Negozi di dischi del passato: Dee Jay Doc a Ponsacco

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Dee Jay Doc col titolare Paolo Bova

Quando apristi il negozio?
Era il dicembre del 1990. A seguito di problemi fisici causati dal lavoro in un supermercato, fui costretto a cambiare attività e quindi, essendo anche un DJ, decisi di aprire un negozio di dischi, del resto quello era il mio mondo.

01 - Dee Jay Doc esterna
L’ingresso del Dee Jay Doc in via Nazario Saurio, a Ponsacco

Perché optasti per il nome Dee Jay Doc?
L’idea giunse dopo aver visto la copertina di una compilation sulla quale si faceva riferimento ad un Doctor Dance. Da lì la scelta di usare la parola “Doc” abbinata a Dee Jay.

Che tipo di investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
L’investimento era prettamente strutturale e comprendeva arredamento, scaffalatura, insegne, accessori e prime forniture di dischi da pagare in contrassegno. Se non ricordo male, il totale di tutto ciò si aggirava intorno ai 25 milioni di lire.

Nelle immediate vicinanze c’erano altri negozi di dischi come il tuo?
A Pontedera solo un piccolo negozio trattava dischi mix. Io però aprii a Ponsacco, a circa tre chilometri di distanza, con l’intento di fare le cose in grande.

02 - punto ascolto e folder CD
Sopra un punto ascolto, sotto l’assortimento in formato CD

Come era organizzato il punto vendita?
A disposizione c’erano circa 60 m² più il magazzino. Inizialmente allestii un bancone con vari punti ascolto (quattro, se la memoria non mi inganna) provvisti di piatti e cuffie. In seguito ad un ridimensionamento del locale però l’aspetto mutò avvicinandosi a quello dei DJ point britannici con sei/otto punti ascolto davanti ad un bancone lungo circa dieci metri. Dietro c’erano espositori a cascata sempre in stile british (ed infatti comprai i materiali a Londra perché in Italia non erano disponibili) e varie vetrine destinate agli accessori per DJ come testine, mixer, diffusori, flight case ed altro ancora.

Che generi musicali trattavi con particolare attenzione?
Mi specializzai subito nella vendita di house music che, in quel momento, era il genere che stava prendendo piede, e nel contempo trattavo anche cataloghi nazionali ed internazionali di CD e musicassette che però abbandonai poco dopo. Le mie attenzioni maggiori erano riservate ai prodotti all’epoca definiti “underground”, a prescindere dall’indirizzo stilistico.

Quanti dischi vendevi mediamente a settimana?
Ad inizio attività intorno ai 1500 dischi settimanali ma in seguito arrivai a toccare la soglia di ben 5000 pezzi.

03 - scatti interno (1992-1993)
Altri scatti del Dee Jay Doc risalenti al 1992 e 1993: sopra a sinistra si scorgono, tra gli altri, “Passion” di Gat Decor, “Feel It” degli FPI Project, “Love Breakdown” di Rozalla e il remix di “Pacific Symphony” dei Transformer 2, a destra “Feel The Rhythm” di Jinny, “I’m Every Woman” di Whitney Houston, “Qui Sème Le Vent Récolte Le Tempo” di MC Solaar e “In Nomine Patris” degli Atahualpa, sotto invece le t-shirt con il logo del negozio

Vendevi anche per corrispondenza?
Sì, iniziai circa due anni dopo l’apertura, facilitato dal fatto che fossi fornitore dei vari DJ dell’Insomnia ed avessi molte esclusive in area techno/progressive (credo di essere stato il primo a trattare questo genere in Toscana). Molti DJ mi contattavano per acquistare titoli che avevano ascoltato nei set dei vari DJ del locale e che, il più delle volte, erano esclusive ottenute grazie ad una succursale a Londra. Pertanto, in virtù di ciò, avevo clienti provenienti da tutta Italia ed anche dall’estero, come Svizzera ed Austria, dove i famosi DJ dell’Insomnia erano davvero seguitissimi.

Quali furono i bestseller?
Sono state molte le esclusive di successo, alcune divenute vere e proprie hit anche a livello commerciale. In presenza di titoli d’importazione che giudicavo forti, avevo l’abitudine di proporre a varie etichette italiane l’acquisto di licenze. Qualche esempio? “Such A Feeling” dei Bizarre Inc, “Funk & Drive” di K&M, “One Kiss” di Pacha, “Funkatarium” di Jump ed altri ancora. Parlando di bestseller però, non posso non citare anche quei dischi che ho venduto in quantità elevata di artisti come Emmanuel Top, Robert Miles, Speedy J e Discorosso. Ognuno superava le 150/180 copie.

C’erano DJ particolarmente noti a frequentare il negozio?
Erano moltissimi, soprattutto in ambito techno. Da Francesco Farfa a Mario Più, da Miki Il Delfino a Leo Mas passando per Gianni Bini, Alex Neri e davvero tanti altri. Avevo un casellario con cui riservavo il primo ascolto di dischi rari e promozionali a tutti i clienti assidui, erano circa cinquanta nomi che settimanalmente passavano da me per fare acquisti.

04 - Ospiti 1 watermark
Alcuni volti noti immortalati da Dee Jay Doc: Alex Neri, Alessandro ‘Blade’ Staderini dei Jestofunk, Bruno Bolla, Olga De Souza – frontwoman del progetto Corona, Francesco Farfa, Gabry Fasano, Gianni Bini, Ivan Iacobucci, Kenny Carpenter e Leo Mas

Quale fu la richiesta più stramba che ricordi?
Sono state così tante che ho perso il conto. Indimenticabile la caccia a “My Body And Soul” di Marvin Gardens (di cui parliamo qui, nda) che qualche DJ trovò sugli scaffali delle mie giacenze e trasformò in una hit. Recuperare altre copie fu una vera impresa, dovetti scartabellare migliaia di dischi nel magazzino! Ricordo anche di un’esclusiva di “So Hard” dei Pet Shop Boys remixato da David Morales di cui esistevano solo venti copie. Dopo averne data una a Mauro Ferrucci seguì un’autentica invasione di persone che lo chiedevano, ma io ne avevo appena cinque. Analoga la storia di “Thrill Me”, un doppio promozionale dei Simply Red che creò scompiglio tra i top DJ house dell’epoca, e potrei citare ancora molti altri casi.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
È difficile dirlo: tra titoli commerciali, house e techno, credo si viaggiasse intorno alle 300/400 novità settimanali.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare dai distributori? Ti fidavi dei suggerimenti di qualche venditore?
Ogni lunedì mattina mi recavo dai grossisti di Milano per essere in prima linea all’arrivo del materiale d’importazione proveniente da Regno Unito e Stati Uniti. Inoltre, come accennavo prima, a Londra avevo un ufficio in cui una persona racimolava esclusive e promozionali sia nei vari negozi della capitale inglese (coi quali peraltro collaboravo facendo scambi), sia direttamente dalle etichette. Era importantissimo disporre di titoli in esclusiva, soprattutto per prodotti techno/progressive dovendo rifornire costantemente DJ ed appassionati che gravitavano intorno ai vari locali della zona (Insomnia, Jaiss, Imperiale etc.). Ad affiancarmi in negozio erano due collaboratori, entrambi DJ, che testavano i dischi in discoteca, ma comunque ero sempre in stretto contatto coi miei clienti che mi tenevano aggiornato sui titoli che riuscivano a garantire maggiore resa sulla pista. Poi, senza presunzione, probabilmente fu anche l’esperienza maturata come DJ e produttore a permettermi di individuare titoli forti sin dal primo ascolto, cosa particolarmente importante perché in caso di eventuali riordini dovevi essere scaltro e veloce per non perdere le quantità necessarie. Per fortuna godevo di un trattamento di riguardo grazie al buon rapporto coi distributori ai quali, come già detto, davo spesso suggerimenti per le licenze.

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Altri DJ che ai tempi comprano dischi da Dee Jay Doc: Lil’ Louis, Mario Più, Mauro Ferrucci, Miki Il Delfino, Nick Hussey, Paolo Martini, Ralf, il compianto Roby J, Stefano Bratti e Stefano Noferini


Quanto influiva il supporto di un network radiofonico o di un DJ “di grido” sul rendimento di un disco?
Moltissimo. Ho avuto la fortuna di collaborare con Italia Network per la compilazione delle classifiche e facevo anche fornitura di dischi alla radio, quindi sapevo in anteprima quali fossero i titoli “hot” che poi sarebbero stati richiesti dai clienti. I pezzi più suonati nei locali techno senza dubbio erano tra i più ambiti in assoluto ed io mi organizzavo per tempo, al fine di accontentare tutte le richieste. A volte, proprio grazie al supporto di DJ importanti, persino dischi “improbabili” potevano diventare vere e proprie hit.

È capitato di vendere tante copie di un disco proprio in virtù dell’appoggio pubblicitario di qualcuno?
Sì, è accaduto molte volte. Uno fu “Strange” di Interfront, un disco molto semplice e banale scovato tra le rimanenze di un grossista. Ne comprai circa 300 copie e grazie alla spinta dei DJ toscani le vendetti tutte in pochissimo tempo.

Quale invece quello che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più e che invece maturò vendite insoddisfacenti?
Anche in questo caso potrei stilare una lista interminabile ma su tutti metterei il remix che Roger Sanchez realizzò per “Don’t Go Breaking My Heart” di Elton John & RuPaul: a me piaceva tanto ma vendette pochissimo.

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Ultima carrellata sui volti che frequentavano il negozio di Paolo Bova a Ponsacco: Alessandro Tognetti, Andrea Giuditta, Charlie Hall degli Spiral Tribe, Daniele Gas (che gioca con la copertina di “Pium Paum (Vipula Vapula)” di Anna Falchi di cui parliamo qui), Enrico Delaiti, Franchino, Joy Kitikonti, Killer Faber, Luca Masini, Mr. Marvin, il compianto Riccardo Cioni, Simone Fabbroni, Stefano Noto, Valez e Francesco Zappalà, quest’ultimo ritratto insieme allo stesso Bova


Alcuni negozi di dischi sono stati pure la culla di produzioni discografiche e di etichette. È proprio il caso del Dee Jay Doc al cui interno germogliano, a metà anni Novanta, quattro label. Con quali motivazioni e finalità le fondasti?
Tutto nacque dalla mia voglia di creare e dalla fortuna di poter confrontarmi con tanti produttori coi quali avevo stretto rapporti di lavoro e di amicizia. Dietro le mie prime produzioni non c’erano grandi ambizioni e velleità ma col tempo ho imparato ad investire, anche economicamente, sui progetti più concreti. La visibilità che riuscivo a garantire a ciò che facevamo in studio ha influito positivamente sull’evoluzione dell’idea e contribuì ad ampliare il regime produttivo. Questo avvenne anche grazie alle collaborazioni instaurate con negozi londinesi e coi top producer britannici che prestavano molta attenzione ai prodotti che giungevano dalle mie etichette.

Le tue etichette, ossia Tuscania Movement, Noise From West Records, Nut In Bag Records e Minus 8 Records, abbracciavano un range musicale piuttosto vario, dalla house alla progressive trance. Puoi raccontare qualcosa in merito su ognuna di esse?
La Tuscania Movement è diretta discendente di un progetto che creai con Gianni Bini (intervistato qui, nda) e che giunse sul mercato proprio con quel nome nel ’93 attraverso la Informal Records di Andrea Gemolotto, Leo Mas e Fabrice. L’attività prese presto il largo grazie a successi e remix vari, ma l’impegno col negozio mi obbligò a lasciare tutto nelle mani di Gianni e Fulvio Perniola che cambiarono nome dando avvio ai Fathers Of Sound. Un paio di anni più tardi chiamai l’etichetta Tuscania Movement proprio in ricordo di quella esperienza e perché, di fatto, rispecchiava il sound house prodotto qui in Toscana. La Noise From West Records era invece di matrice techno e il nome sembrò più che appropriato per la nostra collocazione geografica. La Nut In Bag Records era destinata a progetti “ibridi” ed infine la Minus 8 Records raccoglieva brani con bpm molto bassi, destinati ai DJ che solitamente si occupavano del warm up nei locali. Dopo la chiusura del negozio creai la Beside Music per la gestione editoriale e del catalogo.

06 - T-Move Experience - Running In Real Time
“Running In Real Time” dei T-Move Experience, uno dei brani di punta del catalogo Tuscania Movement

“Running In Real Time” dei T-Move Experience, uno dei progetti che condividi con Stefano Marinari e di cui parliamo qui, resta senza dubbio uno dei capisaldi della tua discografia. Ad interpretare il brano, cover dell’omonimo dei Passport, è la fittizia Jody Moore, personaggio dietro cui si cela la voce di Giada Masoni e l’immagine di Stefania Di Stefano che da lì a breve inizia ad affiancare Mario Più come More. Perché in Italia si continuava ad alimentare il cosiddetto segmento delle “ghost singer”? Cosa ne pensi a riguardo di tale modus operandi (analizzato in questa inchiesta) e cosa rispondi a chi, a distanza di qualche decennio, accusa tanti produttori di essersi presi gioco dei propri fan?
Era una pratica ancora abituale in quegli anni. Molte voci erano di turnisti e turniste che non volevano o non potevano, per motivi contrattuali, prestare l’immagine a più etichette. Fondamentalmente nessun produttore si poneva il problema, l’importante era “macinare” produzioni. I featuring si usavano spesso per i prodotti house in cui le parti vocali arrivavano prevalentemente dall’estero e quindi non erano legate a particolari vincoli, ma in Italia ognuno era geloso delle proprie “voci” e per questa ragione circolavano stringenti contratti di esclusiva che non sempre appagavano gli artisti. Credo che gli stimoli fossero comunque talmente forti da andare oltre ogni polemica, e i quesiti legati al dietro le quinte alla fine non hanno fatto altro che accrescere ulteriormente l’interesse intorno ai brani e ai progetti coinvolti.

Tra ’96 e ’97 le tue etichette si uniscono in una partnership con la Media Records che ne cura il marketing: come nasce la sinergia col gruppo bresciano di Gianfranco Bortolotti?
Tutto iniziò durante un pranzo con Gianfranco Bortolotti e Diego Leoni, su invito di Mario Più che aveva da poco iniziato a collaborare con la Media Records. Forte dei numeri che stavo facendo con le mie etichette (si parla di 10.000, 15.000 e 20.000 copie a titolo), non fu difficile arrivare ad un accordo. L’affare era vantaggioso per entrambe le parti, considerando che da quel momento la Media Records avrebbe incassato anche i diritti editoriali del mio catalogo. Il punto di forza di quella partnership fu sicuramente l’intesa stretta dal primo contatto e la condivisione di progetti per il futuro che ai tempi includeva l’espansione al mondo digitale, settore in cui la Media Records era già preparata e particolarmente avanti rispetto ad altri competitor.

07 - busta 1998
Una busta del Dee Jay Doc risalente al 1998, quando il negozio si trasferisce da Ponsacco alla vicina Pontedera

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare le vendite e il fatturato?
I primi problemi sorsero nel 1998, dopo la chiusura amministrativa di vari locali techno in Toscana. I centocinquanta/duecento clienti fissi divennero improvvisamente cinquanta/sessanta. Purtroppo la mia struttura era tarata per un certo volume di affari visto che contava sul negozio a Ponsacco (trasferito proprio nel 1998 a Pontedera, in Via Montanara 13/15), l’ufficio a Londra, quattro dipendenti, lo studio di registrazione, affitti ed altro. Il fatturato calò del 60% circa ma purtroppo le spese rimasero invariate. Dopo un paio di anni di sofferenza chiusi i battenti.

Fu una decisione sofferta porre fine all’avventura del Dee Jay Doc?
Non immagini quanto! Misi un cartello sulla saracinesca con su scritto “chiuso per ferie” ma sapendo che in realtà non avrei più riaperto. Per un anno mi dedicai ad altri lavori trasferendomi all’estero ed interrompendo ogni contatto che avevo col mondo della musica per evitare il continuo sentimento di rammarico. Tutto quello che creai in circa dieci anni si era disintegrato in un solo colpo.

Ci fu qualcosa in particolare ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Per quanto riguarda il caso specifico del mio negozio, senza dubbio ad invertire la tendenza fu lo stop delle più importanti discoteche toscane che, di conseguenza, ridusse l’intero indotto degli appassionati. Ho solo sfiorato l’avvento del digitale che, dopo il 2000, ha inferto il colpo di grazia al comparto della vendita dei dischi in vinile.

Riusciresti ad indicare, in termini economici, l’annata più fortunata e quella meno?
Il 1993 sicuramente fu l’anno più redditizio. Il peggiore invece il 1998 visto che, come dicevo prima, segnò un crollo verticale del fatturato.

Pensi che in futuro ci sarà ancora spazio per i negozi “fisici” di dischi?
Certo, è possibile, ma chiaramente con criteri assai diversi rispetto al passato. Importantissimi risulteranno il grado di competenza e l’esperienza di chi potrà dedicarsi ad uno dei mestieri più belli di sempre. Il cliente percepisce tutto questo e viene conquistato dal suo “consigliere”.

Cosa c’è adesso al posto del Dee Jay Doc, al 49 di via Nazario Saurio a Ponsacco?
Lo studio di un commercialista.

Quali sono le prime cose che ti vengono in mente ripensando al tuo negozio di dischi?
Le notti insonni durante l’attività e la stima che hanno riposto in me i clienti, senza dimenticare i pomeriggi passati insieme a centinaia di artisti: ricordi indelebili della mia vita.

(Giosuè Impellizzeri)

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Giovanni Natale di Expanded, con Sueño Latino entrammo nel club dei migliori

Giovanni Natale

Inizialmente Expanded Music pubblica dischi new wave, post punk ed industrial provenienti dall’estero e firmati da band come Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Clock DVA e Modern English. Nel corso degli anni però l’attrazione per la dance, sbocciata nel pieno dell’ondata italo disco, diventa sempre più forte ed infatti è tra le prime, in Italia, a scommettere sulla musica house, precisamente dal 1987 quando nasce la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, etichetta con una vocazione per il sound ballabile inscritta chiaramente nel DNA. Nel 1989 proprio su DFC arriva “Sueño Latino” del progetto omonimo, pietra angolare di quel fenomeno che cresce rigoglioso nei primi anni Novanta sotto forma di dream house, alternativa clubbistica alla piano house che sfocia con risultati strepitosi nel mainstream internazionale. In breve tempo la DFC si rivela un inesauribile serbatoio di hit: da Atahualpa a Ramirez, da Glam a Moratto passando per Paraje e tutta la parentesi italodance di Afrika Bambaataa. L’attività di Expanded Music è tentacolare e multiforme e si materializza attraverso svariate sottoetichette (Dance And Waves, B4, Plastika, Audiodrome, PRG, Steel Wheel, Mantra Vibes, giusto per citare le più note) da cui emerge una miriade di nomi che scandiscono con incisività la dance nostrana tra cui Einstein Doctor DJ, Mato Grosso, Ava & Stone, Steam System, Virtualmismo, V.F.R. e Mo-Do. In grande rilievo pure le licenze prese oltralpe, da KLF a Sunbeam, da Transformer 2 a Capricorn, da Technotronic a 2 Fabiola, da Junk Project a Trancesetters, da ASYS a Marco Bailey passando per produzioni più settoriali come Encephaloïd Disturbance, Idjut Boys & Laj, Aurora Borealis, Unit Moebius, Cortex Thrill, Yves Deruyter e vari episodi della saga Code. Tra tradizione e sfrontatezza, la casa discografica emiliana conquista dunque un numero sempre maggiore di consensi facendo registrare un balzo prestazionale non indifferente. Al comando c’è Giovanni Natale che in questa intervista ripercorre la propria carriera pluridecennale nel mondo della musica.

Ci fu qualcuno o qualcosa ad avvicinarti alla musica?
Potrebbe sembrare strano ma da ragazzo non nutrivo una passione particolare nei confronti della musica: non compravo dischi, non andavo ai concerti e non avevo nemmeno manifesti di rockstar appesi nella mia cameretta.

01 - furgoncino Harpo's Bazaar (fonte bibliotecasalaborsa.it
Il furgoncino con cui gli Harpo’s Bazaar girano il capoluogo emiliano durante i giorni del Convegno nazionale contro la repressione nel ’77 (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Nel ’77 però, mentre frequenti il DAMS a Bologna, nasce la cooperativa culturale Harpo’s Bazaar di cui sei tra i fondatori e che opera anche in ambito musicale. Cosa ricordi di quel periodo?
Il progetto Harpo’s Bazaar in realtà inizia prima di diventare una cooperativa e, a tal proposito, credo sia necessario fare qualche puntualizzazione visto che in Rete circolano tante narrazioni non corrispondenti al vero, Wikipedia inclusa. Eravamo un gruppo di studenti/amici di Gianni Celati, docente d’inglese al DAMS negli ultimi anni Settanta. Con un furgone sgangherato, battezzato per l’appunto Harpo’s Bazaar, girammo per Bologna con una cinepresa super 8 durante i tre giorni del Convegno nazionale contro la repressione, a settembre del ’77. Realizzammo le riprese che trent’anni dopo sono diventate il video “Cineamatori Militanti” pubblicato qui. I componenti erano solo quelli riportati nei titoli di coda dello stesso video, Aldo Castelpietra, Gianni Celati, Leonardo Giuliano ed io. L’idea di trasformare l’esperienza “movimentista” in una cooperativa per avere un lavoro creativo fu di Leonardo Giuliano. Tra tutti noi era quello che volava più alto. Da sognatore ed imprenditore utopista, ci convinse a gettare il cuore oltre l’ostacolo ed iniziare. Fu sempre Leonardo, tra i fondatori della Fonoprint, a presentare al gruppo Harpo’s Bazaar Gianni Gitti e a seguire Cialdo Capelli, Antonella Leporati, Oderso Rubini ed Anna Persiani. A quel punto tutti insieme fondammo la cooperativa. In seguito entrarono a far parte anche Nino Iorfino e Jean-Luc Dorn. Col contributo attivo di tutte queste persone appena menzionate fu possibile realizzare l’evento Bologna Rock e dar vita all’Italian Records. Ps: Gianni Gitti è stata una persona speciale. È venuto a mancare da alcuni anni e meriterebbe davvero un racconto a parte. Fu il vero scopritore degli Skiantos, ne registrò il primo album intitolato “Inascoltable” e lo prestò ad Harpo’s Bazaar. La stessa cosa avvenne col primo album dei Confusional Quartet uscito nel 1980.

Proprio nel 1980 la Harpo’s Music, etichetta discografica di Harpo’s Bazaar, si trasforma in Italian Records così come spiegato in questa monografia, e quello stesso anno nasce Expanded Music: in che modo le due case discografiche erano collegate?
Nel 1980 Harpo’s Bazaar aveva già perso per strada alcuni dei soci iniziali e non aveva la forza economica per continuare. Avevamo bisogno di un socio finanziatore e, per questa operazione, la cooperativa non era lo strumento migliore. Harpo’s Bazaar quindi fu messa in liquidazione e fondammo l’Expanded Music Srl. Da quel momento l’Italian Records è diventata una delle etichette dell’Expanded Music. Ad entrare nelle vesti di socio finanziatore fu Federico Venturoli del Disco D’Oro di Bologna. Il nome Expanded Music nacque come omaggio al libro Expanded Cinema di Gene Youngblood, pubblicato nel 1970 e considerato la bibbia del cinema sperimentale. Al DAMS mi ero laureato proprio con una tesi sul cinema.

02 - le prime pubblicazioni Expanded
Le copertine di alcune fra le prime pubblicazioni dell’Expanded Music risalenti al 1981: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus e Clock DVA

Le prime pubblicazioni dell’Expanded Music fugano ogni dubbio sul tipo di inclinazione stilistica a cui l’etichetta è legata: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Modern English, Thomas Leer & Robert Rental, Lounge Lizards, Flesh Eaters giusto per citarne alcuni. Sul piano economico, quanto reggevano quelle scelte artistiche in un mercato discografico come quello italiano ai tempi dominato dal cantautorato?
Con le sole produzioni dell’Italian Records l’attività non era sostenibile, serviva allargare il catalogo. Non essendo direttamente coinvolto nella direzione artistica dell’Italian Records, campo esclusivo di Oderso Rubini, mi ritagliai un mio spazio. Conoscevo abbastanza bene l’inglese e dopo il DAMS mi iscrissi a giurisprudenza studiando diritto privato e diritto d’autore. Con questi strumenti mi avventurai in giro per il mondo ad acquisire licenze di dischi da pubblicare in Italia. Ai tempi prendere un disco in licenza costava molto meno che produrlo. Distribuendo quei prodotti riuscivamo a finanziare le produzioni dell’Italian Records.

Dal 1983 in poi, analogamente a quanto avviene per Italian Records, anche l’Expanded Music si apre progressivamente a generi musicali ballabili, italo disco in primis. È vero che ai tempi la dance era vista di traverso nel nostro Paese, specialmente dalla stampa e dalle radio?
L’italo disco rappresenta uno dei periodi d’oro della produzione indipendente italiana. Parafrasando “Destra – Sinistra” di Giorgio Gaber, se fare il bagno nella vasca è di Destra e far la doccia invece è di Sinistra, per gran parte della stampa specializzata italiana l’italo disco era di Destra e non degna di attenzione come la new wave che invece era di Sinistra. Nel 1983 i Gaznevada pubblicarono “I.C. Love Affair” che, nella versione remixata da Claudio Ridolfi, faceva l’occhiolino all’italo disco. Per la prima volta un brano dell’Italian Records finiva in classifica e veniva pubblicato anche all’estero. Attenzione però: “I.C. Love Affair” era ben lontano dall’essere un successo internazionale dell’italo disco ma fece scorgere comunque all’Expanded Music una luce in fondo al tunnel. Ovviamente non tutti furono d’accordo con quella svolta dance e la complicità tra i soci iniziò a vacillare. Le produzioni che seguirono furono un tentativo interessante di coniugare la new wave con la dance ma, come ho imparato in seguito, la musica dance ha delle regole e se non le rispetti i dischi non possono funzionare. Così il successo di “I.C. Love Affair” non si ripeté e l’Expanded Music precipitò in una nuova crisi economica. Il feeling tra i soci si consumò ulteriormente fino alla definitiva separazione. Iniziò quindi una nuova storia per l’Expanded Music e se oggi il repertorio dell’Italian Records è ancora vivo (si vedano le recenti ristampe degli album dei Gaznevada e dei Confusional Quartet) è anche grazie a quella scelta.

03 - Natale e Gaznevada
Una recente foto che immortala Natale e due componenti dei Gaznevada, Marco Bongiovanni (a sinistra) e Ciro Pagano (a destra), scattata in occasione della ristampa dell’album “Sick Soundtrack” avvenuta nel 2020

A partire dal 1987 Expanded Music, attraverso la DFC (prima) e Dance And Waves (poi), inizia a sondare le potenzialità della house music come dettagliatamente illustrato in questo reportage. L’affermazione mondiale arriva due anni dopo con “Sueño Latino” del progetto omonimo, successivamente impreziosita dai remix di Derrick May e riconosciuta pietra miliare di un momento probabilmente irripetibile per creatività e dinamismo. Cosa voleva dire investire denaro nella house music in Italia in quel periodo?
Alla fine degli anni Ottanta l’italo disco era ormai in declino e, con la diffusione del campionatore, nasceva e proliferava la musica house. Nella filosofia della DFC c’era molto dell’esperienza maturata con le pubblicazioni internazionali dell’Expanded Music e della stessa Italian Records: non cercare il commerciale ad ogni costo ed avere una grafica riconoscibile. A tal proposito vorrei ricordare che Anna Persiani realizzò per l’Italian Records alcune delle più belle copertine pubblicate in Italia. In quella fase Ricky Persi fu il mio principale collaboratore. Oltre a conoscere bene la musica dance, aveva la capacità di scovare e far lavorare insieme persone con qualità complementari. La DFC aveva un obiettivo preciso, far ballare. Non importava se un disco fosse commerciale o meno, i DJ dovevano riconoscere dalla copertina che fosse un DFC e comprarlo a scatola chiusa con la certezza di usarlo in pista. Il successo arrivò nel 1989 con “Sueño Latino” per cui va riconosciuto il merito principale a Massimino Lippoli che ebbe l’idea ed ovviamente a Manuel Göttsching perché senza il sample tratto dal suo “E2-E4” non ci sarebbe mai stato “Sueño Latino”.

04 - Natale e Manuel Göttsching
Giovanni Natale e Manuel Göttsching, autore di “Ruhige Nervosität” (incluso nell’album “E2-E4” del 1984) da cui cinque anni dopo verrà tratto il sample utilizzato in “Sueño Latino” del progetto omonimo

Dal 1990 in poi la strada sembra in discesa per la musica da discoteca, sino a poco tempo prima genericamente detta “disco-dance” visto che ai tempi le numerosissime categorizzazioni a cui oggi siamo abituati non esistono ancora. Che ricordi conservi dei primi anni Novanta quando Expanded Music diventa una delle protagoniste di quella fase?
Proprio nel 1990 raggiungemmo il primo posto in classifica con “Ultimo Imperio” degli Atahualpa, nel 1991 arrivò “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, il 1992 e il 1993 furono gli anni di Ramirez con pezzi come “Orgasmico”, “Terapia” ed “El Gallinero”, per il 1994 mi limito a citare “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (al numero uno delle classifiche europee) ma nello stesso anno dei cento singoli più venduti in Italia quattordici erano dell’Expanded Music. Successivamente abbiamo contato sulla fortunata serie di Floorfilla e “Camels” di Santos.

Parimenti ai grossi gruppi discografici attivi allora, anche Expanded Music conta su un ricco roster di etichette per declinare generi disparati. Dalle già citate DFC e Dance And Waves (dalla quale decollano i Mato Grosso partiti come Neverland come spiegato qui) alla B4, da Audiodrome a Plastika passando per PRG (inaugurata con “Mismoplastico” di Virtualmismo, di cui parliamo qui), Steel Wheel, Mantra Vibes ed altre ancora tra cui le poco prolifiche Creative Label e Full Motion Records. Utilizzare un numero così elevato di marchi poteva essere in qualche modo fuorviante?
Creare tante etichette fu un errore dovuto all’indecisione della strada da prendere. Ogni DJ/produttore pensava di potersi distinguere solo se avesse avuto un’etichetta sulla quale non pubblicassero altri ma, come imparammo presto, non è l’etichetta a fare il DJ. Al contrario invece, sono i buoni dischi a decretare il successo di una label e di un DJ.

Quali sono i cinque best seller di Expanded Music?
In ordine di uscita e non per valori effettivi delle vendite, “Sueño Latino” di Sueño Latino, “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, “El Gallinero” di Ramirez, “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do e “Camels” di Santos.

Cosa ti viene in mente ripensando ad ognuno di essi?
Prima hai già detto tu cosa rappresenta oggi “Sueño Latino”, la sua storia è tutta un aneddoto tanto che nel 2015 l’abbiamo pubblicata sul fronte della copertina della ristampa in occasione del venticinquesimo anniversario.
Per “Just Get Up And Dance”, la cosa più difficile fu convincere Bambaataa, leader della Zulu Nation, a cantare un testo non suo. Comunque avemmo ragione e il testo, scritto da David Sion, si dimostrò perfetto.
A proposito di “El Gallinero”, c’è un video su YouTube che conta oltre nove milioni di visualizzazioni ed intitolato “Gallinazo y la Bolsa de Coca” in cui i protagonisti sono Paco Stanley e Mario Bezares, ai tempi gli uomini di spettacolo più famosi in Messico, che per l’appunto ballano il pezzo di Ramirez. Stanley fu ucciso nel 1999 a colpi di mitra all’uscita di un ristorante, si dice per mano dei narcos, e proprio questo video apparso su YouTube molti anni dopo fece riaprire le indagini sull’omicidio. Mentre in televisione ballava “El Gallinero”, a Bezares cadde dalla tasca una bustina bianca, forse “la bolsa de coca”?
Su “Eins, Zwei, Polizei” ricordo che Fabio Frittelli alias Mo-Do, doveva registrare un’altra canzone e in studio, invece di dire al microfono il solito “uno, due, tre, prova” se ne uscì con “eins, zwei, polizei”. Gli chiesero cosa fosse e a quel punto lui recitò di getto la filastrocca che gli cantava la nonna quando era bambino.
Infine Santos con la sua “Camels”, inizialmente incisa sul retro di “The Riff”. Di quel disco ne vendemmo solo una decina di copie. Tempo dopo però, ad Ibiza, Judge Jules cominciò a suonare “Camels” e in poche settimane piovvero richieste da ogni parte del mondo. Dopo lunghe trattative (battemmo il record per l’anticipo più alto pagato per un singolo nel Regno Unito) ci incontrammo per stipulare il contratto a Bologna ma proprio all’ultimo momento Santos andò in paranoia e non voleva più firmare. Sembrava l’episodio “Il Matrimonio Temuto” di “Appartamento Al Plaza” con la sposa chiusa in bagno il giorno del matrimonio…

05 - Collage Expanded Music
Un collage di copertine di fortunate produzioni marchiate Expanded Music uscite tra 1989 e 1994

Quali invece i brani in cui vedesti del potenziale ma che, per qualche motivo, non riuscirono a sortire i risultati sperati?
“Bye Baby”, “All Aboard” e “Yeh Yoh” di Ava & Stone, tutti prodotti da Graziano ‘Tano’ Pegoraro, un amico scomparso prematuramente che mi manca ancora tantissimo (per approfondire si rimanda a questo articolo, nda). Andarono tutti in classifica in Italia però mi aspettavo di più dall’estero.

Negli anni Novanta gli esiti di tanti artisti dance erano direttamente proporzionali al supporto offerto dai network radiofonici e, in parte, dalle tv in occasione di programmi come Festivalbar, Un Disco Per L’Estate o Mio Capitano. Come si muoveva Expanded Music in tal senso? Quanto “pesava” sul rendimento di una produzione il passaggio nell’FM o sul piccolo schermo?
In verità ho sempre creduto più alla pista che alla radio o televisione. Non che i media non fossero importanti, sia chiaro, ma servivano quando il disco era già un successo. La musica dance è così, la definisco “democratica” perché se un pezzo non funziona in discoteca non c’è promozione che tenga e non potrà mai avere successo. Al contrario, se è valido in pista, anche senza il supporto della radio potrà essere scovato dalle migliaia di DJ sempre a caccia di novità. Se è veramente forte emergerà da solo, seppur firmato dall’artista più sconosciuto al mondo e di esempi se ne potrebbero fare tanti, da “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda) a “Satisfaction” di Benny Benassi al già citato “Camels” di Santos.

06 - Albertino e DFC
Albertino a Radio DeeJay in uno scatto risalente ai primi mesi del 1995. Sul giradischi c’è lo slipmat della DFC

«Se Albertino non lo passa, anche un gruppo che ha venduto cinque milioni di copie in sei mesi come i Rednex rischia di passare inosservato in Italia. Motivo? Altri dischi devono avere un posto assicurato nella DeeJay Parade» scriveva il compianto Salvatore Cusato sulla rivista Disk Jockey New Trend a giugno 1995. Polemiche a parte su ipotetici favoritismi, ritieni che il mercato dance domestico nostrano sia stato eccessivamente influenzato, suo malgrado, dal noto speaker di Radio DeeJay?
Senza togliere nulla ad Albertino, ci sono tanti dischi che non ha trasmesso ma che sono diventati ugualmente delle hit. L’influenza di Radio DeeJay finiva in Italia, da Lugano in poi i dischi vendevano solo se piacevano e non perché in Italia erano suonati da una radio in particolare. Nei primi anni Novanta Albertino ha sicuramente avuto un effetto positivo sulle produzioni italiane, selezionava pezzi interessanti ed era uno stimolo per chi lavorava in studio. Io non ho mai fatto parte della corte dei questuanti, le mie visite a Radio DeeJay si contano sulle dita di una mano, eppure non era raro per l’Expanded Music avere più titoli contemporaneamente nella famosa Pagellina. Dalla seconda metà degli anni Novanta in poi il “tocco vincente” della dance italiana andò perdendosi e, se le scelte di Albertino non sono più state le migliori, era dovuto anche al fatto che la qualità media delle produzioni nostrane diminuì, ad iniziare da quelle della stessa Expanded Music.

Gli anni Ottanta e i Novanta furono economicamente redditizi per la discografia dance ma oggi ad essere rimpianta è anche una ricchezza di tipo creativo, quella di cui si lamenta spesso la cronica assenza. C’era qualcuno, tra i competitor italiani, che a tuo avviso lanciò modelli ispirativi?
In tutta franchezza non ho mai cercato ispirazione nelle produzioni dei miei colleghi, gli stimoli venivano piuttosto da chi collaborava con noi come il DFC Team ad esempio, che operava tra Udine e Trieste, una posizione piuttosto defilata rispetto a Milano, l’Emilia e Roma. La creatività si nutriva delle diverse professionalità ma principalmente del divertimento che si provava nel fare insieme le cose. Oltre al già menzionato Ricky Persi, è impossibile pensare alla DFC senza ricordare Andrea Gemolotto (intervistato qui, nda), la tecnica straordinaria di Davide Rizzatti, le capacità musicali di Elvio Moratto (intervistato qui e qui, nda) e Claudio Collino e il fiuto di Ricci DJ. Non posso dimenticare neanche Claudio Zennaro alias Einstein Doctor DJ (intervistato qui, nda) che mi ha dato, tra i vari successi, anche “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do, ed altrettanto importanti sono stati Sergio Portaluri, Fulvio Zafret e David Sion del team De Point (di cui parliamo qui, nda) con “Just Get Up And Dance” e tutti i pezzi di Afrika Bambaataa di quegli anni. Infine, come non citare l’intelligenza di Cerla alias Floorfilla o la “follia” di Santos? Per mestiere non ho fatto altro che tirare fuori il meglio da ognuno di loro e credo sia proprio questo il lavoro di un discografico e non suggerire di copiare i competitor.

07 - Natale, Frittelli, Zennaro, consegna disco d'oro in Germania
Giovanni Natale, Claudio Zennaro e il compianto Fabio Frittelli ricevono il disco d’oro in Germania per le vendite di “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (1994)

In barba alle aspettative, il nuovo millennio fa segnare un cambio di marcia negativo per il comparto dance tricolore. «La scarsa cultura imprenditoriale e la fuga centrifuga di molti produttori che pensavano di poter raggiungere gli stessi risultati avviando label autonome hanno impedito il consolidamento del settore» dichiarasti nell’intervista finita in Decadance Extra qualche anno fa, aggiungendo che «mentre i produttori di tutto il mondo si ispiravano ed imparavano dalle produzioni italiane, i nostri artisti implodevano creativamente e sembravano vergognarsi dei propri successi inseguendo sperimentalismi spesso fini a se stessi ed alimentando un mercato che non ha lasciato quasi nessun segno». A conti fatti, la chiusura di quel ciclo oggi ricordato con infinita malinconia e rimpianti dai protagonisti fu innescato dagli stessi italiani, incapaci di misurarsi con un mercato globalizzato?
Confermo in toto quanto mi hai ricordato in queste righe ed aggiungerei che a penalizzarci sia stato anche il ritardo strutturale dell’Italia per quanto riguarda sia la cultura imprenditoriale che le infrastrutture digitali. Questo spiega il fatto che, nonostante le etichette italiane siano state tra le migliori al mondo per creatività, professionalità e capacità economiche, nessuna abbia saputo cavalcare il mercato digitale come hanno fatto, ad esempio, Ultra, Spinnin’ o Kontor.

In un editoriale apparso sulla rivista Jocks Mag a marzo 2002 puntasti il dito contro la SIAE, non ricorrendo a giri di parole per dichiarare quanto gli editori italiani, te compreso, ci abbiano rimesso in proporzione ai propri successi. «Il totale riportato semestralmente è solo il 50% di quanto la SIAE ha effettivamente incassato dal nostro repertorio. A differenza di ogni altro genere musicale, la SIAE non ci paga tutto quello che ha incassato per l’utilizzo delle nostre musiche nei locali da ballo, ma solo la metà! Il restante 50% viene distribuito ad altre classi di opere che nulla, o quasi, hanno a che vedere con queste esecuzioni. Non correte nei loro uffici a chiedere di più, non vi daranno retta, e non sperate neanche in una trattativa privata. Si parla di decine di miliardi di lire che per tanti anni hanno rimpinguato le tasche di altre persone che ovviamente ora non hanno alcun interesse a rinunciarci». A distanza di quasi un ventennio, è cambiato qualcosa?
Confermo che questo fosse quanto accadeva, con un’aggravante che mi coinvolge direttamente. Nel 2002 mi lamentavo del comportamento e delle regole della SIAE, ma tra il 2003 e il 2010 sono stato un membro del CdA della stessa SIAE e, in tanti anni, non sono stato capace di contribuire a migliorare la situazione. È stata un’esperienza iniziata con molto orgoglio ed ottimismo ma conclusasi con una grande delusione. Sicuramente la responsabilità è da cercarsi nei limiti della mia azione ma non ha aiutato l’atteggiamento di alcuni colleghi che, più pragmaticamente, hanno scelto di adeguarsi alle interferenze politiche. Alla fine ho preferito dimettermi da ogni incarico e dalle associazioni di categoria. Ognuno vive la coerenza come vuole e non è detto che il mio sia il modo più giusto. La situazione oggi è peggiorata e non mi riferisco solo alla SIAE. Con la smaterializzazione del mercato musicale, i diritti si sono vaporizzati e per calcolarli e gestirli occorre la matematica infinitesimale. I vecchi modelli di business sono implosi, ormai i nuovi padroni del mercato sono Google, Amazon e Spotify che hanno deciso come distribuire la musica, come e quanto retribuirla. C’è una distorsione del mercato nota come “value gap”, inaccettabile. Puoi rifiutarti di lavorare con queste piattaforme ma in quel caso smetti di esistere. Che ruolo quindi devono avere oggi le vecchie società d’autore come la SIAE? Come recuperare la differenza tra il valore economico dell’utilizzo online di un brano musicale e l’incasso riconosciuto ad editori e produttori? Non sono problemi solo italiani ma, come dicevo, ormai sono fuori dalla vita associativa di categoria, non ho proposte e sono prossimo alla pensione. Sicuramente c’è chi ne sa più di me.

In questa intervista a cura di Andrea De Sotgiu pubblicata il 31 gennaio 2019, sostieni che uno dei maggiori problemi con cui ti sei ritrovato a fronteggiare sia il campionamento illegale. «È una battaglia continua trovare questi brani su piattaforme come iTunes o Spotify e toglierli dal mercato. Se la tecnologia ci consentirà di essere remunerati correttamente, cosa che oggi non avviene, per il reale valore che i nostri repertori hanno apportato al mercato digitale, allora la rivoluzione tecnologica premierà tutti». Credi che il campionamento selvaggio sia un fenomeno in qualche modo arginabile? Si pensi pure alle migliaia di brani riversati in Rete da quelle etichette dedite al re-edit che forse fanno anche peggio visto che utilizzano, senza alcuna autorizzazione, brani altrui opportunamente re intitolati, rendendo ancora più difficile l’identificazione.
Il problema non è solo scovarli ma difendersi dal danno che arrecano al repertorio. Faccio due esempi: di recente ho concluso un accordo con l’etichetta Anjunabeats per l’uso di un sample tratto da “Hazme Soñar” di Morenas in “Moment In Time”, una nuova produzione di Icarus e Jamie N Commons, una trattativa soddisfacente che valorizza il pezzo originale e il nostro catalogo. Al contrario due anni fa negoziavo con una multinazionale francese che avrebbe voluto usare una parte di “Funky Heroes” di Afrika Bambaataa in un nuovo ed importante progetto discografico. Avevamo stabilito ottime condizioni ma quando hanno visto quante volte lo stesso sample fosse presente illegalmente online hanno rinunciato. L’abuso dei campionamenti impoverisce il valore dei repertori. Si può continuare ad inseguire i file pirata ma non basta eliminarli. Amazon, Spotify ed altre piattaforme dovrebbero essere responsabili per i danni che subiscono musicisti e case discografiche. Sembra una battaglia persa ma non lo è, su questo fronte sono molto attivo.

Cosa vuol dire occuparsi di discografia nel 2021? Ci sono ancora i margini di crescita in un settore ormai irriconoscibile se paragonato a quello di qualche decennio fa? Servono ancora intuito, vocazione imprenditoriale e background musicale?
Intuito, vocazione imprenditoriale e background occorrono ancora e più di prima. Lo dimostrano i traguardi raggiunti dalle etichette dance straniere che ho menzionato sopra. Credo pure che ci siano grandi margini di crescita ma è un mondo completamente diverso rispetto a quello degli anni Ottanta e Novanta. Al di là delle critiche, è pur vero che i giganti del web hanno apportato una rivoluzione che apre ampi spazi al consumo della musica ma è necessario riequilibrare il potere tra i vari operatori.

08 - Uffici-studi dell'Expanded Music
Uno scorcio degli attuali uffici e studi dell’Expanded Music

Expanded Music esiste da più di quarant’anni: qual è stato il momento più emozionante e gratificante che hai vissuto?
Quando “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do raggiunse il primo posto della classifica in Germania ricevetti un fax (che conservo ancora!) da Bernhard Mikulski, fondatore della ZYX, che recitava più o meno così: «dopo tanti anni e successi della ZYX, questa è la prima volta che conquistiamo il vertice, è qualcosa che abbiamo fatto insieme».

Quale invece quello più difficile?
La separazione dai miei soci iniziali: ero senza soldi e solo con debiti, un futuro incerto da affrontare e tutto sotto la mia responsabilità. Ma alla fine è andata bene.

Ad oggi quante pubblicazioni conta l’intero catalogo Expanded Music?
Non so quantificare in titoli ma in numero di master sono circa quattromila.

C’è un pezzo che ti sarebbe piaciuto annoverare nel repertorio della Expanded Music?
“Satisfaction” di Benny Benassi. Un pezzo che è pura creatività senza nessuna concessione al commerciale ma che è riuscito ugualmente a convincere tutti i DJ del mondo.

Qual è invece il brano che ha sancito lo stato di grazia della tua etichetta?
“Sueño Latino”. Non è stato il successo commerciale più grosso ma il primo disco che ci ha dato credibilità internazionale e fatto entrare nel club dei migliori.

Se avessi la possibilità di cavalcare il tempo a ritroso, quali errori non commetteresti più?
Di errori ce ne sono stati ma ormai è inutile rivangarli.

Hai mai sbagliato la valutazione di un pezzo giunto sulla tua scrivania?
Direi di no, non ho mai avuto la sfortuna di rifiutare un brano che poi è diventato un successo, a parte “Vamos A La Playa” dei Righeira. Quando ascoltai il provino di Johnson (Stefano Righi, nda) lo chiamai subito per dirgli che era una bomba ma qualcun’altro decise che fosse troppo commerciale per l’Italian Records. Comunque non saremmo stati capaci di realizzare l’impeccabile produzione dei fratelli La Bionda e per Johnson, quindi, è stato meglio così.

Per concludere, quali sono le tre parole che sintetizzano al meglio la tua avventura pluridecennale nella musica?
Incoscienza, fortuna e professionalità. “Incoscienza” perché senza quella avrei cercato un lavoro da dipendente, “fortuna” perché serve sempre, “professionalità” perché un colpo fortunato capita a tutti ma quando arriva devi avere gli strumenti per coglierlo.

(Giosuè Impellizzeri)

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Various – Ciao Italia, Generazioni Underground (Rebirth)

Ciao Italia, Generazioni Underground

Da qualche tempo a questa parte sul mercato sono piombate varie raccolte riepilogative legate all’italo house, un segmento stilistico nato in Italia a fine anni Ottanta (dopo un biennio di “training”, come raccontiamo qui) in risposta al fermento creativo statunitense e britannico. Una visione autoctona di quello che ai tempi è la house music, contraddistinta da peculiari tratti identificativi oggi imitati ma allora motivo di biasimo e talvolta denigrazione. Grazie a compilation e ristampe quindi, giovani ed adulti ora si ritrovano in un sol colpo a disporre di vaste ed accurate playlist di gemme dimenticate, talvolta persino dalle stesse case discografiche che le commercializzarono. Già, perché non bisogna omettere che davvero tanti dei titoli oggi ambiti, ai tempi della pubblicazione furono invece oggetto di scarsa considerazione e risultati deludenti di vendita che non oltrepassarono qualche migliaio di copie o, in taluni casi, qualche centinaio appena. Ciò chiarisce bene la ragione per cui alcuni mix abbiano visto salire vertiginosamente le quotazioni sul mercato dell’usato. Brutti anatroccoli trasformati in bellissimi cigni insomma, volendo fare un parallelo con la fiaba di Andersen. Analogamente un movimento pressoché nazionale, fatta eccezione per alcuni successi intercontinentali, è inaspettatamente mutato in oggetto di ricerca ed interesse globale. Di conseguenza si è sviluppata una cura diligente ed attenta per quella che fu sprezzantemente definita “spaghetti house”, specie da influenti testate giornalistiche d’oltremanica. Basti pensare ad “Italo House” di Joey Negro (2014) e “Welcome To Paradise” di Young Marco e Christiaan Macdonald (2017), ma anche a pubblicazioni nostrane come “Paradise House (Deep Ambient Dream Paradise Garage House From 90’s) (2018) o “Echoes Of House (Italo House Foundamentals Tracks)” (2019) per avere un’idea su cosa sia diventato quell’enorme calderone musicale a cui adesso si aggiunge “Ciao Italia, Generazioni Underground”.

Ideatore e curatore del progetto atteso su Rebirth è Daniele ‘Shield’ Contrini il quale, contattato per l’occasione, afferma che con molta probabilità, a far scatenare l’interesse per quello che era un fenomeno morto e sepolto, sia stato qualche DJ importante a livello internazionale che ha iniziato a suonare nei propri set alcuni brani dei tempi. «Da qualche tempo a questa parte una certa scuola di DJ, perlopiù inglesi, tedeschi ed olandesi, ha cominciato a proporre generi quasi dimenticati e a fare della ricerca nel passato il proprio cavallo di battaglia» spiega a tal proposito. «Prima è toccato all’italo disco e poi all’italo house o dream house che dir si voglia, avendo la conferma che si tratta di generi capaci di far ballare ancora oggi e che continuano ad essere fonti d’ispirazione. Ad eccezione di qualche piccolo club in cui la musica fa ancora cultura però, in Italia, adesso, se suoni qualcosa che ha più di tre anni sei automaticamente bollato come un DJ di vecchio stampo, incapace di stare al passo coi tempi. Lo stesso approccio all’estero invece è considerato cool e di tendenza. Mi auguro che l’Italia torni presto a creare, a produrre qualcosa di “proprio” e ad avere una personalità per poter ambire a fare scuola, e smetta di inseguire mode e tendenze che arrivano dall’estero».

Daniele 'Shield' Contrini
Un primo piano di Daniele ‘Shield’ Contrini, a capo di Rebirth ed ideatore/curatore del progetto “Ciao Italia, Generazioni Underground”

Il concept alla base di “Ciao Italia, Generazioni Underground” mira dunque a fotografare il momento in cui la scena house del nostro Paese, ma non quella che ha come obiettivo le classifiche di vendita, si scrolla di dosso definitivamente ogni retaggio degli anni Ottanta e si tuffa in qualcosa di sorprendentemente unico dal punto di vista creativo. «È un progetto a cui lavoro da più di un anno ma l’idea iniziale risale a metà 2019» prosegue Contrini. «Era il periodo in cui lanciavo Tempo Dischi, etichetta nata per riscoprire e ristampare classici e gemme rare della scena italo disco, e frugare in vecchi cataloghi mi ha fatto venire l’idea di prendere in considerazione quello stile musicale, spesso identificato con termini tipo dream house, italo house, piano house o, più semplicemente, underground, che ha lasciato il segno e che ancora oggi continua ad essere vivo tra DJ, clubber e cultori di nuove generazioni. Dedicare una raccolta all’Italia inoltre avrebbe fatto sicuramente bene a Rebirth: se da un lato le collaborazioni con artisti affermati e nuovi talenti provenienti da ogni parte del mondo ci assicuravano una prestigiosa internazionalità dall’altro ci avevano, in un certo senso, un po’ allontanato dalla nostra terra e dalle nostre origini. Finalizzare “Ciao Italia, Generazioni Underground” però non è stato facile: al lungo e meticoloso lavoro di ricerca musicale si è aggiunto quello di tipo burocratico, volto a scoprire i proprietari dei diritti dei brani selezionati, alcuni dei quali hanno declinato la richiesta per l’uso degli stessi, seppur in forma non esclusiva. In certi casi purtroppo non sono nemmeno riuscito a risalire agli editori e ciò, lo ammetto, è stato parecchio frustrante. Purtroppo anche sul lato prettamente tecnico sono sorti problemi poiché i produttori o gli editori dei pezzi inclusi non sempre disponevano del master originale. Siamo stati costretti quindi a ricavare l’audio da copie perfette dei 12″ usciti all’epoca. In ogni caso i file sono stati tutti rimasterizzati da me nello studio di Rebirth, ottenendo poi l’approvazione dagli stessi artisti. Degno di menzione anche l’importante lavoro di direzione artistica curato da Stupefacente Studio che ha base a Brescia e che lavora a trecentosessanta gradi tra creatività, design e comunicazione. Senza dimenticare l’apporto del nostro grafico Luca Sanchezlife: l’idea di connettere quel periodo musicale alla figura rielaborata del Ciao, mascotte dei mondiali di calcio del 1990, mi è piaciuta subito e penso sia davvero vincente a livello comunicativo. La raccolta contiene inoltre un inserto editoriale curato dal giornalista Elia Zupelli che ricostruisce l’affresco di un’epoca attraverso le voci dei protagonisti, fotografie e rarità varie. Un contenuto davvero prezioso, unico direi, che fa bene coppia col packaging speciale e particolarmente oneroso».

Il doppio mix conta tredici pezzi quasi tutti risalenti agli anni in cui la piano house si ritrae, ormai inflazionata, per lasciare spazio a forme più deepeggianti, sognanti ed oniriche: da “Desire” di Aural ad “Elements” di Leo Anibaldi, da “Cuando Brilla La Luna” di Morenas a “The Wizard” di Alex Neri, da “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation a “Feel The Rhythm” di Blue Zone, da “Ore: Nove Nove (Open Rmx)” di MBG a “A4 (A Tribute To The Highway)” di Dalì passando per “Music Harmony And Rhythm” di Optik, “Free” di Stonehenge, “Da Lord” di Ralf, “WS Gordon”, un inedito dei Frame (Andrea Benedetti ed Eugenio Vatta, intervistati qui) e la versione di Andrea ‘Cutmaster-G’ Gemolotto dell’eterna “Sueño Latino” che resta l’inno totemico del movimento dream house. «Così come accennavo prima, a malincuore alcuni brani sono rimasti esclusi dalla playlist» prosegue Contrini. «Tra questi “Un Beso No Mata” dei Love Quartet (di cui parliamo qui, nda) e “Don’t Hold Back The Feeling” di U-N-I prodotto da Claudio Coccoluto, entrambi editi dalla Heartbeat (etichetta a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda) i cui diritti sono ora di proprietà della tedesca ZYX che purtroppo ha rifiutato la concessione di licenza. Per ovviare al problema, Claudio mi ha suggerito una traccia che produsse nel 1998 ma stilisticamente era troppo distante dalla linea musicale della raccolta. Un’altra manciata di pezzi, come “Nocturne Seduction” dei Night Communication (Leo Mas ed Andrea Gemolotto, anche questo dal catalogo Heartbeat) ed “Entity” di Mr. Marvin, sarebbero stati perfetti ma erano già stati inseriti in altre raccolte in tempi recenti. Un aneddoto particolare riguarda “Key To Heaven” di Sasha, finito tra i bonus in digitale: dopo aver parlato per mesi con uno degli autori, che mi ha indirizzato all’editore, ho scoperto che il produttore, Biagio Gambardella, è scomparso anni fa senza lasciare traccia. Anche la Irma Records, una delle etichette di riferimento del periodo e che vanta un catalogo letteralmente pieno di gemme, ha preferito non cedere i diritti dei propri brani. Altri nomi come Franco Falsini, Ivan Iacobucci e The True Underground Sound Of Rome (di cui si parla qui, qui e qui, nda) erano nella mia lista ma non siamo riusciti a raggiungere un accordo. Colgo invece l’occasione per ringraziare la disponibilità di tutti gli artisti coinvolti e di label come la DFC del gruppo Expanded Music e la MBG International Records».

Ciao Italia, il contenuto
Il contenuto di “Ciao Italia, Generazioni Underground” visto attraverso le etichette dei dischi originali

La tracklist del 2×12″ attinge musica da etichette-simbolo di quel periodo storico come Creative Label, ACV, le sopraccitate MBG International Records e DFC, Pin Up, Palmares ed American Records (a cui abbiamo dedicato una monografia qui) ma gradite sorprese sono riservate anche al formato digitale (disponibile dal 25 giugno) in cui si rinvengono, tra gli altri, gli inediti di Key Tronics, Don Carlos, Massimo Zennaro, Paramour & Adrian Morrison e dell’enigmatico Sasha a cui prima si faceva cenno. Ci si chiede però la ragione per cui Rebirth abbia optato per il formato liquido anziché fare un secondo doppio mix, innegabilmente preferito dai cultori. «Sarebbe stato bello estendere la raccolta e fare un quadruplo oppure due doppi» risponde a tal proposito Contrini. «Ad essere sincero ad un certo punto mi era venuta l’idea di coinvolgere anche i produttori italiani emergenti della nuova generazione che sono stati ispirati ed influenzati dalla musica elettronica italiana di inizio anni Novanta, ma il processo sarebbe stato ancora più lungo e dispendioso. Penso comunque che la raccolta “Ciao Italia, Generazioni Underground”, per come è stata concepita, porti con sé già tanti spunti ed idee su cui riflettere e poter lavorare. Poi nulla vieta di sviluppare un nuovo progetto in un prossimo futuro».

Un po’ come accade da circa un ventennio a tutti i generi musicali, anche l’italo house è diventata oggetto di un processo di revamping, talvolta finalizzato a somigliare quanto più possibile agli stilemi originari. Lo spirito di imitazione ed emulazione, troppo spesso mascherato da voglia di tributare qualcosa e qualcuno, però forse sta remando contro la creatività che ai tempi alimentava il settore. Se prima si pescava dal passato per proiettare cose nuove nel presente, in primis attraverso il sampling, adesso si ha l’impressione che si fugga nel passato per duplicarlo quanto più fedelmente possibile nella speranza di poterlo rivivere in qualche modo. «Credo sia rimasto ben poco di tutto quello che è stato prodotto nella musica elettronica nell’ultimo ventennio» afferma lapidario Contrini. «È come se il tempo si fosse fermato e la musica venisse (ri)prodotta (ri)pescando e (ri)adattando generi e filoni musicali antecedenti, prima gli anni Settanta, poi gli anni Ottanta e recentemente gli anni Novanta. Oggi esiste un numero abissale di produttori ma a mio avviso la parola “artista” si addice a ben pochi di essi. Certo, anche chi produceva musica house o techno in Italia nei primi anni Novanta non creava tutto da zero ma cercava di avvicinarsi alle atmosfere di Chicago, Detroit o New York però rielaborando e ricostruendo il tutto con un gusto ed un sapore tipico della nostra cultura, facendo leva su robuste linee di basso, melodie accattivanti e sensuali vibrazioni. Non è necessario essere strani o diversi a tutti i costi, l’importante è ripartire tornando a divertirsi in studio e fare ciò che piace di più, senza pressioni o condizionamenti di sorta. In tal contesto “Ciao Italia, Generazioni Underground” non vuole affatto avere una connotazione nostalgica e commemorativa ma piuttosto imprimere uno stimolo per una possibile evoluzione, dare un segnale positivo e cercare di trasmettere quell’atmosfera e senso di empatia e creatività che si respirava trent’anni fa. Magari rivivere ciò per qualche istante può aiutare a fornire una spinta propulsiva per un nuovo corso proiettato nel futuro».

A “Ciao Italia, Generazioni Underground”, che uscirà il prossimo 12 giugno in occasione del Record Store Day, si aggiungerà pure qualche novità su Tempo Dischi che sinora conta quattro pubblicazioni (Steel Mind, Automat, Contact Music e Logic System). «Il prossimo, previsto sempre a giugno, è “Computer Sourire” di Alexander Robotnick (intervistato qui, nda), uno degli artisti italiani più influenti a livello internazionale» annuncia Contrini. «Il disco, licenziato dalla Fuzz Dance e distribuito sempre da Rush Hour, includerà pure la ricercata versione remix, sinora mai ristampata. Analogamente sul fronte Rebirth sono in arrivo uscite di grosso spessore. Il lavoro di ricerca è sempre presente nella mia vita. Ideare progetti, anche lunghi e difficili, e portare avanti nuove sfide discografiche andando controcorrente è tra gli aspetti che mi legano con più passione a questo lavoro e continuano a tenermi vivo» conclude l’instancabile DJ bresciano che neanche la pandemia è riuscito a fermare. (Giosuè Impellizzeri)

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Italian Records, quando punk, new wave e italo disco si incrociano

«Tra il 1977 e il 1982 la musica italiana ebbe una capitale indiscussa, Bologna. È là che nascevano tutti gli spunti e i sodalizi destinati finalmente a rinnovare un panorama immobile e stantio. Alcuni nomi sarebbero entrati nella leggenda del rock italiano: Skiantos, Gaznevada, Confusional Quartet, Stupid Set, Hi-Fi Brothers. Ma Bologna Rock non era solo musica, era la politica di organizzazione extraparlamentare, dei cani sciolti, della controcultura. Era l’arte emergente del fumetto, della performance, era l’informazione rinnovata delle radio libere e delle fanzine. Era la nuova istruzione possibile nelle aule del DAMS. Insomma, una città laboratorio sul margine pretecnologico di un’Italia del tutto diversa da quella di oggi». Recita così la premessa di “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo” a cura di Oderso Rubini ed Andrea Tinti (Arcanapop, 2003), un libro che, in quasi quattrocento pagine, ben tratteggia la stagione creativa vissuta nella città dei portici in un periodo seminale per gran parte di ciò che avviene in seguito. Sono gli anni in cui emergono il punk e la new wave con le prime collisioni tra musica suonata a mano con strumenti tradizionali e quella invece programmata attraverso macchine elettroniche. Proprio su questo particolare snodo sorge Italian Records.

Il logo di Harpo’s Music e il furgone usato dai membri della cooperativa (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Un breve passo indietro, gli anni di Harpo’s Music (1977-1979)
Partita nel ’77 con “Inascoltable” degli Skiantos, Harpo’s Music è l’etichetta discografica nata in seno alla cooperativa culturale Harpo’s Bazaar costituita da alcuni studenti del DAMS e del Conservatorio Giovanni Battista Martini tra cui Oderso Rubini, Carlo ‘Cialdo’ Capelli, Anna Persiani, Lella Leporati e Giovanni Natale. Harpo’s Bazaar opera nel ramo grafico, musicale e cinematografico, ed è collegata ad un piccolo studio di registrazione, l’Harpo’s Studio, allestito col minimo indispensabile in via San Felice. Il nome della società, come riportato qui, è ispirato dal saggio “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx” di Gianni Celati, professore di letteratura inglese al DAMS, anche se Wikipedia riconduce la scelta del nome all’attore comico statunitense Harpo Marx il cui volto era disegnato sulle fiancate di un furgone che Rubini e gli altri prendono in fitto per filmare il Convegno Nazionale Contro La Repressione, svoltosi a Bologna tra il 23 e il 25 settembre 1977. «Armati, ma di una telecamera super 8, scanzonati, alternativi quanto basta per non prendersi sul serio e pieni di idee nuove, filmarono il convegno sulla repressione cercando nuove forme di comunicazione» si legge in un articolo di Luca Sancini su Repubblica, risalente al 25 marzo 2007 quando, a distanza di un trentennio, quelle registrazioni vengono restaurate da un gruppo di ex videomaker di uno studio di New York, donate alla cineteca comunale e proiettate in due giorni al cinema Lumière. Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Oltre ai già menzionati Skiantos si ricordano altre band che prendono parte al progetto come Luti Chroma, Windopen, Naphta, Sorella Maldestra e Gaznevada. L’ultima pubblicazione è la compilation “Bologna Rock”, omonima del festival tenutosi il 2 aprile del ’79 presso il Palasport del capoluogo emiliano ed organizzato dai membri della cooperativa col fine di lanciare nuovi gruppi della scena rock e new wave locale. In quella compilation, allegata al numero zero di Harpo’s Bulletin, fanzine di Harpo’s Bazaar, oltre a Gaznevada, Skiantos, Luti Chroma, Windopen, Naphta ed Andy J. Forest figurano altri nomi rimasti pressoché “congelati” in quell’esperienza come i Cheaters, i Rüsk Und Brüsk e i Bieki. Due pezzi, intitolati “Orinoco Blues” e “Woytila’s Rock’N’Roll”, sono firmati dai Confusional poi diventati Confusional Quartet. A quel punto l’interesse mostrato da una grossa casa discografica cambia il corso degli eventi. Come lo stesso Rubini racconta nel citato libro del 2003, la Ricordi propone un contratto di distribuzione triennale con un anticipo sulle royalties, e in virtù di quell’accordo la Harpo’s Music «si trasforma in una vera etichetta discografica passando dalle cassette al vinile». Nasce l’Italian Records.

La copertina di “Hello I Love You” degli Stupid Set

Il debutto punk (1980-1982)
Corre il 1980 quando Italian Records esordisce ufficialmente sul mercato anche se il suo nome è già filtrato attraverso varie incisioni della Demo City, mini piattaforma sperimentale relegata ancora al formato cassetta. Il primo 7″ è “Hello I Love You” degli Stupid Set nati da un’idea di Giampiero Huber, ex Gaznevada, affiancato da Paolo Bazzani, Giorgio Lavagna e Fabio Sabbioni che canta. La title track è la rilettura dell’omonimo dei Doors effettuata con strumenti elettronici che asciugano il tutto liberando un effetto mimimalista tipico delle produzioni do it yourself a basso costo di allora. «Gli Stupid Set dovevano essere una band con una caratteristica di base, l’utilizzo della batteria elettronica» dichiara Huber in “Non Disperdetevi”. «Non ero contro il sudore del batterista ma volevo arrivare ad un dispendio fisico meno pesante nel fare musica». Viene realizzato pure un video da cui emerge il desiderio di rompere la ritualità della presenza scenica del rock piazzando un televisore al posto dei volti dei membri della band, facendo così il verso ai Residents di San Francisco. Altrettanto sperimentale risulta il punk dei Gaznevada, una band che, come scrive Susanna La Polla De Giovanni in questo interessante articolo/intervista edito da Soundwall il 29 gennaio 2021, «attua una rivoluzione prima importando e mutuando l’attitudine e l’irruenza del punk rock dei Ramones e poi facendo propria l’urgenza di sperimentazione della scena post punk e no wave statunitense e britannica. Suicide, Talking Heads, Devo, Contortions e Brian Eno sono le band e gli artisti dal cui serbatoio attinsero per rielaborarne le sonorità in modo assolutamente personale, contaminandole con il loro broken english e le appassionate letture e visioni condivise di fumetti, sci-fi movies e noir americani, cimentandosi inoltre in sperimentazioni elettroniche avanti anni luce per una scena musicale allora dominata dai cantautori».

Il loro primo 7″ è “Nevadagaz” affiancato sul lato b da “Blue TV Set”. L’unico nome che si rinviene sul disco, oltre ad Oderso (Rubini) nella veste di produttore, è quello di Ciro Pagano, chitarrista della band destinato ad una brillante carriera nella scena dance del decennio successivo con Datura e numerosi altri progetti trasversali tra cui Dreams Unlimited, Do It! e XOR di cui parliamo qui. Destino analogo per un altro membro del gruppo, il bassista Marco Bongiovanni, artefice tra le altre cose di DJ H. Feat. Stefy, Kaliya e Skuba con Enrico ‘DJ Herbie’ Acerbi intervistato qui. Alla citata cover degli Stupid Set ne seguono altre: “La Bambolina” di Michel Polnareff, incisa sul retro di “Siamo Tutti Dracula” dei Luti Chroma, “Ho In Mente Te” dell’Equipe 84 – già remake di “You Were On My Mind” dei canadesi Ian & Sylvia – realizzato dai 451, e “Volare” con cui i Confusional Quartet ricostruiscono “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno. Menzione a parte per “Bianca Surf / Photoni”, singolo d’esordio di Johnson Righeira, pochi anni dopo diventato popolarissimo in coppia con Stefano Rota nel duo Righeira prodotto dei fratelli La Bionda. Diversi pure gli album, da “No Autostop” della Band Aid (gruppo leccese in cui suona il noto trombettista Francesco ‘Frank’ Nemola e solo omonimo di quello creato qualche anno dopo da Bob Geldof con fini umanitari) a “Crollo Nervoso” dei Magazzini Criminali, da “Confusional Quartet” dei Confusional Quartet a “I Luoghi Del Potere” degli Art Fleury passando per “The List” di Andy J. Forest And The Stumblers, “Sick Soundtrack” dei Gaznevada e la compilation “Pordenone / The Great Complotto”.

Alcuni dischi licenziati dall’estero

Dal 1981 Italian Records inizia ad ampliare il proprio raggio d’azione pubblicando musica di artisti esteri a cominciare dai DNA, gruppo statunitense fondato da Arto Lindsay e Robin Lee Crutchfield, a cui seguono Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. A rimarcare la vocazione internazionale è il marchio Italian Records From The World. Sul fronte italiano invece c’è tutta una schiera di produzioni che rompono gli schemi della musica rock tradizionale, dai beat elettronici di Maurizio Marsico alias Monofonic Orchestra, a cui Christian Zingales – intervistato qui – ha dedicato un libro nel 2019, alle schegge d’avanguardia spennellate da una dose di umorismo dei Confusional Quartet, dalla new wave dei Pale TV a quella dei citati Gaznevada passando per gli Hi.Fi Bros, inizialmente prodotti dal citato Lindsay che suona la chitarra nel remake di “Stranger In The Night”, il compianto Freak Antoni degli Skiantos e la compilation “Ref.907” che raduna pezzi di band già proiettate nella musica del futuro, Eurotunes, Ipnotico Tango, Metal Vox, Absurdo e Kerosene. Nel 1981 escono pure “Tapes Of Darkness” dei Neon (da Firenze, altro centro nevralgico per quel fermento artistico come ben descritto da Pierpaolo De Iulis nel documentario “Crollo Nervoso” qui recensito) e “Kirlian Camera” del gruppo omonimo parmense capeggiato da Angelo Bergamini. Oggi sono considerati dischi cult della new wave italiana.

La copertina di “I.C. Love Affair”, uno dei primi brani ballabili pubblicati da Italian Records

Chitarre elettriche, sintetizzatori e batterie elettroniche (1983-1984)
Sino a questo momento l’imprinting dell’Italian Records è legato a matrici punk/rock ed adesioni new wave e no wave ma l’uscita di “I.C. Love Affair” dei Gaznevada, singolo estratto dal terzo album “Psicopatico Party”, rimette tutto in discussione. In bilico tra reminiscenze disco con tanto di urletti à la Bee Gees e snodi ritmici elettronici ascrivibili all’hi nrg/italo disco riverberati nella Chinese Version, il brano funziona più che bene nelle discoteche incluse le estere nonostante a trainarlo sia una parte vocale in inglese sfacciatamente maccheronico così come accade nella maggior parte delle produzioni nostrane di quel periodo. Ciò non impedisce di conquistare un paio di licenze oltralpe inclusa quella sulla tedesca ZYX di Bernhard Mikulski che ai tempi è in visibilio per la dance made in Italy al punto da coniare un termine che la identificherà per sempre, italo disco, dando ad essa credibilità sul piano internazionale. Ritoccato da Claudio Ridolfi in una Special Mix chiamata Italian Version, “I.C. Love Affair” viene accompagnato da un video promozionale realizzato nella capitale: «all’epoca fummo invitati come ospiti in un programma televisivo della RAI ed era richiesto il videoclip del brano ma c’era un problema, non esisteva alcun videoclip di “I.C. Love Affair”. Con la collaborazione di un cameraman e di un regista della RAI allora, lo girammo per le strade di Roma, “buono alla prima” e in una sola mattinata» racconta il gruppo in questo post su Facebook del 30 dicembre 2020. “I.C. Love Affair”, con cui i Gaznevada partecipano al Festivalbar del 1983, fa da apripista ad altri brani filo dance come “Hear The Rumble” degli Stupid Set ed Enrico Serotti ma soprattutto “The Rule To Survive (Looking For Love)” dei N.O.I.A., scoperti da Rubini nel 1981 in occasione della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” e a cui abbiamo dedicato un approfondito articolo/intervista qui. Non c’è ancora però un distacco netto dalle matrici punk rock e new wave e a testimoniarlo sono le nuove uscite di Diaframma e Kerosene e la compilation “iV3SCR”.

L’Italian Records percorre insomma due itinerari in modo parallelo ma che presto convergeranno sotto il segno dell’ideale laboratorio collettivo a cielo aperto in atto tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta quando creare musica pigiando tasti e ruotando manopole anziché suonando strumenti tradizionali è considerata una forma di ribellione analoga a quella del punk. In diverse parti del mondo questo nuovo approccio alla composizione, reso possibile dall’avvento di strumenti dal costo più abbordabile, innesca un processo seminale per ciò che avviene in futuro. A San Francisco si sviluppa una nuova forma di disco music meccanizzata di matrice moroderiana detta hi nrg, a New York l’intersezione tra l’hip hop e dettami kraftwerkiani genera l’electro, nel Regno Unito un numero crescente di band prende le distanze dal rock classico utilizzando sintetizzatori e vivacizzando le proprie canzoni con ritmi ballabili raccolte sotto l’ombrello new wave e synth pop, in Germania aumentano gli adepti della neue deutsche welle, in Belgio gli impulsi dell’industrial generano l’EBM dai tratti militareschi, a Chicago vengono gettate le basi della house music mentre a Detroit le teorie toffleriane ispirano la techno. In Italia, nel frattempo, si fa incetta di plurime ispirazioni estere fondendole inconsapevolmente in un nuovo filone-patchwork ribattezzato oltre i confini, come si è detto prima, italo disco. C’è ancora poca intenzionalità e soprattutto scarsissima malizia commerciale, le etichette indipendenti stampano qualche migliaio di copie con l’auspicio di poterle piazzare oltralpe, specialmente in Germania dove la “musica delle macchine” pare funzionare meglio rispetto ad altri Paesi. Diversi musicisti si lasciano coinvolgere, attratti anche dalla possibilità di incassare denaro con sforzi relativamente contenuti, e tentano di fornire un continuum alla disco ormai in declino coi nuovi mezzi che la tecnologia di allora mette a disposizione, specialmente quelli prodotti da aziende nipponiche. Poi, per affrancarsi dal provincialismo e darsi un tono più internazionale, iniziano ad usare pseudonimi in lingua inglese foneticamente appetibili per un mercato non solo domestico.

Altra dance su Italian Records, N.O.I.A., Kirlian Camera e Fawzia

A partire dal 1983, a posteriori diventato l’annus mirabilis dell’italo disco, l’Italian Records pubblica con più frequenza dischi ballabili come “Stranger In A Strange Land” dei N.O.I.A., che ritmicamente tratteggia e prefigura con lungimiranza già il post italo, “The Line” degli Hi.Fi Bros, “A Tour In Italy” di Band Aid e “Special Agent Man” dei Gaznevada, quest’ultimo mixato presso gli Stone Castle Studios a Carimate e circoscritto ad una base ed arrangiamenti simili a quelli di “Just An Illusion” degli Imagination. A ciò si aggiunge la licenza di “Waterloo Sunset” degli Affairs Of The Heart, band di Bristol che coverizza l’omonimo dei Kinks in chiave synth pop strizzando l’occhio a Depeche Mode, Yazoo e Human League. Ora distribuita dalla EMI, l’etichetta bolognese individua nella musica prodotta (anche) con sintetizzatori e batterie elettroniche la nuova fonte a cui abbeverarsi e dal 1984 le distanze con la dance si accorciano. I N.O.I.A., fondati nel ’78 da Bruno Magnani e Davide Piatto sull’incrocio tra Kraftwerk e Devo, tornano con “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, mentre i Gaznevada propongono “Ticket To Los Angeles” scandita da rintocchi new romantic e con cui tornano sul palco del Festivalbar. I debuttanti Dens Dens (una velata incitazione al ballo?) sfoderano il primo e unico 12″ contenente “Life Got No Sense (Without Love)” e “Meaning Of Words” di chiara ispirazione new wave. Tra i membri della band si segnalano il tastierista Piero Balleggi, entrato a far parte dei fiorentini Neon, e il bassista Ricky Rinaldi, in futuro negli Aeroplanitaliani di Alessio Bertallot (intervistato qui) e nel team dei Souled Out. Solo uno pure il singolo di Fawsia Selama, già coinvolta come corista in brani degli Hi.Fi Bros e Gaznevada: coadiuvata dagli arrangiamenti di Roberto Costa firma “Please, Don’t Be Sad” col nome Fawzia e si guadagna una licenza in Germania dove la Bellaphon lo commercializza sbandierando un bel “original italo disco” in copertina. Esattamente dieci anni dopo intonerà “The 7th Hallucination” dei Datura. Persino i Kirlian Camera di Bergamini si cimentano in qualcosa più danzereccio del solito, “Edges”, pur preservando una certa algida marzialità, la stessa che si ritrova nella partitura di “Communicate” pubblicato l’anno prima dalla Memory Records di Alessandro Zanni e Stefano Cundari a cui, pare, Bergamini si fosse avvicinato attraverso “Pulstar” di Hipnosis. Tony Carrasco, DJ statunitense ai tempi residente in Italia, incide con un certo Charlie Owens “Thailand Seeds” di A.I.M. ma con risultati ben diversi rispetto a quelli ottenuti con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., pubblicata due anni prima dalla Zanza Records e prodotta con Mario Boncaldo e Davide Piatto dei N.O.I.A., seppur quest’ultimo non figuri nei credit come spieghiamo qui. Ad affiancarlo nel successivo “So Evil (Close To The Edge)”, sospinto da un’anima più marcatamente pop, è il compianto Graziano Pegoraro, da lì a breve produttore di Miko Mission, Taffy e Silver Pozzoli e in seguito dietro a numerosi act italodance, su tutti Ava & Stone e Mato Grosso di cui parliamo qui e qui. Nel 1984 “Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, prodotta da Carrasco con l’intervento, tra gli altri, di Manlio Cangelli degli Scotch e dei fratelli Nicolosi dei Novecento, apre il catalogo della Third Label, “sussidiaria” di Italian Records più dichiaratamente dance oriented. Al brano, l’anno dopo coverizzato con successo da Cheyne per la MCA Records, segue “Funky Is On” di Funky Family, oggi un cult nell’ambiente collezionistico, e poi tutta una serie di produzioni di stampo ballabile. Sempre nel 1984 i N.O.I.A., poc’anzi citati, incidono pure un Mini-Album, “The Sound Of Love”, a cui avrebbe dovuto far seguito, come dichiara Magnani in un’intervista del 2014, un vero e proprio LP che doveva racchiudere “Time Is Over Me” rimasto nel cassetto per ben trent’anni. Ad aprire “The Sound Of Love” invece è il pezzo omonimo, venato di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk. Seguono “True Love”, studiato su arpeggi moroderiani, e “Try And See”, l’ultimo che la band di Cervia destina alla label di Rubini in cui le spinte avanguardiste dei primi singoli spariscono sotto una coltre di synth pop piuttosto incolore e insapore.

Paul Sears e Soul Boy, tra gli ultimi dischi prodotti da Rubini

Gli ultimi anni di attività (1985-1988)
Dal 1985 in avanti l’italo disco inizia a non essere più il contenitore di musiche eterogenee che gli italiani creano ispirandosi a stili esteri e facendoli inconsapevolmente propri bensì un calderone, dalle dimensioni sempre più grandi e difficilmente stimabili, in cui riversare quasi esclusivamente brani ballabili in formato canzone, composti ed arrangiati secondo una rodata e consolidata metodologia (strofa-ponte-ritornello) ma soprattutto prodotti con l’ambizione di centrare il successo pop. Gli esperimenti effervescenti iniziali si trasformano in una disco potabilizzata per le grandi platee e ciò influisce in negativo sul livello di sperimentazione, progressivamente scemato sino ad eclissarsi del tutto. L’annata non è tra le più prolifiche per l’Italian Records che però dalla sua parte ha i Kirlian Camera, autentici fuoriclasse del darkwave prossimi a firmare un contratto con la Virgin. La loro “Blue Room”, interpretata da Simona Buja, si muove sui versanti più gelidi del suono di matrice new wave ottenuto con una drum machine LinnDrum e sintetizzatori Roland, Korg e PPG Wave. Chitarra ed effetti sono di Paul Sears che proprio per Italian Records incide “The Spirit Of The Age”, singolo di matrice pop registrato al Regson Studio di Milano con l’ausilio di vari musicisti ma che, nonostante gli sforzi, raccoglie pochi consensi. Risultati analoghi per “Baby Blue” di Soul Boy, prodotto da Luigi Macchiaizzano e dal già menzionato Maurizio Marsico, approdato sulle sponde dell’italo sound con “Rap ‘N’ Roll” di Frisk The Frog (Jumbo Records, 1983) e “Funk Sumatra” (Discomagic, 1984, con copertina a firma Tanino Liberatore e Massimo Mattioli). Quello di Sears è uno degli ultimi dischi su cui appare il nome di Rubini.

Nel 1986, dopo il suo abbandono, viene varata l’Italian Records Junior per coprire il segmento della musica per bambini. Il progetto si concretizza attraverso alcuni 7″ ed un LP della fiorentina Susy Bellucci, scomparsa nel luglio del 2018. Un altro debutto che si consuma su Italian Records è quello dei Premio Nobel, precedentemente noti come Flexi Cowboys, formati da Claudio Collino, Davide Sabadin e Caterina Sinigo. “Baby Doll” è un pezzo tipicamente italo post ’85, non pretenzioso ed arrangiato sullo stile dell’eurodisco / hi nrg di Stock, Aitken & Waterman. A produrlo è Ricky Persi, ex bassista dei Krisma che ha maturato già qualche esperienza discografica tra cui “Tarzan Loves The Summer Nights” di Big Ben Tribe, da cui forse i Chromeo carpiscono uno spunto per “Night By Night”, e soprattutto “Tenax” di Diana Est scritta, come lui stesso racconta nell’intervista racchiusa in Decadance Extra, con Stefano Previsti ed Enrico Ruggeri. Nel 1987 a “Baby Doll”, licenziato in buona parte d’Europa, fanno seguito i meno noti “White Flame” e “Sugar Love” (quest’ultimo sull’Ibiza Records di Claudio Cecchetto), poco consistenti per tessitura creativa. «Ci stancammo presto di seguire quello che era l’andazzo generale della dance italiana» sostiene Persi nell’intervista sopraccitata. «Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation (sulla quale nel ’92 esce una cover di “I.C. Love Affair” a nome Dial 77, nda) ma ad onor del vero il nome ammiccava pure al DMC. Non a caso in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che per le gare ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Per Ricky Persi, analogamente a Collino e Sabadin, le nuove forme di dance elettronica diventano autentici filoni auriferi da cui estrarre una miriade di pepite alcune delle quali trasformate in preziosi monili come Sueño Latino, Glam, Ramirez, Steam System, Atahualpa, Fishbone Beat e Paraje, quasi tutti sotto il marchio Expanded Music.

Marco Bellini immortalato sulla copertina di Céyx

È sempre Persi, affiancato da Maurizio Preti, a curare la produzione di “Monnalisa” e “Mon Amour” di Lucio Burolo Deblanc noto semplicemente come Deblanc, nato ad Ottawa, in Canada, ma residente a Trieste. Tra gli ingegneri del suono del primo, registrato al Watermelon Studios e mixato al Rimini Studio da Mario Flores, ci sono Sergio Portaluri e Fulvio Zafret, futuri artefici insieme a David Sion del prolifico team De Point di cui parliamo qui. Il secondo invece viene interamente realizzato a Trieste presso il Palace Recording Studio di Gemolotto, lì dove nasce un altro disco edito dall’Italian Records nel 1987, “Ma-La-Vi-Ta” di Céyx. Ibridando ciò che resta dell’italo frammista a stab orchestrali ad una base quasi new beat a 115 BPM, Persi e Previsti scrivono un brano che raccoglie discreti risultati all’estero. A produrlo, come riportato tra i credit, sono i P/P/G, acronimo di Persi Previsti Gemolotto, che proprio quell’anno incidono “Jack The Beat” sulla neonata DFC. A cantarlo invece un giovanotto triestino poco più che ventenne immortalato in copertina, Marco Bellini, divenuto un noto DJ negli anni Novanta per residenze in locali come Aida ed Area City. Il team dei P/P/G si ripresenta con “Plaza De Toros” firmato Invidia, italo virata in chiave spagnoleggiante quando i Gipsy Kings si impongono in tutto il mondo con “Bamboleo”. La collaborazione tra Italian Records e il Palace Recording Studio prosegue con “Quibos” dei Quibos, prodotto da Tano Lanza e Mario Percali e supervisionato da Massimo Bassani, in quel periodo coinvolto in diverse produzioni edite dall’Expanded Music su varie etichette. Dallo studio di Gemolotto esce pure “High Energy Boy” delle Moulin Rouge, progetto sloveno che si inserisce nell’infinita cordata hi nrg ormai popolarizzata su scala mondiale, e “Nei Sogni Tu Ci Sei / Pensiero Lontano” di Elio che, insieme ad “One Day Lovers / Love Me Too Much” di Samuel, tira il sipario puntando ad un genere davvero agli antipodi rispetto a quello con cui tutto è iniziato circa otto anni prima.

Frammenti post 2000 per Italian Records

Tra ripescaggi ed una breve nuova vita (2006-2015)
A partire dai tardi anni Novanta molti generi musicali del passato vengono riscoperti e vivono una seconda vita proprio come accade all’italo disco. Su iniziativa di personaggi sparsi tra Europa e Stati Uniti, la vecchia dance italiana, morta, sepolta e dimenticata ormai da circa un decennio, si ritrova inaspettatamente a ricoprire un ruolo tutt’altro che marginale nella scena contemporanea. Nell’arco di pochi anni sul mercato piomba un numero crescente di ristampe, ufficiali e non, di dischi sino a quel momento rintracciabili principalmente nei mercatini, nelle aste su eBay o siti specializzati come GEMM (il marketplace di Discogs arriverà solo intorno al 2002). Il movimento revivalistico abbraccia anche il marchio Italian Records che nel 2006, a circa diciotto anni di distanza dall’ultima apparizione, ritorna nei negozi per mezzo di una raccolta, “Confuzed Disco”. Edita su CD e vinile, si configura come una vera e propria retrospettiva dedicata alla label bolognese ed è caratterizzata da ripescaggi e numerosi remix realizzati da una nuova generazione di artisti. Nella tracklist è inclusa pure una manciata di tracce estrapolate dal catalogo Third Label (“Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, “Funky Is On” di Funky Family). Il vecchio si unisce al nuovo e crea un inedito standard stilistico destinato a rafforzarsi negli anni a seguire.

Vari brani relativi alle prime annate di attività di Italian Records finiscono invece in “Mutazione (Italian Electronic & New Wave Underground 1980-1988)”, un’altra compilation nata col fine di radunare gemme dimenticate della new wave italiana. A pubblicarla, nel 2013, è la britannica Strut. Quello stesso anno la Spittle Records mette in circolazione “Italian Records – The Singles 7” Collection (1980-1984)”, box set di cinque CD che, come annuncia il titolo stesso, accorpa i singoli editi da Italian Records nel quadriennio 1980-1984. Il package include pure un booklet di ben 112 pagine. La raccolta fotografa, come scrive Pierfrancesco Pacoda in un articolo pubblicato sulla rivista DJ Mag Italia ad agosto 2013, «il neo rock indipendente che lambisce la seduzione dell’italo disco, opere nate da un lavoro collettivo in piccoli studi di registrazione casalinghi dove il produttore Oderso Rubini porta tantissimi giovani talenti di una scena che, mai come allora, credeva davvero in una comunicazione artistica fatta di linguaggi differenti». Nel 2014, su iniziativa della stessa Expanded Music, prende avvio il progetto volto a rilanciare il marchio Italian Records nel mercato contemporaneo. Sotto la guida di Ricky Persi escono dieci dischi, tra inediti (“Generation 83” di Leo Mas & Fabrice, “J’Adore La Musique” di Lineki, “Destination To The Sun” di DJ Rocca, “Waiting For The Heaven” di Shambok Feat. David Sion) e ristampe avvalorate da nuovi remix (Funky Family, Gaznevada, N.O.I.A., Kirlian Camera). Nonostante i buoni propositi, l’operazione si arena nel 2015. Ultimo in ordine di apparizione è il reissue di “Gaznevada”, primo album dei Gaznevada in origine su Harpo’s Music rimesso in circolazione a gennaio 2021 attraverso una limited edition ambita dai collezionisti.

La testimonianza di Oderso Rubini

In che ambiente sociale e culturale germoglia l’idea di fondare Harpo’s Bazaar?
Erano gli anni del Movimento bolognese, di una città ricca di tensioni sociali e politiche ma anche innervata da una dimensione creativa sviluppata in maniera del tutto spontanea grazie a diverse componenti: DAMS, Conservatorio, radio libere, concerti, etc.

Perché optaste per il nome Harpo?
Gianni Celati, docente di letteratura inglese al DAMS, stava scrivendo un libro intitolato per l’appunto “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx”. Alcuni suoi allievi erano tra i soci fondatori della cooperativa e quindi, un po’ perché suonava bene, un po’ perché lo spirito di Harpo incarnava in qualche modo le nostre ambizioni, optammo per quel nome, e fu una scelta abbastanza facile e felice direi.

“Inascoltable” degli Skiantos (1977)

Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Cosa voleva dire ai tempi gestire un’etichetta indipendente come quella?
Non avevamo né le risorse, né la struttura per pubblicare dischi essendo lontani da Roma e Milano, ma sentivamo la necessità di esternare in qualunque modo le nostre voglie e quelle degli artisti che ci stavano intorno. Avevamo lo studio dove registrare, e già quello era un privilegio in termini economici, e non ci mancava lo spirito creativo per inventare e diffondere la nostra musica tramite i concerti (tra cui il Bologna Rock), utilizzando il circuito delle radio indipendenti e la vendita per corrispondenza. A contraddistinguere Harpo’s Music fu l’incoscienza, la spontaneità e quel giusto grado di presunzione dell’essere giovani legato all’inesperienza e all’ingenuità di chi non è ancora un professionista smaliziato.

In Rete corre voce che tra i fondatori di Harpo’s Music ci fosse anche Red Ronnie: è vero?
No, Red Ronnie è stato un amico e fiancheggiatore della nostra avventura da esterno.

Qualcuno ricopriva il ruolo di A&R e quindi decideva cosa pubblicare?
Delle scelte artistiche me ne occupavo principalmente io pur condividendole, soprattutto per ciò che riguardava il cosiddetto “marketing”, con gli altri soci della cooperativa.

Quanto budget fu investito in quell’avventura?
Di fatto i costi erano legati esclusivamente alla produzione e distribuzione delle cassette (in tirature di 500 copie) e alle operazioni per promuoverle ossia spedizioni, grafica e pubblicità.

Italian Records debutta ufficialmente nel 1980 seppur il nome appaia già attraverso le cassette della Demo City. Perché optaste per Italian Records? Era forse un modo patriottico/nazionalistico per evidenziare un’anelata riconoscibilità?
Demo City era una collana sperimentale, sempre relegata al formato cassetta, che attraversò il passaggio dalla cooperativa Harpo’s Bazaar alla Expanded Music Srl segnando quindi la transizione dall’età dell’innocenza a quella di una maggiore consapevolezza economico/industriale. Italian Records è stato il primo marchio di produzione dell’Expanded Music Srl che poi, a sua volta, divenne marchio per le ristampe di dischi presi in licenza da tante etichette internazionali (Rough Trade, 4AD, Industrial Records, Slash, Beggars Banquet, EG Records ed altre ancora). Dietro la scelta del nome c’era ovviamente una palese dichiarazione d’intenti: doveva essere evidente la nostra origine italiana e volevamo aprirci ad un mercato internazionale.

Rubini insieme a Nino Iorfino ed Anna Persiani nei primi anni Ottanta

All’inizio il logo è rappresentato dal tricolore nostrano, poi sostituito dallo stivale geografico e quindi dalla sagoma di un volto stilizzato. Da chi furono realizzati?
L’intera produzione grafica era a cura di Anna Persiani che coordinava tutte le sollecitazioni e le idee che dovevano supportare la nostra immagine.

Come tu stesso dichiari nel libro “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo”, a decretare la nascita dell’Italian Records è stata la Ricordi con un contratto di distribuzione triennale ed un anticipo sulle royalties. Come riusciste ad attirare l’attenzione della celebre casa discografica fondata nel 1958 da Nanni Ricordi e Franco Crepax? Ci fu un disco o una band in particolare a fare da detonatore?
Uno dei nostri soci, Gianni Gitti, incontrò casualmente ad un concerto, dove si occupava del suono, i responsabili artistici della Ricordi, Mara Maionchi e Giampiero Scussel. Allora eravamo un gruppo di lavoro molto coeso e penso sia stato più il contesto che un artista in particolare ad incuriosirli. Dopo una loro visita nel nostro piccolo studio in via San Felice, ci proposero un contratto di distribuzione come etichetta.

Il primo biennio di attività dell’Italian Records è legato a doppio filo a punk, post punk e new wave, generi che i musicisti nostrani elaborano in scene regionali parecchio parcellizzate (si pensi alla Mask Productions di Fulvio Guidarelli, alla Tidico o alla miriade di gruppi mirabilmente raccolti dalla Spittle Records nel progetto “Voyage Through The Deep 80s Underground In Italy”). Che riscontri raccoglieste, sia dalla critica che dal pubblico?
Nei primi anni riuscimmo a diventare una sorta di punto di riferimento per la costruzione di una scena punk/rock italiana indipendente. Sia la critica che il pubblico ci seguirono con attenzione e rispetto, fiduciosi in qualcosa di nuovo per il nostro Paese. Ancora oggi ricevo testimonianze di grande affetto per il lavoro fatto allora e questo continua ad inorgoglirmi.

Il brand Italian Records From The World

Oltre a patrocinare una serie di gruppi italiani, Italian Records ha veicolato anche alcuni album di band estere come DNA, Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. Cosa implicavano operazioni simili? Erano particolarmente onerose dal punto di vista economico?
Ad un certo punto, per stabilire rapporti economicamente più produttivi e possibili relazioni per i nostri dischi, inventammo il brand Italian Records From The World. Volevamo produrre non solo artisti italiani ma anche stranieri, con progetti specifici e in esclusiva, ma che costassero relativamente poco.

È vero che “Rafters” dei Throbbing Gristle era un bootleg non autorizzato, così come indicato su Discogs?
No, assolutamente, nessuna delle nostre produzioni era considerabile come bootleg, erano tutte legali.

“I.C. Love Affair” dei Gaznevada è uno dei primi brani ballabili pubblicati dall’Italian Records, uscito quando iniziano a delinearsi le caratteristiche di quella che in Germania verrà ribattezzata italo disco. L’adesione a quel fermento fu intenzionale o casuale?
Frequentando le discoteche per i concerti di alcuni dei nostri artisti, Gaznevada in particolare, si percepì chiaramente una tensione positiva verso il fenomeno “ballo”. Inizialmente l’idea era introdurre anche nell’ambito della musica dance degli elementi che fossero in qualche maniera provocatori ed insoliti per quel genere, soprattutto per i testi, mai banali o superficiali, come già avvenne in “(Black Dressed) White Wild Boys” sempre dei Gaznevada ed antecedente ad “I.C. Love Affair”. Anche quella del ballo era una forma di espressione e sembrò poter aprire ai musicisti altre possibilità per provare a vivere di musica.

A cosa era dovuta l’impostazione “orientaleggiante” dell’artwork? Quante copie vendette il mix e perché coinvolgeste Claudio Ridolfi come remixer?
La copertina del disco voleva evidenziare l’origine del testo, nato da un vero fatto di cronaca che raccontava le disavventure di un ambasciatore occidentale innamorato di una ragazza cinese. Ai tempi dell’uscita vendemmo qualche migliaio di copie ma non saprei quantificare con precisione tenendo conto di tutte le ristampe commercializzate in tanti Paesi del mondo. La cosa più interessante di quel brano è che decidemmo di realizzarlo solo sulla base di un riff di basso. Poi lo sostituimmo con un sintetizzatore Minimoog che era casualmente in studio e nel giro di quattro ore appena era già perfettamente compiuto. Apparve subito chiaro che avesse grandi potenzialità ma bisognava dare ad esso una maggiore ballabilità rispetto alla versione originale. Per fare ciò solitamente ai tempi si coinvolgeva qualcuno che fosse esperto di tecniche per i remix destinati alle discoteche, nel nostro caso Claudio Ridolfi.

Nonostante l’avvento delle prime tecnologie a basso costo, allora incidere un disco era una cosa tutt’altro che improvvisabile e i crediti sulle copertine lo testimoniano. Come fu recepito l’arrivo di sintetizzatori e batterie elettroniche negli ambienti del rock in cui regnava uno scetticismo, più o meno radicato, nei confronti della musica “programmata” e non “suonata”?
Ovviamente le persone più intelligenti percepirono l’avvento di synth e drum machine come un arricchimento delle possibilità espressive. Alla fine dipende sempre da come si usano le cose. Oggi c’è chi sostiene che il suono analogico dei vecchi nastri sia migliore di quello digitalizzato, esattamente come avveniva quarant’anni fa con gli strumenti elettronici e quelli tradizionali.

Dal 1983 a distribuire Italian Records fu la EMI: emersero sostanziali cambiamenti rispetto ai tempi di Ricordi?
Idealmente avevamo un contributo più meditato ed incisivo sulla parte promozionale ma per il resto non ci furono grandi differenze.

Uno scorcio della sede dell’Italian Records (198x)

Inizialmente l’italo disco è un genere-non genere fondato sull’ibridazione di stili eterogenei che i musicisti italiani assemblano anche in modo naïf. Poi si trasforma in qualcosa di predefinito e prevedibile, fatto di dance costruita sulla song structure che etichette/grossisti milanesi come Discomagic o Il Discotto impiegano intensivamente. A differenza delle realtà lombarde però, Italian Records non ha mai sfruttato a pieno regime quel ciclo economico toccando la prolificità tipica della musica “usa & getta”. A posteriori avresti voluto produrre più materiale?
Noi volevamo mantenere il più possibile una nostra identità, sia sonora che a livello di immagine. Le priorità non erano ancora i risultati economici bensì quelli espressivi. L’attività delle etichette e dei grossisti milanesi, lo dico senza cattiveria, si basava su un alto numero di produzioni perché statisticamente sapevano che ogni dieci progetti uno avrebbe venduto bene. Io invece ho prodotto solo quello che mi piaceva davvero.

Cosa ricordi delle produzioni convogliate sulla Third Label, etichetta più dichiaratamente dance sin dal suo esordio?
Francamente molto poco perché ero già proiettato altrove.

“The Spirit Of The Age” di Paul Sears e “Baby Blue” di Soul Boy sono tra gli ultimi dischi su cui appare il tuo nome: perché ad un certo punto abbandoni Italian Records?
Perché venne meno lo spirito che ci aveva accompagnato sino ad allora e, come è successo a tanti, il gruppo di lavoro coeso dell’inizio si stava declinando in ambizioni individuali poco conciliabili tra di loro.

Nel 1986 nasce Italian Records Junior dedicata a musiche per bambini e in seguito Italian Records diventa piattaforma per dischi piuttosto cheesy che suonano un po’ come il necrologio del progetto iniziale. Cosa pensi in merito a quella brusca virata?
Rispetto le scelte che furono prese dopo la mia uscita dall’Expanded Music, ma è evidente che a livello emotivo non mi coinvolsero affatto.

A proposito di sotto etichette e marchi correlati: cosa puoi raccontare in merito a MMMH Records e Nice Label? Erano affiliate ad Italian Records?
Entrambe facevano parte dell’idea di costruzione di una scena rock/new wave italiana. Volevamo aumentare la quantità di gruppi di produzione autonomi, sostenuti dall’Italian Records che a sua volta ne alimentava l’identità e ne era garante per l’immagine che si era costruita. Nello specifico la MMMH Records nacque per gli Stupid Set mentre la Nice Label fu gestita in collaborazione con Red Ronnie.

C’era un particolare significato dietro la scelta della sigla Exit (e talvolta in reverse Tixe) abbinata al numero di catalogo, o era banalmente la traduzione maccheronica di “uscita” intesa nel gergo discografico?
Stava proprio per “uscita”. Anche Dischi Italiani, in qualche modo, era maccheronico o banale.

Esisteva una ragione precisa invece dietro MXM Musica Ex Machina, l’editore che affiancava Italian Records?
Quel nome proveniva dal titolo del libro omonimo di Fred K. Prieberg che raccontava del nuovo tempo che prima o poi avrebbe accompagnato la produzione musicale.

Nino Iorfino ed Oderso Rubini

Quanto tocco e sensibilità di Oderso Rubini c’erano nelle uscite Italian Records?
Non dovrei essere io a dirlo, ma sicuramente nella maggior parte delle pubblicazioni la mia sensibilità ebbe un ruolo importante, per le scelte, per l’uso dei suoni, per la costruzione delle singole identità. Un buon produttore, a mio avviso, è quello che amplifica al massimo le caratteristiche insite dell’artista per esaltarne appunto l’identità e la singolarità. Che senso ha produrre per assomigliare a cose che esistono già?

Oggi il ruolo del produttore o dell’A&R è stato di gran lunga ridimensionato anzi, c’è chi, in virtù della tecnologia semplificatrice, si autoproclama artista facendo a meno di tutto e tutti. Credi che ciò stia facendo più bene o male alla musica?
Con l’uso sempre più diffuso delle tecnologie si sono globalizzati anche i suoni e le modalità di produzione e quindi ora è molto difficile far emergere identità forti. Sono parecchio cambiate inoltre anche le modalità di fruizione della musica e a parte pochissimi casi, spesso chi suona non riesce ad avere una visione d’insieme neutra di una canzone o di un disco, per presunzione o per superficialità. Sono convinto quindi della necessità di un orecchio esterno capace di dare un senso estetico ed espressivo ad un progetto.

In quale fase dell’Italian Records ti rivedi meglio?
Dall’inizio fino al 1982. Sono molto orgoglioso del lavoro fatto come gruppo. Poi si ruppe qualcosa e non riuscimmo più a dare un senso, anche economico, alla nostra avventura.

Quali sono i bestseller del catalogo? Mediamente quante copie vendevate per ogni pubblicazione?
Ovviamente Skiantos e Gaznevada che hanno avuto esiti decisamente positivi vendendo dalle 5000 alle 6000 copie. Altri titoli invece viaggiavano tra le 3000 e le 1000 copie.

Nel 2014 l’Italian Records è tornata in attività, seppur per un breve periodo, attraverso ristampe, remix ed inediti. Hai seguito ed apprezzato quella parentesi?
In qualche modo ne ho fatto parte e mi ha fatto piacere che le ristampe siano nate da una richiesta del mercato e non da un delirio personale. L’aspetto negativo è rappresentato dall’uso che oggi si fa delle ristampe a cui si attribuisce un valore principalmente collezionistico.

Ci sono errori che non rifaresti o rimpianti che ti porti dietro?
È mancato, più per inesperienza che per altro, un approccio più manageriale a tutta la passione che abbiamo messo nel nostro lavoro. Il rimpianto? Non essere riusciti a fare dell’Italian Records la più grande etichetta rock italiana (risate).

Per quali ragioni o meriti vorresti fosse ricordata Italian Records?
Per le emozioni che, anche se alle volte ad una sola persona, siamo riusciti a trasmettere, e che forse trasmettiamo ancora oggi.

(Giosuè Impellizzeri)

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49ers – Keep Your Love (Media Records)

49ers - Keep Your Love

Tra i nomi che trainano l’italo house trasformandola in un fenomeno d’interesse planetario, i 49ers di Gianfranco Bortolotti inanellano una serie di successi sin dal 1988, anno in cui esce “Die Walküre” di cui parliamo nel dettaglio qui. Con “Touch Me” del 1989, “Don’t You Love Me” del 1990 e “Move Your Feet” del 1991, il “gruppo” bresciano si impone in modo definitivo nel mercato discografico internazionale destando l’interesse persino di un colosso come la Island di Chris Blackwell che pubblica l’album eponimo in diversi Paesi del mondo. Esaurito il potenziale della cosiddetta spaghetti house però, la formula necessita di un’evoluzione. Ridotte drasticamente le pianate, i 49ers insistono sulla house ma con maggiori slanci verso il suono garage newyorkese come avviene in “Got To Be Free” del 1992, remake dell’omonimo dei New Life pubblicato due anni prima ma senza particolari riscontri dalla A&M PM dalla quale nascerà la più nota AM:PM. Alle versioni approntate negli studi di Roncadelle si aggiungono diversi remix di pregevoli nomi dell’house music d’oltreoceano come E-Smoove e Maurice Joshua, oltre a quello del bravo Andrea Gemolotto ai tempi in forze alla Heartbeat a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Il brano finisce negli Hot Shot Debut di Billboard, tra “L.S.I.” degli Shamen e “Too Funky” di George Michael. Simile il percorso battuto con “The Message”, impreziosito dal remix dei Masters At Work e in virtù di ciò comprensibilmente adorato dai DJ devoti alla house.

49ers su Billboard, 1 agosto 1992
“Got To Be Free” dei 49ers è tra le nuove entrate nell’ambita classifica di Billboard (1 agosto 1992)

Esce un secondo album, “Playing With My Heart” che, come descritto in un articolo di David Stansfield pubblicato da Billboard il 4 luglio 1992, è il risultato di una co-produzione tra la Media Records italiana e la Media Records britannica. «In futuro vorrei che i DJ nostrani e quelli d’oltremanica collaborassero perché da ciò potrebbe svilupparsi un nuovo tipo di cultura legata alla musica dance» afferma Bortolotti in quell’occasione, aggiungendo che per la Media Records resta una priorità affidarsi a cantanti britannici o statunitensi. «È necessario perché la lingua inglese è sempre di moda». Nel 1993 cambia tutto. Col crescente successo dell’eurodance, la Media Records apporta significative variazioni all’apparato stilistico dei 49ers e sebbene la (potente) voce resti quella di Ann-Marie Smith, scelta anche come immagine pubblica, i suoni mutano in maniera più che evidente. Ad inaugurare il nuovo corso stilistico è “Everything” uscito in primavera, inserito già nella tracklist dell’album “Playing With My Heart” e finito in diverse compilation di successo tra cui “105 For You” e “Danceteria 4” ma con risultati più contenuti rispetto ai precedenti.

Per i 49ers il passaggio all’eurodance non risulta efficace e fortunato come quello di un altro progetto-simbolo della label bortolottiana, Cappella, e il brano seguente lo testimonia. Analogamente a quanto avvenuto con “Got To Be Free”, pure “Keep Your Love” fruga nel piccolo repertorio dei New Life, band britannica in cui milita, sino a pochi anni prima, proprio Ann-Marie Smith. La prima versione però, racchiusa in “Playing With My Heart”, risulta inadatta alle nuove tendenze dance in cui opera la Media Records così a Roncadelle ne realizzano di nuove. Antonio Puntillo e Mauro Picotto elaborano due rivisitazioni di taglio euro, la Extended Mix e la R.A.F. Mix, a cui se ne aggiungono altrettante orientate alla house, la Dub Mix e la XClub Cut, quest’ultima a firma DJ Professor (Cristian Piccinelli e Luca Lauri). La più accattivante ed appetibile per le radio è la Extended Mix, costruita sui suoni con cui la Media Records conquista un posto di assoluta rilevanza nella pop dance di quegli anni. L’intro richiama la nenia di un carillon ed incornicia il graffiante cantato della Smith abilmente ricollocato su una trascinante base a cui però manca la chiave di volta ossia un ritornello ammiccante sorretto da un fraseggio di sintetizzatore che conquisti il gusto delle grandi platee. In assenza di questi due elementi, fondamentali nell’eurodance che circola con insistenza nel primo lustro dei Novanta, le potenzialità sono di gran lunga smorzate e quindi il “trapianto” effettuato da Puntillo e Picotto, partito dalla Cherry Pie Mix scritta e co-prodotta dalla Smith e Justin Phil-Ebosie, risulta riuscito solo in parte. La R.A.F. Mix lavora sugli stessi elementi ma con rimandi più evidenti allo stile di StoneBridge. Destinate ad un pubblico completamente diverso le rimanenti due versioni, in bilico tra suoni ovattati tipici della house dei club specializzati in auge in quel periodo e frammenti funky ad irradiare di luce stesure particolarmente “ombrose”. Ulteriori remix vengono pubblicati in Svezia dalla Remixed Records tra cui quello dei Naked Eye che si pone come una sorta di raccordo tra l’eurodance e spunti house ma con poco mordente.

Ann-Marie Smith @ Sib (1993)
Ann-Marie Smith nello stand della Media Records allestito al SIB di Rimini nella primavera del 1993. In quell’occasione viene presentato il numero 0 del magazine WOM – World Of Media che si scorge nell’angolo in basso a destra

“Keep Your Love”, uscito a settembre in Italia, finisce in diverse compilation (su tutte “Danceteria 5”), ai tempi un canale più che determinante per la diffusione di musica tra i giovanissimi ma ciò non basta per farne un successo. A Roncadelle le attenzioni sono quasi tutte rivolte ai Cappella, all’apice della popolarità, mentre i 49ers perdono progressivamente intensità riapparendo sul mercato circa un anno più tardi con “Rockin’ My Body”. Altre prove giungono nel 1995 con “Hangin’ On To Love” e “Lovin’ You”, costruiti sulla falsariga delle hit dei Cappella ma senza riuscire ad eguagliarne i risultati. Una fugace inversione di tendenza avviene solo nel 1997 grazie ad una versione di “Baby, I’m Yours” approntata da Mario Scalambrin, di cui parliamo specificatamente qui con la testimonianza dello stesso autore. Il poco che esce in seguito non suscita attenzioni, inclusa la manciata delle più recenti riapparizioni (“Je Cherche Apres Titine” del 2010, che sfiora il plagio di “We No Speak Americano” di Yolanda Be Cool & DCup, e “Shine On In Love” del 2013, cantata da Cheryl Porter), in cui non si rintraccia davvero più niente di quei 49ers che circa una ventina di anni prima tengono in alto il vessillo dell’italo house nel mondo. (Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Manu Archeo

Manu Archeo 1
Manu Archeo ed una parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Non ricordo esattamente il primo ma da bambino mia madre, o qualche altro familiare, mi comprava vari 7″ con le sigle dei cartoni animati. A casa inoltre c’era la collezione di dischi di mamma che annoverava, tra gli altri, album di Tony Esposito, Lucio Dalla, Pino Daniele, Antonio Infantino e Peter Gabriel. Intorno al 1985/1986 (ai tempi della prima e seconda media) cominciai a sentire musica con gli amici, alle prime feste o su MTV ed iniziai a comprare le cassette che poi ascoltavo nel mangianastri, nel Walkman Sony WM-11D o nell’autoradio della nostra Fiata Panda 45 color crema. Di quei titoli desideravo anche la versione su vinile che chiedevo di comprare sempre a mia madre. Qualche esempio? “Thriller” di Michael Jackson, artista che adoravo seppur quando uscì quell’album avessi solo otto anni. Rimasi completamente estasiato dal videoclip, per la musica e gli effetti. Il balletto con gli zombi era all’avanguardia ed ogni volta provavo un sentimento in bilico tra lo stupore e la paura quando la musica si fermava e lui si trasformava in un morto vivente. A quel punto volli a tutti i costi il giubbotto rosso e nero che Jackson indossava e riuscii ad averne uno simile, seppur di bassa fattura, che mi regalarono con immensa gioia. A scandire la mia giovinezza furono pure “Diamond Life” di Sade, compagno dei viaggi nella Panda, “So” di Peter Gabriel” (il video di “Big Time” con le animazioni in plastilina mi rapì letteralmente, era qualcosa di unico ed innovativo per l’epoca), “Revenge” degli Eurythmics, che andai a vedere al PalaEur di Roma nel 1989 – impazzivo per “Missionary Man”, “When Tomorrow Comes”, “The Miracle Of Love” e soprattutto “Take Your Pain Away” -, e “Blue’s” di Zucchero, immancabile nelle ingenue ed impacciate feste alle scuole medie. Il primo 12″ che ho acquistato con un’attitudine più “professionale” invece è stato “Buddy / The Magic Number” dei De La Soul, nel 1989. Per prenderlo feci una lunga pedalata con la mia BMX gialla e rossa da casa ad un piccolo negozio di dischi in periferia e rimasi molto soddisfatto dell’acquisto, non solo per la musica ma anche per la copertina così magica.

L’ultimo invece?
Ne ho presi diversi a partire dall’imperdibile doppio “Claremont Editions Two” sulla mitica ed infallibile Claremont 56 dell’amico Paul ‘Mudd’ Murphy. Questa etichetta non sbaglia un colpo e possiedo praticamente tutte le sue uscite. Una grande label di riferimento sin dal debutto, nel 2007, che annovera pubblicazioni innovative, di qualità e, cosa rara ma per me fondamentale, di grande coerenza. A seguire un altro various, “Buena Onda Balearic Beats” sull’italiana Hell Yeah Recordings del buon Marco “PeeDoo” Gallerani. Si tratta di una raccolta di perle baleariche contenente uno dei miei pezzi preferiti in assoluto dell’ultima decade, “Find Another Breeze” di J-Walk remixato da Matteo Gallerani alias Gallo, fratello dello stesso Marco. Conobbi PeeDoo a Bologna nel 2014 quando organizzava le serate Buena Onda in cui invitava alcuni dei DJ della scena balearica che rispetto di più, e da allora ci sentiamo spesso. Lo stimo molto, è un ragazzo veramente simpatico, un emiliano doc, un compagnone amante del buon cibo e della bella vita, oltre ad essere un grande DJ di esperienza e gusto. A fine settembre 2018 fu ospite al Pikes di Ibiza per il programma radiofonico di Andy Wilson in onda su Ibiza Sonica: ascoltando il suo set rimasi folgorato da una traccia fantastica, onirica e sospesa. Gli scrissi subito per sapere il titolo di quella meraviglia e mi svelò che si trattava del remix realizzato da suo fratello per “Find Another Breeze” di J-Walk. Passarono i mesi e in primavera contattai nuovamente Marco auspicando avesse novità sulla possibile uscita ma purtroppo la cosa era ancora in alto mare. A giugno 2019 ci siamo ritrovati al Music On Top di Firenze col nostro banchino di dischi e in lista per il DJ set del pomeriggio. Il discorso finì inevitabilmente su quella traccia da me adorata e PeeDoo, esasperato, finalmente me la passò su una chiavetta USB. In quel caldo giorno di inizio estate aprii il mio set proprio col remix di “Find Another Breeze”, da lì divenuta per me una traccia fondamentale. Io e Marco continuiamo ad incontrarci spesso. Ad ottobre 2019 lo ho invitato a dividere la consolle con me, a Firenze, per celebrare i cinque anni di Archeo Recordings. Non ho perso occasione per “martellarlo” nuovamente col remix di J-Walk. Ora finalmente è solcato su vinile che naturalmente fa parte della mia collezione. Un altro various che ho preso poche settimane fa è stato “Music For Dance & Theatre Volume Two” sull’olandese Music From Memory, un’altra etichetta di grande culto di cui possiedo tutte le uscite. Jamie Tiller e Tako Reyenga hanno un vero talento nel digging e la loro label lo testimonia appieno. Poi “Just A Little Lovin'” di Okinawa Delays, un 12″ sull’Archipelago Records dell’amico Takeo. Uno dei due remix inclusi, il Light And Love Vocal dei Seahawks, è qualcosa che lascia senza fiato, colpisce al cuore e allo stomaco e porta veramente in alto. Ho preso anche un 7″, “Summer Madness” dei Park Rangers, su Parktone Records, rifacimento dell’omonimo dei Kool & The Gang in chiave reggae nipponico, una vera chicca. Last but not least cito un altro meraviglioso 7″ di recente pubblicazione, “Los Claveles 36” di Pablo Color, su cui figura pure un remix del mitico Lexx. Il disco mi è stato regalato dallo stesso Pablo, un caro amico nonché talentuoso musicista svizzero che vive a Zurigo. Siamo in contatto fin dall’inizio della sua carriera ed adoro tutto quello che ha fatto. Ogni tanto ci sentiamo su WhatsApp e facciamo lunghe chiacchierate. Pablo parla abbastanza bene la nostra lingua, è cresciuto guardando la tv italiana ed ascoltando la migliore musica nostrana ma tradisce un evidente accento straniero che suscita in me molta simpatia. Gli ho detto che vorrei fare una release su Archeo Recordings usando la sua voce ma non so ancora bene come sviluppare l’idea. Inoltre abbiamo messo in cantiere una collaborazione e a breve uscirà un suo remix sulla mia label e di questo ne sono molto contento.

Quanti dischi annovera la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Ho inserito tutti i titoli in Discogs e il risultato indica poco più di 6200 tra dischi, in prevalenza, CD e cassette, e direi che la quantità sia approssimativamente corretta. In merito al valore medio riportato, sempre da Discogs, la mia collezione varrebbe più di 100.000 euro. Ho avuto la fortuna di ricevere in eredità da mia madre tante rarità oggi particolarmente costose, altre invece le ho comprate, con lungimiranza, anni addietro quando non avevano ancora raggiunto il valore attuale. Qualora mi interessasse particolarmente un disco, sarei disposto a spendere una cifra abbastanza ragguardevole per accaparrarmelo. Sinora il più costoso che ho acquistato valeva 140 euro. I titoli che sono nella mia wantlist vanno dai 60/80 euro ai 300/400 euro.

Dove è collocata e come è organizzata?
La mia collezione è sparsa un po’ per tutta la casa. Una parte è ospitata nel salotto in una grande libreria Kallax bianca dell’Ikea da 5×5. Lì ci sono i dischi più pregiati e ai quali tengo maggiormente. Poi ho altre due Kallax delle stesse dimensioni in mansarda, dove invece ho sistemato i dischi che ascolto ed uso con meno frequenza. A ciò si aggiungono altre cinque/sei Kallax da una o due file sparse ovunque, e scaffali più piccoli destinati ai CD. Sono abbastanza preciso e meticoloso, per questo ho suddiviso il materiale secondo criteri che possano favorire e facilitare la ricerca e l’utilizzo. Alcuni dischi sono divisi per etichette, per generi o stili. Un’altra parte invece segue la collocazione legata al Paese di provenienza tipo Italia, Giappone, Africa … Una sezione è destinata ovviamente ad Archeo Recordings con le varie uscite e i test pressing. Ogni tanto, con enorme fatica e giorni di lavoro, riordino ed aggiorno la disposizione di tutto. Nel lockdown primaverile, ad esempio, mi sono dato parecchio da fare. Sopra la libreria principale di dischi, infine, c’è un soppalco che ospita il mio “ufficio”, l’headquarter di Archeo Recordings insomma. Per accedere bisogna salire su una scala di legno che a sua volta è una libreria in cui ho sistemato dischi, CD e libri. A disegnarla è stato mio padre, architetto, mentre a realizzarla un caro amico falegname/artista, Andrea Fradiani.

Manu Archeo 3
Nella foto a sinistra la Kallax coi dischi a cui Manu Archeo tiene maggiormente, in quella a destra si scorge il soppalco sul quale è stato ricavato l’ufficio della sua Archeo Recordings a cui si accede attraverso una scala di legno, anch’essa “scrigno” di dischi, CD e libri

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ormai da anni uso le buste di plastica trasparenti che metto regolarmente a tutti i dischi che entrano in casa mia. Ho anche un piccolo kit per la pulizia del vinile con uno spray e il suo pannetto che uso per pulire quelli più sporchi. Funziona benissimo.

Ti hanno mai rubato un disco?
Fortunatamente no ma nel lontano 1991 (o forse era il 1992?) prestai una borsa piena di 12″ ad un amico DJ che, purtroppo, non me l’ha mai restituita perché si trasferì all’estero e qualcuno della sua famiglia buttò tutti i dischi rimasti nell’abitazione. Non oso immaginare ad una tale sventura! Nel corso degli anni ho riacquistato alcuni titoli che mi venivano in mente e che avevo voglia di possedere in vinile come ad esempio “Mismoplastico” dei Virtualmismo (di cui parliamo qui, nda) seppur dubito che si presenterà mai l’occasione per risuonarlo. Ripensare a quel brano fa riaffiorare dalla memoria, con affetto e piacere, il periodo 1991-1993 in cui iniziai a fare le prime esperienze da DJ nei locali fiorentini. Affiancavo spesso DJ Pini (Francesco Pineider) con cui facevo serate a Firenze e trascorrevo interi pomeriggi e nottate a registrare cassette coi nostri set.

Manu Archeo 2
Manu Archeo con alcuni dischi della sua raccolta tra cui “Too Shy” dei Kajagoogoo, “Josephine” di Chris Rea ed “Obsession” di Guy Cuevas. Alla sua sinistra invece “Tropic” degli ORM, “Na Zapadu Ništa Novo” dei Boomerang ed infine “Ortodossia” dei CCCP – Fedeli Alla Linea

Qual è il disco a cui tieni di più?
Non posso proprio indicarne solo uno, tuttavia potrei citare lo stile a cui sono maggiormente affezionato, il synth pop / balearic / pop rock / disco anni Ottanta. Questi sono alcuni brani sempre presenti nel mio flight case: “Lovely Day” di Mike Francis, “T.V. Scene” di Linda Di Franco, “Obsession” di Guy Cuevas (nella Nassau Mix di François Kevorkian), “Isadora Duncan (A Quoi Tu Penses Quand Tu Danses)” di Pierre Eliane, “Lipstick (Shout !)” di J.M. Black, “Rêves Noirs” di Bandolero, “Na Zapadu Ništa Novo” di Boomerang e “Tropic” degli ORM. Ed ancora: “Too Shy” dei Kajagoogoo e “Too Much” degli Hongkong Syndikat (rispettivamente la Midnight Mix e la Cola-Banana-Mix), “King-Kong” dei Primates, la Flesh & Blood Version di “The Word Girl” degli Scritti Politti, ottimamente re-editata nel 2018 da Haners in “Girl”, “Discomix” di Danny Boy, “Pump” di He Said, “Double” dei Double ed infine la Longue Version di “Sage Comme Une Image” di Lio.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
“Tron: Legacy” dei Daft Punk, acquistato nel 2011 sotto suggerimento di mio figlio Niccolò che allora aveva dodici anni ed era in fissa coi due film, quello storico del 1982 e il più recente del 2010, davvero brutto a mio avviso, come il disco del resto. C’è un punto a mio favore però: ho scoperto che in questi anni ha raggiunto ottime quotazioni quindi in futuro lo rivenderò per comprare un disco della mia wantlist della stessa cifra.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
“Après-Midi” del duo Testpattern, un LP giapponese del 1982 prodotto ed arrangiato dal geniale Haruomi Hosono della Yellow Magic Orchestra. Un disco con un sound che adoro e che sarei fiero di avere nella mia collezione, semplicemente strepitoso.

Manu Archeo 4
Manu Archeo mima ironicamente la posa di Robson Jorge sulla copertina dell’album del 1982

Quello con la copertina più bella?
È difficile limitarmi a menzionarne solo uno ma direi l’LP “Robson Jorge & Lincoln Olivetti” del compianto duo omonimo, uscito nel 1982. Mi piace molto ciò che si vede sul fronte, gli autori sembrano così allegri, alla moda, perfettamente “anni Ottanta” nelle pose. Idem per la maglietta indossata da Olivetti con la scritta Lazy Shirts 82. Sul retro ci sono ancora loro, intenti a giocare e scherzare con le maschere dei propri volti, lasciando emergere tanta autoironia. Per quanto riguarda l’audio invece, per me è sufficiente ascoltare il brano “Eva”. Un disco fenomenale.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
A Firenze andavo da Black Out, gestito dal mitico Riccardo Golini alias Riccardino, e da Disco Mastelloni in Piazza Del Mercato Centrale, dove il titolare era il grande ed indimenticato Roberto Bianchi (intervistato in Decadance Extra, nda), una persona super competente nonché vero punto di riferimento a livello nazionale negli anni Novanta. Non mancavano incursioni al Disco D’Oro di Achille Franceschi, a Bologna, e qualche capatina da Goody Music a Roma (ad entrambi abbiamo dedicato spazio ed interviste nel citato Decadance Extra, nda). Da Disco Mastelloni compravo cassette artigianali registrate da Roberto tra 1991 e 1993 con tutti i singoli di successo del momento mixati ad arte che all’epoca mi ispirarono non poco per l’acquisto di tanti dischi. Il clima che si respirava lì dentro era molto fervido, ogni volta che mettevo piede potevo incontrare amici o DJ famosi con cui scambiare qualche chiacchiera e conoscere gossip e retroscena sul cosiddetto “mondo della notte”. Prendevo la mia pila di dischi per ascoltarli pazientemente in cuffia ed era fantastico immergersi in quell’atmosfera, mi dava una gioia immensa, ed infatti è una cosa che continuo a fare oggi. Adesso frequento Danex Records dell’amico Daniele, sempre a Firenze. Oltre ad essere il mio negozio di fiducia, è un punto di incontro e ritrovo in cui parlare di musica ed altro con colleghi DJ.

Credi che l’e-commerce, evoluzione tecnologica della vendita per corrispondenza, abbia favorito o penalizzato il comparto discografico? C’è chi considera un pro il fatto di poter acquistare quasi qualsiasi cosa standosene seduti comodamente nella propria abitazione ma c’è anche chi vede le cose da una prospettiva diversa, evidenziando come questa nuova pratica commerciale entrata ormai nella routine quotidiana abbia messo in ginocchio le realtà locali.
Forse all’inizio l’e-commerce ha decretato la crisi del settore discografico e di tutto l’entourage ma adesso, a mio avviso, la faccenda è in via di stabilizzazione anzi, credo che le due realtà si influenzino positivamente. Per quanto mi riguarda, mi avvalgo di entrambe: magari compro un disco raro su Discogs o eBay ma allo stesso tempo continuo a girare per i mercatini e i negozi della mia città o di altre in cui capito spesso. Ritengo che il mondo dei digger, dei DJ e dei professionisti abbia ben chiara questa dinamica e si comporti allo stesso modo.

Nel 2014 hai creato la tua etichetta, la Archeo Recordings, specializzata in ristampe di tesori del passato e di cui abbiamo parlato dettagliatamente in questa intervista pubblicata su Soundwall il 14 marzo 2017. A distanza di oltre un triennio, è mutato qualcosa nel tuo modus operandi? Continui a pubblicare cinquecento copie ad uscita?
Archeo Recordings sta andando molto bene e per questo non posso che essere felice e grato a chi la supporta. Non è cambiato molto nella modalità di lavoro, a parte il fatto di aver acquisito ulteriore esperienza, sicurezza e credibilità. Ciò mi permette di rapportarmi con artisti e major con più facilità per chiedere ed ottenere le licenze. Ultimamente la tiratura varia tra le trecento, cinquecento e mille copie, a seconda di quello che ritengo giusto per ogni singola pubblicazione.

Devozioni Dialettali
Il remix di “Devozioni Dialettali” di Enzo Avitabile realizzato da Leo Mas, Fabrice ed Andrea Gemolotto, edito da Archeo Recordings in sole duecento copie nel 2017

Nell’estate del 2017 su Archeo Recordings esce il remix di “Devozioni Dialettali” di Enzo Avitabile realizzato da Leo Mas, Fabrice ed Andrea Gemolotto, ma in una tiratura promozionale di sole duecento copie numerate a mano. Scelta intenzionale o condizionata da qualche fattore esterno? Seppur recente, il disco è già diventato un cult e su Discogs le quotazioni toccano la punta dei 150 euro.
Quella di “Devozioni Dialettali” è un’uscita stupenda e a cui tengo molto. Rappresenta la collaborazione instaurata con Leo Mas, un grande amico ma pure un enorme punto di riferimento, un autentico faro nel mondo della musica in virtù della sua enorme conoscenza, esperienza e generosità. La pubblicazione di quel remix avvenne molto velocemente, avevamo appena avuto conferma di licenza e Leo aveva realizzato una meravigliosa versione con Fabrizio ed Andrea. Non vedevamo l’ora di condividere quella chicca con amici DJ di tutto il mondo e per questo optai per la tiratura promozionale. La release ufficiale è ancora nel cassetto ed includerà nuove versioni di “Devozioni Dialettali” e di un altro straordinario pezzo di Avitabile.

Pensi che l’emergenza sanitaria possa creare serie ripercussioni a lungo termine in un settore come quello in cui opera Archeo Recordings?
Il 2020 è stato un anno strano, oserei dire l’inizio di una nuova era. Come avvenuto alla maggior parte delle persone, ho avuto più tempo per fare le cose con calma, e questo è fantastico. Non credo che il coronavirus costituirà intoppi nella discografia, a meno che non si rivelino pesanti risvolti economici mondiali, ma voglio rimanere positivo e pensare che riusciremo ad uscire da questo incubo entro l’estate del 2021.

Nel 2020 Archeo Recordings ha messo in circolazione solo un’uscita, “Sfumature” di Fulvio Maras, Alfredo Posillipo e Luca Proietti. Effetto dettato dal coronavirus o altro?
Purtroppo in questi mesi di pandemia ho dovuto modificare le date di pubblicazione di alcune uscite che venivano valorizzate maggiormente grazie a live e DJ set più che dall’ascolto privato e casalingo. Allo stesso tempo mi sono concentrato di più su un certo tipo di release, direi più da ascolto e da collezione, ma di cui vado pienamente orgoglioso. Ho portato avanti tantissimi nuovi progetti anche se è stato piuttosto faticoso a causa delle licenze e del rapporto con artisti e musicisti diventato più difficile a causa della distanza. Giocoforza sono stato costretto a rallentare la frequenza delle uscite ma va bene così, d’altronde cerco sempre di dare il giusto respiro e corso alla fase di creazione di una nuova pubblicazione, dalla licenza alla grafica, dalla scelta del remixer alla confezione finale.

Alicudi
Il mixtape intitolato “Alicudi” recentemente realizzato da Manu Archeo per la Paesaggi Records

Il 2020 ha visto anche la pubblicazione di “Alicudi”, il tuo mixtape edito da Paesaggi Records su cassetta in appena cinquanta copie. Come è nata la collaborazione con questa label?
Sono amico dei ragazzi che gestiscono la Paesaggi Records, un collettivo composto da Stefano e Gianlu nel Valdarno, in Toscana, Zeno (alias Gropina) ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, ed Ale (alias Wutu) a Berlino, in Germania. Stimo molto la label e il loro lavoro. Circa un paio di anni fa mi parlarono di una serie di mixtape intitolata Cosmic Empathy, compilata da diversi artisti col fine di rappresentare un racconto attraverso un’accurata selezione di dischi e foto, senza alcuno stile o regola. Il primo, curato da Wutu, era già uscito e mi chiesero se fossi disposto ad occuparmi del secondo. Il progetto mi è sembrato unico ed infatti ho accettato subito, anche per l’importante parte visiva che si incrocia con la mia attività di fotografo. Ho lavorato a lungo sulla selezione delle tracce, volevo sviluppare l’idea di un viaggio e di un racconto molto personale ed intimo. Dal 1989, anno in cui sbarcai per la prima volta sull’isola di Alicudi, nelle Eolie, fino al 2010, ho fotografato luoghi e persone di quel paradiso. Ho scelto così delle tracce che reputo fondamentali e che spesso mi accompagnano nei momenti più profondi ma pure nei DJ set maggiormente raffinati e da ascolto. Sono molto entusiasta del risultato e del prodotto finale inciso su cassetta, oggetto vintage e retrò accompagnato per l’occasione da un libretto di otto pagine stampato su carta di riso e provvisto di un’accurata grafica che include alcune mie foto fatte naturalmente sull’isola di Alicudi.

Che progetti prevedi di concretizzare su Archeo Recordings nel 2021?
Una manciata di uscite per la serie Tonyism, dedicata a Tony Esposito, e Balearic, una serie inaugurata col meraviglioso rework di “Rosso Napoletano” a firma Mushrooms Project che andrà avanti con un paio di artisti italiani che ammiro moltissimo: Colossius, di Firenze, e il duo perugino Hear & Now composto da Ricky L e Marcoradi che non necessitano di presentazioni specialmente grazie ai due album strepitosi usciti su Claremont 56 tra 2018 e 2020, “Aurora Baleare” ed “Alba Sol”. Adoro il loro sound, etereo, sognante e magico. Colgo l’occasione per annunciare anche il lancio di una nuova serie di compilation, sempre su Archeo Recordings, dedicate a digger, DJ, produttori e musicisti, con perle rare da riscoprire. A seguire altre uscite “classiche” tra cui “Il Canto Dell’Arpa E Del Flauto” di Pepe Maina, di cui ho già ristampato, nel 2019, l’LP “Scerizza”. Maina è un artista unico e talentuoso ma allo stesso tempo umile. Amo il suo stile lo-fi, estremamente accurato e sempre attuale, e sorrido quando leggo la sua biografia: “nessun diploma di conservatorio, nessuna laurea, nessun premio, insomma niente che possa farti credere che fin da piccolo sarebbe potuto diventare qualcuno”. Non ci siamo ancora incontrati di persona e in questo periodo credo sia arduo che ciò possa avvenire. Vive isolato sulle colline fuori Milano ma facciamo regolarmente lunghe e piacevoli chiacchierate via email. È un vero signore ed amo davvero la sua musica. In cantiere ci sono pure un paio di progetti e collaborazioni col caro amico Leo Mas, attualmente sospesi ma a cui tengo molto, una raccolta di materiale inedito tratto dall’archivio degli anni Ottanta e Novanta di Fulvio Maras con un remix (finalmente!) del bravissimo Lexx, un’altra raccolta di brani privati del sopraccitato Pepe Maina con relativi remix, e il 12″ di Sara Loreni intitolato “Neve A Maggio” che includerà quattro remix, due dei Mushrooms Project ed altrettanti a firma Deep88 ed Almunia. Infine il raro e ricercato “Ettika” degli Ettika, affiancato da nuove versioni tra cui una di Craig Christon di Joe’s Bakery. Insomma, sarà un 2021 ricco ed entusiasmante.

Manu Archeo 5
Un ultimo scatto della collezione di dischi di Manu Archeo

È ormai arduo stimare il numero delle cosiddette “etichette di salvataggio”, così come le definisce Simon Reynolds in “Retromania”. Ci sarà un momento in cui l’abnorme serbatoio di musiche del passato risulterà esaurito? Per quanto tempo si potrà andare avanti con operazioni di reissue?
Per me non c’è un limite, si procederà all’infinito. A prescindere da ciò che dice Reynolds, noto con piacere che nascono di continuo nuove “etichette di salvataggio”, e la maggior parte di esse rivela grande qualità e coerenza. Penso che questo sia un punto di forza fondamentale per ognuno di noi e non credo che il repertorio di musiche del passato possa esaurirsi a breve, ci sono così tante perle ancora da riscoprire e valorizzare. L’importante è fare le cose per bene e dare un senso compiuto ad ogni uscita.

L’invasione massiccia di cult di ogni tipo, per decenni fuori catalogo ed ora resi nuovamente disponibili, sta forse alimentando la disaffezione del pubblico per la musica nuova?
No, assolutamente. Sono due settori che vanno di pari passo. Io amo comprare sia ristampe di album o singoli rari del passato, sia nuove uscite. Il mio “serbatoio” ormai è quello balearico quindi rivolgo l’attenzione a questo mondo e ad etichette come le citate Music From Memory, Claremont 56 e Hell Yeah Recordings a cui se ne sommano tante altre del calibro di Music For Dreams, Be With Records, Balearic Social Records, Emotional Rescue, Growing Bin Records, Highwood Recordings, Light In The Attic, Phantom Island, NuNorthernSoul, Séance Centre, Spacetalk e Stroom, giusto per citare le mie preferite. Di queste non mi sfugge mai nulla, le adoro per l’ottima qualità e la profonda ricerca su cose vecchie e nuove.

Ci sono artisti e/o produttori contemporanei capaci di tenere alto il livello creativo come quello che si rimpiange spesso delle decadi passate?
Sì, certo. Non sono un nostalgico incallito e non fatico ad ammirare artisti e produttori contemporanei, validi ed innovativi, in grado di essere al passo coi tempi. Tuttavia credo che nessun musicista di oggi possa essere paragonato a Tony Esposito o Tullio De Piscopo.

C’è una ragione dietro la presunta o reale eclissi di inventiva a cui assistiamo in questi anni? È legata o connessa in qualche modo al calo di introiti della discografia e alla smaterializzazione dei supporti?
Credo che il calo di introiti della discografia riguardi una fetta più di nicchia e legata alla sperimentazione. Per gli artisti più commerciali non è mutato granché.

Estrai dalla tua collezione una serie di dischi a cui sei particolarmente legato aggiungendo per ognuno di essi un’accurata descrizione.

Lucio Dalla - Lucio Dalla LPLucio Dalla – Lucio Dalla
Un album che reputo assolutamente fondamentale, per l’artista (adoro davvero tutto di Dalla), per l’album in sé (contenente alcune delle mie canzoni preferite, in primis “La Signora” seguita da “L’Ultima Luna” e “Stella Di Mare”), e per la copertina: quest’estate sono arrivato al punto di farmi stampare una maglietta con la faccia di Lucio, uguale a quella dell’LP, sognante, enigmatico ed un po’ malinconico. Era un disco che figurava nella collezione di mia madre quindi posso affermare di essere davvero cresciuto insieme ad esso. Un paio di anni fa ho avuto il piacere di visitare la casa di Dalla in via D’Azeglio, ora diventata un museo, nella mia città natale, Bologna. È stata un’emozione unica. Ero con un gruppo di persone sconosciute giacché si trattava di una visita su prenotazione, ma mi sono goduto appieno quel viaggio immergendomi nel mondo musicale e nella quotidianità dell’artista, uno dei più grandi di sempre, come se una parte di lui fosse ancora lì a soffiare la magia della sua poesia. Quando è morto sentivo spesso (e sento ancora oggi) la sua mancanza, come se fosse un componente della famiglia, seppur non l’abbia mai incontrato in vita. “La Signora” è una delle canzoni che mi accompagna praticamente da sempre, la ascoltavo da bambino, da adolescente ed ora da adulto, ed ogni volta mi trasmette qualcosa di unico. Per me sarebbe un sogno poter disporre della licenza di questo capolavoro per farne un’uscita su Archeo Recordings con vari remix. Ci proverò, chissà…

Lucio Battisti - Il Nostro Caro AngeloLucio Battisti – Il Nostro Caro Angelo
Si tratta di un altro disco imprescindibile per la mia crescita, per l’artista ma pure per la copertina. Ci sono altri album di Battisti che metto alla pari di questo, con così tante canzoni fondamentali, ma la copertina de “Il Nostro Caro Angelo” resta eccezionale, forse una delle mie preferite in assoluto, così stravagante e nel contempo essenziale, quasi ghirriana per citare il mio fotografo preferito. A tal proposito suggerisco l’ascolto dello Spazio Palazzo Edit de “La Canzone Della Terra”.

Toni Esposito - Toni EspositoToni Esposito – Toni Esposito
Tra poco potrò affermare di aver pubblicato ben cinque dischi di Esposito sui ventuno totali che sinora conta la mia Archeo Recordings. Se non dicessi di amarlo alla follia mentirei clamorosamente. Ho scelto questo LP edito dalla Numero Uno ma potrei tranquillamente optare per altri due tra i suoi primi lavori, perché lo considero un disco cardine. Fu la colonna sonora della mia fanciullezza, quando imparai a suonare la batteria, dagli otto ai tredici anni, della mia adolescenza e della mia maturità. Adoro le percussioni ed Esposito è il re indiscusso a livello mondiale. In particolare in questo album ci sono alcune delle sue canzoni più belle e significative, a partire da “Rosso Napoletano”, un viaggio di diciassette minuti solcato per intero sul lato A che ti porta su un altro pianeta. “L’Eroe Di Plastica” era (ed è) uno dei miei preferiti, da ragazzo la ascoltavo in loop per ore cercando di capire come Esposito suonasse la batteria per poi provare ad imitarlo con la mia Yamaha nera di allora. L’album uscì nel ’74, anno in cui sono nato. Una coincidenza o una connessione?

Andreas Vollenweider - Caverna Magica - (...Under The Tree - In The Cave...)Andreas Vollenweider – Caverna Magica – (…Under The Tree – In The Cave…)
Scoperto intorno al 1991 grazie alla copia su cassetta che mi fece un caro amico, il suono di questo LP risalente al 1982 mi parve subito familiare, come se fosse sempre esistito. Trascorrevo interi pomeriggi ad ascoltarlo come sottofondo rigenerante delle mie attività giornaliere. “Caverna Magica – (…Under The Tree – In The Cave…)” inoltre mi lega al genere new age / ambient che adoro e seguo con attenzione. “Caverna Magica”, “Mandragora”, “Lunar Pond” ed “Huiziopochtli” sono quelle che preferisco tra tutte. Quanti ricordi, che viaggi dell’anima! Ancora oggi, quando ho bisogno di concentrarmi e far sedimentare un progetto, faccio lunghe passeggiate nella natura ascoltando in cuffia la dolce arpa del Maestro Vollenweider.

Susumu Yokota – SakuraSusumu Yokota – Sakura
Impazzisco per questo album e per tutta l’opera del prematuramente scomparso Yokota. “Sakura”, del ’99, è stato uno scalino essenziale nella mia vita, che mi ha aperto ad un genere nuovo e per me poco approfondito all’epoca ossia l’ambient. Da lì ho sviluppato sempre di più l’orecchio a questa corrente musicale che, recentemente, si è ampliata a tanti sottogeneri ed affini quali organic, meditative, floating o spiritual. Dietro “Sakura” inoltre, risiede tutto il minimalismo giapponese che trovo unico e che ascolto spesso per rilassarmi e fare bei viaggi con la mente e col cuore. “Uchu Tanjyo”, “Gekkoh”, “Kodomotachi”, “Hisen” e “Shinsen” sono tra le mie preferite ma se dovessi ridurre la lista ad una sola forse sceglierei “Uchu Tanjyo”: la uso frequentemente per i mixati commissionati o i radio show nonché nei DJ set “morbidi”.

Peter Gabriel - Passion (Music For The Last Temptation Of Christ)Peter Gabriel – Passion (Music For The Last Temptation Of Christ)
Non c’è molto da dire, il film di Martin Scorsese lo vidi al cinema con mia madre quando, forse, ero ancora troppo piccolo per apprezzarlo appieno. Senza dubbio però mi piacque la sua colonna sonora. Il mio pezzo preferito resta “Of These, Hope – Reprise”, brividi! Di Gabriel adoro pure l’LP eponimo del 1982 con pezzi come “The Rhythm Of The Heat” e “Shock The Monkey” che non mi stancherò mai di ascoltare.

The Cure - FaithThe Cure – Faith
I Cure erano una delle band che preferivo fin da ragazzo e che hanno rappresentato la colonna sonora della mia adolescenza. Questo album del 1981, che avevo su cassetta, annovera “All Cats Are Grey” che per me è basilare. Tra 2006 e 2010 ero DJ resident il giovedì sera al Dolce Vita di Firenze, ed iniziavo a suonare intorno alle 19 andando avanti sino alle 2 del mattino mettendo musica con dischi e CD visto che non era ancora possibile mixare con le chiavette USB. Spesso chiudevo la serata proprio con “All Cats Are Grey” ed era un momento magico.

Bryan Ferry - Slave To LoveBryan Ferry – Slave To Love
Ho selezionato questo 7″ risalente al 1985 perché è uno dei miei preferiti del filone synth pop anni Ottanta (seppur potrei facilmente sostituirlo con un’infinità di altri titoli dell’epoca), ma pure perché per me è il simbolo di tutta quella musica e delle feste a cui partecipavo da ragazzo, in cui ballavamo sfrenati e sudati per intere ore consecutive, senza mai fermarci ed essere stanchi. Negli anni mi è capitato di fare il DJ in feste private tra amici, occasioni in cui non venivo ovviamente pagato ma tornavo a casa felicemente appagato. Era divertimento allo stato puro. Avveniva spesso che nei giorni seguenti al “party casalingo” io e i miei amici, ancora esaltati, ci raccontassimo piccoli episodi avvenuti quella sera, trovandoci tutti d’accordo nell’affermare che fosse stata la “festa perfetta”. Quel raro e non troppo frequente tipo di festa riuscita benissimo derivava da un mix di varie cose come le persone, l’atmosfera ed ovviamente la musica, e il ricordo che mi ha lasciato è indelebile. Gli anni Ottanta restano strabilianti.

Sade - Cherish The DaySade – Cherish The Day
Per me questa canzone da brividi del 1993 è molto importante perché legata al periodo dell’adolescenza e della scoperta del mondo degli amici, della prima fidanzata, delle prime vacanze estive senza genitori e di tutto il filone smooth jazz / downtempo / leftfield. Adoro la voce di Sade, così calda, sensuale ed avvolgente. “Cherish The Day” mi ha sempre fatto pensare ad un essere superiore ed angelico che, volando, accarezza il mondo con la sua voce e ci culla in una morbida ballata. Il sottofondo coi bassi prominenti ed esaltati da Pal Joey nel suo remix poi fa da perfetto contrappunto alla voce e il risultato è sublime e sembra davvero che dica “cherish the day!” (ossia “goditi il momento!”).

Girls On Pills - Vhelade (Ricky Birickyno Update)Girls On Pills – Vhelade (Ricky Birickyno Update)
Acquistato nel 1992 da Riccardino (ho ancora il vinile col mitico timbrino Black Out), questo disco edito dalla Interactive Test di Franco Falsini (intervistato qui, nda) è legato alla mia scoperta del mondo del clubbing e dei DJ, quindi a tutto il filone house e dream house dei primi anni Novanta che mi ha permesso di avvicinarmi all’arte del DJing e di “mettere i dischi” alle prime feste. Ho avuto la fortuna di aver iniziato nell’era del vinile, quando dovevi imparare necessariamente la tecnica del mixaggio oltre a curare la ricerca stilistica dei brani che potevano stare bene insieme.

Kruder & Dorfmeister - The K&D Sessions™Kruder & Dorfmeister – The K&D Sessions™
Questa compilation del 1998 su Stud!o K7 è rappresentativa della mia crescita musicale. Ascoltandola ho realizzato che si potesse fare tutto con la musica, esplorare ed unire terreni diversi ma legati sentimentalmente nel profondo, campionare, tagliare, cucire ed ottenere strepitosi risultati, e in questo Kruder & Dorfmeister sono autentici maestri. A “The K&D Sessions™” collego poi tutto il filone downtempo e trip hop al quale sono legatissimo, con artisti come Tosca, Massive Attack, Tricky e label del calibro di Mo Wax e Ninja Tune. Che innovazione e svolta epocale! Pure la copertina è meravigliosa, così intima ed onirica. Appare chiaro che Kruder & Dorfmeister abbiano fatto le cose che più gli piacessero sin dall’inizio, e i risultati non possono essere che questi. Piccolo aneddoto di cui vado fiero: a novembre 2019 pubblico, su Archeo Recordings, l’EP di Mario Acquaviva. A gennaio 2020 ricevo il solito messaggio di Bandcamp che mi indica l’acquisto del disco e, con grande gioia ed incredulità, scopro che l’acquirente è Richard Dorfmeister. Gli scrivo subito una email in cui gli confesso di essere un suo grande fan facendogli i complimenti per tutto il lavoro svolto. Lui ricambia e mi rivela di aprire spesso i DJ set con “Fortuna”, tratto proprio da quell’EP di Acquaviva. Che onore, una soddisfazione unica per me.

Ozric Tentacles - ErplandOzric Tentacles – Erpland
Mi considero un fan sfegatato (quasi a livello da nerd) della band space rock degli Ozric Tentacles. Scoperti nel 1989 e mai più lasciati, hanno condiviso la mia parte più ribelle, hippie e trasgressiva dell’adolescenza legata ad un periodo di simpatici spinelli condivisi con gli amici. Iniziai ad ascoltare ossessivamente il gruppo britannico sentendolo dal vivo in concerto al Flog di Firenze in più occasioni, ma pure al Livello 57 di Bologna, al Leoncavallo di Milano, a Roma e a Lugano. È sempre stato un viaggio meraviglioso. A novembre del 2010 tornarono in concerto a Firenze al Viper Theatre, quando ero ormai un trentaseienne fatto e finito. Provai a radunare i miei amici “ozrichiani” di un tempo ma con una scusa o l’altra tutti declinarono l’invito. A quel punto pensai: «beh, chi se ne frega, ci vado lo stesso!» e feci bene. Portai con me alcuni dischi nel flight case da DJ per farmeli autografare dai membri della band. L’atmosfera era piacevole e il luogo non troppo affollato, la situazione perfetta per godersi un concerto degli Ozric Tentacles. C’era il banchino con un tizio dello staff che vendeva CD e merchandising vario. Mi avvicinai e con titubanza, prima che lo show iniziasse, tirai fuori i dischi chiedendo se fosse possibile farmeli firmare. Quel ragazzo, estasiato dalla rarità dei miei vinili, mi promise che mi avrebbe portato da loro a fine concerto per conoscerli, e così fu. Scesi nelle stanze degli addetti ai lavori e, aperta una porta, mi si presentarono gli Ozric Tentacles avvolti in una nube di fumo d’erba. Mi firmarono i dischi e mi chiesero il parere sul concerto terminato da pochi minuti. Confessai che avevano eseguito tre o quattro dei miei pezzi preferiti, che meraviglia! Il loro repertorio è pieno di canzoni straordinarie, come “There’s A Planet Here” e “Yog-Bar-Og” (da “Arborescence”, 1994), “It’s A Hup Ho World” (da “At The Pongmasters Ball”, 2002), “Space Between Your Ears” (da “Strangeitude”, 1991), “Feng Shui” (da “Jurassic Shift”, 1993), “Ahu Belahu” e “Plurnstyle” (da “Become The Other”, 1995), “Curious Corn” (dall’album omonimo del 1997), “Sultana Detrii” (da “Waterfall Cities”, 2000), “Waldorfdub” (da “Swirly Termination”, 2000), “Tight Spin” (da “The Hidden Step”, 2000) ed ancora “Slinky” (da “Spirals In Hyperspace”, 2004), “Etherclock” (da “The Floor’s Too Far Away”, 2006), “Oddweird” e “YumYum Tree” (da “The YumYum Tree”, 2009), oltre ovviamente ad “Eternal Wheel” e “Crackerblocks” inclusi in “Erpland” del 1990. Poi le copertine sono uniche, coi disegni di mondi fantastici popolati da strane creature di forma umanoide. Ho praticamente tutto di loro, su vinile e CD (inclusa una maglietta da me disegnata), ed è rimasta l’unica band di cui continuo a comprare ogni disco. Durante il lockdown primaverile ho scoperto che l’amico Alex Egan di Phonica Records, a Londra, – DJ, produttore, musicista nonché boss della Utter – è il figlio di John Egan, storico componente della prima e mitica formazione del gruppo. Gli ho chiesto di salutarmelo come se fosse uno di famiglia e di dirgli che gli Ozric Tentacles li porterò sempre nel cuore.

(Giosuè Impellizzeri)

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M.C.J. Featuring Sima – Sexitivity (X-Energy Records)

M.C.J. Featuring Sima - SexitivityAll’inizio degli anni Novanta molti DJ italiani, suggestionati dalle produzioni house statunitensi e britanniche, cominciano a comporre musica su atmosfere malinconiche, oniriche e in qualche caso esoteriche. In parte riprendono i tipici tratti della house pianistica che porta tanta fortuna poco tempo prima, ma sviluppandoli e rielaborandoli in una variante più deep, secondo una terminologia che va diffondendosi allora per indicare un certo tipo di suono in auge nelle discoteche specializzate in house music. Raramente adottata dai programmatori radiofonici e dai DJ del mainstream perché priva dell’immediatezza del formato “canzone”, l’italo (deep) house, detta anche dream house per le sue caratteristiche armonico/melodiche speculari, fiorisce su schemi meno prevedibili rispetto a quelli della cosiddetta “spaghetti house”, pur adoperando un fonema audio molto simile.

Uno dei brani a dare il la a quel tipo di sfumatura è “Sueño Latino” del progetto omonimo, nel 1989: il battito in 4/4 che interseca le fluttuazioni ambient del corriere cosmico Manuel Göttsching apre scenari inediti ed imprime la giusta evoluzione ad uno stile destinato ad una veloce saturazione visto il boom commerciale, costruito su sample vocali rubacchiati a destra e a manca poi conditi con assoli di pianoforte. Nello stesso anno il team dei Sueño Latino partorisce, ancora per la DFC/Expanded Music, un pezzo dotato della stessa intensità emozionale ma incapace di pareggiarlo in termini di popolarità, “Hazme Soñar” di Morenas. Però non è una disfatta, anzi, le idee sono talmente tante che la riuscita commerciale non è affatto una priorità. Con l’entusiasmo di chi vive un periodo magico ed irripetibile come è stato l’avvento della house e della techno, due componenti di quel gruppo di lavoro, Andrea Gemolotto e Massimino Lippoli, creano un progetto parallelo, M.C.J., che prende alcuni elementi della dream house di “Sueño Latino” e li arricchisce ulteriormente intrecciandoli a riferimenti garage.

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La copertina di “(To Yourself) Be Free”, primo singolo del progetto M.C.J. uscito nel 1990

Il primo risultato arriva nei negozi di dischi nel 1990 e si intitola “(To Yourself) Be Free”. A supportarlo è un’altra consolidata etichetta nostrana, la X-Energy Records di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi. «Ogni nome/progetto era legato a diverse case discografiche, seppur prodotto nello stesso studio e dai medesimi compositori» spiega oggi Gemolotto. «La concorrenza e rivalità tra discografici ci impose di inventare nomi e marchi sempre differenti. In quel caso specifico la vocalist Sima era un’artista della X-Energy, quindi non avremmo mai potuto farle incidere un pezzo per la DFC. Pertanto inventammo una sigla, M.C.J., dove la M stava per Massimino e la C per Cutmaster-G (nome che Gemolotto usa ai tempi delle gare al DMC e per le primissime apparizioni discografiche come “Rock On!” del 1988, nda). La terza lettera invece rimandava alla J di DJ».

Nel 1990 sul mercato giunge un disco con una sigla identica intitolato “Do It”, pubblicato da Severo Lombardoni sulla Out. A realizzarlo, incrociando hip house ed italo house, sono i fratelli Nicolosi, quelli dei Novecento. Come spesso accade ai tempi le omonimie, intenzionali e fortuite, si rincorrono con straordinaria frequenza. Ma torniamo agli M.C.J. di Gemolotto e Lippoli: la versione principale di “(To Yourself) Be Free” è la Warehouse Mix, un chiaro riferimento alla house a stelle e strisce con qualche inserto jazzato, riverberato nella Trumpet Freeze. Suoni più duri si rinvengono invece nella Techno-Cosmic Mix, altro razzo di segnalazione lanciato dalla coppia. A completamento l’acappella, quarantatré secondi usati sovente come intro. Visti gli incoraggianti riscontri i due DJ approntano dei remix a cui si aggiunge la versione di Double J. Flash alias Flavio Vecchi e quelle di Tommy Musto e Frankie Bones, pubblicate pure negli States dalla Fourth Floor Records. È un momento galvanizzante per la house nostrana che ha un “peso” non marginale sulla mappa internazionale.

Palace Recording Studio

Uno scorcio del Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto, ad Udine (199x)

Nel ’91 Gemolotto e Lippoli incidono il secondo singolo di M.C.J., “Sexitivity”, oggetto di ottimi responsi da parte dei DJ house ma anche degli adepti di una certa techno promossa da etichette come Transmat o Warp (a tal proposito si senta la 5 A.M. Mix, che suona proprio come il giusto tributo alla techno detroitiana). «Nei pezzi di M.C.J. non usavamo mai sample a parte quelli vocali delle cantanti coinvolte» prosegue Gemolotto. «Per le sezioni ritmiche impiegavamo una Roland TR-909 ed un Akai MPC60, i suoni invece provenivano da varie tastiere tra cui una Yamaha DX7 ed una Roland Juno-106. Non mancavano librerie sonore tratte da un sampler Akai S1000. Il tutto veniva registrato su nastro a 24 pollici passando attraverso un banco SSL 4000. Il master, infine, era realizzato su supporto magnetico con un registratore Studer A-800 provvisto di Dolby SR, insomma tutto totalmente in analogico».

La storia di M.C.J. si chiude nel ’93 con “I’m Ready (For Your Love)” attraverso cui gli autori si avvalgono di una nuova voce, quella dell’americana Davina Bussey, in quel periodo prodotta da Mike Banks degli Underground Resistance (si senta “Don’t You Want It” su Happy Records, 1992). Sima invece viene (ri)lanciata come artista solista, dopo il poco noto “You Got Me Running” del 1989 prodotto da Julio Ferrarin, attraverso vari singoli tra cui in modo particolare si ricorda “Give You Myself”. Ugolini e Raimondi Cominesi inoltre decidono di pubblicare “I’m Ready (For Your Love)” su una delle etichette più note del gruppo, la D:vision Records, varata nel ’91 e specializzata in house. Sebbene i risultati non siano eclatanti, il pezzo viene ripubblicato negli States dalla blasonata Tribal America di Rob Di Stefano e ciò rimarca ancora la bontà della produzione.

Italo House - Joey Negro

“Italo House” è la compilation curata da Joey Negro che, nel 2014, raccoglie gran parte del repertorio italiano deep house  prodotto nei primi anni Novanta

Il pezzo più noto degli M.C.J. resta comunque “Sexitivity”, riportato in vita da Lippoli (affiancato da Mappa) nel 2014 e selezionato nello stesso anno da Joey Negro per la raccolta “Italo House”, che anticipa il ritorno di fiamma del filone omonimo sulla piazza internazionale, nato in seno alla mania delle ristampe e nell’alveo dei ripescaggi tributativi che celebrano un passaggio stilistico forse passato inosservato ai tempi ed ora oggetto di una esposizione mediatica senza precedenti. «A mio avviso i discografici italiani degli anni Novanta hanno commesso degli errori, specialmente all’inizio di quel decennio, e non sono stati capaci di dare il giusto valore sia a quella corrente musicale, sia ai propri artisti e produttori. Molti di questi, purtroppo, sono finiti immeritatamente nell’oblio. Ma non è tutto: in seguito non hanno nemmeno provato a far riemergere l’italo house, infatti si è reso necessario l’intervento di alcuni stranieri, come Young Marco (con la serie “Welcome To Paradise”, nda) e Joey Negro per riportare in auge quelle tipiche sonorità nostrane» chiosa in chiusura Gemolotto. (Giosuè Impellizzeri)

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1987-1988: la house music arriva in Italia

1987: uno sguardo d’insieme
La musica che i DJ propongono nella maggior parte delle discoteche italiane nel 1987 è legata prevalentemente all’italodisco e al synth pop per i locali di stampo più commerciale, alla new wave, EBM ed industrial per quelli rivolti invece ad un pubblico più settoriale ed incline al rock alternativo. Sull’onda della cosiddetta “afro” lanciata molti anni prima in locali-culto come Baia Degli Angeli, Cosmic, Typhoon, Melody Mecca e Ciak, giusto per citare alcuni dei più noti, non mancano quelli che continuano a selezionare funk, soul e disco ma il panorama appare piuttosto stagnante perché improntato in sostanza sul recupero di materiale datato. Sul fronte rock/pop c’è chi, come Lorenzo Zacchetti in questo articolo, parla del 1987 come «un anno straordinariamente fertile sia sul piano della qualità che su quello della quantità, con le uscite di tutti i più grandi artisti del periodo, di figure emergenti e di diverse meteore». Il singolo più venduto dell’anno, secondo le statistiche di Hit Parade Italia è “La Bamba” dei Los Lobos. Undicesima si piazza Spagna con “Call Me”, prodotta da Larry Pignagnoli, ventiduesimi i tedeschi Off (i futuri Snap! ed un giovane Sven Väth che canta e presta l’immagine pubblica) con “Electrica Salsa (Baba Baba)” seguiti dalla prorompente Sabrina Salerno con “Boys”. Poco più giù “Respectable” di Mel & Kim, col tocco della premiata ditta Stock, Aitken & Waterman, e “Take Me Back” di un’altra bellezza della scuderia cecchettiana, Tracy Spencer. In ordine sparso poi Madonna, Nick Kamen, Rick Astley, Samantha Fox, Pet Shop Boys, Boy George, Level 42, Eighth Wonder, Depeche Mode, Duran Duran e Spandau Ballet. Solo settantaduesimo Den Harrow con “Don’t Break My Heart”, ennesimo singolo messo a segno dalla coppia Miki Chieregato – Roberto Turatti che quell’anno sforna anche “Meet My Friend” ed “Up & Down” di Eddy Huntington. L’italodisco nostrana pare essere giunta però al capolinea, il periodo più ricco di intuizioni, quello che va dal 1983 al 1985 circa, è ormai lontano e la formula di quel filone, ripetuta migliaia di volte e sdoganata in infinite salse, inizia a rivelarsi stantia. Sbirciare in altre classifiche di riferimento dei tempi non rivela grandi differenze: a giugno 1987 i posti più alti della “Superclassifica Show” condotta da Maurizio Seymandi (e dal virtuale DJ Super X) vede artisti come U2, Edoardo Bennato, Vasco Rossi, Zucchero e Whitney Houston. Tra le chart più consultate ai tempi c’è anche quella di TV Sorrisi E Canzoni diretto dal compianto Gigi Vesigna che, proprio nel 1987, tocca la tiratura record di oltre tre milioni di copie settimanali, ma anche lì non si rinviene nulla che riconduca alla “nuova dance music” che pulsa, da circa un biennio, in alcune discoteche statunitensi. Nella DeeJay Parade di Radio DeeJay invece, “Pump Up The Volume”, considerata alla stregua di una traccia spartiacque, entra il 24 ottobre e raggiunge la vetta il 7 novembre per rimanerci un mese.

DJ Parade 7 novembre 1987 (courtesy Maurizio Santi)

La DeeJay Parade del 7 novembre 1987 vede in vetta “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., considerato uno dei primi brani house prodotti in Europa. Foto su gentile concessione di Maurizio Santi

Per buona parte del 1987 quello della house music è un mondo ancora profondamente sotterraneo per gli stessi disc jockey, fatta eccezione per coloro che si tengono aggiornati leggendo riviste estere. Il fatto che ad inizio febbraio “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley conquisti la vetta della chart britannica dei 45 giri (giunta da noi attraverso le pagine del Radiocorriere Tv) non significa molto, neanche nello stesso Regno Unito dove a Top Of The Pops giungono, già l’anno prima, Farley “Jackmaster” Funk e il compianto Darryl Pandy con “Love Can’t Turn Around”, ripubblicata oltremanica dalla London Records. In appena un paio di anni però in Europa cambia tutto, a partire proprio dalla Gran Bretagna dove i M.A.R.R.S., incrociano la sampledelia dell’hip hop coi beat in 4/4 della house e danno la spinta necessaria con “Pump Up The Volume” (a tal proposito si veda questo approfondimento). La house, che all’inizio viene scambiata per una moda passeggera, arriverà a conquistare milioni di giovani e non solo. Cederanno persino gli Style Council di Paul Weller che a febbraio del 1989 portano sul palco di Top Of The Pops “Promised Land”, cover dell’omonimo di Joe Smooth edito nel 1987 dalla D.J. International Records di Rocky Jones, tra i primi brani house prodotti a Chicago a fare fortuna nel Vecchio Continente.

Radiocorriere, classifica 1 ed 8 febbraio 1987

Le classifiche dei 45 giri giunte in Italia attraverso il Radiocorriere (1 ed 8 febbraio 1987): In prima posizione, nel Regno Unito, c’è “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley

La “disco nera degli anni Ottanta” sbarca in Italia
È molto complesso stabilire chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese. La scarsissima reperibilità di fonti impedisce di collocare nomi e date in un contesto preciso e le informazioni tramandate per via orale purtroppo non sempre rispettano e rispecchiano la reale cronologia degli eventi. Comunque, per sommi capi, si può asserire quasi con tranquillità che nella prima metà del 1987 i mass media generalisti (televisioni, radio e giornali) non si siano ancora accorti di quella grande rivoluzione in arrivo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Sarà “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., uscito ad agosto, a cambiare lo status quo e a spalancare nuove prospettive, introducendo anche in Italia per il grande pubblico il termine house music, genere che però, come si vedrà più avanti, necessiterà di circa due anni per assumere una personalità più definita. Inizialmente la house è considerata, come scrive Michele Monti in un articolo apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno ’87 (presumibilmente a novembre) «l’ultima moda che soppianta il rap, l’electro funk e il go-go, cioè tutti i ritmi esotici approdati sulla pista da ballo negli ultimi tempi. A colpi di mezz’ora o di serate intere, la house music sta impazzando in ogni locale che si rispetti e non c’é DJ che non abbia in scaletta i suoi bei dieci minuti di house». Intesa come una sorta di diversivo, la house music è ancora ad uso e consumo di una ristrettissima fascia di DJ che peraltro fatica non poco a reperirla perché gli unici dischi disponibili sono quelli d’importazione, prevalentemente statunitense. Dislocati a macchia di leopardo lungo la penisola ci sono però gruppi di appassionati, DJ e ricercatori di nuove tendenze musicali, che intercettano il movimento house con abbondante anticipo rispetto all’affermazione commerciale e lo supportano in locali o eventi dedicati espressamente. È il caso del Devotion, che prende il nome dal brano omonimo dei Ten City, e de I Ragazzi Terribili a Roma, di cui si parla approfonditamente in questo articolo a cura di Luca Lo Pinto e Valerio Mannucci, dell’Ethos Mama a Gabicce, dove Flavio Vecchi, che allora si fa chiamare Double J. Flash, e Wayne Brown alternano la house all’hip hop e all’r&b come testimonia questo documento audio, o del Macrillo, locale ubicato sull’altopiano di Asiago e diretto dal compianto Vasco Rigoni, dove Leo Mas ed Alfredo Fiorito, reduci di una esaltante stagione estiva all’Amnesia di Ibiza – di cui si parla anche in Decadance Extra -, propongono house per un pubblico che accorre da tutta la penisola. Mas avrebbe poi continuato al Movida di Jesolo, diretto da Enzo Bellinato, fiancheggiato da Fabrice ed Andrea Gemolotto con cui dà avvio a “La Magica Triade”. Un certo interesse è mostrato pure dalle riviste di settore, come Fare Musica, dove appare un’intervista a Larry Levan, o Rockstar, dove invece trova spazio una rubrica di Luca De Gennaro, come scrive Andrea Benedetti nel suo libro “Mondo Techno”. Paolo Di Nola del citato Devotion ricorda altresì un articolo sul Messaggero e una breve intervista mandata in onda la domenica su Rai 3.

Deejay Show (presumibilmente novembre 1987) courtesy of Maurizio Santi

L’articolo di Michele Monti apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno del 1987 (presumibilmente a novembre), tra i primi dedicati alla house music apparsi in Italia. Su gentile concessione di Maurizio Santi

Il successo spiazzante dei M.A.R.R.S. nell’autunno ’87 però, se da un lato aiuta la diffusione nazionale di questo nuovo genere, dall’altro finisce col falsare e compromettere la percezione che il pubblico italiano ha per l’house music che a quel punto viene spacciata come prodotto nato esclusivamente dal campionamento di pezzi altrui. Secondo i detrattori più accaniti, campionare equivale a rubare e la house diventa conseguentemente simile ad un riassemblaggio raffazzonato ad opera di non musicisti messi in condizione, dalla tecnologia, di poter fare musica anche a casa. Emerge così pure il parallelismo tra “house” e “casa” che secondo alcuni si presterebbe in modo inequivocabile a chiarire le origini di quel nuovo genere. A tal proposito, in quelle due pagine apparse su DeeJay Show, il citato Monti si riallaccia a quanto scritto dalla rivista anglosassone Mixmag spiegando che «dietro ogni pezzo house, più o meno famoso, si nascondono i ritmi e le melodie di brani di vecchia disco o di recente dance», elencando pure diversi esempi: «“Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders non è altro che un remix di “I Can’t Turn Around” di Isaac Hayes, “Dum-Dum” dei Fresh “rubacchia” frammenti di “One Nation Under A Groove” dei Funkadelic e di “The Glamorous Life” di Sheila E., “Move” dei Farm Boy ricorda molto “Slave To The Rhythm” di Grace Jones, “Like This” di Chip E. è la copia carbone di “Moody” degli ESG». Poi prosegue dicendo che «le canzoni più saccheggiate in assoluto dalla house music sono “Love Is The Message” degli MFSB, “Let No Man Put Asunder” dei First Choice, “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Moskow Diskow” dei Telex e, incredibilmente, “Happy Children” dell’italianissimo P. Lion». Il ruolo ricoperto specificamente dall’italodisco comunque è fondamentale tanto nella house di Chicago quanto nella techno di Detroit, per ammissione degli stessi artefici e probabilmente ad insaputa della maggior parte dei produttori (e giornalisti) italiani di allora, ma ridurre la house music a qualcosa di passivamente ed ingenerosamente derivativo, così come viene descritto ai tempi, è ingiusto, non solo sotto il profilo creativo ma pure sotto quello tecnico. “Rubacchiare” a destra e a manca e ricollocare con estrema semplicità su telai ritmici programmati da drum machine ree di aver svilito il ruolo dei batteristi in carne ed ossa è solamente una verità apparente, istigata inconsapevolmente dal collage dei M.A.R.R.S. a cui, comunque, va riconosciuto il merito di essere riusciti a creare un brano-patchwork talmente dirompente da diventare una pietra miliare in un particolare momento storico che offre nuove opportunità. Monti include una dichiarazione di Chip E. particolarmente significativa a tal riguardo: «prendere idee da altri dischi non è considerato furto, dopotutto il lavoro del DJ è sempre stato questo, usare pezzi vecchi per creare un sound nuovo e personale». È interessante constatare, ad esempio, che non sia emersa altrettanta indignazione da parte di critici e stampa quando nel 1980 i Queen pubblicano “Another One Bites The Dust” che gira su un basso davvero simile a quello di “Christmas Rappin'” di Kurtis Blow uscito l’anno prima, o quando negli anni Sessanta proliferano decine di cover in italiano di brani angloamericani. Si può forse parlare di rifacimenti di serie A e di serie B, in virtù della funzione da essi esercitata? Le musiche destinate in modo specifico ai locali da ballo sono implicitamente meno valide di altre per il loro uso ludico? L’impressione, quindi, è che si usino due pesi e due misure, così come avviene per gli eccessi del rock/pop, tollerati ed assai meno demonizzati rispetto a quelli di altre culture musicali. A pagina 289 dei libro “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton, la house viene definita come «disco music realizzata da dilettanti. Era l’essenza della disco (ritmi, giri di basso, spirito) ricreata su macchine che erano una via di mezzo tra giocattoli e strumenti musicali da ragazzi, più clubber che musicisti. I DJ, che aspiravano a preservare una musica dichiarata morta, ne avevano creata un’altra dalle sue ceneri». Tale descrizione risulta senza dubbio più appropriata rispetto a tante altre emerse ai tempi, probabilmente indotte anche da un forte e radicato scetticismo nei confronti della novità.

La house nei club dello Stivale: le testimonianze

Lazio
Il grande pubblico scopre la house coi M.A.R.R.S. ma in Italia esistono luoghi in cui quel tipo di musica viene proposta già da qualche tempo, seppur senza particolar clamore. Il più delle volte l’unico modo con cui scoprire tali “raduni” è il semplice passaparola. Roma, ricordata più frequentemente per il suo ruolo primario nella fase rave giunta qualche anno dopo con l’esplosione della techno, ha ricoperto una posizione altrettanto importante per la house specialmente in riferimento al Devotion, nato come associazione culturale su iniziativa di un gruppo di amici tra cui Alessandro Gilardini, oggi giornalista per il TG5, e Paolo Di Nola, DJ, che racconta: «L’house entrò molto presto nel mio mondo, direi anche prima che ci fosse un termine per definirla in Italia, considerando l’ascolto di dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Hypnotic Tango” di My Mine o “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, tutti incorporati nelle scalette dei DJ che sono passati alla storia dell’house music. Nell’inverno del 1981 trascorsi un periodo dell’ultimo anno di liceo a New York, nel quartiere di Canarsie a Brooklyn per l’esattezza, prevalentemente popolato dalla comunità italoamericana e dove risiedeva parte della mia famiglia paterna che ebbe la possibilità di ospitarmi. Furono i miei compagni di scuola, quelli più intraprendenti che passavano le notti dei weekend in città facendo breakdance, ad introdurmi ai dancefloor dei club di New York dove si potevano già ascoltare esempi di proto house e musica dance prodotta prevalentemente mediante strumenti elettronici, ma con una radice più soul e disco rispetto alla new wave europea. I primi dischi house li acquistai a New York negli anni successivi in negozi come Vinylmania e Rock And Soul, veri e propri templi del vinile dove lo staff era incredibilmente ferrato musicalmente ed addirittura in grado di riconoscere pezzi da me fischiati o a malapena canticchiati nel tentativo di riprodurli, non conoscendone i titoli. Le prime tracce house da me collezionate furono gli ormai diventati classici della Trax Records come “Washing Machine” di Mr. Fingers, “Acid Tracks” dei Phuture e “Baby Wants To Ride” di Frankie Knuckles a cui si aggiunsero le prime cose su Easy Street Records come “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe nonché i dischi su State Street Records tra cui “Face It” di Master C & J e “Can’t Get Enough” di Liz Torres. Oltre a tantissima disco, tipo “Is It All Over My Face” dei Loose Joints ed altre stampe su West End Records, Salsoul Records e Prelude Records. L’impatto e la successiva infinita storia d’amore con quella che per definizione viene chiamata house music si consumò nei club gay di New York come Paradise Garage, The Choice, Tracks, Roxy, The Loft, Sound Factory ed anche in locali londinesi come l’Heaven. I primi DJ da me seguiti, propugnatori dell’house music, furono black, latino, gay e lesbian, ma gli stessi club erano spesso gestiti da personale LGBTQ e il dancefloor era quello che oggi viene definito “safe space” ovvero uno spazio in cui poter esistere liberi da ogni discriminazione. Tutti questi elementi, per me, sono inscindibilmente legati alla radice della house music. Questa è stata la scena che mi ha forgiato e a cui tuttora porto massimo rispetto e dedizione.

il pubblico del Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Il pubblico del Devotion (Roma, 1987) in una foto scattata da Federico Del Prete, gentilmente concessa da Paolo Di Nola. A sinistra c’è Vincenzo Viceversa

Per quanto riguarda l’Italia, nel 1987 c’era sicuramente l’intero pubblico del Devotion ad apprezzare quelle sonorità tra cui moltissimi DJ noti della scena romana che venivano a ballare. Noi, col nostro club, fummo i primi a proporre quel tipo di programmazione after hour nella capitale e nell’intera regione, con un’intera scaletta fatta esclusivamente di house music e disco, nonché ad introdurre un certo tipo di “attitude” nella vita notturna, slegata dal solito modello delle VIP room, tavoli riservati e bottiglie di alcolici in vendita per centinaia di migliaia di lire. La nostra fu una scelta talmente radicale per quegli anni che l’unico club che ci aprì le porte fu il Life 85, la cui capienza raggiungeva le appena duecento persone ed era fuori da ogni circuito. Nell’arco di un paio di settimane appena il successo della serata fu talmente eclatante che per la seconda stagione ci spostammo al Parco del Turismo in una mega tenda geodetica che, puntualmente ogni weekend, si riempiva di gente fino all’orlo. Io e i miei colleghi DJ, Marco Militello ed Alessandro Gilardini, viaggiavamo a turno per comprare i dischi direttamente a New York, assicurandoci così musica non ancora uscita in Europa, cosa che ci permetteva di mantenere uno standard alto nell’esclusività musicale. Poi molti DJ seguirono le nostre orme, alcuni con enorme successo, ma credo che Marco Moreggia con I Ragazzi Terribili sia quello che abbia preservato meglio la purezza e lo spirito di ciò che intendevamo fare noi.

la tessera del Devotion (courtesy Paolo Di Nola)

La tessera del Devotion (1987). Su gentile concessione di Paolo Di Nola

Al di fuori del Lazio, l’unico altro posto in cui sentii suonare per intero un set di house music ad inizio ’87 fu Napoli, dove c’erano alcuni ragazzi di colore che svolgevano il servizio militare nelle basi NATO limitrofe e si dilettavano a fare i DJ. Sfortunatamente non ho mai avuto il piacere di incontrarli, li avrei ringraziati personalmente per gli splendidi set. Ricordo con affetto anche il contingente umbro, con Vincenzo Viceversa e Ralf che, sulle orme del Devotion, lanciarono serate house a Perugia e dintorni. Io stesso fui ospite in un’occasione allo storico locale Norman durante una serata chiamata “Big Party”. Come raccontavo prima, in quel periodo compravo la maggior parte dei dischi a New York e Londra. Mi recavo lì solo per comprare vinile, partivo con valigie vuote che tornavano strapiene. Il mio budget però era talmente scarso che passavo intere settimane mangiando solo barrette di cioccolata o al massimo un trancio di pizza una volta al giorno, pur di risparmiare soldi per comprare dischi. Credo fossi uno dei DJ più magri al mondo ma in realtà la cosa funzionava a mio vantaggio perché in quegli anni per fare clubbing ci si vestiva in spandex e lycra come i ciclisti. Quando poi arrivarono dischi house a Roma cominciai a comprare pure nei negozi specializzati per DJ nella capitale. Spesso però la disponibilità era legata a poche copie e puntualmente con un paio di settimane di ritardo rispetto al resto d’Europa, per cui bisognava darsi da fare velocemente per trovare i pezzi nuovi ed era fondamentale fare amicizia coi negozianti altrimenti si restava a mani vuote. Eravamo abbastanza competitivi e quando alcuni dei titoli che suonavamo al Devotion divennero reperibili, li compravamo in blocco. Credo di avere ancora copie sigillate di “Devotion” dei Ten City nella mia collezione, alcune le ho regalate durante qualche serata nel corso degli anni.

Il Devotion mi diede la possibilità di fare il salto da “bedroom DJ” a “professional DJ”, fu la piattaforma e il momento ideale per proporre quel tipo di suono. Il nostro pubblico era estremamente eterogeneo ma il nucleo di chi ci seguiva religiosamente era un gruppo di persone, prevalentemente LGBTQ, provenienti dal mondo dell’arte e della moda, e questo facilitò l’introduzione del nostro concetto essendo loro già esposti a quel tipo di sonorità e modo di fare clubbing più internazionale. Dal primo istante in cui poggiai la puntina sul disco capii che questo suono avrebbe conquistato la mia città, la reazione fu a dir poco euforica, come se tutti finalmente avessero trovato il groove ideale per esprimersi liberamente. I pochi increduli cambiarono velocemente opinione e finirono anche loro sul nostro dancefloor. Nel 1987 il termine “house” era comunque un’assoluta novità, i mass media a copertura nazionale solitamente aspettavano (ed aspettano) lunghi periodi prima di convalidare un nuovo fenomeno. Dare spazio a linguaggi diversi comporta dei cambiamenti e in Italia l’introduzione di nuove idee non è necessariamente premiata. Forse ora le cose sono cambiate, non saprei dirlo con certezza perché ho lasciato l’Italia oltre venti anni fa, ma in quel momento l’insieme dei mezzi di comunicazione di massa era un circolo chiuso. La stampa musicale italiana in quegli anni era ancora prevalentemente interessata al rock e la maggioranza delle radio passava dischi da classifica, in molti casi ancora italodisco ed eurodisco. Solo in seguito al grande successo commerciale l’house suscitò attenzione nel nostro Paese, altrimenti sarebbe restata un fenomeno marginale. Io ascoltavo Radio Città Futura che trasmetteva a Roma e nel Lazio, e fu proprio così che conobbi Marco Militello, mio collega DJ e cofondatore del Devotion insieme ad Alessandro Gilardini che conduceva una trasmissione insieme a Marco Boccitto in cui proponevano un repertorio disco, soul, afrobeat e, occasionalmente, proto house. La maggior parte del pubblico comunque è arrivata alla house music tramite “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. o “Ride On Time” dei Black Box, pezzi che personalmente ho trovato banali ma che hanno formato l’orecchio dozzinale della grande maggioranza della gente.

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (Roma, 1987) in uno scatto di Federico Del Prete

Comunque è risaputo che le masse non siano depositarie di gusti sofisticati, e questo avviene non solo in Italia. La prima house, per definizione, venne coniata a Chicago, ed è quella a rappresentare la matrice originale del genere musicale. Racchiude in sé lo zeitgeist della propria generazione e il linguaggio del tessuto sociale da cui proveniva. Nella composizione dei primi brani non erano presenti molti campionamenti perché in quegli anni avere un campionatore a disposizione in un home studio non era così comune. Le tracce erano scarne ma era proprio questa l’innovazione e la forza sonora dell’estetica house, l’impatto di quel suono minimale ad alto volume era molto più diretto ed efficace rispetto alla dance prodotta precedentemente. La musica concepita dai DJ, inoltre, deriva spesso dalla sovrapposizione di suoni, ritmi e melodie, che poi è quanto accade in fase di mixaggio. L’uso del campionamento non è altro che il “riadattamento” della stessa tecnica in studio di registrazione. L’importante è la creatività applicata al metodo e Steve Reich ha cambiato il concetto di musica proprio tramite questo procedimento. Ora come ora, con l’uso del computer, ci sono intere generazioni di musicisti che usano solo manipolazioni audio con risultati eccellenti, l’importante è mantenere sempre una mente aperta rispetto all’innovazione, credo sia proprio ciò ad aver alimentato e mantenuto vivo lo spirito della house nella miriade di mutazioni a cui è andata incontro. Da non dimenticare un altro fattore: la house fu un fenomeno importato nel nostro Paese e come spesso accade in queste situazioni, gran parte della radice culturale viene persa durante l’assimilazione o reinterpretata non sempre nella maniera più corretta. Fu difficile replicarne fedelmente l’essenza perché la house non era solo una tipologia di musica ma un universo e stile di vita per intere comunità di persone. Inoltre, come in tutti i casi in cui si manifesta un grande ed immediato successo economico, entrarono in gioco gli imitatori nel tentativo di replicarne la formula magica. Poi c’era anche il problema degli studi: fare musica non era accessibile come oggi, bisognava avere un equipaggiamento tecnico difficile da reperire, costoso, si doveva conoscere il linguaggio MIDI e bisognava fare i conti con ingegneri del suono che raramente lasciavano carta bianca agli artisti. L’onda creativa avvenne dopo l’impatto commerciale, quando i DJ house italiani si dedicarono a suoni più deep, parallelamente all’avvento della techno, e ciò spinse l’house verso territori più underground e più melodici. Fu proprio tramite il vocabolario più familiare della melodia che gli italiani riuscirono spesso a distinguersi, trovando il giusto terreno per reinterpretare e fare proprio questo stile di musica».

Tra i DJ del Devotion, insieme a Paolo Di Nola, c’è anche il citato Marco Moreggia, uno dei fondatori de I Ragazzi Terribili, un gruppo di giovani attivisti che crea eventi a base di musica dance alternativa: «Iniziai ad organizzare serate nel 1985 ma frequentavo i locali sin dal 1978 e credo di aver vissuto la parte migliore della dance» racconta oggi. «La nuova “ventata musicale” per me giunse alla fine del 1986 e brani come “Move Your Body” di Marshall Jefferson o “Work It To The Bone” dei LNR mi fecero scorgere un mondo del tutto inedito. L’unico posto dove ebbi occasione di ascoltare un intero set di quel nuovo sound fu al Life 85, durante una serata del Devotion. In quel posto riecheggiavano pezzi come “Bring Down The Walls” di Robert Owens, “Taste My Love” di House To House, “I’m A Lover” di Kym Mazelle, “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, “In The City” di Master C & J, “Someday” di Ce Ce Rogers, “Mystery Of Love” di Mr. Fingers, “If You Should Need A Friend” dei Blaze e “Devotion” dei Ten City, giusto per citarne alcuni. Parallelamente al Devotion, nell’estate del 1987, con I Ragazzi Terribili allestimmo il parcheggio del Castello di Maccarese trasformandolo in un club house all’aperto, tutti i sabato. Con orgoglio posso affermare che le prime serate a base di house music, unite all’esigenza di trovare nuovi spazi che non fossero le classiche discoteche, partirono da Roma. Nonostante sia durato per solo due stagioni, il Devotion ha lasciato un segno molto forte. Al citato Life 85 facevano una selezione assai ferrea, la gente che voleva entrare era tantissima e quindi l’organizzazione si spostò presto all’Euritmia, una location dalla capienza maggiore e il primo spazio a prendere le distanze dai soliti club del centro della città, con particolare cura dell’impianto, delle luci, del bar e di tutto il resto, al punto da spronare le persone a macinare un bel po’ di chilometri per raggiungere il posto (in un periodo in cui spostarsi era tutt’altro che usuale) e vivere la serata in modo diverso. Poi, purtroppo, la situazione sfuggì di mano.

line up (I Ragazzi Terribili)

Documento di una delle serate organizzate da I Ragazzi Terribili

Noi, come I Ragazzi Terribili, prendemmo un vecchio dancing creando un pre-serata, altra cosa del tutto nuova perché in quel periodo se non erano minimo le 2:00 non si andava da nessuna parte. Il periodo della Riviera nacque pochi anni dopo ed affini al nostro stile c’erano DJ come Ralf e Flavio Vecchi coi quali ho poi instaurato un lungo rapporto sia d’amicizia che professionale. Personalmente ho cominciato a fare il DJ nel 1988 al Dream nato dalle ceneri del Saint James, primo locale gay in Italia, gestito poi da I Ragazzi Terribili. Mi considero un privilegiato perché entrai in quel mondo da una porta prioritaria, essendo una serata che curavo insieme al mio team. Il pubblico mi conosceva come organizzatore ma non era scontato che mi accettasse, come poi fortunatamente è successo, nel ruolo di DJ che in quel periodo era una figura molto territoriale. Il Dream era un piccolo club ma nonostante ciò lanciò i “fuori orario”, detti anche after hour, perché apriva alle 23:00 e chiudeva alle 11:00 (e a volte persino alle 12:00!) del mattino seguente. Ogni sabato, quindi, mettevo musica per circa dodici ore consecutive. Allora compravo i dischi a New York, da Vinylmania, Dance Tracks ed altri negozi nel Village dove mi recavo regolarmente diverse volte l’anno. A Roma arrivava poco e niente, solo i titoli più commerciali, quindi se volevi un certo suono te lo dovevi letteralmente andare a prendere, investendo parecchi soldi. A New York andavo per comprare i dischi e per farmi avvolgere da quella energia che solo lì potevi cogliere andando nei club a sentire dal vivo quei DJ che poi erano i produttori dei dischi stessi che mettevo alle mie serate. Ebbi la fortuna di assistere all’ultima performance di Larry Levan al The Choice insieme ad altre cinquanta persone, fu una serata memorabile. Nel biennio ’87-’88 gran parte della stampa italiana cominciò ad interessarsi all’house music, ma per molti giornalisti fu solo un modo per parlare di ecstasy e non di musica e della rivoluzione che quella stava portando nel mercato discografico. Da un certo punto in poi, quindi, ho proibito l’ingresso con macchine fotografiche e videocamere alle mie feste, per evitare che gli ospiti si ritrovassero coinvolti in articoli compromettenti. È giusto ricordare però che non tutti i giornalisti volevano fare notizia sbandierando l’uso di droghe. A tal proposito feci una lunga intervista con Enrico Lucherini che rappresentava in modo eccelso l’ufficio stampa del cinema sulle pagine de Il Messaggero. A seguire una rubrica sulla stessa testata di Pietro D’Ottavi ed un’altra, neonata, sul Trovaroma curata da Stefano Cillis, i quali seguivano tutto con molto interesse e professionalità. Le radio invece arrivarono dopo.

Marco Moreggia al Coliseum (1990)

Marco Moreggia in consolle al Coliseum (1990)

A cavallo degli stessi anni a Chicago nacque l’acid house che prese presto piede a Londra ma anche noi a Roma, con I Ragazzi Terribili, la proponemmo con molto successo. Nel 1988 Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito, bandì dalle radio la programmazione di brani acid house ed era persino proibito indossare indumenti che avessero il simbolo dello smile perché rievocava l’uso di ecstasy e degli acidi. Proprio quell’anno tornai a Londra (dove avevo vissuto sino al 1985, quando la musica era focalizzata sul dark, new wave e new romantic) e all’uscita di un locale vidi un gruppetto di amici. Gli andai incontro per salutarli e da lontano mi fecero gesti per bloccare il mio entusiasmo perché nelle immediate vicinanze c’era una camionetta della polizia. I poliziotti erano lì per controllare se qualcuno rivelasse, col proprio atteggiamento, di aver assunto sostanze stupefacenti. In tal caso lo avrebbero portato in caserma. Da lì a breve, come reazione a questo clima di repressione, nacquero i rave. Inizialmente l’house non venne presa sul serio da molti e solo una ristretta nicchia di persone capì il grande potenziale di quel nuovo genere. I giudizi ricorrenti erano sempre gli stessi, come “ma che musica è questa?” o “sembra tutta uguale!”, e l’attenzione di molti si limitò giusto ai brani più commerciali. Mancava insomma il voler approfondire la vastità delle produzioni, la ricerca del suono e la presenza di grandi voci emerse in quel momento storico. Purtroppo lo snobismo musicale che prima toccò altri generi fu riservato anche alla house, c’era addirittura chi ne decretò la morte già nel 1990, facendoci subito dopo la propria fortuna. Ci volle qualche anno prima che i produttori nostrani iniziassero a produrla, io stesso necessitai di tempo per assimilarla. Mi sentii pronto per fare il primo passo in discografia solo nel 1991, quando uscì “I Know Love’s On Earth” del mio progetto Three-Bu. Tra i maggiori impedimenti senza dubbio quello dell’assenza cronica di cantanti, tuttavia sono convinto che quella italiana resti una grande scuola di DJing che ha mantenuto una forte dignità artistica e che non è seconda a nessuno».

Emilia-Romagna
La house music viene irradiata con tempismo anche in Emilia-Romagna, una delle regioni cardine del clubbing italiano. Autorevole testimonianza giunge da uno dei DJ capostipiti, Flavio Vecchi: «Non rammento esattamente il momento preciso in cui entrai in contatto con la house music, ricordo che correva il 1986 e suonavo al Kinki di Bologna. Conobbi quel nuovo genere attraverso delle musicassette che un amico mi spediva da New York. Erano registrazioni di un programma radiofonico, credo su Kiss FM, che si collegava in diretta col club Zanzibar a Newark, in New Jersey, dove suonava Tony Humphries. Insieme ad un ristretto gruppo di amici, iniziai quindi ad ascoltare house music e da lì a breve cominciò la caccia ai titoli. Il primo disco house che comprai fu “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe, a seguire quelli della Trax Records come “Move Your Body” di Marshall Jefferson, “Let’s Let’s Let’s Dance” di Keynotes, “Tell Me (That You Want Me)” di West Phillips, “House Ain’t Givin Up” di BnC e “Go Bang” di Dinosaur L. Nel negozio che frequentavo, il Disco D’Oro di Bologna, arrivava un magazine quindicinale chiamato Echoes sul quale venivano pubblicate le prime underground house chart: consultavo con attenzione quelle classifiche insieme ad Achille ‘Aki Tune’ Franceschi (che lavora ancora lì!) il quale ordinava tre o quattro copie di quei titoli che ci parevano i più interessanti. Poi aspettavamo con ansia che arrivassero per poterli proporre durante le serate. I miei primi dischi house li comprai proprio al Disco D’Oro ma quando, nell’estate del 1986, iniziai a suonare in riviera cominciai ad andare pure al Disco Più di Rimini. Non mancavano viaggi a Londra, da dove tornavo con dischi non ancora reperibili in Italia. Non ero certamente l’unico DJ in Emilia-Romagna ad interessarsi di house music ai tempi, ma come dicevo prima il gruppo era veramente circoscritto a cinque o sei persone. Non conoscevo la realtà al di fuori della mia regione perché la mia attività da DJ non mi consentiva ancora di viaggiare per l’Italia, ma quando aprimmo le porte dell’Ethos Mama di Gabicce, nel 1987, mi resi conto di essere assolutamente un pioniere di quella nuova musica, come del resto lo era l’Emilia-Romagna. Lo capii perché nell’arco di breve tempo all’Ethos Mama veniva a ballare gente proveniente da tutto il Paese.

Ethos Mama Club

L’ingresso dell’Ethos Mama Club

Iniziai a suonare i primi dischi house nel 1986 al Kinki di Bologna e qualcosa alla Villa Delle Rose di Riccione, durante l’estate dello stesso anno, dove proponevo anche soul, r&b ed hip hop visto che in circolazione non c’era ancora molta house che mi piaceva. Ricordo reazioni positive da parte del pubblico e a tal proposito rammento un pensiero che feci: una volta che il pubblico “assaggiò” il nuovo tipo di cassa, dimostrando di gradirla, non sarebbe più stato possibile non offrirgliela più. Era una specie di punto di non ritorno e in effetti è stato proprio così visto che dopo pochi anni anche artisti pop iniziarono a pubblicare remix realizzati da DJ e produttori provenienti dal mondo house. Tra 1987 e 1988 comunque le uniche informazioni sulla house underground le reperivo sempre e solo al Disco D’Oro dove Achille riusciva a far arrivare con regolarità diverse riviste musicali inglesi ed americane dove venivano riportati nuovi titoli e nomi di produttori e DJ da tenere d’occhio. L’Italia ci mise un po’ per capire cosa fosse l’house music, semplicemente perché si trattava di un genere non nato entro i nostri confini. La mia prima collaborazione in una produzione house risale al 1990 (“House Of Calypso” di Key Tronics Ensemble Featuring Double J. Flash, nda) a cui seguirono parecchi dischi tra ’91 e ’92 alcuni dei quali sono ora considerati dei classici (cito fra tutti il Vol.1 e il Vol. 2 di Riviera Traxx, prodotti e composti insieme a Ricky Montanari e Kid Batchelor). Conservo ancora trafiletti di riviste britanniche e statunitensi in cui vennero citate le nostre produzioni, e recentemente alcuni nostri brani sono stati ristampati o inseriti in nuove compilation, a testimonianza che noi italiani imparammo presto e bene a comporre house music di buon livello».

Il citato Achille Franceschi (meglio noto come Aki Trax o Aki Tune) è un altro dei primi DJ, in Emilia-Romagna, a proporre house music. «La scoprii per caso. L’assoluta scarsità di informazioni in merito non permetteva infatti di capire esattamente cosa fosse» racconta oggi Franceschi. «Nella tarda primavera del 1986 iniziai a comprare dischi da Groove Records, a Londra, e la maggior parte riportava la scritta “house of Chicago” in copertina. La cosa mi incuriosì e da lì a poco mi resi conto che stessi suonando, inconsapevolmente, house music. Nell’arco di pochi mesi acquistai decine di quei mix, quasi tutti provenienti da Chicago. I miei preferiti? “Mystery Of Love” di Fingers Inc., “Your Love” di Frankie Knuckles, “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Free Yourself” di Virgo. Iniziai a proporli al Lilì Marleen di Misano Adriatico (poi trasformato in Vae Victis ed Echoes) e al Graffio di Modena, supportato dall’entusiasmo del pubblico. In Emilia-Romagna c’erano anche altri DJ interessati come me a quel fenomeno musicale, Maurizio Tangerini, Flavio Vecchi, Pier Del Vega e Renzo Master Funk. In quel periodo la house era un fermento totalmente sotterraneo. Il successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. poi aprì la strada a produzioni più commerciali che nel giro di un paio di anni, a mio parere, snaturarono del tutto l’essenza della stessa house music».

Concerto di Afrika Bambaataa, foto di Marinella Mattioli

Il biglietto del concerto di Afrika Bambaataa organizzato da Il Graffio (dall’archivio personale di Marinella Mattioli)

Un paio di anni prima che la house music giungesse in Italia, a Modena apre un locale “di educazione all’intrattenimento”, così come lo descrive uno dei fondatori, Alessandro “Jumbo” Manfredini, in questo breve articolo di Laura Solieri del 3 settembre 2012. Appartenente al circolo Arci, il Graffio diventa in breve un ritrovo giovanile dove sperimentare allestimenti, proiettare film e proporre musiche alternative come hip hop ed house. «”Devotion” dei Ten City era uno dei pezzi che riempiva di più la pista del Graffio» ricorda oggi Manfredini, che in quel periodo milita nella band dei Ciao Fellini. «Fu la mia palestra coi maestri Maurizio Tangerini ed Achille Franceschi alias Aki Trax, un posto per anime libere e scevre da ogni preconcetto nei confronti di nuovi sound, che rappresentava una situazione abbastanza anomala almeno in Emilia, visto che in riviera alcuni DJ, come Renzo Master Funk, avevano già dato il loro contributo alla causa house. Ai tempi attivammo i contatti anche con altre realtà attraverso la sigla O.N.U. (acronimo di One Nation Underground) creando un circuito di locali “alternativi” dove poter trovare un’offerta musicale diversa dal mainstream. La house però era ancora per pochi, e dischi di quel genere ne arrivavano in quantità ridotta. I miei punti di riferimento erano l’American Records di Roberto Attarantato e il Disco Inn di Fabietto Carniel. Nel 1987 l’uscita di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. aprì sicuramente gli orizzonti a molte persone seppur la culla della house fosse Chicago e non Londra, ma all’inizio in pochi capirono l’importanza di questo genere nato in America. Probabilmente vi era un’incapacità diffusa di interpretare la portata e la potenza culturale che poi quella musica avrebbe avuto. Non a caso per prendere dimestichezza con la house, i produttori italiani impiegarono del tempo perché non era in linea col percorso, sia creativo che di business, dell’italodisco che in quel momento imperava ancora».

Il Graffio (1986), allestimento dedicato al surrealismo, foto di Ernesto Tuliozi

L’allestimento dedicato al surrealismo allestito al Graffio nel 1986. Foto di Ernesto Tuliozi, gentilmente concessa da Alessandro Manfredini

Originario dell’Emilia-Romagna, seppur trapiantato da anni nel Lazio, è pure Maurizio Clemente, produttore del documentario “Italo House Story” (di cui si è fatto cenno qui) che mette ordine, in tempi non sospetti, nella storia della cosiddetta spaghetti house nostrana. «Conobbi la musica house nel 1987 circa, grazie agli amici DJ Ricky Montanari e Cirillo e alle registrazioni in cassetta di vari radio show newyorkesi, come quello di Tony Humphries allo Zanzibar. Un paio di anni più tardi approcciai anche alla discografia grazie all’amicizia con Kid Batchelor e Giorgio Canepa alias MBG. Lavorare nel campo della musica è sempre stato il mio sogno quindi fui coinvolto praticamente all’istante sia grazie a Batchelor, col quale andai negli studi londinesi della Warriors Dance (dove, tra l’altro, i Soul II Soul incisero la loro hit “Keep On Movin”), sia grazie ad MBG che aveva un piccolo studio di registrazione, pilotato dal Commodore 64, con cui alimentava una label distribuita da Severo Lombardoni, la MBG International Records. Su quella label nel ’90 uscì “The Chance” di Optik, un disco realizzato a quattro mani dallo stesso MBG e Montanari a cui collaborai pure io, in un secondo momento, come business manager. Conclusi una licenza esclusiva in Belgio con la Dancyclopaedia negoziandola con Rudy De Waele, oggi autorevole figura della cultura digitale.

Cirillo e Ricky Montanari (1989) courtesy Maurizio Clemente

Cirillo e Ricky Montanari nel 1984 a Berlino, durante un viaggio all’estero per comprare dischi (foto gentilmente concessa da Maurizio Clemente)

Col tempo la mia attività si irrobustì: nel ’92 fondai la Causa Effetto Italia e le etichette Zippy Records e Rena Records a cui fece seguito, nel 1994, la Nite Stuff, col supporto della Flying Records di Napoli. La società campana poi mi affidò pure il ruolo di A&R della UMM, affiancando Angelo Tardio e Giuseppe Manda. Facendo un passo indietro rispetto a tutto ciò però, ritengo che il citato Lombardoni della Discomagic sia stato un personaggio chiave per la house made in Italy di quegli anni. Senza di lui non ci sarebbe stata la diffusione della piano house in Europa e nel mondo intero. In Emilia-Romagna la prima House Convention venne organizzata al Tino di Massa Lombarda nel 1987, poi ripetuta all’Ethos Mama di Gabicce Mare. I primi underground house party, che non erano neanche organizzati in discoteca, però risalgono al periodo 1989-1990.

House Sound Convention II (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer della seconda House Convention svoltasi al Tino di Massa Lombarda (provincia di Ravenna) l’11 novembre 1987 (su gentile concessione di Maurizio Clemente)

A Rimini c’erano diversi giovani DJ che cercavano di emergere da quel sottobosco perché non trovavano spazio nei generi musicali in auge allora promossi dalle radio. Nel movimento underground era in voga anche la “afro” del Cosmic di Verona (oggi associato erroneamente all’italodisco) e de La Mecca. I DJ di riferimento erano Peri, T.B.C. (Claudio Tosi Brandi), Daniele Baldelli, Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli, Rubens, L’Ebreo e Spranga. I primi party in assoluto che organizzammo con la house però erano vuoti, ma la gente cominciò presto a capire questa musica e ad apprezzarla fino a riempire anche i club della collina di Riccione che all’inizio erano piuttosto riluttanti. Dopo le difficoltà iniziali noi appassionati e promotori cavalcammo questo genere musicale come un cavallo di Troia per entrare nel mercato dei club mediante i DJ resident dei locali più famosi di Rimini, visto che la house iniziò ad essere richiesta dal pubblico in tutte le discoteche e non più solo in quelle specializzate. I primi DJ che ho fatto ingaggiare a Londra, ad esempio, suonavano all’Echoes di Gabicce. Ai tempi non era facile seguire i trend di tutto il mondo e per questo ero spesso in viaggio per conto dei proprietari ed art director delle discoteche con cui collaboravo (Gianluca Tantini dell’Ethos, Gianni Nistico del Peter Pan, Gianni Fabbri e Renato Ricci del Paradiso, Pascià e Pineta, Luca Carrieri del Cellophane) proprio per intercettare nuove tendenze musicali. Allora non c’era internet, le uniche fonti di informazione erano il telefono e la stampa di settore, principalmente straniera. Sapevamo che a Roma ci fosse un movimento house intorno al Devotion di cui si parlava tanto anche perché gli organizzatori invitavano artisti come guest dagli Stati Uniti. Noi li seguivamo sperando di poter replicare, un giorno, quelle proposte artistiche internazionali anche in provincia, magari organizzando un unico tour nazionale ed agganciandoci a Roma per dividere le spese, visti soprattutto gli alti costi dei biglietti aerei. A dare spazio alla house music prima dell’esplosione commerciale furono diverse emittenti radiofoniche locali che riuscivano ad avere ospiti in esclusiva come ad esempio i Ten City che io stesso portai in una piccola radio di Riccione di cui non ricordo più il nome.

House Sound Convention III (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer (gentilmente concesso da Maurizio Clemente) della terza House Convention svoltasi presso l’Ethos Mama Club il 24 dicembre 1987. In evidenza, al centro, un motivo grafico già apparso sul precedente che rimanda alla serie “The House Sound Of Chicago” varata dalla D.J. International Records nel 1986

Uno dei brani che fece uscire la house dal territorio prettamente underground fu “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S.: pur non essendo ancora musica da classifica radiofonica, quel genere iniziò a riempire le mega discoteche di allora e ritengo fu molto positivo. Non mancò ovviamente chi accusò la house di essere “falsa” perché fondata sull’uso di campionamenti, ma credo che ciò dipenda dall’annosa questione legata all’utilizzo del computer per produrre musica. A tal proposito ricordo di cantanti, più o meno famosi, che interpretarono dei pezzi house e che si arrabbiarono molto quando si resero conto di essere stati rimpiazzati negli eventi live dai DJ. Dal punto di vista della produzione invece i musicisti venivano ingaggiati perlopiù come turnisti, a volte senza neanche nessun riconoscimento tra i credit (a tal proposito si rimanda a questo approfondimento, nda). Il computer e la house music fecero in modo che un brano fosse interamente prodotto da una sola persona, il DJ, e questo ribaltò gli equilibri già allora in bilico e che oggi, con internet, sono sconvolti ancora di più. Noi italiani comunque fummo secondi solo rispetto all’Inghilterra nella produzione di musica house, in quanto avevamo alle spalle una storia di disco ed italodisco che aprì le porte all’import-export, e questo ne facilitò la divulgazione. Per tale ragione l’italo house fu importante per la scena internazionale, così come lo furono i club italiani che per primi iniziarono ad ingaggiare DJ guest internazionali dando maggiore visibilità alla nostra nazione e al settore dell’intrattenimento di allora».

Umbria
Anche il “cuore verde” dello Stivale, l’Umbria, ricopre un ruolo importante nella diffusione della house. La vicinanza con il Lazio ha generato una specie di ping pong tra alcune realtà da diventare determinante per futuri sviluppi. Nome statuario è quello di Antonio Ferrari noto come Ralf, nato a Bastìa Umbra, in provincia di Perugia, che racconta: «Sono curioso ed attento di natura ma nei primi anni Ottanta non frequentavo le discoteche, erano posti in cui passava musica a mio avviso indigesta. Preferivo di gran lunga i club del rock alternativo, dove peraltro iniziai a lavorare selezionando cose molto eterogenee, da Stevie Wonder a Barry White e i Clash passando per roba ska, punk, funk e il primo hip hop. Ci fu un periodo in cui feci incetta del repertorio funk/soul specialmente statunitense e britannico, con titoli per me completamente sconosciuti. Alla house invece arrivai attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders: era il 1986 e per me fu una vera e propria illuminazione. Ad aprirmi quel mondo nuovo furono le riviste estere che acquistavo regolarmente, New Musical Express, The Face, Melody Maker e i-D, sempre molto attente alle nuove tendenze. Parallelamente a mostrare interesse per la house fu l’amico Vincenzo Viceversa che veniva da un background di musica parecchio dura come industrial, EBM e punk. Non ricordo altri in Umbria. Al di fuori dei confini regionali invece c’erano i ragazzi del Devotion, a Roma, ed anche alcuni DJ in Emilia-Romagna come Aki Trax, Renzo Master Funk, Flavio Vecchi, Ricky Montanari e Wayne Brown. All’inizio però era dura. Iniziai in un piccolo locale a Lacugnano, lì dove facevo coppia con Viceversa, ma le reazioni del pubblico furono negative. Scommisi tutto sulla house facendo incetta di dischi e realizzando set interamente basati su quel genere ma nell’arco di poche settimane mi ritrovai senza stipendio, la gente non apprezzava affatto. Le cose cambiarono quando approdai all’Ultra Violet, un posto che mi garantì un bel successo. In seguito sarei approdato al Matmos di Milano, al Plegine di Firenze, all’Ethos Mama di Gabicce e al Matis di Bologna, praticamente i templi house italiani. I primi dischi house li comprai da Musica Musica, un negozio di Ponte San Giovanni. A seguire da Mipatrini e da DJ News. Erano tutti abbastanza forniti e con le mie continue richieste credo di aver stimolato, in qualche modo, anche i negozianti a richiedere quel tipo di musica. Nel momento in cui cominciai a lavorare al di fuori dei confini regionali, iniziai a frequentare il Disco Più di Rimini e il Disco Inn di Modena, i due negozi più forniti d’Italia. Non mancavano però viaggi a Londra, dove mi fiondavo da Catch A Groove e Black Market Records, e a New York, dove invece andavo da Hard To Get e Vinylmania, dove si potevano incrociare tantissimi DJ della Grande Mela. Ricordo però che una volta da Vinylmania (la cui storia si può leggere qui, nda) accadde una cosa singolare: chiesi dischi di musica house ma non comprendevano affatto cosa volessi. Per loro quella era semplicemente “dance music”, analogamente a quanto avveniva in Italia, sin dai tempi dell’italodisco. Non c’era ancora una grande consapevolezza di ciò che stesse avvenendo, e prima del successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., ad esempio, da noi praticamente nessuno mostrò interesse per la house, sia a livello locale che nazionale, se non qualche sparuta realtà. Quando emerse il fenomeno del sampling il campionatore divenne lo strumento principe della house e molti la sposarono per moda ed interesse economico. Seppur nata negli States però, il fenomeno venne pilotato dalla Gran Bretagna, autentico volano del movimento house come fu la Germania per la techno. Noi italiani, comunque, non siamo stati da meno e ci facemmo ben notare, con neanche tanto ritardo rispetto ad altre nazioni. Non a caso oggi si parla di italo house come filone identificativo e rispettato anche oltre i confini».

Un altro nome preponderante della scena umbra è quello di Vincenzo Viceversa, già citato da Ralf poche righe fa ed intervistato qui qualche anno addietro. Ricontattato oggi, il DJ rammenta il suo primo contatto con la house music che avvenne «tra il 1986, anno di chiusura del Svbvrbia, e il 1987, attraverso riviste internazionali come The Face, i-D e New Musical Express, di cui ero assiduo lettore, che segnalavano questo nuovo “trend” con recensioni ed articoli di costume. I primi dischi house che mi folgorarono realmente e mi fecero sposare la causa furono “House Nation” di The Housemaster Boyz & The Rude Boy Of House, “Let’s Get Brutal” di Nitro Deluxe e “The Morning After” dei Fallout (ma anche il remix di “Behind The Wheel” dei Depeche Mode realizzato da Shep Pettibone, con un lungo intro simil-acid), in qualche modo mi ricordavano “Metal On Metal” dei Kraftwerk, “Planet Rock” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force, alcuni remix dei Front 242 ed altre cose electro dell’epoca come “Egypt, Egypt” di Egyptian Lover, “Breaker’s Revenge” di Arthur Baker o capolavori visionari come “Metal Dance” degli SPK e varie cose dei Cabaret Voltaire e di Chris & Cosey, tutti pezzi di matrice elettronica che già proponevo al menzionato Svbvrbia. Per me avvicinarmi a quel genere, nuovo e nero che si stava creando oltreoceano, fu una naturale evoluzione. Tracce elettroniche realizzate interamente con macchine e cantate esistevano già ed erano prodotte principalmente in Europa, ma quando le periferie americane dissero la loro cambiò tutto. Condivisi l’attrazione per la house inizialmente con Ralf, col quale ero in stretto contatto in quanto collaboratore degli stessi locali in cui lavorava come il Norman a Lacugnano, dove organizzammo i primi venerdì house underground della regione. In seguito si aggiunse Sauro Cosimetti. Ralf si avvicinò alla house perché appassionato di musica nera, io in virtù dell’amore per l’elettronica e la sperimentazione, Sauro invece per la via “afro”. Gettando uno sguardo al di fuori dei confini regionali, credo che tutto nacque a Roma col Devotion che adottò un concept praticamente contemporaneo con una location alternativa, un sound system potente, proiezioni visual (attraverso l’uso di diapositive) e musica house pura al 100% dato che i vari Militello, Di Nola e Gilardini in quel periodo vissero o frequentarono New York e locali come il Paradise Garage, oltre ad avere rapporti diretti con David Piccioni del Black Market di Londra. Le preziosissime copie dei primi dischi house americani arrivarono a Perugia proprio grazie a loro. Gilardini inoltre scriveva per il giornale Fare Musica e ricordo una sua intervista a Larry Levan. Attraverso la sua intercessione, realizzai pure io alcuni articoli per la stessa testata, tra cui uno sull’evoluzione EBM/new beat, ed uno su Fela Kuti per cui feci il DJ in after show nel 1988 al Quasar. Così come Ralf, anche io andavo da Musica Musica ma per fare vero shopping discografico era necessario volare a Londra. Ricordo, ad esempio, che di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. ne arrivò solo una copia a Perugia. La comprai ma attratto dall brano inciso sull’altro lato, “Anitina (The First Time I See She Dance)”. Solo in seguito la band esplose per “Pump Up The Volume”, un pezzo fatto per gioco in una notte con l’intento di riempire la facciata del disco, testando il nuovo campionatore acquistato dallo studio di registrazione della 4AD usufruendo dei dischi a portata di mano. I M.A.R.R.S. furono fondamentali per la diffusione europea della house, ma senza dimenticare il successo mondiale di “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e di “Respectable” di Mel & Kim. Il campionatore divenne uno strumento a tutti gli effetti e venne aggiunto all’equipment in uso negli studi di incisione. In Italia la house fu di fatto una evoluzione dell’italodisco che, a sua volta, si rivelò fonte d’ispirazione per la scena americana, basti pensare a “Dirty Talk” di Klein & MBO o a “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick. Quando Di Nola mi disse che “Problèmes D’Amour” era un cult nel circuito di New York e Chicago, mi venne l’idea di fare un remix e mi recai alla sede della Materiali Sonori, a San Giovanni Valdarno, ma lì mi dissero che non avevano né DAT, né nastri e tantomeno una copia del 12″. Credo che i fratelli Bigazzi allora ignorassero quanto quel disco fosse speciale, per loro era solo un vecchio pezzo che non aveva venduto molto. Le mie prime serate house le feci al citato Norman, ma all’inizio il pubblico in Umbria era schifato da quella musica, solo pochi eletti si rivelarono estaticamente entusiasti. Roma invece era al top grazie al Devotion».

Lombardia / Veneto
Una parte del cuore del settentrione nostrano inizia a battere presto per la house music. Operativo tra Lombardia e Veneto, seppur le sue prime incursioni house, come si vedrà tra poco, avvengano prevalentemente ad Ibiza, è il citato Leo Mas che racconta: «Scoprii la house nel 1985 attraverso dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Music Is The Key” di J.M. Silk, “Jam Tracks” di Kenny “Jammin” Jason e “Funkin With The Drums” di Farley “Jackmaster” Funk. Non ricordo in che modo giunsi ad essi, forse dopo aver letto qualche articolo relativo alla scena di Chicago sulla rivista The Face, la mia fonte d’informazione per tutti gli anni Ottanta. I primi dischi li trovai da Non Stop, il più grosso importatore d’Italia, in Via Quintiliano, a Milano, dove comunque erano disponibili poche copie ed ovviamente non di tutte le uscite. In quel momento il genere non era ancora definito, conosciuto ed etichettato, e quel tipo di produzioni, ai meno attenti, potevano sembrare frutto e parte del mondo electro o, nel caso di Colonel Abrams, persino del pop. Il fenomeno house iniziò a raccogliere una certa importanza solo nel 1986, tra Gran Bretagna ed Ibiza. Iniziarono a circolare più produzioni di quel nuovo sound e la compilation “The House Sound Of Chicago”, edita dalla D.J. International Records, a mio avviso fotografò perfettamente il genere con una tracklist di future mega hit (da “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley a “Mystery Of Love” di Fingers Inc. passando per “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Move Your Body (The House Music Anthem)” di Marshall Jefferson, nda), senza dimenticare le pubblicazioni della Trax Records e di altre svariate etichette nate proprio quell’anno. Fino all’estate del 1987 i centri di irradiamento, come dicevo prima, furono Ibiza e Regno Unito, poi la diffusione del genere iniziò ad allargarsi al mondo intero. Per lungo tempo le mie fonti restarono sempre e solo le riviste musicali britanniche, oltre al menzionato The Face anche i-D, New Musical Express e Record Mirror. Che io sappia, nessuna testata giornalistica nostrana affrontò l’argomento house music prima del successo internazionale di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., che fu determinante per far conoscere il genere al grande pubblico seppur fosse una produzione inglese che non rispecchiava affatto quella che invece era la house di Chicago, pur possedendo alcuni elementi di quel filone, come i campionamenti. A “Pump Up The Volume” peraltro è legato un divertente aneddoto: poco prima dell’uscita del disco dei M.A.R.R.S., scelsi come nome d’arte Leo Mars, variazione del mio cognome anagrafico, Marras, a cui tolsi le lettere doppie. Da amante della conquista dello spazio e di tutto ciò che riguarda la space age, Leo Mars mi parve davvero perfetto, ma dopo l’uscita di “Pump Up The Volume” chiunque avrebbe potuto pensare che avessi copiato Mars dai M.A.R.R.S., e quindi a quel punto decisi di eliminare anche la R e diventai Leo Mas.

La prima volta che ho proposto house music fu nell’estate del 1985, all’Amnesia di Ibiza, con Alfredo. La alternavo a pezzi come “(I Like To Do It In) Fast Cars” di Z Factor, “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, “Al-Naafiysh (The Soul)” di Hashim, “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Clear” di Cybotron, tutti del 1983, che comprai quando non facevo ancora il DJ. Replicai nello stesso posto l’estate successiva, contando su più dischi a disposizione, anche se alla fine restavano insufficienti per reggere l’intera serata giacché mettevamo musica per ben nove ore quotidiane, da mezzanotte alle nove del mattino seguente, senza ospiti, che invece iniziarono a giungere solo nel 1990, per appena uno o due party stagionali (e a tal proposito ricordo il compianto Paul “Trouble” Anderson e Pete Heller). Quei brani quindi finivano irrimediabilmente nel mezzo del programma musicale. Poi di comune accordo con Alfredo, nell’estate ’87, quando la quantità delle produzioni aumentò sensibilmente, suonammo musica house da 116 a 127/130 bpm per ben tre ore consecutive, in cui la tensione sonora raggiungeva l’apice, e fummo i primi a farlo in Europa. Consumato quello sprint di energie, il ritmo tornava a calare per raggiungere i 110 (ed anche meno) bpm, e pure quel momento era assai speciale ed emotivamente coinvolgente, complice la struttura stessa del locale. L’Amnesia infatti era un club open air, fino al 1990 anno in cui venne chiuso (analogamente al Ku) perché non fu più permessa l’attività di discoteche all’aperto sull’isola. Nell’estate del 1987 arrivarono i DJ britannici come Paul Oakenfold, Danny Rampling, Nicky Holloway e Johnny Walker che portarono oltremanica praticamente tutto quello che noi suonammo in quei mesti estivi. Da ricordare anche Nancy Noise, nostra cliente già dall’estate ’86, poi al fianco di Oakenfold al Future, uno dei primi club house/balearic londinesi insieme allo Shoom di Rampling. Poiché Londra rappresentava un “faro” per tutto il mondo, specialmente nell’ambito delle tendenze musicali, da quel momento l’house music cambiò le dancefloor e il modo di vivere la notte a livello planetario, innescando di fatto un’autentica rivoluzione senza precedenti. Ci terrei anche a ricordare che nel genere house, fino all’uscita sulla 10 Records, sublabel della Virgin, della compilation “Techno! The New Dance Sound Of Detroit”, rientravano anche le produzioni made in Detroit, su Transmat, Metroplex, KMS ed altre etichette indipendenti della motor city. Si trattava insomma di un genere unico, non esisteva alcuna distinzione tra i dischi di Chicago e quelli di Detroit. Solo dopo l’uscita di quella compilation, a metà estate del 1988, la seconda “Summer Of Love”, la musica che proveniva da Detroit sarebbe stata etichettata come techno.

Leo Mas e Vasco Rigoni del Macrillo

Leo Mas e Vasco Rigoni, art director del Macrillo

Provai una grande emozione quando all’Amnesia, nel 1987, suonavamo “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, vidi l’intera dancefloor con le mani in alto e in quell’istante percepii che stesse accadendo qualcosa di grande ed epocale. L’entusiasmo del pubblico fu sempre in crescendo, tra 1985 e 1986, ma nel 1987 divenne davvero devastante. Quell’anno iniziai a fare il DJ anche in Italia (dopo precedenti occasionali esperienze in qualche club in Emilia-Romagna) ed approdai al Macrillo di Asiago, diretto da Vasco Rigoni. A suggerirgli il mio nome e quello di Alfredo fu Mauro Bondi che organizzava le feste ibizenche al Pineta di Milano Marittima dopo la stagione estiva sull’Isla Blanca, e che poi aprì il Pascià a Riccione. Rigoni coinvolse anche gran parte dell’animazione del Pacha e del Ku. Molti clienti del Macrillo quindi conoscevano già il nostro sound perché frequentavano Ibiza, e mostrarono fortissimo entusiasmo quando si resero conto che non serviva più né attendere l’estate per ballare quella musica, né tantomeno volare nell’isola balearica. Era una situazione eccitante ma soprattutto unica perché, sino al 1987 circa, nelle discoteche italiane i DJ raramente superavano i 116/118 bpm. Come tutti i generi musicali che hanno innescato delle rivoluzioni, anche la house music era legata ad una sostanza stupefacente, l’MDMA, giunta ad Ibiza a fine ’86 da New York e poi prodotta in Olanda dal 1987, anno in cui il consumo aumentò esponenzialmente nell’isola proprio con l’avvento della rivoluzione house in atto (mentre in Italia non si sapeva ancora nulla, l’MDMA entrò nella tabella delle droghe solo nel 1989 dopo un mega arresto avvenuto al Movida di Jesolo). La combinazione house-droga amplificò ulteriormente l’esplosione del genere nei club. Per quanto riguarda le produzioni, noi italiani abbiamo dato presto la nostra interpretazione riuscendo a creare una “nostra house”, amata e riconosciuta ancora oggi da svariati DJ internazionali».

Piemonte
Dopo l’esperienza discografica nei Talk Of The Town di cui abbiamo già parlato qui, Roberto Pezzetti, da Novara, scopre la house music e si trasforma in Jackmaster Pez, cavalcando da protagonista buona parte degli anni Novanta. «Sino a poco tempo prima ascoltavo prevalentemente rock psichedelico e le cose appartenenti alla coda finale della new wave, inclusi brani di gruppi come A.R. Kane e Colourbox, dalla cui collaborazione poi nacquero i M.A.R.R.S.» racconta oggi. «Tolti Michael Jackson, Madonna e Prince, nel 1987 in Italia imperava ancora l’italodisco a cui mi ero avvicinato attraverso il progetto Talk Of The Town prodotto nel Logic Studio dei fratelli La Bionda. Alla house giunsi attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk (dal quale “presi in prestito” un pezzo del mio pseudonimo), uscito nel 1986. Da lì iniziò l’invasione della house di Chicago (D.J. International Records, Trax Records), poi Detroit rispose con la techno, senza dimenticare i paralleli fenomeni acid e garage, ma all’inizio tutti questi generi trovarono parecchia resistenza, almeno nella mia regione, il Piemonte. I primi confronti coi colleghi di studio, coi discografici e con gli altri membri dei Talk Of The Town furono decisamente deludenti. Nessuno di loro provava lo stesso feeling emozionale che percepivo io ascoltando quelle tracce, e mi gelarono con commenti tranchant tipo “ma questa non è musica, è solo una combinazione elementare tra drum machine e synth!”. La svolta, per me del tutto inaspettata, avvenne nel 1988, precisamente ad agosto quando mi trovavo all’Isola d’Elba, durante una pausa del tour dei Talk Of The Town. Andai in una discoteca dove si ballava house music, programmata e mixata dall’amico Miki The Dolphin, e quella serata accese in me la miccia. Tornato a Milano, conobbi Leo Mas che suonava al Macrillo di Asiago, in una “dodici ore non stop” organizzata dall’indimenticabile Vasco Rigoni. Lì, insieme a lui, anche i primi DJ guest ibizenchi. Da quel momento per me sarebbe stato un costante crescendo. A settembre ’88 iniziai a comprare dischi house con regolarità, prima dai distributori e da negozi occasionali, poi dal Disco Più di Rimini che mi spediva settimanalmente delle cassette coi demo delle nuove uscite per facilitare gli ordini a distanza. In seguito il mio fornitore divenne, per almeno un decennio, Fabietto Carniel del Disco Inn di Modena. Ai primi dischi house è legato un ricordo indelebile: dopo una serata trascorsa al Macrillo con l’amico Johnson Righeira, acquistai in un piccolo negozio di dischi “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim (Derrick May), e rimanemmo entrambi folgorati. Ancora oggi, dopo oltre trent’anni, quel disco lo ho ancora nel flight case. Giusto pochi giorni fa proprio Johnson mi ha fatto scoprire l’opening del Weather Festival a Parigi, con la versione orchestrale di “Strings Of Life” di Francesco Tristano (ex Aufgang) eseguita dalla Philharmonic Orchestra Lamoureux diretta da Dzijan Emin. Mi sono venute le lacrime agli occhi per l’emozione, consiglio davvero di guardare la clip.

flyer Clinica (1988)

Flyer de La Clinica (1988) su gentile concessione di Jackmaster Pez

Nell’autunno del 1988, sull’onda dell’entusiasmo, iniziai ad organizzare piccoli house party a casa mia. Così nacque la Clinica che, in teoria, era riservata a pochi intimi amici conosciuti all’Elba invece ci ritrovammo in cinquecento provenienti da Roma, Firenze, Genova, Milano, Torino … Tutto crebbe in modo spontaneo e col passaparola (in un periodo in cui internet non era neanche ipotizzabile) generando una tribù di seguaci molto ricettivi per quel nuovo fenomeno musicale all’interno di una cornice radicalmente inedita e meravigliosamente magica. Ricky Pannuto, mio partner ai tempi dei Talk Of The Town all’inizio fortemente scettico nei confronti della house, cambiò idea ed insieme producemmo, nel 1990, “Life Is An Illusion” di Sound Of Clinica, in puro genere “paradise”. In Italia però giornali, televisioni ed emittenti radiofoniche giunsero alla house solo dopo “Pump Up The Volume”, peraltro prestando più attenzione ai primi acid house party londinesi che altro. La house era musica di nicchia e vista di traverso perché legata all’uso dell’ecstasy. Inoltre sia discografia che distribuzione nostrana non erano ancora pronte a voltare pagina, perché inizialmente le soglie di vendita della house erano talmente esigue da non creare alcun interesse per i manager discografici che continuavano a vendere milioni di copie con altri generi. Non a caso la house music si è diffusa attraverso piccole etichette indipendenti, quelle che avevano meno paura di osare. Non dimenticherò mai l’espressione di un discografico dopo aver ascoltato un mio demo house. Aspettava che succedesse qualcosa e alla fine mi guardò stranito dicendomi “mah, mi sembra un jingle per uno spot pubblicitario”».

I primi dischi house made in Italy
Se è arduo indicare chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese è altrettanto problematico stabilire con esattezza chi abbia prodotto il primo pezzo house in Italia. Quel che pare certo è che a dedicarsi discograficamente a questo nuovo sound è, in principio, solo chi ha già carriere pregresse alle spalle in ambito italodisco e con una certa dimestichezza sia in processi tecnici che trafile burocratiche e, non meno importante, con uno studio di registrazione a disposizione, allora requisito essenziale per incidere dischi. Si ha inoltre l’impressione che la maggior parte dei primi italiani a buttarsi nella produzione di musica house sia allettata in primis da possibili introiti economici più che dallo stile in sé, ed infatti sul mercato giungono diverse riproposizioni, piuttosto pedestri, della formula portata al successo dai M.A.R.R.S. con “Pump Up The Volume”, a dimostrazione che inizialmente la house venga considerata più come mezzo per lucrare velocemente che esprimere la propria vocazione artistica e creativa. Il campionatore viene adoperato per generare frullati citazionistici ma attingendo da fonti prevalentemente riconoscibili anche dal pubblico generalista. Non c’è ancora traccia del minuzioso lavoro dei cosiddetti “crate digger” che passano al setaccio materiale oscuro facendo leva sulla propria sensibilità per individuare i giusti frammenti da trasformare in cose nuove. A differenza di quanto avviene oltremanica inoltre, da noi inizialmente mancano produttori che prendono le mosse da Chicago, e i pochi DJ a volerlo fare non hanno la forza economica sufficiente per approntare prodotti adatti alla stampa, se non qualche demo registrato alla meno peggio. Negli studi che si usa prendere a nolo invece non c’è ancora personale specializzato in house music e a dirla tutta i turnisti mostrano più di qualche riserva nel prendere parte a progetti in cui la musica viene composta in modo del tutto diverso rispetto a quanto fosse avvenuto sino a quel momento. Non mancano neppure produttori infastiditi dal fatto che i DJ inizino a conquistare indipendenza emancipandosi dai musicisti qualificati per realizzare i propri brani. Inoltre non esistono case discografiche, tranne piccole e piccolissime indipendenti, disposte a pubblicare senza riserve pezzi di quel tipo, preferendo puntare ancora sull’italodisco che, nel frattempo, raggiunge la fase creativa più deludente. Si delinea pertanto un quadro in cui i DJ italiani che amano sperimentare nuove fogge stilistiche sono costretti a ripiegare esclusivamente su materiale discografico proveniente dall’estero perché non esiste ancora un equivalente prodotto in patria. Qui di seguito una carrellata (in ordine alfabetico) di produzioni italiane edite nel 1987, candidate ad essere considerate tra le prime prove “friendly house” nostrane. La gallery non ha però la pretesa di essere completa ed esaustiva, pertanto in futuro potrebbe essere oggetto di aggiornamenti.

Alexander Robotnick - C'est La VieAlexander Robotnick – C’est La Vie (Fuzz Dance)
“C’est La Vie” è il brano con cui Maurizio Dami torna a vestire i panni di Alexander Robotnick, personaggio franco-sovietico scaturito dalla sua fantasia e materializzatosi per la prima volta nel 1983 con la seminale “Problèmes D’Amour” a cui abbiamo dedicato un ampio articolo qui. Il pezzo, per cui viene realizzato anche un videoclip, non è esattamente house almeno nella versione principale. Cantata ancora in lingua francese e con gli inserimenti di sax ad opera di Stefano Cantini che giusto l’anno prima partecipa a “Love Supreme” dei Giovanotti Mondani Meccanici, team in cui figura lo stesso Dami, “C’est La Vie” è destinata al pubblico mainstream e alle radio. Più filo house risulta essere però la versione incisa sul lato b intitolata, piuttosto banalmente, Another Version, privata di quasi tutte le parti vocali e contraddistinta da un telaio percussivo più rigido. Nonostante venga licenziato in Francia dalla Sire, il pezzo non raccoglie il successo sperato e spinge l’autore toscano ad “ibernare” il suo alter ego sino al 1991, anno in cui ci riprova ancora con la house attraverso “Les Vacances” edito da Los Cuarenta/Expanded Music ed arrangiato da Claudio Collino ed Elvio Moratto. La nuova delusione sembra tale da infliggere a Robotnick il colpo di grazia. Le cose cambiano però nei primi anni Duemila, quando scoppia l’electroclash e il revivalismo connesso alla “80s dance”: influenti personaggi esteri riconoscono a Maurizio Dami il merito di aver gettato con “Problèmes D’Amour” (ma pure con altri brani meno noti del suo repertorio come “Dance Boy Dance”), i semi della proto house specialmente a Chicago, lì dove il suo primo singolo è considerato un’autentica pietra miliare.

Cappella - BauhausCappella – Bauhaus (Media Record)
Con le mani in pasta nella discografia sin dal 1983, Gianfranco Bortolotti conia il progetto Cappella nell’autunno del 1987 per questo brano-emulo di “Pump Up The Volume” realizzato da Francesco Bontempi, affermatosi in epoca italodisco come Lee Marrow e futuro produttore delle hit di Corona di cui abbiamo parlato qui. «Ero in vacanza negli States ed ascoltai il pezzo dei M.A.R.R.S. che mi colpì al punto da voler creare qualcosa di simile» spiega l’imprenditore bresciano in questa intervista. La vicenda ricorda quanto avvenuto esattamente un anno prima a Ian Levine che tornato a Londra da New York replica “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders attraverso “On The House” di Midnight Sunrise (per tutti i dettagli si rimanda a questo approfondimento). Autentico spirito di emulazione transcontinentale insomma. «“Bauhaus” fu realizzato con tecnologia primitiva» prosegue Bortolotti, «avevamo cinque o sei campionatori Akai tra cui l’S612, ma non disponendo del MIDI tre persone erano costrette a spingere un pulsantino nello stesso istante. Registravamo su nastro a 24 piste per poi editare con la taglierina ed attaccare con lo scotch. Le tastiere erano al 99% analogiche come del resto l’effettistica della Lexicon che costò un occhio della testa. Tra le poche macchine digitali di cui disponevamo c’era la Yamaha DX7. Il pezzo venne realizzato in una cantina dove era allestito lo studio (il 24th Street Studio in Via Sant’Emiliano, a Brescia, nda) di cui sarei diventato socio e che poi avrei spostato in Via Martiri Della Libertà». “Bauhaus” macina licenze sparse in tutto il mondo, Svezia, Paesi Bassi, Germania, Francia, Spagna, Grecia e persino Australia. In Canada e Regno Unito viene pubblicato con un titolo diverso, “Push The Beat” perché, come rivela Bortolotti contattato per l’occasione, «chi rilevò la licenza tentò di fregarci il 50% dei diritti di master e d’autore, cercando di far passare il pezzo per un medley con “Push The Beat”, un campione che figura solo sulle prime copie britanniche. Ovviamente sistemammo la questione». La scarsità sul mercato di materiale di quel tipo, dovuta alla difficoltà tecnica nel replicare il risultato considerati gli esorbitanti costi per allestire uno studio, determina la fortuna di “Bauhaus”, sostanzialmente la risposta italiana a “Pump Up The Volume”, e a tal proposito Bortolotti dice, sempre in quell’intervista del 2015, che «fu la chiave di volta nella mia carriera da produttore, il successo continentale da cui germogliò l’elemento determinante per la nascita della Media Records e che iniziò a lanciare lo stile italiano in Europa». Oggi aggiunge: «Credo che “Bauhaus” abbia venduto circa un milione di copie e pensarci mi riporta alla memoria qualche aneddoto: quando lo pubblicai in Italia ormai l’italodisco era agli sgoccioli e i titoli vendevano mediamente duecento/trecento copie, lasciando emergere un malessere generale nella discografia. Le richieste del pezzo però furono straordinarie, così alte da non poter sostenere da solo i costi della stamperia. Quando ordinai la prima tiratura di oltre trentamila copie il buon Antonio Cagnola della Microwatt, che ormai ci ha lasciati, si spaventò e mi disse che era necessario versare almeno il 50% in anticipo. Fui costretto a farmi prestare il denaro da Diego Leoni, in cambio di quote della Media Records. Alla fine ne stampai quasi centomila, e così fu per tutte le nostre hit sino al 2004, quando lasciai. Sia la Microwatt che la Ariston di Alfredo Rossi, per quindici anni, mi inviavano puntualmente ogni Natale mazzi giganteschi di fiori (rose o gardenie) e champagne per ringraziarmi del lavoro che gli passavamo. Rossi inoltre mi mandò suo figlio a “scuola”, a Roncadelle, per due o tre anni, chiedendomi di crescerlo adeguatamente». “Bauhaus” esce su Media Record (senza s finale), brand che il produttore bresciano crea nel 1986 in seno all’italodisco e quando è ancora affiliato alla Discomagic di Severo Lombardoni. Ci vorrà ancora del tempo prima di giungere alla Media Records (il primo ad uscire col nuovo marchio è “Shadows” di 49ers, 1989). Nel frattempo Cappella continua ad essere il nome con cui Bortolotti scommette sulla house filobritannica, a partire dal fortunato “Helyom Halib” del 1988 (con un campionamento di “Work It To The Bone” degli LNR), “Get Out Of My Case” ed “House Energy Revenge”, entrambi del 1989, sino a “Be Master In One’s Own House” del 1990. Nel 1991, sull’onda della compenetrazione tra suoni techno e ritmiche house in stile Bizarre Inc (“Such A Feeling”, “Playing With Knives”), escono “Everybody” e “Take Me Away”, prima della svolta eurodance con hit milionarie (“U Got 2 Know”, “U Got 2 Let The Music”, “Move On Baby”, “U & Me”, “Move It Up”, “Tell Me The Way”, “I Need Your Love”) che legheranno Cappella sia ad un nuovo volto sonoro che fisico visto che il ballerino/body builder Ettore Foresti, già coinvolto in Superbowl tra ’85 e ’87, lascia spazio a Rodney Bishop, Kelly Overett ed Alison Jordan che contribuiscono a mantenere alte le quotazioni del progetto per diversi anni.

DJ Lelewel - House MachineDJ Lelewel – House Machine (Renata Edizioni Musicali)
Trainato da sezioni di pianoforte sincronizzate su una base in 4/4, “House Machine” è il brano di Daniele Davoli alias DJ Lelewel, disc jockey di Reggio Emilia e tra i primi ad incidere musica house nel nostro Paese. «Ai tempi c’erano già dei sentori di house music, spesso mischiata a rimasugli dell’electro usata per la breakdance come ad esempio “19” di Paul Hardcastle, del 1985, che conteneva qualche elemento che si sarebbe poi ritrovato nella house» spiega oggi Davoli. «Allora lavoravo al Marabù di Reggio Emilia e in particolare ricordo la serata del giovedì dedicata agli studenti, in cui proponevo la cosiddetta “afro”, quella che per intenderci passavano DJ come Daniele Baldelli, Moz-Art, L’Ebreo, Spranga, emittenti come la bresciana Radio Azzurra e locali come il Chicago di Baricella di Bologna. Era un filone intorno al quale c’era un forte interesse specialmente nella zona del lago di Garda, a Lazise e a Verona. Le prime influenze che emersero quando divenni un produttore infatti richiamavano più l’afro che altro. Comunque il pezzo che mi fece capire quanto fosse forte la house fu “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders, del 1986. L’anno dopo giunse “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. con cui tutti capirono che la house era arrivata e sarebbe rimasta. Ricordo però che ad avere la meglio da noi era ancora la dance hi NRG in stile Stock, Aitken & Waterman, specialmente nei locali di provincia come il citato Marabù. Seppur fosse gestito molto bene e meta di un corposo pubblico, non era il luogo più adatto per sperimentare nuovi stili tranne il giovedì, quando non scendevo a nessun compromesso con le hit da classifica e facevo un programma afro che, verso la fine, includeva qualche pezzo house. Partivo molto lento, intorno agli 85 bpm, tirando dentro un mucchio di cose eterogenee, da James Brown alla new age». A produrre “House Machine” è il compianto Stefano Cundari, co-fondatore della Memory Records che ai tempi inizia a prendere le misure di un nuovo segmento di mercato, quello della house per l’appunto. «Il grande Cundari, espertissimo in tecnologia, mi insegnò tanto, fu lui a spiegarmi come realizzare i remix col Revox ad 1/4 di pollice, a tagliare, duplicare ed incollare il nastro» prosegue Davoli. «Prima di diventare un produttore di fama internazionale inoltre, Cundari era un DJ e per questo capiva benissimo la mentalità di noi disc jockey, anche se quando ci conoscemmo aveva smesso già da tempo di mettere i dischi nei locali preferendo dedicarsi esclusivamente alla produzione discografica. Aveva una struttura avviatissima, un’etichetta di successo e due studi di registrazione che erano ad appena cinquecento metri da casa mia. Grazie a questa vicinanza potevo andare a trovarlo spesso perché condividevamo la passione per le auto d’epoca. Paradossalmente parlavamo poco di musica perché a me non piaceva molto il genere con cui lui fece fortuna, l’italodisco, che cercavo di evitare nelle mie serate fatta eccezione per le hit da classifica che non potevo proprio esimermi dal passare. Un giorno, durante uno dei nostri incontri, gli dissi che la house music stava prendendo piede in Europa e lui annuì sostenendo che anche altri gli avessero riferito la stessa cosa. A quel punto mi propose di provare a fare un brano, non con l’intento di incidere una hit ma giusto per tenere un piede nel futuro. La musica che gli dava da mangiare era ancora l’italodisco ma Cundari mostrò la curiosità e la volontà di sondare le potenzialità di quel nuovo genere e per farlo avremmo potuto usare gli strumenti in suo possesso come il campionatore Akai S900 e vari sintetizzatori (Prophet-5, Minimoog, PPG). Per “House Machine”, nello specifico, adoperammo un sequencer Roland programmato da Stefano perché ai tempi non ci capivo davvero niente, l’Akai S900 (o forse due), un Korg M1 con cui eseguimmo la parte di pianoforte, e un PPG Wave 2.3 per il basso. La batteria invece era un misto tra campioni e percussioni prese dalla mitica Linn LM-1. Per finalizzare il tutto impiegammo un paio di settimane circa ma lavorando quattro/cinque ore per volta in qualche serata. Durante il giorno infatti Stefano si occupava degli artisti del suo catalogo, si dedicava a me solo dopo le 18, rimanendo in studio sino alle 21/22. Il brano non fu un successo, vendette 1500 copie che poi, probabilmente, furono destinate quasi tutte all’export, ma fece anche una manciata di licenze, in Olanda e in Germania, seppur non vidi mai i rendiconti (il socio di Stefano, Alessandro Zanni, non era tra i più solerti nel mandarli). Le perplessità di Cundari sorsero nel 1988 quando avremmo dovuto preparare il follow-up. Nonostante non fosse un fiasco, “House Machine” non raggiunse i risultati che si aspettava o sperava. Siccome vendeva ancora molte copie di italodisco, fu titubante a dedicarmi del tempo per un disco house. Mi chiese innanzitutto di pensare ad un pezzo con più musica, a suo avviso per ottenere buoni risultati non bastava incidere una traccia adatta solo ai disc jockey, il rischio era di vendere di nuovo troppo poco. Né io, né Stefano però eravamo musicisti, capivamo la musica ma mettersi davanti ad un pianoforte e suonarlo è un altro paio di maniche. Avevamo bisogno di coinvolgere un musicista e Stefano interpellò Mirko Limoni che, di tanto in tanto, collaborava con lui a cottimo. In mente avevo una vaga idea di ciò che avrei voluto realizzare ma dopo appena un paio di pomeriggi Cundari si demoralizzò e ci disse che era costretto a mettere il progetto “in freezer” per dedicarsi ad altro. Aggiunse che lo avremmo potuto riprendere più avanti, qualora la voglia non fosse scemata del tutto. Delusi per quella decisione, uscimmo affranti dallo studio ma Mirko si mostrò subito dubbioso. Secondo lui le idee buttate giù erano buone e mi propose di raggiungerlo nello studiolo che aveva allestito con alcuni amici tra cui Valerio Semplici. Lì potevamo dedicarci senza limiti di tempo perché lui usciva dal lavoro a mezzogiorno ed avremmo avuto tutto il pomeriggio e parte della sera per strimpellare e fare quello che ci pareva, senza alcuna costrizione. Nove/dieci mesi dopo il pezzo era pronto, si trattava di “Numero Uno” che pubblicammo come Starlight, omonimo del locale estivo in cui lavoravo. I direttori della discoteca si offrirono di pagare le spese della copertina stanziando un milione di lire per il grafico. In cambio noi avremmo dovuto inserire il nome del locale da qualche parte. Nessuno avrebbe potuto immaginare che “Numero Uno” (con un sample preso da “Beyond The Clouds” dei Quartz, pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni ed oggetto di una ricchissima serie di licenze in tutto il mondo, nda) fosse il follow-up di “House Machine”. A sua volta Starlight fu il predecessore di “Ride On Time” dei Black Box. Alla luce di tutto ciò quindi posso affermare che “House Machine” mi incoraggiò ad intraprendere l’attività di produttore discografico oltre a fornirmi aiuto per farmi conoscere nell’ambiente. Da lì a breve infatti cominciarono a giungere le prime richieste di remix come quello di “Happy Children” di P. Lion che mi commissionò Lombardoni. Cose italiote, senza dubbio, ma che mi garantirono comunque una certa esposizione. Allora non riuscivo neanche ad immaginare di poter conquistare le classifiche straniere, soprattutto quelle inglesi, esisteva solo una flebile speranza contrapposta alla consapevolezza di non poter riuscire in quella impresa. “House Machine” mi fece capire come e cosa fare per creare l’arrangiamento di un disco, mi fece conoscere prima Mirko e poi Valerio, insomma proprio con quel pezzo si aprì la porta della mia carriera da produttore». Nel 1989 Davoli darà vita ad uno dei capisaldi della italo house, “Ride On Time” di Black Box, che sommato al menzionato “Numero Uno” di Starlight, “Do-Do-Don’t Stop” di Rosso Barocco, “Airport 89” di Wood Allen e “Grand Piano” di The Mixmaster costituisce l’ossatura dell’affiatato team della Groove Groove Melody creato insieme a Mirko Limoni e Valerio Semplici.

DJ System - Animal HouseDJ System – Animal House (Discomagic Records)
DJ System è il team project messo su da Stefano Secchi, Maurizio Pavesi e Marcello Catalano con l’intento di cavalcare l’esplosione della house music dopo il successo di “Pump Up The Volume”. La loro “Animal House” è annodata in modo inequivocabile al disegno creativo dalla hit dei britannici, con sample piazzati qua e là, alcuni dei quali ben noti come quello di “Thriller” di Michael Jackson, e qualche immancabile scratch. Il titolo è ispirato dal latrato di un cane incastrato nelle pieghe ritmiche insieme al nome del progetto fatto balbettare così come si usa fare a Chicago. Nel 1989 Secchi e Pavesi ci riprovano con la poco nota “Party Time” su Rolls Record, ma si rifaranno entrambi con gli interessi negli anni a seguire. La Discomagic Records di Severo Lombardoni riprende invece il brand DJ System nel 1992 per “Yeah!” prodotto da Maurizio Braccagni quando la tendenza commerciale in Italia si è spostata sui suoni derivati dalla techno dei rave britannici, tedeschi ed olandesi.

Fun Fun - Gimme Some Loving (House Mix)Fun Fun – Gimme Some Loving (House Mix) (X-Energy Records)
Le Fun Fun spopolano tra 1983 e 1984 coi singoli “Happy Station” e “Color My Love”, ispirati entrambi dalla disco hi NRG di Bobby Orlando. Nel corso degli anni vengono ingaggiate diverse vocalist, tra cui Ivana Spagna, ed altrettante frontwomen a rappresentare l’immagine pubblica del duo secondo una modalità lavorativa ampiamente rodata nell’ambiente dell’italodisco nostrana (a tal proposito si rimanda a questo reportage). “Gimme Some Loving” è la cover, arrangiata da Paolo Gianolio, dell’omonimo di Spencer Davis Group, ma l’uso del termine House Mix è decisamente fuorviante. È vero che c’è un beat costruito con la TR-909 e qualche inserto pianistico ma, contrariamente a quanto forse pensano i produttori allora, ciò non è sufficiente a farne un brano house, e basta un veloce ascolto per sfatare ogni dubbio. Una “House Mix” realizzata dall’olandese Ben Liebrand figura pure nel successivo “Could This Be Love”, ma di house se ne sente davvero poca pure in questo caso, a testimonianza di quanta confusione ed approssimazione ci fosse intorno al termine “house” nel 1987.

Glance - Turas Open LegsGlance – Turas / Open Legs (Les Folies Records)
Ad orchestrare il lavoro dietro lo sconosciuto progetto Glance è Tony Carrasco, DJ americano di origini italiane che alle spalle ha un successo di proporzioni epocali, “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., uscito nel 1982 e considerato una specie di proto house. Ad affiancare Carrasco sono Sergio Pisano, i fratelli Nicolosi (Giuseppe, Lino e Rossana) e la vocalist Dora Carofiglio, altri nomi ben noti nella discografia nostrana (Novecento, Valerie Dore). Delle varie versioni incise sul 12″ spicca meglio la Sexy Piano che, come promette il titolo, sfoggia un assolo di pianoforte incastrato a dovere in un basso slappato di matrice funk derivato dall’omonimo brano originale, edito dalla Proto Records nel 1983 e firmato Amnésie. Il tutto su un beat “dritto” a garantire una sorta di “effetto Paradise Garage”. Il disco viene pubblicato sulla Les Folies Records che all’attivo ha solamente un’altra uscita, “Limit” di True Colors, prodotta da Pisano nel 1984 ed oggi ben quotata sul mercato dell’usato.

L.A.N.D.R.O. & Co. - Get Up, Get On UpL.A.N.D.R.O. & Co. – Get Up, Get On Up (New Music International)
Prodotto da Pippo Landro, ex membro dei Gens e titolare di uno dei negozi di dischi più noti di Milano, il Bazaar Di Pippo, Maurizio Macchioni e il sopraccitato Sergio Pisano presso il Les Folies Studio, “Get Up, Get On Up” è uno dei primi 12″ del catalogo New Music International, etichetta che lo stesso Landro fonda nel 1987. Il brano è costruito in maniera semplice, con assoli di tastiera jazzati, un breve messaggio vocale, una parte pseudo rap, un sample preso da “Kiss” di Prince e la chiusura con un virtuosismo di tromba. Dal 1988 L.A.N.D.R.O. & Co. ospita nuovi autori: a “Belo E Sambar” mettono mano Massimino Lippoli ed Angelino Albanese mentre “Hey Mr. D.J.” viene prodotto da Fabrizio Rizzolo, Franco Diaferia e Marco Martina. Con “I’ve Got Your Love”, “Un Otro” e “Zodiac Lady” l’attenzione si sposta progressivamente verso il downtempo.

MBO - M.B.O. Liverpool ThemeMBO – M.B.O. Liverpool Theme (Limited Edition Records)
Il successo internazionale raccolto con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O. (nato da un’idea di Davide Piatto dei N.O.I.A. seppur il suo nome non figuri tra i credit – si legga questo reportage per tutti i dettagli) galvanizza il compianto Mario Boncaldo che nel 1987 avvia il progetto MBO lasciandosi affiancare da Elio Crociani. “M.B.O. Liverpool Theme” ricalca lo schema di “Dirty Talk” sfruttando più incisivamente la rhythm section di una Roland TR-808, elemento che stuzzica l’attenzione oltreoceano negli anni immediatamente precedenti alla nascita della house. In “M.B.O. Liverpool Theme”, ad onor del vero, di house non c’è granché, fatta eccezione proprio per il telaio della batteria analogamente a “Don’t Stop The Music” di Lee Marrow, ma Boncaldo era convinto che la house fosse una sua invenzione. A tal proposito qualche anno fa scrive sul suo sito: «Nel 1985 Rocky Jones, patron della celebre etichetta D.J. International Records, prese spunto da “Dirty Talk” e continuò il trend chiamandolo impropriamente The House Of Chicago. “La Casa di Forlì” sarebbe andata certamente poco lontano! Rifiutai, diverse volte, proposte accorate e suppliche di Rocky che mi voleva con lui a Chicago. Non sempre nella vita si fanno le cose giuste e purtroppo lo si capisce col senno di poi». Intervistato dallo scrivente nel 2011, Rocky Jones dichiara però di non aver mai sentito parlare di Boncaldo a Chicago, e che in realtà fu l’amico Benji Espinoza, commesso presso il negozio di dischi DJ Records, a segnalargli quel pezzo. «Incontrai Boncaldo tempo dopo in Francia, dove era insieme a Tony Carrasco» spiega, «mi sarebbe piaciuto lavorare con loro per traghettarli in una dimensione più vicina alla house che alla disco. “Dirty Talk” resta un gran pezzo, avanguardista nell’uso della batteria ed ispiratore per chi in seguito si è dedicato alla house, ma il mondo intero sa che la genesi della house spetta ai creativi di Chicago. La disco e la house non vanno assolutamente confuse perché non sono la stessa cosa, e il pezzo di Boncaldo appartiene più alla disco visto che fu prodotto nel 1982 quando la house, di fatto, non esisteva ancora». Da abile uomo d’affari, Boncaldo cerca comunque di tirare acqua al suo mulino facendo scrivere sul centrino del disco “the original house sound of M.B.O.” parodiando, anche graficamente, il “the house sound of Chicago” che si ritrova sull’omonima compilation della D.J. International Records uscita nel 1986. Un secondo 12″ marchiato con la sigla MBO viene commercializzato, pure in formato picture disc, attraverso la lombardoniana Technology su cui, sempre nel 1987, esce “War… No More” assemblato insieme a David Sabiu. Analogamente a “M.B.O. Liverpool Theme”, la title track incrocia stilemi house a impostazioni eurobeat, “Theme For Peace” è un restyling piuttosto raffazzonato di “Dirty Talk” mentre “House Nation” suona come la versione tarocca dell’omonimo di The House Master Boyz And The Rude Boy Of House, un classico di Farley Jackmaster Funk pubblicato l’anno prima dalla Dance Mania di Chicago.

Midas - One O OneMidas – One O One (DFC)
Dietro il nomignolo Midas si celano Riccardo Persi, Davide Sabadin, Claudio Collino ed Andrea Gemolotto che ritroveremo più avanti in altri progetti. “One O One” sintetizza certe sfumature della house sampledelica britannica con suoni e costruzioni che risentono ancora dell’influsso italodisco specialmente nella Extended Dance Mix. Più filo-house risulta la Reaction Drums Mix, in cui presenzia ancora il sample dell’arcinota “Long Train Running” dei Doobie Brothers ma combinato insieme al suono di quello che pare un organo hammond. Persi & co. incideranno ancora come Midas pubblicando “Nummer Een” nel 1988 e il meglio riuscito “You Make Me Feel So Good” nel 1989, quando la house italiana acquista più personalità e carattere.

PPG - Jack The BeatP/P/G – Jack The Beat (DFC)
P/P/G sta per Persi Previsti Gemolotto, i tre che uniscono le forze per creare il disco in questione. Intervistato anni fa in Decadance Extra, Riccardo Persi racconta il modo in cui giunge alla house, lasciandosi alle spalle l’esperienza coi Krisma e con l’italodisco. «Le major erano ancora legate al concetto di album, io puntavo invece ad incidere dischi mix con etichette indipendenti che velocizzavano molto l’iter, bypassando burocrazia ed attese interminabili dovute al passaggio del pezzo di scrivania in scrivania. Dopo aver creato i Premio Nobel con Claudio Collino e Davide Sabadin, decidemmo di prendere le distanze da quello che era l’andazzo generale della dance italiana. Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, ammiccando pure alla sigla simile DMC. Non a caso proprio in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Il catalogo della DFC è inaugurato da “Jack The Beat”, prodotto nello studio di Gemolotto ad Udine e a cui partecipa Fulvio Zafret come tecnico del suono. Il pezzo segna la fusione tra house ed italodisco: da una parte la classica costruzione ritmica con kick/hihat in levare, snare e qualche vocione a declamare il titolo ammiccando al jack di estrazione chicagoana e ai successi dei J.M Silk, dall’altra un bassline che pare citare quello di “Moskow Diskow” dei Telex, pianate jeffersoniane e qualche scorcio melodico classicamente disco/funk a richiamare “Dancer” di Gino Soccio. Tra ’88 e ’89 il brano viene pubblicato anche all’estero ma il follow-up, “Funky Domanuva”, rimane nell’anonimato. Persi e Gemolotto si rifaranno a partire dal 1989, quando realizzano “Sueño Latino” del progetto omonimo a cui seguiranno svariate altre hit (Atahualpa, Glam, Ramirez) che renderanno la DFC uno dei capisaldi della dance made in Italy negli anni Novanta.

The Jam Machine - Funky (Let's Go)The Jam Machine – Funky (Let’s Go) (X-Energy Records)
Prodotto da Dario Raimondi ed Alvaro Ugolini per la loro X-Energy Records, “Funky (Let’s Go)” mette insieme alcune delle caratteristiche primarie della house diffusasi ai tempi in Europa, un beat in 4/4, un basso avvolgente, qualche breve sample vocale giocato col campionatore ed un paio di elementi melodici. Ad arrangiarlo è Paolo Gianolio, che ha già maturato esperienze in ambito dance collaborando con musicisti di prim’ordine come Celso Valli, Claudio Simonetti (nell’album dei Crazy Gang) e Mauro Malavasi. «Conobbi Dario Raimondi qualche anno prima in uno studio di Cremona dove ci incrociammo in occasione di un lavoro che poi portammo avanti insieme, credo fossero alcuni brani per le Fun Fun» ricorda oggi Gianolio. «Da lì nacque la collaborazione che andò avanti per un bel periodo in cui producemmo diversi progetti, proprio come The Jam Machine, uno di quelli nati davvero per caso. La costruzione di “Funky (Let’s Go)” era basata sul puro divertimento e su idee da cui ne sbocciavano altre. Andavamo avanti a ruota libera, senza alcuna tensione o ansia per il risultato. In quegli anni la tecnologia aiutava fino ad un certo punto, a seconda delle necessità ed esigenze ricorrevamo a trucchi ed artifici. Erano tempi in cui ci si poteva esprimere attraverso varie tipologie di dance ma l’influenza della house mi attrasse per i suoi contenuti. Nonostante le drum machine e i sequencer fossero già molto usati, la house manteneva di fondo una cosa fondamentale, lo swing e il “nervo” musicale che faceva ballare anche le sedie». Non è mistero che in quel periodo più di qualche musicista riserva alla house giudizi tutt’altro che lusinghieri in virtù del fatto che fosse una musica realizzabile anche da chi non in grado di leggere lo spartito. A tal proposito Gianolio sostiene che «leggere lo spartito non significa saper costruire un brano musicale. La dance si è creata il proprio pubblico indirizzando il ritmo sulla semplicità scelta anche da chi, pur non avendo preparazione musicale, ha saputo inventare melodie ripetitive ma accattivanti su ritmi al servizio del ballo. Le buone idee non tengono conto da dove vengono». Nel passato di Gianolio c’è anche la collaborazione con la Goody Music di Jacques Fred Petrus (assassinato proprio nel 1987) in progetti come Change, Silence e The Brooklyn, Bronx & Queens Band – meglio noti come B. B. & Q. Band. Probabilmente una prova più che utile per ciò che avviene in seguito con la X-Energy Records. «L’esperienza che un musicista acquisisce nel suo cammino gli servirà sempre da base per sviluppare il proprio gusto secondo il proprio carattere. Silence ad esempio, che mi portò a collaborare con Celso Valli, mi aprì il mondo della melodia e dell’armonia applicate alle canzoni. Change invece mi ha fatto capire, grazie a grandi musicisti come Davide Romani e Mauro Malavasi, come avvicinarsi alla musica in modo che la musica stessa ti si avvicinasse. La mia vita è trainata dalla musica, l’importante è viverla come mezzo per esprimerla. L’anima è, con o senza sapere, il tramite, il ponte che permette di esprimere al mondo la sensibilità di ognuno di noi» conclude Gianolio. “Funky (Let’s Go)” viene registrato presso il Pick-Up Studio di Reggio Emilia e licenziato all’estero (Canada, Stati Uniti, Spagna, Paesi Bassi) conquistando la presenza in diverse compilation. Dal 1988 il progetto The Jam Machine ospiterà autori a rotazione: a “Graffiti House” lavorano Julio Ferrarin e Gino Woody Bianchi, in “Everyday”, del 1989, figurano invece Corrado Rizza e i cugini Frank e Max Minoia. L’ultimo è “Move On Up” del ’93, cover dell’omonimo di Curtis Mayfield, prodotto dal team della Lemon Records (di cui abbiamo parlato qui) col supporto vocale di Orlando Johnson e Karen Jones.

Yagmur - Ali BabaYagmur – Ali Baba (DFC)
A poca distanza da “Jack The Beat” di P/P/G di cui si è parlato più sopra, Persi, Collino e Sabadin incidono un pezzo contraddistinto da linee melodiche orientaleggianti. All’interno un sample vocale tratto da “Electrica Salsa (Baba Baba)” dei tedeschi Off ed assoli di scratch, “tag” sonora di Gemolotto che allora bazzica il mondo del mixing acrobatico del DMC. L’Extended Dance Mix è più connessa alla new beat che alla house, la Percussion Mix invece lavora meglio il ritmo, anticipando la formula che gli Yagmur presentano in “Woo-Alli-Alli” del 1988, battendo ancora itinerari esotici ed adoperando un sample vocale che si ritroverà più avanti in “We Are Going On Down” dei Deadly Sins.

1988, un anno spartiacque
Dal 1988 in poi la produzione va intensificandosi ma l’impressione è che la house, in Italia, continui ad essere ancora discograficamente battuta con scarsa o inesistente cognizione di causa a supporto di parodie, cloni di successi esteri e brani ironico-demenziali come “C’è Da Spostare Una Macchina” di Francesco Salvi che ricicla la base di “The Party” di Kraze, “Checca Dance” di Gay Forse Featuring D.J. Roby, che canzona Claudio Cecchetto in un quadro di continui riferimenti all’omosessualità, ed “Inno Del Corpo Sciolto” di Toilet Paper, che campiona l’omonimo di Roberto Benigni e semina citazioni per “È Qui La Festa?” di Jovanotti. Per diversi discografici nostrani la house pare una parentesi stilistica più che un ceppo culturale, qualcosa a cui approdare adoperando certi suoni ma ignorandone le origini. Ed ecco sfilare le presunte house version di “Just An Illusion” degli Imagination a firma Marco Martina (arrangiata da Franco Diaferia) e quella di “Jesahel” dei Delirium. Persino la blasonata Irma Records ha, come racconta Vittorio “Vikk” Papa su Orrore A 33 Giri uno scheletro nell’armadio: “Tombao Meravigliao”, brano che ironizza sullo sciatore Alberto Tomba in una delle sue stagioni più fortunate, facendo il verso al “Cacao Meravigliao” di Renzo Arbore (dal programma tv “Indietro tutta!”). Nulla di house al suo interno ma vale la pena soffermarsi su uno degli autori, Cesare Collina, un paio di anni dopo all’opera con Kekko Montefiori e Flavio Vecchi su Key Tronics Ensemble, diventato uno dei vessilli della italo house. Il 1988 è anche l’anno in cui Lorenzo Cherubini conduce, su Italia 1, il programma “1, 2, 3 Jovanotti”, imponendosi al pubblico dei giovanissimi grazie al primo album, “Jovanotti For President”, un mix tra hip hop all’italiana, pop e qualche riferimento house. Il mercato però necessita ancora di tempo, e a testimonianza di ciò è utile ricordare che uno dei top seller italiani del 1988 è “Faccia Da Pirla” di Carlo Marchino alias Charlie. Segue l’analisi di produzioni nostrane targate 1988, a cui se ne potrebbero aggiungere altre in futuro.

49ers - Die Walküre49ers – Die Walküre (Media Record)
Sulle ali dell’entusiasmo per il successo internazionale raccolto con “Bauhaus” di Cappella, Gianfranco Bortolotti lancia un altro progetto che farà la fortuna della sua casa discografica. Col nome ispirato dalla squadra di football americano, i San Francisco 49ers, crea i 49ers che traghettano nuovamente la Media Record, prossima a trasformarsi nella definitiva Media Records, all’attenzione generale. A livello di concept, 49ers potrebbe essere considerata l’evoluzione di un altro progetto bortolottiano di qualche anno prima, Superbowl, anch’esso intrecciato al mondo del football. Indizi evidenti si palesano sulla copertina del singolo “Oé – Ooh” del 1985, dove il nome 49ers appare su uno dei due elmetti, insieme alla ristilizzazione del logo della squadra stessa con le iniziali del produttore bresciano. «Effettivamente tra Superbowl e 49ers c’era una certa continuità dettata dalla mia passione per il football americano» rivela oggi Bortolotti. «Dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti dell’Ovest, tornai talmente entusiasta per le prodezze di Joe Montana, quarterback dei San Francisco 49ers originario di Brescia e coi parenti che vivevano poco distanti dalla casa dei miei genitori, da dedicare un disco al Super Bowl. La mia passione per il football americano non si spense in tempi brevi, continuai a seguire per anni le avventure dei San Francisco 49ers e quando possibile, durante i miei viaggi negli States, cercavo di non mancare mai alle loro partite. Quando scoprii l’origine del nome della squadra, che rimandava ai cercatori d’oro del ’49 del secolo precedente, pensai di adottarlo per un nuovo progetto. Immaginando che una grande hit discografica fosse la mia miniera d’oro, ne auspicai lo stesso vantaggio». “Die Walküre”, assemblato insieme a Pierre Feroldi, mescola parecchi sample presi da brani più o meno noti, come “I.O.U.” dei Freeez e “Papa’s Got A Brand New Pigbag” dei Pigbag, e viene pubblicato in numerosi Paesi, anche extraeuropei. Tra i risultati più esaltanti l’ingresso nella top 20 dei singoli in Francia. «Effettivamente lì funzionò particolarmente bene ma lo licenziammo, più o meno, in tutto il mondo. L’house music stava esplodendo. Da sempre feroce ascoltatore di musica classica ed opera, presi in prestito il titolo in lingua tedesca da uno dei quattro drammi di Richard Wagner di cui ammiravo lo stile innovativo, sempre orientato al nuovo e all’eccezione. Sentendomi in qualche modo (ovviamente con le super dovute distanze e rispetto!) come Wagner, per l’innovazione che sostenevo con la house music, “Die Walküre” mi sembrò il titolo più adatto allo scopo». A supporto del brano viene girato un videoclip in cui l’immagine del gruppo è rappresentata da Josy Gil Persia, che però non copre alcun ruolo all’interno del progetto. «All’inizio dell’avventura eravamo ancora impreparati nella ricerca del talento e, come avveniva solitamente negli anni Ottanta, “usammo” anche noi una artista col solo scopo di sostenere la canzone in un video. Qualche anno dopo iniziai a scommettere sui DJ con la Heartbeat, strategia per supplire alla mancanza di rockstar nel territorio della musica da discoteca» conclude Bortolotti. La storia dei 49ers prosegue l’anno seguente con “Shadows” e soprattutto “Touch Me”, dove elementi dell’omonimo di Alisha Warren ne incrociano altri presi da “Rock-A-Lott” di Aretha Franklin e contribuiscono a rendere l’italo house un fenomeno d’esportazione, insieme a gruppi come Black Box, FPI Project, Double Dee e Sueño Latino. Sarà la britannica Ann-Marie Smith, che sostituisce la temporanea presenza di Dawn Mitchell, a dare voce al resto della discografia e a rappresentare l’immagine del gruppo negli anni a venire, quando il successo sarà altalenante ma arricchito da un ricco parterre di blasonati remixer house tra cui Masters At Work, E-Smoove e Maurice Joshua.

Abel Kare - AllallaAbel Kare – Allalla (Out)
Roberto Zanetti, che brilla nel ruolo di interprete nel firmamento italodisco come Savage, è il Robyx che produce il pezzo in questione per la Out di Severo Lombardoni. La versione principale è la Afro-Acid Version che è una summa di influenze new beat ed house. All’interno l’artista sovrappone ritagli vocali e ritmici assemblandoli con la metodologia sdoganata dai britannici. In mezzo a varie citazioni (l’urlo di “Jesus Loves The Acid” di Ecstasy Club, un bassline che ricorda il riff di “It’s More Fun To Compute” dei Kraftwerk) piazza anche una pianata che strizza l’occhio a quella di “The Party” dei newyorkesi Kraze, brano che Zanetti coverizza proprio nello stesso anno per un’altra etichetta della Discomagic di Lombardoni, la Technology, firmandola Rubix. In parallelo incide “Me Gusta” nelle vesti di Raimunda Navarro, lasciandosi affiancare dalla cantante Paola Bonini (la Paula Evans di “Ciao”, 1989). Il tutto prodotto nel Casablanca Recording Studio a Massa Carrara, lì dove nasceranno le molteplici hit milionarie della sua DWA.

Amadhouse - Shock Me AmadhouseAmadhouse – Shock Me Amadhouse (Memory Records)
Affiancato da Alessandro Cardini, Damiano Prosperi realizza questo brano per la Memory Records di Parma che riesce a licenziarlo in Svezia, Germania e Grecia. “Shock Me Amadhouse” è fondato su ingenui strimpellamenti sampledelici sequenziati su una linea di basso ispirata da “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders. Il titolo e l’alias sono un gioco fonetico che rimanda ad una delle più note sonate di Wolfgang Amadeus Mozart, il rondò “alla turca”, risuonato all’interno della traccia in uno smaccato “Bontempi style”.

B.C. - HousebadB.C. – Housebad (Soundtrack Record)
“Housebad” è una traccia che nella sua essenzialità rammenta molto la schematizzazione della house prima maniera di Chicago, con quell’asciutto minimalismo tra ritmi programmati con drum machine ed il virtuoso basso funzionale nei club. Un altro rimando alla house d’oltreoceano pare rimarcato pure dal titolo di una delle due versioni, Bam Bam, omonima del Bam Bam (Chris Westbrook) della Westbrook Records. Non mancano ovviamente dei sample tra cui quelli di “Bad Girls” di Donna Summer e “Le Freak” degli Chic. Ad assemblare il tutto sono Andrea Baratella ed Orlando Bragante che per la loro prima esperienza discografica decidono, come si è soliti fare allora, di inglesizzare i loro nomi in Andrew Bratley e Roland Brant. «Tradurre in inglese i nostri riferimenti anagrafici servì sia a dare una parvenza estera al prodotto, sia ad evitare di “bollinare” tutti i dischi col marchio SIAE, giacché ai tempi i vinili provenienti dall’estero erano esenti da tale procedura» rivela oggi Bragante. «La Soundtrack Record, di mia esclusiva proprietà, fu la prima etichetta che creai, nata esclusivamente per la produzione di musica dance appartenente al cosiddetto circuito di “tendenza”. La utilizzai per una decina di produzioni e rimase attiva per soli tre anni. Registrammo “Housebad” con un otto piste della Fostex e lo masterizzammo sul classico Revox a due piste. I suoni provenivano da un Roland JX-8P, un Ensoniq Mirage (il primo campionatore disponibile sul mercato ad un prezzo abbordabile) ed una Yamaha DX7. A questi si aggiunsero due drum machine, una Roland TR-909 ed una Yamaha RX7. Il tutto pilotato da un sequencer Roland MSQ-700 fatta eccezione per la parte della RX7, non quantizzata ma suonata live tramite i pad e registrata su due tracce separate del Fostex per dare una maggiore sensazione di batteria reale. Il brano piacque molto ai DJ e venne suonato parecchio nei club ma ai tempi la house era un genere ancora di nicchia quindi non vendette molto, dalle duemila alle tremila copie circa. Poiché non riscosse il successo desiderato, decisi di abbandonare il progetto B.C. e dedicarmi ad altro: avevo già intrapreso il viaggio verso nuove “frontiere” nell’ambito dell’allora nascente techno». Bragante infatti si ritaglierà spazio nel corso degli anni Novanta con la musica dream/progressive, filone di cui diventa uno dei principali portabandiera.

Beat Kick - Claro Que SiBeat Kick – Claro Que Si (Sunset)
Con un piglio aggressivo quasi new beat, Luca Marci realizza “Claro Que Si” per la Sunset, etichetta affiliata alla Renata Edizioni Musicali di Parma di cui si è già parlato più sopra. Gli elementi che si rincorrono sono gli stessi che compaiono in praticamente tutte le produzioni house del periodo, beat in 4/4 usati come traino per un carico di sample carpiti, senza un filo conduttore ben preciso, da vari dischi noti (come “Situation” di Yazoo) e non, con l’aggiunta di melodie pianistiche appena abbozzate. La formula, chiaramente, non può garantire successo a tutti ma in tanti si buttano nella mischia tentando il grande salto.

Co-Mix Featuring Y-10 - RelaxCo-Mix Featuring Y-10 – Relax (X-Energy Records)
A metà strada tra eurodisco e il tipico “fare house” dei tempi, “Relax”, prodotta dai fratelli Paolo e Pietro Micioni, è la cover dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood del 1983. Con la velocità aumentata rispetto all’originale e con l’aggiunta di una parte rappata realizzata dall’enigmatica Y-10 (un possibile rimando all’omonima automobile della Autobianchi, assai popolare in quel periodo?), il brano gira sulla linea del basso moroderiano carpito ad “I Feel Love” di Donna Summer a cui i fratelli romani intersecano una pianata e qualche velato rimando ad “High Energy” di Evelyn Thomas. A curare l’editing è Gino “Woody” Bianchi che oggi racconta: «In quel periodo lavoravo molto con la X-Energy Records, il mio ruolo principale era fare gli edit in post produzione nel piccolo studio che avevo allestito a casa, con un registratore Revox B77 ad alta velocità ed un paio di multieffetto. In pratica mi portavano i nastri con le registrazioni del pezzo ed io sceglievo le parti “ristesurando” e tagliando il nastro, creando in editing sezioni inesistenti sia su ritmiche che su bassi (un esempio di ciò che facevo lo si può sentire nella compilation “Garage Classics Volume 1”, uscita nel 1989 sempre su X-Energy Records e di cui è disponibile un estratto qui). Anche su Co-Mix il mio intervento avvenne in post production. L’inciso fu campionato paro paro mentre il rap venne registrato lento per poi essere ricampionato, velocizzato ed armonizzato con un effetto. A produrre il tutto furono i fratelli Micioni e il DJ Angelino. Il disco andò abbastanza bene, dai rendiconti appresi che vendette tremila copie, non male per una cover. Nel 1988 uscì pure “Graffiti House” di The Jam Machine (progetto nato l’anno prima e di cui abbiamo parlato più sopra, nda), un pezzo partorito da una mia idea mentre collaboravo con Giulio Ferrarin. Era uscito da poco “The Opera House” di Jack E Makossa e, da amante del sound di Arthur Baker, pensai di rifarmi a quello “schema” con altri sample stile anni Sessanta. Grazie alla bravura di Ferrarin realizzammo il brano in una notte appena. Poi dedicai un’altra giornata al mix e all’editing. Nel mondo discografico stava cambiando tutto radicalmente e velocemente. A tal proposito, un anno particolarmente importante fu il 1987: le ritmiche della LinnDrum e della Alesis HR-16 iniziarono a dare spazio a quelle della Roland e dei campionatori Akai ed E-mu Emulator, mentre i bassi divennero ripetitivi e molto gommosi. Si sviluppò forte interesse intorno ad etichette americane come D.J. International e Trax Records ma un ruolo decisivo lo svolse pure la prima house britannica tipo Yazz, Bomb The Bass e soprattutto la serie di campionamenti su S’Express. Da lì partirono le idee e si sperimentò inserendo il piano ispirato a “Going Back To My Roots” di Lamont Dozier che diede origine alla prima italo house. “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., poi, fu un’assoluta genialata, credo sia stato il brano ad aver aperto la strada ad un sound europeo oltre a sdoganare un modo diverso di utilizzare le macchine (sample e drum machine). Ai tempi la house americana risultava troppo underground per le radio ma i britannici sfruttarono abilmente il concetto di “canzone” inserendolo nel sound house. Forse senza il movimento europeo (Gran Bretagna, Olanda, Italia) l’house music non avrebbe mai preso corpo in maniera consistente ed importante come è effettivamente avvenuto».

Cutmaster-G & The Plastic Beats - Rock On!Cutmaster-G & The Plastic Beats – Rock On! (DFC)
“Rock On!” è l’unico brano (remix a parte) che Andrea Gemolotto firma come Cutmaster-G, nickname con cui ai tempi si fa largo ai campionati DMC. Autentico mosaico di scratch e campionamenti (tra cui l’assolo di chitarra rallentato di “Ain’t Talkin’ ‘Bout Love” dei Van Halen, ripreso tempo dopo dagli Apollo 440 in “Ain’t Talkin’ ‘Bout Dub”), il pezzo pare girare sulla base di “Beat Dis” di Bomb The Bass ed attinge il main vocal da “Rock Party/Smoke On The Water” dei Da Rock, un brano che circola parecchio negli ambienti del turntablism e che a sua volta seziona “Smoke On The Water” dei Deep Purple e dal quale qualche anno dopo il britannico Tinman estrarrà uno dei sample per la sua hit “Eighteen Strings”.

Dalu - Do You Like HouseDalu – Do You Like House? (Memory Records)
La parmense Memory Records di Alessandro Zanni e del compianto Stefano Cundari continua a sondare il terreno della house con questo “Do You Like House?” prodotto dal citato Damiano Prosperi sul modello marrsiano, assemblando un alto numero di sample di estrazione eterogenea (incluso un frammento di “Don’t Let Me Be Misunderstood” dei Santa Esmeralda) sonori e vocali, farcendo il tutto con immancabili tastierate di pianoforte.

DJ Atkins & Sharada House Gang - Let's Down The HouseDJ Atkins & Sharada House Gang – Let’s Down The House (Media Record)
Con “Let’s Down The House” Gianfranco Bortolotti rinnova la direzione stilistica di un progetto partito nel 1984 in seno all’italodisco, Paul Sharada. Al personaggio che presta voce ed immagine ai tempi di “Florida (Move Your Feet)”, “Dancing All The Night” o “Boxers”, Lamott Eugene Atkins (nel 1985 finito nel cast del film “Lui È Peggio Di Me” con Adriano Celentano e Renato Pozzetto) viene ora attribuito il ruolo di DJ. Il lavoro in studio è di Pieradis Rossini e Pierre Feroldi che realizzano due versioni, House Side ed Acid Side, nelle quali montano vari sample (tra cui quello di “Reach Up” di Toney Lee e quello di “Last Night A D.J. Saved My Life” degli Indeep) ed un basso di moroderiana memoria. Nonostante sia l’ennesimo dei pezzi col sampling in stile M.A.R.R.S., Bortolotti lo piazza comunque in tutta Europa, tra Paesi Bassi, Francia, Spagna, Germania, Portogallo e persino nel lontano Giappone. La storia di Sharada House Gang continuerà per i dieci anni successivi con successo alterno. Tra i vari singoli si ricordano “House Legend”, in stile Technotronic, “Life Is Life”, una sorta di cover di “Mary Had A Little Boy” degli Snap!, “It’s Gonna Be Alright”, cantata da Valerie Etienne dei Galliano, “Dancing Through The Night”, col featuring di Ann-Marie Smith dei 49ers, “Keep It Up”, con la voce di Zeitia Massiah, e “Gipsy Boy” a cui abbiamo dedicato un articolo qui.

Don Pablo's Animals - IbizaDon Pablo’s Animals – Ibiza (Meal Power)
Ideato e sviluppato da Christian Hornbostel, “Ibiza” è il primo singolo del progetto Don Pablo’s Animals in cui l’autore mescola e sovrappone tutti gli elementi che in quel periodo portano ad incanalare automaticamente un brano nel calderone della house. Scratch, sample raccattati a mani basse da fonti di varia estrazione (tra cui Chic, James Brown, LNR e Run-DMC) senza ovviamente dimenticare inevitabili pianate. «Appena tornato da Ibiza, totalmente devastato per tutto quello che vidi e vissi – qualcosa di assolutamente rivoluzionario ed avanguardistico per l’epoca, sia dal punto di vista musicale che da quello della moda e del modo stesso di vivere -, pensai di dedicare all’Isla Blanca il disco» racconta oggi Hornbostel. «Lo realizzai al 90% con un campionatore Akai S1000 rubando, saccheggiando ed editando materiale musicale ben oltre il limite della legalità. Se ben ricordo, vendette diecimila copie, un risultato più che ottimo ai tempi per quel tipo di produzioni». “Ibiza” è il preludio di un successo ancora più grande, quello raccolto con “Venus” del 1989 con cui il terzetto della BHF Production (Paul Bisiach, Christian Hornbostel e Mauro Ferrucci) riprende l’omonimo degli Shocking Blue, rinverdito tre anni prima dalle Bananarama, e raggiunge l’ambito palco di Top Of The Pops, lì dove peraltro viene accolto a braccia aperte anche per “Moments In Soul” di J.T. And The Big Family a cui segue, qualche tempo dopo, “I Need You” di Nikita Warren che abbiamo analizzato qui nel dettaglio. «Credo sia necessario puntualizzare un aspetto cronologico importante riguardante i brand Don Pablo’s Animals e J.T. And The Big Family» dice Hornbostel. «Entrambi furono creati da me prima della nascita del team BHF ed inglobati in esso solo successivamente. L’ispirazione per i nomi venne da un famoso negozio padovano di dischi, al tempo di proprietà di Paolo ‘Don Pablo’ Turiaco e del figlio Giovanni. Da qui l’iniziale inglesizzata nella prima lettera, J.T., che stava appunto per il suo nome e cognome. Quasi tutti i DJ dell’epoca fissarono come punto di riferimento il Dischi Arcella, formando quella che loro stessi definirono una “grande famiglia” (Big Family appunto). Qualche anno più tardi, quando fondai la Shadow Productions con Mr. Marvin (di cui abbiamo parlato qui, nda), Giovanni Turiaco tornerà a collaborare con me nei progetti Hortuma (“The Fantastic Bongo Dream”, 1994) e Sacro Cosmico (“Yattosan”, 1995)». A supportare discograficamente “Ibiza” è la Meal Power del gruppo veronese S.A.I.F.A.M. che continua a sfruttare commercialmente il nome quando si trasforma in New Meal Power affidando svariati nuovi singoli di Don Pablo’s Animals (“Birmania”, “Dreadlock Holiday”, “Ganja Party”, “Walking In The Rain”, giusto per citarne alcuni) a produttori differenti. «Se da un lato c’era un’ingenuità positiva che rese possibili azioni folli e coraggiose nell’editing e nel campionamento, cosa comunque di moda ovunque in quel periodo, dall’altro quella stessa ingenuità generò una pessima gestione dei diritti dei cosiddetti “marchi di servizio”, e ciò avvenne da parte della maggioranza dei produttori di allora. È altresì vero che la Meal Power fece semplicemente e legittimamente il proprio interesse, anche perché non mostrammo più intenzione di produrre ancora musica con quel marchio o in quella direzione. Qualche mese più tardi infatti sarebbe partita l’avventura Interdance, sempre con Ferrucci e Bisiach e il contributo di altri produttori come Marco “Lys” Lisei e i fratelli Visnadi» conclude Hornbostel.

El Chico - D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.El Chico – D.I.N.D.O.N.D.E.R.O. (Out)
“D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.” è il primo disco che Marco Bresciani firma come El Chico. Supportato dalla Out di Severo Lombardoni, il noto DJ toscano realizza un autentico potpourri di sample in stile “Pump Up The Volume”, talmente serrato da sembrare più un megamix che un brano vero e proprio. Con la stesso piglio pochi mesi più tardi incide “House Party” a cui segue, nel 1989, “House Music Lovers”, in cui emerge chiaramente l’influenza di altri act italiani che raccolgono successo internazionale (49ers, Black Box, FPI Project). Bresciani, già coinvolto nel progetto italodisco Radiorama, torna a vestire i panni di El Chico per “Brisa Latina” del ’90, sui binari di una house ormai virata euro.

Gino Latino - comboGino Latino – Welcome (Yo Productions) / Gino Latino – È L’ Amore (Time Records)
A cimentarsi in una manciata di pezzi ammiccanti alla house post M.A.R.R.S. è pure un giovane Lorenzo Cherubini, prodotto da Claudio Cecchetto sulla sua Yo Productions: “Welcome” prima e “Yo” poi bazzicano suoni e ritmi che allora segnano una cesura dalla più classica italodisco, portando avanti un collage tra hip hop, funk, new beat ed hip house. Entrambi vengono licenziati all’estero (Gran Bretagna e Stati Uniti compresi, rispettivamente dalla blasonata FFRR e dalla Harbor Light Records) e sono firmati come Gino Latino, pseudonimo usato contemporaneamente da un artista “house friendly” di una casa discografica diversa, la Time Records di Giacomo Maiolini (per tutti i dettagli in merito si veda qui).

Horn & Art - Action! (The Cock)Horn & Art – Action! (The Cock) (Meal Power)
Lasciata alle spalle l’esperienza nell’italodisco/rock dei Fard (“Chiamami Da Tokyo”, 1984, “Flash, Running Into The Night”, 1986, entrambi editi dalla EMI) , Christian Hornbostel approda alla house che, tra 1987 e 1988, inizia a scardinare le certezze che le compagnie discografiche ripongono ancora nella canonica “disco dance all’italiana”. «Per me il passaggio dall’italodisco alla house avvenne in modo molto naturale, conseguentemente allo sviluppo della musica da discoteca e alla mia attività da DJ» ricorda oggi Hornbostel. «Le prime “club edit” presenti sui dischi furono uno stimolo ed un’ispirazione molto forte per iniziare ad interpretare la produzione musicale in un modo inedito, con suoni ed arrangiamenti orientati verso il genere house, allora del tutto nuovo». “Action! (The Cock)”, prodotto insieme a Max Artusi (artefice, qualche anno più tardi, di “What’s Up” di DJ Miko), è una traccia-collage con cui i due si cimentano nel sampling assemblando funk e disco a matrici house, usando come collante sia un campione vocale di “Get Up Action!” degli olandesi Digital Emotion, sia il canto di un gallo, cinque anni prima rispetto ad “El Gallinero” di Ramirez. Ecco spiegata quindi la ragione del titolo. «A quel tempo ero spesso in studio da Artusi col quale lavoravo in una radio regionale. Lui era un esperto di campionatori (parliamo dell’era dell’Akai S1000) e un giorno mi fece sentire delle cose divertenti ed interessanti che stimolarono la mia curiosità goliardica in modo così determinante da mettermi subito a cercare qualcosa di sorprendente, un suono che potesse colpire con violenza l’attenzione dell’ascoltatore. Optai per il chicchirichì del gallo, ovviamente circondato con suoni house». Il 12″ esce sulla veronese Meal Power, la stessa che pubblica altri dischi di Hornbostel e dei suoi soci della BHF Production come “Ibiza” di Don Pablo’s Animals di cui si è parlato poche righe fa.

House Force - Pig HouseHouse Force – Pig House (S.P.Q.R.)
Sebbene Discogs riporti il 1986 come data di pubblicazione, il disco in questione esce due anni più tardi su una delle tante etichette affiliate alla Best Record di Claudio Casalini. Lo stile anticipa gli stilemi che diventeranno classici dell’italo house, con assoli di piano in evidenza corredati da sample vocali. Autore è Giovanni Cinaglia, meglio noto come Cinols, che oggi racconta: «Cominciai a mettere i dischi nelle radio locali nel 1977. Il periodo storico era meraviglioso per funk e disco ma con l’avvento dell’elettronica, ad inizio degli anni Ottanta, la qualità e soprattutto la carica emozionale della dance cominciò a perdere colpi. Evidentemente questa sensazione si diffuse anche e soprattutto negli States tant’è che, già nel 1985, in alcune discoteche i DJ iniziarono a suonare musica “fatta in casa” con le drum machine della Roland. Il fenomeno prese piede velocemente e l’anno successivo uscirono tantissimi dischi house che fortunatamente arrivarono anche in Italia. Per me fu la svolta ma era ancora presto per proporre al pubblico un’intera serata di house music che vedrà la sua totale affermazione nel nostro Paese durante il 1987. Ad attrarre la mia attenzione furono specialmente DJ/produttori americani come Todd Terry, Ralphi Rosario, Marshall Jefferson, Farley Jackmaster Funk, Steve ‘Silk’ Hurley ma pure alcuni britannici come Coldcut e Simon Harris. In quel periodo diversi DJ nostrani si misero in gioco per produrre un disco. Nel 1988 volli provare pure io e così realizzai “Pig House”. Ai tempi non possedevo campionatori, sequencer e tastiere, avevo solamente una batteria elettronica Roland TR-909, quindi fui costretto ad affidarmi ad uno studio di registrazione esponendo le mie idee al tecnico di turno che fino al nostro incontro non aveva mai sentito parlare di house music. Non fu facile entrare in sintonia con lui. Insieme alla mia TR-909, ruolo di protagonista lo giocò l’Akai MPC60: oltre ad essere utilizzato come sequencer, ebbe la funzione di campionatore con cui elaborammo sample di batterie elettroniche, bassi e voci. Quelle femminili le registrammo in studio ma non rammento da dove fu estrapolato l’eins zwei drei vier. Per i suoni usammo un Roland D-50 e un paio di expander tra cui il Roland D-550. Era presente anche un bel Lexicon 480L, appena giunto sul mercato, destinato alla riverberazione. Il mixer invece era un Soundcraft di cui non ricordo più il modello. Per completare il pezzo impiegammo circa quindici giorni. Non so esattamente quante copie abbia venduto ma ricordo che riuscii ad andare quasi in pari con le spese sostenute per la sua realizzazione. Adottai come nome House Force per dare subito l’idea di cosa si trattasse ma da lì a breve, visto l’uso esasperato che si fece della parola “house”, decisi di abbandonarlo. Tutte le produzioni che seguirono a “Pig House” furono interamente prodotte presso lo studio che ho allestito alla fine del 1988 e che nel corso degli anni ha subito regolarmente cambiamenti ed aggiornamenti». Dal 1991 Cinols inizia a collaborare con la Media Records per cui produce diversi dischi tra cui “Divin’ In The Beat” degli East Side Beat, “Congo Bongo” di The African Juice, “The Only One” di Base Of Dreams e “Rock House Party” di Theorema.

J.M.B.I. - Snoopy's Count HouseJ.M.B.I. – Snoopy’s Count House (American Records)
Dedicato alla nota discoteca modenese Snoopy Countdown a cui allude chiaramente il titolo e dove, pare, nei primi anni Settanta fece il suo debutto come DJ Vasco Rossi, il brano è l’ennesimo dei “figli” di “Pump Up The Volume”. Ad occuparsi degli arrangiamenti e degli scratch sono i disc jockey Max Gavioli ed Ivan Delisi mentre la produzione è affidata a Roberto Attarantato che pubblica il 12″ sulla sua American Records a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Il tutto registrato presso il B.M.S. Recording Studio di Modena. Sembra che l’idea di partenza sia venuta a Filiberto Degani, ai tempi titolare del locale ed anni dopo coinvolto in guai giudiziari per il fallimento dello stesso come si può leggere qui. In circolazione ci sono almeno tre tirature con altrettante copertine, tutte dedicate all’indimenticata discoteca di Piazza Cittadella di cui si possono scorgere interessanti dettagli tra cui la consolle e parte degli esterni. Nonostante non sia diventato una hit, il brano viene licenziato in diversi Paesi esteri (Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Francia, Canada) e ciò alimenta l’entusiasmo degli autori che, facendo leva sui medesimi elementi, approntano altri due singoli, “Rat In The Movie’s House” e “Snoopy’s Makes 3° (Bloody Hell?)”.

Kekkotronix - It's Time To ReliveKekkotronix – It’s Time To Relive (Top Line Productions)
Edito dalla milanese Top Line Productions, “It’s Time To Relive” è un brano non propriamente ascrivibile alla house in senso stretto, seppur contenga alcuni elementi che ai tempi lo rendono appetibile per coloro che prediligono programmazioni inclini alla house con dilatazioni afro/baleariche. Le tre versioni sul 12″ derivano pressoché dallo stesso materiale ma è la Dangerous Version a rendere meglio l’idea del disegno stilistico effettuato da Kekkotronix ossia Francesco Montefiori, pare coadiuvato in studio da Claudio “Moz-Art” Rispoli. Entrambi vivranno da protagonisti la fase successiva della italo house, quando navigheranno a bordo di una moltitudine di progetti (Omniverse, Outphase, Soft House Company, Key Tronics Ensemble, Soft & Loud Music Enterprise, TFM, Jestofunk, Double Dee) supportati dalla bolognese Irma Records. La stessa etichetta pubblica un’altra manciata di dischi che Montefiori firma come Kekkotronics (e non più Kekkotronix) in coppia con Luca ‘LTJ’ Trevisi, “First Job” e “Gimme The Funk”.

Koxo' Club Band - ParadhouseKoxo’ Club Band – Paradhouse (Di-Gei Music)
Registrato presso il B.M.S. Recording Studio e dedicato ad un altro storico locale del capoluogo emiliano, il Koxo’, “Paradhouse” è frutto del lavoro di un team di produzione in cui spiccano due nomi che si faranno ben notare negli anni Novanta, quelli di Lino Lodi e Stefano Mango (Face The Bass, Masoko, Pan Position, Express Of Sound etc). Gli elementi sono i soliti: pianate, bassline meccanico, campionamenti ed ovviamente un trascinante beat che però si ferma ai 110 BPM. Il brano è oggetto di diverse licenze in Germania, Spagna e Regno Unito, aiutato dal remix di Roberto ‘Bob One’ Attarantato che nel 1989 lo ristampa sulla sua American Records. Il singolo successivo, “Makes You Blind”, uscirà proprio sulla American Records. Il sample è tratto dall’omonimo della Glitter Band alternato a frammenti di celebri artisti e compositori (Michael Jackson, Mike Leander, Mory Kanté). Sul lato b trova spazio la pianistica “Drive House” coi sample vocali del paninaro di Drive In, Enzo Braschi.

Ocean In Red - Relax In HouseOcean In Red – Relax In House (Many Records)
Arrangiato da Pasquale Scarfì che matura diverse esperienze discografiche sin dai primi anni Ottanta, “Relax In House” è il brano con cui due DJ dall’identità sconosciuta svuotano un calderone di campionamenti eterogenei su una base di house semplificata e ridotta a pochissimi elementi. Con squarci aperti verso classici pop/rock come “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Another One Bites The Dust” dei Queen ed “(I Can’t Get No) Satisfaction” dei Rolling Stones, la Many Records di Stefano Scalera inizia quindi ad esplorare la house music, prendendo parallelamente in licenza brani come “The Party” di Kraze e “Night Moves” di Rickster.

Piero Fidelfatti - Baila Chico (Acid Version)Piero Fidelfatti – Baila Chico (Acid Version) (Out)
DJ di lungo corso, Fidelfatti incide un megamix bootleg intitolato “Baila Chico Mix” sulla fittizia Easy Dance ideata per parodiare la newyorkese Easy Street. All’interno, tra gli altri, anche Mantronix, M.A.R.R.S. e J.M. Silk. L’ottimo riscontro lo spinge a realizzare anche un singolo, questa volta a suo nome, in scia a “Pump Up The Volume”. Il brano viene assemblato nel Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto, ad Udine, e pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni. Due le versioni, arrangiate col musicista/illustratore Franco Storchi e l’ingegnere del suono Fulvio Zafret: la Acid Version, che a dispetto del nome di acid non ha davvero nulla, allineata ai suoni di “The Party” di Kraze e “Jack To The Sound Of The Underground” del compianto Hithouse, e la Piano Version che prevedibilmente mette in evidenza assoli pianistici. Fidelfatti raccoglierà successo internazionale l’anno seguente con “Just Wanna Touch Me” di cui abbiamo parlato nel dettaglio qui.

Raff Todesco - I Got My MindRaff Todesco – I Got My Mind (RA – RE Productions)
Produttore sin dalla fine degli anni Settanta, Raff Todesco vive in pieno sia l’exploit dell’italodisco, sia quello della house e dell’eurodance. “I Got My Mind”, edito sulla sua RA – RE Productions, è un omaggio/tributo al quasi omonimo degli Instant Funk, “I Got My Mind Made Up” del 1978, di cui vi è un sample all’interno insieme ad un frammento preso da “Hit It Run” dei Run-DMC, del 1986. Il resto è un susseguirsi ritmico affine a quel nuovo genere musicale che arriva dagli States e dalla Gran Bretagna, ben rimarcato dal nome di una delle tre versioni presenti sul 12″, Hause-Hause Version, oltre ad immancabili assoli di piano. «Verso la fine del 1987 le vendite delle produzioni italodisco cominciarono a non essere più soddisfacenti per chi, come me, frequentava il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian, a Gambellara, in provincia di Vicenza» racconta oggi Todesco. «Anche per coloro che avevano la fortuna di produrre in continuazione, lo storico studio della dance col mixer MCI 600 a 32 piste e con strumentazioni d’avanguardia iniziò a pesare non poco per gli elevati costi. Tuttavia a settembre del 1987 decisi di avviare lì un progetto musicalmente innovativo, sull’onda di ascolti maturati attraverso produzioni alternative rispetto alle cose che ero abituato a fare, come “Your Love” di Frankie Knuckles e le pubblicazioni sulla Trax Records. Non avevo ancora le idee chiare sulla strada da seguire musicalmente ma sentivo la necessità di abbandonare sia l’italodisco che l’eurodisco, fino ad allora i capisaldi del mio autorato, e cominciare una nuova avventura musicale e produttiva. Il primo risultato di quella svolta fu proprio “I Got My Mind”, realizzata col vecchio sistema analogico e senza ausilio del computer. Il progetto si fondava sul disegno strumentale creato con la tastiera su cui vennero inseriti vari campionamenti, “suonati” come se fossero uno strumento, attraverso la Korg DSS-1 grazie all’aiuto di Michele Paciulli, ai tempi dimostratore della stessa azienda. Il tema principale del piano invece, che doveva rappresentare un ideale volo nello spazio, fu eseguito con una Korg DW-8000 polifonica. Fu l’unico disco a portare il mio nome come artista sulla copertina e il mio ultimo lavoro ad essere registrato nello studio di Sandy Dian, tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1987. Lo avrei terminato e mixato in autunno inoltrato presso il Summit Studio. Per continuare l’attività da produttore infatti mi trasferii a Milano e in un nuovo studio, il citato Summit Studio di Antonio Summa, a Villa d’Almè, in provincia di Bergamo, i cui costi erano notevolmente inferiori rispetto a quello di Dian. Oltre a Summa, tecnico e bassista, lì conobbi anche il tastierista Sergio Bonzanni col quale avrei collaborato negli anni a seguire. Il Summit Studio era uno studio tradizionale che si poggiava ancora su tecnologia analogica ma in Italia praticamente nessuno, ai tempi, registrava in digitale. All’inizio del 1988 feci veramente una pazzia: tentai di sostituirmi al lavoro del DJ e costruii una song basata su soli campionamenti legati tra loro da una brevissima melodia strumentale. Si trattava di “Magnetic Dance” di T.V.M. (acronimo di Todesco Vaccari Maini), pubblicato dalla On The Road, etichetta che avevo creato qualche tempo prima proprio con Francesco Vaccari e Gigi Maini. Il brano si fondava su una ventina di campionamenti, i più rilevanti erano tratti dal film “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick e da un brano dei Jackson 5, che emergevano più volte durante la stesura. Nonostante le buone vendite, per fortuna non avemmo conseguenze legali. A posteriori la considero una vera follia aver inciso un disco con sample di quel tipo senza regolari autorizzazioni! Nel 1988 uscirono anche “Foot Stompin’ Music / Funnyhouse”, ancora insieme a Vaccari e Maini, ed “I Am” dei Time, un nome risorto dai periodi più rosei della italodisco (quelli di “Can’t You Feel It”, di cui abbiamo parlato qui, nda). In quel caso presi a modello “No UFO’s” di Model 500: usai la Roland TR-808 per la drum e Summa incise il basso col suo Fender Precision. La voce invece era di Eleonor, una cantante di un gruppo rock, e non mancavano vari campionamenti, scratch e clap così come voleva la tipologia house di allora. La melodia però era tipica del modello disco, imprinting della nostra italica memoria musicale. Soltanto alla fine del 1989 incominciai, nel nuovo studio allestito da Sergio Bonzanni, le produzioni digitali con la tecnologia computeristica».

Rhythm Station - Let's Clean Up The GhettoRhythm Station – Let’s Clean Up The Ghetto (Technology)
Cover dell’omonimo dei Philadelphia International All Stars, il brano in questione viene approntato nel Lumiere Studio di Milano dai componenti della Big Business Orchestra (tra cui si cela il poliedrico Fred Ventura) che nello stesso anno incidono “Big Business”. Nel 1990 nei negozi arriva il secondo singolo, “Don’t Stop”, registrato presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. Il tutto supportato da Severo Lombardoni.

Risen From The Rank - Sampler '83Risen From The Rank – Sampler ’83 (Media Record)
Nato nel 1985 con “AIDS” (la cui base viene riadattata per “America” due anni dopo), Risen From The Rank è uno dei tanti progetti scaturiti dalla fervida immaginazione di Gianfranco Bortolotti. Sull’onda di “Bauhaus” di Cappella e “Die Walküre” dei 49ers, di cui si è già detto più sopra, l’imprenditore bresciano pubblica “Sampler ’83”, altro collage di sample in stile “Pump Up The Volume”, in cui spiccano frammenti di “Last Night A DJ Saved My Life” degli Indeep, ma con meno potenzialità commerciali. «Era uno dei brani che facevano parte, insieme ai menzionati Cappella e 49ers, alle prime esperienze della house music, del campionamento, dell’organizzazione di una nuova metodologia di lavoro nei nuovi home studio che mi inventai e che poi furono perfezionati e copiati in tutto il mondo. Un gradino che ci avrebbe portato in cielo, proiettati verso il successo mondiale» dice oggi Bortolotti. «Seppur molto simile a “Bauhaus”, le vendite furono inferiori ma lo scopo non era eguagliare i risultati economici bensì testare nelle discoteche prodotti di quel tipo e cercare la formula giusta per il nuovo Cappella». Sempre nel 1988 esce “Ecstasy”, prodotto da Pieradis Rossini e Pierre Feroldi, poi diventato “Fantasy” per il mercato estero. «Non volevamo correre il rischio di farlo passare per un’incitazione all’uso della nota droga sintetica. Per noi era un semplice sample e chi mi conosce sa che non ho mai fatto uso di droghe e questo posso giurarlo» conclude Bortolotti. Dal 1990 Risen From The Rank riapparirà solo con l’acronimo R.F.T.R. attraverso vari singoli in bilico tra suoni techno ed house, tra cui “I Need A Fix” (col featuring di Simone Baldo, pochi anni dopo coinvolto nel progetto televisivo TSD) e “Rock Oops”, entrambi prodotti a Padova negli studi della Prisma Records da Valter Cremonini e dal team che da lì a breve crea gli U.S.U.R.A. di “Open Your Mind”. Meritevole di citazione anche il più fortunato “Extrasyn”, arrangiato da Max Persona con la consulenza artistica di Francesco Zappalà.

Rusty - Rusty AcidRusty – Rusty Acid (Dance And Waves)
Mentre esplodono in Giappone come Green Olives con “Jive Into The Night” agganciato agli stereotipi stilistici eurodisco/hi NRG, David Sion, Fulvio Zafret e Sergio Portaluri iniziano a tastare il terreno della house sia come Big House e il poco noto “Don’t Stop The Party”, sia come Rusty, pseudonimo con cui firmano “Rusty Acid”. Il brano raccoglie gli input dei tipici collage sampledelici, con brevi passaggi vocali alternati a qualche melodia bleepy e ai graffi degli scratch, vero leimotiv del DJismo di quel periodo. A pubblicarlo è la Dance And Waves del gruppo bolognese Expanded Music. Più fortunato risulta il singolo seguente, “Everything’s Gonna Change”, edito dalla DFC nel 1989 e licenziato oltremanica dalla Stress Records di Dave Seaman che affida il remix ad una figura chiave della progressive house britannica degli anni Novanta, Sasha. Da lì a poco Sion, Zafret e Portaluri creano il team di produzione De Point con cui mettono a segno diversi successi come “Your Love Is Crazy” di Albertino (a cui abbiamo dedicato un articolo qui) ma soprattutto i brani con cui Afrika Bambaataa aderisce, inaspettatamente e per molti inspiegabilmente, all’italodance, “Just Get Up And Dance”, “Feeling Irie”, “Pupunanny” e “Feel The Vibe”.

Surprise - 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle)Surprise – 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle) (X-Energy Records)
A metà strada tra l’italodisco virata pop/hi NRG e scorci house, il disco riporta in vita l’omonimo dei Gary Toms Empire del 1975. Artefice è Giulio Ferrarin, che qualche anno più tardi fonda la MKS Records, affiancato da Gino “Woody” Bianchi. Maggiormente aderente all’universo house è la traccia incisa sul lato b, “Don’t Stop The Music”. A chiarirlo è il nome stesso della versione, Acid House Mix. «A proporci di coverizzare il brano dei Gary Toms Empire (già rifatto con successo dai Rimshots) fu Alvaro Ugolini, uno dei proprietari della X-Energy Records, e devo ammettere che ci divertimmo molto a realizzarlo. Utilizzammo un piano della Roland ma per poter guadagnare sui diritti d’autore dovevamo produrre una traccia inedita e quindi pensammo di aggiungere qualcosa in stile Trax Records. Prendendo spunto da “Are You Ready” di Rich Martinez e “Don’t Stop The Music” dei Bay City Rollers, un classico per il pubblico della Baia Degli Angeli, il gioco era fatto. Dopo un paio di whisky il chitarrista Marco Scainetti si lanciò a cantare il brano e in appena due giorni completammo il tutto. La X-Energy Records investì molto nei progetti italo house e dopo poco tempo mi avrebbe affidato il remix/rework di “Notice Me” di Sandee. Da lì a breve, inoltre, fui invitato in studio dai cugini Minoia e da Corrado Rizza (mio futuro socio nella Lemon Records/Wax Production) per remixare “Satisfy Your Dream” di Paradise Orchestra ed “Everyday” di The Jam Machine, usciti entrambi nel 1989 e che, a mio avviso, hanno scritto la storia della italo house».

The Hardsonic Bottoms 3 - Do It Anyway You WannaThe Hardsonic Bottoms 3 – Do It Anyway You Wanna (BBAT)
Nati da una costola dei Pankow, gruppo fiorentino che aderisce al movimento industrial, gli Hardsonic Bottoms 3 debuttano col singolo “Do It Anyway You Wanna” che, è bene chiarirlo, non è propriamente house bensì un mix tra EBM e new beat, generi che in quel periodo iniziano però ad essere riadattati dai produttori house europei vista la loro spiccata ballabilità. Tra ’89 e ’90 escono altri due 12″, “Disco Inferno” e la doppia a-side “Jailhouse Shock / Stompxnxtorr” che chiude la breve parentesi danzereccia di Maurizio Fasolo, Enzo Regi e Sergio Pani, supportata discograficamente dalla BBAT, sublabel della Contempo Records.

Considerazioni finali
Sono ormai trascorsi più di trent’anni da quando la house music ha messo piede in Italia. Quello che era un foglio bianco, tutto da scrivere, adesso è diventato un libro, con molteplici capitoli ricchissimi di avvenimenti, nomi, passioni, vite e, purtroppo, anche morti. La house è diventata la colonna sonora di intere generazioni dando vita ad una visione “house-centrica” della musica da ballo. L’housecentrismo come nucleo da cui irradiare idee, soluzioni, intuizioni, emozioni. Per alcuni i primi dischi house prodotti in Italia svilirono pesantemente la sacralità della stessa house music, profanandola e minandone la credibilità con un approccio tipicamente consumistico tanto da restare ai margini della conoscenza collettiva e scarsamente considerati. Per altri invece quelle produzioni, molto spesso dai caratteri oggettivamente naïf, servirono eccome perché gettarono le basi per lo sviluppo della personalizzazione del genere, giunta nel 1989 quando si delineano i caratteri somatici intrinsechi dell’italo house che emerge con forza facendosi notare pure in quei mercati sino a poco prima apparentemente inavvicinabili, come il britannico e lo statunitense. L’Italia avrebbe mostrato i muscoli dimostrando al mondo intero di avere voce in capitolo. Ma questa è un’altra storia.

Giosuè Impellizzeri

* le testimonianze esclusive di questo reportage sono state raccolte tra novembre 2018 ed aprile 2019.

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Heartbeat, la house che fa palpitare il cuore

I primissimi anni Novanta sono propizi per lanciare etichette discografiche indipendenti legate alle cosiddette “musiche nuove” ovvero house, techno e derivati, sia sotto l’aspetto artistico perché quelli sono generi in continua evoluzione e lasciano prospettare scenari dinamici, diversi ed intriganti, sia sotto il profilo economico visto che il mercato permette di fare investimenti più o meno rilevanti contrariamente a quanto avviene alla fine del decennio, quando il comparto del mix in vinile, fonte primaria di sostentamento per queste realtà, accusa una prima, piuttosto preoccupante, flessione. La Media Records, fondata a dicembre del 1987 da Gianfranco Bortolotti, si è già fatta ampiamente notare nell’exploit dell’italo house che mette il nostro Paese sulla mappa della dance mondiale, in primis con Cappella e 49ers. Sull’onda dell’affermazione commerciale di quel genere, l’imprenditore bresciano lancia due etichette apposite, la Whole Records, che porta in Italia la versione originale di “Show Me Love” di Robin S., ai tempi Robin Stone e ben lontana dal successo garantito dal remix di StoneBridge, e la Inside, inaugurata con “What You’re Gonna Do” di DJ Fopp, intervistato qui. Ad esse vengono poi affiancati altrettanti brand di estrazione house, Signal ed Heartbeat, ma quest’ultimo tende a differenziarsi dagli altri marchi per varie ragioni.

classifica tuttodisco (1992)

La classifica de “I D.J. di Tendenza” sulla rivista TuttoDisco (1992): ben sette su dieci appartengono alla scuderia Heartbeat

Whole Records, Inside e Signal seguono la tipica operatività della (mega) casa discografica di Roncadelle e vengono alimentate dalla musica prodotta in prevalenza negli studi bortolottiani da team di arrangiatori e compositori “in house”, secondo una nota locuzione tecnica. Heartbeat invece nasce con l’obiettivo di dare voce a soluzioni messe a punto da un nutrito gruppo di DJ esterni, sette per la precisione, coordinati da Alex Serafini e tra i top nel nostro Paese come testimoniano varie classifiche dell’epoca, che però non lavorano quotidianamente per la Media Records secondo il modus operandi toyotisticamente organizzato dallo stesso Bortolotti. Il fatto stesso di far rappresentare un’etichetta esclusivamente da DJ è una scelta alquanto singolare e lungimirante giacché ai tempi la figura del disc jockey è ancora piuttosto lontana dall’affermazione e popolarità sociale a cui siamo oggi abituati e che diamo per scontata. Con un nome ispirato dal brano omonimo di Taana Gardner del 1981, un classico strasuonato da Larry Levan al Paradise Garage di New York, ed un logo semplice ma efficace, realizzato da Ralf con una vecchia macchina da scrivere Olivetti ed un pennarello rosso, Heartbeat si muove con una concezione estetica diversa dagli altri marchi della Media Records, meno propensa a penetrare nelle classifiche di vendita bensì a soddisfare le esigenze dei DJ e dei frequentatori delle discoteche specializzate. La sua progettualità mira quindi a trascinare un certo tipo di clubbing nell’attività discografica, tralasciando gli aspetti consumistici e le tendenze effimere del momento.

1991-1993, i primi anni di attività
Heartbeat debutta alla fine del ’91 e mette subito in chiaro la strada che intende percorrere. Uniti come Shafty, Andrea Gemolotto e Ralf incidono “Deep Inside (Of You)”, costruendo una sensualissima deep house intorno ad un breve sample vocale di “Let Me Love You For Tonight” di Kariya, un successo del 1988 proveniente dalla Sleeping Bag Records i cui remix usciranno anche in Italia attraverso l’American Records di Modena di cui abbiamo parlato qui. Particolarmente curiosa risulta la scelta di adottare il -001 come numero di catalogo che sembra una sorta di conto alla rovescia. «Fu un modo per rimarcare la nostra “unicità” rispetto agli altri» rammenta Bortolotti, non nuovo a questo tipo di espedienti creativi. Scelte analoghe infatti riguardano pure Inside, Pirate Records, Signal, Whole e, in futuro, Sacrifice. «Quello di Shafty fu il primo disco che produssi» ricorda oggi Ralf. «Lo realizzammo nello studio di Gemolotto, a Udine, un posto a dir poco fotonico, tra i migliori in Italia nello scenario house. Nella fase di mixaggio ci dividemmo il banco, un SSL: ognuno di noi apriva e chiudeva le piste e credo che quell’istintività manuale sia andata persa rispetto al fare digitale di oggi. Con enorme soddisfazione ritrovammo “Deep Inside (Of You)” nelle playlist di illustri DJ del calibro di Frankie Knuckles, Larry Levan e David Mancuso. Di quest’ultimo, in particolare, conservo una classifica che mi diede l’amico Ricky L. Della Heartbeat rammento pure il logo che realizzai personalmente utilizzando il font originale di una vecchia Olivetti ingrandito mediante le fotocopie, una tecnica adoperata per le fanzine allora in circolazione. A quello aggiunsi un cuoricino rosso, simbolo che ai tempi ero solito apporre con un pennarello indelebile sulle custodie in plastica delle cassette che registravo, dopo averle private della copertina interna di carta. Il risultato finale lo mandai alla Media Records via fax e divenne il marchio dell’etichetta».
Ad inizio ’92 esce lo 000, “Kiss Me (Don’t Be Afraid)” dei Love Quartet. Questa volta al banco mixer ci sono Flavio Vecchi e Ricky Montanari coadiuvati dai musicisti Enrico Serotti e Marco Bertoni, provenienti dai Confusional Quartet che esordiscono nel 1980 sull’Italian Records di Oderso Rubini. Il titolo del brano, a cui abbiamo già dedicato un’accurata analisi qui, è ispirato dal film in cui viene utilizzato, insieme a Shafty, come colonna sonora, “Un Bacio Non Uccide” di Max Semprebene, girato nel 1991 ma diffuso, sembra, solo nel 1994. Nel 2014 sia “Deep Inside” che “Kiss Me (Don’t Be Afraid)” vengono inserite da Joey Negro nella compilation tematica “Italo House” sulla sua Z Records. La numerazione canonica del catalogo, 001, prende avvio col doppio mix di Andrea Gemolotto e Leo Mas (a cui si aggiunge l’arrangiatore Sergio Portaluri del team udinese De Point), come Night Communication. Il loro EP, prodotto nel Palace Recording Studio di Gemolotto e recentemente ristampato dalla Groovin Recordings, conta su tre brani, “Lose Control” (rivisto in due versioni, Disco Underground Version e In Dub We Trust Mix), “Night Clerk” ed “African Night Life”, tutti permeati di quell’aurea mistica tipica dell’italo (deep) house che ai tempi creano con dimestichezza i produttori nostrani. Sul mix c’è anche “Nocturne Seduction”, nel 2017 finita nel primo volume di “Welcome To Paradise” sull’olandese Safe Trip di Young Marco, da cui emerge una spettacolarità che, nei primi tre minuti circa, oltrepassa la soglia della classica musica da ballo e sfila in un estatico trip ambientale dalla tensione quasi erotica, tra una voce scomposta e fiati che, come pennellate, fanno risaltare l’atmosfera sospesa di pacata meditazione. Il tutto riporta alla bidimensionalità compositiva di cui, un paio di anni prima, si è fatto promotore proprio Gemolotto e il team dei Sueño Latino col misticheggiante brano omonimo con cui nasce la cosiddetta “dream house”.
Proviene ancora dal Palace Recording Studio lo 002, “I Know” di Night Flowers ossia lo stesso Gemolotto e il citato Portaluri, qui presi dalla voglia di intrecciare vocalità, i tipici suoni ovattati della house di allora ed assoli di pianoforte diventati segno distintivo dell’italian house sin dai tempi di FPI Project, Black Box o 49ers. Lo 003 è di U-N-I (You And I), progetto messo in piedi da Claudio Coccoluto ed Ernest ‘Kipper’ Britton che prende il posto del prematuramente scomparso Cesare ‘DJ Trip’ Tripodo, a cui viene dedicata “Don’t Hold Back The Feeling”. Come spiega lo stesso Coccoluto nel documentario “Road To Trip” (analizzato qui), si tratta di un disco che avrebbe dovuto realizzare con Cesare dopo aver isolato dei campioni a casa sua, tra cui quello di “Bad Girls” di Donna Summer, ma che purtroppo fu costretto a finire da solo. Trip sarebbe stato l’ottavo membro del team Heartbeat. Ad affiancare il DJ in uno dei tanti studi della Media Records è il veronese Antonio Puntillo. Per far fronte alle tante richieste, l’etichetta di Bortolotti lo ristampa qualche tempo dopo, si presume tra 1996 e 1997, con le grafiche rinnovate. Una delle versioni del brano inoltre, la Key Trip Dub, viene recentemente inserita dallo svedese Mad Mats nel primo volume della raccolta “Digging Beyond The Crates” sulla prestigiosa BBE. Anche il successivo, “The Free Life” dei Virtual Reality, è dedicato alla memoria di un amico volato via troppo presto in seguito ad un incidente stradale, analogamente a Tripodo. Trattasi di Marco Tini, ideatore del Matmos, a cui Roberto Piccinelli ha dedicato un articolo qualche tempo fa. Prodotto nei T.O.T.T. Studios di Novara di Jackmaster Pez, il brano è frutto della creatività di Luca Colombo e di due membri del team 50% ovvero Ricky Soul Machine e Simon Master W, che coinvolgono anche il trombettista Gabriele Bolla e la vocalist Roberta Jannone. Lo 005 e lo 006 tornano ad essere prodotti a Roncadelle sull’asse italo-americano composto da Benji Candelario, Martin ‘Monster’ Aurelio e Costantino ‘Mixmaster’ Padovano che acronimizzano la sinergia nella sigla B.M.C. tenuta in vita coi due volumi di “A Night At The M”. L’ispirazione del primo viene, come spesso accade per i DJ di allora, dalla musica disco/funk/soul degli anni Settanta, in particolare da “Let’s Go Down To The Disco” degli Undisputed Truth. Figlio delle sonorità dub tribaleggianti dei primi Novanta è invece la Ram 2.2 Mix.

Il 1993 si apre con un nuovo doppio mix che connette Heartbeat al mondo pop della Media Records e dei suoi artisti noti al grande pubblico internazionale. Con questo intento viene affidato a DJ Professor, tandem project diventato noto per “We Gotta Do It” con Francesco Zappalà e in cui allora lavorano Luca Cittadini, noto come Luca Lauri, e Cristian Piccinelli, il compito di declinare in chiave house recenti successi messi a segno dalla label di Bortolotti, da “Everything” e “Got To Be Free” dei 49ers ad “I Say A Little Prayer” di David Michael Johnson e “I’m Falling Too” dei Club House, passando per “U Got 2 Know” dei Cappella, “You’re My Everything” degli East Side Beat, “The Music Is Movin'” e “Music” di Fargetta e “Don’t You Want Me” di Felix, la super hit britannica licenziata in Italia dalla label di Bortolotti e di cui abbiamo parlato qui. C’è spazio anche per la rivisitazione di “Basic Instinct”, probabilmente dedicato al film omonimo che spopola in quei mesi, uscita qualche tempo prima su Baia Degli Angeli e che Lauri e Piccinelli firmano come Funky People. Lo 008 è “Room 4 Love” di Inner Souls, progetto londinese degli Underground Mass (Booker T e Trevor Rose, attivi già su Azuli Records), testimonianza di come la label cominci ad oltrepassare i confini patri.

heartbeat foto di gruppo

La scuderia artistica dei primi anni di attività della Heartbeat: da sinistra Leo Mas, Andrea Gemolotto, Claudio Coccoluto, Luca Colombo, Ricky Montanari, Ralf e Flavio Vecchi. Insieme a loro Gianfranco Bortolotti

Sebbene non sia indicato con regolarità su tutte le etichette centrali dei 12″, ad occuparsi del coordinamento artistico di Heartbeat è sempre Alex Serafini, ma ancora per poco. Lo 009 segna il ritorno di Ralf, questa volta affiancato da Davide Sabadin e Massimo Zennaro che si fanno ben notare come Fishbone Beat (e di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui). Registrato nell’Oval Studio di Mogliano Veneto, in provincia di Treviso, “Higher Than The Clouds” dei Deep Sky è leggiadra house intarsiata dal suono di strumenti acustici ricostruita in ben sette versioni. L’idea di rivisitare le hit mainstream di casa Media Records in salsa house prende nuovamente corpo col secondo volume curato da(i) DJ Professor, questa volta all’opera su brani di Mars Plastic, Simone Angel, 49ers, Lance Ellington, Club House e Cappella. Sono sempre le mani di Lauri e Piccinelli ad ideare “I Just Can’t Go” di X-Project, con tendenze garage. È il disco che chiude il primo biennio di attività della Heartbeat.

1994-1996, tra retaggi passati e consolidamento d’immagine
La Heartbeat post Serafini si mostra come una via di mezzo tra la label che sino a quel momento scommette sul suono house/dub destinato ai club e quella che invece punta a numeri e visibilità più consistenti attraverso brani di nomi nazionalpopolari della scuderia Media Records, seppur rivisti, corretti e riadattati allo scopo. È il caso dei Cappella con le versioni remix di “U & Me” realizzate dal quartetto formato da B. McCarthy, DJ Digit, DJ EFX e DJ Rasoul, o di quelle di “Move It Up” firmate da Ivan Iacobucci ed Argentino Mazzarulli, ai tempi militanti in UMM. Su “Rockin’ My Body” dei 49ers, “Keep It Up” di Sharada House Gang Feat. Zeitia Massiah, “Love Me” di Patric Osborne e “Move Your Body” di Anticappella invece mette le mani DJ Professor, team in cui ora si avvicendano Luca Lauri, Massimo ‘Paramour’ Braghieri e Cristian Piccinelli, e che nel 1994 torna con “Rockin’ Me” incapace però di rinverdire i fasti di “We Gotta Do It” e “Rock Me Steady” risalenti a tre anni prima, quando l’immagine è legata ad un misterioso uomo col volto coperto e con una tuba in testa. Con l’uscita di scena di Alex Serafini la maggior parte dei DJ da lui radunati e con cui Heartbeat è nata prendono altre strade. I nomi di alcuni progetti però restano sotto la gestione della Media Records che li affida, come molte etichette fanno allora in circostanze analoghe, ad altri produttori. Ciò avviene per Night Communication e Shafty, adesso sotto la direzione di Lauri, Piccinelli e Braghieri che realizzano rispettivamente “Tribe Trip” e “Ohm”. I brand sono gli stessi ma non il suono, più rude, scandito da casse marcate e suoni vicini alla house/hard house che si balla al Trade di Londra. Non mancano alias nuovi di zecca come B.I.A.S., Jungle Junction, Freelance Workers ed Hot Drum portati avanti dagli stessi Lauri e Braghieri con l’ausilio di produttori che intervengono saltuariamente tra cui Marco Giolo, Luca Piccoli, il DJ Steve Mantovani e Fabio Nicola Bonassi noto come Bacci a cui, da lì a breve, Bortolotti affida il ruolo di A&R, incarico che copre per un paio di anni circa. A fine ’94 esce la compilation “Heartbeat – The Collection Vol. 1” che raccoglie alcune uscite di quell’anno insieme ad altre prese da etichette differenti come “Can We Live” dei Jestofunk, “I’m Standing” degli X-Static, “I’m A Real Sex Maniac” di Dick, “Can You Feel It” dei Reel 2 Real, “La Luna” di The Ethics e la mega hit dei 20 Fingers, “Short Dick Man”. Da rimarcare la presenza di “Let Me Be Your Fantasy” dei Baby D, un brano in circolazione sin dal 1992 ma che si afferma solo due anni più tardi e di cui la Media Records si aggiudica la licenza in Italia, pubblicandolo proprio su Heartbeat. La raccolta esce, come avviene di consueto ai tempi, su vinile, CD e cassetta e resta l’unica compilation edita dalla label del cuore.

heartbeat yatch (1995)

Heartbeat è anche lo yacht di Gianfranco Bortolotti (1995)

Il 1995 vede il consolidamento del brand attraverso un lavoro più consistente sia della produzione interna, sia sul fronte delle collaborazioni con l’estero. Heartbeat diventa il nome dello yacht personale di Bortolotti mentre Lauri e Braghieri sono iperattivi e sfornano senza sosta parecchi brani adoperando altrettanti nuovi alias di fantasia. Da Rosedub con “Turn The Volume High”, coi remix di Ivan Iacobucci e dello statuario Ralphi Rosario, ad Anita K con “Reach Me (At The Top)” e “Paralyzed Jaws” di Flabby Vibrator prodotti insieme a Ricky Montanari, sino a Freelance Workers con “Give Me More” e Mothballs con “Instinct Of Self Preservation”, in cui riappare il nome di Steve Mantovani e fa capolino quello di Stefano Bernardelli alias Walter S. Escono anche “A Fire Tone” di Warisan Party e “Try Hard” di Househeads, rispettivamente prodotti da Marco ‘Polo’ Cecere e Stefano Fontana.

Il Paese principe della house, a metà anni Novanta, è il Regno Unito, dove la Media Records ha una filiale ed anche diversi studi di registrazione. Proprio sull’asse Italia-Gran Bretagna nasce “Housematic” che Lauri e Braghieri realizzano con un noto DJ d’oltremanica, Ashley Beedle, e che firmano come Father And The Professor. Il disco viene licenziato sia nel territorio inglese dalla Urban Hero, che rileva altri titoli dal catalogo – B.I.A.S., Night Communication, Anita K, Freelance Workers – e che a sua volta, come si vedrà più avanti, concede quello di The Voice Of Q, sia in quello statunitense dalla Smack Trax che commissiona dei remix a Major Healey e ad Eddie Perez. Un’altra sinergia viene stretta col DJ londinese Chris Coco, attivo nei warehouse party ai tempi dell’esplosione acid house alla fine degli anni Ottanta, e collaboratore di DJ Mag e BBC Radio 1. Insieme realizzano “(Yoo Hoo It’s) Picture Time” di Sounds Of Slackness, possibile parodia fonetica dei Sounds Of Blackness. Come anticipato prima, Heartbeat pubblica in Italia “I Can’t Have Him Now” di The Voice Of Q, tra i side project meno noti di Jon Pearn e Michael Gray alias Full Intention, ed offre una corposa serie di remix di “Oye Como Va”, il classico di Tito Puente riportato al successo dal figlio Tito Puente Jr. insieme ai Latin Rhythm. Coinvolti nell’operazione che si concretizza attraverso tre 12″ sono Ricky Montanari, Claudio Coccoluto e Joey Musaphia, oltre naturalmente ai soliti Lauri e Braghieri. Visti i buoni riscontri, Heartbeat licenzia anche “Everybody Salsa” di Tito Puente Jr. & The Latin Rhythm che tra i remix annovera la versione del newyorkese Frankie Bones. In quel momento la vocazione internazionale della label si fa viva e l’attenzione è rivolta a diversi artisti americani tra cui Spencer Kincy alias Gemini, da Chicago, che per Heartbeat incide pezzi come “Life With A Track”, “Shadows” e “Life With Music”, e Glenn Underground, pure lui dalla “città del vento”, con un mash-up/remix tra “I Feel Love” di Donna Summer e “Chase” di Giorgio Moroder. Arrivano da New York invece Roc & Kato, ovvero i DJ Ramon ‘Roc’ Checo e Juan ‘Kato’ Lemus che ad Heartbeat destinano “Heart – Throb (Get On Up)”, affidata alle sapienti mani di Claudio ‘Cocodance’ Coccoluto che realizza la Sound Of Naples Dub. Il duo della Grande Mela remixa la citata “Paralyzed Jaws” di Flabby Vibrator e troverà fortuna anche nel mainstream italiano col remix di “Alright” firmato da Mario ‘Get Far’ Fargetta e pubblicato dalla Reform del gruppo Discomagic nell’autunno del 1995. Appare poi una single sided su cui trovano spazio due brani, “Burnin'” e “Saturday Nite Reprise”, presi in licenza dalla RMI Records di New York ed edificati su noti sample funk/disco del passato. A firmarli come Another Saturday Nite è Isaac ‘Ize 1’ Santiago. L’affiatata coppia Cittadini-Braghieri produce anche “Good Enough” di B.B. Feat. Angie Brown, remixata su due dischi da un grosso parterre che include i menzionati Ray Roc (dei Roc & Kato) e Spencer Kincy, Fire Island (Terry Farley e Pete Heller, noti anche come Roach Motel ed Heller & Farley Project) e A Man Called Adam. Il disco intriga anche l’estero, entra nelle grazie di Satoshi Tomiie e viene ripubblicato in territorio britannico dalla S3 del gruppo Dance Pool. Calandosi nuovamente nei panni di DJ Professor, Lauri e Braghieri approntano due dub di “Tell Me The Way”, la hit estiva dei Cappella. Altrettante versioni vengono curate da Ricky Montanari.

Il 1996 vede in Italia l’affermazione commerciale della musica progressive, “la sorellina della techno” come la definisce Mauro Picotto in un’intervista del novembre di quell’anno. Per l’occasione la Media Records riabilita un’etichetta nata nel 1992 ma limitata a pochissime pubblicazioni poco note, la BXR a cui aggiunge per qualche tempo il payoff Noise Maker. La house è parzialmente messa in disparte dal mercato nostrano e l’andamento della Heartbeat lo testimonia. Mantenendo comunque un regime operativo di un’uscita al mese, la label ospita nuovamente Gemini (che nel contempo approda su etichette del calibro di Planet E, Cajual Records e Peacefrog Records) con “An Eclipse” e ripropone “Reach Me (At The Top)” di Anita K con nuovi remix tra cui quello degli Uno Clio. Sul versante licenze esce “Brooklyn Beats” di Scotti Deep, fratello di Marc ‘MK’ Kinchen, quello lanciato dalla KMS di Kevin Sauderson e passato alla storia per aver portato al successo, col suo remix, “Push The Feeling On” dei Nightcrawlers. A dare manforte arrivano pure nuovi artisti italiani: Adrian Morrison, dalla consolle del veronese Alter Ego, propone “How To Love” col remix annesso di Crispin J. Glover, Franco Moiraghi, che ai tempi spopola con la moroderiana “Feel My Body”, incide “Gitano” ma firmandolo Frankie Jay, mentre il compianto Alex Martini realizza “My Heart”. Nel frattempo Luca Lauri, come DJ ProfXor – prima e non ultima variazione americanizzata di Professor – coverizza “Walkin’ On Music” della Peter Jacques Band che così diventa “Walkin’ On Up” e guadagna diverse licenze all’estero, MCA Records inclusa. La Media Records lo pubblica anche su Signal, etichetta che in quel periodo ritrova lo smalto grazie alle fortunate hit degli N-Trance, in particolare la tripletta “Stayin’ Alive”, “Electronic Pleasure” e “Da Ya Think I’m Sexy?”, rilevate dalla britannica AATW. Annunciata in Italia ma poi destinata al solo mercato estero è “Stronger” di Ann-Marie Smith remixata da Joey Musaphia e dagli M Dubs. Il 12″ esce su Nukleuz, etichetta guidata da Peter Pritchard e sussidiaria della branch britannica del gruppo Media Records. Nell’autunno del 1996 l’immagine di Heartbeat viene rinnovata. Il cuore resta, seppur ristilizzato, ma viene mandato in soffitta il payoff “The Global House” rimpiazzato da “The Underground Label” e “The Real House”. A subire un restyling è anche il brand DJ Professor contratto e sintetizzato ulteriormente in X-Or per “In Search Of…E.P.” in cui c’è “Get Down”, licenziato come singolo dall’olandese Aspro di Eddy De Clercq. Col nuovo logo esce “The Spirit” di Intergrated Society (alias Johan Strandkvist), un disco garage pubblicato inizialmente dalla Sweat e remixato da Ricky Montanari. La novità più importante però riguarda il nuovo A&R che prende le redini della Heartbeat, il DJ Mario Scalambrin, resident al Kama Kama di Capezzano Pianore (Camaiore, Lucca). Prima incide il funkeggiante “Body 2 Body” e poi remixa “Baby, I’m Yours” riportando al successo un nome storico della Media Records che ai tempi rischia seriamente di finire nel dimenticatoio, 49ers, nonostante i gloriosi trascorsi tra cui si ricordano i remix di “The Message” messi a punto dai Masters At Work nel ’92. Il 12″, scandito dalla potente voce di Ann-Marie Smith, esce a dicembre e si impone, anche all’estero, nei primi mesi del ’97 vendendo quasi 50.000 copie.

La testimonianza di Massimo ‘Paramour’ Braghieri

Quando e come arrivi alla Media Records?
Giunsi alla label di Roncadelle nel 1994. Preparai un provino con un amico DJ, Marco Giolo, e andammo lì con l’intento di farlo sentire e magari riuscire a pubblicarlo. Il verdetto purtroppo fu negativo ma Bortolotti chiese ragguagli su chi avesse suonato le tastiere in quella traccia. Era opera mia e a quel punto mi propose di lavorare per loro, visto che cercavano nuovi musicisti. Le condizioni erano davvero buone ed accettai. Dopo qualche mese riuscii a far assumere anche Marco. Il mio primo intervento in assoluto in Media Records fu per un remix di “Whatta Man” delle Salt ‘N’ Pepa, pagato ma mai pubblicato, cosa che allora avveniva abbastanza spesso con le major. Poi giunse “Rockin’ Me” di DJ Professor, “Express Your Freedom” di Anticappella, “Living In The Sunshine” di Club House, “Keep It Up di Sharada House Gang Feat. Zeitia Massiah, “Move It Up” dei Cappella e tutto il resto. Piccola curiosità: quel demo rifiutato dalla Media Records venne pubblicato da un’altra etichetta bresciana, la Wicked Rhythm del gruppo DJ Movement: trattasi di “Celebrate” di Jay Sex.

In che modo invece ti ritrovasti a lavorare per la Heartbeat?
Ai tempi ero praticamente l’unico musicista degli otto studi della Media Records a possedere un background musicale alquanto insolito. Mi ero appena diplomato al Conservatorio in organo e composizione ma ascoltavo tanta musica elettronica ed avevo una forte passione per new wave ed industrial. Per queste ragioni dopo i primi mesi, Luca (Lauri) pensò che avremmo potuto fare grandi cose in Heartbeat, senza però abbandonare completamente le produzioni destinate alle etichette pop della Media Records.

In quel periodo le caratteristiche stilistiche di Heartbeat si evolvono toccando sonorità più “dure” e lasciando da parte la deep house delle prime uscite. Avevate dei riferimenti a cui vi ispiravate?
Sì, assolutamente. In studio ascoltavamo centinaia di dischi, soprattutto durante le prime ore della mattina. Io e Luca nutrivamo una forte ammirazione per Johnny Vicious e David Morales, ma alla fine sentivamo davvero di tutto, dall’acid house alla techno, quindi fu anche per questa ragione che il sound di Heartbeat cambiò.

massimo braghieri e ricky montanari (1994)

Massimo “Paramour” Braghieri e Ricky Montanari in studio (1995)

Dal 1994 al 1996 il tuo nome ricorre in modo praticamente continuo su ogni uscita Heartbeat. C’è un progetto, tra i tanti, che ricordi con maggior piacere?
Le idee arrivavano sempre in modo diverso, ascoltando vecchi dischi di generi lontani dalla house, come world music o bossanova, e talvolta attraverso fonti non propriamente musicali come ad esempio una musicassetta su cui vi era inciso un corso di yoga che campionammo ed usammo per “Ohm” di Shafty. Un simpatico aneddoto è legato a “Reach Me (At The Top)” di Anita K: mentre ero con Ricky Montanari intento ad incidere delle parti per un altro disco, ci portarono un DAT da uno studio adiacente contenente decine di frasi melodiche registrate senza alcun ordine. Bortolotti disse che erano scarti e quindi eravamo liberi di sperimentare usando ciò che ci piaceva ed incuriosiva di più. Provai a campionare ogni singola frase per poi piazzarla sui diversi tasti della tastiera e giocare un po’ (allora non esisteva ancora la possibilità di registrare audio direttamente sul computer). In meno di due ore riuscimmo a costruire qualcosa che avesse un senso strutturale e devo ammettere che fu abbastanza divertente. L’arrangiamento nacque facilmente e in modo spontaneo, improvvisando degli accordi al pianoforte. Finimmo il pezzo in giornata ed ancora oggi mi meraviglio per i feedback incredibili che ricevemmo dopo la pubblicazione.

laura martini (fidanzata di bacci), bacci e braghieri, 1994

Fabio Nicola Bonassi alias Bacci (al centro) e Massimo “Paramour” Braghieri in una foto del 1994. Bonassi diventa A&R della Heartbeat tra 1995 e 1996. A sinistra Laura Martini, ai tempi fidanzata dello stesso Bonassi

A partire dal 1995 Heartbeat cerca nuovi lidi a cui attraccare, in primis il Regno Unito che allora è una cartina tornasole per la house. C’era un preciso progetto in cantiere, ossia inanellare una rete di contatti internazionali?
Le collaborazioni con artisti come Ashley Beedle, Fire Island, Spencer Kincy e Roc & Kato furono il frutto di una brillante idea di Fabio Nicola Bonassi alias Bacci, che tra 1995 e 1996 divenne l’A&R della Heartbeat (e che in seguito cura per il magazine DiscoiD la rubrica “Style” e si occupa di “Underground Nation” su Tele+, nda). Ogni volta che un DJ/produttore internazionale veniva in Italia per un tour o qualche serata, gli veniva offerto di trascorrere un giorno in studio con me. Furono anni incredibili, non capita mica tutti i giorni di poter collaborare con artisti del genere, per giunta senza neanche uscire dal proprio studio. L’esperienza più interessante la feci con Spencer Kincy alias Gemini: aveva un modo unico di creare e comporre, non avevo mai visto fare quelle cose a nessun’altro. Registrava decine di parti diverse, ognuna su un canale del mixer, per poi ideare la stesura totalmente live, aprendo e chiudendo i canali ed attivando effetti in maniera estemporanea. Alla fine la struttura del brano risultava particolarmente spontanea ed imprevedibile.

Quanto vendeva, mediamente, ogni uscita Heartbeat del biennio ’94-’96?
Non ricordo tanto i numeri, era una cosa che non mi riguardava ed inoltre vendere dischi non era una priorità in Heartbeat. Il nostro scopo primario era riuscire ad ottenere recensioni positive sui magazine di spessore ed entrare nei flight case dei DJ che ritenevamo “cool”. Comunque, per sommi capi, ogni 12″ vendeva all’incirca dalle 1500 alle 3000 copie, se la memoria non mi inganna.

ritaglio di giornale (braghieri, ralphi rosario, luca lauri) 1994

Un ritaglio di giornale del 1994

Quando e perché lasciasti la Media Records?
Mollai a fine ’96. Bacci mi propose di lavorare con lui come freelance, lasciando la Media Records ed aprire uno studio a Londra. La cosa era troppo eccitante per non essere presa in considerazione. Tuttavia mi dispiacque molto andarmene ma avevo bisogno di stimoli musicali diversi e Londra sarebbe stata, senza dubbio, la città perfetta. Quindi divenni socio di Fabio e collaborammo sino al 2002, anno in cui purtroppo è venuto a mancare per un tumore al cervello.

Hai continuato a seguire la Heartbeat nel corso degli anni?
No, affatto. Smisi quando la lasciai, in modo definitivo, e vivendo nel Regno Unito non ebbi modo di ascoltare le nuove uscite con regolarità, salvo in casi rari.

Ci sono brani/remix prodotti ai tempi e mai pubblicati?
Ricordo almeno un paio di tracce registrate con Angie Brown che non vennero mai pubblicate, ma erano ad uno stadio ancora embrionale. Esistono inoltre due brani realizzati con Gemini che prima o poi vorrei far uscire perché suonano ancora attuali. Sul fronte remix invece, c’è una marea di roba che feci ma che non venne scelta. In genere in Media Records si preparavano tre o quattro remix per ogni brano e poi veniva selezionato il migliore da destinare alla stampa, tranne in alcuni casi in cui se ne pubblicavano di più.

1997-1999, nuovo logo, nuovi obiettivi
Nel primo semestre del 1997 il fenomeno generalista della progressive si esaurisce. La BXR, che cavalca il trend e personalizza il filone in mediterranean progressive, abbandonerà quelle formule puntando al combo techno trance che, dal 1998 in poi, chiama supertechno. La house torna quindi a farsi sentire e il momento è propizio per rilanciare Heartbeat, aggiornata da pochissimi mesi nell’aspetto grafico. Il successo di “Baby, I’m Yours” dei 49ers funge da traino ed aiuta il riposizionamento del brand dopo un’annata non troppo esaltante. L’uomo-chiave del ’97 è senza dubbio Mario Scalambrin, artefice della Van S Hard Mix di “Baby, I’m Yours” dei 49ers (a cui si aggiunge la Van S Hard Mix 2 incisa su un 12″ single sided), e scelto come nuovo A&R da Gianfranco Bortolotti. È proprio Scalambrin a realizzare “Wake Up” di Satori, versione house/garage di “Wake Up Everybody” di Harold Melvin And The Blue Notes. Ad aiutarlo nel ricostruire le giuste tessiture funk/soul sono vari musicisti, Luca Campaner alla chitarra, Stefano Olivato al basso e Gabriele Castellani alle percussioni. Il resto lo fanno Roberto Guiotto, Sandy Dian e naturalmente le voci di Satori ed Emanuel (in background). Purtroppo gli sforzi non sono ripagati in termini di visibilità. Chiari rimandi funk si ritrovano anche in “4 Illuminations EP” di DJ Professor ormai diventato X-OR, al cui interno si ritrova la citata “Walkin’ On Up”. Scalambrin mixa inoltre i brani della “Heartbeat Compilation” finita sulla RTI Music di Silvio Berlusconi e che in tracklist conta, tra gli altri, sulla presenza di Funky Green Dogs, Gisele Jackson, Gusto, Raven Maize e Tony Humphries. Il DJ viene prevedibilmente scelto per produrre il nuovo singolo dei 49ers, “I Got It”, incapace però di eguagliare i risultati del precedente nonostante gli ottimi spunti, specialmente nella Miracle Mix. Scalambrin e Bortolotti si consolano comunque con gli ottimi riscontri ottenuti in estate da “Gipsy Boy” di Sharada House Gang, edita su GFB e di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui. Un paio di licenze (“What Is Your Problem?” degli Afrowax e “Can You Feel It” di Highlight, una sorta di mashup tra “Plastic Dreams” di Jaydee e “I Got The Feeling” delle Two Tons O’ Fun – già abilmente ripresa dagli FPI Project in “Feel It” – condito da un sample probabilmente estrapolato da “Something About The Music” di Wigan Express) ed altrettanti dischi prodotti a Roncadelle (“As Yet Untitled” di D.D.T. e “Jeopardy” di Aria, cover rispettivamente degli omonimi di Terence Trent D’Arby e Greg Kihn Band) completano l’annata, senza dimenticare “Wait A Minute” di Abduction, un brano house/funk imperniato su un sample tratto da “The Magnificent Seven” dei Clash, che Scalambrin realizza con due colleghi DJ della Media Records ai tempi legati alla musica progressive trance/techno, Mario Più e Mauro Picotto.

Nel 1998 le cose cambiano. Scalambrin lascia la Media Records a causa di alcune divergenze ma non prima di aver pubblicato “Only 4 DJs” di Love Groove, in coppia con Guiotto, che segue la tendenza esplosa quell’anno, il cosiddetto french touch. I due realizzano anche una versione di “Let The Sunshine In” dei 49ers, cover dell’omonimo dei Fifth Dimension, e “Raindrops”, ultimo singolo che il DJ del Kama Kama incide per Heartbeat/Media Records. Ideale follow-up di “Wake Up” ed interpretato ancora da Satori, il brano ha un forte potenziale ma non sortisce grandi risultati. Va un po’ meglio invece a “Big Bug”, un maxi-frullato tra i vocal di “Sock It 2 Me” di Missy Elliott Feat. Da Brat, la ritmica di “Lady Bug” dei Bumblebee Unlimited e il riff di “New Year’s Day” degli U2. A firmarlo sono i Flowers’ Deejays, team in cui oltre a Scalambrin e Guiotto figura Gigi D’Agostino, che in quei mesi abbandona le stesure strumentali della mediterranean progressive a favore di costrutti italodance. Rimasta sguarnita di un A&R, Heartbeat prosegue comunque il suo cammino con alcuni dei produttori e musicisti interni della label bresciana. Mauro Picotto e Paolo Sandrini compongono “I Wanna Know” giocando con un sample di “I Got My Mind Made Up” degli Instant Funk. Per l’occasione si firmano Shibuya, nome riutilizzato un paio di anni più tardi sia per una discoteca polifunzionale a Rezzato ideata da Bortolotti, che all’interno annovera un ristorante giapponese con due cuochi nipponici, sia per una nuova etichetta, la Shibuya Records, su cui trovano spazio, tra gli altri, brani di Bob Sinclar e Celeda. Insieme a Raf Marchesini invece Guiotto crea Blue Connection con “Touch The Sky” e riporta in vita Anita K col brano “Love Affair”. Una delle versioni è curata da Babayaga, DJ originaria del biellese diventata nota nei primi anni Novanta attraverso l’after hour Syncopate. È lei a produrre, in coppia con Steven Zucchini, “I Need Your Pain” di Sound System.
Il suono di Heartbeat ormai appare radicalmente diverso e lontano da quello degli inizi. L’italo (deep) house lascia il posto ad una formula dichiaratamente più commerciale, sia nelle costruzioni ritmiche che nella scelta dei suoni, come testimonia “So Nice”, sfortunato singolo dei Club House prodotto da Picotto ed Andrea Remondini. Più intriganti risultano le (quattro) licenze edite quell’anno, “Move On Up” dei Trickster, coi remix dei Lisa Marie Experience, Z Factor alias Joey Negro e The Footclub, “Open The Door” dell’elvetico Djaimin (noto per “Give You”, “Fever” e soprattutto “Hindu Lover” di cui abbiamo parlato qui), “We Are Love” di DJ Eric (col sample di “I Can’t Go For That (No Can Do)” di Daryl Hall & John Oates – lo stesso usato dai Simply Red in “Sunrise” nel 2003) ed infine “EQ” di Sheila Brody, un brano tratto dal catalogo Kult Records ed interpretato dalla cantante statunitense che nel ’98 rimpiazza Taborah Adams nel progetto Blackwood.

Nel 1999 la Media Records, ribattezzatasi già da un paio di anni “la casa discografica dei deejays”, raccoglie nuovamente successo internazionale. Ciò avviene grazie ad artisti come Mario Più, che si afferma nel Regno Unito con “Communication (Somebody Answer The Phone)”, Mauro Picotto, che trionfa in Germania con “Lizard” ed “Iguana” (e a cui seguirà “Komodo” nel 2000), e Gigi D’Agostino, che spopola ovunque, Stati Uniti inclusi, con l’album “L’Amour Toujours”. Pochi mesi prima Bortolotti, dopo il fallimento della napoletana Flying Records, rileva i diritti del marchio UMM e lo rilancia discograficamente attraverso “Proud Mary” degli Abduction, costruito sul sample del brano omonimo dei Creedence Clearwater Revival scritto da John Fogerty. In questo quadro di iperattività Heartbeat viene messa in disparte. Sono poche infatti le uscite del ’99, passate praticamente inosservate, come “Winner” di Gius T, che Zucchini, Pucci, Marchesini e Picotto compongono ispirandosi ad “Exalt – Exalt” di Azoto, “Donna Donna” di Ann-Marie Absolut e “1,2,3,4, Gimme Some More” di La Rouge Un Peu Mèchée, cover degli omonimi dei Number One Ensemble e dei D.D. Sound. Heartbeat continua ad allontanarsi da quell’imprinting che la caratterizza in modo esemplare tra 1991 e 1992. Altri 12″ dai risultati commercialmente sfavorevoli e stilisticamente inclini ad una house ai confini con l’italodance sono “Get On” dei Full Experience, team composto da ben sei componenti, tra cui Andrea Belli di Radio 105 e il DJ bresciano Simone Pagliari, e “It’s So Easy” degli Uncle Sally, un progetto siculo di breve durata messo su da 2/3 dei Ti.Pi.Cal. (Daniele Tignino e Riccardo Piparo) e Domenico Nicosia. Piparo e Davide Miracolini firmano anche “Ever Try” di Double Impact, poggiandosi sul sample di un classico italodisco del 1983, “Lunatic” di Gazebo. Ispirata da un brano del passato, il tema principale del film “Charlie’s Angels” composto da Allyn Ferguson e Jack Elliott, è pure Karin De Ponti che per la sua “Charlie Is Back” scomoda altresì un loop ritmico di “The Bomb! (These Sounds Fall Into My Mind)” di The Bucketheads. Infine si fa risentire Babayaga, a cui pare venga temporaneamente affidata la direzione dell’etichetta ma mai in modo ufficiale, con “Hot Shudder”.

2000-2003, una lenta narcosi
Allo scoccare del nuovo millennio le priorità della Media Records restano legate alla BXR, etichetta che colleziona un’infinità di premi e riconoscimenti. Il folto gruppo di DJ capitanato da Mauro Picotto, A&R ed artista che va affermandosi su scala planetaria, continua ad espandersi ed annovera anche personaggi esteri come Marco Zaffarano e il compianto Tillmann Uhrmacher. Heartbeat perde ulteriormente terreno, rallentando la frequenza di pubblicazioni che nel 2000 sono appena un paio: “Latin Soul Thing” degli House 2 House, tratto dal catalogo Strictly Rhythm, e “Cada Vez”, la hit dei Negrocan presa in licenza dalla Swing City Records. Per l’occasione viene pubblicato un secondo 12″ con due remix made in Italy realizzati da Intrallazzi & Fratty e Gigi D’Agostino. Heartbeat diventa essenzialmente una label-piattaforma per ripubblicare in Italia brani provenienti dall’estero. Nel 2001, dopo ulteriori piccoli ritocchi grafici, tocca a “Be With You” dei Pound Boys, a “Partypeople” di James Cooper, ai remix di “I Know A Place” di Bob Marley & The Wailers, a “Tudo Que Voce Podia Ser” di Búzios e a “Shining Star” di AT, tutto materiale ricordato da pochi. Passa inosservato anche “Flashlight” di Hydraulic Funk Feat. Afrika Bambaataa, licenziato dalla storica Trax Records di Chicago. Unica nota italiana è rappresentata da “Show Me The Way” di Karin De Ponti, prodotto nel solco della pop house in voga quell’anno.

umm al concerto dei lunapop

La popolarità di UMM, acquisita dalla Media Records dopo il fallimento della Flying Records ed affiancata ad Heartbeat, cresce al punto da finire ad un concerto dei Lùnapop

Il 2002 inizia coi discreti risultati di “Supersonic” di Billyweb Featuring Chris Willis, l’ennesimo dei brani figli della massificazione post french touch (l’arcinoto sample è quello di “You And I” dei Delegation). Con “Stand Up (Viva La Noche)” degli sloveni Sound Attack e “When I Close My Eyes” di Búzios ci si avvicina persino ai confini latini. Ormai c’è scarsissima voglia di andare avanti, Heartbeat è a tutti gli effetti un’etichetta secondaria. Alberto Casella (quello dei B.A.R. Feat. Roxy di cui abbiamo parlato qui) e Fabio Maccario incidono, come Tooth-Paste, “Enjoy It” (con un campione vocale preso da “Moonraker” di Foremost Poets) e “Cikuta”. Entrambi trovano spazio su un 12″ intitolato “Vol. 1” ma a cui non c’è alcun seguito. Con “Dark Lady” Stefano Raffaini alias Furilla (che in quel periodo inizia ad incidere con frequenza su UMM) e Luca Liviero resuscitano uno dei marchi più vecchi della Media Records, Risen From The Rank, nel corso degli anni acronimizzato in R.F.T.R. ed inattivo sin dal lontano 1993. Ai tempi viene diramata la notizia relativa alla fusione delle tre etichette house gestite dal gruppo discografico di Bortolotti, Shibuya, UMM (marchio talmente noto da finire persino ad un concerto dei Lùnapop), ed Heartbeat che sarebbero confluite nel nuovo nome Shumm. A&R prescelto è il citato Casella che si occupa già di Shibuya, ma l’operazione non va in porto. Nel 2003 “It’s Crazy” di Dubbing (alias Alberto Casella) e “Crazy Paris (Paris Latino)” di Horny United, rivisitazione di “Paris Latino” di Bandolero, sono gli ultimi ad uscire su Heartbeat e a chiudere una storia durata dodici anni e poco più di cento pubblicazioni.

evoluzione del logo

Le variazioni grafiche del logo di Heartbeat, dal primo, realizzato da Ralf nel 1991, all’ultimo lanciato nel 2016

2016, il risveglio “liquido”
Nel 2004 Bortolotti abbandona il settore musicale dedicandosi all’attività di architetto ed interior designer. La Media Records resta attiva sotto la guida di Filippo Pardini ma pochi anni più tardi il catalogo editoriale viene venduto alla Warner Bros. mentre quello discografico alla tedesca ZYX che provvede a riversare gran parte dei titoli sui portali che vendono musica in formato digitale. Nel 2015 il ritorno di Bortolotti nel settore musicale segna il “risveglio” di alcune delle etichette più note raccolte sotto l’ombrello della Media Records tra cui Heartbeat, che riparte ufficialmente il 18 gennaio 2016. A dirigerla come A&R, questa volta, è Carlo Cavalli, da Crema, che in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile di quell’anno spiega che «Heartbeat deve catturare l’attenzione dell’ascoltatore e del consumatore musicale, stando sempre attenta alle nuove proposte di mercato e selezionando scrupolosamente le numerose demo che riceve quotidianamente. La house music si sta prendendo una bella rivincita sugli altri generi ed è in costante risalita, anno dopo anno». Il primo EP da lui scelto per inaugurare il nuovo corso è “Fck That Bass EP” di Dany Cohiba & Blush, composto da due brani che vengono solcati, insieme a “The Bells” di Luca Debonaire & Robert Feelgood e “Is This The Way” di Benny Camaro, su un poco fortunato 12″ intitolato “Heart House Vol. 1”. Cavalli va avanti selezionando, sia per club che mondo radiofonico come afferma nell’intervista sopracitata, house, tech house e tropical house sino al luglio 2017. Dopo ventitré uscite “liquide” Heartbeat (e la sublabel Heartbeat Black, varata nel 2016) si ferma nuovamente. Ora corre voce che il cuore possa battere di nuovo con un nuovo A&R, Mario Scalambrin, che tornerebbe a ricoprire tale ruolo poco dopo più di venti anni. (Giosuè Impellizzeri)

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Ricky Soul Machine & Jackmaster Pez – Blow (UMM)

Ricky Soul Machine & Jackmaster Pez - BlowAll’anagrafe si chiama Roberto Pezzetti ma il mondo della musica house lo conosce come Jackmaster Pez, alias che rimanda ad uno dei personaggi chiave di Chicago, Farley “Jackmaster” Funk. La sua carriera però inizia circa un decennio prima rispetto alla nascita della house. Corre il 1977 infatti quando Pezzetti comincia ad armeggiare come DJ. «Ero praticamente un adolescente e i miei coetanei non capivano quando parlavo del disc jockey come figura professionale» racconta oggi l’artista. «I miei genitori erano titolari di un negozio di elettronica e ciò per me ebbe una doppia ripercussione. Da un lato fu una fortuna, come racconterò più avanti, dall’altro invece si rivelò tutt’altro perché fu arduo uscire da quel guscio. Poiché primogenito, i miei avevano già progettato il mio futuro e quindi dal 1977 al 1985 fui costretto ad alternare il lavoro in negozio a quello da DJ. Tuttavia mi reputo molto fortunato perché in quegli anni ho avuto l’opportunità di vivere un momento storico come l’avvento della disco music in Italia. Sino a poco tempo prima le novità musicali si potevano sentire solo alla radio (nei programmi di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni) o nelle sale da ballo. Nel ’78 andavo a sentire spesso, coi miei amici di allora, Claudio Cecchetto al Divina di Milano. Radio DeeJay non esisteva ancora e i club del capoluogo lombardo erano appena due o tre e in uno di questi venne invitato come ospite un DJ che veniva nientemeno che dallo Studio 54 di New York, Tony Carrasco. Erano gli anni in cui si cominciava a vestire griffe come Armani e Versace, ad usare automobili tedesche come BMW e Mercedes, ed anche se duramente contestato dalla generazione precedente, per noi quel momento fu bellissimo ed ogni giorno c’era puntualmente qualcosa di nuovo da scoprire.

Credo che il fattore determinante che mi spinse verso questa professione fu, paradossalmente, la mia enorme timidezza. Allora nelle festicciole casalinghe si usavano degli stereo per mettere musica ma io all’idea di ballare o chiedere ad una coetanea “balli con me?” su un lento, usato solitamente per approcciare, non volevo proprio cedere. Preferivo quindi nascondermi nel buio per gestire e selezionare la musica. Grazie al negozio dei miei genitori possedevo due impianti stereo, senza mixer, che adoperavo per passare da un brano all’altro sfumando i volumi. Inconsapevolmente facevo il DJ già ad undici anni.

 

La prima serata da DJ nel parco di casa, giugno 1977

Un giovanissimo Jackmaster Pez alla sua prima esperienza come DJ nel parco della villa dei suoi genitori, giugno 1977

Il primo approccio con un impianto professionale risale comunque al ’77, nel parco di casa mia dove iniziò la mia carriera. I giradischi Technics a trazione diretta esistevano ma non erano ancora provvisti di regolatore di velocità e le parti ritmiche dei dischi, realizzate da batteristi in carne ed ossa, non erano quantizzate e spesso non permettevano di fare mixaggi lunghi. Il beat non perfettamente a tempo come quello delle macchine e la stesura stessa dei brani non prevedeva break per le miscelazioni, quindi mixare era tecnicamente possibile in due modi, o con le dita sull’etichetta centrale, cercando di mantenere il disco a tempo, o a strappo. In quell’occasione il mixer lo ebbi in prestito da una radio. Aveva due canali e per ogni giradischi dovevo usare due cursori, che fatica! Qualche settimana dopo misi piede nel primo club dove trovai gli storici giradischi Lenco con cui poter variare la velocità non solo a 33 e 45 giri ma anche a 16 e 78, insomma roba preistorica. Toccare quella maledetta levetta per aumentare e diminuire la velocità era praticamente impossibile, la trazione era a cinghia e il disco impiegava un’eternità prima di prendere la velocità settata. Se provavi a regolarlo mentre suonava saltava inevitabilmente la puntina quindi, a parte il vantaggio della regolazione iniziale, la tecnica di mixaggio restava quella descritta prima. Durante un’estate ebbi la possibilità di utilizzare finalmente due giradischi a trazione diretta e con regolazione di velocità, i Thorens, ma avvenne una cosa impensabile: più volte le zanzare si posavano sui pulsanti elettronici che variavano la velocità da 33 a 45 giri e la cambiavano in modo casuale. Talvolta, ai tempi, mi portavo dietro anche alcune coppie di casse per migliorare l’impianto del locale, senza ricevere alcun bonus dal gestore ovviamente. Insomma, il mio era vero e proprio amore per ciò che facevo.

Jackmaster Pez negli anni Ottanta, a sx presso il Gattopardo di Novara, a dx al Bahia's Club all'Isola d'Elba

Jackmaster Pez negli anni Ottanta: a sinistra in consolle al Gattopardo di Novara, a destra al Bahia’s Club all’Isola d’Elba

Pian piano riuscii a suonare nei migliori club della provincia come il Gattopardo di Novara, la mia città natale, e il Maciste di Vercelli, oltre a lavorare stagionalmente in località meravigliose come Taormina, al Septimo, e all’Isola d’Elba, al Baia’s Club. Veri momenti indimenticabili li vissi però in un locale innovativo come il No Ties di Milano: l’animazione lì non esisteva, la facevano in modo spontaneo le commesse di Fiorucci col patron Elio presente come cliente in sala. Allo stesso modo non esistevano pubbliche relazioni. Il No Ties fu ideato ed artisticamente gestito dal geniale Cesare Zucca, un personaggio che mi ha insegnato a lavorare. La sua creatività lo portò alla finta gravidanza inscenata dalla Bertè al Festival di Sanremo 1986, tanto che Loredana divenne nostra ospite fissa. Gli anni Ottanta erano trascorsi per metà, ed io avevo vissuto in pista i miei miti di allora, come Sylvester, ma a quel punto decisi di prendermi una pausa. Amavo la new wave ma la musica nei locali era cambiata. Trovavo molto più creativo dedicarmi alla direzione artistica del No Ties e di altri club. Ricordo che durante un party americano coi Frankie Goes To Hollywood, Holly Johnson venne in consolle chiedendomi di regalargli l’uniforme da marinaio che indossavo. Non accettai però da lì a poco passai la loro “Relax” scatenando l’ira di Cesare Zucca che mi urlò di tutto rammentandomi che quella fosse una serata “only USA”. L’avventura continuò dopo quando mi ritrovai con la band a scorrazzare per Milano a bordo di un taxi. Johnson si abbassava i pantaloni mostrando il fondoschiena dal finestrino, e poi finimmo a divertirci tutti insieme nel club d’avanguardia del momento, il Plastic. Insomma, il primo decennio della mia carriera da DJ lo trascorsi in questo modo».

Tra 1986 e 1987 le cose iniziano a cambiare. L’arrivo e l’esplosione della house si rivela determinante per la nascita di un nuovo corso storico, legato tanto al tipo di musica quanto al modo di vivere la notte. Comincia a farsi largo l’idea di una club culture sino a quel momento consumata in modo meno viscerale. Inoltre l’avvento di nuove tecnologie avrebbe aperto le porte a compositori non necessariamente capaci di suonare uno strumento, e questo crea una sorta di cortocircuito. «Il 1986 fu l’anno che segnò l’evoluzione della mia attività e che mi portò a concretizzare un sogno, diventare produttore discografico» prosegue Pezzetti. «Ebbi la fortuna di incidere i primi brani nello studio digitale più grande d’Europa, il Logic Studio dei fratelli La Bionda, a Milano, dove avrebbero messo piede, qualche anno più tardi, anche i Depeche Mode. Io e il mio partner di allora, Enrico ‘Ricky Soul Machine’ Pannuto, autore dei testi e cantante, fummo costretti a venderci la macchina per pagare l’affitto di quello studio ma gli sforzi vennero ripagati alla grande visto che il primo singolo del nostro gruppo Talk Of The Town, “U Can Dance” uscito nel 1987, raccolse un enorme successo radiofonico. Insieme a noi figuravano anche Marco Guarnerio, chitarrista ed ingegnere del suono, e Roberto Baldi, tastierista, oltre all’arrangiatore Steve Piccolo. La “band”, autoprodotta su una label nata per l’occasione, la Talk Of The Town International, durò un paio di anni circa che vivemmo da vere rockstar, e ripensarci oggi mi fa davvero sorridere. Una volta volevamo arrivare nel locale in cui era previsto un nostro show persino in elicottero! In tasca non avevamo una lira ma ci sentivamo comunque sul tetto del mondo quando salivamo in auto, accendevamo la radio e trasmettevano la nostra “U Can Dance”. Facevamo autopromozione consegnando personalmente i dischi ai grossisti, essere una label indipendente implicava anche quello. Le cose sarebbero state molto più semplici se avessimo firmato un contratto con una casa discografica ma non volevamo nessuna interferenza artistica e pensavamo in grande, quindi decidemmo di andare avanti da soli e con le nostre forze. Fu allora che, alla ricerca di musica innovativa per raccogliere nuove idee, iniziai ad ascoltare le prime compilation house giunte da Chicago.

Il primo pezzo di quel genere con cui entrai in contatto fu “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk e Jesse Saunders ma quando lo feci sentire agli altri membri dei Talk Of The Town ricevetti un responso che mi gelò. Per loro era solo una banale batteria elettronica, non era musica “vera”. A me stare seduto in studio a produrre piaceva ma per il resto l’attività dei Talk Of The Town si riduceva a fare finta di eseguire il brano davanti a migliaia di persone. Nel mio caso mimavo di suonare il basso per tre minuti, interminabili. Nell’estate del 1988, anno in cui esce il secondo singolo dei Talk Of The Town intitolato “Amor”, avvenne qualcosa che cambiò le carte in tavola. Durante la pausa di una tournée, l’abbinamento tra house music ed ecstasy provocò in me una vera esplosione. Ebbi la sensazione di percepire il futuro ma, per quanto riguarda la droga, fu solo un sentore illusorio. Tornai in studio urlando e sostenendo che fosse giunto il momento di smetterla con quella musica dance. Pannuto pensò che fossi impazzito, prese la tastiera e il computer e se ne andò. In quel momento per me iniziò una nuova avventura con la house music attraverso una fase durata nove mesi in cui si susseguirono party continui a casa mia, dove allestii anche un piccolo studio. Quel posto lo chiamai “Clinica” e fu meta e ritrovo di amici che accorrevano da ogni parte d’Italia per ballare house music tutta la notte. Credo fosse tra i primi in assoluto nel nostro Paese a poggiarsi su quel tipo di concept. Ai tempi, parlo del 1988/1989, c’era il Principe a Milano con Leo Mas che chiudeva alle due di notte, e il Macrillo ad Asiago che invece vantava serate lunghe ben dodici ore con DJ ibizenchi. La house però non sembrava avere chance per attecchire. I discografici riducevano i demo di house music a banali “jingle pubblicitari” e i club non credevano affatto in quel genere, definendolo “musica per drogati”. Nonostante tutto rinunciai alla fama e al successo che avevo conosciuto coi Talk Of The Town per iniziare un nuovo “viaggio lisergico” dopo quello del ’68 che non vissi perché avevo solo otto anni. Esattamente un ventennio dopo si ripresentò questa possibilità e non potevo lasciarmela scappare per nessuna ragione al mondo. I miei riferimenti divennero la Nu Groove, etichetta culto, e maestri indiscussi come Frankie Knuckles, Lil’ Louis e successivamente i Masters At Work. Guarnerio e Baldi proseguirono nel solco pop producendo con Claudio Cecchetto moltissime cose compreso gli 883, in netta antitesi con quanto iniziai a fare io. Guadagnarono molti più soldi ma a me non interessava affatto, non era il denaro la mia meta».

1988, in alto il gruppo che segue i party del Clinica, in basso Jackmaster Pez alla consolle de Le Cinemà, Milano

Jackmaster Pez e la house music nel 1988: sopra una foto del gruppo che segue i party casalinghi del Clinica, sotto il DJ impegnato alla consolle de Le Cinemà, a Milano

Mentre la Talk Of The Town International termina il suo breve cammino con “Life Is An Illusion” di Sound Of Clinica, nome scelto per rammentare quei party casalinghi organizzati tra 1988 e 1989, Jackmaster Pez apre una nuova parentesi della sua carriera. Gli anni Novanta nascono sotto il segno della house e lo vedono in azione in molti locali tra cui il milanese Lizard a cui viene dedicata una scheda nell’album di figurine “Discoteche D’Italia” edito da Panini nel 1993. Proprio all’interno del Lizard si tiene la one night Matmos ideata dal compianto Marco Tini, con una consolle che Pez condivide, come testimonia una figurina nel citato album, con Luca Colombo, Giorgio Matè e Bruno Bolla. I tempi sono propizi per la discografia indipendente e la creatività in ambito nightlife, ma sul mondo della musica da discoteca già aleggiano seri problemi come quello delle cosiddette “stragi del sabato sera” che condizionano in modo sensibile l’opinione pubblica suscitando la netta disapprovazione dei benpensanti, con ripercussioni probabilmente mai assorbite del tutto. «Prima di arrivare al Lizard il Matmos si teneva al Beau Geste (come racconta Bruno Bolla qui, nda) ma io non ne facevo ancora parte. Allora suonavo saltuariamente presso il neonato Cocoricò. Iniziai il Matmos tra ’91 e ’92 al Linea dove c’era pure Andrea Gemolotto. Pensare alla tragica morte di Marco Tini mi fa commuovere ancora e non nascondo che oggi mi capita di pensare all’evoluzione che avrebbe potuto avere la mia vita artistica se lui fosse ancora vivo. Marco aveva organizzato tre serate settimanali, il giovedì con Ralf, il venerdì con Ricky Montanari, Flavio Vecchi e Luca Colombo, il sabato con Giorgio Matè, Luca Colombo, Bruno Bolla ed Andrea Gemolotto. Io avrei suonato sia il venerdì che il sabato. L’inaugurazione di quella stagione la passammo in compagnia di Frankie Knuckles. Quando il Matmos arrivò al Lizard nella stagione ’92-’93, cambiò tutto. Dopo lunghe e sofferte discussioni causate dai club che cercavano di avere me e Colombo a tutti i costi, il nostro compenso passò da qualche centinaia di migliaia di lire ad un milione, cifra impensabile sino a pochi anni prima.

La figurina Panini

La figurina dell’album Panini (1993): da sinistra Giorgio Matè, Luca Colombo, Bruno Bolla e Jackmaster Pez

L’house music e il mondo delle discoteche iniziarono a vivere il boom e testimone di ciò fu proprio l’album delle figurine Panini. Tra i clienti abituali del Matmos c’era Grace Jones e quando cambiava il DJ in consolle spesso doveva intervenire la sicurezza. Erano anni magici, nessuno avrebbe mai pensato che con una musica così di nicchia saremmo diventati tanto famosi. I DJ statunitensi restarono stupiti quando venivano ingaggiati come guest in locali italiani, c’erano persino programmi televisivi e riviste ad occuparsi di clubbing e per loro l’Italia divenne l’equivalente dell’America vista coi nostri occhi. Per quanto riguarda invece le stragi del sabato sera, il fenomeno venne innescato principalmente dall’enorme nomadismo degli appassionati disposti a viaggiare per tutto lo Stivale pur di rincorrere i propri beniamini della consolle. Una volta al mese andavo a suonare in Riviera o in Veneto organizzando dei pullman. La festa iniziava già nel viaggio! Collaborai con Roberto Spallacci della Latin Superb Posse di Torino che organizzò persino un treno che faceva varie fermate dal capoluogo piemontese a Riccione, con vagone dancefloor, proprio per cercare di arginare il problema delle stragi sulle strade. La discografia non era più quella degli anni dell’italodisco, chiamata gergalmente dance, con milioni di copie vendute. Per me era un successo vendere “appena” cinquemila copie nel Regno Unito, nulla rispetto ad uno dei colossi di allora come la MAW Records che faceva cinquantamila copie in tutto il mondo, ma non era certamente un problema, avrei comunque incassato denaro dalle serate, e ai tempi il sabato suonavo quasi regolarmente in ben tre o quattro locali».

Nel 1995 Pezzetti e Pannuto firmano “Blow” che viene pubblicato su una delle etichette capostipiti del movimento house italiano, la UMM del gruppo Flying Records, ai tempi diretta artisticamente da Angelo Tardio. Il brano, pubblicato su un doppio mix, impasta gli elementi classici della house/garage di quel momento storico e si avvale del contributo vocale di Julie Brannen. Oltre alle versioni dei 50%, team artistico creato qualche anno prima da Pez & co., figura un remix proveniente dagli States, quello di Johnny Vicious che giusto l’anno prima ritocca “Activator (You Need Some)” dei Whatever, Girl. «Il nostro studio era piuttosto piccolo ma nonostante tutto riuscimmo a raggiungere un livello qualitativo e quantitativo che ci portò ad essere una realtà importante nel mondo. Basti pensare che in otto anni producemmo circa 180 tracce. “Blow” uscì su UMM per una pura questione venale visto che lo strapagarono. Purtroppo non riuscimmo a dare continuità alla collaborazione con l’etichetta campana perché poco dopo l’uscita di quel disco il team dei 50% si sciolse. Strumento simbolo di quel periodo era la Yamaha DX7 ma Simone Onano alias Simon Master W, il tastierista che collaborava con noi, era letteralmente circondato da sintetizzatori quindi non sarei in grado di stilare un elenco completo di tutto ciò che usavamo. Il campionatore, ovviamente, era un Akai. Al di là dei risultati di vendita, per noi la più grande soddisfazione era andare a New York o Londra e trovare le nostre produzioni messe in bella mostra tra i dischi d’importazione».

Il progetto parallelo 50%, messo in piedi da Pezzetti, Pannuto ed Onano nel ’92 in cooperazione con la Bull & Butcher Recordings della famiglia Allione, è senza dubbio quello che innesca il maggior successo a livello internazionale anche per l’attività di remixer per artisti come i Soul Verité giunti dalla Maxi Records di Claudia Cuseta con versione di Danny Tenaglia annessa, per Debbie Patterson prodotta da un Molella ancora poco noto, per Kamar alias Kerri Chandler, per i Workin’ Happily e per i britannici KWS. Sempre nel 1992 i tre fondano la Rolling Tune a cui si affianca, un paio di anni dopo, la Solid Cut Records. «Sono particolarmente fiero delle scelte fatte in quel periodo, a partire dalla Rolling Tune e Solid Cut, le nostre label di cui ci siamo occupati fin dalla scelta del logo. Nel team dei 50% i ruoli erano ripartiti in questo modo: Ricky era autore dei testi e della musica, oltre ad occuparsi della parte produttiva, Simon era un polistrumentista quindi curava l’arrangiamento, mentre io sceglievo la linea musicale, collaboratori e remixer. Rimpiango di aver remixato poche cose ma l’impegno da DJ e il lavoro da label manager assorbivano la maggior parte del mio tempo. Tra gli aneddoti di quel periodo ne ricordo uno in particolare relativo alla Heartbeat, etichetta simbolo di quegli anni per cui tutti avrebbero voluto produrre. Il clan però era molto chiuso ma escogitai uno stratagemma: Luca Colombo faceva parte del team della Heartbeat ma non era un produttore, quindi lo invitai in studio e creammo “The Free Life” di Virtual Reality, un brano con l’anima di Colombo ma prodotto dai 50%.

Jackmaster Pez in compagnia di Kerry Chandler nel TOTT Studio (1992-1993)

Jackmaster Pez e Tato Turntable Rizzoli in compagnia di Kerri Chandler (1993)

Avendo a disposizione due etichette ed una casa discografica/editore come la FMA degli Allione che ci garantiva la pubblicazione di tutto ciò che producevamo, non avevamo problemi anzi, la fama estera ci permise di collaborare coi nostri miti e remixare “I Need You” di Nu-Solution alias Roger Sanchez, che per una curiosa coincidenza aveva lo stesso titolo del pezzo che remixammo per Chandler. Rolling Tune e Solid Cut Records però non vanno considerate conseguenze della Talk Of The Town International. Pannuto, inizialmente, non credeva affatto nella house music e lo stesso nome 50% lo scegliemmo perché in quel periodo Ricky produceva techno mentre io desideravo dedicarmi alla house. Insomma, eravamo nel mezzo, a metà strada. Scoprii la genialità innovativa di Chandler attraverso la sua Madhouse Records, poi mi capitò di suonare con lui e grazie al suo manager Maurizio Clemente nacque l’idea di affidargli un remix di un nostro pezzo, “I’ll Be Good To You” di Julie Brannen. A quel punto Kerri ci chiese di remixare “I Need You”. Rimase da noi quattro giorni in studio: i primi due li dedicò esclusivamente al groove e al basso, io non capivo bene ma la potenza delle sue produzioni si stava manifestando proprio davanti a me. Il terzo giorno lo trovai a cinquanta metri dallo studio, accucciato in giardino con l’orecchio a terra. Preoccupato, gli chiesi se andasse tutto bene e lui mi rispose che stava semplicemente ascoltando come suonava il groove».

Il team dei 50% e i Murk nello studio TOTT (1993)

Una foto scattata nel 1993 nel T.O.T.T. Studio, a Novara: insieme al team dei 50% ci sono i Murk (Oscar Gaetan e Ralph Falcon)

Nel corso della seconda metà degli anni Novanta l’attività discografica di Jackmaster Pez, legata al T.O.T.T. Studio, va progressivamente scemando nonostante incidere dischi sia un’attività doppiamente conveniente per i DJ, economicamente e a livello di immagine per vedere crescere le proprie quotazioni. Ma a tal proposito l’artista è lapidario: «A quarant’anni mi hanno diagnosticato una grave malattia genetica e sono diventato un cieco ipovedente. Per riprendermi da quella batosta ci è voluto parecchio tempo ed ho ripreso a produrre da solo nel 2001 con lo pseudonimo Funkinetic. Per il “Freak Fusion EP” ricorsi ad una strategia: stampai delle white label facendole distribuire da Londra, col risultato di farle arrivare in Italia tra i dischi d’importazione ed alimentando un certo interesse (analogamente a quanto fanno gli FPI Project come raccontato qui, nda). Fu un discreto successo nei club ma commisi lo sbaglio di trattare dei ventenni, miei collaboratori, al mio pari. Il progetto pertanto ebbe vita breve. Nel 2016 sono tornato come Funkinetic per la prima volta in digitale ma disperdendomi nella immensa Rete e con ben pochi risultati in termini di vendita. In quel momento ho realizzato che la mia missione nella musica restava ancorata al vinile, seppur nel frattempo fosse ormai diventato un supporto di nicchia. In cantiere adesso ho un doppio album che raccoglierà il meglio delle mie produzioni».

Negli ultimi quindici anni il mondo è stato travolto e stravolto da cambiamenti forse ancora più radicali rispetto a quelli dei decenni precedenti. Le critiche si sprecano ma al netto della nostalgia i tempi che viviamo permettono di fare cose una volta semplicemente utopiche. In ambito DJing poi, le evoluzioni si sono fatte sentire in modo clamoroso, interessando non solo l’aspetto tecnico. La consacrazione mondiale della figura del disc jockey ha decretato nuove dinamiche, economiche e sociali, impronosticabili trent’anni fa. «Alla fine dei Novanta mi sono fermato un po’ e quando sono ripartito mi accorsi già che il mondo del DJing stava cambiando insieme all’utilizzo delle nuove tecnologie. Non nutro alcun pregiudizio nei confronti delle innovazioni tecniche anzi, è dai tempi del rock & roll, con la trasformazione della chitarra da acustica in elettrica, che la musica si evolve. Sono sempre alla ricerca del nuovo ma senza dimenticare le mie origini. Inoltre continuo ad usare il vinile perché ho trasformato la mia cecità in una virtù. Non potendo utilizzare computer o CDJ, perché non riuscirei a leggere ciò che appare sul monitor o sul display, ho deciso di proseguire coi dischi, sento che sia quella la mia missione. Se dovessi indicare un aspetto odierno del DJing che proprio non mi piace, direi le cifre astronomiche che percepiscono alcuni colleghi. Questo è semplicemente marketing. Se un DJ riesce a raccogliere trentamila paganti è giusto che guadagni somme importanti, ma che il tutto graviti sull’immagine e sul personaggio e non più sulla musica è particolarmente deludente. Per non parlare poi di performance ridotte ad un click. Oggi si può realizzare un DJ set anche con uno smartphone, esiste persino un mini mixer per mixare musica tra due telefoni cellulari. È bello che l’accessibilità a lavori creativi, come il DJ, il grafico o il fotografo, sia aumentata, ma chiaramente non tutti quelli che si cimentano hanno del talento. Per fortuna però di giovani talentuosi ce ne sono ancora molti, il futuro è il loro. Per quanto concerne il clubbing invece, tranne rare eccezioni ora non mi offre più l’adrenalina di cui ho bisogno. Per tale ragione ho realizzato un progetto che porto avanti da qualche tempo, Casa Pez: a trent’anni dalla Clinica, sono tornato ad organizzare party a casa mia e con grande soddisfazione posso affermare di essere stato in grado di ricreare quell’atmosfera che ormai si è persa nel club, e la conferma risiede nel sorriso e nel divertimento di amici ed affezionati frequentatori. Esistono ancora perle rare però. Ho avuto la fortuna di lavorare per due anni al 65mq di Milano, un monolocale in zona Navigli ormai chiuso che permetteva di promuovere musica veramente alternativa. Consiglio ai giovani quindi di non mettere solo in dubbio la musica proposta perché molte volte bisogna stare nel posto giusto per essere apprezzati.

Con ormai quarant’anni di carriera alle spalle, ho capito che tutto ciò che ho vissuto è servito a non avere confini. Adesso posso suonare dall’acid jazz alla house, dalla disco al funk, dalla nu disco alle robe baleariche, portandomi dietro almeno sette flight case di dischi. Di sogni nel cassetto ne ho ancora molti ma per pura scaramanzia preferirei non anticipare nulla. La musica mi ha dato molto di più di quanto potessi aspettarmi, ho dedicato ad essa la mia vita ed ancora adesso sto raccogliendo molte soddisfazioni tra cui la proposta di tenere una lectio magistralis presso il Conservatorio di Palermo. L’idea, partita da un professore, purtroppo non è ancora andata in porto per mancanza di fondi ma il solo fatto che abbiano pensato a me è stata un’immensa gratificazione. Inoltre la musica mi ha salvato la vita per ben due volte: sino a quando non ho avuto l’handicap visivo, il mio lavoro mi responsabilizzava di fronte alle mille tentazioni del mondo della notte, successivamente mi ha spronato ulteriormente ad amare la vita senza limiti. Ormai non riesco più a vedere al di là della consolle e rendermi conto se il pubblico stia ballando ma ho sviluppato altri sensi che mi permettono di sentire cosa accade sul dancefloor. Insomma, continuo a fare il DJ vivendo come se non avessi affatto questo problema. Spero che la mia esperienza sia d’aiuto e dimostri, a chi è in difficoltà, che se si vuole si può davvero andare oltre ogni limite». (Giosuè Impellizzeri)

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