Enrico Mantini: lascio la house e il DJing per nuove sfide

Ingegnere del suono, DJ e compositore: la figura artistica di Enrico Mantini ruota intorno a questi tre ruoli. Il debutto discografico ad appena diciott’anni, nel 1990, quasi nell’anonimato e nel solco della deep house strumentale, un filone emerso dopo il boom commerciale dell’italo house pianistica apparentemente privo di appeal internazionale e ai tempi, pare, incapace di reggere il confronto col suono garage di blasonate realtà discografiche di Londra o New York. Paradossalmente, a distanza di un venticinquennio circa, sono stati proprio influenti DJ esteri a istigarne il ripescaggio e la conseguente rivalutazione che ha condotto a una sorta di riscatto. Mantini, in quella prima fase europeizzante della house music, è un autentico fiume in piena. Incide decine di tracce finite in altrettante pubblicazioni marchiate prima con pseudonimi e poi con le coordinate anagrafiche. Entrare nella scuderia artistica di un’etichetta cardine di quel periodo, la napoletana UMM fondata e diretta da Angelo Tardio, lo aiuta a farsi notare oltre i confini e ad accrescere la reputazione da DJ. Alla fine degli anni Novanta però il sogno sembra dissolversi, l’eclissi di tante stelle lo spingono a reinventarsi e percorrere itinerari differenti. Il proliferare di nuovi formati liquidi e il ritorno in auge del disco in vinile lo convinceranno a tornare sui suoi passi nei primi anni Dieci, complice pure l’interesse nei confronti della sua musica avanzato da etichette italiane e straniere (Traxx Underground, 4 Lux, Wilson Records, Half Baked, Gua Limited, Detroit Side, Assemble Music, giusto per citarne alcune). Mantini si proietta nel futuro senza nascondere il passato anzi, è proprio quest’ultimo a diventare il motore capace di alimentare con rinnovata energia la sua carriera. Passa quasi un decennio, tra ristampe chieste a gran voce dalle nuove generazioni e inediti, ma ora per l’artista pescarese è giunto di nuovo il tempo di voltare (definitivamente?) pagina e iniziare nuove avventure.


Inizi a praticare il DJing nel 1987, anno in cui comincia il percorso di europeizzazione della house music. Da quali presupposti partiva un giovane come te che voleva cimentarsi in quel tipo di attività artistica? Quali sostanziali differenze correvano tra il DJ radiofonico e quello da discoteca?
Iniziai dapprima proprio come DJ radiofonico, un percorso in qualche modo più accessibile nella mia città, Pescara, visto il grande numero di radio libere e la limitata presenza di club. Per me il presupposto è sempre stato legato alla viscerale passione per la musica, di qualsiasi genere. All’età di dieci anni, piuttosto che scendere in strada o andare al parco per giocare coi miei coetanei, preferivo trascorrere i pomeriggi ad ascoltare la radio registrando su nastro Super 8 le canzoni che più mi piacevano. Per il pubblico, il DJ radiofonico non aveva lo stesso appeal di quello che lavorava in discoteca ma non mi importava affatto, da ragazzino ero molto introverso e volevo solamente esprimere me stesso e i miei stati d’animo attraverso la musica quindi era di vitale importanza che potessi farlo anche al di fuori delle mura domestiche.

Sussisteva un forte tessuto connettivo tra la dance degli anni Settanta e quella che poi fu riformulata a Chicago negli Ottanta? In buona sostanza la house fu, come più di qualcuno ha affermato nel corso del tempo, il genere con cui la disco si prese la rivincita?
L’evoluzione della disco in house music fu innescata dall’avvento della tecnologia digitale, basti pensare a brani come “How Far I Go” di Peter Black per capire quanto sottile e labile fosse il confine da valicare. In poco tempo i DJ passarono da realizzare semplici edit di brani disco a comporre complessi remix da suonare nei loro set in cui la componente elettronica, derivata in primis da sintetizzatori e drum machine, ebbe sempre più peso. Agli inizi degli anni Ottanta erano già molti a comporre brani esclusivamente elettronici poi battezzati con il nome house music. Considerato l’impatto che la musica house ebbe negli anni a seguire, la vastità del fenomeno sociale correlato a essa e le persone chiave che ne resero possibile la diffusione, trovo sia corretto affermare che fu esattamente questo il modo in cui la disco music, relegata perlopiù alla comunità afroamericana, si prese la rivincita su scala mondiale.

Come ricordi i primi anni di diffusione in Italia della house music?
Quando ascoltai i primi brani di musica house fu subito chiaro che l’elettronica sarebbe stata la via con cui, anche io, avrei avuto modo di comporre e portare a termine un brano in totale autonomia. Prima iniziai a introdurre il campionatore nei miei DJ set, poi la Roland TR-909 arrivando a suonare di tanto in tanto, da cassetta, tracce interamente composte da me. Il pubblico salutò con entusiasmo la novità, forse perché incuriosito dai DJ alle prese con strumenti nuovi (campionatori, batterie elettroniche) sino a quel momento relegati quasi esclusivamente allo studio di registrazione, ma un ruolo la ricoprì anche la ripetitività degli elementi contenuti in ogni brano house che evocava ritmi ancestrali. Reperire i primi dischi di house music però non fu semplice, almeno fino alla seconda metà degli anni Ottanta, momento in cui cominciarono a essere importati in discrete quantità essendo iniziata la diffusione radiofonica.

Alla fine degli anni Ottanta inizi a cimentarti nelle prime prove da produttore: ci fu qualcosa o qualcuno a spingerti verso l’attività compositiva in studio di registrazione?
A spronarmi nel trovare una strada per esprimermi fu la mia passione, insieme a tenacia e determinazione che mi aiutarono a raggiungere il risultato. Da bambino ero molto attratto dalla stanza in cui mio padre custodiva l’impianto hi-fi e le luci psichedeliche. Lui non era un frequentatore di discoteche, aveva nozioni musicali e suonava la tastiera ma in quanto a gusti si lasciava trasportare dalle mode. Correvano i tardi anni Settanta e alcuni brani disco funk popolavano le classifiche. Ogni qualvolta lui mettesse un disco, mi precipitavo nella stanza a guardare l’esplosione di colori e assorbivo la magia di quei suoni che mi sono lentamente entrati nell’anima al punto che, quando iniziai a comporre, involontariamente e in modo del tutto spontaneo, approdai spesso a soluzioni musicali tipiche di quel genere. Durante l’adolescenza invece strimpellavo il basso elettrico in una band new wave ma era complicato mettere insieme le idee di più persone e soprattutto ottenere un contratto discografico. Lo spiraglio offerto dall’elettronica, anche in considerazione del fatto che mi esibissi come DJ, fu determinante.

707 Boyz
Nel 1990, con l’EP firmato 707 Boyz, si apre la carriera discografica di Enrico Mantini

La tua prima produzione fu siglata 707 Boyz, pseudonimo che ti vide in azione insieme a Fabrizio Cini. In quell’occasione chi fece cosa?
Nel 1989 il mio setup era composto da un sintetizzatore Roland D-5, un campionatore Akai S950 e un sequencer Kawai Q-80. Completai i primi due brani a casa, “Freedom” e “Emotions”, testandoli in discoteca: funzionavano ma le proporzioni tra i volumi necessitavano di essere riviste e al tempo non avevo ancora competenze come sound engineer così, tramite, un amico, entrai in contatto con lo studio di registrazione in cui lavorava Fabrizio Cini, il Bess Studio a Montesilvano. La sua preparazione in termini di fonia era notevole ma soprattutto era un validissimo chitarrista e tastierista. Ci mettemmo subito a lavorare insieme su nuovi brani creando “Track F..K” e “Prototype” coi quali completammo l’EP. In studio a disposizione avevamo un’ampia scelta di sintetizzatori e anche tre batterie elettroniche, nello specifico una Roland R-8, una Roland TR-707 e una Yamaha RX15. Quando dovemmo scegliere un nome di fantasia col quale proporre i brani optammo per 707 Boyz visto che la Roland TR-707 era l’unica tra quelle drum machine di cui non avevamo capito a fondo il funzionamento della sezione di sequencing. Non approfondimmo mai sino al momento in cui in studio arrivò una TR-909.

A pubblicare il disco, oggi ricercato sul mercato dell’usato forse grazie al recente inserimento di “Emotions” in uno dei volumi della raccolta “Welcome To Paradise”, è la DJ Tendance Records la cui esistenza è circoscritta proprio a quell’uscita. Perché un’apparizione episodica?
Una volta completati i quattro brani, iniziammo a contattare varie etichette con l’auspicio di poter firmare presto un contratto discografico. Col nastro a bobina da 1/4 di pollice sotto il braccio, cominciammo il pellegrinaggio a Milano per fare ascoltare i master. Bussammo alla Discomagic di Severo Lombardoni, alla New Music International di Pippo Landro e alla Non Stop dove ci imbattemmo in Fabrizio Gatto (intervistato qui, nda). La strada fu lunga, tortuosa e tutta in salita, la Non Stop ci “rimbalzava” sistematicamente accampando futili scuse. Purtroppo non conoscevamo nessuno nell’ambiente discografico e la situazione era in stallo. A quel punto il compianto Nino D’Angelo, titolare del Bess Studio che aveva già finanziato la produzione dei brani e tutti i viaggi a Milano, alla luce delle spese già sostenute sino a quel momento decise che sarebbe stato meglio, e soprattutto più economico, che il disco lo avessimo pubblicato noi. Non avendo un marchio col quale proporre l’EP, creammo per l’occasione la DJ Tendance Records. Così, con mille copie nel bagagliaio, tornammo alla Non Stop chiedendo solo di distribuire il prodotto. Appena uscito, il disco suscitò l’interesse di Stefano Secchi che inserì “Freedom” nella classifica di Radio 105. Finalmente potevo considerarmi un produttore musicale.

Credo che in Italia la mancanza di voci inglesi madrelingua abbia limitato lo sviluppo della house in direzione garage ma nel contempo, per i produttori nostrani, quella tara rappresentò uno stimolo per elaborare intriganti variazioni strumentali. Concordi con questa interpretazione?
Sono d’accordo con quanto affermi. Il fatto di optare per forme strumentali fu dettato soprattutto dalla mancanza di voci e dall’assenza di budget. Sino a quando un pezzo restava strumentale, era fattibile portare avanti composizione, arrangiamento e missaggio interamente a casa, con spese tutto sommato contenute. Con un investimento pari a qualche decina di milioni di lire si poteva disporre di un proprio studio di registrazione. Per me, nello specifico, avere uno studio personale mi consentì di essere artisticamente molto prolifico e di tradurre di continuo le idee in musica. La scelta dei suoni, nel mio caso, non dipese tanto dall’hardware utilizzato (gran parte li realizzavo all’interno del campionatore) bensì dalla sperimentazione, influenzata dalla fascinazione esercitata dal sound americano.

Smooth Sounds
Il logo della Smooth Sounds

Nel 1992 è tempo dei tuoi primi dischi firmati col nome anagrafico, “Smooth Sound Start One” e “The Maze”, entrambi su Smooth Sounds, etichetta affiliata alla MBG International Records di Giorgio Canepa. Perché il marchio non proseguì il cammino dopo quella doppietta?
Verso la fine del 1991, tramite un amico, conobbi Giorgio Canepa a Rimini e gli feci ascoltare quattro brani che avevo composto con Arnaldo Guido. Gli piacquero molto e decise di pubblicarli sulla sua etichetta, la MBG International Records, in “Brainstorm”, il primo EP di Deep Choice a cui poco tempo dopo seguì “Time + Space” di Nuclear Child. Con quel disco nacque la nostra collaborazione e, vista la mia creatività in continuo fermento che mi permetteva di comporre quotidianamente nuovi brani, decidemmo di fondare insieme una nuova etichetta discografica attraverso la quale avrei potuto pubblicare anche cose un po’ diverse rispetto a quelle che lui convogliava solitamente su MBG International Records. Nacque così la Smooth Sounds, accompagnata da un’idea grafica di Marco Fioritoni alias DJ Dsastro che con me compose parte dei brani confluiti nelle due pubblicazioni. Ero particolarmente stimolato dalle collaborazioni artistiche che mi consentivano di confrontarmi con altri e spaziare nel suono rispetto a quella che era la mia personale visione di musica. Purtroppo il sodalizio con Canepa non durò a lungo a causa di divergenze sul piano economico e così, nell’arco di un paio di anni, il progetto Smooth Sounds venne accantonato.

Uneasy EP
“Uneasy EP” inaugura il catalogo della Groove Sense Records (1993)

Come ricordi invece la Groove Sense Records, partita nel 1993 con “Uneasy EP” e distribuita dalla pugliese Marcon Music? Cosa significava, ai tempi, mandare avanti un’etichetta discografica di quel tipo?
Avviai la Groove Sense Records con Pietro De Rosa, sulla base dell’esperienza fatta con Smooth Sounds. In principio fummo noi a finanziare la stampa dei dischi, con la Flying Records che ne curava la distribuzione. Dovevamo anche occuparci della promozione quindi inviavamo comunicati stampa via fax alle varie testate giornalistiche di settore e ci sinceravamo di persona o al telefono che venissero prese in considerazione. Il lavoro da svolgere era davvero tanto se si considera che io e Pietro eravamo anche artisti di ogni singola pubblicazione. A partire dalla seconda uscita firmammo un fortunato, e per l’epoca pionieristico, contratto di produzione e distribuzione (P&D) con la Marcon Music tramite il quale riuscimmo a concentrarci maggiormente sull’aspetto artistico sgravandoci dagli impegni meramente gestionali, continuando comunque a curare di persona la promozione dell’etichetta. Il sodalizio con la Marcon Music andò avanti sino al 1995, anno in cui l’industria legata al disco in vinile cominciò a rivelare i primi segni di cedimento in Italia mietendo le prime “vittime” tra cui la stessa Marcon Music finita in bancarotta. Decidemmo quindi di stoppare momentaneamente l’etichetta nell’attesa (e speranza) che le sorti del mercato mutassero in meglio.

Il 1992 è l’anno in cui, col primo volume di Transitive Elements, parte la collaborazione con la napoletana UMM. Come rammenti la sinergia stretta con l’etichetta ai tempi guidata artisticamente da Angelo Tardio e a cui abbiamo dedicato qui un’ampia monografia?
Arrivai a UMM tramite Ivan Iacobucci con il quale avevo co-prodotto “All Night” pubblicato per l’appunto dall’etichetta campana nel 1991. Al tempo ero attivo anche come DJ e beatmaker nell’hip hop italiano con artisti come Lou X e C.U.B.A. Cabbal. Proprio attraverso quest’ultimo un giorno mi ritrovai nella sede della Flying Records con l’intento di fare ascoltare delle demo di musica rap. Con me avevo portato anche un DAT pieno di house music così chiesi a chi avrei potuto sottoporre quel tipo di materiale. Mi accompagnarono nell’ufficio di Angelo Tardio che, dopo aver speso un’ora buona a sentire alcuni dei miei pezzi, mi chiese di lasciargli quel DAT perché c’erano troppe cose che gli piacevano e le avrebbe volute ascoltare con calma. Nei giorni successivi quindi scelse sei tracce che confluirono nel primo volume di Transitive Elements (co-prodotto con Argentino Mazzarulli, nda). Da quel momento, in completa sinergia artistica, cominciai a mandargli di continuo brani e tra di noi si instaurò un rapporto di rispetto e fiducia reciproca, al punto che tutta la musica che sottoponevo alla sua attenzione venisse puntualmente stampata su UMM. Vista la quantità di brani, optammo per più alias al fine di evitare di inflazionare le uscite e la stessa etichetta e fu allora che decisi di debuttare col mio nome di battesimo.

In studio hai alternato avventure soliste a progetti tandem, come Mood 2 Create, High Fly, The White Fluid o Stinkingmen. Quali sono i pro di lavorare a quattro mani?
Come anticipavo prima, il maggior vantaggio di collaborare in studio con altre persone è poter varcare i propri confini musicali e aprirsi a nuovi orizzonti compositivi e stilistici. È fondamentale quando si è particolarmente attivi e non si vuole restare intrappolati nelle proprie idee.

È opinione comune pensare agli anni Novanta come il decennio creativamente più prolifico per la dance elettronica nelle sue innumerevoli declinazioni. Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando a quegli anni?
Sono tantissimi ma senza dubbio a lasciare un ricordo indelebile in me sono stati “Waterfalls (3 A.M. Mix)” di After Hours alias Andrew Richardson, una delle tracce deep house più belle di sempre, poi “Stuck In The Middle (Mo’ Deep For Sticky Stewart Mix)” di DJ Duke, col suo elegante e ipnotico riff di organo, e “Music Harmony And Rhythm”, fortunata collaborazione tra Giorgio Canepa e Ricky Montanari siglata con lo pseudonimo Optik, un brano del 1991 che, dopo più di trent’anni, mi fa ancora venire la pelle d’oca.

dalla sessione di What U Want nel 1994
Due scatti che immortalano Enrico Mantini in studio durante la sessione di registrazione di “What U Want”, pubblicato su UMM nel 1994

Lasciandoti alle spalle altre produzioni sulla romana Lemon Records e sulla barese Marcon Music, nella seconda metà degli anni Novanta viri verso la drum n bass col progetto The Fast Runna: forse la house ti aveva stancato e sentisti la necessità di esplorare nuovi territori?
Nel 1996 mi trasferii a Londra per alcuni mesi e lì scoprii il fenomeno della drum n bass. Ne rimasi letteralmente rapito al punto che, al mio rientro in Italia, iniziai a comporre tracce in quel genere e fare saltuariamente serate come DJ proponendo solo drum n bass. Il venir meno di realtà come Marcon Music prima e Flying Records poi, unitamente all’avvento della disco house che non gradivo in modo particolare, mi spinsero a mettere temporaneamente da parte la house per dedicarmi a qualcosa che trovavo più stimolante. Col progetto The Fast Runna entrai in contatto con vari musicisti e gettai le basi per avventure più entusiasmanti e gratificanti. Realizzammo un intero album e lo mandammo alla Irma Records. Umbi Damiani propose di inserire alcuni brani in delle loro compilation jungle per poi pubblicare l’intero LP più avanti, cosa che però non avvenne mai visto che in Italia il fenomeno drum n bass si consumò troppo rapidamente.

Le funkeggianti “Find It/Vibes In Bahia” di Riviera Kids, che realizzi con Alessandro Marini nel 2000, sembrano calare il sipario: tornerai a incidere nuovi brani a tuo nome parecchi anni più tardi, nel 2008, con la Sweetleaf Recordings che fondi e tieni in vita sino al 2012 con l’intenzione di sondare il mercato delle pubblicazioni digitali che, nel frattempo, prendono piede in modo definitivo. Che idea ti sei fatto del mercato (o presunto tale) legato ai download?
Dal 1997 al 2000 lavorai in giro per l’Italia nel ruolo di fonico per artisti come Taglia 42, Biagio Antonacci, Ian Paice e Issac Delgado, mettendo a frutto il diploma di sound engineer conseguito nel 1993. Un giorno incontrai Alessandro Marini, amico di adolescenza, e per gioco provammo a buttare giù le idee per due brani. Era il periodo in cui tornai a dedicarmi allo studio del basso elettrico e infatti in quei pezzi l’elemento portante era proprio quello. Il caso volle che, una volta fatte girare le demo, saltasse nuovamente fuori Fabrizio Gatto che si offrì di pubblicarle su una delle tante etichette del gruppo Dancework, la Clubnoize Records. Il disco iniziò a circolare suscitando molto interesse e guadagnandosi presto il supporto di diversi DJ di rilievo, tra cui David Morales, che di fatto ne fecero un piccolo club anthem negli Stati Uniti. Correva il 2000 e la resa di quella produzione mi convinse a tornare a occuparmi di house music per le etichette britanniche Dirty Blue Records e Rated-X e per l’italiana Sound Division, nascosto dietro vari pseudonimi. Pubblicai pure un paio di bootleg in white label di cui uno di una famosa hit di Sterling Void. Non mi sono mai fermato del tutto insomma e nel 2005, dopo aver conosciuto Davidson Ospina, Hector Romero e Keith Thompson, abbracciai il filone soulful e iniziai a pubblicare in digitale per etichette statunitensi, sondando quello che poi sarebbe diventato lo standard della fruizione discografica. Il periodo che va dal 2005 al 2008 fu determinante per l’acquisizione delle capacità che mi consentono tuttora di gestire con successo la distribuzione in formato digitale. Durante quel triennio ero spesso negli Stati Uniti a esibirmi come DJ ma soprattutto per imparare il modello di business grazie a personaggi chiave come Kevin Green che dalla Gossip Records passò a lavorare in Beatport. Il mercato del download è decollato in modo definitivo nel 2010, supportato da realtà parallele come Bandcamp. La Sweetleaf Recordings venne fondata nel 2008 unitamente a uno studio di registrazione con l’intento di abbracciare il filone minimale che mi vide collaborare nuovamente con Ivan Iacobucci (di cui parliamo qui, nda), ai tempi impegnato pure lui con un’etichetta digitale, la Smoke Joke Records. Negli ultimi anni assistiamo a un’ulteriore virata del mercato verso lo streaming che sta soppiantando l’ormai obsoleto download. L’alternarsi delle tecnologie ha reso sempre più facile la fruizione della musica rendendone però più difficile la monetizzazione da parte di artisti e case discografiche.

Sweetleaf Recordings 001
Col “Changes EP” del 2008 Mantini ricomincia ad apparire sul mercato discografico con regolarità

Da una quindicina di anni a questa parte hai ripreso a pubblicare musica a pieno regime: c’è stato qualcuno o qualcosa a darti la giusta spinta?
Intorno al 2009 ho cominciato a ricevere messaggi tramite i social network da parte di fan intenti a riscoprire la mia discografia degli anni Novanta. Ricordo con piacere un giovanissimo Sammy, poi esploso artisticamente come Brawther, e Jeremy Underground che mi scrissero informandomi che i miei vecchi dischi su UMM fossero tra le loro fonti di ispirazione. Nel 2012 conobbi Thomas Franzmann alias Zip che mi confessò di suonare spesso le mie produzioni. Grazie a un catalogo molto ampio e soprattutto alle tante collaborazioni di quegli anni, il mio repertorio spaziava dalla deep house più classica alla techno, per cui accadde in modo naturale che più DJ attivi in stili completamente differenti, si ritrovassero a supportare i miei vecchi lavori, destando l’interesse del pubblico e delle case discografiche. Le richieste di ristampa non tardarono ad arrivare e mi sono fatto trovare pronto con nuove produzioni vincendo la diffidenza di chi, in un primo momento, non credeva fossi ancora in grado di tenere botta.

I tempi sono propizi anche per lanciare nuove etichette, la Veniceberg Records, la PURISM, la Down Da Mountains e la Bold Choices. Con quali finalità e progettualità porti avanti il loro iter e, soprattutto, oggi quanto è complesso tenere in vita piccole label indipendenti?
Dopo aver ricevuto varie proposte di P&D da parte di alcuni distributori e visto il ritorno in auge del vinile, nel 2014 ho deciso di avviare nuovi progetti discografici. A eccezione di Down Da Mountains e Bold Choices, che sono outlet a esclusivo uso personale, Veniceberg Records promuove il sound del club dando voce a vari artisti mentre PURISM mira esclusivamente a scoprire nuovi talenti che affondano le radici nell’old school. Grazie agli accordi di produzione e distribuzione, il lavoro da svolgere si è decisamente semplificato rispetto a quello di trent’anni fa. Attualmente il mercato del vinile sta subendo una nuova flessione causata dal difficile scenario economico e gran parte dei diggers è alla ricerca di novità su Bandcamp. Anche in questo caso mi sono mosso in anticipo mettendo online il mio vecchio catalogo completamente rimasterizzato già dal 2017.

Parecchie delle tue pubblicazioni più recenti gravitano intorno a tracce prodotte nei primi anni Novanta ma rimaste nel cassetto e a ristampe di EP del tuo repertorio, difficilmente reperibili sul mercato dell’usato. Sembra che la fascinazione della musica retrò oggi stia avendo la meglio, sono tantissimi infatti i giovani che si dedicano alla composizione con lo scopo di somigliare il più possibile ai decani di house/techno di ieri, ricorrendo anche a strumenti che possano rendere più verosimile il risultato finale. Questa perdurante voglia di passato sta forse sottraendo energie per scoprire e immaginare traiettorie nuove come invece avveniva quando hai iniziato tu?
Decisamente sì. L’estrema facilità con cui è possibile fare musica oggi ha impoverito la mente al punto da intaccarne la creatività.

Mantini dj set
Enrico Mantini in consolle pochi anni fa

La retromania teorizzata da Simon Reynolds ha conquistato anche il mercato discografico, sistematicamente inondato da ristampe di ogni genere e tipo: i reissue stanno erodendo spazio e terreno alle nuove uscite?
Sì, l’offerta di ristampe e produzioni ispirate al passato è maggiore rispetto a quella di nuovo materiale originale. L’essere pionieri e il percorrere strade non battute ormai è una prerogativa di pochi. Nel 2012 c’è stato un momento in cui ho fatto fatica a pubblicare materiale nuovo, tutti preferivano andare sul sicuro con le ristampe. A quel punto quindi mi sono imposto negandole e proponendo materiale inedito. In seguito, viste le innumerevoli e continue richieste nonché l’incontenibile retromania dilagata in tutti i settori, mi sono dovuto arrendere. Paradossalmente, utilizzando vecchio materiale inedito che mai avrei creduto di poter pubblicare, ho fatto decollare la mia pagina Bandcamp e ho ceduto in licenza parte degli inediti che hanno poi meritatamente conquistato la stampa su vinile.

Tra gli innumerevoli filoni riscoperti nell’ultimo decennio c’è pure quello della house italiana, glorificata da raccolte come “Italo House” di Joey Negro (2014), la citata “Welcome To Paradise” di Young Marco e Christiaan Macdonald (2017), “Paradise House (Deep Ambient Dream Paradise Garage House From 90’s)” di Don Carlos (2018) ed “Echoes Of House (Italo House Foundamentals Tracks)” di Ricky Montanari (2019), a cui si è aggiunta più recentemente “Ciao Italia – Generazioni Underground” di cui parliamo qui. Quanto era complesso, per la house underground nostrana, imporsi all’estero negli anni Novanta?
Ho avuto la fortuna di approdare in UMM che ha reso credibile la mia musica anche oltre i confini ma ai tempi erano ben poche le etichette italiane in grado di penetrare il mercato straniero a eccezione delle realtà più commerciali. Complice la scena musicale italiana, esterofila da sempre, non siamo mai riusciti a porci nello stesso modo in cui giungevano qui le produzioni estere. A tal proposito, intorno al 1993 scoprii che mentre in Italia la mia musica risultava essere troppo minimale, grezza e poco melodica, gli americani riservavano a essa un ascolto ben più attento, forse anche grazie al fenomeno UMM che stava scoppiando proprio in quel momento. Capitava spesso che DJ come David Camacho, Louie Vega, Kenny “Dope” Gonzalez o Roger Sanchez fossero ospiti in club italiani e proponessero brani miei a differenza dei connazionali che li scartavano dalle proprie selezioni, eccetto Ricky Montanari e Flavio Vecchi (di cui parliamo qui e qui, nda), pionieri e visionari da sempre.

Ha ancora senso parlare di underground nel 2023?
No, e non ha più senso parlarne già da un po’ di anni a questa parte. Le nuove generazioni perseguono obiettivi artistici e fanno musica per target specifici muovendosi all’interno di un sistema ben definito, nulla di più lontano dal concetto di underground.

Circa sei mesi fa hai annunciato l’interruzione dell’attività da DJ e produttore house: quali ragioni ti hanno convinto a smettere?
Non ricevendo più stimoli dall’attuale scena legata al clubbing, ho deciso di abbandonare sia il DJing che la produzione di musica dance per intraprendere una nuova sfida artistica e voltare completamente pagina. La musica house mi ha dato tante soddisfazioni ma non me la sento di insistere in qualcosa che non mi appaga più. Al momento sono impegnato come musicista e produttore in un nuovo progetto che fonde jazz e funk in chiave elettronica, affiancato da musicisti di caratura nazionale.

Il prezzo da pagare per la consacrazione a livello generalista del DJing è stato piuttosto alto visto che per certi versi l’attuale “DJ rock star” è solo una parodia di quello che in origine era il DJ, in primis perché il divismo e il DJing non avevano punti in comune ma oggi sono legati a doppio filo. Al netto della nostalgia e da discorsi facilmente tacciabili di boomerismo, come ti poni rispetto a questa evoluzione o presunta tale?
Sino a quando ho messo dischi come DJ, l’ho fatto alla vecchia maniera, zero divismo e senza prendermi cura del look ma per pura passione e divertimento. Mi rendo conto però, visto il trend generale, che figure come la mia probabilmente suscitano poco interesse nelle generazioni attuali.

Come immagini le discoteche e il relativo pubblico del 2050?
Non mi sono mai soffermato a pensarci, preferisco sia una sorpresa.

E i DJ invece? Esisteranno ancora?
È difficile dirlo. La figura del DJ è fondamentale all’interno del club ma è anche vero che l’avvento dell’intelligenza artificiale sta mettendo in seria discussione tante professioni e il DJing potrebbe essere tra queste. Non essendoci più “anima” nell’attuale musica da club, è probabile che, in un futuro non così lontano, il compito di selezionare brani e miscelarli con successo verrà affidato a un computer.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Alessandro Tognetti

Alessandro Tognetti discollezione 1
Una panoramica della collezione di dischi di Alessandro Tognetti

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
I primi che ho comprato erano dei 45 giri di celebri artisti, Pink Floyd, Renato Zero, Lucio Dalla, John Travolta & Olivia Newton-John. Tra quelli anche “A Me Mi Piace Vivere Alla Grande” del prematuramente scomparso Franco Fanigliulo, un mio compaesano che portò il brano al Festival Di Sanremo nel 1979 suscitando un piccolo scandalo dovuto al testo.

L’ultimo invece?
Per mia figlia ho comprato “Exuvia”, il doppio di Caparezza, per me invece una ventina di mix degli anni Ottanta che mi mancavano.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Ne ho circa dodicimila ma non sono in grado di calcolare l’equivalente speso. Non ho mai pensato a quanti soldi abbia investito in vinile, prima ero un semplice appassionato ascoltatore che comprava dischi per se stesso, poi è diventata una professione ma ho continuato ad acquistarli anche per puro piacere personale e non solo per soddisfare le esigenze lavorative.

Come è organizzata la tua raccolta? La hai indicizzata secondo un metodo?
Ho seguito varie classificazioni, per autore, titolo, anno, etichetta, locale in cui suonavo… ormai conosco la posizione occupata dai dischi di quasi tutta la mia raccolta.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Saltuariamente li spolvero e lavo facendo molta attenzione. Quelli più importanti sono protetti da copertine plastificate.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo sì. Nel 1991 prestai circa settanta dischi a un amico a cui furono rubati. Col tempo li ho ricomprati quasi tutti.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno, per me sono tutti importanti.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti volentieri?
A volte si sbaglia nel fare acquisti ma non li rinnego e li tengo comunque per me.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una somma importante?
Sono in cerca soprattutto di dischi usciti negli anni Ottanta ma non faccio pazzie, posso vivere anche senza.

Quello con la copertina più bella?
“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles.

Credo che Muzak e Good Music, rispettivamente a La Spezia e Genova, siano stati due dei negozi di dischi che hai frequentato più assiduamente. Che ricordi ti riaffiorano ripensando a essi?
A Muzak e Good Music aggiungerei pure Dee Jay Doc a Ponsacco (di cui parliamo qui, nda). Quando arrivavo in negozio trovavo la mia “casella” coi dischi che il rivenditore aveva già scremato per me. Accendevo il piatto e iniziavo la selezione. Per molti anni mi recavo a Londra per fare acquisti, almeno una volta al mese. Dopo l’uscita di “Naked” su UMM, nel 1992, i negozianti d’oltremanica iniziarono ad avere un occhio di riguardo per me visto che il pezzo divenne una hit nei locali più cool della capitale britannica.

Tognetti con le produzioni
Tognetti con le sue prime produzioni discografiche, “Last Day”, “Naked” e “Different Places” di Man Myth Magic

Incidi il tuo primo disco nel 1992, “Last Day”, oggi particolarmente ricercato dai collezionisti. Cosa provava un DJ come te, negli anni in cui la discografia house/techno era ancora legata a una sorta di artigianato, nel vedere il proprio nome abbinato a una produzione discografica?
“Last Day” fu un parto, non finivamo mai di modificarlo. Ero alla mia produzione di debutto quindi un novizio. Lo realizzai nello studio di Leo Rosi a Serricciolo, vicino al Duplè. In quel periodo vivevo la favola di quel locale, Leo invece era un grande musicista dall’imprinting marcato che produceva sin dai tempi dell’italo disco. Rappresentavamo due mondi che si scontravano, campionamenti ossessivi contro melodie. Alla fine uscì un prodotto che a distanza di trent’anni continua a essere ricercato, basti vedere le quotazioni su Discogs. Abbiamo ricevuto parecchie richieste per ristamparlo, analogamente a quanto è avvenuto un anno fa con “Different Places” di Man Myth Magic.

Dopo “Last Day” arriva il citato “Naked”, prodotto nello studio di Alex Neri e Marco Baroni e di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui, che finisce nel catalogo di una delle etichette più importanti del periodo, la napoletana UMM. Incidere per una label di quella caratura cambiò qualcosa nella tua carriera da DJ?
Così come accennavo prima, “Naked” divenne una club hit nel Regno Unito, tuttavia fu snobbato da molti DJ “underground” (ai tempi si chiamavano così). Forse avevano ragione però la versione col sax, la Sax At Work, la suonavano in tanti, anche la domenica. La UMM (a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda) era una label che destò interesse a livello europeo e questo mi aiutò ulteriormente a trovare spazio nel mercato italiano. Poi, il fatto che l’avessi realizzato nello studio di Neri e Baroni, rappresentò un’ulteriore garanzia.

A chiudere l’ideale trilogia di matrice house è “Different Places” di Man Myth Magic, disco che realizzi con Mario Più e Franco Falsini (intervistato qui) per l’etichetta di quest’ultimo, l’Interactive Test, e per il quale, come raccontasti anni fa, si prospettò un remix degli Underworld. A distanza di ormai un trentennio è stato ristampato dalla Chroma, analogamente a una miriade di produzioni passate inosservate al momento della pubblicazione originaria ma trasformate in cult dall’incedere del tempo. La propensione per il recupero di materiale d’antan, ormai sfociata in ossessione a giudicare dalla quantità piombata sul mercato, è forse un segnale che la creatività in generi come house e techno si sia esaurita?
I dischi belli resistono al passare del tempo, non ho dubbi. Non saprei dire però se questa dei recuperi di materiale d’archivio sia solo una moda del momento o se invece durerà, vedremo.

Dal 1995 in avanti proietti l’attività discografica verso dimensioni progressive, un genere che, come tu stesso raccontavi diversi anni fa, era considerato di serie b da riviste e radio. Da cosa derivava tale disprezzo?
La progressive fu un fenomeno nato in contemporanea tra la Toscana e la Gran Bretagna. I DJ che suonavano o producevano quel genere venivano puntualmente snobbati dai fighetti della house ma acclamati dal pubblico che divenne sempre più numeroso. Italia Network, l’emittente che in quel periodo nel nostro Paese faceva il bello e il cattivo tempo per certa musica, difficilmente passava dischi progressive, secondo me sbagliando. Non saprei indicare le ragioni per cui avvenne ciò.

Tognetti dischi
Una parte dei dischi di Tognetti

Negli anni Novanta molti locali italiani creano una forte fidelizzazione del proprio pubblico: c’è chi è disposto a sobbarcarsi centinaia di chilometri pur di sentire il proprio DJ preferito e non manca persino chi organizza trasferte in pullman per raggiungere le agognate mete. A fare la fortuna di queste discoteche sono i DJ resident, soprattutto in Toscana, idolatrati da folle di giovani. Con l’affermazione degli special guest però, provenienti in primis dall’estero, cambia tutto, e tanti DJ resident si ritrovano depauperati del loro ruolo, ridotti a banali “warmuppisti” da avidi booker e dalla “divizzazione” di personaggi la cui notorietà non sempre è pari alla capacità in consolle. Gli imprenditori e gli art director italiani hanno sbagliato qualcosa?
Nel periodo di boom il pubblico andava nei locali per sentire due DJ suonare per cinque ore. Poi i DJ divennero cinque per suonare un’ora a testa. I gestori pensarono di poter aumentare l’affluenza semplicemente raddoppiando o triplicando i nomi sui flyer. Fu un errore madornale che ruppe la magia.

I popolarissimi DJ che si esibiscono di fronte a folle oceaniche con movenze da ballerini, intenti a pigiare continuamente tasti e ruotare manopole senza un apparente valido motivo, sono il risultato di una spettacolarizzazione con cui il DJing in principio non aveva alcun punto di contatto. Il fatto che oggi buona parte del pubblico preferisca riprendere il tutto col proprio smartphone anziché ballare è un segno indicativo che sia cambiato qualcosa nel rapporto con la musica?
Negli ultimi anni vedo bravissimi DJ old school (ne cito due su tutti, Sven Väth e Francesco Farfa) che rimangono tra i top, ma nel contempo sono emersi tanti “DJ ballerini”, sia uomini che donne, e la cosa mi fa sorridere. Il panorama attuale però pare offrire proprio questo tipo di prodotto che sembra funzionare.

Credi ci siano radicali differenze tra coloro che partecipavano alla Love Parade ed eventi simili organizzati negli anni Novanta e quelli che ora vanno in visibilio per il Tomorrowland?
Anche in questo caso è un discorso legato ai tempi che viviamo. Al momento questa formula funziona ma preferisco non commentare.

Tra le centinaia di locali in cui hai lavorato ci sono stati il Duplè, l’Insomnia e l’Imperiale, rimasti impressi a fuoco nella memoria di un’intera generazione che oggi ne parla, con parecchia nostalgia, come fenomeni irripetibili. Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando a ognuno di essi?
Procedo in ordine cronologico partendo dal Duplè nel biennio 1991-1992: “Moog Eruption” di Digital Orgasm, che molti ricordano come “Disco Duplè ’91”. Lo proponeva Roby J nell’estate di quell’anno e alla riapertura del locale, a settembre, lo faceva suonare a me; “Long Wave” di New Latin Age, un capolavoro di Giorgio ‘MBG’ Canepa che mi ricorda ancora Roby J. Conservo gelosamente una cassetta con su inciso questo brano; “No Fate” di Zyon, un pezzo che mi rappresentava molto e che proposi per diversi mesi.
Insomnia, 1992-1993: “Wow! Mr. Yogi (Control The Mind)” di The Overlords, un disco che scartai la prima volta che l’ascoltai, per ricredermi però una settimana dopo; “Sugar Daddy” di Secret Knowledge, che presi a Londra in formato promozionale e fu un successo immediato, un autentico viaggio progressivo; “The Sheltering Sky” di Cosmo Vitelli che possiedo in doppio promo, solo per intenditori.
Imperiale, 1994-1995: “Saxomatic” di Aldrin Buzz, un pezzo marchiato con un buffo nome che parodiava quello del secondo uomo che mise piede sulla luna, l’astronauta Buzz Aldrin; “Mystic Force” di Mystic Force, una produzione su cui c’è davvero poco da dire, un capolavoro assoluto; “Hymn” di Moby, che credo di essere stato tra i primi a suonare quando era ancora un promo.

Nel 2018 hai pubblicato il tuo primo libro, “Un Esercito Senza Divisa”, a cui due anni dopo è seguito “Una Tribù Che Balla”: come ti sei ritrovato nella dimensione da scrittore? Conti di dare un seguito alle opere in un prossimo futuro?
Vedere pubblicato il mio primo libro mi ha fatto rivivere la stessa emozione provata quando uscì il mio primo disco. Non avrei mai pensato di scrivere un romanzo, in realtà doveva essere una sorta di trattato storico ma poi mi sono accorto che un autore aveva pubblicato un libro impeccabile sullo stesso argomento e il progetto rimase fermo per un mese. Una notte sognai Roby J, mio grande amico nonché incredibile DJ con cui ho avuto la fortuna di condividere le migliori consolle. In quel sogno mi suggerì di scrivere un romanzo e mi spronò ad andare avanti nel mio proposito di scrittura. La mattina mi svegliai felice ma perplesso. Decisi di seguire il suo consiglio e, come sempre, aveva ragione lui. “Una Tribù Che Balla”, alla fine, si è rivelato una sorta di romanzo giallo che si intreccia con una storia nelle discoteche degli anni Novanta. È stato un grande successo anche se un paio di colleghi hanno detto che è troppo autocelebrativo. Colgo quindi l’occasione per precisare che non è stato scritto per far vedere quanto fossi bravo, ho usato il mio nome solo perché ho vissuto in prima persona molte, o forse tutte, le vicende raccontate. Il vero protagonista del romanzo in realtà è il pubblico delle serate nei club che si è riconosciuto e ha apprezzato il libro. Al momento sto lavorando al seguito di “Una Tribù Che Balla” ma con la pigrizia che mi contraddistingue quindi non so quando uscirà.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegando le ragioni.

Orbital - IIIOrbital – III
Il disco comprendeva tre tracce, “Satan”, “L.C.1” e “Belfast”, che proponevo puntualmente durante la mia esperienza all’Imperiale nel 1991, quando il locale faceva il famoso Mezzanotte-Mezzogiorno con un pubblico che permetteva di sperimentare sonorità veramente all’avanguardia.

Ecstasy Boys - Seven Steps To HeavenEcstasy Boys – Seven Steps To Heaven
Rischio di essere monotono ma pure questo disco, pubblicato dalla newyorkese Quark, mi ricorda Roby J: glielo sentii suonare al Barattolo, una discoteca a Marina di Pietrasanta, in Versilia. Ai tempi serviva molto coraggio per proporre un brano di questo tipo, da veri intenditori.

Tune - Change The BeatTune – Change The Beat
Comprai “Change The Beat” a Modena, al Disco Inn in Via Don Minzoni, e nel 1991 divenne uno dei pezzi che caratterizzava quasi tutti i miei DJ set. Un paio di anni dopo, insieme a Gianni Bini (intervistato qui, nda) e Leo Rosi, realizzai persino una cover, “After Tune” di 2 Matrix, su etichetta Whirlpool, che contava su un inserimento vocale. La traccia originale, pubblicata dalla belga R&S Records e composta dall’olandese Jochem Paap meglio noto come Speedy J, girava appena su sei suoni ma l’effetto creato in pista era fantastico.

Phenix - RevelationsPhenix – Revelations
Un 12″ sulla Atmosphere Records di Frankie Bones che, con pezzi come “The Final Conflict” e “Overture”, proietta immagini degli after hour al Duplè allo stato puro. Ottima anche la traccia che chiudeva il lato b, “Clockwise”, in cui l’autore campionò alcune voci dal film “Blade Runner”. Sicuramente uno dei dischi che ho suonato di più durante l’estate del 1991.

Interdance - Vol. 1Interdance – Vol. 1
Acquistato e proposto assiduamente nel 1990, divenne una club hit l’anno successivo. Delle quattro tracce incise, quella che preferivo era “B.O.A.C.”, la prima del lato b. Un’ottima produzione italiana del BHF Team formato da Paolo Bisiach, Christian Hornbostel e Mauro Ferrucci (questi ultimi due intervistati rispettivamente qui e qui, nda).

Don Carlos - AloneDon Carlos – Alone
Non saprei come definire propriamente “Alone” (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda), sicuramente era tra quelli che mi aiutavano a creare atmosfera. Edito nel 1991 dalla bolognese Calypso Records, sottoetichetta della Irma, fu realizzato da Carlo Troja mescolando ritmi house con sonorità jazz afroamericane e con qualche occhiata alla disco.

Flow - Another TimeFlow – Another Time
“Another Time” era un disco-viaggio capace di uscire dal genere strettamente house proposto dall’etichetta che lo pubblicò nel 1992, la Bottom Line Records di New York fondata da Edward Goltsman. Senza alcun dubbio, uno dei miei dischi preferiti di sempre.

Olimpo - Free Your MindOlimpo – Free Your Mind
Prodotto da Francesco Farfa e Joy Kitikonti (intervistati rispettivamente qui e qui, nda), “Free Your Mind” è un brano simbolo di una generazione, inserito nella ricercatissima “Insomnia Compilation” del 1994, selezionata da Antonio Velasquez e limitata alle appena 500 copie. Piccolo aneddoto: due tracce della tracklist furono realizzate anche da me, nonostante il mio nome non appaia nei crediti. “West Coast” di Solid Foundation lo composi con Fulvio Perniola e Ricky Le Roy scopiazzando un pezzo tratto dal catalogo della Guerilla di William Orbit e Disc O’Dell, mentre “Harmony” di Atlantis lo feci a quattro mani col solo Perniola.

Marvin Gardens - My Body And SoulMarvin Gardens – My Body And Soul
Quando proponevo questo disco al Duplè veniva giù il locale. Analogamente a quanto avvenuto per “Wow! Mr. Yogi (Control The Mind)” di The Overlords, scartai “My Body And Soul” (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda) al primo ascolto: non mi piaceva la cassa e, per le sonorità che proponevo in quel momento, ritenevo che la parte vocale fosse fin troppo lunga. Mi sbagliai e la settimana successiva tornai in negozio per comprarlo.

Density - Yes (I Love You Baby)Density – Yes (I Love You Baby)
Una traccia tratta da uno dei tanti EP prodotti da Giorgio Canepa alias MBG, un altro capolavoro del DJ genovese. Ricordo con piacere quando lo proponevo nell’estate 1992 al Duplè e nei locali in cui suonavo, un brano che metteva felicità.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Gianni De Luise

00 - frammento collezione
Una minuscola parte della collezione di dischi di Gianni De Luise. In basso si riconosce abbastanza nitidamente “Not Much Heaven” di Richie Jones Presents Uptown Express (Azuli, 1997), in alto invece si scorge, tra le altre, la copertina di un 12″ marchiato London Recordings. Da alcune costole invece affiorano “Armed And Extremely Dangerous” delle First Choice, “For The Love Of Money” di Disco Dub Band, “Satisfied (Take Me Higher)” di H2O, “Can We Live” dei Jestofunk e “Supersonic” dei Jamiroquai

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
“Live At Leeds” degli Who che comprai nel 1970, seppur seguissi la musica già da diversi anni. Ovviamente i miei preferiti erano i gruppi rock, Beatles, Rolling Stones e i primi Pink Floyd per quello che riguarda il versante britannico, Bob Dylan, Beach Boys e The Byrds su quello statunitense. Avevo sviluppato una particolare passione per gli Who, band londinese dotata di un’incredibile energia. Erano famosi per distruggere chitarre e batterie al termine dei concerti dal vivo seppur non fossero i primi a far ciò essendo stati preceduti dai Move di Birmingham. Gli Who divennero il gruppo di riferimento per il movimento dei mod che, in Gran Bretagna, si oppose frontalmente a quello dei rocker. A distinguere le due fazioni rivali era anche l’abbigliamento: ricercato per i primi, ruvido e grezzo per i secondi. A Brighton, a maggio del ’64, si registrò uno scontro tra i gruppi che colpì profondamente la società d’oltremanica. Degli Who ci terrei a menzionare anche altri due capolavori, “Tommy”, del ’69, da cui venne tratto il film omonimo diretto nel ’75 da Ken Russell, e “Quadrophenia” del ’73.

L’ultimo invece?
Risale al 2005, un bootleg dei Kraftwerk intitolato “Planet Of Visions” su Shadow Man Records, contenente la registrazione del live fatta in occasione del Coachella Music Festival il primo maggio 2004. Ero appena uscito da un terribile periodo legato ad un tumore per cui mi diedero ben poche speranze di vita, e stavo rivoluzionando completamente il mio rapporto con la musica passando dall’analogico al digitale. Oltre a trasferire tantissimo materiale dal vinile al file, mi accorsi che in circolazione iniziarono ad esserci tantissimi brani inesistenti su 12″.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Avendo attraversato varie epoche, spazia dal rock al punk, dalla new wave alla prima elettronica con influenze jazz e sperimentali oltre ad una preponderante presenza della house. Per inventariare tutto il materiale in mio possesso mi sono avvalso del preziosissimo supporto di mio fratello e di Discogs. Al termine del lunghissimo lavoro ho potuto avere un’idea precisa sia della dimensione che del valore della raccolta. Non è gigantesca come quelle di altri DJ ed appassionati che conosco, ma decisamente di buona qualità e comprendente dischi molto rari. Ad oggi ne ho catalogati precisamente 8414 ma ne ho altri che attendono di essere classificati.

01 - disordine temporaneo
Un’altra piccola porzione della raccolta di De Luise

Come è organizzata?
Qui tocchiamo un tasto molto dolente. All’ordine offerto da Discogs fa da contraltare un notevole, ma spero momentaneo, caos causato da un recente trasloco che ha mandato completamente a monte la precedente organizzazione alfabetica e che mi ha impedito di scattare foto adeguate da usare a corredo di questa intervista. Sempre con l’aiuto di mio fratello Angelo, sto pianificando di applicare un numero progressivo a ciascun disco che corrisponda ad una cifra di registrazione su Discogs. In questo modo dovrebbe essere relativamente facile trovare il pezzo desiderato avvalendomi nel contempo di scaffali numerati.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Purtroppo il trasloco mi ha creato parecchi problemi per permettermi un’accurata manutenzione dei dischi. Ho cercato comunque di preservarli quanto più possibile dalla polvere, di non sovrapporli in maniera sconsiderata per non fletterli, di ripararli dal caldo dei raggi solari e così via. In occasione della numerazione progressiva a cui facevo prima riferimento, vorrei effettuare un controllo ed eventuale manutenzione: questi oggetti straordinari la meritano.

Ti hanno mai rubato un disco?
Assolutamente sì e purtroppo più di uno. Nonostante sia trascorso tanto tempo, sono ancora tutti ben presenti nella mia memoria. Il primo fu un 7″ degli olandesi Shocking Blue, il celeberrimo “Venus”, che maldestramente diedi in prestito e che non mi venne mai restituito. Ovviamente lo ricomprai. Un altro fu “Do It Good”, il primo album di KC & The Sunshine Band, che sparì quando lavoravo nella prima radio privata della mia città natale, Udine. Non sono mai più riuscito a ritrovarlo se non in edizione digitale. Ricordo poi “Can’t Fake The Feeling” di Geraldine Hunt in versione 12″ acquistato a Londra che, in un momento di debolezza, prestai ad una “amica” che non si rivelò proprio tale e se lo tenne. Non mi sono mai pentito tanto come quella volta! Ce ne sono altri ancora, persi o rubati, che comunque con l’avvento del digitale ho recuperato seppur non con la stessa emozione di quando li comprai su vinile.

03 - Kraftwerk - Autobahn
La copertina di “Autobahn” dei Kraftwerk (1974)

C’è un disco a cui tieni di più?
Fondamentalmente tengo a tutti e ricordo sempre con una chiarezza cristallina dove e quando li ho ascoltati per la prima volta. Dovendone indicare proprio uno, direi “Autobahn” dei Kraftwerk, uscito nel ’74. La versione integrale della title track, col rumore delle chiavi che entrano nel cruscotto, l’accensione del motore e il viaggio lungo l’autostrada tedesca con momenti epici in cui viene simulato il traffico ed un piccolo inciso a mo’ di jodel elettronico, fu un’autentica illuminazione per me. Ho usato spesso questo pezzo come sigla dei miei programmi nei primi anni in cui facevo radio e tuttora, a distanza di decenni, “Autobahn” continua ad emozionarmi tantissimo. Quando percorro un’autostrada tedesca amo sentire in sottofondo questa gemma sonora.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Non me la sento proprio di segnalare un titolo. Certamente nella mia collezione ci sono brani dal valore modesto ma ho sempre pensato che ognuno di questi supporti contenga il prodotto della creatività e dell’ingegno di qualcuno che si è messo alla prova cercando di trasformare un’idea in suoni organizzati. Quindi, alla luce di tale considerazione, provo un senso di rispetto anche verso ciò che non è riuscito bene. Tutti i dischi della raccolta sono “sangue del mio sangue” e non ne abbandonerei mai nessuno.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a fare una follia?
Suddivido la mia frequentazione della musica in due fasi, quella scandita dai supporti analogici e quella digitale. Non riesco ad essere un nostalgico dei “bei vecchi tempi”, quando si suonava solo coi dischi e quando è stata creata la più bella musica in assoluto, perché, in tutta franchezza, non credo sia del tutto vero. In realtà, con l’avvento del digitale, la musica è letteralmente esplosa permettendo anche a chi non aveva mezzi economici o conoscenze musicali specifiche di esprimere la propria creatività. Naturalmente non sempre i risultati sono eccellenti ma spesso escono cose notevoli. Tornando alla domanda, non credo esista una traccia che cerco da anni: se non sono riuscito a trovarla su vinile, la ho certamente rintracciata in digitale.

Quello con la copertina più bella?
Mi viene subito in mente “Sticky Fingers” dei Rolling Stones, del 1971, con una zip vera applicata alla foto dei jeans, e a seguire gli artwork terribilmente glamour dei Roxy Music. Degna di menzione è pure quella di “Crisis? What Crisis?” dei Supertramp, con un individuo smilzo che prende atipicamente la tintarella in un ambiente urbano, inquinato e degradato. Però ce ne sarebbero davvero tantissime da segnalare.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Vicino casa c’era un importante negozio chiamato Discotech. Correvano i primi anni Settanta e prestavo estremamente attenzione a ciò che veniva esposto in vetrina tra gli ultimi arrivi. A parte quelli di artisti giganteschi come Beatles, Rolling Stones e Pink Floyd, gli album erano un traguardo molto importante per chi faceva musica. In prevalenza uscivano singoli su 7″, i cosiddetti 45 giri, e talvolta negli album c’erano solo due o tre tracce di pregio, il resto serviva solo a riempire i lati, quindi era importante saper investire i propri soldi cercando di andare a colpo sicuro. Per fortuna era possibile fare un veloce preascolto in negozio per capire a cosa si andasse incontro. Ascoltando Radio Luxembourg sulle onde medie inoltre, mi tenevo aggiornato e solitamente sapevo già cosa acquistare. Registravo le trasmissioni serali in lingua inglese attraverso cui potevo ascoltare in grande anteprima ciò che, forse, avrei trovato qualche settimana dopo in negozio. L’atmosfera del posto, per un fanatico di musica come me, era decisamente elettrizzante.

Quanti soldi spendevi al mese in musica?
Troppi. Non ho mai vissuto di musica facendo il DJ o cose simili, facevo un lavoro serio, magari noioso, ma retribuito mensilmente e regolarmente. Allo stesso modo, mensilmente e regolarmente, cedevo alla tentazione di acquistare album che sarebbero poi diventati pietre miliari della storia della musica. Ho speso un bel po’ di soldini ma non ho rimpianti, la musica e i dischi erano e sono la mia unica passione.

Nel momento in cui hai iniziato a lavorare per Italia Network, cambiò qualcosa nel tuo rapporto coi dischi?
Non tanto nei primi tempi, quando la radio si forniva ancora da diversi negozi tra cui il mitologico Dance All Day a Gorizia, di proprietà dell’amico Paolo Barbato, luogo che peraltro ho continuato a frequentare a lungo perché lì trovavo materiale pazzesco che lo stesso Paolo mi metteva da parte a prezzi speciali. Le cose invece mutarono radicalmente nel momento in cui la Flying Records di Napoli iniziò a mandarci pacchi giornalieri contenenti decine e decine di promo.

04 - De Luise con Alone
Un recentissimo scatto di De Luise. Alle spalle uno dei dischi-cardine del suo programma radiofonico su Italia Network, “Alone” di Don Carlos

Quanti promo ricevevi mediamente in radio quando esplosero house e techno?
Penso che arrivassero almeno duecento vinili promozionali al giorno. Sasha Marvin faceva una prima selezione, insieme a Gianmarco Ceconi, Alessandro De Cillia ed altri del team. Spesso loro mi segnalavano le versioni adatte al mio programma e mi lasciavano i dischi per suonarle, ma non sempre azzeccavano. Più che il brano, cercavo la versione che avesse le sonorità più adatte a Satellite, e la maggior parte delle volte erano le dub o le strumentali a colpirmi al primo ascolto. D’altra parte lavoravo in una condizione molto speciale, solo, di sera, al buio, completamente immerso nel flusso emotivo che cercavo di creare e ciò necessitava di suoni speciali in grado di attivare emozioni o seduzioni notturne. Un dettaglio che non trascuravo mai era anche il titolo.

Durante il quinquennio 1991-1996, in cui sei al timone del programma Network Satellite poi diventato Satellite, hai mai avuto a che fare con la payola?
No, per fortuna. Ho sempre lottato con le unghie e con i denti per mettere in onda solo ed esclusivamente quello che mi sembrava giusto e che mi suggeriva il mio istinto musicale, e spessissimo erano tracce scartate dalla selezione a cui mi riferivo prima. Non nascondo di aver ricevuto pressioni per promuovere pezzi magari prodotti da chi, in qualche modo, era vicino alla radio, ma non ho mai ceduto. Sono una persona pura ed onesta e non mi sarei mai prestato ad ingannare o ad indirizzare i miei ascoltatori verso cose in cui non credevo, sarebbe stato un tradimento.

05 - le produzioni firmate Red Zone
I due 12″ di Red Zone, pubblicati tra 1995 e 1996 dalla Outlab del gruppo Many, co-prodotti da De Luise

In questa intervista del 2015 facemmo cenno alle tue (poche) produzioni discografiche firmate Red Zone, “Powerful Love” e “Gimme Fantasy” (quest’ultimo ripreso nel 2002, con successo, da Gianni Coletti nel brano omonimo). C’è un disco che ti sarebbe piaciuto produrre?
In verità ce ne sono molti e mi sarebbe piaciuto cimentarmi pure in qualche remix, ma se da un lato non vivere facendo il DJ e serate in discoteca mi ha permesso di rimanere puro ed incontaminato, dall’altro mi ha negato la possibilità di percorrere sentieri che avrei voluto intraprendere. Molto peso in ciò lo ha avuto anche il mio carattere disponibilissimo con tutti ma contemporaneamente desideroso di mantenere un’area di sicurezza intorno.

Questo recente report della RIAA evidenzia che nel 2020 lo streaming abbia detenuto (prevedibilmente) l’83% degli introiti relativi all’industria musicale statunitense mentre solo il 9% appartiene ai prodotti “fisici”. Merita attenzione però il fatto che per la prima volta, dal 1986, i ricavi provenienti dal disco in vinile abbiano oltrepassato quelli del CD. Nonostante la pandemia da covid-19 abbia messo in ginocchio le vendite al dettaglio, la soglia del disco è cresciuta del 28,7% mentre le vendite del dischetto argentato sono diminuite del 23% segnando un ulteriore e forse inesorabile declino. Alla luce di questi dati statistici, credi che in un futuro non lontano il pubblico farà essenzialmente riferimento su streaming e dischi? Il CD, lanciato dalla Sony quasi quarant’anni fa, sarà soppiantato definitivamente nonostante fosse stato annunciato come il formato più futuristico per ascoltare musica?
Ho avuto la fortuna di attraversare decenni di musica e ciò ha fatto sì che, contemporaneamente, vivessi altrettanti decenni di tecnologia. Il primo album dei Rolling Stones che ho in collezione, ad esempio, è mono (!), i primi album dei Beatles invece sono stereo ma se ascoltati in cuffia si possono sentire le voci su un canale e la musica sull’altro. Poi fu la volta dei registratori multitraccia, l’avvento di strumenti particolari come il sitar o il theremin e quindi del Moog e dei sintetizzatori, tutto in ambiente analogico col solo supporto del vinile. Da fanatico della tecnologia, ho acquistato moltissimi CD ed ho anche masterizzato il contenuto dei dischi, digitalizzandolo. Alla fine è arrivato internet: nessuno, trent’anni fa, avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe successo. Quando Italia Network si trasferì a Bologna lasciandomi ad Udine, non avrei mai potuto sognare di poter continuare a fare il mio Satellite ma oggi è normale avere un canale streaming su cui il mio programma vive 24 ore su 24, e sembra altrettanto normale inviare lo stesso programma a varie radio che, a loro volta, lo ritrasmettono. Tutto cambia, in continuazione e sempre a maggiore velocità. Il CD ormai fa parte della storia di ciò che è stata la diffusione della musica, ma al momento i nuovi veicoli di distribuzione musicale sono le piattaforme online (Spotify, Soundcloud, etc) e chissà cosa verrà inventato nei prossimi anni.

A differenza della tecnologia, nella musica c’è ancora spazio per una reale innovazione o dobbiamo abituarci ad interfacciarci sempre più con materiale derivativo?
Oltre al mio programma in streaming, in questo periodo curo due playlist su Spotify collaborando con l’etichetta di Andrea Pellizzari, la Villahangar. In una passo tracce soulful house, nell’altra afro house. Posso affermare senza ombra di dubbio che in queste due categorie, al momento, rientrano pezzi bellissimi e rimpiango di non avere la possibilità di trasmetterle in FM. C’è una fioritura continua di artisti: per la soulful segnalo Richard Earnshaw, Soullab, Ralf GUM e Fizzikx mentre per l’afro house, oltre al solito indomito David Morales che ha abbracciato in pieno questo filone, mi piacciono parecchio le produzioni e i remix di Norty Cotto, Da Capo, Mijangos e The Scientists Of Sound, oltre alla spettacolare voce della mia cantante preferita del momento, la sudafricana Toshi.

Per quanto concerne le programmazioni radiofoniche italiane invece, credi che qualcuno stia facendo bene nel circuito “dance” o perlomeno in quello che rimane di esso?
Ho provato più volte ad ascoltare i grandi network radiofonici ma trovo che la loro programmazione non sia degna di essere definita tale. A volte mi sembra si siano trasformati in pure casse di risonanza delle grandi case discografiche, con livello qualitativo medio basso e creatività piatta. Al contrario esistono ottime prove radiofoniche in DAB: non per piaggeria, ma ritengo eccellente e sorprendente la programmazione di RMA Altri Suoni, una radio che copre la Campania e che, tra gli altri, ospita pure il mio Network Satellite.

Come e cosa vedi nel futuro del clubbing nostrano post covid? Esisterà davvero la tanto auspicata rinascita o tutto tornerà come prima o persino peggio?
Penso che il coronavirus abbia dato la spallata definitiva al clubbing italiano che, già prima della pandemia, mostrava tutti i suoi limiti. Se ripenso alle discoteche dei primi anni Novanta mi sembra di sognare. I profondi cambiamenti generazionali e musicali, oltre ad una certa mancanza di competenza tra DJ, PR, organizzatori e selezionatori, hanno trasformato quel mondo degradandolo. Luoghi in cui era gradevole trascorrere una serata sono diventati ambienti ben poco invitanti. Penso comunque che il clubbing tornerà a vivere ma per farlo avrà decisamente bisogno di una nuova trasformazione, sia dei contesti che delle persone.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato motivando le ragioni.

Density - EP OneDensity – EP One
Un disco importantissimo per il mio programma su Italia Network. A consegnarmelo fu l’autore in persona, Giorgio Canepa, che mi fece una sorpresa venendo a trovarmi in radio. Nell’EP ci sono quattro tracce terribilmente deep, le mie preferite sono quelle incise sul lato a, “Bass Power” e “Trig Your Base” che divenne pure la mia sigla. Risale al 1992 che, insieme al mitico 1991, è probabilmente l’anno più importante per quella che oggi viene indicata come la golden age della house italiana. A mio modesto parere, “Trig Your Base” è essenziale sia per gli appassionati del genere che per i cultori di Satellite perché, in qualche modo, identifica il mio suono. Un brano molto ispirato, con sonorità che richiamano le produzioni della canadese Hi-Bias Records ma col calore e la melodia italo house. Un piccolo capolavoro.

Umoja - UnityUmoja – Unity (Joey Negro Lust Mix)
Un viaggio, un vero viaggio. Solitamente non amo molto i cantati, preferisco la creazione musicale in sé a meno che non ci sia un testo ed una voce di livello superiore, ma se adesso riascolto “Unity” provo ancora le sensazionali emozioni che mi regalò al primo ascolto, nel lontano 1991. A produrre il pezzo furono Marshall Jefferson e Sherman Burks e le tre versioni di Joey Negro sono spettacolari, costruite su un blend che richiama i suoni disco anni Settanta ed Ottanta di cui Dave Lee è un vero e grandissimo esperto, abilmente mescolati alle tastiere del suo collaboratore dell’epoca, Andrew “Doc” Livingstone. A venirne fuori fu una cosa indescrivibile, specialmente la Lust Mix, bellissima. Rammento ancora quando mi trovai tra le mani il disco, giunto in radio in un pacco di promo. Penso di averlo trasmesso decine di volte e lo manderei in onda ancora senza riserve.

Joy Salinas - The Mystery Of Love (Joey Negro Remixes)Joy Salinas – The Mystery Of Love (Joey Negro Remixes)
Qui potrei ripetere il discorso fatto sopra per Umoja. Ribadisco che Joey Negro sia uno dei massimi esponenti della house music. Ha fatto un’infinità di pezzi e remix e sono tutti straordinari. Difficilmente ha sbagliato o inciso un lavoro mediocre, è un produttore pazzesco a tutti gli effetti. Nel caso di Joy Salinas (di cui parliamo qui, nda) la versione che adoro è la Coolout Mix, autentico miele per le mie orecchie, con una ritmica secca che non invade, un meraviglioso giro di basso e fantastici tappeti. Wow! Una traccia senza tempo e per sempre nel mio cuore. È stato amore al primo ascolto e i suoi suoni riescono ancora ad accarezzare la mia anima.

Adonte - Feel It (The Remixes)Adonte – Feel It (The Remixes)
I remix di “Feel It”, usciti nel 1991, sono tra le cose più belle che abbia mai ascoltato, lo giuro. Sono tutti ben riusciti ma il Minimal Remix firmato da Funk Master Sweat scorre dentro le vene come pura energia. La sensazione che ho provato la prima volta che ho messo sopra la puntina è stata quella di chiudere gli occhi e lasciare che il suono mi aprisse la mente per portarmi direttamente in paradiso. Essenziale per chi vuole conoscere a fondo la vera house di qualità superiore. Quando lo trasmettevo, di sera, nel buio della regia della radio illuminava di luce propria l’atmosfera spargendo puro amore nell’etere.

Closer Than Close - You've Got A Hold On MeCloser Than Close – You’ve Got A Hold On Me (Joey Negro’s Patti’s Dub Mix)
Ho già abbondantemente spiegato cosa rappresenta per me Joey Negro, il produttore che mi ha influenzato più di tutti con uno splendido suono ricavato da un miscuglio unico ottenuto con l’utilizzo magistrale della tecnologia. Il suo marchio di fabbrica sono tappeti, pad, campionamenti di piccolissimi loop, suoni tipo “colombine” con ritmica mai troppo squadrata e molto old style. Il risultato è magico proprio come questa traccia del 1992. La bellissima voce di Beverley Skeete (da lì a breve turnista per la bresciana Media Records, nda) è semplicemente sublime, in particolar modo nella Patti’s Dub Mix in cui viene utilizzata sapientemente e col giusto dosaggio. Mi spiace che duri troppo poco perché nel finale, mentre sfuma il volume, si sente la promessa di qualcosa di ancora più armonioso della parte precedente. Un pezzo magico, anch’esso giunto in radio nei tanti pacchi di promo giornalieri e subito catturato e trasmesso.

Don Carlos - AloneDon Carlos – Alone
Qui arriviamo al “culto”: si tratta forse di una delle prime tracce in assoluto che ho suonato in Satellite ma certamente l’ultima, quando la radio mollò Udine per trasferirsi a Bologna. Fu la base sulla quale, per la prima volta sulle frequenze di Italia Network e con la collaborazione del tecnico ed amico Luca Ognibene detto Ognix, salutai gli ascoltatori ricordando loro di non far mai morire i sogni. Che momento emozionante! L’apertura di “Alone” nella versione sul lato a, la Paradise, è spettacolare, con una serie di accordi che crescono fino a far arrivare, ovviamente, in paradiso. Una traccia (di cui parliamo dettagliatamente qui, con le testimonianze dell’autore, nda) per me bellissima quanto commovente, inserita da Joey Negro nella playlist della compilation “Italo House” pubblicata nel 2014 sulla sua Z Records e che ovviamente consiglio agli appassionati.

Jestofunk - I'm Gonna Love YouJestofunk – I’m Gonna Love You
La copertina è molto semplice, col nome del gruppo e il titolo su sfondo bianco, ma il disco racchiuso al suo interno è una bomba. Ho adorato “I’m Gonna Love You” all’istante. Il campionamento dell’acappella di “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys fu utilizzato magnificamente su un sensuale downbeat. A segnare il culmine nella Club Mix, la versione che preferisco, è un esplosivo sax mentre la voce dice “I can’t want no more!”. Provo ancora i brividi. L’ho trasmessa infinite volte in Satellite, specialmente all’inizio per creare un incredibile mood o alla fine per innescare un vuoto emozionale. Un pezzo per me essenziale quanto “Alone” di Don Carlos. Sono ancora in contatto coi Jestofunk, specialmente con Alessandro Staderini alias Blade con cui commento spesso musica e programmi radio e al quale continuo a rivolgere i miei complimenti per tutto ciò che ha fatto per la house music insieme a Francesco Farias e Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli.

Now Now Now - ProblemNow Now Now – Problem
Durante la mia lunga frequentazione della musica e della radio ho avuto la fortuna di conoscere molto bene alcuni straordinari artisti come quelli della DFC. Gente del calibro di Davide Rizzatti ed Elvio Moratto, personaggi originali e creativi ad un incredibile livello, oltre che grandissimi musicisti. Nel 1991 proprio loro mi regalarono il promo di questo incredibile pezzo inciso su vinile bianco che oggi conservo gelosamente tra i miei oggetti culto. “Problem” è una traccia pazzesca per suoni e costruzione che ho suonato mille volte ma non prelevandola dal vinile bianco ma da una seconda copia, nera, comprata appositamente, perché temevo di rovinare la prima. La Heart Version porta in una dimensione alternativa, in un universo parallelo. Un disco imprescindibile della storia della deep house nostrana.

Red Light Featuring Tyler Watson - Who Needs EnemiesRed Light Featuring Tyler Watson – Who Needs Enemies
Tratto dal “Rhythm Formula EP” del 1991, “Who Needs Enemies” per me è commozione allo stato puro. Una delle tracce cardine non solo di Satellite ma pure della mia vita dato che mi ricorda un’avventura sentimentale molto travagliata. Un disco meraviglioso uscito sulla canadese Hi-Bias Records (e licenziato in Italia dalla GFB del gruppo Media Records, nda) a cui sono legatissimo. Una vera poesia con un arrangiamento straordinario e la voce di Tyler Watson a ricordare che “non servono nemici con amici come te”. Sagge parole. Ogni volta che la risento si riaprono finestre spazio-temporali e vengo risucchiato in momenti letteralmente indimenticabili. Altrettanto interessanti sono le altre tracce dell’EP, “Kinetix”, “And Then…” ed “Amazon Blue”. Un disco-reliquia.

Fellows - AloneFellows – Alone
Estratta da un EP intitolato “Play All Cuts Vol. 1” uscito nel 1992 sempre su Hi-Bias Records, “Alone” dei Fellows è un’altra delle mie tracce epiche dalla seduzione eterna. All’interno di questo piccolo gioiello è racchiusa tutta l’essenza della mia sensibilità musicale e, di conseguenza, l’essenza di Satellite. Un susseguirsi di note da cui risalta il basso, il piano e il vibrafono mentre in sottofondo string e pad creano una magica atmosfera. È un brano che mi mandò fuori di testa sin dal primo momento che lo ascoltai. Che potere magico che ha la musica!

(Giosuè Impellizzeri)

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Negozi di dischi del passato: Michael Wolf a Parma

00) Apertura
Una foto scattata all’interno di Michael Wolf nell’autunno del 1997: rivelatrici, per la collocazione temporale, risultano le copertine di “Stay With Me” di Chase, di “Prendimi Così” di Todd Terry Featuring Lucio Dalla, e della compilation “Speed Garage Vol. 1” edita dalla Peppermint Jam

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Michael Wold col commesso Robert Passera

Quando apre i battenti Michael Wolf?
Venne aperto in una ex enoteca di alta fascia all’inizio del 1993 col nome Music Shop da una società che rilevava fallimenti commerciali. A maggio di quello stesso anno fu ceduto a Michele Catellani meglio conosciuto come “Il Lupo”, che successivamente ne cambiò il nome.

1) logo
Il logo del negozio

Tu invece quando inizi a lavorare lì?
Alla fine di novembre del 1993 Catellani mi propose di lasciare il Mariposa di Reggio Emilia, dove lavoravo da cinque anni, e trasformare la sua attività in un negozio specializzato per DJ. Siccome avevo già maturato esperienza nel settore, fin dall’inizio ebbi carta bianca sulla scelta dei fornitori e sulle politiche di vendita. Per il suo modo di fare e di parlare, Il Lupo era considerato un vero personaggio, abbastanza conosciuto anche nell’ambiente locale della discoteca. Fui proprio io a suggerire di usare quel nickname e trasformarlo in una sorta di brand, coniando il logo col suo profilo in stile pop art. Al nome inglesizzato Michael Wolf venne aggiunto Record Pusher, sia nel senso di “spacciatore di dischi” che di “colui che spinge”. Un’idea che riscosse da subito simpatia e consenso.

Ai tempi che tipo di investimento economico era necessario per avviare un’attività di quel genere?
Si poteva partire con qualche decina di milioni di lire, più o meno cinquanta, ma noi lo facemmo con circa la metà avendo la possibilità di riutilizzare i mobili e le strutture lasciate della champagneria che occupava il locale sino a pochi mesi prima.

A Parma c’erano altri negozi simili al vostro?
Se non ricordo male nel 1993 c’erano almeno cinque o sei negozi che vendevano musicassette e CD “di catalogo”, come si diceva allora. Solo in uno di essi erano esposte un paio di vasche di dischi mix, quasi esclusivamente nazionali, che si potevano “pescare” e pagare alla cassa. Per trovare novità degne di essere suonate in un buon club bisognava spingersi almeno fino a Reggio Emilia, nel fornito reparto del Mariposa, o nei negozi di Modena, il Groove DJ Point e il Disco Inn, che distavano circa sessanta chilometri.

2) il bancone
Il bancone equipaggiato con consolle

Quanto era grande il punto vendita? Come era organizzato all’interno?
La metratura del negozio era di appena 25 mq compreso il retro. Oltre a tre punti d’ascolto allestiti con Technics SL-1200, cuffie ed amplificatori, disponevamo di una consolle con mixer e due piatti Technics SL-1200 sul bancone da cui facevamo ascoltare ai clienti i dischi assortiti alle nostre spalle.

Che generi musicali trattavate?
Puntavamo su tutto ciò che fosse di difficile reperibilità nella nostra zona cercando di ritagliarci la fetta di mercato esclusiva e scoperta legata alla musica destinata a DJ, radio e discoteche. Davamo soprattutto spazio ad house, techno, hip hop, acid jazz, breakbeat, drum n bass ed elettronica, specialmente ai dischi d’importazione.

3) gli stili affrontati
Un banner pubblicitario che mette in evidenza i generi trattati

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
La quantità variava in base alle annate ma, facendo una giusta media, direi circa 500 pezzi a settimana.

Praticavate anche vendita per corrispondenza?
La vendita per corrispondenza contribuiva ad arrotondare discretamente il fatturato medio, circa del 15% ogni mese. Gli ordini telefonici arrivavano principalmente dalle città limitrofe, sprovviste di punti vendita dedicati ai DJ e lì dove riusciva ad arrivare la nostra pubblicità radiofonica. In particolare mi riferisco alle province di Piacenza, Cremona e Mantova.

Sapresti indicare i tre best seller? Conservi ricordi intrecciati ad essi?
“Pride (A Deeper Love)” di Aretha Franklin, uscito la prima settimana di dicembre ’93 proprio mentre inauguravamo il Michael Wolf. Si trattava di un triplo mix americano su Arista che si presentava come un oggetto un po’ più costoso del solito ma estremamente nuovo ed accattivante sia nel contenuto che nella confezione. Fu decisamente un gran bel biglietto da visita per il nuovo negozio e fu il nostro primo best seller;
“This Is A…? / Acid Phase” di Emmanuel Top: gran parte della nostra clientela seguiva il movimento delle discoteche toscane e noi facevamo in modo di offrire una vasta scelta di mix di techno ed elettronica di ottimo “Tuscania Sound”. Erano dischi veramente molto ambiti e in zona si potevano trovare praticamente solo da noi. In virtù di ciò diventammo un punto di riferimento territoriale in questo genere. Devo ammettere che tutte le uscite su Attack Records ci diedero grandi soddisfazioni ma in modo particolare questa che, in termini di quantità, fu in assoluto il top tra i nostri best seller, non solo nel periodo a ridosso dell’uscita, tra 1994 e 1995, ma anche in seguito perché da noi continuamente riassortito almeno fino al 1999;
“Missing (Todd Terry Remix)” degli Everything But The Girl: lo avevamo preso a gennaio ’95 ma giaceva invenduto, non lo voleva davvero nessuno. A marzo Ralf lo suonò in un locale, in città, e magicamente cambiò tutto: il giorno dopo vendemmo di colpo le dieci copie americane disponibili a cui poi ovviamente ne seguirono molte altre.

C’erano DJ noti che frequentavano il negozio?
Offrendo un servizio esclusivo in un raggio relativamente ampio, i DJ più popolari della zona si rifornivano da noi e, in quanto clienti abituali, ricevevano un buon trattamento attraverso una valida e nutrita casella di novità settimanali da ascoltare, a volte anche con un piccolo sconto alla cassa sul totale. Nel corso degli anni abbiamo ricevuto anche qualche visita inaspettata da occasionali clienti “vip” che si trovavano di passaggio a Parma, come Frankie Hi-NRG MC, Johnson Righeira dei Righeira o Peak Nick. Tra i nostri giovani clienti di allora c’erano, tra gli altri, anche Marcello Giordani (intervistato qui, nda) e Marco Lentano, oggi apprezzati a livello internazionale coi loro progetti Marvin & Guy e Mushrooms Project.

4) DJ Emergenti Awards
I flyer risalenti al triennio 1995-1996-1997 relativi ad alcune delle competizioni organizzate da Michael Wolf per i DJ emergenti

Rammenti aneddoti legati a qualche cliente?
Negli anni Novanta i DJ cercavano costantemente novità e si impegnavano per scovarle e proporle prima dei colleghi. Per riempire un’ora di musica mixata occorrevano circa una ventina di dischi e quelli d’importazione erano piuttosto cari, pertanto fare il DJ, oltre alla passione, implicava anche un certo sacrificio e sforzo economico. Due clienti, Leo Mussini e Francesco Mantovani alias Cisky, di cui uno proponeva house garage e l’altro sonorità più dub, costituirono tra di loro una specie di società per accaparrarsi le uscite in formato doppio mix che, se import, erano particolarmente costose. In pratica le acquistavano dividendosi un 12″ a testa scegliendolo in base alle versioni più idonee al proprio stile.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
Tra i vari generi, direi una quarantina abbondante di titoli, naturalmente alcuni in quantità esigue.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare?
Ogni lunedì arrivavano, presso gli importatori, le novità spedite dall’estero, principalmente da Regno Unito e Stati Uniti, e mi recavo di persona nei magazzini a Milano per ascoltare e comprare. Le sedi di questi grossisti erano concentrate nella zona di via Mecenate, nelle immediate vicinanze dell’aeroporto di Linate. Si doveva usare un certo intuito ascoltando ogni disco per capire a quanti e quali DJ proporlo e quanti tra loro lo avrebbero acquistato e suonato. Bisognava essere molto bravi e precisi nello scegliere perché questi dischi d’importazione venivano pagati all’acquisto e, al contrario dei dischi nazionali, in seguito non era possibile fare resi di merce al fornitore, quindi bisognava assolutamente evitare rimanenze. Quei lunedì a Milano rappresentavano anche un importante momento di ritrovo e confronto con gli altri commercianti di dischi import per DJ che, da gran parte d’Italia, si radunavano lì per l’ascolto e l’acquisto delle novità. Si respirava un grande fermento di idee e sicuramente più di una hit underground da club è nata anche da quei ritrovi tra commercianti e importatori. ll sabato mattina inoltre ricevevamo dal corriere i riassortimenti ed ulteriori novità ordinate via fax nel corso della settimana.

5) esposizioni interne
Esposizione interna di dischi e cassette. Tra gli altri si scorgono “The Rockafeller Skank” di Fatboy Slim, “Paradise” di Bob Sinclar, “Angel” dei Massive Attack, il primo volume della compilation “Ultradolce”, “Flat Beat” di Mr. Oizo, “1999” dei Cassius e “Body” dei Funky Green Dogs

Quanto pesava sulle vendite di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ particolarmente in vista?
In quegli anni, in Italia, i titoli inseriti nella Pagellina settimanale di Radio DeeJay distribuita in tutti i negozi di dischi – in particolar modo quelli della DeeJay Parade stilata da Albertino -, rappresentavano il pane quotidiano per punti vendita come il nostro. L’influenza di Albertino sulla vendita di dischi era decisiva. Per le nostre vendite contavano moltissimo anche le scelte dei DJ di grido durante le loro serate nei club. La vendita di altri titoli venne “pilotata” da noi, a livello locale, insieme ai programmi radiofonici Overload su Radio Base (Cremona) ed Effetto 29 su Radio Circuito 29 (Mantova). Per il nostro tipo di clientela inoltre erano particolarmente influenti le scelte dei vari programmi di Italia Network.

C’è un disco che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più e che invece rimase confinato a pochi eletti?
“Raccolta N°1” dei Montefiori Cocktail, su Irma Records. Un sabato mattina di luglio 1997 arrivò in negozio un servizio novità della Flying Records che in quel periodo distribuiva la Irma, contenente per l’appunto “Raccolta N°1”, un disco che mi conquistò all’istante e che in seguito divenne molto importante per me. Mi portai a casa la copia campione e cercammo in seguito di proporlo anche ai selector dei club ma ovviamente fece ben poca presa.

6) I freemag
I magazine ideati da Michael Wolf

Sull’esempio del Disco Inn di Modena e del Disco Più di Rimini, anche voi creaste una sorta di magazine, prima chiamato Dancefloor e poi Dance Music Specialist. Quali ragioni vi spinsero a coltivare un’iniziativa di questo tipo?
Oltre alla pubblicità radiofonica ed alla collaborazione con programmi di dance alternativa, abbiamo affittato inserti e spazi pubblicitari all’interno di giornali e riviste a distribuzione locale gratuita, da riempire con la comunicazione a cura dei nostri DJ. Per noi era importante la loro promozione, più erano lanciati, più acquistavano novità, alimentando il loro ed il nostro business in un vero circolo virtuoso. A riempire tali spazi con recensioni e segnalazioni erano i DJ più attivi in consolle e nelle radio tra cui Ado The Dream, Federico ‘Alar’ Simonazzi, Polly, Ginger e Gigi ‘MTN’ Montanini, frequentatori assidui del negozio. Per loro era l’occasione di autogestirsi a livello locale disponendo di uno spazio come già facevano i loro colleghi più blasonati dalle pagine di DiscoiD e del Disco Mix.

Alcuni negozi di dischi, in Italia e all’estero, sono stati pure la culla di produzioni discografiche e conseguentemente di etichette. In tal senso avevate preventivato qualcosa di simile?
Tra i frequentatori del Michael Wolf c’era Emanuele Asti, artefice di diversi successi, su tutti “The Summer Is Magic” di Playahitty. Un giorno ci propose di lavorare insieme su un pezzo scritto e cantato da lui nello stile di Jamie Principle e Robert Owens. Il risultato fu “Alone” di Michael Wolf Presents Unforgettable Trees, pubblicato dalla Mammut Records del gruppo Dancework nel 1993. Era una buona traccia a cavallo tra deep house e garage, avvalorata da un paio di versioni del citato Cisky, ottimo DJ e produttore, oltre alle mie. Nel 1996 curammo, sempre come Michael Wolf, la riedizione di “Neue Dimensionen” di Techno Bert (di cui parliamo qui, nda) e dei remix project “Koto/Dragon’s Legend”, “Visitors/Japanese War Game” e “Pulstar/Oxigene” editi da Hitwave Music. In quell’occasione elaborammo il tutto negli studi dell’American Records di Modena (a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda), insieme a Roberto ‘Bob One’ Attarantato e Yale.

7) flyer disco su Mammut
Un flyer del ’94 in cui viene menzionata “Alone”, una delle produzioni discografiche edite come Michael Wolf

A tuo avviso cosa innescò il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
I Novanta furono gli anni in cui il disco in vinile divenne desueto per i consumi di massa. Dischi e giradischi passarono dai salotti e dalle camerette ai solai e alle cantine. Pure il formato “singolo” non funzionava più come prima sin da quando, nel 1989 circa, smisero di stampare i 7″ col fine di rimpiazzarli col CD singolo che però, come è ben noto, non ha mai preso completamente piede. Il vinile (r)esisteva come formato professionale per DJ e discoteche ed era reperibile quasi esclusivamente in negozi come il nostro. Contemporaneamente, alla fine del decennio, si affacciò e si impose sul mercato la grande distribuzione (Fnac, Ricordi ma pure vastissimi reparti allestiti all’interno degli ipermercati della GDO) che, grazie alla sua filiera, poteva offrire grandi assortimenti e prezzi altamente concorrenziali, impraticabili dai piccoli commercianti. Le alte spese di gestione e il continuo aumento del costo della merce, in un contesto con modesti ricarichi, furono essenzialmente le cause principali della sparizione dei negozi di dischi a cavallo del nuovo millennio. Ad un certo punto non si trovavano più i dischi mix e i ricercatori di sound si dovettero buttare giocoforza sull’offerta in CD, su Napster e sugli acquisti per corrispondenza a costi più elevati, adattandosi alle nuove condizioni.

In termini economici, qual è stata l’annata più fortunata e quella meno del Michael Wolf?
Credo che le annate migliori siano state il 1995 e il 1996. Dall’apertura, avvenuta a fine 1993, l’andamento fu crescente nel primo quadriennio. Il quinto anno fu stabile ma iniziarono ad aumentare le spese. A seguire registrammo una lenta ma progressiva discesa.

Quando chiude il negozio?
Intorno alla metà del 1999 ci rendemmo conto che da lì a breve il Michael Wolf non sarebbe più stato in grado di garantirci due stipendi così dovetti abbandonare il mio contratto di Co.Co.Co. nell’agosto di quell’anno. Il negozio proseguì la sua attività fino al 2002 commerciando soprattutto piccoli lotti di dischi usati.

9) Passera e Catellani (1994)
Robert Passera e Michele “Il Lupo” Catellani nel 1994

Pensi che in futuro ci sarà ancora spazio per i negozi di dischi?
In Italia le spese di gestione sono piuttosto alte. Per un negozio di dischi poi, la posizione geografica è certamente importante, sia per bacino di utenza che raggiungibilità. Un negozio fisico oggi contempla necessariamente anche altri servizi come, ad esempio, vendita e noleggio di materiali, accessori e gadget, oltre a dischi usati. Sarebbe bello se ce ne fossero tanti, nella mia regione ne esistono ancora, sia quelli aperti in passato che quelli inaugurati in epoca più recente.

Cosa c’è adesso al 75/A in Via Bixio, a Parma, al posto di Michael Wolf?
Una pizzeria al taglio.

Qual è la prima cosa che ti torna in mente ripensando al negozio e a quel luogo?
Davvero tante cose belle ma che ormai appartengono alla sfera dei ricordi. Il luogo e il business non sono più gli stessi e nemmeno il quartiere, l’Oltretorrente, oggi un po’ degradato.

(Giosuè Impellizzeri)

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Quando il remix batte l’originale

Di solito nella musica destinata alle discoteche le versioni originali restano imbattibili ma è capitato che a fare la differenza siano stati i remix, soprattutto negli anni Novanta quando tale pratica raggiunge probabilmente l’apice per esiti creativi e popolarità. A testimonianza ci sono brani noti unicamente attraverso i remix e di cui oggi è difficile recuperare le versioni originali, sepolte e dimenticate persino dagli stessi autori. L’articolo di Giosuè Impellizzeri che segue si pone il fine quindi di riassumere quanto avvenuto grazie ai remix nel decennio compreso indicativamente tra il 1990 e il 2000, sia a hit da milioni di copie che a brani dal successo più contenuto, per offrire al lettore un vero viaggio immersivo che conta oltre cento casi, in rigoroso ordine alfabetico e a cavallo dei generi più disparati, dall’eurodance alla house, dalla trance alla progressive. Non manca qualche particolare episodio in cui sarebbe più pertinente parlare di rivisitazione o dove il termine remix è stato usato in modo improprio. L’indagine evidenzia inoltre il ruolo tutt’altro che marginale rivestito dagli italiani, artefici in più di qualche sporadica occasione di autentiche hit mondiali. Il tutto senza la pretesa di essere esaustivo, probabilmente è utopico stilare una lista omnicomprensiva e per turare le falle della ricerca non è escluso che nel corso del tempo possano aggiungersi altri titoli e quindi nuove storie e testimonianze.

49ers - Baby, I'm Yours49ers – Baby, I’m Yours
La versione iniziale di “Baby, I’m Yours”, in chiave hi nrg, è pensata per essere esportata nel mercato orientale, quello a cui la Media Records destina diverse produzioni raccolte sotto il brand Media Sound For Japan. Il caso però vuole che Mario Scalambrin senta il pezzo negli studi roncadelliani e si offra spontaneamente per reinterpretarlo. A venir fuori è la versione più nota, la Van S Hard Mix (il Van è un tributo ad Armand Van Helden, la S invece sta per Scalambrin), completamente diversa da quella di partenza, col cantato di Ann-Marie Smith ridotto all’osso ed uno spingente giro di basso. «All’inizio non piacque a Bortolotti tanto che dovetti insistere parecchio per farla inserire sul 12″» racconta lo stesso Scalambrin in questa intervista. Finito alla fine del ’96 nel catalogo della Heartbeat, etichetta a cui abbiamo dedicato una monografia qui, “Baby, I’m Yours” rilancia il nome dei 49ers dopo alcuni pezzi passati inosservati soprattutto in Italia come spieghiamo qui ed apre un’elettrizzante fase per Scalambrin, A&R in carica della citata Heartbeat e da lì a breve autore (insieme a Roberto Guiotto) della versione più forte di “Gipsy Boy” di Sharada House Gang, una miscellanea tra “Hideaway” di De’Lacy e i suoni della sua reinterpretazione di “Baby, I’m Yours”.

740 Boyz - Shimmy Shake740 Boyz – Shimmy Shake
In scia alla rinnovata formula hip house in grande spolvero dopo i fasti iniziali sviluppati a Chicago, i 740 Boyz prodotti da Winston Rosa debuttano nel ’92 con “It’s Your Party”. Due anni più tardi arriva “Shimmy Shake” in stile miami bass, passato completamente inosservato. A cambiare le sorti del brano, nei primi mesi del 1995, è il remix realizzato in Italia da Costantino ‘Mixmaster’ Padovano e Ciro Sasso che lo stravolgono interamente ispirandosi in modo piuttosto palese allo stile degli Outhere Brothers, team chicagoano che in quel periodo si impone in Europa con diverse hit. Un autentico colpaccio per la Cutting Records dei fratelli Aldo ed Amado Marin che, archiviata l’electrofunk di Hashim, Imperial Brothers e Nitro Deluxe, vive una seconda giovinezza grazie ai 2 In A Room con “Wiggle It” ed altri fortunati singoli come “El Trago (The Drink)”, “Ahora! (Now!)”, “Giddy Up” e “Carnival” a cui i 740 Boyz (più avanti remixati anche da Fargetta, si senta “Party Over Here” del 1996) fanno da cornice.

Age Of Love - The Age Of LoveAge Of Love – The Age Of Love
Nel 1990 nessuno alla DiKi Records immagina cosa sarebbe diventato questo brano nel corso del tempo. Prodotto dall’italiano Bruno Sanchioni che assembla vari sample (tra cui quelli di “Native House” di MTS And RTT e “Native Love (Step By Step)” di Divine) a cui aggiunge una breve parte vocale femminile registrata ad hoc ed uno pseudo rap maschile scritto ed interpretato da un altro italiano, Giuseppe Chierchia meglio noto come Pino D’Angiò, “The Age Of Love” si trasforma in uno dei primi prototipi trance. Ai tempi della pubblicazione totalizza appena una manciata di licenze e circa duemila copie, soglia davvero risibile. La situazione si ribalta due anni più tardi quando, su iniziativa dell’etichetta britannica React, “The Age Of Love” viene remixata dall’emergente duo tedesco Jam & Spoon. La Watch Out For Stella Club Mix, come descritto in questo articolo, rimette tutto in discussione attraverso una schematizzazione diversa degli elementi di partenza che esalta il potere ipnotico dell’originale raggiungendo esiti virtuosistici inaspettati. Ad oggi è difficile stabilire con precisione quante copie siano state vendute ma, considerando la sfilza di remix e ristampe giunte sul mercato in circa un trentennio, è ipotizzabile stimarne oltre un milione.

AK Soul - FreeAK Soul – Free
Col fine di tornare al successo raccolto tra 1991 e 1993 con gli Euphoria, l’australiano Andrew Klippel si ribattezza prima Elastic e poi AK Soul. I primi tentativi sono vani ma è solo questione di tempo. Un suo pezzo intitolato “Free”, incluso nell’album omonimo in circolazione dal 1996 ed interpretato da Jocelyn Brown, stuzzica l’interesse di Joe T. Vannelli che lo prende in licenza dalla Festival Records e lo pubblica su Dream Beat prima coi remix (house) di Marco ‘Polo’ Cecere e poi con quello (eurodance) di Fargetta, particolarmente fortunato nel mainstream nostrano. Spazio anche a due reinterpretazioni dello stesso Vannelli, la Club Mix e la Corvette Mix (Corvette è il nome con cui in quegli anni il DJ sigla decine di remix tra cui quelli di “Return Of The Mack” di Mark Morrison, “Love Shine” di Rhythm Source, “Nite Life” di Kim English e “Looking At You” dei Sunscreem). Impreziosito da tutto ciò, nei primi mesi del 1998 “Free” esce dall’anonimato e vive un’ottima parabola europea a cui la Dream Beat cerca di dare un continuum attraverso i remix di un altro pezzo dell’album, “Show You Love”, ma raggiungendo inferiori risultati.

Amos - Only Saw TodayAmos – Only Saw Today
Collaboratore di vecchia data di Boy George, nella primavera del 1994 Amos Pizzey vive uno dei momenti più esaltanti della carriera. La More Protein, nata nel 1989 con “Everything Begins With An ‘E'” degli E-Zee Possee, un classico dell’acid house britannica, pubblica “Only Saw Today”, un brano house che Pizzey produce insieme ad Andronicus dei Diss-Cuss e in cui campeggia un sample di “Instant Karma!” di John Lennon. All’inizio la Murder Mix incuriosisce solo i DJ specializzati ma a mutare le sorti è il remix realizzato in Italia dal Factory Team composto per l’occasione da Fabio Serra, Mauro Farina e Johnny Di Martino che trasformano la house in eurodance, rendendo accessibile al grande pubblico ciò che invece è riservato ad una ristretta nicchia di ascoltatori. Visto il successo internazionale la versione approntata negli studi della Saifam, a Verona, viene scelta per sincronizzare il videoclip. Il Factory Team metterà mano pure ai successivi “Sweet Music” e “Let Love Shine” ma con esiti calanti.

Andreas Dorau - Girls In LoveAndreas Dorau – Girls In Love
Finito nelle classifiche nel 1981 con “Fred Vom Jupiter” realizzato quando è ancora adolescente, il musicista tedesco Andreas Dorau scrive musica per film e si interessa di video. Negli anni Novanta collabora con Tommi Eckart col quale realizza il brano “Girls In Love”. La versione originale, aperta dall’urlo preso da “Scream For Daddy” di Ish Ledesma, inclusa nell’album “70 Minuten Musik Ungeklärter Herkunft” ed accompagnata dal relativo videoclip è un’allegra canzoncina da intonare sotto la doccia. In Italia però ad avere la meglio è il remix di Wolfgang Voigt alias Grungerman. Riducendo la struttura e gli elementi al minimo indispensabile, il prolifico produttore di Colonia, co-fondatore della nota Kompakt, ottiene una traccia meno pop e scanzonata che però riesce incredibilmente a fare crossover tra le discoteche specializzate e le radio. Autentico collante tra la compassata griglia ritmica e le strofe in lingua tedesca è il ritornello, in inglese, ricavato da “Girl’s In Love” di Shirley Kim del ’78 e reinterpretato da Inga Humpe, che qualche anno più tardi forma col citato Eckart il duo 2raumwohnung. A pubblicare in Italia i remix di “Girls In Love” (ma escludendo la versione originale) è la PRG del gruppo Expanded Music. Parti del remix di “Girls In Love” si ritroveranno in un pezzo prodotto nella nostra penisola che, tra la fine del 1997 e il primi mesi del 1998, si afferma sulla piazza internazionale, “Repeated Love” di A.T.G.O.C., acronimo di A Thousand Girls One Condom.

Ayla - AylaAyla – Ayla
Praticamente sconosciuto in Italia ma non nel nord Europa dove vende svariate migliaia di copie, “Ayla” è il brano con cui, nel 1996, il tedesco Ingo Kunzi, già noto come DJ Tandu, inaugura un nuovo corso della sua carriera da produttore. Edita dalla Maddog del gruppo Intercord, la versione originale della traccia plana su incantati pad a cui si sovrappone, in progressione, una melodia di pianoforte. Poi arriva l’onda acida della TB-303 che si infrange portando schegge taglienti ed arroventate. A fare la differenza nelle classifiche è però il remix di Ralph Armand Beck alias Taucher in cui viene sviluppata una linea melodica più marcata che garantisce un’incredibile longevità ulteriormente riverberata dal remake di Kosmonova giunto nel 1997. A cimentarsi in un rifacimento è pure l’italiano Luca Moretti in “Ayla” su Italian Style Production, firmato come Sunrise nel 1998. Alla luce del successo ottenuto, Kunzi produrrà “Ayla Part II” avvalendosi del supporto di Taucher e dell’inseparabile Torsten Stenzel intervistato qui.

Azzido Da Bass - Dooms NightAzzido Da Bass – Dooms Night
Nel 1999 è la Club Tools del gruppo Edel a pubblicare il brano con cui il tedesco Ingo Martens materializza il progetto Azzido Da Bass. La Club Mix, prodotta ed arrangiata con Stevo Wilcken, è trance assemblata senza particolari doti creative e che rasenta la banalità per stesura e scelta di suoni (basso in levare, cassa con riverbero, accenni acid, melodia monocorde ed un sample estorto ad una hit di quell’anno, “Flat Beat” di Mr. Oizo). Tra i remix commissionati e pubblicati in seguito però ce n’è uno che cambia tutto, quello di Timo Maas (affiancato da Andy Bolleshon e Martin Buttrich), che trasforma Azzido Da Bass in una star internazionale con una soglia stimata di circa un milione di copie vendute. «Il primo remix che realizzammo di “Dooms Night” fu rifiutato dalla Edel perché all’interno non c’era nessun elemento tratto della traccia originale» racconta Maas in questa intervista. «Riprovammo usando solo il basso e dopo circa quattro ore il secondo remix, quello che oggi tutti conoscono, era pronto. Il primo lo riciclammo qualche tempo dopo e divenne la mia “Ubik”». Una cosa simile avviene anche in Italia giusto un paio di anni prima: il remix di “Back To The 70’s” di Carl si trasforma in “Disco Fever” di Carl Feat. Music Mind, così come lo stesso Fanini svela qui.

Basic Connection - Hablame LunaBasic Connection – Hablame Luna
Corre il 1996 quando la No Colors, etichetta del gruppo F.M.A., pubblica il 12″ di debutto di Basic Connection. Ad armeggiare dietro le quinte del progetto è il compositore e musicista Mauro Tondini, uno dei Tipinifini scritturati da Claudio Cecchetto per la sua Ibiza Records nel 1985, affiancato dalla vocalist Daniela Gorgoni. Il brano si intitola “Faithless (Hablame Luna)” ed è quasi interamente strumentale. L’Original Mix gira su un intensivo arpeggio che pare tributare “Where The Street Have No Name” degli U2 (proprio quell’anno ripreso in “Landslide” dagli Harmonix, sull’esempio offerto dall’australiano Mystic Force nel brano omonimo del ’94 a cui si ispirano pure Mario Più e Mauro Picotto per “No Name” nel ’97) mentre la Progressive Mix si adagia sull’annunciata formula progressive con tanto di graffiate acide che nel ’96 tiene banco in Italia spodestando l’eurodance nella sua forma più classica. “Faithless (Hablame Luna)” si perde nel marasma delle produzioni simili piombate quell’anno ma tutto cambia nell’autunno del 1997 quando riappare in una nuova versione, questa volta sviluppata sulla song structure ed intitolata “Hablame Luna”. Ridotta la componente progressive in favore di quella pop, il pezzo esplode in tutta Europa, trainato dal relativo videoclip in heavy rotation su MTV. Sul 12″ c’è pure il remix firmato da uno dei guru della house statunitense, Todd Terry, forse pensato per introdurre i Basic Connection in una scena parallela a quella pop ma in questo caso non determinante per il successo come invece avvenuto in altre occasioni.

Billie Ray Martin - Your Loving ArmsBillie Ray Martin – Your Loving Arms
A produrre “Your Loving Arms”, estratto come primo singolo da “Deadline For My Memories”, sono i Grid (quelli di “Texas Cowboys”) e il musicista David Harrow alias James Hardway. È proprio quest’ultimo ad approntare la base su cui la cantante, ex componente degli Electribe 101, scrive il testo. «Conservo ancora la cassetta su cui Hardway incise il demo, sopra c’era scritto “little techno demo”» racconta Billie Ray Martin in questa intervista. La versione più nota però non è l’Original, con arrangiamenti tangenti l’eurodance, bensì la Soundfactory Vocal realizzata da Junior Vasquez, che fa di “Your Loving Arms” una hit mondiale da circa due milioni di copie. «Non scelsi Vasquez personalmente ma fui entusiasta del suo lavoro» prosegue l’artista. «Senza il suo intervento il disco non sarebbe diventato quello che è stato».

Black Connection - Give Me RhythmBlack Connection – Give Me Rhythm
Black Connection è il progetto dietro cui operano i DJ capitolini Corrado Rizza e Gino ‘Woody’ Bianchi affiancati dal musicista Domenico Scuteri. Il nome sottolinea l’amore che gli autori nutrono per il funk, il soul e la musica black in generale. Nel 1997 realizzano, per la loro Lemon Records, il brano “Rhythm”, in cui figurano vari campioni vocali e ritmici presi dal mondo del philly sound. Quando Alex Gold dell’Xtravaganza Recordings si mostra interessato a licenziare il brano nel Regno Unito i tre decidono però di apportare delle modifiche e chiedono ad Orlando Johnson di scrivere un testo e cantarlo col fine di dare al risultato finale un’impronta più pop. Dopo queste variazioni la traccia viene reintitolata “Give Me Rhythm” ed affidata ai Full Intention che realizzano un nuovo remix che va ad affiancare quello di Victor Simonelli già presente sulla prima tiratura. A quel punto, come Corrado Rizza racconta in questo articolo, «il pezzo entrò nella classifica britannica e venne suonato da tutte le radio. Pete Tong lo inserì nella sua raccolta annuale, “Essential Selection – Spring 1998” e finì in tante altre compilation come quella del tour australiano del Ministry Of Sound e quella dello Space di Ibiza. Nei club dell’isla blanca divenne una vera hit! In Italia lo cedemmo alla VCI Recordings, divisione dance della Virgin che si fece avanti dopo il clamore suscitato oltremanica». Per i Black Connection, dunque, si rivela propizia la scelta di far cantare il brano ed è simile la sorte di altri pezzi commercializzati in forma strumentale ma diventati successi con la versione cantata, da “Needin’ You” di David Morales/The Face ad “Horny” di Mousse T., da “Right On!” dei Silicone Soul a “Da Hype” di Junior Jack passando per “Hindu Lover” di Djaimin, “Groovejet” di Spiller e “Jambe Myth” degli Starchaser.

Blackwood - Ride On The RhythmBlackwood – Ride On The Rhythm
Attivo sin dal 1992 ma più noto all’estero che in Italia, il progetto Blackwood si impone anche in patria alla fine del 1996 con “Ride On The Rhythm”. Scritto ed interpretato dalla vocalist americana Taborah Adams e prodotto da Toni Verde e Sandro Murru, il brano non sortisce grandi risultati con la prima tornata di remix tra cui quello di Marascia scopiazzato dal trattamento dei Deep Dish su “Hideaway” dei De’Lacy. Va diversamente però quando arriva la versione di Alex Natale, composta sulla falsariga del remix realizzato pochi mesi prima per “What Goes Around Comes Around” di Bob Marley, usata per il videoclip e cruciale per il successo. Il momento è galvanizzante per l’etichetta romana A&D Music And Vision che per un biennio circa continuerà a scommettere su Blackwood ed altri progetti complementari come Chase e Gate.

Blast - Crayzy ManBlast – Crayzy Man
Partiti nel 1993 col poco noto “Take You Right”, i siculi Blast (Fabio Fiorentino, Roberto Masi e il cantante Vito De Canzio alias V.D.C.) si impongono a livello internazionale l’anno dopo con “Crayzy Man”, oggetto di numerose licenze estere, Regno Unito e Stati Uniti inclusi. Sul 12″ edito dalla napoletana UMM la versione originale del brano, la Club On Blast, finisce sul lato b. A prevalere è il remix realizzato dai Fathers Of Sound (Gianni Bini e Fulvio Perniola) che traina il pezzo dalle discoteche specializzate alle classifiche radiofoniche e di vendita. «Con la loro versione chiamata F.O.S. In Progress i Fathers Of Sound stravolsero l’originale dotandola di sonorità più aperte e tipiche della house internazionale» afferma De Canzio in questa intervista qualche anno fa. «Riuscirono a valorizzare ulteriormente le nostre idee portando il brano ad un livello superiore, facendolo uscire dai confini della house da club traghettandolo nel mondo commerciale (nel senso positivo del termine), con un appeal vendibile e radiofonico». A supporto di “Crayzy Man” è pure il video girato al cretto di Burri e sincronizzato sulla F.O.S. In Progress. Saranno sempre i Fathers Of Sound a mettere mano al follow-up, “Princes Of The Night” mentre a “Sex And Infidelity” del ’95 ci penseranno gli svedesi StoneBridge e Nick Nice e i Ti.Pi.Cal. che, come i Blast, sono originari dell’isola della trinacria.

Bloodhound Gang - The Bad TouchBloodhound Gang – The Bad Touch
Corrono i primi mesi del 2000 quando la band indie rock statunitense Bloodhound Gang si ritrova proiettata inaspettatamente nell’eurodance. Ciò avviene attraverso il remix di un brano estratto dal terzo album “Hooray For Boobies”, pubblicato nel ’99 dalla Geffen e in circolazione attraverso un ironico videoclip. A dirla tutta la versione originale mostra già propaggini ballabili ma il trattamento riservato ad essa dagli Eiffel 65, ovviamente sullo schema di “Blue (Da Ba Dee)”, ne amplifica la portata sino a farne un classico proposto ancora oggi a distanza di oltre vent’anni. Per Lobina, Ponte e Randone è un momento magico sancito da decine di remix e dall’uscita del loro primo album, “Europop”, per cui pare la Universal abbia sborsato 500.000 dollari per assicurarsi i diritti.

Bob Marley - What Goes Around Comes AroundBob Marley – What Goes Around Comes Around
Così come riportato nelle note del 12″ e del CD su JAD Records, le parti vocali di “What Goes Around Comes Around” vengono registrate in Jamaica nel 1967 ma restano nel cassetto sino al 1996, anno in cui sul mercato arrivano diverse versioni come quelle di Fabian Cooke e di Christopher Troy e Zack Harmon. A fare la differenza però, senza timore di smentita, è quella realizzata in Italia da Alex Natale (affiancato da Alex Baraldi con cui l’anno dopo mette mano a “Oh What A Life”, un inedito di Gloria Gaynor), diventata una hit estiva. A pubblicare da noi “What Goes Around Comes Around” è la Dance Factory del gruppo EMI che, parimenti alla JAD Records, sottolinea l’inedicità del pezzo apponendo la dicitura “previously unreleased” in copertina. Natale e Baraldi ci riprovano l’anno seguente ritoccando “Fallin’ In & Out Of Love” ma non riuscendo nel difficile compito di eguagliare i risultati. Va meglio invece a “Sun Is Shining”, riconfezionata nel 1999 dal danese Funkstar De Luxe. Ps: tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97 un altro protagonista del reggae finisce in classifica con un remix, il giamaicano Jimmy Cliff. A curare la nuova versione di “Breakout” sono i fratelli Visnadi.

Bobby Brown - Two Can Play That GameBobby Brown – Two Can Play That Game
Ex componente dei New Edition, Bobby Brown si costruisce una solida carriera solista sin dal 1986, anno in cui debutta con “Girlfriend”. Svariati i successi incisi nel corso del tempo tra cui “My Prerogative” (remixato da Joe T. Vannelli), “Every Little Step”, “Something In Common”, duettando con la moglie Whitney Houston, e “Two Can Play That Game”, presente nella tracklist del suo quarto album, “Bobby”, uscito nel 1992. Il remix che consegna il brano r&b alla storia però arriva due anni dopo ed è firmato dai britannici K-Klass, abili nel ricostruire la tessitura ritmica in cui trova ricollocazione la voce di Brown. Il videoclip, programmatissimo da MTV, funge da propellente per la diffusione del pezzo finito nella top ten dei singoli più venduti nei Paesi Bassi e nella top twenty nel Regno Unito. In Italia il disco giunge nel 1995 grazie alla ZAC Records su licenza MCA. Negli advertising pubblicitari l’artista viene definito, con non poca esagerazione ed immodestia, “il re della dance music”.

B-Zet - Everlasting PicturesB-Zet – Everlasting Pictures
All’anagrafe è Steffen Britzke ma il mondo della musica lo conosce come B-Zet. Artefice, insieme a Matthias Hoffmann, Ralf Hildenbeutel e Sven Väth, di progetti come Mosaic, Odyssee Of Noises e They, il tedesco veste i panni di B-Zet dal 1993, anno in cui pubblica il primo album da solista, “Archaic Modulation”. I suoi interessi primari risiedono nella trance e nell’ambient, i due filoni entro cui si inscrive il brano “Everlasting Pictures (The Way I See)”, incluso nel secondo album intitolato “When I See…” e in cui si apprezza una breve parte cantata da Darlesia Cearcy. Nella tracklist dell’LP edito da Eye Q esiste una seconda versione, “Everlasting Pictures (Right Through Infinity)”, con maggiori concessioni al downtempo ed alla song structure. Nell’autunno del 1995 a decretare la fortuna di Britzke, riconosciuto come straordinario tastierista, è proprio uno dei remix di “Everlasting Pictures – Right Through Infinity”. A firmarlo sono StoneBridge e Nick Nice che continuano a riciclare la formula utilizzata per un altro epocale remix di cui si parlerà più avanti, quello di “Show Me Love” di Robin S.

Cappella - U Got 2 Let The MusicCappella – U Got 2 Let The Music
Quello dei Cappella è un caso non legato propriamente a un remix bensì a una reinterpretazione di un pezzo preesistente. Tutto ha inizio nel 1992 quando la Aries Records pubblica “Let The Music” di Legend, un brano eurodance costruito sul riff preso da “Sounds Like A Melody” degli Alphaville e un frammento vocale di “Let The Music Take Control” dei J.M. Silk. A produrlo è Pierre Feroldi, DJ bresciano particolarmente prolifico allora, seppur sulla white label promozionale, si dice limitata a una tiratura di poche decine di copie, non vengano riportate molte informazioni. Nell’autunno dell’anno dopo la rielaborazione del brano riappare sulla Media Records diventando la hit planetaria dei Cappella. «Due transfughi della Media Records tentarono di mettersi in proprio fondando una nuova etichetta, la Aries, ma si ritrovarono in seria difficoltà pochi mesi dopo essersene andati» racconta Gianfranco Bortolotti in questa intervista del 2015. «Pentiti della loro fuga, mi pregarono di aiutarli e salvarli dal fallimento così affidai il compito a Vicky, la figlia del mio socio Diego Leoni, di gestire quell’azienda mentre chiudevamo i rapporti coi fornitori e i creditori e valutavamo il prodotto ereditato. Tra i brani che avevano realizzato ne scovai uno che mi colpì e, seppur i miei collaboratori più stretti mi criticarono a lungo convinti che l’idea non avrebbe sortito buoni risultati, decisi che quello dovesse essere il punto di partenza per il follow-up di “U Got 2 Know” dei Cappella. Così, dopo circa quindici/venti rimaneggiamenti, trovai la soluzione, il mixaggio adeguato, l’alchimia giusta e fu un massacro, top in tutto il mondo». Delle tantissime versioni di “U Got 2 Let The Music” approntate negli studi a Roncadelle, la KM 1972 Mix di Pagany è quella più nota ed efficace. Analogamente a Cappella, anche altri brani trovano fortuna attraverso rielaborazioni: si segnalano “Technotronic” di The Pro 24’s da cui nasce “Pump Up The Jam” dei Technotronic, “Babe Babe” di Joy & Joyce e “Try Me Out” di Lee Marrow, diventati rispettivamente “Baby Baby” e “Try Me Out” di Corona, “Don’t You Worry” di Caminita Feat. Lorena Haarkur ricostruito per generare “Don’t Worry” di Clutch e “Get Together” di DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue trasformata in “Move Your Feet” di Jack Floyd (parliamo dettagliatamente di entrambe qui e qui), “Future Love” di Brahama premiata quando diventa “Future Woman (Future Love)” di Brahama / Rockets e “Mutation” di Pivot convertita, ma pare senza alcun intervento, nella Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” firmata Tony H.

Ce Ce Peniston - FinallyCe Ce Peniston – Finally
Quando il produttore Manny Lehman sente la voce della Peniston in alcuni brani di Overweight Pooch chiede al DJ Felipe Delgado, che pare avesse spronato l’amica cantante a collaborare con la rapper, di preparare un pezzo ad hoc per lei. A sua volta Delgado interpella un amico, Rodney Jackson, ed insieme approntano la versione originale di “Finally”. Per la A&M Records è un successo quasi istantaneo, la canzone entra nella Hot 100 di Billboard rimanendoci per ben 33 settimane e raggiungendo la quinta posizione il 18 gennaio 1992. A supporto giunge un remix che porta la giovane nativa di Dayton, in Ohio, a sfiorare la vetta della classifica di vendita dei singoli nel Regno Unito. Artefice è David Morales, l’anno prima all’opera su “Deep In My Heart” dei nostri Club House, che realizza la Choice Mix ispirato dal riff di pianoforte di “Someday”, successo di Ce Ce Rogers del 1987 prodotto da Marshall Jefferson. Da Ce Ce (Rogers) a Ce Ce (Peniston) è un attimo.

Cenith X - FeelCenith X – Feel
Dietro Cenith X c’è Achim Schönherr, compositore presumibilmente tedesco che nel 1995 debutta con “Feel”. La versione originale del pezzo incisa sul lato b, la SMP-Club Mix, scorre su layer di hammond e pianoforte, elementi tipicamente house ma per l’occasione piantati su una base ritmica a velocità sostenuta. A fare da collante tra le parti è un breve campione vocale femminile da cui deriva il titolo del brano. La 3 Lanka che pubblica il disco però scommette tutto sul remix realizzato dai Legend B (Peter Blase e Jens Ahrens), costruito sulla falsariga della loro “Lost In Love” uscita pochi mesi prima. È proprio questa versione, diventata un classico dell’hard trance, ad essere sincronizzata col videoclip e a decretare il successo in patria e in altri Paesi europei, Italia inclusa dove “Feel” gode del supporto di Molella nella prima edizione del programma Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui. A licenziarla da noi è la Discomagic che la convoglia su una delle sue innumerevoli etichette, la Hard Dance. Sul 12″ c’è pure un secondo remix a firma CZ 101, stilisticamente più affine alla versione di Schönherr.

Charlie Dore - Time Goes ByCharlie Dore – Time Goes By
Attrice, musicista e cantautrice pop/folk, la britannica Charlie Dore incide dischi sin dal 1979 col supporto della Island. Nel corso del tempo scrive prevalentemente per artisti di alto calibro come Tina Turner e Celine Dion (è suo il testo di “Refuse To Dance”, da “The Colour Of My Love” del ’93) ma non perde mai la voglia di riproporsi come interprete ed infatti nel 1995, a quattordici anni dal precedente, incide il terzo album, “Things Change”. All’interno, tra le altre, c’è “Time Goes By” che nella sua versione originale passa totalmente inosservata. Sono gli italiani Souled Out a stravolgere le sorti della canzone, data in pasto al popolo che anima le discoteche tra la fine del ’96 e l’inizio del ’97. Il successo è tale da richiedere anche un videoclip. La Bustin’ Loose Recordings, ai tempi guidata dall’A&R Stefano Silvestri, completa il quadro con ulteriori versioni affidate ad altri remixer di pregio tra cui Mike Delgado, Ivan Iacobucci e i fratelli Visnadi.

Chase - Stay With MeChase – Stay With Me
Come avvenuto a Blackwood, anche i primi anni del progetto Chase sono legati al “nemo propheta in patria”. Con “Obsession” però, inizialmente pubblicato con l’omonimo nome artistico e prodotto in scia al remix di “Missing” degli Everything But The Girl (da cui trae, oltre ad un sample ritmico, pure l’atmosfera tra romantico e malinconico), anche l’Italia cede al progetto eurodance che spopola tra la primavera e l’estate ’97. Da quel momento voce ed immagine vengono affidate alla cantante Cindy Wyffels. La fortuna di “Stay With Me”, uscito in autunno, risiede nel remix realizzato dagli stessi autori, Toni Verde e Sandro Murru, affiancati da Marascia, che puntano alla miscela del precedente così come vuole la ricetta del classico follow-up. La versione originale invece è una ballata pop rock, inserita nell’album “Barefoot” ma poco nota al grande pubblico. Anche per il singolo seguente, “Gotta Lot Of Love”, uscito ad inizio ’98, è determinante il remix questa volta affidato a Mario Fargetta coadiuvato in studio da Graziano Fanelli e Max Castrezzati.

Chicane - OffshoreChicane – Offshore
Gran Bretagna, 1996: Nicholas Bracegirdle è un musicista venticinquenne con studi classici maturati alle spalle ma attratto sin dall’infanzia dall’elettronica di compositori come Vangelis, Jean-Michel Jarre o Harold Faltermeyer e di gruppi come Yazoo. Durante la rave age scocca la scintilla per la nuova dance grazie ad “Anthem” degli N-Joi: «era una traccia ballabile con fantastici cambi di tonalità e melodia» spiega in un’intervista a Top Magazine ad aprile del 2000. Nel suo futuro però c’è musica piuttosto diversa da quella degli N-Joi, più rilassata, distesa e sognante, impregnata di una sorta di romanticismo misto a malinconia. «Tutto nasce dalle lunghe vacanze estive che trascorrevo coi miei genitori da bambino» spiega ancora in quell’intervista. «Ero sempre l’ultimo in spiaggia, quello che non voleva mai andarsene quando la bella stagione finiva. Credo di essermi sempre portato dietro questa sensazione di malinconia». È quell’atmosfera a contraddistinguere i suoi primi lavori discografici tra cui “Offshore EP #1”, uscito nel ’96 sull’etichetta pare creata dallo stesso autore, la Cyanide. Uno dei quattro brani racchiusi all’interno dell’extended play e prodotti in coppia con Leo Elstob è “Offshore”, crocevia tra contorte porzioni ritmiche breakkate e melodie che disegnano paesaggi incontrastati, ispirate da “Love On A Real Train” dei Tangerine Dream e “The Boys Of Summer” di Don Henley. Realizzata con modesti mezzi, inizialmente la traccia desta poca attenzione perché poco ballabile e quindi scarsamente utilizzabile in discoteca se non in particolari situazioni, quelle gergalmente dette “da decompressione”. La situazione viene capovolta però da un remix realizzato dagli stessi Bracegirdle ed Elstob nascosti dietro il nome Disco Citizens, pseudonimo con cui avevano già firmato “Right Here Right Now” l’anno prima per la Deconstruction. Ora dotato di un impianto ritmico in 4/4, “Offshore” viene acquisito dalla neonata Xtravaganza Recordings di Alex Gold e volta alto nelle classifiche di tutto il mondo (Stati Uniti inclusi) col suo carico “chill-trance”, ulteriormente riverberato in un videoclip sincronizzato proprio sul remix. Nel 1997 viene ufficializzata anche la versione cantata, realizzata a mo’ di mash-up dal DJ australiano Anthony Pappa incrociando la base del remix di “Offshore” all’acappella di “A Little Love A Little Life” dei Power Circle. Questa rivisitazione conquista il pubblico britannico e finisce anche nella tracklist del primo album di Chicane, “Far From The Maddening Crowds”, insieme ad altri singoli estratti, “Sunstroke”, “Red Skies” e “Lost You Somewhere”. Per Bracegirdle è solo l’inizio di una sfolgorante carriera che tocca l’apice tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila grazie a “Saltwater”, rilettura di “Theme From Harry’s Game” dei Clannad, e “Don’t Give Up” che vanta un featuring d’eccezione, quello di Bryan Adams.

CJ Bolland - Sugar Is SweeterCJ Bolland – Sugar Is Sweeter
Estratto dall’album “The Analogue Theatre” del 1996, lo stesso da cui proviene “The Prophet”, “Sugar Is Sweeter” è il brano in cui l’autore condensa una breakbeat rabbiosa ed intensa, sullo stile di “Poison” dei Prodigy a cui pare essersi ispirato scatenando peraltro le ire dei fan del gruppo di Liam Howlett. Il pezzo di Bolland non ha la forza di diventare trasversale però avviene comunque qualcosa che ne cambia gli esiti. Col suo remix, Armand Van Helden sostituisce la radice della traccia spostandola dalle sincopi del breakbeat alle misure quaternarie della house, nonostante il nome della versione, Drum ‘n Bass Mix, faccia pensare ad altro. Un ruolo più marginale spetta alla parte vocale della belga Jade 4 U a cui spetta un trattamento simile a quello riservato a Tori Amos e la sua “Professional Widow” di cui si parla più avanti.

Cornershop - Brimful Of AshaCornershop – Brimful Of Asha
Similmente ai Bloodhound Gang di cui si è già detto sopra, i britannici Cornershop vengono dall’indie rock. Quando “Brimful Of Asha”, uno dei brani del loro terzo album pubblicato nel ’97 ed intitolato “When I Was Born For The 7th Time”, finisce nelle mani di Norman Cook, dell’indie rock di partenza però rimane ben poco. Il DJ di Brighton, ribatezzatosi Fatboy Slim nel 1995 con “Santa Cruz” ed “Everybody Needs A 303”, ne ricava un incalzante inno big beat spinto da un hook che resta impresso a fuoco nella memoria di una generazione, “everybody needs a bosom for a pillow”. Cook conferma dunque la sua straordinaria versatilità dopo alcune prove ben riuscite tra ’96 e ’97 (“I’m Alive” di Stretch & Vern, “Renegade Master” di Wildchild) a cui se ne aggiungeranno molte altre in futuro (“Body Movin'” dei Beastie Boys, “King Of Snake” degli Underworld, “I See You Baby” dei Groove Armada, “Ride The Pony” dei Peplab, “I Get Live” di Mike & Charlie giusto per citarne alcune) ad eternare l’apice creativo.

CRW - I Feel LoveCRW – I Feel Love
Le prime due versioni di “I Feel Love”, l’Extended Mix e la Clubby Mix, escono nel 1998 su una delle tante etichette della Media Records, la Inside, e battono il percorso progressive trance. A produrle sono Mauro Picotto ed Andrea Remondini. In Italia non avviene niente a differenza dei Paesi mitteleuropei dove escono alcuni remix tra cui quello degli olandesi Klubbheads, richiestissimi dopo le hit “Discohopping” e “Kickin’ Hard”. Tuttavia a fare la differenza qualche tempo dopo è una versione riconfezionata in Italia, la R.A.F. Zone Mix, dagli stessi Picotto e Remondini che rivedono sia la parte ritmica che quella melodica, scardinando l’impostazione iniziale a favore di un costrutto che si rifà ai bassi ragga della speed garage e che viene decorato dalla sibillina voce di Veronica Coassolo. A pubblicare la nuova versione oltremanica è la Nukleuz e da quel momento è un effetto domino che contagia, tra le altre, la VC Recordings del gruppo Virgin e la statunitense Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez. A ben poco servono ulteriori remix come quello di JamX & De Leon alias DuMonde e DJ Isaac. In scia al successo di “I Feel Love” Picotto e Remondini, sempre nelle vesti di CRW, contribuiscono sensibilmente al successo di “On The Beach” di York con una versione di cui si parla nello specifico più avanti.

Cunnie Williams Feat. Monie Love - SaturdayCunnie Williams Feat. Monie Love – Saturday
Cantante r&b dalla potente voce paragonata più volte a quella di Barry White, Cunnie Williams debutta nel 1993 con l’album “Comin’ From The Heart Of The Ghetto” prodotto da Ralf Droesemeyer dei Mo’ Horizons. Nel ’99, messo sotto contratto dalla Peppermint Jam, incide “Star Hotel”, il terzo LP in cui presenzia, tra le altre, “Saturday”, un brano a cui partecipano Inaya Day e Monie Love. La versione che gli garantisce massima visibilità nei primi mesi del 1999 però è la Welcome To The Star-Hotel Mix approntata da Mousse T., il DJ tedesco di origini turche che finisce sotto i riflettori l’estate precedente con “Horny ’98”, versione cantata dell’omonimo brano strumentale passato del tutto inosservato e realizzato riciclando parti ritmiche del remix confezionato per “Ghosts” di Michael Jackson uscito nel 1997, quando altresì remixa “All My Time” di Paid & Live Feat. Lauryn Hill. È sempre Mousse T. a mettere mano a un altro singolo di Cunnie Williams, “A World Celebration”, rigato dal rap di Heavy D.

Da Hool - Meet Her At The Love ParadeDa Hool – Meet Her At The Love Parade
Il tedesco Frank Tomiczek inizia a produrre musica nei primi anni Novanta come DJ Hooligan (è tra i nomi citati dagli Scooter in “Hyper Hyper”). Nel 1996, anno in cui vara l’etichetta B-Sides, modifica lo pseudonimo in Da Hool. Proprio su B-Sides, in autunno, esce un EP intitolato “Meet Her At The Love Parade” aperto dalla traccia omonima. Ritmicamente rasenta la banalità ma contiene un riff di sintetizzatore che resta appiccicato alle orecchie come un chewing gum sotto le scarpe. «Contrariamente a quanto diffuso su internet, il brano non fu dedicato a nessuna donna» chiarisce Tomiczek contattato per l’occasione qualche tempo fa. «Lo realizzai in una sola notte, dopo essere tornato dalla Love Parade. Forse a causa dell’esagerata euforia non riuscivo a prendere sonno, mi chiusi in studio e “Meet Her At The Love Parade” fu il risultato. Colsi al volo l’ispirazione che mi diede la parata berlinese con le sue impareggiabili atmosfere e fu l’ironia a suggerirmi quel titolo, era praticamente impossibile trovare qualcuno che si conoscesse in mezzo ad una folla di un milione di persone». I responsi raccolti dal brano non sono entusiasmanti ma la situazione cambia nel 1997 quando la Kosmo Records lo reimmette sul mercato col remix più accattivante realizzato da Nalin & Kane che quell’anno spopolano con “Beachball”. Il successo è clamoroso (si parla di circa sei milioni di copie vendute) e il titolo trasforma il brano di Da Hool nell’inno non ufficiale della Love Parade ’97 (l’ufficiale è “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam). In Italia è un’esclusiva della Bonzai Records Italy del gruppo Arsenic Sound guidato da Paolino Nobile intervistato qui.

Dakar & Grinser - Stay With MeDakar & Grinser – Stay With Me
Formato da Christian ‘Dakar’ Kreuz (sintetizzatori, voce) e Michael ‘Grinser’ Kuhn (sintetizzatori, batteria elettronica), il duo Dakar & Grinser debutta nel ’96 con “Shot Down In Reno”. Supportati dalla Disko B, tre anni dopo i tedeschi incidono un album, “Are You Really Satisfied Now”, che si inserisce a pieno titolo nel vasto campionario pre-electroclash con rimandi a suoni e musiche del passato (come “I Wanna Be Your Dog”, cover dell’omonimo degli Stooges di Iggy Pop uscito trent’anni prima). Nella playlist dell’LP c’è pure “Stay With Me”, una traccia costruita sul formato canzone ma senza tradire ambizioni schiettamente commerciali. Non succede nulla sino a quando l’etichetta di Peter Wacha lo ripubblica come singolo, nella primavera del 2001, dotandolo di nuove versioni remix a firma Patrick Pulsinger, Abe Duque, Portofino Rockers e Gary Wilkinson. Tuttavia a trascinare la traccia nelle programmazioni radiofoniche è la 2001 Mix (ribattezzata Murphy’s Law Single Mix sul CD singolo) realizzata da Christian Kreuz e Tobi Neumann, una rivisitazione scandita da un ammiccante giro di chitarra ed un fascinoso retrogusto retrò che manda subito in solluchero quei DJ che hanno lasciato parte di cuore negli anni Ottanta. In Italia a descrivere il pezzo in toni entusiastici attraverso le pagine del magazine DiscoiD ad aprile 2001 sono Vincenzo Viceversa, che definisce Dakar & Grinser «i campioni assoluto del nuovo techno-pop», e Massimo Cominotto che invece parla di “Stay With Me” come «il suo pezzo del momento». L’interesse cresce al punto da creare i presupposti per una licenza rilevata dalla Ultralab, neonata etichetta dance del gruppo Virgin curata da Ilario Drago che sul 12″, oltre alla Murphy’s Law Single Mix (sincronizzata sul videoclip e finita persino nella compilation del Festivalbar) e al remix di Abe Duque, solca pure una versione realizzata in loco dai P&F ossia Paolino Rossato e Francesco Marchetti, che garantisce a Dakar & Grinser la presenza in altre compilation di dance generalista come la “Deejay Parade” di Albertino e la “Discomania Mix” di Radio 105.

Dana Dawson - 3 Is FamilyDana Dawson – 3 Is Family
Dana Dawson incide il primo disco per la CBS, “Ready To Follow You”, nel 1988 quando ha appena quattordici anni. Nel ’91 esce l’album “Paris New-York And Me” che la aiuta a farsi notare anche in Europa ma per la consacrazione definitiva dovrà attendere ancora qualche tempo. Nel 1995, sotto contratto con la EMI, arriva il secondo LP “Black Butterfly” prodotto da Narada Michael Walden. Uno dei pezzi racchiusi al suo interno è “3 Is Family” in cui la cantante statunitense esprime al massimo la vocazione soul/r&b anche se a spopolare è uno dei remix, quello di Dancing Divaz. Velocizzato e trascinato su una base disco house impostata su un ammaliante giro di pianoforte che pare citare “Drive My Car” dei Beatles e che anni dopo forse ispira “Gimme Fantasy” dei Red Zone da cui nel 2002 Gianni Coletti trae il suo più grande successo, il brano si impone nelle discoteche di tutto il mondo. La EMI prova a replicare i risultati attraverso “Got To Give Me Love”, “How I Wanna Be Loved” e “Show Me” dati in pasto al mondo della notte ma con risultati calanti. L’obiettivo della Dawson non è la dance (seppur nel ’97 interpreti “More More More” di Dolce & Gabbana, remake dell’omonimo di Andrea True Connection) ma i musical di Broadway dove approda nel 2000. La sua carriera si ferma nel 2010 quando perde la lotta contro il cancro. Ha solo trentasei anni.

Datura - Mystic MotionDatura – Mystic Motion
Insieme a “Devotion e “Passion”, “Mystic Motion” è tra i brani nati sull’asse Italia-Germania nel 1993, scritti dai Datura (che ai tempi sono in quattro, i musicisti Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani e i DJ Cirillo e Ricci) e la cantante tedesca Billie Ray Martin. “Devotion” si impone proprio quell’anno come hit estiva ma gli altri due restano confinati alla tracklist di “Eternity”, il primo (ed unico) album che il team bolognese incide per la Irma Records. Nel 1995 Pagano e Mazzavillani passano alla Time Records firmando “Infinity” con gli U.S.U.R.A. a cui segue, in autunno, “Angeli Domini”. In parallelo la Irma rispolvera “Mystic Motion” attraverso vari remix tra cui quello dei Bum Bum Club che, strizzando l’occhio allo stile di StoneBridge, ne fanno un successo stagionale. Ulteriori rivisitazioni, come quella di Charles Webster, giungono dall’estero. Visti i risultati, nel ’96 ai Bum Bum Club viene commissionato anche il remix di “Passion” che però ottiene responsi più contenuti.

Deejay Punk-Roc - My BeatboxDeejay Punk-Roc – My Beatbox
Tra 1997 e 1998 la fortuna di alcuni brani come “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam, “Sonic Empire” di Members Of Mayday, “Super Sonic” di Music Instructor ed “Energie” di U96 riportano sotto i riflettori del panorama mainstream l’electrofunk di inizio anni Ottanta. In questo contesto stilistico si inserisce “My Beatbox” di Deejay Punk-Roc, progetto che batte bandiera britannica ma gestito secondo una metodologia tipicamente italiana: in studio opera Jon Paul Davies mentre le esibizioni pubbliche toccano al DJ americano Charles Gettis. “My Beatbox” catalizza l’attenzione generale col supporto di MTV che manda in onda il video più volte al giorno. A decretare una diffusione maggiore del brano, qualche tempo dopo finito nella colonna sonora del videogioco per PlayStation “Thrasher Presents Skate and Destroy”, è il remix di Stuart Price alias Les Rythmes Digitales che la Independiente riversa pure sul successivo “Far Out”. Il DJ e produttore anglosassone, noto anche come Jacques Lu Cont, Man With Guitar e Thin White Duke, linearizza il ritmo trasformandolo nel pianale su cui installare la filastrocca eseguita col talkbox e la spirale di basso rotolante che prefigura con lungimiranza gli stilemi dell’electro house post electroclash, gli stessi che utilizzerà anni dopo per produrre “Confessions On A Dance Floor” di Madonna trainato dai singoli strapazzaclassifiche “Hung Up” e “Sorry”.

De'Lacy - HideawayDe’Lacy – Hideaway
La versione originale di “Hideaway”, prodotta dai Blaze e cantata da Rainie Lassiter, esce nel 1994 su Easy Street Records. Pare un pezzo garage come tanti che escono ai tempi, destinato a non lasciare il segno, ma quando l’anno dopo arriva il remix dei Deep Dish tutte le previsioni vengono azzerate. La versione di Dubfire e Sharam, lunga quasi dodici minuti, conta su un’irresistibile sezione ritmica su cui si arrampica gradualmente l’anima del brano, con la voce della Lassiter abbinata agli accordi di un organo liturgico. Il successo contagia tutta l’Europa al punto da spingere la casa discografica a girare un videoclip sincronizzato proprio sul remix dei Deep Dish. Quasi irrilevante invece la versione dei K-Klass, esclusa dalla stampa italiana sulla rediviva Full Time tornata in attività dopo un periodo di pausa. Ai Deep Dish spetta remixare il follow-up, “That Look”, ma è difficile o forse impossibile bissare i risultati di “Hideaway”. Decisiva invece la versione di “All I Need Is Love” realizzata a fine ’97 dall’italiano Massimo Braghieri alias Paramour.

Delerium Feat. Sarah McLachlan - SilenceDelerium Feat. Sarah McLachlan – Silence
Nato da una costola dei Front Line Assembly, Delerium è un progetto partito nel 1988 che si muove nei territori industrial e dark ambient. Nel 1999 la Nettwerk pubblica il remix di “Silence”, uno dei brani dell’album “Karma” uscito nel ’97. La versione originale, in bilico tra new age e downtempo, pare pagare il tributo agli Enigma di Michael Cretu. Nella loro Sanctuary Mix i Fade (Chris Fortier e Neil Kolo) ricostruiscono il pezzo rendendolo ballabile ma nel contempo preservando parte della caratteristica atmosfera gregoriana. Tutto ciò però non basta. È un olandese a fare la differenza: Tiësto, da Breda, con gli oltre undici minuti del suo In Search Of Sunrise Remix, trasforma “Silence” in un inno, valorizzando la voce di Sarah McLachlan con una serie di plananti pad. Più euforica la versione degli Airscape ma incapace di reggere il confronto con quella di Tiësto destinato ad una sfolgorante carriera da DJ.

DNA Featuring Suzanne Vega - Tom's DinerDNA Featuring Suzanne Vega – Tom’s Diner
Incluso in una raccolta del 1984 allegata alla rivista Fast Folk Musical Magazine, “Tom’s Diner” è il brano acappella scritto qualche tempo prima dalla cantautrice californiana Suzanne Vega ispirata da un piccolo ristorante, il Tom’s Restaurant per l’appunto, situato a Broadway. Nel 1987 il pezzo viene incluso nell’album “Solitude Standing” ed estratto come singolo ma senza raccogliere grandi consensi. A creare i giusti presupposti per il successo internazionale sono i DNA ossia i produttori britannici Nick Batt e Neal Slateford che nel 1990 ricollocano la voce della Vega su una base downtempo carpendo un sample a “Keep On Movin” dei Soul II Soul dell’anno prima. In assenza delle autorizzazioni necessarie, i due si vedono costretti a solcare la versione su un’anonima white label sulla fittizia S+B Records che inizialmente circola solo nelle discoteche. In qualche modo quella rivisitazione giunge alla Vega e il verdetto positivo convince i dirigenti della sua etichetta, la A&M Records, a credere nel progetto e pubblicarlo ufficialmente. “Tom’s Diner” così, supportato adeguatamente dal videoclip diretto da Gareth Roberts, si impone in tutto il mondo, conquistando la top 5 delle due classifiche più ambite di allora, quella britannica e quella statunitense. Per la canzone si apre un secondo ciclo biologico, ben più fortunato rispetto al primo, scandito da nuovi remix, remake (tra i più recenti quello firmato da Giorgio Moroder con l’ausilio vocale di Britney Spears), campionamenti e, non meno importante, l’utilizzo da parte dell’ingegnere del suono Karlheinz Brandenburg per mettere a punto il sistema di compressione di un formato che avrebbe stravolto la musica nel nuovo millennio, l’MP3 (per approfondire si rimanda a questo articolo). Entusiasmati dai risultati, i DNA scommettono ancora sui campionamenti come avviene in “Rebel Woman”, in cui riciclano il riff di “Rebel Rebel” di David Bowie, o ne “La Serenissima”, cover dell’omonimo dei nostri Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi.

Duke - So In Love With YouDuke – So In Love With You
Cantautore e polistrumentista, Mark Adams nasce a Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell’Inghilterra. I suoi modelli di riferimento in età adolescenziale sono idoli del soul come Marvin Gaye, Isaac Hayes e Sly & The Family Stone ma pure eroi della generazione rock n roll, da Buddy Holly a Little Richard passando per Gene Vincent ed Eddie Cochran. Insieme alla sua band chiamata Catch 22 si esibisce nei locali della città natale con un repertorio di cover di classici degli anni Cinquanta. Poi, complice l’annuncio su una tv privata, entra nella formazione dei One Hand One Heart incidendo, nei tardi anni Ottanta, alcuni singoli ed un album per la Epic. Per la sua carriera solista si ribattezza Duke debuttando con “New Beginning”, prodotto da Tony Mansfield e remixato, tra gli altri, da Jaydee ma senza grandi risultati. Poi arriva “So In Love With You” in cui fa sfoggio delle sue abilità vocali di chiara matrice soul. A spalancargli le porte del successo è uno dei remix del pezzo, quello realizzato da Norman Cook (prossimo ad imporsi come Fatboy Slim) e firmato con lo pseudonimo Pizzaman. Come afferma lo stesso Adams nella sua biografia, tutto inizia nei Paesi Bassi dove DJ Marcello suona per primo il remix di “So In Love With You” all’Escape di Amsterdam. L’interesse della Virgin fa il resto, trasformando Duke in uno dei protagonisti della scena dance/house nell’autunno 1995 e facendone una sorta di nuovo Jimmy Somerville. Ad accaparrarsi la licenza in Italia è la Propio Records di Stefano Secchi che, sfruttando il momento propizio, commissiona altre versioni (tra cui quelle di Miky B, Max Baffa, Franco Moiraghi e del compianto Mauro M.B.S.) raccolte in un doppio vinile.

Elektrochemie LK - SchallElektrochemie LK – Schall
Coniato nel 1995 col brano “Da Phonk”, Elektrochemie LK è uno degli pseudonimi utilizzati dal tedesco Thomas Schumacher. Nel 1996 la Confused Recordings pubblica “Schall & Rauch” aperto proprio da “Schall” in cui il DJ originario di Brema sovrappone balbuzienti tessere vocali campionate da “Acid Poke” di Adonis (ma ignorandone il significato, come lui stesso ammette qui) ad un basso sbilenco che funge da argano per tirarsi dietro un granitico beat. La traccia funziona bene nei club di matrice techno ma non è memorabile. Nel 1999 è sempre la Confused Recordings a rimettere in circolazione “Schall” attraverso un remix realizzato da Schumacher stesso che ricostruisce il mosaico questa volta adoperando un basso distorto ed un reticolo ritmico più incisivo. Grazie a queste nuove caratteristiche si fa avanti la Leaded, etichetta del gruppo Warner che ripubblica il brano in Germania sia su 12″ che CD, abbinandolo ad ulteriori remix (Toktok, Pascal F.E.O.S., Thomas P. Heckmann). L’attenzione cresce e contagia pure il Regno Unito dove se lo aggiudica la FFRR che nel pacchetto inserisce la versione di Trevor Rockcliffe. Si accodano poi altre nazioni europee come Francia, Spagna, Paesi Bassi e Danimarca. A prenderlo in licenza in Italia invece è la Media Records che lo convoglia sulla sua etichetta di punta, la BXR. Tra 2000 e 2001 il fortunato remix di “Schall” approntato da Schumacher fa ingresso in decine di compilation e finisce pure nella programmazione delle tv musicali grazie al videoclip. Il successo è tale da spingere la Leaded a scommettere sull’album, “Gold!”, da cui viene estratto “Girl!”, abilmente costruito su un vecchio pezzo rock dei Kinks, “All Day And All Of The Night”, e in cui figura, tra le altre, “When I Rock”, un pezzo che Schumacher firma col suo nome anagrafico nel ’97 vendendo ben 25.000 copie e che la Warner decide di rilanciare e ripubblicare come Elektrochemie LK abbinandolo ad un paio di remix realizzati per l’occasione da DJ Rush e dall’italiano Santos.

Energy 52 - Cafe Del MarEnergy 52 – Café Del Mar
Partito nel 1991 da un’idea del DJ tedesco Paul Schmitz-Moormann meglio noto come Kid Paul, il progetto Energy 52 emerge due anni più tardi quando la nota Eye Q Records di Sven Väth, Matthias Hoffmann ed Heinz Roth pubblica “Café Del Mar”. Ispirata nel titolo dal noto bar ibizenco e nel suono da “Struggle For Pleasure” del compositore belga Wim Mertens, la traccia diventa un caposaldo della prima ondata trance teutonica istigata dalla MFS di Mark Reeder. Sul 12″ della Eye Q ci sono due versioni, quella di Kid Paul e quella di Harald Blüchel alias Cosmic Baby ma il pezzo non riesce ad andare oltre la scena dei club seppur maturi la presenza in una serie di compilation tematiche tra cui la “Logic Trance 2”. Tre anni più tardi “Café Del Mar” è già considerato materiale d’archivio ed infatti la Bonzai lo ristampa sulla branch Classics che tra gli altri annovera “My Name Is Barbarella” di Barbarella, “Body Motion” degli italiani Sadomasy & DJ One, “My Noise” di Master Techno e “Perfect Motion” dei Sunscreem. C’è qualcuno però ad auspicare ancora una seconda vita della traccia come Red Jerry della Hooj Choons, che affida ad una pagina di Bandcamp i suoi ricordi: «Abbiamo passato circa diciotto mesi a remixarlo e non ricordo neanche i nomi di tutti coloro che ci hanno provato fallendo ripetutamente. Il problema di base era rappresentato dalla scala del riff principale e dalla progressione dei relativi accordi che nessuno riusciva a combinare con un certo impatto. Risultato? Ogni versione andava alla deriva, sommersa dalle melodie. Poi, ad inizio ’97, accadde qualcosa:  tornai a casa con una cassetta su cui era inciso l’ennesimo remix di “Café Del Mar”». A realizzare la nuova versione sono i Three ‘N One (André Strässer e Sharam Jey), reduci dal successo ottenuto con “Reflect”. «Seduto a casa a Kentish Town, con la luce dell’alba dopo una notte in discoteca, ascoltai per la prima volta quel remix su un impianto audio decente. Fu uno di quei momenti che non si dimenticano facilmente» conclude Red Jerry. I Three ‘N One riescono dove tanti altri avevano fallito. Sarà il loro remix ad iniettare nuova linfa vitale nelle melodie di “Café Del Mar” che questa volta, complice l’affermazione della trance su larga scala, segna inequivocabilmente lo zenit per Energy 52. La Hooj Choons mette sul mercato due ulteriori rivisitazioni a firma Solar Stone e Universal State Of Mind a cui se ne aggiungeranno altre ancora tra cui quelle di Oliver Lieb e di Nalin & Kane. Tra 1997 e 1998 il pezzo conosce dunque una nuova giovinezza che lo trasforma in un classico, oggetto di continui rimaneggiamenti nonché in fonte d’ispirazione per altri artisti come gli olandesi Three Drives e la loro “Greece 2000”.

Everything But The Girl - MissingEverything But The Girl – Missing
Insieme sin dal 1982 quando debuttano con “Night And Day”, cover dell’omonimo di Cole Porter, Ben Watt e la moglie Tracey Thorn sono gli Everything But The Girl. Prendono il nome d’arte dallo slogan usato da un negozio d’abbigliamento su Beverley Road ad Hull, il Turners, e fanno pop rock ai confini col jazz. Pur maturando una carriera di tutto rispetto che, tra le altre cose, annovera la collaborazione coi Massive Attack per un paio di brani finiti in “Protection”, riescono a conquistare il grande pubblico generalista solo nel 1995 con un remix. “Missing”, dalla tracklist del loro ottavo album intitolato “Amplified Heart”, è una ballata unplugged che passa inosservata ma grazie al tocco di Todd Terry cambia tutto. Il DJ/produttore statunitense, tra i decani dell’house music, trasforma quella ballata in un classico che vende oltre un milione di copie e per cui viene girato un nuovo videoclip diretto da Mark Szaszy. Il remix inizia a girare nell’autunno del 1994 ma il successo non è immediato specialmente in Europa (Italia compresa) dove bisogna attendere la primavera dell’anno seguente per sentire “Missing” in radio e in discoteca. Todd Terry si occuperà poi di “Wrong” (estratto dall’album “Walking Wounded” del ’96) ma con risultati inferiori. Ps: esiste una versione di “Missing” prodotta in Italia, la Rockin’ Blue Mix, realizzata da Alex Natale e i Visnadi.

Face On Mars - The BugFace On Mars – The Bug
Il progetto one-shot Face On Mars batte bandiera britannica ed è prodotto da Kenny Young e dal duo ManMadeMan (Paul Baguley e Sonya Bailey). Entrati nelle grazie di Judge Jules, Pete Tong, Sasha e John Digweed con dischi firmati con vari pseudonimi, riescono a raccogliere modesti consensi tra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000 grazie a “The Bug” che, come testimonia anche la copertina, fa leva sui timori, poi rivelatisi quasi del tutto infondati, derivati dal presunto millennium bug che avrebbe mandato in tilt i sistemi informatici di tutto il mondo al cambio di data tra il 31 dicembre 1999 e il primo gennaio 2000. La versione originale chiamata Teotwawki si inserisce nel filone hard house, sullo stile di artisti come Da Junkies, Knuckleheadz e BK, ma resta confinata al quasi totale anonimato. A rendere “The Bug” un pezzo appetibile per le radio e le tv musicali a cui è destinato il videoclip sono Marco Baroni ed Alex Neri con il loro remix firmato Kamasutra. In Italia è un’esclusiva della napoletana Bustin’ Loose Recordings che in catalogo vanta, tra gli altri, Individual (“Sky High” è cantato da Billie Ray Martin ma in incognito), Charlie Dore e soprattutto Karen Ramirez.

Felix - Don't You Want MeFelix – Don’t You Want Me
Regno Unito, 1992: Francis Wright è un diciottenne come tanti, desideroso di entrare a far parte del mondo della musica. Si diletta a comporre nella sua cameretta con pochi strumenti presi in prestito dallo zio e dal fratello maggiore che gestiscono una società di noleggio strumentazioni. Dispone di un campionatore Akai S950 e qualche sintetizzatore come un Korg MS-20, un Roland JX-1 ed un Oberheim Matrix 1000. Il tutto pilotato dal Notator installato su un computer Atari 1040 ST. Un giorno riceve la telefonata di Jeremy Dickens alias Red Jerry, uno dei titolari dell’etichetta Hooj Choons a cui ha mandato alcuni demo qualche settimana prima. A catalizzare l’attenzione del discografico è un brano in particolare, “Don’t You Want Me”, che Wright realizza ispirandosi allo stile di Steve “Silk” Hurley e in cui piazza un sample vocale preso da “Don’t You Want My Love” delle Jomanda. A Dickens piace ma gli chiede di sviluppare l’idea in modo alternativo. Wright allora piazza un organo al posto del pianoforte e crea la base di quella che sarebbe diventata la Hooj Mix, la versione più nota. «A quel punto Red Jerry mi invitò a Londra per registrare le due versioni» racconta Wright in questo articolo. «L’Original Mix rimase praticamente la stessa del demo mentre alla Hooj Mix aggiungemmo ulteriori elementi. Purtroppo fu fatta confusione coi crediti sul disco che attribuiscono la paternità della Hooj Mix ai soli Red Jerry e Rollo, cosa che non è esatta visto che fu un lavoro interamente sinergico». Il successo di “Don’t You Want Me” è stellare, grazie all’interesse mostrato dalla Deconstruction. Il brano, da noi licenziato dalla GFB, etichetta della Media Records, conquista la prima posizione in molte classifiche sparse per il mondo e si stima abbia venduto oltre tre milioni di copie.

Fifty Fifty - Tonight I'm DreamingFifty Fifty – Tonight I’m Dreaming
I britannici Fifty Fifty (il produttore Jason Smith e il cantante Steve Trowell) esordiscono in sordina nel 1996 col poco noto “Crazy Thing” ma balzano agli onori della cronaca due anni dopo con “Tonight I’m Dreaming”, un brano di matrice progressive house pubblicato dalla Jackpot impreziosito subito da vari remix tra cui quello di Eric Kupper proteso verso la garage. A far cambiare profondamente aspetto al pezzo è però la Blue Moon Mix approntata in Italia negli studi milanesi della Dancework da Fabrizio Gatto, Roberto Zucchini, Germano ‘Jerma’ Polli e Marco ‘China B’ Brugognone. «L’idea di fare un remix fu nostra» racconta Gatto contattato per l’occasione. «”Tonight I’m Dreaming” era una bella canzone ma non abbastanza commerciale, così ci attivammo e realizzammo alcuni remix più adatti al mercato italiano dell’epoca». A spiccare dalle tre versioni pubblicate dalla @rt Records, sublabel del gruppo Dancework, è la citata Blue Moon Mix che imperversa nelle discoteche e in radio nell’autunno ’98. La Rosa Shocking Mix riprende lo stile latineggiante di Paradisio mentre la Tribe Art Production Mix, realizzata da Massimiliano Falchi ed Umberto Ferraro, resta ancorata alle atmosfere house di partenza. «Il mix vendette dalle ventimila alle venticinquemila copie e il brano entrò in svariate compilation» prosegue Gatto. «Quella volta mi firmai come El Zigeuner, nome nato pochi anni prima da una telefonata che un mio promoter fece ad un suo amico. Essendo di Bolzano, ogni tanto parlava in tedesco e quella volta al telefono disse “el Zigeuner” (lo zingaro), una parola che mi piacque subito e che decisi di adottare come pseudonimo». I tentativi di mantenere alte le quotazioni dei Fifty Fifty vanno a vuoto nonostante il remix del successivo “Listen To Me” a firma StoneBridge. Riscontri flebili giungono pure quando nel ’99 Smith e Trowell si ripresentano come Apple 9 firmando “What You Do To Me” per la Time Records.

Freddie Mercury - Living On My OwnFreddie Mercury – Living On My Own
Estratto come singolo dall’album “Mr. Bad Guy”, il primo che Mercury realizza come solista dopo aver abbandonato i Queen, “Living On My Own”, del 1985, è un pezzo synth pop che non riscuote consensi memorabili. Decisamente diversi però i risultati raccolti circa otto anni più tardi quando l’artista è già prematuramente passato a miglior vita e sul mercato arriva il remix realizzato dai No More Brothers (Carl Ward, Colin Peter e Serge Ramaekers) nel loro studio ad Anversa, in Belgio, ad aprile del ’93: con un taglio house friendly corroborato da un cristallino arpeggio, i tre conferiscono a “Living On My Own” la spinta necessaria per essere apprezzato dal pubblico trasversale di tutto il mondo che non si è ancora stancato di ascoltarlo. Per avere un’idea della longevità è sufficiente aprire YouTube: ad oggi la somma delle visualizzazioni ottenute dal remix oltrepassa i cento milioni. Proprio nello stesso periodo in cui imperversa “Living On My Own”, sul mercato arrivano i remix di un altro brano pop internazionale, “Dreams” di Gabrielle. La House Mix degli Our Tribe (Rollo, futuro membro dei Faithless nonché fratello della cantante Dido, e Rob Dougan) è tra le versioni che si distinguono meglio, con un retrogusto à la “Plastic Dreams” di Jaydee. Nel contempo in Italia finiscono in discoteca “Delusa” di Vasco Rossi e “Ricordati Di Me” di Fiorello, rispettivamente remixati dagli U.S.U.R.A. e Digital Boy.

Fun Factory - Close To YouFun Factory – Close To You
Tra la miriade di gruppi eurodance tedeschi emersi nei primi anni Novanta, i Fun Factory si fanno notare a livello europeo tra 1993 e 1994 con “Groove Me”, “Pain”, “Close To You” e “Take Your Chance”, tutti estratti dal primo album intitolato “Nonstop!”. “Close To You”, per cui viene girato questo videoclip, sfiora il plagio delle hit messe a segno dai connazionali Culture Beat (“Mr. Vain”, “Got To Get It”, “Anything”) ma sono tempi in cui clonare talvolta può portare buoni risultati. In Italia la versione originale di “Close To You” passa inosservata a differenza del remix dei Positive Groove, side project degli stessi Fun Factory. Nella reinterpretazione, intitolata Energy Trance e licenziata nell’estate ’94 da Dig It International, la componente vocale è ridotta ai minimi termini per privilegiare un costrutto di matrice trance. Eliminata la parte rappata, dopo un lungo intro strumentale filo acid affiora un brandello dell’inciso, unico elemento tratto dalla versione di partenza. Anche per il remix i Fun Factory però si ispirano palesemente a qualcosa di preesistente, il Fruit Loops Remix dei Jens di cui si parla dettagliatamente più avanti.

Gayà - It's LoveGayà – It’s Love
Nel ’98 la J&Q diretta da Enzo Martino pubblica il terzo singolo del progetto Gayà, partito tre anni prima con “Lovin’ The Way”. A produrre “It’s Love”, un brano house ai confini con la garage colorito da un virtuosismo vocale a mo’ di scat, sono Daniele Soriani e Marco Mazzantini, ma il successo arriva poco tempo dopo col remix curato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che riadatta tutto in chiave eurodance. Gli apprezzabili risultati vengono sottolineati dal videoclip in cui appare l’americana Stephanie Haley, scelta come immagine del progetto e per le esibizioni live come quella ad Italia Unz. Sarà sempre Fargetta a confezionare le versioni di punta dei successivi singoli di Gayà, “Shine On Me”, “I Keep On Dreaming” e “Never Meet”, utili a trainare altri artisti della J&Q come Jola, Underfish e Bibi Schön.

Gigi D'Agostino - L'Amour ToujoursGigi D’Agostino – L’Amour Toujours
In virtù della popolarità raggiunta, “L’Amour Toujours” è diventato il brano più noto del repertorio d’agostiniano. La versione originale, apparsa nel 1999 nell’album omonimo, gira su ritmi sincopati, un basso in ottava (forse “stimolato” da un preset dell’Hohner HS-1, versione tedesca del Casio FZ-1) ed armonie ispirate da “But Not Tonight” dei Depeche Mode, così come già descritto in Decadance. A decretare il successo è però il remix che la Media Records pubblica nel 2000 attraverso l’EP “Tecno Fes”: arrangiato insieme a Paolo Sandrini, il Tanzen Vision Remix fa leva sulla caratteristica frase di tastiera evidenziata ulteriormente nella versione usata per il videoclip ad oggi visualizzato su YouTube più di 320 milioni di volte. A seguire arrivano altre reinterpretazioni, come la Cielo Mix e L’Amour Vision, ed un indefinito numero di cover che garantiscono ulteriore longevità ad un pezzo italodance ormai diventato transgenerazionale.

Gigi D'Agostino & Daniele Gas - Creative NatureGigi D’Agostino & Daniele Gas – Creative Nature
La prima versione di “Creative Nature” esce nel 1994 sulla Subway. A distanza di qualche mese sulla stessa etichetta appaiono due versioni (Fly Side ed Eternity Side) realizzate dagli stessi autori ma a lasciare il segno nel cuore degli irriducibili della progressive italiana è il remix edito dalla Metrotraxx, altra sussidiaria della Discomagic di Severo Lombardoni, intitolato Giallone e contenuto nel doppio “Creative Nature Vol. 2”. A dirla tutta pare più una sorta di re-edit con variazione della stesura e non del banco suoni che rimane pressoché invariato ma i risultati, specialmente a partire dall’autunno del 1995, sono ben diversi. Con un sample di campana sincronizzato su un basso ottavato ed un riff d’atmosfera giocato anch’esso sulle ottave, D’Agostino (che riciclerà tutto nel 2000 per la sua “Campane”) e Gas si confermano tra gli artefici di un sound presto ribattezzato e sdoganato come mediterranean progressive in cui minimalismo e struggenti melodie vanno a braccetto. «Una notte ero al Le Palace di Torino con Gigi e Francesco Farfa» racconta Daniele Gas in questa intervista. «Prima della serata chiacchierammo anche di produzioni e Francesco ci propose di fare una nuova versione del “giallone”, riferendosi al remix di “Creative Nature” pubblicato dalla Subway su un’etichetta di colore giallo per l’appunto. Da quel momento lo chiamammo amichevolmente Giallone Remix, proprio in ricordo del suggerimento di Farfa che, ovviamente, fu tra i primi a ricevere il promo».

Gisele Jackson - Love CommandmentsGisele Jackson – Love Commandments
È il pezzo più noto della Jackson, cantante nativa di Baltimora messa sotto contratto dalla Waako Records di Bob Shami. La versione originale di “Love Commandments”, un pezzo garage non particolarmente pretenzioso, inizia a circolare nel 1996 quando viene pubblicato anche in Italia dalla UMM. La spallata determinante giunge l’anno dopo con vari remix firmati, tra gli altri, da Danny Tenaglia, Jason Nevins, StoneBridge, Dancing Divaz e Loop Da Loop. Quest’ultimo, in particolare, con qualche occhiata non velata al tocco di Van Helden, catalizza l’attenzione generale introducendo la Jackson nel segmento speed garage. A pubblicare in Italia quattro remix di “Love Commandments”, incluso ovviamente quello di Loop Da Loop, è la D:vision.

Hanky Panky - Hanky PankyHanky Panky – Hanky Panky
Pubblicato inizialmente dalla Love, una delle etichette della EMI tedesca, “Hanky Panky” del progetto omonimo segue il corso eurodance in salsa house, utilizzando i suoni “tubati” resi popolarissimi da StoneBridge abbinati ad una specie di filastrocca scritta da Najib Hachim e Carolin Schwarz e musicata dagli stessi insieme a Jürgen Hildebrandt. Di loro si sa davvero poco e niente. Di certo è che ad aiutarli ad uscire dall’anonimato, riservato invece ad altri brani del loro risicato repertorio come ad esempio “Me & Mr. Fantasy” di Cosma Das Sternenkind, è il remix realizzato da Mousse T: con una versione che occhieggia ai Max-A-Million prodotti dai 20 Fingers ed ai Reel 2 Real di Morillo ma in chiave ancora più scanzonata, “Hanky Panky” riesce a raccogliere qualche licenza in Europa. A crederci in Italia è la Dance Factory del gruppo EMI ma pure Albertino che propone il brano in radio e lo vuole nel sesto volume della compilation “Alba” uscita nell’autunno del 1996.

Jamiroquai - Space CowboyJamiroquai – Space Cowboy
La versione originale di “Space Cowboy”, inclusa nell’album “The Return Of The Space Cowboy” del 1994, non è certamente passata inosservata ma il remix di David Morales, uscito l’anno dopo, ha il merito di aver ingigantito la notorietà della band britannica. Con un lavoro magistrale curato tanto nella parte ritmica quanto in quella degli arrangiamenti, il DJ tocca uno dei momenti clou della propria carriera. Tuttavia Jay Kay gli riserva toni piuttosto polemici, almeno inizialmente: «non capisco perché devo dare quindicimila sterline ad un tizio americano quando un qualsiasi mio collaboratore può fare la stessa cosa, ma ho imparato che i remix fanno parte del gioco, così come i video» afferma il cantante in un’intervista risalente al gennaio 1997. «Devo essere onesto, i remix di Morales (oltre a “Space Cowboy” anche quello di “Cosmic Girl”, nda) hanno funzionato molto bene ed hanno aumentato la mia popolarità. La gente voleva ballare i miei pezzi in discoteca e lui la ha accontentata».

Jens - Loops & TingsJens – Loops & Tings
Contenuta nel “Glomb EP” pubblicato nel 1993, “Loops & Tings” è il pezzo che Jens Mahlstedt, Gerret Frerichs ed Hans Jürgen Vogel realizzano assemblando magnetiche onde trance a svasati beat che ogni tanto vedono rompere il 4/4 metronomico sotto la spinta di inserti raggamuffin, striature acide e sincopi breakbeat. Nel momento in cui la Superstition pubblica i remix del brano, le cose prendono una piega diversa. È il Fruit Loops Remix, realizzato dagli stessi Mahlstedt e Frerichs, a tracciare una nuova strada per il progetto Jens, sino a quel momento rimasto a solo appannaggio dei DJ specializzati. Merito di una vena melodica più pronunciata issata da un riff riciclato dai menzionati Fun Factory nel remix di “Close To You” ed una struttura ritmica maggiormente trascinante, resa tale anche da un rotolante bassline. Il remix di “Loops & Tings” diventa così un autentico classico nel 1994, anno in cui viene pubblicato anche in Italia dalla Downtown del gruppo Time Records. Seguirà un’infinita serie di altre versioni più o meno fortunate tra qui quella di Marco V che nel 2003 rilancia per l’ennesima volta uno dei maggiori inni della hard trance tedesca degli anni Novanta.

Jestofunk - Special LoveJestofunk – Special Love
Con un background che affonda saldamente le radici nel funk, nel soul e nel jazz, i Jestofunk (Alessandro ‘Blade’ Staderini, Francesco Farias e Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli) debuttano nel 1991 con “I’m Gonna Love You” supportati dalla bolognese Irma Records. “Say It Again” e “Can We Live”, entrambi interpretati da Ce Ce Rogers, li aiutano ad imporsi anche nel mainstream ma senza scendere a compromessi. Nel 1998 è tempo di un’altra hit trasversale, “Special Love”, estratta da “Universal Mother”, il loro terzo album. Jazzdance rigata di funk, r&b e disco, la traccia gode di un featuring vocale d’eccezione, quello di Jocelyn Brown, protagonista del videoclip. A far prendere il volo però è la Special House Mix realizzata da Steve “Silk” Hurley, uno dei pionieri della house statunitense che in quel periodo torna al successo con “The Word Is Love”. Sul 12″ presenzia una seconda reinterpretazione, la Disco Fusion Mix di Joey Negro probabilmente più vicina al mondo dei Jestofunk ma con minori potenzialità commerciali.

Josh One - ContemplationJosh One – Contemplation
DJ e produttore losangelino, Josh One debutta nel 2001 con “Contemplation”, un pezzo che lascia sfilare i lascivi vocalizzi di Julie Walehwa su una base downtempo altrettanto seducente costruita insieme al musicista Patrick Bailey. Annessa alla musica lounge e chillout che nei primi anni Duemila vive un fortissimo boom così come raccontiamo qui, la traccia riesce a conquistare anche le discoteche grazie a King Britt ed alla sua Funke Mix che proietta tutto su uno schema house dagli evidenti richiami funk giocati in modo sampledelico. Riscontri ancora più tangibili giungono con una seconda versione realizzata in Italia da Alex Neri: nel Road Trip Remix resta intatto un frammento di voce della Walehwa ma il resto scorre su un binario decisamente diverso, fatto da suoni cristallini messi in sequenza in un ossessivo ed inarrestabile arpeggio. Proprio grazie ai remix, nel 2002 Josh One fa il giro d’Europa spinto da etichette come Prolifica, Ministry Of Sound e Vendetta Records. A pubblicarlo da noi è la Rise del gruppo maioliniano Time.

Karen Ramirez - If We TryKaren Ramirez – If We Try
La carriera della londinese Karen Ramirez mostra diverse analogie con quella dei Jestofunk descritti poche righe sopra. Anche lei parte dalla musica black, dal soul e dal jazz, generi che il team di produzione Souled Out (da cui nasceranno poco tempo dopo i Planet Funk) affronta con maestria nell’album “Distant Dreams” da cui vengono estratti diversi singoli, da “Troubled Girl” a “Looking For Love” (cover di “I Didn’t Know I Was Looking For Love” degli Everything But The Girl) passando per “Lies” ed “If We Try”. Tutti godono di numerosi remix realizzati da pesi massimi della house internazionale ma quest’ultimo, in particolare, si distingue per la rivisitazione di Steve “Silk” Hurley, richiestissimo dopo l’exploit a fine ’97 di “The Word Is Love”.

KC Flightt - Bang!KC Flightt – Bang!
Franklin Toson Jr. alias KC Flightt prende parte alla prima ondata hip house che si propaga a fine anni Ottanta da Chicago, riuscendo ad entrare nelle grazie della RCA che pubblica un album e diversi singoli tra cui “Planet E”, “Summer Madness” e “Voices”. Dopo qualche tempo sottotono, riappare con “Bot Dun Bot” e soprattutto “Bang!” che nella versione originale riavvolge il nastro sino a dove tutto era cominciato nella città del vento. A fare la fortuna del pezzo nell’autunno 1995 è la Mixmaster Club realizzata da Costantino Padovano e Mirko Braida, sincronizzata col video e in linea con quanto già fatto per “Shimmy Shake” dei 740 Boyz analizzata più sopra.

Kim Lukas - All I Really WantKim Lukas – All I Really Want
Nata nella contea di Surrey, nell’Inghilterra sud-orientale, Kim Woodcock è la cantante che si fa spazio nel circuito eurodance nel 1999 con “All I Really Want”, prodotto dal team G.R.S. composto da Gino Zandonà, Roberto Turatti e Silvio Melloni. L’Original Single Mix fa leva su una base dai richiami disco / funk, senz’altro gradevole ma con un tiro forse non adatto ad accontentare del tutto il pubblico a cui il progetto è destinato. Ci pensano gli Eiffel 65 a ricostruire la stesura in un remix creato sul fortunato modello di “Blue (Da Ba Dee)”. È quindi loro la versione che spopola e fa la fortuna della biondina che nel 2000 incide un album, “With A K”, da cui vengono prelevati altri tre singoli più o meno fortunati, “Let It Be The Night”, “To Be You” e “Cloud 9”.

L'Homme Van Renn - The (Real) Love ThangL’Homme Van Renn – The (Real) Love Thang
A pubblicare “The Real Thang” nel 1993 è la Nocturnal Images Records, piccola etichetta di Davina Bussey distribuita dalla Submerge di Detroit. È la stessa Bussey a curare tre versioni fatte di house intrecciata al soul che mettono in evidenza le doti canore di Paul Randolph. Nel 1995 la 430 West, in cooperazione con la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker e con la filiale britannica della KMS di Kevin Saunderson, rimettono in circolazione il brano ma con un titolo leggermente diverso, “The (Real) Love Thang”, e vari remix di Rob Dougan, Parks & Wilson e Mike Banks. «Credo che l’operazione nacque con l’obiettivo di portare il mio nome ad un pubblico più vasto e non più solo quello dei DJ specializzati visto che il pezzo aveva un grande potenziale» racconta qui Randolph. Effettivamente le cose vanno proprio così e “The (Real) Love Thang” inizia la “mainstreamizzazione” attraverso la versione del citato Dougan in cui la stesura viene interamente ricostruita giocando sull’alternanza di parti beatless ed altre più incisive legate alla progressive house britannica. Ciò garantisce un risultato apprezzabile in Europa dove il brano viene licenziato in più Paesi ed incuriosisce anche chi non conosceva affatto la versione iniziale. A pubblicarlo in Italia a gennaio 1996 è la milanese Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, che aggiunge al pacchetto due ulteriori versioni a firma M2 ed Italia House Nation.

Lisa Marie Experience - Keep On Jumpin'Lisa Marie Experience – Keep On Jumpin’
Inizialmente pubblicato col titolo “Jumpin”, la hit dei Lisa Marie Experience (il duo britannico formato da Dean Marriott e Neil Hinde) si afferma nel vecchio continente tra l’inverno e la primavera del 1996 come “Keep On Jumpin'”. Il pezzo entra nella top ten dei più venduti nel Regno Unito ed è uno dei tanti di quel periodo a rinvigorire il fil rouge tra la house music e discomusic mediante il campionamento di un classico di fine anni Settanta, “Keep On Jumpin'” dei Musique, ripreso peraltro pochi mesi più tardi pure da Todd Terry con le voci di Martha Wash e Jocelyn Brown. La versione che funziona di più e che viene scelta per accompagnare il videoclip è però quella dei redivivi Bizarre Inc, autentici protagonisti tra 1991 e 1992 con successi come “Playing With Knives”, “Such A Feeling” ed “I’m Gonna Get You”. Con una stesura più d’impatto ed un’elaborazione del sample (a cura di Dave Lee alias Joey Negro ed Andrew “Doc” Livingstone, così come chiariscono i crediti in copertina) maggiormente incisiva, il Bizarre Inc Remix è pertanto quello che decreta il temporaneo momento di gloria dei Lisa Marie Experience, incapaci di mantenere intatto il successo col successivo “Keep On Dreaming”. In compenso però ricevono una sfilza di richieste di remix e tra i tanti mettono mano a “Bamboogie” di Bamboo, act messo su con eclatante riscontri dal citato Livingstone ad inizio ’98 mutuando un sample da un altro evergreen disco, “Get Down Tonight” di KC & The Sunshine Band.

Love Connection - The BombLove Connection – The Bomb
Dietro Love Connection, act one shot creato nel 2000 con “The Bomb”, opera il team di produttori francesi formato da Rabah Djafer, Omar Lazouni e Michel Fages. Il pezzo è costruito su un doppio campionamento: da un lato c’è la melodia di “Love Magic” di John Davis & The Monster Orchestra, un vecchio successo del 1979, dall’altro invece la parte vocale presa da “Love Generation” degli italiani Lost Angels, pubblicato originariamente nel 1996 dalla Volumex del gruppo Dancework ma senza grandi risultati, specialmente in patria. Unendo i due elementi, corroborati da una trascinante base disco house, i transalpini ricavano un pezzo orecchiabile e a presa rapida ma a perfezionarlo ulteriormente è il duo Triple X (Luca Moretti e Ricky Romanini), reduce dal successo europeo di “Feel The Same”. È il loro remix infatti ad avere la meglio e ad essere sincronizzato col videoclip. In Italia è un’esclusiva della Time di Giacomo Maiolini il cui supporto, pare, sia stato determinante per ottenere il clearance del sample di “Love Magic”.

Mario Più - CommunicationMario Più – Communication
Il DJ toscano è stato molto abile nel tenere un piede nelle produzioni destinate a discoteche di tipo progressive/trance e l’altro in quelle più dichiaratamente commerciali. Così, mentre da un lato sforna pezzi come “Your Love”, “Unicorn” o “Serendipity”, dall’altro finisce nelle classifiche di vendita con successi radiofonici tipo “All I Need”, “Sexy Rhythm” e “Runaway”. Nel 1999 però è capitato che un suo brano tendenzialmente rivolto ai club si sia trasformato in una hit trasversale. Tutto ha inizio a ridosso dell’estate quando nei negozi arriva “Communication”, un pezzo creato sul telaio picottiano di “Lizard” e caratterizzato dal suono dell’interferenza creata dal telefono cellulare in una cassa spia (idea che, praticamente nel medesimo periodo, viene sfruttata in “GSM” dai Dual Band – Paolo Kighine e Francesco Zappalà). I responsi nelle discoteche sono ottimi ma a decretare il successo su scala internazionale con oltre 200.000 copie vendute è la versione approntata oltremanica pochi mesi dopo da Paul Masterson alias Yomanda. Diventata “Communication (Somebody Answer The Phone)” ed accompagnata da un videoclip sincronizzato proprio sul remix, la traccia assume una veste hard house in cui compare, oltre all’interferenza, anche il trillo di un telefono cellulare, immortalato in copertina dalla BXR.

Mato Grosso - LoveMato Grosso – Love
Partiti nel 1990 come Neverland, Graziano Pegoraro, Marco Biondi e Claudio Tarantola si ribattezzano Mato Grosso con “Thunder” per motivi illustrati in questo articolo e diventano uno dei nomi più longevi in campo eurodance/italodance, area notoriamente soggetta a successi che difficilmente riescono a reggere più di qualche stagione. “Love” esce intorno alla fine del 1993 sulla B4, etichetta fondata dallo stesso team insieme al gruppo Expanded Music, ma gode di poca attenzione. Pochi mesi più tardi, in soccorso, giungono due remix realizzati dagli stessi Pegoraro e Biondi. In particolare è la Fuzzy Mix a risollevare le sorti del pezzo non partito col piede giusto, col beneplacito di Albertino e dei suoi soci del DBM (Fargetta la sceglie e mixa in “Original Megamix 2”) a cui poi si accodano altre emittenti e varie compilation italiane ed estere. «La versione originale, per ammissione dello stesso Pegoraro, peccò a causa di un mixaggio non del tutto riuscito» racconta oggi Marco Biondi contattato per l’occasione. «La Shuttle ‘N’ Space ‘N’ Love Mix iniziava con un intro caratterizzato dal countdown della NASA, senza dubbio d’effetto ma privo di quell’immediatezza che ai tempi serviva alla dance per farsi notare. Facendo tesoro degli errori quindi, rielaborammo tutto in un remix più incisivo, dinamico ed efficace, doti premiate da Albertino che lo tenne nella DeeJay Parade per circa due mesi (dal 26 febbraio al 23 aprile, nda). Il suo supporto fu determinante per raggiungere un buon risultato in termini di vendite, tra mix e remix infatti “Love” contò tra le 16.000 e le 17.000 copie. A scandire marcatamente la nuova versione era un hook vocale realizzato con la mia voce seppur davvero in pochi la riconobbero nonostante conducessi un programma quotidiano su Radio DeeJay. Pure nel follow-up, “Mistery”, figuravano voci vere: il “mistery mistery” era di Miko Mission mentre ad interpretare il “bebele simele amele” era Nikki, mio collega in via Massena. L’idea di partenza era campionare un frammento di “Just A Gigolo” di David Lee Roth ma non avremmo mai avuto il clearance così optammo per quell’alternativa che si rivelò particolarmente fortunata» conclude Biondi.

Mauro Picotto - LizardMauro Picotto – Lizard
Quando le prime copie di “Lizard” raggiungono gli scaffali dei negozi di dischi, nella primavera del 1998, nessuno è in grado di pronosticare cosa sarebbe avvenuto poco tempo dopo. Picotto stesso, nella recensione apparsa sulla rivista Trend Discotec di aprile, è ben lontano da pomposi annunci e ne parla sommessamente come «un mix che forse è un EP, tanto sono differenti le versioni in esso contenute». In effetti le quattro versioni presenti sul 12″ della BXR mostrano evidenti diversità: la Picotto Mix (promossa “Disco Strobo” da Tony H in From Disco To Disco il 7 marzo) punta dritta alla trance, la Nation Mix irrigidisce i suoni tirando dentro un frammento vocale di Martin Luther King, la Mondo Bongo Mix introduce la componente tribale e la Tea Mix, fondamentale per gli sviluppi futuri, riduce tutto a pochi elementi, scroscianti cascate di snare e soprattutto un caratteristico basso. Come descritto dal musicista Andrea Remondini nell’intervista finita in Decadance Appendix nel 2012, la Tea Mix viene realizzata in buona parte un lunedì mattina. «Durante il fine settimana Mauro si esibì in una discoteca in cui il DJ che lo aveva preceduto in consolle terminò il set con un disco che finiva con una lunghissima nota bassa» racconta. «A quel punto lui si sovrappose con un altro brano che iniziava con battute di sola cassa. Il risultato creò un effetto imprevisto: ogni colpo di cassa soffocava la nota bassa, che tornava poi a farsi sentire nelle pause tra un colpo e l’altro. Ipotizzai che la causa del fenomeno fosse un compressore applicato all’uscita del mixer» (ma Picotto, nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” recensito qui, parla di un microfono lasciato inavvertitamente aperto da cui «entrò il rumore dell’effetto Larsen sull’impianto audio della sala – il Joy’s di Mondovì – una risonanza che determinò un suono simile alla coda di un boato», nda). Vista l’euforica reazione del pubblico di fronte a quel fortuito abbinamento di suoni, i due cercano di riprodurre l’effetto in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa abbastanza inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando arrivano i remix. In particolare è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia (adorata da Pete Tong che ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”) si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale ed una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary. In pochi mesi “Lizard” fa il giro del mondo, Stati Uniti compresi, aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per Picotto debitamente irrorata da altre hit come “Iguana” e “Komodo” che insieme a “Lizard” costituiscono l’ideale trilogia rettiliana. I suoni di “Lizard” diventano presto un autentico marchio di fabbrica per la BXR ed innescano centinaia di campionamenti ed imitazioni di ogni tipo. «A quel punto, così come era già avvenuto con la mediterranean progressive, abbandonammo quel suono per primi, dopo averlo inventato» aggiunge Remondini nella menzionata intervista. Curiosità: per il remix la BXR usa un numero di catalogo inferiore (1047) rispetto a quello del disco che ospita invece le prime versioni del brano (1048) nonostante la pubblicazione sia successiva.

Moby – Everytime You Touch Me
Archiviata la disputa legale con la Instinct Records che pubblica i primi due album, Moby firma per la Mute di Daniel Miller. È proprio questa a mandare in stampa il suo terzo LP, “Everything Is Wrong”, l’ultimo con cui l’artista newyorkese cavalca la dance music, un filone che gli fa guadagnare, seppur a malincuore, le critiche di certa stampa convinta che non sia capace di suonare alcuno strumento. «È una fissa mettere in dubbio le mie capacità» afferma in un’intervista realizzata a Londra da Piergiorgio “P.G.” Brunelli ed apparsa su Dance Music Magazine a maggio 1995. «Suono la chitarra da venti anni, perché dovrei usare un campionamento? Ho suonato di tutto, dalla chitarra al basso, dalle tastiere alle percussioni sino alla batteria. Ammetto che la maggioranza dei musicisti dance non sappia suonare musica ma io sono tutt’altro che un idiota. Qualsiasi cosa che esca da uno speaker e genera in me emozioni è positiva, non importa che sia un campionamento o un assolo di chitarra. Vorrei che fosse possibile apprezzare allo stesso tempo la gay-disco e i Biohazard, senza barriere mentali». Uno dei singoli estratti da “Everything Is Wrong” è “Everytime You Touch Me”: la versione originale contiene ancora retaggi del breakbeat di memoria rave ma con meno asperità ritmiche ed inselvaggimenti ridotti praticamente a zero, rimpiazzati da evidenti slanci melodici (vocali e pianistici) intarsiati a brevi parentesi raggamuffin ai tempi parecchio in auge nell’eurodance. A garantire il successo al brano nei primi mesi del 1995 però è uno dei tanti remix giunti sul mercato, quello degli infaticabili Beatmasters che nella loro Uplifting Mix lo ricostruiscono interamente edificando all’interno di esso due blocchi, uno più felice e radioso alimentato dalle voci di Rozz Morehead e Kochie Banton, l’altro più ombroso da cui riaffiora la sensibilità ravey. La Beatmasters 7″, una sorta di re-edit ma con un appeal più radiofonico, viene scelta invece per il videoclip. «Preferisco remixare le mie canzoni da solo perché è divertente ed economico, ma non sono geloso di ciò che faccio e se qualcuno vuole lavorare su un mio pezzo solitamente lascio fare» prosegue l’artista nella sopraccitata intervista. «Non tutti i miei brani però sono a disposizione, quelli molto personali non voglio darli a nessuno. Sono come i miei bambini ed hanno un significato particolare che non va stravolto». A prendere in licenza per l’Italia “Everytime You Touch Me” è la napoletana Flying Records che lo abbina ad una copertina di Patrizio Squeglia e lo convoglia sulla neonata Drohm varata a fine ’94 con “I Let U Go” dei KK e trainata dal successo di “Wonder” di DJ Cerla & Moratto. Sul 12″, oltre alle due versioni dei Beatmasters, ci sono pure la Na Feel Mix e la Freestyle Mix ad opera dello stesso Moby, e a completamento quella di Jude Sebastian, vincitore di una remix-competition a cui partecipano ben quattrocento persone. Da noi il successo è palpabile, il pezzo entra nell’airplay radiofonico e in decine di compilation. Pochi anni più tardi il musicista statunitense rimette tutto in discussione aprendo una nuova fase della carriera caratterizzata da caleidoscopiche sollecitazioni che lo trasformeranno in una sorta di cantautore electronic pop del nuovo millennio. Risultano profetiche, a tal proposito, le parole con cui chiude quell’intervista del 1995 in cui Brunelli gli domanda se abbia una band: «Io sono il gruppo, suonerò tutto eccetto le percussioni. Ho poca pazienza coi musicisti che non sono capaci di fare ciò che gli chiedo, ed io ho grosse pretese».

Moloko - Sing It BackMoloko – Sing It Back
Il duo dei Moloko (il compositore/produttore Mark Brydon e la cantante Róisín Murphy) non impiega molto a raggiungere il successo: già nel 1995, anno del debutto, si impone un po’ ovunque con “Fun For Me”, estratto dall’album “Do You Like My Tight Sweater?”. Nel successivo, “I Am Not A Doctor” uscito nel 1998, figura “Sing It Back”, un brano che plana magicamente su una coltre di materia fumosa dalla singolare consistenza. A dargli la spinta necessaria per trasformarlo in un successo pop è una delle versioni che appaiono nei primi mesi del ’99, la Boris Musical Mix del DJ tedesco Boris Dlugosch, affermatosi nel ’96 con “Keep Pushin'”, nonostante l’etichetta avesse puntato tutto sul remix di Todd Terry, la Tee’s Freeze Mix, sperando che potesse seguire lo stesso corso di “Missing” degli Everything But The Girl. Corre voce che Brydon e la Murphy abbiano faticato non poco per convincere i dirigenti della Echo ad inserire sul disco la versione di Dlugosch (affiancato dal fido collaboratore Michi Lange con cui incide altri discreti successi come “Check It Out! (Everybody)” di BMR, “Azzurro” di Fiorello e i remix per “Blen Blen” di Edesio e “Never Enough” della stessa Murphy) a conti fatti quella che ha trasformato “Sing It Back” in una hit mondiale.

Moratto - WarriorsMoratto – Warriors
Analogamente ad altri dischi trattati in questo articolo, pure “Warriors” viene immesso sul mercato con un remix ad affiancare la versione originale. Nella Bat Mix Elvio Moratto riversa la passione che ai tempi nutre per la dance di matrice mitteleuropea, quella che prende le mosse da generi come hard trance, progressive, rave techno ed happy hardcore, ma nel contempo la farcisce con una vena melodica tipicamente all’italiana. Cantato da Jo Smith, “Warriors” esce nei primi mesi del 1995 raccogliendo discreto successo grazie al remix dei Datura intitolato, forse non casualmente, Main Mix. Pagano, Mazzavillani e Ricci DJ approntano una versione che non differisce molto da quella originale ma risultando d’impatto e garantendo un buon airplay radiofonico ed un’apprezzabile resa in termini di vendite seppur non paragonabile a quella di altri pezzi del repertorio morattiano, su tutti “La Pastilla Del Fuego” dell’anno prima, peraltro remixato sempre dai bolognesi Datura in una sorta di mash-up con la loro “Eternity”. «L’idea di affidare il remix ai Datura fu mia, trattandosi di un team con cui avevo piacere di collaborare» dichiara oggi Moratto contattato per l’occasione. «La scelta di puntare su quella versione come principale però non dipese da me. “Warriors” vendette 20.000 copie in Italia, compreso il Live Remix che feci successivamente e che viene ancora suonato in alcuni club oltremanica». Discutibile, forse, la scelta della Flying Records di commercializzare “Warriors” proprio mentre imperversa “Wonder” che Moratto realizza a quattro mani con DJ Cerla per un’etichetta della stessa società, la neonata Drohm, ritrovandosi paradossalmente a far concorrenza a se stesso. «Entrambi i brani furono prodotti nello stesso periodo ma non credo sia stato controproducente pubblicarli quasi in contemporanea. “Wonder” abbracciò il pubblico commerciale e vendette molto di più ma poiché editi dallo stesso gruppo discografico, alla Flying decisero di investire solo in un video, quello di “Wonder”» conclude Moratto.

Mulu - PussycatMulu – Pussycat
Autentica meteora nella seconda metà degli anni Novanta, i Mulu (Alan Edmunds e Laura Campbell) debuttano nel ’96 con “Desire”, primo singolo estratto da “Smiles Like A Shark”. Nel ’97, tratto dallo stesso LP, tocca a “Pussycat”, un brano downtempo per cui viene girato un videoclip e che, come si usa fare allora, viene dato in pasto a vari remixer. Tra loro c’è François Kevorkian che rende il pezzo appetibile alle piste da ballo trasformandolo in una gioiosa cantilena. A pubblicarlo in Italia è la Nitelite The Club Records, etichetta del gruppo Do It Yourself che in copertina piazza un bel “n° 1 club hit”.

Negrocan - Cada VezNegrocan – Cada Vez
Nati a Londra nei primi anni Novanta dalla collaborazione tra diversi musicisti provenienti da più parti del globo (tra cui il percussionista triestino Davide Giovannini), i Negrocan incidono il primo album intitolato “Medio Mundo” nel 1996. Uno dei pezzi racchiusi all’interno ed estratto come singolo è “Cada Vez”, scandito da ritmi caraibici, elementi bossanova e dalla voce della brasiliana Liliana Chachian. I responsi sono impietosi e il brano finisce presto nel dimenticatoio. Alla fine del 1999 però il remix del britannico Grant Nelson, che trasla il mood latino di partenza nel mondo della house facendo il verso allo stile dei Masters At Work, apre nuove ed inaspettate prospettive. In verità a sancire la rinascita del brano nel 2000 è un’altra versione, quella realizzata da Jerry Ropero, belga trapiantato in Spagna, capace di enfatizzare ulteriormente le potenzialità del brano dei Negrocan. L’Avant Garde Remix (Avant Garde è il progetto con cui nel ’99 Ropero & soci catalizzano l’attenzione europea attraverso “Get Down”) conquista prima i DJ dei club e poi anche i programmatori radiofonici, e nell’arco di pochi mesi il pezzo esplode in buona parte del vecchio continente. A pubblicarlo in Italia (inclusa la Album Version) è la Heartbeat del gruppo Media Records che, in seconda ripresa, mette in circolazione due ulteriori rivisitazioni, quella di Intrallazzi & Fratty e quella di Gigi D’Agostino che, all’apice della popolarità, alimenta ulteriormente il successo trasversale e momentaneo dei Negrocan.

Neja - RestlessNeja – Restless
Dopo l’esordio in sordina del ’97 con “Hallo”, per Agnese Cacciola alias Neja si aprono le porte del successo. Ciò avviene con “Restless”, un pezzo prodotto da Alex Bagnoli presso il suo Alby Studio, a Modena, che si impone come hit estiva in Italia e poi fa il giro del mondo ma soltanto a diversi mesi dall’uscita del disco. L’Extended Version è gradevole ma poco impattante a livello pop. Ci pensano i Bum Bum Club a riconfezionare la canzone in un efficace remix perfettamente calato in una dimensione che sposa le capacità vocali della cantante piemontese alle caratteristiche dell’italodance di fine decennio. Tale versione è scelta per accompagnare il videoclip. Alla luce dei risultati, i Bum Bum Club vengono ingaggiati per il follow-up, l’autunnale “Shock!”, che però raggiunge risultati più contenuti. Il tutto sotto la direzione di Pippo Landro della New Music International che vuole Neja su LUP Records, etichetta partita con “Illusion” dei Ti.Pi.Cal. nel 1994.

New Atlantic - The Sunshine After The RainNew Atlantic – The Sunshine After The Rain
Sino al 1994 la popolarità dei New Atlantic (Richard Lloyd e Cameron Saunders, da Southport, a pochi chilometri da Liverpool) non riesce ad andare oltre i confini patri. I tentativi di replicare il buon successo ottenuto con “I Know” vanno a vuoto ma quando tutte le speranze sembrano perdute accade qualcosa di inaspettato. Sulla scrivania di Jon Barlow, manager della 3 Beat Music che ha messo sotto contratto il duo, arriva “The Sunshine After The Rain”, cover dell’omonimo di Ellie Greenwich del ’68 e già ripreso con successo da Elkie Brooks nel ’77. La versione originale, pare realizzata da Neil Bowser alias U4EA, è inchiodata ad una base breakbeat, piena di asperità ritmiche. Il successo è assicurato dal remix realizzato in Italia da Roberto Gallo Salsotto in cui vengono sapientemente bilanciate ariose melodie eurodance al rigore meccanico di un bassline di moroderiana memoria. «Alla 3 Beat furono entusiasti del risultato e, per dare al disco una spinta maggiore in scia al successo di “Everybody Gonfi-Gon” che avevano licenziato pochi mesi prima, mi chiesero di usare il marchio Two Cowboys che condividevo con Maurizio Braccagni, nonostante avessi eseguito quel remix da solo» racconta qui Gallo Salsotto. La sua versione viene scelta sia per sincronizzare il videoclip che per accompagnare le apparizioni televisive come quella a Top Of The Pops. L’immagine è affidata invece a Rebecca Sleight alias Berri che dal 1995 diventa unica interprete del brano pubblicato in tutto il mondo con oltre 200.000 copie vendute.

Nick Beat - TechnodiscoNick Beat – Technodisco
Partito nel 1996 con “Bow Chi Bow” che attinge dal classico dei Vicious Delicious intitolato “Hocus Pocus”, Nick Beat è il progetto tedesco messo su da Tom Keil e Thorsten Adler. I due fanno centro nel 2000 con “Technodisco”, un pezzo che inizia a circolare in formato white label e che in breve tempo conquista le attenzioni della Zeitgeist del gruppo Polydor, probabilmente attratta dalla evidente somiglianza con una hit di poco tempo prima, “Kernkraft 400” degli Zombie Nation. La versione originale, la Technodiscomix, fa incetta dei tipici elementi della dance tedesca di allora con retaggi hard trance misti a suonini che sembrano saltare fuori da un vecchio coin-op degli anni Ottanta. Dei diversi remix giunti sul mercato quello di Axel Konrad, figura chiave della handsup teutonica, si distingue meglio per il grande pubblico. Più “picchiaduro”, per restare ancorati al mondo dei videogiochi d’antan, sono le versioni del compianto Pascal F.E.O.S. e di Thomas P. Heckmann. A pubblicare il disco in Italia è la Green Force del gruppo Arsenic Sound, lo stesso che prende in licenza “Kernkraft 400″ e che, a distanza di qualche settimana, mette in vendita un 12” con due ulteriori remix di “Technodisco” a firma DJ Gius, l’artefice del successo mondiale di Zombie Nation di cui si parla più avanti.

Nightcrawlers - Push The Feeling OnNightcrawlers – Push The Feeling On
Ispirata da “Pass The Feelin’ On” dei Creative Source, “Push The Feeling On” esce nel 1992 e prova a ritagliarsi un posto nel mercato acid jazz a cui la band dei Nightcrawlers, guidata dal cantante John Reid, approccia già l’anno prima con “Living Inside A Dream”. Il destino però ha in serbo altri progetti. La Nocturnal Dub realizzata dal DJ americano Marc ‘MK’ Kinchen, fratello di Scott Kinchen alias Scotti Deep, dona al brano una veste completamente diversa, ritmicamente (con una base in stile StoneBridge) e sotto il profilo dell’arrangiamento con un assolo di sax che, insieme ad una filastrocca di loop vocali concatenati, diventa un autentico tormentone. Sarà sempre Kinchen a perfezionare ulteriormente “Push The Feeling On” nella MK Mix 95 giunta, per l’appunto, nel 1995, anno in cui si cerca, proprio col suo aiuto, di bissare il successo con altri singoli (“Surrender Your Love”, “Don’t Let The Feeling Go”, “Let’s Push It”) ma con risultati inferiori. Difficile o forse impossibile tenere il conto dei remix, riadattamenti (si senta, ad esempio, “Control Your Body” di Wagamama) e cover di “Push The Feeling On” usciti nell’arco di quasi un trentennio a cui si è recentemente aggiunta la fortunata versione di Riton.

Nina - I'm So ExcitedNina – I’m So Excited
La croata Nina Badric inizia la carriera da cantante nei primi anni Novanta ma con pochi risultati che valicano i confini. La situazione cambia alla fine del 1998 grazie al brano “I’m So Excited”, remake dell’omonimo delle Pointer Sisters prodotto da Albert Koler, che invece fa il giro di buona parte d’Europa conquistando in particolar modo Austria, Francia, Spagna, Grecia ed Italia. La main version, la NYC RnB Mix, è una slow ballad r&b per l’appunto. Koler appronta comunque una versione destinata alle discoteche, la Exciting House Mix. In Italia però Nina spopola grazie ad uno dei due remix realizzati da Alex Voghi e Filippo ‘Sir H’ Soracca, precisamente il Solid State Dance, che tiene banco sino all’estate 1999. A pubblicare il brano, sia su 12″ che CD singolo, è la Dance Excess del gruppo Hitland. Per il follow-up, “One & Only”, la casa discografica scommette sulla versione di DJ Dado realizzata insieme a Roberto Gallo Salsotto presso il suo Stockhouse Studio.

Olive- You're Not AloneOlive – You’re Not Alone
Londra, 1994: il musicista Tim Kellett, ex componente dei Simply Red, e Robin Taylor-Firth, dalla formazione dei Nightmares On Wax, si conoscono attraverso un amico comune ed iniziano a buttare giù idee nello studio casalingo di Kellett. Approntano tre demo, strumentali. Uno di quelli diventa “You’re Not Alone” con la voce di Ruth-Ann Boyle che proprio Kellett sente per caso, attraverso una registrazione, durante una tappa del tour dei Durutti Column per cui quell’anno è ingaggiato come tastierista. La Boyle, tra le coriste dell’album “Sex And Death” degli stessi Durutti Column, si diletta a cantare con band locali della sua città natale, Sunderland, ma sino a quel momento non ha maturato significative esperienze professionali. A settembre del 1995 i tre firmano un contratto con la RCA che nel 1996 pubblica l’album “Extra Virgin”. L’LP, come dichiara Taylor-Firth in questa intervista del 2007, viene realizzato con un paio di sintetizzatori (Roland Juno-60 ed E-mu Vintage Keys) e tre campionatori Akai S3000. Il primo singolo ad essere estratto è “You’re Not Alone”, accompagnato dal relativo videoclip. I responsi sono impietosi, il mix tra rarefatte atmosfere ambientali ed accartocciamenti trip hop non sortisce grandi risultati, e neanche i remix firmati da nomi blasonati come X-Press 2 e Tin Tin Out, tempestivamente pubblicati anche in Italia dalla Flying Records, riescono ad invertire la rotta. Nel 1997 arrivano nuove versioni tra cui quelle di Roni Size, The Ganja Kru, Rollo & Sister Bliss dei Faithless e Paul Oakenfold & Steve Osborne e per gli Olive le cose cambiano radicalmente, in modo simile a quanto avvenuto pochi anni prima ai connazionali N-Trance con “Set You Free”. “You’re Not Alone” entra nella classifica britannica e vende oltre 500.000 copie trainando “Extra Virgin” che la RCA ovviamente ristampa distribuendolo in tutto il mondo, ma curiosamente solo in formato CD e cassetta (il vinile arriva quasi venti anni dopo, nel 2016). A maggio del 1997 ad osannare gli Olive è anche il pubblico di Top Of The Pops mentre arriva un secondo video di “You’re Not Alone” che fa da cornice ad un tour internazionale. Così come la Boyle raccontava anni fa sul suo sito, Madonna assiste ad una performance in Germania proprio durante quel tour e, con entusiasmo, propone alla band di incidere un nuovo album per la sua etichetta, la Maverick. Il disco arriva nel 2000 e si intitola “Trickle”. Più di qualche critico musicale (tra cui Larry Flick in una recensione apparsa su Billboard l’11 aprile 1998) però fa notare che la fascinazione su Madonna prende già corpo con “Frozen”, prodotta da William Orbit, remixata per i club da Victor Calderone e contenente i parametri di “You’re Not Alone”. La hit degli Olive continuerà ad essere motivo d’ispirazione come testimoniano molteplici cover uscite nel corso degli anni a partire da quella del tedesco ATB risalente al 2002.

Paul van Dyk - For An AngelPaul van Dyk – For An Angel
“For An Angel” è uno dei brani racchiusi in “45 RPM”, album di debutto per Paul van Dyk nonché il primo dei due che il DJ destina alla MFS di Mark Reeder. Co-prodotta con l’ingegnere del suono Johnny Klimek, la traccia è imperniata su un breve riff melodico innestato su una base più vicina alla progressive house che alla trance. Nota essenzialmente a chi ha comprato quell’album, nel 1998 per “For An Angel” si apre una seconda vita, molto più intensa della precedente. La britannica Deviant Records del compianto Rob Deacon pubblica un 12″ con tre remix della traccia per lanciare il tedesco oltremanica. Tra quelle nuove versioni c’è la E-Werk Club Mix, approntata dallo stesso van Dyk: grazie ad un ritmo più euforico simile a quello costruito per il remix di “1998” dei Binary Finary, il brano adesso conquista l’intera platea europea, complici la Love Parade di Berlino dove è consacrata allo status di inno ed un videoclip girato per l’occasione. A pubblicare il disco in Italia è la Milk’n Honey, una delle etichette del gruppo More Music curata artisticamente da Raffaela Travisano intervistata qui.

Powerhouse Featuring Duane Harden - What You NeedPowerhouse Featuring Duane Harden – What You Need
Powerhouse è il nome con cui il DJ newyorkese Lenny Fontana firma un successo mondiale nel 1999. Avvalendosi della graffiante voce di Duane Harden, lo stesso che interpreta “You Don’t Know Me” di Armand Van Helden, e sfruttando abilmente un campionamento tratto da “I’m Here Again” di Thelma Houston, Fontana assembla un brano irresistibile, legato tanto alla house quanto alla disco. La versione passata alla storia però non è l’Original Mix bensì il remix dei britannici Full Intention (Jon Pearn e Michael Gray), da anni attratti da quel tipo di fusione stilistica a cui peraltro devono gran parte della loro popolarità (si pensi a brani del repertorio come “Uptown Downtown”, “America (I Love America)” e “Shake Your Body (Down To The Ground)”). È proprio il remix dei Full Intention ad essere sincronizzato sul videoclip programmato dalle tv musicali sparse in tutto il pianeta.

Rachid - PrideRachid – Pride
Figlio del compianto Ronald Nathan Bell, uno dei fondatori dei Kool & The Gang, l’allora ventiquattrenne Rachid non intende affatto usare il nome del padre come scorciatoia per raggiungere il successo o grimaldello per aprire porte nel music biz. Si propone piuttosto come un sedicente poeta punk, ispirato da Björk, Bauhaus, Sonic Youth, Chaka Khan, David Bowie e Marcel Proust, e mostra interessi plurimi che passano dal trip hop all’industrial, dal drum n bass al folk e al soul con l’intenzione di creare il prototipo della musica del futuro. Non a caso “Prototype” è il titolo del suo primo (ed unico) album che Universal pubblica nel 1997 raccogliendo rincuoranti consensi dalla critica che ne parla come disco candidato a ridefinire i confini del pop. Anche il primo singolo estratto, “Pride”, promette molto bene. «È stata la prima canzone che ho registrato, musicandola con un sample hip hop e il suono del violoncello, credo sia perfetta per introdurre il pubblico a ciò che rappresento» spiega l’artista in un’intervista a cura di Michael A. Gonzales apparsa a settembre 1998 sulla rivista americana Vibe. In circolazione finisce pure il video destinato al circuito delle tv musicali. Una serie di remix poi traghetta Rachid anche nel mondo dei DJ e delle discoteche: in particolare è la versione dei Mood II Swing ad essere salutata con maggior entusiasmo, pure in Italia dove viene pubblicata ad inizio ’98 dalla Nitelite The Club Records del gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che rimarca la presenza di quella versione in copertina. Sul trampolino di lancio c’è già il secondo singolo, “Charade”, ma dissapori con la Universal, causati da un presunto cambio di politica aziendale, bloccano tutto. Di “Charade” inoltre è pronto un remix realizzato da Grooverider ma la fine del rapporto con la casa discografica vanifica tutto. Nel 2007 lo stesso Grooverider manda in onda quel remix nel suo radio show su BBC Radio 1, invitando gli ascoltatori a registrarlo perché rarissimo ed inciso su pochissimi acetati.

Rahsaan Patterson - Where You AreRahsaan Patterson – Where You Are
Dopo alcune esperienze come attore, Patterson approda alla musica figurando come corista per vari artisti, su tutti Brandy nel brano “Baby” del ’94. L’anno dopo viene scritturato dalla MCA che nel ’97 pubblica il suo primo album intitolato “Rahsaan Patterson”, un condensato di soul ed r&b. In questo LP c’è “Where You Are”, una ballata romantica supportata dal relativo video. A portare la musica di Patterson al grande pubblico è però il remix di Steve “Silk” Hurley, praticamente in stato di grazia dopo “The Word Is Love” realizzata pochi mesi prima con Sharon Pass e a cui i suoi tanti remix di quel periodo, incluso quello per Rahsaan Patterson, sono direttamente connessi.

Ralphi Rosario Featuring Donna Blakely - Take Me Up (Gotta Get Up)Ralphi Rosario – Take Me Up (Gotta Get Up)
Tra i veterani della scena house chicagoana nonché membro del collettivo Hot Mix 5, Ralphi Rosario incide un inno monolitico nel 1987, “You Used To Hold Me”. Instancabile DJ e produttore/remixer, torna al successo trasversale capace di abbracciare pure il frangente mainstream esattamente dieci anni più tardi, a fine ’97, quando circola un doppio mix su Underground Construction intitolato “Take Me Up (Gotta Get Up)”. La versione originale del brano, interpretato dalla compianta Donna Blakely che mette bene in mostra le proprie potenzialità vocali, gira su un ossessivo basso su cui si innesta a ventaglio tutta una serie di elementi, da fiati ad inserti di tastiere. È perfetto per i club specializzati, meno per le radio e le grandi platee. Uno dei quattro remix incisi sul doppio però, quello di Rafael Rodriguez alias Lego che un paio dopo spopola grazie ad “El Ritmo De Verdad”, capovolge la situazione. Con un ipnotico loop ritmico su cui cresce rigogliosamente la voce della Blakely, il pezzo esplode nei primi mesi del 1998 affermandosi in buona parte d’Europa. A licenziarlo in Italia è la Rise, neonata etichetta della Time Records curata da Alex Gaudino che sul 12″, oltre alla Lego’s Mix ovviamente piazzata in posizione A1, vuole pure la versione dei Fire Island. L’Original Club Mix di Rosario è relegata invece al lato b. Sul CD singolo finiscono infine altri due remix, quelli di Kevin Halstead (anche lui passato a miglior vita) e JJ Flores ma ininfluenti per il successo commerciale del brano.

Reel 2 Real - Go On MoveReel 2 Real – Go On Move
Balzati all’attenzione generale tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994 con “I Like To Move It”, i Reel 2 Real capitanati dal compianto Erick Morillo cavalcano la seconda ondata hip house insieme ad artisti come 2 In A Room, 740 Boyz, Outhere Brothers e KC Flightt. Il follow-up del citato “I Like To Move It” è proprio “Go On Move”, un brano risalente all’anno prima quando la Strictly Rhythm lo pubblica ma senza raccogliere grandi risultati. Nella Erick “More” Mix si sente bene l’imprinting morilliano ma solo grazie alla Erick “More” 94 Vocal Mix, accompagnata dal relativo videoclip e da una parte vocale più estesa interpretata da Mark Quashie alias The Mad Stuntman, il brano diventa un successo estivo. In Italia è un’esclusiva della napoletana UMM che in autunno pubblica anche l’album “Move It!” da cui verranno estratti altri singoli più o meno fortunati come “Can You Feel It?”, “Raise Your Hands” e “Conway”.

Rexanthony - Capturing MatrixRexanthony – Capturing Matrix
Le prime versioni di “Capturing Matrix”, tra cui svetta la Trancegression, iniziano a circolare nella primavera del 1995 attraverso un mix edito dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. Quella dell’allora diciottenne Anthony Bartoccetti, figlio dei musicisti Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui) ed Antonio Bartoccetti, è indiavolata hard trance in cui scorre una spiccata vena melodica che gli apre le porte del mainstream. A decretare il successo del brano a fine estate è il remix realizzato dallo stesso Rexanthony che la S.O.B. immette sul mercato su un 12″ contenente “Cocoacceleration”, realizzata a quattro mani con Molella, e “Deltasygma”. Il successo è tale da conquistare la vetta della classifica dance ai tempi più monitorata ed influente d’Italia, la DeeJay Parade, e generare più di qualche clone realizzato in copia carbone come “Melody In Motion” di Liberty. Ps: si narra che la linea melodica di “Capturing Matrix” sia stata ispirata da “Capturing Universe”, un brano composto dai genitori di Bartoccetti nel 1980 per l’album “Praeternatural” ma di cui non vi è traccia sino al 2003, anno in cui viene pubblicato dalla Black Widow Records. Pare più plausibile invece la relazione tra “Capturing Matrix” (e il follow-up autunnale “Polaris Dream”) e “Universe Of Love” del tedesco RMB, uscita nel ’94 e di cui parliamo qui nel dettaglio.

Robert Miles - ChildrenRobert Miles – Children
Quando si accorge che in circolazione c’è un altro Roberto Milani, pseudonimo utilizzato per alcuni dischi che non riescono ad uscire dall’anonimato, Roberto Concina modifica il suo alter ego ed opta per l’inglesizzazione, Robert Miles. Il primo 12″ firmato col nuovo nome è “Soundtracks”, pubblicato nei primi mesi del 1995 da una delle etichette di Joe T. Vannelli, la DBX Records. Uno dei quattro brani inclusi è “Children”, seppur storpiato da un errore tipografico, sia sulla copertina che sull’etichetta centrale, in “Childrtens”. Questa versione, un ibrido tra progressive house e progressive trance con arcate melodiche in grande evidenza, viene completamente snobbata. Quando la Platipus di Simon Berry prende in licenza “Children” per il territorio britannico però cambia tutto. All’etichetta d’oltremanica Concina destina anche un remix del brano in cui la vena melodica è implementata da un assolo di pianoforte che anni dopo si scoprirà essere parzialmente ispirato da “Napoi Menia Vodoi” del musicista russo Garik Sukachov, sembra col suo benestare. Ad onor del vero anche l’impostazione armonica di stampo new age, già presente nell’Original Version, pare non essere farina del suo sacco: come si legge in questo articolo del 18 settembre 1997, il musicista Patrick O’Hearn accusa Concina di plagio ai danni del suo “At First Light”, contenuto nell’album “Ancient Dreams” del 1985, e chiede oltre dieci milioni di dollari come risarcimento. Comunque siano andate le cose, quel remix del brano, poi diventato la definitiva Dream Version, cambia la vita di Concina, conquistando la vetta delle classifiche in ben diciotto Paesi del mondo e vendendo milioni di copie, dai tre e mezzo ai cinque, secondo diverse interviste. Il resto lo potete leggere in questo dettagliato articolo.

Robin S - Show Me LoveRobin S – Show Me Love
Nata nel 1962 a New York, Robin Stone debutta nel 1990 col brano “Show Me Love”, scritto e prodotto per la londinese Champion da Allen George e Fred McFarlane incontrati, come lei stessa racconta in un’intervista rilasciata nell’autunno del 1994, durante una delle serate che tiene nei dinner club e nei privée delle discoteche dell’area newyorkese insieme alla sua band, i Top Shelf. La versione principale, la Montego Mix, è mixata da Anthony King e scorre su partiture house garage, non pretenziose ed un filo banali seppur ben realizzate. In pochi si fanno avanti, la ZYX per la Germania, la Carrere per la Francia e la Media Records per l’Italia che lo pubblica sulla Whole Records ma con risultati deludenti. “Show Me Love” finisce presto nel dimenticatoio. Un paio di anni dopo circa però un remix proveniente dalla Svezia cambia il corso degli eventi. A realizzarlo sono StoneBridge e Nick Nice della SweMix, un collettivo di DJ e produttori in cui figurano, tra gli altri, anche il compianto Denniz Pop e Douglas Carr. Gli svedesi dotano il pezzo di un apparato ritmico/sonoro interamente nuovo che fornisce a “Show Me Love”, ora ripubblicato in tutto il mondo, una seconda vita che di fatto non si è mai conclusa a giudicare dal numero di remake e remix usciti sino ad oggi. Anche la cantante, coinvolta nel videoclip sincronizzato sulla nuova versione, si ripresenta al pubblico con un nome parzialmente diverso, Robin S. Ad accaparrarsi i diritti per la pubblicazione in Italia è D:Vision Records del gruppo Energy Production, la stessa che si aggiudica il follow-up “Luv 4 Luv”, ancora remixato da StoneBridge.

Roc & Kato - AlrightRoc & Kato – Alright
Il duo americano formato da Ramon Ray Checo e Juan Kato incide house music sin dal 1991 ma senza velleità commerciali. Il loro sound è fedelmente ancorato alla scena house newyorkese come testimoniato dai vari dischi del repertorio, incluso “Alright” che la Slip ‘n’ Slide pubblica nella primavera del 1995. La Original Vocal Mix è spassionata house garage, cantata da Charmaine Radcliff e Bendel Holt con inserti di pad ed un organo hammond. Sul doppio figurano già un paio di remix, tra cui quello di Davidson Ospina, che ingolosiscono gli adepti della garage e che stuzzicano qualcuno alla sede della Discomagic che prende in licenza il brano per l’Italia ristampandolo su etichetta Reform. A far cambiare traiettoria ad “Alright” sarà, qualche mese più tardi, il remix firmato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che da noi diventa un discreto successo autunnale. La nuova versione, pubblicata sempre da Reform e realizzata negli studi della bresciana DJ Movement insieme al musicista Pieradis Rossini, mantiene pochi elementi dell’originale puntando ad una ricostruzione fatta di suoni eurodance ed un cantato che fa leva sull’hook di facile memorizzazione.

Rosie Gaines - Closer Than CloseRosie Gaines – Closer Than Close
La versione originale, in stile r&b, risale al 1995 ed è inclusa nell’album omonimo su Motown, “Closer Than Close”, il secondo inciso dalla cantante californiana, ex corista dei New Power Generation. A conquistare il mondo delle discoteche e le classifiche di vendita europee (soprattutto quella britannica di cui raggiunge la vetta) è però il remix esploso due anni più tardi. A realizzarlo sono i Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza) che con la loro rielaborazione garage house, in circolazione già dal 1996 in formato white label e supportata da molti DJ tra cui il nostro Coccoluto come si legge qui, garantisticono alla Gaines un momento di inaspettata popolarità riuscendo a dare filo da torcere agli altri remixer coinvolti, i londinesi Tuff Jam e l’indimenticato Frankie Knuckles. Per l’occasione viene girato un videoclip diretto da Steve Price. Nella sua biografia Torrales parla di oltre otto milioni di copie vendute, una soglia incredibile per un pezzo che nella versione di partenza aveva rivelato ben poche speranze di sviluppo. Con lo scopo di rendere quanto più longevo possibile l’exploit di Rosie Gaines, la Bigbang Records commissiona sempre ai Mentor il remix del follow-up, “I Surrender”, ma fallendo l’obiettivo.

Run Feat. Justine Simmons - Praise My DJ's (My Funny Valentine)Run Feat. Justine Simmons – Praise My DJ’s (My Funny Valentine)
Inizialmente pubblicato dalla britannica Positivity Records diretta dall’A&R Carlton Brady, “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” è un pezzo hip house modellato sulle liriche di una vecchia canzone scritta negli anni Quaranta da Richard Rodgers e Lorenz Hart, “My Funny Valentine”. Ad interpretarlo sono Joseph Simmons alias Run (il Run dei Run-DMC) e la moglie Justine, ma i risultati ottenuti con le versioni iniziali prodotte da Kirwin Rolle e Remano Dunkley sono particolarmente deludenti. Il remix invece, realizzato in Italia dal team dei Mach 3, capovolge letteralmente la situazione trasformando la traccia in un successo dalle dimensioni internazionali. Merito di un trattamento che gli autori (Alessandro Zullo, Andrea Monta e Luca Neuburg, coadiuvati dagli scratch di DJ Aladyn) edificano rispolverando il mood nevinsiano di “It’s Like That” abbinato a stab di memoria rave ma soprattutto ad un riff fischiettato, vero elemento identificativo che fa di “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” un tormentone tra la primavera e l’estate 1999, accompagnato dal relativo videoclip ovviamente sincronizzato sul remix. A commissionare il lavoro ai Mach 3 (e al veneto Spiller, prossimo ad esplodere con la sua “Groovejet”) è la More Music Italy, ai tempi guidata dalla citata Raffaela Travisano, che convoglia il brano su etichetta Priveé. «Super programmato in radio e in discoteca e presente nelle top ten di vendita, a dimostrazione che le diffidenze delle prime settimane erano totalmente ingiustificate» scrive in merito Eugenio Tovini sulle pagine di Trend Discotec a luglio di quell’anno. Il follow-up, “Check Out The Floor (Summer Breeze)”, remixato ancora dai Mach 3 in quella che pare davvero la fotocopia del precedente, arriva solo nel 2001 sulla 909 Records, una delle label di Joe T. Vannelli, ma ormai fuori tempo massimo.

Run-DMC - It's Like ThatRun-DMC – It’s Like That
Nel 1997, quattordici anni dopo la pubblicazione sulla Profile Records, un remix (in Italia pubblicato dalla bresciana Time) riporta in vita “It’s Like That”, singolo d’esordio dei Run-DMC, dando ad esso una nuova veste sonora ed un’inedita prospettiva. L’artefice, il newyorkese Jason Nevins, sovrappone l’acappella originale ad una trascinante base e il risultato piace talmente tanto da conquistare la prima posizione delle classifiche di vendita in svariate nazioni e macinando oltre cinque milioni di copie anche se Nevins, pare, abbia incassato solo 5000 sterline così come riportato qui dalla BBC. Per far fronte al successo inaspettato viene girato un videoclip che proietta il gruppo in una scena ben diversa rispetto a quella hip hop e ciò provoca, prevedibilmente, aspre critiche degli integralisti, poco propensi a mandare giù una versione più volte definita “pacchiana”. Si parla anche di screzi e risentimenti tra il remixer e gli autori emersi nel 1999 attraverso la rivista XXL Magazine. Comunque sia il particolare beat, una sorta di brutalizzazione di “The House Of God” di DHS, diventa una tag identificativa per Nevins, pronto a riutilizzarlo per altri remix come quello di “It’s Tricky”, ancora dei Run-DMC, e “We Want Some Pussy!” dei 2 Live Crew a cui seguono anche vari tentativi di imitazione come “Work It” di Junkfood Junkies e “I Know You’ve Got Soul” di Trade Secrets.

Sandy B - Make The World Go RoundSandy B – Make The World Go Round
Contrariamente a quanto avviene di solito nel mondo della musica, la carriera della cantante statunitense Sandra Barber decolla dopo aver mollato le multinazionali in favore di etichette indipendenti. Negli anni Ottanta milita prima nei Chew (per la Capitol Records) e poi nei Blue Moderne, sotto contratto con l’Atlantic, ma il successo internazionale giunge nel ’92 grazie a “Feel Like Singin'”, edito da Nervous Records ed impreziosito da un remix di David Morales. Il vero botto nel 1996 con “Make The World Go Round”, pubblicato dalla Champion pare bypassando del tutto la versione originale rimasta, secondo quanto riportato ai tempi da un magazine tedesco, nel cassetto ed allo stato di demo. Scritto da Brinsley Evans e Thomas Del Grosso, il brano si impone in tutto il mondo grazie al remix dei Deep Dish, colorito da un caratteristico disegno di basso che risulterà l’indiscusso punto di forza tanto da essere riproposto in innumerevoli salse, a partire da “Let Me Show You” di Camisra. Con il loro Round The World Remix dunque, Dubfire e Sharam surclassano le rivisitazioni di esimi colleghi come StoneBridge e Kerri Chandler, e dimostrano che il successo ottenuto l’anno prima col remix di “Hideaway” dei De’Lacy, di cui si è già detto sopra, non fu solo frutto della fortuna. Commercialmente meno entusiasmante sarà invece il follow-up, “Ain’t No Need To Hide”, che i Deep Dish rileggono nella Sequel Mix in Italia pubblicata, analogamente a “Make The World Go Round”, dalla D:Vision Records.

Scott Grooves - Mothership ReconnectionScott Grooves – Mothership Reconnection
A portare grande popolarità a Patrick Scott, DJ e produttore di Detroit meglio noto come Scott Grooves, è “Mothership Reconnection”, rielaborazione house di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton anche se, come chiariscono i crediti, i frammenti campionati non sono del brano uscito nel 1975 bensì quelli presi dal Live di Houston registrato dieci anni più tardi. Ai tempi la versione di Scott viene incanalata nel French Touch seppur la traccia provenga dagli States: col suo metti e togli di fiati e scampoli di batteria, pare davvero un pezzo uscito dallo studio dei Motorbass, I:Cube o Dimitri From Paris. Magari sarà stata proprio questa somiglianza a spingere i vertici della scozzese Soma a commissionare un remix ad un duo francese su cui avevano scommesso per primi nel ’94, i Daft Punk. Così, dal Daft House di Parigi, arriva un remix che sintetizza le idee di partenza di Scott centrifugate in un energetico puzzle da cui affiorano tessere electrofunk. Il risultato è irresistibile e finisce col mettere in ombra la versione originale inclusa nell’album “Pieces Of A Dream” pubblicato sempre dalla Soma di Glasgow.

Shamen - Move Any MountainShamen – Move Any Mountain
Analogamente ai connazionali Underworld, pure gli Shamen iniziano con un nome diverso (Alone Again Or) abbracciando il rock alternativo seppur senza vantare un successo simile per dimensioni a “Doot-Doot”. Quando si ribattezzano col nuovo moniker, nel 1985, le differenze con quanto avvenuto degli anni precedenti non sono ancora evidenti ma le prospettive muteranno presto. I riscontri raccolti con “Jesus Loves Amerika” ed altri singoli estratti dall’album “In Gorbachev We Trust” contribuiscono ad edificare la nuova estetica sonica della band fondata da Colin Angus e dai fratelli Derek e Keith McKenzie, a cui si aggiungono altri componenti come Richard West meglio noto come Mr. C (proprio quello del londinese The End), il bassista Will Sin e la cantante Plavka Lonich, pochi anni dopo voce dei pezzi commercialmente più fortunati dei Jam & Spoon. In “En-Tact”, del ’90, le matrici rock collidono in scenari elettronici. Uno dei brani contenuti è “Progen”, antesignano del chemical beat e di tutta quella che, a posteriori, la critica definirà indie dance. Gli inserti rappati dal citato West stuzzicano ricordi hip house ma sarebbe un errore annettere il brano a tale corrente. Estratto come singolo e mixato da Paul Oakenfold, “Progen” conquista una serie di licenze sparse in Europa (Italia compresa, su Ricordi International) ma vedrà la completa affermazione soltanto l’anno seguente quando viene remixato e ripubblicato col titolo “Move Any Mountain” (e il sottotitolo “Progen 91”). Tra le tante versioni approntate risulta decisiva e determinante quella dei Beatmasters, pionieri della house music d’oltremanica con pezzi come “Rok Da House”, “Burn It Up”, “Warm Love” ed “Hey DJ / I Can’t Dance (To That Music You’re Playing)”. È la loro rivisitazione dunque a permettere alla band scozzese di varcare per la prima volta la soglia della top ten dei dischi più venduti in patria e conquistare la quarta posizione nonché piazzarsi alla 38esima piazza dell’ambita Billboard Hot 100 dall’altra parte dell’Atlantico. La Beat Edit mette insieme con lungimiranza spunti breakbeat, rock ed hip hop su uno sfondo psichedelico, vero leitmotiv della produzione shameniana di quegli anni, ed è sincronizzata col video girato nella primavera del 1991 alle pendici del vulcano Teide, a Tenerife. Al termine delle riprese Will Sin, poco più che trentenne, muore annegato nelle acque dell’isola vicina di Gomera, risucchiato da insidiose correnti marine. La tragedia comunque non impedisce di proseguire la carriera agli Shamen che incidono nuovi album da cui vengono prelevati singoli di successo tra cui “Ebeneezer Goode”, “Phorever People”, “L.S.I. (Love Sex Intelligence)”, “Comin’ On”, “Transamazonia” e “Destination Eschaton” e rivelandosi, così come scrive Rita Ferrauto su Dance Music Magazine a novembre del 1995, «la band che allaccia circuiti musicali e mentali tra l’antica mitologia, lo sciamanesimo e le nuove tecnologie informatiche».

Shauna Davis - Get AwayShauna Davis – Get Away
Nata Stéphane Moraille, Shauna Davis debutta come solista nel 1995 col brano “Get Away” pubblicato dalla canadese Hi-Bias Records e in Italia licenziato su Downtown (gruppo Time Records). L’Original Mix resta praticamente ignota al contrario della Club Mix firmata da StoneBridge e Nick Nice: gli svedesi continuano abilmente a sfruttare l’onda innescata dai tempi di “Show Me Love” di Robin S riuscendo a trasformare in successo quasi qualsiasi cosa tocchino. Dello stesso periodo si segnalano infatti, oltre ad “Everlasting Pictures – Right Through Infinity” di B-Zet e “Sex And Infidelity” dei nostri Blast di cui abbiamo già parlato sopra, altri loro fortunati remix come quelli per “Boombastic” di Shaggy, “This Time I’m Free” di Dr. Album e “Deep In You” di Tanya Louise. La Davis inciderà altri due singoli sino al 1998, anno in cui sarebbe dovuto uscire un album rimasto però nel cassetto. La cantante si rifà interpretando “Drinking In L.A.”, hit estiva dei Bran Van 3000.

Simian - We Are Your FriendsSimian – We Are Your Friends
Nel 2002 la Source pubblica “Never Be Alone” dei Simian, brano indie rock estratto dall’album “We Are Your Friends” che non riscuote significativi consensi. L’anno dopo gli allora sconosciuti Justice (i francesi Gaspard Augé e Xavier de Rosnay) realizzano, per un contest, un remix che gli apre le porte della neonata Ed Banger Records. In questa nuova versione, finita su un 12″ della label di Busy P, resta parte della voce originale (un mix tra Iggy Pop e Robert Smith) incastrata in una graffiante e flessuosa base electro house. Qualcosa inizia a muoversi nel 2004 grazie a DJ Hell che intuisce le potenzialità del brano e lo licenzia sulla International Deejay Gigolo, ma la consacrazione pop arriva solo nel 2006 quando la 10 Records del gruppo Virgin ripubblica la traccia reintitolata “We Are Your Friends” e premiata agli MTV Europe Music Awards per il video diretto da Rozan & Schmeltz.

Smoke City - Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)Smoke City – Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)
Non si può dire che la versione originale di “Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)”, presente nell’album “Flying Away”, sia passata proprio inosservata. Con un seducente mix tra trip hop ed acid jazz saldato da richiami latini analogamente a quanto avviene in “Underwater Love” scelta per lo spot Levi’s, la band britannica conquista spazi sempre più consistenti nell’audience internazionale. Tuttavia è il remix del brano a sancire una popolarità ancora più trasversale abbracciando anche il mondo delle discoteche. Merito della Vocal Mix approntata dai Mood II Swing (gli americani John Ciafone e Lem Springsteen, quell’anno all’opera su “Free” di Ultra Naté) in cui le avvolgenti atmosfere evocate dalla voce sibillina di Nina Miranda vengono preservate e fatte confluire in una gabbia di ritmo irresistibile che ne fa una hit nell’estate 1997 e riesce a reggere ottimamente il confronto col remix di “Underwater Love” realizzato da David Morales.

Steam System - Barraca DestroySteam System – Barraca Destroy
“Barraca Destroy” esce nella primavera del 1993 segnando il debutto del progetto Steam System dietro cui armeggiano Claudio Collino (che all’attivo ha già le hit di Sueño Latino ed Atahualpa), Piero Pizzul, e Michele Menegon alias Michael Hammer, futuro direttore di Italia Network. Come racconta proprio Menegon in questa intervista, «”Barraca Destroy” fu una produzione commissionata dall’Expanded Music per la nota discoteca spagnola Barraca. Doveva essere l’inno del locale e il lavoro fu piuttosto semplice: una melodia orecchiabile, parole spagnole comprensibili ed una buona dose di energia, tutti elementi convogliati della Destruction Version. Una volta terminato, il brano fu spedito in Spagna ma appena duemila copie furono stampate per l’Italia. Soltanto Italia Network lo programmò, credo per farmi un piacere. Poi il disco finì nel dimenticatoio. Un giorno di fine estate mi chiamò Giovanni Natale, boss dell’Expanded Music, dicendomi che Molella, di ritorno dalla Spagna, aveva acquistato il disco e che lo fece ascoltare ad Albertino e Fargetta. Tutti erano convinti che si trattasse di una hit. A quel punto mi chiese di rientrare in studio e realizzare un remix che ne esaltasse la forza. Con Claudio e Piero componemmo quindi la traccia oggi nota a tutti». La versione che arriva al grande pubblico è proprio tra i remix, la En Directo, colorita dal battito di mani di “We Will Rock You” dei Queen.

Sven Väth - Dein SchweissSven Väth – Dein Schweiss
La versione originale di “Dein Schweiss”, inclusa nell’album “Contact” edito dalla Virgin nel 2000, è frutto del lavoro sinergico tra Sven Väth e Johannes Heil. Supportata da un videoclip in cui il DJ biondo di Obertshausen domina la scena con la sua solita verve e spigliatezza, la traccia mischia elementi techno ed electro. Quando, tra fine 1999 ed inizio 2000, la Virgin pubblica il singolo però alla Master Mix aggiunge un feroce remix che nell’arco di pochi mesi finisce col diventare decisamente più noto dell’originale: a realizzarlo, spingendosi sino a lambire sponde EBM, è Thomas P. Heckmann, prolifico produttore di Magonza con un eccelso repertorio da cui svettano pure successi dalle dimensioni europee come “Amphetamine” di Drax e “Sync In” di Silent Breed.

Sweetbox Feat. Tempest - Booyah (Here We Go)Sweetbox Feat. Tempest – Booyah (Here We Go)
Prodotto da Roberto ‘Geo’ Rosan e partito dalla tedesca Maad Records, “Booyah (Here We Go)” è un pezzo che si fa lentamente strada nei primi mesi del 1995 unendo una base simile a quella di “Short Dick Man” dei 20 Fingers alla voce di Kimberly ‘Tempest’ Kearney che ammicca invece all’eurorap in stile Technotronic, Leila K o Daisy Dee. La versione originale, supportata dal relativo videoclip, fa presa nei locali e in radio ma a garantire un airplay ancora più incisivo specialmente nel nostro Paese è uno dei remix intitolato Hot Pants Club Mix realizzato da Nique a mo’ di mash-up tra l’acappella di Tempest e la base di “We Are Family” delle Sister Sledge. A pubblicare il brano in Italia è la Discomagic di Severo Lombardoni, la stessa che in autunno licenzia il follow-up “Shakalaka”, una specie di incrocio tra Outhere Brothers e Reel 2 Real che però si rivela meno fortunato nonostante annoveri il remix di Mousse T.

T42 - Melody BlueT42 – Melody Blue
Partito nel ’97 con “Every Life Unfolds” e “Children’s Voices” editi dalla Dance Factory del gruppo EMI, il progetto T42 si fa notare meglio due anni più tardi quando passa all’indipendente No Colors (gruppo F.M.A.) che pubblica “Melody Blue”. L’Original Mix, prodotta dal compianto Graziano Pegoraro, finisce sul lato b mentre a torreggiare è il remix di Fargetta, arrangiato da Graziano Fanelli e Max Castrezzati sul classico modello italodance di fine anni Novanta. Sarà sempre Fargetta a tenere alte le quotazioni di T42 firmando le versioni più note dei successivi “Run To You”, “Find Time” e “Set Me Free” usciti tra 2000 e 2002.

Technohead - I Wanna Be A HippyTechnohead – I Wanna Be A Hippy
I coniugi britannici Lee Newman e Michael Wells, già noti come GTO e Tricky Disco, vestono i panni dei Technohead dal 1993, incidendo primariamente hardcore e gabber. Nel 1995, quando l’happy hardcore e la musica ad alta velocità vive la sua parentesi commerciale più importante, riescono ad intrufolarsi nel mainstream col brano “I Wanna Be A Hippy” pubblicato dall’olandese Mokum Records. A fare da cassa da risonanza però non è l’agitata Original Mix bensì il remix realizzato da Flamman & Abraxas scelto per sincronizzare il videoclip. Il successo è tale da portare, ad inizio ’96, i Technohead persino a Top Of The Pops seppur con due censure nel testo ( si veda qui e qui). Sul palco però non c’è la Newman, morta di cancro ad agosto dell’anno prima ed ignara del successo raccolto da “I Wanna Be A Hippy” di cui si stima siano state vendute oltre 150.000 copie. Curiosità: c’è chi propone il brano a 33 giri anziché 45 come fa in Italia Albertino nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade.

The Corrs - DreamsThe Corrs – Dreams
Quartetto irlandese formato dai fratelli Corr, i Corrs si costruiscono una solida carriera nel ramo rock/folk. Nel 1998 aderiscono al progetto patrocinato dall’Atlantic per una raccolta celebrativa sui Fleetwood Mac, “Legacy: A Tribute To Fleetwood Mac’s Rumours”, che al suo interno raccoglie cover del gruppo londinese. Insieme a loro, tra gli altri, Elton John, The Cranberries e Goo Goo Dolls. I Corrs ricantano “Dreams”, con la produzione di Oliver Leiber e Peter Rafelson, ma a decretare il successo è il remix firmato da Todd Terry, lanciato nella top ten britannica dei singoli con evidenti richiami a quello realizzato qualche anno prima per “Missing” degli Everything But The Girl. Incoraggianti responsi giungono pure per il video approntato per l’occasione entrato nelle nomination ai Billboard Music Video Awards come Best New Clip. Considerato il grande successo, l’etichetta discografica ristampa l’album “Talk On Corners” uscito l’anno prima inserendo in tracklist anche il remix di “Dreams”. A sugellare il tutto è il concerto alla Royal Albert Hall dove i Corrs eseguono dal vivo il brano insieme a Mick Fleetwood, batterista e cofondatore dei Fleetwood Mac.

The Original - I Luv U BabyThe Original – I Love U Baby
Nato su iniziativa di Walter Taieb, DJ parigino di stanza a New York, il progetto The Original prende corpo nella primavera del 1994 con l’arrivo di Giuseppe ‘DJ Pippi’ Nuzzo, italiano trapiantato ad Ibiza dove è resident al Pacha. È lui a suggerire le linee guida di un brano che si completa grazie al supporto vocale del cantante turnista Everett Bradley. Ultimate le due versioni, la Swing Mix e la No! Swing Mix, Taieb e Nuzzo le sottopongono all’attenzione di una multinazionale ma ricevendo picche. Per non vanificare tutto, Taieb opta per l’autoproduzione e pubblica il disco su un’etichetta creata per l’occasione, la WT Records. Fiocca qualche licenza in Europa ma nulla di realmente esaltante, almeno sino a quando giungono i remix dal Regno Unito. A realizzare una delle nuove versioni è Ian Bland alias Dancing Divaz: la sua Club Mix è una cannonata per le classifiche che smonta l’apparato originario della traccia, fondato su un giro di organo contrapposto all’assolo di sax, a favore di arrangiamenti dal sapore più epico e malinconico, con pianate in grande evidenza ad incorniciare la voce di Bradley. Dal 1995 in poi è un tripudio di riconoscimenti, specialmente oltremanica, culminati con l’apparizione a Top Of The Pops dove il brano viene eseguito sulla base del remix, scelto ovviamente anche per accompagnare il videoclip. A pubblicare da noi “I Love U Baby” è la partenopea Flying Records che prende in licenza pure il follow-up, “B 2Gether”, ancora remixato da Dancing Divaz ma con resa inferiore. Taieb e Nuzzo torneranno al successo internazionale nel 1998 grazie a “On The Top Of The World” di Diva Surprise, cantato da Georgia Jones e scandito da un campionamento preso da “YMCA” dei Village People.

The Presence - Forever On My MindThe Presence – Forever On My Mind
Non è stata una hit con centinaia di migliaia di copie all’attivo ma un discreto successo nazionale nella primavera del 1996: “Forever On My Mind”, realizzata dal duo formato da Mauro Di Martino e Carlo Di Rosa nel loro Mad Studio a Ragusa, è una traccia house impreziosita dal contributo vocale del cantante statunitense Stefan Ashton Frank. A fare la differenza però è il remix dei Ti.Pi.Cal., solcato sul lato a del disco e realizzato sul modello garage d’oltreoceano, con la vocalità incastonata all’interno di paratie melodiche. Il 12″ apre il catalogo della Entroterra Records, etichetta creata dagli stessi Ti.Pi.Cal. in collaborazione con la bresciana Time Records ma la cui operatività è ricondotta ad una sola pubblicazione, analogamente a quanto avviene, peraltro nel medesimo periodo, alla E.S.P. – Extra Sensorial Productions, con “Electro Sound Generator” di Neutopia. Saranno sempre i Ti.Pi.Cal. a firmare il remix del follow-up, “Tonight”, pare rifiutato dalla Time di Maiolini e pubblicato dalla Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, la stessa che chiude il cerchio con “Wanna Be The One” ritoccato ancora da Tignino, Piparo e Callea.

Tom Jones - Sex BombTom Jones – Sex Bomb
La Album Version ha il retrogusto di un vecchia canzone degli anni Sessanta pur essendo scritta e composta alle porte del nuovo millennio. A fare la differenza è la Peppermint Disco Mix realizzata da Mousse T. e i Royal Garden, pensata a mo’ di mash-up tra l’acappella del brano e la base ricavata da “All American Girls”, un successo del 1981 delle Sister Sledge. Per Mousse T. è l’inizio della fase pop della carriera che si evolve con una serie di successi radiofonici come “Fire” ed “Is It ‘Cos I’m Cool?”, entrambi cantati da Emma Lanford, e “Il Grande Baboomba” che lo vede impegnato insieme al nostro Zucchero con cui si esibisce alla Royal Albert Hall di Londra nel 2004 come testimonia questa clip.

Tomcraft - ProsacTomcraft – Prosac
La versione originale di “Prosac”, inchiodata ad un battente bassline e scivolosi suoni in reverse, esce nel 1997 ma senza raccogliere particolari elogi. A quattro anni di distanza la Kosmo Records pubblica due remix realizzati dallo stesso autore affiancato da Eniac, e a quel punto per la traccia si prospetta una seconda giovinezza dal più ampio respiro. Alla New Clubmix ed alla TC-THC Mix, elaborate meglio sul piano melodico rispetto alla prima, si somma il videoclip che fa presa sulle tv musicali. Il brano viene licenziato pure in Italia dalla Wild! Entertainment di Raffaela Travisano, a cui abbiamo dedicato una monografia qui, che però opta per due remix ex novo commissionati per l’occasione a Tony H e Karin De Ponti.

Tony Di Bart - The Real ThingTony Di Bart – The Real Thing
Il britannico Antonio Carmine Di Bartolomeo, nato a pochi chilometri da Londra ma di chiare origini italiane, viene baciato dal successo nel 1994 grazie a “The Real Thing”. La versione originale, scritta dallo stesso Di Bartolomeo insieme a Luce Drayton ed Andy Blissett e in circolazione dall’autunno del ’93, è una ballata pop con influssi jazzati poco nota e passata decisamente inosservata. A dare ad essa un taglio completamente diverso è il team dei Joy Brothers, artefice di un remix che si pone sulla linea di mezzeria tra house ed eurodance e conquista l’intera Europa incuriosendo anche Stati Uniti e Canada (in Italia arriva curiosamente attraverso due etichette, la X-Energy Records e la UDP del gruppo Disco Più di Lino Dentico). Sul 12″ c’è pure una seconda versione, la Original Dance Mix, parecchio simile alla prima ma firmata da Rhyme Time Productions (non è chiaro se gli artefici siano proprio gli stessi). Al di là dell’uso di pseudonimi e nickname, Di Bart porta il remix del pezzo a Top Of The Pops ad aprile, cantandolo dal vivo e non ricorrendo, come allora fa la maggior parte degli artisti, al playback. Segue una caterva di date nelle discoteche di tutta Europa, Italia compresa, e la nomination agli International Dance Awards, tenutisi a Londra il 22 gennaio 1995 dove “The Real Thing” è in lizza insieme a pezzi come “Anytime You Need A Friend” di Mariah Carey ed “Incredible” di M-Beat Featuring General Levy. La Cleveland City tenterà di tenere alto l’interesse nei confronti dell’artista con altri singoli come “Do It”, “Why Did Ya” e “Turn Your Love Around”, ma riuscendo solo parzialmente nell’intento.

Tori Amos - Professional WidowTori Amos – Professional Widow
Inclusa nell’album “Boys For Pele”, “Professional Widow” è una canzone che Tori Amos scrive attingendo alcuni versi da “La Sfinge”, il racconto di Edgar Allan Poe. Musicalmente è legata al rock alternativo ma il remix che ne decreta il successo mondiale la traghetta in un mondo completamente differente. Nella sua Star Trunk Funkin’ Mix Armand Van Helden ricostruisce il pezzo partendo, pare, da un frammento ritmico carpito a “Trinidad” di John Gibbs & The U.S. Steel Orchestra, e poi prosegue verso un universo fatto di house music squarciata da un basso funk assassino e sbilenco in cui dondolano brevi cellule vocali della Amos. Sembra più una traccia inedita che un remix tanto è il divario col brano originale e pare che questa audace rilettura sia piaciuta parecchio anche all’autrice, felice che il DJ non abbia tenuto saldi i tasselli di partenza preferendo invece andare in una direzione totalmente diversa. Sul 12″ edito dalla Atlantic figura pure un secondo remix a firma MK che però risulta irrilevante se messo a confronto col primo. A curare la post-produzione della celebre Star Trunk Funkin’ Mix è Johnny De Mairo, fondatore della Henry Street Music per cui Van Helden incide dal ’94 e ai tempi A&R per l’Atlantic. La versione di Van Helden, infine, viene scelta per un videoclip realizzato riciclando ed assemblando frame tratti da altri video della cantante come quelli di “Crucify”, “Winter” e “Silent All These Years”.

Wamdue Project - King Of My CastleWamdue Project – King Of My Castle
La versione originale di “King Of My Castle” è inclusa in “Program Yourself”, il secondo dei tre album che Christopher Brånn, da Atlanta, firma Wamdue Project. Pubblicata dalla Strictly Rhythm, la traccia vive in una bolla di deep house tinta di funk ed è irrorata dalla voce di Gaelle Adisson, la stessa che si sente in “You’re The Reason”, un altro pezzo dell’LP che a tratti ricorda lo stile di “Disco’s Revenge” di Gusto uscito qualche anno prima. A trasformare quello che è destinato ad una ristretta cerchia di eletti in un successo mainstream dalle dimensioni colossali è il remix realizzato in Italia da Mauro Ferrucci per l’occasione trincerato dietro lo pseudonimo Roy Malone. Insieme a lui, nel Cotton Fields Studio di Padova, c’è Walterino, quello del team L.W.S. ed Olga intervistato qui. La King Mix mostra pochi punti in comune con l’originale: l’armatura ritmica corazzata incornicia arrangiamenti essenziali e la sezione vocale della Adisson, finita ovviamente nel videoclip che ad oggi conta più di nove milioni di visualizzazioni su YouTube. Altri remix si sommano al pacchetto, da quello di Roger ‘The S-Man’ Sanchez a quello di Charles Schillings (editi, insieme alla versione di Malone, dalla veneta Airplane! Records) passando per quelli di Armin van Buuren e di Bini & Martini usciti nel 1999.

Whatever, Girl - Activator (You Need Some)Whatever, Girl – Activator (You Need Some)
Col suo incedere ipnotico abbinato ad inserti tribaleggianti, nel 1994 “Activator (You Need Some)” diventa un autentico tormentone nelle discoteche specializzate. A produrlo sono Bill Coleman e Louie Guzman uniti come Whatever, Girl ma le loro versioni, la Gee, Your Hair Smells Terrific! Mix e la T.C.B. Mix, non sono depositarie del successo. A fare la differenza è invece la Jheri Curl Sucker Wearin’ High Heeled Boots Mix incisa sul lato a ed approntata da Johnny Vicious, che peraltro pubblica il disco sulla sua etichetta, la Vicious Muzik Records. In Italia arriva attraverso la bresciana Downtown del gruppo Time che assegna erroneamente la paternità proprio a Johnny Vicious, annunciato sull’adesivo rettangolare applicato in copertina come “the next David Morales”.

Whigfield - Saturday NightWhigfield – Saturday Night
È un caso strano quello di Whigfield, progetto ideato da Davide Riva (intervistato qui) e Larry Pignagnoli e giunto sul mercato nel 1993 con “Saturday Night”. La versione incisa sul lato a, la Dida Mix, è figlia di quanto avvenuto nel biennio precedente con l’esplosione e massificazione di suoni tendenzialmente legati alla eurotechno, e contiene quindi i retaggi di tutto quel serbatoio con cui il mainstream italiano approccia ad un genere messo in antitesi alla house fatto da casse marcate, suoni di sintetizzatore in grande evidenza, arrangiamenti dalle espressività meccaniche, voci campionate ed usate a mo’ di strumenti. Probabilmente, proprio in relazione a questa attinenza stilistica, alla Energy Production decidono di pubblicare il 12″ su Extreme, etichetta usata in prevalenza per produzioni di estrazione filo techno e sulla quale, peraltro, poco tempo prima trovano spazio fortunatissime licenze come “The House Of God” di D.H.S. ed “Ambulance” di Robert Armani. Sul lato b finiscono altre due versioni, la Nite Mix, inserita a giugno ’93 dal team dell’AID su uno dei dischi destinati al servizio per corrispondenza Promo Mix, e la Beagle Mix, radicalmente differenti dalla prima. Per circa un anno non avviene nulla fatta eccezione in Spagna dove “Saturday Night” raccoglie discreti consensi anche grazie ad un particolare balletto abbinato, pare inventato in una discoteca iberica. Whigfield sembra comunque destinato a finire nell’oblio, tra la miriade di brand usciti dagli studi di registrazione italiani negli anni più floridi e prolifici dell’eurodance. Alla fine dell’estate ’94 però la Nite Mix entra nella classifica britannica dei singoli direttamente al primo posto forte di 500.000 copie vendute, togliendo lo scettro ai Wet Wet Wet con “Love Is All Around” e ritrovandosi a dividere la parte più alta di quella chart con un’altra hit made in Italy, “The Rhythm Of The Night” di Corona. Da quel momento in poi per Pignagnoli e Riva cambia davvero tutto: l’interesse mostrato dal Regno Unito, ai tempi autentica cartina tornasole delle tendenze musicali europee, innesca un effetto domino che si propaga ovunque. Fioccano richieste di licenze da ogni angolo del globo (un anno prima erano state appena un paio) e viene girato un videoclip in cui la scena è dominata da Sannie Charlotte Carlson, modella danese ventiquattrenne scelta come frontwoman del progetto (a cantare è invece la britannica Annerley Gordon). Immancabile l’ospitata a Top Of The Pops col debutto il 15 settembre ’94 a cui si somma la puntata natalizia in cui la Carlson è introdotta da due presentatori d’eccezione, Howard Donald e Jason Orange dei Take That. Per gestire meglio tutto ciò la Energy Production ristampa il disco (affiancandolo al CD singolo), questa volta sulla label principale del gruppo, la X-Energy Records, aggiungendo una manciata di rivisitazioni a firma Fishbone Beat e la dicitura “remix ’94” seppur a spopolare non sia affatto un remix ma la Nite Mix, adesso finita sul lato a (la Dida Mix invece viene relegata alla posizione periferica B3). Più di qualcuno quindi pensa erroneamente che a cambiare le sorti della canzone sia un remix, alimentando in buona fede un falso storico. Sul retro della copertina trova spazio inoltre l’accurata guida (anche fotografica) per il sopraccitato balletto a cui è abbinato il brano di Pignagnoli e Riva, in seguito oggetto di qualche accusa di plagio ai danni di “Rub A Dub Dub” degli Equals e “Fog On The Tyne” degli Lindisfarne ma a quanto pare caduta in assenza di oggettivi appigli legali. Alla fine di “Saturday Night”, «inno pigolante con una tastierina che si infilava nel cervello e non lo lasciava più», come scrivono Carlo Antonelli e Fabio De Luca in “Discoinferno”, ne vengono vendute oltre due milioni di copie.

York - On The BeachYork – On The Beach
Il progetto York gestito dai fratelli Jörg e Torsten Stenzel debutta nel 1997 con “The Big Brother Is Watching You” ripubblicato poco tempo dopo come “The Awakening”. Nel 1999 tocca a “On The Beach”, rivisitazione dell’omonimo di Chris Rea del 1986 immersa in una soluzione a metà strada tra house e trance. «Registrammo l’assolo di chitarra nel mio studio, risuonandolo e non campionandolo come qualcuno potrebbe immaginare» racconta Torsten Stenzel in questa intervista. «Una volta completato il brano, lo licenziammo alla Sony e alla Manifesto che commissionarono vari remix». Tra le tante nuove versioni ce n’è una che spicca in modo particolare, quella realizzata in Italia negli studi della Media Records da Mauro Picotto ed Andrea Remondini e firmata CRW. Ritmicamente potenziato, il pezzo rivive nella dimensione eurotrance conquistando il favore del Regno Unito e rivelandosi determinante per raggiungere lo strepitoso risultato di oltre 300.000 copie vendute. A pubblicare in Italia “On The Beach” è la No Colors del gruppo F.M.A. che sul 12″ e sul CD singolo inserisce il remix dei CRW ma attribuendolo, per ragioni mai chiarite, a Basic Connection, un marchio di cui abbiamo parlato sopra. Ciò scatena una controversia tra la F.M.A. e la Media Records. Quest’ultima ristamperà il remix in questione su W/BXR, sussidiaria pop della BXR, ma con un nome artistico diverso, Lesson Number 1.

Ziggy Marley And The Melody Makers - Power To Move YaZiggy Marley And The Melody Makers – Power To Move Ya
Così come avvenuto al padre Bob, anche Ziggy Marley e i suoi Melody Makers vengono trascinati nella musica da discoteca attraverso un remix. Incluso nell’album “Free Like We Want 2 B”, il brano originale oltrepassa la soglia della classica formula reggae adoperando una base downtempo in cui fanno capolino persino chitarre elettriche. Per i remix l’Elektra coinvolge vari artisti: Hani e DJ Dmitry, artefici della Kundalini Rising Mix, Longsy D, Mousse T. ed E-Smoove. È la versione di quest’ultimo a svettare su tutte, la Smoove Power, che adatta perfettamente “Power To Move Ya” in una cornice house garage, con grandi pianate in evidenza. Ziggy Marley diventa così un protagonista dell’estate ’95 facendo la staffetta con altri fortunati remix già descritti sopra (De’Lacy, Bobby Brown, Jamiroquai, Dana Dawson, Everything But The Girl…). Nel ’97 l’Elektra tenta di fare il bis affidando ancora ad E-Smoove il remix di “Everyone Wants To Be” estratto dall’album successivo di Ziggy Marley And The Melody Makers, “Fallen Is Babylon”, ma l’impresa non riesce. Il DJ americano si rifarà comunque nel 2001 incidendo “Shined On Me” come Praise Cats.

Zombie Nation - Kernkraft 400Zombie Nation – Kernkraft 400
Nei primi mesi del 1999 a pubblicare il primo disco degli Zombie Nation (Florian ‘Splank!’ Senfter ed Emanuel ‘Mooner’ Günther), da Monaco di Baviera, è l’International DeeJay Gigolo Records di DJ Hell. Uno dei cinque brani dell’EP è “Kernkraft 400”, «un pezzo electro cadenzato da incastri di suonini in stile chiptune, un sample vocale che ripete il nome del gruppo, un basso in ottava e soprattutto il riff di “Stardust” composto da David Whittaker per il videogioco “Lazy Jones” del 1984» (da Gigolography, 2017). Immerso tra retaggi di Kraftwerk e Yellow Magic Orchestra, “Kernkraft 400” è destinato all’underground più settoriale da poche migliaia di copie ma poi arriva un remix che lo trasforma in un successo pop mondiale. Artefice è l’italiano Cristiano ‘DJ Gius’ Giusberti, la cui versione, frutto di una semplificazione degli elementi di partenza, viene scelta per accompagnare il video che sostituisce il più macabro e violento realizzato qualche tempo prima sulla base dell’originale e in cui compare Senfter. È sempre il remix italiano ad essere utilizzato per gli spettacoli televisivi tra cui l’apparizione a Top Of The Pops per cui Zombie Nation viene trasformato in una sorta di gruppo carnevalesco: l’effetto finale rammenta quanto avvenuto pochi anni prima ai Technohead con “I Wanna Be A Hippy” di cui si è già detto prima. Grazie alla rivisitazione di Giusberti “Kernkraft 400” diventa una hit planetaria anche se Splank!, nel frattempo diventato unico componente del progetto Zombie Nation, non risparmierà toni fortemente polemici nei confronti dell’etichetta italiana che fa realizzare il remix ed una Live Version correlata, la Spectra Records del gruppo bolognese Arsenic Sound diretto da Paolino Nobile intervistato qui.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Alessio Bertallot

1) Una parte della raccolta di Bertallot
Uno scorcio della raccolta di dischi di Alessio Bertallot

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo “The Freewheelin’ Bob Dylan”, un LP che ha la mia età. Lo consumai a furia di sentirlo e risentirlo, seduto davanti alle casse dello stereo a leggere e ricantare i testi delle canzoni. Le so tutte a memoria ancora adesso. Anni fa, quando visitai New York, andai in Jones Street lì dove Dylan appare fotografato in copertina, abbracciato sorridente alla sua fidanzata di allora, Suze. La strada era molto cambiata e non si vedeva un fiocco di neve. Lì vicino il cantautore prendeva in fitto un appartamento, un basement. Se ricordo bene, ora c’è un sexy shop. Credo sia stata l’unica volta che abbia fatto un “pellegrinaggio” e per un po’ mi ha divertito.

L’ultimo invece?
L’hai voluto tu: “Coro No. 14 – Venid A Ver La Sangre”, “Coro No. 19, – It Is So Nice” e “Coro No. 20 – Your Eyes Are Red… El Día Pálido Se Asoma”. Sono tre parti di “Coro / Cries Of London” di Luciano Berio che mi servono per uno spettacolo teatrale che dovrei portare in scena insieme a Lucilla Giagnoni in cui l’arte del DJ si unirà al testo dell’Inferno di Dante. Si chiamerà “Disco Inferno”. Uso il condizionale perché, come tutti sanno, l’arte, il teatro, lo spettacolo e la musica sono stati definiti “non essenziali” quindi anche sotto questo punto di vista l’Italia è un Paese morto e non so cosa troveremo se un giorno usciremo dalla condizione di emergenza in cui ci troviamo ora.

Quanti dischi possiedi? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essi?
Per rispondere alla prima domanda ho provato ad ipotizzare una specie di metodo per la parte del materiale fisico, calcolando il volume di spazio occupato da vinili e CD in casa e dividendolo per il volume medio di un singolo disco e CD. In tutto credo di avere dai 23.000 ai 25.000 dischi, tra LP, EP e singoli. Altrettanti sono stati regalati o buttati via perché inviati da promoter, uffici stampa o musicisti ma senza che fossero nella mia “cup of tea”. Altrettanto difficile capire quanto abbia speso per metter su quella che non ritengo propriamente una collezione (perché non sono un collezionista) bensì un’attrezzatura di lavoro. Se escludo le spese per i collaboratori che ho retribuito e quelle dei viaggi fatti, credo di aggirarmi intorno ai 70.000 euro. Per quanto riguarda i file invece, ne ho più di 15.000.

Come è organizzata la tua raccolta? Usi un metodo per ordinarla?
Hai presente il deposito di Zio Paperone? È tutto ammassato ma so come muovermi, analogamente ad Uncle Scrooge che quando si tuffa riconosce ogni singola moneta e ricorda la storia che c’è dietro. Per un certo periodo ho avuto una fidanzata con la pazienza dei musicisti classici che ha provato pietà per me ed ha sistemato tutti i CD in ordine alfabetico e da allora non li tocco più. Per non turbare quell’ordine miracoloso cerco le stesse cose sulle piattaforme di streaming.

2) ordine raccolta
Uno scatto che immortala altre parti della raccolta di Bertallot

Segui particolari procedure per la conservazione?
Una volta ho spolverato gli scaffali delle librerie destinate ai dischi ma avevo fatto un trasloco e nel caos generale mi sembrò una cosa carina da fare. Alcuni dischi hanno avuto un’esistenza molto vissuta: portati in discoteca in valigie che tornavano a casa intossicate di fumo di sigaretta ed altro (io non fumo e non mi drogo), copertine annegate nei mojito rovesciati in consolle, esposti alla pioggia, caduti nel fango alle cinque di mattina davanti al baule dell’auto, senza più copertine perché perse nel caos di un cambio in consolle, frantumati dalla gentilezza degli operatori di carico del bagaglio di stiva (li ho visti coi miei occhi dal finestrino dell’aereo gettare le mie valigie appositamente in alto per farle ruotare in aria prima che si abbattessero sul nastro trasportatore!). Non tengo molto ai dischi, io amo la musica.

Hai mai subito il furto di un disco?
Alitalia perse, alle quattro del pomeriggio, un’intera valigia di dischi, quella che mi serviva alle undici della sera per salire in consolle ad un festival all’Eur, a Roma. È incredibile come un viaggio di una banalità sconcertante, ovvero andare da Milano a Roma, possa diventare un’odissea per protocollo. Si fanno infinite code per verificare l’attendibilità dei passeggeri quando in Italia gli unici attentati ai mezzi di trasporto sono stati compiuti dalle cosiddette frange deviate dei servizi segreti. Per i passeggeri sarebbe più logico fare le code per verificare l’attendibilità di chi li vorrebbe controllare con le relative inefficienze nelle procedure di carico e scarico. Quella volta tornai in aeroporto perché fortunatamente recuperarono la valigia e la misero sull’ultimo aereo della sera. Arrivai in consolle un minuto dopo l’orario stabilito col primo disco già in mano.

3) il tarocco di Aeroplanitaliani
Il confronto tra la copia originale e quella falsificata di “Sei Felice?”, secondo album degli Aeroplanitaliani edito nel 2005

Qual è il titolo a cui tieni di più?
La copia tarocca su CD del secondo album del mio gruppo, gli Aeroplanitaliani, che acquistai dopo una lunga trattativa al tavolino del bar dal marocchino, credo originario proprio del Marocco, che lo “spacciava” per strada. Ero con amici e i soci del gruppo e il ragazzo si ostinava a non riconoscere che quello ritratto sulla copertina falsificata fossi proprio io. Nell’ilarità alcolica generale, iniziai la contrattazione al contrario e alla fine glielo pagai come una copia originale. Se ne andò coi soldi barcollando dalla perplessità. Lo conservo ancora adesso perché ritengo che quando qualcuno ti falsifica vuol dire che sei diventato famoso. Provai a condividere questo pensiero con la nostra discografica, Caterina Caselli, ma lei non ci trovò nulla di ilare in quel falso della sua produzione.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che non esiteresti a regalare?
Non riesco a trovare nulla del genere. In realtà tutti dischi che ho comprato, e quindi anche quelli brutti, li ho acquistati per documentazione, quindi non avevo particolari aspettative. Un disco orrendo che ho preso recentemente è “Kick I” di Arca. Non l’ho neanche classificato per delicatezza nei confronti degli altri, ma non sarei mai tanto crudele da regalare un disco così a nessuno.

Quello che cerchi da anni e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Devo ammettere che non mi è mai successo di rincorrere dischi, non nutro quel tipo di feticismo. Se cerco un pezzo e lo trovo su Spotify, mi sta benissimo. Al massimo pompo il volume per esorcizzare la pessima qualità e compressione che hanno i brani presenti sulla maggior parte delle piattaforme di streaming. Mi sono passati fra le mani, nella mente e nel cuore talmente tanti dischi che ritorno a dire: non mi interessano i dischi ma la musica.

4) La copertina di Wish You Were Here
La copertina di “Wish You Were Here” dei Pink Floyd, 1975. Il design è del team Hipgnosis

Quello con la copertina più intrigante?
La copertina esterna ma soprattutto quella interna di “Wish You Were Here” dei Pink Floyd. Fu, credo, il mio primo contatto col surrealismo. Solo molti anni dopo scoprii che l’assurdo lago immortalato esiste davvero, il Mono Lake in California.

A quali negozi di dischi leghi maggiormente i tuoi ricordi?
Tutto il quartiere di Soho, a Londra, era pieno di negozi di dischi che frequentavo. Molti tra quelli erano i primi a smerciare le white label che anticipavano successi e tendenze, dischi senza neanche copertina con alcuni crediti scritti col pennarello. In D’Arblay Street c’era Black Market dove, al piano di sotto, Nicky teneva il volume della drum n bass talmente alto da non poter neanche parlare e quindi eri costretto a spiegarti a gesti. Lui ti faceva sentire un disco e se dalla faccia capiva che non ti interessava, ti metteva la mano davanti e la rovesciava come a dire «sentiamo l’altro lato?». In fondo alla stanza solitamente si raggruppavano i ragazzi che non avevano soldi per comprare dischi e si accontentavano di fare da pubblico ai DJ intenti a fare acquisti. In quel modo parassitavano gli ascolti. Chissà se tra loro c’era qualcuno che poi è diventato produttore di qualche successo.

Nelle decadi passate quanto denaro spendevi al mese in musica? La tua professione da DJ e conduttore radiofonico ti ha mai garantito particolari privilegi o bonus da parte dei negozianti?
Ho fatto di tutto e credo di aver acquistato musica in ogni negozio importante d’Italia e in tutti quelli di Londra. Per corrispondenza invece mi affidavo a grandi distributori internazionali. Ho frequentato regolarmente i grossisti e i distributori specializzati in Italia, le case discografiche, grandi e piccole, ed ho incaricato persone di farlo per me. Ho ricevuto migliaia di promo dai promoter e questo sicuramente è stato un privilegio. I negozianti al massimo mi hanno fatto sconti ma mi sembrava il minimo date le cifre che spendevo. Quelli inglesi erano i meno generosi perché forti di una clientela internazionale. In un certo periodo credo di essere arrivato a spendere anche 1000 – 1500 euro al mese. Ad incidere molto però era il viaggio che facevo oltremanica, andata e ritorno in aereo magari nello stesso giorno, per suonare la sera i dischi che erano usciti la mattina a Londra.

5) Il retro copertina di Zitti Zitti
Il retro della copertina di “Zitti Zitti”

Sono trascorsi quasi trent’anni da quando ti esibisti con gli Aeroplanitaliani al Festival di Sanremo con “Zitti Zitti”, passato alla storia per ragioni ormai ben note. Sul retro della copertina del disco, edito dalla bolognese Irma e registrato presso i Vallemania Recording Studios a Genga, in provincia di Ancona (da dove esce pure “Found Love” dei Double Dee di cui parliamo qui), si legge “realizzato esclusivamente con Akai S1000 ed S1100”. Quanto influì il campionatore nella musica di quegli anni, spesso basata sul riciclo creativo e sul crate digging?
Noi iniziammo ad usare il campionatore già molto prima, credo fosse una tastiera che aveva un sampler incorporato con circa quattro secondi di memoria per il campionamento, poi eri costretto a cambiare dischetto. Non ricordo il modello, forse era un Ensoniq Mirage. Doveva essere il 1985 o il 1986 e stavano cominciando ad essere messi in commercio i primi campionatori a basso costo, e quello fu un momento cruciale. Fu una rivoluzione perché prima esistevano solo campionatori costosissimi come il Fairlight CMI che potevano essere acquistati solo da personaggi del calibro di Trevor Horn, Herbie Hancock, Quincy Jones e Stevie Wonder che ne comprò persino due per fare dispetto ad Hancock. L’avvento della tecnologia a basso costo ebbe due effetti: creare una nuova estetica data la grande diffusione commerciale di quelle macchine, e cambiare la visione che si aveva del campionamento fino a quel momento. Se prima lo si usava per sostituire i musicisti (si pensi agli stab di orchestra campionata che si sentono nei pezzi degli Art Of Noise o le sezioni di fiati degli Yes), con l’allargamento dell’utilizzo di quella tecnica si cominciò una sperimentazione che portò ad un’estetica nuova. I produttori iniziarono a campionare dai dischi degli anni Settanta intere frasi di esecuzioni di band che poi mettevano in loop. Tale pratica, importata dal beat juggling dei DJ, cambiò letteralmente il suono della musica. Non c’era più la rigidità senza dinamica dei synth e batterie elettroniche degli anni Ottanta ma fluidità, groove e non quantizzazione degli ensemble di musicisti, i cui groove venivano copiati ed incollati in serialità. Per fare la prova basta mettere a confronto un pezzo rap degli anni Ottanta con “3 Feet High And Rising” dei De La Soul. Quel disco accumulava moltissimi campionamenti e suonava completamente diverso dal rap precedente. Un precursore in tal senso fu Trevor Horn che produsse “Slave To The Rhythm” di Grace Jones: fece suonare i musicisti ma li campionò per scegliere poi le migliori cellule di groove. Era il 1985 ma lui se lo poteva permettere perché aveva il Fairlight CMI.

Dal 1996 al 2010 è andato in onda B Side con cui hai portato sulle frequenze di Radio DeeJay musica che avrebbe difficilmente trovato collocazione nel palinsesto di un’emittente di quel tipo. Tra trip hop, drum n bass, jungle, breakbeat ed harddance – così come veniva indicata nella celebre Pagellina settimanale – , B Side diventa il crocevia di artisti come Aloof, Fluke, DJ Shadow, Tricky, Future Sound Of London, 808 State, Morcheeba, Alex Reece, Sneaker Pimps, Portished, Adam F, Goldie, Roni Size, Propellerheads, Massive Attack, Aphex Twin, Grooverider, Underworld, Freestylers e 4 Hero, giusto per citarne alcuni inseriti con frequenza nelle prime annate di programmazione. Come iniziò l’avventura in Via Massena?
Il progetto nacque in modo molto spontaneo. Ero nell’ufficio di Linus, un pomeriggio di luglio, mi pare del 1996. Era la seconda volta che parlavamo di un mio programma a Radio DeeJay ma, incredibilmente, la prima volta mi ero permesso di rifiutare una sua offerta perché con tempismo demoniaco Radio 105 aveva concretizzato una proposta in cui neanche credevo più. Stranamente Linus, che all’epoca non aveva ancora quelle matite tutte uguali nei bicchieri sul tavolo, mi disse: «Beh, torna qui quando hai finito col tuo impegno a 105 che parliamo di una cosa da fare a settembre». E così rieccomi seduto davanti a lui: «Potresti fare un programma di bella musica la sera, sai quelle cose tipo Sade, Lisa Stansfield…». «Ah, la sera. Bella musica, eh. Bello, mi piace, mah…». E lui: «Ma?». «Ma la musica la scelgo io?» domandai. Mi guardò per un attimo sospettoso, aggrottando le sopracciglia. Poi si rasserenò: «Ma sì». Nessuno dei due immaginava cosa stesse per cominciare.

6) Bertallot intento a cercare dischi nel suo flight case
Bertallot mentre scartabella dischi: a sinistra si riconoscono “Zodiac/Basic” dei Total Science e “Decksandrumsandrockandroll” dei Propellerheads

Quali sono i primi tre dischi che ti tornano in mente ripensando all’ossatura iniziale di B Side?
“Blue Lines” dei Massive Attack. È stato il trigger di tutto il Bristol Sound, la fase di maturità inglese del grande cambiamento estetico di cui parlavo prima a proposito dell’avvento dei campionatori e della cultura dei DJ. I Massive Attack furono uno dei primi “collettivi di produttori” e non una band di musicisti, un “wild bunch” di creativi che di volta in volta interpellavano cantanti o musicisti a cui affidavano una canzone. Una novità per l’epoca;
“Exit Planet Dust” dei Chemical Brothers. Fu la crasi tra dance e rock, una cosa che potevano fare solo gli Inglesi. Coi Chemical Brothers e i Prodigy cadde la distinzione fra pubblico da discoteca e rave e pubblico da concerto, e partì una nuova wave dove coesistevano l’attitudine rock e la cultura della musica black, con bianchi e neri insieme;
“Timeless” di Goldie. Fu la prima opera jungle che spostò un nuovo genere dall’underground all’overground. In questi decenni postmoderni vittime del manierismo del passato non si sente più parlare di overground e Goldie fu uno dei primi a cavalcare quell’onda. Una notte al Leoncavallo, mentre mettevo i dischi prima di lui, salì sul palco per rompere i coglioni facendo cadere apposta il suo flight case sulle assi di legno e far saltare le puntine. Il mattino dopo venne in radio dove si rese altrettanto antipatico. Gli dissi che potevamo fare a meno di lui e si comportò come un bambino sgridato. Qualche ora dopo mi incontrò in Corso Vittorio Emanuele e, come se fosse il mio migliore amico, mi abbracciò e mi chiese dove fosse lo showroom della Diesel, brand che ai tempi lo sponsorizzava convintamente. Credo che il direttore dello showroom ricordi ancora con terrore la razzia che seguì alla venuta di Goldie a Milano.

Hai mai ricevuto proposte legate alla payola quando lavoravi a Radio DeeJay?
Credo di essere stato uno dei pochi ad avere avuto un’esperienza di anti-payola. Un giorno un promoter di una major mi confessò che quando arrivavo io in ufficio nascondeva i promo dei dischi che avrei potuto suonare perché se li avessi programmati in B Side avrei creato le premesse di una potenziale economia che a loro avrebbe portato solo lavoro e non necessariamente guadagni. Producevo interesse ma il mercato non generava altrettanto profitto. Per quanto l’Italia sia stato il Paese incuriosito da B Side, rimane pur sempre il Paese raccontato da Alberto Sordi.

Come illustrato da Ubaldo Ferrini nel suo recente libro “La Radio Libera, La Radio Prigioniera” recensito qui, oggi i network hanno omologato le proposte con un’offerta molto simile a quella della televisione in nome di un presunto quasi totale disinteresse del pubblico per cose diverse dal gossip o dal trash. Certi contenuti sono inevitabilmente spariti e costretti ad emigrare su internet, un mondo appassionante, inventivo e ricco di opportunità, e in tal senso Casa Bertallot, la web radio da te lanciata nel 2013, ne è testimonianza perfetta. In Italia la radio che trasmette solo in streaming però pare ricoprire ancora una valenza subordinata a quella in FM, analogamente a quanto avveniva sino a poco tempo fa coi giornali cartacei e i digitali. È una questione culturale? Col tempo le cose cambieranno?
Per me aprire una web radio è stato un gesto di indipendenza, ma la cosa forse più importante che ho fatto è accaduta a gennaio scorso, quando ho deciso di consentire l’accesso ai miei contenuti solo a chi è disposto a sostenere un abbonamento. Se questo creerà un modello di business e di sostenibilità alla mia divulgazione musicale, indipendente e coerente, sarà grazie alla forza dei singoli ascoltatori, illuminati e sensibili, e non grazie ad un sistema. Sto cercando di capire se la disintermediazione totale tra produttore di contenuti e fruitore, resa possibile dalle nuove tecnologie, sia una strada percorribile. Per chi volesse partecipare può cliccare su http://www.patreon.com/alessiobertallot

7) Alessio Bertallot e la radio
Bertallot tra dischi, libri e il microfono della radio, un amore mai sopito

Un numero sempre più consistente di artisti dichiara di essere insoddisfatto per i proventi derivati dallo streaming e alla lista si è recentemente aggiunto Gary Numan, come riportato da NME in questo articolo di poche settimane fa. Ritieni che società tipo Spotify stiano speculando sulla creatività dei musicisti/compositori di tutto il mondo? Quanti creatori ci saranno in futuro qualora tramontasse del tutto la prospettiva di vedere le proprie opere adeguatamente ricompensate e remunerate?
La situazione è molto complicata. Spotify e le altre piattaforme non pagano direttamente gli artisti, diciamo che remunerano “le case discografiche” che sono un’eterogenea moltitudine di detentori di quel tipo specifico di diritto sullo sfruttamento dell’opera dell’artista. Questa eterogenea moltitudine va dall’artista che si è fatto la sua etichetta personale alle grandi major discografiche che detengono buona parte di tutti i brani presenti su Spotify & co. Gli artisti vengono pagati poco, è vero, ma questo dipende dal tipo di contratto che l’artista stesso ha stipulato con la casa discografica. Forse anche in questo caso la disintermediazione fra creatore e fruitore migliorerebbe le cose. Si potrebbe parlare anche di una “visione” civile di quali giusti margini di guadagno debbano avere le parti in causa, ma ciò significherebbe fare i conti con la legge di mercato. Preferisco fermarmi qui perché si aprirebbe un vaso di pandora di argomentazioni.

Gli artisti della vecchia guardia hanno spesso mostrato una decisa insofferenza nei confronti del nuovo approccio alla musica decretato dall’evoluzione tecnologica. In merito a ciò Jon Bon Jovi dichiarò, in un’intervista risalente al marzo del 2011 (di cui si trova traccia qui o qui) che «i giovani non riescono a capire la bellezza di investire tutta la paghetta in un album scelto per la copertina di cui non si conosce ancora nessun pezzo. Ai miei tempi bastava guardare un paio di foto per immaginarsi tutto. Poi è arrivato Steve Jobs che ha distrutto il business della musica». Al netto di nostalgia e passatismo, pensi che la Generazione Z o la Generazione Alpha, accusate di troppa superficialità, stiano realmente sminuendo e depotenziando il valore un tempo attribuito alla musica? Cosa può provocare questo atteggiamento ed approccio sulle lunghe distanze?
Questo purtroppo non ha interessato solo la musica ma l’informazione, i consumi quotidiani, l’istruzione… Ormai è fatta. Abbiamo imboccato una strada in una nuova società che richiederebbe una nuova etica, una nuova educazione ai valori e ai nuovi strumenti che abbiamo per gestire i beni e la qualità della vita.

La pandemia da covid-19 ha cristallizzato l’attività sul fronte live che, a conti fatti, è rimasta la principale fonte di guadagno per chi vive di musica a livello professionale. Qualcuno sta cercando di fare leva su aspetti complementari della propria creatività come ad esempio Legowelt, che da qualche tempo a questa parte ha messo in vendita quadri ed illustrazioni da lui stesso realizzati (si veda qui), ma la situazione che si prospetta nel prossimo futuro è tutt’altro che rosea. A tal proposito hai varato NecessAria che, come recita il comunicato stampa, «oltre a rappresentare un esperimento di art-radio collettiva, vuole essere una risposta in chiave artistica alla marginalizzazione sociale e politica subita, in questo periodo difficile, da chi lavora nell’arte, nello spettacolo e nella musica. Una marginalizzazione divenuta purtroppo esplicita nella definizione di attività “non essenziali” con la quale questi comparti della cultura italiana – e coloro che ci lavorano – sono stati inquadrati in tutti i recenti DPCM». Puoi spiegare dettagliatamente su cosa verte tale iniziativa e come si svilupperà nei mesi a venire?
Come scrivevo prima, nel 2020 anche le attività musicali sono state definite “non essenziali” e tutti conosciamo le comprensibili ragioni. Tuttavia non si può non provare un brivido constatando che sia stata fatta una categorizzazione brutale fra chi è utile e chi non è utile alla società, e stiamo parlando di persone che con la musica pagavano i loro conti e che tuttora, ad un anno di distanza, non hanno neanche avuto un progetto sul futuro. Chiusi ed impediti a lavorare. Può darsi che la musica non sia essenziale ma non credo non sia necessaria. Per elaborare il lutto di questa morte civile ed economica che ci è stata imposta mi sono inventato NecessAria, un processo (inteso in senso artistico) dove un medium, la radio, normalmente usato per mettere in mostra riproduzioni di opere grazie al software che si usa per regolare i palinsesti, produce un’installazione sonora accostando in maniera sempre diversa due elementi, le voci di una collettività che racconta di un’emozione vissuta con la musica e la musica d’ambiente. Molti ascoltatori ed altrettanti musicisti, tra cui Paolo Fresu e Frankie Hi-Nrg Mc, mi hanno già mandato messaggi vocali. In definitiva si tratta di un oceano di calma e pensieri riservato ai sostenitori del mio progetto su Patreon che si rinnova ogni sera alle 21:30 su www.bertallot.com o sull’app Radio Casa Bertallot e che indica una profondità che sfugge alla pretesa di quantificare l’importanza della musica. Sono giunti messaggi anche da alcuni poeti italiani come Lello Voce, Gabriele Frasca, Monica Matticoli e Filippo Balestra che mi stanno facendo pensare ad una nuova possibilità ossia includere nel progetto un’altra arte sonora, la poesia.

8) Bertallot ed altri dischi
Bertallot alle prese con altri dischi della sua raccolta

Ormai le chiusure di negozi di dischi e librerie non fanno più notizia. Il fenomeno, affrontato poco meno di dieci anni fa da Pip Piper nel documentario “Last Shop Standing” ispirato dall’omonimo libro di Graham Jones e recensito qui, è destinato purtroppo ad intensificarsi. Perdere potenziali punti di incontro, confronto e scambio di cultura è qualcosa che penalizza la società contemporanea? Come ti poni rispetto a chi liquida gli amanti del disco o del libro in carta come banali nostalgici affetti da kainotetofobia? Il mondo del futuro potrebbe invece essere phygital?
Se quando aspettavo anche due mesi affinché arrivasse il disco ordinato in un negozio di provincia mi avessero detto che un giorno avrei avuto tutta la musica a portata di clic, avrei pensato ad un racconto di fantascienza. Le statistiche dicono che le vendite del disco fisico calano ed aumentano gli streaming, ma la maggior parte della gente ascolta le stesse quattro canzoni che sente alla radio o “vede” su YouTube. Così eccoci qua ad «avere il mondo in tasca e non amare niente» per citare Diego Mancino che a sua volta cita Tenco. Il problema non è il supporto ma quanto amore si attribuisce alla musica.

Qualche decennio fa sulle copertine di molti LP (editi prevalentemente nei Paesi latini come Perù, Messico o Colombia) compariva lo slogan “El Disco Es Cultura”. Ritieni che oggi si possa considerare il disco in vinile, ormai uscito dall’ordinario consumismo quotidiano, una forma di cultura e resistenza? Ovviamente non mi riferisco alle banali ristampe dei classici pop/rock e tantomeno all’utenza passivamente onnivora che considera il disco un complemento d’arredo e simbolo di modernariato e neanche a chi trasforma il supporto in un feticcio usandolo con fini commerciali e promozionali bensì alle realtà indipendenti che, in quello che potrebbe essere considerato quasi un atto eroico, continuano ad investire tempo e denaro per tenere in vita un medium economicamente ormai ben poco redditizio.
Siamo ormai avviati verso un futuro dove saremo costretti ad «inseguire sempre, inseguire ancora, fino ai laghi bianchi del silenzio» come canta Paolo Conte. Hanno inventato i CD e li hanno imposti come supporto e descritti come miglioramento. Poi si è scoperto che era meglio il pratico MP3 ed abbiamo dovuto rifarci la libreria da capo. In seguito sono arrivati i servizi di streaming in cui non possiedi né un disco, né un CD né tantomeno un file ma accedi alla musica, ed andrebbe comunque benissimo, ma ho il sospetto che anche questo, prima o poi, sarà sostituito da un altro modello. Il tutto per farci spendere sempre, spendere ancora fino ai laghi bianchi del silenzio. I formati nuovi diventano obsoleti mentre i dischi diventano solo vecchi. Io me li terrei stretti, insieme ad un Technics SL-1200 funzionante.

Estrai dalla tua collezione dieci brani a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Azzido Da Bass - Dooms Night (Remix)Azzido Da Bass – Dooms Night (Timo Maas Remix)
Come trasformare una tamarrata (in riferimento all’originale di Azzido Da Bass) in un capolavoro ed arma da distrazione di massa nel dancefloor? Annullando la retorica di un disco da autoscontro, levando la cassa in quattro, aggiungendo un rullante ed usando in terzine il noise che nella versione di partenza viene usato in maniera ovvia. Il remix di “Dooms Night” (realizzato in circa quattro ore come spiega Timo Maas in questa intervista, nda) arrivava in pista come un tornado su un campo di grano.

Goldie - TimelessGoldie – Timeless
Una suite jungle. Dura 21 minuti perché Goldie riascoltava i demo dei pezzi prodotti in studio in auto, tornando a casa di notte. Impiegava 21 minuti per compiere quel tragitto, doveva essere quindi esattamente la soundtrack del suo viaggio. In realtà fu un “viaggio” che, come dicevo prima, traghettò la jungle dall’underground all’overground grazie alla presunzione di Goldie, al lavoro del produttore Rob Playford nonché alla voce della cantante Diane Charlemagne, scomparsa prematuramente nel 2015.

Massive Attack - Blue LinesMassive Attack – Blue Lines
Fu la prima volta che anziché presentarsi una band con tutti gli strumenti al loro posto (batteria, chitarra etc) arrivò un mucchio selvaggio di gente che non si capì bene cosa facesse. Erano tutti produttori e fu palese che fosse qualcosa di nuovo. Troppo lento, un suono sfocato, rap sottovoce quando tutti i rapper invece gridavano. Fu l’inizio del Bristol Sound.

John Luther Adams - Become OceanJohn Luther Adams – Become Ocean
Poco più di 40 minuti di orchestra che suona come se non avesse una partitura ma fosse un magma che cambia continuamente forma e colore. La musica diventa materia, la rappresentazione sonora dell’essere immersi nell’Oceano. Adams raccontò che l’ispirazione gli venne quando abitava in California, in una casa isolata che davanti aveva il mare e dietro il deserto. «Di notte tenevo le finestre aperte, ecco perché».

John Cage - 433John Cage – 4’33”
Come dimostrare con un silenzio che il silenzio non esiste. Forse la musica più rivoluzionaria mai scritta, talmente tanto da non potersi scrivere. Una cesura di 4 minuti e 33 secondi che è una cesura nella razionalità come un taglio sulla tela di Fontana. L’idea che ispirò la performance degli Aeroplanitaliani al Festival di Sanremo nel 1992: 30 secondi di silenzio in diretta tv. Un vuoto che viene sempre riempito.

DJ Shadow - Endtroducing.....DJ Shadow – Endtroducing…..
Un album, come scrive lo stesso DJ Shadow, fatto senza suonare una nota. Lo realizzò assemblando i pezzi di un puzzle di citazioni prese da altri dischi. Un metodo applicato in maniera concettuale per la prima volta. Fu la manifestazione dell’avverarsi della profezia di Brian Eno sull’avvento dei non-musicisti. L’inquietante sensazione che la memoria e la cultura stiano sopravvivendo nel presente non più grazie ai neuroni ma ai bit. Evoluzione della specie?

Alva Noto + Ryuichi Sakamoto - Logic MoonAlva Noto + Ryuichi Sakamoto – Logic Moon
L’esempio migliore di equilibrio fra elettronica ed acustica. In questo brano tratto dall’album “Insen” del 2005, si rincorrono brevi frasi di piano impresse con l’immediatezza di un gesto di calligrafia giapponese e messe in vibrazione dalla matrix della visione elettronica. Non è né musica ambient, né musica elettronica e tantomeno new age. «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Bob Dylan - Murder Most FoulBob Dylan – Murder Most Foul
È uscito nel 2020, in piena pandemia e mentre noi volgo disperso, eravamo chiusi nei nostri “atrii muscosi, nei nostri Fori cadenti”, questo pezzo di 17 minuti in cui Dylan rievoca l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy. Dalla metà in poi la celebrazione diventa un viaggio vertiginoso in una serie interminabile di citazioni di canzoni americane. Titoli, frammenti di testi, nomi di musicisti …non le ho ancora scoperte tutte. Ci sono rimasto dentro, sono ancora nell’America di quegli anni.

John Cage - OrganASLSPJohn Cage – Organ² / ASLSP
L’organo di una chiesa di Halberstadt, in Germania, suona una nota di una partitura di Cage risalente al 1987 ogni sei mesi, più o meno. L’agogica da lui indicata chiede esattamente di eseguirla “il più lentamente possibile”. Si stima che l’esecuzione dovrebbe durare 649 anni. Ecco un altro salto concettuale, illuminante. Chi mai potrà avere una vera consapevolezza di questa opera? Forse un essere per cui il tempo e lo spazio hanno completamente un altro significato rispetto al nostro.

Giacomo Puccini - Madama ButterflyGiacomo Puccini – Madama Butterfly
Dell’opera pucciniana segnalo in particolare il “Coro A Bocca Chiusa”, probabilmente alla base di tutta la canzone Italiana.


Giosuè Impellizzeri

si ringrazia Fabio De Luca per la preziosa collaborazione

© Riproduzione riservata

Flavio Vecchi – DJ chart gennaio 1992

Flavio Vecchi, Tutto Disco, gennaio 1992

DJ: Flavio Vecchi
Fonte: Tutto Disco
Data: gennaio 1992


1) Masters At Work – Our Mute Horn
Pur essendo uno dei primi dischi che Vega e Gonzalez realizzano come Masters At Work, la vocazione è già ben evidente, tutta ad appannaggio di un sound ballabile ma cucito a doppio filo col mondo del jazz e del soul. In “Our Mute Horn”, incisa sul lato b e dedicata a Miles Davis scomparso poco tempo prima dell’uscita del 12″, campeggia la tromba di Ray Vega che si insinua perfettamente negli snodi ritmici da cui riaffiora, quasi in sordina, un frammento di “The Music Got Me” dei Visual prodotti dall’altrettanto indimenticato Boyd Jarvis. Oltre ad un bonus beat di una manciata di minuti, sul mix c’è anche un’Ambient Dubb particolarmente suadente. A pubblicare il disco è la Cutting Records dei fratelli Aldo e Amado Marin, quella che nel 1983 mette in circolazione “Al-Naafiysh (The Soul)” di Hashim e ricordata anche come rampa di lancio del compianto Nitro Deluxe (si sentano “Journey To Cybotron”, “On A Mission” e il più noto “Let’s Get Brutal”) e soprattutto dei 2 In A Room, protagonisti negli anni Novanta della seconda ondata hip house con hit come “Wiggle It”, “El Trago (The Drink)”, “Ahora! (Now!)”, “Giddy Up” e “Carnival”.

2) Basil Hardhaus – Make Me Dance
“Make Me Dance” è il secondo dei due dischi che Basil Thomas destina alla newyorkese Nu Groove. Operativo come DJ in club della Grande Mela passati ormai alla storia come il Nell’s, il Red Zone e il Sound Factory, l’artista fonde nella title track le matrici del periodo pre house (Paradise Garage, The Choice) con le sollecitazioni deep che vanno delineandosi nei primi anni Novanta. Il brano è cantato dai fratelli Rheji e Ronald Burrell ai quali si aggiungono i lead vocal di Sylvia Simone, campionati nel ’93 dagli italiani Mars Plastic in “Find The Way”. Sul 12″ presenzia pure una dub intitolata Hard For The D.J. in cui scorrono i nomi di tanti eroi della house a stelle e strisce di quegli anni, da John Robinson a Bobby Konders, da Tony Humphries a Kenny Carpenter, da DJ Disciple a Ralphi Rosario passando per Pal Joey, Frankie Knuckles, David Morales, Dave Camacho, Roger Sanchez ed altri ancora. Di Thomas, oggi attivo come Brutha Basil, vale davvero la pena rammentare anche la parentesi artistica vissuta nella seconda metà degli anni Novanta quando, spalleggiato dalla King Street Sounds, firma struggenti brani come “All True (African)” e “Sex”, entrambi dedicati alla memoria del suo mentore Larry Levan.

3) Riviera Traxx – Vol. 1
Trattasi del primo atto di una serie andata avanti sino al 1997 e risvegliata dal letargo giusto pochi mesi addietro attraverso il quinto volume contenente, tra le altre, tracce di Cirillo, Memoryman aka Uovo, Bartolomeo e Vecchi affiancato da Peter Kharma. “Parfume 1” accarezza le orecchie dell’ascoltatore con un delicato quanto gustoso appetizer a base di deep house rivierasca, composta tenendo bene a mente le esigenze del pubblico dell’Ethos Mama menzionato in copertina e tra i crediti. Parecchio simile la ricetta di “Parfume 2”, spassionata italo (deep) house strumentale tornata in gran spolvero negli ultimi anni. Meno squadrato e provvisto di più sinuosità il suono di “Hey Hey”, in cui pare sia celato un vocalizzo di Mariah Carey abilmente campionato da “Someday”, mentre “Love” chiude ricamando graziosi gorgoglii della deep house nostrana di circa trent’anni or sono. Artefici di tutto sono Flavio Vecchi e Ricky Montanari (da lì a breve uniti anche in Love Quartet di cui abbiamo parlato qui), affiancati dal ginevrino Patrick Duvoisin e dal londinese Kid Batchelor. A pubblicare il disco invece è la Antima Records del gruppo Irma, tra le portavoci più credibili e rispettate di quella particolare fase creativa in cui gli italiani diedero grande segno di maturità espressiva. A ripubblicarlo, nel 2014, ci pensa la Flash Forward.

4) Omniverse – Venere
Rispetto a “Never Get Enough” dell’anno prima, con un’anima balearica, “Venere”, secondo (ed ultimo) disco che Ricky Montanari e Claudio “Moz-Art” Rispoli firmano Omniverse, vanta un istinto più dichiaratamente deep house seppur all’interno fioriscano piccoli accorgimenti tendenti ad atmosfere chillout. “Antares”, sul lato b, si immerge in una soluzione sonica altrettanto dolciastra dove uno stralcio vocale tratto da “For The Same Man” di B Beat Girls diventa un elemento decorativo e di raccordo tra due blocchi ritmici intervallati da un break centrale di stasi illuminata da luce diafana. Analogamente a Riviera Traxx, “Venere” viene pubblicato dalla sopramenzionata Antima Records e ristampato nel 2016 dalla Flash Forward che, rispettando i canoni estetici dell’originale, duplica pure l’artwork a firma Kekko Montefiori.

5) Michael Watford – Holdin’ On
È il disco di debutto per Michael Watford, una delle voci maschili più rappresentative della house degli anni Novanta. A produrlo, per l’Atlantic, è Roger Sanchez che qualche tempo dopo coinvolgerà lo stesso Watford, Jay Williams e Colonel Abrams nel progetto The Brotherhood Of Soul per “I’ll Be Right There”. “Holdin’ On” è un tripudio della garage newyorkese, house abbracciata fraternamente al soul e al gospel in quello che è diventato un inno anthemico nei circuiti più elitari. La carriera di Watford si anima grazie ad un sostanzioso repertorio di cui si evidenziano il fortunato “So Into You”, “Come Together” in coppia con Robert Owens ed “Understand Me” interpretata per gli italiani I-D (Ivan Iacobucci e Danny Vitale, di cui parliamo qui) ma pure un album, l’unico, uscito nel 1994 e considerato un must per i seguaci del genere.

6) Disciples Ov Gaia – The Key
Nato da una costola degli Psychick Warriors Ov Gaia, il progetto Disciples Ov Gaia, qui ulteriormente celato dietro l’acronimo D.O.G., debutta con un pezzo eccelso ma passato inosservato. Nella versione coi vocalizzi di una certa Mary.Lou, “The Key” appare come un distillato tra gli echi jazzy à la “Plastic Dreams” di Jaydee e il seducente lirismo di Jamie Principle. Molto simile la Lunar Dub mentre la Intention Mix muove verso ricalibrature technoidi tirandosi dietro hammer filo industriali. Artefici di tutto ciò sono Robbert Heynen e Tim Freeman mentre l’etichetta è la belga Zazaboem, sublabel della nota KK.

7) Don Carlos – ?
In assenza del titolo non è possibile identificare il disco in questione ma è plausibile ipotizzare che si tratti di “Alone”, brano con cui Carlo Troja, da Varese, riavvia la propria carriera discografica dopo la fugace e poco fortunata esperienza in ambito italo disco risalente al 1986. Come dettagliatamente raccontato qui con le testimonianze dello stesso autore, “Alone” è un paradisiaco ed estatico trip che rappresenta più che bene la scuola deep house italiana, con inflessioni ambient e qualche immancabile rimando al suono imperante del pianoforte, iconico per quello che alcuni giornalisti, specialmente anglosassoni, definirono sprezzantemente “spaghetti house”.

8) Jamie Principle – You’re All I’ve Waited 4
Principle è autore di uno dei brani più simbolici dell’house music, “Your Love”, giunto sul mercato nel 1986 sulla Persona Records ma passato alla storia grazie alla versione prodotta da Frankie Knuckles uscita solo nel 1987. Considerato uno dei pionieri della scena house chicagoana e coadiuvato da un altro pilastro della dance della città del vento, Steve “Silk” Hurley, Principle oltrepassa presto i confini patri sbarcando dall’altra parte dell’Atlantico con brani che finiscono nelle classifiche come “Baby Wants To Ride” preso in licenza dalla britannica FFRR. È proprio Hurley a produrre “You’re All I’ve Waited 4”, pezzo che anticipa l’uscita dell’album “The Midnite Hour” in cui peraltro è incluso, che arride ad un ascolto trasversale in virtù della song structure e per cui viene girato anche un video. Oltre ad una Dubstrumental dello stesso Hurley, sul 12″ edito dalla Smash Records (che in quel periodo pubblica un altro successo internazionale, “People Are Still Having Sex” di LaTour) finiscono pure i remix di E-Smoove e Maurice Joshua.

9) J.T. – Let Me Groove U
Il ventiduenne Jordan Tepper, nato nel quartiere di Forest Hills, a New York, molla gli studi universitari ad un anno dalla laurea per intraprendere la carriera musicale. Irresistibilmente attratto dall’hip hop, incide alcune demo che un amico di famiglia manda a Gary Baker, avvocato dell’Atlantic. È proprio Baker a consegnare quei nastri a Sylvia Rhone, CEO della EastWest Records America, sussidiaria della stessa Atlantic. Così parte la sua (breve) carriera con “Swing It”, per cui la casa discografica fa realizzare un videoclip. Segue “Let Me Groove U” traghettato nel mondo delle discoteche grazie al remix dei Masters At Work che ne ricavano un buon compromesso a metà strada tra garage house ed hip house. Sembra andare tutto per il verso giusto e Tepper, in questo articolo pubblicato dal New York Times il 28 luglio 1991, viene indicato come un possibile nuovo Vanilla Ice. Poco meno di un mese prima esce l’album “Kick The Funk”, rimasto però l’ultimo tassello di un’esperienza interrotta pare a causa di risultati deludenti. Le lusinghiere affermazioni su personalità e talento fatte su quel quotidiano statunitense acquistano allora un valore diverso e si trasformano in banali frasi di circostanza tipiche del marketing.

10) Mood Swing – Do It Right
Da non confondere col quasi omonimo duo Mood II Swing formato da John Ciafone e Lem Springsteen, Mood Swing è il progetto solista di Marco Rosales, inaugurato proprio attraverso “Do It Right”. La Layed Back è riccamente agghindata da virtuosismi jazzy, la Rhythm Mix è più essenziale e diretta, inchiodata su una sequenza di stab. Maggiormente trippy la Obscure Mix a cui segue, in chiusura, la spirituale Jazz Mix che fa il verso a “The New Age Of Faith” di The Prince Of Dance Music (Nu Groove Records, 1989). Rosales userà per l’ultima volta lo pseudonimo Mood Swing per l’intenso “Inspiration Point”, finito nel catalogo della Nervous Records nel 1992, la stessa che proprio quell’anno pubblica uno dei primi dischi che Ciafone e Springsteen firmano Mood II Swing. Chissà, magari esiste un nesso in ciò, analogo a quello che lega Masters At Work a Todd Terry.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Daniele Baldelli

Daniele Baldelli
Daniele Baldelli ed una minuscola parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo in assoluto non riesco proprio a ricordarmelo ma rammento che quando avevo undici anni, per vedere la tv, andavo al bar della stazione e lì ascoltavo classici della canzone nostrana come “Fatti Mandare Dalla Mamma A Prendere Il Latte” di Gianni Morandi, “Viva La Pappa Col Pomodoro” di Rita Pavone o “Tintarella Di Luna” di Mina che poi compravo e sentivo sul mio primo giradischi ovvero la fonovaligia della Lesa, la Defral DF-1. Successivamente emerse la mia esterofilia ed acquistai un 45 giri di Marie Laforêt che in televisione veniva presentata come “la cantante dagli occhi d’oro” (omonimo del suo primo album del 1964, nda). A seguire altri come “With A Girl Like You” dei Troggs, “A Whiter Shade Of Pale” dei Procol Harum, “Mr. Tambourine Man” di Bob Dylan e uno di Sandie Shaw detta “la cantante scalza”, ma anche “Bikini Beat” dei Pooh. Era musica che si ballava nelle festicciole private in casa, arrangiandosi con un mangiadischi. Nel ’68 impazzii letteralmente per “Hey Jude” dei Beatles: avevo un registratore della Sanyo e con quello registrai il brano su un intero lato della cassetta per almeno una decina di volte in modo da poterlo ascoltare senza sosta.

L’ultimo invece?
Sono diversi, tutti presi nel negozio veronese Le Disque circa due mesi fa: dal box set “Fragments” pubblicato dalla spagnola Hivern Discs di cui evidenzio “Waterfall” di Samo DJ in puro cosmic sound style, a “Love Is The Only Way”, l’EP di Bep Kororoti e Akin in cui la mia preferita è “Epomuyeñ” che sicuramente troverà posto in uno dei miei prossimi DJ set grazie ad una buona ritmica ed un cantato africano accompagnato da una tromba. Ho comprato pure “Oimachi EP” di Imre Kiss, col sequencer ossessivo ed un’atmosfera spaziale, ed un album del 2017 che mi ero lasciato sfuggire al momento dell’uscita, “Obakodomo” di Fantastic Twins in cui c’è il brano “Construire Un Igloo” incentrato su un bel gioco di marimba ed altre percussioni abbinate ad un flauto. Per finire “Fantasia” di Nuel alias Manuel Fogliata, fatto da sette tracce in cui si sente un po’ di funk, qualcosa di oscuro ed elettronico ed un pizzico di balearic, insomma, tutto adatto per il mio cosmic sound.

Quanti dischi hai in collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Calcolando quelli contenuti in un solo mobile e moltiplicandoli per il numero di librerie presenti nel mio seminterrato, dovrei rasentare o superare i settantamila. Pertanto, sempre in modo approssimativo, direi di aver speso circa un milione e quattrocentomila euro, ma probabilmente molto di più.

alcuni cassettoni
Alcuni cassettoni che Daniele Baldelli ha fatto realizzare appositamente da un falegname per sistemare i suoi dischi

Come è organizzata?
Quando comprai il mio primo PC mi feci preparare da un amico esperto un programmino per la catalogazione. Era necessario compilare parecchi campi per inserire ogni disco: autore, titolo, genere, etichetta, anno di pubblicazione, note e collocazione. Feci stampare subito anche delle etichette adesive dal numero uno al ventimila. Precedentemente avevo commissionato parecchi mobili su misura ad un falegname, molti dei quali muniti di ruote al fine di poterli spostare più facilmente. Altri invece sono a parete con cassettoni nella parte bassa e scansie aperte sino al soffitto. Se, per esempio, volessi cercare un disco di Bob James, me ne compaiono ben quindici dopo aver digitato il suo nome nel programma di cui parlavo. Vedo che quello intitolato “Foxie”, su Columbia, è del 1983 e contiene il brano “Calaban” (evidentemente quello che mi interessava di più). Nelle note trovo specificato che potrei suonarlo a 45 giri invece che a 33. La collocazione, infine, mi riporta B-22 / 11260 ovvero mobile B, cassetto n. 22 e disco etichettato col numero 11260. Quando cominciai a catalogare i miei dischi mi resi subito conto che l’impresa fosse decisamente ardua. Il primo giorno, dalle ore 21 alle 24, riuscii a catalogarne appena una ventina! Fui costretto pertanto ad ingaggiare una segretaria e col suo aiuto, in tre ore, riuscimmo a sistemarne oltre duecento, ma non ho ancora finito…

Presumo che con una mole tale di dischi avrai pure svariatissimi flight case.
Già nel 1983, seppur fossi resident al Cosmic, cominciai ad avere richieste da altri locali ed ogni volta, prima di partire per raggiungere i nuovi club, avveniva il rito della preparazione dei dischi da portare. Per trasportarli usavo casse di legno autocostruite, dipinte di nero e ricoperte di adesivi, oppure uno dei cassettoni che prelevavo direttamente dai miei mobili a cui facevo cenno qualche riga fa. Per fare una serata sarebbero certamente bastati un centinaio di dischi ma puntualmente scattava la paranoia: questo sì, questo no, questo magari può servirmi, quest’altro non lo suono di sicuro ma meglio portarlo… Insomma, per farla breve, mi ritrovavo con due o tre casse di dischi da sollevare di peso e portare fino alla consolle. Poi una volta, in occasione di una serata, vidi arrivare il collega Claudio Stella con un bel baule nero provvisto di rotelline. Wow! Gli chiesi subito dove l’avesse preso e mi rispose che un suo amico aveva una piccola azienda in cui ne producevano di ogni tipo e genere. Così mi feci accompagnare a Rosà, in provincia di Vicenza, dove c’era la sede di quell’azienda, l’Amabilia, tuttora in attività. Commissionai subito due flight case su misura per i miei giradischi Technics SP-15 ed uno per il mixer Teac Model 3, oltre ovviamente ad alcune valigette per i dischi. Da lì cominciarono la produzione in larga scala rifornendo negozi specializzati come il Disco Inn di Modena e il Disco Più di Rimini dove, nel corso degli anni, ne ho acquistati davvero tanti, di tutte le misure, materiali e colori.

Baldelli flight case
Baldelli e i suoi numerosi flight case

Segui particolari procedure per la conservazione?
Più del 50% dei miei dischi è protetto da buste di plastica. Giorno per giorno provvedo ad imbustare quelli a cui mancano, acquistando di tanto in tanto mille/duemila buste trasparenti. Quando scopro che qualcuno mostra segni di umidità lo lavo a mano con un batuffolo di cotone ed acqua distillata. Con un movimento circolare seguo i solchi e poi li asciugo con un panno morbido, sempre in modo circolare. Il risultato è perfetto.

Oltre ai 12″/LP conservi anche 7″, acetati o flexi-disc?
Ho parecchi 7″ ma non catalogati, dovrebbero essere circa duemila. Se ne prendo alcuni a caso da una cassetta di legno autocostruita che ritengo il mio primo flight case escono “I Didn’t Know I Loved You (Till I Saw You Rock And Roll)” di Gary Glitter, del 1972, “Dikalo” di Manu Dibango, del 1974 sulla Philips italiana (che qualcuno vende a ben 70 € su Discogs!), “Street Fighting Man” dei Rolling Stones, del 1971 sulla Decca tedesca, e “Follow The Wind” dei Midnight Movers Unlimited, 1972. Gli ultimi due hanno sulla copertina una piccola etichetta blu con su scritto Radio Columbia – Lugano: qualche volta il proprietario del Tabù Club di Cattolica mi portava con la sua Porsche verde in Svizzera per comprare dischi che da noi non si trovavano. Su un altro invece c’è scritto Importation, con una bandiera americana ed una britannica e sotto, impresso con un timbro, il titolo e il nome dell’autore, “Here For The Party” dei Bottom & Company. All’interno c’è appunto il 45 giri della Motown, del ’75, e sul retro della copertina si legge testualmente: Lido Musique – Paris, Avenue Des Champs Elysees 68. Era uno dei primi record store ad importare dischi dagli States personalizzandoli con le proprie copertine.

i 45 giri
Una panoramica sui 7″ di Baldelli, descritti nella precedente risposta

Ti hanno mai rubato un disco?
Sì, credo fosse il 1974 quando mi trovavo al citato Tabù Club. Durante l’inverno il locale era aperto sabato sera, domenica pomeriggio e domenica sera quindi lasciavo i miei dischi lì. Qualcuno entrò dopo la chiusura portandosi via due giradischi Lenco, un microfono ed una decina di faretti, ma pure tutti i miei dischi. Tra 33 e 45 giri saranno stati almeno trecento. Super avvilito, terrorizzato ma anche incazzato, non sapevo davvero cosa fare. Mi si avvicinò un tizio che ovviamente faceva parte della banda e fingendosi un mediatore mi fece riavere tutto pagando un riscatto di cinquecentomila lire. Un’altra volta invece avvenne al Fura di Desenzano del Garda, tra 1997 e 1998: a tarda notte, finita la serata, trovai il finestrino rotto del mio Ford Transit in cui avevo lasciato una valigia piena di dischi che non c’era più. Purtroppo non li ho mai ritrovati. Ho cercato, con non poca fatica, di ricordare i titoli uno per uno e molti li ho pazientemente ricomprati. Una decina di anni più tardi, durante un serata, un fan si avvicinò chiedendomi di autografargli l’album del Cosmic del 1984 pubblicato da Il Discotto (registrato e mixato presso il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian ed arrangiato da Maurizio ‘Sangy’ Sangineto dei Firefly, intervistati rispettivamente qui e qui, nda). Con stupore mi accorsi che fosse una copia che usavo io, riconoscendola dai segni che facevo con una biro sull’etichetta e da alcuni piccoli adesivi arancioni che attaccavo sulla copertina per individuare più velocemente i titoli. A quel punto gli feci notare che quello fosse un mio disco che mi avevano rubato anni prima e lui si mostrò subito disposto a restituirmelo. Io invece lo autografai dicendogli di custodirlo bene perché valeva di più. Quel ragazzo non aveva alcuna colpa avendolo comprato ad un mercatino dell’usato.

C’è un disco a cui tieni di più?
Non posso rispondere a questa domanda, farei un torto almeno ad altri duemila dischi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Dovrei avere una ventina di dischi sui quali ho attaccato un’etichetta con su scritto “merda”. Probabilmente li comprai per sbaglio: mentre ascoltavo i nuovi arrivi in negozio devo averli erroneamente messi tra quelli scelti e non tra quelli scartati.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Non so mai quello che cerco: quando mi imbatto in un disco mai visto e sentito prima decido se sia da avere o meno.

le copertine più belle
Baldelli mostra alcuni dei dischi con copertine che annovera tra le più intriganti

Quello con la copertina più bella?
Anche in questo caso è impossibile limitarmi a citarne solo uno. Trovo stupenda quella apribile di “Happy Children” degli Osibisa, e che dire di quelle sofisticate degli Ohio Players e di quelle metafisiche dei Passport? Mi viene in mente anche quella di “Sticky Fingers” dei Rolling Stones (realizzata da Andy Warhol, nda) con una chiusura lampo vera attaccata alla foto dei jeans, e non posso non menzionare quelle dei Weather Report, quelle minimaliste della ECM e quella di “In Search Of The Lost Chord” dei Moody Blues. Poi quelle in stile cartoons tipo “On The Corner” di Miles Davis o “Cheap Thrills” di Big Brother & The Holding Company. Mi piaceva tanto pure quella di “Heads Or Tails” degli HOT R.S. perché figurava la modella Veruschka, quella di “In The Court Of The Crimson King” dei King Crimson e “Deep Purple” dei Deep Purple che nel ’69 mi fece scoprire l’arte del pittore olandese Hieronymus Bosch. Infine, senza falsa modestia, vorrei spendere qualche parola anche sulle sei copertine del mio progetto “Cosmic Temple” edito da Mondo Groove nel 2017, che unite creano un’immagine inedita del marchio Cosmic. L’ispirazione è mia mentre a realizzarla è stato Aldo Drudi, grafico e designer di Valentino Rossi.

le copertine del progetto Cosmic Temple
Il mosaico creato con le copertine di “Cosmic Temple”, edito nel 2017 da Mondo Groove

Qual è il primo disco che ti torna in mente pensando alla Baia Degli Angeli?
La prima volta che entrai lì dentro fui subito fulminato dal brano che Bob Day e Tom Sison stavano suonando in quel momento, “Ask Me” della Love Childs Afro Cuban Blues Band seguito da “Once You Get Started”, inciso in sequenza sullo stesso disco, l’LP “Out Among ‘Em”. Poco tempo dopo rimasi ammaliato pure da “Hit And Run” di Loleatta Holloway di cui conservo la copia che mi fu regalata ed autografata proprio da Bob e Tom.

Se ripensi al Cosmic invece?
Il Cosmic aprì nel 1979 e lì portai con me tutte le influenze disco, funk e philly della Baia Degli Angeli. Poi, nel 1980, si aprì un nuovo panorama musicale con tanti pezzi di provenienze diverse. Potrei citarne svariati come “Ultradeterminanten” dei Kowalski, un brano a 101 BPM che usavo per iniziare, “Time Actor” di Richard Wahnfried, diventato ormai un must per ogni serata remember, e “Rocks, Pebbles And Sand” di Stanley Clarke, che non ha smesso ancora di emozionarmi. Tra gli altri cavalli di battaglia invece, “Underwater” di Harry Thumann, da suonare rigorosamente a 33 giri anziché 45, “Plastic Bamboo” di Ryuichi Sakamoto e “Screaming Jets” di Johnny Warman a 45 giri.

C’è un pezzo con cui hai svuotato la pista?
È capitato che qualche brano, magari troppo particolare, strano o incomprensibile ai più, provocasse smarrimento, ma anziché desistere mi impuntavo cercando di riproporlo il più possibile per farlo entrare nella testa del mio pubblico. “Big Man Restless” dei Kissing The Pink, ad esempio, mi è sempre piaciuto ma le prime volte che lo programmai nei miei set non venne gradito molto. Insistendo però è andato tutto a buon fine.

Baldelli con altri dischi della collezione
Baldelli insieme ai suoi dischi ordinatamente riposti

Quale invece quello che hai scartato al momento dell’uscita e che hai rivalutato nel corso degli anni?
Non saprei indicarlo ma mi capita frequentemente di scoprire, su dischi comprati magari quarant’anni fa, tracce mai suonate che propongo oggi rendendomi conto, con grande soddisfazione, di quanto certa musica possa essere attuale anche a distanza di decenni.

Hai messo piede in centinaia (o forse migliaia) di negozi di dischi: quali sono quelli che preferivi frequentare?
Effettivamente di negozi ne ho visitati davvero parecchi. Non potendo elencarli tutti, cito alcuni che per me sono stati fondamentali come Da Angelo, a Cattolica, attivo nei primi anni Settanta. Vendeva televisori, lavatrici, lampadine e piccoli elettrodomestici ma aveva un angolo dedicato in prevalenza ai 45 giri; poi la Dimar di Rimini, un negozio multipiano dove compravo tutti i possibili LP immaginabili, dal pop al jazz, dal rock al funk passando per musica classica, discomusic, folk, Crosby, Stills, Nash & Young e tutti i dischi della Arion e della Lyrichord. Sempre alla Dimar presi tutti gli album degli Oregon e di Ravi Shankar. Per anni il mio punto di riferimento principale è stato anche Disco Più, sempre a Rimini, fondato da Gianni Zuffa e nato dalle ceneri del New Rels di Mario Boncaldo. Menzione finale per Le Disque, a Verona (di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra con l’aiuto del proprietario, Paolo Tescaroli, nda), aperto dal 1988 e che frequento in prevalenza tuttora.

Baldelli con Sequential Circuits Prophet 2000
Una vecchia foto in cui Baldelli è intento a suonare il suo Sequential Circuits Prophet 2000 durante una serata

In questa intervista di Giacomo Stefanini pubblicata da Vice il 13 settembre 2018, dichiari di usare ormai solo il CD in consolle, seppur non possa sottrarti al fascino del vinile, supporto che continui a comprare e ad utilizzare come artista ma non ad idolatrare, e a tal proposito una tua dichiarazione di qualche anno fa sbeffeggia sonoramente la totemizzazione del disco in tempi moderni. Ad onor del vero però, già in una breve intervista realizzata da Fred.j., pubblicata sulla rivista Jocks Mag a giugno 2000, non facesti mistero di continuare a comprare dischi ma non a suonarli. «Una buona soluzione è masterizzarli su CD per farli vivere in “eterno”» dicevi, aggiungendo che «in questa maniera è possibile personalizzarli cambiando la loro struttura, allungando le parti musicali migliori. La tecnologia è utilissima anche per potenziare la qualità del suono di alcune vecchie incisioni e per togliere scricchiolii e rumori molesti». La digitalizzazione del formato è stata parecchio demonizzata nell’ultimo decennio: secondo un’idea assai diffusa, il CD (prima) e i file (poi) sono state le cause primarie della banalizzazione del DJing. Sino a pochi decenni fa il digitale però godeva di tutt’altra nomea, basti pensare a chi si portava dietro un campionatore per colorire la propria performance ed uscire dallo steccato del tradizionale beatmatching suscitando l’approvazione del pubblico ma pure l’ammirazione dei colleghi. Forse sono pochi quelli che oggi riescono ad utilizzare con creatività la tecnologia digitale? Ho impressione che delle infinite potenzialità ottenibili dai moderni strumenti dedicati ai disc jockey, spesso venga utilizzata solo una minuscola percentuale e tanti(ssimi) DJ paiono arenati nelle banalità trite e ritrite, cristallizzati in una dimensione molto vicina a quella del jukebox umano. Cosa pensi in merito?
Quel video a cui fai riferimento purtroppo è stato usato dai miei detrattori tagliando la parte finale, e ai tempi seguirono massacranti commenti negativi sul mio conto, ovviamente caldeggiati dai soliti idioti. In un secondo momento però in tanti sono intervenuti in mia difesa. Compro dischi da cinquant’anni, sono circondato, anzi sommerso, da dischi, respiro vinile ogni giorno nel mio studio e nonostante tutto devo sopportare le critiche di chi si erge ad estremo giudice pur avendo cominciato a fare il DJ ieri, dopo avermi “shazammato” per lungo tempo ed aver comprato appena una cinquantina di mix. Ormai il concetto dovrebbe essere chiaro: se la musica che suoni è scadente, resta tale a prescindere dalla sorgente, che sia un CD, una chiavetta USB o un disco. Io non rinuncio al vinile, continuo a comprarlo e a collezionarlo ma, come dicevo già in quell’intervista del 2000 da te citata, preferisco usare il CD per salvaguardare i dischi, perché è più comodo da trasportare e pure per proporre le mie tracce ancora inedite e tutti i miei re-edit personali che non verranno mai commercializzati. Riguardo l’uso della tecnologia, io vivevo nel mio mondo e non so cosa facessero gli altri. Già al Cosmic usavo una batteria elettronica Korg KR55 per generare ritmi su cui mixare dischi, abbinata ad una tastiera Yamaha CS-10 per ricavare effetti “cosmici” in presa diretta. Dal 1989 circa e per tutti gli anni Novanta, in ogni locale in cui andavo mi esibivo principalmente su un palco anziché in consolle. Nel mio Ford Transit caricavo tre reggitastiere: una serviva al mixer, sulle rimanenti mettevo invece due lastre di marmo per creare il piano su cui posizionare due giradischi Technics SP-15 con braccio SME. Mi portavo dietro anche una tastiera Yamaha DX7, due drum machine Roland, TR-909 e TR-727, un campionatore a tastiera Sequential Circuits Prophet 2000, uno in rack ed un Akai S900 (e per creare una sorta di megamix live ero costretto a caricare almeno quattro floppy disk!). A completamento due casse spia ed un amplificatore per pilotarle che pesava ben trenta chili. Oggi ho abbandonato del tutto questo modo di fare. In commercio ci sono numerose macchine che facilitano di gran lunga ciò che io realizzavo ai tempi disponendo di appena venti o trenta secondi di campionamento. Non saprei che risultati possano dare strumenti di allora usati con la musica di oggi. Preferisco lavorare coi brani perché ritengo che la vera alchimia adesso la si possa creare usando tracce suonate, trovando il missaggio giusto tra un brano e l’altro, o quando un pezzo rock s’interseca alla perfezione in uno funky. L’emozione nasce nel momento in cui le percussioni tribali di una traccia etnica viaggiano senza problemi su una elettronica sperimentale e quando la voce di una canzone pare rispondere a quella della successiva.

Baldelli al Cosmic (198x)
Baldelli alla consolle del Cosmic nei primi anni Ottanta

I DJ sono indubbiamente cambiati ma probabilmente anche il pubblico: a tuo avviso, corrono sostanziali differenze tra un clubber del 2020 ed uno degli anni Ottanta o Novanta?
Guardando qualche vecchia foto ho notato come al Cosmic, negli anni Ottanta, la gente fosse letteralmente ammassata davanti alla consolle. Erano tutti giovanissimi, dai diciotto ai venti/venticinque anni d’età. Questi ragazzi ascoltavano Mike Oldfield, Al Di Meola, Jorge Ben, Klaus Schulze, Gilberto Gil, James Brown, Ryuichi Sakamoto, Phil Manzanera, Fela Kuti…musica vera fatta da musicisti veri ed elargita da DJ veri (ride, nda). Oggi invece i ragazzi di quell’età ascoltano prevalentemente una cassa dritta con effetti e rumori, brani che durano una decina di minuti ma tutti uguali dall’inizio alla fine, privi di melodia, senza chitarra, sax, violini, assoli ed un minimo scampolo di tema. Che tipo di cultura viene loro inculcata da un certo tipo di DJ? Fortunatamente qualcuno esce dal branco per aiutare i giovanissimi ad avvicinarsi a ben altre proposte.

Sul fronte discografico, tranne qualche eccezione tipo il già citato “Cosmic LP” del 1984 e “Somebody” dei Video del 1983 per cui svolgesti ruolo di consulente musicale come raccontiamo qui, hai iniziato a produrre nei primi anni Novanta (e a tal proposito mi torna in mente “Tatana’” di Sambo, su Irma, insieme a Danny Losito e Claudio Rispoli, e “Notre Dame” di B.D.J. & Warriors 6.1.0., su Paradise Project Records, realizzato con gli FPI Project) ma usando il tuo nome come artista solo a partire dal 1996 col “Totem EP” sulla Tomahawk del gruppo American Records a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Come mai attendesti così tanto prima di dedicarti alla produzione discografica?
Agli inizi non pensavo affatto alle produzioni, mi ero cimentato ma con scarsi risultati quindi abbandonai l’idea per un po’. Pur di spacciarsi per produttori, in tanti incidevano bootleg prendendo qualche pezzo ricercato e ristampandolo ma senza chiedere autorizzazioni e licenze. Io non volevo rischiare di trovarmi nei guai ma soprattutto volevo essere corretto. Tuttavia realizzai una sorta di bootleg “isolando” circa trenta secondi di un disco francese vagamente jazz, improponibile per la pista. Registrai quella sezione, tratta dalla parte centrale del brano e completamente diversa dal resto della composizione, per una decina di volte su un nastro col Revox e poi, armato di lametta e nastro adesivo, feci un editing. Divenne un brano di quattro minuti che, per la somiglianza, spacciai per il nuovo degli Ozo, quelli di “Anambra”, un pezzo molto gettonato al Cosmic.

A partire dagli anni Duemila hai consolidato sensibilmente la tua posizione da produttore saldando solide collaborazioni con Marco Dionigi, Dario Piana e DJ Rocca (intervistati rispettivamente qui, qui e qui). Come è organizzato il vostro lavoro in studio? Seguite un preciso modus operandi?
Incontrai per la prima volta Dionigi nel 1991. Era un patito del mio sound e conosceva quasi tutte le mie cassette del Cosmic. Per molti anni ci siamo visti a casa sua puntualmente il lunedì ed ogni volta gli portavo uno dei miei cassettoni di dischi, passando tutta la giornata ad ascoltarli e a campionare quello che ci sembrava interessante. In tal maniera accumulammo un sacco di idee: a volte le usavamo per creare pezzi inediti, altre invece per re-edit destinati alle nostre serate. Di questi ultimi arrivammo a farne quasi centocinquanta! Una volta suonai in Belgio e Dirk De Ruyck, ai tempi A&R della Eskimo Recordings, mi raggiunse svariate volte in consolle per chiedermi che pezzo stessi suonando ed io gli rispondevo puntualmente che fosse un re-edit fatto da me e Marco. Il suo entusiasmo a quel punto fu tale da istigare la nascita del progetto “Cosmic Disco ?! Nah… Cosmic Rock!!!”, una raccolta di diciotto tracce in CD di cui sei riversate su due vinili. Quando decidiamo di fare un brano partiamo sempre da qualcosa che abbiamo sentito, un disco appena uscito o un ritrovamento di trent’anni fa. Ricerchiamo lo stesso mood, i suoni e magari imitiamo qualche campione. Poi abbozziamo una melodia e sperimentiamo echi, flanger o vari plugin. Tante volte cancelliamo tutto perché non soddisfatti del risultato ma in altre occasioni invece scatta la vena creativa ed arriviamo a chiudere il pezzo, anche con radicali modifiche rispetto alla matrice di partenza. Ciò ci fa enormemente piacere perché vuol dire che siamo riusciti a fare qualcosa di veramente nostro. Anche con Dario Piana e DJ Rocca il procedimento è lo stesso, con la differenza che di solito ci sentiamo via web con una video telefonata. Mi mandano un abbozzo della traccia, la ascolto e magari consiglio di cambiare il basso o suggerisco un sequencer, un arpeggio o di migliorare la melodia. Andiamo avanti finché siamo entrambi soddisfatti. Qualora ritenessi utile l’intervento di un musicista invece, mi rivolgo ad un bassista, un sassofonista, un chitarrista o, perché no, ad un tastierista.

Conservi almeno una copia di ognuno dei dischi che hai inciso nel corso degli anni?
Certo, li ho tutti anche in doppia copia.

Tanti tuoi colleghi della vecchia guardia hanno ridotto drasticamente o abbandonato del tutto la produzione discografica, ormai non più economicamente vantaggiosa, preferendo dedicarsi alla (ben più remunerativa) attività delle performance. Cosa alimenta invece la tua mai sopita passione per la composizione?
Mi piace, mi appassiona e mi diverte. Nient’altro.

Baldelli nella sala 2
Baldelli in una delle sale del seminterrato in cui è custodita la sua collezione di dischi

Stai lavorando a qualche nuovo brano al momento?
Recentemente è uscito “Oil Painting”, un album realizzato insieme a Marco Fratty per la londinese Leng. Con Dionigi invece ho remixato “La Vita Nuova” di Christine And The Queens. A breve uscirà un EP per una performer australiana chiamata Gaff-E realizzato con Mattia Dallara del Deposito Zero Studios di Forlì. In cantiere ci sono sempre pezzi con DJ Rocca, Dario Piana, Marco Dionigi, Marco Fratty e coi musicisti con cui realizzo i nuovi progetti come Daniele Baldelli.

Dove e come immagini la tua collezione di dischi tra qualche decennio?
Spero sia in buone mani e che mio figlio ne possa usufruire dal punto di vista culturale o economico.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

Weather Report - SweetnighterWeather Report – Sweetnighter
Un album che reputo importante perché mi ha aperto nuovi orizzonti e svelato un modo diverso di recepire la musica. Era il 1973, frequentavo il liceo scientifico e quel giorno decisi di “bigiare” la scuola per paura di un’interrogazione. Passai tutta la mattinata a casa di un amico che mi aveva lasciato le chiavi e nella penombra della stanza, seduto sul divano, ascoltai “Sweetnighter” per quattro volte di seguito. Fu un viaggio indescrivibile.

Smokey Robinson - Big TimeSmokey Robinson – Big Time
Fondatore del gruppo dei Miracles, Robinson realizza questo album come colonna sonora del film “Big Time” uscito nel ’77 e la cui realizzazione fu resa possibile dal budget stanziato dalla Motown che poi, ovviamente, pubblicò anche il disco. Il brano di apertura, “Theme From Big Time”, lungo poco più di otto minuti e che mettevo spesso facendolo partire dal break, mi ha colpito per le sue sonorità e il groove. Suonatissimo alla Baia Degli Angeli e al Cosmic, lo ripropongo ancora oggi nei miei DJ set.

Eberhard Weber Colours - Silent FeetEberhard Weber Colours – Silent Feet
Qui siamo su un altro pianeta, del resto con la ECM Records non potrebbe essere altrimenti. Eberhard Weber al basso, Rainer Brüninghaus al piano e Charlie Mariano al flauto e al sax soprano creano una grande atmosfera. Nel 1981 preparai due cassette da novanta minuti ciascuna da ascoltare in macchina, chiamandole “Cosmic Flying Trip”, volume 1 e 2. Erano fatte entrambe con brani d’ascolto, privi di veri mix ma dissolvenze o al massimo sovrapposizioni o particolari accostamenti. Tra i tanti brani racchiusi lì dentro c’era anche “Silent Feet”.

Kevin Harrison - Ink Man - Views Of The RhineKevin Harrison – Ink Man / Views Of The Rhine
Correva il 1982, pieno periodo Cosmic. Del 12″ electro pop in questione ho usato sia “Ink Man” che “Views Of The Rhine”, quest’ultima specialmente per la sua atmosfera spaziale. “Ink Man” invece appartiene all’infinita lista di re-edit fatti con Marco Dionigi e poi confluiti nel progetto su Eskimo Recordings di cui ho parlato prima. In occasione di una mia serata a Londra ebbi l’opportunità di incontrare personalmente Kevin Harrison e sembrò potesse persino nascere una collaborazione, purtroppo mai concretizzata.

Slave - The ConceptSlave – The Concept
Quando, nel ’78, comprai questo LP degli Slave, ad attirarmi più di tutte fu la prima traccia del lato A, “Stellar Fungk”. In un secondo momento acquistai il 12″ contenente la stessa traccia di otto minuti solcata su entrambi i lati. Groove, funk tagliente, spaziale e travolgente, forse non particolarmente apprezzato dai miei fan di allora ma per me super. Credo sia proprio il caso di farne un remix.

Fluke - Electric GuitarFluke – Electric Guitar
Avrei potuto scegliere altre cento tra tutte le produzioni elettroniche/trance degli anni Novanta, ma per spiegare meglio la mia tendenza ad una ricerca particolare del sound ho optato per questo dei Fluke. Il brano originale va ascoltato a 45 giri e gira a 123 BPM ma non incontra esattamente il mio gusto personale. Se però riduco la velocità a 33 giri e lo aumento col pitch sino a +9,9 (il massimo sul mio giradischi Technics SP-15) il risultato diventa stupendo. “Electric Guitar” si trasforma in un brano a 108 BPM con un suono che si dilata e si espande, riuscendo a far captare sfumature che non si scorgono alla sua velocità originale. Ai tempi dell’uscita del disco, nel 1993, lo mixavo con un pezzo di Alan Parson, e così anche i Fluke divennero “cosmici”.

Passport - Infinity MachinePassport – Infinity Machine
“Infinity Machine” è stato il primo album dei Passport che ho acquistato, nel 1976. Dopo averlo ascoltato non ho potuto fare a meno di ricercare tutti quelli precedenti, usciti sin dal 1971, nonché continuare a comprare i seguenti sino ai giorni nostri. L’imprinting resta ancorato al pezzo di apertura, “Ju-Ju-Man”, ma ogni album di questa formazione fusion/jazz rock fondata da Klaus Doldinger contiene ben più di qualche chicca.

Various - The American Music CompilationVarious – The American Music Compilation
Trattasi di una compilation del 1982 su etichetta Eurock in cui trovai “Alternative Music For The Hindenberg Lounge” di Richard Bone, una traccia aggressiva ed oscura diventata famosa al Cosmic perché la sovrapponevo a “Foreign Affair” di Mike Oldfield. Remixai pure questa, insieme a Dionigi, per il progetto su Eskimo Recordings del 2008. Con grande sorpresa ai tempi ricevetti una email da Richard Bone che, entusiasta del lavoro svolto, ci diede il permesso di remixare tutti i brani del suo repertorio che volevamo. Così, nel 2011, fu la volta di “Adaptors: The Music Of Richard Bone”, su Quantistic Division, un album inciso su CD con tredici delle sue tracce remixate da me e Marco.

Needa - Come On And RockNeeda – Come On And Rock
Un disco del 1979 che propongo ancora oggi. Forse non suona molto bene perché risulta un po’ impastato e grezzo ma è proprio questo a creare una particolare atmosfera. Mi spiace non averlo in doppia copia ma probabilmente ai tempi ne arrivarono poche da Disco Più. Al momento su Discogs la versione col centrino arancione è in vendita a prezzi esorbitanti: dai duecento ai circa novecento euro.

Frankie Knuckles - Your LoveFrankie Knuckles – Your Love
Non mi posso certamente annoverare tra i DJ house non essendo stato partecipe appieno di quella scena. Tuttavia non sono proprio riuscito a sfuggire e a resistere all’intensità lirica di questo immortale brano dell’indimenticato Knuckles.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Bottin

Bottin nel suo studio. Tra i 7″ che stringe tra le mani si scorge quello di “Musica Spaziale” di Patrizia Pellegrino (CGD, 1982) diventato un cult per i collezionisti – foto di Enrico Gandolfi


Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?

Escludendo la musica per bambini, il primo è stato “Arena” dei Duran Duran. È uscito nel 1984 quindi avrò avuto sette-otto anni. Ricordo di averlo visto in vetrina in uno storico negozio di Padova, il Ventritré Dischi, piuttosto noto per il grande assortimento ed i prezzi sempre scontati. Il gestore, Maurizio Boldrin, è batterista della scena Bacchiglione Beat (il Bacchiglione è un fiume nel padovano e l’espressione faceva il verso al Mersey Beat di Liverpool). Chiaramente queste sono storie che ho scoperto più tardi, da adolescente, quando ho continuato a frequentare il negozio negli anni Novanta per comprare jazz, acid jazz ed hip hop, in particolare il filone dei De La Soul e Digable Planets. Fu proprio grazie ai campionamenti dell’hip hop che entrai in contatto con la musica degli anni Settanta. Sono nato nel 1977, troppo tardi per aver vissuto direttamente l’epoca degli Steely Dan e degli Earth, Wind & Fire.

L’ultimo invece?
Da tempo non compro più dischi nuovi. Gli ultimi sono stati l’LP degli Zement, un gruppo krautrock tedesco che ho sentito in un locale a Berlino e che mi ricordava i migliori Neu!, e la compilation “Witchcraft & Black Magic In The United Kingdom”, edita dalla Eighth Tower Records. Continuo però a comprare parecchi dischi vecchi, su Discogs, eBay e, più volentieri, ai mercatini. Non frequento negozi di dischi (a Venezia non ce ne sono quasi più) né fiere. Lo facevo tempo fa ma, tra confusione ed entusiasmo, spesso finivo per comprare tante cose di cui avrei potuto fare a meno.

Quanti dischi conta la tua raccolta?
Non sono un collezionista. Inizialmente ho visto i dischi come meri “strumenti di lavoro” per le serate da DJ ma anche e soprattutto per registrare campionamenti. Dischi perché molte cose in digitale e su CD non si trovavano ed ancora oggi parecchie sono di difficile reperimento, ma vale per tutti i supporti fisici come per i file. Rispetto a molti DJ non ho molti dischi e in confronto ai collezionisti ne ho davvero pochi, circa duemila. Non saprei dire però quanto mi siano costati. Alcuni mi sono stati regalati da amici ed ex DJ, parecchi li ho presi a mercatini e negozi non specializzati quindi per pochi spiccioli. Altri ancora li ho pagati a prezzo pieno (se non gonfiato) a fiere del disco o su internet. Controllando su Discogs, risulta che il valore mediano della mia raccolta sia di circa otto euro al pezzo. Mi sembra tanto, rispetto ai miei ricordi di acquisto. Ho sempre cercato di trattare i dischi come una partita di giro, rivendendo i titoli appena un po’ costosi. Se scopro di avere un disco che vale più di trenta/quaranta euro lo metto volentieri in vendita per comprarne quattro o cinque nuovi. Non mi sono mai affezionato troppo ai dischi, come oggetti in sé non hanno mai esercitato un grande fascino su di me. Banalmente mi interessa la musica che contengono anche se anch’io sono legato a certi artwork. Ma quella è grafica, fotografia, e il suo habitat principale è la carta. La musica invece esiste davvero solo nell’aria, quella sugli scaffali o negli archivi digitali è merce. Bella anche, ma di tutt’altra natura dalla musica.

Bottin 2
Uno sguardo sulla raccolta di dischi di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Usi un metodo per ordinarla ed indicizzarla?
Ho un inventario aggiornato tramite Discogs. Mi piace poter ritrovare un disco a colpo sicuro e senza perdere troppo tempo. Questo è importante soprattutto per registrare un campionamento al volo durante una produzione: se ci metto troppo a trovarlo rischio quasi di dimenticarmi cosa stavo cercando. Comunque, nonostante l’organizzazione, capita lo stesso di perdermi e finire per ascoltare tutt’altro. Ho un unico grande scaffale così diviso: le mie produzioni nella prima fila in alto (la più scomoda da raggiungere) e sotto, nella parte centrale, ho tutta la disco music e il funk (fino al 1980-81 circa) in ordine alfabetico per artista. Poi la musica dance anni Ottanta, separata tra produzioni italiane ed estere. C’è quindi una piccola sezione compilation e dischi con brani di più autori, ambient, library, re-edit e una manciata di titoli techno ed house anni Novanta. Poi il pop italiano ed estero e i promo che mi sono stati regalati da artisti ed etichette. In basso, infine, ho due cassette da latteria in cui tengo i 7″ e poi altre due coi dischi non ancora ordinati o di scarso gradimento da cui però talvolta spuntano delle sorprese. Anche il gusto personale cambia col tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione? Esegui lavaggi periodici ed utilizzi copertine plastificate per scongiurare problemi di umidità?
Quasi nulla di tutto ciò. Utilizzo qualche busta trasparente per alcuni 12″ ma spesso le trovo già al momento dell’acquisto. Certi 7″ li tengo in bustine di cartoncino, separati dalla copertine perché quest’ultime tendono a strapparsi. Ho pochissime esperienze di lavaggio e tutte molto artigianali, senza prodotti speciali, giusto per togliere un po’ di sporco prima di passare qualcosa in digitale. Ripeto: non sono un collezionista e non ho passione per la conservazione maniacale. Ci sono persone molto competenti su questi aspetti che non approverebbero le mie pratiche.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Sono stato fortunato nel periodo in cui giravo il mondo con la borsa dei dischi, mai uno smarrimento aeroportuale, mai un furto. L’episodio che si avvicina di più ad una perdita avvenne in occasione di una serata al Club To Club di Torino. Il driver lasciò l’auto in divieto di sosta nei pressi del ristorante e alla fine della cena ci accorgemmo che era passato il carro attrezzi portandosi via la macchina e i miei dischi. Per fortuna fu possibile rintracciare il deposito e farci dare le cose in tempo per la serata. Da quella volta, anche se ormai suono quasi sempre da hard disk o USB, porto sempre con me, oltre a un drive di emergenza, anche due CD con l’indispensabile per fare comunque un DJ set di due ore. Non si sa mai.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno in particolare, non essendo un collezionista né amante della merce e della “roba”, nel senso verghiano della parola. Capita che certi collezionisti mi chiedano di poter comprare qualche disco. Vengono in studio e lascio loro spulciare liberamente nel mio materiale, sono disposto a liberarmi di qualsiasi titolo. È accaduto per esempio con l’amico Lorenzo Sannino di Napoli Segreta che si è portato a casa alcuni dei miei dischi preferiti in assoluto, ma sono stato contento perché sono finiti in buone mani e in fondo io li avevo già ascoltati a sufficienza. La cosa che mi piace di più dei dischi è che, oltre a girare sul piatto, girano anche il mondo, passando di mano in mano. È questa la loro forza, sopportare viaggi, traslochi e resistere nel tempo, anche se abbandonati in una cantina. Prima o poi qualcuno li riscopre e ricomincia la passione anche per generi o artisti minori ormai dati per dispersi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessun gran pentimento. Se un disco non mi piace lo metto nella scatola degli “indesiderati” e non ci penso più.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Quelli che vorrei avere ormai sono quasi tutti a portata di Discogs. Se qualcuno dovesse diventare davvero irrinunciabile lo comprerò a prezzo di mercato.

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Bottin con “One Black Dot” dei Mothmen (1982) – foto di Enrico Gandolfi

Quello con la copertina più bella?
Nella mia lista c’è una sola sottocategoria, quella dei keepers. Sono poco meno di duecento titoli che vorrei tenermi anche se riuscissi a vendere tutto il resto della mia raccolta (se qualcuno fosse interessato si faccia avanti, l’idea di alleggerirmi è sempre presente). Tra questi keepers, molti hanno una copertina particolare come ad esempio “One Black Dot” dei Mothmen.

Quello che non venderesti per nessuna ragione?
Non cederò mai, neppure sotto la minaccia delle armi, il 7″ degli Avida, “A Fumme Mariuà / La Bustina” (1982) perché me l’ha donato l’autore, il caro amico Maurizio Dami aka Alexander Robotnick.

Nutri una particolare attenzione per i 7″, molti dei quali legati a sigle televisive. Da cosa nasce tale interesse?
Quella per i 7″ è una mezza passione sbocciata negli ultimi anni. Quando capito in un negozio o in un mercatino ormai guardo solo i 45 giri. Trovo siano bistrattati sia dai DJ, sia dai collezionisti (a parte ovviamente gli amanti del reggae). Proprio per questo motivo si possono scoprire ancora tesori in materia di funk, disco e colonne sonore. Molte sigle televisive, ad esempio, sono uscite solo in quel formato. Avviene inoltre che alcune buone stampe su 7″ suonino meglio degli LP, specie se nell’album il brano interessato è tra gli ultimi della facciata. In generale lo trovo un formato comodo e leggero. Mi è capitato di fare dei set a feste di amici solo con 7″ usando come flight case le scatole di latta dei Baicoli, i celebri biscottini veneziani.

i 45 giri di Bottin
Alcuni dei 7″ di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Da ascoltatore a compositore: c’è stato qualcosa o qualcuno a spingerti all’attività in studio di registrazione?
Ho iniziato a produrre musica all’inizio degli anni Novanta, con un Amiga della Commodore. A quattordici anni ero parte della demo scene dell’epoca, una faccenda tutta nerd, animata da sparuti gruppi di programmatori, grafici e musicisti. Ci scambiavamo i rispettivi lavori per posta, inviando e ricevendo floppy disc da tutta Europa. Filippo De Fassi, attuale titolare di Phonopress, condivideva la stessa passione. In quegli anni da lui ho imparato parecchie cose sulla musica in generale. Si usava un software chiamato Soundtracker che gestiva quattro tracce mono su cui si programmavano pattern di brevi campioni a sedici bit. Poi sono passato alle band di funk/acid jazz in cui suonavo le tastiere. Intorno al 1997-1998 ho cominciato ad usare Cubase e a frequentare lo studio di un amico, Alberto Roveroni, e lì ho realizzato le primissime produzioni poi distribuite su CD e cassetta.

Credo che una delle tue primissime pubblicazioni sia stata “Chill Reception” di Bluecat, album pubblicato dalla bolognese Irma nel 2001.
Bluecat fu interamente realizzato con un sintetizzatore Kurzweil K2000 ed un campionatore Akai S2000. Le mie prime produzioni erano una specie di drum’n’bass, jungle e trip hop sopra cui suonavo la tromba con la sordina. Un paio di quei brani sono finiti nel citato LP per la Irma. Prima di quello avevo prodotto, sempre per Irma, alcune tracce di cocktail music. Un altro mio mentore è stato (ed è tuttora) Bob Benozzo, fu lui a consigliarmi sin dall’inizio l’uso di alcuni strumenti e software. Ancora oggi mi aiuta nei mixaggi che non mi fido a chiudere da solo. Sono molto contento di sapere che molti tra i giovani musicisti che ho conosciuto da ragazzino stiano lavorando con la musica ancora oggi, ognuno a suo modo e senza aver avuto particolari agganci e facilitazioni. Penso di essere stato fortunato a conoscere e ad imparare da persone diventate poi dei bravi professionisti. Non vengo da una famiglia musicale e, fatta eccezione per qualche anno di pianoforte, i miei maestri sono stati i dischi e questi amici.

Bottin - I Love Me Vol. 1
La copertina di”I Love Me Vol. 1″, del 2004

Nel 2004 esce “I Love Me Vol. 1” che, tra le altre cose, contiene un remake di “Lunedì Cinema” degli Stadio & Lucio Dalla ricantata da quest’ultimo, con cui peraltro collabori per portare in scena l’opera teatrale “Speak Truth To Power: Voices From Beyond The Dark” come spiegato qui. A quel Vol. 1 però non darai mai seguito, tornando discograficamente operativo solo nel 2009 con l’album “Horror Disco”. Come mai per cinque anni non incidesti più nulla?
“I Love Me Vol. 1” fu il primo di una lunga serie di tentativi (più o meno falliti) di emancipazione dalle etichette discografiche. Fu autoprodotto da me con Irma e Sony limitati al ruolo di distributori. La distribuzione fu infatti capillare ma sostanzialmente sbagliata: finì in tutti i negozi ma nella sezione di rock estero, in ordine alfabetico tra Bon Jovi e David Bowie. Temo di averne ancora uno scatolone nel garage dei miei genitori. Iniziai a lavorare con Lucio Dalla già un paio d’anni prima. Per un grande concerto in occasione dell’anniversario di Tazio Nuvolari riarrangiai l’intero album “Automobili” di Dalla/Roversi, mettendo insieme una band “futurista” di ben dieci elementi (tra cui B C Manjunath alle percussioni indiane, il turntablist Rock Drive e il videomaker Francesco Meneghini) che rimaneggiavano dal vivo materiali audio e video d’epoca concessi da Istituto Luce. Con Dalla sono diventato amico quasi subito ed ho continuato a collaborare su progetti speciali e produzioni teatrali. In quei cinque anni prima di “Horror Disco” in realtà ho realizzato un album uscito successivamente, quello di Tinpong con la vocalist Joy ‘Oy’ Frempong. Anche un remix per Donatella Rettore, poi diventato sigla di MTV Italia, oltre a tanti lavori di sound design, pubblicità ed installazioni. Bene o male, è stato un periodo in cui ero sempre in studio anche se non come artista in prima persona.

Bottin - Horror Disco
La copertina di “Horror Disco” (Bear Funk, 2009)

Come nacque, invece, “Horror Disco”?
Inizialmente “Horror Disco” doveva essere un’etichetta. Avevo realizzato parecchi brani in bilico tra disco music e colonne sonore. Stevie Kotey, il DJ dei Chicken Lips a cui mandai due CD pieni di quel materiale, pensò che Horror Disco potesse diventare una sublabel della sua Bear Funk. Era un’idea relativamente nuova all’epoca, antecedente e forse anche ispiratrice delle varie Giallo Disco, Voodoo, Discorror, etc. Poi il progetto fu (giustamente) ridimensionato a due EP su 12″ e ad un album su CD e doppio LP. Al momento della release ero già entrato come producer nella scena space disco col singolo “Fondamente Nove” per Eskimo Recordings e soprattutto con “No Static” su Italians Do It Better a cui devo l’inizio della mia esperienza come DJ internazionale.

Fatte poche eccezioni, la tua discografia è cresciuta attraverso etichette estere, dalle britanniche Bear Funk, Z Records e Nang alle statunitensi Italians Do It Better, 2MR e Chit Chat Records passando per la belga Eskimo Recordings e l’olandese Bordello A Parigi. Caso fortuito o scelta intenzionale?
All’epoca in Italia non c’erano label disposte a pubblicare quei generi e a dire il vero anche oggi ce ne sono poche. Mandavo i miei brani a quelle che mi sembravano potessero essere ricettive e che già stampavano dischi che mi appassionavano. Un paio mi hanno risposto e pubblicato. Su Eskimo Recordings in quel momento usciva il materiale di Lindstrøm & Prins Thomas che mi piacevano, Italians Do It Better invece aveva un’estetica visiva che mi sembrava compatibile al mio immaginario. Nessuna scelta esterofila quindi, non ho mai creduto molto ai confini ed alle identità nazionali, con qualche piccola eccezione. Mi sembra una specie di astrologia: siccome si è nati sotto una costellazione o sopra un territorio nazionale, allora si dovrebbero avere un’identità e un destino con caratteristiche predefinite? Non ne sono affatto convinto.

L’italo disco è uno dei tuoi generi di riferimento. Bistrattata e in alcuni casi persino rinnegata da chi la produsse, è tornata in vita una ventina di anni fa ma su iniziativa di DJ, collezionisti ed appassionati esteri, soprattutto nordeuropei. Perché, secondo te, i primi a non accorgersi del valore e della portata rivoluzionaria di certi pezzi sono paradossalmente proprio gli italiani? Banale esterofilia che ci affligge da tempo immemore?
Secondo me l’italo disco non è propriamente un genere musicale ma include tutta la musica dance prodotta in Italia tra il 1977 e il 1987 circa. Dentro c’è di tutto, i Tantra, i Change, Rago & Farina, Alexander Robotnick, Baltimora, Tipinifini, Albert One, Raf e Raffaella Carrà. Un mondo vastissimo fatto di tante musiche quasi tutte di matrice pop ma parecchio eterogenee. Quanto all’esterofilia, certamente è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. A causa dell’esterofilia molti artisti italiani non fanno tante serate in patria giacché è più cool mettere in cartellone artisti di provenienza estera. Sempre per esterofilia, alcuni italiani girano il mondo perché appare cool (o almeno così pareva) per i non-italiani chiamare un DJ italiano, anche se magari è meno bravo di alcuni resident del posto. Sto esagerando, chiaramente è anche la musica che si produce ad attecchire in certi contesti più che in altri. In Italia, nella musica da ballo, siamo quasi sempre stati al seguito di stili che avevano già avuto successo altrove, ma alcune produzioni italiane si spingevano oltre l’imitazione assumendo una propria identità e in qualche caso riuscendo ad imporsi all’estero come “suono italiano”. Tutta l’italo disco nasce come scimmiottamento di musica dance anglosassone. Ora, magari, certi anglosassoni scimmiottano l’italo disco. Questi cicli di influenze reciproche sono perfettamente normali, appartengono a quell’accumulo di strati di cui è fatta ogni cultura.

Cristalli Liquidi
Buona parte della discografia di Cristalli Liquidi

Nel 2010 crei Artifact, piccola etichetta che si fa notare coi dischi di Cristalli Liquidi accompagnati da ironiche parodie grafiche che rimandano ad un’industria ormai scomparsa e quasi del tutto dimenticata (Discomagic, Numero Uno, Discotto). Quali ragioni ti hanno spinto all’autoproduzione piuttosto che ad affidarti ad altre label?
Come accennavo prima, ogni tanto cerco di emanciparmi dalle label. A volte va piuttosto male, altre invece meglio come con Cristalli Liquidi. Doveva essere un progetto di un solo singolo, “Volevi Una Hit”, autoprodotto perché nessuno intendeva pubblicarlo, nemmeno la Italians Do It Better che temeva problemi con gli LCD Soundsystem a cui il brano è largamente ispirato visto che nasce come cover di “You Wanted A Hit” anche se poi tanto cover non è, ha una sua identità, un suo ritornello e un testo che esulano dall’originale. Ricevuta l’approvazione direttamente da James Murphy, l’ho pubblicato senza indugi. Artifact però non è proprio la mia label e non è nemmeno un’etichetta vera. Più che altro è un accordo di P&D (press & distribution) stretto con un broker olandese. Serve a pubblicare Cristalli Liquidi, i miei re-edit e ultimamente anche brani a mio nome. Forse, in un vicino futuro, anche pezzi di altri artisti. Per questi motivi non la considero un’etichetta, non ha un’identità né tantomeno un’immagine. È solo un modo di uscire sul piccolo mercato della distribuzione fisica di dischi.

Ad Artifact si affianca, nel 2012, pure una seconda “etichetta”, la Tin. Corrono sostanziali differenze tra le due?
Nessuna. Tin è stata semplicemente una serie di 12″ monofacciata coloratissimi con le versioni estese dei singoli dell’album “Punica Fides”. Pure in questo caso parlerei di un tentativo di emancipazione, in parte riuscito ma poi rientrato con la successiva pubblicazione del citato album su Bear Funk. Ora Tin è sostanzialmente inattiva ma resta Artifact.

Ormai le tirature dei 12″ destinati al DJing si sono assottigliate sino a raggiungere la media delle appena trecento copie, soglia risibile se confrontata a quelle dei decenni pre-millennio. Insomma, oggi incidere dischi è tutto fuorché economicamente incentivante e redditizio, gli introiti devono essere recuperati da altri ambiti connessi come le sincronizzazioni (cinema, tv), lo streaming e il download (può essere preso in considerazione sotto una certa soglia?) ed intrattenimento che però, al momento, è messo fuori gioco dal coronavirus. Ritieni che tutto ciò, per chi ha vissuto l’epoca in cui i limiti tecnologici relegavano la musica alla tattilità, abbia logorato la creatività? Per un artista è demoralizzante sapere di non poter più contare su un pubblico disposto a spendere del denaro per acquistare la sua musica?
Un po’ lo è ma contemporaneamente l’abbassamento qualitativo delle produzioni fa sì che ci voglia poco a produrre dischi appena migliori della media, avendone le capacità. Certo, bisogna essere un po’ musicisti, saper scrivere delle linee di basso interessanti, delle melodie anche minime ma comunque efficaci, non basta assemblare loop ed attivare arpeggiatori software. È altrettanto possibile fare buoni lavori di puro sampling o re-editing estremo e creativo. Visti gli introiti minimi di streaming e download, oggi si distribuiscono tanti re-edit e si usano campionamenti in modo piuttosto disinvolto, a volte fin troppo. Quanto al mercato dello streaming, non bisogna dimenticare che si tratta di un’industria sostenuta in buona parte dai grandi dischi registrati nel passato. Con l’economia discografica attuale sarebbe letteralmente impossibile produrre e promuovere musica così come si faceva una volta contando sui volumi di vendita dell’epoca. Inoltre la musica liquida dei servizi di streaming non è posseduta da chi la ascolta e nemmeno da chi paga un abbonamento. Se un giorno le piattaforme dovessero chiudere battenti o andare offline, gli utenti perderebbero tutta la loro raccolta di brani, album e playlist. Cadrebbe il silenzio. Invece i dischi e i CD che si possiedono restano, anche nel futuro per figli, nipoti, pronipoti o per chi li potrà ritrovare in un negozio dell’usato.

Che futuro prevedi per la musica incisa su supporto fisico? Per quanto tempo il disco in vinile potrà continuare ad alimentare l’interesse degli appassionati?
Penso durerà quasi per sempre, magari in quantità ulteriormente ridotte. Oggi c’è perfino un piccolo mercato di stampe per dischi a 78 giri destinati al grammofono. La forza del disco, come dicevo prima, è offerta dalla resistenza a lunghi transiti nello spazio e nel tempo. Un disco passa di mano in mano, di generazione in generazione e, anche se per qualche anno finisce abbandonato, prima o poi viene riscoperto da qualcuno, recuperato in un mercatino, poi recensito ed incensato, suonato anche decine di anni dopo essere stato prodotto. Un disco può avere tante vite e questo coi file, per ora, non succede o comunque accade molto meno. Un artista dovrebbe avere l’obiettivo di essere ascoltato ancora tra mille anni e non solo di entrare nella playlist della settimana o nella chat del selector di moda. Un produttore sa intimamente sa se ha fatto un bello o cattivo lavoro, se ha copiato una formula o se ha aggiunto almeno qualche ingrediente personale, questo al di là del successo o dell’insuccesso ottenuto. Poi è chiaro che bisogna anche cercare di vivere con la musica e questo richiede dei compromessi, degli adattamenti, un allineamento con lo spirito dei tempi. Ma le necessità, per così dire, “alimentari” non dovrebbero mai dettare tutta la linea, a maggior ragione se un disco si pubblica ormai in appena trecento copie. Perché scendere a compromessi col mercato per quantità così basse? Eppure escono ancora tanti dischi tutti uguali. Il disco, bello o brutto, originale o banale, continua a farsi perché gli artisti continuano a volerlo, accollandosi sempre più spesso le spese di produzione e di stampa. Alcune etichette ormai chiedono all’artista di partecipare ai costi, del resto avviene da tempo per le case editrici e per le mostre d’arte di seconda categoria. Poi ci sono label che campano quasi esclusivamente di ristampe più o meno legali di dischi desiderabili (magari perché rari) che hanno un potenziale di acquirenti già assodato. Quelle sono operazioni di mercato che da un lato rispetto perché proteggono dall’oblio certi titoli e li rendono di più facile reperimento, dall’altro però non si può ignorare che ogni ristampa venduta è un disco di musica nuova invenduto e magari nemmeno distribuito. Vale anche per i re-edit, genere che frequento attivamente, pur conscio di quanto sia in diretta concorrenza con le produzioni originali. Ed è una concorrenza un po’ sleale, almeno artisticamente, però gli edit vendono facilmente e con quelli magari ci si fa conoscere prima di uscire con un disco “vero” o si finanza la stampa di un disco più difficile da smerciare.

Tra i tuoi collaboratori più ricorrenti ci sono Maurizio Dami, Roberto ‘Bob’ Benozzo (intervistati rispettivamente qui e qui) e Rodion ma val la pena ricordare anche gli interventi vocali dell’indimenticato Douglas Meakin in “Disco For The Devil” (da “Horror Disco”) e di Lavinia Claws. Ci sono artisti del presente o del passato con cui ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto condividere l’attività in studio?
Con Robotnick la collaborazione nasce dall’amicizia, con Rodion ho realizzato diverse produzioni in passato ma poi ci siamo persi quando si è trasferito all’estero. Mi piacerebbe lavorare ancora con lui, ci siamo sempre divertiti facendo cose che ritengo belle. Ho collaborato pure con Francesco De Bellis (Francisco, L.U.C.A.) per “BFR (Space)” e “Zombie Erotic”, e proprio in queste settimane stiamo ultimando due nuovi brani. Da poco ho coprodotto un EP con Fabrizio Mammarella ed ho registrato una canzone in italiano con Debora Petrina. C’è inoltre un nuovo progetto personale che uscirà presto sotto uno pseudonimo. Non ho molti sogni nel cassetto, forse perché ho sempre avuto tante cose in cantiere. Mi è anche capitato di incontrare alcuni di quelli che erano stati i miei miti musicali ma che, senza fare nomi, in alcuni casi si sono rivelati mezze delusioni. Forse avevano perso lo smalto di un tempo oppure li avevo idealizzati troppo. Certi dischi, soprattutto quelli del passato, non sono il frutto di una sola persona ma il risultato di una squadra fatta di tanti talenti, magari passati in secondo piano.

Ragazza Madre EP
“Ragazza / Madre” è l’EP più recente di Cristalli Liquidi. Appena quaranta le copie del 10″ pubblicato da Industrie Discografiche Lacerba

In questa intervista di Fabio De Luca, pubblicata da Rockit il 17 gennaio 2018, sveli molte curiosità su una delle tue “creature” meglio riuscite, Cristalli Liquidi. Pochi mesi fa la tua “band/non band” è tornata con “Ragazza / Madre”, un EP pubblicato questa volta in CD dalla fiorentina Industrie Discografiche Lacerba, di cui esiste una limitatissima tiratura di appena 40 (!) copie in formato 10″. Puoi raccontare, anche dettagliatamente, il contenuto?
Cristalli Liquidi è un progetto strano, per certi versi imprevisto. Come raccontavo prima, doveva essere un unico disco, misterioso ed anonimo, poi sono diventati due, tre, quattro ed addirittura un album con alcuni brani scritti e prodotti insieme a Robotnick ed altri nati in collaborazione coi Polosid. Fino ad allora ero rimasto dietro le quinte. Poi con “Tubinga” (rivisitazione dell’omonimo di Lucio Battisti, dall’album “Hegel”) mi sono “rivelato” in un video performativo, un unico take realizzato con la performer Laura Pante e la fotografia di Giovanni Andreotta. Si è tenuto anche un piccolo tour in cui mi sono esibito come cantante (non l’avrei mai immaginato di farlo!) accompagnato alla batteria dall’amico Frank Agrario. È successo tutto così, senza progettarlo. Potrebbe essere già finito oppure ricominciare. Da qualche tempo collaboro con Lapo Belmestieri di Lacerba, è un grafico di pregio e cura bene ogni cosa. Così è nato “Ragazza/Madre” che vuole essere la conclusione della liason col repertorio di Lucio Battisti e Pasquale Panella. La scelta di fare quaranta copie su vinile 10″ è di Lacerba, ma esiste anche il digitale.

Estrai dalla tua raccolta dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Marisa Interligi - Occhio Di SerpenteMarisa Interligi – Occhio Di Serpente
Malcelata cover o un mezzo plagio ai danni degli Earth, Wind &Fire? Comprai il 7″, edito dalla Arc nel 1982, ad un mercatino senza sapere a cosa sarei andato
incontro.

Riz Ortolani - Quei Giorni Insieme A TeRiz Ortolani – Quei Giorni Insieme A Te
Un pezzo tratto dalla colonna sonora di “Non Si Sevizia Un Paperino”, un bel film del 1972 diretto da Lucio Fulci. Lo presi esclusivamente per la meravigliosa copertina che ritrae una Florinda Bolkan furente in una classica grafica di stampo cinematografico.

Giusto Pio - Auto-MotionGiusto Pio – Auto-Motion
Un brano del 1984 utilizzato come sigla del programma televisivo di proto informatica Chips, storpiato in Clips sulla copertina. Una distopia tra l’apocalittico e il fantascientifico cantata da Franco Battiato.

Jenny Nevasco - Crazy MusicJenny Nevasco – Crazy Music
Discreto brano funk un po’ esotico, pubblicato nel 1977. La copertina è di Mati Klarwein, lo stesso che ha illustrato, tra gli altri, “Bitches Brew” e “Live-Evil” di Miles Davis, “Abraxas” di Santana, “Last Days And Time” degli Earth, Wind &Fire e “Dream Theory In Malaya” di Jon Hassell. Chissà come è finito su questo 7″ della Yep Record.

MA.GI.C. - ShampooMA.GI.C. – Shampoo
Un pezzo che mi mette sempre di buon umore, cantato dal grande Douglas Meakin sulla musica dei fratelli MA(rio) e GI(useppe) C(apuano), i MA.GI.C. per l’appunto. A pubblicarlo è la Mr. Disc Organization nel 1981.

Umberto Balsamo - CrepuscoloUmberto Balsamo – Crepuscolo
“Crepuscolo” è un altro di quei dischi che ho comprato per la copertina, molto elegante. Il brano del ’78, arrangiato da Gian Piero Reverberi, è stato comunque una gradevole scoperta, pare ispirato da “Amarsi Un Po'” di Lucio Battisti.

Colorado - Space Lady LoveColorado – Space Lady Love
Una ruspante produzione space disco in cui appare il nome di Red Canzian dei Pooh nel ruolo di produttore. Lo comprai un mattino al mercatino di Porta Portese e nel pomeriggio era già campionato ed usato nell’EP “Galli” realizzato con Rodion per la Eskimo Recordings.

Alberto Camerini - Computer CapriccioAlberto Camerini – Computer Capriccio
Il brano era contenuto in una compilation su audiocassetta che i distributori di benzina regalavano col cambio d’olio del motore. Fu la colonna sonora di un lungo viaggio coi miei genitori fino a Dubrovnik, in una Fiat 127 lungo tortuose strade costiere cosparse di buche. Una canzone manifesto della generazione elettronica, la prima ad avere un computer in casa. Qualche anno fa ho avuto la possibilità di farmi autografare il disco da Alberto Camerini.

Ayx - Ayx TecaAyx – Ayx Teca
Anche questo 7″ del 1979 è frutto di una pesca miracolosa a Porta Portese, una decina di anni fa. Lo ri-editai subito in una extended version pubblicata solo su vinile nel 2010 su Artifact intitolata “Aextacy”, anagramma del titolo originale. All’epoca ci fu una specie di gara tra i fanatici della disco music italiana per indovinare cosa fosse e chi lo cantasse (sembra la Bertè ma è Gloria Nuti). Oggi è abbastanza noto giacché ripubblicato anche in digitale ma il primo incontro non si scorda mai.

Daniel Sentacruz Ensemble - Uffa Domani È LunedìDaniel Sentacruz Ensemble – Uffa Domani È Lunedì
Un pezzo scoperto nei meandri della discografia di Mara Cubeddu, prodotto da Vince Tempera nel 1978. Ne ho fatto un re-edit lo scorso anno con cui ho rianimato la serie su Artifact, da qualche tempo assopita. Ha però un grosso limite: si può suonare solo di domenica.

(Giosuè Impellizzeri)

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East Side Beat – Ride Like The Wind (Whole Records)

East Side Beat - Ride Like The WindDel debutto discografico di Giovanni Cinaglia alias Cinols, avvenuto nel 1988 attraverso “Pig House” di House Force, abbiamo già parlato dettagliatamente qui. Quell’esperienza nata in seno alla house music, ancora nella fase iniziale nel nostro Paese, trova un seguito pochi anni più tardi quando la Fun Records e la X-Energy Records, entrambe del gruppo Energy Production, pubblicano rispettivamente “L.O.V.E.” di 3J Featuring MC Sabina (1990) e “You Make Me Feel” di Double Sense (1991, remixato dal belga Frank De Wulf) in cui Cinaglia dimostra di aver affinato le conoscenze tecniche sia per realizzare prodotti in linea con gli standard del mercato di allora, sia per fornire maggiore consistenza alle proprie idee.

«Dopo “Pig House” sentii l’esigenza di dare più personalità alle mie produzioni ma per fare ciò non potevo continuare a rivolgermi ad uno studio e a tecnici che di house music non ne avevano mai sentito parlare, perdipiù spendendo cifre stratosferiche» racconta oggi l’autore. «Così, nel 1988, pensai di allestire un mio personale studio casalingo o meglio, uno “studio scantinato”. Avevo già due giradischi Technics SL-1200 MK2 (che possiedo tuttora), un mixerino Tascam a quattro canali, un paio di registratori JVC ed Aiwa, due casse Cerwin Vega ed una batteria elettronica Roland TR-909, tutta roba acquistata a partire dal 1981 ma insufficiente per essere considerata l’equipment di un vero studio. Poi implementai il setup con varie macchine Roland (un sequencer MC-500 MKII, una tastiera D-50, un expander D-110, un campionatore S-330), un multieffetto Yamaha SPX 50, un mini mixer Boss-16, un registratore a quattro piste Tascam Portastudio e due casse monitor Yamaha NS-10M (ancora in mano mia!) alimentate da un amplificatore Onkyo. All’inizio non sapevo neanche dove fosse il pulsante d’accensione ma con pazienza, testardaggine e notti insonni imparai presto ad usare tutto e dopo un po’ di mesi di continuo smanettamento realizzai tre bootleg che nel 1989 feci stampare su un 12″ autoprodotto, “Bass Blaster” di Gold Coast Featuring The Cin. Una di quelle tracce venne suonata anche in varie discoteche di tendenza.

Cinols (estate 1988)

Giovanni Cinaglia in una foto dell’estate 1988, anno in cui incide “Pig House” di House Force

L’anno successivo creai la base di “L.O.V.E.” che inviai alla Energy Production di Roma. Uno dei manager, Alvaro Ugolini, mi propose di finalizzare il progetto collaborando con due DJ della capitale, Luca Cucchetti e Massimo Berardi, ed una rapper, MC Sabina, che avrebbe dato al tutto un’impronta hip house. Accettai e dopo circa un mese il mix uscì su etichetta Fun Records. L’anno seguente invece fu la volta di “You Make Me Feel” di Double Sense, sulla X-Energy Records». Il 1991 è anche l’anno in cui Cinaglia avvia una nuova collaborazione ancora più proficua rispetto a quella stretta con l’etichetta romana di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi, ovvero quella con la Media Records di Gianfranco Bortolotti che pubblica “Divin’ In The Beat”, singolo di debutto di un progetto totalmente nuovo, East Side Beat.

«Tutto iniziò nel 1990 quando cominciai a collaborare con un vecchio conoscente, Luca Capretti in arte Rollo, che faceva il DJ. Nello stesso anno entrarono a far parte del team il musicista Francesco Petrocchi e il cantante italoamericano Carl Fanini: erano nati gli East Side Beat. Il nome omaggiava la nostra provenienza geografica visto che io, Carl e Rollo vivevamo a San Benedetto Del Tronto mentre Francesco era di Ascoli Piceno, tutti nell’Italia dell’est insomma. Il primo lavoro realizzato insieme fu un brano intitolato “Don’t Leave Me Now” che mandammo alla Media Records. Dopo pochi giorni fummo contattati da una ragazza dello staff che ci portò i complimenti di Bortolotti per la qualità del pezzo, ma per una possibile pubblicazione era necessario diventare un po’ più pop. Il responso tutto sommato positivo ci diede carica e in un paio di mesi approntammo “Divin’ In The Beat”. Era la primavera del 1991, imperversava il cosiddetto “zanzarismo” e il punto di riferimento per produttori e DJ dance italiani era Albertino col suo DeeJay Time in onda su Radio DeeJay. Per distinguerci dalla massa però occorreva rischiare e fare qualcosa di diverso, così pensammo ad un brano downtempo dal sapore britannico e partorimmo “Divin’ In The Beat” che scalò diverse classifiche radiofoniche sia nostrane (Radio 105, Radio Kiss Kiss) che europee».

Cinaglia e Fanini @ Emphasy Studio (primavera 1992)

Giovanni Cinaglia e Carl Fanini nell’Emphasy Studio (primavera 1992)

A cambiare in modo definitivo lo status quo del team marchigiano però sarà “Ride Like The Wind”, remake dell’omonimo di Christopher Cross del ’79, che lancia il fenomeno delle cover, esploso in modo definitivo tra ’92 e ’93, e che diventa un successo internazionale licenziato in tutta Europa e persino negli States. «L’idea di “Ride Like The Wind” giunse poco dopo aver inciso “Divin’ In The Beat”» spiega ancora Cinaglia. «Stavamo provando in studio e campionammo una base ritmica degli Snap! che mettemmo in loop. Con Petrocchi iniziammo a suonarci sopra un riff di organo simile a quello di “Gypsy Woman” di Crystal Waters ma in levare anziché in battere. Mentre il tutto “girava” mi avvicinai allo scaffale dei miei dischi pensando ad un brano con cui facevo saltare ed urlare la gente in pista quando facevo il DJ e lì spuntò fuori l’album di Christopher Cross. In pochi giorni terminammo la cover e quando la proponemmo a Bortolotti luì realizzò subito che si trattasse di una “bomba”. Ci chiese di consegnargli immediatamente il master e quindi contattammo di gran lena lo studio della Spray Records di Pescara: in tre giorni e tre notti le registrazioni erano completate. Oltre alle apparecchiature già descritte prima usammo anche un sintetizzatore Korg M1 per il pianoforte, una Yamaha DX7 per l’organo ed un Roland Juno-106 per il suono acid (ai tempi l’automazione era un lusso quindi il cambio di inviluppo del suono era totalmente manuale). Il disco uscì alla fine di giugno del 1991, durante l’estate esplose nelle isole Baleari (Maiorca ed Ibiza) e poi, in autunno, in tutta Europa. A licenziarlo furono etichette importantissime come FFRR, Blanco Y Negro ed Airplay Records. Arrivò al secondo posto della classifica in Gran Bretagna dove ci venne assegnato il disco d’argento, e rimase per ben quattro mesi primo in classifica in Francia dove un giovane David Guetta lo presentava in tv in uno dei programmi musicali più seguiti di allora. Con “Ride Like The Wind” decretammo la fine dello “zanzarismo” e l’inizio delle cover house, un trend che durò per almeno un biennio. È difficile stabilire con esattezza le copie vendute, ma in ogni caso penso oltre un milione.

East Side Beat (1992)

Una foto del 1992 che mostra l’immagine pubblica degli East Side Beat: Carl Fanini, cantante, e Francesco Petrocchi, tastierista. Saranno loro a portare il progetto in formato live in tutta Europa. Giovanni ‘Cinols’ Cinaglia e Luca ‘Rollo’ Capretti invece restano dietro le quinte ricoprendo ruolo di produttori

La Media Records comunque, approfittando dell’ingenuità di novellini che eravamo, registrò a nostra insaputa il marchio East Side Beat e ci divise in due team: da un lato Carl Fanini e Francesco Petrocchi come artisti ed immagine pubblica (live performance, copertine dei dischi), dall’altro Rollo ed io come produttori artistici. Per oltre un anno gli East Side Beat girarono l’Europa in lungo e in largo riscuotendo successo ovunque (si veda qui per un’esibizione presso la spagnola Telecinco, o qui a Top Of The Pops, in Gran Bretagna, nda) ma non mancò il rovescio della medaglia visto che divenne quasi impossibile ritrovarsi tutti e quattro insieme». Nel 1992 il gruppo torna sul mercato discografico col terzo singolo a cui collabora anche un giovane Mauro Picotto, entrato a far parte della Media Records poco tempo prima. Trattasi di “I Didn’t Know”, cover dell’omonimo dei Ph.D. uscito quasi dieci anni prima (1983). «Il lato a del disco fu registrato negli studi della Media Records, il lato b invece usciva dal mio Emphasy Studio e venne realizzato con le medesime macchine di “Ride Like The Wind” a cui si aggiunse un campionatore Akai S1000, i multieffetto Yamaha SPX 90 e Lexicon LX1 ed un mixer professionale della Ecler. Le vendite andarono benissimo però noi ambivamo ad incidere brani inediti e non cover ma la London Records, proprietaria della FFRR, che ormai aveva potere decisionale sulle produzioni East Side Beat, non ne voleva proprio sapere anzi, arrivò persino a mandarci un elenco di cover da realizzare per il futuro album. Vista l’inflessibilità dei “poteri forti”, Rollo ed io decidemmo di lasciare. Per noi quella era una strada senza via d’uscita, gli East Side Beat sarebbero stati etichettati come cover band (peraltro di brani scontatissimi!) e a guadagnarci, in virtù dei diritti connessi, sarebbero state solo le case discografiche e gli autori originali. Credemmo, a ragion veduta, che fosse stata decretata la fine del nostro sogno, quello di quattro semplici ragazzi di provincia, e firmammo la liberatoria».

L’abbandono di Cinaglia e Capretti non ferma comunque la corsa degli East Side Beat che nel ’92 transitano dalla Whole Records alla main label del gruppo di Bortolotti, l’omonima Media Records, con un’altra cover, “Alive & Kicking” dei Simple Minds. Il brano, prodotto tra Italia (Mauro Picotto, Paola Peroni, Roby Arduini) e Gran Bretagna (Phil Kelsey alias PKA, quello di “Let Me Hear You (Say Yeah)” di cui abbiamo parlato qui) figura nella tracklist del primo ed unico album del gruppo, l’eponimo “East Side Beat”, rilevato dalla RCA e contenitore dei singoli editi nel 1993, “You Are My Everything”, remake di “You’re My Everything” di Lee Garrett e che tra i remix annovera le prestigiose firme dei Murk e di Ian levine, e la ballata romantica “My Girl”. Entrambi sono interpretati vocalmente ancora da Carl Fanini che contemporaneamente diventa la voce e l’immagine di un altro progetto di punta della Media Records, Club House, come raccontato qui. Nel ’94 è tempo dell’inedito “So Good”, interamente prodotto negli studi di Roncadelle da Bruno Guerrini e Tiziano Pagani e l’ultimo cantato da Fanini. Stilisticamente è parecchio distante dai precedenti, con un tiro nettamente più eurodance che però pare non giovare affatto. Gli ultimi due singoli escono nel ’95 sulla Team Records di Sandy Dian, affiliata alla Media Records, ed entrambi si rituffano nel mondo delle cover probabilmente con l’ambizione di replicare i fasti di “Ride Like The Wind”, ma sia “Back For Good” che “I Want To Know What Love Is”, rispettivamente remake degli omonimi dei Take That e dei Foreigner, non raccolgono consensi. Il marchio East Side Beat cade nell’oblio. Riappare solo nel 2016 sulla Distar Records di Pagany e Roby Arduini con nuove versioni di “Ride Like The Wind”, brano che più recentemente viene rimesso in circolazione per mano degli Iklektrik di Belfast con una versione (a conti fatti una cover della cover!) pubblicata dalla EDMedia del gruppo Media Records EVO.

«Come spiegato prima, tutto quello che avvenne dopo “I Didn’t Know” non mi appartiene, ma nonostante la defezione dal progetto East Side Beat continuai, con Rollo, a collaborare con Fanini e Petrocchi nonché a lavorare con la Media Records ed altre etichette italiane» prosegue Cinaglia. «Incidemmo svariate produzioni cercando di mantenere sempre una leggera distanza dalle mode e dai generi che imperversavano al momento, e questo fu un fattore che ci permise di ottenere recensioni positive dalle riviste specializzate europee e, in alcuni casi, anche d’oltreoceano». Per la Media Records Cinols e Rollo realizzano, tra 1992 e 1994, “Congo Bongo” e “Matynisa” di The African Juice, il rockeggiante “Rock House Party” di Theorema, “The Only One” (cantata da Marco Scainetti) ed “I Believe” di Base Of Dreams. Poi, a distanza di quattro anni, tornano su Signal con “Don’t Stop” in cui incastrano un sample vocale di “Reach Up” di Toney Lee. «Per la bolognese Irma invece incidemmo sia “Hypno Party” di Still Crash, su Calypso Records, in cui vi era il brano “Love Is A Mystery” cantato da Fanini e finito in un set di Paul Oakenfold, sia “Lost Inside Your Love” di 4 Ever, su Absolut Joy, cantato da Barbara Carassi» aggiunge Cinaglia. «Alla belga Dance Scene Recordings demmo “Ovation” di Hot Weaks (1992), all’italiana Koma Records “Let The Music Play” di JCJ & Rollo Feat. Jenny J. (1996) ed infine alla Jeda Records “Mon Cheri” di The Bumps (2002).

Cinols (febbraio 2009)

Cinols nel suo studio (febbraio 2009)

Non posso negare che il mondo discografico sia affascinante e divertente, ti dà facoltà di conoscere tante persone di ogni genere, di frequentare discoteche, studi di registrazione e radiofonici e ti fa sentire al settimo cielo, ma nel contempo è pure un ambiente infestato da iene pronte ad accoltellarti alla schiena. Comunque rifarei tutto ciò che ho fatto con la stessa passione, umiltà e riservatezza ma con delle differenze di carattere tecnico e contrattuale. Per tecnico intendo che investirei di più su apparecchiature e corsi da fonico perché proporre un progetto musicale con una buona qualità sonora ti introduce agli addetti ai lavori in modo più professionale; per contrattuale invece non permetterei mai a nessuno di fare scelte editoriali o di appropriarsi senza il mio consenso di marchi, artisti e progetti che mi appartengono. Per il resto, riformerei i “fantastici quattro” e tornerei volentieri a pranzo con Gianfranco Bortolotti e Diego Leoni, anche domani, perché da loro ho appreso molte cose, mi sono divertito e li considero tra i più grandi produttori di musica dance in Europa. Qualche anno fa io e Carl siamo rientrati in possesso del marchio East Side Beat pubblicando varie cose come “Your Eyes Don’t Lie” e “Never Give Up”. Abbiamo anche vari inediti rimasti nel cassetto come “Ain’t Nobody”, “This Is My Life”, “The Way You Are” e “Lost And Found”. Tra 2012 e 2013 Rollo ha abbandonato definitivamente l’attività di produttore. Io invece mi diletto ancora a comporre, non come prima anche perché non è più redditizio, ma va bene ugualmente così, sono felice e soddisfatto di quanto abbia fatto» conclude Cinaglia. (Giosuè Impellizzeri)

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