele Tommasini dei Violet Eves, una band di cui avevo sentito parlare ma che non conoscevo, e un amico che era in vacanza a Rimini, Decio Guardigli detto Groghi, coi quali incidemmo su cassetta “1/100”, un brano sospeso tra elettronica e ambient psichedelico. Per l’occasione creammo una proto band chiamata My Favourite Lie. Nel frattempo i Violet Eves, il gruppo in cui suonavano Gabriele e Leonardo, stavano rivedendo la propria lineup in cerca di nuove sinergie. Io, come dicevo, non li conoscevo ma ero incuriosita e mi invitarono a fare delle session insieme al batterista Franco Caforio e il chitarrista Renzo Serafini, anche lui lì per la prima volta. Era l’ottobre 1984 e quelle sessioni davano risultati molto concreti ed emozionanti, tra noi c’era un buon feeling e a dicembre completammo un demotape con cinque brani originali, “Listen Over The Ocean”, “F. M. Night”, “Bords De Mer”, “Lifeless Town” e “I Can’t Reach You”, tutti molto particolari e in varie lingue. Poiché non era stato ancora pubblicato nessun disco, decidemmo di continuare a usare il nome Violet Eves, considerando quel momento un nuovo inizio. A trasmettere per la prima volta quei pezzi fu il DJ Thomas Balsamini, in seguito fondatore del Velvet Club, su Radio San Marino, l’emittente della Riviera underground di quegli anni.

A quanto si narra, fu Piero Pelù a passare “Listen Over The Ocean” ad Alberto Pirelli che aveva da poco fondato la sua etichetta, l’IRA (acronimo di Immortal Records Alliance) e che decise di mettervi sotto contratto. Così nel 1985 vi ritrovate nella stessa scuderia dei Diaframma e Litfiba e incidete il primo album, “Incidental Glance”, distribuito da PolyGram. Come ricordi quel periodo?
Tramite Franco Fattori, DJ dello Slego e di Radio San Marino, la nostra demo arrivò nelle mani di Piero Pelù che a dicembre del 1984 si esibì proprio allo Slego coi Litfiba. Piero, a sua volta, fece ascoltare la demo a Pirelli che, intorno alla metà di gennaio del 1985, ci convocò a Firenze, in Via Del Castellaccio, la prima sede dell’IRA Records. Nella primavera 1985 nei negozi di dischi arrivò il nostro disco di debutto, “Listen Over The Ocean”, un EP contenente tre brani, “Listen Over The Ocean” sul lato a, “F. M. Night” e “Bords De Mer” sul b. Lo registrammo a Firenze, presso gli studi della mitica GAS (Global Art Studio) con Daniele Trambusti come ingegnere del suono. Pochi mesi dopo, a luglio, suonammo alla Rokkoteca Brighton a Settignano, grande emozione. Grande grande. Tutto quel momento è stato magico e irripetibile, spontaneità assoluta e tutta l’energia dei vent’anni, genialità della giovinezza ancora non mediata da mentalità di marketing. Fummo molto apprezzati, anche dalla stampa specializzata, e io parecchio elogiata, forse perché ero l’unica (o quasi) donna della scena underground. Per me fu un tratto distintivo alquanto forte nonché un’esperienza toccante. Si stava creando tutto in quegli anni, dai rock club ai festival. In estate registrammo “Incidental Glance” che uscì nell’inverno seguente. Suonammo moltissimo, anche all’estero tra Francia, Svizzera, Austria e Grecia: al Festival Biennale dei Giovani del Mediterraneo, alle Trans Musicales di Rennes, a Le Printemps di Burges e a Parigi. In particolar modo rammento il concerto a Les Bains Douches proprio nella capitale francese, nell’inverno 1985, un locale mitico in cui si esibirono qualche anno prima i Joy Division (tra l’altro registrando un live pubblicato ufficialmente molto tempo dopo). Il nostro suono nasceva sul crocevia tra new wave, dream pop e indie, fu un’esperienza decisamente interessante, un momento nuovo, l’inizio di una scena e per questo sono felice e orgogliosa di esserne parte.

“Incidental Glance” venne pubblicato anche in Giappone: ciò si tradusse in qualche sinergia o iniziativa con l’estremo oriente?
No, nulla. Fu una bella pubblicazione con grafica spaziale ma niente di più, seppur per noi una notizia sorprendente e in qualche modo gratificante.

2) I due album dei Violet Eves
Le copertine dei due album dei Violet Eves

Per incidere un secondo LP impiegate tre anni, arco di tempo impensabile per le dinamiche della discografia odierna. “Promenade” arriva dunque nel 1988 e la prima cosa che salta all’orecchio sono i testi in lingua italiana. Era una scelta dettata dal desiderio di abbracciare e conquistare un pubblico più trasversale e magari accattivarsi le simpatie delle emittenti radiofoniche?
Una scelta non scelta è sempre una scelta. In parte fu un desiderio artistico, in parte un po’ la spinta delle circostanze. Scrivevo già in inglese, francese e tedesco e mi parve giusto provare anche l’italiano, cercando una forma canzone che mi corrispondesse nella nostra lingua. Poi, dettaglio non certamente marginale, incidevamo per un’etichetta che aveva adottato come slogan “la nuova musica italiana cantata in italiano”. La scelta dell’italiano da un lato ci fece progredire, dall’altro ha segnato uno spartiacque nella produzione creativa. A produrre il disco fu Roberto Colombo che portò molta consapevolezza alla band, sia in fatto di organizzazione e struttura del lavoro artistico, sia in direzione di un nuovo approccio al lavoro. Registrammo “Promenade” in inglese e in italiano ma alla fine optammo per quest’ultima versione. Ricordo un impegno molto forte nella scrittura dei testi, inizialmente in inglese insieme a Anthony Charles Dewhurst, già collaboratore dei Baciamibartali. Poi tradussi tutto in italiano, con l’aiuto del paroliere Elio Aldrighetti detto Broz durante l’estate del 1987, in un torrido luglio segnato dai viaggi in treno Milano-Lambrate, senza telefoni cellulari per comunicare ritardi o cambi di bar dove incontrarsi, davvero un’altra dimensione. L’album prese vita attraverso numerose e intense fasi di pre-produzione e arrangiamento che misero la band di fronte a scelte sonore molto definite che, contestualmente all’adozione della lingua italiana, crearono uno squilibrio, un gap, tra il nostro grado di adesione alla musica italiana e l’approccio all’uso dell’italiano e alla composizione. “Promenade” uscì anche in Francia, prodotto del citato Colombo e con due ospiti preziosi quali Patrizio Fariselli e Mauro Pagani. Da quel momento in poi avremmo dovuto spingere forte e tenere duro anche senza certezze ma non riuscimmo a cementare la collaborazione. Comunque è bizzarro che proprio “Promenade” verrà ristampato a breve dalla veronese Saifam, etichetta che si occupa di ristampe d’autore, con la supervisione di Roberto Mancinelli, nostro fan da sempre e grande professionista nel settore musicale.

Sempre nel 1988, insieme ai Litfiba e ai Moda, i Violet Eves prendono parte a un tour che tocca anche il Tursport di Taranto, un posto che ha visto transitare band del calibro di Bauhaus, Simple Minds, Ultravox, Siouxsie & The Banshees, Cult, Style Council e New Order. A proposito di questi ultimi, Giuseppe Basile e Marcello Nitti scrivono in “’80, New Sound, New Wave”, che “The Beach”, incisa sul retro dell’arcinota “Blue Monday”, fu ispirata proprio da una spiaggia tarantina, il più bel ricordo della loro prima tournée italiana risalente al 1982. Ricordi qualcosa di quel luogo e del pubblico?
In quegli anni a Taranto c’era un scena molto forte dell’underground italiano, lì ci sentimmo amati e ricordo un Tursport gremito all’inverosimile. Aprimmo quel concerto così importante con un’intro strumentale, “Cartolina A Nicole”, per poi proseguire con “Big Goodbyes”, un brano lentissimo, una ballad proto trip hop, molto magica, quasi surreale direi. La serata si protrasse in festa con tutti i musicisti delle band e gli amici tarantini. Sebbene abbia dei ricordi nitidi, parliamo di un’epoca davvero lontana, un altro secolo… Sono tornata a Taranto recentemente, invitata a suonare proprio dai ragazzi che organizzarono il concerto dei Violet Eves allora, e ho ritrovato una bella situazione, molto emozionante.

Prima di sciogliervi però, coi citati Litfiba e Moda realizzate “Padam Padam”, cover dell’omonimo di Edith Piaf.
Per promuovere la tournée francese dei Litfiba coi Violet Eves in apertura, in programma tra febbraio e marzo 1989, nacque l’idea di un disco promozionale destinato espressamente al mercato francese, la cui realizzazione fu coordinata da Claude Guyot, co-fondatrice della IRA di base a Parigi. Fondamentalmente era un disco promo in edizione limitata, con la cover della Piaf sul lato a, rielaborata e cantata a tre voci da me, Piero Pelù e Andrea Chimenti, con arrangiamenti di Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo. Tutti e tre insieme, Andrea Chimenti, io e Piero Pelù, la cantammo dal vivo una volta sola, a Parigi nella serata IRA a La Cigale, nell’ottobre 1988. A fine concerto in chiusura “Padam Padam” tutte e tre le band insieme sul palco. Il teatro era stracolmo e sembrava dovessero venire giù i lampadari. La gente era strafelice. Grande emozione. La tournée in Francia del 1989 la affrontai da sola poiché la band era splittata proprio alla fine del 1988, proponendomi in versione unplugged voce e piano con Mauro Sabbione alle tastiere, aprendo tutti i concerti dei Litfiba, l’ultimo tour della formazione originaria con Maroccolo e Ringo e Giorgio Canali come fonico. Nei bis finali Piero mi chiamava sul palco e cantavamo “Padam Padam” come long suite a chiusura di serata. Tempi lontanissimi. Inabissati.

3) Nico lp
L’artwork del primo album da solista che Nicoletta Magalotti incide per la EMI nel 1992

La fine dell’avventura coi Violet Eves non ferma la tua vocazione artistica: nel 1989 presti la voce a una rivisitazione di “Estrellita” dei Panoramics, finita nell’album “Bugie Colorate” e poi remixata in chiave ballabile dai 3/5 dei futuri Planet Funk per la Flying Records, nel 1990 reinterpreti “Alba Chiara” di Vasco Rossi per una compilation della CGD, nel 1991 partecipi alla colonna sonora del film “L’Amico Arabo” di Carmine Fornari. Nel 1992 i tempi sono maturi per il tuo primo LP da solista, “Nicoletta Magalotti: Nico”, prodotto ancora da Pirelli, edito dalla EMI e contenente collaborazioni con Ghigo Renzulli (“Terra Elettrica”) e Teresa De Sio (“Amore Da Vendere”). Cosa voleva dire, ai tempi, avere il supporto di una multinazionale? Te lo chiedo perché, in un’intervista di qualche tempo fa, dichiarasti di essere «rimasta profondamente bruciata dal sistema».
Sì è vero, “Estrelllita”… beh ai tempi l’ho fatto mossa da amicizia. Mi sembrava un bel brano! Eh sì, il primo periodo dopo lo lo scioglimento dei Violet Eves… uno dei più neri del mio percorso. Ho imparato tanto. In quel preciso momento anche le etichette indipendenti, compresa la IRA, si stavano muovendo verso le major e io sono capitata in mezzo a un ingranaggio che non mi corrispondeva, con problematiche legate sia alla produzione musicale in senso stretto (non piaceva ciò che componevo), sia al body shaming, parecchio aggressivo e radicato nel settore. Così, dopo alcune fatiche discografiche, mi sono ritrovata senza contratto, senza un nuovo progetto chiaro. Bruciata. Ed è in questa fase che la mia strada incontra da un lato la collaborazione con il teatro della Societas Raffaello Sanzio per il progetto “Orestea (Una Commedia Organica?)” e, in parallelo, la collaborazione con il Cocoricò dove ho potuto creare ed elaborare un personalissimo percorso artistico parallelo, nella “sparizione”, abbracciando una dimensione laterale sotterranea, per giungere dove sono adesso.

Nel 1994 parte l’avventura del Morphine, «un piccolo spazio slegato dalla necessità di far ballare e, di conseguenza, fondato sulla frequentazione prevalente di gente del tutto diversa rispetto a quella delle due sale principali del Cocoricò» come descriveva qualche anno fa David “Love” Calò in questa intervista. Un eremo scollegato quindi dal classico concetto di discoteca, la bambola più piccola di un’ideale matrioska rappresentata dal tempio del divertimentificio di Viale Chieti. Come e cosa ricordi di quel posto e come lo descriveresti a coloro che non hanno mai messo piede?
Un gesto plastico tutta la notte. Un po’ underground cave anni Ottanta, un po’ Twin Peaks e un po’ factory di Andy Warhol, passato e futuro mescolati, glamour e rock n roll. Un posto da creare e ricreare ogni volta. Nascosta dal mondo, esistendo, creando uno spazio in movimento, dove ho sperimentato suono e voce, visioni, senza necessità di riflettori. Ricordo anche molto lavoro fatto di giorno per allestire il dispositivo “scenico” da condividere la sera con passanti passeggeri.

4) Nico e David
Nicoletta Magalotti e David “Love” Calò ai tempi del Morphine

Dal Morphine sono passati personaggi di multipla estrazione artistica, da Roberto Cacciapaglia a Manlio Sgalambro, da Arto Lindsay a Enrico Ghezzi, da Piero Pelù a Faust’O passando per Blaine Reininger dei Tuxedomoon, Barbara Alberti, Howie B e Aphex Twin. Ritieni che oggi ci siano ancora gli estremi per ricreare quel concept oppure il luogo legato al disimpegno, come la discoteca e nella fattispecie il Cocoricò stesso, è finito con l’essere cannibalizzato dalla globalizzazione e dal generalismo meno illuminato?
Mi fa piacere che il Morphine venga ricordato e riconosciuto come un luogo speciale, personalmente lo considero un’estensione della mia produzione artistica, una sorta di opera in divenire. Per me fu parecchio faticoso lavorare alla programmazione e ciò che descrivi in queste righe fu particolarmente arduo crearlo in quegli anni, non era affatto scontato come si potrebbe credere. Poi, nel tempo, ha assunto forza, diventando un punto di riferimento. Ricordo le varie telefonate per invitare gli ospiti, non era semplice rintracciare i contatti come del resto non era impresa facile portare in un locale notturno artisti che solitamente si esibivano nei teatri o in luoghi deputati. Rammento con affetto la prima volta che chiamai Manlio Sgalambro, la telefonata a Laura Betti e a Roberto Cacciapaglia o, ancora, la conversazione con la Materiali Sonori per organizzare la mitica serata con Roger Eno o la telefonata con Mister Cohen a New York, manager di Arto Lindsay… poi Mixmaster Morris e altri ancora. Se da un lato fu complesso mettere insieme una programmazione di quel tipo, dall’altro fu altrettanto difficile convincere l’azienda. Ciò che oggi viene narrato come frutto di un tempo più aperto al nuovo fu creato grazie a grande determinazione, abnegazione e dedizione al fare con immenso lavorio dietro le quinte, a tutti i livelli. Concordo con quanto affermi, purtroppo oggi tutto è stato cannibalizzato e sminuito ma ciò vale non solo per l’ambiente discoteca. Le esperienze e le creazioni interessanti sono fatte dalle persone e dalle circostanze, talvolta del tutto casuali. Sinergie che accadono e quindi possono ripetersi nuovamente in futuro. Perciò sono e resto fiduciosa.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente pensando al Morphine o che pensi siano i più appropriati per descrivere quel luogo?
Credo che ognuno abbia il suo “film” con la soundtrack originale, ed è davvero impossibile restringere a soli tre brani il sound del Morphine. Ho parecchie ore di volo con la musica di David “Love” Calò nonché una traiettoria di ascolti e sguardo esperienziale molto personale. Quindi, per rispondere alla domanda, cito i primi tre che mi vengono in mente:
“Kiss Me” dei Don Air, dall’album “Carpenter’s Delight” del 1999, che utilizzo ancora nei miei set come citazione sonica e ironica di un tempo cristallizzato;
“The Needle And The Damage Done” di Neil Young, tratto da “Harvest” del 1972, un album di un altro tempo e senza tempo. Un brano che David “Love” Calò ha passato forse una sola volta in tutta la storia del Morphine. Ricorderò sempre la sua faccia mentre poggiò sopra la puntina dopo una serie di pezzi di ambient cosmica e psichedelica. Mi guardò e disse, con caustica ironia: «il danno è fatto!»;
“Cavern” dei Liquid Liquid, dall’EP “Optimo” del 1983, con quel basso così trascinante. Un brano che ho ascoltato a ripetizione durante la mia esperienza clubbing che unisce le prime serate all’Aleph nei primi anni Ottanta con le notti al Morphine e che, a distanza ormai di quarant’anni, conserva immutato un forte appeal.

5) Al Morphine nel 2006
NicoNote al Morphine nel 2006

Per decenni il Duemila è stato designato dalla narrativa letteraria, dai fumetti e dal cinema, come la porta che avrebbe spalancato il futuro all’umanità. Per certi versi così è stato, se si pensa ad esempio alla massificazione del web, alla diffusione capillare degli smartphone o allo sviluppo dell’e-commerce, tuttavia in alcuni ambiti, come quello della musica, il futuro è progressivamente sparito lasciando spazio a un numero indefinito di surrogati derivativi e un mare magnum di ripescaggi. Il passato ha preso il posto del futuro, inghiottito da una sorta di macchina del tempo. Come mai è accaduto ciò? È corretto sostenere quindi che il futuro fosse ieri?
Il futuro si crea nel presente. Respiriamo profondamente, qui, ora.

Internet ha stravolto le regole del gioco in numerosissimi campi, incluso quello della musica, riducendo quasi a zero gli introiti derivati dalla vendita della stessa e smaterializzando i supporti fisici, rimasti in vita perlopiù alla stregua di feticci e simboli di resistenza contro l’inesorabile digitalizzazione. Tutto questo ha mutato anche la percezione nei confronti della musica stessa, minando le certezze della vecchia discografia, sia mainstream che underground. Se la prima però tenta di arginare i danni cavalcando capitalisticamente le nuove tipologie di fruizione, la seconda pare annaspare in un oceano con ben poche vie di salvezza. Tantissime etichette hanno chiuso battenti o ridotto drasticamente le proprie pubblicazioni, in assenza di un numero sufficiente di acquirenti. Il web, dunque, sta uccidendo l’underground, la vera vittima dei cambiamenti epocali post millennio?
Forse hai ragione eppure, nonostante le difficoltà, ci sono ancora editori ed etichette che creano, producono e agiscono. Penso a Rizosfera, New Interplanetary Melodies o Mille Plateaux… ma non solo. Credo sia necessario ribaltare la prospettiva. La necessità di fare sperimentazione è stata sempre importante per me e probabilmente lo sarà anche in futuro. Con la predisposizione underground non si può pensare ai “numeri” con voracità. Un ridimensionamento drastico sulle aspettative del mercato è un atteggiamento che esorto, ritrovare l’unicità come valore è ancora una prerogativa dell’underground. Credo che quello che viviamo sia un periodo in cui si debbano inventare nuove formule, nuovi formati e nuovi valori. Ciò che più mi affascina è che, come nelle novelle distopiche, assistiamo a una sorta di resistenza all’algoritmo e osserviamo questo fenomeno nei più giovani. Una resistenza estetica da parte di chi vuole una forma identitaria molto personale che non si confronta necessariamente col mezzo dei portali digitali ma cerca altri formati. Assistiamo alla rivalutazione della musica nella sua accezione di opera e non solo come prodotto ma proprio come oggetto artistico. La grande esplosione del vinile, il libro, la cassetta, la pennetta USB personalizzata, lo streaming su siti dedicati e privati, insomma un intreccio di formati dove ognuno di essi viene scelto e impreziosito, non dai numeri degli ascolti ma dalla qualità dell’opera. Non tutto il mio repertorio è stato riversato sul web, ultimamente lavoro molto nella direzione delle copie numerate con modulazioni di formati, dal vinile al libro, da USB al CD fino allo streaming illimitato. Un’ibridazione di formati insomma, un concetto che mi interessa sviluppare, del resto sperimentare è una caratteristica intrinseca dell’underground. Le piattaforme vanno riformulate, sono ancora molto bidimensionali, potrebbero creare contenuti o distribuirli come gesti artistici. Spesso ho immaginato di poter sperimentare in questo senso, sarebbe una vera nuova opportunità. Proviamo a immaginare tutte le metapossibilità che i mezzi dello spazio digitale ci offre: si potranno sperimentare portali con allargamento dello spazio acustico? Rilanciare e aprire qualcosa di più articolato e meta-sinestetico? C’è ancora molto margine per sperimentare, specialmente in un territorio come quello del do it yourself, in tutte le sue caleidoscopiche forme, senza steccati. Lo affermo come auspicio e attitudine underground e colgo l’occasione per lanciare qualche suggestione di possibile traiettoria: rifondare, aiutare, riattivare, promuovere, sostenere, divertirsi, sentire la vitalità della scena, vivere lo spettacolo dal vivo a 360 gradi.

Un discorso analogo si può fare relativamente alle riviste musicali, falcidiate anno dopo anno dai bit digitali. Sono in poche a resistere in area rock e post rock, forse nessuna tra quelle devote a elettronica e dintorni. Perché il nostro Paese è così povero di letteratura specializzata su house/techno e derivati? Perché non esiste un nutrito gruppo di scrittori e critici dediti esclusivamente alla musica da ballo, pari a quello del rock o del jazz? Forse la dance è stata oggetto di una sorta di ghettizzazione, la stessa che fece storcere il naso ai musicisti, giornalisti (fortunatamente con qualche eccezione, su tutte Dino D’Arcangelo, a cui tu e Pierfrancesco Pacoda avete dedicato un recente volume) e accademici sin dai primi anni Ottanta?
Sì, sono d’accordo, di fondo sussiste una diffidenza culturale nei confronti della dance elettronica e tutto il clubbing più in generale, per tanti motivi storici ma forse anche perché la linea di demarcazione tra i generi è fortissima. C’è sempre una specie di polarizzazione schematizzante, rock o jazz, indie o cantautorato, pop o elettronica. Inoltre la “piattaformizzazione” della musica cavalca la frammentazione per generi sui portali e questo va proprio a forzare ed esacerbare tale aspetto. Recentemente però avverto una maggiore apertura tra gli addetti ai lavori, tuttavia rimane ancora evidente la separazione tra linguaggi. Personalmente mi sono sempre mossa ibridando i generi nelle macro aree di musica, teatro, performance, clubbing e installazione. Mi sono permessa di fare contemporaneamente pop e ricerca, dance e sperimentazione sulla voce, senza attendere che i tempi fossero maturi. Scegliere la sperimentazione ha il suo prezzo da pagare. Per quanto riguarda Dino D’Arcangelo, grazie per averne fatto menzione, per me “Tenera È La Notte” è stato come chiudere un cerchio. Ho raccolto, insieme a Pacoda, gli articoli del giornalista pugliese contenuti nella rubrica omonima destinata a La Repubblica, la prima che si sia mai occupata di clubbing sulla stampa generalista in Italia per raccontare una scena che per molto tempo è stata fonte di creatività e sopravvivenza.

6) NicoNote Live ph. Chiara Maretti
Nicoletta Magalotti immortalata da Chiara Maretti durante una performance

I primi anni Duemila ti vedono attiva come Slick Station, Dippy Site (insieme ai M.A.S. Collective) e col compianto Stefano Greppi coi quali realizzi, rispettivamente, “Cosmic”, “Panorama Astratto (Softly Changing)” e “Living In A Video”. Nello stesso periodo con Andrea Felli e il sopraccitato Calò dai vita al collettivo AND tirando fuori un album per la Kom-Fut Manifesto, “Fashion Victims”. Le collaborazioni rappresentano ancora occasioni di arricchimento e scambio oppure si stanno trasformando in formule studiate a tavolino finalizzate alla capitalizzazione di fanbase?
La musica è un gioco d’insieme e le collaborazioni sono fondamentali. Nel dialogo puoi crescere o anche fermarti. Io faccio solo ciò che mi interessa e non ho mai pensato in termini di marketing o per compiacere ai fan. Se ciò avviene ovviamente mi fa piacere e torna molto utile ma non è la ragione che mi muove. A guidarmi e segnalarmi il cammino piuttosto è la motivazione, la vera bussola per individuare la giusta cifra e la temperatura di ogni collaborazione. Curiosità: i progetti citati risalgono a un periodo in cui mi divertivo a coniare di volta in volta nuovi moniker per far perdere le mie tracce. Qualche tempo dopo con Giovanni ‘Limo’ Limongelli, oltre a Slick Station, feci anche “Party Girl” per la Recycle Limited, che includeva i remix di Dapayk, Guido Nemola e Dachshund.

In questa intervista a cura di Domenico Magnelli e pubblicata da Polpetta Mag il 23 gennaio 2021, parlavi di quel periodo come «momento giusto per ridisegnare e riformulare nuove possibilità, continuare a fare ricerca […], riprendere il calore della fidelizzazione del proprio pubblico, ritornare a essere laboratorio di idee». Lo stop pandemico ha generato miriadi di riflessioni, elucubrazioni e buoni propositi ma, a detta di tanti, rimasti incastrati nella fantasia utopica di quel particolare momento storico. Credi che la club culture nostrana (o ciò che resta di essa) abbia tratto qualche valido insegnamento dalla pandemia?
Personalmente in questa fase sono attratta dall’idea di post clubbing, un universo transculturale che riesce a legare argomenti distanti tra loro, dentro e fuori il mondo accademico, dal mondo pop e da quello politico. Pratiche reali che affondano radici in esperienze visionarie, legate agli spazi, al suono e alla performatività, in forma ibrida. Penso dunque a pubblicazioni, eventi e gesti artistici supportati da editori, label, festival di musica o teatro e a nuovi formati partecipativi. Un esempio può essere la mia Limbo Session, collocabile in una pratica post clubbing dove l’evocazione della dancefloor si ibrida con la ricerca vocale, la letteratura, lo spazio e il clima di insieme. Mi sembra tra l’altro ci siano al momento molti artisti che hanno assorbito la lezione del clubbing come radice di una nuova pratica artistica.

Rispetto agli anni Ottanta e Novanta, il numero delle DJ donne è cresciuto esponenzialmente e questo è un gran bene perché, pare, stia riducendo il maschilismo che da tempo immemore affligge il settore. Non posso fare a meno però di constatare come tantissime puntino, parimenti ai colleghi uomini, sia ben chiaro, a doti che poco hanno da spartire con la musica, più legate piuttosto alle movenze e agli approcci degli influencer. I risultati sono sotto gli occhi di tutti sui social, dove i commenti sessisti piovono senza soluzione di continuità. Come ti poni rispetto a questa deriva di performance consumistiche legate a doppio filo alla “divizzazione” del personaggio? È forse un’occasione sprecata nonché appiglio per coloro che continuano a vedere la donna poco compatibile con certi ruoli?
È vero, adesso si vedono molte più donne nelle lineup dei festival ma questo, purtroppo, è spesso dovuto soprattutto all’introduzione delle quote rosa richieste per avere accesso ai finanziamenti europei. La situazione sarà davvero cambiata quando non ci sarà più bisogno di scegliere donne in consolle per soddisfare le quote rosa. Nella mia storia, comunque, sono sempre stata una outsider, donna e anche fuori formato. Adesso c’è una maggiore attenzione ai temi del body shaming e all’opera si vedono molte artiste, ma è stato faticoso arrivare fino a qui. Paradossalmente proprio il fatto di essere un’artista outsider mi ha dato la forza di proseguire e continuare la ricerca della mia unicità.

7) NicoNote foto by Ali Bedoin per lo shooting di Chaos Variations
NicoNote in in suggestivo scatto di Alì Beidoun in occasione dello shooting di “Chaos Variation V”

Nel corso dell’ultimo decennio hai pubblicato due album, “Alphabe Dream” del 2013 ed “Emotional Cabaret” del 2017, a cui si sono aggiunti, tra le altre cose, “Chaos Variation V” e “Limbo Session 1” rispettivamente firmati con Obsolete Capitalism e Wang Inc., e “Orizzonti Perfetti”, traccia destinata al secondo volume di “Kimera Mendax”, progetto di cui parliamo qui. Stai lavorando a nuove produzioni al momento?
Proprio nel 2023, dopo “Canzone Istantanea” finita nel primo volume della collana Le Crisalidi a sostegno del progetto della Lady Day Records contro la violenza di genere, è stata la volta di “Paradiso Inconsapevole”, un brano scritto insieme a DJ Rocca (intervistato qui, nda) e Chris Coco e pubblicato sull’etichetta di quest’ultimo, la britannica DSPPR. Ai titoli sopramenzionati aggiungerei “Samples”, un album autoprodotto nel 1999 e limitato a copie numerate, “Deja V.” del 2018, un album “segreto” che raccoglie le mie interpretazioni dei pezzi dei Violet Eves con la produzione di Renzo Serafini e gli arrangiamenti di Toni Canto, e alcuni featuring con artisti elettronici come Polychron + e Club Paradiso, una collaborazione sui backvocal per il duo islandese Klemens / Hanningan, prodotto da Howie B in uscita su Massive 92 Records, e l’intensa collaborazione sul progetto Donnacirco. Al momento sto lavorando a un concept album, in divenire, un rework di “Regola”, una suite ispirata a Hildegard von Bingen partita da una performance del 2003 ripresa e riportata in scena durante gli anni pandemici. Mi sto occupando della produzione artistica di nuovo materiale sonoro insieme al sound designer Demetrio Cecchitelli e al produttore Dani Marzi: l’album uscirà nel 2024 sulla New Interplanetary Melodies, etichetta di Simona Faraone (intervistata qui, nda) con la quale collaboro da alcuni anni. Una volta ultimate le registrazioni vorrei focalizzarmi sulla performance. Al di là delle pubblicazioni infatti, amo curare il suono condiviso direttamente col pubblico. Negli anni ho creato diversi lavori di drammaturgia sonora portati solo nella dimensione live come “Porpora”, “Fever 103°”, “Drinnen”, “Rhapsody” e altri.

Per quanto riguarda invece il teatro e la curatela, quali saranno i tuoi obiettivi nel 2023?
È in nuce una performance-storytelling dedicata allo scrittore Thomas Bernhard, insieme al saggista Luca Scarlini col quale ho sviluppato un dialogo ormai ventennale creando progetti in bilico tra suono e letteratura, dal barocco al gotico, da Satie a Ingeborg Bachmann. La serata dedicata allo scrittore austriaco verrà presentata al Festival Intermittenze a Riva Del Garda a settembre. Sul versante curatela invece, ho portato a varie istituzioni progetti che riprendono gli eventi destinati ai musei raccolti nel concept Effetto Doppler, sono in attesa di risposte. Nel frattempo proseguo con Syntonic, il mio appuntamento mensile su Radio Raheem, libero, ibrido e sempre differente, e vado avanti con grande entusiasmo nell’attività didattica sulla vocalità attraverso le mie lezioni a Bologna presso Lo Studio Spaziale.

In questa intervista abbiamo parlato di passato, di presente e di futuro. Quali sono i tre brani che evocano in te emozioni legate a ognuno di tali tempi?
Passato: “I Talk To The Wind” dei King Crimson, un pezzo surreale tratto da un album diventato un’icona. Coi Violet Eves ne facemmo una versione molto intensa che oggi ricordo con grande empatia. Inoltre il testo è speciale, racchiude saggezza e leggerezza. In occasione del mio cinquantesimo compleanno postai la song abbinata all’hashtag “canzone del giorno” e Claudio Coccoluto mi rispose immediatamente: «ottima scelta, auguri». Lo tengo nel cuore, il passato.
Presente: penso ad Alva Noto, la sua ricerca e le sue traiettorie tra ritmo e ambient sono segno della contemporaneità. A tal proposito segnalo una traccia che uscirà a maggio, “Die Untergründigen”, realizzata per uno spettacolo teatrale. Atmosfera, spazio, clima, elettronica raffinatissima ma non aulica. Eccolo il presente.
Futuro: lo desidero nell’aria, voluttuoso, leggero e soave, pieno di ardore e contemplazione. Propongo “Le Canzonette D’Amore” di Monteverdi, forme sonore fuori dal tempo. Arie leggiadre, astratte, angelicate, un auspicio alla bellezza.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Dieci brani del repertorio di Claudio Coccoluto che forse non conosci

Life

Life – For What Is It To Love? (1987)
Life era una band di Formia innamorata di gruppi come Talk Talk, Spandau Ballet o Duran Duran. Nati da un’idea del batterista Stefano De Blasio, il bassista Roberto Vellucci e il cantante Alessandro Lucci, arrivano a Coccoluto, ancora residente a Gaeta, attraverso amici comuni. «Dopo aver ascoltato i nostri pezzi si propose per elaborarne delle parti in un modo diverso dal solito» racconta qui De Blasio. «La prima cosa nostra su cui mise le mani fu “Secret Memories”, pubblicato nel 1986 e incluso nella compilation “Live At The Blue Angel”. Il ricordo del suo magistrale lavoro col campionatore (un E-mu Emulator II acquistato nel 1984 per ben 17.000 dollari, nda) su voci e cori è ancora nitido nonostante siano trascorsi oltre trentacinque anni». Dopo “Secret Memories” tocca dunque a “For What Is It To Love?” di stampo new wave/new romantic, pubblicato dalla Blue Angel Records nel 1987 e per cui Coccoluto, menzionato nei crediti come Cocco Dance, effettua il lavoro di remix ed editing, ruoli ai tempi affidati ai DJ col fine di ravvivare le parti ritmiche e rendere il risultato più ballabile e adatto alle esigenze in discoteca. In tal senso è indicativo ascoltare l’Extended Version e la Dub Version le cui stesure sono ricche di misure che facilitano il mix in entrata e uscita, oltre a break conditi con scratch che accentuano l’idea di movimento. Gesti istintivi e primordiali di un DJ produttore dalla creatività spontanea. A oggi rimane la produzione più datata accreditata all’artista gaetano.

Jinny

Jinny – Never Give Up (Hype Remix) (1992)
Partito in sordina nel 1990 con “I Need Your Love” ma esploso (all’estero) l’anno dopo con “Keep Warm” come raccontato qui, Jinny è uno dei tanti studio project che animano le pubblicazioni dell’Italian Style Production di cui parliamo dettagliatamente in questa monografia. Nel ’92, proprio con “Never Give Up”, il marchio trasloca sulla label principale del gruppo guidato da Giacomo Maiolini, Time, oggetto di un rebranding e di una rinumerazione del catalogo. Cantato da Debbie French, il brano è scritto e prodotto da Walter Cremonini, Alex Gilardi e Claudio Varola, prossimi al successo internazionale con “Open Your Mind” di U.S.U.R.A., e si inserisce nel filone della post spaghetti house. Uno dei remix solcati su un secondo disco giunto a poca distanza dal primo è quello di Coccoluto, introdotto a Maiolini dall’amico Fabietto Carniel del Disco Inn di Modena che, contattato per l’occasione, rammenta di aver parlato col boss della Time al telefono: «ci bastavano appena due minuti per trovare un accordo». Coccoluto smonta l’apparato originario e isola frammenti delle parti vocali per utilizzarle alla stregua di inserti ritmici e poi lanciarsi in una sovrapposizione tra il prog britannico, l’italo nostrana (con qualche occhiata agli arrangiamenti di “Everybody Everybody” dei Black Box) ed echi funkeggianti, una commistione in cui predominano comunque suoni brillanti e luminosi. Il titolo della versione è Hype Remix, probabile tributo all’Hipe Club di Caserta dove Coccoluto si esibisce spesso ai tempi. «Claudio venne in studio da noi, a Brescia, per realizzare quel remix» ricorda qualche anno fa Alex Gilardi. «Anziché adoperare la Roland TR-909, usata praticamente da tutti, decise di costruire il groove con la sua drum machine che portò appositamente, una E-mu SP-12 Turbo». Il 12″, che annovera una seconda versione del britannico Philip Kelsey alias PKA, è facilmente reperibile sul mercato dell’usato per pochi euro ma curiosamente qualcuno, il 7 dicembre 2022, ha speso 113 € per accaparrarsene uno su Discogs. La collaborazione con la Time non si esaurisce con Jinny: dopo aver mixato la compilation “Atmosphera – Best Of Garage”, Coccoluto realizza il remix per “Been A Long Time” di The Fog (di cui parliamo qui), preso in licenza dalla Miami Soul e finito su etichetta Downtown. Seguirà, nel 1998, un altro remix, quello per “Another Star” di Coimbra, pezzo nato nel solco del successo internazionale di “Belo Horizonti”.

Jamie Dee

Jamie Dee – Get Ready (Coco Deep Dub) (1993)
La romana Marina Restuccia alias Jamie Dee, figlia del noto batterista Enzo, viene introdotta alla Flying Records nel ’91 da Paul Micioni, come ricorda Angelo Tardio, co-fondatore del gruppo discografico campano. Il brano di debutto è “Burnin’ Up” prodotto da Roberto Ferrante, lo stesso che si occupa di “Memories Memories” insieme ai cugini Frank e Max Minoia, reduci dallo strepitoso successo ottenuto con Joy Salinas di cui parliamo qui. Dopo “Two Time Baby”, con cui il team di produzione prende le misure di un nuovo segmento stilistico più votato all’eurodance, arriva “Get Ready” che cerca apertamente il successo mainstream. Sul lato b del disco trova spazio la Coco Deep Dub, rivisitazione che mette da parte gli istinti pop a vantaggio di soluzioni che, nella parte centrale, sfiorano formule garage. In rilievo l’elaborazione di alcuni vocalizzi che citano, in modo neanche troppo velato, una club hit di qualche tempo prima, “Deep Inside (Of You)” di Shafty, pubblicata dalla Heartbeat a cui abbiamo dedicato qui un’accurata monografia. Tra pianoforti segati col campionatore, tappeti atmosferici e brevi accenni di sax, scelti forse per creare una connessione con “Angels Of Love” di Cocodance di cui parliamo qui, Coccoluto trasforma letteralmente il brano di partenza dotandolo di uno sfondo illuminato da folgorazioni, ora incandescenti, poi fredde, e rendendolo appetibile per le piste “che adorano l’underground”, una dimensione agli antipodi per il prosieguo artistico di Jamie Dee che prima passa alla X-Energy Records e poi imbocca definitivamente la strada del pop come Marina Rei.

Alma Latina

Alma Latina – To Get Up (1994)
Negli anni Novanta i DJ si sbizzarriscono nel creare musica e siglarla di volta in volta con alter ego diversi. Ciò avviene per evitare di inflazionarsi a causa della prolificità, per marchiare itinerari stilistici differenti ma anche per svincolarsi da eventuali esclusive discografiche. In questo caso Coccoluto è alle prese con un pezzo costellato da riferimenti latini, frammenti di fiati, percussioni, scampoli vocali: Alma Latina pare davvero lo pseudonimo più pertinente e adatto. Nella Cocodeepdub, lunga circa dieci minuti, il DJ centrifuga l’infinita passione per il vibe caraibico intrecciandolo a tessiture house, alla base dell’elaborazione del suo linguaggio stilistico. Con l’aiuto dell’amico Dino Lenny nelle vesti di ingegnere del suono, il calore della musica brasiliana si scontra con la (presunta) freddezza del sound pilotato dal sequencer e generato dalle batterie elettroniche. Sul lato b “To Get Up” si ripresenta nella Hard Mix a cura di Paolo Martini, affiancato per l’occasione da Ricky Birickyno e Christian Hornbostel che si occupa delle percussioni: il risultato ha un sapore più britannico che brasiliano, con volteggi centrali in aree progressive attraverso patch sinuose e accattivanti. Spazio infine alla Dub Mix di Savino Martinez che si lancia a capofitto in un tool ricolmo di strappi sampledelici a incorniciare una stesura fatta di efficaci start e stop, speziati ovviamente col solito vibe percussivo, autentico marchio di fabbrica per tanti brani usciti dall’HWW Studio di Cassino. «Si trattò dell’ennesimo pezzo nato dalla fusione di generi e colorito dalla spasmodica ricerca dei sample» racconta oggi Martinez. «La nostra vocazione per suoni diversi dalla house classica che funzionava per la maggiore in Italia in quel periodo probabilmente giocò un po’ a svantaggio, tante cose non vennero capite e passarono inosservate, proprio come avvenne ad Alma Latina». A pubblicare il disco è la Looking Forward, tentacolo house della LED Records di Luigi Stanga che ha provveduto a diffonderlo in formato digitale nel 2008.

Sunhouse

Sunhouse – The True Adventure Of Sunhouse (1995)
Creato sull’asse Italia-Gran Bretagna, Sunhouse è il progetto messo in piedi da Claudio Coccoluto e il collega d’oltremanica Ashley Beedle, ai tempi tra le menti dei Black Science Orchestra ed X-Press 2 su Junior Boy’s Own. Ad aprire le danze è “The First Adventure”, pezzo dal titolo chiarificatore che snocciola il consueto vibe percussivo, tra i trademark coccolutiani, abbinato a un hook vocale d’antan di Chuck Roberts che funge da articolazione per segmenti melodici. Derivata dalla stessa idea è “The CocoDub Adventure” in cui le atmosfere si incupiscono puntando a una maggiore dose di ipnotismo ottenuto attraverso la ripetizione ossessiva del “jack your body” di chicagoana memoria. Pubblicato dalla Nite Stuff fondata da Maurizio Clemente e Massimo Maga, che in catalogo aveva già dischi di Jovonn, Mike Dunn e Ralphi Rosario, “The True Adventure Of Sunhouse” resta l’unico episodio con cui Coccoluto e Beedle cooperano nello stesso studio, coadiuvati dai “soliti” Lenny e Martinez. Quest’ultimo aggiunge a tal proposito: «ricordo con piacere quei due/tre giorni trascorsi nel nostro studio con Ashley, il disco rappresenta perfettamente il risultato finale di un lavoro corale».

Dana Dawson

Dana Dawson – 3 Is Family (The Wedding Remix) (1995)
Nell’ambiente discografico sin da adolescente, Dana Dawson conosce l’apice della popolarità nell’estate del 1995 grazie a un fortunato remix firmato Dancing Divaz. Come descritto qui, il pezzo viene velocizzato e trascinato su una base disco house impostata su un ammaliante giro di pianoforte che pare citare “Drive My Car” dei Beatles e che forse ispira “Gimme Fantasy” dei Red Zone da cui nel 2002 Gianni Coletti trae il suo più grande successo. Entrato nel mainstream, “3 Is Family” rivive in una versione che devia per lidi diversi, il Wedding Remix di Coccoluto che, affiancato dal fido Martinez, ricostruisce nell’HWW Studio il brano della compianta cantante statunitense, sovrapponendo le felici pianate a un beat più serrato che nella parte centrale si increspa e ingloba armonie severe affogate in un mood dal gusto tipicamente britannico. Tranciata da più break e piroette di campionamenti di “We Are Family” delle Sister Sledge che giocano con l’assonanza fonetica del titolo, la versione riprende brio nella parte finale in cui riaffiora il pianoforte in una salsa più energetica ma non disperdendo la visione serena e gioiosa del pezzo originale. Il tutto pubblicato su un doppio mix prodotto dal DMC per la serie Remix Culture, volume 151, che annovera, tra gli altri, le rivisitazioni di due brani partiti dall’Italia, “Think Of You” di Whigfield e “Boom Boom Boom” degli Outhere Brothers.

Visions

Visions – Coming Home (Claudio Coccoluto Vocal Mix) (1996)
Appartenente a una serie di brani scritti a Detroit da Anthony Shakir e prodotti da Juan Atkins, poi rilevati da Angelo Tardio per la Flying Records che ne deteneva i diritti di esclusiva nel mondo a eccezione degli Stati Uniti, “Coming Home” viene pubblicato inizialmente nel 1993, per l’appunto su Flying Records. «Claudio se ne innamorò letteralmente e iniziò a suonarlo in modo sistematico nei suoi set» rammenta oggi Tardio. «Col passare del tempo crebbe in lui la voglia di personalizzarlo e quindi realizzare un remix, cosa che effettivamente avvenne, e fui io stesso a fornirgli i sample». Nel 1996 il remix in questione finisce nel catalogo della Stress fondata da Dave Seaman che aveva interpellato il DJ laziale già l’anno prima affidandogli una versione di “Turn Me Out” di Kathy Brown. La Vocal Mix di Coccoluto tutela, come suggerisce il titolo stesso, la voce di Dianne Lynn, riposizionata su un tappeto su cui collimano fraseggi jazz e tipiche modulazioni deep stemperate nell’oscurità. Il DJ realizza anche una seconda versione quasi interamente strumentale e intitolata Claudio Coccoluto Dub, forgiata su spunti ritmici tribaleggianti sui quali si innesta un’impalcatura di tanto in tanto sferzata da deviazioni funky. Dieci minuti al galoppo in cui si sentono distintamente le influenze del nostro ma che, per qualche ragione, la Stress decide di relegare al solo formato promozionale e a un triplo mix in edizione limitata destinato ai collezionisti. Il 20 agosto del 2021, a pochi giorni da quello che sarebbe stato il 59esimo genetliaco dell’artista, esce un remake di “Coming Home” intitolato “Visions (A Tribute To Claudio Coccoluto)”: a realizzarlo è il suo amico Gianni Bini.

Sesso Matto

Sesso Matto – Sessomatto (Do You Think I’m In Sexy Mix) (1997)
A scrivere il brano originale è Armando Trovajoli per il film del 1973 “Sessomatto” diretto da Dino Risi. Tre anni più tardi sul mercato arriva una versione riadattata per le discoteche da Jimmy Stuard, astro nascente del DJing newyorkese (per approfondire rimandiamo a questo articolo di Max De Giovanni) morto giovanissimo in circostanze tragiche dopo un incendio. Oltre a passare alla storia per essere stato il primo a essere pubblicato dalla West End Records di Mel Cheren, tra i finanziatori del Paradise Garage, il disco diventa un must per i DJ hip hop che si cimentano con la tecnica dello scratch grazie ai fantasismi ritmici inseriti da Stuard, incluse parti in reverse. Circa un ventennio più tardi l’etichetta milanese Right Tempo, fondata da Rocco Pandiani che riscopre in assoluto anticipo i tesori della musica italiana destinata prevalentemente al cinema e alle sonorizzazioni, pubblica “Experience”, raccolta di remix di “Sessomatto”. Edita dalla sublabel Temposphere nella serie Easy Tempo in triplo vinile e CD, “Experience” offre nuove visioni e prospettive del pezzo di Trovajoli attraverso rivisitazioni oblique tra cui quelle di Coccoluto. «Inizialmente Claudio mi contattò perché gli erano piaciute molto le uscite Easy Tempo» rammenta oggi Pandiani. «Era un vero uomo di musica, dall’immensa cultura, eterna curiosità e doti umane straordinarie. La sua perdita è stata devastante, ho pianto tutto il giorno. Ancora oggi faccio fatica ad accettare che non ci sia più, ma forse è sbagliato affermare ciò. Come disse Salvador Allende, di noi rimarrà ciò che abbiamo donato agli altri e lui ha dato davvero tanto, musicalmente e non. Posso tranquillamente dire che la sua collaborazione con Right Tempo ha fortemente contribuito alla diffusione internazionale dell’etichetta». Oltre alla Do You Think I’m In Sexy Mix, registrata insieme al sodale Martinez col supporto di Fabrizio Bianco alla chitarra e con l’editing di Gak Sato, Coccoluto realizza, come è sua abitudine, pure una seconda versione, la Do You Think I’m In Dub Mix a 123 bpm, cesellando alcuni elementi e temprando la struttura ritmica. «A quelli per “Sessomatto” vanno aggiunti anche i remix che fece di “Mah-Na Mah-Na” e “Bob E Hellen” di Piero Umiliani finiti sempre su Easy Tempo» conclude Pandiani mentre gli fa eco Savino Martinez: «vivevamo un momento galvanizzante per il successo di “Belo Horizonti” e mettere le mani su musiche di maestri come Trovajoli e Umiliani fu un vero onore nonché una grande opportunità, realizzammo quei remix sapendo di cogliere un’occasione unica».

Rio

Claudio Coccoluto – Rio (1998)
Nel 1998 esplode a livello mainstream il combo disco house che, per una serie di circostanze, la stampa internazionale ribattezza french touch. In realtà di house venata da campionamenti funk/disco ne circola a iosa da anni e a produrla non sono affatto solo i francesi (a cui va riconosciuto comunque il merito di averla portata nelle classifiche di vendita) ma soprattutto americani e britannici e pure qualche italiano come Leo Young e i Tutto Matto di cui parliamo rispettivamente qui e qui. Coccoluto è promotore sin da tempi non sospetti di quel filone inizialmente battezzato nu funk e nel ’98, con l’inseparabile Martinez, appronta nell’HWW Studio un pezzo che si inserisce a pieno titolo in tale suddivisione stilistica. Si intitola “Rio” e all’interno riecheggiano campionamenti tratti da “Rio De Janeiro” di Gary Criss uscito su Salsoul Records circa un ventennio prima, ricollocati in una stesura condita con frustate funk.

Il DAT di Rio (1998)
Il DAT conservato nell’archivio di Savino Martinez con la registrazione di “Rio”

Il pezzo, pare destinato alla milanese Reshape, etichetta house del gruppo Dipiù guidato da Pierangelo Mauri, però non vedrà mai ufficialmente la luce. Un paio di minuti finiscono sul canale Soundcloud della thedub una decina di anni fa, su Discogs invece affiora solamente nel 2021 ma Savino Martinez è perplesso: «non sapevo fossero stati stampati dei test pressing di “Rio”, io non ho mai posseduto una copia e credo che nemmeno Claudio l’avesse. Non rammento neanche le ragioni per cui rimase nel cassetto, forse per difficoltà nell’ottenere il clearance del sample, forse perché volevamo destinarlo alla thedub o forse perché non eravamo del tutto convinti. Tuttavia conservo il brano su DAT quindi non escludo una possibile pubblicazione futura o un re-edit, seppur occorra aggiornare i suoni visto che si tratta di un pezzo prodotto 25 anni fa».

Domani

Claudio Coccoluto – Domani (2007)
«Musica senza filtri che sgorga come dalla sorgente, senza essere imbottigliata. Ecco perché sono un nemico giurato dei CD e degli MP3: la loro facile possibilità di manipolazione e di fruibilità toglie al DJ vero la possibilità della ricerca e il percorso che ogni ricerca richiede col relativo arricchimento culturale. Avere le cose troppo facilmente ne sminuisce il valore intrinseco e, in termini di pathos, ne mortifica il potenziale emotivo». Così si legge nel libro “Io, DJ”, edito da Einaudi nel 2007, scritto da Claudio Coccoluto e Pierfrancesco Pacoda e recentemente ripubblicato in una versione aggiornata e integrata con immagini a cura del figlio dello stesso Coccoluto, Gianmaria. Mai disposto a digitalizzare il suo banco professionale da DJ, Coccoluto non si esime però dal pubblicare musica in formati liquidi come avviene per “Domani”, sbarcato in Rete il 5 gennaio 2007. Cinquantesima uscita su thedub, la traccia è tra quelle realizzate in solitaria, senza l’apporto di Martinez, e proietta l’ascoltatore in una dimensione in cui la componente sonora vive sotto una campata di malinconia e mestizia mentre il tracciato ritmico elude la tradizionale programmazione destinata alla musica da ballo. L’autore dipinge, alla stregua di un pittore, un paesaggio pregno di emozionalità ma il timing limitato a poco più di una manciata di minuti fa del tutto una fuga breve ed estemporanea verso lidi che respingono i confini della house. Rimasto disponibile su Apple Music, Amazon Music e Spotify, “Domani” scruta dunque verso nuovi scenari forse pensando a ciò che sarà e verrà (e il titolo, in tal senso, assumerebbe un significato più che pertinente) e rispolvera l’entusiasmo compositivo di circa quindici anni prima, quando le potenzialità espressive della house music sembrano non finire mai.

Sulle medesime latitudini esce, proprio oggi, “Trip”, un’escursione sui pendii scoscesi del downtempo e del future jazz, con broken beat ricchi di modulazioni caleidoscopiche, accelerazioni e dilatazioni protese verso soluzioni ambientali, rumorismi glitch e immancabili frammenti di scorci latini affogati in misture astrattiste. Un progetto che scardina la prevedibilità e ci consegna un Coccoluto differente rispetto a quello acclamato dal grande pubblico delle discoteche, con un piglio più vicino ad artisti tipo Trüby Trio, Minus 8, Tosca, Mo’ Horizons, Jan Jelinek, Thievery Corporation, Jazzanova, Fauna Flash o Susumu Yokota e di cui si era già avvistato qualcosa in tempi recenti attraverso pezzi come “El Gato Negro”, “Chris The Dog”, “Urban Jungle”, “Querida Playa” e “Doin’ Our Best”, quest’ultimo destinato alla tedesca Compost Records di cui parliamo qui. In tracklist figura una traccia che sfiora l’omonimia proprio con “Domani”, una sorta di preludio rispetto a “Trip”, ossia “DoMai”, psichedelia in salsa leftfield e kraut. Questo album postumo di inediti, composti tra il 2004 e il 2020 come rivelano le note di copertina, apre il progetto “Infinito”, «serie di pubblicazioni atte a raccogliere tutta l’eredità delle registrazioni lasciate al figlio Gianmaria che saranno pubblicate negli anni a venire» (dalle note introduttive diffuse dall’etichetta in fase di lancio). Le opere dei grandi non vengono mai azzerate dalla morte, a cambiare è solo il modo di comunicare coi fruitori che dalla connessione fisica passano a una spirituale. La musica di Coccoluto continuerà quindi a vivere convincendoci che lui sia ancora lì, indaffarato nel suo studio a ideare e calibrare nuove prospettive sonore da autentico discepolo del suono.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Art Déco, l’anello di congiunzione tra new romantic e italo disco

01) Art Deco (1983)
Gli Art Déco immortalati durante una serata al New Life di Venezia nel 1983: da sinistra Stefano Montefusco, Marco Todesco e Claudio Valente

I primi anni Ottanta rappresentano un momento storico fondamentale per la musica, specialmente quella elettronica. La diffusione di sintetizzatori, drum machine e sequencer ispirano intere generazioni di giovani musicisti che riescono a comporre anche senza ricorrere a studi di incisione multimilionari, necessari sino a poco tempo prima. Il proliferare di piccole etichette indipendenti, d’altro canto, alimenta la creatività e rende fattibili anche imprevedibili collisioni stilistiche, rivelatesi seminali per generi futuri. In Italia lo sdoganamento dei sintetizzatori viene intercettato sia da coloro che armeggiano con la discomusic e si ritrovano, inconsapevolmente, a gettare le basi dell’italo disco, sia dai fedeli del rock e del punk che si buttano a capofitto nella new wave sul modello britannico e nordeuropeo, come i veneti Art Déco.

«Ci formammo nell’autunno del 1982 da un’idea mia, che mi occupavo di voce, testi e musiche, e il tastierista Marco Todesco» spiega Claudio Valente. «A noi si unirono presto Stefano Montefusco alla batteria e Gianpaolo Diacci al basso. Avevo iniziato da poco a scrivere ed esibirmi con una band punk wave mentre Todesco e Montefusco venivano da esperienze prog. Tutti ci sentivamo attratti dalla nuova scena new romantic compreso Diacci che arrivò rispondendo a un classico annuncio affisso sulla bacheca dei negozi di dischi di Mestre. Oltre a David Bowie e i Roxy Music, i nostri riferimenti erano rappresentati sia dai gruppi synth pop d’oltremanica come Ultravox, Japan, Visage, Human League, Tears For Fears e Depeche Mode, sia dalla new wave più “buia” dei Joy Division, New Order e Cure. L’idea di proporre un sound sperimentale e raffinato che riproducesse le atmosfere mitteleuropee ma nel contempo fosse anche ballabile ci portò a scegliere come moniker il nome del movimento artistico sbocciato nei primi del Novecento, a cavallo tra avanguardia e modernismo, tra sperimentazione e mercato, che in qualche modo potesse evocare pure l’estetica new dandy che tra l’altro portavamo sul palco con l’adozione di un look assai ricercato. Nacquero così gli Art Déco, la prima band new romantic d’Italia in assoluto, non solo per genere musicale ma anche per l’abbigliamento che ci faceva apparire come giovani adolescenti appena usciti da un party del Blitz di Londra, mecca del movimento new romantic».

02) Art Deco (1984) A
Un live degli Art Déco al Charisma Club di Mogliano Veneto nel 1984: nella foto di Carlo Chiapponi ci sono Marco Todesco alla tastiera e Stefano Montefusco alla batteria

Sebbene la loro musica risulti avere più rapporti e connessioni con new romantic e new wave, in Italia gli Art Déco finiscono nel calderone eterogeneo e multiverso dell’italo disco che a detta di molti, a partire dal 1985 in avanti ingloba progressivamente musiche e interpreti alquanto discutibili. Ai tempi però la classificazione dei generi è assai sommaria e talvolta gli ibridi restano privi di una collocazione precisa, in una sorta di limbo. «Senza ombra di dubbio gli Art Déco erano in linea con lo zeitgeist new romantic, forse in maniera ancora più preponderante rispetto alla new wave, e questo finì col portarci in un’area mainstream» prosegue Valente. «L’esplosione dell’italo disco ci permise di ottenere il primo contratto discografico in quanto i produttori indipendenti stavano investendo sempre di più su quel genere e aziende come Il Discotto e Discomagic supportavano con distribuzione e promozione quei prodotti senza fare troppi distinguo, tanto che ancora adesso i nostri EP sono catalogati, sul mercato del collezionismo, come italo disco. All’epoca vivevamo con fierezza la nostra diversità di discendenza all’interno di quell’enorme macro genere considerandoci, con un po’ di sana arroganza giovanile e dandy, molto più cool dei colleghi smaccatamente dance, ma nel contempo scontavamo la differenza occupando un mercato più di nicchia e meno nazionalpopolare. Anche rispetto alla scena new wave nostrana, decisamente più spostata sul gothic e dark e ossessionata dal cantare in lingua italiana, gli Art Déco partivano come outsider perché considerati troppo mainstream ma questa era una cosa che vivevamo con spensierato divertimento e sentendoci più “avanti” degli altri».

Dopo qualche anno per la band mestrina giunge l’ora di incidere un disco. «Vista l’enorme disponibilità di tempo libero (io e Diacci eravamo ancora studenti, gli altri appena diplomati ma senza lavoro), trascorremmo un anno in classiche e interminabili session pomeridiane e notturne» continua Valente. «Utilizzavamo mezzi semplici come registratori a cassetta per poi approdare a un classico Fostex a quattro piste. Stavamo cercando di capire come proporci a eventuali etichette quando sentimmo parlare dei Nite Lite, band di Mestre in cui cantava Massimo Filippi che aveva scelto di impegnarsi come produttore indipendente aprendo la sua label, la Art Retro Ideas, sulla quale era già uscita la seminale compilation di new wave veneziana intitolata “Samples Only”. Conoscemmo Filippi quasi per caso una sera, all’esterno di una sala prove in centro a Mestre, alla fine di una session dei Nite Lite. Stavano trasportando in auto un sintetizzatore, un Yamaha DX9, e incuriosito mi fermai, insieme a Marco Todesco, per entrare in contatto con altri musicisti che come noi usavano macchine elettroniche per comporre. Facemmo amicizia e a quel punto Filippi ci disse che era in cerca di nuove band per la sua neonata etichetta. Decidemmo così di proporgli una demo di alcuni nostri brani di cui ricordo ancora i titoli, seppur poi furono scartati: “Danceway” e “Dreamless Nights” che ho riproposto di recente in un mio lavoro intitolato “Il Blu Di Ieri” ma in una versione italiana intitolata “Notti Senza Sogni”. Si tratta di un pezzo che rievoca nel testo e nell’atmosfera proprio quella sensazionale stagione musicale».

03) Because The Movie Is On
La copertina di “Because The Movie Is On”, brano d’esordio degli Art Déco (1985)

Per gli Art Déco giunge quindi il momento di debuttare sul mercato discografico. Il 12″ che la Art Retro Ideas pubblica nel 1985 si intitola “Because The Movie Is On” e è un sunto tra new romantic, synth pop e italo disco. «Registrammo due versioni del pezzo ma Filippi scelse di pubblicare solo la seconda, più elettronica e con un nuovo ritornello, con una melodia completamente diversa che modificai in corso d’opera» chiarisce Claudio Valente. «La batteria era una Oberheim DMX perché nel frattempo Stefano Montefusco, purtroppo, partì per prestare il servizio militare in Libano. Tuttavia l’utilizzo di una drum machine fu un ingrediente che ci caratterizzò, almeno nelle incisioni in studio. Tra le tastiere invece una Roland Jupiter-8 e una Elka Synthex. Intanto all’orizzonte comparvero Alessandro Spanio, il bassista che sostituì Gianpaolo Diacci per problemi di salute, il chitarrista Paolo Sisto e Marco Paties che suonava un po’ tutto. Nel contempo David Mora dei Nite Lite, chitarrista, tastierista e programmatore di sequenze, ci aiutava collaborando dietro le quinte.

Registrammo “Because The Movie Is On” al mitico Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian (intervistato qui, nda), a Gambellara, uno studio simbolo per chi produceva italo disco in quegli anni e da dove sono transitati davvero tantissimi artisti. Dian resta uno dei musicisti e tecnici di studio più competenti che abbia mai conosciuto, oltre a essere il più paziente per noi adolescenti alle prime armi e piuttosto presuntuosi. Non ho mai visto nessuno fare con la sua stessa precisione i tagli sul nastro analogico con lametta e nastro adesivo e incollare al punto esatto i due pezzi della bobina. Per quanto concerne invece l’aspetto più commerciale, il disco vendette circa cinquemila copie e avrebbe potuto raggiungere soglie ancora più ragguardevoli dato che lo passavano tante radio e club del nord est ma Il Discotto non lo distribuì bene, molti cercavano il mix nei negozi senza trovarlo. La promozione invece fu lasciata alla Art Retro Ideas che però, essendo una piccola etichetta indipendente, arrivava fin dove era possibile. Anche il profilo artistico era curato dalla label di Filippi, incluse le grafiche, gli shooting fotografici, gli showcase… un sacco di lavoro insomma. A tal proposito mi tornano in mente alcune serate promozionali che ci dividemmo con Valerie Dore e altri artisti del panorama italo, soprattutto in club e discoteche del nord est, la nostra zona d’origine».

04) European Crime
L’artwork di “European Crime”, sviluppato da un fotogramma del film “Blade Runner”

Il follow-up di “Because The Movie Is On” è “European Crime” in cui gli Art Déco continuano a rimarcare la chiara adesione alla new wave, presente anche nel brano inciso sul lato b, “The Fake Of Lovin'”. «”European Crime” è il disco del nostro repertorio che preferisco ed è tuttora un fiore all’occhiello perché rappresenta perfettamente ciò che erano e volevano essere gli Art Déco nel loro momento migliore» afferma candidamente Valente. «Si trattava di new wave romantica dal sound suggestivo ma nel contempo ballabile nei club, del resto come New Order, Human League o Simple Minds. Eravamo in linea con la scena internazionale e questo lo dico con grande orgoglio. Registrammo il disco sempre al Sandy’s Recording Studio con le stesse modalità del precedente ma in quell’occasione Il Discotto mandò Maurizio Chiesura, un suo A&R, ad ascoltare e divertirsi nel realizzare una versione alternativa e creativa (sic!) insieme a Massimo Filippi e Sandy Dian, inserita come bonus sul lato b.

Tra gli strumenti utilizzati una batteria elettronica Linn 9000, un sintetizzatore Oberheim OB-8 e una Yamaha DX7. Per il sequencer invece adoperammo, analogamente a quanto fatto in “Because The Movie Is On”, uno Yamaha monofonico. Il basso elettronico del brano, infine, fu doppiato da uno vero suonato da Alessandro Spanio. Pure quella volta cambiai il ritornello poco prima di incidere la parte ma conservo gelosamente la demo originale insieme a quella di “Because The Movie Is On”. Per il resto, mi spiace dirlo, ma il team de Il Discotto riuscì a fare peggio di quanto avesse già fatto, investendo pochissimo in promozione, forse perché rapito da altri progetti senz’altro più commerciali del nostro che, in quell’occasione, mostrò un volto molto poco italo disco. Tuttavia l’accordo prevedeva che fossero loro a distribuirlo quindi non potemmo fare granché se non constatare i problemi. Dopo il fallimento il catalogo fu venduto alla tedesca ZYX che ancora oggi utilizza i nostri brani per le loro compilation… italo disco».

Oltre all’ispirazione tipicamente nordeuropea, ad accomunare i primi due dischi degli Art Déco è l’apparato grafico delle copertine curate da Luigi Gardenal, immerse tra futurismo e surrealismo. «Per noi la grafica era importante quanto la musica» afferma a tal proposito Claudio Valente. «Gardenal seppe interpretare magnificamente l’atmosfera di “European Crime” con quel fotogramma tratto da “Blade Runner” (un film mito per noi!) rielaborandolo pittoricamente. Consideravamo fondamentale evocare suggestioni artistiche anche attraverso le copertine dei nostri dischi e sia futurismo che surrealismo erano senz’altro movimenti che ci affascinavano e sentivamo vicini. Sull’artwork di “Because The Movie Is On” invece Gardenal inserì una fotografia di Stefano Padovan, fotografo che ha raccolto grosso successo internazionale nel campo della musica e della moda».

05) Secret Divine
“Secret Divine” è il disco conclusivo per gli Art Déco

Nel 1986 arriva il terzo e ultimo disco degli Art Déco, “Secret Divine”, in cui la componente new wave è ridotta rispetto ai due precedenti. Prodotto ancora da Massimo Filippi e mixato al Nova Studio di Vicenza, esce su Modern Music Productions, una delle centinaia di etichette distribuite dalla lombardoniana Discomagic. Spiccatamente art déco la copertina, in stile Tamara de Lempicka. «”Secret Divine” fu il nostro ultimo mix e quello più italo della triade» spiega Valente. «Lo registrammo al Simple Studio di Reggio Emilia con Ivana Spagna, collaboratrice del fonico, che si occupò dei cori. In quell’occasione ci fece sentire in anteprima “Easy Lady” e la sera venne a cena da noi speranzosa che una volta uscito andasse bene. Due mesi dopo era prima in classifica! Ivana era bravissima sin da allora, oltre a essere molto simpatica e alla mano. Anche in “Secret Divine” ci fu il “tradizionale” cambio del ritornello all’ultimo momento. In archivio conservo la demo originale, a questo punto potremmo pensare a una pubblicazione delle versioni mai uscite! A pubblicare il disco fu la Modern Music Productions, una nuova etichetta fondata da Filippi distribuita dalla Discomagic di Severo Lombardoni. Per quanto concerne le vendite, “Secret Divine” si attestò intorno alle tremila copie ma è un dato non ufficiale perché non eravamo così attenti ai conteggi. Però ci tengo a dire che Massimo Filippi è sempre stato un produttore generoso, trasparente e onesto, infatti dopo quarant’anni siamo ancora amici e ci frequentiamo con regolarità. A realizzare la copertina del mix fu l’ufficio grafico della Discomagic, quel cambio di direzione estetica ben rappresentava il contenuto musicale del disco. Credo fosse una potenziale hit per i canoni italo disco ma non fu spinta abbastanza per diventarlo».

06) Garland - Heartbeat
“Heartbeat” di Garland, progetto solista one shot di Valente

Nel 1986, sempre su Modern Music Productions e con la produzione del fido Filippi, Claudio Valente scrive e interpreta “Heartbeat” di Garland, un pezzo arrangiato dal compianto Claudio Corradini che flirta con l’hi NRG e mostra qualche evidente rimando melodico a “Smalltown Boy” dei Bronski Beat. «Garland era il nome che scelsi per un mio one shot solista dichiaratamente italo disco e quindi intenzionalmente coperto con uno pseudonimo visto che volevo continuare a fare le mie cose rock e new wave» chiarisce l’autore. «La song, arrangiata e scritta insieme al caro amico Corradini, a Filippi e a Marco Todesco alle tastiere, mi aveva intrigato proprio per quel legame con l’hi NRG. Sono sempre stato attratto da certa “motorik disco”, da Moroder in giù diciamo. Il tizio in copertina, con giacca e capelli lunghi, sono io. Registrato al Sandy’s Recording Studio, “Heartbeat” ha conquistato considerevole valore sul mercato del collezionismo, è stato inserito in diverse compilation e perfino rielaborato da qualche DJ all’estero. Un brano che nel mondo italo ha avuto i suoi consensi e che a distanza di oltre trentacinque anni continua a vantare un suono potente frutto di macchine elettroniche analogiche e una eccelsa registrazione su nastro».

07) Art Deco (1984) B
Un altro scatto di Chiapponi agli Art Déco nel 1984, con Paolo Sisto e Alessandro Spanio che suonano sintetizzatori Yamaha DX7 e DX9

La musica degli Art Déco è stata riesumata dal danese Flemming Dalum (intervistato qui) in “Boogie Down Box-Set” del 2009 e più recentemente dalla Fonogrammi Particolari diretta da Fred Ventura (intervistato qui) e Davide Persichella (che ristampa “European Crime” nel 2017) e dalla Spittle Records che la colloca in diverse raccolte antologiche come “The Other Side Of Italy” e la citata “Samples Only” con l’aggiunta di “European Crime” e “The Fake Of Loving”, non ancora incisi ai tempi dell’uscita originaria, nel 1981.

L’invasione dei reissue iniziata poco più di un decennio fa, di pezzi noti e non ma pure di inediti, pare stia avendo la meglio sulle uscite contemporanee. Per uno strano paradosso storico, la musica di ieri risulta essere più attrattiva rispetto a quella di oggi. «Credo ci sia una grande fame di passato, specie in riferimento a musiche di quell’epoca» sostiene Valente. «Sono stati anni in cui è iniziato tutto e con gli strumenti più giusti, in primis i sintetizzatori analogici e i computer, considerate macchine creative. Con tanta musica derivativa in circolazione trovo normale che i giovani di oggi sognino quel passato e vogliano saperne di più, magari solo per cercare ispirazione, ma ritengo che la musica odierna conservi ancora una certa attrattività, ogni stagione ha sempre i suoi frutti. Il potere d’acquisto delle tantissime edizioni limitate piombate sul mercato invece credo resti nelle mani di una generazione più adulta che ha vissuto quegli anni e che ama ancora il disco in vinile e non si è lasciata conquistare dal download o dallo streaming».

08) Valente live 1984
Claudio Valente canta al King Club Tessera di Venezia nel 1984 (foto di Carlo Chiapponi)

Con “Secret Divine”, dunque, cala il sipario sugli Art Déco che restano immobilizzati nel decennio accusato a lungo di aver generato quintali di musica di plastica. Una plastica che a posteriori però si è rivelata perennemente riciclabile, a giudicare dagli infiniti ripescaggi e campionamenti. Non sarebbero certamente i primi ad annunciare una reunion ai tempi dell’algocrazia, magari proponendo un album di inediti registrati allora ma mai dati alle stampe. «Effettivamente qualche volta ci siamo baloccati con questa idea ma le reunion sono difficili da attuare e, in tutta onestà, nel nostro caso la vedrei possibile solo come duo formato da me e Todesco» dice Valente. «Non credo però che pubblicheremmo pezzi vecchi, qualora si concretizzasse davvero l’idea scriveremmo brani ex novo. Il primo a considerare chiusa l’avventura del gruppo, seppur con grande dolore, fui proprio io, che nel frattempo cominciai a scrivere in italiano e avevo voglia di rock and roll. Comunque il mio prossimo album, la cui uscita è prevista nel 2023, mi vedrà tornare alla lingua inglese e con più di un collegamento con quel sound».

Oltre a collaborazioni strette coi Circle, gli Unfolk, gli Holiday Futurisme e i Telegram, Claudio Valente incide quattro LP da solista, “Un Pò(p) Più Adulto” del 2008, “Maschere Nude” del 2011, “Cambiamori” del 2016 e “Il Blu Di Ieri” del 2018 a cui si è aggiunto, più recentemente, “Controllo”, un EP che tra le altre cose contiene la cover di “The Man Who Sold The World” di David Bowie. «Oggi fare musica sganciata dal mainstream significa essenzialmente agire in modalità do it yourself più che mai, investire le proprie risorse e lavorare molto sul web» chiosa il musicista. «Fortunatamente sono supportato da una label veneta indipendente, la Dischi Soviet Studio, e da un nuovo team di lavoro di professionisti molto competenti e ciò mi consente di continuare imperterrito a dare vita ai miei sogni musicali. Attualmente la discografia delle major vive di talent e di prodotti super commerciali, vedo poca voglia di rischiare, di investire in progetti particolari o di scommettere sulla crescita di un artista, concedendogli il tempo necessario, supportandolo economicamente e consentendogli la naturale maturazione ed evoluzione così come si faceva un tempo. Purtroppo manca anche un sostegno statale a quei progetti musicali non tradizionali e, più in generale, alla voglia di avventure artistiche» conclude Valente con mestizia. (Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Giovanni Natale di Expanded, con Sueño Latino entrammo nel club dei migliori

Giovanni Natale

Inizialmente Expanded Music pubblica dischi new wave, post punk ed industrial provenienti dall’estero e firmati da band come Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Clock DVA e Modern English. Nel corso degli anni però l’attrazione per la dance, sbocciata nel pieno dell’ondata italo disco, diventa sempre più forte ed infatti è tra le prime, in Italia, a scommettere sulla musica house, precisamente dal 1987 quando nasce la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, etichetta con una vocazione per il sound ballabile inscritta chiaramente nel DNA. Nel 1989 proprio su DFC arriva “Sueño Latino” del progetto omonimo, pietra angolare di quel fenomeno che cresce rigoglioso nei primi anni Novanta sotto forma di dream house, alternativa clubbistica alla piano house che sfocia con risultati strepitosi nel mainstream internazionale. In breve tempo la DFC si rivela un inesauribile serbatoio di hit: da Atahualpa a Ramirez, da Glam a Moratto passando per Paraje e tutta la parentesi italodance di Afrika Bambaataa. L’attività di Expanded Music è tentacolare e multiforme e si materializza attraverso svariate sottoetichette (Dance And Waves, B4, Plastika, Audiodrome, PRG, Steel Wheel, Mantra Vibes, giusto per citare le più note) da cui emerge una miriade di nomi che scandiscono con incisività la dance nostrana tra cui Einstein Doctor DJ, Mato Grosso, Ava & Stone, Steam System, Virtualmismo, V.F.R. e Mo-Do. In grande rilievo pure le licenze prese oltralpe, da KLF a Sunbeam, da Transformer 2 a Capricorn, da Technotronic a 2 Fabiola, da Junk Project a Trancesetters, da ASYS a Marco Bailey passando per produzioni più settoriali come Encephaloïd Disturbance, Idjut Boys & Laj, Aurora Borealis, Unit Moebius, Cortex Thrill, Yves Deruyter e vari episodi della saga Code. Tra tradizione e sfrontatezza, la casa discografica emiliana conquista dunque un numero sempre maggiore di consensi facendo registrare un balzo prestazionale non indifferente. Al comando c’è Giovanni Natale che in questa intervista ripercorre la propria carriera pluridecennale nel mondo della musica.

Ci fu qualcuno o qualcosa ad avvicinarti alla musica?
Potrebbe sembrare strano ma da ragazzo non nutrivo una passione particolare nei confronti della musica: non compravo dischi, non andavo ai concerti e non avevo nemmeno manifesti di rockstar appesi nella mia cameretta.

01 - furgoncino Harpo's Bazaar (fonte bibliotecasalaborsa.it
Il furgoncino con cui gli Harpo’s Bazaar girano il capoluogo emiliano durante i giorni del Convegno nazionale contro la repressione nel ’77 (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Nel ’77 però, mentre frequenti il DAMS a Bologna, nasce la cooperativa culturale Harpo’s Bazaar di cui sei tra i fondatori e che opera anche in ambito musicale. Cosa ricordi di quel periodo?
Il progetto Harpo’s Bazaar in realtà inizia prima di diventare una cooperativa e, a tal proposito, credo sia necessario fare qualche puntualizzazione visto che in Rete circolano tante narrazioni non corrispondenti al vero, Wikipedia inclusa. Eravamo un gruppo di studenti/amici di Gianni Celati, docente d’inglese al DAMS negli ultimi anni Settanta. Con un furgone sgangherato, battezzato per l’appunto Harpo’s Bazaar, girammo per Bologna con una cinepresa super 8 durante i tre giorni del Convegno nazionale contro la repressione, a settembre del ’77. Realizzammo le riprese che trent’anni dopo sono diventate il video “Cineamatori Militanti” pubblicato qui. I componenti erano solo quelli riportati nei titoli di coda dello stesso video, Aldo Castelpietra, Gianni Celati, Leonardo Giuliano ed io. L’idea di trasformare l’esperienza “movimentista” in una cooperativa per avere un lavoro creativo fu di Leonardo Giuliano. Tra tutti noi era quello che volava più alto. Da sognatore ed imprenditore utopista, ci convinse a gettare il cuore oltre l’ostacolo ed iniziare. Fu sempre Leonardo, tra i fondatori della Fonoprint, a presentare al gruppo Harpo’s Bazaar Gianni Gitti e a seguire Cialdo Capelli, Antonella Leporati, Oderso Rubini ed Anna Persiani. A quel punto tutti insieme fondammo la cooperativa. In seguito entrarono a far parte anche Nino Iorfino e Jean-Luc Dorn. Col contributo attivo di tutte queste persone appena menzionate fu possibile realizzare l’evento Bologna Rock e dar vita all’Italian Records. Ps: Gianni Gitti è stata una persona speciale. È venuto a mancare da alcuni anni e meriterebbe davvero un racconto a parte. Fu il vero scopritore degli Skiantos, ne registrò il primo album intitolato “Inascoltable” e lo prestò ad Harpo’s Bazaar. La stessa cosa avvenne col primo album dei Confusional Quartet uscito nel 1980.

Proprio nel 1980 la Harpo’s Music, etichetta discografica di Harpo’s Bazaar, si trasforma in Italian Records così come spiegato in questa monografia, e quello stesso anno nasce Expanded Music: in che modo le due case discografiche erano collegate?
Nel 1980 Harpo’s Bazaar aveva già perso per strada alcuni dei soci iniziali e non aveva la forza economica per continuare. Avevamo bisogno di un socio finanziatore e, per questa operazione, la cooperativa non era lo strumento migliore. Harpo’s Bazaar quindi fu messa in liquidazione e fondammo l’Expanded Music Srl. Da quel momento l’Italian Records è diventata una delle etichette dell’Expanded Music. Ad entrare nelle vesti di socio finanziatore fu Federico Venturoli del Disco D’Oro di Bologna. Il nome Expanded Music nacque come omaggio al libro Expanded Cinema di Gene Youngblood, pubblicato nel 1970 e considerato la bibbia del cinema sperimentale. Al DAMS mi ero laureato proprio con una tesi sul cinema.

02 - le prime pubblicazioni Expanded
Le copertine di alcune fra le prime pubblicazioni dell’Expanded Music risalenti al 1981: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus e Clock DVA

Le prime pubblicazioni dell’Expanded Music fugano ogni dubbio sul tipo di inclinazione stilistica a cui l’etichetta è legata: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Modern English, Thomas Leer & Robert Rental, Lounge Lizards, Flesh Eaters giusto per citarne alcuni. Sul piano economico, quanto reggevano quelle scelte artistiche in un mercato discografico come quello italiano ai tempi dominato dal cantautorato?
Con le sole produzioni dell’Italian Records l’attività non era sostenibile, serviva allargare il catalogo. Non essendo direttamente coinvolto nella direzione artistica dell’Italian Records, campo esclusivo di Oderso Rubini, mi ritagliai un mio spazio. Conoscevo abbastanza bene l’inglese e dopo il DAMS mi iscrissi a giurisprudenza studiando diritto privato e diritto d’autore. Con questi strumenti mi avventurai in giro per il mondo ad acquisire licenze di dischi da pubblicare in Italia. Ai tempi prendere un disco in licenza costava molto meno che produrlo. Distribuendo quei prodotti riuscivamo a finanziare le produzioni dell’Italian Records.

Dal 1983 in poi, analogamente a quanto avviene per Italian Records, anche l’Expanded Music si apre progressivamente a generi musicali ballabili, italo disco in primis. È vero che ai tempi la dance era vista di traverso nel nostro Paese, specialmente dalla stampa e dalle radio?
L’italo disco rappresenta uno dei periodi d’oro della produzione indipendente italiana. Parafrasando “Destra – Sinistra” di Giorgio Gaber, se fare il bagno nella vasca è di Destra e far la doccia invece è di Sinistra, per gran parte della stampa specializzata italiana l’italo disco era di Destra e non degna di attenzione come la new wave che invece era di Sinistra. Nel 1983 i Gaznevada pubblicarono “I.C. Love Affair” che, nella versione remixata da Claudio Ridolfi, faceva l’occhiolino all’italo disco. Per la prima volta un brano dell’Italian Records finiva in classifica e veniva pubblicato anche all’estero. Attenzione però: “I.C. Love Affair” era ben lontano dall’essere un successo internazionale dell’italo disco ma fece scorgere comunque all’Expanded Music una luce in fondo al tunnel. Ovviamente non tutti furono d’accordo con quella svolta dance e la complicità tra i soci iniziò a vacillare. Le produzioni che seguirono furono un tentativo interessante di coniugare la new wave con la dance ma, come ho imparato in seguito, la musica dance ha delle regole e se non le rispetti i dischi non possono funzionare. Così il successo di “I.C. Love Affair” non si ripeté e l’Expanded Music precipitò in una nuova crisi economica. Il feeling tra i soci si consumò ulteriormente fino alla definitiva separazione. Iniziò quindi una nuova storia per l’Expanded Music e se oggi il repertorio dell’Italian Records è ancora vivo (si vedano le recenti ristampe degli album dei Gaznevada e dei Confusional Quartet) è anche grazie a quella scelta.

03 - Natale e Gaznevada
Una recente foto che immortala Natale e due componenti dei Gaznevada, Marco Bongiovanni (a sinistra) e Ciro Pagano (a destra), scattata in occasione della ristampa dell’album “Sick Soundtrack” avvenuta nel 2020

A partire dal 1987 Expanded Music, attraverso la DFC (prima) e Dance And Waves (poi), inizia a sondare le potenzialità della house music come dettagliatamente illustrato in questo reportage. L’affermazione mondiale arriva due anni dopo con “Sueño Latino” del progetto omonimo, successivamente impreziosita dai remix di Derrick May e riconosciuta pietra miliare di un momento probabilmente irripetibile per creatività e dinamismo. Cosa voleva dire investire denaro nella house music in Italia in quel periodo?
Alla fine degli anni Ottanta l’italo disco era ormai in declino e, con la diffusione del campionatore, nasceva e proliferava la musica house. Nella filosofia della DFC c’era molto dell’esperienza maturata con le pubblicazioni internazionali dell’Expanded Music e della stessa Italian Records: non cercare il commerciale ad ogni costo ed avere una grafica riconoscibile. A tal proposito vorrei ricordare che Anna Persiani realizzò per l’Italian Records alcune delle più belle copertine pubblicate in Italia. In quella fase Ricky Persi fu il mio principale collaboratore. Oltre a conoscere bene la musica dance, aveva la capacità di scovare e far lavorare insieme persone con qualità complementari. La DFC aveva un obiettivo preciso, far ballare. Non importava se un disco fosse commerciale o meno, i DJ dovevano riconoscere dalla copertina che fosse un DFC e comprarlo a scatola chiusa con la certezza di usarlo in pista. Il successo arrivò nel 1989 con “Sueño Latino” per cui va riconosciuto il merito principale a Massimino Lippoli che ebbe l’idea ed ovviamente a Manuel Göttsching perché senza il sample tratto dal suo “E2-E4” non ci sarebbe mai stato “Sueño Latino”.

04 - Natale e Manuel Göttsching
Giovanni Natale e Manuel Göttsching, autore di “Ruhige Nervosität” (incluso nell’album “E2-E4” del 1984) da cui cinque anni dopo verrà tratto il sample utilizzato in “Sueño Latino” del progetto omonimo

Dal 1990 in poi la strada sembra in discesa per la musica da discoteca, sino a poco tempo prima genericamente detta “disco-dance” visto che ai tempi le numerosissime categorizzazioni a cui oggi siamo abituati non esistono ancora. Che ricordi conservi dei primi anni Novanta quando Expanded Music diventa una delle protagoniste di quella fase?
Proprio nel 1990 raggiungemmo il primo posto in classifica con “Ultimo Imperio” degli Atahualpa, nel 1991 arrivò “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, il 1992 e il 1993 furono gli anni di Ramirez con pezzi come “Orgasmico”, “Terapia” ed “El Gallinero”, per il 1994 mi limito a citare “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (al numero uno delle classifiche europee) ma nello stesso anno dei cento singoli più venduti in Italia quattordici erano dell’Expanded Music. Successivamente abbiamo contato sulla fortunata serie di Floorfilla e “Camels” di Santos.

Parimenti ai grossi gruppi discografici attivi allora, anche Expanded Music conta su un ricco roster di etichette per declinare generi disparati. Dalle già citate DFC e Dance And Waves (dalla quale decollano i Mato Grosso partiti come Neverland come spiegato qui) alla B4, da Audiodrome a Plastika passando per PRG (inaugurata con “Mismoplastico” di Virtualmismo, di cui parliamo qui), Steel Wheel, Mantra Vibes ed altre ancora tra cui le poco prolifiche Creative Label e Full Motion Records. Utilizzare un numero così elevato di marchi poteva essere in qualche modo fuorviante?
Creare tante etichette fu un errore dovuto all’indecisione della strada da prendere. Ogni DJ/produttore pensava di potersi distinguere solo se avesse avuto un’etichetta sulla quale non pubblicassero altri ma, come imparammo presto, non è l’etichetta a fare il DJ. Al contrario invece, sono i buoni dischi a decretare il successo di una label e di un DJ.

Quali sono i cinque best seller di Expanded Music?
In ordine di uscita e non per valori effettivi delle vendite, “Sueño Latino” di Sueño Latino, “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, “El Gallinero” di Ramirez, “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do e “Camels” di Santos.

Cosa ti viene in mente ripensando ad ognuno di essi?
Prima hai già detto tu cosa rappresenta oggi “Sueño Latino”, la sua storia è tutta un aneddoto tanto che nel 2015 l’abbiamo pubblicata sul fronte della copertina della ristampa in occasione del venticinquesimo anniversario.
Per “Just Get Up And Dance”, la cosa più difficile fu convincere Bambaataa, leader della Zulu Nation, a cantare un testo non suo. Comunque avemmo ragione e il testo, scritto da David Sion, si dimostrò perfetto.
A proposito di “El Gallinero”, c’è un video su YouTube che conta oltre nove milioni di visualizzazioni ed intitolato “Gallinazo y la Bolsa de Coca” in cui i protagonisti sono Paco Stanley e Mario Bezares, ai tempi gli uomini di spettacolo più famosi in Messico, che per l’appunto ballano il pezzo di Ramirez. Stanley fu ucciso nel 1999 a colpi di mitra all’uscita di un ristorante, si dice per mano dei narcos, e proprio questo video apparso su YouTube molti anni dopo fece riaprire le indagini sull’omicidio. Mentre in televisione ballava “El Gallinero”, a Bezares cadde dalla tasca una bustina bianca, forse “la bolsa de coca”?
Su “Eins, Zwei, Polizei” ricordo che Fabio Frittelli alias Mo-Do, doveva registrare un’altra canzone e in studio, invece di dire al microfono il solito “uno, due, tre, prova” se ne uscì con “eins, zwei, polizei”. Gli chiesero cosa fosse e a quel punto lui recitò di getto la filastrocca che gli cantava la nonna quando era bambino.
Infine Santos con la sua “Camels”, inizialmente incisa sul retro di “The Riff”. Di quel disco ne vendemmo solo una decina di copie. Tempo dopo però, ad Ibiza, Judge Jules cominciò a suonare “Camels” e in poche settimane piovvero richieste da ogni parte del mondo. Dopo lunghe trattative (battemmo il record per l’anticipo più alto pagato per un singolo nel Regno Unito) ci incontrammo per stipulare il contratto a Bologna ma proprio all’ultimo momento Santos andò in paranoia e non voleva più firmare. Sembrava l’episodio “Il Matrimonio Temuto” di “Appartamento Al Plaza” con la sposa chiusa in bagno il giorno del matrimonio…

05 - Collage Expanded Music
Un collage di copertine di fortunate produzioni marchiate Expanded Music uscite tra 1989 e 1994

Quali invece i brani in cui vedesti del potenziale ma che, per qualche motivo, non riuscirono a sortire i risultati sperati?
“Bye Baby”, “All Aboard” e “Yeh Yoh” di Ava & Stone, tutti prodotti da Graziano ‘Tano’ Pegoraro, un amico scomparso prematuramente che mi manca ancora tantissimo (per approfondire si rimanda a questo articolo, nda). Andarono tutti in classifica in Italia però mi aspettavo di più dall’estero.

Negli anni Novanta gli esiti di tanti artisti dance erano direttamente proporzionali al supporto offerto dai network radiofonici e, in parte, dalle tv in occasione di programmi come Festivalbar, Un Disco Per L’Estate o Mio Capitano. Come si muoveva Expanded Music in tal senso? Quanto “pesava” sul rendimento di una produzione il passaggio nell’FM o sul piccolo schermo?
In verità ho sempre creduto più alla pista che alla radio o televisione. Non che i media non fossero importanti, sia chiaro, ma servivano quando il disco era già un successo. La musica dance è così, la definisco “democratica” perché se un pezzo non funziona in discoteca non c’è promozione che tenga e non potrà mai avere successo. Al contrario, se è valido in pista, anche senza il supporto della radio potrà essere scovato dalle migliaia di DJ sempre a caccia di novità. Se è veramente forte emergerà da solo, seppur firmato dall’artista più sconosciuto al mondo e di esempi se ne potrebbero fare tanti, da “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda) a “Satisfaction” di Benny Benassi al già citato “Camels” di Santos.

06 - Albertino e DFC
Albertino a Radio DeeJay in uno scatto risalente ai primi mesi del 1995. Sul giradischi c’è lo slipmat della DFC

«Se Albertino non lo passa, anche un gruppo che ha venduto cinque milioni di copie in sei mesi come i Rednex rischia di passare inosservato in Italia. Motivo? Altri dischi devono avere un posto assicurato nella DeeJay Parade» scriveva il compianto Salvatore Cusato sulla rivista Disk Jockey New Trend a giugno 1995. Polemiche a parte su ipotetici favoritismi, ritieni che il mercato dance domestico nostrano sia stato eccessivamente influenzato, suo malgrado, dal noto speaker di Radio DeeJay?
Senza togliere nulla ad Albertino, ci sono tanti dischi che non ha trasmesso ma che sono diventati ugualmente delle hit. L’influenza di Radio DeeJay finiva in Italia, da Lugano in poi i dischi vendevano solo se piacevano e non perché in Italia erano suonati da una radio in particolare. Nei primi anni Novanta Albertino ha sicuramente avuto un effetto positivo sulle produzioni italiane, selezionava pezzi interessanti ed era uno stimolo per chi lavorava in studio. Io non ho mai fatto parte della corte dei questuanti, le mie visite a Radio DeeJay si contano sulle dita di una mano, eppure non era raro per l’Expanded Music avere più titoli contemporaneamente nella famosa Pagellina. Dalla seconda metà degli anni Novanta in poi il “tocco vincente” della dance italiana andò perdendosi e, se le scelte di Albertino non sono più state le migliori, era dovuto anche al fatto che la qualità media delle produzioni nostrane diminuì, ad iniziare da quelle della stessa Expanded Music.

Gli anni Ottanta e i Novanta furono economicamente redditizi per la discografia dance ma oggi ad essere rimpianta è anche una ricchezza di tipo creativo, quella di cui si lamenta spesso la cronica assenza. C’era qualcuno, tra i competitor italiani, che a tuo avviso lanciò modelli ispirativi?
In tutta franchezza non ho mai cercato ispirazione nelle produzioni dei miei colleghi, gli stimoli venivano piuttosto da chi collaborava con noi come il DFC Team ad esempio, che operava tra Udine e Trieste, una posizione piuttosto defilata rispetto a Milano, l’Emilia e Roma. La creatività si nutriva delle diverse professionalità ma principalmente del divertimento che si provava nel fare insieme le cose. Oltre al già menzionato Ricky Persi, è impossibile pensare alla DFC senza ricordare Andrea Gemolotto (intervistato qui, nda), la tecnica straordinaria di Davide Rizzatti, le capacità musicali di Elvio Moratto (intervistato qui e qui, nda) e Claudio Collino e il fiuto di Ricci DJ. Non posso dimenticare neanche Claudio Zennaro alias Einstein Doctor DJ (intervistato qui, nda) che mi ha dato, tra i vari successi, anche “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do, ed altrettanto importanti sono stati Sergio Portaluri, Fulvio Zafret e David Sion del team De Point (di cui parliamo qui, nda) con “Just Get Up And Dance” e tutti i pezzi di Afrika Bambaataa di quegli anni. Infine, come non citare l’intelligenza di Cerla alias Floorfilla o la “follia” di Santos? Per mestiere non ho fatto altro che tirare fuori il meglio da ognuno di loro e credo sia proprio questo il lavoro di un discografico e non suggerire di copiare i competitor.

07 - Natale, Frittelli, Zennaro, consegna disco d'oro in Germania
Giovanni Natale, Claudio Zennaro e il compianto Fabio Frittelli ricevono il disco d’oro in Germania per le vendite di “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (1994)

In barba alle aspettative, il nuovo millennio fa segnare un cambio di marcia negativo per il comparto dance tricolore. «La scarsa cultura imprenditoriale e la fuga centrifuga di molti produttori che pensavano di poter raggiungere gli stessi risultati avviando label autonome hanno impedito il consolidamento del settore» dichiarasti nell’intervista finita in Decadance Extra qualche anno fa, aggiungendo che «mentre i produttori di tutto il mondo si ispiravano ed imparavano dalle produzioni italiane, i nostri artisti implodevano creativamente e sembravano vergognarsi dei propri successi inseguendo sperimentalismi spesso fini a se stessi ed alimentando un mercato che non ha lasciato quasi nessun segno». A conti fatti, la chiusura di quel ciclo oggi ricordato con infinita malinconia e rimpianti dai protagonisti fu innescato dagli stessi italiani, incapaci di misurarsi con un mercato globalizzato?
Confermo in toto quanto mi hai ricordato in queste righe ed aggiungerei che a penalizzarci sia stato anche il ritardo strutturale dell’Italia per quanto riguarda sia la cultura imprenditoriale che le infrastrutture digitali. Questo spiega il fatto che, nonostante le etichette italiane siano state tra le migliori al mondo per creatività, professionalità e capacità economiche, nessuna abbia saputo cavalcare il mercato digitale come hanno fatto, ad esempio, Ultra, Spinnin’ o Kontor.

In un editoriale apparso sulla rivista Jocks Mag a marzo 2002 puntasti il dito contro la SIAE, non ricorrendo a giri di parole per dichiarare quanto gli editori italiani, te compreso, ci abbiano rimesso in proporzione ai propri successi. «Il totale riportato semestralmente è solo il 50% di quanto la SIAE ha effettivamente incassato dal nostro repertorio. A differenza di ogni altro genere musicale, la SIAE non ci paga tutto quello che ha incassato per l’utilizzo delle nostre musiche nei locali da ballo, ma solo la metà! Il restante 50% viene distribuito ad altre classi di opere che nulla, o quasi, hanno a che vedere con queste esecuzioni. Non correte nei loro uffici a chiedere di più, non vi daranno retta, e non sperate neanche in una trattativa privata. Si parla di decine di miliardi di lire che per tanti anni hanno rimpinguato le tasche di altre persone che ovviamente ora non hanno alcun interesse a rinunciarci». A distanza di quasi un ventennio, è cambiato qualcosa?
Confermo che questo fosse quanto accadeva, con un’aggravante che mi coinvolge direttamente. Nel 2002 mi lamentavo del comportamento e delle regole della SIAE, ma tra il 2003 e il 2010 sono stato un membro del CdA della stessa SIAE e, in tanti anni, non sono stato capace di contribuire a migliorare la situazione. È stata un’esperienza iniziata con molto orgoglio ed ottimismo ma conclusasi con una grande delusione. Sicuramente la responsabilità è da cercarsi nei limiti della mia azione ma non ha aiutato l’atteggiamento di alcuni colleghi che, più pragmaticamente, hanno scelto di adeguarsi alle interferenze politiche. Alla fine ho preferito dimettermi da ogni incarico e dalle associazioni di categoria. Ognuno vive la coerenza come vuole e non è detto che il mio sia il modo più giusto. La situazione oggi è peggiorata e non mi riferisco solo alla SIAE. Con la smaterializzazione del mercato musicale, i diritti si sono vaporizzati e per calcolarli e gestirli occorre la matematica infinitesimale. I vecchi modelli di business sono implosi, ormai i nuovi padroni del mercato sono Google, Amazon e Spotify che hanno deciso come distribuire la musica, come e quanto retribuirla. C’è una distorsione del mercato nota come “value gap”, inaccettabile. Puoi rifiutarti di lavorare con queste piattaforme ma in quel caso smetti di esistere. Che ruolo quindi devono avere oggi le vecchie società d’autore come la SIAE? Come recuperare la differenza tra il valore economico dell’utilizzo online di un brano musicale e l’incasso riconosciuto ad editori e produttori? Non sono problemi solo italiani ma, come dicevo, ormai sono fuori dalla vita associativa di categoria, non ho proposte e sono prossimo alla pensione. Sicuramente c’è chi ne sa più di me.

In questa intervista a cura di Andrea De Sotgiu pubblicata il 31 gennaio 2019, sostieni che uno dei maggiori problemi con cui ti sei ritrovato a fronteggiare sia il campionamento illegale. «È una battaglia continua trovare questi brani su piattaforme come iTunes o Spotify e toglierli dal mercato. Se la tecnologia ci consentirà di essere remunerati correttamente, cosa che oggi non avviene, per il reale valore che i nostri repertori hanno apportato al mercato digitale, allora la rivoluzione tecnologica premierà tutti». Credi che il campionamento selvaggio sia un fenomeno in qualche modo arginabile? Si pensi pure alle migliaia di brani riversati in Rete da quelle etichette dedite al re-edit che forse fanno anche peggio visto che utilizzano, senza alcuna autorizzazione, brani altrui opportunamente re intitolati, rendendo ancora più difficile l’identificazione.
Il problema non è solo scovarli ma difendersi dal danno che arrecano al repertorio. Faccio due esempi: di recente ho concluso un accordo con l’etichetta Anjunabeats per l’uso di un sample tratto da “Hazme Soñar” di Morenas in “Moment In Time”, una nuova produzione di Icarus e Jamie N Commons, una trattativa soddisfacente che valorizza il pezzo originale e il nostro catalogo. Al contrario due anni fa negoziavo con una multinazionale francese che avrebbe voluto usare una parte di “Funky Heroes” di Afrika Bambaataa in un nuovo ed importante progetto discografico. Avevamo stabilito ottime condizioni ma quando hanno visto quante volte lo stesso sample fosse presente illegalmente online hanno rinunciato. L’abuso dei campionamenti impoverisce il valore dei repertori. Si può continuare ad inseguire i file pirata ma non basta eliminarli. Amazon, Spotify ed altre piattaforme dovrebbero essere responsabili per i danni che subiscono musicisti e case discografiche. Sembra una battaglia persa ma non lo è, su questo fronte sono molto attivo.

Cosa vuol dire occuparsi di discografia nel 2021? Ci sono ancora i margini di crescita in un settore ormai irriconoscibile se paragonato a quello di qualche decennio fa? Servono ancora intuito, vocazione imprenditoriale e background musicale?
Intuito, vocazione imprenditoriale e background occorrono ancora e più di prima. Lo dimostrano i traguardi raggiunti dalle etichette dance straniere che ho menzionato sopra. Credo pure che ci siano grandi margini di crescita ma è un mondo completamente diverso rispetto a quello degli anni Ottanta e Novanta. Al di là delle critiche, è pur vero che i giganti del web hanno apportato una rivoluzione che apre ampi spazi al consumo della musica ma è necessario riequilibrare il potere tra i vari operatori.

08 - Uffici-studi dell'Expanded Music
Uno scorcio degli attuali uffici e studi dell’Expanded Music

Expanded Music esiste da più di quarant’anni: qual è stato il momento più emozionante e gratificante che hai vissuto?
Quando “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do raggiunse il primo posto della classifica in Germania ricevetti un fax (che conservo ancora!) da Bernhard Mikulski, fondatore della ZYX, che recitava più o meno così: «dopo tanti anni e successi della ZYX, questa è la prima volta che conquistiamo il vertice, è qualcosa che abbiamo fatto insieme».

Quale invece quello più difficile?
La separazione dai miei soci iniziali: ero senza soldi e solo con debiti, un futuro incerto da affrontare e tutto sotto la mia responsabilità. Ma alla fine è andata bene.

Ad oggi quante pubblicazioni conta l’intero catalogo Expanded Music?
Non so quantificare in titoli ma in numero di master sono circa quattromila.

C’è un pezzo che ti sarebbe piaciuto annoverare nel repertorio della Expanded Music?
“Satisfaction” di Benny Benassi. Un pezzo che è pura creatività senza nessuna concessione al commerciale ma che è riuscito ugualmente a convincere tutti i DJ del mondo.

Qual è invece il brano che ha sancito lo stato di grazia della tua etichetta?
“Sueño Latino”. Non è stato il successo commerciale più grosso ma il primo disco che ci ha dato credibilità internazionale e fatto entrare nel club dei migliori.

Se avessi la possibilità di cavalcare il tempo a ritroso, quali errori non commetteresti più?
Di errori ce ne sono stati ma ormai è inutile rivangarli.

Hai mai sbagliato la valutazione di un pezzo giunto sulla tua scrivania?
Direi di no, non ho mai avuto la sfortuna di rifiutare un brano che poi è diventato un successo, a parte “Vamos A La Playa” dei Righeira. Quando ascoltai il provino di Johnson (Stefano Righi, nda) lo chiamai subito per dirgli che era una bomba ma qualcun’altro decise che fosse troppo commerciale per l’Italian Records. Comunque non saremmo stati capaci di realizzare l’impeccabile produzione dei fratelli La Bionda e per Johnson, quindi, è stato meglio così.

Per concludere, quali sono le tre parole che sintetizzano al meglio la tua avventura pluridecennale nella musica?
Incoscienza, fortuna e professionalità. “Incoscienza” perché senza quella avrei cercato un lavoro da dipendente, “fortuna” perché serve sempre, “professionalità” perché un colpo fortunato capita a tutti ma quando arriva devi avere gli strumenti per coglierlo.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Milano 84 – Monochromatic (Lost Generation Records)

Milano 84 - MonochromaticNel 1984 Milano è già la “Milano Da Bere” nonostante lo spot da cui deriva tale slogan, ideato dal compianto Marco Mignani, risalga all’anno successivo. Un’espressione che, come scrive Filippo Minonzio qui l’8 marzo 2019 «indicava un’idea di vivacità e modernità» […] e tendeva a definire i milanesi «una classe all’avanguardia, di yuppies laboriosi e dinamici, devoti alla competizione e alla scalata sociale». Dopo Tangentopoli della Milano Da Bere non resta più niente ma l’idea della vivacità e modernità rimane indelebile nella memoria di tantissimi, persino in quella di coloro che non l’hanno vissuta in modo diretto ma che, in qualche modo, la considerano una fonte d’ispirazione e alla stregua di prezioso custode delle sensibilità del passato. I Milano 84, ad esempio, non sono né di Milano né tantomeno del 1984, ma optano per uno pseudonimo dietro cui si cela un preciso immaginario che pesca a piene mani proprio da lì.

«Effettivamente non siamo milanesi e nel 1984 eravamo ancora imberbi, ma forse proprio per tale ragione su di noi, romani, la metropoli lombarda ha sempre esercitato un notevole fascino, evocando qualcosa di “altro”» dice Fabio Di Ranno, uno dei componenti del duo. «Milano era la città della musica che mi piaceva, del design, della moda, dello sport (ai tempi tifavo Milan!) e del glamour, insomma, la metropoli intorno alla quale ruotava il mio immaginario, molto più di Roma. Tutto questo, senza volerlo, ha finito per riversarsi in ciò che oggi realizzo, che si tratti di un film, di un videoclip, di una canzone finanche di un podcast. Nel caso specifico di Milano 84, tutti questi input vengono però rielaborati secondo la sensibilità di uomo contemporaneo. Non è la nostalgia a guidare la mia ricerca artistica, tutt’altro. Milano 84 ricorda ma non copia, trasforma gli anni Ottanta in suoni ed immagini piacevoli da fruire oggi e soprattutto guarda avanti». Gli fa eco Fabio Fraschini, l’altra metà del duo: «Il punto di partenza di Milano 84 è stato il pop elettronico degli anni Ottanta quindi Gazebo, Den Harrow, Fred Ventura o Albert One ma anche artisti e band estere come Pet Shop Boys, Bronski Beat, Human League e Madonna. Poi ci siamo avvicinati con stupore alla scena new italo scoprendo delle realtà artistiche notevoli come Killme Alice, Vincenzo Salvia e Listanera. Negli anni Ottanta Milano era la città che ha rappresentato meglio la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, per questo abbiamo scelto un nome così evocativo che ci riporta alla metropoli che in quegli anni immaginavamo, da adolescenti romani, essere il centro assoluto del mondo».

Milano 84 A
I Milano 84 fotografati da Claudio D’Aloia presso la Contemporary Cluster, galleria d’arte romana, con l’allestimento di Poltronova

I Milano 84 dunque attingono stilisticamente dal passato ma non limitandosi alla mera replica e riproposizione di filoni stilistici già noti. L’impressione è che stiano provando a forare il muro che separa due epoche lontane eoni come gli anni Ottanta e quelli che viviamo, provando a collegarle attraverso una vena dichiaratamente retrofuturepop. «Quando ci chiedono che musica facciamo, solitamente rispondiamo “italopop”, una formula che mescola elementi in apparenza poco solubili» risponde Di Ranno. «Una sorta di bricolage musicale e visivo eclettico e, per quel che riguarda la comunicazione, anche ironico. Un modo per riscoprire e riformulare il passato, lanciarlo nel futuro e vedere l’effetto che fa. Milano 84 è un po’ come una macchina del tempo o una sfera di cristallo, a seconda dello sguardo che si preferisce dare, con cui vorremmo sorprendere piacevolmente attraverso le nostre canzoni. Che poi, in questi anni, finiscano quasi per essere percepite come “rivoluzionarie” o persino “di nicchia” rispetto a quelli che gli spin doctor immaginano essere i gusti di chi fruisce musica, è qualcosa che non dipende strettamente da noi. Certo, ci piacerebbe moltissimo arrivare al grande pubblico in Italia, e di questa vena retrofuturepop, per ora presente nel microcosmo indie elettronico, dovrebbero incominciare ad accorgersene anche le major. Se il dubbio è quello della domanda e dell’offerta, la domanda c’è e noi potremmo essere l’offerta». «Dell’esperienza sonora degli Ottanta ci attrae in particolar modo la radicalizzazione di alcune scelte» prosegue Fraschini. «Ci piace immaginare i produttori dell’epoca come dei bambini che hanno ricevuto un giocattolo nuovo a Natale e che hanno abbandonato tutto il resto per dedicarsi solo a quello. L’uso sfrenato delle batterie elettroniche e dei sintetizzatori li portarono a reinventare il modo di fare musica perciò l’accelerazione tecnologica fu spesso accompagnata da un entusiastico pionierismo».

“Monochromatic”, ormai prossimo all’uscita, raccoglie alcuni brani già assaporati in formato liquido nel recente passato come “Fanatic”, ubicato tra romanticherie italo disco e sgroppate hi-nrg a rafforzare le paratie ritmiche, “Suspiria On TV”, intenso quanto malinconico, e l’emozionale “Play”, con armonie e vocalizzi che rimandano a “Tango” dei Matia Bazar, costruito nel 1983 in buona parte con strumentazioni elettroniche (Alpha Syntauri TM, Yamaha, Oberheim DMX etc). C’è anche “Awesome” interpretata da Killme Alice, una sorta di proiezione moderna di Valerie Dore intrecciata a Kim Wilde ma con un suono meno polveroso e più splendente, saturo di colori e radioso, e due inediti, “Milano, L’Amore”, sorretto da un beat à la Black Strobe nei giorni migliori dell’electroclash, e “Lola”, cover dell’omonimo dei Chrisma poi trasformati in Krisma, con un imprinting che paga il tributo ai Visage e ai Roxy Music. La scrittura è intenzionalmente pop, è chiaro che la vocazione del duo sia fare più di un tool da usare sotto le strobo ed andare oltre il pedestre scimmiottamento di suoni d’antan mitizzati troppo spesso in modo smodato. «”Monochromatic” è il frutto del lavoro di tre anni» afferma a tal proposito Di Ranno, sconfessando subito chiunque possa considerare Milano 84 l’ennesimo esperimento modaiolo nato per cavalcare l’onda del bric-à-brac sonoro legato al cosiddetto “decennio di plastica”. «La pubblicazione dei sei pezzi su 12″ era già stata programmata per l’autunno inoltrato del 2020 ma gli eventi legati alla pandemia ci hanno costretto a rivedere i nostri piani. Prima l’uscita era slittata a gennaio, poi definitivamente a giugno. Nel frattempo, durante le prove in studio, abbiamo ripreso alcuni brani non ancora pubblicati in digitale e lavorato ad un paio di inediti. Da qui l’idea di pubblicare, in bundle col vinile, un CD in tiratura limitata contenente diverse bonus track, remix già usciti ed altri nuovi. È stato un modo per non lasciarsi sopraffare, rimanere in contatto con gli amici ed approfittare dell’attesa forzata per realizzare qualcosa insieme. Alla fine è venuto fuori un corpus di sedici pezzi totali, ci sembra un bel modo per farci conoscere e ringraziare chi, in questi due anni di pubblicazioni solo digitali, ci ha seguiti con entusiasmo sostenendoci. Anche per questo motivo abbiamo tenuto il prezzo dell’accoppiata disco/CD assolutamente accessibile, fissandolo ai 14,85 euro».

Milano 84 B
Un’altra recente foto dei Milano 84

Agendo in un determinato contesto, quello che in gergo si identifica con la sineddoche “anni Ottanta”, i Milano 84 lanciano occhiate profonde a più correnti di quel momento storico e lo fanno con coscienza, determinazione e soprattutto con capacità compositiva che mira ad oltrepassare lo stereotipo e i limiti della musica da ballo odierna. «Volevamo trovare una parola che ben sintetizzasse il nostro approccio musicale e la griglia monocromatica, sia in arte che in grafica, racchiude sfumature, tonalità e gradazioni di uno stesso colore» chiarisce Di Ranno. «Con “Monochromatic” abbiamo fatto lo stesso, declinando in sfumature differenti un certo sound che identifica gli 80s facendolo nostro, manipolando e giocando con l’italo disco, il synth pop e la new wave. Il colore che abbiamo scelto per simboleggiare tutto questo è il rosso, quello che campeggia in copertina. Ad impreziosire il tutto sono gli ospiti, dalla regina dell’italo disco Killme Alice, al secolo Alice Castagnoli, a Vanessa Elly, da Laura Serra ad Eleonora Cardellini sino ad Alice Silvestrini, la cantante che ci accompagnerà negli spettacoli dal vivo, appena sarà possibile riprenderli ovviamente. Poi abbiamo contato sull’apporto di musicisti che ci hanno aiutato con strumenti “veri”, Gianluca Divirgilio degli Arctic Plateau alle chitarre, Luciano Orologi al sax, Isabella Cananà ai cori, il Maestro Fabio Liberatori (già collaboratore di Lucio Dalla e Stadio) che ha impreziosito “The Lie” coi suoi interventi al piano e ai sintetizzatori, ed infine Andy Bartolucci che, su “Lola”, ha suonato una batteria vera sullo stile delle produzioni di Trentemøller. Ad interpretare vocalmente “Lola” invece è stato Eugene, musicista che vanta innumerevoli collaborazioni, da Garbo a Gazebo sino a Luca Urbani». «Un simpatico aneddoto è legato proprio a “Lola”» racconta Fraschini: «disponevamo sia di una parte demo che Eugene aveva reinterpretato alla sua maniera e in un modo stupefacente, sia di un vocoder fatto da me al volo con un microfono da PC, giusto per dare un’idea di ciò che intendevamo realizzare. Dopo una serie di innumerevoli tentativi fatti con mezzi ben più prestigiosi, non siamo riusciti a riottenere quello stesso effetto e, con grande stupore di tutti, abbiamo ripristinato la versione “casalinga” registrata nella mia cucina. Siamo fortunati a disporre di un nostro studio di registrazione in cui realizzare le idee con una certa libertà e senza limitazioni di tempo. Usiamo principalmente strumenti virtuali, una scelta che deriva soprattutto dalla facilità con cui si possono trasferire le sessioni di lavoro da casa allo studio e viceversa. Come qualunque altro produttore di musica elettronica però, siamo appassionati di sintetizzatori e personalmente ne ho posseduti parecchi nel corso degli anni. I risultati sonori raggiunti dalla virtualizzazione di tali macchine, oltre alla praticità prima descritta, ci porta comunque a preferire il loro utilizzo quasi esclusivo».

“Monochromatic” verrà pubblicato a breve dalla Lost Generation Records. Come si legge sull’home page della stessa, «viviamo in un’epoca in cui a livello di imprenditoria musicale indipendente sono saltati quasi tutti gli schemi: i nuovi mezzi di fruizione non hanno fatto altro che portare alla luce decenni di declino culturale in cui la musica è stata percepita sempre e solo come “tappezzeria” o, nella migliore delle ipotesi, come estemporaneo divertimento, qualcosa per cui – dal punto di vista del pubblico – non vale la pena spendere del denaro. D’altra parte, sussiste una visione culturale antica per cui la musica che un tempo si sarebbe definita “leggera” è relegata ad una posizione culturale subalterna nei confronti della musica altrettanto impropriamente definita “colta” ed è quindi immeritevole di sostegno. Avere un bel beat non significa non esprimersi artisticamente. In un certo senso la raison d’être di Lost Generation Records è – nel suo piccolo – ridare alla musica ciò che alla musica è stato tolto». Ci si chiede allora la ragione per cui un certo tipo di musica sia oggetto, praticamente da sempre, di una visione sommaria, superficiale e figlia di radicati pregiudizi. «Milano 84 è un progetto musicale ma anche concettuale, perché fonde diversi spunti di riflessione e suggestioni» sostiene Di Ranno. «Nulla di troppo intellettualistico chiaramente, parliamo pur sempre di pop e il pop, per definizione, non è mai elitario, però quando diventa rivelatore di qualcosa di più profondo sa essere rivoluzionario, ed è proprio questa la sua forza. Quando ciò si verifica, il pop lascia un segno e resiste nel tempo. La produzione musicale di oggi, ma più in generale di contenuti, sembra però temere questo aspetto potente, ed è sempre la stessa. Tutto è veloce, dimenticabile e sostituibile. Ecco, a noi piacerebbe invece essere contemporaneamente il passato e il futuro della musica che amiamo, e vorremmo che restasse traccia dei nostri brani, al di là dello streaming, dei social e di tutto il resto». «La filosofia che sta dietro la Lost Generation Records non può che essere sposata in pieno da Milano 84» prosegue Fraschini. «Il proprietario, Matteo ‘Zar’ Gagliardi, fa dischi che piacciono prima di tutto a lui e questo è un approccio che mi ricorda le esperienze di etichette che hanno fatto la storia della musica come la Mute o la 4AD. Certo, i tempi sono cambiati, ma a maggior ragione porre l’accento sul gusto personale e sulla qualità di quello che si produce per noi rappresenta un valore. Con Gagliardi, che mi contattò qualche anno fa per completare le registrazioni della sua band, Søren, più vicina all’indie rock e new wave nonostante i miei trascorsi metal, ci siamo subito trovati in sintonia. Quando ha deciso di fondare l’etichetta ci è sembrato naturale proporgli Milano 84: la sua dedizione, preparazione ed entusiasmo erano proprio quello che cercavamo».

A distribuire “Monochromatic” invece sarà l’olandese Bordello A Parigi, ormai da un decennio tra i poli maggiormente attrattivi per gli amanti della musica retrò, soprattutto quella di fascinazione italica. Forse un’occasione persa proprio per l’Italia, l’ennesima, ma è bene ricordare che i primi a non credere nella neo italo disco, nata oltre venti anni fa, sono stati paradossalmente proprio gli italiani, poco attenti al proprio bagaglio storico e più attratti dal ciclo infinito delle tendenze temporanee mosse quasi esclusivamente da Paesi esteri. «Sarebbe facile parlare di complesso d’inferiorità o cavarsela con un “nemo propheta in patria” dal retrogusto consolatorio» sostiene Di Ranno. «Del resto ad inventare il termine “italo disco” non furono neanche gli italiani ma i tedeschi, e fu peraltro un’invenzione commerciale: noi facevamo la musica, loro trovarono ad essa un nome per venderla ed oggi gli olandesi la distribuiscono. Questione di pragmatismo. Se è vero che l’italo disco ha fotografato un momento storico ed una particolare lettura delle istanze musicali in atto (synth pop, new romantic, new wave) filtrandole attraverso la sensibilità tutta italiana legata alla melodia, è anche vero che oggi italo e new italo sono considerate ovunque e a tutti gli effetti un genere musicale meno che, forse, proprio in Italia. Probabilmente questo dipende dal fatto che l’italo disco sia musica codificata e molto amata dagli appassionati. Merita rispetto ma rischia di calcificarsi, specialmente se la si lascia in una teca. Bisognerebbe invece cercare di tenerla in vita, anche a costo di stravolgerla. Noi ogni tanto ci proviamo, anche con alcuni esperimenti o collaborazioni più estreme, riteniamo sia giusto farlo. Conoscere la storia dell’italo disco ed amarla ci consente di tentarne con riguardo una nuova definizione e di interpretarla sotto una luce contemporanea. Nulla finisce, tutto si trasforma, anche l’italo disco».

Fabio Di Ranno e Fabio Fraschini in studio

Come prima anticipato, la musica dei Milano 84 sinora è apparsa solo in formati liquidi divisi tra Bandcamp e Spotify. L’uscita di un 12″ abbinato ad un CD però testimonia che c’è ancora voglia di tattilità in un mondo in cui l’inesorabile smaterializzazione pare non avere fine. «Il vinile è un supporto in ascesa anzi, direi che sia l’unico supporto fisico rimasto in piedi dopo il definitivo declino del CD» risponde Fraschini. «Il fascino che esercita ancora sui fan degli anni Ottanta e la particolare resa sonora che lo stesso genere ha su vinile ci ha convinti che fosse la via da percorrere. Con esso contiamo inoltre di stabilire un contatto più “reale” con chi ci segue. Se compri il vinile significa che sei realmente interessato alla nostra proposta e che il tutto non resta confinato ad un like sui social o ad un ascolto, spesso superficiale, in streaming. Per noi questa è una prova molto importante attraverso cui intendiamo costruire una fanbase appassionata ed attenta. Secondo il mio punto di vista, a Spotify spetta il merito di aver legalizzato e regolarizzato la fruizione della musica in streaming. Certo, le royalties sono misere e molte cose andrebbero riviste anche dal punto di vista del diritto d’autore, ma costituisce comunque un passo avanti rispetto allo scampato pericolo di una diffusione gratuita e totalmente fuori controllo».

A circa venti anni di distanza dalla prima fase revivalistica che trovò l’apice nell’electroclash, l’italo disco, il synth pop e un po’ tutto il bagaglio stilistico di quegli anni oggi vive una nuova esposizione commerciale con artisti tipo Purple Disco Machine, The Weeknd ed altri che, forse più per interesse che devozione, ne ricalcano prevedibilmente le orme. L’ennesimo trend stagionale o qualcosa che potrebbe evolversi sulle lunghe distanze? «Per modernizzare qualcosa devi uscire dalla comfort zone e pensare diversamente dagli altri» sostiene Di Ranno. «Progetti musicali come quello di The Weeknd o Purple Disco Machine sono lì a dimostrare che c’è un mondo mainstream (quindi non solo appassionati o nostalgici) in grado di apprezzare proposte che sentiamo concettualmente vicine alla nostra. Ci si chiede piuttosto se altrove le major siano più attente o disposte ad investire di quanto non lo siano qui. Nessuno può dire con assoluta certezza se questo trend durerà ma la magia degli anni Ottanta, per quanto stiano provando a sostituirla con l’immaginario dei Novanta, sembra destinata a reggere ancora. Chi ha detto che gli anni Ottanta sono un decennio mai finito probabilmente ha visto giusto». Grandi interrogativi riguardano anche il post pandemia. Si auspica che tutte le attività possano tornare alla regolarità anche se qualcuno sostiene che il “dopo” non riprenderà lì dove il “prima” è stato interrotto. «I tempi sono innegabilmente difficili, tuttavia noi abbiamo davvero tante novità in cantiere» annuncia Di Ranno. «A nuove canzoni a cui stiamo lavorando si aggiungerà un nuovo orizzonte, quello cinematografico, in cui spingere Milano 84. La nostra proposta ha il vantaggio di avere una forte ed eclettica identità che la rende credibile. Milano 84 è vecchio e nuovo, retrò e contemporaneo, heritage ma non nostalgico, molto romantico ed un pizzico malinconico. C’è poi una cifra più arty ed è quella che ci guida appunto nelle proposte per il cinema e l’audiovisivo. In questo senso la nostra cover di “Lola” dei Chrisma può essere considerata la prima pietra di tale percorso che, in futuro, se ne avremo l’opportunità, svilupperemo ancora di più». «I nuovi brani accoglieranno ospiti che faranno di Milano 84 un progetto ancora più aperto e in grado di reinventare di volta in volta il suo suono» aggiunge Fraschini. «Una delle guest con cui avremmo desiderato collaborare, un vero big degli 80s, ha già dato l’ok con entusiasmo. Per quanto riguarda il futuro, ci piacerebbe fare qualcosa con gli Altar Boy, abbiamo scoperto che sono di Roma e che battono un percorso per certi versi affine al nostro, ma tra i sogni ci sono pure collaborazioni con Alexander Robotnick e Gazebo (in Italia) e Trentemøller e Paul Kalkbrenner (all’estero). Al momento stiamo preparando un live set con Alice Silvestrini in cui cercheremo di interagire il più possibile con le macchine. Suoneremo sintetizzatori, chitarre, un Bass VI (strano incrocio tra una chitarra ed un basso) e drumpad. Miriamo ad un vero live e non a banali playback su basi lanciate da un software». (Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Italian Records, quando punk, new wave e italo disco si incrociano

«Tra il 1977 e il 1982 la musica italiana ebbe una capitale indiscussa, Bologna. È là che nascevano tutti gli spunti e i sodalizi destinati finalmente a rinnovare un panorama immobile e stantio. Alcuni nomi sarebbero entrati nella leggenda del rock italiano: Skiantos, Gaznevada, Confusional Quartet, Stupid Set, Hi-Fi Brothers. Ma Bologna Rock non era solo musica, era la politica di organizzazione extraparlamentare, dei cani sciolti, della controcultura. Era l’arte emergente del fumetto, della performance, era l’informazione rinnovata delle radio libere e delle fanzine. Era la nuova istruzione possibile nelle aule del DAMS. Insomma, una città laboratorio sul margine pretecnologico di un’Italia del tutto diversa da quella di oggi». Recita così la premessa di “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo” a cura di Oderso Rubini ed Andrea Tinti (Arcanapop, 2003), un libro che, in quasi quattrocento pagine, ben tratteggia la stagione creativa vissuta nella città dei portici in un periodo seminale per gran parte di ciò che avviene in seguito. Sono gli anni in cui emergono il punk e la new wave con le prime collisioni tra musica suonata a mano con strumenti tradizionali e quella invece programmata attraverso macchine elettroniche. Proprio su questo particolare snodo sorge Italian Records.

Il logo di Harpo’s Music e il furgone usato dai membri della cooperativa (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Un breve passo indietro, gli anni di Harpo’s Music (1977-1979)
Partita nel ’77 con “Inascoltable” degli Skiantos, Harpo’s Music è l’etichetta discografica nata in seno alla cooperativa culturale Harpo’s Bazaar costituita da alcuni studenti del DAMS e del Conservatorio Giovanni Battista Martini tra cui Oderso Rubini, Carlo ‘Cialdo’ Capelli, Anna Persiani, Lella Leporati e Giovanni Natale. Harpo’s Bazaar opera nel ramo grafico, musicale e cinematografico, ed è collegata ad un piccolo studio di registrazione, l’Harpo’s Studio, allestito col minimo indispensabile in via San Felice. Il nome della società, come riportato qui, è ispirato dal saggio “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx” di Gianni Celati, professore di letteratura inglese al DAMS, anche se Wikipedia riconduce la scelta del nome all’attore comico statunitense Harpo Marx il cui volto era disegnato sulle fiancate di un furgone che Rubini e gli altri prendono in fitto per filmare il Convegno Nazionale Contro La Repressione, svoltosi a Bologna tra il 23 e il 25 settembre 1977. «Armati, ma di una telecamera super 8, scanzonati, alternativi quanto basta per non prendersi sul serio e pieni di idee nuove, filmarono il convegno sulla repressione cercando nuove forme di comunicazione» si legge in un articolo di Luca Sancini su Repubblica, risalente al 25 marzo 2007 quando, a distanza di un trentennio, quelle registrazioni vengono restaurate da un gruppo di ex videomaker di uno studio di New York, donate alla cineteca comunale e proiettate in due giorni al cinema Lumière. Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Oltre ai già menzionati Skiantos si ricordano altre band che prendono parte al progetto come Luti Chroma, Windopen, Naphta, Sorella Maldestra e Gaznevada. L’ultima pubblicazione è la compilation “Bologna Rock”, omonima del festival tenutosi il 2 aprile del ’79 presso il Palasport del capoluogo emiliano ed organizzato dai membri della cooperativa col fine di lanciare nuovi gruppi della scena rock e new wave locale. In quella compilation, allegata al numero zero di Harpo’s Bulletin, fanzine di Harpo’s Bazaar, oltre a Gaznevada, Skiantos, Luti Chroma, Windopen, Naphta ed Andy J. Forest figurano altri nomi rimasti pressoché “congelati” in quell’esperienza come i Cheaters, i Rüsk Und Brüsk e i Bieki. Due pezzi, intitolati “Orinoco Blues” e “Woytila’s Rock’N’Roll”, sono firmati dai Confusional poi diventati Confusional Quartet. A quel punto l’interesse mostrato da una grossa casa discografica cambia il corso degli eventi. Come lo stesso Rubini racconta nel citato libro del 2003, la Ricordi propone un contratto di distribuzione triennale con un anticipo sulle royalties, e in virtù di quell’accordo la Harpo’s Music «si trasforma in una vera etichetta discografica passando dalle cassette al vinile». Nasce l’Italian Records.

La copertina di “Hello I Love You” degli Stupid Set

Il debutto punk (1980-1982)
Corre il 1980 quando Italian Records esordisce ufficialmente sul mercato anche se il suo nome è già filtrato attraverso varie incisioni della Demo City, mini piattaforma sperimentale relegata ancora al formato cassetta. Il primo 7″ è “Hello I Love You” degli Stupid Set nati da un’idea di Giampiero Huber, ex Gaznevada, affiancato da Paolo Bazzani, Giorgio Lavagna e Fabio Sabbioni che canta. La title track è la rilettura dell’omonimo dei Doors effettuata con strumenti elettronici che asciugano il tutto liberando un effetto mimimalista tipico delle produzioni do it yourself a basso costo di allora. «Gli Stupid Set dovevano essere una band con una caratteristica di base, l’utilizzo della batteria elettronica» dichiara Huber in “Non Disperdetevi”. «Non ero contro il sudore del batterista ma volevo arrivare ad un dispendio fisico meno pesante nel fare musica». Viene realizzato pure un video da cui emerge il desiderio di rompere la ritualità della presenza scenica del rock piazzando un televisore al posto dei volti dei membri della band, facendo così il verso ai Residents di San Francisco. Altrettanto sperimentale risulta il punk dei Gaznevada, una band che, come scrive Susanna La Polla De Giovanni in questo interessante articolo/intervista edito da Soundwall il 29 gennaio 2021, «attua una rivoluzione prima importando e mutuando l’attitudine e l’irruenza del punk rock dei Ramones e poi facendo propria l’urgenza di sperimentazione della scena post punk e no wave statunitense e britannica. Suicide, Talking Heads, Devo, Contortions e Brian Eno sono le band e gli artisti dal cui serbatoio attinsero per rielaborarne le sonorità in modo assolutamente personale, contaminandole con il loro broken english e le appassionate letture e visioni condivise di fumetti, sci-fi movies e noir americani, cimentandosi inoltre in sperimentazioni elettroniche avanti anni luce per una scena musicale allora dominata dai cantautori».

Il loro primo 7″ è “Nevadagaz” affiancato sul lato b da “Blue TV Set”. L’unico nome che si rinviene sul disco, oltre ad Oderso (Rubini) nella veste di produttore, è quello di Ciro Pagano, chitarrista della band destinato ad una brillante carriera nella scena dance del decennio successivo con Datura e numerosi altri progetti trasversali tra cui Dreams Unlimited, Do It! e XOR di cui parliamo qui. Destino analogo per un altro membro del gruppo, il bassista Marco Bongiovanni, artefice tra le altre cose di DJ H. Feat. Stefy, Kaliya e Skuba con Enrico ‘DJ Herbie’ Acerbi intervistato qui. Alla citata cover degli Stupid Set ne seguono altre: “La Bambolina” di Michel Polnareff, incisa sul retro di “Siamo Tutti Dracula” dei Luti Chroma, “Ho In Mente Te” dell’Equipe 84 – già remake di “You Were On My Mind” dei canadesi Ian & Sylvia – realizzato dai 451, e “Volare” con cui i Confusional Quartet ricostruiscono “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno. Menzione a parte per “Bianca Surf / Photoni”, singolo d’esordio di Johnson Righeira, pochi anni dopo diventato popolarissimo in coppia con Stefano Rota nel duo Righeira prodotto dei fratelli La Bionda. Diversi pure gli album, da “No Autostop” della Band Aid (gruppo leccese in cui suona il noto trombettista Francesco ‘Frank’ Nemola e solo omonimo di quello creato qualche anno dopo da Bob Geldof con fini umanitari) a “Crollo Nervoso” dei Magazzini Criminali, da “Confusional Quartet” dei Confusional Quartet a “I Luoghi Del Potere” degli Art Fleury passando per “The List” di Andy J. Forest And The Stumblers, “Sick Soundtrack” dei Gaznevada e la compilation “Pordenone / The Great Complotto”.

Alcuni dischi licenziati dall’estero

Dal 1981 Italian Records inizia ad ampliare il proprio raggio d’azione pubblicando musica di artisti esteri a cominciare dai DNA, gruppo statunitense fondato da Arto Lindsay e Robin Lee Crutchfield, a cui seguono Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. A rimarcare la vocazione internazionale è il marchio Italian Records From The World. Sul fronte italiano invece c’è tutta una schiera di produzioni che rompono gli schemi della musica rock tradizionale, dai beat elettronici di Maurizio Marsico alias Monofonic Orchestra, a cui Christian Zingales – intervistato qui – ha dedicato un libro nel 2019, alle schegge d’avanguardia spennellate da una dose di umorismo dei Confusional Quartet, dalla new wave dei Pale TV a quella dei citati Gaznevada passando per gli Hi.Fi Bros, inizialmente prodotti dal citato Lindsay che suona la chitarra nel remake di “Stranger In The Night”, il compianto Freak Antoni degli Skiantos e la compilation “Ref.907” che raduna pezzi di band già proiettate nella musica del futuro, Eurotunes, Ipnotico Tango, Metal Vox, Absurdo e Kerosene. Nel 1981 escono pure “Tapes Of Darkness” dei Neon (da Firenze, altro centro nevralgico per quel fermento artistico come ben descritto da Pierpaolo De Iulis nel documentario “Crollo Nervoso” qui recensito) e “Kirlian Camera” del gruppo omonimo parmense capeggiato da Angelo Bergamini. Oggi sono considerati dischi cult della new wave italiana.

La copertina di “I.C. Love Affair”, uno dei primi brani ballabili pubblicati da Italian Records

Chitarre elettriche, sintetizzatori e batterie elettroniche (1983-1984)
Sino a questo momento l’imprinting dell’Italian Records è legato a matrici punk/rock ed adesioni new wave e no wave ma l’uscita di “I.C. Love Affair” dei Gaznevada, singolo estratto dal terzo album “Psicopatico Party”, rimette tutto in discussione. In bilico tra reminiscenze disco con tanto di urletti à la Bee Gees e snodi ritmici elettronici ascrivibili all’hi nrg/italo disco riverberati nella Chinese Version, il brano funziona più che bene nelle discoteche incluse le estere nonostante a trainarlo sia una parte vocale in inglese sfacciatamente maccheronico così come accade nella maggior parte delle produzioni nostrane di quel periodo. Ciò non impedisce di conquistare un paio di licenze oltralpe inclusa quella sulla tedesca ZYX di Bernhard Mikulski che ai tempi è in visibilio per la dance made in Italy al punto da coniare un termine che la identificherà per sempre, italo disco, dando ad essa credibilità sul piano internazionale. Ritoccato da Claudio Ridolfi in una Special Mix chiamata Italian Version, “I.C. Love Affair” viene accompagnato da un video promozionale realizzato nella capitale: «all’epoca fummo invitati come ospiti in un programma televisivo della RAI ed era richiesto il videoclip del brano ma c’era un problema, non esisteva alcun videoclip di “I.C. Love Affair”. Con la collaborazione di un cameraman e di un regista della RAI allora, lo girammo per le strade di Roma, “buono alla prima” e in una sola mattinata» racconta il gruppo in questo post su Facebook del 30 dicembre 2020. “I.C. Love Affair”, con cui i Gaznevada partecipano al Festivalbar del 1983, fa da apripista ad altri brani filo dance come “Hear The Rumble” degli Stupid Set ed Enrico Serotti ma soprattutto “The Rule To Survive (Looking For Love)” dei N.O.I.A., scoperti da Rubini nel 1981 in occasione della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” e a cui abbiamo dedicato un approfondito articolo/intervista qui. Non c’è ancora però un distacco netto dalle matrici punk rock e new wave e a testimoniarlo sono le nuove uscite di Diaframma e Kerosene e la compilation “iV3SCR”.

L’Italian Records percorre insomma due itinerari in modo parallelo ma che presto convergeranno sotto il segno dell’ideale laboratorio collettivo a cielo aperto in atto tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta quando creare musica pigiando tasti e ruotando manopole anziché suonando strumenti tradizionali è considerata una forma di ribellione analoga a quella del punk. In diverse parti del mondo questo nuovo approccio alla composizione, reso possibile dall’avvento di strumenti dal costo più abbordabile, innesca un processo seminale per ciò che avviene in futuro. A San Francisco si sviluppa una nuova forma di disco music meccanizzata di matrice moroderiana detta hi nrg, a New York l’intersezione tra l’hip hop e dettami kraftwerkiani genera l’electro, nel Regno Unito un numero crescente di band prende le distanze dal rock classico utilizzando sintetizzatori e vivacizzando le proprie canzoni con ritmi ballabili raccolte sotto l’ombrello new wave e synth pop, in Germania aumentano gli adepti della neue deutsche welle, in Belgio gli impulsi dell’industrial generano l’EBM dai tratti militareschi, a Chicago vengono gettate le basi della house music mentre a Detroit le teorie toffleriane ispirano la techno. In Italia, nel frattempo, si fa incetta di plurime ispirazioni estere fondendole inconsapevolmente in un nuovo filone-patchwork ribattezzato oltre i confini, come si è detto prima, italo disco. C’è ancora poca intenzionalità e soprattutto scarsissima malizia commerciale, le etichette indipendenti stampano qualche migliaio di copie con l’auspicio di poterle piazzare oltralpe, specialmente in Germania dove la “musica delle macchine” pare funzionare meglio rispetto ad altri Paesi. Diversi musicisti si lasciano coinvolgere, attratti anche dalla possibilità di incassare denaro con sforzi relativamente contenuti, e tentano di fornire un continuum alla disco ormai in declino coi nuovi mezzi che la tecnologia di allora mette a disposizione, specialmente quelli prodotti da aziende nipponiche. Poi, per affrancarsi dal provincialismo e darsi un tono più internazionale, iniziano ad usare pseudonimi in lingua inglese foneticamente appetibili per un mercato non solo domestico.

Altra dance su Italian Records, N.O.I.A., Kirlian Camera e Fawzia

A partire dal 1983, a posteriori diventato l’annus mirabilis dell’italo disco, l’Italian Records pubblica con più frequenza dischi ballabili come “Stranger In A Strange Land” dei N.O.I.A., che ritmicamente tratteggia e prefigura con lungimiranza già il post italo, “The Line” degli Hi.Fi Bros, “A Tour In Italy” di Band Aid e “Special Agent Man” dei Gaznevada, quest’ultimo mixato presso gli Stone Castle Studios a Carimate e circoscritto ad una base ed arrangiamenti simili a quelli di “Just An Illusion” degli Imagination. A ciò si aggiunge la licenza di “Waterloo Sunset” degli Affairs Of The Heart, band di Bristol che coverizza l’omonimo dei Kinks in chiave synth pop strizzando l’occhio a Depeche Mode, Yazoo e Human League. Ora distribuita dalla EMI, l’etichetta bolognese individua nella musica prodotta (anche) con sintetizzatori e batterie elettroniche la nuova fonte a cui abbeverarsi e dal 1984 le distanze con la dance si accorciano. I N.O.I.A., fondati nel ’78 da Bruno Magnani e Davide Piatto sull’incrocio tra Kraftwerk e Devo, tornano con “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, mentre i Gaznevada propongono “Ticket To Los Angeles” scandita da rintocchi new romantic e con cui tornano sul palco del Festivalbar. I debuttanti Dens Dens (una velata incitazione al ballo?) sfoderano il primo e unico 12″ contenente “Life Got No Sense (Without Love)” e “Meaning Of Words” di chiara ispirazione new wave. Tra i membri della band si segnalano il tastierista Piero Balleggi, entrato a far parte dei fiorentini Neon, e il bassista Ricky Rinaldi, in futuro negli Aeroplanitaliani di Alessio Bertallot (intervistato qui) e nel team dei Souled Out. Solo uno pure il singolo di Fawsia Selama, già coinvolta come corista in brani degli Hi.Fi Bros e Gaznevada: coadiuvata dagli arrangiamenti di Roberto Costa firma “Please, Don’t Be Sad” col nome Fawzia e si guadagna una licenza in Germania dove la Bellaphon lo commercializza sbandierando un bel “original italo disco” in copertina. Esattamente dieci anni dopo intonerà “The 7th Hallucination” dei Datura. Persino i Kirlian Camera di Bergamini si cimentano in qualcosa più danzereccio del solito, “Edges”, pur preservando una certa algida marzialità, la stessa che si ritrova nella partitura di “Communicate” pubblicato l’anno prima dalla Memory Records di Alessandro Zanni e Stefano Cundari a cui, pare, Bergamini si fosse avvicinato attraverso “Pulstar” di Hipnosis. Tony Carrasco, DJ statunitense ai tempi residente in Italia, incide con un certo Charlie Owens “Thailand Seeds” di A.I.M. ma con risultati ben diversi rispetto a quelli ottenuti con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., pubblicata due anni prima dalla Zanza Records e prodotta con Mario Boncaldo e Davide Piatto dei N.O.I.A., seppur quest’ultimo non figuri nei credit come spieghiamo qui. Ad affiancarlo nel successivo “So Evil (Close To The Edge)”, sospinto da un’anima più marcatamente pop, è il compianto Graziano Pegoraro, da lì a breve produttore di Miko Mission, Taffy e Silver Pozzoli e in seguito dietro a numerosi act italodance, su tutti Ava & Stone e Mato Grosso di cui parliamo qui e qui. Nel 1984 “Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, prodotta da Carrasco con l’intervento, tra gli altri, di Manlio Cangelli degli Scotch e dei fratelli Nicolosi dei Novecento, apre il catalogo della Third Label, “sussidiaria” di Italian Records più dichiaratamente dance oriented. Al brano, l’anno dopo coverizzato con successo da Cheyne per la MCA Records, segue “Funky Is On” di Funky Family, oggi un cult nell’ambiente collezionistico, e poi tutta una serie di produzioni di stampo ballabile. Sempre nel 1984 i N.O.I.A., poc’anzi citati, incidono pure un Mini-Album, “The Sound Of Love”, a cui avrebbe dovuto far seguito, come dichiara Magnani in un’intervista del 2014, un vero e proprio LP che doveva racchiudere “Time Is Over Me” rimasto nel cassetto per ben trent’anni. Ad aprire “The Sound Of Love” invece è il pezzo omonimo, venato di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk. Seguono “True Love”, studiato su arpeggi moroderiani, e “Try And See”, l’ultimo che la band di Cervia destina alla label di Rubini in cui le spinte avanguardiste dei primi singoli spariscono sotto una coltre di synth pop piuttosto incolore e insapore.

Paul Sears e Soul Boy, tra gli ultimi dischi prodotti da Rubini

Gli ultimi anni di attività (1985-1988)
Dal 1985 in avanti l’italo disco inizia a non essere più il contenitore di musiche eterogenee che gli italiani creano ispirandosi a stili esteri e facendoli inconsapevolmente propri bensì un calderone, dalle dimensioni sempre più grandi e difficilmente stimabili, in cui riversare quasi esclusivamente brani ballabili in formato canzone, composti ed arrangiati secondo una rodata e consolidata metodologia (strofa-ponte-ritornello) ma soprattutto prodotti con l’ambizione di centrare il successo pop. Gli esperimenti effervescenti iniziali si trasformano in una disco potabilizzata per le grandi platee e ciò influisce in negativo sul livello di sperimentazione, progressivamente scemato sino ad eclissarsi del tutto. L’annata non è tra le più prolifiche per l’Italian Records che però dalla sua parte ha i Kirlian Camera, autentici fuoriclasse del darkwave prossimi a firmare un contratto con la Virgin. La loro “Blue Room”, interpretata da Simona Buja, si muove sui versanti più gelidi del suono di matrice new wave ottenuto con una drum machine LinnDrum e sintetizzatori Roland, Korg e PPG Wave. Chitarra ed effetti sono di Paul Sears che proprio per Italian Records incide “The Spirit Of The Age”, singolo di matrice pop registrato al Regson Studio di Milano con l’ausilio di vari musicisti ma che, nonostante gli sforzi, raccoglie pochi consensi. Risultati analoghi per “Baby Blue” di Soul Boy, prodotto da Luigi Macchiaizzano e dal già menzionato Maurizio Marsico, approdato sulle sponde dell’italo sound con “Rap ‘N’ Roll” di Frisk The Frog (Jumbo Records, 1983) e “Funk Sumatra” (Discomagic, 1984, con copertina a firma Tanino Liberatore e Massimo Mattioli). Quello di Sears è uno degli ultimi dischi su cui appare il nome di Rubini.

Nel 1986, dopo il suo abbandono, viene varata l’Italian Records Junior per coprire il segmento della musica per bambini. Il progetto si concretizza attraverso alcuni 7″ ed un LP della fiorentina Susy Bellucci, scomparsa nel luglio del 2018. Un altro debutto che si consuma su Italian Records è quello dei Premio Nobel, precedentemente noti come Flexi Cowboys, formati da Claudio Collino, Davide Sabadin e Caterina Sinigo. “Baby Doll” è un pezzo tipicamente italo post ’85, non pretenzioso ed arrangiato sullo stile dell’eurodisco / hi nrg di Stock, Aitken & Waterman. A produrlo è Ricky Persi, ex bassista dei Krisma che ha maturato già qualche esperienza discografica tra cui “Tarzan Loves The Summer Nights” di Big Ben Tribe, da cui forse i Chromeo carpiscono uno spunto per “Night By Night”, e soprattutto “Tenax” di Diana Est scritta, come lui stesso racconta nell’intervista racchiusa in Decadance Extra, con Stefano Previsti ed Enrico Ruggeri. Nel 1987 a “Baby Doll”, licenziato in buona parte d’Europa, fanno seguito i meno noti “White Flame” e “Sugar Love” (quest’ultimo sull’Ibiza Records di Claudio Cecchetto), poco consistenti per tessitura creativa. «Ci stancammo presto di seguire quello che era l’andazzo generale della dance italiana» sostiene Persi nell’intervista sopraccitata. «Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation (sulla quale nel ’92 esce una cover di “I.C. Love Affair” a nome Dial 77, nda) ma ad onor del vero il nome ammiccava pure al DMC. Non a caso in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che per le gare ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Per Ricky Persi, analogamente a Collino e Sabadin, le nuove forme di dance elettronica diventano autentici filoni auriferi da cui estrarre una miriade di pepite alcune delle quali trasformate in preziosi monili come Sueño Latino, Glam, Ramirez, Steam System, Atahualpa, Fishbone Beat e Paraje, quasi tutti sotto il marchio Expanded Music.

Marco Bellini immortalato sulla copertina di Céyx

È sempre Persi, affiancato da Maurizio Preti, a curare la produzione di “Monnalisa” e “Mon Amour” di Lucio Burolo Deblanc noto semplicemente come Deblanc, nato ad Ottawa, in Canada, ma residente a Trieste. Tra gli ingegneri del suono del primo, registrato al Watermelon Studios e mixato al Rimini Studio da Mario Flores, ci sono Sergio Portaluri e Fulvio Zafret, futuri artefici insieme a David Sion del prolifico team De Point di cui parliamo qui. Il secondo invece viene interamente realizzato a Trieste presso il Palace Recording Studio di Gemolotto, lì dove nasce un altro disco edito dall’Italian Records nel 1987, “Ma-La-Vi-Ta” di Céyx. Ibridando ciò che resta dell’italo frammista a stab orchestrali ad una base quasi new beat a 115 BPM, Persi e Previsti scrivono un brano che raccoglie discreti risultati all’estero. A produrlo, come riportato tra i credit, sono i P/P/G, acronimo di Persi Previsti Gemolotto, che proprio quell’anno incidono “Jack The Beat” sulla neonata DFC. A cantarlo invece un giovanotto triestino poco più che ventenne immortalato in copertina, Marco Bellini, divenuto un noto DJ negli anni Novanta per residenze in locali come Aida ed Area City. Il team dei P/P/G si ripresenta con “Plaza De Toros” firmato Invidia, italo virata in chiave spagnoleggiante quando i Gipsy Kings si impongono in tutto il mondo con “Bamboleo”. La collaborazione tra Italian Records e il Palace Recording Studio prosegue con “Quibos” dei Quibos, prodotto da Tano Lanza e Mario Percali e supervisionato da Massimo Bassani, in quel periodo coinvolto in diverse produzioni edite dall’Expanded Music su varie etichette. Dallo studio di Gemolotto esce pure “High Energy Boy” delle Moulin Rouge, progetto sloveno che si inserisce nell’infinita cordata hi nrg ormai popolarizzata su scala mondiale, e “Nei Sogni Tu Ci Sei / Pensiero Lontano” di Elio che, insieme ad “One Day Lovers / Love Me Too Much” di Samuel, tira il sipario puntando ad un genere davvero agli antipodi rispetto a quello con cui tutto è iniziato circa otto anni prima.

Frammenti post 2000 per Italian Records

Tra ripescaggi ed una breve nuova vita (2006-2015)
A partire dai tardi anni Novanta molti generi musicali del passato vengono riscoperti e vivono una seconda vita proprio come accade all’italo disco. Su iniziativa di personaggi sparsi tra Europa e Stati Uniti, la vecchia dance italiana, morta, sepolta e dimenticata ormai da circa un decennio, si ritrova inaspettatamente a ricoprire un ruolo tutt’altro che marginale nella scena contemporanea. Nell’arco di pochi anni sul mercato piomba un numero crescente di ristampe, ufficiali e non, di dischi sino a quel momento rintracciabili principalmente nei mercatini, nelle aste su eBay o siti specializzati come GEMM (il marketplace di Discogs arriverà solo intorno al 2002). Il movimento revivalistico abbraccia anche il marchio Italian Records che nel 2006, a circa diciotto anni di distanza dall’ultima apparizione, ritorna nei negozi per mezzo di una raccolta, “Confuzed Disco”. Edita su CD e vinile, si configura come una vera e propria retrospettiva dedicata alla label bolognese ed è caratterizzata da ripescaggi e numerosi remix realizzati da una nuova generazione di artisti. Nella tracklist è inclusa pure una manciata di tracce estrapolate dal catalogo Third Label (“Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, “Funky Is On” di Funky Family). Il vecchio si unisce al nuovo e crea un inedito standard stilistico destinato a rafforzarsi negli anni a seguire.

Vari brani relativi alle prime annate di attività di Italian Records finiscono invece in “Mutazione (Italian Electronic & New Wave Underground 1980-1988)”, un’altra compilation nata col fine di radunare gemme dimenticate della new wave italiana. A pubblicarla, nel 2013, è la britannica Strut. Quello stesso anno la Spittle Records mette in circolazione “Italian Records – The Singles 7” Collection (1980-1984)”, box set di cinque CD che, come annuncia il titolo stesso, accorpa i singoli editi da Italian Records nel quadriennio 1980-1984. Il package include pure un booklet di ben 112 pagine. La raccolta fotografa, come scrive Pierfrancesco Pacoda in un articolo pubblicato sulla rivista DJ Mag Italia ad agosto 2013, «il neo rock indipendente che lambisce la seduzione dell’italo disco, opere nate da un lavoro collettivo in piccoli studi di registrazione casalinghi dove il produttore Oderso Rubini porta tantissimi giovani talenti di una scena che, mai come allora, credeva davvero in una comunicazione artistica fatta di linguaggi differenti». Nel 2014, su iniziativa della stessa Expanded Music, prende avvio il progetto volto a rilanciare il marchio Italian Records nel mercato contemporaneo. Sotto la guida di Ricky Persi escono dieci dischi, tra inediti (“Generation 83” di Leo Mas & Fabrice, “J’Adore La Musique” di Lineki, “Destination To The Sun” di DJ Rocca, “Waiting For The Heaven” di Shambok Feat. David Sion) e ristampe avvalorate da nuovi remix (Funky Family, Gaznevada, N.O.I.A., Kirlian Camera). Nonostante i buoni propositi, l’operazione si arena nel 2015. Ultimo in ordine di apparizione è il reissue di “Gaznevada”, primo album dei Gaznevada in origine su Harpo’s Music rimesso in circolazione a gennaio 2021 attraverso una limited edition ambita dai collezionisti.

La testimonianza di Oderso Rubini

In che ambiente sociale e culturale germoglia l’idea di fondare Harpo’s Bazaar?
Erano gli anni del Movimento bolognese, di una città ricca di tensioni sociali e politiche ma anche innervata da una dimensione creativa sviluppata in maniera del tutto spontanea grazie a diverse componenti: DAMS, Conservatorio, radio libere, concerti, etc.

Perché optaste per il nome Harpo?
Gianni Celati, docente di letteratura inglese al DAMS, stava scrivendo un libro intitolato per l’appunto “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx”. Alcuni suoi allievi erano tra i soci fondatori della cooperativa e quindi, un po’ perché suonava bene, un po’ perché lo spirito di Harpo incarnava in qualche modo le nostre ambizioni, optammo per quel nome, e fu una scelta abbastanza facile e felice direi.

“Inascoltable” degli Skiantos (1977)

Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Cosa voleva dire ai tempi gestire un’etichetta indipendente come quella?
Non avevamo né le risorse, né la struttura per pubblicare dischi essendo lontani da Roma e Milano, ma sentivamo la necessità di esternare in qualunque modo le nostre voglie e quelle degli artisti che ci stavano intorno. Avevamo lo studio dove registrare, e già quello era un privilegio in termini economici, e non ci mancava lo spirito creativo per inventare e diffondere la nostra musica tramite i concerti (tra cui il Bologna Rock), utilizzando il circuito delle radio indipendenti e la vendita per corrispondenza. A contraddistinguere Harpo’s Music fu l’incoscienza, la spontaneità e quel giusto grado di presunzione dell’essere giovani legato all’inesperienza e all’ingenuità di chi non è ancora un professionista smaliziato.

In Rete corre voce che tra i fondatori di Harpo’s Music ci fosse anche Red Ronnie: è vero?
No, Red Ronnie è stato un amico e fiancheggiatore della nostra avventura da esterno.

Qualcuno ricopriva il ruolo di A&R e quindi decideva cosa pubblicare?
Delle scelte artistiche me ne occupavo principalmente io pur condividendole, soprattutto per ciò che riguardava il cosiddetto “marketing”, con gli altri soci della cooperativa.

Quanto budget fu investito in quell’avventura?
Di fatto i costi erano legati esclusivamente alla produzione e distribuzione delle cassette (in tirature di 500 copie) e alle operazioni per promuoverle ossia spedizioni, grafica e pubblicità.

Italian Records debutta ufficialmente nel 1980 seppur il nome appaia già attraverso le cassette della Demo City. Perché optaste per Italian Records? Era forse un modo patriottico/nazionalistico per evidenziare un’anelata riconoscibilità?
Demo City era una collana sperimentale, sempre relegata al formato cassetta, che attraversò il passaggio dalla cooperativa Harpo’s Bazaar alla Expanded Music Srl segnando quindi la transizione dall’età dell’innocenza a quella di una maggiore consapevolezza economico/industriale. Italian Records è stato il primo marchio di produzione dell’Expanded Music Srl che poi, a sua volta, divenne marchio per le ristampe di dischi presi in licenza da tante etichette internazionali (Rough Trade, 4AD, Industrial Records, Slash, Beggars Banquet, EG Records ed altre ancora). Dietro la scelta del nome c’era ovviamente una palese dichiarazione d’intenti: doveva essere evidente la nostra origine italiana e volevamo aprirci ad un mercato internazionale.

Rubini insieme a Nino Iorfino ed Anna Persiani nei primi anni Ottanta

All’inizio il logo è rappresentato dal tricolore nostrano, poi sostituito dallo stivale geografico e quindi dalla sagoma di un volto stilizzato. Da chi furono realizzati?
L’intera produzione grafica era a cura di Anna Persiani che coordinava tutte le sollecitazioni e le idee che dovevano supportare la nostra immagine.

Come tu stesso dichiari nel libro “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo”, a decretare la nascita dell’Italian Records è stata la Ricordi con un contratto di distribuzione triennale ed un anticipo sulle royalties. Come riusciste ad attirare l’attenzione della celebre casa discografica fondata nel 1958 da Nanni Ricordi e Franco Crepax? Ci fu un disco o una band in particolare a fare da detonatore?
Uno dei nostri soci, Gianni Gitti, incontrò casualmente ad un concerto, dove si occupava del suono, i responsabili artistici della Ricordi, Mara Maionchi e Giampiero Scussel. Allora eravamo un gruppo di lavoro molto coeso e penso sia stato più il contesto che un artista in particolare ad incuriosirli. Dopo una loro visita nel nostro piccolo studio in via San Felice, ci proposero un contratto di distribuzione come etichetta.

Il primo biennio di attività dell’Italian Records è legato a doppio filo a punk, post punk e new wave, generi che i musicisti nostrani elaborano in scene regionali parecchio parcellizzate (si pensi alla Mask Productions di Fulvio Guidarelli, alla Tidico o alla miriade di gruppi mirabilmente raccolti dalla Spittle Records nel progetto “Voyage Through The Deep 80s Underground In Italy”). Che riscontri raccoglieste, sia dalla critica che dal pubblico?
Nei primi anni riuscimmo a diventare una sorta di punto di riferimento per la costruzione di una scena punk/rock italiana indipendente. Sia la critica che il pubblico ci seguirono con attenzione e rispetto, fiduciosi in qualcosa di nuovo per il nostro Paese. Ancora oggi ricevo testimonianze di grande affetto per il lavoro fatto allora e questo continua ad inorgoglirmi.

Il brand Italian Records From The World

Oltre a patrocinare una serie di gruppi italiani, Italian Records ha veicolato anche alcuni album di band estere come DNA, Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. Cosa implicavano operazioni simili? Erano particolarmente onerose dal punto di vista economico?
Ad un certo punto, per stabilire rapporti economicamente più produttivi e possibili relazioni per i nostri dischi, inventammo il brand Italian Records From The World. Volevamo produrre non solo artisti italiani ma anche stranieri, con progetti specifici e in esclusiva, ma che costassero relativamente poco.

È vero che “Rafters” dei Throbbing Gristle era un bootleg non autorizzato, così come indicato su Discogs?
No, assolutamente, nessuna delle nostre produzioni era considerabile come bootleg, erano tutte legali.

“I.C. Love Affair” dei Gaznevada è uno dei primi brani ballabili pubblicati dall’Italian Records, uscito quando iniziano a delinearsi le caratteristiche di quella che in Germania verrà ribattezzata italo disco. L’adesione a quel fermento fu intenzionale o casuale?
Frequentando le discoteche per i concerti di alcuni dei nostri artisti, Gaznevada in particolare, si percepì chiaramente una tensione positiva verso il fenomeno “ballo”. Inizialmente l’idea era introdurre anche nell’ambito della musica dance degli elementi che fossero in qualche maniera provocatori ed insoliti per quel genere, soprattutto per i testi, mai banali o superficiali, come già avvenne in “(Black Dressed) White Wild Boys” sempre dei Gaznevada ed antecedente ad “I.C. Love Affair”. Anche quella del ballo era una forma di espressione e sembrò poter aprire ai musicisti altre possibilità per provare a vivere di musica.

A cosa era dovuta l’impostazione “orientaleggiante” dell’artwork? Quante copie vendette il mix e perché coinvolgeste Claudio Ridolfi come remixer?
La copertina del disco voleva evidenziare l’origine del testo, nato da un vero fatto di cronaca che raccontava le disavventure di un ambasciatore occidentale innamorato di una ragazza cinese. Ai tempi dell’uscita vendemmo qualche migliaio di copie ma non saprei quantificare con precisione tenendo conto di tutte le ristampe commercializzate in tanti Paesi del mondo. La cosa più interessante di quel brano è che decidemmo di realizzarlo solo sulla base di un riff di basso. Poi lo sostituimmo con un sintetizzatore Minimoog che era casualmente in studio e nel giro di quattro ore appena era già perfettamente compiuto. Apparve subito chiaro che avesse grandi potenzialità ma bisognava dare ad esso una maggiore ballabilità rispetto alla versione originale. Per fare ciò solitamente ai tempi si coinvolgeva qualcuno che fosse esperto di tecniche per i remix destinati alle discoteche, nel nostro caso Claudio Ridolfi.

Nonostante l’avvento delle prime tecnologie a basso costo, allora incidere un disco era una cosa tutt’altro che improvvisabile e i crediti sulle copertine lo testimoniano. Come fu recepito l’arrivo di sintetizzatori e batterie elettroniche negli ambienti del rock in cui regnava uno scetticismo, più o meno radicato, nei confronti della musica “programmata” e non “suonata”?
Ovviamente le persone più intelligenti percepirono l’avvento di synth e drum machine come un arricchimento delle possibilità espressive. Alla fine dipende sempre da come si usano le cose. Oggi c’è chi sostiene che il suono analogico dei vecchi nastri sia migliore di quello digitalizzato, esattamente come avveniva quarant’anni fa con gli strumenti elettronici e quelli tradizionali.

Dal 1983 a distribuire Italian Records fu la EMI: emersero sostanziali cambiamenti rispetto ai tempi di Ricordi?
Idealmente avevamo un contributo più meditato ed incisivo sulla parte promozionale ma per il resto non ci furono grandi differenze.

Uno scorcio della sede dell’Italian Records (198x)

Inizialmente l’italo disco è un genere-non genere fondato sull’ibridazione di stili eterogenei che i musicisti italiani assemblano anche in modo naïf. Poi si trasforma in qualcosa di predefinito e prevedibile, fatto di dance costruita sulla song structure che etichette/grossisti milanesi come Discomagic o Il Discotto impiegano intensivamente. A differenza delle realtà lombarde però, Italian Records non ha mai sfruttato a pieno regime quel ciclo economico toccando la prolificità tipica della musica “usa & getta”. A posteriori avresti voluto produrre più materiale?
Noi volevamo mantenere il più possibile una nostra identità, sia sonora che a livello di immagine. Le priorità non erano ancora i risultati economici bensì quelli espressivi. L’attività delle etichette e dei grossisti milanesi, lo dico senza cattiveria, si basava su un alto numero di produzioni perché statisticamente sapevano che ogni dieci progetti uno avrebbe venduto bene. Io invece ho prodotto solo quello che mi piaceva davvero.

Cosa ricordi delle produzioni convogliate sulla Third Label, etichetta più dichiaratamente dance sin dal suo esordio?
Francamente molto poco perché ero già proiettato altrove.

“The Spirit Of The Age” di Paul Sears e “Baby Blue” di Soul Boy sono tra gli ultimi dischi su cui appare il tuo nome: perché ad un certo punto abbandoni Italian Records?
Perché venne meno lo spirito che ci aveva accompagnato sino ad allora e, come è successo a tanti, il gruppo di lavoro coeso dell’inizio si stava declinando in ambizioni individuali poco conciliabili tra di loro.

Nel 1986 nasce Italian Records Junior dedicata a musiche per bambini e in seguito Italian Records diventa piattaforma per dischi piuttosto cheesy che suonano un po’ come il necrologio del progetto iniziale. Cosa pensi in merito a quella brusca virata?
Rispetto le scelte che furono prese dopo la mia uscita dall’Expanded Music, ma è evidente che a livello emotivo non mi coinvolsero affatto.

A proposito di sotto etichette e marchi correlati: cosa puoi raccontare in merito a MMMH Records e Nice Label? Erano affiliate ad Italian Records?
Entrambe facevano parte dell’idea di costruzione di una scena rock/new wave italiana. Volevamo aumentare la quantità di gruppi di produzione autonomi, sostenuti dall’Italian Records che a sua volta ne alimentava l’identità e ne era garante per l’immagine che si era costruita. Nello specifico la MMMH Records nacque per gli Stupid Set mentre la Nice Label fu gestita in collaborazione con Red Ronnie.

C’era un particolare significato dietro la scelta della sigla Exit (e talvolta in reverse Tixe) abbinata al numero di catalogo, o era banalmente la traduzione maccheronica di “uscita” intesa nel gergo discografico?
Stava proprio per “uscita”. Anche Dischi Italiani, in qualche modo, era maccheronico o banale.

Esisteva una ragione precisa invece dietro MXM Musica Ex Machina, l’editore che affiancava Italian Records?
Quel nome proveniva dal titolo del libro omonimo di Fred K. Prieberg che raccontava del nuovo tempo che prima o poi avrebbe accompagnato la produzione musicale.

Nino Iorfino ed Oderso Rubini

Quanto tocco e sensibilità di Oderso Rubini c’erano nelle uscite Italian Records?
Non dovrei essere io a dirlo, ma sicuramente nella maggior parte delle pubblicazioni la mia sensibilità ebbe un ruolo importante, per le scelte, per l’uso dei suoni, per la costruzione delle singole identità. Un buon produttore, a mio avviso, è quello che amplifica al massimo le caratteristiche insite dell’artista per esaltarne appunto l’identità e la singolarità. Che senso ha produrre per assomigliare a cose che esistono già?

Oggi il ruolo del produttore o dell’A&R è stato di gran lunga ridimensionato anzi, c’è chi, in virtù della tecnologia semplificatrice, si autoproclama artista facendo a meno di tutto e tutti. Credi che ciò stia facendo più bene o male alla musica?
Con l’uso sempre più diffuso delle tecnologie si sono globalizzati anche i suoni e le modalità di produzione e quindi ora è molto difficile far emergere identità forti. Sono parecchio cambiate inoltre anche le modalità di fruizione della musica e a parte pochissimi casi, spesso chi suona non riesce ad avere una visione d’insieme neutra di una canzone o di un disco, per presunzione o per superficialità. Sono convinto quindi della necessità di un orecchio esterno capace di dare un senso estetico ed espressivo ad un progetto.

In quale fase dell’Italian Records ti rivedi meglio?
Dall’inizio fino al 1982. Sono molto orgoglioso del lavoro fatto come gruppo. Poi si ruppe qualcosa e non riuscimmo più a dare un senso, anche economico, alla nostra avventura.

Quali sono i bestseller del catalogo? Mediamente quante copie vendevate per ogni pubblicazione?
Ovviamente Skiantos e Gaznevada che hanno avuto esiti decisamente positivi vendendo dalle 5000 alle 6000 copie. Altri titoli invece viaggiavano tra le 3000 e le 1000 copie.

Nel 2014 l’Italian Records è tornata in attività, seppur per un breve periodo, attraverso ristampe, remix ed inediti. Hai seguito ed apprezzato quella parentesi?
In qualche modo ne ho fatto parte e mi ha fatto piacere che le ristampe siano nate da una richiesta del mercato e non da un delirio personale. L’aspetto negativo è rappresentato dall’uso che oggi si fa delle ristampe a cui si attribuisce un valore principalmente collezionistico.

Ci sono errori che non rifaresti o rimpianti che ti porti dietro?
È mancato, più per inesperienza che per altro, un approccio più manageriale a tutta la passione che abbiamo messo nel nostro lavoro. Il rimpianto? Non essere riusciti a fare dell’Italian Records la più grande etichetta rock italiana (risate).

Per quali ragioni o meriti vorresti fosse ricordata Italian Records?
Per le emozioni che, anche se alle volte ad una sola persona, siamo riusciti a trasmettere, e che forse trasmettiamo ancora oggi.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata


Anna Bolena, amante della musica senza confini

All’anagrafe è Antonella Pintus ma il mondo della musica la conosce come Anna Bolena. Nata a Sassari nel 1970 e trasferitasi a Roma nel 1989, inizia a mettere dischi come DJ nel 1995 e in parallelo organizza rave ed eventi di musica elettronica underground diventando la prima DJ donna attiva nel circuito dei freeparty capitolini. Creativa e propositiva, nel 1997 è tra i co-fondatori di Peti Nudi, fanzine che, come recita la sua biografia, «veicola informazioni su musica, stati alterati di coscienza e contesti sociali giovanili». Nel 1999 acquista il primo PC e, da autodidatta, si dedica alla composizione di musica con l’ausilio di vari programmi software. Nel contempo matura l’idea di creare un’etichetta discografica, Idroscalo Dischi, che lei stessa considera la prima ad essere generata dal fenomeno dei freeparty illegali. Legata a matrici industrial, IDM ed allo sperimentalismo rumorista di stampo russoliano, la label debutta nel 2001 con l’ambizioso “Smash Biotek” al cui interno si rinviene la musica, tra gli altri, dei D’Arcangelo, Marco Passarani, Andrea Benedetti e Marco Micheli ma pure di presenze estere come Venetian Snares, Eiterherd e Saoulaterre, e poi cresce di anno in anno contando sul supporto di artisti accomunati dalla propensione a spingersi ben oltre i confini della musica da ballo. Passando da esperienze musicali alle multimediali, la Bolena, di stanza a Berlino dal 2004, è una testimone autorevole della scena alternativa nostrana, contesto che meriterebbe più approfondimenti obiettivi dopo anni di pregiudizievoli demonizzazioni da parte dei media generalisti.

Antonella Pintus ancora adolescente in una foto del 1986

Con che tipo di ascolti trascorri infanzia ed adolescenza?
Mia madre era una promettente pianista. Da piccolina studiava al Conservatorio Luigi Canepa di Sassari e di lei hanno parlato sia giornali locali che nazionali. Quando rimase incinta di me aveva appena diciassette anni ma continuò comunque ad esercitarsi almeno otto ore al giorno, la sua passione per il pianoforte era davvero grande. Credo di aver ereditato proprio da lei l’orecchio per la musica classica e quella più “raffinata”, a cui mi sono avvicinata sempre di più nel corso del tempo. Durante l’infanzia ero attratta da altre cose ma pian piano ho recuperato. Per il mio primo documentario girato da videomaker, ad esempio, ho utilizzato parecchi campioni di musica lirica. Il mio papà invece era un abile calciatore. Quando fu convocato nel Cagliari però suo padre non acconsentì e quindi proseguì in modo amatoriale, facendo anche da trainer per giovani talenti di altre squadre. Pure lui mi ha trasmesso la passione per la musica, sin da quando ero piccola. In casa ne girava di tutti i tipi, classica, pop, rock, tradizionale… Qualche tempo fa mio padre mi ha regalato la sua collezione di CD jazz e blues, andata ad infoltire la raccolta dei dischi di musica classica di mia madre che nel tempo ho continuato a rimpinguare. Oggi possiedo circa 7500 titoli: non è una collezione enorme ma un bel pezzo di storia e di questo ne vado particolarmente orgogliosa. Quando avevo nove/dieci anni circa, d’estate andavo in vacanza dai nonni a Palau, in Costa Smeralda, lì dove nacque mia mamma. Proprio sotto la loro casa c’era un locale, il night club del paese, frequentato principalmente dalla comunità afroamericana (militari sempre molto eleganti con le mogli al seguito) della base NATO che stava sull’isola de La Maddalena. Qualche volta riuscivo ad entrare lì dentro, pur non potendo partecipare alle feste perché minorenne. La visione della sala da ballo con le luci psichedeliche e la consolle mi colpirono ed affascinarono parecchio. Quando tornavo in camera mi sdraiavo per terra e sentivo i battiti della cassa della musica disco suonare di sotto. Mi addormentavo così e non lo trovavo neanche fastidioso visto che le estati in Sardegna sono state sempre particolarmente afose e il fresco del pavimento mi dava un po’ di sollievo. Nell’adolescenza i gusti cambiarono. Se da piccola apprezzavo la disco, il pop e il funky, gli anni Ottanta mi portarono verso altri generi musicali, primi su tutti il gothic rock, il dark e la new wave. Alcuni amici più grandi acquistavano dischi per corrispondenza e, una volta giunti “nel continente” (così come si diceva da noi) me li registravano carinamente su cassetta. In quel modo ebbi la possibilità di ascoltare ed approfondire musica di band come Joy Division, Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees, Christian Death, And Also The Trees e praticamente tutta la produzione della britannica 4AD (impazzivo per i Cocteau Twins e Dead Can Dance!). Nel contempo non disdegnavo cose tendenzialmente più commerciali come The Smiths e Morrissey a cui devo il mio vegetarianesimo, Pogues, Who, U2 e il combat rock degli Alarm. Mi divertivo a ballare con gli amici che adoravano Bowie (io un po’ meno), l’indie rock e tutta la new wave nostrana, dai Litfiba ai Diaframma passando per i Not Moving. Gran parte di quei pezzi li conservo su cassetta. Mi piacevano molto anche i Culture Club, affascinata dalla stravaganza di Boy George. Frequentare giovani omosessuali alimentò l’interesse per le tematiche legate al gender e probabilmente ad accendere la curiosità fu il fatto di essere circondata da persone piuttosto bizzarre e particolari. Per il resto i miei anni Ottanta furono piuttosto “scuri” e passarono nell’attesa di lasciare Sassari alla volta di Roma, città in cui volevo andare a vivere sin da quando avevo tredici anni. Una volta terminato il liceo ci andai per davvero, con l’obiettivo di studiare psicologia. Da ragazzina, non disponendo di molti soldi, selezionavo scrupolosamente i dischi da comprare. Iniziai ad acquistare i dischi degli U2 che andai a vedere a Modena nel 1987 a sedici anni, e di quel concerto conservo gelosamente anche un’incisione bootleg, a mo’ di cimelio. Poi Joe Jackson, Television, Patti Smith, Talk Talk, Billy Bragg, Matt Bianco e il new folk inglese dei Fairport Convention, ma anche Neil Young, Van Morrison, Joan Baez, R.E.M., The Jesus And Mary Chain, Joni Mitchell, Janis Joplin…

Cosa era per te la “musica elettronica”?
Ho iniziato ad interessarmi di musica elettronica (intendendo quella da discoteca) solo negli anni Novanta. Prima nutrivo per essa una sorta di antipatia, forse perché non mi aveva stimolato a sufficienza. Molti amici partivano dalla Sardegna alla volta del Cocoricò di Riccione ed io li sfottevo sostenendo che quella proposta lì dentro non fosse affatto “musica”. Ai tempi ero attratta da altro, in primis dalla musica suonata con gli strumenti tradizionali, ma affermare che l’elettronica non rientrasse a priori nei miei interessi potrebbe essere sbagliato e fuorviante perché il suono dei sintetizzatori aveva preso ampiamente piede nel pop e rock degli anni Ottanta. Ai tempi ballavo tantissimo e di tutto, ed anche quando mi trasferii a Roma continuai a frequentare le scene più disparate. Ero di casa al Uonna, sulla Cassia, dove la musica era ancora la new wave dei Cure, Bauhaus o Joy Division, ma la fortuna di avere un orecchio parecchio aperto mi diede lo stimolo per aprire nuovi orizzonti. Ad attrarmi fu principalmente il suono britannico, forse perché ero già appassionata del pop composto oltremanica. Negli anni Novanta l’IDM della Warp fu il genere che mi prese di più, senza ombra di dubbio. Per quanto riguarda invece la scena nostrana, vivere a Roma per quindici anni mi ha dato la possibilità di entrare in contatto col cosiddetto Sound Of Rome che ritengo la massima avanguardia anche a livello internazionale. Acquistai subito i dischi di Leo Anibaldi e dei D’Arcangelo che mi piacevano tantissimo, senza dimenticare il progetto Automatic Sound Unlimited condiviso con Max Durante (di cui parliamo qui, nda) che proponevo senza tregua nelle mie serate. Ai tempi, parlo della metà degli anni Novanta, una buona parte degli avventori dei rave, anche più giovani di me, era interessata e disposta a sentire cose realmente alternative e non necessariamente orecchiabili. Nel corso del tempo ho progressivamente aumentato la conoscenza approfondendo ed interessandomi a generi complementari, recuperando davvero tanto della produzione italiana che non tenni in considerazione perché consideravo troppo commerciale. Dalla deep house alla progressive sino alla hi nrg, tutto è finito nella mia collezione. A posteriori ho scoperto pure di essere letteralmente innamorata della house cantata da voci femminili. Alcuni che mi seguono si sono stupiti quando ho iniziato a proporre quel tipo di sonorità nei miei set, ma per me è stata una sorta di recupero della black music che ho vissuto da bambina negli anni Settanta. La mia passione per la musica è davvero a 360 gradi ed affrontare nuovi generi non vuole affatto essere uno scimmiottamento. Sorprendere e non dare nulla per scontato è alla base del mio concept e viene naturale contaminare continuamente le mie radici, fa parte della mia personalità, del mio carattere e del mio modo di intendere il party.

Nel ’95 ha inizio la tua carriera da DJ e, in parallelo, da organizzatrice di party, rave ed eventi underground. Come ricordi quel periodo? Il fatto di essere donna ha mai rappresentato un problema o generato discriminazioni in un ambiente dominato quasi esclusivamente dal sesso maschile?
Mi sono ritrovata in una scena che non era esattamente quella di riferimento perché ero un’attivista politica, facevo parte dei gruppi extraparlamentari romani, ero legata ai centri sociali e frequentavo principalmente ambienti anarchici e studenteschi. Dopo una fase iniziale più “commerciale”, il cui il “suono di Roma” si espresse nella sua forma migliore ma a cui non aderii, iniziai a partecipare a piccolissimi party organizzati in periferia da amici dei centri sociali. Eravamo pochissimi, dalle cinquanta alle cento persone. Avevo poco più di vent’anni e la mia passione era, semplicemente, ballare. Ad iniziare quella scena furono miei coetanei o gente poco più grande di me. Alcuni conducevano una trasmissione su Radio Onda Rossa e sdoganarono la techno negli ambienti di sinistra, lì dove erano radicati parecchi pregiudizi perché, è bene ricordarlo, la techno a Roma era collegata principalmente agli ambienti di destra. Era comprensibile quindi il motivo per cui compagni e compagne nutrissero dei preconcetti, anche perché ascoltavano tutt’altra musica come il punk e il reggae. Nel 1990, un anno dopo essermi trasferita nella capitale, iniziai a partecipare attivamente al movimento di protesta della Pantera, nato negli ambienti universitari palermitani e poi esteso in molte altre facoltà d’Italia. Seguivo i corsi di psicologia nella sede distaccata de La Sapienza che fu la prima facoltà che occupai a Roma. Proprio lì si creò il fenomeno delle posse, nato in seno alla cultura hip hop, che rappavano canzoni di protesta. Il rap era già entrato nei centri sociali e il fenomeno si ingrandì a dismisura di fronte alle folle di studenti. Poi toccò anche all’elettronica, peraltro già presente in qualche modo nell’hip hop, ed infatti alcuni rapper parteciparono alla scena rave come alcuni collaboratori degli Assalti Frontali di stanza al Forte Prenestino. All’inizio, come spiegavo prima, ero una semplice frequentatrice perché mi piaceva ballare. Un giorno, in un piccolo rave organizzato nella zona di Valle Aurelia, un paio di amici mi invitarono a mettere dei dischi, forse perché non c’era il DJ o forse perché loro erano stanchi, non ricordo più con esattezza. Era l’estate del 1995 e da quel momento non mi sono più fermata. Compravo dischi, accumulavo contatti internazionali ed allacciavo rapporti diretti coi negozi saltando i passaggi coi management di turno che ho trovato sempre un po’ discutibili. Non nascondo che essere donna abbia creato alcune situazioni imbarazzanti da parte di alcuni maschietti misogini o comunque non abituati a vedere donne dietro la consolle, e non mi riferisco solo alla mia figura artistica (approcciai al DJing in modo estremamente discreto, non considerandomi una musicista ma più un’eccentrica ed un’intellettuale visto che studio da sempre) ma soprattutto al ruolo di organizzatrice. Per lungo tempo ho gestito le consolle e ciò è avvenuto sino a pochi anni fa con l’attività di booker a Berlino, ed è capitato molte volte che alcuni DJ (anche famosi) si irritassero per il fatto che fosse una donna a gestirli. Sento comunque di aver avuto rispetto e considerazione perché sono sempre stata attiva, creativa e propositiva, e credo che tutto ciò mi abbia “salvata”. Confrontarmi coi maschi in consolle, perlopiù etero – molti amici gay non palesavano le loro preferenze sessuali come oggi, la musica era più importante dell’esprimere esigenze di tipo affettivo o sentimentale – talvolta mi ha obbligata a fare delle scelte, ad esempio rinunciare ad esprimermi in modo più coraggioso. Sia chiaro, non ho mai avuto esigenze tipiche dei maschi che erano guardati da tutti e si potevano permettere di fare i “piacioni”, atteggiamento che ho sempre odiato. Essendo donna però non potevo fare lo stesso, sarei subito passata per una poco di buono. La donna non poteva fare le stesse cose che facevano i maschi (seppur non mi piaccia molto parlare di “femmine” e “maschi”), specialmente quando si parlava poco di misoginia che era un vero e proprio tabù. Per un po’ di tempo sono stata l’unica donna in consolle nella scena dei freeparty, le amiche si occupavano di decorazioni, bar ed organizzazione ma poi, per fortuna, altre hanno seguito il mio esempio facendo crescere le quote rosa.

Perché ti trasformi in Anna Bolena? Quali ragioni ti spingono ad adottare uno pseudonimo di taglio storico?
Negli anni Novanta, quando era tanto di moda usare i nickname, iniziai come Meridiana 07, ispirata dalla Meridiana del fumetto Cybersix. Con quello pseudonimo firmai anche gli articoli sulla rivista Peti Nudi. Nel momento in cui diedi avvio all’attività da artista però, decisi di optare per uno più forte e giunsi ad Anna Bolena, figura storica perfetta per rappresentare il mio concetto di DJ. Ho letto vari libri a tal proposito e l’aspetto che mi interessava maggiormente della Bolena non era tanto quello della famiglia di nobili origini bensì la sua raffinatezza e cultura, la capacità di suonare musica, scrivere poemi e, non meno importante, la propensione a circondarsi di musicisti, esattamente quello che facevo io. A ciò si aggiunse infine l’aspetto politico: Anna Bolena e il suo matrimonio con Enrico VIII originò lo scisma anglicano, e vista la mia crisi mistica che mi ha portato ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della chiesa cattolica, ciò mi affascinò spingendomi ad abbracciare questa figura storica assai controversa.

Roma, città in cui vivi ai tempi, è stata una vera roccaforte della techno e della house ma pure dei rave che iniziano a diffondersi tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta, come hanno descritto qui e qui Leo Young e Max Durante. C’erano sostanziali differenze tra i rave/eventi che ti videro come protagonista e quelli precedenti? Esisteva un filo conduttore ed un continuum tra quelle due epoche consecutive o si trattava di movimenti che non potevano essere considerati l’uno l’evoluzione dell’altro?
Come accennavo prima, non ho partecipato alla prima fase dei rave, quella legata alla scena delle discoteche o comunque organizzata e gestita da personaggi di quel circuito. Tuttavia, nel corso degli anni, sono entrata in contatto con alcuni dei protagonisti di quel momento, come Leo Anibaldi, Lory D, Marco Passarani e Marco Micheli, collaborando in consolle o discograficamente. La differenza principale tra il primo movimento rave e quello successivo, nato intorno alla metà degli anni Novanta e meglio identificato come “illegal” o “freeparty”, era l’auto-organizzazione. Facendo parte di movimenti politici extraparlamentari che credevano fermamente nell’autogestione degli spazi sociali, portammo avanti in maniera coerente questo “diktat” occupando spazi, come capannoni industriali in periferia e gestendo autonomamente il divertimento. Era questo il messaggio più forte che lanciavamo, la nostra parola d’ordine. Iniziammo prendendo le distanze da ciò che era avvenuto prima, dalla scena considerata più “mainstream” o comunque inserita in contesti legali, seppur non mancarono rapporti con alcuni dei personaggi-simbolo di quegli eventi. La stima era immensa e certi riuscimmo a portarli nei nostri party e con le nostre regole, ma con qualche polemica. Quando venne a suonare Lory D alla Fintech, ad esempio, gli venne riconosciuto un cachet ed alcuni protestarono in nome di un approccio diverso (si suona per amore dell’arte, della musica, della politica e dell’essere alternativi) e nacquero diverse discussioni, anche accese. A posteriori mi rendo conto che fosse giusto che Lory D venisse pagato perché era un musicista e viveva di quello, ma ai tempi il nostro approccio era diverso. Sotto il profilo sonoro, la musica era molto contaminata. Passavamo dalle produzioni più famose a quelle underground, portate da amici che andavano personalmente a Londra o a Berlino a comprare dischi. Si trattava prevalentemente di limited edition di mille copie. Così conobbi la Praxis di Christoph Fringeli e tutta una serie di etichette affini che si possono raccogliere sotto il cappello della breakcore e della musica estrema che in quegli anni mi appassionò parecchio insieme alla darkstep e al drum n bass. Non dimentico ovviamente gli Spiral Tribe, famosissimi traveller britannici che riuscirono a portare il loro sound e il loro verbo fuori dai confini patri, seppur con un approccio non molto vicino alla mia sensibilità, più intellettuale, sperimentale e in qualche maniera più varia ed aperta. Tuttavia sono orgogliosa di possedere alcune edizioni originali dei loro dischi. Ad un certo punto è stato necessario legalizzare tutto, non era più possibile andare avanti così e le special guest andavano pagate. Non so se sia stata un’evoluzione o un’involuzione ma ormai viviamo in un mondo in cui non è più possibile sottrarsi alla sicurezza e al controllo sociale. Gli anni Settanta, Ottanta e in parte i Novanta sono stati importanti nella storia politica perché c’era la possibilità di muoversi ancora a livello sotterraneo. Ciò che quel periodo mi ha lasciato in eredità adesso lo esprimo a livello creativo e non ho timore del giudizio del pubblico. Quando sono in consolle voglio stimolare le persone che mi stanno davanti, non annoiarle o consumarle.

Anna Bolena in uno scatto di pochi anni fa

Nel documentario del 2011 “Tekno – Il Respiro Del Mostro” diretto da Andrea Zambelli e recensito qui, parli di un nuovo modo di vivere l’aggregazione reso possibile proprio dal movimento legato ai freeparty. Quale divario sussisteva tra il mondo delle discoteche e quello dei rave illegali?
La differenza sostanziale tra i due contesti risiedeva nell’aspetto politico. Se vai in una discoteca prendi quello che ti organizzano ma non sei tu il diretto protagonista. Chi frequentava i rave illegali invece aveva la possibilità di esprimersi molto di più rispetto all’ambiente discotecaro. Non esistevano guest list, non era necessario pagare parecchi soldi per entrare e, in linea più generale, non si subiva e si consumava quello che veniva offerto. Gli avventori dei freeparty erano persone appartenenti ad un circuito ben preciso, legato ai centri sociali ma non solo. Visti i contatti tra i vari gruppi territoriali, tra centri sociali ed altri spazi occupati, fummo capaci di portare nei nostri spazi pure ragazzi e ragazzini provenienti dai classici muretti di aggregazione sociale della Roma degli anni Novanta e questo, non lo nego, a volte ha causato problemi coi compagni che vedevano la cosa molto poco ortodossa. Resta però la soddisfazione di essere riusciti a sdoganare la techno all’interno dei centri sociali, impiegando un po’ di anni per far capire che quella musica potesse creare una nuova forma di aggregazione, e di strappare giovanissimi (minorenni inclusi) ai “muretti fascisti” mostrando loro la possibilità di poter vivere il divertimento senza essere seguiti, controllati, repressi o persino picchiati dal punto di vista fisico. Loro videro come ballare la techno senza saluti romani o altri tipi di posizioni ed atteggiamenti mentali tipici di quell’ala politica che, lo dico a malincuore, erano molto presenti nelle discoteche. Anche per questo motivo prendemmo le distanze dal mondo discotecaro, un ambiente in cui ciò che contava di più era consumare, alcool e non solo. Noi cercammo di fare controinformazione pure sull’utilizzo delle sostanze che, è inutile negarlo, c’è stato anche ai freeparty, abbondante ed esagerato. Distribuivamo volantini informativi con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui rischi che si correvano, e da lì nacquero persino ricerche, articoli e libri diffusi in un circuito esterno a quello commerciale ed istituzionale. Ad un certo punto iniziammo a cooperare pure con le istituzioni: a Bologna ad esempio, dove il movimento era legato prevalentemente al Livello 57, parecchi compagni si interessarono all’uso delle sostanze psicotrope creando spazi appositi dove la gente poteva richiedere informazioni ed essere seguita, innescando meccanismi e dinamiche superpositive per dare supporto a chi cercava aiuto dal punto di vista psicologico. Tutto ciò invece era davvero difficile trovarlo nelle discoteche. Parte di questo approccio è rimasto in vita in alcuni sex party berlinesi, dove organizzazioni operano in sinergia con le istituzioni per informare sui rischi che si corrono ad esempio facendo sesso abbinato a sostanze stupefacenti, ma senza soffocare o reprimere chi vuole praticare ciò.

In più di qualche occasione hai posto l’accento sulla valenza culturale della musica elettronica. I tuoi studi universitari (laurea in psicologia e un master in programmazione neurolinguistica e comunicazione efficace) ti hanno aiutato in qualche modo ad andare oltre il pregiudizio riservato ancora da molte persone nei confronti di (certa) musica elettronica? Perché nello specifico la techno è stata oggetto, sin da subito, di una connotazione negativa al punto da essere apostrofata come “musica del diavolo”? In tal senso, quali sono stati i grandi errori compiuti nei primissimi anni Novanta in Italia, e da chi? Sarà possibile eradicarli in un futuro non troppo lontano?
Ritengo che il mondo sia abbastanza conformista e non così propenso alle novità. La techno, analogamente ad altri generi musicali, ha subito l’ostracismo della vecchia generazione con tutte le conseguenze del caso. All’inizio in certi ambienti, come il mio, si avvertiva pure tensione per la differenza di vedute. Il fatto che la gente non abbia accettato di buon grado la techno abbinandola a cose che non avevano nulla a che fare con essa fu forzatamente normale e coerente. La techno servì a “rompere” le solite cose, anche in merito alla gestione degli spazi sociali. I rave illegali usarono la techno perché in quel preciso momento era il tipo di musica più adeguato a comunicare il nostro pensiero. Era un suono emergenziale che nella sua aggressività esprimeva protesta e che in qualche maniera ben si connetteva al concetto del “mordi e fuggi” tipico delle TAZ – zone temporaneamente autonome. Ai tempi la techno era un suono contaminato da tantissime cose e tradizioni plurime, adesso invece si è trasformata in un filone conforme, è sufficiente variarne appena il suo codice per finire in aree attigue identificate con altri nomi. Molti compagni non avevano affatto piacere di sentire la techno, non erano stimolati da quel suono come del resto non lo ero io sino a pochi anni prima. A volte, si sa, l’approccio personale può incidere sul giudizio di qualcosa. La techno per me si rivelò come un universo da scoprire ma non l’unico, visto che nel tempo la ho accantonata per seguire altri generi che invece avevo trascurato. Negli anni Novanta esisteva un approccio più aperto ma, come in tutte le decadi in cui nascono e si sviluppano cose nuove, si verificò la severa condanna dell’opinione pubblica, ma non me la sento di dare giudizi a ritroso su cosa si potesse fare o dire.

Cosa è diventata la techno nel 2021?
Molta della produzione techno attuale è la fotocopia di cose già sentite, e in questo rientra pure la mia produzione seppur tenti di fare sempre qualcosa di nuovo adoperando un suono che esprima la mia personalità e gusto. Sono cosciente di non possedere particolari capacità rivoluzionarie ma preferirei che siano i critici a stabilirlo, non come fanno alcuni artisti egocentrici e narcisisti, aiutati parzialmente dai social network. Adesso bisogna uscire dal conformismo e dalla propria comfort zone, non esiste praticamente più l’effetto sorpresa di un tempo. Anche nell’ambito dell’organizzazione sono dell’avviso che le nuove generazioni abbiano un po’ perso quella che era la nostra capacità di voler fare qualcosa di nuovo. Molti seguono pedissequamente ciò che c’è stato, senza novità e capacità creative, convinti che rientrare in una categoria possa essere sufficiente per fare carriera. È proprio il concetto di “fare carriera” a dover essere messo in discussione e su questo punto rimango sempre politica: per me la musica è uno degli elementi della vita ma non l’unico. Bisogna provare altre strade, cimentarsi in prove diverse e cercare soprattutto di essere curiosi e sempre pronti e flessibili al nuovo. In questo momento di pandemia poi ancora di più, non solo per adeguarsi ma sopravvivere. In tutta franchezza, un certo tipo di techno ripetitiva, ridondante e fastidiosa non riesco proprio più ad ascoltarla ed apprezzarla, ma non voglio passare per nostalgica perché sono più propensa a guardare ciò che arriverà e non quello che è stato. Vorrei sentire cose nuove, magari generate dal crossover tra culture diverse. Non voglio rassicurare me stessa e gli altri, amo l’effetto sorpresa.

La copertina di uno dei primi numeri di Peti Nudi

Negli anni Novanta il giornalismo musicale nostrano legato alle nuove forme di dance music (house, techno e derivati) è stato particolarmente lacunoso. Certi contenuti riuscivano a filtrare solo attraverso free press e fanzine e non tramite testate editoriali ufficiali, perlopiù interessate solo ed esclusivamente al mainstream. Tu stessa, nel 1997, hai creato una fanzine provocatoria sin dal nome, Peti Nudi. Di cosa si trattava?
Provenendo dal rock e dall’indie, ero più vicina a riviste tipo Rumore, Rockerilla o Rolling Stone e non seguendo le attività delle discoteche di conseguenza non mi interessavano quelle testate che ne parlavano. Peti Nudi era una “techno-zine” in formato A4 ripiegato. Nacque alla fine del settembre ’97 e diede l’occasione, a me ed agli altri che mi accompagnarono in quella esperienza editoriale dal sapore do it yourself, di raccontare in modo provocatorio e scanzonato la scena non commerciale della musica elettronica che ci piaceva allora. Esistevano anche altre fanzine di quel tipo come Torazine, che rispetto a Peti Nudi contava su una redazione più corposa ed una distribuzione più capillare. Il giornalismo mainstream non fu capace di trattare adeguatamente gli argomenti, ma del resto senza vivere le esperienze in prima persona è difficile raccontarle. I giornalisti al massimo si limitavano a scrivere ciò che avevano sentito dire, avvallando certe tesi piuttosto che altre (e a tal proposito ricordo una trasmissione televisiva, Lucignolo mi pare, che mandò un servizio sui rave tagliato ad hoc da cui non emergeva nulla se non ciò che volevano loro). Peti Nudi ed altre riviste simili nacquero fondamentalmente per “suonarcela e cantarcela”, consentendoci di raccontare la nostra storia e dare valore al movimento tekno dei freeparty, senza alimentare demonizzazioni su quella che fu descritta tante volte come “musica non musica”. Non dimentichiamo che l’Italia è un Paese fatto perlopiù da persone fintamente cattoliche, bigotte, destroidi e tradizionaliste, allo stesso tempo con la puzza sotto il naso e poco propense ad accettare cose che non si conoscono e che vengono messe subito all’angolo, tra “i cattivi”.

Che negozi di dischi frequentavi?
A Roma andavo da Re-Mix, l’unico ad essere superfornito della musica che mi interessava. Qualcosa la acquistavo pure attraverso amici che si recavano direttamente a Londra ed ogni tanto ero io stessa a volare all’estero. Nel 1996, in occasione della Love Parade, misi piede per la prima volta nel berlinese Hard Wax (a cui abbiamo dedicato qui un articolo di “Dentro Le Chart”, nda). Lì presi “Port Rhombus EP” di Squarepusher, su Warp, artista che proposi credo per prima nel circuito dei freeparty italiani. La gente impazzì completamente, era un disco importantissimo sia per lui che per noi, uno di quelli che hanno segnato un’epoca.

Quando e come hai iniziato a produrre musica non limitandoti più a selezionare e mixare quella degli altri?
Arrivai a comporre musica per pura curiosità e non perché avessi aspirazioni carrieristiche o ambizioni da musicista anzi, essendo figlia di una pianista, ho sempre nutrito una forma di rispetto nei confronti dei musicisti, cosa che invece spesso è mancata da parte di tanti DJ. Affrontare l’avvento delle tecnologie con l’acquisto di un computer abbinato all’installazione di nuovi programmi mi diedero la spinta a cominciare, ridendo e scherzando. Non avevo pianificato nulla e testimone di ciò che sostengo è la mia assenza dal primo disco su Idroscalo. Il rispetto marcato nei confronti di chi faceva musica da più tempo mi convinse a tenermi in disparte. Poi, pian piano, mi sono procurata un po’ di macchinette con cui ho migliorato e perfezionato il mio sound, nato come raccolta sedimentata di suoni, registrazioni ed incisioni analogiche e digitali. Sono passata da velocità estreme, anche oltre 200 BPM, a cose lentissime, a 30 o 40 BPM. Non fossilizzarmi fa parte del mio carattere.

Anna Bolena in consolle in un club di Berlino nel 2016

Come si è evoluta la tua attività produttiva nel corso del tempo?
Sono partita dalla migliore tradizione IDM, industrial e techno, migliorando l’accortezza per il dettaglio. Ora sono meno frettolosa e più meticolosa, e mi avvalgo anche della preziosa collaborazione di ingegneri del suono che mi aiutano a migliorare il sound seppur le idee restino sempre e solo mie. Questo è fondamentale, anche in studio: accettare suggerimenti va bene ma bisogna evitare di perdere la narratività e mantenere integra la capacità di creare storie e l’atmosfera con la propria musica. Per fare ciò è necessario tempo e non a caso la mia prima produzione su vinile è giunta a ben quattordici anni di distanza dall’esordio come DJ. Non ho mai pensato di sfruttare la mia etichetta per autoprodurmi, ho preferito invece dare spazio agli altri. La mia prima produzione è stata “Homopatik”, del 2012, a cui è seguito poco altro.

Sul fronte live/DJing invece?
Suonare live è radicalmente diverso rispetto ad un DJ set. Credo di avere raccolto più riscontri come DJ che live performer. Fare il DJ è più versatile, è un ruolo che ti offre la possibilità di cambiare il disco che pensavi di mettere anche all’ultimo minuto, velocità che invece non puoi affatto disporre nella dimensione live dove tutto è ben concepito e studiato. Per questa ragione quando mi esibisco nei live preferisco tempistiche molto ridotte, dai venti ai quaranta/quarantacinque minuti. Se il suono è particolarmente aggressivo è meglio dosarlo, in modo tale che la gente abbia nuovamente voglia di sentirti in futuro.

Il logo di Idroscalo Dischi

Nell’autunno del 2001, attraverso “Smash Biotek”, debutta ufficialmente Idroscalo Dischi, la tua etichetta che affonda saldamente le radici nel suono IDM ed industrial dalle tinte spiccatamente sperimentali e che, come tu stessa dichiari sinteticamente in “Rave In Italy”, il libro di Pablito El Drito di cui parliamo qui, è stata la risposta alla fine dei rave. Puoi approfondire le ragioni che ti spinsero a crearla? C’è un particolare significato dietro la scelta del nome?
Per approntare “Smash Biotek” ci vollero un paio d’anni circa. Era un triplo vinile e nacque per lanciare il messaggio dello stato delle cose di quel periodo, oltre a voler unire la vecchia generazione del cosiddetto Sound Of Rome con la nuova. Il tutto condito da alcuni interventi internazionali, come quello di Venetian Snares con la bellissima “Withdrew”. Come giustamente dicevi, il debutto risale all’autunno 2001 ma l’idea risale al 1999 quando i rave illegali subirono un discreto calo di interesse causato dalla riduzione di creatività e del livello organizzativo. Iniziò a circolare la proposta di mettere in piedi un’etichetta discografica per dare voce alla nostra musica e alla fine credo che Idroscalo Dischi sia stata la prima ad essere uscita dal circuito dei rave illegali romani. Optai per il nome Idroscalo perché ero molto attiva all’interno dello Spaziokamino di Ostia, dove appunto sorge un idroscalo, ma pure perché ero appassionata di Pasolini e nel ’75 il suo corpo venne ritrovato proprio all’idroscalo ostiense. Idroscalo Dischi fu un omaggio alla sua figura. Scelto il nome, facemmo una colletta per finanziare il progetto e tanti artisti della vecchia scuola romana diedero il proprio contributo. A quel punto presi in mano le redini della situazione occupandomi personalmente delle scelte del pressing plant, della burocrazia, della raccolta del materiale e relativa archiviazione. La presenza di artisti stranieri fu il risultato dei miei viaggi, soprattutto a Berlino. Desideravo avere qualche artista estero per dare un afflato più internazionale al disco. Fu un lavoro duro e lungo ma alla fine gli sforzi vennero ripagati alla grande. Ciliegina sulla torta la copertina, realizzata dal compianto Paolo Picozza che la realizzò a titolo gratuito insieme ai centrini, elevando il livello artistico dell’intera produzione. In fase di distribuzione trovai in Chris della parigina Toolbox Records un più che valido collaboratore. Mi aiutò a piazzare tutte le cinquecento copie a cui non è mai seguita alcuna ristampa. Non ne farò neanche in futuro, “Smash Biotek” era e resterà una limited edition.

La copertina di “Smash Biotek”, il 3×12″ che apre il catalogo di Idroscalo Dischi nel 2001

La parte interna del gatefold di “Smash Biotek” racchiude una serie di tue ponderate considerazioni sulla bioscienza. «Da una parte siamo incastrati nella becera sopravvivenza del mangiare/cagare/riposare, dall’altra siamo affascinati dall’immortalità del bisturi chirurgico che è capace di tagliare/staccare/cucire/forgiare la bellezza clonata, uguale quindi rassicurante» si legge tra le altre cose, e non mancano prese di coscienza sullo stato del pianeta: «Sappiamo che l’aria che respiriamo è inquinata irrimediabilmente, senza ritorno ad una presunta verginità […]. Siamo schiavi di poche risorse, irrinunciabili carburanti che bruciano per accelerare il nostro inevitabile invecchiamento». A torreggiare su quella colonna di pensieri, tradotti in francese, inglese e tedesco, c’è un invito a mo’ di capitello, evidenziato in grassetto: «Ferma la bioscienza prima che la natura scateni la sua ira». A quasi circa venti anni di distanza tante cose, purtroppo, sono accadute per davvero. Stiamo assistendo inermi allo sfacelo del mondo e della società?
All’epoca l’argomento era decisamente “caldo”, l’utilizzo della biotecnologia invasiva nella vita quotidiana, l’abuso della scienza sulla naturalezza degli eventi… del resto il virus stesso del covid-19 credo sia la drammatica risposta all’intromissione dell’uomo nei confronti dei meccanismi naturali che avvengono sul nostro pianeta. Ora ci fidiamo degli esperti sperando che le cose non peggiorino ulteriormente e forse quello che scrissi circa un ventennio fa si è rivelato tristemente profetico. In quell’occasione cercai di dare al tutto una forma un po’ poetica. Le persone stavano attraversando l’inizio del secolo/millennio con paura e senso di frustrazione derivata dall’impossibilità di controllare il passare del tempo, l’invecchiamento, il cambiamento. Ritengo invece che tutto ciò debba essere affrontato con energia ed entusiasmo, in fondo invecchiare fa parte della natura dell’uomo, non possiamo rimanere eterni e sempre uguali, fare le stesse cose, ripeterci continuamente in un loop biologico infinito, sarebbe noiosissimo. Ripetersi è legato alla paura per la diversità e per l’imprevisto e nella paranoia di voler controllare tutto adesso ci stiamo rendendo conto che la natura si è ribellata, basti pensare alle catastrofi naturali che sono all’ordine del giorno. Non ho figli ma lavorando all’interno del sistema scolastico mi pongo il problema di cosa stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni ed oggi non so dare una risposta. Credo che l’uomo sia capace di adeguarsi di fronte a grandi cambiamenti o drammi che possono succedere, lo spirito di adattamento è insito nella nostra natura e la vita è un continuo equilibrio. Bisognerebbe rendersi conto che una parte della bellezza della nostra esistenza sia rappresentata proprio dall’imprevisto.

Torniamo a parlare di Idroscalo Dischi: quali sono gli highlight che segnaleresti a chi non la conosce e vorrebbe “esplorarne” i contenuti?
Preferirei che l’ascoltatore scoprisse tutto da solo, in modo autonomo, c’è già internet, coi suoi infiniti suggerimenti, ad impigrire le persone. Un valido aiuto è rappresentato da Discogs e YouTube. Personalmente sono affezionata a tutte le uscite su Idroscalo, è stata una bella avventura nella sua interezza.

Credo che l’ultima pubblicazione su Idroscalo Dischi, il tuo “Kill The DJ In You”, risalga al 2017: si tratta di uno stop temporaneo o definitivo?
Per il momento l’etichetta è in stand-by. Ho bisogno di trovare artisti interessanti e sarei propensa a produrre una giovane donna, ma vista la situazione particolare che viviamo preferisco attendere.

Tra 2018 e 2019 hai inciso una manciata di titoli (“I Got Back The Soul Sold In The 90’s” e “Feeling Jazz” di G.A.Z.A. col featuring di Danny Polaris) per Underground, una delle etichette della Media Records recentemente risorte. Come sei arrivata lì? Prevedi di dare continuità a questa collaborazione?
Sono stata contattata da Alessandro, uno dei referenti di Underground. Cercava materiale techno e gli ho proposto diversi pezzi utilizzando pure il nickname G.A.Z.A. che risponde ad un sound più ibrido. L’esperienza è stata carina ma non credo ci siano i presupposti per replicarla. La Media Records non ha più lo splendore di una volta, Gianfranco Bortolotti mi pare interessato più al mainstream (rap e trap) contro cui non ho nulla, ribadisco che a me piace davvero di tutto, ma credo che per portare avanti certi progetti servano maggiori investimenti e soprattutto più attenzione. Mi aspettavo una promozione migliore che purtroppo non è arrivata quindi alla fine ritorno al “mio” underground.

Volevi lanciare un messaggio attraverso il titolo “I Got Back The Soul Sold In The 90’s”?
È un po’ provocatorio, lo ammetto, specialmente nei confronti di chi ha un concetto sacro degli anni Novanta, un periodo che è stato anche abbastanza turbolento, triste e pesante e non sempre confortante come si immagina e sostiene. Mi piace usare titoli ad effetto, fa parte del mio modo di declinare le cose.

Un’altra foto di Anna Bolena impegnata in consolle

Vivi a Berlino dal 2004: ritieni che la capitale tedesca possa essere ancora annoverata tra gli avamposti della club culture europea, o la spinta della gentrificazione ha contagiato pure il mondo della musica?
La gentrificazione è un problema che tocca tutti gli ambiti della vita, e forse è anche normale, ogni tanto bisogna resettare. Molti compagni si lamentano che alcune case occupate siano state ristrutturate dimenticando però che alcune fossero vere e proprie topaie. Si va avanti, non si può rimanere ancorati a contesti fatiscenti che portano altri tipi di problematiche. Chiaramente quando la gentrificazione spopola per dare spazio al turismo elitario non è bello, ma succede in tutte le capitali del mondo e non credo ci sia la benché minima possibilità di uscire da un meccanismo di questo tipo. Per farlo dovremmo mettere in discussione il sistema capitalistico e creare un altro modo per aggregarci e vivere. È il capitalismo stesso a chiedere ed imporre la velocità nel cambiamento e quindi la continua resilienza per affrontare nuove sfide, la maggior parte delle volte insidiose. All’interno dei club berlinesi la musica si è fermata già da tempo. È molto facile sentire DJ affermati che suonano sempre e solo le stesse cose, non provando a fare niente di nuovo ma limitandosi a quello che sanno fare e che la gente si aspetta da loro. Alla fine credo che il vero problema sia il carrierismo che ha portato molti DJ ad allontanarsi dalla passione per la musica in favore di quella per il soldo facile. La finalità di tanti è ricercare il grande consenso ed un pubblico pronto ad omaggiare ed applaudire a prescindere da ciò che si fa. Tutto questo però non offre alcuno stimolo per azzardare e reinventarsi e quasi più nessuno ormai prova strade nuove assumendosi il rischio di deludere o fallire.

I social network e più in generale internet hanno determinato un’identità artistica sempre più fragile. Credi che a risentire di tale “omologazione” sia stata anche la musica underground? Ho l’impressione che per abbracciare i gusti di un pubblico sempre più vasto, un crescente numero di produttori ed etichette abbiano inesorabilmente abbassato la qualità dei loro prodotti.
Sì, sono completamente d’accordo. Capitalizzare le attività artistiche dietro la consolle spesso è a scapito di ricerca, approfondimento e voglia di proporre altro. Il problema principale della scena rimane l’omologazione ed è quello che negli ultimi anni mi ha convinta a mettermi un po’ in disparte. Trovo noioso l’atteggiamento della nuova generazione (ma pure della vecchia, che si è adeguata dimenticando di dare il buon esempio), poco propensa a capire le esigenze del prossimo ma soprattutto poco incline a trovare una propria identità. Anche io, nel corso del tempo, ho cambiato il mio suono ma questa mutazione è frutto di una ricerca, di un pensiero e di un’analisi, non la mera replica di cose che funzionano perché testate da altri anzi, cerco sempre di personalizzare tutto. Questo approccio fa parte della mia filosofia e lo applico pure nella vita quotidiana e non solo quando lavoro dietro la consolle. Nella produzione musicale ciò emerge ancora più nitidamente ed è lì che a mio avviso si vede il vero artista. Negli ultimi anni i generi musicali che mi hanno entusiasmata di più sono quelli che non hanno niente a che fare con la techno. Ho comprato dischi di musica organica che presentano una progettualità del tutto diversa. Dietro magari ci sono ensemble di musicisti provenienti da parti del mondo in cui la musica elettronica non è proprio di casa (Africa, Sud America, alcune zone remote dell’Asia) e che hanno voglia di contaminare, un desiderio insito nella loro cultura perché appartengono a popoli colonizzati. Se da un lato la colonizzazione porta a difendere a spada tratta le proprie tradizioni contro l’invasore, dall’altro sprona a trarre le cose migliori dallo stesso. Il mescolamento di culture crea musica bellissima che non può non essere conosciuta anche da chi è dedito alla techno. Bisognerebbe avere una conoscenza aperta della musica, lasciarsi andare, sperimentare ed avere voglia di cose nuove ma questa curiosità fa parte della propria personalità, non la si può appiccicare sulla faccia con un pezzo di scotch. Viene dal background, dalla crescita individuale, dalla famiglia, dall’educazione che è stata impartita, dai posti che si frequentano… Non smetterò mai di consigliare agli aspiranti artisti delle nuove generazioni di essere curiosi e di non limitarsi a rifare ciò che hanno già fatto altri in passato. Che senso ha ripercorrere la strada di Jeff Mills? C’è persino chi si indebita per comprarsi una TR-808 o una TR-909 per poi riprodurre gli stessi pattern strausati da un trentennio. A remare contro è pure lo sfrenato revival: bisognerebbe interfacciare il vecchio al nuovo per generare cose diverse e che guardino al futuro. Fermarsi a ri-fare il passato lo trovo estremamente noioso e soprattutto sterile.

Cosa è diventato l’underground ai tempi dei social network?
Qualche settimana fa, su Facebook, mi sono imbattuta in una serie di critiche nei confronti di chi ha seguito il Festival di Sanremo o contro chi, in qualche maniera, si è sentito coinvolto da quella kermesse. A scagliarle è stato qualcuno che crede di essere un “portavoce della cultura underground” e che vuole sembrare duro e puro rispetto a chi invece spinge o apprezza il mainstream. Per me rimanere ancorati sempre e solo alle stesse sonorità per tutta la vita non vuol dire affatto essere underground, prima di criticare il mainstream bisognerebbe studiarlo in tutte le sue forme. Per essere underground non basta mettersi il libretto rosso di Mao in tasca e sostenere di essere un rivoluzionario e di rappresentare ciò che non può essere monetizzato o utilizzato dalla cultura “ufficiale”. Per essere dei veri rivoluzionari, e quindi dire qualcosa di autenticamente nuovo, bisogna essere geniali ma pochissimi, tra noi, lo sono per davvero. Pur essendo molto distante dal mondo di Sanremo, non disdegno affatto la cultura nazionalpopolare perché, chi più e chi meno, tutti sono entrati in contatto con essa. Alzi la mano chi prima di essere affascinato da musiche diverse non sia stato colpito dalle canzonette trasmesse in radio o dal videoclip famoso di turno. Oggi tante cose possono sembrare alternative ma non lo sono affatto ed inoltre bisogna capire se chi si pone come “diverso” rispetto alla massa poi lo sia per davvero. Non sono molto convinta di chi parla di regole per stabilire cosa sia mainstream ed underground. Prima di tutto bisognerebbe fare le cose con serietà e passione ma soprattutto studiare per capire a fondo cosa ci piace e non. Tanti sono convinti che postare su Facebook un video di Aphex Twin o degli Autechre basti per essere considerati alternativi ma in realtà si tratta di stupidi e banali cliché. C’è chi sbandiera di ascoltare Aphex Twin ma poi, nel privato, di alternativo non ha proprio niente. Chi pensa che la cultura underground sia pari ad una patacca da appuntarsi addosso è fuori strada ed assistere a questi atteggiamenti per è estremamente irritante. Bisognerebbe lottare tutti i giorni contro una serie di cose e non utilizzare musiche e culture alla stregua di sticker che si appiccicano addosso per darsi un tono. Probabilmente chi fa ciò segue le mode ed è incapace di capire se un pezzo sia di pregio o meno oppure se dietro un lavoro ci siano ricerca ed approfondimento. Il mainstream non esisterebbe se non ci fosse l’underground e viceversa, quindi dipingere uno di bianco ed uno di nero non ha davvero senso. I colori si mescolano così come le dimensioni e gli ambiti. Bisognerebbe piuttosto parlare di qualità che si è persa tanto nel mainstream quanto nell’underground.

Anna Bolena ai tempi della pandemia da coronavirus

Il post pandemia riserverà davvero sostanziali novità nel settore della musica indipendente o tutti i bei discorsi che circolano in Rete da ormai un anno a questa parte si disperderanno come granelli di sabbia al vento?
Sono convinta che la pandemia non ci stia insegnando proprio niente. Senza dubbio la popolazione mondiale sta affrontando grosse difficoltà ma appena si vedrà un piccolo spiraglio, ognuno si riprenderà il proprio spazio. Chi era solidale resterà tale o forse di più, chi non lo era andrà avanti col proprio egocentrismo. Questa è una grossa opportunità per ragionare, riflettere, cercare di migliorarsi e lasciare alle generazioni future un mondo migliore ma gli interessi dei singoli e ancor di più delle multinazionali non cambiano, restano aggressivi ed invadenti. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, dovrebbe fare qualcosa per la gioia e il piacere di farlo. Non ripongo troppe speranze che ciò accada però. Mi concentrerò su poche amicizie, famiglia, affetti e lavoro, nella speranza che i club possano riaprire perché ho tanta voglia di suonare. Le feste mi appartengono da sempre, sin da quando organizzai quella per il mio decimo compleanno.

Quali sono le prime tre cose che ti vengono in mente se ripensi ai rave degli anni Novanta?
Il discreto grado di follia generale, visto che all’epoca si pensava di poter fare tutto quello che si voleva e che, effettivamente, si faceva, la componente politicizzata del nostro agire e l’energia proveniente dal nuovo millennio che stava arrivando. Forse quell’energia era legata alla giovane età, fu un elemento assai caratterizzante di quel periodo.

Quali invece i tuoi progetti che si concretizzeranno in un prossimo futuro?
In arrivo ci sono diversi brani che troveranno spazio nel catalogo di varie etichette: a maggio, ad esempio, tocca a “Pandemoniak”, EP destinato alla Witches Are Back. Nel frattempo continuo a comprare dischi e a leggere moltissimo, anche in tedesco. Tra non molto uscirà il libro di Caterina Tomeo intitolato “L’Elettronica È Donna” per cui ho scritto e curato un capitolo che riguarda Berlino, la musica elettronica e la pandemia. A pubblicarlo sarà Castelvecchi.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di David Love Calò

DL Calò 1

Una parte della collezione di dischi di David Love Calò

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
“Reggatta De Blanc” dei Police. Lo presi nel 1979 all’Upim vicino casa che vendeva dischi selezionati in modo abbastanza casuale. All’epoca i miei ascolti erano legati a quelli di mio fratello maggiore che sparava prog rock a tutto volume alternata ad un po’ di new wave.

L’ultimo invece?
“Abolition Of The Royal Familia” degli Orb. Thomas Fehlmann ormai ha abbandonato il gruppo ma la collaborazione coi System 7, Youth dei Killing Joke, Gaudi e la new entry Michael Rendall dà buoni frutti, soprattutto nei pezzi dub della seconda parte. Resta inalterato l’approccio compositivo che definirei molto “nineties”.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Qualche migliaio ma l’ultima volta che li ho contati ero appena un ventenne. Compro dischi dai primi anni Ottanta ma poiché ho pochissimo spazio sono stato costretto a dividerli fra casa dei miei e dove abito ora. Inoltre ho lasciato duecento dischi a casa di amici e nella radio dove lavoravo. Circa cinque anni fa invece, per problemi economici, ne ho venduti circa trecento, tra cui le prime stampe di hip hop americano ma anche elettronica, rock e library music.

DL Calò 4

Altri dischi della raccolta di Calò

Come è organizzata?
Non sono mai stato ordinato e aver traslocato decine di volte non mi ha di certo aiutato. Tengo i dischi assolutamente mescolati, senza alcuna distinzione di genere. Questo “non ordine” mi impedisce di trovare subito ciò che cerco ma nel contempo mi offre la possibilità di riscoprire cose che magari non ascoltavo da tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Assolutamente no. Qualcuno lo ho sigillato poiché comprato in doppia copia ma in generale ho sempre acquistato dischi per suonarli, prima in radio e poi nelle serate. Per me il disco deve essere usato e strapazzato.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo è un’esperienza che ho vissuto. Anni fa mi rubarono due borse dalla macchina, cosa che è avvenuta anche ad altri colleghi ed amici come in una sorta di leitmotiv del perfetto DJ. Erano proprio i flightcase che usavo per fare le serate e quindi ho dovuto ricomprare almeno una cinquantina di dischi che all’epoca per me erano (e sono) fondamentali, tipo “Bytes” di Black Dog Productions o cose della Mo Wax. Ai tempi non c’erano i social network e l’unico modo con cui provai a cercarli fu lasciare la lista ad alcuni negozi di dischi che trattavano usato con la speranza che qualcuno saltasse fuori ma purtroppo non li ho mai ritrovati. Chissà che fine hanno fatto.

DL Calò 3

Calò con “You Gotta Say Yes To Another Excess” degli Yello, l’album uscito nel 1983 a cui dichiara di tenere maggiormente

Qual è il disco a cui tieni di più?
“You Gotta Say Yes To Another Excess” degli Yello perché nel 1983 mi aprì un nuovo mondo. Avevo solo dodici anni e quello era uno dei dischi più trasmessi da Controradio di Firenze, emittente che da lì a poco avrei iniziato a frequentare. Ero fortemente affascinato dalla radio e il mio più grande desiderio era poterci lavorare. Scrissi persino una lettera chiedendo di registrarmi su cassetta quel disco: essendo poco più di un bambino avevo pochi soldi in tasca per potermelo permettere. Mi telefonarono dicendomi di andare a prendere la cassetta nella loro sede e una volta entrato negli studi rimasi completamente ipnotizzato. Tornando al disco, ciò che mi colpì di più degli Yello fu la capacità di fare musica pop in un modo che a me sembrò del tutto nuovo.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Sono tanti. È molto facile passare da essere un appassionato ad un consumatore seriale, soprattutto quando hai l’alibi che li compri per fare le serate. Dischi annessi ad un certo pop britannico con venature elettroniche risalenti ai primi anni Novanta, tipo Eskimos & Egypt, Sheep On Drugs o Mulu, giusto per fare i primi nomi che mi tornano in mente, non sono riuscito a venderli perché non hanno valore, né economico né tantomeno musicale.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Mi affascina moltissimo il materiale post punk dei primi anni Ottanta. Per fortuna tante cose sono state ripubblicate ma c’è ancora un mucchio di roba introvabile uscita solo su 7″ o cassetta, dal prezzo esagerato. Un esempio è offerto dalla compilation “One Stop Shopping” pubblicata su doppia cassetta nel 1981 dalla Terse Tapes, etichetta australiana attiva in quel periodo e il cui nome di punta era rappresentato dai Severed Heads. Conteneva pezzi notevoli ma incisi in bassa qualità quindi non credo che nessuno si prenderà mai la briga di ristamparla.

Quello di cui potresti (o vorresti) disfarti senza troppe remore?
Ho diversi singoli di fine anni Ottanta/primi Novanta di musica commerciale, comprati quando iniziai a mettere i dischi nei locali e che ho sistemato nella cantina dei miei genitori. Di quelli potrei davvero fare a meno.

DL Calò 2

Calò con “Bitches Brew” di Miles Davis, del 1970, a suo parere tra i dischi con la copertina più intrigante

Qual è la copertina più bella?
Dovendo sceglierne una direi quella di “Bitches Brew” di Miles Davis realizzata da Mati Klarwein, ma ho un debole pure per quella di “Sextant” di Herbie Hancock, firmata da Robert Springett.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
A Firenze i primi sono stati Contempo ed Ira Records dove compravo principalmente rock e new wave. Poi c’era la Galleria Del Disco che oltre a roba dance vantava una bella sezione di hip hop d’importazione. Trovandomi alla periferia di quello che era considerato l’impero musicale, dovevo accontentarmi perché i dischi arrivavano in poche copie e solitamente se le aggiudicavano i big DJ. Questa situazione mi ha spronato a cercare una terza via.

Intendi acquistare per corrispondenza?
Sì, esattamente. Negli anni Novanta lessi un articoletto su The Face che parlava di un certo Mark O’Shaughnessy della Resolution Records che vendeva roba introvabile, tra library e dischi strani. Non aveva un negozio vero e proprio ma un piccolo fondo adibito a magazzino nel quartiere di Brixton, a Londra, che si poteva visitare previo appuntamento. In compenso mandava, attraverso una mailing list, l’elenco di dischi usati disponibili divisi per genere. Lì ho comprato tanto materiale interessante ma molto costoso. L’alternativa era farsi, tre o quattro volte all’anno, il giro di Londra passando dai soliti Record Exchange, Rough Trade, Atlas, Intoxica…Poi, con l’avvento su larga scala di internet, tutto è stato molto più semplice.

DL Calò 5

Un altro scorcio della collezione di Calò

L’e-commerce ha annullato il rapporto tra venditore ed acquirente. Tu come vivevi tale rapporto?
Il colpo di grazia è stato inflitto dal digitale, ma devo ammettere che il 70% dei negozianti che frequentavo non eccellevano mica per simpatia. Ricordo però con piacere Fish che vendeva dischi prima alla Galleria Del Disco e poi in un negozio tutto suo, e il mitico Kaos Records (con Ennio e il Boccetta), un negozio specializzato in elettronica che non avrebbe affatto sfigurato neppure su una piazza esigente come quella londinese. Poi c’era Simone Fabbroni che, oltre ad essere un grande DJ, “spacciava” dischi fenomenali da Smile e Danex, che peraltro resiste ancora oggi. Andando verso la riviera, Bologna rappresentava un passaggio obbligato con le capatine al Disco D’Oro da Luca Trevisi. Ciò che rammento con maggior piacere di quegli anni era l’incontro con altri DJ ed acquirenti con cui si poteva instaurare un rapporto umano. Oggi vendo io stesso dischi, da Move On, e mi rendo conto che la vendita online spalanca le porte di un mondo incredibile con algoritmi pazzeschi, ma se non c’è qualcuno che conosce i tuoi gusti e ti guida, non sempre riesci a trovare le cose giuste, soprattutto se si è in cerca di pubblicazioni di nicchia.

Dopo diversi anni di silenzio, il 2016 ha visto tornare in attività Loudtone, il progetto che hai creato nel 2006 con Umberto Saba Dezzi a cui si aggiunse il parallelo Plan K finito sulla Kindisch. Al 7″ pubblicato dalla Pizzico Records però non ha più fatto seguito altro. Segno di quanto sia ormai poco remunerativo il comparto del disco o scelta intenzionale?
Coi Loudtone iniziammo a produrre musica quando ormai il mercato discografico stava esalando gli ultimi rantoli quindi non abbiamo mai guadagnato granché. Tuttavia abbiamo continuato a comporre pezzi a mio avviso interessanti che prossimamente caricheremo su Bandcamp ma senza velleità economiche, ci basterebbe semplicemente essere ascoltati. Oggi è necessario trovare nuove forme di promozione extra musicali.

Conservi tutti i dischi (e CD) che hai prodotto nella tua carriera?
Ho un paio di copie delle uscite su Mantra Vibes e Kindisch che lascerò come (sola) eredità ai miei figli.

NicoNote e Calò (199x)

David Love Calò in compagnia di Nicoletta ‘NicoNote’ Magalotti, in una foto scattata nella seconda metà degli anni Novanta

Negli anni Novanta sei stato il DJ del Morphine, zona di decompressione del Cocoricò ideata da Loris Riccardi. Come ricordi quell’esperienza e che brani passavi con più frequenza in quell’ambiente?
Il Morphine ha vissuto varie fasi. Durante la prima, tra 1994 e 1995, mettevo cose tendenti all’ambient e al trip hop tipo Nav Katze, Aural Expansion, Pete Namlook, Nonplace Urban Field, Reload, Spacetime Continuum e Richard H. Kirk miste ad altre più vecchie come Cluster, Jon Hassell o White Noise. Poi, dal 1996, con l’arrivo di artisti tipo Tipsy e Sukia, aggiunsi suoni stile elevator music in scia a Jean-Jacques Perrey e Bruce Haack. A queste due “onde” si aggiunse infine un’anima più funk/soul e disco. Durante gli stessi anni c’erano altre realtà in parte simili, come il Link a Bologna e il Maffia a Reggio Emilia, locali indipendenti con programmazioni fenomenali, ma la fortuna del Morphine risiedeva nel rappresentare un piccolo spazio slegato dalla necessità di far ballare e, di conseguenza, fondato sulla frequentazione prevalente di gente del tutto diversa rispetto alle due sale principali del Cocoricò. Nel corso del tempo, grazie a Loris Riccardi e Nicoletta ‘NicoNote’ Magalotti, abbiamo potuto contare su tante ospitate non solo di DJ ma pure di performer, teatranti, filosofi ed astronomi. La reazione del pubblico “normale” inizialmente è stata di assoluto stupore, seguita poi quasi sempre dalla soddisfazione di aver trovato qualcosa di davvero originale.

Ricordi quale fu il disco che suonasti la prima volta che mettesti piede al Morphine, nel settembre del 1994, insieme a Mixmaster Morris?
Certo: era “The Number Readers” dei Subsurfing, un pezzo che aveva dentro tre elementi perfetti per quel periodo, ambient, dub e un sample di voce recitante in lingua giapponese. Arrivare al Cocoricò per me fu un flash non da poco e trovarmi di fronte un maestro del calibro di Mixmaster Morris mi aprì nuovi orizzonti. Quella notte lui fece un set fenomenale miscelando sapientemente pezzi di Vapourspace, un promo di Wagon Christ, tracce ambient techno e pure un disco di Alan Watts.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Psychick Warriors Ov Gaia - Obsidian (Organically Decomposed)Psychick Warriors Ov Gaia – Obsidian (Organically Decomposed)
Uscito nel 1992 sulla KK Records, questo disco rappresenta la vetta assoluta del gruppo olandese. Tra i must del primo periodo del Morphine, mi era utilissimo perché diviso in due parti: la prima ambient, adatta ad una zona di decompressione, la seconda più veloce, perfetto anello di congiunzione con materiale acid o techno in stile Likemind. Purtroppo resta l’unico esempio di ambient che io ricordi per gli Psychick Warriors Ov Gaia, maggiormente spinti verso suoni techno. Trovai fondamentale anche il progetto solista di Robbert Heynen, fondatore della band, ovvero Exquisite Corpse, sempre pubblicato dalla KK Records.

Prince Far I - Crytuff Dub Encounter (Chapter I-IV)Prince Far I – Crytuff Dub Encounter (Chapter I-IV)
Nei primi anni Novanta, a Londra, mi capitò di partecipare ad un paio di eventi Megadog. Nel primo, tenuto alla Brixton Academy nel 1993, c’era la sala centrale coi live di Eat Static, Orbital, Aphex Twin, Drum Club e gli Underworld ancora sconosciuti ai più (era uscito da poco il singolo “Rez”) mentre nei corridoi fu posizionata una consolle dietro cui si alternavano vari personaggi fra cui Alex Paterson che conoscevo bene per i suoi live con gli Orb ma che non avevo mai sentito nella veste di DJ. Fece una selezione dub bellissima da cui emersero pezzi di Prince Far I. La mia conoscenza del dub allora si limitava alle cose classiche tipo King Tubby e soprattutto le uscite su On-U Sound, ma il suo set mi aprì orecchie e cuore. Il giorno dopo, spinto dall’entusiasmo per ciò che avevo sentito, “saccheggiai” vari negozi specializzati tra Soho e Brixton accaparrandomi i quattro capitoli di “Cry Tuff Dub Encounter” di Prince Far I.

US69 - Yesterdays FolksUS69 – Yesterdays Folks
Per me un “faro”, soprattutto a livello radiofonico, è sempre stato Gilles Peterson. Durante una delle sue session di Brownswood Basement, in cui trasmetteva dischi sconosciuti e supercool, fra un David Axelrod d’annata e un Sun Ra iperspaziale, tirò fuori questo gioiellino della band psichedelica statunitense US69. Pur non essendo mai stato un fanatico del periodo di fine anni Sessanta, soprattutto a livello rock, questo disco mi ha permesso di apprezzare la parte più onirica del genere, insieme ai Silver Apples e agli United States Of America.

Tortoise - Rhythms, Resolutions & ClustersTortoise – Rhythms, Resolutions & Clusters
Gli anni Novanta sono stati anche quelli del post rock e la Thrill Jockey ha rappresentato una delle etichette più importanti del genere. Questo è il secondo album dei Tortoise che comprai insieme ad uno dei primi singoli di Photek, quello col titolo in giapponese. Entrambi uscirono nell’estate del 1995, un periodo prolificissimo in cui anche nel clubbing si faceva strada il termine “eclettismo”. “Rhythms, Resolutions & Clusters” contiene una serie di remake risuonati interamente dalla band che ricorse anche ad elementi hip hop.

Pete Rock & C.L. Smooth - Mecca And The Soul BrotherPete Rock & C.L. Smooth – Mecca And The Soul Brother
Nel corso degli anni Ottanta i miei ascolti erano prevalentemente post punk e new wave ma nel 1983, forse grazie alla copertina che ritraeva Afrika Bambaataa e la Soulsonic Force nelle vesti di supereroi Marvel, mi ritrovai a comprare “Renegades Of Funk!” scoprendo l’hip hop. Ascoltando il programma Master su Radio Rai, con Luca De Gennaro e Serena Dandini, e Giuliano ‘Larry’ Bolognesi di Controradio che faceva anche il DJ al Tenax (e a cui chiesi una cassetta che conservo ancora!) mi innamorai di quelle sonorità. Non erano dischi facili da trovare ma nella seconda metà degli anni Ottanta la popolarità di etichette come la Def Jam Recordings permisero una maggior reperibilità di quel tipo di prodotti anche dalle mie parti. “Mecca And The Soul Brother”, uscito nel 1992 su Elektra, era una miscela perfetta di jazz ed hip hop che poi sarebbe diventata celebre coi Digable Planets e Guru coi volumi di “Jazzmatazz”. La forza del primo hip hop stava anche nell’uso sapiente dei sample che all’epoca erano legali e sconosciuti ai più.

Dick Hyman & Mary Mayo - Moon GasDick Hyman / Mary Mayo – Moon Gas
Questo LP rappresenta un perfetto esempio di space age music. Uscito nel lontano 1963, secondo me resta il disco meglio riuscito di Hyman grazie all’apporto vocale di Mary Mayo. Un album perfetto già a partire dalla copertina, utile a spezzare il ritmo di una serata ed adatto a fare da collante fra momenti ambient e tracce da ballo. È un ricordo di tante nottate a ritmo di Raymond Scott, Matmos ed electro, condivise coi DJ del Link, Peak Nick ed Ilo uniti come Beat Actione.

The Lisa Carbon Trio - PolyesterThe Lisa Carbon Trio – Polyester
Negli anni Novanta uscivano delle compilation chiamate “Trance Europe Express” che all’interno includevano sempre un booklet con interviste agli autori dei brani. Nel terzo volume Mike Paradinas citava The Lisa Carbon Trio come un progetto innovativo da non lasciarsi assolutamente sfuggire. Dopo un po’ di ricerche riuscii a trovare il singolo d’esordio, “Opto Freestyle Swing”, pubblicato nel ’92 dalla Pod Communication a cui seguì due anni più tardi uno strepitoso album su Rephlex, “Polyester” per l’appunto. Soltanto tempo dopo venni a sapere che dietro ci fossero Uwe Schmidt, mente geniale artefice di Atom Heart, Señor Coconut e decine di altri marchi, e Pete Namlook. Un disco incredibile che ai tempi ben si legava a “Monkey Boots” dei Gregory Fleckner Quintet uscito all’incirca nello stesso periodo su Clear. Proprio Mark Fleckner venne in Italia coi due fondatori della label, Clair Poulton ed Hal Udell, a suonare in una situazione tutt’altro che consueta ossia al centro sociale l’Indiano, in fondo al Parco delle Cascine di Firenze. Insieme a loro i miei due amici e mentori Simone Fabbroni e Liam J. Nabb.

Conrad Schnitzler - ConalConrad Schnitzler – Conal
Le vacanze estive della mia famiglia facevano tappa fissa ad Imperia dove vivevano i miei zii. Quelle tre settimane però, durante il periodo dell’adolescenza, cominciavano a pesarmi ed ogni via di fuga rappresentava una boccata d’aria. Grazie a mio fratello Daniele, che ha dieci anni più di me, scoprimmo un negozio di dischi ad Oneglia gestito da una fanciulla che vendeva roba incredibile, soprattutto per un pischello come ero io ai tempi: Laibach, Hafler Trio, Nurse With Wound giusto per citarne alcuni. Lì acquistammo questo disco racchiuso in una copertina rossa. Sopra erano incisi due lunghissimi brani della durata di venti minuti ciascuno. Dopo l’entusiasmo dei primi mesi rimase dimenticato sullo scaffale sino a quando iniziai a mettere i dischi al Morphine, nel 1994.

Tones On Tail - PopTones On Tail – Pop
Il periodo che preferisco musicalmente è quello compreso tra il 1979 e il 1982, quando il punk incontrò la black music con incastri sorprendenti. Questo album uscì nel 1984 ma il gruppo era partito proprio nel 1982 come side project dei Bauhaus, firmando incredibili singoli come “There’s Only One!” e “Burning Skies”. “Pop” si muove su territori tra dark gothic ed elettronica ed è ancora uno dei miei dischi preferiti degli anni Ottanta. A colpirmi parecchio fu pure la copertina, decisamente inquietante.

Holger Czukay - MoviesHolger Czukay – Movies
Un personaggio per cui ho nutrito un’adorazione completa è stato certamente Czukay, con e senza i Can. Il suo primo album che comprai fu “Der Osten Ist Rot” del 1984 ma “Movies”, uscito nel 1979, resta uno dei capisaldi. Non ho idea di come il disco venne accolto quando arrivò sul mercato ma penso sia stato compreso a fondo solamente diversi anni dopo. So per certo che uno dei brani racchiusi al suo interno, “Persian Love”, lo passasse Daniele Baldelli: diversi frequentatori della Baia Degli Angeli che venivano al Morphine avevano quasi le lacrime agli occhi quando lo suonavo.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata