I documentari sulla musica elettronica

documentariPer sopperire all’assenza di un database specificamente dedicato ai documentari sulla musica elettronica, ad ottobre 2012 Giosuè Impellizzeri inizia a raccoglierne alcuni in una Nota sul proprio profilo Facebook, segnalandone il link, analizzandone il contenuto ed aggiornando la lista ogni qualvolta fossero disponibili nuove fonti.
Nel corso del tempo lo spazio “Nota” messo a disposizione dal social di Mark Zuckerberg diventa insufficiente ma è anche la voglia di rendere il lavoro più facilmente rintracciabile, fruibile e condivisibile a creare i presupposti per trasferirlo sulle pagine del blog di Decadance.
Naturalmente il database sarà oggetto di periodici aggiornamenti.

Kraftwerk And The Electronic Revolution
In questo video del 2008, di ben due ore e mezza e disponibile anche in DVD, si approfondisce la “rivoluzione elettronica” che prende piede nel Paese che, forse più di ogni altro, esce martoriato dal secondo conflitto mondiale, la Germania. L’età buia non è ancora giunta al termine (la nazione verrà riunificata solo nel 1990), e la musica americana ed inglese rappresenta, per la generazione degli anni Cinquanta e Sessanta, un nuovo modello da seguire. Tra i primi sperimentatori c’è Conrad Schnitzler dei Tangerine Dream (passato a miglior vita nel 2011), che qui racconta il suo approccio inedito alla materia musicale, nato dal rifiuto della melodia. «Solo se non sai suonare uno strumento potrai creare musica davvero libera e svincolata da ogni regola» afferma provocatoriamente il compositore tedesco. Anche gli Amon Düül e i Can ricoprono un ruolo assai importante in questa fase storica, miscelando svariate influenze tratte dalle culture estere e fondendole con le proprie. Il risultato non è un surrogato del Rock n Roll, bensì qualcosa di nuovo, che la stampa e la critica angloamericana ribattezza, in senso denigratorio, Krautrock (nota anche come Kosmische Musik). La rinascita industriale registrata nelle città della Germania Ovest rappresenta uno stimolo maggiore e, non certamente a caso, si forma a Düsseldorf la band considerata antesignana ed ispiratrice della musica elettronica contemporanea, i Kraftwerk. Partendo da basi classiche, i tedeschi sviluppano un suono che bypassa le orchestre e cerca di aprire e chiudere un cerchio in modo del tutto autonomo. Evolvendo i concetti della musique concrète francese di Pierre Schaeffer nell’approccio teutonico, i Kraftwerk creano il loro genere, così come qui descrive Karl Bartos. La letteratura fantascientifica e i progressi scientifico-industriali fanno il resto, alimentando il focus sul “mondo del futuro”. Interessante anche il contributo di Klaus Röder, nei Kraftwerk tra ’74 e ’75: «I Kraftwerk sono stati Ralf Hütter e Florian Schneider: il resto è solo componente addizionale. Negli anni vari musicisti, come me, hanno preso parte al progetto, ma si limitavano ad eseguire delle parti che loro due chiedevano espressamente». Dal Klingklang Studio, al 16 della Mintropstraße, pieno di strumenti autocostruiti, escono album-manifesto come “Trans-Europe Express”, “The Man Machine”, “Autobahn”, “Electric Cafe”, “Computerwelt” e “Radio-Activity”, che sdoganano nel mondo il nome dei Kraftwerk, ma sarebbe un errore non citare elaborati precedenti incisi tra ’70 e ’73, “Krafwerk”, “Kraftwerk 2” e “Ralf & Florian” (a cui partecipa l’ingegnere del suono Conny Plank), in cui si assiste alla fusione tra formazione accademica classicista ed impeto sperimentale. Quella dei Kraftwerk, allora, non è solo sperimentazione musicale ma anche (e soprattutto) sperimentazione mentale e concettuale, relazionata al suono quanto alla meccanizzazione della figura umana, una delle sequenze creative del Futurismo.

Pump Up The Volume: The History Of House Music
Trasmesso nel 2001 dalla tv britannica Channel 4 e sinora mai diffuso su DVD, traccia la storia della House, dai primordi legati ai club e ai produttori di Chicago, ai Rave inglesi. Davvero tanti gli ospiti, tra cui Vince Lawrence, Farley ‘Jackmaster’ Funk, Jesse Saunders, Chip E, Steve ‘Silk’ Hurley, Joe Smooth, Larry Sherman & Rachel Cain (Trax Records), Marshall Jefferson, DJ Pierre, Jamie Principle, Masters At Work, Byron Stingily, Armand Van Helden, Derrick May, Mark Moore, Morgan Khan, Adamski, Paul Oakenfold, Carl Cox, Terry Farley, A Guy Called Gerald, Orbital, Pete Tong, Leftfield, Happy Mondays, Artful Dodger e l’italiano Daniele Davoli.

When I Sold My Soul To The Machine
L’ormai raro DVD, realizzato nel 2004 e pubblicato l’anno dopo in soli 300 esemplari numerati a mano, racconta la genesi della scena underground de L’Aia. Un viaggio negli studi e club ricavati negli squat insieme ad I-f (Viewlexx), Guy Tavares (Bunker Records/Motorwolf) ed artisti come Pametex, DJ Overdose, Syncom Data, Orgue Electronique, Legowelt, Alden Tyrell, DJ Technician ed Intergalactic Gary. Tutti insieme rappresentano la realtà musicale e culturale legata all’etica do it yourself, scevra di intenti economici e per questo accreditata come la risposta europea più vera e coerente all’americana Underground Resistance. Sottotitolato in inglese.

I Dream Of Wires (Hardcore Edition)
Scritto e diretto da Robert Fantinatto e Jason Amm, “I Dream Of Wires” è un appassionatissimo viaggio in compagnia dei sintetizzatori modulari. Sebbene la tecnologia ci metta quotidianamente di fronte a nuove scoperte e realtà, aziende come Modcan e Doepfer si sono ritrovate a crescere in modo rilevante, creando un vero substrato di appassionati difficilmente convertibili alla maneggevolezza del suono digitale. Matasse inestricabili di cavi, centinaia di led colorati, tasti, leve, manopole: ben quattro ore (!!) in compagnia di nomi di ieri e di oggi, tra cui Vince Clarke, Daniel Miller, Carl Craig, James Holden, Richard Devine, Trent Reznor, Dieter Doepfer, John Tejada, Drumcell, Legowelt, John Foxx, Deadmau5, Chris Carter e Gary Numan. Quando la passione si mischia col desiderio di scavare sino alle origini del suono, rovistare nei suoi componenti e poi approdare al suo sviluppo. La soundtrack reca la firma del citato Amm in arte Solvent, che elabora il tutto, ovviamente, mettendo mano solo a sintetizzatori modulari. Disponibile in CD Blu Ray o in doppio DVD in edizione limitata. Ps: su YouTube c’è solo un preview di 12 minuti, ma è possibile vedere alcuni estratti cercando “IDOW + interview”.

SubBerlin – The Story Of Tresor
«Mentre si sgretolava la parete del mondo, Berlino Ovest diventava, in poche ore, una sorta di gigantesco bazar dove tutti correvano a divertirsi, a far compere, a soddisfare una curiosità compressa da una generazione»: così Salvatore Veca commenta la notizia sul Corriere Della Sera il 10 Novembre 1989. Quello che storici e storiografi hanno più volte definito “il giovedì passato alla storia” cambiò tutto. Il 1989 fu l’anno zero, la rinascita, la ripartenza, l’avvio della riunificazione statuale e sociale. E pure musicale. Complice lo sbarco in Europa di Techno ed House, che già avevano registrato da qualche anno la comparsa oltremanica decretando la stagione degli smile gialli, la neocapitale tedesca viene ora investita da un clima euforico e, quasi magicamente, conosce i colori dopo anni di bianco e nero. Già, i colori, come quelli delle luci psichedeliche alternate al bianco intermittente dei flash delle strobo che accompagnano il turbinio ritmico della musica. Se l’apertura del Muro segna nel modo più spettacolare la fine del dopoguerra, la Love Parade di Dr. Motte fa assaporare, peraltro con qualche mese di anticipo rispetto alla vicenda storica, quel meraviglioso senso di libertà che innesca una sorta di estasi collettiva. Alla ricerca di una nuova identità, i berlinesi si rialzano e, in ambito musicale, hanno voglia di riscatto. Nato dalle ceneri dell’Ufo, fondato nel 1988 da Achim Kohlenberger, Dimitri Hegemann, Johnny Stiehler e Carola Stoiber (quest’ultima oggi al lavoro con la sua agenzia di promozione discografica Pull Proxy), il Tresor resta un nome iconico per il clubbing, ma non solo per l’apporto musicale. Ricavato nei sotterranei ormai in disuso dei magazzini Wertheim, nel Mitte, a due passi da Potsdamer Platz, il techno bunker diventa in breve il crocevia di un numero incredibile di artisti provenienti da ogni parte del mondo, ma anche di attivisti culturali che tra il 1990 e il 1993 affollano la città e la (ri)animano. Tresor è il primo club di Berlino in cui non conta più nulla essere di Est o di Ovest, in cui non esiste dresscode e nessun vincolo che possa interferire. Così, inconsapevolmente, si ritrova a rappresentare la libertà dei giovani berlinesi, ora animati da una rinnovata fiducia nel futuro. L’epopea finisce il 16 Aprile del 2005: lo stabile viene acquistato da un gruppo di investitori intenti a demolirlo per erigere nuovi uffici, ma la storia ricomincia circa due anni dopo (il 24 Maggio del 2007), nella nuova location sulla Köpenicker Straße, sempre nel Mitte. Il DVD, pubblicato nel 2012 insieme ad un CD riepilogativo con brani ovviamente tratti dal catalogo Tresor, include interviste esclusive a molti degli artisti che hanno generato la “soundtrack” di quel tornado emozionale: da Rok a Marusha, da Sven Väth a Dr. Motte, da Blake Baxter a Jeff Mills passando per Juan Atkins, Tanith, Chris Liebing ed ovviamente Dimitri Hegemann. Se cercate la versione sottotitolata in inglese, optate per quella su Vimeo ma si tratta di un edit della durata di poco più di 20 minuti contro i circa 90 dell’originale.

Breakin’ ‘N’ Enterin’
In tempi recenti il termine Electro è finito con l’essere appioppato ad uno stile musicale che ben poco divide con quello per cui fu coniato inizialmente. Causa il pressapochismo diffuso via web e la scarsa voglia di approfondire da parte dei più giovani, che spesso non mostrano il benché minimo interesse per ciò che è stato in passato e che ha gettato le basi dell’attuale scena. Questo documentario, diretto da Topper Carew nel 1983, punta l’obiettivo su una precisa fase storica in cui la musica Electro di derivazione kraftwerkiana entra in contatto con l’Hip Hop, creando un fantasioso ibrido che fu identificato come Electro Funk (giacché di mezzo c’erano anche referenze di George Clinton e dei suoi Parliament). Supportato da artisti come Hashim, Afrika Bambaataa (nella sua “Planet Rock”, del 1982, trova alloggio un sample di “Trans Europe Express” dei Kraftwerk), Captain Jack, Newcleus, The Jonzun Crew, Egyptian Lover, Man Parrish, Jamie Jupitor, Kid Frost, Captain Rock, Maggotron, Kosmic Light Force, MC Flex & The FBI Crew, The Empyre, Imperial Brothers, Twilight 22 e Planet Detroit, questo ceppo musicale passa alla storia anche grazie ai b-boy e alla breakdance che improvvisano agli angoli delle strade statunitensi con radio portatili (i cosiddetti ghettoblaster), che diventano, insieme ai murales e a vari strumenti come la Roland TR-808 e il vocoder, tra i simboli iconici del movimento. Il docu-film, purtroppo con qualità audio e video non eccelsa (è tratto da un VHS), mostra quanto sia stato incisivo quel momento che fece da ponte tra le sperimentazioni degli anni Settanta e la Techno degli Ottanta. Tra i protagonisti della pellicola alcuni nomi leggendari come Ice-T, Chris “The Glove” Taylor, Egyptian Lover e Super A J che per l’occasione, unendosi nel progetto The Radio Crew, incidono cinque brani racchiusi nell’EP “Breaking And Entering”, a quanto pare pubblicato in appena 25 copie e per questo diventato un vero cimelio per gli appassionati (alcuni di loro si sono dovuti accontentare di un repress realizzato in Germania nel 2005). La parabola dell’Electro Funk va pian piano eclissandosi, anche per la nascita e la diffusione di nuovi generi musicali che fanno passare l’Hip Hop in secondo piano. Tuttavia in Florida nasce il Miami Bass che, sotto la guida di virtuosi del turntablism come Dynamix II, Maggotron e l’italiano trapiantato in America Claudio ‘DJ Debonaire’ Barrella, contribuisce nel tenere vivo, ancora oggi, il ricordo dell’Electro Funk a cui è dedicato per intero il VHS.

Last Shop Standing
Ispirato dall’omonimo libro di Graham Jones e diretto da Pip Piper, Last Shop Standing racconta, come indica il sottotitolo, l’ascesa, la caduta e la rinascita dei negozi di dischi indipendenti (con predilezione per la musica Rock) nel Regno Unito. Realizzato col fondamentale apporto di Blue Hippo Media, il documentario, della durata di circa 50 minuti, esalta il ruolo dei negozi di dischi come luoghi di incontro tra appassionati e centri di diffusione di cultura musicale. L’indagine viene sviluppata visitando numerosi shop in Inghilterra, Scozia e Galles, e determina numeri su cui val davvero la pena riflettere, visto che nell’ultimo decennio sono circa 1540 i negozi di dischi che hanno chiuso battenti oltre la Manica. I “sopravvissuti” sono poco più di 300, e si adoperano per supportare nel migliore dei modi la scena locale, i gruppi (vendendo i biglietti dei loro live) e le etichette indie, preservando il concetto del punto di incontro e scambio di cultura. È da inquadrare in tal contesto quindi la “rinascita” a cui adduce Last Shop Standing, una marginale riaffermazione destinata ad una stretta cerchia di utenza, fatta in primis da cultori, appassionati e collezionisti che non si sono lasciati ammaliare dai nuovi dispositivi e formati digitali. Per tali motivi è necessario interpretare il termine “rinascita”come “nuova genesi” e non “resurrezione”, visto che i parametri caratteristici (come la stretta relazione con l’ubicazione geografica) e di sviluppo dei “nuovi negozi di dischi” sono completamente differenti rispetto a quelli del passato, in cui il vinile apparteneva alla volgare popolarizzazione e all’ordinario consumismo quotidiano di chi, per la musica, non nutriva affatto particolari attrattive. Tra i tanti intervistati anche Norman Cook.

Vinylmania – When Life Runs At 33 Revolutions Per Minute
In 75 minuti il DJ Paolo Campana conduce per mano, anche facendo appello ad esperienze personali, nella storia di un oggetto leggendario per gli amanti della musica, difficilmente rimpiazzabile dai formati “liquidi”: il vinile. Girato a Tokyo, New York, Londra, Parigi e Praga, si avvale dei contributi di musicisti (Philippe Cohen Solal dei Gotan Project), DJ (Kentaro, campione DMC), Jerome Sydenham ed ovviamente collezionisti e negozi che continuano a confidare in tale supporto. Vinyl is still alive. In rete è disponibile solo il trailer.

Tunza Tunza
Girato nel 2002 dal leccese Paolo Pisanelli, Tunza Tunza viene trasmesso da La7 nel 2007, quando ospite in studio è l’allora direttore di Rolling Stone, Carlo Antonelli. Il documentario tratta la musica elettronica italiana, intesa in ogni sua variante e diramazione, attraverso la voce di DJ e produttori sparsi per lo stivale tricolore, da Nord a Sud. A Milano con Lele Sacchi ed Alessio Bertallot, a Reggio Emilia con DJ Rocca, a Roma con Alex Marenga alias Amptek, Andrea Benedetti, Max Durante, Ice One/Sensei e Jollymusic, a Napoli con Rino Cerrone, Danilo Vigorito, Random Noize e Stefano ‘Madox’ Miele (ancora molto lontano dal vestire i panni di Riva Starr), sino a Frosinone con Santos e in Puglia con Nicola Conte e Daniele De Rossi alias Science Force. Tra i vari ed interessanti contributi, segnalo in particolare quello di Benedetti, che definisce la musica elettronica come «Ponte fra diversi modi di approcciare alla composizione creando suoni inesistenti, musica senza connotazioni razziali e di identità» e quello di DJ Rocca, secondo il quale «A volte conoscere e seguire la teoria musicale è un ostacolo per comporre musica elettronica». Non meno importante il pensiero di Bertallot: «L’Italia fa riferimento ad una cultura estera egemone, gran parte della musica che ascoltiamo e che detta le regole del gioco arriva dall’estero». Tutte esternazioni che potrebbero generare interessanti dibattiti.

Strange Wax
Ben Meech affronta la tematica che, ormai da qualche anno a questa parte, tiene banco nelle più fomentate discussioni online: il vinile e il suo ruolo preponderante nella cultura musicale. Nel mini documentario le opinioni si rincorrono, dalla staticità attribuita al CD alle infinite manipolazioni ottenute grazie ai moderni CDJ, che hanno di fatto trasformato la modalità di lavoro del DJ. Nel discorso rientra pure la tecnologia digitale (Serato, Traktor) che ha ulteriormente variato i parametri espressivi a cui si era abituati nel parlare del DJing nelle decadi passate. Si aprono così nuove ed inedite “vie” di mixaggio, che riescono ad interfacciare musica ed immagini e che racchiudono persino l’intera consolle nel palmo di una mano (il Pacemaker, inventato da Jonas Norberg, che lo descrive come «una PlayStation portatile per la musica»). Di sicuro gli amanti del vinile non spariranno del tutto, ma lo standard nella fruizione della musica sembra essere cambiato in modo radicale. Tra i brani in sottofondo, “Strange Wax” del francese I:Cube (tratto dal suo primo album del 1997, “Picnic Attack”), da cui Meech prende il titolo per la sua indagine.

Before The Music Dies
Nonostante non tratti nel dettaglio la musica elettronica, questo documentario del 2006 diretto da Andrew Shapter torna particolarmente utile a chi voglia approfondire tematiche correlate alla transizione fisico-digitale. Il nocciolo dei 95 minuti risiede nella critica all’industria musicale americana rea di aver trasformato la musica, nell’arco dell’ultimo trentennio, in oggetto di mero consumismo, assoggettandola a regole ben precise che davvero ben poco dividono coi nobili intenti artistici. La percezione è quella di una musica deumanizzata e schiava del marketing, troppo spesso preconfezionata, ripetitiva o nulla nella sua declinazione ispirativa, e lontana dalle avvincenti innovazioni del passato. Al topic, che continua a far discutere animosamente, prendono parte, tra gli altri, artisti come Erykah Badu, Eric Clapton ed Elvis Costello, ma il rischio che si corre, sottolineando marcatamente la presunta pochezza dei contenuti odierni, è quello di sostenere l’idea della musica come forma d’arte elitarista, finendo col dare vita ad un parametro di giudizio incapace di leggere con la dovuta razionalità e lucidità i cambiamenti inevitabili che hanno interessato sia musica che artisti, soprattutto nell’ultimo decennio.

Tech Stuff
Realizzati tra 2006 e 2007 per QOOB, piattaforma multimediale di MTV Italia, i dieci mini documentari di Tech Stuff hanno il pregio di condensare ed approfondire, in pochi minuti ma con la massima competenza, tecniche, strumenti ed artisti che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia della musica elettronica. Dal theremin, uno dei primi strumenti elettronici che poteva essere suonato senza il contatto fisico, alla nascita del vinile (lo sapevate che la sua fabbricazione venne perfezionata da un’industria dolciaria statunitense che iniziò ad incidere musica su supporti di cioccolata?), dalla genesi del Moog, considerato il padre dei sintetizzatori, al filtro analogico Sherman Filterbank, dalle drum machine e sintetizzatori Jomox alla teoria della sintesi del suono, dal glaciale Minimal dei finlandesi Pan Sonic (ex Panasonic) alla musica generativa, passando per il centro di ricerca musicale parigino IRCAM e l’istituto di fonologia della RAI fondato da Bruno Maderna e Luciano Berio. Last but not least, l’intervista al compositore Karlheinz Stockhausen, realizzata a Colonia quattro mesi prima della sua scomparsa. Insomma, un vero vademecum che gli appassionati di musica elettronica dovrebbero visionare con molta attenzione. Un plauso è rivolto all’autore, Giorgio Sancristoforo, sound designer, tecnico del suono e docente di Sintesi al SAE, noto nel campo della produzione discografica come Tobor Experiment. Il tutto è disponibile anche su DVD a cui è allegato sia Tech Stuff Insider, un libro di 192 pagine che approfondisce ed integra gli argomenti trattati, sia un software, ideato dallo stesso Sancristoforo, per approcciare alla sintesi del suono. Un must insomma.

Maestro
Diretto e prodotto nel 2001 da Josell Ramos dopo quattro lunghi anni di estenuanti ricerche, Maestro traccia la nascita sia della House a New York, sia del DJ che sostituisce il jukebox. Ad essere descritta minuziosamente è la figura di Larry Levan, morto prematuramente nel 1992, e quella di altri capisaldi e pionieri come Nicky Siano, Frankie Knuckles, David Mancuso, Tony Humphries, Francis Grasso e Steve D’Acquisto (scomparsi entrambi poco tempo dopo aver rilasciato le loro interviste), Boyd Jarvis, John ‘Jellybean’ Benitez, Little Louie Vega, Danny Tenaglia, Robert Clivillés, Derrick May, Danny Krivit, Frankie Bones e François Kevorkian. La figura del DJ viene trattata storicamente, con immagini di repertorio (The Gallery, The Loft) che aiutano a ripercorrere il periodo in cui davvero ogni cosa, anche la più insignificante come l’utilizzo della cuffia, la disposizione degli altoparlanti o il mix tra due brani, rappresentava una novità assoluta. La House appare anche come lo start di rivoluzione sociale a cui partecipano personaggi assai noti, come il pittore Keith Haring ripreso a ballare al Paradise Garage come un semplice clubber, in mezzo ad altre centinaia di ragazzi che si muovono a ritmo di musica.

Mezzanottemezzogiorno
Andrea Bertini racconta l’epopea della cosiddetta Progressive italiana, che conosce il suo maggior splendore alla metà degli anni Novanta grazie alle discoteche toscane, come l’Imperiale di Tirrenia, l’Insomnia di Ponsacco, il Duplè di Aulla, il Jaiss di Empoli e il Tartana di Follonica. Coinvolgendo tantissimi dei nomi che contribuirono alla creazione e sviluppo del movimento in questione (dai vocalist Franchino, Zicky Il Giullare, Luca Pechino e Roberto Francesconi ai DJ Ricky Le Roy, Francesco Zappalà, Roby J, Miki Il Delfino, Mario Più, Gabry Fasano ed Alessandro Tognetti), Mezzanottemezzogiorno ricostruisce il profilo di un particolare momento della scena nostrana, indimenticabile per un grosso numero di nostalgici che lo reputa insuperabile ed ancora imparagonabile a nulla che sia venuto negli anni a seguire. Al DVD, prodotto dalla 3nero ed acquistabile online, è possibile aggiungere un inserto cartaceo a cura dello stesso Bertini e corredato dalle fotografie di Alessandro Bianchi.

Universal Techno
Realizzato in Francia nel 1996 da Dominique Deluze e girato tra Berlino, Sheffield, Tokyo, Barcellona, Londra e Detroit, raccoglie le testimonianze di Aphex Twin, Sven Väth, Dimitri Hegemann (Tresor), Blake Baxter, Juan Atkins, Derrick May, Kevin Saunderson, Mark Bell (LFO), Steve Beckett (Warp Records), Ken Ishii, Autechre, Mike Banks (che, come di consueto, cela il suo volto), Kenny Larkin e Karl Hyde (Underworld). A ciò si sommano immagini di repertorio di Kraftwerk, Tangerine Dream e quelle della Love Parade, del Sonar, del Tresor (ancora nei sotterranei del vecchi magazzini Wertheim), di un affollato Hard Wax e del mitico Submerge. Alla fine anche voi esclamerete a gran voce «Techno is the music of the future!».

Paris/Berlin – 20 Years Of Underground Techno
Diretto da Amélie Ravalec e prodotto da Le Films Du Garage nel 2012, racconta un ventennio di Techno prediligendo quanto nasce e si sviluppa lontano dalle classifiche di vendita, con particolare attenzione su Parigi e Berlino. Per fare ciò si serve delle testimonianze di chi ha tenuto lontano il genere dagli influssi Pop, come Regis, Adam X, Ancient Methods, Milton Bradley, Laurent Garnier, Terence Fixmer, Tama Sumo e l’italiano Luca Mortellaro alias Lucy, fondatore della Stroboscopic Artefacts. In rete c’è solo il trailer ma è possibile acquistare il DVD, la cui edizione è limitata alle 500 copie, per 19.99 €.

Modulations – Cinema For The Ear
Diretto da Iara Lee e prodotto da George Gund, esce nel 1998 in formato VHS e coglie il momento in cui l’uomo entra in simbiosi con le macchine, creando un nuovo genere musicale. Dalle avanguardie di Luigi Russolo e Pierre Henry ai Kraftwerk (che affermano lapidariamente «We are not entertainers, we are sound scientists»), dalla Disco elettronica di Giorgio Moroder all’Electro Funk di Afrika Bambaataa e alla Techno Punk dei Prodigy di Liam Howlett, coi preziosi contributi di alcuni degli artisti più rivoluzionari dell’ultimo trentennio, come Autechre, Squarepusher, Stacey Pullen, Derrick May, Juan Atkins, Kevin Saunderson, Eddie Fowlkes, Coldcut, WestBam, Marshall Jefferson, Arthur Baker, Orbital, Carl Cox, DJ Sneak, Frankie Bones, Moby, Alec Empire, Carl Craig, Derrick Carter, Mike Dearborn, Hardfloor e Future Sound Of London. Da citare anche le interviste all’indimenticato Robert Moog e ai cosmici Can, e le suggestive riprese effettuate nella catena di montaggio della Roland.

High Tech Soul – The Creation Of Techno Music
Nel 2006 Gary Bredow produce questo incredibile film che narra la creazione della musica Techno a Detroit e il suo fortissimo impatto emozionale, attraverso la voce di praticamente tutti i principali “attori” della scena: Derrick May, Juan Atkins, Carl Craig, The Electrifying Mojo, Eddie Fowlkes, Richie Hawtin, Kenny Larkin, Anthony ‘Shake’ Shakir, Jeff Mills, Stacey Pullen, Derrick Thompson, Scan 7, John Acquaviva, Blake Baxter, Kevin Saunderson, Thomas Barnett, Carl Cox e Keith Tucker. Immancabili i ritratti sulla triade (Juan Atkins – The Originator, Derrick May – The Innovator, Kevin Saunderson – The Elevator) a cui si aggiunge Eddie ‘Flashin’ Fowlkes – The Godfather Of Techsoul, forse ingiustamente escluso da quella triade a cui convenzionalmente si attribuiscono i meriti dell’ideazione e primo sviluppo della Techno. Altro ruolo importante messo in risalto è quello dell’Europa, che supporta (e favorisce la diffusione) della Techno offrendo elementi che Detroit non aveva, come una più solida organizzazione dei party resa possibile da sponsor di rilievo e condizioni socio-culturali differenti. Fu comunque la “città dei motori”, con la sua cultura industriale, ad offrire gli spunti necessari affinché fossero mossi i primi passi nell’ideazione della musica del futuro. Completano il tutto i contributi di altri rispettabili nomi, come Sam Valenti della Ghostly International, Matthew Dear, Claus Bachor e Delano Smith, ma forse sarebbe valsa la pena parlare in modo più approfondito di Underground Resistance e dei Drexciya, stranamente neanche nominati.

Synth Britannia
È BBC Four a trasmettere, nel 2009, questo documentario che analizza il momento in cui gli strumenti elettronici iniziano seriamente a mutare il corso della musica. Dalla colonna sonora di A Orange Clockwork – Arancia Meccanica da noi- ad opera di Wendy Carlos commentata da Richard H. Kirk (Cabaret Voltaire), Bernard Sumner (Joy Division/New Order) e Philip Oakey (The Human League), ai Kraftwerk (i Beatles dell’elettronica!) che parlano attraverso la voce di Wolfgang Flür. A seguire altre monumentali presenze della “musica sintetica”, come Andy McCluskey (Orchestral Manoeuvres In The Dark), John Foxx e Midge Ure (Ultravox), Throbbing Gristle, Gary Numan, Depeche Mode, Dave Ball (Soft Cell), Pet Shop Boys, Alison Moyet (Yazoo) e Daniel Miller, che nel 1978 incide una pietra miliare come The Normal e che fonda la Mute Records, una fucina per artisti con idee avanguardiste. È il momento in cui i musicisti del post Punk, affascinati anche dalla fantascienza e dai racconti sul mondo del futuro, decidono di deporre le chitarre elettriche e le classiche batterie per intraprendere un nuovo percorso con sintetizzatori e drum machine elettroniche. La musica inizia ad essere “sequenziata” ed allora la scena europea viene percorsa da un intenso fremito innovatore, un “nuovo vento”, che partorisce uno dei fenomeni più rilevanti nella storia musicale, la New Wave.

Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance
È la retrospettiva accurata sull’Italo Disco curata da Pierpaolo De Iulis (autore dell’altrettanto minuzioso Crollo Nervoso – La New Wave Italiana Degli Anni 80), che indaga sul passato con cognizione di causa coinvolgendo molti di quelli che alimentarono lo sviluppo e l’affermazione della Dance nostrana nel mondo. Da produttori come Roberto Turatti, Oderso Rubini, Claudio Cecchetto e il compianto Severo Lombardoni ad artisti come Alexander Robotnick, Albert One, Den Harrow, Fred Ventura, Savage, Stylóo, Gazebo e P. Lion: tutti insieme per raccontare la nascita e il tramonto di un fenomeno musicale oggi ancora (molto) attrattivo per chi vive oltre le Alpi. Dall’euforia dei primi anni all’indifferenza degli ultimi, con interventi di Carlo Antonelli (Rolling Stone).

MFS Berliner Trance
Prodotto da Ben Hardyment nel 1993 e della durata di circa mezz’ora, riassume la genesi della Trance attraverso la MFS (acronimo di Masterminded For Success), l’etichetta fondata a Berlino nel Dicembre 1990 da Mark Reeder e tra le prime a pubblicare musica di quel tipo. Dai party underground della Berlino Est (1986) alla caduta del Muro (1989) di cui scorrono epocali immagini, per comprendere a fondo quali siano state le ragioni di una mutazione sociale e musicale talmente radicale da non conoscere precedenti. Fu la mezzanotte della Germania, lo zero da cui ripartire, e la Trance, nella sua fase più psichedelica, sembrò uno dei generi più adatti a fare da colonna sonora di quel momento storico. Ad esporre le ragioni di tutto ciò sono personaggi-chiave del movimento, non solo tedeschi, come Paul van Dyk, Dr. Motte, Laurent Garnier, Mijk Van Dijk e Paul Browse (Clock DVA), “incorniciati” da immagini di repertorio dell’E-Werk e della Love Parade. Il finale rende perfettamente omaggio al concetto di “rinascita”.

Pioneers Of Electronic Music: Richie Hawtin
2006: la tedesca Electronic Beats, già artefice della saga Slices, lancia il primo (e sinora l’unico) documentario dedicato ai pionieri della musica elettronica e realizzato da Holger Wick (fondatore della Labworks Germany) e Maren Sextro. La scelta cade sull’inglese trapiantato in Canada Richie Hawtin, descritto dai genitori Brenda e Mick, e da personaggi d’eccezione come Daniel Miller della Mute, Derrick May, John Acquaviva, Kevin Saunderson, Mike Banks e Sven Väth. Tra i video anche la registrazione di un live tenuto a Detroit dai Cybersonik nel 1990.

We Call It Techno!
Sono i sopracitati Wick e Sextro a produrre, nel 2008, questo documentario, con lo scopo di raccontare il fiorire della Techno in terra tedesca. Al suo interno c’è praticamente tutto quello da sapere, dalla Love Parade di Dr. Motte in poi. Tanti i nomi coinvolti, come Mijk Van Dijk, Peter ‘Upstart’ Wacha (Disko B), Sven Väth, Triple R, Ata, Hell, Wolfgang Voigt, Tanith, Cosmic Baby, Dimitri Hegemann, Marc Acardipane, Talla 2XLC, Tobias Lampe e molti altri. In rete trovate solo il trailer, ma in circolazione c’è il DVD.

Summer Of Rave
La BBC lo manda in onda nel 2006 per approfondire quanto accadde nell’estate del 1989, anno in cui i Rave sbarcano ufficialmente nel Regno Unito. La stagione degli smiley gialli mina la tranquillità costruita dalla “lady di ferro” Margaret Thatcher, seppur il suo mandato fosse ormai agli sgoccioli. A raccontare come andarono i fatti sono, tra gli altri, i DJ Dave Haslam, Fabio e Lisa Loud, Tintin Chambers e Jeremy Taylor (tra i primi promoter degli acid party), l’imprenditore discografico Pete Waterman, e il proprietario dell’Haçienda di Manchester, Anthony Wilson. Il 1989 è un anno cruciale per gli equilibri politici europei e mondiali: cade il Muro di Berlino, si conclude la Guerra Fredda, il sindacato polacco Solidarnosc viene riconosciuto legalmente e partecipa alle elezioni governative, a Pechino si consumano le proteste in piazza Tienanmen. Si prospetta una nuova età, e sia la House che la Techno sembrano cavalcare il concetto di novità assoluta, quindi calzano a pennello per accompagnare la generazione nel nuovo decennio, gli attesi anni Novanta, in cui si ripongono grandi speranze. Band come The Stone Roses indicano i confini del nuovo Pop elettronico, che fa ingresso anche nei club. I Rave, allora, sembrano cambiare il volto del mondo, ma le problematiche a loro annesse relative all’uso di nuove droghe e all’ordine pubblico contribuiscono ad ingigantire la netta opposizione dei benpensanti.

Documentaires Sur La Techno
Messo in onda nel 1999 dal canale televisivo culturale franco-tedesco Arte (Association Relative à la Télévision Européenne), documenta la nascita della Techno mediante la voce di DJ Spooky e DJ Hell. Doppiato in francese.

Techno Story (Parte 1 / Parte 2 / Parte 3 / Parte 4 )
La storia della Techno redatta nel 2004 da Pascal Signolet in cinque atti: a raccontarla lo storico/antropologo Sylvain Desmille, il musicologo/critico Daniel Caux (RIP), l’organizzatore Manu Casana, i produttori Sebastian ’69db’ Vaughan, Pompon Finkelstein, Teknokrates ed Heretik, il giornalista Vincent Borel, il label manager Arnaud Friche ed ovviamente i DJ, come Laurent Garnier, Jérôme Pacman, Manu Le Malin e l’ospite Jeff Mills. In sottofondo passano in rassegna molti brani che hanno decretato l’avvento della musica “spaziale e futuristica”, e questo aiuta a focalizzare meglio il tutto. Solo in lingua francese.

Detroit – Blueprint For Techno
Risale al 2000 questo (raro) filmato in cui Derrick May, Richie Hawtin, Mike Huckaby, Juan Atkins, Kevin Saunderson, Terrence Parker e Carl Craig raccontano come a Detroit si passa dal Soul, Funk ed R’n’B della Motown alla Techno di Metroplex, Axis, Transmat ed Underground Resistance.

196 BPM
196 BPM (2003) è il primo dei film-documentari appartenenti alla Club Land Trilogy di Romuald Karmakar, insieme a Between The Devil And The Wide Blue Sea (2005) e Villalobos (2009), che rivolgono l’attenzione al mondo della musica elettronica sottolineando preferenze ed esperienze di una nuova generazione di DJ, musicisti e performer. Seppur girato durante la Love Parade del 2002, evita di evidenziare il numero dei partecipanti e la loro frenesia, preferendo il focus sulla musica. Dall’intro di 3 minuti (girato di fronte alla discoteca Linientreu) al Gabba di 7 (registrato in Breitscheidplatz, nel caratteristico quartiere di Charlottenburg dove il DJ Lamagra si esibisce nei pressi di un chiosco di kebab), si giunge al fulcro del film, i 50 minuti di Hell At Work, in cui il veterano Hell, tra i capostipiti della DJ culture tedesca, è in azione presso il WMF durante una Gigolo Night mentre suona la musica che ha reso popolare la sua International Deejay Gigolo in quegli anni, un mix tra Techno, House, Electro, Punk e Pop dalle venature retrò. Karmakar ed Hell avevano già collaborato in passato: il DJ infatti, nel 1996, compone “Totmacher” e “Music For Films” (entrambi finiti nel catalogo Disko B) per il drammatico Der Totmacher. Ps: in rete è disponibile solo un estratto di una manciata di minuti.

Between The Devil And The Wide Blue Sea
Between The Devil And The Wide Blue Sea (2005) è il secondo film-documentario di Romuald Karmakar appartenente alla Club Land Trilogy, insieme a 196 BPM (2003) e Villalobos (2009), tutti caratterizzati dall’utilizzo di una videocamera a mano, con registrazioni quasi amatoriali, anche per il montaggio realizzato in tempi e luoghi diversi. La scelta è dettata dalla voglia di riuscire a penetrare con più forza ed intensità nel mondo della musica elettronica contemporanea, senza edulcorarlo con effetti tipici del cinema. Tra i protagonisti, Alter Ego, Captain Comatose, Fixmer/McCarthy, Tarwater, Cobra Killer, T. Raumschmiere, Lotterboys ed XLover, tutti ripresi durante le loro inebrianti live performance.

Villalobos
Villalobos è indubbiamente il più chiacchierato film-documentario della Club Land Trilogy di Romuald Karmakar. Presentato e proiettato nel 2009 durante la 66esima edizione del Festival del Cinema di Venezia (nella categoria Orizzonti), racconta la vita dell’artista cileno trapiantato in Germania, snocciolando aneddoti, curiosità e scene tratte dalla vita quotidiana divisa tra lo studio e le serate tenute nei club di tutto il mondo. Nonostante il grande interesse suscitato, a quattro anni dalla sua realizzazione il film non è ancora stato ancora distribuito in alcun formato (cinema, tv, DVD) ma solo proiettato in alcuni festival in differenti Paesi. Pare che il motivo risieda nella mancata autorizzazione di alcune scene e brani sotto copyright. La casa di produzione berlinese Pantera Film ha recentemente dichiarato che non ci sono ancora novità in merito alla possibile diffusione di Villalobos, che appartiene alla schiera di quei film “indie” la cui vita viene talvolta martoriata da problemi di natura burocratica.

Fraktus – Das Letzte Kapitel Der Musikgeschichte
Nelle sale a novembre 2012, il film diretto da Lars Jessen è in realtà un falso documentario (un mockumentary, come si dice in gergo) che rivede la storia della Techno portando alla ribalta una (fittizia) band tedesca, i Fraktus per l’appunto, a cui secondo più autorevoli fonti andrebbe attribuito il merito di precursori del genere. Nonostante la breve parabola operativa, interrotta bruscamente da un incendio in un locale di Amburgo che nel 1983 distrugge tutti i loro strumenti autocostruiti, molti DJ e musicisti riconoscono ai Fraktus lo status di precursori della Techno-elettronica: da WestBam ad H.P. Baxxter (Scooter), da Alex Christensen (U96) a Dieter Meier degli Yello e Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten. Sebbene sia tutto ironicamente falso, la pellicola stimola un dibattito importante in merito alla geolocalizzazione della nascita di un genere multiverso come la Techno.

TSOB – The Sound Of Belgium
Il Belgio ricopre nella storia della musica elettronica un ruolo non meno importante rispetto a Paesi come Inghilterra, America e Germania, che spesso esercitano un’egemonia culturale. TSOB parte, anche con l’ausilio di immagini storiche, dalle balere e dancing degli anni Sessanta dove si ballava al ritmo del cosiddetto Popcorn, un misto tra Soul, Ska, RnB e ritmi di origine latina (ascoltate “Comin’ Home Baby” di Mel Tormé, del ’62, per farvi un’idea), per giungere alle avanguardie di taglio elettronico dei Telex descritte da Dan Lacksman, alla New Beat dell’iperprolifico Herman ‘Sherman’ Gillis e alla Techno di CJ Bolland, inglese di nascita ma trapiantato ad Anversa sin da tenerissima età. Negli anni Ottanta alcuni compositori belgi decidono di seguire la personalizzazione dell’indirizzo New Wave/Synth Pop di band britanniche come Depeche Mode, Human League o Visage, che sfocia nell’EBM, l’Electronic Body Music, che vede i ritmi irrigiditi da referenze Industrial e Punk e le atmosfere oscurate. La paternità del genere viene divisa tra i tedeschi Liaisons Dangereuses e i Deutsch-Amerikanische Freundschaft (meglio noti con l’acronimo D.A.F.), gli inglesi Nitzer Ebb e i belgi Front 242, ispirati a loro volta da Cabaret Voltaire e Throbbing Gristle. Poi, a metà decennio, quando la Guerra Fredda vede un pericoloso inasprimento, in Belgio viene sviluppata una nuova corrente detta New Beat, che mischia ancora i generi (EBM, New Wave, Punk). “Flesh” di A Split – Second, del 1986, diventa un disco-manifesto. La Antler Records e la sublabel Subway (dal 1989 unite nel marchio Antler-Subway) contribuiscono alla diffusione del genere a cui aderiscono anche vari DJ, musicisti e produttori (come Jo Casters) attratti dalle nuove possibilità creative offerte dai sequencer che girano sull’Atari ST (Notator) e dai campionatori (Akai S-1000). Locale simbolo è il Boccaccio di Destelbergen, poco distante da Ghent. Nel 1988 iniziano a scalpitare la House e la Techno, giunte dall’America e riconfezionate in varie località europee. A fare da collante tra New Beat, Techno, Acid ed House, sono i Confetti’s di Serge Ramaekers, i Technotronic di Jo Bogaert, i Lords Of Acid e i 101 di Nikkie Van Lierop, e Frank De Wulf coi suoi numerosissimi alias. Menzione a parte per la R&S Records di Renaat Vandepapeliere e Sabine Maes, e per la Music Man Records, che diventano veri e propri baluardi pubblicando brani leggendari. Nei Novanta, quando sia Techno che House vedono la consacrazione anche sotto il profilo commerciale, il Belgio non manca di offrire novità che però, per ovvi motivi, tendono a seppellire la New Beat. È tempo allora della Techno dei Quadrophonia e dei T99 ma pure della Trance più imperiosa firmata dai Cherry Moon Trax e da altri alfieri messi sotto contratto dalla Bonzai Records tra cui Yves Deruyter, Franky Jones, M.I.K.E. e Marco Bailey. È belga anche la DiKi Records, etichetta che nel 1990 pubblica “The Age Of Love” degli italiani Age Of Love, considerato uno dei primi dischi di genere Trance. TSOB, diretto da Jozef Devillé, raccoglie numerosi contributi (Sven Van Hees, Eddy De Clercq, Renaat Vandepapeliere, José Pascual, Lou Deprijck, Eric Beysens, Rocco Granata) a cui vanno sommate le visioni giunte dall’estero di Cisco Ferreira, Joey Beltram e Ken Ishii. Attualmente viene proiettato in diversi cinema europei. Per ulteriori informazioni cliccate su www.tsob.be

TB-303 Documentary – Bassline Baseline
Nel 2005 Nate Harrison racconta la storia di uno degli strumenti più popolari fabbricati dalla giapponese Roland, la TB-303 Bass Line. Inventata da Tadao Kikumoto, che mette a punto anche un’altra pietra miliare, la TR-909, la TB (Transistor Bass) doveva servire ai chitarristi in cerca di un accompagnamento al basso in caso di performance soliste. L’azienda di Ikutaro Kakehashi la produce per circa 18 mesi (1982-1984), vendendone intorno alle 10.000 unità al prezzo di 400 dollari. L’idea dei tempi era quella di automatizzare alcune operazioni sino a quel momento eseguibili solo dai musicisti, ed infatti in quello stesso periodo sul mercato giunge la TR-606 Drumatix, simile alla 303 anche nell’aspetto. Una sola persona, quindi, era messa nella condizione di programmare autonomamente ritmi e sequenze di basso, inaugurando il concetto di “band virtuale”. La TB-303 però è destinata a raccogliere consensi solo nella seconda metà del decennio e ormai fuori produzione, quando alcuni DJ e produttori di Chicago la ricollocano in un nuovo genere musicale, la House. Utilizzando i filtri di cui è dotata come cutoff, resonance, decay, accent e tuning, dalla TB-303 si sviluppa un nuovo filone, l’Acid, che convenzionalmente nasce nel 1987 con “Acid Tracks” dei Phuture, seppur negli anni precedenti ci siano state intuizioni molto simili (come quelle dell’indiano Charanjit Singh, nel 1983). Harrison passa in rassegna alcuni dei brani che utilizzano la TB-303 nel modo in cui fu pensato da Kikumoto (Imagination, Paul Haig, Newcleus) ma arriva a parlare dell’Acid House e del ruolo che questa ebbe sulla cultura Rave europea a partire dal 1988, grazie ad 808 State, KLF e Plastikman sino a giungere a Massive Attack, The Black Dog, Aux 88, Prodigy e Madonna. Nonostante le pressanti richieste, la Roland decide di non produrre più la TB-303, di cui riadopera parzialmente lo schema di alcuni circuiti per la Groovebox MC-303, nel 1996. I prezzi sul mercato dell’usato subiscono quindi un’impennata vertiginosa, e c’è pure chi studia modifiche aggiungendo nuovi dispositivi (il più celebre custom model resta il Devil Fish realizzato dall’australiano Robin Whittle). Nel contempo altre aziende approntano prodotti simili, sia in formato hardware che software. Tra i più utilizzati ReBirth, MAM MB 33, x0xb0x, Doepfer MS-404, Technosaurus Microcon, BassLine di AcidLab e la recentissima TT-303 di Cyclone Analogic, identica all’originale nell’aspetto esterno.

Rotterdam Electric City
Realizzato nel 2006 in occasione del REMF (Rotterdam Electronic Music Festival), Rotterdam Electric City è il DVD, distribuito gratuitamente, con cui ci si può fare un’idea generale su quanto accade nella città olandese. In circa tredici minuti passano in rassegna molti volti noti, da Speedy J a Michel de Hey, da Secret Cinema a Joris Voorn, da Serge Verschuur della Clone a Gert Jan Bijl, Alden Tyrell ed altri. Non mancano le visite nei negozi di dischi, visto che Rotterdam resta una delle (poche) città europee maggiormente legate alla cultura del vinile. Il package contiene anche un CD con 15 tracce.

Slices
Partita nel 2005, la saga Slices analizza costantemente la scena elettronica mondiale senza porsi alcuna barriera stilistica. Pubblicati con cadenza trimestrale, i DVD offrono davvero un repertorio invidiabile, che con disinvoltura passa dai Funkstörung ad Acid Maria, dai Nightmares On Wax a Matthew Dear, da A Guy Called Gerald a Richie Hawtin & Ricardo Villalobos, da Anthony Rother a DJ Rush sino a Dakar & Grinser, Like A Tim, Hell, Loco Dice, Alexander Robotnick, Underground Resistance, Patrick Pulsinger, Luke Slater, Octave One, Mr. Velcro Fastener, Sven Väth e davvero tantissimi altri. Sebbene gli Slices siano disponibili gratuitamente, la professionalità con cui vengono realizzati, sia tecnicamente che artisticamente, è notevole.

What The Future Sounded Like
A Matthew Bate bastano meno di trenta minuti per descrivere la nascita della musica elettronica in Inghilterra. Per farlo tira in ballo esperti come il sociologo Trevor Pinch, autore del libro “Analog Days: The Invention And Impact Of The Moog Synthesizer”, Peter Zinovieff, David Cockerell e il compianto Tristam Cary, fondatori della Electronic Music Studios che inizia a fabbricare sintetizzatori nel 1969 col mitico VCS3, e il compositore Mark Ayres, quello della serie televisiva Doctor Who. Immagini di archivio ci mostrano come un tempo gli studi di registrazione fossero paragonabili alle cabine di pilotaggio di astronavi, e come le stesse composizioni fossero più simili ad esperimenti che a brani musicali come siamo abituati ad intenderli oggi, con una struttura definita ed omologata. Interessante anche il contributo di Dave Brock degli Hawkwind che mostra il suo studio-museo, e di Andy Meecham alias The Emperor Machine, in azione sui titoli di coda.

Inside House
Firmato dalla Carl H Productions, racconta la House attraverso la voce di Kerri Chandler, Dimitri From Paris, Mr. V, DJ Gregory, Franck Roger, Frankie Feliciano ed altri, ma il livello di narrazione appare sconnesso e penalizzato da un montaggio tutto fuorché egregio. Pare comunque che si tratti di una versione test.

Technocity Berlin
Girato nel 1993, inizia tra le mura di uno dei negozi di dischi più celebri della città, Hard Wax. In quegli anni Berlino vive la rivoluzione del post-Muro, sia sul piano sociale che musicale. È emozionante entrare nello studio di Mijk Van Dijk ed osservarlo mentre armeggia con un floppy disk su cui sono incisi dei sample. Sullo sfondo, invece, il classico “armamentario” dei tempi, costituito in prevalenza da macchine Roland. Non meno importanti le testimonianze di due tra i principali agitatori della nightlife berlinese dei tempi, Rok e Marusha.

STREETrave
Il video, realizzato nel 2009, è dedicato a STREETrave, team/brand che organizza i rave party in Scozia dal 1989 al 1995. Quasi d’obbligo il materiale d’archivio, girato in location come Ayr Pavilion, Prestwick International Airport e The Arches, a cui si sommano i contributi di alcuni DJ che, ai tempi, presero parte agli eventi (Carl Cox, Jeremy Healy, John Digweed, Graeme Park, K-Klass, Hooligan X, Jon Mancini, Iain ‘Boney’ Clark) e di vari clubber che ricordano quegli straordinari momenti passati alla storia.

The UnUsual Suspects: Once Upon A Time In House Music
È il DJ americano Irwin Larry Eberhart, in arte Chip E., ad ideare il film che racconta la nascita della House di Chicago e di come questa abbia radicalmente cambiato l’atmosfera nei locali da ballo di tutto il mondo. Precursore anche in ambito discografico (la sua “Like This” esce nel 1985 sulla D.J. International Records di Rocky Jones), Eberhart, affiancato per l’occasione da Kimmie D, mette su un cast di tutto rispetto, dalla compianta Loleatta Holloway a Steve ‘Silk’ Hurley, da Marshall Jefferson a Frankie Knuckles, da Jesse Saunders a Larry Heard passando per Joe Smooth, Robert Owens, Glenn Underground, Victor Simonelli, Vince Lawrence, Terry Hunter, Ralphi Rosario, Farley “Jackmaster” Funk ed altri ancora che hanno dedicato la propria vita alla musica House, trasformandola in vero e proprio fenomeno culturale.

Italo House Story
Ideato da Maurizio Clemente, narra la storia della House in Italia tirando in ballo praticamente tutti coloro che, nel nostro Paese, hanno avuto (ed hanno ancora) voce in capitolo. Da Claudio Coccoluto a Daniele Davoli, da Flavio Vecchi a Franco Moiraghi, da Gianni Morri a Joe T. Vannelli, da Luca Trevisi a Massimino Lippoli passando per Ralf, Paolo Martini, Ricky Montanari, Sandro Russo, Vincenzo Viceversa e davvero molti altri.

Hip House Documentary
Girato nel 1989 e messo a disposizione da Martin Luna (Mix Masters), mette a fuoco il particolare momento dell’Hip House, ibrido nato dalla sovrapposizione tra ritmi House e liriche Hip Hop. La fortuna di questo stile è decretata da artisti come Fast Eddie e Tyree Cooper, supportati da Rocky Jones che convoglia le loro produzioni su D.J. International Records ed Underground. Quel connubio, detto anche Rap House, fece bene sia alla House che all’Hip Hop, perché portò ulteriori novità nell’ambito della musica dance che in quegli anni subiva una radicale trasformazione. La spiccata caratterizzazione però non consente all’Hip House di durare molto, anche se in Europa ci sono gruppi ed artisti come Snap!, Twenty 4 Seven e Dr. Alban che ne raccolgono l’ispirazione per traghettare il tutto in contesti Eurodance. Oltre ai citati Fast Eddie, Tyree Cooper e Rocky Jones, il video offre le testimonianze di altri mentori di quel periodo, come KC Flightt, Bill Coleman, Precious e Sundance.

Krautrock – The Rebirth Of Germany
Germania, 1945. Possiamo considerarlo il primo dei due anni zero (il secondo sarà il 1989), giacché la Seconda Guerra Mondiale ha trasformato la nazione in un cumulo di macerie. Probabilmente fu proprio quella radicale distruzione ad innescare un’altrettanto radicale trasformazione in ambito musicale. Tra il 1968 e il 1977 band come Amon Düül, Can, Neu!, Faust, Tangerine Dream, Ton Steine Scherben, Kluster, Kraftwerk ed altre ancora oltrepassano la soglia del Rock n Roll, creando uno dei generi più originali che si siano mai potuti ascoltare. Tutti avevano un obiettivo comune, archiviare il raccapricciante passato della loro nazione anche se la stampa angloamericana sembrò non aver affatto voglia di fare ciò con la stessa velocità. Le novità teutoniche, che come raccontano John Weinzierl e Renate Knaup degli Amon Düül, non intendevano affatto replicare lo stile inglese ed americano, vennero presto bollate. Dall’estero giunse la definizione denigratoria Krautrock, che ignorava quanto stesse accadendo nelle partiture scritte da quei gruppi. La voce usata come strumento, le stesure prolungate, i suoni esoterici e psichedelici. Per i più, però, restava una “non musica”, oppure il “Rock di chi mangiava crauti”. Il Krautrock era animato da ideologie politiche e da un assoluto senso di libertà, come descrive Daniel Fichelscher dei Popol Vuh: probabilmente fu l’improvvisazione e l’estemporaneità ad alimentare in modo significativo le ispirazioni di quella fase storica. Rilevante la testimonianza di Wolfgang Flür dei Kraftwerk che, dopo essere tornato dove un tempo c’era il Kling Klang Studio, a Düsseldorf, descrive l’approccio che riservavano alla musica in quegli anni: «Si andava in autostrada anche senza averne reale necessità, solo per divertimento, per provare l’ebbrezza della velocità su una strada grande e sempre diritta. Aprendo il finestrino si ascoltavano tanti suoni nuovi, il vento, il rombo delle auto, le fronde degli alberi che si muovevano per lo spostamento d’aria. Noi portammo tutto ciò in musica» (“Autobahn”, 1974). Una visione del tutto nuova, che metteva in comunicazione e relazione l’avvento tecnologico, le emozioni da esso scaturite, e la musica. I contributi di Klaus Schulze, Edgar Froese, Wolfgang Seidel, Hans-Joachim Roedelius, Dieter Moebius, Holger Czukay, Jaki Liebezeit, Damo Suzuki, Ralf Hütter, Michael Rother, Iggy Pop, Werner Diermaier e Jean-Hervé Peron contribuiscono a dare ulteriore autorevolezza al documentario trasmesso da BBC Four. Krautrock: un suono utopico, una rivoluzionaria avventura sonica libera nello spazio-tempo che probabilmente cercava la sua essenza nell’inconscio.

Rise Of The Bedroom Producer
Una delle parole-chiave dei tempi che viviamo è sicuramente accessibilità. Oggi praticamente tutto è raggiungibile grazie al web: dalle informazioni su qualsiasi cosa all’acquisto di un qualsiasi oggetto, anche raro. Ma l’accessibilità interessa anche la sfera musicale. Gli studi multimilionari delle decadi passate sono stati soppiantati dagli home studio da poche migliaia di euro, con cui è possibile davvero fare di tutto. Certo, non bisogna cadere nell’errore di pensare all’accessibilità come porta automatica per il successo. Un conto è tentare di comporre un brano, un conto è realizzarlo coi sacri crismi, tecnicamente ed artisticamente. Le macchine non hanno mai fatto miracoli da sole. Il video, diretto e prodotto da Mo Taha nel 2011, racconta in quindici minuti attraverso la voce di Lynx, Macca e Foreign Concept, la dimensione dei cosiddetti ‘bedroom producer’, coloro che trasformano la propria cameretta in uno studio di registrazione e tentano la carriera, adoperando un computer, un sintetizzatore o una tastiera muta per pilotare il suono di innumerevoli VST, un mixer, due casse ed una cuffia. Arduo stabilire se ciò sia un pro o un contro, perché il risultato è relazionato all’approccio che la persona riserva alla materia, e non al mezzo o alle formule tecnologiche di cui si avvale.

The History Of Electronic Music (Parte 1 / Parte 2 / Parte 3 / Parte 4 / Parte 5 / Parte 6 / Parte 7 / Parte 8 / Parte 9 / Parte 10 / Parte 11 )
Prodotto nel 2005 da Picture Puzzle Medien e dalla Adam & Eve Records, narra, come suggerisce il titolo stesso, la storia della musica elettronica prediligendo, per ovvie ragioni, le testimonianze di artisti tedeschi. Tantissimi i nomi coinvolti: Hans Nieswandt, Talla 2XLC, Mousse T., Little Louie Vega, Afrika Islam, Joey Beltram, WestBam, Phats & Small, Sven Väth, Tyree Cooper, Boris Dlugosch, Phil Fuldner, Alex Gopher, Paul Van Dyk, Milk & Sugar, DJ Dag, Tom Novy, Richie Hawtin, Moguai ed Etienne De Crécy. In linea di massima non aggiunge grandi contenuti a quanto già espresso in altri documentari, e la disponibilità nella sola lingua tedesca rappresenta un ulteriore limite nella condivisione su scala globale.

Discovering Electronic Music
Corre il 1983 quando la Barr Films produce e Bernard Wilets dirige questo documentario. Sono gli anni in cui il computer proietta nell’immaginario collettivo il concetto di futuro. L’intro recita: «Viviamo un’epoca in cui le macchine entrano a far parte della nostra vita. Non è sorprendente quindi che la musica venga influenzata anche dalla tecnologia». Ogni suono di quella musica è prodotto elettronicamente e non più dalle vibrazioni di un corpo in oscillazione. Il compositore si ritrova quindi ad agire in una dimensione completamente nuova, non più legato all’atto di scrivere manualmente le note sul pentagramma bensì a quello di programmare macchine con l’ausilio di pulsanti, leve, manopole e penne elettroniche da usare sul monitor. Tutto ciò apre scenari inimmaginabili, e le potenzialità compositive subiscono un radicale ampliamento anche grazie all’oscillatore dei sintetizzatori che produce forme d’onda diverse, e quindi aumenta le combinazioni sonore. Gli strumenti tradizionali generano un suono distintivo, quelli elettronici invece sono soggetti a modifiche con filtri come envelope o decay, che permettono ogni tipo di personalizzazione. È persino possibile utilizzare il rumore di un jet, la propria voce o quello di un qualsiasi altro strumento immagazzinato nella memoria del computer per eseguire una melodia. E un uomo solo può far suonare contemporaneamente gli strumenti di un’intera orchestra. I tradizionalisti e i conservatori, ovviamente, restano sbigottiti.

Rave Culture 1991
Nonostante duri meno di cinque minuti, è un interessante flash sull’esplosione europea della Techno, avvalorato dall’intervista ad uno dei responsabili di ciò, Liam Howlett dei Prodigy, e ad uno che giunge invece dall’altra parte dell’Atlantico, Kevin Saunderson. Altri scorci sul mondo dei Prodigy e dei Rave dei primi anni Novanta sono qui.

Spun Out
Diretto e prodotto da Bahar Canca Barrett, coadiuvata nella ricerca da Evy Magoulas, Spun Out narra il mondo dei DJ: dai brani da inserire nella selezione (importantissimi, perché conferiscono identità, caratteristica che invece troppo spesso fa sentire la sua assenza) al tipo di sequenza da applicare al proprio set per far si che questo risulti sempre coinvolgente, dalla stretta relazione tra clubber e consumo di sostanze stupefacenti al divismo dei top DJ di oggi, con popolarità paragonabile a quella delle Rock e Pop star. Il tutto discusso da personaggi più e meno noti della scena britannica: tra i tanti David Piccioni, Matt Williams, Chad Jackson (vincitore del campionato DMC nel 1987), Bill Brewster, Anne Savage, Judge Jules, Mike Koglin, Simon Patterson, Tom Neville, BK, Mr. C. e il compianto Martin Dawson.

The Show Business
Le nuove tecnologie hanno creato molte professioni (basti pensare a ruoli come channel manager, all-line advertiser, web analyst, e-reputation manager, search engine optimizer, transmedia web editor, community manager e content curator) e nel contempo hanno contribuito a modificarne alcune di quelle passate. Tra queste il DJing, oggetto di sostanziali mutazioni. Non più defilato come negli anni Settanta, Ottanta e parzialmente nei Novanta, oggi il DJ è un trascinatore di folle (anche immense), e in certi casi è comparabile ad un vero e proprio brand che genera introiti economici a molti zeri e popolarità da jet set. In tal contesto rientrano elementi una volta completamente ignorati, come il logo ideato da un designer, la cura del look e il marketing in generale, andando a ribaltare radicalmente la convinzione che il successo possa essere decretato da un mix di casualità e fortuna. Il documentario di Carlo Toto aka Replayman indaga in tale direzione, analizzando la tematica su vari fronti e con diversi personaggi italiani: dal rapper Livio Cori al DJ Marco Corvino, dal produttore Luca De Gregorio alla DJ/speaker radiofonica Renèe La Bulgara passando per i compositori e live performer Alien Cut. Certo, di alcuni luoghi comuni ne avremmo potuto tranquillamente fare a meno (il “vero DJ” è solo quello che usa i vinili, la tecnologia semplificatrice che sostituirebbe con altrettanta facilità le qualità artistiche, attribuire in modo approssimativo delle virtù a chi c’era in passato solo in riferimento alla dimensione temporale), ma The Show Business pone l’accento su un aspetto importante: spesso, per trasformare la passione in business, non basta la determinazione ma si è costretti ad accantonare gli stimoli e le ispirazioni iniziali al fine di seguire le regole del mercato, che poi alla fine è proprio quello che incorona i vincitori.

Moog
Il musicista e filmmaker Hans Jorgen Fjellestad dirige il documentario dedicato ad uno degli uomini che hanno mutato il corso della musica, Robert Arthur Moog, detto Bob. L’idea di Fjellestad è quella di unire le testimonianze di Moog a quelle di vari artisti che lo ritengono una figure-chiave, come Charlie Clouser (Nine Inch Nails), Keith Emerson, Mix Master Mike (Beastie Boys), Luke Vibert, Rick Wakeman (Yes), Gershon Kingsley e Bernie Worrell (Parliament-Funkadelic). Al continuum storico tipico del documentario, il regista preferisce un collage indipendente dalla successione cronologica degli eventi. Tra i passaggi clou, sicuramente le performance di Mix Master Mike (intorno al minuto 22), un vero virtuoso del turntablism, e quelle di Clouser e dello stesso Moog, mentre suonano il theremin. Realizzato nel 2004, in occasione del cinquantesimo anniversario d’attività della Moog Music Inc, “Moog” vince, quello stesso anno, il Barcelona Inedit Film Festival come miglior documentario. Giusto in tempo per essere visto da Bob Moog, spentosi il 21 Agosto 2005 a 71 anni, stroncato da un tumore cerebrale.

Direct 2 Dance
Corrono i primi mesi del 1997 quando la bresciana Media Records, in collaborazione con Impulse Multimedia, commercializza al costo di 35.000 lire il CD-Rom “Direct 2 Dance”. Internet non ha ancora conosciuto il suo exploit ma l’etichetta di Gianfranco Bortolotti, che ha sempre precorso i tempi in ogni sua declinazione artistica e comunicativa – val davvero la pena ricordare che la Media Records inizia a legare la sua immagine ad internet nel 1994 e già nel 2000 vara le prime campagne promozionali attraverso file MP3 ed applicazioni per i telefonini-, offre la possibilità di esplorare i propri studi di registrazione scoprendo come funzionano gli strumenti allora in mano ancora a pochi. La chiamavano “realtà virtuale”, e rappresentava una finestra sul mondo del domani. Nei cinque brevi estratti disponibili su YouTube passano in rassegna tematiche legate alla registrazione digitale, al protocollo M.I.D.I., agli FX, al DAT e al mixaggio di un brano. Argomenti e tecniche ormai obsolete e che potrebbero persino suscitare qualche grassa risata per i più giovani, ma che testimoniano quanto sia radicalmente mutato il mondo della produzione della musica elettronica.

Crollo Nervoso – La New Wave Italiana Degli Anni Ottanta (Parte 1 / Parte 2 / Parte 3 )
Ideato da Pierpaolo De Iulis, che all’attivo vanta pure Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance, Crollo Nervoso racconta l’avvento della New Wave nel nostro Paese. La prima delle tre puntate (da 50 minuti cadauna) è Onde Emiliane ed è dedicata a Bologna, città dove gruppi come Gaznevada, Stupid Set e Confusional Quartet combinano il linguaggio Rock e Post Punk con la sintesi elettronica. Come illustra Red Ronnie, nel capoluogo emiliano c’era un’etichetta importante come l’Italian Records, preceduta dalla Harpo’s Music, che credeva pienamente in questo nuovo stile, e due altrettanto noti negozi di dischi, Nannucci e Disco D’Oro. Analogamente a quanto accade con l’Italo Disco, pure chi si dedica alla New Wave desidera reinterpretare a suo modo un genere proveniente dall’estero ma non emulandolo passivamente: nei brani c’è, nonostante la componente ludica ed un po’ dadaistica, spessore artistico di pregio, arricchito da riflessi italianizzati, probabilmente derivati da un naturale orgoglio nazionalistico. La voglia di celebrare la musica angloamericana viene affiancata da innovazione ed intersecazione con arti parallele come il disegno, la grafica e le video installazioni. Insomma, non si tratta affatto di un banale scimmiottamento ma qualcosa di più vero e serio, con cui molti artisti italiani intendevano produrre originalità ma sempre con istintività, senza badare troppo al marketing, alle copie vendute dei dischi o ai passaggi radiofonici che potevano sancire il successo su larga scala. De Iulis sembra non dimenticare proprio nessuno: a Bologna incontra Giorgio Lavagna e Ciro Pagano dei Gaznevada, Fabio Sabbioni degli Hi.Fi Bros (che dichiara che non era tanto importante essere tecnicamente perfetti quanto avere idee originali), il regista Renato De Maria, Marco Bertoni dei Confusional Quartet, Ulderico Zanni dei Rats, Angelo Bergamini dei Kirlian Camera, Bruno Magnani e Davide Piatto dei N.O.I.A., Roberto Caramelli ed Enrico Giuliani dei Central Unit e Massimo Zamboni dei CCCP – Fedeli Alla Linea; pure a Firenze (la puntata si intitola Firenze Sogna) la scena è florida, con locali importanti come Manila, Tenax e Rokkoteca Brighton che sostengono il fermento artistico e culturale del “nuovo Rock”, anche qui oggetto di collaborazioni transartistiche e transmediali (artwork, teatro). Etichette come la Materiali Sonori di Giampiero Bigazzi, la Contempo Records di Giampiero Barlotti (che era anche un negozio di dischi e poi distributore) e la Ira di Alberto Pirelli (che lancia i Litfiba), appaiono come linee guida in un panorama che, ancora oggi, suscita più di qualche emozione. Da Piero Pelù che racconta la nascita dei Litfiba al giornalista e promoter Bruno Casini, da Steven Brown dei Tuxedomoon a Federico Fiumani dei Diaframma, da Nicola Vannini (Diaframma, Soul Hunter) a Marcello Michelotti ed Adriano Primadei dei Neon, da Maurizio Fasolo dei Pankow ad Andrea Chimenti dei Moda, da Marco Monfardini e Mirco Magnani dei Minox a Gianluca Becuzzi dei Limbo, sino a Roberto Toccafondi e Michele Santini dei Rinf, Francesco Cosi dei Karnak, Massimo Rabassini dei No Fun e i Giovanotti Mondani Meccanici (ma solo citati), tra cui armeggia pure Maurizio Dami alias Alexander Robotnick. La terza parte, Italia Wiva, completa il quadro estendendo l’analisi al Triveneto, Liguria, Lombardia, Campania ed Umbria e coinvolgendo un’altra flotta di nomi: Ado Scaini (Tampax, Great Complotto), Massimo Giacon (Spirocheta Pergoli), Roberto ‘Pivio’ Pischiutta (Scortilla), Johnny Grieco (Dirty Actions), il regista Paolo Ricagno, Augusto Ferrari (Art Fleury), Giancarlo Onorato (Underground Life), Stefano Tirone e Fred Ventura (State Of Art), Giacomo Spazio (2+2=5), Maurizio Arcieri (Krisma), Luigi Riganti (Dark Tales), Luca Collivasone e Giorgio Rimini (Aus Decline), Paolo Taballione (Carillon Del Dolore), Sergio Maglietta ed Elio Manzo (Bisca), Augusto Croce (Aidons La Norvege) e Fabrizio Croce (Militia). Tutto termina nella seconda metà degli anni Ottanta, quando le spontaneità iniziali si esauriscono e il mutato gusto del mercato convince chi è determinato a non lasciare il mondo della musica a cercare nuove strade, ma scendendo a compromessi. Altri invece, non disposti a nessun tipo di forzatura stilistica, abbandonano. Eccezionale il lavoro di De Iulis, che si avvale degli interventi del giornalista Federico Guglielmi per fare, di volta in volta, il punto della situazione e rendere la narrazione sempre fluida. Il package edito dalla mitica Spittle Records, oltre ai tre DVD, contiene pure il CD Tracce Magnetiche, con sedici brani che alimentano il mito della New Wave made in Italy.

Underground Nation
Non si tratta proprio di un documentario ma sotto certi aspetti potrebbe essere considerato tale, vista la vastità di materiale storico che annovera al suo interno. “Underground Nation” è il DVD pubblicato nel 2009 dall’etichetta olandese Djax Records per celebrare il ventennale d’attività, e che riassume l’epopea di un marchio che ha ricoperto un ruolo importante nella diffusione europea della Techno. La fondatrice, la bella Saskia ‘Miss Djax’ Slegers, è considerata tra le DJ più preparate del pianeta, capace di creare un punto di contatto, oltre venti anni fa, tra i creativi americani e quelli europei. Mai scesa a nessun tipo di compromesso commerciale, la bionda di Eindhoven ha dato alla Techno (e in particolare all’Acid) una forte spinta a livello internazionale, sia attraverso la partecipazione ai Rave più clamorosi degli anni Novanta (MayDay, Love Parade, Dance Valley), sia mediante le innumerevoli pubblicazioni sulla label più nota del gruppo Djax Records, la Djax-Up-Beats. Fedele al credo della Techno completamente sganciata dalla fenomenologia Pop, Miss Djax è una guerriera che confida ciecamente nell’arte generata dalla passione e non da strategie commerciali. Per questo motivo nella sua discografia non ci sono esempi di successo trasversale, e lo stesso si può dire della sua etichetta, diventata approdo di artisti come Like A Tim, Acid Junkies, Mike Dearborn, Steve Poindexter, K-Alexi, Ron Trent, Mike Dunn, Glenn Underground, Paul Johnson, Claude Young, DJ Skull, Rude 66, Mark Hawkins, DJ Rush, Justin Berkovi, Mark Verbos, Sbles3plex, Steve Stoll e davvero molti altri, pure relazionati a mondi sonori diversi (Hip Hop, Breakbeat). In 90 minuti, “Underground Nation” offre lo spaccato di un’ammirevole realtà olandese, sconosciuta dalle giovani generazioni solo perché non appartenente al reticolo dei cosiddetti trendsetter, ma in assoluto pregna di storia, spesso messa in parallelo con etichette ed artisti d’oltreoceano. Nel 1992 la Slegers visita Detroit e Chicago, ed incontra praticamente tutti coloro che contribuirono alla nascita di Techno ed House: Carl Craig, Juan Atkins, Kevin Sauderson, Alan Oldham (autore anche delle illustrazioni che contraddistinguono il catalogo Djax-Up-Beats), Underground Resistance, Octave One, Kelli Hand, Mike Dearborn, Terry Hunter, Armando, Phuture, Trax Records, Dance Mania e D.J. International. Qui vediamo scorci di quelle realtà, alternate ad eventi speciali, come il decennale al Club Gloria di Colonia, il 20 Agosto 1999, le presenze a varie edizioni della berlinese Love Parade, con consolle allestite su tir in stile carnevalesco, o ancora ospitate speciali come al Gottschalk Late Night, programma televisivo di Thomas Gottschalk, o nel 1993 a New York insieme a Marusha, altra DJ con cui Miss Djax si fa largo in un mondo professionale fatto quasi esclusivamente da soli uomini, sino alle più recenti performance presso Q-Base ed Awakenings. Una finestra aperta verso un sound rude, inselvaggito, rozzo nella struttura fatta spesso di elementi ridotti (una TR-909, una TB-303 e poco altro), spregiudicato, ma sempre e solo inequivocabilmente Techno.

I negozi di dischi indipendenti (Parte 1 /  Parte 2 / Parte 3 / Parte 4 )
Sulla scia di “Last Shop Standing”, YouGlobTV e Roberto Calabrò realizzano tre mini documentari che riguardano la realtà in varie nazioni dei negozi di dischi indipendenti, in prevalenza legati a Rock, Punk, Ska, Reggae, Country, Blues, Soul, Funk e Metal. Si comincia da Roma con Radiation Records di Marco Sannino, Hellnation di Roberto Gagliardi (nato dalle ceneri del Banda Bonnot) e Soul Food di Pierluigi Bella, si passa da Londra con Out On The Floor di Jake Travis e Mick Marshall, Sounds That Swing di Neil Scott, Flashback di Mark Burgess ed Haggle Vinyl dell’attempato Lynn Alexander, per finire a Madrid con Escridiscos di José Escribano, il primo negozio madrileno a dedicarsi a Punk e New Wave, e Bangla Desh di Antonio Pérez Martìnez. Dalle interviste emergono importanti osservazioni che aiutano a capire meglio la dimensione in cui versa questo tipo di attività, al di là delle statistiche che con molta frequenza appaiono su internet e generano immotivato sensazionalismo. Crisi è la parola comune a tutti: Sannino parla di taglio del superfluo, come la cultura, che impedisce alla musica di essere considerata un bene primario, Bella indica la mancanza di un ricambio generazionale nell’acquisto dei dischi e di un settore considerato ormai in decadenza. Non dissimili le opinioni provenienti dall’estero: Travis dice che il tempo giusto per aprire un negozio di dischi è passato, Marshall non punta il dito contro la massificazione digitale bensì ai proprietari dei locali commerciali londinesi particolarmente avidi, e dello stesso avviso è Scott, impensierito dalle richieste degli affittuari. Burgess afferma che si vendono meno CD e DVD e più vinili perché è un supporto tornato di moda, anche grazie ai film di Hollywood che hanno reintrodotto l’immagine-culto di questo formato, e che quindi appartiene ad un mercato in espansione che tocca anche giovani e giovanissimi. Il settantenne Lynn Alexander, invece, afferma: «La buona musica si venderà sempre, quella di moda invece passerà di moda». E a Madrid? Escribano rivela che negli anni Ottanta, quando esplosero Punk e New Wave, comprava persino 1000 copie a disco di alcune band. Il vinile è ancora il suo principale sostentamento, ma il target degli acquirenti va dai 35 ai 60 anni e passa, anche se esiste una piccola percentuale di giovani che sta scoprendo la sua magia. Nonostante ciò preferisce comunque non esprimersi sul futuro. Infine Martìnez, che lamenta l’assenza del pubblico giovane, e che ricorda una crisi del disco quando sul mercato giunse il CD, formato che la gente preferiva per varie ragioni. Sebbene nessuno di questi negozi sia vicino alla musica elettronica, è comunque illuminante comprendere come la realtà dei negozi di dischi sia radicalmente mutata rispetto al passato. Ora la geolocalizzazione appare un concetto imprescindibile: la presenza nelle capitali europee, posti centrali e frequentatissimi anche da turisti di tutto il mondo, è sicuramente un sostegno fondamentale che verrebbe a mancare invece nei centri più piccoli dove la nicchia degli utenti del vinile si assottiglia ulteriormente sino a sparire del tutto.

Darkbeat – An Electro World Voyage
Esce nel 2005 il DVD, diretto da Iris B Cegarra, dedicato alla musica Electro, punto di connessione e scambio tra diversi generi come Funk, Hip Hop, P-Funk, Synth Pop ed elettronica. Nata nei primi anni Ottanta negli Stati Uniti, l’Electro, abbreviativo di Electronic, diventa il simbolo dell’innovazione sonora e il risultato della tecnologia applicata alla disciplina musicale. Chi, in quel periodo, si dedica a tale stile lo fa soprattutto perché ispirato sia dalle macchine con cui fu possibile forgiare nuovi suoni, sia perché fortemente attratto dalla percezione del futuro a cui si giungeva mediante l’immaginario legato alla fantascienza. Sono tanti gli spunti forniti da svariati artisti, tra cui Dexorcist, Cisco Ferreira, Scape One, Cosmic Force, Bass Junkie, Radioactiveman, Exzakt, Si Begg, Boris Divider, Andrew Weatherall, Ectomorph, Dark Vektor, Mr. Velcro Fastener, DJ Godfather, Billy Nasty, Keith Tucker ed Andrew Price della Satamile, ma Darkbeat è da considerarsi un focus sull’Electro contemporanea, giacché non riesce a creare un’altrettanto ricca parata relativa al periodo iniziale. Accanto ad Egyptian Lover, infatti, sarebbe stato bello vedere altri mentori come Afrika Bambaataa, Hashim o i Cybotron. Altri grandi assenti, per quanto riguarda la fase moderna e contemporanea, sono Gerald Donald ed I-f, a cui spetta indubbiamente il merito di essersi battuti per non far cadere nell’oblio lo stile in questione. In cambio, però, Darkbeat ci offre la possibilità di scrutare in mezzo a molti cimeli, tipo Fairlight CMI, Linn 9000, Akai MPC60 e Roland TR-33, tra le prime drum machine della storia, oltre a classici di Sequential Circuits, Korg ed Oberheim.

Children Of BerlinParte 1 / Parte 2)
Prodotto nel 2010 da W0RKT34M, gruppo spagnolo attivo nell’ambito della comunicazione video e del marketing per festival musicali, Children Of Berlin punta i riflettori sulla capitale tedesca ed enfatizza l’importante connessione tra la caduta del Muro e lo sviluppo (e la conseguente esplosione) della club culture. Da un lato passano in rassegna posti iconici, come l’East Side Gallery sulla Mühlenstraße, la Fernsehturm o la Siegessäule, dall’altro una serie di testimonianze di chi, quella città, l’ha vista cambiare giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ad essere coinvolti sono sia i DJ, come Prosumer, Sascha Funke, Kiki, Alexander Kowalski, Dirty Doering, T.Raumschmiere ed Oliver Koletzki, sia addetti ai lavori rimasti dietro le quinte (Carola Stoiber di Tresor/Tresor Records, Markus Nisch, booker di Monika Kruse e Paul Van Dyk, ed Ulrike Schönfeld, booker di Pier Bucci e Chicks On Speed). Così, dalla Berlino monocromatica degli anni della divisione, si passa a quel fatidico 9 Novembre 1989 (di cui scorrono anche immagini di repertorio) che cambiò la storia, innescando una febbrile ricerca del nuovo, una febbricitante voglia, facilitata dall’assenza di burocrazia, di appropriarsi di spazi abbandonati nel settore est, di un impeto creativo che forse non conoscerà mai eguali. La Berlino, allora, torna a colorarsi, sino a diventare una sorta di “città dei balocchi”, capitalizzando l’attenzione dei giovani europei non solo dediti alla musica ma ad ogni tipo di disciplina artistica.

Tekno – Il Respiro Del Mostro
Il documentario di Andrea Zambelli comincia con una citazione che da qualche anno gira con insistenza sul web, quella di Kristian Wilson, presunto CEO della Nintendo, in riferimento all’influenza di Pac-Man sulle giovani generazioni (una ricerca più approfondita rivela che in realtà si tratta di una battuta del ’89 del comico inglese Marcus Brigstocke). Il falso storico serve comunque ad introdurre un’approfondita panoramica su quello che è stato definito il nuovo tipo di cultura underground degli anni Duemila, seppur parlare di underground nell’era digitale e globalizzata risulti sempre piuttosto arduo e controverso, vista l’esplosione informatica che rende possibile l’accesso di tutto a tutti. Ma cosa sono esattamente i teknival e i free party della Tekno? Lo spiega con pregnanza Anna Bolena della Idroscalo Dischi, tra i contributor coinvolti: «Si occupano spazi dismessi in periferia per provare a creare una nuova socialità». L’appropriazione di uno spazio abbandonato serve quindi a dare ad esso una nuova connotazione e ciò genera le TAZ, le zone temporaneamente autonome (dall’inglese Temporary Autonomous Zone). Si ricicla un luogo dove magari prima sorgeva una fabbrica, delocalizzata in Oriente da classiche strategie commerciali, e si pareggiano le energie attraverso una folla danzante altrettanto numerosa come lo era una volta quella degli operai. La TAZ, quindi, diventa una forza di resistenza che contrasta la logica di produzione capitalistica e il sistema su cui questa stessa si basa: decade il concetto della festa sottesa al bar che deve produrre introito con le consumazioni, non esiste la brandizzazione del clubbing, non si nutre alcun interesse per le ambite sponsorizzazioni delle multinazionali. Insieme a ciò evapora pure la recente mitizzazione del DJ, figura soppressa da impressionanti e potentissimi sound system. Le pareti di casse, allora, si trasformano in demoni evocatori di energia. La droga, in tutto questo, ha certamente un ruolo, è una chiave per aprire porte dell’inconscio e forse agisce, insieme alla musica, sull’interconnessione tra menti e corpi. La musica invece è un vettore inteso come sfogo e non lavoro, un allontanamento dalla routine quotidiana, una sorta di rito liberatorio. La chiamano Tekno, con la k al posto della classica ch, proprio per differenziarla da quella che viene proposta in altre location. Stilisticamente mette insieme Techno, Industrial, Hardcore, Gabber, Goa, Psy Trance e Breakbeat, e diventa voce di messaggi non politicizzati, che si rifanno ai concetti base della prima Love Parade di Berlino, delle feste negli squat, nei capannoni abbandonati occupati dagli Spiral Tribe, ed elementi della Beat Generation. Correlato da immagini di repertorio di eventi esteri (Ungheria, Repubblica Ceca, Spagna, Bulgaria), in Tekno – Il Respiro Del Mostro c’è anche la Street Parade di Bologna del 2006, col compianto Don Andrea Gallo, tra teste rasate, dreadlock, piercing, nomadismo e musica che assume una valenza ideologica. Forse oggi è proprio ciò a rappresentare la genuinità dell’essere “sotterraneo”, concetto banalizzato e massificato col termine underground: l’ideologia schierata contro la morbosa mercificazione della musica.

La storia della musica elettronica by Traffic
Non si tratta esattamente di un documentario bensì di una puntata che il programma televisivo Traffic dedica alla musica elettronica, alla sua nascita, evoluzione ed alcuni protagonisti. La prima parte (detta “scheda storica”) è una veloce carrellata di informazioni, utili per inquadrare la tematica ma incapaci di aggiungere sostanziali dettagli a quanto possa emergere da una veloce surfata sul web. Il gancio col presente lo si trova parlando di Moby, ma anche qui per sommi capi. La seconda parte offre invece le incursioni in due eventi umbri tenuti nel 2011, il Dancity di Foligno e il Groovin’ di Pieve Di Collemancio. Del Dancity, introdotto da fantasiose prospettive fantascientifiche, ne parla uno degli organizzatori, Giampiero Stramaccia, a cui seguono le interviste del perugino Tommaso Pandolfi alias Furtherset (nonostante gli appena 16 anni dimostra di essere già tenacemente attratto da musica non esattamente da teenager), e del leccese Andrea Mangia in arte Populous. Per il Groovin’, invece, intervengono gli organizzatori David Leoni e Leonardo, che lamentano il mancato appoggio dell’amministrazione e la poca tutela delle forze dell’ordine che preferiscono ostacolare questo tipo di eventi. Si tratta di argomenti datati ma purtroppo sempre attuali. Tra gli altri fa capolino il poliedrico Master Enjoy. Poco più di 28 minuti, tra informazioni in stile “wikipediano” e servizi che strizzano l’occhio a quelli del Match Music degli anni Novanta: la conduttrice, Arianna Fiandrini, è una sorta di Isa B, armata di microfono tra consolle e dancefloor affollati di pubblico festante ma non sempre pronto ad offrire risposte meritevoli di attenzione.

Cerrone
È un mini documentario (di appena 17 minuti) diretto da Dimitri Pailhe, dedicato al batterista (figlio di un emigrato italiano fuggito in Francia durante il fascismo) che ha influenzato in modo massiccio sia la Disco che la House, ma anche l’Hip Hop. Il racconto di Cerrone tocca i momenti più importanti della sua carriera, dall’incontro con Eddie Barclay che mette sotto contratto la band di cui fa parte, i Kongas, al singolare caso di “Love In C Minor”, rifiutato dalle etichette francesi e che poi, per uno strano scherzo del destino, finisce col diventare una hit negli Stati Uniti. Non meno importante l’incontro con Ahmet Ertegun, il boss dell’Atlantic, che gli fa firmare un contratto e lo porta in televisione, insieme a Quincy Jones e i Jackson 5. La clip annovera pure gli interventi di Nile Rodgers (che lo mette sullo stesso piano di Giorgio Moroder e Kraftwerk), di Dimitri From Paris (che parla dei Kongas come primordio della Tribal House e pone l’accento sull’originalità delle copertine), del DJ-giornalista Dave Haslam e del popolare Bob Sinclar. Quest’ultimo, in particolare, parla del French Touch di fine anni Novanta come una riproposizione moderna della Disco di Cerrone e della forte infatuazione che, in quel periodo, aveva per le copertine di album come “Cerrone’s Paradise”, “Love In C Minor” e “Supernature”, con le nudità femminili opportunamente trasposte nei suoi “Space Funk Project Vol 2”, “Ultimate Funk” e “Paradise”. Non da meno il collettivo Africanism, messo su da Sinclar nel 2000 ed omonimo del secondo album dei Kongas uscito nel 1977.

Portrait Of An Electronic Band: Aux 88
Chi ha avuto il privilegio di vederlo in anteprima il 17 giugno 2015 presso il Louise Booth Auditorium nel Detroit Historical Museum lo ha descritto come il “documentario dell’anno”: trattasi della monografia degli Aux 88, gruppo nato a Detroit nei primi Novanta con l’obiettivo di dare il giusto continuum all’Electro/Hip Hop del decennio precedente ma arricchendola con suggestioni e declinazioni stilistiche moderne che finiscono col prendere il nome di Techno Bass. Keith ‘DJ K-1’ Tucker e Tommy ‘TomTom’ Hamilton (i quali tirano dentro, giustamente, pure gli ex componenti del progetto, Anthony ‘Blak Tony’ Horton e William ‘Posatronix’ Smith) ripercorrono la loro storia, avvalendosi dei contributi di colleghi più o meno illustri (Legowelt, Ellen Allien, Detroit Techno Militia, Cosmic Force, Scape One, Dr. Motte, Boris Divider, Dave Clarke, DMX Krew, Blastromen, Anthony Shakir, Mike Banks, Anthony Rother, DJ Di’jital, Egyptian Lover, Juan Atkins, DJ Godfather, Mike Huckaby e davvero molti altri). Pare che le prime copie siano state messe in vendita la sera stessa della première in un box set in edizione limitata.

Machine Soul
Diretto da Tero Vuorinen, “Machine Soul” racconta la scena elettronica finlandese attraverso alcuni dei protagonisti più importanti di un Paese che l’italiano medio nomina solo durante il periodo natalizio. La “triade” che apre il film è composta da Mika Vainio, Jimi Tenor e Jori Hulkkonen, pionieri di un “mondo” che appare subito ricco e multisfaccettato. A loro si aggiungono Hannu Ikola, Orkidea, Lil Tony, Irwin Berg, Samuli Kemppi e gli Acid Kings (con e senza maschera). Menzione a parte per Perttu Eino Häkkinen alias Randy Barracuda, in passato nei V.U.L.V.A. ed Imatran Voima ed oggi alfiere del genere skweee, e Lupu Pitkänen, metà del duo Ural 13 Diktators (considerato tra gli iniziatori dell’electroclash) ed oggi impegnato ad aggiornare gli stilemi french touch in Luputoni, con Toni Aalto. Non manca la panoramica sul passato con immagini di repertorio di Erkki Kurenniemi e i suoi DIMI autocostruiti. I 65 minuti di “Machine Soul”, sottotitolato in inglese, rappresentano l’occasione migliore per approfondire le conoscenze musicali di un Paese che l’europeo medio conosce e ricorda ingiustamente solo per Darude, Bomfunk MC’s e The Rasmus.

Machine A Tops: Media Records
Non è esattamente un documentario ma un reportage che viene realizzato nella primavera del 1995 per il programma Capital trasmesso dalla francese M6. Poco più di venti minuti per raccontare un fenomeno che da Brescia interessa tutta l’Europa ma anche Stati Uniti e Giappone, quello della Media Records. Autentica fucina di hit planetarie, la casa discografica fondata da Gianfranco Bortolotti è già reduce dal successo ottenuto tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta con “Bauhaus” di Cappella (1987), “Touch Me” e “Move Your Feet” dei 49ers (rispettivamente del 1989 e del 1990) “Deep In My Heart” dei Club House, (1990) e “We Need Freedom” di Antico (1991). Esauritosi il filone della italo house (che la stampa estera ribattezza, talvolta in senso denigratorio, spaghetti house, in modo non così dissimile da quanto avvenuto anni prima col krautrock), la Media Records si lancia nell’eurodance, un segmento che conquista presto con Cappella, progetto attivo dal 1987 ma rimodellato, sia nel suono che nell’immagine, per adattarsi alle nuove tendenze. Il successo è clamoroso con milioni di dischi venduti. La squadra di Capital si reca dove tutto viene pianificato con la massima cura, nel quartier generale della Media Records, a Roncadelle, e mostra un po’ di tutto, dalle stanze dell’amministrazione e promozione agli studi di registrazione. Tra i tanti ad essere inquadrati Paolo Sandrini, Roberto Cipro, Carl Fanini (ai tempi cantante e frontman del progetto Club House) e Mauro Picotto, futura star internazionale. Dagli interventi di Bortolotti si evince come la Media Records studiasse un elevato numero di versioni delle proprie hit al fine di soddisfare le diverse inclinazioni stilistiche di nazioni diverse: la dance più gioiosa ed allegra per Spagna, Italia e Francia, quella coi suoni più rigidi e meccanici per Germania e Giappone, quella con soluzioni dub e d’atmosfera per Inghilterra ed America. Tra le curiosità che passano in rassegna, i provini per entrare a far parte dei Cappella e l’atteggiamento autoritario di Bortolotti che spinge la sua squadra a curare in modo meticoloso anche i dettagli apparentemente inutili, in un periodo in cui la classica casa discografica dance tende perlopiù ad accontentarsi del denaro ottenuto per un’eventuale hit. Nicola Pollastri della Impulse Promotion, in un frame, lo indica ironicamente come “generale Schwarzkopf”: a suo modo Bortolotti, proprio come il militare statunitense, è stato un grande stratega. Dall’anno successivo la Media Records si trasforma nella “casa discografica dei DJ” lanciando la BXR e nuovi personaggi destinati a diventare popolarissimi a cavallo del nuovo millennio, come Gigi D’Agostino, Mauro Picotto e Mario Più. La proto EDM, allora, pare essere nata a Brescia.

Dirty Talk: A Journey Into Italo Disco
Patrocinato da Boiler Room e diretto da Easton West, questo mini documentario racconta, in circa tredici minuti, cosa è stata l’italo disco e come questa abbia influenzato la nascita della house music a Chicago. Fondamentalmente si tratta di un genere inventato in modo abbastanza fortuito in Italia nei primi anni Ottanta, non da Giorgio Moroder come molti erroneamente pensano, seppur la sua musica poi fosse uno dei modelli da prendere come esempio, che preleva ispirazioni dalla disco statunitense ma sostituendo le laboriose orchestralizzazioni umane coi suoni dei sintetizzatori e coi ritmi delle batterie elettroniche. I tipici assoli del philly sound si trasformano in melodie orecchiabili (catchy, in inglese), mentre le parti cantate vengono spesso affidate a cantanti non madrelingua che rivelano fin troppe lacune sul piano linguistico e che in più di qualche occasione faranno letteralmente sghignazzare i discografici esteri. Per questo motivo talvolta si preferisce ricorrere al vocoder per mascherare limiti e carenze. Ad inventare il termine “italo disco” però non furono gli italiani bensì un polacco emigrato in Germania, il compianto Bernhard Mikulski, patron della ZYX Records, che importando molto di quel materiale pensò a come poterlo incasellare più facilmente. Insomma, un’invenzione commerciale, forse non così tanto diversa rispetto a quella ideata nel 1988 dalla Virgin per promuovere la compilation “Techno! The New Dance Sound Of Detroit”. Per gli italiani comunque quella restava più semplicemente “disco dance” da vendere spesso al kilo, invogliando l’acquisto con copertine che spesso ritraevano belle donne in pose sexy. L’italo disco comunque mostra il suo lato migliore prima di diventare puro mainstream pop, proprio quando se ne accorgono gli americani che la usano come piattaforma per la futura house. A conti fatti, l’italo disco può essere tranquillamente considerato l’anello di congiunzione e passaggio tra la disco degli anni Settanta e la house di metà/fine Ottanta, una fase transitoria che esalta l’uso di strumenti-icone come Prophet-5, LinnDrum e TR-808 e in cui i 4/4 diventano punto di appoggio su cui edificare qualsiasi cosa. Il documentario, che prende il titolo da uno dei grandi classici di quel periodo, “Dirty Talk” di Klein & MBO, ospita appena un paio di italiani, i fratelli La Bionda (che ad un’analisi più attenta apparterrebbero più all’italian disco che all’italo disco) e Fred Ventura. Seguono Chip E., tra i decani della house di Chicago, Charlie Grappone di Vinylmania Records, uno degli storici negozi di dischi di New York, e Tony Carrasco che partecipò al progetto Klein & MBO. Certo, realizzare un documentario sull’italo disco coinvolgendo quasi più personaggi esteri che italiani fa un po’ sorridere, ed è scandaloso che per parlare di “Dirty Talk” non sia stato coinvolto chi quella hit la costruì per davvero, Davide Piatto (i dettagli della storia sono qui). Un lavoro abbastanza superficiale (a meno che quello su YouTube non sia solo un frammento dell’intero video), che non aggiunge granché a quanto affrontato con più consapevolezza qualche anno fa da Pierpaolo De Iulis in “Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance”, recensito su questa stessa pagina.

Dutch electro scene
Mandato in onda da MTV Nordic nei primi anni Duemila (presumibilmente tra 2002 e 2004) nel programma “This Is Our Music” presentato da Andres Lokko e Lars Beckung, questo special punta l’attenzione sull’electro disco dei Paesi Bassi tirando in ballo alcuni dei nomi più rappresentativi della scena. Da Legowelt, in uno studio già pieno di vintagisticherie e con qualche riferimento all’Italia (una piantina della città di Roma, la locandina di un film di Lucio Fulci) ai Comtron, da Serge Verschuur della Clone ad Alden Tyrell sino ad I-F, che non perde occasione per rimarcare l’assenza di qualsiasi legame tra la sua Viewlexx e il movimento electroclash. Poco più di venti minuti che raccontano un’Olanda ben diversa da quella dell’intrattenimento generalista della fase EDM.

Yazoo – A Short Film – Documentary
Con due album e pochi singoli incisi in soli due anni, gli Yazoo conquistano di diritto una posizione fondamentale nella storia del synth pop britannico. Creati nel 1981 dall’ex componente dei Depeche Mode Vince Clarke e dalla cantante Alison Moyet, vengono messi sotto contratto dalla Mute di Daniel Miller che li porta al successo internazionale, Stati Uniti compresi dove però la Sire li presenta come Yaz a causa dell’omonimia con l’etichetta fondata alla fine degli anni Sessanta da Nick Perls (corre voce che ci fosse pure una band con lo stesso nome ma di cui non si rinviene traccia). I poco più di trenta minuti del documentario servono ad approfondire le figure dei due artisti, e ciò avviene anche grazie al contributo di guest d’eccezione come il citato Miller ed Andrew Fletcher della band di Basildon. Attratto dalle nuove tecnologie, Clarke armeggia con vari strumenti elettronici tra cui il Fairlight CMI, considerato il primo sintetizzatore/campionatore digitale, e crea basi costituite da un numero limitato di piste. Suoni chiari, stesura minimale, arpeggi ed accordi spezzati in sequenze di note, dettati anche dai limiti tecnologici, fanno la fortuna degli Yazoo. Il successo coglie del tutto impreparata la Moyet che si ritrova catapultata a Top Of The Pops (ai tempi seguito da un pubblico immenso di circa venti milioni di persone) e su dischi che vendono migliaia di copie al giorno. Numeri che, a pensare ai clic su YouTube o allo streaming odierno, sembrano solo frutto della più fervida delle immaginazioni. “Don’t Go”, “Only You” e “Situation”, tutti del 1982, sono gli inni di una generazione. In particolare quest’ultimo diventa una hit nei locali underground newyorkesi negli anni della pre-house al punto che François Kevorkian chiede di poterlo remixare ma suscitando più di qualche perplessità visto che il concetto di remix non fosse ancora diffuso nel Vecchio Continente. Nonostante avessero tutti i requisiti per continuare, la carriera degli Yazoo si interrompe nel 1983, ma probabilmente è stata proprio tale brevità a tutelare ed immortalare il loro ricordo.

Crisalide, I Miei Primi Passi
In appena 22 minuti viene raccontato 1/3 della carriera di Francesco Casaburi alias Francesco Farfa. Il periodo preso in considerazione è il decennio 1984-1994, dagli esordi all’affermazione extra regionale/nazionale, e viene descritto da vari personaggi entrati nella vita del DJ per diverse ragioni. Colleghi disc jockey (Moravio Ghizzani, Carlo Magni, Beppe de Nora, Enrico Delaiti, Miki, il compianto Roby J), art director dei locali dove ha lavorato in quegli anni (Andrea Cordaro del Katinka, Mario Provinciali de La Barcaccina, Silvio, Stefania e Marcello Passini del Tartana, Raulo Giovannoni dell’evento The West), semplici amici (Silvano Ballini, Lucia Barnini, Cristina Tarchi, Marcello Matteucci e il barman Luca Fiaschi): ognuno di loro racconta dettagli che aiutano ad inquadrare meglio la figura dell’artista toscano. Incuriosito dagli impianti stereo visti a casa di conoscenti, Casaburi allestisce una consolle in garage dove inizia ad esercitarsi, attratto dal fare tecnico di quella professione. Alla metà degli anni Ottanta approda alla discoteca Ypsilon di Certaldo, un ambiente fatto prevalentemente di volontariato e passione e in cui si inserisce con tenacia ed una certa dose di timidezza. Casaburi non è il classico “DJ anni Ottanta” che incita gli avventori del locale parlando al microfono, preferisce «far palpitare la pista» non solo grazie al tecnicismo ma pure in virtù di un feeling che instaura col pubblico, pur senza proferire parola. Il 1990 è un anno cruciale: la collaborazione con locali come Tartana, La Barcaccina ed Imperiale determina un sensibile aumento di popolarità e Francesco Casaburi si trasforma in Francesco Farfa. Le ragioni, per nulla studiate a tavolino o connesse all’artista futurista Vittorio Tommasini come invece qualcuno potrebbe ipotizzare, vengono spiegate nel filmato. Per il suo debutto all’Imperiale, come rivela Miki, inizia col mash up antidiluviano di John Truelove che mette insieme “Your Love” di Jamie Principle/Frankie Knuckles e “You Got The Love” di The Source Featuring Candi Staton. A dicembre di quell’anno il giornalista de L’Express Luc Bertagnol, colpito dalla sua preparazione tecnica e scelta musicale, lo invita ad una festa nella capitale francese. Il progetto si concretizza nei primi mesi del 1991 quando Farfa suona all’Hôpital Éphémère di Parigi, occasione in cui, come rimarca lo stesso Bertagnol, «si apprezza una reale progressione musicale». Inconsapevolmente Farfa (con Miki e Roby J al seguito) getta le basi di un movimento musicale che qualche anno più tardi sarebbe prima diventato un trademark per il clubbing toscano (profetizzato dal citato Miki come “The Sound Of Tirreno”, si veda il 12″ omonimo uscito nel ’93 sulla sua Major Ipnotic Key Institute) e poi finito nelle fauci del mainstream che lo cannibalizza spogliandolo del tutto dalle sue matrici originarie. Il pubblico di Farfa diventa sempre più consistente, a settembre del 1992 è nella Divine Stage dell’Insomnia di Ponsacco, insieme all’inseparabile Miki, e i ragazzi iniziano a chiedere dischi “alla Farfa”. Casaburi, in poco meno di dieci anni, è tra i DJ italiani che vantano un seguito più vasto e soprattutto tra i primi ad anticipare la globalizzazione stilistica che prenderà piede nel nuovo millennio, mettendo in difficoltà le riviste di settore che ai tempi non sanno se inserirlo tra i DJ house o quelli techno. Farfa è nel mezzo, rappresenta entrambe ma senza aderire ad un credo che possa escluderne una a favore dell’altra. A testimonianza di ciò diverse produzioni discografiche sparse su Area Records (che fonda con Joy Kitikonti), Interactive Test e UMM. Ad impreziosire il documentario sono frammenti di videointerviste e brevi clip di serate in discoteca (Tartana, Exogroove, Tenax, The West, The Gallery, Insomnia, Mozinor, Hôpital Éphémère, Torquemada). Diretto da Marco Allegri, “Crisalide, I Miei Primi Passi” viene girato nel 2010 ma appare sul canale YouTube Farfa Tv solo il 14 febbraio 2017. Sembra solamente l’inizio di un lavoro che meriterebbe davvero di proseguire per abbracciare il periodo che va dal 1995 ad oggi, in cui Farfa intensifica la produzione discografica (ma senza mai cercare il successo commerciale) fondando la Audio Esperanto in collaborazione con la bresciana Media Records, mixa varie compilation di successo come “Trance Nation”, remixa svariati brani (tra cui quelli di Caspar Pound, Prism e Robert Armani), prende posto in nuovi club come il Taotec di Figline Valdarno, collabora con l’etichetta spagnola Serial Killer Vinyl e finisce nel radar di DJ del calibro di Sasha, Tiësto e José Padilla.

DJ’s Trip
Corre il 2003 quando Alberto D’Onofrio gira, tra Italia, Ibiza e Londra, i dieci documentari della collana “DJ’s Trip”. YouTube non esiste, il web si è lasciato alle spalle lo stadio primitivo degli anni Novanta ma non offre ancora l’infinità di contenuti come oggi, soprattutto in relazione a tematiche “di nicchia” come possono essere quelle dei DJ e della nightlife in genere. I “DJ’s Trip” di D’Onofrio vanno così a rifocillare quel segmento di utenza alla costante ricerca di materiale audiovisivo difficilmente rintracciabile se non mediante programmi televisivi specializzati (ma poco diffusi nel nostro Paese), DVD e qualche polveroso VHS. Ampio spazio è stato concesso al DJ, figura che ad inizio del nuovo millennio va incrementando la popolarità accumulata nel decennio precedente. Ed ecco quindi Claudio Coccoluto che tra racconti di vita adolescenziale e squarci di realtà domestica con figli e moglie, narra il suo attaccamento alla musica. Dal primo campionatore (un Emulator II?) alle esperienze in studio di registrazione (con una panoramica di quello che parrebbe proprio l’HWW Studio), passando per l’esperienza radiofonica su Radio DeeJay (nella puntata di C.O.C.C.O. il DJ rivendica l’importanza della notte come quella del giorno, scagliandosi contro l’allora ministro Carlo Giovanardi e la crociata sulla chiusura anticipata delle discoteche). Coccoluto è un manipolatore di suoni, un DJ che prende le distanze dal mettidischi stereotipato de “La Febbre Del Sabato Sera” o quello radiofonico che limita gli interventi alla menzione di artista e titolo. Gli piace «interpretare la musica come materiale sonoro», dando vita ad una forma d’arte artigianale spiccatamente passionale. Gli segue Ralf, nato Antonio Ferrari, che spiega le ragioni dell’essere così defilato dallo studio di incisione e del forte attaccamento al territorio natio, l’Umbria. A ricorrere con frequenza nel discorso è la parola “terra”, e ciò chiarisce il motivo per cui abbia chiamato la sua etichetta Laterra Recordings. Ralf cerca di tutelare l’emozione della musica da ballo a dispetto degli amanti del rock, del jazz e della musica “colta” che invece fanno distinzioni tra “musica” e “musica” giudicandola in base all’uso che se ne fa. Una parte del film è stata girata nello studio di Alex Neri mentre viene bozzata “I’ve Done It” che inaugura il catalogo della citata Laterra Recordings nel 2006. Acclamato dal pubblico e rivelatosi pure una penna arguta attraverso la rubrica Touch & Go curata per anni sulle pagine del magazine DiscoiD, Ralf resta tra i pochi DJ italiani che, pur investendo poco nella carriera da produttore, riesce a mantenere alta l’attenzione nei suoi confronti in modo costante. Un altro gradito ospite è Francesco Farfa: tra aneddoti ed esperienze in studio, definisce il DJ «un mediatore, un cavo di corrente che si attacca tra la gente e la musica, un induttore che serve per comunicare un tipo di messaggio», accennando anche al concetto di “DJ rock star” che sarebbe stato sdoganato in modo definitivo qualche anno più tardi. Il toscano affronta pure l’argomento della colonizzazione ibizenca e, importante, rimarca il concetto della moderazione come tutela della professionalità e del buon esempio che va dato a chi segue (ed imita) i DJ, un messaggio per se stesso ma anche per gli altri. Interessante l’intervento di Principe Maurice che lega la sua attività di cantante alla musica selezionata da Farfa, tra i DJ italiani più versatili che non ha mai avuto timore di mettersi alla prova, reinventandosi nel corso degli anni. Spazio anche a Stefano ‘Stylophonic’ Fontana ed Alessio Bertallot: il primo nasce in una famiglia di sportivi (il nonno Mario era portiere per l’Inter con Giuseppe Meazza, il padre era portiere del Milan, il fratello Robert, tragicamente scomparso in un incidente stradale in moto il 19 maggio 2006, è stato campione di baseball) ma la “gerarchia agonistica” viene interrotta proprio da Stefano che imbocca la strada della musica. Inizia a produrre a metà anni Novanta come Fontana Mood ma si fa notare a livello internazionale solo nel 2002 quando incide per la Prolifica (gruppo EMI) “Man Music Technology” come Stylophonic, trainato da singoli dall’appeal pop come “Soulreplay”, “If Everybody In The World Loved Everybody In The World” e “Way Of Life”. Interessante sentire anche la “campana” di un musicista con cui Fontana ha collaborato in alcune occasioni, Saturnino. Alessio Bertallot invece, ai tempi ancora al timone di B Side, rivela un concetto su cui vale la pena riflettere: «in radio ho sempre pensato che fosse importante spiegare la musica perché sono consapevole del fatto che la gente ne sappia davvero poco e che non viviamo in un ambiente culturale che aiuta ad esercitare la sensibilità, anzi è il contrario. Più insensibile ed ignorante sei, più sei funzionale al sistema». Bertallot, che assume un ruolo di vero divulgatore in una emittente radiofonica ormai sempre più rivolta ad un pubblico generalista, contribuisce attivamente alla diffusione in Italia di generi alternativi come trip hop, jungle e drum n bass. Poi, tra le altre cose, chiarisce il ruolo del musicista e del DJ e prevede la “poppizzazione” della dance con conseguente svuotamento dei contenuti, cosa che è avvenuta per davvero. Probabilmente mai come oggi la dance come sfondo sonoro quotidiano ha necessitato di una rifondazione. Il lavoro di D’Onofrio prosegue con altri video dedicati a José Padilla & Luca Baldini, DJ Ter, DJ Lottie, Mike Manumission e Ibiza per completare un quadro trasmesso da Cult Network (su Sky) e venduto anche in DVD. Il regista torna ad occuparsi di musica elettronica e vita notturna con “Party People Ibiza”, nuova serie di documentari trasmessa da Rai 2 nel 2014.

Storia Della Musica Techno Italiana Nel Mondo
Il titolo è particolarmente allettante quanto pretenzioso, il desiderio di vedere raccolte testimonianze e storie nostrane su un genere come la techno è sempre molto alto vista l’assoluta scarsità di materiale documentaristico a disposizione. Peccato però che questo tentativo, seppur apprezzabile, tradisca abbastanza le aspettative, non certamente per i nomi coinvolti, tutti rispettabilissimi protagonisti della scena, ma piuttosto per la modalità con cui il documentario stesso è stato pensato ed assemblato. Il primo episodio, seppur non esplicitato, è dedicato a Roma, a ragion veduta perché la techno trova nella capitale un terreno particolarmente fertile prima di ogni altra zona dello Stivale. Si susseguono gli interventi di Francesco Zappalà, Vortex, Bismark, Paolo ‘Zerla’ Zerletti e Ricky Diciotto, inframmezzati da video d’archivio del DMC, dell’Ombrellaro Rave ’92 e dell’Happy Rave ad Ostia nel ’91, incluso un reportage di Rai Tre che forse sarebbe stato opportuno evitare perché facilmente strumentalizzabile. Il secondo episodio invece racconta, ma davvero troppo frettolosamente, quanto avvenuto in Toscana attraverso le testimonianze di Raulo Giovannoni, ideatore dell’evento itinerante The West, e del vocalist Roberto Francesconi. Anche qui non mancano filmati di repertorio (Imperiale, Jaiss, il citato The West) ma nel complesso la narrazione non segue un iter ben strutturato e finisce col somigliare più ad una raccolta di video con sparuti commenti a fare da corollario che ad un documentario vero e proprio. I guest interpellati da Stefano Di Carlo (che alle spalle ha una carriera di tutto rispetto, si veda la sua pagina su Discogs per avere una visione d’insieme) e Flavio Costa avrebbero potuto aggiungere molto di più rispetto a quanto già trapelato attraverso innumerevoli interviste rilasciate nel corso degli anni, ma alla fine è anche il timing a fugare ogni dubbio: 13 minuti nel primo, meno di nove nel secondo sono nettamente insufficienti per raccontare un fenomeno complesso ed avvincente come quello della techno approdata nel nostro Paese.

Early Documentary About Sampling
Pare che questo servizio televisivo sia stato trasmesso nel 1988, anno in cui il campionamento inizia a diventare una pratica sempre più consolidata soprattutto nella house music riconfezionata dai produttori del Regno Unito. I primi ad apparire nel video sono i Coldcut (Jonathan More e Matt Black, da lì a breve fondatori della Ninja Tune) che con “Beats + Pieces”, del 1987, mostrano quanto fossero attrattive le potenzialità derivate dalla manipolazione di sorgenti sonore prelevate da vecchie incisioni di generi disparati. Il botto lo fanno tra 1988 e 1989, quando pubblicano “Doctorin’ The House” (col featuring di Yazz), “Stop This Crazy Thing” e “People Hold On” (coi vocal di Lisa Stansfield), che insieme ad altre produzioni britanniche come “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., “Beat Dis” di Bomb The Bass e “Theme From S-Express” degli S’Express sdoganano una nuova concezione di produrre musica. Ai tempi house ed hip hop viaggiano parallele e talvolta finiscono con l’intersecarsi per modalità compositive (si veda, ad esempio, “The Power” degli Snap!, “Gonna Make You Sweat (Everybody Dance Now)” di C+C Music Factory e i dischi dei belgi Benny B prodotti da Vito Lucente, il futuro Junior Jack). Non certamente a caso nel video compaiono molti nomi emblematici del rap, il DJ Prince Paul degli Stetsasonic (e produttore dei De La Soul), DJ Jazzy Jeff & The Fresh Prince, Ice-T ed LL Cool J. Se da un lato il sampling indica la strada di nuove tecniche e forme compositive del tutto inedite («quando sono intervenuti i campionatori si è creato una sorta di muro di suono, e molti produttori hip hop hanno cercato di stratificare il loro suono per creare qualcosa di nuovo», come spiega Andrea Benedetti in questa interessante lecture, dall’altro implica tutta una serie di problematiche legali connesse ai diritti di copyright che il campionamento, di fatto, infrange. Per tale ragione si ritrovano testimonianze di artisti come la compianta Ofra Haza (la cui voce viene campionata dai Coldcut nel remix di “Paid In Full” di Eric B. & Rakim), Debbie Gibson, Tom Petty, Steve Stevens, Steve Winwood, Lou Reed, ma anche dei produttori Bob Clearmountain e Russell Simmons della Def Jam e persino di due avvocati: Philip M. Cowan, che allora si occupa del caso che vede imputati i Beastie Boys per aver attinto da “The Return Of Leroy” della Jimmy Castor Bunch per la loro “Hold It Now, Hit It”, e Lawrence Stanley della Tommy Boy, che difende i De La Soul per aver “prelevato” un frammento di “You Showed Me” dei Turtles per la loro “Transmitting Live From Mars”. Insomma, in poco più di otto minuti la clip mostra pro e contro di una metodologia compositiva da sempre in bilico tra geniale creatività e riprovevole furto. Il campionatore, come scrive Simon Reynolds in “Retromania”, «non era una semplice “macchina da citazioni” ma poteva funzionare in modo altrettanto efficace come strumento di pura sintesi sonora che non si limitava a decontestualizzare le fonti ma le rendeva astratte». L’abilità del cosiddetto “crate digger” di classe (ossia colui che setaccia aste di beneficienza, mercatini dell’usato e scantinati di negozi alla ricerca di dischi sconosciuti da campionare) si riconduce, come spiega il noto giornalista/scrittore, «a quella sensibilità che gli permette di individuare un potenziale sample che sfugge agli altri, il minimo svolazzo orchestrale o lo scampolo di chitarra ritmica che può funzionare come loop, il momento casuale di una traccia jazz-funk in cui la strumentazione tace, isolando una manciata di note trasformabili nel riff melodico centrale di un pezzo nuovo». Non tutti però sono crate digger, e per tale ragione il sampling continuerà a battere una zona grigia in cui arte e furto viaggiano costamente insieme. Per approfondire ulteriormente questa tematica si segnala il libro “Controversies Of The Music Industry” di Richard D. Barnet e Larry L. Burriss, in cui si rinviene uno dei primi casi che vede il campionamento come “copyright infringement”, quello in cui Boyd Jarvis cita in giudizio Robert Clivillés e David Cole (i sopramenzionati C+C Music Factory) per aver illegalmente tratto dei sample dalla sua “The Music Got Me” di Visual per trapiantarli in “Get Dumb! (Free Your Body)” di The Crew Featuring Freedom Williams. Tutti i dettagli sulla causa disputata in tribunale il 27 aprile del 1993 sono qui.

808
L’evoluzione della musica elettronica è stata decretata sia da intuizioni artistiche che dall’avvento di nuove tecnologie. Non bisogna dunque meravigliarsi se qualcuno abbia voluto dedicare un intero documentario ad uno strumento. Era già avvenuto con Nate Harrison che approfondì sulla Roland TB-303 (leggi recensione su questa stessa pagina) ed ora tocca alla Roland TR-808, un’altra di quelle macchine che hanno rivoluzionato lo scenario in maniera globale. Basti pensare che i beat generati da questo rhythm composer abbracciano uno spettro tanto ampio che va da “Sexual Healing” di Marvin Gaye a “Brass Monkey” dei Beastie Boys, passando per “One More Night” di Phil Collins, tutta l’electro newyorkese connessa alla breakdance capitanata da “Planet Rock” di Afrika Bambaataa, la proto techno dei Cybotron (“Clear”), la house grezza di Chicago (“No Way Back” di Adonis) sino alla techno lambiccante dei 90s (“Spastik” di Plastikman). Insomma, non un prodotto finito nelle mani di un target ben preciso ma una macchina in grado di mettere d’accordo un numero abissale di compositori, tanto grande da persuadere Alex Dunn a mettersi all’opera su quello che sembrava un lavoro infinito. Il documentario si avvale di un cast stellare, così vasto da mettere in seria difficoltà chi pensava alla TR-808 come una “diavoleria destinata a musicisti da strapazzo”. Damon Albarn, Arthur Baker, Jellybean Benitez, Diplo, Phil Collins, Goldie, Felix Da Housecat, 2 Many DJ’s, Fatboy Slim, MC G.L.O.B.E., David Guetta, Richie Hawtin, Jori Hulkkonen, Lil’ Jon, François Kevorkian, David Noller, Man Parrish, Tom Silverman, Armand Van Helden, Pretty Tony, Gerald Simpson, Tiga, Bernard Sumner, Todd Terry e Pharrell Williams sono solo alcuni di coloro che hanno raccontato l’epopea di uno strumento-icona in grado di resistere all’incedere degli anni. Dunn è riuscito a coinvolgere anche Ikutaro Kakehashi, fondatore della Roland spentosi giusto pochi mesi fa, che ha svelato un aneddoto davvero significativo: i transistor utilizzati nella TR-808 erano difettosi, pare persino scartati da aziende concorrenti, ma capaci di produrre un suono unico, che non somigliava a nulla in circolazione ai tempi. Tale peculiarità, comunque, non decretò la fortuna dello strumento, anzi, avvenne esattamente il contrario perché i suoni che generava erano diversi da quelli delle batterie reali, e sfigurava se messa a confronto con la LM-1 della Linn Electronics. L’unico punto a favore fu il costo assai contenuto, poco più di mille dollari, circa quattromila in meno rispetto alla più blasonata LM-1. “808”, prevedibilmente, è stato accolto con favore dalla critica e dal pubblico, tanto da stuzzicare l’interesse dei media generalisti, come La Repubblica, seppur con qualche leggerezza («il primo a usarla fu Afrika Bambaataa, nel 1982», inesattezza imperdonabile se si pensa agli Yellow Magic Orchestra, stranamente esclusi dal documentario, che la adoperarono in “1000 Knives” del 1980 inserita nell’album “BGM” l’anno dopo, alla nostra Doris Norton in “Raptus” del 1981, o al compianto Mandré che sembra iniziò a testare un prototipo della TR-808 già nel ’79, quando registrò “M3000” per la Motown). Comunque, a conti fatti, è rincuorante constatare che il divario tra strumenti tradizionali ed elettronici oggi si sia ridotto quasi a zero. Per il momento è distribuito solo su Apple Music ma se siete alla ricerca di qualcosa di “tattile” qui è possibile ordinare la tshirt e la soundtrack incisa su CD e vinile in cui figurano, tra gli altri, Man Parrish, Planet Patrol, Shannon e Strafe ma che, stranamente, oltre agli 808 State (nomen omen), e Felix Da Housecat non si avvale di nient’altro legato alla house o alla techno, i due generi che probabilmente più di altri hanno trasformato la TR-808 in una macchina mitologica.

Italo Disco Legacy
Ci avevano già pensato Pierpaolo De Iulis con “The Sound Of Spaghetti Dance” (segnalato su questa stessa pagina) e Francesco Cataldo Verrina nel libro “Italo Disco Story” a tratteggiare il controverso mondo della dance italiana degli anni Ottanta, ma è positivo che qualcun’altro sia tornato sull’argomento, ampliandone le prospettive e i punti di vista. Pietro Anton, regista di “Italo Disco Legacy”, pone l’attenzione soprattutto sul raffronto, costante, tra il racconto di chi ha vissuto il fenomeno dell’italo disco in Italia e chi invece lo ha conosciuto ed apprezzato vivendo oltre le Alpi. Ad emergere è uno spaccato interessante e significativo perché offre allo spettatore una valida chiave di lettura per inquadrare la tematica in modo ancora più accurato e profondo. Se l’italiano medio è abituato a parlare dell’italo disco come un filone sospeso tra trascurabile cineseria e banale paccottiglia rifilata ad immense platee dalla televisione berlusconiana o dalla radio/mente cecchettiana, all’estero questo genere gode di ben altra credibilità. Basti ascoltare i racconti di alcuni dei personaggi coinvolti, come il francese The Hacker e l’olandese I-f, per capire quanto sia radicalmente diversa la percezione per un genere che non va liquidato semplicisticamente come l’enorme calderone di canzonette montate su basi ritmiche realizzate con LinnDrum, Roland TR-808, Oberheim DMX, E-mu Drumulator e Simmons SDS 8, trainate dal basso in ottava e date in pasto, a seconda della stagione, al pubblico dei cinepanettoni o a quello dei Festivalbar. Dal 1981 al 1984 circa l’italo disco si rivela seminale per futuri generi rivoluzionari ed epocali come house e techno pur nascendo in maniera piacevolmente ed innocentemente naïf, e diventa anello di congiunzione tra la disco americana, ormai sul viale del tramonto, l’eurodisco moroderiana e correnti nascenti come new wave e synth pop che legittimano ritmiche e suoni prodotti ed eseguiti elettronicamente. Certo, quelle che a posteriori verranno riconosciute come affascinanti intuizioni in realtà sono espedienti trovati per ovviare a problemi di varia natura (vocoder che maschera l’inglese maccheronico, scrosci di batteria che simulano i virtuosismi del batterista virtualizzato dalle drum machine, apparati melodico-armonici particolarmente elaborati che sopperiscono all’assenza delle grandi orchestrazioni), ma nonostante tutto l’italo disco riesce a smarcarsi dalla banale imitazione da tarocchificio cinese acquisendo una propria identità. Quando quella formula raggiunge le grandi platee in tanti(ssimi) si buttano a capofitto nell’affare, disperdendo l’apporto creativo sul quale hanno le meglio scopi meramente economici da parte sia di imprenditori discografici, sia di compositori allettati dal guadagno facile, che finiscono con l’affossare il genere sino a renderlo pacchiano e, per anni, alla stregua di uno scheletro nell’armadio. Tra i personaggi coinvolti Flemming Dalum, Intergalactic Gary, DJ Hell, Linda Jo Rizzo, David Vunk, Alden Tyrell, DJ Overdose, Otto Kraanen, Fancy, Marcel van den Belt e Mark Du Mosch ma ovviamente anche tanti italiani come Fred Ventura, Alexander Robotnick, Albert One, P. Lion, Roberto Turatti, Daniele Baldelli, Anfrando Maiola (Koto), Brian Ice, Marcello Catalano, Franco Rago & Gigi Farina, Vince Lancini degli Scotch, Ken Laszlo, Aldo Martinelli, Simona Zanini, Stefano Brignoli e Beppe Loda a cui si aggiunge anche qualche contemporaneo come Sandro Codazzi e Francesco ‘Francisco’ De Bellis. Alcuni guest fanno poco più di fugaci comparsate e chiaramente mancano dei nomi che sarebbe stato interessante annoverare, ma nel complesso tutto torna utile per raccontare un genere che, come afferma Hell negli ultimi frame, non avrà mai fine. Ad implementare il DVD è una compilation edita su doppio vinile dalla berlinese Private Records in cui si alternano brani del passato, del presente e qualche inedito.

10 Jahre Zyx
Non si tratta di un documentario bensì di un servizio trasmesso nel 1989 nel programma Backstage dalla Tele 5, uno dei canali televisivi stranieri posseduti allora da Silvio Berlusconi. Ventisei minuti non sono tantissimi ma sufficienti per capire cosa fosse la Zyx, tra gli imperi discografici tedeschi indipendenti più importanti e longevi della storia musicale contemporanea. Fondata nel 1971 da Bernhard Mikulski, ex manager della CBS Schallplatten negli anni Sessanta, è un colosso di dimensioni esagerate con sede principale a Merenberg, in Assia, ma con filiali dislocate negli Stati Uniti, Paesi Bassi, Svizzera, Francia, Regno Unito e Polonia. Nata inizialmente come distribuzione chiamata Pop Import, nel corso degli anni si trasforma in una casa discografica a tutti gli effetti e cambia nome in Zyx Music prendendo spunto da Zzyzx, località californiana nella contea di San Bernardino, situata tra Los Angeles e Las Vegas. Come spiega il direttore degli A&R Reinhard Piel, pur trattando generi come rock, jazz o colonne sonore, Zyx Music è in primis un’etichetta di musica pop dance e il suo successo risiede nell’essere riuscita a cavalcare trionfalmente gli anni Ottanta per intero, diventando promotrice di nuovi generi come synth pop, eurodisco e new beat ma soprattutto la dance esportata dall’Italia a cui Mikulski affibbia il nome italo disco per poterla lanciare meglio sul mercato attraverso una serie di compilation. L’attrazione che il discografico prova nei confronti della musica per le discoteche è forte. Inizia col supportare gli esperimenti del compositore/arrangiatore Pit Löw che nel 1982, celato dalla sigla P.L., incide “Space Dreams”, un album di cover (Pete Shelley, Kraftwerk, Poussez!) in chiave electro disco (modalità ripresa nel 1983 in “Sounds Of Humanoid Kind” di E.T.M.S.). Nello stesso anno licenzia “Girl On Me” degli italiani Amin-Peck seguito da “Dance On The Groove And Do The Funk” dei campani Funk Machine ed “Hookey” del lombardo Sylvi Foster (il futuro Joe Yellow). Continuando a pubblicare musica schlager e pop rock, Mikulski intuisce che la dance è un filone aurifero. L’anno della svolta è il 1983: importando decine di altri pezzi italiani (“Bad Passion” di Steel Mind, “Let’s Dance” di Kex, “Take A Chance” di Mr. Flagio, “Pulstar” di Hipnosis, “Tubular Affair” di Samoa Park, “I.C. Love Affair” di Gaznevada, “Voices In The Dark” di Mike Cannon, “Japanese War Game” di Koto, “Are You Loving?” di Brand Image, “Pretty Face” di Stylóo, “Rainy Day” di Brando, “Watch Out!” di Doctor’s Cat, ” Witch” di Helen, “Sexiness” di Travel Sex, “The Hustle” di Talko, “Give Me A Break” di Joe Maran, “Plastic Doll” di Dharma, “The Rule To Survive (Looking For Love)” dei N.O.I.A., “Love Theme From Flexxy-Ball” di Flexx, “Penguins’ Invasion” di Scotch, “Somebody” di Video ma la lista andrebbe avanti per parecchio), la Zyx diventa portabandiera di un suono inizialmente un po’ grezzo e che in tanti giudicano poco più che amatoriale ma destinato a trasformarsi nel pop adottato da quasi tutto il Vecchio Continente, adorato e glorificato da milioni di persone. Dall’Italia giungono, tra gli altri, “To Meet Me”, primo singolo di Den Harrow, “Talk About” di Phaeax e la struggente “Don’t Cry Tonight” di Savage, e per Mikulski è un tripudio visto che quella musica riesce a distribuirla quasi ovunque. Inizialmente snobbati dalle multinazionali, adesso quei brani raccolgono grande successo e la Zyx si ritrova al centro dell’attenzione internazionale. Alternando classica italo disco (Miko Mission, Valerie Dore, Camaro’s Gang, Paul Sharada) al synth pop dei Pet Shop Boys e di Paul Hardcastle e passando per l’electro di Egyptian Lover, il funk di Tullio De Piscopo, la new wave dei Kirlian Camera e nuovi remake ai confini col plagio (come “Stop – Watch” di Hypnotic Samba, con chiari riferimenti a “Passion” delle Flirts prodotte da Bobby Orlando) l’etichetta tedesca conquista una fetta sempre più consistente di mercato. Nel 1986 Mikulski mette sotto contratto gli OFF, un gruppo composto da due compositori, Michael Münzing e Luca Anzilotti, ed un frontman-cantante, Sven Väth. All’attivo hanno un solo singolo, “Bad News”, pubblicato l’anno prima dalla Bellaphon e passato inosservato, ma tutto cambia con “Electrica Salsa (Baba Baba)” che diventa una hit europea ed è comprensibile la ragione per cui il manager, nel video, snoccioli fieramente i risultati ottenuti. Meno fortunato si rivela il follow-up, “Step By Step” (di cui scorre il videoclip), a cui non seguirà alcuna inversione di tendenza ma i tedeschi verranno ripagati alla grande in altro modo visto che Münzing ed Anzilotti si trasformeranno in Snap! mentre Väth, che nei primi video ed apparizioni pubbliche serba movenze che lo fanno paragonare al nostro Lorenzo Cherubini ai tempi di Gino Latino o del Jovanotti col cappello Yo, diventerà uno dei più importanti DJ planetari. In chiusura giunge Chanelle, sbarcata su Zyx nel 1989 con “One Man” remixata da due pesi massimi della house come David Morales e Frankie Knuckles, e il trio dei Noname, emuli dei Depeche Mode e nati da una costola dei Dark Distant Spaces, che eseguono “Fashion”, prodotto dai citati Münzing ed Anzilotti. Per la Zyx gli anni Novanta trascorrono sotto il segno dell’eurodance e dell’italodance. Il rapporto con l’Italia è forte, tanto che prima Discomagic e poi Media Records cedono ad essa i propri cataloghi. Bernhard Mikulski passa a miglior vita il 9 ottobre del 1997, a 68 anni. Le redini della società, che include anche una stamperia interna, le prende la moglie Christa oggi a capo di un gruppo discografico con oltre 250 dipendenti.

Road To Trip
C’è stato un periodo, circa trent’anni fa, in cui il turntablism era considerato un autentico faro dalla generazione che approcciava alle “musiche nuove” (hip hop, house, techno). L’abilità manuale pari a quella di un prestigiatore, la velocità delle dita, gli incroci acrobatici tra arti (mani, piedi), l’uso di parti inconsuete del corpo (bocca, naso, mento): tutto coordinato alla perfezione per creare rumori artistici, “graffi musicali” che lasciano letteralmente increduli gli astanti e suscitano rispetto per quella professione, oggettivamente non alla portata di tutti. Parafrasando quanto scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”, «le abilità tecniche dei DJ hip hop erano abbastanza appariscenti da essere cercate come obiettivo tanto che gli elementi essenziali di quel tipo di DJing furono distillati fino ad essere trasformati in una forma artistica quasi completamente estranea a quella che era stata la funzione originaria, ovvero far ballare la gente». In effetti il turntablism è una disciplina squisitamente tecnica, un esercizio olimpionico fondato su creatività, rapidità e manualità, che trascende dal classico beatmatching tra due brani, una vera banalità messa al confronto. In Italia c’è più di qualcuno che, tra la fine degli Ottanta e i primi Novanta, dà prova di essere un vero virtuoso dei giradischi, come Cesare Tripodo, da Bari, in arte DJ Trip. Impegnato già da tempo nella consolle del Rainbow Club, nota discoteca del capoluogo pugliese, Tripodo affina costantemente la tecnica che gli consente di approdare al DMC dove dimostra le proprie qualità. Il documentario diretto da Claudio D’Elia e prodotto da Apulia Film Commission in esclusiva per Repubblica.it, mette in risalto la sua figura attraverso i ricordi di chi condivise con lui quei magici ed irripetibili momenti, come Francesco Zappalà che lo definisce “un pozzo di fantasia”, Danny Losito, voce e frontman dei Double Dee, che ne parla come un “musicista che suonava coi dischi”, e Claudio Coccoluto che invece rammenta quanto quel talento fosse temuto all’estero. Altre testimonianze sono offerte dai famigliari (la madre Assunta Misceo, la sorella Marta Tiziana Tripodo, la fidanzata Antonella Serini, l’amico Enzo Abbrescia), tutte utili per comprendere quanto Cesare fosse poco attratto dalla gloria ed animato da una incontenibile passione, indiscusso leitmotiv della sua purtroppo breve carriera artistica. Tra gli spezzoni di vecchie registrazioni raccolte se ne rinviene una, tratta da un’ospitata su Odeon Tv/Antenna Sud, in cui Tripodo afferma che «c’è chi sta già pensando al business» (anzi, al “bisnìss”, con inconfondibile accento barese) riferendosi a chi iniziò a lucrare sul movimento rave. Poi lancia anche una frecciata a chi chiedeva la chiusura anticipata delle discoteche per arginare le cosiddette “stragi del sabato sera”. Tematiche, per certi versi, ancora attuali, specialmente sul fronte della mercificazione del settore, in contrapposizione con la spontaneità di quando la house music emetteva i primi vagiti, periodo in cui «la generazione era meno disposta a farsi propinare cose ma più a toccare con mano», come sostiene Zappalà, e in cui «c’era un contraltare rispetto alla cultura di massa», come rimarca invece Nicola Conte. La figura del “DJ produttore” stava nascendo, anche in virtù della diffusione di nuovi equipment tecnologici che di fatto non relegavano più l’attività in studio esclusivamente ai musicisti. Trip, in tal senso, è da considerarsi un assoluto pioniere visto che già nel 1983 contribuisce al mix di “Can We Go” di Electric Mind, edito dalla Full Time. Come si legge in un’intervista pubblicata su Discotec nel 1991, all’indomani della vittoria del DMC Italia, il DJ pugliese intendeva mettere da parte i virtuosismi per dedicarsi con impegno alla produzione discografica. «Faccio ancora serate in discoteca in cui prima mi esibisco al mixer per una decina di minuti e poi comincio a mettere dischi per far ballare il pubblico. Il discorso dello scratch è legato al DMC ma io non voglio essere etichettato come scratcher, trovo sia riduttivo. Ben venga lo scratch se ha una collocazione giusta, ma io ho iniziato come disc jockey e la mia passione rimane quella» spiega. Proprio nel 1991 il DMC Italia, coordinato da Fabio Carniel del Disco Inn di Modena, pubblica la sua “Original Version From Demotape” su un sampler promozionale di appena 500 copie. Trattasi di un brano, voluto da D’Elia come sottofondo nella clip, in cui il DJ sintetizza in poco più di tre minuti l’amore per il jazz e il funk e mette in mostra l’estrosità nel trattare i sample. Sempre nel ’91 Tripodo partecipa al primo album dei citati Double Dee, in particolare a “Walden” a cui avrebbero dovuto far seguito altre cose tra cui il remix (mai pubblicato) di un brano di Eumir Deodato consegnato da Nicola Conte alla londinese Acid Jazz, come racconta qui Pasquale 33. In quell’intervista su Discotec l’artista parla inoltre di nuove collaborazioni coi Double Dee e col rapper Master Freez per il quale preparava il primo album insieme a Claudio “Moz-Art” Rispoli. Un disco, pure questo, a quanto pare mai pubblicato. «Sto lavorando anche al mio primo mix che uscirà prima in Inghilterra e poi in Italia, si tratta di un pezzo strumentale costruito su virtuosismi jazz. Mi piacerebbe creare un’etichetta simile alla Talkin’ Loud anche se per me è ancora prematuro pensare ad un progetto simile» afferma. Tripodo proviene da un mondo in cui fare il DJ non significa ancora fama e denaro, una dimensione in cui alberga una sana dose di pionierismo, gusto per l’avventura e spirito di sacrificio. Proprio negli anni in cui il suo nome sale alla ribalta nazionale ed internazionale il DJing inizia ad essere una professione riconosciuta, dopo essere stata ingratamente ridotta alla stregua di banale hobby dopolavorista. Il barese ha tutte le carte in regola per diventare uno dei protagonisti della fase aurea novantiana in cui in tanti, anche i meno meritevoli che ebbero però la prontezza di salire sul carro dei vincitori, raccolsero i frutti. Il sogno di Trip, ventisettenne, si spegne ad ottobre del 1991 in seguito ad un incidente stradale avvenuto nei pressi dello Stadio San Nicola, la “grande astronave” progettata da Renzo Piano proprio nella sua Bari. Il 1991, anno in cui vince il campionato italiano del DMC e vola alle finali londinesi avrebbe dovuto rappresentare il punto d’inizio di una nuova e promettente avventura ma il destino è infausto. Pochi mesi dopo la sua prematura dipartita, Coccoluto gli dedica “Don’t Hold Back The Feeling” di U-N-I, su Heartbeat, «un disco che avremmo dovuto realizzare insieme dopo aver isolato dei campioni a casa sua», come ricorda nel video, «ma che purtroppo ho dovuto finire da solo». U-N-I, ovvero You And I come specificato sul centrino, implicita un chiaro intento tributativo. Nel 1993 gli amici concittadini Michele Lamparelli, Renato Costarella e il citato Pasquale 33 fanno altrettanto con due dischi dei F.L.U.X. 33 sulla Marcon Music. Ulteriori dediche si rinvengono sul primo album degli Stato Brado (alter ego dei Jestofunk) e sulla compilation “Italian Rap Attack”, mentre Mister Max & Loris M incidono, nel 1998, l’esplicativo “Tribute To DJ Trip”. Proprio Mister Max, in collaborazione col negozio gestito dal padre, il Mariotti DJ Point di Porto San Giorgio, dal 1994 organizza “DJ Trip”, una gara per DJ (divisa in tre categorie, tecnico, animatore e scratch ovviamente) per tenere vivo il suo ricordo. Nel ’95 tra i vincitori della competizione marchigiana c’è Aldino Di Chiano, futuro membro dei Men In Skratch, che farà strada come DJ Aladyn. Nel corso degli anni riaffiorano altre registrazioni, come questa al DJ Trophy organizzato dal negozio Stereo Mondo e con interventi vocali del rapper Master Freez, o questa dove Tripodo è in Tam Tam Village su Raiuno, condotto da Carlo Massarini, programma in cui figurano altri nomi destinati a lasciare il segno come il citato Zappalà, Giorgio Prezioso, Lory D e un altro accomunato da un triste destino, Mauro Tannino, scomparso prematuramente in seguito ad un incidente paracadustistico nel 2000. Non sapremo mai come si sarebbe evoluta la carriera di Tripodo, se la sua discografia avrebbe raccolto risultati pari a quelli ottenuti nel turntablism o ancora più rilevanti, o se la sua attività da DJ avrebbe preso il volo come quella di tanti amici con cui condivise l’esperienza al DMC, o magari se col tempo sarebbe riuscito davvero a metter su una sorta di Talkin’ Loud italiana. Restano però i ricordi di una persona animata dalla passione, vera e genuina, e le prodezze artistiche nel «creare suoni nella forma più spettacolare possibile», come lui stesso descrisse la propria performance in quella trasmissione televisiva su Antenna Sud nel 1991. Ps: ulteriori testimonianze (audio, video, fotografiche) sono sulla tribute page su Facebook e su questo canale Mixcloud.

Distant Planet: The Six Chapters Of Simona
La “seconda vita” dell’italo disco inizia circa venti anni fa ma solo in tempi recenti nasce l’esigenza di storicizzare quel particolare e controverso fenomeno stilistico nostrano attraverso libri, ristampe viniliche sempre più serrate e un numero altrettanto congruo di documentari. Alla lista va doverosamente aggiunto “Distant Planet: The Six Chapters Of Simona”, scritto e diretto da Josh Blaaberg e frutto della collaborazione tra il luxury brand Gucci e la rivista d’arte Frieze che nel 2018 hanno celebrato il trentennale della seconda “Summer Of Love”. In meno di mezz’ora il regista londinese descrive cosa è stata l’italo disco avventurandosi, seppur mai con piglio enciclopedico, nei meandri del suo codice genetico che la ha resa unica al mondo. Per farlo conta sull’aiuto di quattro pilastri del movimento, Simona Zanini, Fred Ventura, Alberto Signorini e Franco Rago, coinvolti alla stregua di attori sul set di un film ipoteticamente girato nella New York del 1985 o giù di lì, espediente che forse intende evidenziare il perno attorno a cui gravita gran parte di quel movimento musicale, la “simulazione”, di cui si parlerà più avanti. Giunta dopo gli anni di piombo tragicamente segnati dal terrorismo e dalle Brigate Rosse, l’italo disco appare subito come la porta d’accesso di un nuovo mondo in cui divertirsi e sbirciare nel futuro attraverso i tipici stereotipi di quello che oggi ormai si guarda con prospettiva retrofuturista. Nato per colmare il vuoto lasciato nella dance dopo il declino della disco statunitense e capace di intercettare presto lo smarrimento di chi cerca ancora musica da ballo, questo genere germoglia su intenti emulativi ma qualcosa lo rende più di una banale e raffazzonata imitazione da tarocchificio asiatico. Certo, le occhiate al mondo new wave e synth pop, specialmente quello britannico che allora rappresenta l’ago della bilancia delle tendenze europee, non si contano, e ciò lo si evince dai testi dei brani (troppo spesso in un inglese maccheronico), dai nomi degli artisti e dal loro look, ma l’italo, tuttavia, riesce ad originare qualcosa di diverso. Le melodie ideate in Italia non sono né quelle della new wave dei Visage, degli Ultravox o dei Depeche Mode ma nemmeno quelle della disco à la Bee Gees o Gloria Gaynor. È vero che i compositori italiani scopiazzano a destra e a manca, talvolta con esagerata evidenza, ma è altrettanto vero che lo fanno con una creatività artigianale disarmante al punto da riuscire a concepire una forma ibrida di neo dance, prototipo seminale per le future house e techno. Per i nordici che trascorrono le vacanze estive presso la riviera romagnola nella prima metà degli anni Ottanta – come il danese Flemming Dalum, intervistato qui -, le discoteche italiane rappresentano autentici paradisi in cui trovare riparo prima di tornare alla routine quotidiana immersa nel grigiume piovoso delle loro città. In posti come L’Altro Mondo Studios o il Cellophane il tempo si ferma e per qualche ora si entra in un universo parallelo, magico, in un sogno con una colonna sonora perfetta, l’italo disco appunto. C’è un rovescio della medaglia però. L’italo disco è anche quel genere sdoganato da molti artisti “di facciata” che scaltri produttori e smaliziati discografici arruolano per le canoniche foto sulle copertine dei dischi o per portare il brano in formato live in discoteca o negli spettacoli televisivi. Aitanti giovanotti e procaci ragazze diventano una sorta di frontman e frontwoman, pur non avendo un gruppo alle spalle che suona. Offrono volto e presenza scenica perché quella è una formula commercialmente appetibile. A distanza di anni si riveleranno essere mimi esperti in lip-sync, attori, ballerini ma quasi mai cantanti o musicisti. Persino alcune biografie fatte circolare allora su rotocalchi e riviste sono il frutto della più ferrea immaginazione. Insomma, la parola-chiave di quel movimento improvvisato, che simula (a volte ironicamente e goffamente) il capitalismo d’oltremanica, che cavalca l’edonismo più sfrenato e che punta quasi tutto sull’apparenza, è “finzione”. Decine di personaggi-immagine diventano protagonisti, nonostante il loro ruolo sia solo quello di rappresentare pubblicamente quanto avviene in fumosi studi di registrazione, lì dove nascono progetti-Frankenstein che fanno ballare milioni di giovani. Realtà e finzione, dunque, si mischiano vicendevolmente e talvolta diventa difficile se non impossibile capire dove termina una cosa ed inizia l’altra. È plausibile che Blaaberg, come detto prima, abbia scelto di girare un film più che un documentario proprio per evidenziare tale aspetto, colto peraltro in modo diretto in una scena che vede dialogare in merito Ventura e la Zanini: «Questo viaggio mi sembra una presa in giro» dice il primo. E lei risponde: «Può essere doloroso pensare al passato, a volte vorrei essere stata io su quel palco, la mia voce, il mio volto, essere vista». La presenza di questi “artisti non artisti” finisce col procurare all’italo disco una equivoca nomea che alimenterà polemiche e il giudizio impietoso da parte di ambienti musicali paralleli, in primis quello rock e cantautorale. Non a caso quando il movimento collassa, intorno al 1988 sotto la spinta dell’house music che prende piede in Europa, l’italo disco diventa quasi un tabù anche se in Italia, è giusto ricordarlo, si continuerà a fare leva sulla figura del personaggio-immagine nella fase italodance (corrente che raccoglie l’eredità della stessa italo disco) ancora per buona parte dei Novanta, e a tal proposito si rimanda a questo reportage. Quello che per diversi anni è stato un sogno si trasforma in un incubo nonostante milioni di copie vendute, folle oceaniche di adolescenti in visibilio, fama e successo che paiono infiniti. Ma è solo questione di tempo affinché l’italo disco, un mix bizzarro quanto unico di felicità, euforia, tristezza e malinconia, riconquisti adepti e vigore e torni a pulsare di nuova vita, abbracciando questa volta anche chi, allora, non ebbe la forza per uscire dall’anonimato. Nel docufilm, realizzato tra Regno Unito ed Italia e a cui hanno collaborato, tra gli altri, Sasha Crnobrnja degli In Flagranti, il giornalista Piers Martin e Lorenzo Cibrario che qualche anno fa curò la mostra fotografica “Spaghetti Disco”, passano in rassegna tante copertine, spezzoni di vecchie registrazioni video e svariati brani ma per fortuna non le solite hit da balera trite e ritrite che hanno ingiustamente relegato e banalmente sintetizzato il movimento italo al successo nazionalpopolare che da un lato lo elevava alla massima potenza ma dall’altro lo svuotava dai contenuti primari con cui il genere, oggetto di una rivalutazione ormai su scala planetaria, nasce intorno al 1982.

High Energy – Una Nuova Forma Di Disco Music
Mandato in onda recentemente da Sky Arte, “High Energy”, scritto e diretto da Olivier Monssens col supporto di Universal Music France e diversi ospiti illustri tra cui Dan Lacksman dei Telex e Bobby Viteritti, DJ del Trocadero Transfer a San Francisco, traccia le coordinate del genere musicale che tiene banco per circa un decennio, fungendo da raccordo tra la musica da discoteca degli anni Settanta e quella dei Novanta. La narrazione parte dal declino della disco con l’immancabile Disco Demolition Night organizzata da Steve Dahl al Comiskey Park di Chicago il 12 luglio del 1979. Il colpo inferto ai danni di quel genere e a tutto il movimento che gravita intorno è epocale. A favorire la campagna anti-disco spronata dallo slogan “disco sucks!” è la dilagante banalizzazione di quella musica alimentata dall’iper sfruttamento commerciale, così come rimarca nel documentario Dwayne Holt, DJ dello Studio 54 di New York nei primi anni Ottanta, quando il locale è diretto da Mark Fleischman. Tuttavia nelle comunità omosessuali di New York e San Francisco la disco non muore in maniera definitiva. Sparisce dal mainstream e si aggiorna, trasformandosi nella forma estetica ma preservando il proprio DNA. Nasce così l’hi-nrg, una sorta di neo disco in cui le pulsazioni ritmiche aumentano ed incorniciano una serie di nuovi suoni sintetici ottenuti con sintetizzatori e batterie elettroniche che sostituiscono le tradizionali partiture eseguite da musicisti ed orchestre analogamente a quanto avviene, dall’altro lato dell’Atlantico, col rock e la new wave. Questa volta l’Europa copre un ruolo più centrale e determinante. Ad evidenziarlo è un altro ospite coinvolto da Monssens, il tedesco Manfred Alois Segieth che lasciandosi alle spalle una serie di incisioni schlager firmate Tess Teiges, si reinventa aderendo all’hi-nrg come Fancy. Nato a Monaco, il cantante individua nella sequenza di basso semicromatico usato da Giorgio Moroder in “I Feel Love” di Donna Summer (ma pure da Nico Fidenco nella decisamente meno nota “Eternal Anguish”, dalla colonna sonora di “Emanuelle Perché Violenza Alle Donne?”, ’77) l’elemento prodromico su cui si basa la spinta propulsiva della musica hi-nrg, un genere esuberante, privo di inibizioni nonché traino per l’emancipazione definitiva degli omosessuali. Come ben evidenziato dal regista, il ribollire creativo dell’hi-nrg è riconducibile a più personaggi dislocati in diverse parti del globo. Se l’italiano Moroder e il francese (di origine italiana) Cerrone offrono campali spunti già nel 1977 nei rispettivi album “From Here To Eternity” e “Supernature”, altri ne decodificheranno gli intenti sviluppandone altrettanto seminali varianti. È il caso di Patrick Cowley che a San Francisco getta le basi di quella che sarebbe diventata hi-nrg partendo, per gioco, con un remix amatoriale di “I Feel Love”, ma non l’arcinoto lungo quindici minuti bensì quello recuperato dalla Dark Entries e pubblicato nell’autunno del 2020 in “Some Funkettes” di cui, per ovvie ragioni, non si parla nel film. Il sound di Cowley è decisivo: pezzi come “Menergy”, “Megatron Man”, “Tech-No-Logical World” e “Do Ya Wanna Funk”, quest’ultimo col featuring di Sylvester, tracciano le linee direttive di un nuovo quadro stilistico che raccoglie stimolanti idee dal passato e le proietta nel futuro mediante suoni dalle tinte più scintillanti e ritmiche metronomiche. La “disco meccanizzata” inizia presto ad espandere il proprio raggio d’azione. Nel 1980 a Montreal, in Canada, i Lime (i coniugi Denis e Denyse Lepage) incidono “Your Love”, singolo-traino (a cui è ispirata “Sexy Rhythm” di Mario Più, 1998) per la loro sfolgorante carriera che andrà avanti per buona parte del decennio con incredibili risultati, come spiega la stessa Denyse nel filmato. Quasi parallelamente a New York si fa notare un altro compositore di origine italiana, Bobby Orlando meglio noto come Bobby O. Iperproduttivo al punto da essere definito “il McDonald’s dell’industria musicale”, produce decine di dischi con un numero altrettanto cospicuo di pseudonimi ed avvalendosi di personaggi a cui abbinare, di volta in volta, voce ed immagine pubblica. Ad evergreen imitatissimi come “I’m So Hot For You” (da cui germoglia “Da Hype” di Junior Jack) e “She Has A Way” si sommano, tra i tanti, “Fantasy” di Hotline e soprattutto le hit del trio The Flirts (“Passion”, “Danger”, “Helpless”) e della drag queen Divine (“Native Love (Step By Step)”, “Shoot Your Shot”, “Shake It Up”, “Love Reaction”). È sua pure la produzione dei primi singoli dei Pet Shop Boys (“West End Girls”, “One More Chance”, “West End – Sunglasses”). Purtroppo la prolificità orlandiana resta inversamente proporzionale alla disponibilità di concedersi al pubblico e alla stampa. Sarebbe stato fantastico vederlo tra i guest di questo documentario. Nell’arco di un biennio appena l’hi-nrg si trasforma in un tornado che coinvolge il mondo intero. Nel 1983 a Londra il DJ Ian Levine e il musicista Fiachra Trench producono “So Many Men, So Little Time” di Miquel Brown, una hit da due milioni di copie a cui l’anno dopo si aggiunge l’anthemico “High Energy” di Evelyn Thomas, un altro successo planetario che, come lo stesso Levine rivela nel video, è ispirato da “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood prodotto da Trevor Horn e da uno stralcio di “In The Navy” dei Village People. Ancora una volta il crocevia di influenze e la patchwork di stili filtrati attraverso diverse sensibilità riescono ad originare cose nuove. Da lì a breve il clima euforico dell’hi-nrg però viene minato da una seria minaccia e la festa diventa un incubo. L’AIDS, descritto inizialmente come “pandemia scoppiata tra gli omosessuali” inizia a mietere vittime. Tra i primi a soccombere c’è Cowley, morto poco più che trentenne a novembre del 1982. Medesimo destino infausto toccherà, anni dopo, pure all’amico Sylvester (1988) e a tanti altri eroi della musica, da Klaus Nomi a David Cole dei C+C Music Factory, da Freddie Mercury a Dan Hartman passando per Ofra Haza, Fela Kuti, Jacques Morali, Arthur Russell, Gil Scott-Heron e Tony De Vit. Le cose comunque vanno avanti e da Londra, dopo Ian Levine (artefice con Hans Zimmer di “On The House” di Midnight Sunrise, uno dei primi brani house prodotti oltremanica come raccontiamo nel dettaglio qui), giunge pure la PWL Records, l’etichetta di Pete Waterman che, insieme ai soci Mike Stock e Matt Aitken mette su un’autentica fabbrica di successi. Stilare una lista esaustiva di tutte le loro produzioni è impresa più che ardua ma basti pensare a “Showing Out” di Mel & Kim, “Never Gonna Give You Up” di Rick Astley, “I Should Be So Lucky” di Kylie Minogue, “Venus” delle Bananarama o “This Time I Know It’s For Real” di Donna Summer per farsi un’idea, anche approssimativa, della mole di lavoro svolto dal team britannico. Menzione a parte per “You Spin Me Round (Like A Record)” dei Dead Or Alive, band trascinata dal carismatico Pete Burns che conquista il grande pubblico con un look eccentrico ed una presenza scenica ambigua, oltraggiosa, androgina, paragonabile a quella di un’altra diva della disco, Amanda Lear. La PWL Records diventa una cassa di risonanza per l’hi-nrg che si mischia al synth pop e all’eurodisco diventando pura pop music per masse oceaniche di tutto il mondo e non più solo per piccole comunità LGBT come in principio. Il mercato è invaso da migliaia di dischi, da “(I’ll Never Be) Maria Magdalena” di Sandra, prodotta dal marito, il rumeno Michael Cretu futuro artefice degli Enigma, a “You’re My Heart, You’re My Soul” dei Modern Talking, da “The Only Way Is Up” di Yazz a “Slice Me Nice” e “Chinese Eyes” del citato Fancy ma se ne potrebbero citare a iosa come “Living On Video” dei Trans-X (pure loro da Montreal), “Face To Face – Heart To Heart” dei tedeschi Twins o “Get Up Action” dei Digital Emotion dai Paesi Bassi. Opportuno chiarimento di Monssens riguarda l’italo disco, genere che corre su un binario parallelo e complementare a quello dell’hi-nrg, contraddistinto da una più spiccata enfasi di voci e melodie. Indicato come punto di partenza è “I Wanna Be Your Lover” dei fratelli Michelangelo e Carmelo La Bionda, pubblicato nel 1980 ed anticipato l’anno prima da un album curiosamente intitolato “High Energy”. Sarebbe un errore però annetterlo a questa indagine giacché legato a doppio filo ancora alla funk/disco. L’italo disco partorisce una serie infinita di musiche ed artisti. Tra i menzionati nel documentario Ryan Paris, Raf, i Righeira (prodotti proprio dai La Bionda che rivelano come “Vamos A La Playa” nasca in un’atmosfera quasi drammatica poi opportunamente traslata in chiave felice) ed Ivana Spagna, pure lei disposta a svelare qualche aneddoto sui propri esordi, incluso il featuring in incognito per le Fun Fun di cui si parla qui. In un’ideale staffetta tra generi e miscugli ispirativi (in cui rientra pure la Francia ma con una posizione ridimensionata rispetto agli exploit di memoria disco, con “Where Is My Man” di Eartha Kitt e “Don Quichotte” dei Magazine 60), l’hi-nrg è fagocitata dal suo stesso successo, annaspa tra migliaia di cloni e finisce con l’arenarsi sulle rive della monotonia, esattamente come avviene alla disco music un decennio prima. I tempi sono ormai maturi per nuovi generi che la scalzeranno e ne prenderanno il posto (new beat, house, techno, acid), tutti accomunati da un radicale sconvolgimento sul piano compositivo sottolineato in chiusura da Waterman (contestualmente a qualche dichiarazione – comprensibilissima – da passatista nostalgico), ossia il modello canzone spodestato dalla griglia del ritmo. Le “canzoni”, così, mutano in “tracce”. Una prima fiammata di ritorno si registra ad inizio anni Novanta quando hi-nrg diventa un termine-ombrello generico usato per indicare il fiume di produzioni basate su retaggi italo disco velocizzati ed incrociati all’eurobeat che varie etichette nostrane come Time Records, S.A.I.F.A.M., Delta o Hi NRG Attack destinano espressamente all’export nel Sol Levante, Giappone in primis. Un rilancio più fedele alle matrici originali avviene invece nell’ambito di un processo musicale di riavvolgimento nostalgico partito con l’esplosione dell’electroclash, tra la fine dei Novanta e i primi Duemila, e non ancora terminato. Ps: per un ulteriore approfondimento si rimanda a questa lunga collection di interviste risalente al 2002 che aggiunge altri dettagli alla già ricca disquisizione di Monssens.

Italo Disco. Il Suono Scintillante Degli Anni 80
Diretto da Alessandro Melazzini, italiano trapiantato in Baviera dalla fine degli anni Novanta e fondatore della casa di produzione Alpenway, “Italo Disco. Il Suono Scintillante Degli Anni 80” è l’ennesimo dei documentari che si pone l’obiettivo di narrare l’epopea dell’italo disco, genere contenitore creato in Italia nei primi anni Ottanta e, da oltre un ventennio a questa parte, oggetto di uno sfrenato revivalismo che sembra non conoscere fine. Le intenzioni del regista sono, come indicato nella presentazione ufficiale, «raccontare la nascita e lo sviluppo di un genere musicale dalle molteplici anime» tuttavia, preso da solo, il suo lavoro non riesce comprensibilmente a soddisfare le esigenze narrative di una fenomenologia tanto complessa ed articolata come quella dell’italo disco, tema che probabilmente meriterebbe una serie (sul modello di “Comics: La Storia Segreta”) o comunque più spazio per essere descritto nella globalità ed interezza. Il rischio che si corre, avendo a disposizione meno di sessanta minuti come in questo caso, è sviscerare soltanto una parte dell’immenso serbatoio musicale italiano di quell’epoca, ingiustamente ricordato dai più solo per le hit nazionalpopolari da juke-box nelle località balneari che, è bene sottolinearlo, non sono affatto quelle che hanno alimentato la rinascita e la creazione di una nuova generazione di adepti ed amatori. Oggi, più che raccontare per l’ennesima volta la genesi di un filone sorto come risposta alla post disco statunitense e dai tratti ammiccanti alla new wave e al synth pop nordeuropei, occorrerebbe aprire e sviluppare nuovi dibattiti che possano generare chiavi di lettura differenti e soprattutto meno stereotipate. È vero che l’italo disco è stata la colonna sonora delle maxi discoteche della riviera adriatica, di pellicole come “Sapore Di Mare”, “Vacanze Di Natale” e “Rimini Rimini”, del boom economico, del berlusconismo in ascesa e del cecchettismo in piena fase espansiva, ma è altrettanto vero che intrecciare per la milionesima volta questi concetti non aiuta ad uscire dai luoghi comuni per cui l’Italia è riconosciuta oltre le Alpi anzi, probabilmente ne rinsalda ulteriormente i legami. Spiace quindi vedere liquidare l’italo disco come soundtrack di solo edonismo privo di personalità, concetto che peraltro continua a filtrare ancora adesso da tanti video che parodiano quegli anni (si veda “Riccione” dei Thegiornalisti, forse ispirata dalla dimenticata “On And On (Fears Keep On)” dei Decadance, con le Invicta scarabocchiate con l’Uniposca, i walkman, i calciobalilla, i jukebox in spiaggia, le bici Atala e i Ciao Piaggio). Fortunatamente c’è chi nel video, come DJ Hell, Mathias Modica, Flemming Dalum, Claudio Casalini e Daniele Baldelli, evidenzia il doppio volto dell’italo disco, quella bivalenza che fu il vero punto di forza ed oggi determinante per afferrarne in pieno la portata specialmente in riferimento all’influsso che ebbe su musiche dance nate negli anni a seguire, in primis la house di Chicago e la techno di Detroit. Altrettanto apprezzate le prese di posizione di Modica ed Hell sul ruolo centrale dell’Italia nella nascita della club culture e dell’arte del DJing, attestati di stima importanti che rivalutano il background nostrano affetto da tempo immemore dalla nauseante esterofilia che ha puntualmente minimizzato meriti, successi e scoperte artistiche. Già perché l’italo disco è fatta anche da ardite costruzioni ritmiche, innovative impalcature armonico-melodiche, trascinanti linee di basso. Una musica inizialmente sognatrice ed anticipatrice messa a punto da audaci musicisti in cui pulsava un cuore elettronico e che guardava al futuro, giocando con le tradizionali visioni da romanzo asimoviano tradotte attraverso il magma di suoni analogici dei sintetizzatori, i geometrismi ritmici delle batterie elettroniche e le voci vocoderizzate che, come qualcuno ha svelato in altre occasioni, servivano anche a camuffare le evidenti tare linguistiche anglofone. Del resto l’italo disco nasce in forma amatoriale e senza particolari velleità, in un ping pong ispiratore tra vecchio e nuovo Continente, ed acquisisce uno status solo a distanza di decenni quando ci si accorge che il suo minimalismo cheap è un carattere squisitamente identitario e non un difetto come credevano gli irriducibili del pop e del rock. Nel documentario non mancano cose dette e ridette che sfiorano la banalità seppur travestite da ponderate elucubrazioni sociologiche, e pure qualche imperdonabile svista, su tutte quella di citare le Flirts di Bobby Orlando come «il sex appeal dell’italo disco». Immancabile una (seppur breve) parentesi sul fenomeno dei ghost singer, quella divisione tra voce ed immagine (di cui parliamo qui) che ha retto per buona parte degli anni Novanta e che oggi continua ad infiammare le discussioni tra i fan sul web. Il giudizio sul lavoro di Melazzini alla fine dipende dalle aspettative che si hanno: per chi è già avvezzo alla materia e magari negli anni passati ha visto “Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance” di Pierpaolo De Iulis e “Italo Disco Legacy” di Pietro Anton, recensiti su questa stessa pagina, alcune premesse e promesse della sinossi risultano tradite visto che di brani cult meno conosciuti dal grande pubblico se ne contano appena una manciata, e il coinvolgimento di artisti come Sabrina Salerno, Pierluigi Giombini, Johnson Righeira e i fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda lo testimonia. Pure dell’approfondita ricerca d’archivio non si scorge granché e si finisce con l’avere l’impressione che non si sia davvero capito il suono di quell’epoca che continua ad essere raccontato secondo una percezione unilaterale legata all’Ita(g)lia spensierata dei soliti (e “scintillanti”) anni Ottanta, quella stessa Ita(g)lia che oggi discute se fosse più prorompente la britannica Samantha Fox o la nostra Sabrina.


(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata