Discommenti (giugno 2023)

Autobot-1000

Autobot-1000 – 3 Dimensions Of Space (Inherent Futurism)
Finalmente qualcuno si è preso la briga di solcare questo album pubblicato nel 2001 dall’americana Hoodwink Records solo in formato CD. Si tratta di un disco scritto e arrangiato dal misterioso Douglas Patterson alias Autobot-1000 (forse un mix tra gli Autobot dei Transformers e il T-1000 della saga di Terminator?), influenzato in modo piuttosto evidente dai detroitiani Cybotron (è sufficiente ascoltare “Cosmic Techno” per fugare ogni dubbio) e dall’electrofunk (“Electro”, “Internet”), con ovvie occhiate ai Kraftwerk e Aux 88 (“3D Revolution”, “Access Denied”). Nel percorso non mancano stasi ambientali (“Tears In The Rain”) e ipotetici incontri con forme di vita aliene (“First Contact”). A rimettere in circolazione “3 Dimensions Of Space” in formato 2×12″ è la neonata Inherent Futurism guidata dal danese Morten Kamper il quale, contattato per l’occasione, spiega di aver iniziato a lavorare a questa ristampa ad agosto del 2022, dopo aver contattato James Boggs, proprietario della Hoodwink Records nonché produttore esecutivo dell’album di Autobot-1000: «a quanto ho capito, in principio Boggs aveva l’intenzione di pubblicarlo su vinile ma poi subentrarono problematiche che ne impedirono la realizzazione. L’uscita solo su CD credo lo abbia fatto passare inosservato e francamente non sono neanche sicuro che sia mai stato distribuito in maniera ufficiale, su Discogs sono in pochissimi ad averlo nella propria collezione».
La figura di Patterson è avvolta nel buio fitto: si sa che negli anni Novanta ha lavorato come ingegnere del suono occupandosi, tra le altre cose, di “Bass Magnetic” degli Aux 88. Il fatto che abbia omesso ogni dettaglio biografico per lasciare spazio totale alla musica, parimenti ai Drexciya, ha avvalorato l’ipotesi che provenga da Detroit ma sono solo supposizioni che a oggi non trovano alcuna conferma ufficiale. «Non ho mai parlato con Douglas Patterson, so che è originario della Carolina del Nord ma la sua figura è circondata dal mistero anche per me» prosegue Kamper. «Sono riuscito a portare avanti il progetto grazie a Boggs che detiene i diritti del disco in questione. Ho saputo, da una fonte piuttosto attendibile, che Patterson non produce più musica. Chissà, magari vedere “3 Dimensions Of Space” stampato su vinile per la prima volta potrebbe spronarlo a tornare in studio, mi piacerebbe tantissimo pubblicare ancora la sua musica, vedremo cosa ci riserverà il futuro». Ora l’attenzione è comprensibilmente tutta su “3 Dimensions Of Space” che in questi giorni ha raggiunto finalmente i negozi. «Dopo aver fatto una proposta a Boggs e avergli delineato la mia visione del progetto, ho cercato un distributore. Vista la collaborazione di lunga data, ho avanzato la richiesta alla Clone e Serge Verschuur ha risposto positivamente. A quel punto, potendo contare sul fondamentale sostegno del distributore, ho stipulato un contratto con Boggs. È stato un processo facile, portato avanti grazie a una buona comunicazione. Colgo l’occasione per ringraziare James per aver creduto in me e nel progetto, dimostrando entusiasmo sin dal primo momento. Ho stampato 300 copie di cui 200 nere e 100 di colore verde trasparente. Il team della Matter Of Fact, in Germania, ha svolto un lavoro impeccabile. Adesso non sto nella pelle di sapere come reagirà il pubblico. Laurent Garnier ha dato subito il suo supporto, spero sia di buon auspicio» conclude Kamper.

Teslasonic

Teslasonic – Foundation (MinimalRome)
Questa volta Gianluca Bertasi ha fatto meglio di quanto si potesse credere. Non che nei precedenti dischi non avesse dimostrato di avere stoffa, sia chiaro, ma probabilmente “Foundation” offre la prospettiva giusta per godere al meglio delle sue possibilità espressive e creative. Il capitolino resta fedelmente ancorato all’electro, genere che ormai padroneggia con maestria e competenza tecnica come testimoniano pezzi come “The Machine Age”, “Anti-Gravity Technology” e “Static Electricity” dove la presenza umana è costantemente alternata a interventi di androidi su sfondi sci-fi. Metronomizzando l’apparato ritmico con la cassa in quattro e dotandolo di melodie della Roma imperiale (“Human Galactic Empire”), l’autore finisce in una giungla di robotismi (“Trantor”) ma l’apice lo tocca con “The Frequency” dove le vocoderizzazioni del rapper Donnie Ozone ammiccano in modo chiaro a decani come Afrika Bambaataa, Egyptian Lover o Melle Mel. Il resto lo fanno bassi cyber, scratch e melodie taglienti. Un disco esplosivo come dinamite che riporta in attività MinimalRome dopo qualche anno di silenzio e che viene completato dall’incantevole artwork di Infidel e dall’ineccepibile mastering di Andrea Merlini.

Tengrams

TenGrams – The Defect Of Equality (N.O.I.A. Records)
Registrato tra gennaio e luglio 2022, questo nuovo album dei fratelli Piatto disponibile su Bandcamp attinge (con consapevolezza) dal passato per portare un messaggio nel presente e proiettarlo nel futuro. In evidenza c’è un’ampia gamma di suoni vintage ma gli autori riescono a eludere l’effetto emulativo mettendo sullo stesso binario matrici sonore diverse: da una parte conservano i riferimenti retrò (inclusa l’esperienza N.O.I.A. di cui parliamo qui), dall’altra sfumano i contorni nella modernità giocando sui contrasti. Il loro approccio non risulta mai essere passivo e pezzi come “Beginning Of The End”, “Skeleton In Furs” e “No Escape” lo testimoniano. Diverse le partnership siglate, dall’austriaco Gerhard Potuznik alias G.D. Luxxe per “Work” allo statunitense Scott Ryser degli Units per “People At War” e “Not Like Where I Came From” sino all’italiano Massimo Bastasi, voce e frontman degli Hard Ton, per “Every Time You Are Around”. In alcuni punti sembra di risentire il profumo delle migliori annate electroclash (“Money Before”) con qualche prevedibile (ma piacevole) vampata kraftwerkiana (“Outro”).

Martin Matiske

Martin Matiske – Eternal Reality (Nocta Numerica)
Nel corso del tempo Matiske, ex enfant prodige scoperto da Hell e lanciato nel 2002 su International DeeJay Gigolo quando aveva appena quindici anni, ha affinato tecnica e stile. Oggi il suo suono, più organico e maturo rispetto alle prime esperienze discografiche, si sviluppa su un continuo interscambio tra armonie, melodie e semplificazioni geometriche dei ritmi controbilanciate però da linee di basso ben ponderate. Per l’EP sulla parigina Nocta Numerica la ricetta resta invariata, mantenendo intatto nel contempo un ideale filo connettivo con la produzione donaldiana a cui si è chiaramente ispirato sin dagli esordi (e “Kotodama” ne rappresenta un buon esempio). Insieme ad “Eternal Reality” nei negozi è giunto pure “Dimension Phantasy”, sull’olandese Bordello A Parigi: l’omonimo brano, registrato nel 2008 e pubblicato nel 2012 sulla svedese Stilleben, riappare attraverso due nuovi remix di cui il più convincente è chiamato “Oh Lord!”, che ne rallenta le pulsazioni e lo reinnesta su una base in stile Savage con tanto di sezione vocale inedita a metà strada tra il romantico e il malinconico. L’autore è un francese che ha condiviso con Matiske l’esperienza in Gigolo e che ha dimostrato più volte di avere un debole per l’italo disco, Play Paul.

Rude 66

Rude 66 – Fragmented Living (Pinkman)
Ruud Lekx è tra gli eroi della scena dei Paesi Bassi, ma quella più sotterranea e antitetica al mainstream incensato nei canali generalisti. Nel corso della carriera pluridecennale è passato dai minimalismi acidi a un’electro intagliata dentro scenari gotici toccando poi sponde più melodiche e luminose e qualche deriva più cervellotica di matrice breakcore. Questo Pinkman parte dai ritmi destrutturati di “People Money (Voices In My Head)”, una sorta di break in slow motion incrociato con rintocchi industriali dall’effetto straniante, e poi prosegue sui declivi di una montagna di cocci di vetro (“If You Could Read My Mind”), e su esplosioni filo EBM (“Distance Yourself From Others”, “Maliciously Re-Animated”). Parte della tiratura è abbinata a un secondo disco, in formato 7″, su cui sono incisi altri due brani, “Maliciously Missing” ed “Have You Ever Killed A Man Before?”, a completamento di un quadro dalle tinte fosche, sinistre, a tratti drammatiche che, come recitano le note promozionali, risentono dell’influenza di Meat Beat Manifesto e Coil dei primi anni Novanta.

Adriano Canzian

Adriano Canzian – Aggressiva EP (51Beats)
A venti anni esatti dal debutto discografico (“Macho Boy”, International DeeJay Gigolo Records), Canzian continua imperterrito a costruire trame nervose e irrorare la sua musica con robuste dosi di loopismi ipnotici e marcati. Questo EP per la milanese 51Beats racchiude cinque pezzi perfettamente in linea con lo storico dell’artista di origine veneta, ritmicamente sostenuti e tutti dal piglio abrasivo – “He Wants It” e “Aggressiva” tra i meglio riusciti – con qualche sforamento in territori ravey. Il CD, disponibile in versione autografata su Bandcamp, offre spazio anche a tre bonus track: “Movida 1990” (un presumibile tributo al Movida di Jesolo, locale che l’artista – intervistato qui – frequenta da giovanissimo), “1.2.0” (reinterpretazione di “Los Niños Del Parque” dei Liaisons Dangereuses?) e “The March”: in tutte si ritrova, ben chiaro, il DNA del sound di Canzian, un multistrato di industrial, EBM e techno dall’andatura militaresca.

Manasyt vs Sam Lowry

MANASYt vs Sam Lowry – Untitled (Bunker Records)
Bulgaro trapiantato in Cina, Petar Tassev si diverte a sfidarsi in un incontro contro se stesso visto che è solo lui a celarsi dietro le quinte di MANASYt e Sam Lowry. Ancorato a uno stile in cui confluiscono in egual misura geometrismi ritmici e sequenze armoniche orrorifiche, l’artista interpreta con saggezza i difficili tempi che viviamo, funestati da problematiche di ogni tipo che fanno sembrare la rave age un’epoca lontanissima e soprattutto irripetibile. I nove brani incisi sul disco, quattro da un lato a nome MANASYt e cinque dall’altro come Sam Lowry, privi di titoli, portano per mano in una sorta di Ade, ricorrendo sia a pulsazioni ritmiche che ad arazzi gotici, transitando su ghirigori dissonanti che sembrano davvero pagare il tributo a “Minus” di Robert Hood (B1). Uscito lo scorso autunno, il disco è stato ritirato a causa di un pressaggio non perfetto e sostituito con una nuova tiratura, pare l’ultima per la Bunker Records che terminerebbe la sua corsa in modo definitivo. Val la pena ricordare però che Guy Tavares è già riuscito una volta a resuscitare dalle ceneri la sua creatura, nel 1998, quindi non sorprenderebbe se in futuro ciò avvenisse di nuovo per la gioia degli estimatori e supporter sparsi per il globo.

DJ Hell

DJ Hell – There Is No Planet Earth (Self released)
Downloadabili su Bandcamp, questi due pezzi rispecchiano bene l’estetica del DJ bavarese, tra scheletri ritmici, voci lanciate nel distorsore e una distribuzione equa tra luci e ombre. Il mood di “Planet Earth” divide qualcosa con un remix epocale del tedesco, quello realizzato nel 2002 per “Paranoid Dancer” di Johannes Heil, mentre “We Live We Die”, diffusa già nel 2021 dalla francese Zone, tratteggia il ciclo biologico umano su una base che procede per blocchi che si gonfiano e sgonfiano in una staffetta di filo acidismi.

DresselAmorosi

Dressel Amorosi – Buio In Sala (Four Flies Records)
Partita nel 2018 con “Deathmetha” su Giallo Disco, la collaborazione tra Valerio ‘Heinrich Dressel’ Lombardozzi e Federico Amorosi, ex bassista dei Goblin di Claudio Simonetti, si rinnova attraverso un pezzo pieno di suggestioni che, come recitano le note introduttive, “è la colonna sonora di un film immaginario che si rifà alla tradizione dell’horror italiano degli anni Settanta-Ottanta, un brano perso in un vortice inafferrabile di inquietudine, sogno e avventura”. La versione principale fa tesoro della lezione di John Carpenter e vede crescere la tensione nelle tenebre di una sala cinematografica vuota, forse abbandonata, in un’ambientazione che appartiene a una realtà fuori da tempo e spazio. L’atmosfera viene poi arricchita in due ulteriori rivisitazioni, la Blu, realizzata dal Maestro Fabio Frizzi e il chitarrista Riccardo Rocchi, aggiunge ulteriori sfumature al senso dell’oscurità, mentre dalla Rossa di L.U.C.A. alias Francesco De Bellis (affiancato da Eugenio Bonaccorso e Polysick), emerge una brillante componente ritmica incorniciata da una serie di effettistica singhiozzante che alimenta il pathos. “Buio In Sala”, disponibile solo in formato liquido, preannuncia l’uscita di un 7″ previsto per settembre a cui in seguito si aggiungerà pure un album.

Debonaire

Debonaire – Badass EP (Fdb Recordings)
Gradito ritorno per Claudio Barrella alias Debonaire, italiano trapiantato negli States e tra i principali fautori del Miami Bass. A tenere insieme i quattro pezzi dell’extended play sono infiniti riferimenti old school hip hop, freestyle ed electrofunk incollati a un meticoloso lavoro di sampledelia che spinge l’ascoltatore a un continuo tuffo nel passato. Nel serrato cut-up non mancano gli scratch degni di una riuscita performance al DMC, ulteriore tag audio di un mondo sonico che non è mai tramontato del tutto e per il quale l’autore rivela una passione unica, vigorosa ed esuberante. Si passa dalla vivace “He Is The Master” (nell’impasto si riconosce subito “Boogie Down (Bronx)” di Man Parrish) al reprise di “Badass” dove fa capolino lo sferragliare meccanico di “Trans-Europe Express” dei Kraftwerk in un quadro parecchio chemical beat, da “You Feel Me Now”, un altro cocktail micidiale di rimandi storici da b-boy e ghettoblaster, a “Computer Program” dove il perimetro è segnato dai vocal di “Mean Machine Chant” dei Last Poets intrecciati a robotismi programmati insieme a James McCauley dei Maggotron. Il tutto coronato dallo splendido artwork a firma Julien Dumaine.

(Giosuè Impellizzeri)

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Italian Records, quando punk, new wave e italo disco si incrociano

«Tra il 1977 e il 1982 la musica italiana ebbe una capitale indiscussa, Bologna. È là che nascevano tutti gli spunti e i sodalizi destinati finalmente a rinnovare un panorama immobile e stantio. Alcuni nomi sarebbero entrati nella leggenda del rock italiano: Skiantos, Gaznevada, Confusional Quartet, Stupid Set, Hi-Fi Brothers. Ma Bologna Rock non era solo musica, era la politica di organizzazione extraparlamentare, dei cani sciolti, della controcultura. Era l’arte emergente del fumetto, della performance, era l’informazione rinnovata delle radio libere e delle fanzine. Era la nuova istruzione possibile nelle aule del DAMS. Insomma, una città laboratorio sul margine pretecnologico di un’Italia del tutto diversa da quella di oggi». Recita così la premessa di “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo” a cura di Oderso Rubini ed Andrea Tinti (Arcanapop, 2003), un libro che, in quasi quattrocento pagine, ben tratteggia la stagione creativa vissuta nella città dei portici in un periodo seminale per gran parte di ciò che avviene in seguito. Sono gli anni in cui emergono il punk e la new wave con le prime collisioni tra musica suonata a mano con strumenti tradizionali e quella invece programmata attraverso macchine elettroniche. Proprio su questo particolare snodo sorge Italian Records.

Il logo di Harpo’s Music e il furgone usato dai membri della cooperativa (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Un breve passo indietro, gli anni di Harpo’s Music (1977-1979)
Partita nel ’77 con “Inascoltable” degli Skiantos, Harpo’s Music è l’etichetta discografica nata in seno alla cooperativa culturale Harpo’s Bazaar costituita da alcuni studenti del DAMS e del Conservatorio Giovanni Battista Martini tra cui Oderso Rubini, Carlo ‘Cialdo’ Capelli, Anna Persiani, Lella Leporati e Giovanni Natale. Harpo’s Bazaar opera nel ramo grafico, musicale e cinematografico, ed è collegata ad un piccolo studio di registrazione, l’Harpo’s Studio, allestito col minimo indispensabile in via San Felice. Il nome della società, come riportato qui, è ispirato dal saggio “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx” di Gianni Celati, professore di letteratura inglese al DAMS, anche se Wikipedia riconduce la scelta del nome all’attore comico statunitense Harpo Marx il cui volto era disegnato sulle fiancate di un furgone che Rubini e gli altri prendono in fitto per filmare il Convegno Nazionale Contro La Repressione, svoltosi a Bologna tra il 23 e il 25 settembre 1977. «Armati, ma di una telecamera super 8, scanzonati, alternativi quanto basta per non prendersi sul serio e pieni di idee nuove, filmarono il convegno sulla repressione cercando nuove forme di comunicazione» si legge in un articolo di Luca Sancini su Repubblica, risalente al 25 marzo 2007 quando, a distanza di un trentennio, quelle registrazioni vengono restaurate da un gruppo di ex videomaker di uno studio di New York, donate alla cineteca comunale e proiettate in due giorni al cinema Lumière. Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Oltre ai già menzionati Skiantos si ricordano altre band che prendono parte al progetto come Luti Chroma, Windopen, Naphta, Sorella Maldestra e Gaznevada. L’ultima pubblicazione è la compilation “Bologna Rock”, omonima del festival tenutosi il 2 aprile del ’79 presso il Palasport del capoluogo emiliano ed organizzato dai membri della cooperativa col fine di lanciare nuovi gruppi della scena rock e new wave locale. In quella compilation, allegata al numero zero di Harpo’s Bulletin, fanzine di Harpo’s Bazaar, oltre a Gaznevada, Skiantos, Luti Chroma, Windopen, Naphta ed Andy J. Forest figurano altri nomi rimasti pressoché “congelati” in quell’esperienza come i Cheaters, i Rüsk Und Brüsk e i Bieki. Due pezzi, intitolati “Orinoco Blues” e “Woytila’s Rock’N’Roll”, sono firmati dai Confusional poi diventati Confusional Quartet. A quel punto l’interesse mostrato da una grossa casa discografica cambia il corso degli eventi. Come lo stesso Rubini racconta nel citato libro del 2003, la Ricordi propone un contratto di distribuzione triennale con un anticipo sulle royalties, e in virtù di quell’accordo la Harpo’s Music «si trasforma in una vera etichetta discografica passando dalle cassette al vinile». Nasce l’Italian Records.

La copertina di “Hello I Love You” degli Stupid Set

Il debutto punk (1980-1982)
Corre il 1980 quando Italian Records esordisce ufficialmente sul mercato anche se il suo nome è già filtrato attraverso varie incisioni della Demo City, mini piattaforma sperimentale relegata ancora al formato cassetta. Il primo 7″ è “Hello I Love You” degli Stupid Set nati da un’idea di Giampiero Huber, ex Gaznevada, affiancato da Paolo Bazzani, Giorgio Lavagna e Fabio Sabbioni che canta. La title track è la rilettura dell’omonimo dei Doors effettuata con strumenti elettronici che asciugano il tutto liberando un effetto mimimalista tipico delle produzioni do it yourself a basso costo di allora. «Gli Stupid Set dovevano essere una band con una caratteristica di base, l’utilizzo della batteria elettronica» dichiara Huber in “Non Disperdetevi”. «Non ero contro il sudore del batterista ma volevo arrivare ad un dispendio fisico meno pesante nel fare musica». Viene realizzato pure un video da cui emerge il desiderio di rompere la ritualità della presenza scenica del rock piazzando un televisore al posto dei volti dei membri della band, facendo così il verso ai Residents di San Francisco. Altrettanto sperimentale risulta il punk dei Gaznevada, una band che, come scrive Susanna La Polla De Giovanni in questo interessante articolo/intervista edito da Soundwall il 29 gennaio 2021, «attua una rivoluzione prima importando e mutuando l’attitudine e l’irruenza del punk rock dei Ramones e poi facendo propria l’urgenza di sperimentazione della scena post punk e no wave statunitense e britannica. Suicide, Talking Heads, Devo, Contortions e Brian Eno sono le band e gli artisti dal cui serbatoio attinsero per rielaborarne le sonorità in modo assolutamente personale, contaminandole con il loro broken english e le appassionate letture e visioni condivise di fumetti, sci-fi movies e noir americani, cimentandosi inoltre in sperimentazioni elettroniche avanti anni luce per una scena musicale allora dominata dai cantautori».

Il loro primo 7″ è “Nevadagaz” affiancato sul lato b da “Blue TV Set”. L’unico nome che si rinviene sul disco, oltre ad Oderso (Rubini) nella veste di produttore, è quello di Ciro Pagano, chitarrista della band destinato ad una brillante carriera nella scena dance del decennio successivo con Datura e numerosi altri progetti trasversali tra cui Dreams Unlimited, Do It! e XOR di cui parliamo qui. Destino analogo per un altro membro del gruppo, il bassista Marco Bongiovanni, artefice tra le altre cose di DJ H. Feat. Stefy, Kaliya e Skuba con Enrico ‘DJ Herbie’ Acerbi intervistato qui. Alla citata cover degli Stupid Set ne seguono altre: “La Bambolina” di Michel Polnareff, incisa sul retro di “Siamo Tutti Dracula” dei Luti Chroma, “Ho In Mente Te” dell’Equipe 84 – già remake di “You Were On My Mind” dei canadesi Ian & Sylvia – realizzato dai 451, e “Volare” con cui i Confusional Quartet ricostruiscono “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno. Menzione a parte per “Bianca Surf / Photoni”, singolo d’esordio di Johnson Righeira, pochi anni dopo diventato popolarissimo in coppia con Stefano Rota nel duo Righeira prodotto dei fratelli La Bionda. Diversi pure gli album, da “No Autostop” della Band Aid (gruppo leccese in cui suona il noto trombettista Francesco ‘Frank’ Nemola e solo omonimo di quello creato qualche anno dopo da Bob Geldof con fini umanitari) a “Crollo Nervoso” dei Magazzini Criminali, da “Confusional Quartet” dei Confusional Quartet a “I Luoghi Del Potere” degli Art Fleury passando per “The List” di Andy J. Forest And The Stumblers, “Sick Soundtrack” dei Gaznevada e la compilation “Pordenone / The Great Complotto”.

Alcuni dischi licenziati dall’estero

Dal 1981 Italian Records inizia ad ampliare il proprio raggio d’azione pubblicando musica di artisti esteri a cominciare dai DNA, gruppo statunitense fondato da Arto Lindsay e Robin Lee Crutchfield, a cui seguono Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. A rimarcare la vocazione internazionale è il marchio Italian Records From The World. Sul fronte italiano invece c’è tutta una schiera di produzioni che rompono gli schemi della musica rock tradizionale, dai beat elettronici di Maurizio Marsico alias Monofonic Orchestra, a cui Christian Zingales – intervistato qui – ha dedicato un libro nel 2019, alle schegge d’avanguardia spennellate da una dose di umorismo dei Confusional Quartet, dalla new wave dei Pale TV a quella dei citati Gaznevada passando per gli Hi.Fi Bros, inizialmente prodotti dal citato Lindsay che suona la chitarra nel remake di “Stranger In The Night”, il compianto Freak Antoni degli Skiantos e la compilation “Ref.907” che raduna pezzi di band già proiettate nella musica del futuro, Eurotunes, Ipnotico Tango, Metal Vox, Absurdo e Kerosene. Nel 1981 escono pure “Tapes Of Darkness” dei Neon (da Firenze, altro centro nevralgico per quel fermento artistico come ben descritto da Pierpaolo De Iulis nel documentario “Crollo Nervoso” qui recensito) e “Kirlian Camera” del gruppo omonimo parmense capeggiato da Angelo Bergamini. Oggi sono considerati dischi cult della new wave italiana.

La copertina di “I.C. Love Affair”, uno dei primi brani ballabili pubblicati da Italian Records

Chitarre elettriche, sintetizzatori e batterie elettroniche (1983-1984)
Sino a questo momento l’imprinting dell’Italian Records è legato a matrici punk/rock ed adesioni new wave e no wave ma l’uscita di “I.C. Love Affair” dei Gaznevada, singolo estratto dal terzo album “Psicopatico Party”, rimette tutto in discussione. In bilico tra reminiscenze disco con tanto di urletti à la Bee Gees e snodi ritmici elettronici ascrivibili all’hi nrg/italo disco riverberati nella Chinese Version, il brano funziona più che bene nelle discoteche incluse le estere nonostante a trainarlo sia una parte vocale in inglese sfacciatamente maccheronico così come accade nella maggior parte delle produzioni nostrane di quel periodo. Ciò non impedisce di conquistare un paio di licenze oltralpe inclusa quella sulla tedesca ZYX di Bernhard Mikulski che ai tempi è in visibilio per la dance made in Italy al punto da coniare un termine che la identificherà per sempre, italo disco, dando ad essa credibilità sul piano internazionale. Ritoccato da Claudio Ridolfi in una Special Mix chiamata Italian Version, “I.C. Love Affair” viene accompagnato da un video promozionale realizzato nella capitale: «all’epoca fummo invitati come ospiti in un programma televisivo della RAI ed era richiesto il videoclip del brano ma c’era un problema, non esisteva alcun videoclip di “I.C. Love Affair”. Con la collaborazione di un cameraman e di un regista della RAI allora, lo girammo per le strade di Roma, “buono alla prima” e in una sola mattinata» racconta il gruppo in questo post su Facebook del 30 dicembre 2020. “I.C. Love Affair”, con cui i Gaznevada partecipano al Festivalbar del 1983, fa da apripista ad altri brani filo dance come “Hear The Rumble” degli Stupid Set ed Enrico Serotti ma soprattutto “The Rule To Survive (Looking For Love)” dei N.O.I.A., scoperti da Rubini nel 1981 in occasione della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” e a cui abbiamo dedicato un approfondito articolo/intervista qui. Non c’è ancora però un distacco netto dalle matrici punk rock e new wave e a testimoniarlo sono le nuove uscite di Diaframma e Kerosene e la compilation “iV3SCR”.

L’Italian Records percorre insomma due itinerari in modo parallelo ma che presto convergeranno sotto il segno dell’ideale laboratorio collettivo a cielo aperto in atto tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta quando creare musica pigiando tasti e ruotando manopole anziché suonando strumenti tradizionali è considerata una forma di ribellione analoga a quella del punk. In diverse parti del mondo questo nuovo approccio alla composizione, reso possibile dall’avvento di strumenti dal costo più abbordabile, innesca un processo seminale per ciò che avviene in futuro. A San Francisco si sviluppa una nuova forma di disco music meccanizzata di matrice moroderiana detta hi nrg, a New York l’intersezione tra l’hip hop e dettami kraftwerkiani genera l’electro, nel Regno Unito un numero crescente di band prende le distanze dal rock classico utilizzando sintetizzatori e vivacizzando le proprie canzoni con ritmi ballabili raccolte sotto l’ombrello new wave e synth pop, in Germania aumentano gli adepti della neue deutsche welle, in Belgio gli impulsi dell’industrial generano l’EBM dai tratti militareschi, a Chicago vengono gettate le basi della house music mentre a Detroit le teorie toffleriane ispirano la techno. In Italia, nel frattempo, si fa incetta di plurime ispirazioni estere fondendole inconsapevolmente in un nuovo filone-patchwork ribattezzato oltre i confini, come si è detto prima, italo disco. C’è ancora poca intenzionalità e soprattutto scarsissima malizia commerciale, le etichette indipendenti stampano qualche migliaio di copie con l’auspicio di poterle piazzare oltralpe, specialmente in Germania dove la “musica delle macchine” pare funzionare meglio rispetto ad altri Paesi. Diversi musicisti si lasciano coinvolgere, attratti anche dalla possibilità di incassare denaro con sforzi relativamente contenuti, e tentano di fornire un continuum alla disco ormai in declino coi nuovi mezzi che la tecnologia di allora mette a disposizione, specialmente quelli prodotti da aziende nipponiche. Poi, per affrancarsi dal provincialismo e darsi un tono più internazionale, iniziano ad usare pseudonimi in lingua inglese foneticamente appetibili per un mercato non solo domestico.

Altra dance su Italian Records, N.O.I.A., Kirlian Camera e Fawzia

A partire dal 1983, a posteriori diventato l’annus mirabilis dell’italo disco, l’Italian Records pubblica con più frequenza dischi ballabili come “Stranger In A Strange Land” dei N.O.I.A., che ritmicamente tratteggia e prefigura con lungimiranza già il post italo, “The Line” degli Hi.Fi Bros, “A Tour In Italy” di Band Aid e “Special Agent Man” dei Gaznevada, quest’ultimo mixato presso gli Stone Castle Studios a Carimate e circoscritto ad una base ed arrangiamenti simili a quelli di “Just An Illusion” degli Imagination. A ciò si aggiunge la licenza di “Waterloo Sunset” degli Affairs Of The Heart, band di Bristol che coverizza l’omonimo dei Kinks in chiave synth pop strizzando l’occhio a Depeche Mode, Yazoo e Human League. Ora distribuita dalla EMI, l’etichetta bolognese individua nella musica prodotta (anche) con sintetizzatori e batterie elettroniche la nuova fonte a cui abbeverarsi e dal 1984 le distanze con la dance si accorciano. I N.O.I.A., fondati nel ’78 da Bruno Magnani e Davide Piatto sull’incrocio tra Kraftwerk e Devo, tornano con “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, mentre i Gaznevada propongono “Ticket To Los Angeles” scandita da rintocchi new romantic e con cui tornano sul palco del Festivalbar. I debuttanti Dens Dens (una velata incitazione al ballo?) sfoderano il primo e unico 12″ contenente “Life Got No Sense (Without Love)” e “Meaning Of Words” di chiara ispirazione new wave. Tra i membri della band si segnalano il tastierista Piero Balleggi, entrato a far parte dei fiorentini Neon, e il bassista Ricky Rinaldi, in futuro negli Aeroplanitaliani di Alessio Bertallot (intervistato qui) e nel team dei Souled Out. Solo uno pure il singolo di Fawsia Selama, già coinvolta come corista in brani degli Hi.Fi Bros e Gaznevada: coadiuvata dagli arrangiamenti di Roberto Costa firma “Please, Don’t Be Sad” col nome Fawzia e si guadagna una licenza in Germania dove la Bellaphon lo commercializza sbandierando un bel “original italo disco” in copertina. Esattamente dieci anni dopo intonerà “The 7th Hallucination” dei Datura. Persino i Kirlian Camera di Bergamini si cimentano in qualcosa più danzereccio del solito, “Edges”, pur preservando una certa algida marzialità, la stessa che si ritrova nella partitura di “Communicate” pubblicato l’anno prima dalla Memory Records di Alessandro Zanni e Stefano Cundari a cui, pare, Bergamini si fosse avvicinato attraverso “Pulstar” di Hipnosis. Tony Carrasco, DJ statunitense ai tempi residente in Italia, incide con un certo Charlie Owens “Thailand Seeds” di A.I.M. ma con risultati ben diversi rispetto a quelli ottenuti con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., pubblicata due anni prima dalla Zanza Records e prodotta con Mario Boncaldo e Davide Piatto dei N.O.I.A., seppur quest’ultimo non figuri nei credit come spieghiamo qui. Ad affiancarlo nel successivo “So Evil (Close To The Edge)”, sospinto da un’anima più marcatamente pop, è il compianto Graziano Pegoraro, da lì a breve produttore di Miko Mission, Taffy e Silver Pozzoli e in seguito dietro a numerosi act italodance, su tutti Ava & Stone e Mato Grosso di cui parliamo qui e qui. Nel 1984 “Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, prodotta da Carrasco con l’intervento, tra gli altri, di Manlio Cangelli degli Scotch e dei fratelli Nicolosi dei Novecento, apre il catalogo della Third Label, “sussidiaria” di Italian Records più dichiaratamente dance oriented. Al brano, l’anno dopo coverizzato con successo da Cheyne per la MCA Records, segue “Funky Is On” di Funky Family, oggi un cult nell’ambiente collezionistico, e poi tutta una serie di produzioni di stampo ballabile. Sempre nel 1984 i N.O.I.A., poc’anzi citati, incidono pure un Mini-Album, “The Sound Of Love”, a cui avrebbe dovuto far seguito, come dichiara Magnani in un’intervista del 2014, un vero e proprio LP che doveva racchiudere “Time Is Over Me” rimasto nel cassetto per ben trent’anni. Ad aprire “The Sound Of Love” invece è il pezzo omonimo, venato di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk. Seguono “True Love”, studiato su arpeggi moroderiani, e “Try And See”, l’ultimo che la band di Cervia destina alla label di Rubini in cui le spinte avanguardiste dei primi singoli spariscono sotto una coltre di synth pop piuttosto incolore e insapore.

Paul Sears e Soul Boy, tra gli ultimi dischi prodotti da Rubini

Gli ultimi anni di attività (1985-1988)
Dal 1985 in avanti l’italo disco inizia a non essere più il contenitore di musiche eterogenee che gli italiani creano ispirandosi a stili esteri e facendoli inconsapevolmente propri bensì un calderone, dalle dimensioni sempre più grandi e difficilmente stimabili, in cui riversare quasi esclusivamente brani ballabili in formato canzone, composti ed arrangiati secondo una rodata e consolidata metodologia (strofa-ponte-ritornello) ma soprattutto prodotti con l’ambizione di centrare il successo pop. Gli esperimenti effervescenti iniziali si trasformano in una disco potabilizzata per le grandi platee e ciò influisce in negativo sul livello di sperimentazione, progressivamente scemato sino ad eclissarsi del tutto. L’annata non è tra le più prolifiche per l’Italian Records che però dalla sua parte ha i Kirlian Camera, autentici fuoriclasse del darkwave prossimi a firmare un contratto con la Virgin. La loro “Blue Room”, interpretata da Simona Buja, si muove sui versanti più gelidi del suono di matrice new wave ottenuto con una drum machine LinnDrum e sintetizzatori Roland, Korg e PPG Wave. Chitarra ed effetti sono di Paul Sears che proprio per Italian Records incide “The Spirit Of The Age”, singolo di matrice pop registrato al Regson Studio di Milano con l’ausilio di vari musicisti ma che, nonostante gli sforzi, raccoglie pochi consensi. Risultati analoghi per “Baby Blue” di Soul Boy, prodotto da Luigi Macchiaizzano e dal già menzionato Maurizio Marsico, approdato sulle sponde dell’italo sound con “Rap ‘N’ Roll” di Frisk The Frog (Jumbo Records, 1983) e “Funk Sumatra” (Discomagic, 1984, con copertina a firma Tanino Liberatore e Massimo Mattioli). Quello di Sears è uno degli ultimi dischi su cui appare il nome di Rubini.

Nel 1986, dopo il suo abbandono, viene varata l’Italian Records Junior per coprire il segmento della musica per bambini. Il progetto si concretizza attraverso alcuni 7″ ed un LP della fiorentina Susy Bellucci, scomparsa nel luglio del 2018. Un altro debutto che si consuma su Italian Records è quello dei Premio Nobel, precedentemente noti come Flexi Cowboys, formati da Claudio Collino, Davide Sabadin e Caterina Sinigo. “Baby Doll” è un pezzo tipicamente italo post ’85, non pretenzioso ed arrangiato sullo stile dell’eurodisco / hi nrg di Stock, Aitken & Waterman. A produrlo è Ricky Persi, ex bassista dei Krisma che ha maturato già qualche esperienza discografica tra cui “Tarzan Loves The Summer Nights” di Big Ben Tribe, da cui forse i Chromeo carpiscono uno spunto per “Night By Night”, e soprattutto “Tenax” di Diana Est scritta, come lui stesso racconta nell’intervista racchiusa in Decadance Extra, con Stefano Previsti ed Enrico Ruggeri. Nel 1987 a “Baby Doll”, licenziato in buona parte d’Europa, fanno seguito i meno noti “White Flame” e “Sugar Love” (quest’ultimo sull’Ibiza Records di Claudio Cecchetto), poco consistenti per tessitura creativa. «Ci stancammo presto di seguire quello che era l’andazzo generale della dance italiana» sostiene Persi nell’intervista sopraccitata. «Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation (sulla quale nel ’92 esce una cover di “I.C. Love Affair” a nome Dial 77, nda) ma ad onor del vero il nome ammiccava pure al DMC. Non a caso in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che per le gare ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Per Ricky Persi, analogamente a Collino e Sabadin, le nuove forme di dance elettronica diventano autentici filoni auriferi da cui estrarre una miriade di pepite alcune delle quali trasformate in preziosi monili come Sueño Latino, Glam, Ramirez, Steam System, Atahualpa, Fishbone Beat e Paraje, quasi tutti sotto il marchio Expanded Music.

Marco Bellini immortalato sulla copertina di Céyx

È sempre Persi, affiancato da Maurizio Preti, a curare la produzione di “Monnalisa” e “Mon Amour” di Lucio Burolo Deblanc noto semplicemente come Deblanc, nato ad Ottawa, in Canada, ma residente a Trieste. Tra gli ingegneri del suono del primo, registrato al Watermelon Studios e mixato al Rimini Studio da Mario Flores, ci sono Sergio Portaluri e Fulvio Zafret, futuri artefici insieme a David Sion del prolifico team De Point di cui parliamo qui. Il secondo invece viene interamente realizzato a Trieste presso il Palace Recording Studio di Gemolotto, lì dove nasce un altro disco edito dall’Italian Records nel 1987, “Ma-La-Vi-Ta” di Céyx. Ibridando ciò che resta dell’italo frammista a stab orchestrali ad una base quasi new beat a 115 BPM, Persi e Previsti scrivono un brano che raccoglie discreti risultati all’estero. A produrlo, come riportato tra i credit, sono i P/P/G, acronimo di Persi Previsti Gemolotto, che proprio quell’anno incidono “Jack The Beat” sulla neonata DFC. A cantarlo invece un giovanotto triestino poco più che ventenne immortalato in copertina, Marco Bellini, divenuto un noto DJ negli anni Novanta per residenze in locali come Aida ed Area City. Il team dei P/P/G si ripresenta con “Plaza De Toros” firmato Invidia, italo virata in chiave spagnoleggiante quando i Gipsy Kings si impongono in tutto il mondo con “Bamboleo”. La collaborazione tra Italian Records e il Palace Recording Studio prosegue con “Quibos” dei Quibos, prodotto da Tano Lanza e Mario Percali e supervisionato da Massimo Bassani, in quel periodo coinvolto in diverse produzioni edite dall’Expanded Music su varie etichette. Dallo studio di Gemolotto esce pure “High Energy Boy” delle Moulin Rouge, progetto sloveno che si inserisce nell’infinita cordata hi nrg ormai popolarizzata su scala mondiale, e “Nei Sogni Tu Ci Sei / Pensiero Lontano” di Elio che, insieme ad “One Day Lovers / Love Me Too Much” di Samuel, tira il sipario puntando ad un genere davvero agli antipodi rispetto a quello con cui tutto è iniziato circa otto anni prima.

Frammenti post 2000 per Italian Records

Tra ripescaggi ed una breve nuova vita (2006-2015)
A partire dai tardi anni Novanta molti generi musicali del passato vengono riscoperti e vivono una seconda vita proprio come accade all’italo disco. Su iniziativa di personaggi sparsi tra Europa e Stati Uniti, la vecchia dance italiana, morta, sepolta e dimenticata ormai da circa un decennio, si ritrova inaspettatamente a ricoprire un ruolo tutt’altro che marginale nella scena contemporanea. Nell’arco di pochi anni sul mercato piomba un numero crescente di ristampe, ufficiali e non, di dischi sino a quel momento rintracciabili principalmente nei mercatini, nelle aste su eBay o siti specializzati come GEMM (il marketplace di Discogs arriverà solo intorno al 2002). Il movimento revivalistico abbraccia anche il marchio Italian Records che nel 2006, a circa diciotto anni di distanza dall’ultima apparizione, ritorna nei negozi per mezzo di una raccolta, “Confuzed Disco”. Edita su CD e vinile, si configura come una vera e propria retrospettiva dedicata alla label bolognese ed è caratterizzata da ripescaggi e numerosi remix realizzati da una nuova generazione di artisti. Nella tracklist è inclusa pure una manciata di tracce estrapolate dal catalogo Third Label (“Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, “Funky Is On” di Funky Family). Il vecchio si unisce al nuovo e crea un inedito standard stilistico destinato a rafforzarsi negli anni a seguire.

Vari brani relativi alle prime annate di attività di Italian Records finiscono invece in “Mutazione (Italian Electronic & New Wave Underground 1980-1988)”, un’altra compilation nata col fine di radunare gemme dimenticate della new wave italiana. A pubblicarla, nel 2013, è la britannica Strut. Quello stesso anno la Spittle Records mette in circolazione “Italian Records – The Singles 7” Collection (1980-1984)”, box set di cinque CD che, come annuncia il titolo stesso, accorpa i singoli editi da Italian Records nel quadriennio 1980-1984. Il package include pure un booklet di ben 112 pagine. La raccolta fotografa, come scrive Pierfrancesco Pacoda in un articolo pubblicato sulla rivista DJ Mag Italia ad agosto 2013, «il neo rock indipendente che lambisce la seduzione dell’italo disco, opere nate da un lavoro collettivo in piccoli studi di registrazione casalinghi dove il produttore Oderso Rubini porta tantissimi giovani talenti di una scena che, mai come allora, credeva davvero in una comunicazione artistica fatta di linguaggi differenti». Nel 2014, su iniziativa della stessa Expanded Music, prende avvio il progetto volto a rilanciare il marchio Italian Records nel mercato contemporaneo. Sotto la guida di Ricky Persi escono dieci dischi, tra inediti (“Generation 83” di Leo Mas & Fabrice, “J’Adore La Musique” di Lineki, “Destination To The Sun” di DJ Rocca, “Waiting For The Heaven” di Shambok Feat. David Sion) e ristampe avvalorate da nuovi remix (Funky Family, Gaznevada, N.O.I.A., Kirlian Camera). Nonostante i buoni propositi, l’operazione si arena nel 2015. Ultimo in ordine di apparizione è il reissue di “Gaznevada”, primo album dei Gaznevada in origine su Harpo’s Music rimesso in circolazione a gennaio 2021 attraverso una limited edition ambita dai collezionisti.

La testimonianza di Oderso Rubini

In che ambiente sociale e culturale germoglia l’idea di fondare Harpo’s Bazaar?
Erano gli anni del Movimento bolognese, di una città ricca di tensioni sociali e politiche ma anche innervata da una dimensione creativa sviluppata in maniera del tutto spontanea grazie a diverse componenti: DAMS, Conservatorio, radio libere, concerti, etc.

Perché optaste per il nome Harpo?
Gianni Celati, docente di letteratura inglese al DAMS, stava scrivendo un libro intitolato per l’appunto “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx”. Alcuni suoi allievi erano tra i soci fondatori della cooperativa e quindi, un po’ perché suonava bene, un po’ perché lo spirito di Harpo incarnava in qualche modo le nostre ambizioni, optammo per quel nome, e fu una scelta abbastanza facile e felice direi.

“Inascoltable” degli Skiantos (1977)

Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Cosa voleva dire ai tempi gestire un’etichetta indipendente come quella?
Non avevamo né le risorse, né la struttura per pubblicare dischi essendo lontani da Roma e Milano, ma sentivamo la necessità di esternare in qualunque modo le nostre voglie e quelle degli artisti che ci stavano intorno. Avevamo lo studio dove registrare, e già quello era un privilegio in termini economici, e non ci mancava lo spirito creativo per inventare e diffondere la nostra musica tramite i concerti (tra cui il Bologna Rock), utilizzando il circuito delle radio indipendenti e la vendita per corrispondenza. A contraddistinguere Harpo’s Music fu l’incoscienza, la spontaneità e quel giusto grado di presunzione dell’essere giovani legato all’inesperienza e all’ingenuità di chi non è ancora un professionista smaliziato.

In Rete corre voce che tra i fondatori di Harpo’s Music ci fosse anche Red Ronnie: è vero?
No, Red Ronnie è stato un amico e fiancheggiatore della nostra avventura da esterno.

Qualcuno ricopriva il ruolo di A&R e quindi decideva cosa pubblicare?
Delle scelte artistiche me ne occupavo principalmente io pur condividendole, soprattutto per ciò che riguardava il cosiddetto “marketing”, con gli altri soci della cooperativa.

Quanto budget fu investito in quell’avventura?
Di fatto i costi erano legati esclusivamente alla produzione e distribuzione delle cassette (in tirature di 500 copie) e alle operazioni per promuoverle ossia spedizioni, grafica e pubblicità.

Italian Records debutta ufficialmente nel 1980 seppur il nome appaia già attraverso le cassette della Demo City. Perché optaste per Italian Records? Era forse un modo patriottico/nazionalistico per evidenziare un’anelata riconoscibilità?
Demo City era una collana sperimentale, sempre relegata al formato cassetta, che attraversò il passaggio dalla cooperativa Harpo’s Bazaar alla Expanded Music Srl segnando quindi la transizione dall’età dell’innocenza a quella di una maggiore consapevolezza economico/industriale. Italian Records è stato il primo marchio di produzione dell’Expanded Music Srl che poi, a sua volta, divenne marchio per le ristampe di dischi presi in licenza da tante etichette internazionali (Rough Trade, 4AD, Industrial Records, Slash, Beggars Banquet, EG Records ed altre ancora). Dietro la scelta del nome c’era ovviamente una palese dichiarazione d’intenti: doveva essere evidente la nostra origine italiana e volevamo aprirci ad un mercato internazionale.

Rubini insieme a Nino Iorfino ed Anna Persiani nei primi anni Ottanta

All’inizio il logo è rappresentato dal tricolore nostrano, poi sostituito dallo stivale geografico e quindi dalla sagoma di un volto stilizzato. Da chi furono realizzati?
L’intera produzione grafica era a cura di Anna Persiani che coordinava tutte le sollecitazioni e le idee che dovevano supportare la nostra immagine.

Come tu stesso dichiari nel libro “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo”, a decretare la nascita dell’Italian Records è stata la Ricordi con un contratto di distribuzione triennale ed un anticipo sulle royalties. Come riusciste ad attirare l’attenzione della celebre casa discografica fondata nel 1958 da Nanni Ricordi e Franco Crepax? Ci fu un disco o una band in particolare a fare da detonatore?
Uno dei nostri soci, Gianni Gitti, incontrò casualmente ad un concerto, dove si occupava del suono, i responsabili artistici della Ricordi, Mara Maionchi e Giampiero Scussel. Allora eravamo un gruppo di lavoro molto coeso e penso sia stato più il contesto che un artista in particolare ad incuriosirli. Dopo una loro visita nel nostro piccolo studio in via San Felice, ci proposero un contratto di distribuzione come etichetta.

Il primo biennio di attività dell’Italian Records è legato a doppio filo a punk, post punk e new wave, generi che i musicisti nostrani elaborano in scene regionali parecchio parcellizzate (si pensi alla Mask Productions di Fulvio Guidarelli, alla Tidico o alla miriade di gruppi mirabilmente raccolti dalla Spittle Records nel progetto “Voyage Through The Deep 80s Underground In Italy”). Che riscontri raccoglieste, sia dalla critica che dal pubblico?
Nei primi anni riuscimmo a diventare una sorta di punto di riferimento per la costruzione di una scena punk/rock italiana indipendente. Sia la critica che il pubblico ci seguirono con attenzione e rispetto, fiduciosi in qualcosa di nuovo per il nostro Paese. Ancora oggi ricevo testimonianze di grande affetto per il lavoro fatto allora e questo continua ad inorgoglirmi.

Il brand Italian Records From The World

Oltre a patrocinare una serie di gruppi italiani, Italian Records ha veicolato anche alcuni album di band estere come DNA, Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. Cosa implicavano operazioni simili? Erano particolarmente onerose dal punto di vista economico?
Ad un certo punto, per stabilire rapporti economicamente più produttivi e possibili relazioni per i nostri dischi, inventammo il brand Italian Records From The World. Volevamo produrre non solo artisti italiani ma anche stranieri, con progetti specifici e in esclusiva, ma che costassero relativamente poco.

È vero che “Rafters” dei Throbbing Gristle era un bootleg non autorizzato, così come indicato su Discogs?
No, assolutamente, nessuna delle nostre produzioni era considerabile come bootleg, erano tutte legali.

“I.C. Love Affair” dei Gaznevada è uno dei primi brani ballabili pubblicati dall’Italian Records, uscito quando iniziano a delinearsi le caratteristiche di quella che in Germania verrà ribattezzata italo disco. L’adesione a quel fermento fu intenzionale o casuale?
Frequentando le discoteche per i concerti di alcuni dei nostri artisti, Gaznevada in particolare, si percepì chiaramente una tensione positiva verso il fenomeno “ballo”. Inizialmente l’idea era introdurre anche nell’ambito della musica dance degli elementi che fossero in qualche maniera provocatori ed insoliti per quel genere, soprattutto per i testi, mai banali o superficiali, come già avvenne in “(Black Dressed) White Wild Boys” sempre dei Gaznevada ed antecedente ad “I.C. Love Affair”. Anche quella del ballo era una forma di espressione e sembrò poter aprire ai musicisti altre possibilità per provare a vivere di musica.

A cosa era dovuta l’impostazione “orientaleggiante” dell’artwork? Quante copie vendette il mix e perché coinvolgeste Claudio Ridolfi come remixer?
La copertina del disco voleva evidenziare l’origine del testo, nato da un vero fatto di cronaca che raccontava le disavventure di un ambasciatore occidentale innamorato di una ragazza cinese. Ai tempi dell’uscita vendemmo qualche migliaio di copie ma non saprei quantificare con precisione tenendo conto di tutte le ristampe commercializzate in tanti Paesi del mondo. La cosa più interessante di quel brano è che decidemmo di realizzarlo solo sulla base di un riff di basso. Poi lo sostituimmo con un sintetizzatore Minimoog che era casualmente in studio e nel giro di quattro ore appena era già perfettamente compiuto. Apparve subito chiaro che avesse grandi potenzialità ma bisognava dare ad esso una maggiore ballabilità rispetto alla versione originale. Per fare ciò solitamente ai tempi si coinvolgeva qualcuno che fosse esperto di tecniche per i remix destinati alle discoteche, nel nostro caso Claudio Ridolfi.

Nonostante l’avvento delle prime tecnologie a basso costo, allora incidere un disco era una cosa tutt’altro che improvvisabile e i crediti sulle copertine lo testimoniano. Come fu recepito l’arrivo di sintetizzatori e batterie elettroniche negli ambienti del rock in cui regnava uno scetticismo, più o meno radicato, nei confronti della musica “programmata” e non “suonata”?
Ovviamente le persone più intelligenti percepirono l’avvento di synth e drum machine come un arricchimento delle possibilità espressive. Alla fine dipende sempre da come si usano le cose. Oggi c’è chi sostiene che il suono analogico dei vecchi nastri sia migliore di quello digitalizzato, esattamente come avveniva quarant’anni fa con gli strumenti elettronici e quelli tradizionali.

Dal 1983 a distribuire Italian Records fu la EMI: emersero sostanziali cambiamenti rispetto ai tempi di Ricordi?
Idealmente avevamo un contributo più meditato ed incisivo sulla parte promozionale ma per il resto non ci furono grandi differenze.

Uno scorcio della sede dell’Italian Records (198x)

Inizialmente l’italo disco è un genere-non genere fondato sull’ibridazione di stili eterogenei che i musicisti italiani assemblano anche in modo naïf. Poi si trasforma in qualcosa di predefinito e prevedibile, fatto di dance costruita sulla song structure che etichette/grossisti milanesi come Discomagic o Il Discotto impiegano intensivamente. A differenza delle realtà lombarde però, Italian Records non ha mai sfruttato a pieno regime quel ciclo economico toccando la prolificità tipica della musica “usa & getta”. A posteriori avresti voluto produrre più materiale?
Noi volevamo mantenere il più possibile una nostra identità, sia sonora che a livello di immagine. Le priorità non erano ancora i risultati economici bensì quelli espressivi. L’attività delle etichette e dei grossisti milanesi, lo dico senza cattiveria, si basava su un alto numero di produzioni perché statisticamente sapevano che ogni dieci progetti uno avrebbe venduto bene. Io invece ho prodotto solo quello che mi piaceva davvero.

Cosa ricordi delle produzioni convogliate sulla Third Label, etichetta più dichiaratamente dance sin dal suo esordio?
Francamente molto poco perché ero già proiettato altrove.

“The Spirit Of The Age” di Paul Sears e “Baby Blue” di Soul Boy sono tra gli ultimi dischi su cui appare il tuo nome: perché ad un certo punto abbandoni Italian Records?
Perché venne meno lo spirito che ci aveva accompagnato sino ad allora e, come è successo a tanti, il gruppo di lavoro coeso dell’inizio si stava declinando in ambizioni individuali poco conciliabili tra di loro.

Nel 1986 nasce Italian Records Junior dedicata a musiche per bambini e in seguito Italian Records diventa piattaforma per dischi piuttosto cheesy che suonano un po’ come il necrologio del progetto iniziale. Cosa pensi in merito a quella brusca virata?
Rispetto le scelte che furono prese dopo la mia uscita dall’Expanded Music, ma è evidente che a livello emotivo non mi coinvolsero affatto.

A proposito di sotto etichette e marchi correlati: cosa puoi raccontare in merito a MMMH Records e Nice Label? Erano affiliate ad Italian Records?
Entrambe facevano parte dell’idea di costruzione di una scena rock/new wave italiana. Volevamo aumentare la quantità di gruppi di produzione autonomi, sostenuti dall’Italian Records che a sua volta ne alimentava l’identità e ne era garante per l’immagine che si era costruita. Nello specifico la MMMH Records nacque per gli Stupid Set mentre la Nice Label fu gestita in collaborazione con Red Ronnie.

C’era un particolare significato dietro la scelta della sigla Exit (e talvolta in reverse Tixe) abbinata al numero di catalogo, o era banalmente la traduzione maccheronica di “uscita” intesa nel gergo discografico?
Stava proprio per “uscita”. Anche Dischi Italiani, in qualche modo, era maccheronico o banale.

Esisteva una ragione precisa invece dietro MXM Musica Ex Machina, l’editore che affiancava Italian Records?
Quel nome proveniva dal titolo del libro omonimo di Fred K. Prieberg che raccontava del nuovo tempo che prima o poi avrebbe accompagnato la produzione musicale.

Nino Iorfino ed Oderso Rubini

Quanto tocco e sensibilità di Oderso Rubini c’erano nelle uscite Italian Records?
Non dovrei essere io a dirlo, ma sicuramente nella maggior parte delle pubblicazioni la mia sensibilità ebbe un ruolo importante, per le scelte, per l’uso dei suoni, per la costruzione delle singole identità. Un buon produttore, a mio avviso, è quello che amplifica al massimo le caratteristiche insite dell’artista per esaltarne appunto l’identità e la singolarità. Che senso ha produrre per assomigliare a cose che esistono già?

Oggi il ruolo del produttore o dell’A&R è stato di gran lunga ridimensionato anzi, c’è chi, in virtù della tecnologia semplificatrice, si autoproclama artista facendo a meno di tutto e tutti. Credi che ciò stia facendo più bene o male alla musica?
Con l’uso sempre più diffuso delle tecnologie si sono globalizzati anche i suoni e le modalità di produzione e quindi ora è molto difficile far emergere identità forti. Sono parecchio cambiate inoltre anche le modalità di fruizione della musica e a parte pochissimi casi, spesso chi suona non riesce ad avere una visione d’insieme neutra di una canzone o di un disco, per presunzione o per superficialità. Sono convinto quindi della necessità di un orecchio esterno capace di dare un senso estetico ed espressivo ad un progetto.

In quale fase dell’Italian Records ti rivedi meglio?
Dall’inizio fino al 1982. Sono molto orgoglioso del lavoro fatto come gruppo. Poi si ruppe qualcosa e non riuscimmo più a dare un senso, anche economico, alla nostra avventura.

Quali sono i bestseller del catalogo? Mediamente quante copie vendevate per ogni pubblicazione?
Ovviamente Skiantos e Gaznevada che hanno avuto esiti decisamente positivi vendendo dalle 5000 alle 6000 copie. Altri titoli invece viaggiavano tra le 3000 e le 1000 copie.

Nel 2014 l’Italian Records è tornata in attività, seppur per un breve periodo, attraverso ristampe, remix ed inediti. Hai seguito ed apprezzato quella parentesi?
In qualche modo ne ho fatto parte e mi ha fatto piacere che le ristampe siano nate da una richiesta del mercato e non da un delirio personale. L’aspetto negativo è rappresentato dall’uso che oggi si fa delle ristampe a cui si attribuisce un valore principalmente collezionistico.

Ci sono errori che non rifaresti o rimpianti che ti porti dietro?
È mancato, più per inesperienza che per altro, un approccio più manageriale a tutta la passione che abbiamo messo nel nostro lavoro. Il rimpianto? Non essere riusciti a fare dell’Italian Records la più grande etichetta rock italiana (risate).

Per quali ragioni o meriti vorresti fosse ricordata Italian Records?
Per le emozioni che, anche se alle volte ad una sola persona, siamo riusciti a trasmettere, e che forse trasmettiamo ancora oggi.

(Giosuè Impellizzeri)

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N.O.I.A. – The Rule To Survive (Looking For Love) (Italian Records)

N.O.I.A. - The Rule To Survive (Looking For Love)Cervia, 1978. Bruno Magnani e Davide Piatto fondano i N.O.I.A., uno dei primi gruppi italiani a rivelarsi come punto di incontro e vicendevole scambio tra meccanicismo sintetico e vocalità new wave, capace di generare un suono-meticciato tra Kraftwerk e Devo. Insieme a loro, sino al 1983, quando la band è tendenzialmente attiva solo sul fronte live, ci sono Giorgio Giannini, Jacopo Bianchetti e Giorgio Facciani, ma nel momento in cui Oderso Rubini li mette sotto contratto con l’Italian Records cambia tutto. La propensione ad esibirsi dal vivo viene meno, sostituita dal lavoro in studio. La musica dei Talking Heads, Ultravox, Can e Neu! forgia il gusto dei romagnoli che si spingono avanti sino a lambire sponde no wave e proto house.

«Iniziammo nel ’78 quando non eravamo altro che punk diciassettenni» ricorda oggi Magnani. «La tecnica non era importante anzi, allora si scoprì che l’assenza di questa non precludeva il fatto di poter scrivere bei pezzi. Ciò che rammento principalmente dei primi tempi è che ad ogni nostra esibizione si scatenava una rissa nel pubblico, tra quelli che ci amavano e quelli che, al contrario, ci odiavano. Non esistevano mezze misure. Le spillette con su il messaggio “Energia nucleare? Sì grazie!” che tiravamo sulla gente contribuivano a far crescere quello strano mix tra amore ed odio. Come nome artistico optammo per la sigla N.O.I.A. che poteva rappresentare ben 125 significati diversi, ai tempi conosciuti ma tenuti segreti, oggi banalmente dimenticati. Ricordo però che in parecchie di quelle 125 permutazioni la “A” stava per “Automazione”. La formazione a cinque elementi era molto più efficace dal vivo, quando rimanemmo in tre (Magnani, Piatto e Giannini, nda) invece privilegiammo troppo il lavoro in studio e smettemmo quasi del tutto l’attività live. I due che uscirono, peraltro, erano quelli fisicamente più belli e che facevano la loro figura, quindi a posteriori direi che fu un errore ridimensionarci».

N.O.I.A. (2)

Una foto scattata presumibilmente nel 1979 in occasione di un’esibizione dei N.O.I.A. alla Nuite Blanche di Cesenatico. Da sinistra: la ballerina Sara, un amico che non faceva parte del gruppo, il chitarrista Jacopo Bianchetti, Giorgio Giannini, Marino Sutera in tuta blu con uno strumento autocostruito chiamato Noiatron, Davide Piatto e Bruno Magnani.

Nel 1981 i N.O.I.A. sono sul palco della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” organizzata a Bologna. Lì li vede (e sente) Oderso Rubini che li porta all’Italian Records, nata dalle ceneri della Harpo’s Music. Da quel momento le priorità cambiano, prima del suonare live c’è il voler incidere dischi, avvalendosi pure di strumenti elettronici che ai tempi sono spesso oggetto di demonizzazione negli ambienti del pop/rock tradizionale. «Ad onor del vero avremmo voluto incidere dischi anche prima ma preferimmo rifiutare le proposte di etichette microscopiche ed aspettare l’occasione giusta» spiega Magnani. «Ai tempi era tutto analogico, le autoproduzioni erano piuttosto scadenti e per allestire o prendere a nolo gli studi di registrazione professionali occorreva molto denaro. Ci voleva assolutamente una casa discografica. Per l’utente medio l’uso di apparecchiature elettroniche era qualcosa che riguardava nello specifico la musica disco. Il grande pubblico, soprattutto nelle esibizioni live, continuava ad aspettarsi batteristi tradizionali ed assoli di chitarra distorta».

N.O.I.A. (3)

Davide Piatto immortalato nel 1982 durante una delle session casalinghe di Klein & MBO mentre armeggia con un sintetizzatore Roland SH-1 ed una batteria elettronica Roland TR-808

È proprio con una chitarra ed una Roland TR-808 che Davide Piatto contribuisce significativamente alla realizzazione di uno dei brani considerati seminali per la house music di Chicago, “Dirty Talk” di Klein & MBO, seppur il suo lavoro non venga ufficialmente riconosciuto attraverso i credit in copertina, come già ampiamente descritto in questo reportage di qualche anno fa con la sua testimonianza esclusiva. «In quel periodo Davide era parecchio prolifico e scrisse moltissime basi» ricorda Magnani a tal proposito. «Su una cassetta che mi diede c’erano sia la base di quella che sarebbe diventata la nostra “The Rule To Survive (Looking For Love)”, sia quella che invece si sarebbe trasformata in “Dirty Talk”. A noi piacque di più la prima».

Il singolo di debutto dei N.O.I.A. è proprio “The Rule To Survive (Looking For Love)”, pubblicato nei primi mesi del 1983. Nonostante venga fatto confluire convenzionalmente nell’italo disco, il brano si muove in realtà lungo coordinate diverse, più aderenti alla new wave abbinate ad una carica ritmica definibile proto house, la stessa che caratterizza la citata “Dirty Talk” e un altro evergreen prodotto in Italia quello stesso anno, “Problèmes D’Amour” del toscano Alexander Robotnick (di cui abbiamo parlato qui) che coi N.O.I.A., peraltro, divide la passione per il rock alternativo, il punk ed una certa elettronica anti mainstream. Sul lato b trova invece spazio “Night Is Made For Love”, dall’impronta nettamente funk. I crediti rivelano che il disco viene registrato presso lo Studio T2 di Bologna ma mixato da Tony Carrasco al Regson Studio di Milano. Emergono inoltre altri nomi (Massimo Sutera al basso, Cesare Collina dei Key Tronics Ensemble alle percussioni, Luca Orioli al sintetizzatore, Joanna Maloney e Lita Munich come coriste) e ciò lascia pensare ad un lavoro di gruppo orchestrato da Oderso Rubini. Sulla copertina finiscono invece due ragazze, Alessandra e Carolina. «I nostri dischi hanno sempre avuto una realizzazione un po’ travagliata» spiega Magnani. «I demo erano piuttosto minimali a base di Roland TR-808 e Roland SH-1. Per avere un’idea di ciò basta ascoltare la prima versione di “The Rule To Survive (Looking For Love)” finita nella compilation “The Sound Of Love EP – Released & Unreleased Classics 1983-87” edita dalla Spittle Depandance nel 2012. Per l’incisione definitiva del pezzo andammo con Rubini allo studio T2 di Bologna. Fu proprio lo stesso Rubini a coinvolgere Luca Orioli come tastierista, visto che disponeva di parecchi sintetizzatori e sequencer che avrebbero reso le nostre sonorità meno minimali. Ai tempi Orioli lavorava già con sequencer MIDI, protocollo che per noi invece era un’assoluta novità. Sino a quel momento infatti lavoravamo ancora con CV/gate per controllare i nostri strumenti. Per le parti di basso e percussioni “umane” contattammo due nostri amici di Cervia, Cesare Collina e Massimo Sutera. Quest’ultimo aveva suonato con me in un gruppo formato ai tempi delle scuole medie, quando facevamo persino le serate di liscio negli alberghi, durante l’estate. In seguito è diventato un rinomato batterista professionista. A lavoro ultimato però non fummo soddisfatti del mixaggio fatto al T2 e così ci rivolgemmo al milanese Regson. A quel punto Rubini ci chiese di coinvolgere Tony Carrasco, col quale Davide aveva già collaborato per “Dirty Talk”. Per la realizzazione di “Night Is Made For Love”, invece, Oderso contattò delle coriste. Tra gli strumenti che usammo ricordo il Prophet-5 di Luca Orioli. Effettivamente il brano aveva un’impronta più funk rispetto a quello inciso sul lato opposto, ma secondo me era un carattere distintivo che traspariva un po’ dappertutto nei nostri pezzi, anche in quelli più rigorosamente elettronici. “The Rule To Survive (Looking For Love)” venne licenziato anche all’estero, tra Paesi Bassi, Germania e Stati Uniti. Se ben ricordo vendette 12.000 copie, ma non mi pare che l’etichetta attuò qualche strategia promozionale per raggiungere tale esito. Il follow-up, uscito qualche mese più tardi, era “Stranger In A Strange Land” e riprendeva lo stile del precedente ma questo non bastò a garantirci lo stesso risultato. Le vendite infatti furono un po’ più basse, e in linea generale ogni nuovo disco dei N.O.I.A. vendette sempre un po’ meno del precedente. Tuttavia ricordo “Stranger In A Strange Land” con molto piacere perché quella volta Luca Orioli portò in studio il Bass Line Roland TB-303, strumento che non conoscevamo nonostante fossimo fissati con la Roland. Fu amore a prima vista e lo utilizzammo subito, praticamente in tutto il pezzo. Per la ricerca di un suono più “pesante” invece, doppiammo il rullante della TR-808 con quello di una batteria vera».

N.O.I.A. (1)

Una foto estratta dal servizio fotografico realizzato nel 1984 per la promozione del singolo “Do You Wanna Dance?” La donna è una modella di cui non sono note le generalità, seduto è Giorgio Giannini, dietro di lui Bruno Magnani e a destra Davide Piatto.

Dopo “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, nel 1984 i N.O.I.A. incidono sia il Mini-Album “The Sound Of Love”, aperto dal brano omonimo venato ancora di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk, sia il 12″ “True Love”, proiettato su echi moroderiani. Il poco che esce tra 1985 e 1988, appena tre singoli, allontanerà progressivamente la band romagnola dalle atmosfere di partenza. “Try And See” del 1985, l’ultimo su Italian Records, risente in modo evidente del lato più cheesy dell’italo disco che ormai esplode a livello commerciale, “Umbaraumba” del 1987, su Rose Rosse Records, contribuisce ulteriormente a prendere le distanze con una formula synth pop, mentre “Summertime Blues” del 1988, su CBS, cover dell’omonimo di Eddie Cochran e prodotto da Jay Burnett, accantona i suoni elettronici a favore delle chitarre elettriche. L’attenzione di Piatto (che nel contempo inizia l’avventura Rebels Without A Cause con Luca Lonardo, Carlo Lastrucci e Filippo Lucchi, prodotti dal giornalista Claudio Sorge) e Magnani insomma pare spostarsi in direzione di lidi musicali differenti. «Muoverci verso pezzi più “commerciali” fu una scelta indotta un po’ dalla casa discografica ma anche da noi stessi» spiega Magnani. «Non ci sarebbe dispiaciuto guadagnare qualcosa, ma col senno di poi ammetto che quasi sicuramente avremmo incassato di più rimanendo fedeli al sound iniziale e magari proseguendo ad esibirci dal vivo. Le vendite, invece, continuarono a calare e ciò spiega la ragione per cui dedicammo sempre meno tempo ai N.O.I.A. ed alcuni di noi crearono nuovi gruppi».

N.O.I.A. - Unreleased Classics '78-'82

La copertina di “Unreleased Classics ’78-’82”, il disco edito dalla Ersatz Audio che nel 2003 riporta in attività i N.O.I.A. dopo quindici anni di silenzio

Dopo “Summertime Blues”, infatti, dei N.O.I.A. si perdono le tracce. Il silenzio è rotto solo quindici anni più tardi, nel 2003, quando la Ersatz Audio, etichetta fondata e gestita dagli ADULT., pubblica “Unreleased Classics ’78-’82”, una raccolta di inediti rimasti nel cassetto per un arco lunghissimo di tempo. «Praticamente tutta la parte iniziale della nostra produzione, che andava dal 1978 al 1982, non era mai stata pubblicata, ed era davvero molto differente da ciò che invece emerse poi dalla discografia» racconta ancora Magnani. «Con l’Italian Records avevamo sempre pubblicato pezzi nuovi senza mai attingere dall’archivio. A me invece sarebbe piaciuto molto vedere stampate quelle vecchie tracce esattamente com’erano state concepite, utilizzando gli stessi strumenti e il medesimo hardware. Principalmente l’equipment era composto da drum machine Roland CR-78, Boss DR-55 e Korg KR-33, sintetizzatori Roland SH-1 e Korg M500 SP, una chitarra elettrica filtrata da un Electro Harmonix Micro Synth (quest’ultimo citato nel testo di “Korova Milk Bar”, nda) e davvero poco altro. Registrammo e mixammo i pezzi nel nostro studio con l’intento di autoprodurci il disco ma alla fine accantonammo tutto». Quando la Ersatz Audio di Detroit riabilita il nome e la musica dei N.O.I.A., nel progetto figura anche il fratello minore di Davide Piatto, Alessandro, che aggiunge: «Nel 2000 spedii una decina di CD ad altrettante etichette che mi sembravano stilisticamente in linea con quanto avevamo approntato. L’unico a rispondere, ma solo molti mesi dopo, fu Adam Lee Miller degli ADULT., che conosceva già i N.O.I.A. e ci propose subito di pubblicare l’album, ma escludendo dalla tracklist due brani, “Europe”, forse per questioni politiche legate al testo, ed “Italian Robots”. Non esitammo. Tutti i pezzi finiti in “Unreleased Classics ’78-’82”, come diceva Bruno, furono composti prima di firmare il contratto con l’Italian Records. L’unico ad essere stato già pubblicato era “Hunger In The East” che finì, insieme all’esclusa “Europe”, nella compilation “Rocker ’80” edita dalla EMI nel 1980 per l’appunto. Era il premio per aver vinto il 1º Festival Rock Italiano, svoltosi a Roma».

N.O.I.A. (4)

I N.O.I.A. (da sinistra Jacopo Bianchetti, Bruno Magnani, la ballerina Sara e Davide Piatto) sul palco della prima edizione del Festival Rock, a Roma, tra 1979 e 1980.

Nel 2006, quando l’interesse per la musica del passato continua ad intensificarsi, la Irma Records realizza la raccolta “Confuzed Disco” per celebrare l’epopea dell’Italian Records. Dentro finiscono, ovviamente, pure i N.O.I.A., riportati in superficie anche attraverso nuove versioni commissionate a produttori contemporanei come Fabrizio Mammarella e Franz & Shape che mettono rispettivamente le mani su “Do You Wanna Dance” e “Stranger In A Strange Land”. Sono gli anni in cui, dopo l’esplosione massiva dell’electroclash, cresce l’attenzione per tutto ciò che è retrò o suona intenzionalmente tale. Centinaia di curatori animati dalla voglia di riscoprire (o scoprire per la prima volta) suoni del passato danno avvio alla stagione, tuttora in corso, delle ristampe. Per i N.O.I.A. ciò porta, oltre al citato best of della Spittle Depandance, “A.I.O.N.”, edito nel 2016 da J.A.M. Traxx e fondato su una serie di rework e remix (tra cui quelli di The Hacker ed Hard Ton) di tracce precedentemente su Ersatz Audio. L’attenzione per il passato è continua ed incessante, alimentata da una storia ormai pluriquarantennale che pare aver messo all’angolo la musica contemporanea che vende sempre meno delle ristampe. «Credo che in circolazione ci sia molta musica nuova interessante ma ad essere cambiato (in peggio) è il rapporto col pubblico, e questo disorienta e non incoraggia gli artisti ad esprimere le loro potenzialità, se non replicando qualcosa che abbia già funzionato, alla ricerca di una gratificazione immediata» dice a tal proposito Alessandro Piatto. «In merito alla “Confuzed Disco” invece, non fummo coinvolti se non per una sorta di party di lancio a Bologna. Cercai di mettermi in contatto con l’A&R della Mantra Vibes (Marco ‘Peedoo’ Gallerani, nda) ma non fu interessato a collaborare con noi. In genere tutte le volte che ho proposto a varie label di pubblicare cose nuove non c’è stato alcun interesse, e questo si ripete dal 2000 ad oggi. Probabilmente ciò dipende dal feticismo del passato e dall’idea che i brani di quel periodo siano una sorta di evergreen e non usa e getta come gran parte delle produzioni contemporanee».

The Rule To Survive (31th Anniversary)

La copertina del 12″ pubblicato dalla N.O.I.A. Records che nel 2014 celebra i trentuno anni di “The Rule To Survive” attraverso inedite versioni remix

Nel 2008 nasce la N.O.I.A. Records che, dopo qualche anno trascorso in balia di sole pubblicazioni digitali, si reinventa iniziando un nuovo corso con inedite versioni di “The Rule To Survive”. Per celebrare i trentuno anni dall’uscita, nel 2014 sul mercato giungono i remix di Prins Thomas, Baldelli & Dionigi e Kirk Degiorgio. Seguono una manciata di release di Francesco Farias dei Jestofunk, quelle dei TenGrams (nuovo progetto-tandem dei fratelli Piatto) ed ovviamente dei N.O.I.A. che tornano nel 2018 con “Forbidden Planet” contenente i remix di Francisco ed Ali Renault. «La N.O.I.A. Records, purtroppo, ha subito una serie di diverse problematiche» spiega Piatto. «La prima, in ordine di importanza, è stata causata dalla mia incapacità di renderla “hype” o comunque sufficientemente interessante per conquistare una base di fan che garantisca un minimo di vendite per la gestione ordinaria del catalogo. Dal punto di vista economico, la pubblicazione in vinile è stata piuttosto fallimentare e i rapporti coi distributori si sono rivelati complessi e svantaggiosi. In questo contesto il tempo che riesco a dedicare ad essa è poco e non riuscendo a promuoverla con performance tipo DJ set o live, la label rimane ai margini. Ad oggi comunque sono programmate delle nuove uscite di artisti reclutati recentemente. Usciranno in digitale su Bandcamp e forse qualche vinile di TenGrams. Anche in questo caso, comunque, non mi reputo un buon A&R e fare marketing non è proprio il mio mestiere. Per quanto riguarda invece i nuovi brani dei N.O.I.A., il materiale c’è ma il tempo per finalizzarlo è poco e, per eccesso di autocritica, facciamo fatica a dire “ok, questo è buono, partiamo!”. Personalmente per certi versi sento la mancanza di una figura nella produzione, come era quella di Oderso Rubini negli anni Ottanta. L’ultimo pezzo dei N.O.I.A. è stato “Morning Bells”, una vecchia traccia persa nel tempo realizzata in collaborazione col fantomatico Rubicon, della quale si è ritrovata solo la versione dell’olandese Rude 66. Proprio Rubicon la ha proposta a Timothy J. Fairplay che ha ritenuto fosse idonea per la pubblicazione sulla Crimes Of The Future. Oggi i N.O.I.A. sono quelli di ieri ma con trentacinque anni in più».

Non è mistero che adesso la scena indipendente soffra un periodo di magra forse senza precedenti. Se da un lato un certo mainstream che cavalca la moda dei “DJ star” nuota letteralmente nel denaro, dall’altro piccoli artisti ed altrettanto piccole etichette, legate ancora ad una sorta di artigianato, arrancano non poco. Le piattaforme di streaming come Spotify, a cui alcuni attribuiscono forse immeritatamente il ruolo di “salvatrici della musica” dopo la disintegrazione dei supporti fisici, in realtà sembrano più palliativi, specialmente per coloro che non contano su fanbase di una certa consistenza. Visti i presupposti, è lecito domandarsi se i tempi che verranno riusciranno a creare e forgiare personalità forti almeno quanto quelle delle decadi trascorse. «Alle condizioni attuali credo che quel che è successo nel passato non possa più essere replicato» afferma sentenzioso Alessandro Piatto. «Ciò che succederà in futuro invece è davvero un mistero vista la continua evoluzione del modo di percepire e fruire la musica. Adesso convivono artisti a me sconosciuti, che collezionano milioni di visualizzazioni e streaming, con altri, in teoria molto popolari, che però non riescono a superare poche centinaia di play sul web. Ogni volta che affronto il discorso mi viene puntualmente ricordato che è necessario creare il cosiddetto “engagement”, ossia coltivare relazioni e collaborazioni strategiche. Insomma, un sacco di roba che divide ben poco con la musica e molto col peggio della vecchia industria discografica. Qualche settimana fa, girovagando su YouTube, sono finito su canali di artisti synthwave e retrowave con numerosissime visualizzazioni e musica assolutamente dozzinale seppur molto ben confezionata. Un altro mondo che sembra essere più funzionale rispetto alle trecento copie in vinile che tanti oggi consacrano come successo. Chi ne capisce qualcosa è davvero bravo! Personalmente ho compreso che vale tutto e non ci sono più regole certe. I miei video, ad esempio, non superano le poche centinaia di visualizzazioni nonostante abbia almeno un paio di migliaia di fan sui social. Da qualche parte sbaglio, dove non l’ho ancora capito o forse sì, magari anche troppo».(Giosuè Impellizzeri)

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I documentari sulla musica elettronica

documentariPer sopperire all’assenza di un database specificamente dedicato ai documentari sulla musica elettronica, ad ottobre 2012 Giosuè Impellizzeri inizia a raccoglierne alcuni in una Nota sul proprio profilo Facebook, segnalandone il link, analizzandone il contenuto ed aggiornando la lista ogni qualvolta fossero disponibili nuove fonti.
Nel corso del tempo lo spazio “Nota” messo a disposizione dal social di Mark Zuckerberg diventa insufficiente ma è anche la voglia di rendere il lavoro più facilmente rintracciabile, fruibile e condivisibile a creare i presupposti per trasferirlo sulle pagine del blog di Decadance.
Naturalmente il database sarà oggetto di periodici aggiornamenti.

Kraftwerk And The Electronic Revolution
In questo video del 2008, di ben due ore e mezza e disponibile anche in DVD, si approfondisce la “rivoluzione elettronica” che prende piede nel Paese che, forse più di ogni altro, esce martoriato dal secondo conflitto mondiale, la Germania. L’età buia non è ancora giunta al termine (la nazione verrà riunificata solo nel 1990), e la musica americana ed inglese rappresenta, per la generazione degli anni Cinquanta e Sessanta, un nuovo modello da seguire. Tra i primi sperimentatori c’è Conrad Schnitzler dei Tangerine Dream (passato a miglior vita nel 2011), che qui racconta il suo approccio inedito alla materia musicale, nato dal rifiuto della melodia. «Solo se non sai suonare uno strumento potrai creare musica davvero libera e svincolata da ogni regola» afferma provocatoriamente il compositore tedesco. Anche gli Amon Düül e i Can ricoprono un ruolo assai importante in questa fase storica, miscelando svariate influenze tratte dalle culture estere e fondendole con le proprie. Il risultato non è un surrogato del Rock n Roll, bensì qualcosa di nuovo, che la stampa e la critica angloamericana ribattezza, in senso denigratorio, Krautrock (nota anche come Kosmische Musik). La rinascita industriale registrata nelle città della Germania Ovest rappresenta uno stimolo maggiore e, non certamente a caso, si forma a Düsseldorf la band considerata antesignana ed ispiratrice della musica elettronica contemporanea, i Kraftwerk. Partendo da basi classiche, i tedeschi sviluppano un suono che bypassa le orchestre e cerca di aprire e chiudere un cerchio in modo del tutto autonomo. Evolvendo i concetti della musique concrète francese di Pierre Schaeffer nell’approccio teutonico, i Kraftwerk creano il loro genere, così come qui descrive Karl Bartos. La letteratura fantascientifica e i progressi scientifico-industriali fanno il resto, alimentando il focus sul “mondo del futuro”. Interessante anche il contributo di Klaus Röder, nei Kraftwerk tra ’74 e ’75: «I Kraftwerk sono stati Ralf Hütter e Florian Schneider: il resto è solo componente addizionale. Negli anni vari musicisti, come me, hanno preso parte al progetto, ma si limitavano ad eseguire delle parti che loro due chiedevano espressamente». Dal Klingklang Studio, al 16 della Mintropstraße, pieno di strumenti autocostruiti, escono album-manifesto come “Trans-Europe Express”, “The Man Machine”, “Autobahn”, “Electric Cafe”, “Computerwelt” e “Radio-Activity”, che sdoganano nel mondo il nome dei Kraftwerk, ma sarebbe un errore non citare elaborati precedenti incisi tra ’70 e ’73, “Krafwerk”, “Kraftwerk 2” e “Ralf & Florian” (a cui partecipa l’ingegnere del suono Conny Plank), in cui si assiste alla fusione tra formazione accademica classicista ed impeto sperimentale. Quella dei Kraftwerk, allora, non è solo sperimentazione musicale ma anche (e soprattutto) sperimentazione mentale e concettuale, relazionata al suono quanto alla meccanizzazione della figura umana, una delle sequenze creative del Futurismo.

Pump Up The Volume: The History Of House Music
Trasmesso nel 2001 dalla tv britannica Channel 4 e sinora mai diffuso su DVD, traccia la storia della House, dai primordi legati ai club e ai produttori di Chicago, ai Rave inglesi. Davvero tanti gli ospiti, tra cui Vince Lawrence, Farley ‘Jackmaster’ Funk, Jesse Saunders, Chip E, Steve ‘Silk’ Hurley, Joe Smooth, Larry Sherman & Rachel Cain (Trax Records), Marshall Jefferson, DJ Pierre, Jamie Principle, Masters At Work, Byron Stingily, Armand Van Helden, Derrick May, Mark Moore, Morgan Khan, Adamski, Paul Oakenfold, Carl Cox, Terry Farley, A Guy Called Gerald, Orbital, Pete Tong, Leftfield, Happy Mondays, Artful Dodger e l’italiano Daniele Davoli.

When I Sold My Soul To The Machine
L’ormai raro DVD, realizzato nel 2004 e pubblicato l’anno dopo in soli 300 esemplari numerati a mano, racconta la genesi della scena underground de L’Aia. Un viaggio negli studi e club ricavati negli squat insieme ad I-f (Viewlexx), Guy Tavares (Bunker Records/Motorwolf) ed artisti come Pametex, DJ Overdose, Syncom Data, Orgue Electronique, Legowelt, Alden Tyrell, DJ Technician ed Intergalactic Gary. Tutti insieme rappresentano la realtà musicale e culturale legata all’etica do it yourself, scevra di intenti economici e per questo accreditata come la risposta europea più vera e coerente all’americana Underground Resistance. Sottotitolato in inglese.

I Dream Of Wires (Hardcore Edition)
Scritto e diretto da Robert Fantinatto e Jason Amm, “I Dream Of Wires” è un appassionatissimo viaggio in compagnia dei sintetizzatori modulari. Sebbene la tecnologia ci metta quotidianamente di fronte a nuove scoperte e realtà, aziende come Modcan e Doepfer si sono ritrovate a crescere in modo rilevante, creando un vero substrato di appassionati difficilmente convertibili alla maneggevolezza del suono digitale. Matasse inestricabili di cavi, centinaia di led colorati, tasti, leve, manopole: ben quattro ore (!!) in compagnia di nomi di ieri e di oggi, tra cui Vince Clarke, Daniel Miller, Carl Craig, James Holden, Richard Devine, Trent Reznor, Dieter Doepfer, John Tejada, Drumcell, Legowelt, John Foxx, Deadmau5, Chris Carter e Gary Numan. Quando la passione si mischia col desiderio di scavare sino alle origini del suono, rovistare nei suoi componenti e poi approdare al suo sviluppo. La soundtrack reca la firma del citato Amm in arte Solvent, che elabora il tutto, ovviamente, mettendo mano solo a sintetizzatori modulari. Disponibile in CD Blu Ray o in doppio DVD in edizione limitata. Ps: su YouTube c’è solo un preview di 12 minuti, ma è possibile vedere alcuni estratti cercando “IDOW + interview”.

SubBerlin – The Story Of Tresor
«Mentre si sgretolava la parete del mondo, Berlino Ovest diventava, in poche ore, una sorta di gigantesco bazar dove tutti correvano a divertirsi, a far compere, a soddisfare una curiosità compressa da una generazione»: così Salvatore Veca commenta la notizia sul Corriere Della Sera il 10 Novembre 1989. Quello che storici e storiografi hanno più volte definito “il giovedì passato alla storia” cambiò tutto. Il 1989 fu l’anno zero, la rinascita, la ripartenza, l’avvio della riunificazione statuale e sociale. E pure musicale. Complice lo sbarco in Europa di Techno ed House, che già avevano registrato da qualche anno la comparsa oltremanica decretando la stagione degli smile gialli, la neocapitale tedesca viene ora investita da un clima euforico e, quasi magicamente, conosce i colori dopo anni di bianco e nero. Già, i colori, come quelli delle luci psichedeliche alternate al bianco intermittente dei flash delle strobo che accompagnano il turbinio ritmico della musica. Se l’apertura del Muro segna nel modo più spettacolare la fine del dopoguerra, la Love Parade di Dr. Motte fa assaporare, peraltro con qualche mese di anticipo rispetto alla vicenda storica, quel meraviglioso senso di libertà che innesca una sorta di estasi collettiva. Alla ricerca di una nuova identità, i berlinesi si rialzano e, in ambito musicale, hanno voglia di riscatto. Nato dalle ceneri dell’Ufo, fondato nel 1988 da Achim Kohlenberger, Dimitri Hegemann, Johnny Stiehler e Carola Stoiber (quest’ultima oggi al lavoro con la sua agenzia di promozione discografica Pull Proxy), il Tresor resta un nome iconico per il clubbing, ma non solo per l’apporto musicale. Ricavato nei sotterranei ormai in disuso dei magazzini Wertheim, nel Mitte, a due passi da Potsdamer Platz, il techno bunker diventa in breve il crocevia di un numero incredibile di artisti provenienti da ogni parte del mondo, ma anche di attivisti culturali che tra il 1990 e il 1993 affollano la città e la (ri)animano. Tresor è il primo club di Berlino in cui non conta più nulla essere di Est o di Ovest, in cui non esiste dresscode e nessun vincolo che possa interferire. Così, inconsapevolmente, si ritrova a rappresentare la libertà dei giovani berlinesi, ora animati da una rinnovata fiducia nel futuro. L’epopea finisce il 16 Aprile del 2005: lo stabile viene acquistato da un gruppo di investitori intenti a demolirlo per erigere nuovi uffici, ma la storia ricomincia circa due anni dopo (il 24 Maggio del 2007), nella nuova location sulla Köpenicker Straße, sempre nel Mitte. Il DVD, pubblicato nel 2012 insieme ad un CD riepilogativo con brani ovviamente tratti dal catalogo Tresor, include interviste esclusive a molti degli artisti che hanno generato la “soundtrack” di quel tornado emozionale: da Rok a Marusha, da Sven Väth a Dr. Motte, da Blake Baxter a Jeff Mills passando per Juan Atkins, Tanith, Chris Liebing ed ovviamente Dimitri Hegemann. Se cercate la versione sottotitolata in inglese, optate per quella su Vimeo ma si tratta di un edit della durata di poco più di 20 minuti contro i circa 90 dell’originale.

Breakin’ ‘N’ Enterin’
In tempi recenti il termine Electro è finito con l’essere appioppato ad uno stile musicale che ben poco divide con quello per cui fu coniato inizialmente. Causa il pressapochismo diffuso via web e la scarsa voglia di approfondire da parte dei più giovani, che spesso non mostrano il benché minimo interesse per ciò che è stato in passato e che ha gettato le basi dell’attuale scena. Questo documentario, diretto da Topper Carew nel 1983, punta l’obiettivo su una precisa fase storica in cui la musica Electro di derivazione kraftwerkiana entra in contatto con l’Hip Hop, creando un fantasioso ibrido che fu identificato come Electro Funk (giacché di mezzo c’erano anche referenze di George Clinton e dei suoi Parliament). Supportato da artisti come Hashim, Afrika Bambaataa (nella sua “Planet Rock”, del 1982, trova alloggio un sample di “Trans Europe Express” dei Kraftwerk), Captain Jack, Newcleus, The Jonzun Crew, Egyptian Lover, Man Parrish, Jamie Jupitor, Kid Frost, Captain Rock, Maggotron, Kosmic Light Force, MC Flex & The FBI Crew, The Empyre, Imperial Brothers, Twilight 22 e Planet Detroit, questo ceppo musicale passa alla storia anche grazie ai b-boy e alla breakdance che improvvisano agli angoli delle strade statunitensi con radio portatili (i cosiddetti ghettoblaster), che diventano, insieme ai murales e a vari strumenti come la Roland TR-808 e il vocoder, tra i simboli iconici del movimento. Il docu-film, purtroppo con qualità audio e video non eccelsa (è tratto da un VHS), mostra quanto sia stato incisivo quel momento che fece da ponte tra le sperimentazioni degli anni Settanta e la Techno degli Ottanta. Tra i protagonisti della pellicola alcuni nomi leggendari come Ice-T, Chris “The Glove” Taylor, Egyptian Lover e Super A J che per l’occasione, unendosi nel progetto The Radio Crew, incidono cinque brani racchiusi nell’EP “Breaking And Entering”, a quanto pare pubblicato in appena 25 copie e per questo diventato un vero cimelio per gli appassionati (alcuni di loro si sono dovuti accontentare di un repress realizzato in Germania nel 2005). La parabola dell’Electro Funk va pian piano eclissandosi, anche per la nascita e la diffusione di nuovi generi musicali che fanno passare l’Hip Hop in secondo piano. Tuttavia in Florida nasce il Miami Bass che, sotto la guida di virtuosi del turntablism come Dynamix II, Maggotron e l’italiano trapiantato in America Claudio ‘DJ Debonaire’ Barrella, contribuisce nel tenere vivo, ancora oggi, il ricordo dell’Electro Funk a cui è dedicato per intero il VHS.

Last Shop Standing
Ispirato dall’omonimo libro di Graham Jones e diretto da Pip Piper, Last Shop Standing racconta, come indica il sottotitolo, l’ascesa, la caduta e la rinascita dei negozi di dischi indipendenti (con predilezione per la musica Rock) nel Regno Unito. Realizzato col fondamentale apporto di Blue Hippo Media, il documentario, della durata di circa 50 minuti, esalta il ruolo dei negozi di dischi come luoghi di incontro tra appassionati e centri di diffusione di cultura musicale. L’indagine viene sviluppata visitando numerosi shop in Inghilterra, Scozia e Galles, e determina numeri su cui val davvero la pena riflettere, visto che nell’ultimo decennio sono circa 1540 i negozi di dischi che hanno chiuso battenti oltre la Manica. I “sopravvissuti” sono poco più di 300, e si adoperano per supportare nel migliore dei modi la scena locale, i gruppi (vendendo i biglietti dei loro live) e le etichette indie, preservando il concetto del punto di incontro e scambio di cultura. È da inquadrare in tal contesto quindi la “rinascita” a cui adduce Last Shop Standing, una marginale riaffermazione destinata ad una stretta cerchia di utenza, fatta in primis da cultori, appassionati e collezionisti che non si sono lasciati ammaliare dai nuovi dispositivi e formati digitali. Per tali motivi è necessario interpretare il termine “rinascita”come “nuova genesi” e non “resurrezione”, visto che i parametri caratteristici (come la stretta relazione con l’ubicazione geografica) e di sviluppo dei “nuovi negozi di dischi” sono completamente differenti rispetto a quelli del passato, in cui il vinile apparteneva alla volgare popolarizzazione e all’ordinario consumismo quotidiano di chi, per la musica, non nutriva affatto particolari attrattive. Tra i tanti intervistati anche Norman Cook.

Vinylmania – When Life Runs At 33 Revolutions Per Minute
In 75 minuti il DJ Paolo Campana conduce per mano, anche facendo appello ad esperienze personali, nella storia di un oggetto leggendario per gli amanti della musica, difficilmente rimpiazzabile dai formati “liquidi”: il vinile. Girato a Tokyo, New York, Londra, Parigi e Praga, si avvale dei contributi di musicisti (Philippe Cohen Solal dei Gotan Project), DJ (Kentaro, campione DMC), Jerome Sydenham ed ovviamente collezionisti e negozi che continuano a confidare in tale supporto. Vinyl is still alive. In rete è disponibile solo il trailer.

Tunza Tunza
Girato nel 2002 dal leccese Paolo Pisanelli, Tunza Tunza viene trasmesso da La7 nel 2007, quando ospite in studio è l’allora direttore di Rolling Stone, Carlo Antonelli. Il documentario tratta la musica elettronica italiana, intesa in ogni sua variante e diramazione, attraverso la voce di DJ e produttori sparsi per lo stivale tricolore, da Nord a Sud. A Milano con Lele Sacchi ed Alessio Bertallot, a Reggio Emilia con DJ Rocca, a Roma con Alex Marenga alias Amptek, Andrea Benedetti, Max Durante, Ice One/Sensei e Jollymusic, a Napoli con Rino Cerrone, Danilo Vigorito, Random Noize e Stefano ‘Madox’ Miele (ancora molto lontano dal vestire i panni di Riva Starr), sino a Frosinone con Santos e in Puglia con Nicola Conte e Daniele De Rossi alias Science Force. Tra i vari ed interessanti contributi, segnalo in particolare quello di Benedetti, che definisce la musica elettronica come «Ponte fra diversi modi di approcciare alla composizione creando suoni inesistenti, musica senza connotazioni razziali e di identità» e quello di DJ Rocca, secondo il quale «A volte conoscere e seguire la teoria musicale è un ostacolo per comporre musica elettronica». Non meno importante il pensiero di Bertallot: «L’Italia fa riferimento ad una cultura estera egemone, gran parte della musica che ascoltiamo e che detta le regole del gioco arriva dall’estero». Tutte esternazioni che potrebbero generare interessanti dibattiti.

Strange Wax
Ben Meech affronta la tematica che, ormai da qualche anno a questa parte, tiene banco nelle più fomentate discussioni online: il vinile e il suo ruolo preponderante nella cultura musicale. Nel mini documentario le opinioni si rincorrono, dalla staticità attribuita al CD alle infinite manipolazioni ottenute grazie ai moderni CDJ, che hanno di fatto trasformato la modalità di lavoro del DJ. Nel discorso rientra pure la tecnologia digitale (Serato, Traktor) che ha ulteriormente variato i parametri espressivi a cui si era abituati nel parlare del DJing nelle decadi passate. Si aprono così nuove ed inedite “vie” di mixaggio, che riescono ad interfacciare musica ed immagini e che racchiudono persino l’intera consolle nel palmo di una mano (il Pacemaker, inventato da Jonas Norberg, che lo descrive come «una PlayStation portatile per la musica»). Di sicuro gli amanti del vinile non spariranno del tutto, ma lo standard nella fruizione della musica sembra essere cambiato in modo radicale. Tra i brani in sottofondo, “Strange Wax” del francese I:Cube (tratto dal suo primo album del 1997, “Picnic Attack”), da cui Meech prende il titolo per la sua indagine.

Before The Music Dies
Nonostante non tratti nel dettaglio la musica elettronica, questo documentario del 2006 diretto da Andrew Shapter torna particolarmente utile a chi voglia approfondire tematiche correlate alla transizione fisico-digitale. Il nocciolo dei 95 minuti risiede nella critica all’industria musicale americana rea di aver trasformato la musica, nell’arco dell’ultimo trentennio, in oggetto di mero consumismo, assoggettandola a regole ben precise che davvero ben poco dividono coi nobili intenti artistici. La percezione è quella di una musica deumanizzata e schiava del marketing, troppo spesso preconfezionata, ripetitiva o nulla nella sua declinazione ispirativa, e lontana dalle avvincenti innovazioni del passato. Al topic, che continua a far discutere animosamente, prendono parte, tra gli altri, artisti come Erykah Badu, Eric Clapton ed Elvis Costello, ma il rischio che si corre, sottolineando marcatamente la presunta pochezza dei contenuti odierni, è quello di sostenere l’idea della musica come forma d’arte elitarista, finendo col dare vita ad un parametro di giudizio incapace di leggere con la dovuta razionalità e lucidità i cambiamenti inevitabili che hanno interessato sia musica che artisti, soprattutto nell’ultimo decennio.

Tech Stuff
Realizzati tra 2006 e 2007 per QOOB, piattaforma multimediale di MTV Italia, i dieci mini documentari di Tech Stuff hanno il pregio di condensare ed approfondire, in pochi minuti ma con la massima competenza, tecniche, strumenti ed artisti che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia della musica elettronica. Dal theremin, uno dei primi strumenti elettronici che poteva essere suonato senza il contatto fisico, alla nascita del vinile (lo sapevate che la sua fabbricazione venne perfezionata da un’industria dolciaria statunitense che iniziò ad incidere musica su supporti di cioccolata?), dalla genesi del Moog, considerato il padre dei sintetizzatori, al filtro analogico Sherman Filterbank, dalle drum machine e sintetizzatori Jomox alla teoria della sintesi del suono, dal glaciale Minimal dei finlandesi Pan Sonic (ex Panasonic) alla musica generativa, passando per il centro di ricerca musicale parigino IRCAM e l’istituto di fonologia della RAI fondato da Bruno Maderna e Luciano Berio. Last but not least, l’intervista al compositore Karlheinz Stockhausen, realizzata a Colonia quattro mesi prima della sua scomparsa. Insomma, un vero vademecum che gli appassionati di musica elettronica dovrebbero visionare con molta attenzione. Un plauso è rivolto all’autore, Giorgio Sancristoforo, sound designer, tecnico del suono e docente di Sintesi al SAE, noto nel campo della produzione discografica come Tobor Experiment. Il tutto è disponibile anche su DVD a cui è allegato sia Tech Stuff Insider, un libro di 192 pagine che approfondisce ed integra gli argomenti trattati, sia un software, ideato dallo stesso Sancristoforo, per approcciare alla sintesi del suono. Un must insomma.

Maestro
Diretto e prodotto nel 2001 da Josell Ramos dopo quattro lunghi anni di estenuanti ricerche, Maestro traccia la nascita sia della House a New York, sia del DJ che sostituisce il jukebox. Ad essere descritta minuziosamente è la figura di Larry Levan, morto prematuramente nel 1992, e quella di altri capisaldi e pionieri come Nicky Siano, Frankie Knuckles, David Mancuso, Tony Humphries, Francis Grasso e Steve D’Acquisto (scomparsi entrambi poco tempo dopo aver rilasciato le loro interviste), Boyd Jarvis, John ‘Jellybean’ Benitez, Little Louie Vega, Danny Tenaglia, Robert Clivillés, Derrick May, Danny Krivit, Frankie Bones e François Kevorkian. La figura del DJ viene trattata storicamente, con immagini di repertorio (The Gallery, The Loft) che aiutano a ripercorrere il periodo in cui davvero ogni cosa, anche la più insignificante come l’utilizzo della cuffia, la disposizione degli altoparlanti o il mix tra due brani, rappresentava una novità assoluta. La House appare anche come lo start di rivoluzione sociale a cui partecipano personaggi assai noti, come il pittore Keith Haring ripreso a ballare al Paradise Garage come un semplice clubber, in mezzo ad altre centinaia di ragazzi che si muovono a ritmo di musica.

Mezzanottemezzogiorno
Andrea Bertini racconta l’epopea della cosiddetta Progressive italiana, che conosce il suo maggior splendore alla metà degli anni Novanta grazie alle discoteche toscane, come l’Imperiale di Tirrenia, l’Insomnia di Ponsacco, il Duplè di Aulla, il Jaiss di Empoli e il Tartana di Follonica. Coinvolgendo tantissimi dei nomi che contribuirono alla creazione e sviluppo del movimento in questione (dai vocalist Franchino, Zicky Il Giullare, Luca Pechino e Roberto Francesconi ai DJ Ricky Le Roy, Francesco Zappalà, Roby J, Miki Il Delfino, Mario Più, Gabry Fasano ed Alessandro Tognetti), Mezzanottemezzogiorno ricostruisce il profilo di un particolare momento della scena nostrana, indimenticabile per un grosso numero di nostalgici che lo reputa insuperabile ed ancora imparagonabile a nulla che sia venuto negli anni a seguire. Al DVD, prodotto dalla 3nero ed acquistabile online, è possibile aggiungere un inserto cartaceo a cura dello stesso Bertini e corredato dalle fotografie di Alessandro Bianchi.

Universal Techno
Realizzato in Francia nel 1996 da Dominique Deluze e girato tra Berlino, Sheffield, Tokyo, Barcellona, Londra e Detroit, raccoglie le testimonianze di Aphex Twin, Sven Väth, Dimitri Hegemann (Tresor), Blake Baxter, Juan Atkins, Derrick May, Kevin Saunderson, Mark Bell (LFO), Steve Beckett (Warp Records), Ken Ishii, Autechre, Mike Banks (che, come di consueto, cela il suo volto), Kenny Larkin e Karl Hyde (Underworld). A ciò si sommano immagini di repertorio di Kraftwerk, Tangerine Dream e quelle della Love Parade, del Sonar, del Tresor (ancora nei sotterranei del vecchi magazzini Wertheim), di un affollato Hard Wax e del mitico Submerge. Alla fine anche voi esclamerete a gran voce «Techno is the music of the future!».

Paris/Berlin – 20 Years Of Underground Techno
Diretto da Amélie Ravalec e prodotto da Le Films Du Garage nel 2012, racconta un ventennio di Techno prediligendo quanto nasce e si sviluppa lontano dalle classifiche di vendita, con particolare attenzione su Parigi e Berlino. Per fare ciò si serve delle testimonianze di chi ha tenuto lontano il genere dagli influssi Pop, come Regis, Adam X, Ancient Methods, Milton Bradley, Laurent Garnier, Terence Fixmer, Tama Sumo e l’italiano Luca Mortellaro alias Lucy, fondatore della Stroboscopic Artefacts. In rete c’è solo il trailer ma è possibile acquistare il DVD, la cui edizione è limitata alle 500 copie, per 19.99 €.

Modulations – Cinema For The Ear
Diretto da Iara Lee e prodotto da George Gund, esce nel 1998 in formato VHS e coglie il momento in cui l’uomo entra in simbiosi con le macchine, creando un nuovo genere musicale. Dalle avanguardie di Luigi Russolo e Pierre Henry ai Kraftwerk (che affermano lapidariamente «We are not entertainers, we are sound scientists»), dalla Disco elettronica di Giorgio Moroder all’Electro Funk di Afrika Bambaataa e alla Techno Punk dei Prodigy di Liam Howlett, coi preziosi contributi di alcuni degli artisti più rivoluzionari dell’ultimo trentennio, come Autechre, Squarepusher, Stacey Pullen, Derrick May, Juan Atkins, Kevin Saunderson, Eddie Fowlkes, Coldcut, WestBam, Marshall Jefferson, Arthur Baker, Orbital, Carl Cox, DJ Sneak, Frankie Bones, Moby, Alec Empire, Carl Craig, Derrick Carter, Mike Dearborn, Hardfloor e Future Sound Of London. Da citare anche le interviste all’indimenticato Robert Moog e ai cosmici Can, e le suggestive riprese effettuate nella catena di montaggio della Roland.

High Tech Soul – The Creation Of Techno Music
Nel 2006 Gary Bredow produce questo incredibile film che narra la creazione della musica Techno a Detroit e il suo fortissimo impatto emozionale, attraverso la voce di praticamente tutti i principali “attori” della scena: Derrick May, Juan Atkins, Carl Craig, The Electrifying Mojo, Eddie Fowlkes, Richie Hawtin, Kenny Larkin, Anthony ‘Shake’ Shakir, Jeff Mills, Stacey Pullen, Derrick Thompson, Scan 7, John Acquaviva, Blake Baxter, Kevin Saunderson, Thomas Barnett, Carl Cox e Keith Tucker. Immancabili i ritratti sulla triade (Juan Atkins – The Originator, Derrick May – The Innovator, Kevin Saunderson – The Elevator) a cui si aggiunge Eddie ‘Flashin’ Fowlkes – The Godfather Of Techsoul, forse ingiustamente escluso da quella triade a cui convenzionalmente si attribuiscono i meriti dell’ideazione e primo sviluppo della Techno. Altro ruolo importante messo in risalto è quello dell’Europa, che supporta (e favorisce la diffusione) della Techno offrendo elementi che Detroit non aveva, come una più solida organizzazione dei party resa possibile da sponsor di rilievo e condizioni socio-culturali differenti. Fu comunque la “città dei motori”, con la sua cultura industriale, ad offrire gli spunti necessari affinché fossero mossi i primi passi nell’ideazione della musica del futuro. Completano il tutto i contributi di altri rispettabili nomi, come Sam Valenti della Ghostly International, Matthew Dear, Claus Bachor e Delano Smith, ma forse sarebbe valsa la pena parlare in modo più approfondito di Underground Resistance e dei Drexciya, stranamente neanche nominati.

Synth Britannia
È BBC Four a trasmettere, nel 2009, questo documentario che analizza il momento in cui gli strumenti elettronici iniziano seriamente a mutare il corso della musica. Dalla colonna sonora di A Orange Clockwork – Arancia Meccanica da noi- ad opera di Wendy Carlos commentata da Richard H. Kirk (Cabaret Voltaire), Bernard Sumner (Joy Division/New Order) e Philip Oakey (The Human League), ai Kraftwerk (i Beatles dell’elettronica!) che parlano attraverso la voce di Wolfgang Flür. A seguire altre monumentali presenze della “musica sintetica”, come Andy McCluskey (Orchestral Manoeuvres In The Dark), John Foxx e Midge Ure (Ultravox), Throbbing Gristle, Gary Numan, Depeche Mode, Dave Ball (Soft Cell), Pet Shop Boys, Alison Moyet (Yazoo) e Daniel Miller, che nel 1978 incide una pietra miliare come The Normal e che fonda la Mute Records, una fucina per artisti con idee avanguardiste. È il momento in cui i musicisti del post Punk, affascinati anche dalla fantascienza e dai racconti sul mondo del futuro, decidono di deporre le chitarre elettriche e le classiche batterie per intraprendere un nuovo percorso con sintetizzatori e drum machine elettroniche. La musica inizia ad essere “sequenziata” ed allora la scena europea viene percorsa da un intenso fremito innovatore, un “nuovo vento”, che partorisce uno dei fenomeni più rilevanti nella storia musicale, la New Wave.

Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance
È la retrospettiva accurata sull’Italo Disco curata da Pierpaolo De Iulis (autore dell’altrettanto minuzioso Crollo Nervoso – La New Wave Italiana Degli Anni 80), che indaga sul passato con cognizione di causa coinvolgendo molti di quelli che alimentarono lo sviluppo e l’affermazione della Dance nostrana nel mondo. Da produttori come Roberto Turatti, Oderso Rubini, Claudio Cecchetto e il compianto Severo Lombardoni ad artisti come Alexander Robotnick, Albert One, Den Harrow, Fred Ventura, Savage, Stylóo, Gazebo e P. Lion: tutti insieme per raccontare la nascita e il tramonto di un fenomeno musicale oggi ancora (molto) attrattivo per chi vive oltre le Alpi. Dall’euforia dei primi anni all’indifferenza degli ultimi, con interventi di Carlo Antonelli (Rolling Stone).

MFS Berliner Trance
Prodotto da Ben Hardyment nel 1993 e della durata di circa mezz’ora, riassume la genesi della Trance attraverso la MFS (acronimo di Masterminded For Success), l’etichetta fondata a Berlino nel Dicembre 1990 da Mark Reeder e tra le prime a pubblicare musica di quel tipo. Dai party underground della Berlino Est (1986) alla caduta del Muro (1989) di cui scorrono epocali immagini, per comprendere a fondo quali siano state le ragioni di una mutazione sociale e musicale talmente radicale da non conoscere precedenti. Fu la mezzanotte della Germania, lo zero da cui ripartire, e la Trance, nella sua fase più psichedelica, sembrò uno dei generi più adatti a fare da colonna sonora di quel momento storico. Ad esporre le ragioni di tutto ciò sono personaggi-chiave del movimento, non solo tedeschi, come Paul van Dyk, Dr. Motte, Laurent Garnier, Mijk Van Dijk e Paul Browse (Clock DVA), “incorniciati” da immagini di repertorio dell’E-Werk e della Love Parade. Il finale rende perfettamente omaggio al concetto di “rinascita”.

Pioneers Of Electronic Music: Richie Hawtin
2006: la tedesca Electronic Beats, già artefice della saga Slices, lancia il primo (e sinora l’unico) documentario dedicato ai pionieri della musica elettronica e realizzato da Holger Wick (fondatore della Labworks Germany) e Maren Sextro. La scelta cade sull’inglese trapiantato in Canada Richie Hawtin, descritto dai genitori Brenda e Mick, e da personaggi d’eccezione come Daniel Miller della Mute, Derrick May, John Acquaviva, Kevin Saunderson, Mike Banks e Sven Väth. Tra i video anche la registrazione di un live tenuto a Detroit dai Cybersonik nel 1990.

We Call It Techno!
Sono i sopracitati Wick e Sextro a produrre, nel 2008, questo documentario, con lo scopo di raccontare il fiorire della Techno in terra tedesca. Al suo interno c’è praticamente tutto quello da sapere, dalla Love Parade di Dr. Motte in poi. Tanti i nomi coinvolti, come Mijk Van Dijk, Peter ‘Upstart’ Wacha (Disko B), Sven Väth, Triple R, Ata, Hell, Wolfgang Voigt, Tanith, Cosmic Baby, Dimitri Hegemann, Marc Acardipane, Talla 2XLC, Tobias Lampe e molti altri. In rete trovate solo il trailer, ma in circolazione c’è il DVD.

Summer Of Rave
La BBC lo manda in onda nel 2006 per approfondire quanto accadde nell’estate del 1989, anno in cui i Rave sbarcano ufficialmente nel Regno Unito. La stagione degli smiley gialli mina la tranquillità costruita dalla “lady di ferro” Margaret Thatcher, seppur il suo mandato fosse ormai agli sgoccioli. A raccontare come andarono i fatti sono, tra gli altri, i DJ Dave Haslam, Fabio e Lisa Loud, Tintin Chambers e Jeremy Taylor (tra i primi promoter degli acid party), l’imprenditore discografico Pete Waterman, e il proprietario dell’Haçienda di Manchester, Anthony Wilson. Il 1989 è un anno cruciale per gli equilibri politici europei e mondiali: cade il Muro di Berlino, si conclude la Guerra Fredda, il sindacato polacco Solidarnosc viene riconosciuto legalmente e partecipa alle elezioni governative, a Pechino si consumano le proteste in piazza Tienanmen. Si prospetta una nuova età, e sia la House che la Techno sembrano cavalcare il concetto di novità assoluta, quindi calzano a pennello per accompagnare la generazione nel nuovo decennio, gli attesi anni Novanta, in cui si ripongono grandi speranze. Band come The Stone Roses indicano i confini del nuovo Pop elettronico, che fa ingresso anche nei club. I Rave, allora, sembrano cambiare il volto del mondo, ma le problematiche a loro annesse relative all’uso di nuove droghe e all’ordine pubblico contribuiscono ad ingigantire la netta opposizione dei benpensanti.

Documentaires Sur La Techno
Messo in onda nel 1999 dal canale televisivo culturale franco-tedesco Arte (Association Relative à la Télévision Européenne), documenta la nascita della Techno mediante la voce di DJ Spooky e DJ Hell. Doppiato in francese.

Techno Story (Parte 1 / Parte 2 / Parte 3 / Parte 4 )
La storia della Techno redatta nel 2004 da Pascal Signolet in cinque atti: a raccontarla lo storico/antropologo Sylvain Desmille, il musicologo/critico Daniel Caux (RIP), l’organizzatore Manu Casana, i produttori Sebastian ’69db’ Vaughan, Pompon Finkelstein, Teknokrates ed Heretik, il giornalista Vincent Borel, il label manager Arnaud Friche ed ovviamente i DJ, come Laurent Garnier, Jérôme Pacman, Manu Le Malin e l’ospite Jeff Mills. In sottofondo passano in rassegna molti brani che hanno decretato l’avvento della musica “spaziale e futuristica”, e questo aiuta a focalizzare meglio il tutto. Solo in lingua francese.

Detroit – Blueprint For Techno
Risale al 2000 questo (raro) filmato in cui Derrick May, Richie Hawtin, Mike Huckaby, Juan Atkins, Kevin Saunderson, Terrence Parker e Carl Craig raccontano come a Detroit si passa dal Soul, Funk ed R’n’B della Motown alla Techno di Metroplex, Axis, Transmat ed Underground Resistance.

196 BPM
196 BPM (2003) è il primo dei film-documentari appartenenti alla Club Land Trilogy di Romuald Karmakar, insieme a Between The Devil And The Wide Blue Sea (2005) e Villalobos (2009), che rivolgono l’attenzione al mondo della musica elettronica sottolineando preferenze ed esperienze di una nuova generazione di DJ, musicisti e performer. Seppur girato durante la Love Parade del 2002, evita di evidenziare il numero dei partecipanti e la loro frenesia, preferendo il focus sulla musica. Dall’intro di 3 minuti (girato di fronte alla discoteca Linientreu) al Gabba di 7 (registrato in Breitscheidplatz, nel caratteristico quartiere di Charlottenburg dove il DJ Lamagra si esibisce nei pressi di un chiosco di kebab), si giunge al fulcro del film, i 50 minuti di Hell At Work, in cui il veterano Hell, tra i capostipiti della DJ culture tedesca, è in azione presso il WMF durante una Gigolo Night mentre suona la musica che ha reso popolare la sua International Deejay Gigolo in quegli anni, un mix tra Techno, House, Electro, Punk e Pop dalle venature retrò. Karmakar ed Hell avevano già collaborato in passato: il DJ infatti, nel 1996, compone “Totmacher” e “Music For Films” (entrambi finiti nel catalogo Disko B) per il drammatico Der Totmacher. Ps: in rete è disponibile solo un estratto di una manciata di minuti.

Between The Devil And The Wide Blue Sea
Between The Devil And The Wide Blue Sea (2005) è il secondo film-documentario di Romuald Karmakar appartenente alla Club Land Trilogy, insieme a 196 BPM (2003) e Villalobos (2009), tutti caratterizzati dall’utilizzo di una videocamera a mano, con registrazioni quasi amatoriali, anche per il montaggio realizzato in tempi e luoghi diversi. La scelta è dettata dalla voglia di riuscire a penetrare con più forza ed intensità nel mondo della musica elettronica contemporanea, senza edulcorarlo con effetti tipici del cinema. Tra i protagonisti, Alter Ego, Captain Comatose, Fixmer/McCarthy, Tarwater, Cobra Killer, T. Raumschmiere, Lotterboys ed XLover, tutti ripresi durante le loro inebrianti live performance.

Villalobos
Villalobos è indubbiamente il più chiacchierato film-documentario della Club Land Trilogy di Romuald Karmakar. Presentato e proiettato nel 2009 durante la 66esima edizione del Festival del Cinema di Venezia (nella categoria Orizzonti), racconta la vita dell’artista cileno trapiantato in Germania, snocciolando aneddoti, curiosità e scene tratte dalla vita quotidiana divisa tra lo studio e le serate tenute nei club di tutto il mondo. Nonostante il grande interesse suscitato, a quattro anni dalla sua realizzazione il film non è ancora stato ancora distribuito in alcun formato (cinema, tv, DVD) ma solo proiettato in alcuni festival in differenti Paesi. Pare che il motivo risieda nella mancata autorizzazione di alcune scene e brani sotto copyright. La casa di produzione berlinese Pantera Film ha recentemente dichiarato che non ci sono ancora novità in merito alla possibile diffusione di Villalobos, che appartiene alla schiera di quei film “indie” la cui vita viene talvolta martoriata da problemi di natura burocratica.

Fraktus – Das Letzte Kapitel Der Musikgeschichte
Nelle sale a novembre 2012, il film diretto da Lars Jessen è in realtà un falso documentario (un mockumentary, come si dice in gergo) che rivede la storia della Techno portando alla ribalta una (fittizia) band tedesca, i Fraktus per l’appunto, a cui secondo più autorevoli fonti andrebbe attribuito il merito di precursori del genere. Nonostante la breve parabola operativa, interrotta bruscamente da un incendio in un locale di Amburgo che nel 1983 distrugge tutti i loro strumenti autocostruiti, molti DJ e musicisti riconoscono ai Fraktus lo status di precursori della Techno-elettronica: da WestBam ad H.P. Baxxter (Scooter), da Alex Christensen (U96) a Dieter Meier degli Yello e Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten. Sebbene sia tutto ironicamente falso, la pellicola stimola un dibattito importante in merito alla geolocalizzazione della nascita di un genere multiverso come la Techno.

TSOB – The Sound Of Belgium
Il Belgio ricopre nella storia della musica elettronica un ruolo non meno importante rispetto a Paesi come Inghilterra, America e Germania, che spesso esercitano un’egemonia culturale. TSOB parte, anche con l’ausilio di immagini storiche, dalle balere e dancing degli anni Sessanta dove si ballava al ritmo del cosiddetto Popcorn, un misto tra Soul, Ska, RnB e ritmi di origine latina (ascoltate “Comin’ Home Baby” di Mel Tormé, del ’62, per farvi un’idea), per giungere alle avanguardie di taglio elettronico dei Telex descritte da Dan Lacksman, alla New Beat dell’iperprolifico Herman ‘Sherman’ Gillis e alla Techno di CJ Bolland, inglese di nascita ma trapiantato ad Anversa sin da tenerissima età. Negli anni Ottanta alcuni compositori belgi decidono di seguire la personalizzazione dell’indirizzo New Wave/Synth Pop di band britanniche come Depeche Mode, Human League o Visage, che sfocia nell’EBM, l’Electronic Body Music, che vede i ritmi irrigiditi da referenze Industrial e Punk e le atmosfere oscurate. La paternità del genere viene divisa tra i tedeschi Liaisons Dangereuses e i Deutsch-Amerikanische Freundschaft (meglio noti con l’acronimo D.A.F.), gli inglesi Nitzer Ebb e i belgi Front 242, ispirati a loro volta da Cabaret Voltaire e Throbbing Gristle. Poi, a metà decennio, quando la Guerra Fredda vede un pericoloso inasprimento, in Belgio viene sviluppata una nuova corrente detta New Beat, che mischia ancora i generi (EBM, New Wave, Punk). “Flesh” di A Split – Second, del 1986, diventa un disco-manifesto. La Antler Records e la sublabel Subway (dal 1989 unite nel marchio Antler-Subway) contribuiscono alla diffusione del genere a cui aderiscono anche vari DJ, musicisti e produttori (come Jo Casters) attratti dalle nuove possibilità creative offerte dai sequencer che girano sull’Atari ST (Notator) e dai campionatori (Akai S-1000). Locale simbolo è il Boccaccio di Destelbergen, poco distante da Ghent. Nel 1988 iniziano a scalpitare la House e la Techno, giunte dall’America e riconfezionate in varie località europee. A fare da collante tra New Beat, Techno, Acid ed House, sono i Confetti’s di Serge Ramaekers, i Technotronic di Jo Bogaert, i Lords Of Acid e i 101 di Nikkie Van Lierop, e Frank De Wulf coi suoi numerosissimi alias. Menzione a parte per la R&S Records di Renaat Vandepapeliere e Sabine Maes, e per la Music Man Records, che diventano veri e propri baluardi pubblicando brani leggendari. Nei Novanta, quando sia Techno che House vedono la consacrazione anche sotto il profilo commerciale, il Belgio non manca di offrire novità che però, per ovvi motivi, tendono a seppellire la New Beat. È tempo allora della Techno dei Quadrophonia e dei T99 ma pure della Trance più imperiosa firmata dai Cherry Moon Trax e da altri alfieri messi sotto contratto dalla Bonzai Records tra cui Yves Deruyter, Franky Jones, M.I.K.E. e Marco Bailey. È belga anche la DiKi Records, etichetta che nel 1990 pubblica “The Age Of Love” degli italiani Age Of Love, considerato uno dei primi dischi di genere Trance. TSOB, diretto da Jozef Devillé, raccoglie numerosi contributi (Sven Van Hees, Eddy De Clercq, Renaat Vandepapeliere, José Pascual, Lou Deprijck, Eric Beysens, Rocco Granata) a cui vanno sommate le visioni giunte dall’estero di Cisco Ferreira, Joey Beltram e Ken Ishii. Attualmente viene proiettato in diversi cinema europei. Per ulteriori informazioni cliccate su www.tsob.be

TB-303 Documentary – Bassline Baseline
Nel 2005 Nate Harrison racconta la storia di uno degli strumenti più popolari fabbricati dalla giapponese Roland, la TB-303 Bass Line. Inventata da Tadao Kikumoto, che mette a punto anche un’altra pietra miliare, la TR-909, la TB (Transistor Bass) doveva servire ai chitarristi in cerca di un accompagnamento al basso in caso di performance soliste. L’azienda di Ikutaro Kakehashi la produce per circa 18 mesi (1982-1984), vendendone intorno alle 10.000 unità al prezzo di 400 dollari. L’idea dei tempi era quella di automatizzare alcune operazioni sino a quel momento eseguibili solo dai musicisti, ed infatti in quello stesso periodo sul mercato giunge la TR-606 Drumatix, simile alla 303 anche nell’aspetto. Una sola persona, quindi, era messa nella condizione di programmare autonomamente ritmi e sequenze di basso, inaugurando il concetto di “band virtuale”. La TB-303 però è destinata a raccogliere consensi solo nella seconda metà del decennio e ormai fuori produzione, quando alcuni DJ e produttori di Chicago la ricollocano in un nuovo genere musicale, la House. Utilizzando i filtri di cui è dotata come cutoff, resonance, decay, accent e tuning, dalla TB-303 si sviluppa un nuovo filone, l’Acid, che convenzionalmente nasce nel 1987 con “Acid Tracks” dei Phuture, seppur negli anni precedenti ci siano state intuizioni molto simili (come quelle dell’indiano Charanjit Singh, nel 1983). Harrison passa in rassegna alcuni dei brani che utilizzano la TB-303 nel modo in cui fu pensato da Kikumoto (Imagination, Paul Haig, Newcleus) ma arriva a parlare dell’Acid House e del ruolo che questa ebbe sulla cultura Rave europea a partire dal 1988, grazie ad 808 State, KLF e Plastikman sino a giungere a Massive Attack, The Black Dog, Aux 88, Prodigy e Madonna. Nonostante le pressanti richieste, la Roland decide di non produrre più la TB-303, di cui riadopera parzialmente lo schema di alcuni circuiti per la Groovebox MC-303, nel 1996. I prezzi sul mercato dell’usato subiscono quindi un’impennata vertiginosa, e c’è pure chi studia modifiche aggiungendo nuovi dispositivi (il più celebre custom model resta il Devil Fish realizzato dall’australiano Robin Whittle). Nel contempo altre aziende approntano prodotti simili, sia in formato hardware che software. Tra i più utilizzati ReBirth, MAM MB 33, x0xb0x, Doepfer MS-404, Technosaurus Microcon, BassLine di AcidLab e la recentissima TT-303 di Cyclone Analogic, identica all’originale nell’aspetto esterno.

Rotterdam Electric City
Realizzato nel 2006 in occasione del REMF (Rotterdam Electronic Music Festival), Rotterdam Electric City è il DVD, distribuito gratuitamente, con cui ci si può fare un’idea generale su quanto accade nella città olandese. In circa tredici minuti passano in rassegna molti volti noti, da Speedy J a Michel de Hey, da Secret Cinema a Joris Voorn, da Serge Verschuur della Clone a Gert Jan Bijl, Alden Tyrell ed altri. Non mancano le visite nei negozi di dischi, visto che Rotterdam resta una delle (poche) città europee maggiormente legate alla cultura del vinile. Il package contiene anche un CD con 15 tracce.

Slices
Partita nel 2005, la saga Slices analizza costantemente la scena elettronica mondiale senza porsi alcuna barriera stilistica. Pubblicati con cadenza trimestrale, i DVD offrono davvero un repertorio invidiabile, che con disinvoltura passa dai Funkstörung ad Acid Maria, dai Nightmares On Wax a Matthew Dear, da A Guy Called Gerald a Richie Hawtin & Ricardo Villalobos, da Anthony Rother a DJ Rush sino a Dakar & Grinser, Like A Tim, Hell, Loco Dice, Alexander Robotnick, Underground Resistance, Patrick Pulsinger, Luke Slater, Octave One, Mr. Velcro Fastener, Sven Väth e davvero tantissimi altri. Sebbene gli Slices siano disponibili gratuitamente, la professionalità con cui vengono realizzati, sia tecnicamente che artisticamente, è notevole.

What The Future Sounded Like
A Matthew Bate bastano meno di trenta minuti per descrivere la nascita della musica elettronica in Inghilterra. Per farlo tira in ballo esperti come il sociologo Trevor Pinch, autore del libro “Analog Days: The Invention And Impact Of The Moog Synthesizer”, Peter Zinovieff, David Cockerell e il compianto Tristam Cary, fondatori della Electronic Music Studios che inizia a fabbricare sintetizzatori nel 1969 col mitico VCS3, e il compositore Mark Ayres, quello della serie televisiva Doctor Who. Immagini di archivio ci mostrano come un tempo gli studi di registrazione fossero paragonabili alle cabine di pilotaggio di astronavi, e come le stesse composizioni fossero più simili ad esperimenti che a brani musicali come siamo abituati ad intenderli oggi, con una struttura definita ed omologata. Interessante anche il contributo di Dave Brock degli Hawkwind che mostra il suo studio-museo, e di Andy Meecham alias The Emperor Machine, in azione sui titoli di coda.

Inside House
Firmato dalla Carl H Productions, racconta la House attraverso la voce di Kerri Chandler, Dimitri From Paris, Mr. V, DJ Gregory, Franck Roger, Frankie Feliciano ed altri, ma il livello di narrazione appare sconnesso e penalizzato da un montaggio tutto fuorché egregio. Pare comunque che si tratti di una versione test.

Technocity Berlin
Girato nel 1993, inizia tra le mura di uno dei negozi di dischi più celebri della città, Hard Wax. In quegli anni Berlino vive la rivoluzione del post-Muro, sia sul piano sociale che musicale. È emozionante entrare nello studio di Mijk Van Dijk ed osservarlo mentre armeggia con un floppy disk su cui sono incisi dei sample. Sullo sfondo, invece, il classico “armamentario” dei tempi, costituito in prevalenza da macchine Roland. Non meno importanti le testimonianze di due tra i principali agitatori della nightlife berlinese dei tempi, Rok e Marusha.

STREETrave
Il video, realizzato nel 2009, è dedicato a STREETrave, team/brand che organizza i rave party in Scozia dal 1989 al 1995. Quasi d’obbligo il materiale d’archivio, girato in location come Ayr Pavilion, Prestwick International Airport e The Arches, a cui si sommano i contributi di alcuni DJ che, ai tempi, presero parte agli eventi (Carl Cox, Jeremy Healy, John Digweed, Graeme Park, K-Klass, Hooligan X, Jon Mancini, Iain ‘Boney’ Clark) e di vari clubber che ricordano quegli straordinari momenti passati alla storia.

The UnUsual Suspects: Once Upon A Time In House Music
È il DJ americano Irwin Larry Eberhart, in arte Chip E., ad ideare il film che racconta la nascita della House di Chicago e di come questa abbia radicalmente cambiato l’atmosfera nei locali da ballo di tutto il mondo. Precursore anche in ambito discografico (la sua “Like This” esce nel 1985 sulla D.J. International Records di Rocky Jones), Eberhart, affiancato per l’occasione da Kimmie D, mette su un cast di tutto rispetto, dalla compianta Loleatta Holloway a Steve ‘Silk’ Hurley, da Marshall Jefferson a Frankie Knuckles, da Jesse Saunders a Larry Heard passando per Joe Smooth, Robert Owens, Glenn Underground, Victor Simonelli, Vince Lawrence, Terry Hunter, Ralphi Rosario, Farley “Jackmaster” Funk ed altri ancora che hanno dedicato la propria vita alla musica House, trasformandola in vero e proprio fenomeno culturale.

Italo House Story
Ideato da Maurizio Clemente, narra la storia della House in Italia tirando in ballo praticamente tutti coloro che, nel nostro Paese, hanno avuto (ed hanno ancora) voce in capitolo. Da Claudio Coccoluto a Daniele Davoli, da Flavio Vecchi a Franco Moiraghi, da Gianni Morri a Joe T. Vannelli, da Luca Trevisi a Massimino Lippoli passando per Ralf, Paolo Martini, Ricky Montanari, Sandro Russo, Vincenzo Viceversa e davvero molti altri.

Hip House Documentary
Girato nel 1989 e messo a disposizione da Martin Luna (Mix Masters), mette a fuoco il particolare momento dell’Hip House, ibrido nato dalla sovrapposizione tra ritmi House e liriche Hip Hop. La fortuna di questo stile è decretata da artisti come Fast Eddie e Tyree Cooper, supportati da Rocky Jones che convoglia le loro produzioni su D.J. International Records ed Underground. Quel connubio, detto anche Rap House, fece bene sia alla House che all’Hip Hop, perché portò ulteriori novità nell’ambito della musica dance che in quegli anni subiva una radicale trasformazione. La spiccata caratterizzazione però non consente all’Hip House di durare molto, anche se in Europa ci sono gruppi ed artisti come Snap!, Twenty 4 Seven e Dr. Alban che ne raccolgono l’ispirazione per traghettare il tutto in contesti Eurodance. Oltre ai citati Fast Eddie, Tyree Cooper e Rocky Jones, il video offre le testimonianze di altri mentori di quel periodo, come KC Flightt, Bill Coleman, Precious e Sundance.

Krautrock – The Rebirth Of Germany
Germania, 1945. Possiamo considerarlo il primo dei due anni zero (il secondo sarà il 1989), giacché la Seconda Guerra Mondiale ha trasformato la nazione in un cumulo di macerie. Probabilmente fu proprio quella radicale distruzione ad innescare un’altrettanto radicale trasformazione in ambito musicale. Tra il 1968 e il 1977 band come Amon Düül, Can, Neu!, Faust, Tangerine Dream, Ton Steine Scherben, Kluster, Kraftwerk ed altre ancora oltrepassano la soglia del Rock n Roll, creando uno dei generi più originali che si siano mai potuti ascoltare. Tutti avevano un obiettivo comune, archiviare il raccapricciante passato della loro nazione anche se la stampa angloamericana sembrò non aver affatto voglia di fare ciò con la stessa velocità. Le novità teutoniche, che come raccontano John Weinzierl e Renate Knaup degli Amon Düül, non intendevano affatto replicare lo stile inglese ed americano, vennero presto bollate. Dall’estero giunse la definizione denigratoria Krautrock, che ignorava quanto stesse accadendo nelle partiture scritte da quei gruppi. La voce usata come strumento, le stesure prolungate, i suoni esoterici e psichedelici. Per i più, però, restava una “non musica”, oppure il “Rock di chi mangiava crauti”. Il Krautrock era animato da ideologie politiche e da un assoluto senso di libertà, come descrive Daniel Fichelscher dei Popol Vuh: probabilmente fu l’improvvisazione e l’estemporaneità ad alimentare in modo significativo le ispirazioni di quella fase storica. Rilevante la testimonianza di Wolfgang Flür dei Kraftwerk che, dopo essere tornato dove un tempo c’era il Kling Klang Studio, a Düsseldorf, descrive l’approccio che riservavano alla musica in quegli anni: «Si andava in autostrada anche senza averne reale necessità, solo per divertimento, per provare l’ebbrezza della velocità su una strada grande e sempre diritta. Aprendo il finestrino si ascoltavano tanti suoni nuovi, il vento, il rombo delle auto, le fronde degli alberi che si muovevano per lo spostamento d’aria. Noi portammo tutto ciò in musica» (“Autobahn”, 1974). Una visione del tutto nuova, che metteva in comunicazione e relazione l’avvento tecnologico, le emozioni da esso scaturite, e la musica. I contributi di Klaus Schulze, Edgar Froese, Wolfgang Seidel, Hans-Joachim Roedelius, Dieter Moebius, Holger Czukay, Jaki Liebezeit, Damo Suzuki, Ralf Hütter, Michael Rother, Iggy Pop, Werner Diermaier e Jean-Hervé Peron contribuiscono a dare ulteriore autorevolezza al documentario trasmesso da BBC Four. Krautrock: un suono utopico, una rivoluzionaria avventura sonica libera nello spazio-tempo che probabilmente cercava la sua essenza nell’inconscio.

Rise Of The Bedroom Producer
Una delle parole-chiave dei tempi che viviamo è sicuramente accessibilità. Oggi praticamente tutto è raggiungibile grazie al web: dalle informazioni su qualsiasi cosa all’acquisto di un qualsiasi oggetto, anche raro. Ma l’accessibilità interessa anche la sfera musicale. Gli studi multimilionari delle decadi passate sono stati soppiantati dagli home studio da poche migliaia di euro, con cui è possibile davvero fare di tutto. Certo, non bisogna cadere nell’errore di pensare all’accessibilità come porta automatica per il successo. Un conto è tentare di comporre un brano, un conto è realizzarlo coi sacri crismi, tecnicamente ed artisticamente. Le macchine non hanno mai fatto miracoli da sole. Il video, diretto e prodotto da Mo Taha nel 2011, racconta in quindici minuti attraverso la voce di Lynx, Macca e Foreign Concept, la dimensione dei cosiddetti ‘bedroom producer’, coloro che trasformano la propria cameretta in uno studio di registrazione e tentano la carriera, adoperando un computer, un sintetizzatore o una tastiera muta per pilotare il suono di innumerevoli VST, un mixer, due casse ed una cuffia. Arduo stabilire se ciò sia un pro o un contro, perché il risultato è relazionato all’approccio che la persona riserva alla materia, e non al mezzo o alle formule tecnologiche di cui si avvale.

The History Of Electronic Music (Parte 1 / Parte 2 / Parte 3 / Parte 4 / Parte 5 / Parte 6 / Parte 7 / Parte 8 / Parte 9 / Parte 10 / Parte 11 )
Prodotto nel 2005 da Picture Puzzle Medien e dalla Adam & Eve Records, narra, come suggerisce il titolo stesso, la storia della musica elettronica prediligendo, per ovvie ragioni, le testimonianze di artisti tedeschi. Tantissimi i nomi coinvolti: Hans Nieswandt, Talla 2XLC, Mousse T., Little Louie Vega, Afrika Islam, Joey Beltram, WestBam, Phats & Small, Sven Väth, Tyree Cooper, Boris Dlugosch, Phil Fuldner, Alex Gopher, Paul Van Dyk, Milk & Sugar, DJ Dag, Tom Novy, Richie Hawtin, Moguai ed Etienne De Crécy. In linea di massima non aggiunge grandi contenuti a quanto già espresso in altri documentari, e la disponibilità nella sola lingua tedesca rappresenta un ulteriore limite nella condivisione su scala globale.

Discovering Electronic Music
Corre il 1983 quando la Barr Films produce e Bernard Wilets dirige questo documentario. Sono gli anni in cui il computer proietta nell’immaginario collettivo il concetto di futuro. L’intro recita: «Viviamo un’epoca in cui le macchine entrano a far parte della nostra vita. Non è sorprendente quindi che la musica venga influenzata anche dalla tecnologia». Ogni suono di quella musica è prodotto elettronicamente e non più dalle vibrazioni di un corpo in oscillazione. Il compositore si ritrova quindi ad agire in una dimensione completamente nuova, non più legato all’atto di scrivere manualmente le note sul pentagramma bensì a quello di programmare macchine con l’ausilio di pulsanti, leve, manopole e penne elettroniche da usare sul monitor. Tutto ciò apre scenari inimmaginabili, e le potenzialità compositive subiscono un radicale ampliamento anche grazie all’oscillatore dei sintetizzatori che produce forme d’onda diverse, e quindi aumenta le combinazioni sonore. Gli strumenti tradizionali generano un suono distintivo, quelli elettronici invece sono soggetti a modifiche con filtri come envelope o decay, che permettono ogni tipo di personalizzazione. È persino possibile utilizzare il rumore di un jet, la propria voce o quello di un qualsiasi altro strumento immagazzinato nella memoria del computer per eseguire una melodia. E un uomo solo può far suonare contemporaneamente gli strumenti di un’intera orchestra. I tradizionalisti e i conservatori, ovviamente, restano sbigottiti.

Rave Culture 1991
Nonostante duri meno di cinque minuti, è un interessante flash sull’esplosione europea della Techno, avvalorato dall’intervista ad uno dei responsabili di ciò, Liam Howlett dei Prodigy, e ad uno che giunge invece dall’altra parte dell’Atlantico, Kevin Saunderson. Altri scorci sul mondo dei Prodigy e dei Rave dei primi anni Novanta sono qui.

Spun Out
Diretto e prodotto da Bahar Canca Barrett, coadiuvata nella ricerca da Evy Magoulas, Spun Out narra il mondo dei DJ: dai brani da inserire nella selezione (importantissimi, perché conferiscono identità, caratteristica che invece troppo spesso fa sentire la sua assenza) al tipo di sequenza da applicare al proprio set per far si che questo risulti sempre coinvolgente, dalla stretta relazione tra clubber e consumo di sostanze stupefacenti al divismo dei top DJ di oggi, con popolarità paragonabile a quella delle Rock e Pop star. Il tutto discusso da personaggi più e meno noti della scena britannica: tra i tanti David Piccioni, Matt Williams, Chad Jackson (vincitore del campionato DMC nel 1987), Bill Brewster, Anne Savage, Judge Jules, Mike Koglin, Simon Patterson, Tom Neville, BK, Mr. C. e il compianto Martin Dawson.

The Show Business
Le nuove tecnologie hanno creato molte professioni (basti pensare a ruoli come channel manager, all-line advertiser, web analyst, e-reputation manager, search engine optimizer, transmedia web editor, community manager e content curator) e nel contempo hanno contribuito a modificarne alcune di quelle passate. Tra queste il DJing, oggetto di sostanziali mutazioni. Non più defilato come negli anni Settanta, Ottanta e parzialmente nei Novanta, oggi il DJ è un trascinatore di folle (anche immense), e in certi casi è comparabile ad un vero e proprio brand che genera introiti economici a molti zeri e popolarità da jet set. In tal contesto rientrano elementi una volta completamente ignorati, come il logo ideato da un designer, la cura del look e il marketing in generale, andando a ribaltare radicalmente la convinzione che il successo possa essere decretato da un mix di casualità e fortuna. Il documentario di Carlo Toto aka Replayman indaga in tale direzione, analizzando la tematica su vari fronti e con diversi personaggi italiani: dal rapper Livio Cori al DJ Marco Corvino, dal produttore Luca De Gregorio alla DJ/speaker radiofonica Renèe La Bulgara passando per i compositori e live performer Alien Cut. Certo, di alcuni luoghi comuni ne avremmo potuto tranquillamente fare a meno (il “vero DJ” è solo quello che usa i vinili, la tecnologia semplificatrice che sostituirebbe con altrettanta facilità le qualità artistiche, attribuire in modo approssimativo delle virtù a chi c’era in passato solo in riferimento alla dimensione temporale), ma The Show Business pone l’accento su un aspetto importante: spesso, per trasformare la passione in business, non basta la determinazione ma si è costretti ad accantonare gli stimoli e le ispirazioni iniziali al fine di seguire le regole del mercato, che poi alla fine è proprio quello che incorona i vincitori.

Moog
Il musicista e filmmaker Hans Jorgen Fjellestad dirige il documentario dedicato ad uno degli uomini che hanno mutato il corso della musica, Robert Arthur Moog, detto Bob. L’idea di Fjellestad è quella di unire le testimonianze di Moog a quelle di vari artisti che lo ritengono una figure-chiave, come Charlie Clouser (Nine Inch Nails), Keith Emerson, Mix Master Mike (Beastie Boys), Luke Vibert, Rick Wakeman (Yes), Gershon Kingsley e Bernie Worrell (Parliament-Funkadelic). Al continuum storico tipico del documentario, il regista preferisce un collage indipendente dalla successione cronologica degli eventi. Tra i passaggi clou, sicuramente le performance di Mix Master Mike (intorno al minuto 22), un vero virtuoso del turntablism, e quelle di Clouser e dello stesso Moog, mentre suonano il theremin. Realizzato nel 2004, in occasione del cinquantesimo anniversario d’attività della Moog Music Inc, “Moog” vince, quello stesso anno, il Barcelona Inedit Film Festival come miglior documentario. Giusto in tempo per essere visto da Bob Moog, spentosi il 21 Agosto 2005 a 71 anni, stroncato da un tumore cerebrale.

Direct 2 Dance
Corrono i primi mesi del 1997 quando la bresciana Media Records, in collaborazione con Impulse Multimedia, commercializza al costo di 35.000 lire il CD-Rom “Direct 2 Dance”. Internet non ha ancora conosciuto il suo exploit ma l’etichetta di Gianfranco Bortolotti, che ha sempre precorso i tempi in ogni sua declinazione artistica e comunicativa – val davvero la pena ricordare che la Media Records inizia a legare la sua immagine ad internet nel 1994 e già nel 2000 vara le prime campagne promozionali attraverso file MP3 ed applicazioni per i telefonini-, offre la possibilità di esplorare i propri studi di registrazione scoprendo come funzionano gli strumenti allora in mano ancora a pochi. La chiamavano “realtà virtuale”, e rappresentava una finestra sul mondo del domani. Nei cinque brevi estratti disponibili su YouTube passano in rassegna tematiche legate alla registrazione digitale, al protocollo M.I.D.I., agli FX, al DAT e al mixaggio di un brano. Argomenti e tecniche ormai obsolete e che potrebbero persino suscitare qualche grassa risata per i più giovani, ma che testimoniano quanto sia radicalmente mutato il mondo della produzione della musica elettronica.

Crollo Nervoso – La New Wave Italiana Degli Anni Ottanta (Parte 1 / Parte 2 / Parte 3 )
Ideato da Pierpaolo De Iulis, che all’attivo vanta pure Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance, Crollo Nervoso racconta l’avvento della New Wave nel nostro Paese. La prima delle tre puntate (da 50 minuti cadauna) è Onde Emiliane ed è dedicata a Bologna, città dove gruppi come Gaznevada, Stupid Set e Confusional Quartet combinano il linguaggio Rock e Post Punk con la sintesi elettronica. Come illustra Red Ronnie, nel capoluogo emiliano c’era un’etichetta importante come l’Italian Records, preceduta dalla Harpo’s Music, che credeva pienamente in questo nuovo stile, e due altrettanto noti negozi di dischi, Nannucci e Disco D’Oro. Analogamente a quanto accade con l’Italo Disco, pure chi si dedica alla New Wave desidera reinterpretare a suo modo un genere proveniente dall’estero ma non emulandolo passivamente: nei brani c’è, nonostante la componente ludica ed un po’ dadaistica, spessore artistico di pregio, arricchito da riflessi italianizzati, probabilmente derivati da un naturale orgoglio nazionalistico. La voglia di celebrare la musica angloamericana viene affiancata da innovazione ed intersecazione con arti parallele come il disegno, la grafica e le video installazioni. Insomma, non si tratta affatto di un banale scimmiottamento ma qualcosa di più vero e serio, con cui molti artisti italiani intendevano produrre originalità ma sempre con istintività, senza badare troppo al marketing, alle copie vendute dei dischi o ai passaggi radiofonici che potevano sancire il successo su larga scala. De Iulis sembra non dimenticare proprio nessuno: a Bologna incontra Giorgio Lavagna e Ciro Pagano dei Gaznevada, Fabio Sabbioni degli Hi.Fi Bros (che dichiara che non era tanto importante essere tecnicamente perfetti quanto avere idee originali), il regista Renato De Maria, Marco Bertoni dei Confusional Quartet, Ulderico Zanni dei Rats, Angelo Bergamini dei Kirlian Camera, Bruno Magnani e Davide Piatto dei N.O.I.A., Roberto Caramelli ed Enrico Giuliani dei Central Unit e Massimo Zamboni dei CCCP – Fedeli Alla Linea; pure a Firenze (la puntata si intitola Firenze Sogna) la scena è florida, con locali importanti come Manila, Tenax e Rokkoteca Brighton che sostengono il fermento artistico e culturale del “nuovo Rock”, anche qui oggetto di collaborazioni transartistiche e transmediali (artwork, teatro). Etichette come la Materiali Sonori di Giampiero Bigazzi, la Contempo Records di Giampiero Barlotti (che era anche un negozio di dischi e poi distributore) e la Ira di Alberto Pirelli (che lancia i Litfiba), appaiono come linee guida in un panorama che, ancora oggi, suscita più di qualche emozione. Da Piero Pelù che racconta la nascita dei Litfiba al giornalista e promoter Bruno Casini, da Steven Brown dei Tuxedomoon a Federico Fiumani dei Diaframma, da Nicola Vannini (Diaframma, Soul Hunter) a Marcello Michelotti ed Adriano Primadei dei Neon, da Maurizio Fasolo dei Pankow ad Andrea Chimenti dei Moda, da Marco Monfardini e Mirco Magnani dei Minox a Gianluca Becuzzi dei Limbo, sino a Roberto Toccafondi e Michele Santini dei Rinf, Francesco Cosi dei Karnak, Massimo Rabassini dei No Fun e i Giovanotti Mondani Meccanici (ma solo citati), tra cui armeggia pure Maurizio Dami alias Alexander Robotnick. La terza parte, Italia Wiva, completa il quadro estendendo l’analisi al Triveneto, Liguria, Lombardia, Campania ed Umbria e coinvolgendo un’altra flotta di nomi: Ado Scaini (Tampax, Great Complotto), Massimo Giacon (Spirocheta Pergoli), Roberto ‘Pivio’ Pischiutta (Scortilla), Johnny Grieco (Dirty Actions), il regista Paolo Ricagno, Augusto Ferrari (Art Fleury), Giancarlo Onorato (Underground Life), Stefano Tirone e Fred Ventura (State Of Art), Giacomo Spazio (2+2=5), Maurizio Arcieri (Krisma), Luigi Riganti (Dark Tales), Luca Collivasone e Giorgio Rimini (Aus Decline), Paolo Taballione (Carillon Del Dolore), Sergio Maglietta ed Elio Manzo (Bisca), Augusto Croce (Aidons La Norvege) e Fabrizio Croce (Militia). Tutto termina nella seconda metà degli anni Ottanta, quando le spontaneità iniziali si esauriscono e il mutato gusto del mercato convince chi è determinato a non lasciare il mondo della musica a cercare nuove strade, ma scendendo a compromessi. Altri invece, non disposti a nessun tipo di forzatura stilistica, abbandonano. Eccezionale il lavoro di De Iulis, che si avvale degli interventi del giornalista Federico Guglielmi per fare, di volta in volta, il punto della situazione e rendere la narrazione sempre fluida. Il package edito dalla mitica Spittle Records, oltre ai tre DVD, contiene pure il CD Tracce Magnetiche, con sedici brani che alimentano il mito della New Wave made in Italy.

Underground Nation
Non si tratta proprio di un documentario ma sotto certi aspetti potrebbe essere considerato tale, vista la vastità di materiale storico che annovera al suo interno. “Underground Nation” è il DVD pubblicato nel 2009 dall’etichetta olandese Djax Records per celebrare il ventennale d’attività, e che riassume l’epopea di un marchio che ha ricoperto un ruolo importante nella diffusione europea della Techno. La fondatrice, la bella Saskia ‘Miss Djax’ Slegers, è considerata tra le DJ più preparate del pianeta, capace di creare un punto di contatto, oltre venti anni fa, tra i creativi americani e quelli europei. Mai scesa a nessun tipo di compromesso commerciale, la bionda di Eindhoven ha dato alla Techno (e in particolare all’Acid) una forte spinta a livello internazionale, sia attraverso la partecipazione ai Rave più clamorosi degli anni Novanta (MayDay, Love Parade, Dance Valley), sia mediante le innumerevoli pubblicazioni sulla label più nota del gruppo Djax Records, la Djax-Up-Beats. Fedele al credo della Techno completamente sganciata dalla fenomenologia Pop, Miss Djax è una guerriera che confida ciecamente nell’arte generata dalla passione e non da strategie commerciali. Per questo motivo nella sua discografia non ci sono esempi di successo trasversale, e lo stesso si può dire della sua etichetta, diventata approdo di artisti come Like A Tim, Acid Junkies, Mike Dearborn, Steve Poindexter, K-Alexi, Ron Trent, Mike Dunn, Glenn Underground, Paul Johnson, Claude Young, DJ Skull, Rude 66, Mark Hawkins, DJ Rush, Justin Berkovi, Mark Verbos, Sbles3plex, Steve Stoll e davvero molti altri, pure relazionati a mondi sonori diversi (Hip Hop, Breakbeat). In 90 minuti, “Underground Nation” offre lo spaccato di un’ammirevole realtà olandese, sconosciuta dalle giovani generazioni solo perché non appartenente al reticolo dei cosiddetti trendsetter, ma in assoluto pregna di storia, spesso messa in parallelo con etichette ed artisti d’oltreoceano. Nel 1992 la Slegers visita Detroit e Chicago, ed incontra praticamente tutti coloro che contribuirono alla nascita di Techno ed House: Carl Craig, Juan Atkins, Kevin Sauderson, Alan Oldham (autore anche delle illustrazioni che contraddistinguono il catalogo Djax-Up-Beats), Underground Resistance, Octave One, Kelli Hand, Mike Dearborn, Terry Hunter, Armando, Phuture, Trax Records, Dance Mania e D.J. International. Qui vediamo scorci di quelle realtà, alternate ad eventi speciali, come il decennale al Club Gloria di Colonia, il 20 Agosto 1999, le presenze a varie edizioni della berlinese Love Parade, con consolle allestite su tir in stile carnevalesco, o ancora ospitate speciali come al Gottschalk Late Night, programma televisivo di Thomas Gottschalk, o nel 1993 a New York insieme a Marusha, altra DJ con cui Miss Djax si fa largo in un mondo professionale fatto quasi esclusivamente da soli uomini, sino alle più recenti performance presso Q-Base ed Awakenings. Una finestra aperta verso un sound rude, inselvaggito, rozzo nella struttura fatta spesso di elementi ridotti (una TR-909, una TB-303 e poco altro), spregiudicato, ma sempre e solo inequivocabilmente Techno.

I negozi di dischi indipendenti (Parte 1 /  Parte 2 / Parte 3 / Parte 4 )
Sulla scia di “Last Shop Standing”, YouGlobTV e Roberto Calabrò realizzano tre mini documentari che riguardano la realtà in varie nazioni dei negozi di dischi indipendenti, in prevalenza legati a Rock, Punk, Ska, Reggae, Country, Blues, Soul, Funk e Metal. Si comincia da Roma con Radiation Records di Marco Sannino, Hellnation di Roberto Gagliardi (nato dalle ceneri del Banda Bonnot) e Soul Food di Pierluigi Bella, si passa da Londra con Out On The Floor di Jake Travis e Mick Marshall, Sounds That Swing di Neil Scott, Flashback di Mark Burgess ed Haggle Vinyl dell’attempato Lynn Alexander, per finire a Madrid con Escridiscos di José Escribano, il primo negozio madrileno a dedicarsi a Punk e New Wave, e Bangla Desh di Antonio Pérez Martìnez. Dalle interviste emergono importanti osservazioni che aiutano a capire meglio la dimensione in cui versa questo tipo di attività, al di là delle statistiche che con molta frequenza appaiono su internet e generano immotivato sensazionalismo. Crisi è la parola comune a tutti: Sannino parla di taglio del superfluo, come la cultura, che impedisce alla musica di essere considerata un bene primario, Bella indica la mancanza di un ricambio generazionale nell’acquisto dei dischi e di un settore considerato ormai in decadenza. Non dissimili le opinioni provenienti dall’estero: Travis dice che il tempo giusto per aprire un negozio di dischi è passato, Marshall non punta il dito contro la massificazione digitale bensì ai proprietari dei locali commerciali londinesi particolarmente avidi, e dello stesso avviso è Scott, impensierito dalle richieste degli affittuari. Burgess afferma che si vendono meno CD e DVD e più vinili perché è un supporto tornato di moda, anche grazie ai film di Hollywood che hanno reintrodotto l’immagine-culto di questo formato, e che quindi appartiene ad un mercato in espansione che tocca anche giovani e giovanissimi. Il settantenne Lynn Alexander, invece, afferma: «La buona musica si venderà sempre, quella di moda invece passerà di moda». E a Madrid? Escribano rivela che negli anni Ottanta, quando esplosero Punk e New Wave, comprava persino 1000 copie a disco di alcune band. Il vinile è ancora il suo principale sostentamento, ma il target degli acquirenti va dai 35 ai 60 anni e passa, anche se esiste una piccola percentuale di giovani che sta scoprendo la sua magia. Nonostante ciò preferisce comunque non esprimersi sul futuro. Infine Martìnez, che lamenta l’assenza del pubblico giovane, e che ricorda una crisi del disco quando sul mercato giunse il CD, formato che la gente preferiva per varie ragioni. Sebbene nessuno di questi negozi sia vicino alla musica elettronica, è comunque illuminante comprendere come la realtà dei negozi di dischi sia radicalmente mutata rispetto al passato. Ora la geolocalizzazione appare un concetto imprescindibile: la presenza nelle capitali europee, posti centrali e frequentatissimi anche da turisti di tutto il mondo, è sicuramente un sostegno fondamentale che verrebbe a mancare invece nei centri più piccoli dove la nicchia degli utenti del vinile si assottiglia ulteriormente sino a sparire del tutto.

Darkbeat – An Electro World Voyage
Esce nel 2005 il DVD, diretto da Iris B Cegarra, dedicato alla musica Electro, punto di connessione e scambio tra diversi generi come Funk, Hip Hop, P-Funk, Synth Pop ed elettronica. Nata nei primi anni Ottanta negli Stati Uniti, l’Electro, abbreviativo di Electronic, diventa il simbolo dell’innovazione sonora e il risultato della tecnologia applicata alla disciplina musicale. Chi, in quel periodo, si dedica a tale stile lo fa soprattutto perché ispirato sia dalle macchine con cui fu possibile forgiare nuovi suoni, sia perché fortemente attratto dalla percezione del futuro a cui si giungeva mediante l’immaginario legato alla fantascienza. Sono tanti gli spunti forniti da svariati artisti, tra cui Dexorcist, Cisco Ferreira, Scape One, Cosmic Force, Bass Junkie, Radioactiveman, Exzakt, Si Begg, Boris Divider, Andrew Weatherall, Ectomorph, Dark Vektor, Mr. Velcro Fastener, DJ Godfather, Billy Nasty, Keith Tucker ed Andrew Price della Satamile, ma Darkbeat è da considerarsi un focus sull’Electro contemporanea, giacché non riesce a creare un’altrettanto ricca parata relativa al periodo iniziale. Accanto ad Egyptian Lover, infatti, sarebbe stato bello vedere altri mentori come Afrika Bambaataa, Hashim o i Cybotron. Altri grandi assenti, per quanto riguarda la fase moderna e contemporanea, sono Gerald Donald ed I-f, a cui spetta indubbiamente il merito di essersi battuti per non far cadere nell’oblio lo stile in questione. In cambio, però, Darkbeat ci offre la possibilità di scrutare in mezzo a molti cimeli, tipo Fairlight CMI, Linn 9000, Akai MPC60 e Roland TR-33, tra le prime drum machine della storia, oltre a classici di Sequential Circuits, Korg ed Oberheim.

Children Of BerlinParte 1 / Parte 2)
Prodotto nel 2010 da W0RKT34M, gruppo spagnolo attivo nell’ambito della comunicazione video e del marketing per festival musicali, Children Of Berlin punta i riflettori sulla capitale tedesca ed enfatizza l’importante connessione tra la caduta del Muro e lo sviluppo (e la conseguente esplosione) della club culture. Da un lato passano in rassegna posti iconici, come l’East Side Gallery sulla Mühlenstraße, la Fernsehturm o la Siegessäule, dall’altro una serie di testimonianze di chi, quella città, l’ha vista cambiare giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ad essere coinvolti sono sia i DJ, come Prosumer, Sascha Funke, Kiki, Alexander Kowalski, Dirty Doering, T.Raumschmiere ed Oliver Koletzki, sia addetti ai lavori rimasti dietro le quinte (Carola Stoiber di Tresor/Tresor Records, Markus Nisch, booker di Monika Kruse e Paul Van Dyk, ed Ulrike Schönfeld, booker di Pier Bucci e Chicks On Speed). Così, dalla Berlino monocromatica degli anni della divisione, si passa a quel fatidico 9 Novembre 1989 (di cui scorrono anche immagini di repertorio) che cambiò la storia, innescando una febbrile ricerca del nuovo, una febbricitante voglia, facilitata dall’assenza di burocrazia, di appropriarsi di spazi abbandonati nel settore est, di un impeto creativo che forse non conoscerà mai eguali. La Berlino, allora, torna a colorarsi, sino a diventare una sorta di “città dei balocchi”, capitalizzando l’attenzione dei giovani europei non solo dediti alla musica ma ad ogni tipo di disciplina artistica.

Tekno – Il Respiro Del Mostro
Il documentario di Andrea Zambelli comincia con una citazione che da qualche anno gira con insistenza sul web, quella di Kristian Wilson, presunto CEO della Nintendo, in riferimento all’influenza di Pac-Man sulle giovani generazioni (una ricerca più approfondita rivela che in realtà si tratta di una battuta del ’89 del comico inglese Marcus Brigstocke). Il falso storico serve comunque ad introdurre un’approfondita panoramica su quello che è stato definito il nuovo tipo di cultura underground degli anni Duemila, seppur parlare di underground nell’era digitale e globalizzata risulti sempre piuttosto arduo e controverso, vista l’esplosione informatica che rende possibile l’accesso di tutto a tutti. Ma cosa sono esattamente i teknival e i free party della Tekno? Lo spiega con pregnanza Anna Bolena della Idroscalo Dischi, tra i contributor coinvolti: «Si occupano spazi dismessi in periferia per provare a creare una nuova socialità». L’appropriazione di uno spazio abbandonato serve quindi a dare ad esso una nuova connotazione e ciò genera le TAZ, le zone temporaneamente autonome (dall’inglese Temporary Autonomous Zone). Si ricicla un luogo dove magari prima sorgeva una fabbrica, delocalizzata in Oriente da classiche strategie commerciali, e si pareggiano le energie attraverso una folla danzante altrettanto numerosa come lo era una volta quella degli operai. La TAZ, quindi, diventa una forza di resistenza che contrasta la logica di produzione capitalistica e il sistema su cui questa stessa si basa: decade il concetto della festa sottesa al bar che deve produrre introito con le consumazioni, non esiste la brandizzazione del clubbing, non si nutre alcun interesse per le ambite sponsorizzazioni delle multinazionali. Insieme a ciò evapora pure la recente mitizzazione del DJ, figura soppressa da impressionanti e potentissimi sound system. Le pareti di casse, allora, si trasformano in demoni evocatori di energia. La droga, in tutto questo, ha certamente un ruolo, è una chiave per aprire porte dell’inconscio e forse agisce, insieme alla musica, sull’interconnessione tra menti e corpi. La musica invece è un vettore inteso come sfogo e non lavoro, un allontanamento dalla routine quotidiana, una sorta di rito liberatorio. La chiamano Tekno, con la k al posto della classica ch, proprio per differenziarla da quella che viene proposta in altre location. Stilisticamente mette insieme Techno, Industrial, Hardcore, Gabber, Goa, Psy Trance e Breakbeat, e diventa voce di messaggi non politicizzati, che si rifanno ai concetti base della prima Love Parade di Berlino, delle feste negli squat, nei capannoni abbandonati occupati dagli Spiral Tribe, ed elementi della Beat Generation. Correlato da immagini di repertorio di eventi esteri (Ungheria, Repubblica Ceca, Spagna, Bulgaria), in Tekno – Il Respiro Del Mostro c’è anche la Street Parade di Bologna del 2006, col compianto Don Andrea Gallo, tra teste rasate, dreadlock, piercing, nomadismo e musica che assume una valenza ideologica. Forse oggi è proprio ciò a rappresentare la genuinità dell’essere “sotterraneo”, concetto banalizzato e massificato col termine underground: l’ideologia schierata contro la morbosa mercificazione della musica.

La storia della musica elettronica by Traffic
Non si tratta esattamente di un documentario bensì di una puntata che il programma televisivo Traffic dedica alla musica elettronica, alla sua nascita, evoluzione ed alcuni protagonisti. La prima parte (detta “scheda storica”) è una veloce carrellata di informazioni, utili per inquadrare la tematica ma incapaci di aggiungere sostanziali dettagli a quanto possa emergere da una veloce surfata sul web. Il gancio col presente lo si trova parlando di Moby, ma anche qui per sommi capi. La seconda parte offre invece le incursioni in due eventi umbri tenuti nel 2011, il Dancity di Foligno e il Groovin’ di Pieve Di Collemancio. Del Dancity, introdotto da fantasiose prospettive fantascientifiche, ne parla uno degli organizzatori, Giampiero Stramaccia, a cui seguono le interviste del perugino Tommaso Pandolfi alias Furtherset (nonostante gli appena 16 anni dimostra di essere già tenacemente attratto da musica non esattamente da teenager), e del leccese Andrea Mangia in arte Populous. Per il Groovin’, invece, intervengono gli organizzatori David Leoni e Leonardo, che lamentano il mancato appoggio dell’amministrazione e la poca tutela delle forze dell’ordine che preferiscono ostacolare questo tipo di eventi. Si tratta di argomenti datati ma purtroppo sempre attuali. Tra gli altri fa capolino il poliedrico Master Enjoy. Poco più di 28 minuti, tra informazioni in stile “wikipediano” e servizi che strizzano l’occhio a quelli del Match Music degli anni Novanta: la conduttrice, Arianna Fiandrini, è una sorta di Isa B, armata di microfono tra consolle e dancefloor affollati di pubblico festante ma non sempre pronto ad offrire risposte meritevoli di attenzione.

Cerrone
È un mini documentario (di appena 17 minuti) diretto da Dimitri Pailhe, dedicato al batterista (figlio di un emigrato italiano fuggito in Francia durante il fascismo) che ha influenzato in modo massiccio sia la Disco che la House, ma anche l’Hip Hop. Il racconto di Cerrone tocca i momenti più importanti della sua carriera, dall’incontro con Eddie Barclay che mette sotto contratto la band di cui fa parte, i Kongas, al singolare caso di “Love In C Minor”, rifiutato dalle etichette francesi e che poi, per uno strano scherzo del destino, finisce col diventare una hit negli Stati Uniti. Non meno importante l’incontro con Ahmet Ertegun, il boss dell’Atlantic, che gli fa firmare un contratto e lo porta in televisione, insieme a Quincy Jones e i Jackson 5. La clip annovera pure gli interventi di Nile Rodgers (che lo mette sullo stesso piano di Giorgio Moroder e Kraftwerk), di Dimitri From Paris (che parla dei Kongas come primordio della Tribal House e pone l’accento sull’originalità delle copertine), del DJ-giornalista Dave Haslam e del popolare Bob Sinclar. Quest’ultimo, in particolare, parla del French Touch di fine anni Novanta come una riproposizione moderna della Disco di Cerrone e della forte infatuazione che, in quel periodo, aveva per le copertine di album come “Cerrone’s Paradise”, “Love In C Minor” e “Supernature”, con le nudità femminili opportunamente trasposte nei suoi “Space Funk Project Vol 2”, “Ultimate Funk” e “Paradise”. Non da meno il collettivo Africanism, messo su da Sinclar nel 2000 ed omonimo del secondo album dei Kongas uscito nel 1977.

Portrait Of An Electronic Band: Aux 88
Chi ha avuto il privilegio di vederlo in anteprima il 17 giugno 2015 presso il Louise Booth Auditorium nel Detroit Historical Museum lo ha descritto come il “documentario dell’anno”: trattasi della monografia degli Aux 88, gruppo nato a Detroit nei primi Novanta con l’obiettivo di dare il giusto continuum all’Electro/Hip Hop del decennio precedente ma arricchendola con suggestioni e declinazioni stilistiche moderne che finiscono col prendere il nome di Techno Bass. Keith ‘DJ K-1’ Tucker e Tommy ‘TomTom’ Hamilton (i quali tirano dentro, giustamente, pure gli ex componenti del progetto, Anthony ‘Blak Tony’ Horton e William ‘Posatronix’ Smith) ripercorrono la loro storia, avvalendosi dei contributi di colleghi più o meno illustri (Legowelt, Ellen Allien, Detroit Techno Militia, Cosmic Force, Scape One, Dr. Motte, Boris Divider, Dave Clarke, DMX Krew, Blastromen, Anthony Shakir, Mike Banks, Anthony Rother, DJ Di’jital, Egyptian Lover, Juan Atkins, DJ Godfather, Mike Huckaby e davvero molti altri). Pare che le prime copie siano state messe in vendita la sera stessa della première in un box set in edizione limitata.

Machine Soul
Diretto da Tero Vuorinen, “Machine Soul” racconta la scena elettronica finlandese attraverso alcuni dei protagonisti più importanti di un Paese che l’italiano medio nomina solo durante il periodo natalizio. La “triade” che apre il film è composta da Mika Vainio, Jimi Tenor e Jori Hulkkonen, pionieri di un “mondo” che appare subito ricco e multisfaccettato. A loro si aggiungono Hannu Ikola, Orkidea, Lil Tony, Irwin Berg, Samuli Kemppi e gli Acid Kings (con e senza maschera). Menzione a parte per Perttu Eino Häkkinen alias Randy Barracuda, in passato nei V.U.L.V.A. ed Imatran Voima ed oggi alfiere del genere skweee, e Lupu Pitkänen, metà del duo Ural 13 Diktators (considerato tra gli iniziatori dell’electroclash) ed oggi impegnato ad aggiornare gli stilemi french touch in Luputoni, con Toni Aalto. Non manca la panoramica sul passato con immagini di repertorio di Erkki Kurenniemi e i suoi DIMI autocostruiti. I 65 minuti di “Machine Soul”, sottotitolato in inglese, rappresentano l’occasione migliore per approfondire le conoscenze musicali di un Paese che l’europeo medio conosce e ricorda ingiustamente solo per Darude, Bomfunk MC’s e The Rasmus.

Machine A Tops: Media Records
Non è esattamente un documentario ma un reportage che viene realizzato nella primavera del 1995 per il programma Capital trasmesso dalla francese M6. Poco più di venti minuti per raccontare un fenomeno che da Brescia interessa tutta l’Europa ma anche Stati Uniti e Giappone, quello della Media Records. Autentica fucina di hit planetarie, la casa discografica fondata da Gianfranco Bortolotti è già reduce dal successo ottenuto tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta con “Bauhaus” di Cappella (1987), “Touch Me” e “Move Your Feet” dei 49ers (rispettivamente del 1989 e del 1990) “Deep In My Heart” dei Club House, (1990) e “We Need Freedom” di Antico (1991). Esauritosi il filone della italo house (che la stampa estera ribattezza, talvolta in senso denigratorio, spaghetti house, in modo non così dissimile da quanto avvenuto anni prima col krautrock), la Media Records si lancia nell’eurodance, un segmento che conquista presto con Cappella, progetto attivo dal 1987 ma rimodellato, sia nel suono che nell’immagine, per adattarsi alle nuove tendenze. Il successo è clamoroso con milioni di dischi venduti. La squadra di Capital si reca dove tutto viene pianificato con la massima cura, nel quartier generale della Media Records, a Roncadelle, e mostra un po’ di tutto, dalle stanze dell’amministrazione e promozione agli studi di registrazione. Tra i tanti ad essere inquadrati Paolo Sandrini, Roberto Cipro, Carl Fanini (ai tempi cantante e frontman del progetto Club House) e Mauro Picotto, futura star internazionale. Dagli interventi di Bortolotti si evince come la Media Records studiasse un elevato numero di versioni delle proprie hit al fine di soddisfare le diverse inclinazioni stilistiche di nazioni diverse: la dance più gioiosa ed allegra per Spagna, Italia e Francia, quella coi suoni più rigidi e meccanici per Germania e Giappone, quella con soluzioni dub e d’atmosfera per Inghilterra ed America. Tra le curiosità che passano in rassegna, i provini per entrare a far parte dei Cappella e l’atteggiamento autoritario di Bortolotti che spinge la sua squadra a curare in modo meticoloso anche i dettagli apparentemente inutili, in un periodo in cui la classica casa discografica dance tende perlopiù ad accontentarsi del denaro ottenuto per un’eventuale hit. Nicola Pollastri della Impulse Promotion, in un frame, lo indica ironicamente come “generale Schwarzkopf”: a suo modo Bortolotti, proprio come il militare statunitense, è stato un grande stratega. Dall’anno successivo la Media Records si trasforma nella “casa discografica dei DJ” lanciando la BXR e nuovi personaggi destinati a diventare popolarissimi a cavallo del nuovo millennio, come Gigi D’Agostino, Mauro Picotto e Mario Più. La proto EDM, allora, pare essere nata a Brescia.

Dirty Talk: A Journey Into Italo Disco
Patrocinato da Boiler Room e diretto da Easton West, questo mini documentario racconta, in circa tredici minuti, cosa è stata l’italo disco e come questa abbia influenzato la nascita della house music a Chicago. Fondamentalmente si tratta di un genere inventato in modo abbastanza fortuito in Italia nei primi anni Ottanta, non da Giorgio Moroder come molti erroneamente pensano, seppur la sua musica poi fosse uno dei modelli da prendere come esempio, che preleva ispirazioni dalla disco statunitense ma sostituendo le laboriose orchestralizzazioni umane coi suoni dei sintetizzatori e coi ritmi delle batterie elettroniche. I tipici assoli del philly sound si trasformano in melodie orecchiabili (catchy, in inglese), mentre le parti cantate vengono spesso affidate a cantanti non madrelingua che rivelano fin troppe lacune sul piano linguistico e che in più di qualche occasione faranno letteralmente sghignazzare i discografici esteri. Per questo motivo talvolta si preferisce ricorrere al vocoder per mascherare limiti e carenze. Ad inventare il termine “italo disco” però non furono gli italiani bensì un polacco emigrato in Germania, il compianto Bernhard Mikulski, patron della ZYX Records, che importando molto di quel materiale pensò a come poterlo incasellare più facilmente. Insomma, un’invenzione commerciale, forse non così tanto diversa rispetto a quella ideata nel 1988 dalla Virgin per promuovere la compilation “Techno! The New Dance Sound Of Detroit”. Per gli italiani comunque quella restava più semplicemente “disco dance” da vendere spesso al kilo, invogliando l’acquisto con copertine che spesso ritraevano belle donne in pose sexy. L’italo disco comunque mostra il suo lato migliore prima di diventare puro mainstream pop, proprio quando se ne accorgono gli americani che la usano come piattaforma per la futura house. A conti fatti, l’italo disco può essere tranquillamente considerato l’anello di congiunzione e passaggio tra la disco degli anni Settanta e la house di metà/fine Ottanta, una fase transitoria che esalta l’uso di strumenti-icone come Prophet-5, LinnDrum e TR-808 e in cui i 4/4 diventano punto di appoggio su cui edificare qualsiasi cosa. Il documentario, che prende il titolo da uno dei grandi classici di quel periodo, “Dirty Talk” di Klein & MBO, ospita appena un paio di italiani, i fratelli La Bionda (che ad un’analisi più attenta apparterrebbero più all’italian disco che all’italo disco) e Fred Ventura. Seguono Chip E., tra i decani della house di Chicago, Charlie Grappone di Vinylmania Records, uno degli storici negozi di dischi di New York, e Tony Carrasco che partecipò al progetto Klein & MBO. Certo, realizzare un documentario sull’italo disco coinvolgendo quasi più personaggi esteri che italiani fa un po’ sorridere, ed è scandaloso che per parlare di “Dirty Talk” non sia stato coinvolto chi quella hit la costruì per davvero, Davide Piatto (i dettagli della storia sono qui). Un lavoro abbastanza superficiale (a meno che quello su YouTube non sia solo un frammento dell’intero video), che non aggiunge granché a quanto affrontato con più consapevolezza qualche anno fa da Pierpaolo De Iulis in “Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance”, recensito su questa stessa pagina.

Dutch electro scene
Mandato in onda da MTV Nordic nei primi anni Duemila (presumibilmente tra 2002 e 2004) nel programma “This Is Our Music” presentato da Andres Lokko e Lars Beckung, questo special punta l’attenzione sull’electro disco dei Paesi Bassi tirando in ballo alcuni dei nomi più rappresentativi della scena. Da Legowelt, in uno studio già pieno di vintagisticherie e con qualche riferimento all’Italia (una piantina della città di Roma, la locandina di un film di Lucio Fulci) ai Comtron, da Serge Verschuur della Clone ad Alden Tyrell sino ad I-F, che non perde occasione per rimarcare l’assenza di qualsiasi legame tra la sua Viewlexx e il movimento electroclash. Poco più di venti minuti che raccontano un’Olanda ben diversa da quella dell’intrattenimento generalista della fase EDM.

Yazoo – A Short Film – Documentary
Con due album e pochi singoli incisi in soli due anni, gli Yazoo conquistano di diritto una posizione fondamentale nella storia del synth pop britannico. Creati nel 1981 dall’ex componente dei Depeche Mode Vince Clarke e dalla cantante Alison Moyet, vengono messi sotto contratto dalla Mute di Daniel Miller che li porta al successo internazionale, Stati Uniti compresi dove però la Sire li presenta come Yaz a causa dell’omonimia con l’etichetta fondata alla fine degli anni Sessanta da Nick Perls (corre voce che ci fosse pure una band con lo stesso nome ma di cui non si rinviene traccia). I poco più di trenta minuti del documentario servono ad approfondire le figure dei due artisti, e ciò avviene anche grazie al contributo di guest d’eccezione come il citato Miller ed Andrew Fletcher della band di Basildon. Attratto dalle nuove tecnologie, Clarke armeggia con vari strumenti elettronici tra cui il Fairlight CMI, considerato il primo sintetizzatore/campionatore digitale, e crea basi costituite da un numero limitato di piste. Suoni chiari, stesura minimale, arpeggi ed accordi spezzati in sequenze di note, dettati anche dai limiti tecnologici, fanno la fortuna degli Yazoo. Il successo coglie del tutto impreparata la Moyet che si ritrova catapultata a Top Of The Pops (ai tempi seguito da un pubblico immenso di circa venti milioni di persone) e su dischi che vendono migliaia di copie al giorno. Numeri che, a pensare ai clic su YouTube o allo streaming odierno, sembrano solo frutto della più fervida delle immaginazioni. “Don’t Go”, “Only You” e “Situation”, tutti del 1982, sono gli inni di una generazione. In particolare quest’ultimo diventa una hit nei locali underground newyorkesi negli anni della pre-house al punto che François Kevorkian chiede di poterlo remixare ma suscitando più di qualche perplessità visto che il concetto di remix non fosse ancora diffuso nel Vecchio Continente. Nonostante avessero tutti i requisiti per continuare, la carriera degli Yazoo si interrompe nel 1983, ma probabilmente è stata proprio tale brevità a tutelare ed immortalare il loro ricordo.

Crisalide, I Miei Primi Passi
In appena 22 minuti viene raccontato 1/3 della carriera di Francesco Casaburi alias Francesco Farfa. Il periodo preso in considerazione è il decennio 1984-1994, dagli esordi all’affermazione extra regionale/nazionale, e viene descritto da vari personaggi entrati nella vita del DJ per diverse ragioni. Colleghi disc jockey (Moravio Ghizzani, Carlo Magni, Beppe de Nora, Enrico Delaiti, Miki, il compianto Roby J), art director dei locali dove ha lavorato in quegli anni (Andrea Cordaro del Katinka, Mario Provinciali de La Barcaccina, Silvio, Stefania e Marcello Passini del Tartana, Raulo Giovannoni dell’evento The West), semplici amici (Silvano Ballini, Lucia Barnini, Cristina Tarchi, Marcello Matteucci e il barman Luca Fiaschi): ognuno di loro racconta dettagli che aiutano ad inquadrare meglio la figura dell’artista toscano. Incuriosito dagli impianti stereo visti a casa di conoscenti, Casaburi allestisce una consolle in garage dove inizia ad esercitarsi, attratto dal fare tecnico di quella professione. Alla metà degli anni Ottanta approda alla discoteca Ypsilon di Certaldo, un ambiente fatto prevalentemente di volontariato e passione e in cui si inserisce con tenacia ed una certa dose di timidezza. Casaburi non è il classico “DJ anni Ottanta” che incita gli avventori del locale parlando al microfono, preferisce «far palpitare la pista» non solo grazie al tecnicismo ma pure in virtù di un feeling che instaura col pubblico, pur senza proferire parola. Il 1990 è un anno cruciale: la collaborazione con locali come Tartana, La Barcaccina ed Imperiale determina un sensibile aumento di popolarità e Francesco Casaburi si trasforma in Francesco Farfa. Le ragioni, per nulla studiate a tavolino o connesse all’artista futurista Vittorio Tommasini come invece qualcuno potrebbe ipotizzare, vengono spiegate nel filmato. Per il suo debutto all’Imperiale, come rivela Miki, inizia col mash up antidiluviano di John Truelove che mette insieme “Your Love” di Jamie Principle/Frankie Knuckles e “You Got The Love” di The Source Featuring Candi Staton. A dicembre di quell’anno il giornalista de L’Express Luc Bertagnol, colpito dalla sua preparazione tecnica e scelta musicale, lo invita ad una festa nella capitale francese. Il progetto si concretizza nei primi mesi del 1991 quando Farfa suona all’Hôpital Éphémère di Parigi, occasione in cui, come rimarca lo stesso Bertagnol, «si apprezza una reale progressione musicale». Inconsapevolmente Farfa (con Miki e Roby J al seguito) getta le basi di un movimento musicale che qualche anno più tardi sarebbe prima diventato un trademark per il clubbing toscano (profetizzato dal citato Miki come “The Sound Of Tirreno”, si veda il 12″ omonimo uscito nel ’93 sulla sua Major Ipnotic Key Institute) e poi finito nelle fauci del mainstream che lo cannibalizza spogliandolo del tutto dalle sue matrici originarie. Il pubblico di Farfa diventa sempre più consistente, a settembre del 1992 è nella Divine Stage dell’Insomnia di Ponsacco, insieme all’inseparabile Miki, e i ragazzi iniziano a chiedere dischi “alla Farfa”. Casaburi, in poco meno di dieci anni, è tra i DJ italiani che vantano un seguito più vasto e soprattutto tra i primi ad anticipare la globalizzazione stilistica che prenderà piede nel nuovo millennio, mettendo in difficoltà le riviste di settore che ai tempi non sanno se inserirlo tra i DJ house o quelli techno. Farfa è nel mezzo, rappresenta entrambe ma senza aderire ad un credo che possa escluderne una a favore dell’altra. A testimonianza di ciò diverse produzioni discografiche sparse su Area Records (che fonda con Joy Kitikonti), Interactive Test e UMM. Ad impreziosire il documentario sono frammenti di videointerviste e brevi clip di serate in discoteca (Tartana, Exogroove, Tenax, The West, The Gallery, Insomnia, Mozinor, Hôpital Éphémère, Torquemada). Diretto da Marco Allegri, “Crisalide, I Miei Primi Passi” viene girato nel 2010 ma appare sul canale YouTube Farfa Tv solo il 14 febbraio 2017. Sembra solamente l’inizio di un lavoro che meriterebbe davvero di proseguire per abbracciare il periodo che va dal 1995 ad oggi, in cui Farfa intensifica la produzione discografica (ma senza mai cercare il successo commerciale) fondando la Audio Esperanto in collaborazione con la bresciana Media Records, mixa varie compilation di successo come “Trance Nation”, remixa svariati brani (tra cui quelli di Caspar Pound, Prism e Robert Armani), prende posto in nuovi club come il Taotec di Figline Valdarno, collabora con l’etichetta spagnola Serial Killer Vinyl e finisce nel radar di DJ del calibro di Sasha, Tiësto e José Padilla.

DJ’s Trip
Corre il 2003 quando Alberto D’Onofrio gira, tra Italia, Ibiza e Londra, i dieci documentari della collana “DJ’s Trip”. YouTube non esiste, il web si è lasciato alle spalle lo stadio primitivo degli anni Novanta ma non offre ancora l’infinità di contenuti come oggi, soprattutto in relazione a tematiche “di nicchia” come possono essere quelle dei DJ e della nightlife in genere. I “DJ’s Trip” di D’Onofrio vanno così a rifocillare quel segmento di utenza alla costante ricerca di materiale audiovisivo difficilmente rintracciabile se non mediante programmi televisivi specializzati (ma poco diffusi nel nostro Paese), DVD e qualche polveroso VHS. Ampio spazio è stato concesso al DJ, figura che ad inizio del nuovo millennio va incrementando la popolarità accumulata nel decennio precedente. Ed ecco quindi Claudio Coccoluto che tra racconti di vita adolescenziale e squarci di realtà domestica con figli e moglie, narra il suo attaccamento alla musica. Dal primo campionatore (un Emulator II?) alle esperienze in studio di registrazione (con una panoramica di quello che parrebbe proprio l’HWW Studio), passando per l’esperienza radiofonica su Radio DeeJay (nella puntata di C.O.C.C.O. il DJ rivendica l’importanza della notte come quella del giorno, scagliandosi contro l’allora ministro Carlo Giovanardi e la crociata sulla chiusura anticipata delle discoteche). Coccoluto è un manipolatore di suoni, un DJ che prende le distanze dal mettidischi stereotipato de “La Febbre Del Sabato Sera” o quello radiofonico che limita gli interventi alla menzione di artista e titolo. Gli piace «interpretare la musica come materiale sonoro», dando vita ad una forma d’arte artigianale spiccatamente passionale. Gli segue Ralf, nato Antonio Ferrari, che spiega le ragioni dell’essere così defilato dallo studio di incisione e del forte attaccamento al territorio natio, l’Umbria. A ricorrere con frequenza nel discorso è la parola “terra”, e ciò chiarisce il motivo per cui abbia chiamato la sua etichetta Laterra Recordings. Ralf cerca di tutelare l’emozione della musica da ballo a dispetto degli amanti del rock, del jazz e della musica “colta” che invece fanno distinzioni tra “musica” e “musica” giudicandola in base all’uso che se ne fa. Una parte del film è stata girata nello studio di Alex Neri mentre viene bozzata “I’ve Done It” che inaugura il catalogo della citata Laterra Recordings nel 2006. Acclamato dal pubblico e rivelatosi pure una penna arguta attraverso la rubrica Touch & Go curata per anni sulle pagine del magazine DiscoiD, Ralf resta tra i pochi DJ italiani che, pur investendo poco nella carriera da produttore, riesce a mantenere alta l’attenzione nei suoi confronti in modo costante. Un altro gradito ospite è Francesco Farfa: tra aneddoti ed esperienze in studio, definisce il DJ «un mediatore, un cavo di corrente che si attacca tra la gente e la musica, un induttore che serve per comunicare un tipo di messaggio», accennando anche al concetto di “DJ rock star” che sarebbe stato sdoganato in modo definitivo qualche anno più tardi. Il toscano affronta pure l’argomento della colonizzazione ibizenca e, importante, rimarca il concetto della moderazione come tutela della professionalità e del buon esempio che va dato a chi segue (ed imita) i DJ, un messaggio per se stesso ma anche per gli altri. Interessante l’intervento di Principe Maurice che lega la sua attività di cantante alla musica selezionata da Farfa, tra i DJ italiani più versatili che non ha mai avuto timore di mettersi alla prova, reinventandosi nel corso degli anni. Spazio anche a Stefano ‘Stylophonic’ Fontana ed Alessio Bertallot: il primo nasce in una famiglia di sportivi (il nonno Mario era portiere per l’Inter con Giuseppe Meazza, il padre era portiere del Milan, il fratello Robert, tragicamente scomparso in un incidente stradale in moto il 19 maggio 2006, è stato campione di baseball) ma la “gerarchia agonistica” viene interrotta proprio da Stefano che imbocca la strada della musica. Inizia a produrre a metà anni Novanta come Fontana Mood ma si fa notare a livello internazionale solo nel 2002 quando incide per la Prolifica (gruppo EMI) “Man Music Technology” come Stylophonic, trainato da singoli dall’appeal pop come “Soulreplay”, “If Everybody In The World Loved Everybody In The World” e “Way Of Life”. Interessante sentire anche la “campana” di un musicista con cui Fontana ha collaborato in alcune occasioni, Saturnino. Alessio Bertallot invece, ai tempi ancora al timone di B Side, rivela un concetto su cui vale la pena riflettere: «in radio ho sempre pensato che fosse importante spiegare la musica perché sono consapevole del fatto che la gente ne sappia davvero poco e che non viviamo in un ambiente culturale che aiuta ad esercitare la sensibilità, anzi è il contrario. Più insensibile ed ignorante sei, più sei funzionale al sistema». Bertallot, che assume un ruolo di vero divulgatore in una emittente radiofonica ormai sempre più rivolta ad un pubblico generalista, contribuisce attivamente alla diffusione in Italia di generi alternativi come trip hop, jungle e drum n bass. Poi, tra le altre cose, chiarisce il ruolo del musicista e del DJ e prevede la “poppizzazione” della dance con conseguente svuotamento dei contenuti, cosa che è avvenuta per davvero. Probabilmente mai come oggi la dance come sfondo sonoro quotidiano ha necessitato di una rifondazione. Il lavoro di D’Onofrio prosegue con altri video dedicati a José Padilla & Luca Baldini, DJ Ter, DJ Lottie, Mike Manumission e Ibiza per completare un quadro trasmesso da Cult Network (su Sky) e venduto anche in DVD. Il regista torna ad occuparsi di musica elettronica e vita notturna con “Party People Ibiza”, nuova serie di documentari trasmessa da Rai 2 nel 2014.

Storia Della Musica Techno Italiana Nel Mondo
Il titolo è particolarmente allettante quanto pretenzioso, il desiderio di vedere raccolte testimonianze e storie nostrane su un genere come la techno è sempre molto alto vista l’assoluta scarsità di materiale documentaristico a disposizione. Peccato però che questo tentativo, seppur apprezzabile, tradisca abbastanza le aspettative, non certamente per i nomi coinvolti, tutti rispettabilissimi protagonisti della scena, ma piuttosto per la modalità con cui il documentario stesso è stato pensato ed assemblato. Il primo episodio, seppur non esplicitato, è dedicato a Roma, a ragion veduta perché la techno trova nella capitale un terreno particolarmente fertile prima di ogni altra zona dello Stivale. Si susseguono gli interventi di Francesco Zappalà, Vortex, Bismark, Paolo ‘Zerla’ Zerletti e Ricky Diciotto, inframmezzati da video d’archivio del DMC, dell’Ombrellaro Rave ’92 e dell’Happy Rave ad Ostia nel ’91, incluso un reportage di Rai Tre che forse sarebbe stato opportuno evitare perché facilmente strumentalizzabile. Il secondo episodio invece racconta, ma davvero troppo frettolosamente, quanto avvenuto in Toscana attraverso le testimonianze di Raulo Giovannoni, ideatore dell’evento itinerante The West, e del vocalist Roberto Francesconi. Anche qui non mancano filmati di repertorio (Imperiale, Jaiss, il citato The West) ma nel complesso la narrazione non segue un iter ben strutturato e finisce col somigliare più ad una raccolta di video con sparuti commenti a fare da corollario che ad un documentario vero e proprio. I guest interpellati da Stefano Di Carlo (che alle spalle ha una carriera di tutto rispetto, si veda la sua pagina su Discogs per avere una visione d’insieme) e Flavio Costa avrebbero potuto aggiungere molto di più rispetto a quanto già trapelato attraverso innumerevoli interviste rilasciate nel corso degli anni, ma alla fine è anche il timing a fugare ogni dubbio: 13 minuti nel primo, meno di nove nel secondo sono nettamente insufficienti per raccontare un fenomeno complesso ed avvincente come quello della techno approdata nel nostro Paese.

Early Documentary About Sampling
Pare che questo servizio televisivo sia stato trasmesso nel 1988, anno in cui il campionamento inizia a diventare una pratica sempre più consolidata soprattutto nella house music riconfezionata dai produttori del Regno Unito. I primi ad apparire nel video sono i Coldcut (Jonathan More e Matt Black, da lì a breve fondatori della Ninja Tune) che con “Beats + Pieces”, del 1987, mostrano quanto fossero attrattive le potenzialità derivate dalla manipolazione di sorgenti sonore prelevate da vecchie incisioni di generi disparati. Il botto lo fanno tra 1988 e 1989, quando pubblicano “Doctorin’ The House” (col featuring di Yazz), “Stop This Crazy Thing” e “People Hold On” (coi vocal di Lisa Stansfield), che insieme ad altre produzioni britanniche come “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., “Beat Dis” di Bomb The Bass e “Theme From S-Express” degli S’Express sdoganano una nuova concezione di produrre musica. Ai tempi house ed hip hop viaggiano parallele e talvolta finiscono con l’intersecarsi per modalità compositive (si veda, ad esempio, “The Power” degli Snap!, “Gonna Make You Sweat (Everybody Dance Now)” di C+C Music Factory e i dischi dei belgi Benny B prodotti da Vito Lucente, il futuro Junior Jack). Non certamente a caso nel video compaiono molti nomi emblematici del rap, il DJ Prince Paul degli Stetsasonic (e produttore dei De La Soul), DJ Jazzy Jeff & The Fresh Prince, Ice-T ed LL Cool J. Se da un lato il sampling indica la strada di nuove tecniche e forme compositive del tutto inedite («quando sono intervenuti i campionatori si è creato una sorta di muro di suono, e molti produttori hip hop hanno cercato di stratificare il loro suono per creare qualcosa di nuovo», come spiega Andrea Benedetti in questa interessante lecture, dall’altro implica tutta una serie di problematiche legali connesse ai diritti di copyright che il campionamento, di fatto, infrange. Per tale ragione si ritrovano testimonianze di artisti come la compianta Ofra Haza (la cui voce viene campionata dai Coldcut nel remix di “Paid In Full” di Eric B. & Rakim), Debbie Gibson, Tom Petty, Steve Stevens, Steve Winwood, Lou Reed, ma anche dei produttori Bob Clearmountain e Russell Simmons della Def Jam e persino di due avvocati: Philip M. Cowan, che allora si occupa del caso che vede imputati i Beastie Boys per aver attinto da “The Return Of Leroy” della Jimmy Castor Bunch per la loro “Hold It Now, Hit It”, e Lawrence Stanley della Tommy Boy, che difende i De La Soul per aver “prelevato” un frammento di “You Showed Me” dei Turtles per la loro “Transmitting Live From Mars”. Insomma, in poco più di otto minuti la clip mostra pro e contro di una metodologia compositiva da sempre in bilico tra geniale creatività e riprovevole furto. Il campionatore, come scrive Simon Reynolds in “Retromania”, «non era una semplice “macchina da citazioni” ma poteva funzionare in modo altrettanto efficace come strumento di pura sintesi sonora che non si limitava a decontestualizzare le fonti ma le rendeva astratte». L’abilità del cosiddetto “crate digger” di classe (ossia colui che setaccia aste di beneficienza, mercatini dell’usato e scantinati di negozi alla ricerca di dischi sconosciuti da campionare) si riconduce, come spiega il noto giornalista/scrittore, «a quella sensibilità che gli permette di individuare un potenziale sample che sfugge agli altri, il minimo svolazzo orchestrale o lo scampolo di chitarra ritmica che può funzionare come loop, il momento casuale di una traccia jazz-funk in cui la strumentazione tace, isolando una manciata di note trasformabili nel riff melodico centrale di un pezzo nuovo». Non tutti però sono crate digger, e per tale ragione il sampling continuerà a battere una zona grigia in cui arte e furto viaggiano costamente insieme. Per approfondire ulteriormente questa tematica si segnala il libro “Controversies Of The Music Industry” di Richard D. Barnet e Larry L. Burriss, in cui si rinviene uno dei primi casi che vede il campionamento come “copyright infringement”, quello in cui Boyd Jarvis cita in giudizio Robert Clivillés e David Cole (i sopramenzionati C+C Music Factory) per aver illegalmente tratto dei sample dalla sua “The Music Got Me” di Visual per trapiantarli in “Get Dumb! (Free Your Body)” di The Crew Featuring Freedom Williams. Tutti i dettagli sulla causa disputata in tribunale il 27 aprile del 1993 sono qui.

808
L’evoluzione della musica elettronica è stata decretata sia da intuizioni artistiche che dall’avvento di nuove tecnologie. Non bisogna dunque meravigliarsi se qualcuno abbia voluto dedicare un intero documentario ad uno strumento. Era già avvenuto con Nate Harrison che approfondì sulla Roland TB-303 (leggi recensione su questa stessa pagina) ed ora tocca alla Roland TR-808, un’altra di quelle macchine che hanno rivoluzionato lo scenario in maniera globale. Basti pensare che i beat generati da questo rhythm composer abbracciano uno spettro tanto ampio che va da “Sexual Healing” di Marvin Gaye a “Brass Monkey” dei Beastie Boys, passando per “One More Night” di Phil Collins, tutta l’electro newyorkese connessa alla breakdance capitanata da “Planet Rock” di Afrika Bambaataa, la proto techno dei Cybotron (“Clear”), la house grezza di Chicago (“No Way Back” di Adonis) sino alla techno lambiccante dei 90s (“Spastik” di Plastikman). Insomma, non un prodotto finito nelle mani di un target ben preciso ma una macchina in grado di mettere d’accordo un numero abissale di compositori, tanto grande da persuadere Alex Dunn a mettersi all’opera su quello che sembrava un lavoro infinito. Il documentario si avvale di un cast stellare, così vasto da mettere in seria difficoltà chi pensava alla TR-808 come una “diavoleria destinata a musicisti da strapazzo”. Damon Albarn, Arthur Baker, Jellybean Benitez, Diplo, Phil Collins, Goldie, Felix Da Housecat, 2 Many DJ’s, Fatboy Slim, MC G.L.O.B.E., David Guetta, Richie Hawtin, Jori Hulkkonen, Lil’ Jon, François Kevorkian, David Noller, Man Parrish, Tom Silverman, Armand Van Helden, Pretty Tony, Gerald Simpson, Tiga, Bernard Sumner, Todd Terry e Pharrell Williams sono solo alcuni di coloro che hanno raccontato l’epopea di uno strumento-icona in grado di resistere all’incedere degli anni. Dunn è riuscito a coinvolgere anche Ikutaro Kakehashi, fondatore della Roland spentosi giusto pochi mesi fa, che ha svelato un aneddoto davvero significativo: i transistor utilizzati nella TR-808 erano difettosi, pare persino scartati da aziende concorrenti, ma capaci di produrre un suono unico, che non somigliava a nulla in circolazione ai tempi. Tale peculiarità, comunque, non decretò la fortuna dello strumento, anzi, avvenne esattamente il contrario perché i suoni che generava erano diversi da quelli delle batterie reali, e sfigurava se messa a confronto con la LM-1 della Linn Electronics. L’unico punto a favore fu il costo assai contenuto, poco più di mille dollari, circa quattromila in meno rispetto alla più blasonata LM-1. “808”, prevedibilmente, è stato accolto con favore dalla critica e dal pubblico, tanto da stuzzicare l’interesse dei media generalisti, come La Repubblica, seppur con qualche leggerezza («il primo a usarla fu Afrika Bambaataa, nel 1982», inesattezza imperdonabile se si pensa agli Yellow Magic Orchestra, stranamente esclusi dal documentario, che la adoperarono in “1000 Knives” del 1980 inserita nell’album “BGM” l’anno dopo, alla nostra Doris Norton in “Raptus” del 1981, o al compianto Mandré che sembra iniziò a testare un prototipo della TR-808 già nel ’79, quando registrò “M3000” per la Motown). Comunque, a conti fatti, è rincuorante constatare che il divario tra strumenti tradizionali ed elettronici oggi si sia ridotto quasi a zero. Per il momento è distribuito solo su Apple Music ma se siete alla ricerca di qualcosa di “tattile” qui è possibile ordinare la tshirt e la soundtrack incisa su CD e vinile in cui figurano, tra gli altri, Man Parrish, Planet Patrol, Shannon e Strafe ma che, stranamente, oltre agli 808 State (nomen omen), e Felix Da Housecat non si avvale di nient’altro legato alla house o alla techno, i due generi che probabilmente più di altri hanno trasformato la TR-808 in una macchina mitologica.

Italo Disco Legacy
Ci avevano già pensato Pierpaolo De Iulis con “The Sound Of Spaghetti Dance” (segnalato su questa stessa pagina) e Francesco Cataldo Verrina nel libro “Italo Disco Story” a tratteggiare il controverso mondo della dance italiana degli anni Ottanta, ma è positivo che qualcun’altro sia tornato sull’argomento, ampliandone le prospettive e i punti di vista. Pietro Anton, regista di “Italo Disco Legacy”, pone l’attenzione soprattutto sul raffronto, costante, tra il racconto di chi ha vissuto il fenomeno dell’italo disco in Italia e chi invece lo ha conosciuto ed apprezzato vivendo oltre le Alpi. Ad emergere è uno spaccato interessante e significativo perché offre allo spettatore una valida chiave di lettura per inquadrare la tematica in modo ancora più accurato e profondo. Se l’italiano medio è abituato a parlare dell’italo disco come un filone sospeso tra trascurabile cineseria e banale paccottiglia rifilata ad immense platee dalla televisione berlusconiana o dalla radio/mente cecchettiana, all’estero questo genere gode di ben altra credibilità. Basti ascoltare i racconti di alcuni dei personaggi coinvolti, come il francese The Hacker e l’olandese I-f, per capire quanto sia radicalmente diversa la percezione per un genere che non va liquidato semplicisticamente come l’enorme calderone di canzonette montate su basi ritmiche realizzate con LinnDrum, Roland TR-808, Oberheim DMX, E-mu Drumulator e Simmons SDS 8, trainate dal basso in ottava e date in pasto, a seconda della stagione, al pubblico dei cinepanettoni o a quello dei Festivalbar. Dal 1981 al 1984 circa l’italo disco si rivela seminale per futuri generi rivoluzionari ed epocali come house e techno pur nascendo in maniera piacevolmente ed innocentemente naïf, e diventa anello di congiunzione tra la disco americana, ormai sul viale del tramonto, l’eurodisco moroderiana e correnti nascenti come new wave e synth pop che legittimano ritmiche e suoni prodotti ed eseguiti elettronicamente. Certo, quelle che a posteriori verranno riconosciute come affascinanti intuizioni in realtà sono espedienti trovati per ovviare a problemi di varia natura (vocoder che maschera l’inglese maccheronico, scrosci di batteria che simulano i virtuosismi del batterista virtualizzato dalle drum machine, apparati melodico-armonici particolarmente elaborati che sopperiscono all’assenza delle grandi orchestrazioni), ma nonostante tutto l’italo disco riesce a smarcarsi dalla banale imitazione da tarocchificio cinese acquisendo una propria identità. Quando quella formula raggiunge le grandi platee in tanti(ssimi) si buttano a capofitto nell’affare, disperdendo l’apporto creativo sul quale hanno le meglio scopi meramente economici da parte sia di imprenditori discografici, sia di compositori allettati dal guadagno facile, che finiscono con l’affossare il genere sino a renderlo pacchiano e, per anni, alla stregua di uno scheletro nell’armadio. Tra i personaggi coinvolti Flemming Dalum, Intergalactic Gary, DJ Hell, Linda Jo Rizzo, David Vunk, Alden Tyrell, DJ Overdose, Otto Kraanen, Fancy, Marcel van den Belt e Mark Du Mosch ma ovviamente anche tanti italiani come Fred Ventura, Alexander Robotnick, Albert One, P. Lion, Roberto Turatti, Daniele Baldelli, Anfrando Maiola (Koto), Brian Ice, Marcello Catalano, Franco Rago & Gigi Farina, Vince Lancini degli Scotch, Ken Laszlo, Aldo Martinelli, Simona Zanini, Stefano Brignoli e Beppe Loda a cui si aggiunge anche qualche contemporaneo come Sandro Codazzi e Francesco ‘Francisco’ De Bellis. Alcuni guest fanno poco più di fugaci comparsate e chiaramente mancano dei nomi che sarebbe stato interessante annoverare, ma nel complesso tutto torna utile per raccontare un genere che, come afferma Hell negli ultimi frame, non avrà mai fine. Ad implementare il DVD è una compilation edita su doppio vinile dalla berlinese Private Records in cui si alternano brani del passato, del presente e qualche inedito.

10 Jahre Zyx
Non si tratta di un documentario bensì di un servizio trasmesso nel 1989 nel programma Backstage dalla Tele 5, uno dei canali televisivi stranieri posseduti allora da Silvio Berlusconi. Ventisei minuti non sono tantissimi ma sufficienti per capire cosa fosse la Zyx, tra gli imperi discografici tedeschi indipendenti più importanti e longevi della storia musicale contemporanea. Fondata nel 1971 da Bernhard Mikulski, ex manager della CBS Schallplatten negli anni Sessanta, è un colosso di dimensioni esagerate con sede principale a Merenberg, in Assia, ma con filiali dislocate negli Stati Uniti, Paesi Bassi, Svizzera, Francia, Regno Unito e Polonia. Nata inizialmente come distribuzione chiamata Pop Import, nel corso degli anni si trasforma in una casa discografica a tutti gli effetti e cambia nome in Zyx Music prendendo spunto da Zzyzx, località californiana nella contea di San Bernardino, situata tra Los Angeles e Las Vegas. Come spiega il direttore degli A&R Reinhard Piel, pur trattando generi come rock, jazz o colonne sonore, Zyx Music è in primis un’etichetta di musica pop dance e il suo successo risiede nell’essere riuscita a cavalcare trionfalmente gli anni Ottanta per intero, diventando promotrice di nuovi generi come synth pop, eurodisco e new beat ma soprattutto la dance esportata dall’Italia a cui Mikulski affibbia il nome italo disco per poterla lanciare meglio sul mercato attraverso una serie di compilation. L’attrazione che il discografico prova nei confronti della musica per le discoteche è forte. Inizia col supportare gli esperimenti del compositore/arrangiatore Pit Löw che nel 1982, celato dalla sigla P.L., incide “Space Dreams”, un album di cover (Pete Shelley, Kraftwerk, Poussez!) in chiave electro disco (modalità ripresa nel 1983 in “Sounds Of Humanoid Kind” di E.T.M.S.). Nello stesso anno licenzia “Girl On Me” degli italiani Amin-Peck seguito da “Dance On The Groove And Do The Funk” dei campani Funk Machine ed “Hookey” del lombardo Sylvi Foster (il futuro Joe Yellow). Continuando a pubblicare musica schlager e pop rock, Mikulski intuisce che la dance è un filone aurifero. L’anno della svolta è il 1983: importando decine di altri pezzi italiani (“Bad Passion” di Steel Mind, “Let’s Dance” di Kex, “Take A Chance” di Mr. Flagio, “Pulstar” di Hipnosis, “Tubular Affair” di Samoa Park, “I.C. Love Affair” di Gaznevada, “Voices In The Dark” di Mike Cannon, “Japanese War Game” di Koto, “Are You Loving?” di Brand Image, “Pretty Face” di Stylóo, “Rainy Day” di Brando, “Watch Out!” di Doctor’s Cat, ” Witch” di Helen, “Sexiness” di Travel Sex, “The Hustle” di Talko, “Give Me A Break” di Joe Maran, “Plastic Doll” di Dharma, “The Rule To Survive (Looking For Love)” dei N.O.I.A., “Love Theme From Flexxy-Ball” di Flexx, “Penguins’ Invasion” di Scotch, “Somebody” di Video ma la lista andrebbe avanti per parecchio), la Zyx diventa portabandiera di un suono inizialmente un po’ grezzo e che in tanti giudicano poco più che amatoriale ma destinato a trasformarsi nel pop adottato da quasi tutto il Vecchio Continente, adorato e glorificato da milioni di persone. Dall’Italia giungono, tra gli altri, “To Meet Me”, primo singolo di Den Harrow, “Talk About” di Phaeax e la struggente “Don’t Cry Tonight” di Savage, e per Mikulski è un tripudio visto che quella musica riesce a distribuirla quasi ovunque. Inizialmente snobbati dalle multinazionali, adesso quei brani raccolgono grande successo e la Zyx si ritrova al centro dell’attenzione internazionale. Alternando classica italo disco (Miko Mission, Valerie Dore, Camaro’s Gang, Paul Sharada) al synth pop dei Pet Shop Boys e di Paul Hardcastle e passando per l’electro di Egyptian Lover, il funk di Tullio De Piscopo, la new wave dei Kirlian Camera e nuovi remake ai confini col plagio (come “Stop – Watch” di Hypnotic Samba, con chiari riferimenti a “Passion” delle Flirts prodotte da Bobby Orlando) l’etichetta tedesca conquista una fetta sempre più consistente di mercato. Nel 1986 Mikulski mette sotto contratto gli OFF, un gruppo composto da due compositori, Michael Münzing e Luca Anzilotti, ed un frontman-cantante, Sven Väth. All’attivo hanno un solo singolo, “Bad News”, pubblicato l’anno prima dalla Bellaphon e passato inosservato, ma tutto cambia con “Electrica Salsa (Baba Baba)” che diventa una hit europea ed è comprensibile la ragione per cui il manager, nel video, snoccioli fieramente i risultati ottenuti. Meno fortunato si rivela il follow-up, “Step By Step” (di cui scorre il videoclip), a cui non seguirà alcuna inversione di tendenza ma i tedeschi verranno ripagati alla grande in altro modo visto che Münzing ed Anzilotti si trasformeranno in Snap! mentre Väth, che nei primi video ed apparizioni pubbliche serba movenze che lo fanno paragonare al nostro Lorenzo Cherubini ai tempi di Gino Latino o del Jovanotti col cappello Yo, diventerà uno dei più importanti DJ planetari. In chiusura giunge Chanelle, sbarcata su Zyx nel 1989 con “One Man” remixata da due pesi massimi della house come David Morales e Frankie Knuckles, e il trio dei Noname, emuli dei Depeche Mode e nati da una costola dei Dark Distant Spaces, che eseguono “Fashion”, prodotto dai citati Münzing ed Anzilotti. Per la Zyx gli anni Novanta trascorrono sotto il segno dell’eurodance e dell’italodance. Il rapporto con l’Italia è forte, tanto che prima Discomagic e poi Media Records cedono ad essa i propri cataloghi. Bernhard Mikulski passa a miglior vita il 9 ottobre del 1997, a 68 anni. Le redini della società, che include anche una stamperia interna, le prende la moglie Christa oggi a capo di un gruppo discografico con oltre 250 dipendenti.

Road To Trip
C’è stato un periodo, circa trent’anni fa, in cui il turntablism era considerato un autentico faro dalla generazione che approcciava alle “musiche nuove” (hip hop, house, techno). L’abilità manuale pari a quella di un prestigiatore, la velocità delle dita, gli incroci acrobatici tra arti (mani, piedi), l’uso di parti inconsuete del corpo (bocca, naso, mento): tutto coordinato alla perfezione per creare rumori artistici, “graffi musicali” che lasciano letteralmente increduli gli astanti e suscitano rispetto per quella professione, oggettivamente non alla portata di tutti. Parafrasando quanto scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”, «le abilità tecniche dei DJ hip hop erano abbastanza appariscenti da essere cercate come obiettivo tanto che gli elementi essenziali di quel tipo di DJing furono distillati fino ad essere trasformati in una forma artistica quasi completamente estranea a quella che era stata la funzione originaria, ovvero far ballare la gente». In effetti il turntablism è una disciplina squisitamente tecnica, un esercizio olimpionico fondato su creatività, rapidità e manualità, che trascende dal classico beatmatching tra due brani, una vera banalità messa al confronto. In Italia c’è più di qualcuno che, tra la fine degli Ottanta e i primi Novanta, dà prova di essere un vero virtuoso dei giradischi, come Cesare Tripodo, da Bari, in arte DJ Trip. Impegnato già da tempo nella consolle del Rainbow Club, nota discoteca del capoluogo pugliese, Tripodo affina costantemente la tecnica che gli consente di approdare al DMC dove dimostra le proprie qualità. Il documentario diretto da Claudio D’Elia e prodotto da Apulia Film Commission in esclusiva per Repubblica.it, mette in risalto la sua figura attraverso i ricordi di chi condivise con lui quei magici ed irripetibili momenti, come Francesco Zappalà che lo definisce “un pozzo di fantasia”, Danny Losito, voce e frontman dei Double Dee, che ne parla come un “musicista che suonava coi dischi”, e Claudio Coccoluto che invece rammenta quanto quel talento fosse temuto all’estero. Altre testimonianze sono offerte dai famigliari (la madre Assunta Misceo, la sorella Marta Tiziana Tripodo, la fidanzata Antonella Serini, l’amico Enzo Abbrescia), tutte utili per comprendere quanto Cesare fosse poco attratto dalla gloria ed animato da una incontenibile passione, indiscusso leitmotiv della sua purtroppo breve carriera artistica. Tra gli spezzoni di vecchie registrazioni raccolte se ne rinviene una, tratta da un’ospitata su Odeon Tv/Antenna Sud, in cui Tripodo afferma che «c’è chi sta già pensando al business» (anzi, al “bisnìss”, con inconfondibile accento barese) riferendosi a chi iniziò a lucrare sul movimento rave. Poi lancia anche una frecciata a chi chiedeva la chiusura anticipata delle discoteche per arginare le cosiddette “stragi del sabato sera”. Tematiche, per certi versi, ancora attuali, specialmente sul fronte della mercificazione del settore, in contrapposizione con la spontaneità di quando la house music emetteva i primi vagiti, periodo in cui «la generazione era meno disposta a farsi propinare cose ma più a toccare con mano», come sostiene Zappalà, e in cui «c’era un contraltare rispetto alla cultura di massa», come rimarca invece Nicola Conte. La figura del “DJ produttore” stava nascendo, anche in virtù della diffusione di nuovi equipment tecnologici che di fatto non relegavano più l’attività in studio esclusivamente ai musicisti. Trip, in tal senso, è da considerarsi un assoluto pioniere visto che già nel 1983 contribuisce al mix di “Can We Go” di Electric Mind, edito dalla Full Time. Come si legge in un’intervista pubblicata su Discotec nel 1991, all’indomani della vittoria del DMC Italia, il DJ pugliese intendeva mettere da parte i virtuosismi per dedicarsi con impegno alla produzione discografica. «Faccio ancora serate in discoteca in cui prima mi esibisco al mixer per una decina di minuti e poi comincio a mettere dischi per far ballare il pubblico. Il discorso dello scratch è legato al DMC ma io non voglio essere etichettato come scratcher, trovo sia riduttivo. Ben venga lo scratch se ha una collocazione giusta, ma io ho iniziato come disc jockey e la mia passione rimane quella» spiega. Proprio nel 1991 il DMC Italia, coordinato da Fabio Carniel del Disco Inn di Modena, pubblica la sua “Original Version From Demotape” su un sampler promozionale di appena 500 copie. Trattasi di un brano, voluto da D’Elia come sottofondo nella clip, in cui il DJ sintetizza in poco più di tre minuti l’amore per il jazz e il funk e mette in mostra l’estrosità nel trattare i sample. Sempre nel ’91 Tripodo partecipa al primo album dei citati Double Dee, in particolare a “Walden” a cui avrebbero dovuto far seguito altre cose tra cui il remix (mai pubblicato) di un brano di Eumir Deodato consegnato da Nicola Conte alla londinese Acid Jazz, come racconta qui Pasquale 33. In quell’intervista su Discotec l’artista parla inoltre di nuove collaborazioni coi Double Dee e col rapper Master Freez per il quale preparava il primo album insieme a Claudio “Moz-Art” Rispoli. Un disco, pure questo, a quanto pare mai pubblicato. «Sto lavorando anche al mio primo mix che uscirà prima in Inghilterra e poi in Italia, si tratta di un pezzo strumentale costruito su virtuosismi jazz. Mi piacerebbe creare un’etichetta simile alla Talkin’ Loud anche se per me è ancora prematuro pensare ad un progetto simile» afferma. Tripodo proviene da un mondo in cui fare il DJ non significa ancora fama e denaro, una dimensione in cui alberga una sana dose di pionierismo, gusto per l’avventura e spirito di sacrificio. Proprio negli anni in cui il suo nome sale alla ribalta nazionale ed internazionale il DJing inizia ad essere una professione riconosciuta, dopo essere stata ingratamente ridotta alla stregua di banale hobby dopolavorista. Il barese ha tutte le carte in regola per diventare uno dei protagonisti della fase aurea novantiana in cui in tanti, anche i meno meritevoli che ebbero però la prontezza di salire sul carro dei vincitori, raccolsero i frutti. Il sogno di Trip, ventisettenne, si spegne ad ottobre del 1991 in seguito ad un incidente stradale avvenuto nei pressi dello Stadio San Nicola, la “grande astronave” progettata da Renzo Piano proprio nella sua Bari. Il 1991, anno in cui vince il campionato italiano del DMC e vola alle finali londinesi avrebbe dovuto rappresentare il punto d’inizio di una nuova e promettente avventura ma il destino è infausto. Pochi mesi dopo la sua prematura dipartita, Coccoluto gli dedica “Don’t Hold Back The Feeling” di U-N-I, su Heartbeat, «un disco che avremmo dovuto realizzare insieme dopo aver isolato dei campioni a casa sua», come ricorda nel video, «ma che purtroppo ho dovuto finire da solo». U-N-I, ovvero You And I come specificato sul centrino, implicita un chiaro intento tributativo. Nel 1993 gli amici concittadini Michele Lamparelli, Renato Costarella e il citato Pasquale 33 fanno altrettanto con due dischi dei F.L.U.X. 33 sulla Marcon Music. Ulteriori dediche si rinvengono sul primo album degli Stato Brado (alter ego dei Jestofunk) e sulla compilation “Italian Rap Attack”, mentre Mister Max & Loris M incidono, nel 1998, l’esplicativo “Tribute To DJ Trip”. Proprio Mister Max, in collaborazione col negozio gestito dal padre, il Mariotti DJ Point di Porto San Giorgio, dal 1994 organizza “DJ Trip”, una gara per DJ (divisa in tre categorie, tecnico, animatore e scratch ovviamente) per tenere vivo il suo ricordo. Nel ’95 tra i vincitori della competizione marchigiana c’è Aldino Di Chiano, futuro membro dei Men In Skratch, che farà strada come DJ Aladyn. Nel corso degli anni riaffiorano altre registrazioni, come questa al DJ Trophy organizzato dal negozio Stereo Mondo e con interventi vocali del rapper Master Freez, o questa dove Tripodo è in Tam Tam Village su Raiuno, condotto da Carlo Massarini, programma in cui figurano altri nomi destinati a lasciare il segno come il citato Zappalà, Giorgio Prezioso, Lory D e un altro accomunato da un triste destino, Mauro Tannino, scomparso prematuramente in seguito ad un incidente paracadustistico nel 2000. Non sapremo mai come si sarebbe evoluta la carriera di Tripodo, se la sua discografia avrebbe raccolto risultati pari a quelli ottenuti nel turntablism o ancora più rilevanti, o se la sua attività da DJ avrebbe preso il volo come quella di tanti amici con cui condivise l’esperienza al DMC, o magari se col tempo sarebbe riuscito davvero a metter su una sorta di Talkin’ Loud italiana. Restano però i ricordi di una persona animata dalla passione, vera e genuina, e le prodezze artistiche nel «creare suoni nella forma più spettacolare possibile», come lui stesso descrisse la propria performance in quella trasmissione televisiva su Antenna Sud nel 1991. Ps: ulteriori testimonianze (audio, video, fotografiche) sono sulla tribute page su Facebook e su questo canale Mixcloud.

Distant Planet: The Six Chapters Of Simona
La “seconda vita” dell’italo disco inizia circa venti anni fa ma solo in tempi recenti nasce l’esigenza di storicizzare quel particolare e controverso fenomeno stilistico nostrano attraverso libri, ristampe viniliche sempre più serrate e un numero altrettanto congruo di documentari. Alla lista va doverosamente aggiunto “Distant Planet: The Six Chapters Of Simona”, scritto e diretto da Josh Blaaberg e frutto della collaborazione tra il luxury brand Gucci e la rivista d’arte Frieze che nel 2018 hanno celebrato il trentennale della seconda “Summer Of Love”. In meno di mezz’ora il regista londinese descrive cosa è stata l’italo disco avventurandosi, seppur mai con piglio enciclopedico, nei meandri del suo codice genetico che la ha resa unica al mondo. Per farlo conta sull’aiuto di quattro pilastri del movimento, Simona Zanini, Fred Ventura, Alberto Signorini e Franco Rago, coinvolti alla stregua di attori sul set di un film ipoteticamente girato nella New York del 1985 o giù di lì, espediente che forse intende evidenziare il perno attorno a cui gravita gran parte di quel movimento musicale, la “simulazione”, di cui si parlerà più avanti. Giunta dopo gli anni di piombo tragicamente segnati dal terrorismo e dalle Brigate Rosse, l’italo disco appare subito come la porta d’accesso di un nuovo mondo in cui divertirsi e sbirciare nel futuro attraverso i tipici stereotipi di quello che oggi ormai si guarda con prospettiva retrofuturista. Nato per colmare il vuoto lasciato nella dance dopo il declino della disco statunitense e capace di intercettare presto lo smarrimento di chi cerca ancora musica da ballo, questo genere germoglia su intenti emulativi ma qualcosa lo rende più di una banale e raffazzonata imitazione da tarocchificio asiatico. Certo, le occhiate al mondo new wave e synth pop, specialmente quello britannico che allora rappresenta l’ago della bilancia delle tendenze europee, non si contano, e ciò lo si evince dai testi dei brani (troppo spesso in un inglese maccheronico), dai nomi degli artisti e dal loro look, ma l’italo, tuttavia, riesce ad originare qualcosa di diverso. Le melodie ideate in Italia non sono né quelle della new wave dei Visage, degli Ultravox o dei Depeche Mode ma nemmeno quelle della disco à la Bee Gees o Gloria Gaynor. È vero che i compositori italiani scopiazzano a destra e a manca, talvolta con esagerata evidenza, ma è altrettanto vero che lo fanno con una creatività artigianale disarmante al punto da riuscire a concepire una forma ibrida di neo dance, prototipo seminale per le future house e techno. Per i nordici che trascorrono le vacanze estive presso la riviera romagnola nella prima metà degli anni Ottanta – come il danese Flemming Dalum, intervistato qui -, le discoteche italiane rappresentano autentici paradisi in cui trovare riparo prima di tornare alla routine quotidiana immersa nel grigiume piovoso delle loro città. In posti come L’Altro Mondo Studios o il Cellophane il tempo si ferma e per qualche ora si entra in un universo parallelo, magico, in un sogno con una colonna sonora perfetta, l’italo disco appunto. C’è un rovescio della medaglia però. L’italo disco è anche quel genere sdoganato da molti artisti “di facciata” che scaltri produttori e smaliziati discografici arruolano per le canoniche foto sulle copertine dei dischi o per portare il brano in formato live in discoteca o negli spettacoli televisivi. Aitanti giovanotti e procaci ragazze diventano una sorta di frontman e frontwoman, pur non avendo un gruppo alle spalle che suona. Offrono volto e presenza scenica perché quella è una formula commercialmente appetibile. A distanza di anni si riveleranno essere mimi esperti in lip-sync, attori, ballerini ma quasi mai cantanti o musicisti. Persino alcune biografie fatte circolare allora su rotocalchi e riviste sono il frutto della più ferrea immaginazione. Insomma, la parola-chiave di quel movimento improvvisato, che simula (a volte ironicamente e goffamente) il capitalismo d’oltremanica, che cavalca l’edonismo più sfrenato e che punta quasi tutto sull’apparenza, è “finzione”. Decine di personaggi-immagine diventano protagonisti, nonostante il loro ruolo sia solo quello di rappresentare pubblicamente quanto avviene in fumosi studi di registrazione, lì dove nascono progetti-Frankenstein che fanno ballare milioni di giovani. Realtà e finzione, dunque, si mischiano vicendevolmente e talvolta diventa difficile se non impossibile capire dove termina una cosa ed inizia l’altra. È plausibile che Blaaberg, come detto prima, abbia scelto di girare un film più che un documentario proprio per evidenziare tale aspetto, colto peraltro in modo diretto in una scena che vede dialogare in merito Ventura e la Zanini: «Questo viaggio mi sembra una presa in giro» dice il primo. E lei risponde: «Può essere doloroso pensare al passato, a volte vorrei essere stata io su quel palco, la mia voce, il mio volto, essere vista». La presenza di questi “artisti non artisti” finisce col procurare all’italo disco una equivoca nomea che alimenterà polemiche e il giudizio impietoso da parte di ambienti musicali paralleli, in primis quello rock e cantautorale. Non a caso quando il movimento collassa, intorno al 1988 sotto la spinta dell’house music che prende piede in Europa, l’italo disco diventa quasi un tabù anche se in Italia, è giusto ricordarlo, si continuerà a fare leva sulla figura del personaggio-immagine nella fase italodance (corrente che raccoglie l’eredità della stessa italo disco) ancora per buona parte dei Novanta, e a tal proposito si rimanda a questo reportage. Quello che per diversi anni è stato un sogno si trasforma in un incubo nonostante milioni di copie vendute, folle oceaniche di adolescenti in visibilio, fama e successo che paiono infiniti. Ma è solo questione di tempo affinché l’italo disco, un mix bizzarro quanto unico di felicità, euforia, tristezza e malinconia, riconquisti adepti e vigore e torni a pulsare di nuova vita, abbracciando questa volta anche chi, allora, non ebbe la forza per uscire dall’anonimato. Nel docufilm, realizzato tra Regno Unito ed Italia e a cui hanno collaborato, tra gli altri, Sasha Crnobrnja degli In Flagranti, il giornalista Piers Martin e Lorenzo Cibrario che qualche anno fa curò la mostra fotografica “Spaghetti Disco”, passano in rassegna tante copertine, spezzoni di vecchie registrazioni video e svariati brani ma per fortuna non le solite hit da balera trite e ritrite che hanno ingiustamente relegato e banalmente sintetizzato il movimento italo al successo nazionalpopolare che da un lato lo elevava alla massima potenza ma dall’altro lo svuotava dai contenuti primari con cui il genere, oggetto di una rivalutazione ormai su scala planetaria, nasce intorno al 1982.

High Energy – Una Nuova Forma Di Disco Music
Mandato in onda recentemente da Sky Arte, “High Energy”, scritto e diretto da Olivier Monssens col supporto di Universal Music France e diversi ospiti illustri tra cui Dan Lacksman dei Telex e Bobby Viteritti, DJ del Trocadero Transfer a San Francisco, traccia le coordinate del genere musicale che tiene banco per circa un decennio, fungendo da raccordo tra la musica da discoteca degli anni Settanta e quella dei Novanta. La narrazione parte dal declino della disco con l’immancabile Disco Demolition Night organizzata da Steve Dahl al Comiskey Park di Chicago il 12 luglio del 1979. Il colpo inferto ai danni di quel genere e a tutto il movimento che gravita intorno è epocale. A favorire la campagna anti-disco spronata dallo slogan “disco sucks!” è la dilagante banalizzazione di quella musica alimentata dall’iper sfruttamento commerciale, così come rimarca nel documentario Dwayne Holt, DJ dello Studio 54 di New York nei primi anni Ottanta, quando il locale è diretto da Mark Fleischman. Tuttavia nelle comunità omosessuali di New York e San Francisco la disco non muore in maniera definitiva. Sparisce dal mainstream e si aggiorna, trasformandosi nella forma estetica ma preservando il proprio DNA. Nasce così l’hi-nrg, una sorta di neo disco in cui le pulsazioni ritmiche aumentano ed incorniciano una serie di nuovi suoni sintetici ottenuti con sintetizzatori e batterie elettroniche che sostituiscono le tradizionali partiture eseguite da musicisti ed orchestre analogamente a quanto avviene, dall’altro lato dell’Atlantico, col rock e la new wave. Questa volta l’Europa copre un ruolo più centrale e determinante. Ad evidenziarlo è un altro ospite coinvolto da Monssens, il tedesco Manfred Alois Segieth che lasciandosi alle spalle una serie di incisioni schlager firmate Tess Teiges, si reinventa aderendo all’hi-nrg come Fancy. Nato a Monaco, il cantante individua nella sequenza di basso semicromatico usato da Giorgio Moroder in “I Feel Love” di Donna Summer (ma pure da Nico Fidenco nella decisamente meno nota “Eternal Anguish”, dalla colonna sonora di “Emanuelle Perché Violenza Alle Donne?”, ’77) l’elemento prodromico su cui si basa la spinta propulsiva della musica hi-nrg, un genere esuberante, privo di inibizioni nonché traino per l’emancipazione definitiva degli omosessuali. Come ben evidenziato dal regista, il ribollire creativo dell’hi-nrg è riconducibile a più personaggi dislocati in diverse parti del globo. Se l’italiano Moroder e il francese (di origine italiana) Cerrone offrono campali spunti già nel 1977 nei rispettivi album “From Here To Eternity” e “Supernature”, altri ne decodificheranno gli intenti sviluppandone altrettanto seminali varianti. È il caso di Patrick Cowley che a San Francisco getta le basi di quella che sarebbe diventata hi-nrg partendo, per gioco, con un remix amatoriale di “I Feel Love”, ma non l’arcinoto lungo quindici minuti bensì quello recuperato dalla Dark Entries e pubblicato nell’autunno del 2020 in “Some Funkettes” di cui, per ovvie ragioni, non si parla nel film. Il sound di Cowley è decisivo: pezzi come “Menergy”, “Megatron Man”, “Tech-No-Logical World” e “Do Ya Wanna Funk”, quest’ultimo col featuring di Sylvester, tracciano le linee direttive di un nuovo quadro stilistico che raccoglie stimolanti idee dal passato e le proietta nel futuro mediante suoni dalle tinte più scintillanti e ritmiche metronomiche. La “disco meccanizzata” inizia presto ad espandere il proprio raggio d’azione. Nel 1980 a Montreal, in Canada, i Lime (i coniugi Denis e Denyse Lepage) incidono “Your Love”, singolo-traino (a cui è ispirata “Sexy Rhythm” di Mario Più, 1998) per la loro sfolgorante carriera che andrà avanti per buona parte del decennio con incredibili risultati, come spiega la stessa Denyse nel filmato. Quasi parallelamente a New York si fa notare un altro compositore di origine italiana, Bobby Orlando meglio noto come Bobby O. Iperproduttivo al punto da essere definito “il McDonald’s dell’industria musicale”, produce decine di dischi con un numero altrettanto cospicuo di pseudonimi ed avvalendosi di personaggi a cui abbinare, di volta in volta, voce ed immagine pubblica. Ad evergreen imitatissimi come “I’m So Hot For You” (da cui germoglia “Da Hype” di Junior Jack) e “She Has A Way” si sommano, tra i tanti, “Fantasy” di Hotline e soprattutto le hit del trio The Flirts (“Passion”, “Danger”, “Helpless”) e della drag queen Divine (“Native Love (Step By Step)”, “Shoot Your Shot”, “Shake It Up”, “Love Reaction”). È sua pure la produzione dei primi singoli dei Pet Shop Boys (“West End Girls”, “One More Chance”, “West End – Sunglasses”). Purtroppo la prolificità orlandiana resta inversamente proporzionale alla disponibilità di concedersi al pubblico e alla stampa. Sarebbe stato fantastico vederlo tra i guest di questo documentario. Nell’arco di un biennio appena l’hi-nrg si trasforma in un tornado che coinvolge il mondo intero. Nel 1983 a Londra il DJ Ian Levine e il musicista Fiachra Trench producono “So Many Men, So Little Time” di Miquel Brown, una hit da due milioni di copie a cui l’anno dopo si aggiunge l’anthemico “High Energy” di Evelyn Thomas, un altro successo planetario che, come lo stesso Levine rivela nel video, è ispirato da “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood prodotto da Trevor Horn e da uno stralcio di “In The Navy” dei Village People. Ancora una volta il crocevia di influenze e la patchwork di stili filtrati attraverso diverse sensibilità riescono ad originare cose nuove. Da lì a breve il clima euforico dell’hi-nrg però viene minato da una seria minaccia e la festa diventa un incubo. L’AIDS, descritto inizialmente come “pandemia scoppiata tra gli omosessuali” inizia a mietere vittime. Tra i primi a soccombere c’è Cowley, morto poco più che trentenne a novembre del 1982. Medesimo destino infausto toccherà, anni dopo, pure all’amico Sylvester (1988) e a tanti altri eroi della musica, da Klaus Nomi a David Cole dei C+C Music Factory, da Freddie Mercury a Dan Hartman passando per Ofra Haza, Fela Kuti, Jacques Morali, Arthur Russell, Gil Scott-Heron e Tony De Vit. Le cose comunque vanno avanti e da Londra, dopo Ian Levine (artefice con Hans Zimmer di “On The House” di Midnight Sunrise, uno dei primi brani house prodotti oltremanica come raccontiamo nel dettaglio qui), giunge pure la PWL Records, l’etichetta di Pete Waterman che, insieme ai soci Mike Stock e Matt Aitken mette su un’autentica fabbrica di successi. Stilare una lista esaustiva di tutte le loro produzioni è impresa più che ardua ma basti pensare a “Showing Out” di Mel & Kim, “Never Gonna Give You Up” di Rick Astley, “I Should Be So Lucky” di Kylie Minogue, “Venus” delle Bananarama o “This Time I Know It’s For Real” di Donna Summer per farsi un’idea, anche approssimativa, della mole di lavoro svolto dal team britannico. Menzione a parte per “You Spin Me Round (Like A Record)” dei Dead Or Alive, band trascinata dal carismatico Pete Burns che conquista il grande pubblico con un look eccentrico ed una presenza scenica ambigua, oltraggiosa, androgina, paragonabile a quella di un’altra diva della disco, Amanda Lear. La PWL Records diventa una cassa di risonanza per l’hi-nrg che si mischia al synth pop e all’eurodisco diventando pura pop music per masse oceaniche di tutto il mondo e non più solo per piccole comunità LGBT come in principio. Il mercato è invaso da migliaia di dischi, da “(I’ll Never Be) Maria Magdalena” di Sandra, prodotta dal marito, il rumeno Michael Cretu futuro artefice degli Enigma, a “You’re My Heart, You’re My Soul” dei Modern Talking, da “The Only Way Is Up” di Yazz a “Slice Me Nice” e “Chinese Eyes” del citato Fancy ma se ne potrebbero citare a iosa come “Living On Video” dei Trans-X (pure loro da Montreal), “Face To Face – Heart To Heart” dei tedeschi Twins o “Get Up Action” dei Digital Emotion dai Paesi Bassi. Opportuno chiarimento di Monssens riguarda l’italo disco, genere che corre su un binario parallelo e complementare a quello dell’hi-nrg, contraddistinto da una più spiccata enfasi di voci e melodie. Indicato come punto di partenza è “I Wanna Be Your Lover” dei fratelli Michelangelo e Carmelo La Bionda, pubblicato nel 1980 ed anticipato l’anno prima da un album curiosamente intitolato “High Energy”. Sarebbe un errore però annetterlo a questa indagine giacché legato a doppio filo ancora alla funk/disco. L’italo disco partorisce una serie infinita di musiche ed artisti. Tra i menzionati nel documentario Ryan Paris, Raf, i Righeira (prodotti proprio dai La Bionda che rivelano come “Vamos A La Playa” nasca in un’atmosfera quasi drammatica poi opportunamente traslata in chiave felice) ed Ivana Spagna, pure lei disposta a svelare qualche aneddoto sui propri esordi, incluso il featuring in incognito per le Fun Fun di cui si parla qui. In un’ideale staffetta tra generi e miscugli ispirativi (in cui rientra pure la Francia ma con una posizione ridimensionata rispetto agli exploit di memoria disco, con “Where Is My Man” di Eartha Kitt e “Don Quichotte” dei Magazine 60), l’hi-nrg è fagocitata dal suo stesso successo, annaspa tra migliaia di cloni e finisce con l’arenarsi sulle rive della monotonia, esattamente come avviene alla disco music un decennio prima. I tempi sono ormai maturi per nuovi generi che la scalzeranno e ne prenderanno il posto (new beat, house, techno, acid), tutti accomunati da un radicale sconvolgimento sul piano compositivo sottolineato in chiusura da Waterman (contestualmente a qualche dichiarazione – comprensibilissima – da passatista nostalgico), ossia il modello canzone spodestato dalla griglia del ritmo. Le “canzoni”, così, mutano in “tracce”. Una prima fiammata di ritorno si registra ad inizio anni Novanta quando hi-nrg diventa un termine-ombrello generico usato per indicare il fiume di produzioni basate su retaggi italo disco velocizzati ed incrociati all’eurobeat che varie etichette nostrane come Time Records, S.A.I.F.A.M., Delta o Hi NRG Attack destinano espressamente all’export nel Sol Levante, Giappone in primis. Un rilancio più fedele alle matrici originali avviene invece nell’ambito di un processo musicale di riavvolgimento nostalgico partito con l’esplosione dell’electroclash, tra la fine dei Novanta e i primi Duemila, e non ancora terminato. Ps: per un ulteriore approfondimento si rimanda a questa lunga collection di interviste risalente al 2002 che aggiunge altri dettagli alla già ricca disquisizione di Monssens.

Italo Disco. Il Suono Scintillante Degli Anni 80
Diretto da Alessandro Melazzini, italiano trapiantato in Baviera dalla fine degli anni Novanta e fondatore della casa di produzione Alpenway, “Italo Disco. Il Suono Scintillante Degli Anni 80” è l’ennesimo dei documentari che si pone l’obiettivo di narrare l’epopea dell’italo disco, genere contenitore creato in Italia nei primi anni Ottanta e, da oltre un ventennio a questa parte, oggetto di uno sfrenato revivalismo che sembra non conoscere fine. Le intenzioni del regista sono, come indicato nella presentazione ufficiale, «raccontare la nascita e lo sviluppo di un genere musicale dalle molteplici anime» tuttavia, preso da solo, il suo lavoro non riesce comprensibilmente a soddisfare le esigenze narrative di una fenomenologia tanto complessa ed articolata come quella dell’italo disco, tema che probabilmente meriterebbe una serie (sul modello di “Comics: La Storia Segreta”) o comunque più spazio per essere descritto nella globalità ed interezza. Il rischio che si corre, avendo a disposizione meno di sessanta minuti come in questo caso, è sviscerare soltanto una parte dell’immenso serbatoio musicale italiano di quell’epoca, ingiustamente ricordato dai più solo per le hit nazionalpopolari da juke-box nelle località balneari che, è bene sottolinearlo, non sono affatto quelle che hanno alimentato la rinascita e la creazione di una nuova generazione di adepti ed amatori. Oggi, più che raccontare per l’ennesima volta la genesi di un filone sorto come risposta alla post disco statunitense e dai tratti ammiccanti alla new wave e al synth pop nordeuropei, occorrerebbe aprire e sviluppare nuovi dibattiti che possano generare chiavi di lettura differenti e soprattutto meno stereotipate. È vero che l’italo disco è stata la colonna sonora delle maxi discoteche della riviera adriatica, di pellicole come “Sapore Di Mare”, “Vacanze Di Natale” e “Rimini Rimini”, del boom economico, del berlusconismo in ascesa e del cecchettismo in piena fase espansiva, ma è altrettanto vero che intrecciare per la milionesima volta questi concetti non aiuta ad uscire dai luoghi comuni per cui l’Italia è riconosciuta oltre le Alpi anzi, probabilmente ne rinsalda ulteriormente i legami. Spiace quindi vedere liquidare l’italo disco come soundtrack di solo edonismo privo di personalità, concetto che peraltro continua a filtrare ancora adesso da tanti video che parodiano quegli anni (si veda “Riccione” dei Thegiornalisti, forse ispirata dalla dimenticata “On And On (Fears Keep On)” dei Decadance, con le Invicta scarabocchiate con l’Uniposca, i walkman, i calciobalilla, i jukebox in spiaggia, le bici Atala e i Ciao Piaggio). Fortunatamente c’è chi nel video, come DJ Hell, Mathias Modica, Flemming Dalum, Claudio Casalini e Daniele Baldelli, evidenzia il doppio volto dell’italo disco, quella bivalenza che fu il vero punto di forza ed oggi determinante per afferrarne in pieno la portata specialmente in riferimento all’influsso che ebbe su musiche dance nate negli anni a seguire, in primis la house di Chicago e la techno di Detroit. Altrettanto apprezzate le prese di posizione di Modica ed Hell sul ruolo centrale dell’Italia nella nascita della club culture e dell’arte del DJing, attestati di stima importanti che rivalutano il background nostrano affetto da tempo immemore dalla nauseante esterofilia che ha puntualmente minimizzato meriti, successi e scoperte artistiche. Già perché l’italo disco è fatta anche da ardite costruzioni ritmiche, innovative impalcature armonico-melodiche, trascinanti linee di basso. Una musica inizialmente sognatrice ed anticipatrice messa a punto da audaci musicisti in cui pulsava un cuore elettronico e che guardava al futuro, giocando con le tradizionali visioni da romanzo asimoviano tradotte attraverso il magma di suoni analogici dei sintetizzatori, i geometrismi ritmici delle batterie elettroniche e le voci vocoderizzate che, come qualcuno ha svelato in altre occasioni, servivano anche a camuffare le evidenti tare linguistiche anglofone. Del resto l’italo disco nasce in forma amatoriale e senza particolari velleità, in un ping pong ispiratore tra vecchio e nuovo Continente, ed acquisisce uno status solo a distanza di decenni quando ci si accorge che il suo minimalismo cheap è un carattere squisitamente identitario e non un difetto come credevano gli irriducibili del pop e del rock. Nel documentario non mancano cose dette e ridette che sfiorano la banalità seppur travestite da ponderate elucubrazioni sociologiche, e pure qualche imperdonabile svista, su tutte quella di citare le Flirts di Bobby Orlando come «il sex appeal dell’italo disco». Immancabile una (seppur breve) parentesi sul fenomeno dei ghost singer, quella divisione tra voce ed immagine (di cui parliamo qui) che ha retto per buona parte degli anni Novanta e che oggi continua ad infiammare le discussioni tra i fan sul web. Il giudizio sul lavoro di Melazzini alla fine dipende dalle aspettative che si hanno: per chi è già avvezzo alla materia e magari negli anni passati ha visto “Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance” di Pierpaolo De Iulis e “Italo Disco Legacy” di Pietro Anton, recensiti su questa stessa pagina, alcune premesse e promesse della sinossi risultano tradite visto che di brani cult meno conosciuti dal grande pubblico se ne contano appena una manciata, e il coinvolgimento di artisti come Sabrina Salerno, Pierluigi Giombini, Johnson Righeira e i fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda lo testimonia. Pure dell’approfondita ricerca d’archivio non si scorge granché e si finisce con l’avere l’impressione che non si sia davvero capito il suono di quell’epoca che continua ad essere raccontato secondo una percezione unilaterale legata all’Ita(g)lia spensierata dei soliti (e “scintillanti”) anni Ottanta, quella stessa Ita(g)lia che oggi discute se fosse più prorompente la britannica Samantha Fox o la nostra Sabrina.


(Giosuè Impellizzeri)

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Ghost producer: una storia lunga quarant’anni

Ghost ProducerGhost producer, letteralmente il “produttore fantasma” che compone un brano musicale, seguendo precise indicazioni ma anche il proprio gusto personale, per poi cederlo (dietro pagamento) ad altri, che lo pubblicano col proprio nome. Un procedimento analogo a quello dei cantanti turnisti, ingaggiati per prestare la propria voce ad un brano che non li vedrà come interpreti pubblicamente, o a quello dei session man, “musicisti assunti per suonare in un preciso progetto musicale oppure, su commissione, in appoggio ad un artista o gruppo musicale di cui non sono membri stabili” (da Wikipedia).

Al giorno d’oggi quello del ghost producer è un ruolo particolarmente controverso, soprattutto quando riguarda blasonati DJ, adorati da milioni di fan in tutto il mondo per delle doti compositive che, forse, non sono le loro, perlomeno non in forma integrale. Molti considerano il ghost producer una “figura” contemporanea, nata in questi anni di frenesia digitale proprio in seno ai “DJ popstar”, impossibilitati di frequentare lo studio di registrazione perché perennemente impegnati in estenuanti tour nei cinque continenti. Ad onor del vero di gente impegnata dietro le quinte di nomi pop(olari) ne è sempre esistita: musicisti, arrangiatori, fonici, tecnici del suono, cantanti, manager …insomma, il successo su larga scala difficilmente lo si ottiene e gestisce da soli. La differenza rispetto alle decadi passate è che oggi la star è anche (e soprattutto) il DJ e non più solo il cantante o la band. Si può tranquillamente parlare di “DJ rockstar” o “DJ popstar” senza timore di essere smentiti. Un DJ però difficilmente è un cantante, un arrangiatore o un musicista in senso lato. Può assemblare ritmi, scoprire furbi sample o prevedere trend futuri ma queste caratteristiche potrebbero non bastare. Per finalizzare al meglio le sue idee entrano in gioco altri professionisti, proprio come avviene per le star del pop. Non sappiamo ancora se ci sia qualche DJ disposto ad acquistare brani già pronti su cui apporre sopra solo il proprio nome ma ciò risulta abbastanza impensabile, almeno in riferimento ad artisti internazionali.

E ieri? Negli anni Settanta a creare musica da ballo erano i musicisti che non erano sempre disposti ad esibirsi in pubblico quando il brano diventava un successo. Proprio per tale motivo si iniziò a ricorrere a “personaggi immagine” che subentrarono agli autori quasi come attori per sopperire all’esigenza di dare un volto ed un corpo alla canzone di fronte al pubblico. Tra gli anni Ottanta e più radicalmente nei Novanta i DJ prendono posto negli studi di registrazione, anche grazie all’avvento di nuovi strumenti come i campionatori che offrono la possibilità di creare musica anche a chi non ha conoscenze teoriche o studi pregressi presso il conservatorio. In quegli anni la musica dance (intesa nella sua forma più globale) comincia a cambiare forma. Per un certo periodo vi è la compenetrazione di ruoli, tra i musicisti/arrangiatori, particolarmente abili nell’usare le strumentazioni, e i DJ, conoscitori delle tendenze nei club. Poi i disc jockey conquistano l’autonomia riuscendo, talvolta, a non far sentire troppo l’assenza dei musicisti.

Comincia tutto negli anni Settanta?

Nel 1975 il cantautore e produttore Frank Farian inventa i Boney M., passati alla storia per brani come “Daddy Cool”, “Ma Baker” e “Baby, Do You Wanna Bump”. Il tedesco, poco propenso ad esibirsi in pubblico e negli spettacoli televisivi, crea un gruppo di quattro elementi (tre ragazze ed un ragazzo) a cui affidare sia l’immagine sia il ruolo di performer. Per smentire le critiche che dipingono i Boney M. come impostori viene organizzato un tour in cui i quattro dimostrano le proprie capacità canore. Pericolo scampato ma non per molto. Nel 1988 Farian produce un disco con le voci di Brad Howell e John Davis ma, ritenendo la loro immagine scarsamente incisiva a livello commerciale, recluta due giovani ed aitanti modelli, Fabrice Morvan e il compianto Rob Pilatus, che diventano i Milli Vanilli, finendo sulle copertine e cantando in playback ai concerti. A dicembre del 1989 il rapper americano Charles Shaw rilascia un’intervista al New York Newsday dichiarando di aver rappato in “Girl You Know It’s True” dei Milli Vanilli percependo un compenso di 6000 dollari. Farian corre ai ripari ed offre a Shaw 150.000 dollari per ritrattare. Tutto sembra essersi risolto e nel 1990 l’album “All Or Nothing” conquista il Grammy come “Best New Artist”. Un problema tecnico sorto durante una performance su MTV però riaccende i sospetti, e a novembre di quell’anno Farian svela ai giornali che le voci dei brani dei Milli Vanilli non sono quelle di Morvan e Pilatus. Quattro giorni più tardi viene revocato il Grammy e la Arista rescinde il contratto col gruppo. Seguono molte cause e i due modelli (riapparsi sul mercato discografico come Rob & Fab, ma con scarsi risultati) vengono accusati di frode. Per riacquistare credibilità Farian produce i The Real Milli Vanilli (Howell, Davis ed altri cantanti) e l’album dal titolo sarcastico “The Moment Of Truth”. Memore dell’errore, per altre sue “creature” apparse negli anni Novanta, come le Try ‘N’ B (un’estensione dei The Real Milli Vanilli), il duo dei La Bouche (quelli di “Sweet Dreams” e “Be My Lover”) e il trio dei No Mercy, punta a membri che nel contempo siano anche cantanti e non solo presenze sceniche.

Altro esempio di band “creata a tavolino” negli anni Settanta è offerto dai Village People, perennemente citati per brani come “Macho Man”, “Go West” e “Y.M.C.A.”. Ad orchestrare il gruppo statunitense sono i francesi Jacques Morali ed Henri Belolo, che restano sempre dietro le quinte lasciando al poliziotto, all’indiano, all’operaio, al motociclista, al soldato e al cowboy il compito di diventare un fenomeno di costume in grado di reggere a distanza di decenni. Morali, scomparso prematuramente nel 1991, viene ricordato anche per aver creato la band tutta al femminile The Ritchie Family.

E in Italia? Nel 1978 esce il primo album degli Easy Going, band prodotta da Claudio Simonetti e Giancarlo Meo omonima del locale gay romano, frequentato da musicisti ed attori internazionali come Ursula Andress e Gerard Depardieu. Sul palco sono in tre: Paolo Micioni, DJ dello stesso Easy Going, e due ballerini, Francesco Bonanno ed Ottavio Siniscalchi, rispettivamente DJ e light jockey del Mais, altro club capitolino. Il primo album, intitolato semplicemente “Easy Going” e con la copertina contraddistinta da un mosaico presente nel locale, è trainato dal singolo “Baby I Love You” che entra nelle classifiche di tutto il mondo. Nel 1979 segue “Fear” trasformato in un evergreen dal brano omonimo. Il cantante ufficiale della band è Micioni affiancato da vari turnisti tra cui l’inglese Douglas Meakin, assente dai crediti. Nel 1980, con l’uscita del terzo album “Casanova”, Micioni viene sostituito dal cantante e ballerino Russell Russell. Nell’intervista raccolta da Bill Brewster il 17 aprile 2008, Simonetti rivela che molti produttori italiani gli diedero del pazzo perché erano gli americani a produrre quella musica, e non gli italiani. Ed aggiunge: «Non ho mai suonato in giro i brani degli Easy Going, mi occupavo solo dell’arrangiamento. La maggior parte dei concerti erano affidati a cantanti in playback. Ai tempi cambiavamo (inglesizzando) i nomi dei musicisti perché se avessimo rivelato che la paternità del disco fosse italiana, nessuno ci avrebbe dato retta. Fu molto divertente».

La tendenza a modificare le proprie generalità cresce negli anni a seguire, talvolta anche con piglio ironico: tra i casi più noti, Jock Hattle, Kris Tallow, Den Harrow e Joe Yellow, traduzioni maccheroniche e burlesche di “giocattolo”, “cristallo”, “denaro” e “gioiello”. Simulare di essere stranieri, nel contempo, mostra un rovescio della medaglia perché contribuisce a creare nell’immaginario collettivo la convinzione che tutta quella musica fosse estera per davvero. Questo di sicuro non giova in termini di patriottismo, vista la già spiccata esterofilia insita nell’italiano medio. Per gli italiani però ricorrere a cantanti turnisti è soprattutto una necessità, per far fronte a problemi di pronuncia che avrebbero recato non pochi svantaggi sul mercato straniero. A tal proposito Simonetti ricorda quando “Give Me A Break” di Vivien Vee, da lui prodotta nel 1979, entrò nelle classifiche di Billboard: «Cantò in inglese perché imparò a memoria il testo ma aveva molte difficoltà a comunicare in quella lingua. La salvai in diverse situazioni in cui non riusciva a comprendere cosa le stessero dicendo, inventando che non volesse parlare con nessuno». La triestina Viviana Andreattini, racconta ancora Simonetti, prende il posto di una certa Carol, cantante/modella italo americana che avrebbe dovuto cantare ma che poi sparì nel nulla. «Avevamo necessità di trovare una ragazza e Viviana, ai tempi fidanzata di Giancarlo Meo, si offrì di cantare ma a patto che fosse in lingua italiana. Ci innamorammo della sua tonalità vocale ed interpellammo una professoressa di inglese per insegnarle il testo». Non molto diverso il caso dei Via Verdi. Claudio Cecchetto, il loro produttore esecutivo, racconta l’aneddoto nel libro “In Diretta – Il Gioca Jouer Della Mia Vita” (Baldini&Castoldi, 2014): «“Diamond”, uscito nel 1985, andava benissimo e decisi di tentare la carta del mercato inglese. Per promuovere il brano girammo il video in Inghilterra ma la pronuncia inglese dei ragazzi non era il massimo. L’ho capito dopo l’incontro con un discografico a Londra che, dopo aver ascoltato la canzone, mi chiese ironicamente in che lingua stessero cantando. Inutile dirlo, niente disco in Gran Bretagna».

Gli anni Ottanta, realtà e finzione si confondono

Tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta si fa spazio nel mondo della disco Jacques Fred Petrus, imprenditore discografico nato a Guadalupa ma trapiantato a Milano, dove gestisce il negozio di dischi Goody Music. Con l’obiettivo di gettare un ponte (stilistico) tra Italia e Stati Uniti, fonda la Goody Music Records e produce, insieme al musicista Mauro Malavasi, decine di band/progetti in cui i ruoli degli interpreti sono di volta in volta rimessi in discussione. Tra i più noti Change, The Brooklyn, Bronx & Queens Band, Peter Jacques Band e Revanche, in cui si alternano cantanti, arrangiatori e musicisti, tra cui val la pena ricordare Luther Vandross, Jocelyn Brown, Davide Romani e Paolo Gianolio. Sono quelle che qualcuno inizia a chiamare “ghost band”, gruppi creati a tavolino da produttori e case discografiche che da un lato assoldano musicisti per occuparsi della musica, e dall’altro modelli e personaggi immagine che finiscono sulle copertine e portano i brani in formato “live”. La prima hit messa a segno da Petrus è “I’m A Man” di Macho, del 1978, cover dell’omonimo di The Spencer Davis Group scritto da Steve Winwood ed uscito nel 1967. Il cantante è Marzio Vincenti ma la produzione è curata interamente da Malavasi, «che aveva mostrato di possedere tutte le caratteristiche per diventare uno dei più affermati produttori del mondo, gli occorrevano però i mezzi e noi glieli abbiamo dati non badando a spese, siamo andati a fare i missaggi nei migliori studi del mondo per la disco, i mitici Sigma Sound Studios di New York», dichiara Petrus in un’intervista contenuta nel libro “Disco music: guida ragionata ai piaceri del sabato sera” di Sandro Baroni e Nicola Ticozzi, Arcana Editrice, 1979. E continua: «“Fire Night Dance” della Peter Jacques Band è stato un altro supersuccesso, abbiamo voluto dimostrare al pubblico internazionale che le nostre hit non erano frutto del caso ma il risultato di una precisa e seria politica discografica. I discografici statunitensi sono rimasti scioccati davanti a due dischi prodotti da una piccola etichetta, due dischi fatti da musicisti italiani coordinati da un produttore italiano! Tuttora all’estero sono scettici sul made in Italy. Nei nostri dischi c’è l’esperienza di una ditta d’importazione che da anni vive a contatto con la produzione mondiale di disco music. Conosciamo a fondo la musica da discoteca e le esigenze dei DJ, un continuo contatto con gli acquirenti ci ha fatto comprendere che cosa piace di più alla gente, se la melodia, le parole o il ritmo. Sapevamo ciò che il pubblico voleva e noi lo abbiamo realizzato. Non abbiamo lo spirito del musicista che dice “voglio fare un disco secondo il mio gusto, ho delle idee giuste e sono gli altri che non capiscono niente”. Si possono spendere anche trecento milioni per fare un disco, tu immagini che sia un capolavoro ma poi il pubblico lo rifiuta perché non è stato realizzato assecondando il suo gusto».

Pare che i musicisti ingaggiati da Petrus lavorassero regolarmente in studio ma mai sapendo come il materiale sviluppato sarebbe poi stato usato e commercializzato. Erano tenuti all’oscuro delle pianificazioni e l’ultima parola spettava sempre a Petrus e Malavasi. Si ricorse a vocalist madrelingua per essere competitivi sul mercato internazionale e tra i primi ad essere messi sotto contratto ci fu Leroy Burgess, ma alla Goody Music Records il viavai di cantanti era continuo per individuare di volta in volta la soluzione più ottimale in base al brano. Scelte imprenditoriali errate e presunte scorrettezze economiche ai danni dei suoi stessi collaboratori fanno franare l’impero di Petrus che muore assassinato nel giugno 1987, ma la modalità di lavoro di creare un marchio riconoscibile per il pubblico senza legarlo ad una persona o un gruppo stabile diventa una consuetudine per l’italodisco e l’italodance, abbracciando circa venti anni. I crediti sulle copertine, consultati perlopiù dagli appassionati, aiutano a fare chiarezza ma non sempre il nome di chi armeggia dietro le quinte salta fuori, proprio come accade oggi ai moderni ghost producer.

È il caso di Davide Piatto, da Cervia, giovane appassionato di new wave e synth pop che nel 1982, poco più che ventenne, contribuisce alla realizzazione di uno dei brani seminali per la dance, “Dirty Talk” di Klein & MBO, preso a modello qualche anno più tardi dai DJ di Chicago, per loro stessa ammissione, quando idearono la house music (insieme ad altre gemme “proto-house” made in Italy, come “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, “Whole Lotta Love” di Massimo Barsotti, “Robot Is Systematic” di ‘Lectric Workers, “The Man From Colours” di Wanexa, “Life With You…” di Expansives, “Hot Socks” di San Giovanni Bassista, “Not Love” di Trilogy, “Space Operator” di 4 M International, “Dance Forever” di Gaucho o i “drums” programmati da Alessandro Novaga). Anche Bernard Sumner dei New Order, qualche anno fa, ha rivelato che uno dei brani che ispirarono la celebre “Blue Monday” fu proprio “Dirty Talk” che, pare, ascoltò per la prima volta all’Haçienda di Manchester suonato da Hewan Clarke (ma le assonanze più evidenti corrono con “Thirteenth Sunday” di Exuma, 1972). Del 1989 è la cover di Central Unit e del 1998 quella di Miss Kittin & The Hacker, su International Deejay Gigolo. Il 12″ esce sulla Zanza Records, etichetta di proprietà della milanese Gong Records, ma viene ristampato da numerose etichette sparse in Europa, anche in tempi recenti. Davide Piatto però non è un ghost producer di professione: «Mi è capitato poche volte di produrre per conto terzi, la prima proprio nel 1982. Avevo 21 anni e da qualche tempo facevo parte dei N.O.I.A., nel pieno del furore new wave. La disco music non mi interessava granché, dedicavo le mie giornate a registrare demo coi pochi mezzi che avevo a disposizione, cercando di fondere musica elettronica, new wave e funk. Nel contempo suonavo in una band punk hardcore. La casualità volle che il bassista di quest’ultima indicò il mio nome ad un DJ/produttore di Forlì, Mario Boncaldo, che stava cercando di replicare le sonorità elettroniche degli Human League, in quel momento nelle chart internazionali con “Don’t You Want Me”. Da qualche mese nello studio dei N.O.I.A. c’era la batteria elettronica Roland TR-808 e ciò probabilmente mi candidò ad essere la persona giusta, nonostante gli Human League usassero una Linn. Con Boncaldo realizzai il primo singolo, “Dirty Talk”, il primo album “De-Ja-Vu” ed anche un secondo LP intitolato “Magic Spell” che però venne pubblicato con un nome differente, B.Funk Featuring Sally O’, oltre ad essere arricchito dalla partecipazione di diversi turnisti. Nel 1986 registrai anche un nuovo singolo di Klein & MBO, “Keep In Touch”, ma cambiando produttore, non più Boncaldo bensì l’americano Tony Carrasco che in Klein & MBO si occupava di testi e missaggi. Ai tempi di “Dirty Talk” registravo i brani con un paio di piastre a cassetta utilizzando un rudimentale overdubbing. Le demo venivano realizzate a casa mia, in camera da letto. Buttavo giù le idee e il produttore annuiva con la testa. Registravo tutto in fretta, più che altro mi interessava intascare la somma per poter comprare un registratore a bobina a quattro piste. Gli strumenti che usavo erano la già citata TR-808, un synth Roland SH-1 ed una chitarra da poche lire. Dopo qualche tempo mi recavo in studio per registrare i brani strumentali. I produttori con la cantante chiamata per il turno realizzavano le linee vocali e i testi, successivamente i missaggi e le varie versioni. Il caso volle che il primo singolo ebbe successo solo con la versione strumentale ma, non essendo iscritto alla SIAE, non potei partecipare alla spartizione dei diritti d’autore. Il lavoro mi parve comunque ben retribuito, soprattutto perché a quel tempo non ero in alcun modo consapevole dei meccanismi dell’industria discografica. Creare musica ma affidare ad altri immagini e nome non si sposa con l’etica che dovrebbe porre al primo posto l’importanza del proprio lavoro. In verità a quel tempo, nel sottobosco delle produzioni disco, succedeva frequentemente. Per molti era un modo per tirare su qualche soldo. Alcuni, quelli più avveduti e scaltri, partecipavano anche ai diritti mentre altri, come me, si dedicavano a progetti musicali diversi ed ingenuamente non ritenevano importante essere accreditati per questo tipo di prestazioni. Il mio obiettivo era far crescere il progetto N.O.I.A., pertanto non diedi molta importanza alla faccenda dei crediti di Klein & MBO. Ero poco più che ventenne e con una bella dose di ingenuità addosso. Col senno di poi non sarei stato così arrendevole. Rispetto al passato però credo ci sia parecchia differenza prendendo in considerazione i ghost producer odierni. Oggi ai ragazzi che lavorano in studio conto terzi viene chiesto più che altro di realizzare brani “seriali”, con una spiccata tendenza a riprodurre esattamente un certo tipo di arrangiamento. Questo ha più a che fare con capacità tecnica e professionalità nell’uso delle macchine che col talento compositivo. Sia chiaro comunque che non ritengo mai giusto rinunciare al riconoscimento del proprio contributo. Declinare i diritti d’autore e i giusti crediti è da evitare». Su “Dirty Talk”, quindi, finiscono solo i nomi di Boncaldo e Carrasco. Uncredited è sia la ragazza in copertina (ma secondo voci di corridoio si tratterebbe di una certa Daria, moglie del proprietario della Gong Records, Salvatore Annunziata), sia chi canta il brano, Rossana Casale, ingaggiata come turnista. Più chiarezza si fa sulla copertina di “De-Ja-Vu”, dove Piatto compare come co-arrangiatore, mentre alla Casale (e Naimy Hackett) tocca figurare solo col nome. Riguarda la TR-808 anche la vicenda di “Planet Rock” di Afrika Bambaataa e The Soul Sonic Force. A programmare la drum part del brano non fu, come molti credono, Arthur Baker bensì il batterista/percussionista Jay Dorfman, escluso dai credit sul disco. Baker invece, completamente a digiuno in materia di batterie elettroniche, rivela di aver risposto ad un annuncio trovato sul magazine Village Voice: «non mi ricordo nemmeno come si chiamava quel tale, gli diedi i 20 dollari e gli dissi di programmare la macchina».

Nello stesso periodo in cui si inizia a sentir parlare della Goody Music Records di Petrus e Malavasi, emergono a livello internazionale, con una miscellanea tra funk, soul e disco, i Firefly: spalleggiati dalla Mr. Disc Organization, etichetta del gruppo Full Time, si impongono con “Love Is Gonna Be On Your Side” del 1981. Uno dei componenti del gruppo è Maurizio ‘Sangy’ Sangineto, ai tempi attivo anche con artisti e progetti paralleli come The Armed Gang (adorato in Brasile), Valery Allington, Cosmic, Vivien Vee, James Kahn, Nite Lite, Kano, Steve Martin, Amanda Lear e Passengers, che racconta: «Non ho mai realizzato brani conto terzi, questa modalità era del tutto incompatibile con l’orgoglio con cui portavo avanti il lavoro di musicista. Il mio modello era quello del producer musicale inteso in senso internazionale, ossia il deus ex machina del prodotto che, pur lavorando quasi sempre dietro le quinte dal punto di vista dell’immagine, in realtà era il vero regista di ciò che poi la gente ascoltava. Un ruolo niente affatto trincerato ma evidenziato nei credit. Tale modalità operativa era abituale all’estero, prevalentemente in ambito pop/rock, ma io la applicavo ad un genere tendenzialmente considerato minore e di facciata. Nel caso di Firefly e The Armed Gang però ero anche frontman in copertina e nei rari spettacoli che facevamo. Nel 1981, quando “Love Is Gonna Be On Your Side” spopolava a New York superando persino la popolarità di Michael Jackson nei club più alla moda, un gruppo faceva le serate al posto nostro. Noi, giovani e sprovveduti, lo sapemmo solo a posteriori. A parte le considerazioni economiche, era straordinario che quella musica fosse scambiata per statunitense, era un po’ come vendere i jeans agli americani (sinora solo Diesel è riuscita). Altra mia esperienza è stata quella con The Creatures (tra i brani simbolo “Machine’s Drama”, prodotto nel 1982 da Mario Flores ed ispirato dai suoni di “Don’t You Want Me” degli Human League, nda). Fui chiamato a collaborare in veste di arrangiatore, chitarrista e compositore ma ad un certo punto c’era l’esigenza di passare da una dimensione di “spettacolo strumentale” (come avveniva alla mitica discoteca Altromondo Studios di Rimini) ad una più “tradizionale” che prevedeva l’inserimento della voce. In tal senso il gruppo che si esibiva era composto da ballerini, di buon livello e dotati di scenografie straordinarie, ma non aveva alcuna esperienza di voce e soprattutto in ambito internazionale. Si decise così di avvalersi, per le registrazioni, di un ottimo cantante professionista di madrelingua inglese, Bruno Kassar. Per la parte live il problema non sussisteva perché all’epoca, a differenza di altre nazioni, da noi esisteva solo il playback. Il caso dei The Creatures quindi non è assolutamente da confondere con quelle produzioni finte di serie b che uscivano un tanto al chilo ogni giorno in Italia. Dietro quella sigla c’erano grande professionismo, organizzazione ed artisti veri».

Nel 1986 Sangineto prende parte a “Jump And Do It”, secondo singolo di Alba (Parietti): «Il suo produttore dell’epoca, Roberto Gasparini della Merak Music, mio grande amico, mi chiese una mano. La strada della musica non era certamente quella più giusta per Alba, però non la definirei produzione “in vitro” perché lei ci metteva l’anima, oltre al corpo ovviamente. Poi le vicende della vita l’hanno indirizzata verso altre forme di spettacolo grazie alle quali ha avuto modo di mettersi decisamente in evidenza. Oggi trovo il concetto di “DJ star” quantomeno anomalo, non me ne vogliano i DJ. È vero che all’epoca dei Firefly fu un remixer newyorkese a determinare il successo strepitoso di un mio brano che nella versione da me prodotta non sarebbe stato considerato da nessuno, ma quando vedo certi DJ auto-assurgersi a musicisti mi viene da sorridere. Per me è come se ad un certo punto un edicolante decidesse di vendere giornali suoi anziché quelli scritti dai giornalisti. Il fatto che la gente non distingua se dietro ad una produzione ci siano trent’anni di studio di uno strumento o puro assemblaggio di materiale altrui, è un altro problema. Non sono tra quelli che si lamentano dei bei tempi andati ma solo uno che valuta la qualità. In ciò che viene proposto oggi dai DJ non c’è alcuna capacità compositiva ma solo grande tecnica di assemblaggio di pezzi preconfezionati in stile Lego. Tutto già sentito, tutto già esistito, tutto già composto e suonato da altri. In merito al ghost producer, personalmente non concepisco l’idea di “cedere” la mia arte ad altri e non l’ho mai fatto. Trovo invece straordinariamente utile creare una sinergia tra i ruoli. Nessuno dei grandi attori sarebbe tale se non fosse stato diretto da un grande regista e se dietro le quinte non ci fossero stati centinaia di addetti ai lavori, ognuno maestro nel suo ruolo. Analogamente per me i cantanti e ballerini erano come gli attori. L’importante era che sapessero essere ottimi interpreti del proprio ruolo. Il problema sussiste quando è un cantante ad affidare ad altri la propria voce, vedi il caso di Tom Hooker/Den Harrow. I musicisti invece suonano sempre per altri».

Un nome particolarmente ricorrente nello sconfinato scenario dell’italodisco è quello di Raff Todesco, compositore e produttore che tra 1982 e 1983, insieme a Mario Percali e Piero Fidelfatti, conosce il successo internazionale con “Somebody” dei Video e “Can’t You Feel It” dei Time, amate dai collezionisti anche per le splendide copertine a firma Franco Storchi. Qualche anno più tardi produce Anthony’s Games (Antonio Biolcati, cugino della cantante Milva), ricordato soprattutto per “Sunshine Love” del 1984. «Non ho mai prodotto musica per terzi, per fortuna non ho mai avuto bisogno di denaro per sostenere la mia attività di produttore e musicista. Gli introiti derivanti dalla vendita dei dischi (in tutto il mondo) erano sufficienti. Ho avuto commissioni, lo ammetto, ma le produzioni recavano comunque i miei crediti ed artisti il cui nome stesso era da me dettato. Negli anni Ottanta lo studio comprendeva il fonico e la realizzazione del brano richiedeva obbligatoriamente un tastierista e, secondo le esigenze, un bassista, un chitarrista o un esecutore di fiati, oltre al cantante/i. Tutti venivano pagati dal produttore. Per quanto riguarda le mie produzioni con la Fly Music e la Ram Productions, il tastierista era il mio socio, Mario Percali (quello che nel 1994 produce, con Giuliano Rame, “Only Pip” di Pacific People, nda). Con gran parte della RA – RE Productions e della On The Road, il tastierista era invece Michele Paciulli ed infine, dal 1988, ancora con RA – RE Productions e poi come socio della Magma Records, Sergio Bonzanni, con cui ho terminato la mia attività di produzione nel 1998. Mi sono sempre occupato della composizione della song, ho composto la linea melodica, ho co-diretto la forma ritmica, l’assemblamento degli elementi musicali, a volte totalmente e a volte in coabitazione, ho diretto i lavori compreso il mixaggio. Se la produzione non vendeva la colpa era mia. Una volta (solo una!) ho cantato un brano: accadde per uno dei pochi pezzi in commissione, “Hey Mister Mister” di Kriss, del 1988. Il cantante si ammalò e dovetti improvvisare, aiutato nell’inciso da Fred Ventura che passava da quelle parti. Io le strofe e Fred l’inciso, perché era in una tonalità troppo alta per le mie possibilità vocali. Il nostro lavoro, come tutte le attività artistiche, è fatto anche di improvvisazione. In quegli anni era di prammatica, nel caso di successo, affidare l’immagine del brano ad un/a bello/a scelto di proposito, anche se i veri artisti eravamo noi che rimanevamo dietro le quinte. Non mi ha mai infastidito restare tra i crediti perché i media o il giudizio della gente non mi hanno mai interessato. Non biasimo gli attuali ghost producer perché possono fare un mestiere bellissimo e nel contempo guadagnare, ma essendo “ghost” negano parte di loro stessi. Se fossi uno di loro, dopo le prime ghost production farei di tutto per diventare il protagonista».

Altra presenza iconica per l’italodisco è quella di Miki Chieregato, ricordato in primis per aver prodotto, con Roberto Turatti, i successi di Den Harrow (oggi satiricamente trasformato in Tam Harrow), ma il suo nome figura in un fiume di pubblicazioni, da Jock Hattle a Joe Yellow, da Flexx a Fockewulf 190 passando per Albert One, Fred Ventura, Eddy Huntington e Stylóo. «Iniziai a produrre con chi pensavo fosse un musicista come me. Invece, dopo aver preso gli accordi contrattuali, mi ritrovai a dover fare tutto da solo. Un mio distacco in corsa sarebbe stato giudicato come un atto irresponsabile e così finii per passare da “secondo”, sia sotto il punto di vista produttivo che musicale, nonostante fossi il solo che in studio si occupava da zero delle composizioni. Ai tempi c’era chi metteva il proprio nome su brani che non gli appartenevano ed anche chi metteva la propria faccia su voci non sue. Era un periodo strano in cui la parola d’ordine era “playback”, e la verità molto spesso si confondeva con la finzione. Il mio passato di DJ, speaker in emittenti radiofoniche e musicista mi permise di muovermi molto presto tra mixer, cursori e strumentazioni professionali. Registratori, equalizzatori, analizzatori di spettro, compressori, microfoni, computer e quant’altro mi erano già molto familiari. Fu proprio questa conoscenza a rendere possibile l’autonomia in studio senza l’ausilio di altre persone. I brani nascevano nello studio della Hole Records in modo molto “intimo” e venivano poi sviluppati con testi ad hoc sulle mie melodie. In studio c’era saltuariamente Tom Hooker, la voce del progetto Den Harrow con cui ho collaborato per anni realizzando produzioni anche per altri artisti. Negli anni Ottanta affidare ad altri l’immagine era una pratica molto diffusa. Gli artisti delle manifestazioni canore più importanti potevano esibirsi in playback e questo dava la possibilità alle case discografiche di “gestire” il personaggio in modo assolutamente elastico. In classifica si potevano trovare anche personaggi di fantasia e sigle TV interpretate da pupazzi e/o personaggi dei cartoon (come El Pasador con “Non Stop”, il Gabibbo o il più recente Zorotl, nda): purtroppo a volte l’aspetto contrattuale va ben oltre quello puramente artistico. Figurare solo tra i crediti è normale per chi non va in copertina con una foto. Ciò che mi procura fastidio però è colui che, anche a distanza di anni, continua a far propri meriti che non ha mai avuto. Quando iniziai a fare il DJ nelle feste casalinghe ero giovanissimo e nessuno voleva occuparsi della musica perché tutti pensavano a divertirsi e alle ragazze. Insomma, il DJ era uno sfigatone. Con l’avvento delle discoteche quella del DJ è diventata una figura più importante e paragonabile a chi muoveva le giostre al luna park. Poi iniziò l’era del “chi conosce il DJ entra gratis” e cominciò ad essere una figura ambita diventando una vera e propria attrazione. Molti colleghi passavano almeno tre ore al giorno in palestra per diventare sempre più attraenti e non rischiare di essere sostituiti dal proprietario del locale. Ora il DJ è una sorta di dio pagano, il pubblico urla alla sua sola alzata di braccia al cielo. I ghost producer? Fanno benissimo perché si muovono nel loro territorio ghost, o virtuale che sia. Il DJ è il nuovo frontman, il pubblico ne è consapevole e lo accetta, anzi, lo vuole. Chiunque sappia infilare una chiavetta in una porta USB oggi può diventare una star».

Uno dei primi DJ italiani è Claudio Casalini che nel 1982 fonda a Roma la Best Record, “ombrello” di una moltitudine di sottoetichette (tra cui House Of Music ed S.P.Q.R.) e spesso nelle ricostruzioni storiche per aver pubblicato, proprio nel 1982, “Feels Good (Carrots And Beets)” di Electra Featuring Tara Butler, che qualche anno più tardi ispira Jamie Principle per la sua “Your Love”, portata al successo da Frankie Knuckles nel 1987. «La prima volta che misi piede in uno studio di registrazione “vero” fu alla fine degli anni Settanta, quando lavoravo al Jackie O’ ed avevo inaugurato da poco l’Easy Going. Ero oberato di lavoro avendo due negozi di dischi ed occupandomi di import-export di vinili, ma l’idea di realizzare una produzione disco mi eccitava. Così mi recai ai Mammouth Studios di Giuseppe Bernardini (un tecnico con le palle) e di Gianni Plazzi (all’epoca produttore di Renzo Arbore) – insieme a Giovanni Ullu, l’autore di “Pazza Idea”, proprio per realizzare la disco-version del famoso brano interpretato da Patty Pravo. Per quella mia prima importante produzione disco feci venire dagli States il più bravo DJ/remixer del mondo, Tom Savarese, che all’attivo aveva già due gold record per le sublimi produzioni di Chic e Peter Brown, e che fu proclamato per il terzo anno consecutivo miglior DJ americano dalla rivista Billboard. In quello studio tutto era straordinario. Il brano, l’autore, il tecnico, i musicisti, l’arrangiatore (il grande Amedeo Tommasi), le voci (quelle dei fratelli Balestra che noi chiamavamo i Bee Gees italiani, anche perché erano in tre). La spesa fu altrettanto straordinaria ma non funzionò nulla, un fiasco completo. Non saprei spiegarne i motivi e non li ricordo neppure. Forse eravamo tutti un po’ pazzoidi, ma la produzione fu disastrosa. Probabilmente la colpa fu dettata dalla mia inesperienza. Decidemmo di comune accordo di buttare nell’immondizia il 24 piste di “Crazy Idea” e di altri tre brani. Chi sarebbe stato il frontman di quell’obbrobrio? Ricordo molto bene che all’epoca per i produttori discografici l’ultima delle preoccupazioni era pensare a chi mostrare in pubblico. La priorità era realizzare un progetto giusto e che avesse successo. In Francia, ad esempio, c’erano i vari Cerrone, Don Ray ed Alec Costandinos, musicisti veri, in Germania il duo Bellotte-Moroder interpellò cantanti vere come Donna Summer e Roberta Kelly, in Inghilterra non potevi minimamente ipotizzare di piazzare un cantante “finto” sul palco. Però ai tempi non c’erano molte occasioni per apparire visto che la musica e i dischi erano solo ascoltati. Radio, vinili ma poca televisione. Insomma, un disco poteva vendere un milione di copie ma non avere nessuno che mostrasse la propria faccia, come accadde coi fratelli La Bionda che ebbero un enorme successo come D.D. Sound. Solo in un secondo momento dovettero abbandonare questo pseudonimo e presentarsi a Domenica In o Discoring per la promozione dei brani con il loro vero nome. Altrettanto faceva Gepy & Gepy, il “Barry White italiano” (Giampiero Scalamogna, scomparso nel 2010 e noto per “Body To Body” del 1979, nda) che di voce ne aveva tanta e il palco lo riempiva già tutto da solo, ma aveva il buon gusto di portarsi tre coriste tra cui la formidabile Melissa, bravissima cantante. Insomma, artisti veri e non modelli. Cito anche un altro grande arrangiatore degli anni Settanta, Albert Verrecchia, che non si preoccupò di chi dovesse apparire in pubblico per interpretare “Le Chat”, del 1976, ma pensò solo a realizzare una valida produzione, vincente a tal punto da vendere due milioni di copie solo in Francia, nonostante in circolazione ci fosse almeno mezza dozzina di cover. Per quel brano Verrecchia scelse il nome Weyman Corporation e quando l’anno dopo uscì “Le Doigt” chiamò l’artista o l’eventuale band Weyman Avenue, anche se dietro c’era sempre lui, l’ex tastierista de I Pirañas e il suo bravissimo socio, Roberto Conrado, ex leader de Gli Apostoli. Tutta gente che sapeva stare sia in studio che sul palco. Quando realizzarono il remake di “Una Lacrima Sul Viso”, una versione dance molto simile a “La Vie En Rose” di Grace Jones, interpellarono l’autore originale per interpretarla, sia in italiano che in inglese, il grande Bobby Solo. Fu un altro successone, soprattutto in Francia. Per il duo Verrecchia-Conrado ancor più eclatante fu la produzione della disco version di “Black Is Black” dei Los Bravos, un successo indescrivibile e sotto certi versi inaspettato. Nel giro di poche settimane venne venduto un milione di LP in Inghilterra, la nazione dove sino a quel momento le cover erano state quasi “vietate”. Sul palco la band si chiamava La Belle Epoque ed era formata da tre donne, due coriste/ballerine ed una cantante, una di quelle “toste”, già leader negli anni Sessanta all’epoca del beat, una “belva”: Evelyne Lenton ossia Evelyne Verrecchia, sorella di Albert. Parallelamente alla RCA di Roma succedeva la stessa cosa col compianto Lally Stott e i suoi magnifici Motowns, che non necessitavano di frontman o frontwoman. Quasi tutti inglesi, coi capelli lunghi e il look giusto, ma soprattutto che cantavano perfettamente nella loro lingua e suonavano benissimo. Andate a sentire “Sacramento” e così potreste pensare che la disco music sia nata un pochino anche lì, negli studi sulla via Tuburtina, dove poi “operavano” diligentemente i famigerati fratelli Capuano. A Mario e Giosy si aggiunse un altro grande per formare la Ca.To.Ca., Giacomo Tosti, e sempre all’RCA arrivarono Guido e Maurizio De Angelis. Si potevano chiamare anche Oliver Onions ma erano sempre loro. Da quelle parti bazzicava pure un certo Pino Presti che sarebbe passato all’Atlantic dove ottenne i primi successi nel settore della disco boogie e del funk italiano, usando il proprio nome e quello della sua orchestra. Insomma parliamo di gente cha aveva girato l’Europa, per non dire il mondo, quindi non solo al Piper Club di Roma o a quello di Viareggio. Le case discografiche iniziarono a litigare perché alla fine quelli bravi e veri non erano poi così tanti».

Negli anni Ottanta e Novanta però la situazione cambia, visto che italodisco prima ed italodance poi sono piene di progetti creati a tavolino, con cantanti/ballerini che difficilmente interagivano in studio con chi effettivamente creava i brani. Si trattò di escamotage che presero in giro il pubblico ed ingannarono i fan, come oggi qualcuno asserisce, o di semplici necessità? Casalini prosegue: «Personalmente trovo la querelle Den Harrow-Tom Hooker, giusto per fare un esempio, alquanto sterile. A cosa serve scoprire tutto ciò? Un po’ come quelli che criticano il doppiaggio nel cinema. Evidente e soprattutto saggio è il dover privilegiare gli artisti veri e bannare i “modelli”, ma se anche in Inghilterra si ricorse a questi ultimi è ovvio che ce ne fosse la necessità. Il caso più eclatante fu quello che coinvolse i Milli Vanilli, un duo maschile di straordinaria presenza. Alti, magri, elegantissimi, movenze perfette, treccine alla Gullit e la giusta abbronzatura, tutte cose che messe insieme decretarono il successo planetario facendo impazzire milioni di teenager che gli fecero vincere un Grammy Award. Ciò avvenne nel 1990, ma noi italiani iniziammo a “mentire” quasi dieci anni prima. La colpa non fu dei produttori o degli arrangiatori ma della stessa disco music che si evolveva, anzi involveva. Nel rock, nella musica popolare e nei generi definiti colti come jazz, blues e classica, i modelli non sono mai esistiti. Anzi, ci si esibiva senza microfono. Pensate ai Rolling Stones che fanno finta di suonare: una follia! ll genere musicale che andava affermandosi sempre più e che contaminava ogni cosa era la disco, ma che prima era soul music, fatta da artisti veri, soprattutto afro-americani. Poi questo genere fu usato dai bianchi (vedi i Bee Gees) per scopi puramente commerciali. La disco diventava ogni giorno più ossessionante, ripetitiva e soprattutto elettronica, quindi sempre più studiata a tavolino e in studio di registrazione. La voce del cantante? La fa il vocoder. I fiati? Tutti sintetici. I batteristi? Statevene a casa! E se per caso dovete salire sul palco state attenti che i rimbalzi dello strumento elettronico sono un po’ diversi da quelli acustici. Preregistrazioni? A iosa. Tutto succedeva in studio e fu chiaro che all’artista sul palco si chiedeva soprattutto la “presenza”. Un microfono finto, due mossette ed era fatta. E così anche la televisione si adeguò risparmiando un sacco di soldi, tanto che al Festival di Sanremo del 1984 i Queen si esibirono in playback, e la stessa cosa fecero l’anno successivo i Duran Duran che, una volta tornati in patria, dissero che gli italiani fossero dei cretini visto che avevano sborsato una barca di soldi per vedere un gruppo che faceva finta di suonare e cantare. Invece di dividere l’italodisco tra chi cantava veramente e chi invece faceva finta, perché non la dividiamo in buona e cattiva, tra quella piacevolissima e ben riuscita e quella assolutamente inascoltabile? Le Fun Fun erano finte e chi cantava era Ivana Spagna, tuttavia le due modelle romane fecero un live show in Sud Africa esibendosi davanti a 100.000 spettatori, tutti neri. “Tarzan Boy” di Baltimora, cantato da Silver Pozzoli, vendette milioni di dischi (anche negli Stati Uniti) ma il frontman era il compianto Jimmy McShane. Tra il 1987 e il 1988, quando prende il sopravvento l’hi-nrg e la disco si trasforma in house, i giochi finirono. Magari a trovarne di Mike Francis, Gazebo, Gary Low e Rolando Zaniolo (voce dei Firefly), per non parlare di Kano (ovvero Glen White), di Herbie Goins, di Ronnie Jones, di Natasha King e di decine di cantanti veri nostrani veramente bravi. Ma chi, tra questi che sapevano cantare, non ha mai prestato la propria voce ad altri, per un progetto nato in studio? Si doveva pur mangiare e nel piatto dell’italodisco hanno mangiato tutti».

Nel corso degli anni su Best Record (e sulle numerose sublabel) compaiono molti dischi prodotti da team di compositori che inventavano nomi di fantasia e non sempre rivelavano il proprio. Douglas Meakin, ad esempio, presta la voce ad alcuni brani dei Traks ma non figura mai nelle apparizioni pubbliche o nei credit. In merito a ciò Casalini risponde: «Quando il team di compositori o il singolo arrangiatore arrivava alla Best Record nel 90% dei casi mi consegnava un prodotto già finito, avendo ben chiaro come chiamare l’artista che si sarebbe presentato sul palco nei live o nei programmi musicali in televisione. Io non potevo fare più nulla ma c’era uno studio preciso sui nomi da “appioppare”. Quando Paul Micioni venne con un ragazzo biondo e gli occhi azzurri mi presentò Mike Francis e non Francesco Puccioni. Non ho mai saputo chi l’avesse scelto, ma era buono. Altro esempio riguarda l’interprete di “You Are A Danger”, che all’anagrafe risponde al nome di Luis Romano Peris Belmonte ma per tutti noi era semplicemente lo “zio Gary”. Gary Low era corto, facile da dire e da ricordare, suonava bene. Si cercavano nomi un po’ sensuali, talvolta esotici, misteriosi, come Gazebo, Mr. Lover, Susan Morgan (la bravissima Penny Brown), Tortuga, Elisabetta Focardi alias Witch Elizabeth che era tutto tranne che una strega, anzi, divenne un’attrice. Insomma, bisognava immaginare sempre qualcosa di straniero che conferisse al prodotto discografico una certa internazionalità. Che effetto avrebbe avuto se Sergio Mancinelli, a Discoring, avesse annunciato “Dolce Vita” di Fabio Roscioli anziché Ryan Paris? Con questi nomi d’arte davvero indovinati si viaggiava con la fantasia e noi discografici, popolo di esterofili, non abbiamo fatto altro che seguire ciò che fece il cinema dieci anni prima, quando per il tarzan italiano si decise il nome di Bud Spencer e non Carlo Pedersoli. Ma già nei primissimi anni Sessanta avevamo Little Tony, Bobby Solo, Don Backy e Baby Gate, oltre ai western all’italiana, pieni zeppi di bravissimi attori italiani ma con nomi alla John Wayne. Era il sogno americano che non finiva mai ed anche una sorta di vendetta visto che durante il “ventennio” non si potevano usare parole straniere. Io fui colpevole per aver inventato GeeGee & Gym Band per Luigi Guida, un DJ del lido di Ostia, e i bracciali ginnici da lui indossati. Creai anche D.J. Look per Luca De Gennaro, noto speaker Rai ed oggi dirigente per MTV, e chiamai Natasha King la bravissima vocalist italo-americana Natascia Maimone, per distinguerla da altre artiste di quel periodo col medesimo nome. Venne scelto Mark Owen per l’indimenticato Marco Colucci, arrangiatore e tastierista per Antonello Venditti, ma successivamente emerse un omonimo inglese (quello dei Take That, nda). Riguardo i Traks invece, c’è sempre qualcuno che cerca a tutti i costi di inserire nei crediti un turnista che in uno studio di registrazione ha prestato la propria voce percependo un compenso. In quel caso, il buon Daki di Liverpool è colui che cantò “Long Train Runnin'” al posto di Aax Donnell che aveva una pronuncia inglese imperfetta. La maggior parte dei brani italodisco, essendo nati in studio di registrazione, non avevano un artista di riferimento che veniva creato solo all’occorrenza, in caso di successo. Il turnista, già pagato per il suo lavoro, non aveva motivo di apparire in pubblico o nei crediti. La cover di “Long Train Runnin'”, nata dietro le quinte di un teatro alla Balduina nel dicembre del 1981 (e che pare sia costata 900.000 lire) e portata al successo dai Traks, vendette oltre 4 milioni copie nel mondo e in Francia fu disco d’oro, consegnato alla band italiana all’Olympia di Parigi durante una loro esibizione dal vivo. Daki non c’era e non mi sembra di ricordare che volassero pomodori. Se poi i Traks si sono esibiti in playback non me ne frega nulla, così pure far sapere che la voce in studio l’ha fatta un giapponese di passaggio a Roma o il proprietario del pub irlandese a Via del Babbuino. Così non mi interessa conoscere il nome del cantante che in studio interpretò “Kalimba De Luna”, altro brano italo plurimilionario che in un lontano Midem di Cannes degli anni Ottanta Tony Esposito provò a cantare dal vivo ma qualcuno gli tolse il microfono dicendogli “next song you sing in playback”. Quel brano ha rappresentato l’inizio del genere “lambada” con anni di anticipo facendo la fortuna di centinaia di brasiliani che facevano la fame sia in Italia che in Brasile. Ghost producer? Che significa? Produttori fantasma? Beh? E se dietro ci fosse gente come Trevor Horn, Giorgio Moroder o Quincy Jones cosa cambia, qual è la differenza o il problema? Sarò vecchio, sarò antico, ma non capisco. La rivalità tra il produttore di un qualsiasi progetto discografico e l’artista che lo deve rappresentare in pubblico o in televisione nasce quando i rapporti non sono chiari e i contratti sono fatti male. Secondo me questa rivalità si sviluppava maggiormente tra il frontman (cioè l’immagine non cantante) e il turnista (il cantante che aveva interpretato il pezzo), soprattutto quando la produzione aveva successo ed era assolutamente necessario avere una persona fisica che cantasse o facesse finta di cantare. Allora nasceva una rivalità come quella tra Den Harrow e Tom Hooker ampiamente amplificata da Facebook, dove quest’ultimo ribadiva la paternità della voce in svariate occasioni al frontman del riuscito progetto prodotto da Turatti e Chieregato. Credo che, tuttavia, vada riconosciuto il “diritto” a Stefano Zandri di potersi esibire oggi in Russia, Estonia e Polonia e di “far finta di cantare” guadagnandosi la pagnotta quotidiana. Se lo chiamano e nessuno gli tira gli ortaggi significa che funziona anche col finto microfono».

Tra gli altri che in quel decennio contribuiscono alla creazione di grossi successi ma restano dietro le quinte anche Matteo Bonsanto, Stefano Pulga, Luciano Ninzatti, Fabrizio Gatto, Celso Valli, Pierluigi Giombini, i fratelli Paolo e Pietro Micioni, Lino Nicolosi, Aldo De Scalzi, Graziano Pegoraro e Massimo Carpani, sparpagliati in artisti/progetti come Azoto, Miko Mission, Tantra, Kano, Dharma, Martinelli, Doctor’s Cat, Raggio Di Luna, Gary Low, Ryan Paris, Gazebo, Valerie Dore, Mike Francis, Easy Going, Mr. Flagio e Sabrina Salerno. Anche Jovanotti, non ancora messo sotto contratto da Claudio Cecchetto, per le sue primissime produzioni discografiche sulla già citata Full Time (“Reggae 87”, “Walking”, entrambi del 1987) viene affiancato da un musicista che si sarebbe fatto notare come solista negli anni Novanta, Elvio Moratto, proprio quello de “La Pastilla Del Fuego”.

Altrettanto corposa la lista delle turniste di quei tempi, tra cui Ivana Spagna, che tra 1983 e 1985 incide “I’ve Got The Music In Me” e “Rise Up (For My Love)” facendosi chiamare Yvonne Kay e che in quegli anni presta la voce a moltissimi brani tra cui “Have A Ball” di Barbara York, “Woman” di Mirage, “Happy Station” delle Fun Fun (portato sul palco da varie ragazze, come diceva prima Casalini) e “Love Is Like A Game” di Hot Cold, oltre a firmare come autrice “Take Me To The Top” di Advance. Menzione a parte per Dora Carofiglio dei Novecento che canta “The Night” di Valerie Dore, seppur l’immagine del progetto fosse stata affidata a Monica Stucchi. In seguito anche Simona Zanini (Doctor’s Cat, Martinelli, Radiorama, Raggio Di Luna) entra a far parte del team e tutto ciò crea un caso simile a quello di Den Harrow, in cui le voci di Silvio Pozzoli, Chuck Rolando, Tom Hooker ed Anthony James vengono mimate e portate in scena dal frontman, il modello Stefano Zandri, pare per problemi legati alla pronuncia.

Nel 1985 il progetto Den Harrow viene messo sotto contratto dalla Baby Records di Freddy Naggiar, ambitissima meta per gli artisti di quegli anni e tra le case discografiche che sdoganano massicciamente l’uso dei personaggi immagine. In “Discoinferno” (Theoria, 1995, ristampato da ISBN nel 2006) Carlo Antonelli e Fabio De Luca la descrivono come «l’etichetta del cinesino nelle pubblicità in tv, dei D.D. Sound, dei fratelli La Bionda ma anche di Al Bano & Romina Power, dei Ricchi E Poveri e delle geniali invenzioni chiamate Stephen Schlaks (un fattorino costretto a far finta di strimpellare arie al caramello), Rondò Veneziano (rappresentati come robot con la parrucca bianca, androidi innamorati del Settecento) e l’impossibile supergruppo da ballo Pink Project (ai sintetizzatori, sotto il cappuccio a punta, i magazzinieri dell’azienda). Prestanome, doppelganger, controfigure al posto degli artisti e cyborg al posto dei cantanti dance».

Gli anni Novanta: si consacra la “mimo dance”

Se negli anni Ottanta viene rodata la modalità “produttore in studio/modelli e ballerini sul palco” (e un buon esempio, in tal senso, è offerto dalla mega hit del 1989 dei belgi Technotronic, “Pump Up The Jam”, portata in formato live da Felly Kilingi che finge di cantare le parti registrate in studio dall’allora appena sedicenne Manuela Kamosi alias Ya Kid K), nei Novanta questa diventa una consuetudine. L’italodisco termina la sua parabola di successo tra 1987 e 1988 quando all’orizzonte si profila un nuovo genere musicale su cui investire, la house. L’arrivo sul mercato dei campionatori a costo più accessibile (tra i più usati quelli della Akai, S900, S950 ed S1000) facilita il “trapianto” di suoni e soprattutto voci da un brano all’altro, e ciò genera la nascita di nuove traiettorie stilistiche ma anche un continuo ed incontrollato “copyright infringement”. In Italia più di qualcuno ricorre al campionatore per risolvere gli ormai noti problemi legati alla lingua, come i Black Box che nel 1989 sbancano con “Ride On Time”. La parte vocale è tratta da “Love Sensation” di Loleatta Holloway, prodotto dall’americano Dan Hartman che quando lo scopre intenta causa per apparire tra gli autori. Viene approntata una nuova versione interpretata da Heather Small (in seguito cantante per gli M People) ma il suo nome non compare tra i credit. Daniele Davoli e soci poi arruolano Martha Wash per i brani dell’album “Dreamland” (tra cui il singolo “I Don’t Know Anybody Else”) ma l’immagine della band, su copertine e spettacoli dal vivo, viene affidata alla modella di colore Katrin Quinol. Parte una seconda denuncia, questa volta dalla Wash, fortemente stizzita per essere stata “usata” come turnista.

Situazione analoga per “Touch Me” dei 49ers prodotti da Gianfranco Bortolotti, uscita sempre nel 1989: come lui stesso dichiara in questa intervista, «indovinando i campionamenti vocali perfetti, “Touch Me” di Alisha Warren e “Rock-A-Lott” di Aretha Franklin, venne fuori un capolavoro, una hit indiscussa in Europa e in America (la Island Records prese in licenza sia il singolo che l’album, e stentavo a credere che Chris Blackwell in persona mi avesse prima faxato e poi telefonato per chiudere l’accordo!). Ora ricordo col sorriso la causa che intentarono contro di me, reo di aver “saccheggiato” i cataloghi della Arista e della RCA. A Londra, dove si tenne l’udienza, fui trattato come un ladro, un delinquente che rubava la musica di altri per produrre la propria. Sostenni che si trattava di un modo diverso di comporre ma i zelanti avvocati delle major mi guardavano quasi schifati per ciò che avevo commesso. Mi accontentai del 10% dei proventi, quindi economicamente non fu un grande risultato, però posso dire di essere stato tra i primi in Europa ad affrontare le conseguenze legali della nuova “maniera” di fare dischi».

Bortolotti è tra i primissimi a produrre musica house in Europa. Con “Bauhaus” dei Cappella, del 1987, segue astutamente la scia di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. e comincia a prendere le distanze dall’italodisco che produce sin dal 1983 (debutta con “I Don’t Want To Talk About It” di Hovoyds). La produzione di “Bauhaus” è curata da Francesco ‘Checco’ Bontempi, noto anche come Lee Marrow e futuro produttore di Corona, che racconta: «Iniziai a produrre musica con nomi diversi dal mio quando mi accorsi di avere due dischi pronti da far uscire. Per evitare che uno rimanesse fermo per un certo periodo, decisi di proporlo con un nome differente. Avrei potuto attendere qualche mese ma all’epoca i discografici consideravano “vecchio” un pezzo anche a distanza di poche settimane, forse per timore che il prodotto potesse essere proposto ad etichette concorrenti. Non ho mai realizzato demo, non conoscendo la musica non ero in grado di suonare e creare un pezzo comodamente a casa per portarlo in studio in un secondo momento e finalizzarlo. Per tale motivo mi sono sempre avvalso di musicisti che ripetevano, solo ed esclusivamente, tutto quello che io gli dettavo a voce. Mi preoccupavo inoltre di prenotare uno studio ben organizzato e di creare la produzione da zero, cosa che ai tempi non era proprio facile. Una volta capitò un fatto curioso, durante la realizzazione di “Dance To The Music” di Don Shelley, un brano rappato da John, un personaggio dalla voce spettacolare che mi fece conoscere Tony Carrasco. Scelsi una base per abbozzare la ritmica ed avviare il lavoro, sicuro di svilupparla in corso d’opera come sempre avveniva, ma qualche giorno dopo ascoltai alla radio “Walk This Way” dei Run-DMC: il ritmo era uguale al 98% alla mia base! Decisi di cambiarla. Credo che affidare ad altri l’immagine dei propri brani non sia così deprecabile. Potrebbe essere così se un artista produce e canta le proprie canzoni ma di solito è il produttore a decidere l’immagine da dare ad esse. Gli artisti tramontano mentre i produttori e i compositori restano. Si può anche cedere le proprie opere ad altri, è una scelta personale, non c’è alcuna legge che disciplina ciò, ognuno fa come meglio crede. Personalmente non mi ha mai dato fastidio leggere il mio nome solo tra i credit anche perché la realizzazione degli stessi crediti era di mia competenza. Quando sorgevano dissapori tra produttori e frontman/frontwoman, al 90% la colpa era di questi ultimi. Coloro che hanno offerto solo la propria immagine si sono sempre rivelati ingrati nei confronti di chi invece si adoperò per farli conoscere al mondo intero. Parlavano solo di soldi, erano sempre dubbiosi su tutto e frequentavano persone che, senza saper nulla del nostro lavoro, continuavano a fargli il lavaggio del cervello sostenendo che avrebbero potuto guadagnare cifre stratosferiche da soli e che i produttori non fornissero regolarmente i rendiconti, dimenticando che ci sono casi in cui non gli spettava affatto mettere il naso nei dati di vendita perché per i “personaggi immagine” la sola fonte di guadagno può essere rappresentata esclusivamente dagli show nei locali. Non me la sento di gettar sentenze sui ghost producer attuali, nessuno sa se vogliono intenzionalmente restare anonimi o se dietro ci sia qualcosa di diverso. Ci possono essere notevoli e facili guadagni rimanendo in uno studio a realizzare brani senza girare il mondo, ma se in futuro questi tecnici dovessero stancarsi e decidere di interrompere il proprio lavoro, ciò potrebbe decretare la fine artistica dei noti DJ che usufruiscono del loro servizio, anche se sicuramente ci sarà sempre qualcuno pronto a prendere il posto e farsi assumere come ghost producer».

La Media Records di Bortolotti è tra le etichette che meglio segnano il passaggio stilistico tra italodisco ed house/techno/italodance preservando, sino al 1997 circa, l’uso dei “personaggi immagine”. È il caso di “We Need Freedom” degli Antico, del 1991, che diventa popolare al punto da finire su Rai Due a “Stasera Mi Butto” presentato da Pippo Franco, con un’esibizione chiaramente in playback. Il problema tocca in modo particolare quei progetti da studio, proprio come Antico, che si ritrovano nelle classifiche di vendita determinando l’interesse delle televisioni e dei locali. Era impensabile mettere sul palco i musicisti o gli arrangiatori ed era prematuro piazzare un DJ con la consolle. Però, proprio alla Media Records, i DJ erano già considerati le star di domani sin da tempi non sospetti. Bortolotti mette a disposizione di alcuni di loro un nutrito team tra musicisti, fonici ed arrangiatori, al fine di creare prodotti tecnicamente validi e che nel contempo rispondessero alle esigenze del dancefloor. Si pensi a Francesco Zappalà, DJ Professor (nei primi tempi apparso col volto coperto, pare perché poco fotogenico ma anche timido) e Molella lanciati dalla Media Records nel 1990, ma l’idea viene sviluppata più a fondo l’anno seguente, con la creazione della Heartbeat seguita poi dalla BXR: entrambe sono etichette (la prima house, la seconda techno) tenute in vita prettamente dalla musica prodotta dai DJ. Merita considerazione anche quanto afferma Mario Fargetta in un’intervista rilasciata a Clara Zambetti nel dicembre 1995: «Ho iniziato a fare il produttore nel 1992 quando Gianfranco Bortolotti mi propose di incidere “The Music Is Movin'” che era già pronto, dovevo solo aggiustarlo secondo i miei gusti. Il primo disco che ho fatto partendo da zero invece è stato “Your Love” (al cui interno si cela un sample preso da “Playgirl” di La Velle, nda), creando le melodie con un amico musicista». La rivelazione fatta poco più di venti anni fa attesta come alcuni DJ facessero affidamento a collaboratori per realizzare i propri brani quando molte star del mondo EDM frequentavano le scuole elementari, l’asilo o non erano ancora nate (come Martin Garrix, classe ’96).

L’amico a cui Fargetta si riferisce è Pieradis Rossini, che dopo l’esperienza con la Media Records fonda la DJ Movement per cui produce centinaia di brani attraverso decine di marchi tra cui Space Master, impersonato nei live da una giovane coppia formata da Max e Megan. «Nel “ventennio dance”, a mio parere il migliore in assoluto, era consuetudine fare i dischi con l’ausilio di voci di turnisti inglesi o di madrelingua, e poi farli “indossare” a personaggi immagine, a volte veramente disarmanti. Alle spalle avevo già esperienze nei migliori club del mondo ma mi stancai e quindi decisi di rinchiudermi in studio, cominciando a produrre per vari pseudo-artisti dance. Iniziai come compositore, poi divenni fonico e successivamente produttore di artisti miei. Ognuno aveva sempre il proprio compito, chi suonava, chi produceva, chi cantava … Prestavamo attenzione anche alle esigenze dei DJ che dovevano poter mixare agevolmente il lavoro con altri brani sul mercato. Ai tempi il regolatore di velocità del nastro per macchine come la Studer A80 era analogico, un potenziometro multigiro manuale coi numeri meccanici. Progettai un prototipo digitale proprio per l’A80, inventando il primo pitch control per registratori a bobina 24 tracce digitali. Fu un grande passo in avanti per la precisione dei missaggi attraverso l’uso dei campioni. Non affidare ad altri l’immagine o il nome della propria musica è, per me, un pensiero troppo artistico e poco commerciabile, quindi economicamente non concreto oltre che quasi grottesco, soprattutto oggi. Se avessimo lasciato gestire il prodotto agli artisti non avremmo mai avuto modo di emozionarci all’ascolto di un grande capolavoro. Dopo anni di live adoravo restare dietro le quinte, per me era una sorta di riscatto personale riuscire a far innamorare decine di migliaia di persone nel mondo grazie alla mia musica e senza tante chiacchiere».

Un altro personaggio che inizia la carriera alla Media Records nelle retrovie di una miriade di studio project (tra cui Sharada House Gang, Cappella, Club House, 49ers o Anticappella) per poi diventare uno dei DJ più popolari al mondo è Mauro Picotto. «Cominciai a produrre musica tra le mura di casa, nel 1989. Poi portai il provino del mio primo brano alla Media Records e divenne “We Gonna Get…”. Ai tempi si preferivano usare nomi artistici legati alla casa discografica perché in tal modo le etichette potevano lucrare pure sui diritti connessi all’artista. Come molti altri ero nuovo e non conoscendo quel mondo, così affascinante ma anche estremamente falso, credetti che la ragione fosse invece legata alle licenze. Fu un’ingenuità costosa. Inizialmente in studio ero il produttore artistico, quello che faceva partire l’idea insomma. Ad affiancarmi era un musicista con cui condividevo le varie soluzioni che portavano a produzioni ottenute principalmente da campionamenti di brani o suoni già utilizzati in altre opere, il principio della musica house insomma. Mi è sempre piaciuto collaborare e non ho mai avuto problemi nel condividere i miei pezzi con altri che possono aver dato più o meno a seconda dei momenti. Mi sono sempre occupato della divisione dei punti dedicati agli autori e/o compositori dei miei brani, facendolo in modo meritatamente equo. Non ho mai ricevuto punti o “regali” senza aver veramente dato input ad una produzione. Oggi i ghost producer esistono perché sono persone capaci in studio ma non adatte a sostenere spettacoli da vivo e soprattutto non sono DJ, ruolo che oggi è tanto di moda. Il DJ e il produttore sono due cose opposte ma che si completano, se vanno d’accordo. Resto comunque del parere che un DJ non avrà mai lo stesso fascino di una band, sono completamente diversi e il DJ è decisamente sopravvalutato. Amo la musica molto prima del business e di questo ne sono felice».

Particolarmente pregnante ed acuta risulta l’opinione di Gianfranco Bortolotti, deus ex machina della Media Records: «Quello del ghost producer o del ghost writer è un mestiere vecchio come il mondo, basti pensare alle incessanti polemiche e dubbi riguardanti le tragedie di Shakespeare. Le scriveva lui, Christopher Marlowe o il suo stesso editore? A seconda delle circostanze e delle convenienze il ghost veniva usato per ottimizzare i risultati di un artista e dell’editore alle sue spalle. Quest’ultimo pagava mantenendo l’artista ed impiegava il ghost primariamente per sostenere la credibilità dello stesso artista ed ovviamente per produrre profitto per l’impresa (ai tempi il teatro). Fatto questo opportuno cappello introduttivo per chiarire i ruoli, ritengo che il ghost producer, nell’accezione in cui si parla in questo reportage, sia emerso nelle cronache della dance music in seguito allo sdoganamento del DJ rockstar. Sottolineo l’aggettivo “rockstar” perché il sottoscritto li aveva così definiti ed auspicati già nel 1990, prima di chiunque altro, vedendo la potenzialità delle nuove tecnologie, due in particolare, il campionatore prima ed internet poi. A proposito del campionatore, nella seconda metà degli anni Ottanta erano pochissimi ad usarlo per fare house music. Alla Media Records ogni studio era dotato di quattro, cinque o persino sei campionatori già nel 1988, e conseguentemente nacque il “workstation-studio” della Media Records, successivamente copiato ovunque nel mondo con un DJ-orienter ed un musicista-fonico. Nel corso degli anni arrivammo ad avere ben sedici studi a Brescia e due a Londra, tutti costantemente aggiornati con la più moderna tecnologia ed equipaggiati col musicista emergente più talentuoso o il DJ emergente più attento alle correnti musicali del mondo. Non era fondamentale la preparazione del DJ, importava piuttosto che fosse giovane ed orientato al nuovo, il resto lo mettevo io. Fu così che tecnicamente divenni il ghost producer di tutti gli artisti e DJ della Media Records del tempo. Io ero il ghost di Cappella, 49ers, Mauro Picotto, Gigi D’Agostino, Mario Fargetta (che generosamente e genuinamente ha ammesso come stavano le cose in quell’intervista ripresa da Impellizzeri in questo stesso articolo), East Side Beat, Club House e tutti gli altri che gravitavano intorno al cosmo Media Records. Riallacciandomi a quanto detto prima, ero l’editore e il ghost producer, i DJ o gli artisti venivano “mantenuti” dalla Media Records in vari modi, con uno stipendio mensile, con percentuali sui diritti d’autore e percentuali sulle vendite, e poi indirizzati dal “mio orecchio musicale” nella realizzazione dei pezzi. Insomma, avevo “industrializzato” quello che William Jaggard ed Edward Blount fecero per Shakespeare all’inizio della sua carriera, e questo avvenne per ognuno dei miei nuovi artisti o DJ. Picotto, che parla di diritti connessi “rubati” e che incise già un disco (con scarso successo) prima di venire alla Media Records, non era inesperto ma ignorante e a nulla sono valse le sue intentate cause ai nostri danni. Non capiva, pur essendo lui la perfetta rappresentazione dell’efficienza del mio sistema. Come dice da sé, non era esperto ma grazie a me quale suo ghost producer, in pochi anni riuscì ad entrare nell’olimpo dei top DJ del mondo. Una volta uscito dalla Media Records però nessun suo pezzo ha mai più raggiunto una classifica dignitosa nonostante fosse ormai nei top ten DJ mondiali. Questo avvenne perché non trovò un altro ghost producer come me. E veniamo ad internet che ha il merito (o il demerito) di aver portato alla ribalta l’esistenza di questo sistema di ghost production. Posso dire con la massima serenità che un tempo l’artista, il DJ e la casa discografica, per “vendersi bene”, raccontavano mille balle su fantomatiche classifiche in cui albergavano costantemente i propri pezzi. Si parlava di “primo in Giappone, primo in Australia, primo in Honduras” e così via, più esotici erano i territori e meno chance esistevano per verificarne la veridicità. Con l’avvento dei social network, in particolare di Facebook, il livello delle fake news si è alzato sensibilmente. Non ci si limita più a classifiche e territori, informazioni ormai facilmente verificabili, ma si alimentano con bugie storie private rimaste dietro le quinte per decenni, quelle che danno prestigio e che sono più ardue da accertare specialmente se nel frattempo il “portatore malsano” è divenuto molto popolare. Sarebbe troppo facile per me infierire ancora su Picotto o su chiunque altro che, uscito dalla perfetta “macchina da guerra” della Media Records, abbia raccontato versioni approssimative della propria esperienza con noi, che siamo tornati anche per fare revisionismo ed attribuire i giusti meriti a chi ha fatto e per quanto ha fatto. Del resto basta andare su Discogs per vedere cosa l’artista abbia realizzato durante la militanza in una struttura e poi confrontarlo con quello realizzato dopo essere uscito dalla stessa. Un giochino da fare con moltissimi artisti popolari, non solo nostri. La prova che il ghost producer sia utile e necessario all’artista o DJ e alla label o editore, è sotto gli occhi di tutti. Non è un imbroglio, è un sistema organizzato per la creazione e il mantenimento di un talento, rispettoso anche delle necessità di coloro che fruiscono della musica a cui, nel 99% delle volte, non interessa come un pezzo è stato fatto ma chi e come glielo propina. Forse moralmente condannabile ma le attenuanti del caso, come ad esempio la gioia che certi DJ rockstar danno ai loro fan, giustificano un “non luogo a procedere”».

Restiamo a Brescia ma spostandoci alla Time di Giacomo Maiolini per cui in quegli anni lavora Alessandro Gilardi, musicista/compositore che produce tantissimi brani sotto altrettanti pseudonimi: tra i più noti e fortunati Jinny, Silvia Coleman, Trivial Voice ma soprattutto U.S.U.R.A. con la hit europea del 1992 “Open Your Mind”. «Ho svolto pochi lavori conto terzi, le poche volte che è successo ci veniva chiesto direttamente dalla Time come “favore” nei loro confronti, poiché c’era bisogno di mantenere buoni rapporti con la radio di riferimento. Pertanto ho partecipato a produzioni importanti ma non comparendo tra i crediti. Il “lavoro conto terzi” per me è rappresentato da quelle produzioni in cui non partecipavo come autore pur suonando e programmando vari strumenti, o sistemando l’arrangiamento insieme ai produttori del progetto che chiedevano il contributo. Visto che da parte dei DJ radiofonici noti all’epoca c’era ben poca disponibilità di cedere punti autorali, facemmo presente che non eravamo interessati a collaborare a queste condizioni, avevamo le nostre produzioni che funzionavano all’estero e quindi potevamo “sopravvivere” lo stesso. Di conseguenza i committenti si rivolsero (con nostro sollievo) ad altri team più accondiscendenti. Il restante 90% delle produzioni da noi create e poi cedute quasi sempre alla Time prevedevano la creazione di nomi di fantasia. Tutto veniva deciso di comune accordo tra me, Valter Cremonini e Claudio Varola, essendo produttori ed autori dei progetti. Producevamo tantissima musica e quindi era impossibile usare i nostri nomi perché li avremmo inflazionati a tempo di record. Comunque non era un problema incidere dischi senza firmarli come main artist, a patto che avessimo il controllo sul progetto da noi creato. Essendo un musicista mi occupavo della parte specificatamente musicale ossia scrittura della melodia ed armonia. Poi suonavo i vari strumenti all’interno del brano. Però era un continuo interagire con gli altri, non esistevano ruoli predefiniti. Devo ammettere che talvolta mi ha dato un po’ fastidio restare confinato tra i crediti perché i cantanti, dopo appena un paio di ore, pensavano di essere già delle star mentre noi che lavoravamo per settimane eravamo costretti a rimanere dietro le quinte. Non a caso abbiamo utilizzato quasi sempre turnisti. Ci sono delle proporzioni da rispettare, il pezzo è di chi lo scrive, lo crea e lo produce. Noi stabilivamo in anticipo chi sarebbe andato a fare le serate in discoteca e chi invece sarebbe rimasto in studio, proprio per evitare problemi. Un messaggio ai ghost producer di oggi? Fatevi pagare bene oppure rinunciate!».

Per un periodo sotto contratto con la Media Records di Bortolotti è stato anche David Calzamatta, romano, in attività dalla fine degli anni Ottanta. «Ho iniziato a produrre musica per conto terzi intorno al 1989, quando praticamente nessun DJ in Italia metteva musica italiana. Purtroppo, a partire dal 1983, le etichette nostrane invece che evolvere musicalmente preferirono riprodurre lo stesso genere per sei/sette anni, e mentre nei negozi di dischi giungevano i brani della prima house che inaugurarono nuovi metodi compositivi, da noi continuavano ad essere prodotte canzoncine con melodie banali cantate da personaggi italiani con pronuncia inglese alla Alberto Sordi. La situazione degenerò al punto che i DJ quando vedevano una copertina italiana non si prendevano nemmeno la briga di ascoltare il brano. Per questa ragione si rese necessario cercare pseudonimi anglofoni per avere meno contatti possibili con quel sound “disneyano” e quindi guadagnarsi la chance di essere presi in considerazione. Nei primissimi anni Novanta, in scia a questa situazione, mi ritrovai con diverse richieste da parte di DJ affermati nel circuito dei network radiofonici nazionali o dei locali di tendenza, intenzionati a produrre un disco ma non sapendo neanche da che parte iniziare. In pratica mi “affittavano” come produttore, compositore o arrangiatore. In alcuni casi arrivavano con la cantante che avrebbe dovuto interpretare il pezzo, a volte invece avrei dovuta cercarla io, ma più spesso si limitavano a darmi qualche indicazione ed assistevano al mio lavoro per poter poi dire di essere stati in studio. È capitato anche che non si facessero neanche vedere. Questi personaggi volevano risultare le star della produzione ma io non avevo alcun problema, anche perché non volevo affatto apporre il mio nome su brani con voci poco intonate o con spunti musicali discutibili che sviluppavo perché proposti da loro ma che non condividevo affatto. C’erano anche situazioni in cui DJ molto impegnati nel lavoro in radio mi contattavano per realizzare un remix ed io risuonavo interamente il brano cambiando il sound, cosa piuttosto inusuale in quegli anni. Preparavo alcune versioni e loro avrebbero scelto la più convincente (a volte ascoltandola attraverso la cornetta del telefono!) firmandola col proprio nome. Disponevo di un mio studio ma mi capitava anche di lavorare in quello di altri, ed ogni volta coprivo un ruolo leggermente diverso. O componevo le basi e poi la melodia che veniva successivamente cantata oppure su una base un/una cantante sviluppava la melodia a cui aggiungevo vari strumenti sino a raggiungere una song completamente arrangiata. Poteva capitare anche che fosse tutto pronto ma poiché il risultato suonava troppo retrò utilizzavo le tracce MIDI collegandole ai miei sintetizzatori con cui avevo accesso ad una vasta libreria di suoni che preparavo a tempo perso e poi modificavo. Questa mia attività di ghost producer andò avanti per un po’ di tempo, ho pubblicato quasi cinquanta dischi ma solo sulla metà è apparso il mio nome. Non era qualcosa che mi faceva impazzire, elaboravo idee e mi pagavano una volta ultimate. Insomma, con una mano davo il master e con l’altra prendevo il mio compenso. Non mi sentivo sfruttato però, era il modo di lavorare, ottimizzando tempi e costi. La vita è fatta di continui compromessi, talvolta possono andar bene, altre meno. Non avere il giusto spazio o essere proprio assenti dai crediti può lasciare l’amaro in bocca ma assicuro che certe volte è preferibile usare uno pseudonimo che il proprio nome. Poi per i discografici di allora vendere dischi o scarpe era praticamente la stessa cosa. Le pensavano tutte per toglierti qualche punto SIAE o diritti di stampa, mettendo in circolazione qualche migliaio di copie prive di bollino. Preferisco non esprimermi sugli attuali ghost producer, ognuno fa le proprie scelte e comunque in un certo tipo di musica le cose sono andate quasi sempre così. Il pubblico conosce il cantante ma non il compositore, l’arrangiatore e il produttore di un pezzo, è un meccanismo avviato sin dall’inizio del Novecento. Prima ascoltavi Verdi o Chopin e non il tenore o il pianista di turno».

Oltre al citato Davide Piatto, c’è un altro compositore romagnolo che merita di essere annoverato in questa lunga indagine. Trattasi di Cristian Camporesi, da Forlì, attivo in una mole di progetti tra cui spiccano su tutti Sensoria, Venusia, Beverly’s Maniacs, Countermove e il più recente Franz & Shape. «Sono nato negli anni Settanta ma di quella decade, a parte i Rockets e i Kiss, non ricordo molto, musicalmente parlando. Appartengo alla prima generazione lasciata crescere a merendine, cartoni animati giapponesi e videogiochi» racconta. «Il vero substrato delle mie radici musicali furono invece gli anni Ottanta, con OMD, Franco Battiato, Duran Duran e i video dei Culture Club e Madonna. Sino al 1985 ero più interessato ai videogame e alla tv ma poi, improvvisamente, la svolta. Frequentavo la terza media quando uscì “Flaunt It”, il primo album dei Sigue Sigue Sputnik, che per me rappresentò un grande esempio di musica “ossessiva e ripetitiva”. In quel momento nacque la mia curiosità per la musica “alternativa”, quella che i media passavano col contagocce. Cominciai ad esplorarla partendo dal punk dei Sex Pistols e Dead Kennedys ma fu nella new wave che trovai i miei primi idoli, Cure, Bauhaus, Sisters Of Mercy, Joy Division e naturalmente i Depeche Mode. Durante i cinque anni delle scuole superiori all’ITIS di Forlì la mia passione transitò in modo definitivo dai videogiochi alla musica. Presto nacque anche la voglia di comporre con le macchine visto che non sapevo suonare alcuno strumento. Col mio compagno di classe e vicino di casa Matteo Leoni, da sempre “spacciatore” personale di musica, iniziai ad armeggiare con un paio di tastiere giocattolo, le Casio SK-1 ed SK-5, ed una batteria elettronica, la Roland TR-505, tutte avute in regalo. Registravamo su cassetta per poi effettuare sovraincisioni mentre la “sdoppiavamo” su un’altra. Ogni sovraincisione però raddoppiava il fruscio ma intanto, in quel modo artigianale, imparavamo a programmare una TR e a misurarci con gli appena 0,7 secondi di campionamento delle due Casio. Poi si aggiunse un altro amico, Alberto Frignani, che portò una Roland D-5 che non sapeva neanche usare. Matteo ed io imparammo presto cos’era la connessione MIDI e come far suonare dalla TR il synth bass della D-5, e ciò ci permise di poter programmare un’intera song con basso e batteria.

Correva il 1989 quando, una sera, Alberto iniziò a stonacchiare sui nostri “esperimenti elettronici” decretando la nascita della prima “canzone”. Creammo i Marika Martyr coi quali cominciava a tutti gli effetti la mia carriera da produttore. Sfruttavamo i compleanni per farci regalare nuove macchine e così arrivò un Korg M1 a cui seguì un Korg T3. Con queste (allora) potenti workstation disponevamo di un sequencer ad otto tracce e i nostri demo cominciarono a sembrare canzoni. Certo, i suoni erano ancora lontani da quelli dei Depeche Mode, ma dovevamo accontentarci. Cominciai pure a familiarizzare con la chitarra elettrica ma prendendola dalla parte sbagliata perché mancino. Ci vollero parecchi mesi di prove prima di sentirmi a mio agio nel tenere la chitarra “al rovescio”. Presi anche lezioni private seppur, per più di una volta, la abbia abbandonata appendendola al chiodo. Dentro di me ha sempre regnato la convinzione che per essere considerato un musicista sia necessario saper suonare almeno uno strumento. Come Marika Martyr cominciammo a scrivere canzoni a tre mani e ad esibirci in qualche piazza o contest per emergenti. Alberto alla voce, Matteo alla tastiera e alla batteria elettronica, io alla tastiera o chitarra. Nel 1992 autoproducemmo il nostro primo (ed unico) album, “Zone D’Ombra”, che duplicammo su cassetta in centocinquanta copie, la maggior parte delle quali regalate agli amici. Non saprei dire che genere di musica fosse, credo pop wave, con un po’ di Diaframma ed un po’ di Depeche Mode in lingua italiana. Col tempo l’album arrivò nelle mani di un discografico che stava riunendo giovani band per fare un CD tributo ai Depeche Mode. Realizzammo tre cover e quella fu l’unica nostra uscita su compact disc come Marika Martyr. In quel periodo collaborai anche con un gruppo di amici che suonava con basso e chitarre e a cui serviva un supporto ritmico di tastiere al loro sound più oscuro, orientato allo stile dei Sisters Of Mercy. Ci chiamavamo Flower Of Sin e realizzammo un EP uscito nel 1992 su CD per la Dischi Impero, marketizzato dalla Contempo Records e distribuito dalla PolyGram. In copertina finì uno schizzo che avevo abbozzato proprio io.

Poi, lentamente ed inesorabilmente, ci travolse l’ondata della techno e i Marika Martyr si trasformarono in Sensoria. Dei tre fui il primo ad avvicinarmi ai suoni della discoteca ed iniziai a collaborare con Andrea ‘The Dam’ Castellini nella stesura di alcune tracce che aveva nel cassetto. Arrivati ad un buon punto pensammo che fosse giunto il momento di farle sentire a qualcuno ma non sapevamo chi. Per caso ascoltammo alla radio un bel mixato di Cirillo, il DJ del Cocoricò ma anche uno dei componenti dei Datura: forse era lui la persona giusta. Così un sabato sera dell’estate del 1993 io e Castellini arrivammo al Cocoricò, alle quattro del mattino con la sua Fiat Panda. Aspettammo che aprissero le porte per far defluire la gente a fine serata e poter entrare gratis perché per noi le 50.000 lire del biglietto d’ingresso erano decisamente troppe. Una volta dentro lasciammo il demo tape al DJ che stava in consolle, Cirillo. Con la stessa “tecnica” tornammo da lui diverse volte perché qualcosa gli piacque ma passò un anno prima che quel demo si trasformasse in un disco in vinile, ovvero “Toxic Speech” di The Pogo. Durante la settimana apportavamo le modifiche richieste e gli riportavamo il demo “corretto” il sabato seguente. Così trascorse tutto l’inverno. Aspettavamo Cirillo fuori, al ghiaccio, senza sapere quando sarebbe arrivato visto che i telefoni cellulari, tra 1993 e 1994, erano ancora riservati davvero a pochissimi. Col passare dei mesi riuscii ad incuriosire anche Alberto e Matteo che iniziarono a seguirmi in quella “piramide psichedelica”. Nonostante tutti avessimo un background new wave, punk e synth pop, la musica di Cirillo ci piaceva. Gli altri DJ suonavano tracce vuote e monotone, la house invece, soprattutto quella cantata, non ci attirava affatto, mentre la sua scaletta era assai varia, spaziava dai 140 ai 190 bpm e quasi ogni pezzo lasciava il segno con giri di basso, arpeggi, accordi e riff sempre carichi e coinvolgenti. Cirillo sapeva inanellarli magistralmente in un crescendo ritmico sino a sfociare nell’hardcore. Ogni sabato il Cocoricò era all’avanguardia: animazione provocatoria, musica dissacratoria, atmosfera surreale ed elettrizzante rendevano quella piramide qualcosa di eccezionale. Il pubblico poi era fatto da veri fanatici, disposti a percorrere anche trecento chilometri per ballare in quel posto. Molti conoscevano i pezzi che passava Cirillo, intonavano i ritornelli, saltavano e si arrampicavano ovunque. Avendo la fidanzata di Francoforte, Cirillo passava lì gran parte del suo tempo dove aveva l’opportunità di ascoltare programmi radiofonici techno, conoscere altri DJ e soprattutto comprare dischi in anteprima. Era gelosissimo dei suoi promo ed effettivamente suonava brani che sarebbero arrivati in Italia e diventati hit con mesi (se non anni) di anticipo. Tale gelosia creava frequenti litigi con altri DJ (uno su tutti Ricci) con cui si divideva la consolle e ai quali non voleva far sapere i titoli delle tracce suonate. Per questo ricorreva a stratagemmi come etichette bianche con cui coprire i centrini, in modo che nessuno potesse leggerne l’autore.

Attraverso quei demo che gli portavamo con regolarità, Cirillo intuì le nostre potenzialità e cominciò a frequentare, di tanto in tanto, il nostro “studio” perché aveva bisogno di un gruppo di produzione non lontano da casa per realizzare tracce a suo nome. Il nostro però non era propriamente uno studio, traslocavamo periodicamente le misere attrezzature da casa mia a quella di Alberto e di Matteo ogni volta che i nostri genitori raggiungevano il limite di sopportazione massimo dovuto allo “sforo” dei decibel. Solamente nell’autunno del 1994, stanchi di girovagare da una casa all’altra, nacque il Neverland Studio, allestito in una stanza da letto inutilizzata che si trovava all’ultimo piano del condominio dove abitavo coi miei. Non la usavamo perché aveva un unico ingresso dalle scale dello stabile e non era collegata al resto dell’appartamento, quindi per noi era semplicemente perfetta. Certo, ci vollero mesi per convincere i miei a buttare via tutto il vecchissimo arredamento della nonna, ma lo studio, seppur lentamente, iniziò a prendere forma e in quei venti metri quadri ho lavorato per oltre dieci anni. Visto che nessuno di noi tre amava frequentare i bar, trascorrevamo tutte le sere lì, a suonare, ridere e fantasticare. In breve il Neverland Studio si trasformò in un piccolo centro sociale: nel quartiere si sparse la voce che il mitico Cirillo venisse a lavorare lì ogni tanto, e così un gruppetto di amici (di cui almeno la metà erano DJ o avrebbero voluto esserlo) si presentava ogni sera. Nel corso degli anni la cosa mi sfuggì di mano tanto che lo studio era occupato anche in mia assenza. Il nome Neverland derivava dalla nostra passione per i manga che trasponemmo anche nelle grafiche delle nostre produzioni. In particolare eravamo fan della collana “Video Girl Ai”.

Lavoravamo a tre mani: in genere Alberto, che era sempre stato “il cantante”, scriveva le melodie che poi io e Matteo, più dediti alla programmazione, trasformavamo in prodotto finito. Cirillo non aveva nessuna cognizione musicale e tecnica ma ricopriva l’importantissimo ruolo di regista facendoci sentire tracce da cui prendere ispirazione per i suoni. La sua presenza in studio però era piuttosto rara a causa dei numerosi impegni, quindi ci arrangiavamo alla meglio. Tutte le nostre prime produzioni furono terminate e mixate in una delle nostre camere da letto/soggiorni utilizzando come monitor le casse dello stereo di Alberto. Tra queste “Ozone Free” di Cirillo (inserita nella compilation del Tribal Gathering ’94), “The Last Fight (The Pogo Remix)” di Trashman e “Bomba (Sensoria Remix)” di Ramirez. Affiancarci ad un artista popolare come Ramirez, con milioni di dischi venduti alle spalle, fu la prima grande occasione per farci notare sul mercato discografico, seppur lavorammo interamente gratis. A marzo del ’95 seguimmo Cirillo ad uno dei tanti mitizzati rave, il Rave City, a Monaco, evento per cui scrivemmo appositamente il brano “Flug 303”, incluso nella compilation ufficiale insieme a veri big dell’epoca come Prodigy, AWeX, Paul van Dyk, Rob Acid e Komakino. Purtroppo non avevamo ancora la Roland TB-303, già difficile da trovare e con quotazioni in ascesa, quindi ottenemmo il synth acid ripiegando sul nostro inseparabile Roland SH-101 filtrato da uno Yamaha FX500 controllato via MIDI. Il sample vocale invece lo campionammo dalla versione in lingua giapponese di una puntata di “Dragon Ball”, per ribadire l’attaccamento ai manga. Il titolo originario era “Flug 101”, proprio in onore del Roland SH-101, ma Cirillo decise di cambiarlo sostenendo che 303 fosse più figo.

Il Rave City si svolse nel vecchio aeroporto di Monaco, suddiviso in quattro hangar con generi musicali diversi e stracolmi di ravers. Lì ho ascoltato la miglior techno trance dell’epoca direttamente dalle mani di grandi DJ circondati da impianti audio, luci e laser che sembravano arrivare da un altro pianeta. Ne rimasi estasiato e capii che le nostre blasonate discoteche erano ben poca cosa rispetto ai rave tedeschi. Per alleggerire il rientro da Monaco Cirillo ci lasciò in custodia le sue valigie di dischi che sarebbe venuto a prendere in seguito. Passammo i giorni successivi a riversare su DAT le tracce migliori mentre i nostri amici DJ sbarravano gli occhi alla vista di certi titoli. All’epoca se una traccia non l’avevi su vinile non la potevi mica suonare! Nel corso del ’95 producemmo anche “Pro Parade” di Cirillo, finita nella compilation ufficiale dell’Energy, il Sensoria Remix di “Good Music” di DJ Meltron, uscito su Red Alert, e due tracce hardcore per la Ruff Beats Records di Lenny Dee, “Make My Day” e “Wake Up Brooklyn”, la prima con un sample vocale dei Beastie Boys, la seconda con quello dei Nitzer Ebb, un gruppo simbolo dell’EBM che ascoltavo da adolescente. Entrambe furono firmate dal solo Cirillo. Ci occupammo pure dell’anthem del secondo Rave City di Monaco, “Rave City – The Anthem” di Citizens Of Rave City. Avremmo potuto mixarlo meglio ma avendo a disposizione pochissimo tempo non riuscimmo proprio a fare di più. Nonostante ciò il risultato fu ottimo ed ottenne buoni riscontri. Cirillo era ospite d’onore e suonava techno/trance nella sala principale ed hardcore nella sala 2. Lo seguimmo anche questa volta ma rimanemmo piuttosto delusi, sia perché il nostro inno fu proposto ad ogni cambio di DJ da un terzetto di deficienti coi capelli colorati di blu che suonavano in playback il brano, sia perché il cambio di location distrusse completamente l’atmosfera.

Il 1995 vide anche l’uscita del nostro primo vinile non realizzato per conto terzi, “Future Brain” di Cy-Clone, sulla bolognese Absolut Joy, sublabel della Irma. Era la cover della hit di Den Harrow di dieci anni prima, ricantata da Alberto in stampo commerciale e radiofonico. Passammo un’intera giornata negli studi della Irma per ottenere il migliore dei risultati, fu senza dubbio una bella esperienza. Il disco, nonostante il supporto dei Datura, passò poco in radio ma lo ricordo con piacere perché rappresentò il primo contratto discografico. Quell’anno fu assai produttivo, eravamo giovani, carichi, fiutavamo l’odore del successo e speravamo in una futura carriera da musicisti. Proseguimmo a produrre senza sosta brani per Cirillo, come “Seaside”, “Kiss”, “Compulsion” e il remix di “Deep” di Marusha».

Camporesi e soci non sono proprio “ghost” perché i loro nomi figurano quasi sempre tra i crediti, ma al pubblico poco importa di chi opera dietro le quinte perché generalmente considera “autore” solo chi appone il proprio nome come artista sulla copertina. «Credo si possa parlare di due poli, uno opposto all’altro: da un lato quello dell’arte nata come espressione di sentimenti e del pensiero dell’artista, pura e libera, dall’altro quello dell’arte-business, dove il denaro detta legge e l’artista si trasforma in un numero. Al “vero artista”, pensando ai tantissimi rinchiusi in manicomi o dati per pazzi, credo non gliene potesse fregare niente se qualcun’altro firmasse la sua opera. Tutti gli altri, me compreso, sono artigiani e quindi soggetti alle leggi del mercato. Per tanti anni ho seguito quelle leggi in cerca di una fortuna che purtroppo non è mai arrivata. Come un falegname ho prodotto sedie se il mercato me le chiedeva, e alla fine sono riuscito a trasformare la passione in un lavoro, cosa già estremamente difficile. Mi liberai dei paraocchi solo nel 2004 quando, col progetto Franz & Shape, ebbi la possibilità di sviluppare qualcosa che racchiudesse tutto il mio background senza pensare a dover vendere per sopravvivere. Quello è stato il mio più grande successo. Figurare solo tra i credit non mi dava fastidio ma Sensoria è terminato proprio a causa della gelosia, perché, è inutile negarlo, ci sentivamo usati e Cirillo non ci diede aiuti per crescere. Avrebbe potuto inserirci nella line up di praticamente qualsiasi evento eppure non lo fece quasi mai. Ero giovane ed inesperto e finii con l’abbandonarlo in cerca di qualcosa di più soddisfacente sottovalutando il nostro rapporto che pensavo fosse solo una questione di affari. Quando ci separammo provò così tanto risentimento da fare in modo che il progetto Sensoria fosse dimenticato nel più breve tempo possibile. Il web è pieno di interviste in cui parla dei “suoi” progetti anni Novanta ma lo fa puntualmente senza menzionarci. Inoltre non propone più nessuno dei nostri pezzi in occasione dei suoi Memorabilia, per non parlare della collusione nel tenerci intenzionalmente fuori dalle serate dello stesso evento. Per questa ragione oggi mi sento “ghost”, ma sono consapevole dei miei errori e dell’aver sottovalutato un’amicizia. I ghost producer di ora li considero bravi artigiani, in certi casi molti abili. Ci sarà sempre bisogno di loro fino a quando esisterà un pubblico che idolatra dei non-artisti ricoperti da una finta placcatura d’oro. Detesto questo sistema ma, volenti o nolenti, facciamo tutti parte dell’ingranaggio di un’economia fittizia che detta le regole di un gioco che fin da piccoli ci hanno insegnato e che da grandi vorremmo tanto vincere. L’importante è saperlo: la consapevolezza è il seme del cambiamento».

A metà degli anni Novanta si fa notare pure Emanuele Asti: anche lui realizza musica attraverso vari pseudonimi tra cui ben si distinguono U4EA con “Crisia” (prodotta da Alessandro Parisi ed Emanuel Mian) e soprattutto Playahitty con la hit del 1994 “The Summer Is Magic”, cantata da Giovanna Bersola alias Jenny B. ma portata in scena (discoteche, videoclip) da una modella, una certa Marion, analogamente a quanto accade nei video di “Anybody Anyway” e “Don’t Stop” di Prezioso, cantati da Viviana Presutti dei Da Blitz nelle vesti di Daphnes ma con l’immagine affidata per esigenze sceniche a Kamarak Sangwaraporn, tailandese impegnata nel settore amministrativo della Bliss Corporation. «Non ho mai prodotto musica per altri, come produttore artistico ho usato sempre il mio nome anagrafico, spesso solo il cognome nei crediti. Con l’avvento dell’MP3 e la conseguente assenza di copertine dove apporre informazioni è subentrata la prassi di intitolare le versioni col nome (Emanuele Asti Radio Mix, ad esempio). Per me comporre canzoni e scrivere melodie è una cosa meravigliosa e che mi infonde carica, lo preferisco persino al produrre ed allo stare in studio. Mi è capitato di scrivere brani poi prodotti da altri, ma difficilmente produco brani scritti da altri. Molte delle voci della dance degli anni Ottanta e Novanta non desideravano affatto prestare al progetto la propria immagine o la propria voce in esclusiva preferendo di gran lunga il lavoro da turnista perché riponevano le ambizioni artistiche su altri generi musicali. Non ho mai avuto problemi nel restare “confinato” nei crediti, ogni ruolo nella musica ha il suo bel perché. In relazione ai ghost producer invece, preferirei un’ipotetica gloria al denaro, quindi non farei quel tipo di lavoro. Si tratta di scelte personali, i produttori fantasma si divertono ed incassano. Comunque penso (e spero) che le idee primarie provengano dai DJ che poi firmano i brani, seppur poi vengano sviluppate da altri. Quel che conta è l’idea e la direzione artistica».

Gli anni Novanta dell’eurodance ed italodance sono costellati di “studio project” che vengono portati in scena da cantanti o più semplicemente modelli. Da Mo-Do, rappresentato dal compianto Fabio Frittelli, a Ramirez, impersonato da Alex Quiroz Buelvas, da Atahualpa, peruviani presentati da Raffaella Carrà su Rai Due ma sincronizzati su uno spudorato playback, ai Cappella di Bortolotti che cambiano lineup più volte (Ettore Foresti, Kelly Overett, Rodney Bishop, Alison Jordan) e fanno discutere i fan per le varie session vocalist che ne prendono parte: Eileina Dennis canta “Move On Baby” e “Don’t Be Proud”, Katherine Ellis interpreta “Tell Me The Way”, come lei stessa rivela il 13 febbraio 2014 qui, Jackie Rawe si occupa di “Move It Up” (come confermato in questa intervista) mentre “U & Me” (melodicamente ispirato da “Let Me Go” di Patty Johnson?) scatena una bega legale con la cantante statunitense Vicki Shepard. Il rapporto tra i performer (che “mettono la faccia”) e le case discografiche che pensano a tutto il resto però non è sempre idilliaco anzi, a distanza di anni emergono dettagli dai quali è facile comprendere quanto fossero controverse e problematiche quelle prestazioni lavorative. In questa intervista a cura di Klems, pubblicata a dicembre 2022, ad esempio la citata Kelly Overett rivela di non avere guadagnato una sola sterlina dalla vendita dei dischi dei Cappella. «Dedicai due anni della mia vita a quel progetto e non trovavo giusto non intascare nulla dei proventi discografici, mi sentii sfruttata dalla Media Records e decisi di abbandonare». Fornire un’immagine adeguata comunque era (ed è ancora) molto importante, tanto che in alcuni casi si ingaggiavano ballerini professionisti per completare l’assetto live nella migliore delle maniere. È il caso dei citati The Creatures e dei Cappella, per cui viene coinvolta nel tour mondiale come ballerina e coreografa Maura Paparo, diventata nota in tempi recenti per essere una delle insegnanti nella scuola di Amici di Maria De Filippi (è possibile intravederla in questa clip registrata a Bucharest nel dicembre 1994). Altrettanto vasto è il panorama delle turniste, ironicamente ribattezzate “ghost singer”: sul podio, a pari merito, Giovanna Bersola alias Jenny B., Sandy Chambers e Annerley Gordon, a cui seguono altre come Nathalie Aarts, Clara Moroni, Elena Ferretti, Melody Castellari, Giada Masoni ed Emanuela Gubinelli. Quest’ultima incide il primo disco nel ’79 come Marina Lai ed approda a Sanremo tre anni più tardi con “Centomila Amori Miei”. Poi si reinventa nella dance con un nuovo nome, Taleesa, ed una biografia studiata a tavolino che mente persino sul luogo e data di nascita (1960 a Matelica, in provincia di Macerata, e non 1971 negli Stati Uniti). Anche Alexia, del resto, canta in “Think About The Way” ed “It’s A Rainy Day” di Ice MC ma non figurando tra i crediti. Moltissimi ragguagli in merito sono sparsi nei volumi della trilogia di Decadance.

È stato un ghost singer anche Danny Losito, il pugliese che ad inizio anni Novanta canta le hit dei Double Dee: nel 1996 la sua voce scandisce “Voo-Doo Believe?”, brano che apre la nuova fase stilistica dei Datura, ma figurando in copertina solo come autore. Non appare neanche nel video diretto da Paolo Doppieri, pare per vincoli contrattuali, dove è rimpiazzato da Edoardo ‘Eddy’ Alighieri, lo stesso che l’estate successiva sale sul palco del Festivalbar per “The Sign” ricantando il testo che sul disco è interpretato ancora da Losito. Come anticipato qualche riga sopra da Emanuele Asti, a prestare in incognito la propria voce alla dance sono spesso cantanti e coriste di artisti rock e pop, ragazze che sognano di diventare grandi interpreti e calcare i palcoscenici di tutto il pianeta ma scarsamente interessate ad appartenere al mondo della musica da discoteca perché ai tempi la dance (soprattutto quella italiana) è considerata solo volgare musica di serie b. Anche questo aiuta la proliferazione delle “immagini” che limitano il proprio intervento al lip sync: se avete voglia qui trovate una lunga discussione in merito sviluppata qualche anno fa nel forum di Discogs.

Nuovo millennio, tempo di cambiamenti

La “pratica” ormai consolidata che vede produttori in studio e personaggi-immagine sul palco va avanti sino ai primi anni Duemila, gli ultimi sia per un certo tipo di dance, sia per i group project. Qualche esempio? Gli olandesi Vengaboys, prodotti da DJ Delmundo e Danski ma impersonati dai ballerini Roy, Denise, Kim e Robin, gli ATC, prodotti dal tedesco Alex Christensen degli U96 ma portati in scena dal neozelandese Joe, dall’inglese Tracey, dall’australiana Sarah e dall’italiano Livio, e la drag queen Billy More (da non confondere con la band disco newyorkese Billy Moore) ossia il compianto Massimo Brancaccio (già Max Coveri negli anni Ottanta) che interpreta in playback vari brani (uno su tutti “Up & Down (Don’t Fall In Love With Me)”) cantati in realtà dall’italo canadese John Michael Biancale. Si prospetta una nuova stagione stilistica dai connotati ancora da definire ma appare certa la fine degli studio project, anche all’estero. Gruppi come Fun Factory, Real McCoy, Captain Jack, Masterboy, 2 Unlimited, Snap!, Alcazar, Imperio ed Aqua sembrano destinati ad un inesorabile declino perché i gusti della nuova generazione di teenager sono radicalmente diversi rispetto a quelli degli anni Novanta. Con brani tipo “The Drill” di The Drill, “Drop The Pressure” di Mylo o “Geht’s Noch?” di Roman Flügel (inaspettatamente proiettato nel pop) prende piede un genere strumentale dai connotati tipicamente elettronici a cui segue lo sdoganamento su larga scala di molti DJ prima relegati al movimento rave. Richie Hawtin, Sven Väth (ex frontman del progetto Off gestito da Michael Münzing e Luca Anzilotti, i futuri Snap!) e Carl Cox, giusto per citarne alcuni, diventano nomi di grido, capaci di attrarre non più solo appassionati ma folle immense di giovani. In particolare nel 2004 l’olandese Tiësto si esibisce alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Atene accompagnando la parata degli atleti di fronte ad una platea di oltre 70.000 persone. È uno dei primi segni ad indicare lo stravolgimento della figura del DJ. A dare la spallata decisiva sarà qualche anno dopo il francese David Guetta: discograficamente sfortunato negli anni Novanta (incide “Nation Rap” nel 1990 ed “Up & Away”, col supporto vocale di Robert Owens, nel 1994, ma non uscendo dall’anonimato), si rifà con gli interessi nel nuovo millennio con una sfilza di hit a suo nome.

La dance, che pare ancora un “affare” settoriale organizzato in modo non così diverso rispetto all’artigianalità degli anni Ottanta e Novanta, sta per subire una epocale trasformazione. Nel 2009 “I Gotta Feeling” dei Black Eyes Peas, prodotto dal citato Guetta, cambia la percezione globale di tutto. Il pop diventa dance e la dance diventa pop, la cassa in quattro entra a gamba tesa nel mondo hip hop ed r’n’b e il suono degli strumenti tradizionali finisce nel dimenticatoio. Le major si ricordano della musica da discoteca ritenendo fattibile l’adattabilità al mainstream. Anche le cantanti ora hanno tutto l’interesse di figurare in prima persona nei progetti di taglio dance, desiderose di emulare i featuring di colleghe come Kelly Rowland, Rihanna, Sia o Lady Gaga. Fare dance, insomma, diventa cool. Qualcuno aveva previsto ciò con più di qualche anno d’anticipo, come Bill Brewster e Frank Broughton nel loro libro del 2000 “Last Night A DJ Saved My Life”, in cui annunciano un inevitabile futuro dance per gli Stati Uniti con artisti che, usando i computer ed implicando progressi dal punto di vista scenografico, portano a modi efficacemente nuovi per presentare la dance e renderla comprensibile alla mentalità rock statunitense. Il DJ diventa quindi l’epicentro del sistema, un marchio, un brand come si dice in gergo, capace di fare il bello e il cattivo tempo scippando tale facoltà alle compagnie discografiche.  Si è giunti persino a parlare di “concerti tenuti da DJ”. Prevedibilmente in tantissimi, troppi, si buttano a capofitto nell’affare (è economicamente propizio fare i DJ) ma perdendo di vista i dettami originari del djismo. Si moltiplicano alla velocità della luce i casi di presunte “scalette preparate” con tanto di set preregistrato coordinato con effetti pirotecnici che accrescono al massimo la spettacolarizzazione. Guetta è tra i più presi di mira dagli integralisti che vorrebbero scindere il ruolo del DJ da quello del pop performer. Per il mainstream però DJ ora significa show, intrattenimento, una sorta di “studio project 2.0”. Facile immaginare quindi che non tutti siano effettivamente in grado di fare i DJ, soprattutto i più giovani a cui, per ovvie ragioni anagrafiche, manca la gavetta e l’esperienza necessaria per diventare padroni della materia. Gli studio project e i “cantanti” di un tempo vengono convertiti in DJ, attività che peraltro risulta di gran lunga più redditizia e con un più grosso potenziale. Venti o trenta anni fa l’artista eseguiva semplicemente la hit del momento e, laddove fosse possibile, qualche altro brano del repertorio. Ora invece un DJ può intrattenere il suo pubblico anche per delle ore, ricorrendo a brani altrui. Inevitabilmente anche quelli che si presentano con formazione in stile gruppo (come gli australiani Rüfüs) o con un background da musicista (come il norvegese Kygo) finiscono col proporsi in qualche modo come DJ. Se in passato non tutti quelli sul palco erano realmente dei musicisti e dei cantanti, oggi altrettanto non tutti sono dei DJ ma al pubblico ciò pare non interessare affatto. Ieri si vedevano personaggi suonare tastiere senza cavi di alimentazione, oggi si assiste a DJ col “pilota automatico” coadiuvati in studio da abili ghost producer. L’industria ha cannibalizzato non solo stili e declinazioni sonore ma una figura professionale della dance culture. Ma cosa accadrà quando l’industria si scoccerà? Che fine farà il DJ? Verrà forse soppiantato da altri ruoli con la stessa velocità con cui è stato elevato a rango di star?

Il DJ al centro di tutto. Per ora

Negli ultimi cinque/sei anni l’avanzata dei DJ star ha soppiantato quasi definitivamente il vecchio concetto di “band”. Così come la tecnologia ha miniaturizzato e talvolta de-atomizzato vari oggetti (si pensi agli strumenti, alla musica o alla carta stampata), allo stesso modo ha trasformato il concetto di performance. Se negli anni Settanta c’era la necessità di un batterista, di un chitarrista, di un tastierista e di un cantante, oggi può fare tutto una persona sola e in modo autonomo, il DJ. Riprendendo ancora quanto scritto da Brewster e Broughton nel citato libro del 2000, «ci sono DJ così famosi che c’è gente che va matta per il loro disco anche se pura spazzatura, ci sono DJ celebri che riescono ad attirare un gran pubblico anche se fanno schifo, porno DJ che fanno mettere i propri pezzi da qualcun altro, DJ di moda, ex pugili che fanno i DJ, calciatori dietro ai piatti, popstar sbiadite che cercano disperatamente una nuova credibilità. Le case discografiche hanno adattato i DJ al manuale delle rockstar così li possono commercializzare meglio, vanno in tour quando esce il nuovo album e quando salgono sul palco tutti gridano e l’industria musicale è contenta. La rivoluzione della dance si è fermata perché la club culture si basava sullo stare insieme, sull’uguaglianza, sull’idea che le star sono i clubber mica il piccoletto che armeggia col giradischi. Se siamo in pista ma guardiamo tutti il DJ stravolgiamo il senso della cosa. La cultura dance è stata completamente saccheggiata dalle forze commerciali».

I ghost producer, che in un certo senso sono sempre esistiti (non solo nella sfera musicale, provate a leggere qui) di conseguenza adesso vengono investiti da una luce nuova. C’è chi, come Mat Zo, si diverte a fare nomi, chi li denigra accusandoli di mercenarismo, chi li sostiene, chi ne è del tutto indifferente. Ognuno può farsi un’idea e tirare le somme riflettendo su ciò che ritiene corretto o non. Viene comunque da pensare che la musica dance, nella sua accezione pop, rientri a pieno titolo tra le forme artistiche più mercificate. Il ruolo del turnista (che esso sia un cantante o un musicista) nasce in seno ad un’ottica prettamente consumistica. Che reazioni provocherebbe sapere se La Gioconda o La Minestra in scatola Campbell non fossero state realizzate da Leonardo Da Vinci o Andy Warhol bensì da un loro collaboratore? È quindi giustificata la scarsa considerazione che esponenti di altri generi musicali o diverse forme artistiche nutrono nei confronti della musica pop dance? Farsi aiutare da altri per realizzare le proprie “opere” è deprecabile e sottrae lo status di “artista” a colui che vorrebbe continuare ad essere definito tale? E quanta artisticità c’è in un performer? Dove termina il ruolo dell’artista ed inizia quello del produttore? È leale diventare “DJ star” in virtù di produzioni che non sono integralmente farina del proprio sacco? Il vero “fantasma” è chi resta dietro le quinte o chi va sul palco e firma autografi per qualcosa che non è frutto della sua creatività? Se però si accetta che dietro il successo delle pop e rock star possa sussistere il lavoro di un mucchio di gente di cui si ignora persino l’esistenza, si dovrebbe fare lo stesso con quei DJ odierni che hanno raggiunto una pari popolarità.

Poi, se c’è chi riesce a fare successo con qualsiasi cosa sulla quale apponga il proprio nome è un altro paio di maniche. Lo sottolineò anche Piero Manzoni con la sua Merda d’artista, nel 1961. E l’evoluzione? Quasi sicuramente verrà ancora dalle “frange sotterranee” di artisti ignorati dal grande business che, involontariamente, lavorano di continuo offrendo nuovi spunti ed input che un giorno potrebbero essere dati in pasto al pubblico generalista. (Giosuè Impellizzeri)

* le testimonianze esclusive, introdotte dai nomi in grassetto, sono state raccolte tra gennaio e marzo 2016. Quelle di David Calzamatta e Cristian Camporesi risalgono invece al dicembre 2017, quella di Gianfranco Bortolotti, infine, al gennaio 2018.

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