Flavio Vecchi – DJ chart gennaio 1992

Flavio Vecchi, Tutto Disco, gennaio 1992

DJ: Flavio Vecchi
Fonte: Tutto Disco
Data: gennaio 1992


1) Masters At Work – Our Mute Horn
Pur essendo uno dei primi dischi che Vega e Gonzalez realizzano come Masters At Work, la vocazione è già ben evidente, tutta ad appannaggio di un sound ballabile ma cucito a doppio filo col mondo del jazz e del soul. In “Our Mute Horn”, incisa sul lato b e dedicata a Miles Davis scomparso poco tempo prima dell’uscita del 12″, campeggia la tromba di Ray Vega che si insinua perfettamente negli snodi ritmici da cui riaffiora, quasi in sordina, un frammento di “The Music Got Me” dei Visual prodotti dall’altrettanto indimenticato Boyd Jarvis. Oltre ad un bonus beat di una manciata di minuti, sul mix c’è anche un’Ambient Dubb particolarmente suadente. A pubblicare il disco è la Cutting Records dei fratelli Aldo e Amado Marin, quella che nel 1983 mette in circolazione “Al-Naafiysh (The Soul)” di Hashim e ricordata anche come rampa di lancio del compianto Nitro Deluxe (si sentano “Journey To Cybotron”, “On A Mission” e il più noto “Let’s Get Brutal”) e soprattutto dei 2 In A Room, protagonisti negli anni Novanta della seconda ondata hip house con hit come “Wiggle It”, “El Trago (The Drink)”, “Ahora! (Now!)”, “Giddy Up” e “Carnival”.

2) Basil Hardhaus – Make Me Dance
“Make Me Dance” è il secondo dei due dischi che Basil Thomas destina alla newyorkese Nu Groove. Operativo come DJ in club della Grande Mela passati ormai alla storia come il Nell’s, il Red Zone e il Sound Factory, l’artista fonde nella title track le matrici del periodo pre house (Paradise Garage, The Choice) con le sollecitazioni deep che vanno delineandosi nei primi anni Novanta. Il brano è cantato dai fratelli Rheji e Ronald Burrell ai quali si aggiungono i lead vocal di Sylvia Simone, campionati nel ’93 dagli italiani Mars Plastic in “Find The Way”. Sul 12″ presenzia pure una dub intitolata Hard For The D.J. in cui scorrono i nomi di tanti eroi della house a stelle e strisce di quegli anni, da John Robinson a Bobby Konders, da Tony Humphries a Kenny Carpenter, da DJ Disciple a Ralphi Rosario passando per Pal Joey, Frankie Knuckles, David Morales, Dave Camacho, Roger Sanchez ed altri ancora. Di Thomas, oggi attivo come Brutha Basil, vale davvero la pena rammentare anche la parentesi artistica vissuta nella seconda metà degli anni Novanta quando, spalleggiato dalla King Street Sounds, firma struggenti brani come “All True (African)” e “Sex”, entrambi dedicati alla memoria del suo mentore Larry Levan.

3) Riviera Traxx – Vol. 1
Trattasi del primo atto di una serie andata avanti sino al 1997 e risvegliata dal letargo giusto pochi mesi addietro attraverso il quinto volume contenente, tra le altre, tracce di Cirillo, Memoryman aka Uovo, Bartolomeo e Vecchi affiancato da Peter Kharma. “Parfume 1” accarezza le orecchie dell’ascoltatore con un delicato quanto gustoso appetizer a base di deep house rivierasca, composta tenendo bene a mente le esigenze del pubblico dell’Ethos Mama menzionato in copertina e tra i crediti. Parecchio simile la ricetta di “Parfume 2”, spassionata italo (deep) house strumentale tornata in gran spolvero negli ultimi anni. Meno squadrato e provvisto di più sinuosità il suono di “Hey Hey”, in cui pare sia celato un vocalizzo di Mariah Carey abilmente campionato da “Someday”, mentre “Love” chiude ricamando graziosi gorgoglii della deep house nostrana di circa trent’anni or sono. Artefici di tutto sono Flavio Vecchi e Ricky Montanari (da lì a breve uniti anche in Love Quartet di cui abbiamo parlato qui), affiancati dal ginevrino Patrick Duvoisin e dal londinese Kid Batchelor. A pubblicare il disco invece è la Antima Records del gruppo Irma, tra le portavoci più credibili e rispettate di quella particolare fase creativa in cui gli italiani diedero grande segno di maturità espressiva. A ripubblicarlo, nel 2014, ci pensa la Flash Forward.

4) Omniverse – Venere
Rispetto a “Never Get Enough” dell’anno prima, con un’anima balearica, “Venere”, secondo (ed ultimo) disco che Ricky Montanari e Claudio “Moz-Art” Rispoli firmano Omniverse, vanta un istinto più dichiaratamente deep house seppur all’interno fioriscano piccoli accorgimenti tendenti ad atmosfere chillout. “Antares”, sul lato b, si immerge in una soluzione sonica altrettanto dolciastra dove uno stralcio vocale tratto da “For The Same Man” di B Beat Girls diventa un elemento decorativo e di raccordo tra due blocchi ritmici intervallati da un break centrale di stasi illuminata da luce diafana. Analogamente a Riviera Traxx, “Venere” viene pubblicato dalla sopramenzionata Antima Records e ristampato nel 2016 dalla Flash Forward che, rispettando i canoni estetici dell’originale, duplica pure l’artwork a firma Kekko Montefiori.

5) Michael Watford – Holdin’ On
È il disco di debutto per Michael Watford, una delle voci maschili più rappresentative della house degli anni Novanta. A produrlo, per l’Atlantic, è Roger Sanchez che qualche tempo dopo coinvolgerà lo stesso Watford, Jay Williams e Colonel Abrams nel progetto The Brotherhood Of Soul per “I’ll Be Right There”. “Holdin’ On” è un tripudio della garage newyorkese, house abbracciata fraternamente al soul e al gospel in quello che è diventato un inno anthemico nei circuiti più elitari. La carriera di Watford si anima grazie ad un sostanzioso repertorio di cui si evidenziano il fortunato “So Into You”, “Come Together” in coppia con Robert Owens ed “Understand Me” interpretata per gli italiani I-D (Ivan Iacobucci e Danny Vitale, di cui parliamo qui) ma pure un album, l’unico, uscito nel 1994 e considerato un must per i seguaci del genere.

6) Disciples Ov Gaia – The Key
Nato da una costola degli Psychick Warriors Ov Gaia, il progetto Disciples Ov Gaia, qui ulteriormente celato dietro l’acronimo D.O.G., debutta con un pezzo eccelso ma passato inosservato. Nella versione coi vocalizzi di una certa Mary.Lou, “The Key” appare come un distillato tra gli echi jazzy à la “Plastic Dreams” di Jaydee e il seducente lirismo di Jamie Principle. Molto simile la Lunar Dub mentre la Intention Mix muove verso ricalibrature technoidi tirandosi dietro hammer filo industriali. Artefici di tutto ciò sono Robbert Heynen e Tim Freeman mentre l’etichetta è la belga Zazaboem, sublabel della nota KK.

7) Don Carlos – ?
In assenza del titolo non è possibile identificare il disco in questione ma è plausibile ipotizzare che si tratti di “Alone”, brano con cui Carlo Troja, da Varese, riavvia la propria carriera discografica dopo la fugace e poco fortunata esperienza in ambito italo disco risalente al 1986. Come dettagliatamente raccontato qui con le testimonianze dello stesso autore, “Alone” è un paradisiaco ed estatico trip che rappresenta più che bene la scuola deep house italiana, con inflessioni ambient e qualche immancabile rimando al suono imperante del pianoforte, iconico per quello che alcuni giornalisti, specialmente anglosassoni, definirono sprezzantemente “spaghetti house”.

8) Jamie Principle – You’re All I’ve Waited 4
Principle è autore di uno dei brani più simbolici dell’house music, “Your Love”, giunto sul mercato nel 1986 sulla Persona Records ma passato alla storia grazie alla versione prodotta da Frankie Knuckles uscita solo nel 1987. Considerato uno dei pionieri della scena house chicagoana e coadiuvato da un altro pilastro della dance della città del vento, Steve “Silk” Hurley, Principle oltrepassa presto i confini patri sbarcando dall’altra parte dell’Atlantico con brani che finiscono nelle classifiche come “Baby Wants To Ride” preso in licenza dalla britannica FFRR. È proprio Hurley a produrre “You’re All I’ve Waited 4”, pezzo che anticipa l’uscita dell’album “The Midnite Hour” in cui peraltro è incluso, che arride ad un ascolto trasversale in virtù della song structure e per cui viene girato anche un video. Oltre ad una Dubstrumental dello stesso Hurley, sul 12″ edito dalla Smash Records (che in quel periodo pubblica un altro successo internazionale, “People Are Still Having Sex” di LaTour) finiscono pure i remix di E-Smoove e Maurice Joshua.

9) J.T. – Let Me Groove U
Il ventiduenne Jordan Tepper, nato nel quartiere di Forest Hills, a New York, molla gli studi universitari ad un anno dalla laurea per intraprendere la carriera musicale. Irresistibilmente attratto dall’hip hop, incide alcune demo che un amico di famiglia manda a Gary Baker, avvocato dell’Atlantic. È proprio Baker a consegnare quei nastri a Sylvia Rhone, CEO della EastWest Records America, sussidiaria della stessa Atlantic. Così parte la sua (breve) carriera con “Swing It”, per cui la casa discografica fa realizzare un videoclip. Segue “Let Me Groove U” traghettato nel mondo delle discoteche grazie al remix dei Masters At Work che ne ricavano un buon compromesso a metà strada tra garage house ed hip house. Sembra andare tutto per il verso giusto e Tepper, in questo articolo pubblicato dal New York Times il 28 luglio 1991, viene indicato come un possibile nuovo Vanilla Ice. Poco meno di un mese prima esce l’album “Kick The Funk”, rimasto però l’ultimo tassello di un’esperienza interrotta pare a causa di risultati deludenti. Le lusinghiere affermazioni su personalità e talento fatte su quel quotidiano statunitense acquistano allora un valore diverso e si trasformano in banali frasi di circostanza tipiche del marketing.

10) Mood Swing – Do It Right
Da non confondere col quasi omonimo duo Mood II Swing formato da John Ciafone e Lem Springsteen, Mood Swing è il progetto solista di Marco Rosales, inaugurato proprio attraverso “Do It Right”. La Layed Back è riccamente agghindata da virtuosismi jazzy, la Rhythm Mix è più essenziale e diretta, inchiodata su una sequenza di stab. Maggiormente trippy la Obscure Mix a cui segue, in chiusura, la spirituale Jazz Mix che fa il verso a “The New Age Of Faith” di The Prince Of Dance Music (Nu Groove Records, 1989). Rosales userà per l’ultima volta lo pseudonimo Mood Swing per l’intenso “Inspiration Point”, finito nel catalogo della Nervous Records nel 1992, la stessa che proprio quell’anno pubblica uno dei primi dischi che Ciafone e Springsteen firmano Mood II Swing. Chissà, magari esiste un nesso in ciò, analogo a quello che lega Masters At Work a Todd Terry.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di DJ Rocca

DJ Rocca 1

DJ Rocca e parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primissimo, tutto per me, lo ebbi a circa nove/dieci anni ed era il 7″ con la sigla dello sceneggiato televisivo Sandokan con Kabir Bedi, ma essendo un regalo di mia madre non fu un acquisto fatto con consapevolezza. Considero invece il primo “vero” disco della mia vita da collezionista un altro 7″, “Beyond” di Herb Alpert che comprai quando avevo quindici anni, in occasione della prima gita al mare con gli amici, senza genitori. Ricordo ancora che tornammo a Reggio Emilia da Riccione in treno ed avevo il sacchetto, con dentro il disco, legato al passante dei pantaloni.

L’ultimo invece?
La ristampa del singolo “Look Into My Eyes” del gruppo brit funk 52nd Street. Un bel disco boogie jazzato, uscito sulla mitica Factory di Manchester nel 1982.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Non li ho mai contati ma la stima a spanne mi porta intorno ai dodicimila, cento più, cento meno. La quantificazione di quello che ho speso invece mi spaventa parecchio ma in aiuto viene Discogs in cui ho inserito almeno la metà di quelli che posseggo. Il valore emerso mi fa capire che è meglio non pensarci.

Come è organizzata?
È sistemata in due stanze. Nella prima ci sono tutti i dischi accumulati nel periodo della mia residenza al Maffia, quindi drum n bass, breakbeat e trip hop, a cui si aggiungono tre scomparti per la raccolta di dischi jazz classici (John Coltrane, Charlie Parker, Miles Davis, Bill Evans, Charles Mingus, Thelonious Monk etc), quelli MPB (musica popolare brasiliana), quelli italo disco e quelli jazz funk. Il grosso della collezione è nella seconda stanza dove accumulo i dischi che considero dance e da cui attingo quando faccio la valigia per i miei DJ set. In questo luogo ho azzardato la catalogazione: dischi suddivisi per autore, per genere o per etichetta, quindi tutti quelli di James Brown, Roy Ayers, Herbie Hancock, Fela Kuti, Azymuth, Gil Scott-Heron, Kraftwerk…o tutti quelli usciti su T.K. Disco, AVI Records o 99 Records e così via. Ho tenuto uno scomparto per le colonne sonore, uno per il dub e reggae ed uno per il krautrock. Sostanzialmente c’è una parvenza di ordine ma non riguarda la totalità dei miei dischi. Direi che un 50% sia riposto con un senso, il resto, purtroppo, è ancora alla rinfusa.

DJ Rocca 2

Un paio di scatti che rendono l’idea dell’entità della raccolta di Roccatagliati

Segui particolari procedure per la conservazione?
Certamente. Ho la fortuna di vantare nel mio quartiere un favoloso negozio di dischi usati, Planet Music, gestito da un caro amico che dispone di una macchina lavadischi professionale. È lui a fornirmi anche le migliori buste in plastica trasparente. Il 70% dei miei dischi è custodito nella busta protettiva e lavato all’occorrenza.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Per fortuna o forse perché sono un maniaco della sicurezza. I pochissimi che non trovo più, giusto un paio, sono spariti per mia colpa, smarriti nel buio di chissà quale consolle e in chissà quale club.

DJ Rocca 3

DJ Rocca con “Brown Rice” di Don Cherry, il disco a cui tiene maggiormente

Qual è il disco a cui tieni di più?
Senza dubbio “Brown Rice” di Don Cherry. Lo acquistai circa trentacinque anni fa ma mi sorprende ancora, dandomi le stesse emozioni di quando posai la puntina sui solchi per la prima volta. Ne possiedo diverse copie in vari formati.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Sono diversi ma fortunatamente già spariti. Il negozio del mio amico di cui parlavo prima ha “ritagliato” una sezione coi titoli di cui mi voglio disfare e sembra che un acquirente lo trovino sempre.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
La wantlist è molto lunga nonostante non mi sia quasi mai fatto mancare nulla. C’è però un 12″ del periodo disco funk super raro che costa troppo e che nessuno ha ancora ristampato ufficialmente, “Come On And Rock” di Needa. Sono almeno quindici anni che staziona nella wantlist ed è una cosa piuttosto insolita.

Quello di cui potresti o vorresti disfarti senza troppe remore?
Per fortuna Planet Music smaltisce le “scorie” della mia collezione. Per entrare nel particolare, ho approfittato di questo lusso per vendere buona parte dei singoli drum n bass e breakbeat senza alcuno spessore musicale ricevuti anni addietro in copia promozionale.

DJ Rocca 4

DJ Rocca considera “Life On Mars” di Dexter Wansel il disco con la copertina più bella

Quello con la copertina più bella?
Senza ombra di dubbio “Life On Mars” di Dexter Wansel: quel corridoio illuminato da neon azzurri su sfondo blu, che genera una piacevole sensazione di retrofuturismo, mi riporta alla mente un immaginario sci-fi fluttuante di suoni emozionali, come del resto avviene col contenuto dello stesso album. Ogni volta che riguardo quella copertina mi risale la stessa eccitazione. Esistono ovviamente altre magnifiche cover ma non hanno quel potere.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
I negozi di dischi sono sempre stati un luogo un po’ particolare, specialmente quando si è adolescenti e si incomincia ad affacciarsi nel mondo degli adulti “che sanno”. La maggior parte dei negozi che frequentavo erano quelli della mia città, Reggio Emilia, e tutti noi clienti facevamo affidamento al commesso più anziano il quale, quasi sempre, si considerava un semidio. Potevi incontrare quello con atteggiamenti paternalistici, quello con l’aura del vero esperto o quello con la faccia da schiaffi che poi amavi per tutta la vita. Il rapporto commesso/cliente è una costante obbligatoria che mi è sempre saltata all’occhio e che ha avvolto di fascino il luogo stesso. I negozi di dischi erano come un tempio in cui potevi abbeverarti al sapere ma il Gran Maestro Shaolin capiva, tramite il suo atteggiamento severo, se meritavi di avere accesso ad una porta o ad un’altra. Nel momento in cui ti si apriva quella giusta, il Maestro Shaolin diventava il tuo educatore musicale per sempre, consigliere dei migliori dischi per i tuoi gusti o per farti scoprire nuove religioni sonore. Con l’età e la patente della Vespa, mi spingevo in negozi sempre più grandi come i Magazzini Nannucci a Bologna, Peecker Sound a Formigine o Dimar Dischi a Rimini, veri e propri antesignani degli attuali megastore, dove il rapporto morboso commesso/cliente si diluiva ma, di contro, potevi lanciarti nel rischio di scelte personali visto che riuscivi ad ascoltare in autonomia i dischi scelti e i prezzi erano convenienti. Sarò un malato o un nostalgico ma i pochi negozi che frequento, sia in Italia che all’estero, sono quelli che hanno mantenuto la stessa austera suggestione e che mi danno l’impressione di entrare ancora nel tempio del sapere dove, con deferenza, mi lascio guidare dal Gran Maestro dei Vinili.

Sei tra coloro che apprezzano o che demonizzano l’e-commerce?
Sono favorevole. Se non fosse stato per l’allargamento di offerta su scala mondiale, non avrei mai potuto mettere le mani su articoli che cercavo da sempre. In più l’e-commerce ha dato la possibilità di essere venditori, quindi trovare potenziali acquirenti in ogni dove. Ovviamente il calore e la seduzione del negozio fisico non potranno mai essere sostituiti da quelli virtuali ma un giusto equilibrio tra le due situazioni è ciò che mi auguro. Suppongo occorra un’educazione differente per chi compra.

I negozi di dischi che riescono a sopravvivere alla globalizzazione sono sempre meno (giusto poche settimane fa ha abbassato definitivamente la saracinesca anche Mariposa, a Milano) e le prospettive future non sono delle più rosee. Il “colpevole” è l’e-commerce o la disaffezione che il grande pubblico nutre ormai per la musica, un “bene” da ascoltare e consumare online e non più da possedere materialmente?
Ho la sensazione che si stia affrontando ogni cosa, tra cui la musica, con crescente approssimazione. Io per primo ho maggiore difficoltà a concentrarmi, meno voglia di approfondire, di finire un libro o di ascoltare un intero album. Sento la smania di accumulare materiale come se equivalesse ad interiorizzarlo. L’ascolto streaming è molto più agevole e meno vincolante. Chi si spinge a comprare un disco va controcorrente, decide di possedere una cosa impegnativa che va ascoltata per intero, un oggetto che dura per molto tempo e che va preservato. La debacle dei negozi di dischi è relegata a quelli che non si specializzano. Garantisco che gli amici gestori di negozi di dischi usati hanno visto, al contrario, un’impennata delle loro vendite.

Sei tra coloro che continuano ad incidere dischi senza sosta: per gli artisti e le etichette che scommettono ancora sul prodotto fisico, che sia un 12″ o LP, un CD e talvolta una cassetta, esiste ancora un, seppur minimo, riconoscimento economico o il motore di questa attività è unicamente alimentato dalla passione?
Il riconoscimento economico sopravvive. Il disco è come un libro, un’opera che incomincia dal contenitore e si allarga fino al contenuto. La copertina, l’artwork, il formato, la carta… ancora prima di ascoltare il suono che uscirà da quel pezzo di plastica o nastro, tra le mani si stringe un’opera artistica che offre emozioni e lancia un messaggio. Più che una scelta di business, oggi stampare un disco è un’espressione corale, un’opera d’ingegno che coinvolge il musicista, il grafico e il proprietario della stessa etichetta. Tutti insieme fanno arte, aggregando idee che portano ad un risultato. L’abilità e la passione di questo team fa si che il riconoscimento economico sia soddisfacente. In altri termini: i dischi buoni vendono ancora.

Seppur attivo come DJ, hai iniziato ad armeggiare in studio di registrazione relativamente tardi, intorno al 1998 nel progetto/collettivo Maffia Sound System. Come mai non provasti prima a “buttarti” nella discografia?
Effettivamente sono stato “tardivo” per svariate ragioni. Prima tra tutte la discordanza indotta tra il musicista che esercita con uno strumento convenzionale e il musicista che utilizza invece attrezzature elettroniche per creare suoni. Nascendo come flautista e poi come aspirante jazzista, al conservatorio mi hanno (male) educato a considerare merda tutte le altre forme di espressione musicale definendole inferiori. Figuriamoci quella del DJ, che produce musica da ballo. Poi, nei primi anni Novanta, l’apertura mentale mi ha permesso di percepire qualche indizio nel cambiamento e, al contrario di quello che pensavo sino a poco tempo prima, scoprii che con le apparecchiature elettroniche si potesse essere non solo un flautista ma anche un pianista, un batterista, un arrangiatore, un fonico e, in linea generale, uno sperimentatore. Le possibilità di espressione diventavano infinite. Già gli anni Ottanta furono ricchi di autorità elettroniche ma la tecnologia sempre più accessibile ad un prezzo progressivamente più umano mi ha fatto avvicinare a quel mondo fino a quando, grazie al Maffia, ho capito in modo chiaro che il futuro della musica sarebbe stato proprio quello. Finalmente mi sentivo bene e senza più sensi di colpa. I primi tempi furono senza dubbio naïf, con produzioni generate da un PC scassato ed un sampler Akai. Campioni su campioni e suoni mixati male ma con la consapevolezza di trattare una materia grezza che più avrei plasmato e più sarebbe diventata duttile. Sebbene mai contento delle prime creazioni, alcune coraggiose etichette iniziarono a stampare i miei brani. Da quel momento, come quando mi convinsi a prendere lezioni di improvvisazione jazz dopo lo studio della musica classica, decisi che mi sarei dovuto istruire di più andando negli studi dei miei produttori preferiti. Così, con armi e bagagli, mi trasferivo per settimane intere in Gran Bretagna nelle sale di registrazione degli amici Pressure Drop, Zed Bias e Ian Simmonds, per comprendere bene la nuova “forma” di musicista che sarei voluto diventare.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando al Maffia?
“Higher State Of Consciousness” di Josh Wink, un pezzo che ci travolse completamente. Ritmi spezzati, una bassline Roland e tanta attitudine punk quanto techno. Una formula che ogni volta creava sulla pista un clima da rito sciamanico. Il titolo mi fu suggerito da un amico che frequentava la scena londinese nel 1995 e diventò il super classico del Maffia per tutti gli anni a venire, fino alla chiusura nel 2009; “Brown Paper Bag” di Roni Size / Reprazent, una traccia che, come la prima serata al Maffia con DJ Krust nel 1996, ci fece arrivare in modo chiaro e limpido il messaggio che la musica stesse cambiando per una nuova era. Non è un caso che l’album “New Forms”, in cui quel pezzo era contenuto, sia stato premiato col Mercury Prize nel ’97, soffiato a musicisti militanti in scene più tradizionali. Quando la band eseguì il brano, live, nel concerto del ’98 al Vox di Nonantola, noi del Maffia eravamo gli italiani con cui i componenti del gruppo erano in confidenza perché fummo il primo club a dare la residenza alla label di Roni Size, la Full Cycle. Non dimenticherò mai quando Krust, Die e Suv scesero dal palco e vennero subito ad abbracciarci, entusiasti come noi e certi di essere nel futuro; “138 Trek” di DJ Zinc, ossia il prodromo del genere UK garage, l’anello di congiunzione tra il breakbeat, il drum n bass e quello che sarà il dubstep. Quando Zinc veniva al Maffia solitamente suonava drum n bass ma la sera che, come Maffia Sound System, aprimmo il suo set decidendo di passare quel brano, ci fu il black out in tutta Italia (era la notte tra il 27 e il 28 settembre 2003, nda).

Conservi tutti i dischi/CD incisi nella tua carriera?
Certo. Ho sia l’archivio dei CD (anche quelli con un solo mio brano, che ho mixato oppure che ho masterizzato per terzi) fino alla doppia o tripla copia di una mia uscita su vinile. Mi mancano giusto un paio di compilation su CD che contengono mie tracce, una giapponese curata da Dimitri From Paris ed una balearica della Stereo De Luxe. Ma prima o poi le comprerò su Discogs.

C’è un disco (o un brano) nella tua discografia che ritieni possa rappresentare in toto il tuo stile e la tua attitudine?
Io stesso non conosco il mio stile e la mia attitudine, sono tuttora alla scoperta di tanti infiniti linguaggi musicali interessanti e di conseguenza non riesco ad individuare nel mio repertorio un’opera tale da racchiudere tutto ciò che avrei voluto dire. Se dividiamo per generi, la mia attitudine krautrock mi fa amare “Prospective”, il primo album di Crimea X, in merito alla disco invece citerei “Erodiscotique”, l’album prodotto con Dimitri From Paris. Per l’attitudine balearic invece i due album condivisi con Daniele Baldelli, “Podalirius” e “Quagga”, per quella jazz i dischi realizzati con Franco D’Andrea, e potrei andare avanti. Forse però c’è un album particolarmente identificativo che mi riporta agli esordi e mi fa sembrare che fosse già tutto lì: si tratta di “Light Transmission” del progetto creato con l’amico Enrico Marani alias Samora (quello de Le Forbici Di Manitù) ossia 2Blue, che autoproducemmo nel 2003 con la label legata al Maffia, la Kom-Fut Manifesto Records. È possibile ascoltarlo su Spotify cliccando qui.

DJ Rocca @ Maffia (tra 1998 e 2000)

DJ Rocca in consolle al Maffia di Reggio Emilia, in una foto scattata tra 1998 e 2000

Nelle righe precedenti è stato citato più volte il Maffia, club a Reggio Emilia che pionieristicamente smosse le acque in una zona musicalmente dominata dal rock. Come tu stesso dichiari in questa intervista di Robert Baravelli pubblicata il 19 agosto 2015, cercaste di portare un pizzico di quella «musica suonata che incontrava linguaggi moderni più vicini all’elettronica e alle esperienze dei rave e dei club che in Gran Bretagna, Germania e Olanda erano frequentatissimi». La vostra proposta fu interessante quanto coraggiosa, degna del migliore “intrattenimento illuminato” con ospitate di vero pregio, da Ed Rush a Keith Tenniswood, da Les Rythmes Digitales ai Plaid, da Nitin Sawhney a Will White dei Propellerheads passando per Grooverider e Photek, giusto per citarne solo alcuni. Ritieni ci siano ancora i presupposti per fare cultura con l’intrattenimento in Italia? In tanti lamentano una scena ormai allo sbando, con pochissime realtà degne di competere con quelle di venticinque/trent’anni fa rimaste impresse a fuoco nella memoria di un’intera generazione, forse non solo per banale nostalgia. Cosa è cambiato, in negativo, in questo ambiente e quali potrebbero essere le soluzioni? Lo stop forzato dalla pandemia sarà, come più di qualcuno sostiene e si augura, lo stimolo per ripartire con nuove progettualità ed intenti?
È una domanda molto impegnativa, solo un team di sociologi, promoter, storici e musicisti riuscirebbe a dare una risposta adeguata. Io posso cercare di muovermi tra alcune sensazioni personali. Non sono un reazionario ma la prima cosa da tenere presente è il periodo storico incompatibile. Il decennio 1990-2000 è stato denso di cose, di avvenimenti, di progressi, di modi di vivere completamente discordi dai due decenni che oggi ci distanziano da quell’era. La curiosità e la qualità, ad esempio, erano imperativi che oggi stanno evaporando e creano un assoluto divario di approccio se vuoi occuparti di cultura. Altro fattore importante è la distribuzione della ricchezza: vuoi mettere la condizione economica di un medio cittadino tra i venti e i quarant’anni nel 2020, pandemia a parte, e del suo omologo di venti/venticinque anni fa? Di conseguenza la società di oggi non può sostenere modelli obsoleti di intrattenimento. Sta di fatto che è veramente cambiato molto, ma non solo in negativo. Per la mia esperienza, al di là di tutti i fattori temporali, sociali ed economici, mi sento di dire che la testardaggine, la conoscenza approfondita di quello che fai, la volontà di proporre cose interessanti e un pizzico di positività mista ad entusiasmo, possono fare miracoli in tutte le epoche, qualsiasi portafoglio si abbia a disposizione. Magari negli anni Novanta l’intrattenimento culturale innovativo passava per ciò che definiamo club culture ed oggi si affaccia con differenti forme espressive. Non dimentichiamoci che la musica dance oggi è adulta tanto quanto il rock o il jazz, e non offre ottimi segni di celere rinnovamento come invece avvenne nel suo periodo “adolescenziale”. Mi astengo infine dal lanciare ipotesi su ciò che avverrà dopo la pandemia. È già diventato uno sport nazionale fare previsioni, preferisco avere elementi di giudizio certi che, ad oggi, ancora non disponiamo.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

Project Democracy Feat. China - Is This Dream For RealProject Democracy Feat. China – Is This Dream For Real?
Quando compro un disco cerco sempre di scegliere un’opera particolare. Questo è il singolo house della mia collezione che più esprime l’urgenza creativa e la voglia di sperimentare con un linguaggio agli albori. Ho rincorso il vinile per mesi, poi finalmente me lo sono potuto permettere ad un prezzo ancora nei limiti. Non sempre ci sono i presupposti per utilizzarlo nei miei set ma quando arrivo a suonarlo il pezzo sprigiona tutta la malinconia intrisa di ritmo e piacevole alterazione. Ovviamente uso la Psychedub.

Expansives - Life With You ....Expansives – Life With You ….
Anche questo è stato un salasso ma comprare certi dischi è come investire nell’oro. Possiedo la copia promozionale col titolo scritto in modo sbagliato, dove You si trasforma in Jou. Un articolo come questo avrà sempre valore per i collezionisti e per chi, come me, è un appassionato dell’italo disco più ingenua e primitiva. Resta un must. Cerco di proporlo sempre, è un pezzo che sembra fatto ieri, veramente posizionabile in qualsiasi contesto. La registrazione era perfetta e tutte le ristampe giunte negli ultimi anni non ne hanno mai eguagliato la qualità.

Phill & Friends Band - This ManPhill & Friends Band – This Man
Trattasi di un retaggio “baldelliano”, un pezzo che ascoltavo sempre nelle cassette del Cosmic o del Chicago. Naturalmente possiedo la tiratura originale, su Rio Records, perché le ristampe di qualsiasi disco raro ne alterano in negativo la registrazione. “This Man” è una traccia magnifica in bilico tra punk, new wave, disco e funk, che tengo sempre in valigia quando devo suonare in contesti diurni o in particolari notturni. Uno di quei dischi che si ricollega alla domanda sui vantaggi dell’e-commerce e di come il mercato allargato oggi permetta di avvicinarsi a chicche peculiari.

Jiraffe - Out'A The BoxJiraffe – Out’A The Box
Un disco che ho scoperto tramite un caro amico, Marco Febbraro, che mi diede la possibilità di ascoltare un DJ che passò questa gemma nel suo set. Una traccia esemplificativa dello stile che ho studiato con Dimitri From Paris per il nostro repertorio ossia quella post disco/boogie che si stava trasformando in altro, in una specie di genere che definirei proto house. Forse è uno dei dischi a generare maggiore interesse nel pubblico che viene puntualmente a domandarmi il titolo. Lo comprai su eBay da un commerciante che sicuramente non sapeva cosa stesse vendendo: lo pagai meno di cinquanta euro, in copia originale e nuova (a ristamparlo, nel 2016, è proprio il citato Febbraro sulla sua etichetta specializzata in reissue, la Omaggio, nda)

Peshay - Piano TunePeshay – Piano Tune
Un artista indiscusso ed una traccia dirompente. Acquistavo praticamente tutto ciò che usciva per la label di LTJ Bukem, la Good Looking Records, e quasi tutti i singoli pubblicati nei primi anni di attività restano magici. “Piano Tune” però ha quel quid in più: la perfezione della jungle malinconica con un sapiente utilizzo dell’amen break. Ogni volta che lo suono la pista si immerge nel clima che voglio ottenere. Ho conosciuto personalmente Paul Pesce alias Peshay, figlio di immigrati italiani in terra d’Albione, sono stato anche a casa sua. Insieme realizzammo un singolo in tandem utilizzando uno studio allestito per l’occasione al Maffia. Ora che c’è il recupero del drum n bass della prima ora noto che il 12″, risalente al 1995, si piazza tra i più desiderati, e non è certamente un caso.

Frak - Börft EPFrak – Börft EP
A pubblicare questo EP è una label a dir poco bizzarra, la norvegese Sex Tags Mania, che osa sempre nella ricerca di prodotti unici. “Börft” mi ha introdotto al progetto Frak, al loro lessico sincero, privo di fronzoli, diretto e primitivo. In “Synthfrilla” una drum machine, un arpeggio ed una bassline vengono utilizzate da qualcuno che ha da dire la sua. Un fantastico tool per infiammare la pista, rimanendo su un suono moderno quanto antico. Purtroppo scoprii l’esistenza di questo disco in ritardo e quindi fui costretto a pagarlo un prezzo più alto rispetto a quando giunse nei negozi, nel 2012.

Clara Mondshine - Luna AfricanaClara Mondshine – Luna Africana
Sono particolarmente legato a questo album del 1981, uno dei primi di musica elettronica su cui misi le mani in età adolescenziale. L’etichetta che lo stampò, la Innovative Communication di Klaus Schulze, fu una manna dal cielo, con un repertorio di titoli strabilianti di elettronica ritmata e di ricerca. “Die Drachentrommler” lo suonava DJ Pery in un club che segnò il mio gusto musicale dell’epoca, il Melodj Mecca. Inimmaginabile pensare di far ballare il pubblico di oggi con un brano come questo a velocità rallentata ma per un set in particolari luoghi, o un warm up ambient, la sua presenza è assicurata.

Patrice Rushen - What's The Story (Disco Version)Patrice Rushen – What’s The Story (Disco Version)
Ammetto di essere un fan sfegatato della Rushen che considero la versione femminile di Herbie Hancock, il mio idolo assoluto. Nel suo periodo da enfant prodige le permisero di registrare due album sulla Prestige, etichetta su cui incisero capolavori sia John Coltrane che Miles Davis. Le formazioni di questi LP sono stellari e in “What’s The Story” la nostra Patrice si esibisce, oltre che al piano elettrico, anche alla voce sperimentando la formula che in seguito le diede le maggiori soddisfazioni. Il 12″ estratto a cui faccio riferimento rappresenta una mezza rivoluzione, pensando che una label tradizionalmente jazz sfornasse un singolo per le discoteche nel 1976. Come ogni DJ saprà, il 12″ suona molto più “forte” e la versione è quindi indicata per la pista da ballo. La Prestige aveva visto bene ed anche molto lontano: quello di “What’s The Story” è un funk senza tempo, potente, venato di jazz, che strizza l’occhio al broken beat corredato di clap e hats in levare, tanto da avere una grammatica che rimanda alla house music ma con un groove decisamente primordiale ed irresistibile.

La Funk Mob - Casse Les Frontières, Fou Les Têtes En L'AirLa Funk Mob – Casse Les Frontières, Fou Les Têtes En L’Air
L’apertura mentale di James Lavelle e la sua operazione Mo Wax rimarranno nella storia della discografia dance. In questo doppio in formato 10″ edito nel 1994 si stava cavalcando l’onda del trip hop ma con la voglia di rompere i suoi stessi confini, infatti Carl Craig e Richie Hawtin si prodigano per abbattere anche i propri firmando due remix, rispettivamente per “Ravers Suck Our Sound” e “Motor Bass Get Phunked Up”. È proprio l’Electrofunk Remix di quest’ultima, ad opera di Hawtin, il mio preferito, suonato allo sfinimento ed ancora oggi nella valigia dei dischi. Probabilmente arriverò a comprare una seconda copia, rigorosamente su Mo Wax. Un must anche per le favolose grafiche che fecero scuola.

Pressure Drop - UnifyPressure Drop – Unify
Un disco senza tempo, un altro titolo che mi vengono tuttora a domandare quando lo propongo. Pure questo ha un valore affettivo perché mi fu regalato dagli stessi artefici, anche loro amici fraterni e maestri della mia educazione alla produzione. Dave Henley e Justin Langlands si stavano emancipando dal periodo acid jazz utilizzando linguaggi percussivi ed arrangiamenti più vicini alla grammatica house e techno ma orchestrando e mantenendo l’attenzione alla pista da ballo con un piglio dub. Ne uscì un classico che per me rimarrà sempre fondamentale. Nei miei set la Rip Up Instrumental porta la situazione latina senza sfacciatamente “sbragare” ma rimanendo su quel confine che offre facoltà di proseguire in ogni genere.

(Giosuè Impellizzeri)

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Adrian Morrison – DJ chart ottobre 1996

Adrian Morrison, DiscoiD, ottobre 1996
DJ: Adrian Morrison
Fonte: DiscoiD
Data: ottobre 1996

1) Dimitri From Paris – Sacrebleu
Edito nel 1996 dalla Yellow Productions di Bob Sinclar e DJ Yellow, “Sacrebleu” è il primo album di Dimitri Yerasimos, meglio noto come Dimitri From Paris. All’interno si palesa il mondo musicale di riferimento del francese nato ad Istanbul, fatto in prevalenza di downtempo, soul, jazz, funk ed easy listening, ad anticipare quella grande onda chiamata lounge che conquisterà il mainstream qualche anno più tardi. Tuttavia non mancano parentesi che si aprono verso materie ballabili, come “Dirty Larry” (estratto come singolo), “La Rythme Et Le Cadence” e “Le Moody Reggae” altrettanto ricche di digressioni latin e brazil a testimonianza di quale sia la direzione stilistica dell’artista quello stesso anno impegnato col citato Sinclar nel progetto La Yellow 357. A mixare il disco è Philippe Cerboneschi alias Zdar (Cassius, Motorbass, La Funk Mob) scomparso tragicamente pochi mesi fa.

2) Lionrock – Fire Up The Shoesaw
Ricordato per la hit “Packet Of Peace” del 1993, il progetto Lionrock orchestrato da Justin Robertson vede accrescere la fama negli anni Novanta, col costante supporto della Deconstruction. “Fire Up The Shoesaw”, uno dei singoli estratti dall’album “An Instinct For Detection”, si inserisce a pieno titolo in quel filone che la stampa ribattezza chemical beat, allora battuto da Chemical Brothers, Prodigy, Fatboy Slim, Fluke, Apollo 440 o Propellerheads. Il brano fruga con perizia in discografie di artisti stilisticamente lontani dal mondo dell’elettronica (Nancy Sinatra, John Barry e Bram Tchaikovsky), come avviene sovente nel segmento big beat, rivelando poderoso background culturale ed abilità tecnica degli autori. Sul lato b trovano spazio due versioni ritmicamente più lineari, la Discotheque Mix e la Discotheque Dub.

3) Mateo & Matos – Shades Of Time
La coppia di DJ newyorkesi è tra le più prolifiche negli anni Novanta, decade in cui la house music assume nuove forme e declinazioni. In questo 12″, pubblicato dalla Spiritual Life Music di Joe Claussell, jazz e vibe danzereccio vengono sapientemente bilanciati: in “Loft Sensations” (con un probabile rimando tematico al Loft di Dave Mancuso) si lascia spazio agli strumenti acustici, poi è tempo di ancheggiare sul canovaccio percussivo di “New York Style” che, come il titolo stesso lascia supporre, intende rappresentare la house music della Grande Mela.

4) DJ Afid – Wild Bass
Si conosce ben poco di questo disco, stampato dalla Wax Records di Losanna, Svizzera. Praticamente nulle le informazioni anche sull’autore, un tal DJ Afid, che incide due brani, “Wild Bass” e “Maracaibo”, rivisti in altrettante versioni ciascuno.

5) Street Corner Symphony – Symphony For The Devil (The Harvey Remixes)
A realizzare i remix è uno dei maggiori agitatori della club scene londinese degli anni Novanta, DJ Harvey. Sia la Obligatory Mix che la 95% Live Mix risentono in modo evidente di influenze funk, soul e disco, tracciando la via che avrebbe seguito, anni dopo, la nu disco. Autori del brano originale sono Petar Zivkovic e Glen Gunner che, nel 2000, daranno vita ai Block 16 insieme a Ray Mang, appoggiati da un’etichetta d’eccezione come la Nuphonic.

6) Jephté Guillaume – Lakou-A
“Lakou-A” è il singolo di debutto per questo poliedrico artista nativo di Haiti, in grado di incrociare il folk originario della sua terra con la deep house. La combinazione non sfugge al radar di Joe Claussell che lo mette sotto contratto sulla propria Spiritual Life Music. Da “Lakou-A” si schiude un mondo in cui Guillaume orchestra sapientemente un percussionista, un pianista e un trombettista per raggiungere la sublimazione. All’afro house dell’Original Vocal si sommano le toccanti vibrazioni della Frédo’s Jazzy Fingers e della Live Bass Vocal, a cui si aggiungono vari tool destinati ai DJ più creativi.

7) Sunship – Come True
Prolifico artista britannico ed ex membro dei Brand New Heavies, Ceri Evans si fa largo nella scena house/future jazz come Sunship. “Come True”, che lo porta sulla londinese Filter, fa contemporaneamente leva sullo spezzettamento ritmico del broken beat e sulla soavità dei lead che si levano come tappeti onirici. La Sun Dub e la True Dub proseguono nello stesso solco, la prima semplificando i pattern della batteria, la seconda continuando a svolazzare su frammenti di materia grigia dondolati in un dolce sogno. A mo’ di bonus appare infine il remix di “The 13th Key”, un brano edito nel 1992 ora rimaneggiato dai Black Science Orchestra capeggiati da Ashley Beedle che si lasciano andare a virtuosismi jazzy di straordinaria fattura.

8) Reel Houze – The Chance
Sviluppato su un sample preso da “Go Bang!” dei Dinosaur L, “The Chance” è un altro di quei pezzi che, nella Londra di metà anni Novanta, determinano il fermento del cosiddetto nu funk a cui aderisce anche l’italiano Leo Young di cui abbiamo parlato qui e qui. A produrlo sono due vecchie conoscenze della scena britannica, Dominic Dawson e Rob Mello. A stamparlo invece la Zoom Records, nata nel retrobottega dell’omonimo negozio di dischi a Camden.

9) Brooklyn Funk Essentials – ?
In assenza del titolo non è possibile identificare quale sia il pezzo dei Brooklyn Funk Essentials in questione. Peraltro nel 1996, anno di pubblicazione della classifica, il collettivo pare non abbia inciso nulla. È presumibile dunque che Adrian Morrison facesse riferimento all’album “Cool And Steady And Easy”, uscito a fine ’93 e prodotto dal sommo Arthur Baker, o a qualche singolo estratto in seguito, “The Creator Has A Master Plan”, “Dilly Dally” o “Big Apple Boogaloo”.

10) Tri Spiritual Experience – Platform City
Trattasi di un disco presente nel ridottissimo catalogo della Üzziel Records, etichetta apparentemente californiana che conta appena tre pubblicazioni, tutte del ’96 e firmate dal trio Tri Spiritual Experience. “Platform City” è deep house che stringe l’ascoltatore in un fraterno abbraccio ma degna di menzione è pure “Phunktuary”, incisa sul lato opposto, in cui Twister, Heather e DJ Loic flirtano col breakbeat e continui inviluppi di filtri.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Dario Piana

Dario Piana 1
Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Avevo quattordici anni ma più che il sottoscritto a comprarlo fu mia madre, con me al fianco che lo indicavo e non per la copertina ammiccante. Era il 45 giri di Donna Summer, “I Feel Love”, era il 1977, se non ricordo male a cavallo del mio compleanno e in un periodo in cui il mezzo di ascolto era principalmente la semplice radio FM. Ai tempi sentivo altre cose, non dance, via radio per l’appunto o via cassetta, ma il primo a posarsi sul giradischi di casa fu quel 7″ di Donna Summer. Uno dei pezzi che, senza dubbio, iniziò ad avvicinarmi alla dance anche se poi, l’amore vero dopo tre/quattro anni, riguardò tutto ciò che ruotava intorno al fenomeno afro-cosmic sound.

L’ultimo invece?
Un mix, piuttosto raro, di elettronica/downtempo del periodo cosmic, “Systems Breaking Down” di Anna, datato 1982. Un brano a cui ero particolarmente affezionato già ai tempi, forse perché Anna è il nome di mia sorella. A dire il vero è la seconda copia di quel titolo che entra in mio possesso visto che la prima è divenuta ormai inascoltabile, sia per il numero infinito di passaggi in oltre trent’anni, sia per la scarsa qualità di incisione di quel vinile. Purtroppo, proprio come accade ancora oggi, anche in passato c’erano dischi che suonavano bene ed altri meno, parecchi inoltre tendono a deteriorarsi abbastanza velocemente, altri sembra mai.

Dario Piana 5

Una parte della raccolta discografica di Piana

Quanti dischi conta la tua collezione?
I vinili sono circa 23.000 a cui vanno sommati 2000 CD, chiaramente originali e non masterizzati. Resta esclusa da tale numero tutta la dance su 12″ degli ultimi vent’anni, che non considero vero materiale da collezione anche se presto sempre particolare attenzione a ciò che acquisto. Non conta il numero di dischi che si possiede ma quali, e questo concetto lo sostengo da sempre. Nel mio caso la prevalenza della raccolta tocca generi come funk, soul, jazz, rare grooves, bossa e discofunk. Perché? In pieno periodo afro, quindi nei primissimi anni Ottanta, mi innamorai di quel “contenitore musicale” su cui sussisteva una componente etnico-percussiva ma all’interno del quale confluivano pure funk, dub, disco, elettronica, new wave, bossa e molto altro. Insomma, totale sperimentazione e ricerca, slegate dalle hit italiane o internazionali. L’abilità era mixare più generi con lo stesso BPM facendo ricorso ad intelligenza, creatività e tecnica. Non potevi mai abbandonare il pitch control del giradischi e il mixer, le “casse dritte” non esistevano ancora e i BPM variavano in continuazione. Inoltre, nella stragrande parte dei casi, non c’era a disposizione l’intro (ad eccezione della disco) e i drop, i brani duravano in media tre minuti, spesso erano incisi su LP e l’attenzione e la cura per assemblare il proprio mixato era determinante. Seguire i big italiani del periodo per me fu una grande scuola, decisivo per capire quale fosse il mio sound che mi porto ancora dietro, seppur con varie contaminazioni ed arricchito da suoni moderni.

Come è organizzata?
I dischi si trovano tutti all’interno di un’unica stanza, pienissima. Sono posizionati su scaffali metallici industriali e rinforzati, suddivisi per genere musicale e in ordine alfabetico da sinistra a destra. Quando si possiede tanto materiale è necessario trovare un ordine ed una logica affinché la collocazione di un disco si possa individuare con facilità e velocità. Del resto è bello vedere tutto in ordine, l’organizzazione quasi maniacale è insita nell’anima del collezionista. Dei dischi rari e delle perle, inoltre, per me è d’obbligo la seconda copia.

Dario Piana 6 VPI HW-17

La macchina lavadischi utilizzata da Piana, la VPI HW-17

Segui particolari procedure per la conservazione?
Sono abbastanza maniacale anche sotto questo aspetto. Quando si possiedono svariate migliaia di copie e materiale raro non si può certamente affidarsi al caso. Dopo anni di esperimenti e lavaggi approssimativi ho acquistato una meravigliosa record cleaning machine, tuttora tra le più affidabili e performanti, la VPI HW-17. Ha un motore da 18 RPM, manuale, con un suo liquido specifico, ineguagliabile. Con essa, da ormai venti anni, mi assicuro la pulizia alla miglior qualità ma se il disco è irrimediabilmente rovinato nessuno lo potrà salvare, nemmeno un accurato lavaggio. Ogni vinile della mia collezione è archiviato con custodia plastificata trasparente esterna mentre in quella interna è riportata la data dell’ultimo lavaggio. Insomma, quasi feticismo e di questo ne sono consapevole, ma in fin dei conti è l’essenza del collezionista. Ho fatto una buona scorta di custodie interne che sostituisco quando consumate o compromesse dallo sporco dell’utilizzo.

Ti hanno mai rubato un disco?
Fortunatamente no. Alle spalle ho oltre vent’anni di sport da combattimento che di certo ha scoraggiato eventuali ladri. Quando mi trovavo ad una serata con molte borse piene di dischi, provvedevo opportunamente a lucchettarle e in ogni caso non mi allontanavo mai dalla consolle e, nell’eventualità ciò accadesse, chiedevo ad una persona fidata di tenerle d’occhio.

Dario Piana 3

Dario Piana intento ad estrarre uno dei dischi della sua collezione

C’è un disco a cui tieni di più?
È una domanda a cui è difficile dare risposta. Quando si colleziona molto materiale, come nel mio caso, è arduo indicare un disco preferito. Ognuno ha una sua storia, un suo momento, un suo ricordo, un suo ascolto. Potrei dire “Brasilian Sound” di Les Masques/Le Trio Camara, del 1969, un disco rarissimo e stampato in appena 200/300 copie, contraddistinto da un particolare abbinamento tra cori francesi e sezione ritmica brasiliana. Non sono mai riuscito a trovarlo in giro per il mondo, salvo copie non perfettamente conservate e comunque in vendita a cifre intorno ai tre zeri. Poi, quando giunse eBay e ci si alzava ad ore impossibili per aggiudicarsi i prodotti in asta, riuscii ad accaparrarmelo soffiandolo ad un giapponese alle 4:30 del mattino. Feci l’ultimo rilancio appena venti secondi prima della chiusura dell’asta, dopo aver studiato le sue tecniche d’acquisto e il materiale che di solito cercava. Devo ammettere che fu un momento assai gratificante che non ho mai scordato. La stessa persona, due anni dopo, mi offrì una cifra straordinaria per cedergli l’intera collezione, cosa che ovviamente non ho fatto. La collezione di dischi è la mia vita.

Il disco di cui ti sei pentito di aver comprato?
Come credo sia accaduto a tutti, sono diversi ma non tanti. Mi sono imbattuto in negozi sparsi per il mondo in cui non si potevano ascoltare i dischi, a volte perché disponevano di un solo piatto con code interminabili di clienti, a volte perché il piatto era guasto o persino mancante. Non restava che affidarti alla label, all’artista, al produttore o al musicista che conoscevi, ma è risaputo che ogni artista ha nella propria discografia un album oscuro o sottotono. Nel periodo del boom vinilico poi le etichette stampavano tutto e senza limiti, quindi capitava di acquistare dischi non proprio piacevoli o sotto le aspettative. Talvolta ho acquistato in base al produttore o al musicista che seguivo in quel dato momento. Anche le copertine, inoltre, potevano trarre in inganno, in mezzo a centinaia di migliaia di titoli.

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Un altro scorcio della collezione di Dario Piana, coi dischi ordinatamente posizionati su scaffali metallici

Quello che cerchi da anni e sul quale speri di mettere presto le mani?
Senza esitazione dico “All About Money” degli Spontaneous Overthrow, soul-disco con belle voci posate su un groove elettronico anomalo per il periodo ma particolarmente elaborato e con influenze psichedeliche. Uscì nel 1984 su New-Ark Records Inc. (ristampato su vinile nel 2018 dalla Numero Group e su CD nel 2019 dalla P-Vine Records, nda), ma non sono mai riuscito a trovarlo. Nel giro collezionistico è una vera leggenda. L’etichetta, se non ricordo male del New Jersey, ne stampò pochissime copie distribuendole in uno stretto giro. I pochi che lo posseggono se lo tengono ben stretto, quasi come una bottiglia di vino buono da lasciare invecchiare. Su Discogs, qualche anno fa, è stato venduto per 2000 euro. Un amico americano che lo possiede mi ha mandato i file WAV e direi che mi basta, avere tutto è letteralmente impossibile.

Quello di cui potresti (e vorresti) disfarti senza troppe remore?
Qualcuno c’è, tra quelli acquistati a cavallo del periodo rare grooves/original soundtrack. Ai tempi andavano particolarmente di moda, a parte il filone spy-blaxploitation, tutte le colonne sonore italiane e non, dai b-movie ai film erotici passando per la psichedelia. Tranne le colonne sonore da urlo comprate spesso a scatola chiusa per via del prezzo basso, ai tempi azzardavo l’acquisto di qualcosa pur contando su pochi riferimenti. Ad esempio tra le mani ho un “Top T.V. Soundtrack Themes” su Marble Arch Records, del 1970, che regalerei subito.

Quello con la copertina più bella?
È veramente difficile dirlo. Sono centinaia le copertine meritevoli di citazione, create in un periodo in cui l’ampia libertà grafica generava cose di immensa bellezza. Dovendo scegliere, direi ogni disco dei Blue Rondo À La Turk per la fantasia, e quella di “Pop-Eyes” di Danielle Dax perché amo intensamente la psichedelia. Ma ne potrei elencare molte altre. Il formato del 33 giri offrì, in virtù della sua misura, parecchio spazio creativo ai grafici che elaboravano gli artwork. Dal frontale al retro, poi c’erano le varianti dell’apertura con fronte-retro e due interne, copertine sviluppate in verticale all’apertura e tanto altro ancora. Cose che spesso si trasformavano in pura arte.

Che negozi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Alla fine degli anni Settanta c’erano moltissimi negozi di dischi. Tanti erano specializzati in dance e con una piccola parte di catalogo, altri invece si dedicavano solo al catalogo. Nei primi si trovavano i DJ, nei secondi invece i collezionisti, gli amanti del vinile. Persone diverse ma accomunate dallo stesso amore. Nei negozi specializzati in musica dance, il titolare offriva solitamente un grande contributo perché conoscendo il tuo gusto accantonava materiale giornalmente o settimanalmente, a seconda delle uscite. Ma era altrettanto meraviglioso trascorrere le giornate nei negozi in cui potevi sfogliare intere discografie di artisti o scoprire tra gli scaffali dischi di cui non conoscevi neanche l’esistenza. Pensare di fermarsi ai brani/artisti già noti e non allargare le conoscenze era quanto di più limitante possibile potesse esserci in un lavoro creativo come il nostro. La bellezza è proprio scoprire qualcosa di nuovo ogni giorno e sentirsi ignorante e non tuttologo. C’era da sbizzarrirsi ma a parte il negozio di fiducia della propria città o provincia, spesso si organizzavano le “macchinate” con tre/quattro persone, per andare in visita da rivenditori lontani. I DJ erano pochi, i locali invece tanti. Si lavorava anche tre o quattro sere alla settimana in giro per l’Italia, e tra colleghi ci si scambiavano date in diversi locali. Davvero bei tempi.

Quando hai iniziato a comprare materiale per corrispondenza o via internet?
Ho cominciato ad utilizzare la Rete nei primi anni Duemila, anche se in parallelo continuavo ad acquistare direttamente nei negozi di fiducia. Una collezione non finisce mai, almeno in relazione al vinile. Si parla di centinaia di migliaia di titoli per ogni genere musicale, come dicevo prima è impossibile possedere tutto. Poi talvolta il collezionismo può creare assuefazione come la droga, e se non si è in grado di gestire quel tipo di emozione si rischia davvero di farsi male a livello economico.

Rimpiangi il rapporto che un tempo si instaurava tra venditore ed acquirente, ormai annullato dall’e-commerce?
Certamente. Come raccontavo poc’anzi, il negoziante preparato, conoscendoti, riusciva a scremare a monte ciò che non rientrava nel tuo gusto personale quindi non perdevi ore ad ascoltare materiale non in linea col tuo suono, e questo valeva in particolare nel genere dance. Nei negozi per collezionisti però le cose cambiavano. A cavallo del periodo afro, più generi confluivano in un unico “logo”, quindi ti ritrovavi ad ascoltare brani jazz ma nel contempo elettronici, fusion, funk o dub. A parte i sacri consigli e le dritte del negoziante, finivi col sentire pile di materiale per ore ed ore. In quel periodo la vera ricchezza era scoprire un disco, non conosciuto, e proporlo durante i propri set fino a quando diventava richiesto ed amato dal pubblico, e ciò faceva provare una sensazione meravigliosa. Nei primi anni Ottanta mi accorsi che moltissime cose non arrivavano proprio in Italia, così iniziai un’incessante catena di viaggi in giro per il mondo, armato di riviste specializzate e cartine geografiche. Quando entravi in luoghi con svariate centinaia di migliaia di dischi (in primis negli Stati Uniti) però era davvero necessario farsi guidare dal titolare che, nella maggior parte dei casi, vantava una preparazione immensa. E-commerce? Preascoltare per una manciata di secondi non è mai come ascoltare un lato con calma ed una buona cuffia. Ormai tutti pubblicano tutto e se vuoi trascorrere qualche ora setacciando le novità o la top 100 del caso, demordi dopo appena qualche minuto. Preferisco andare speditamente sulle label che amo e sui loro artisti ma non dimenticando molti indipendenti, slegati da autobuy e mode temporanee.

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Il giradischi, strumento che Piana continua ad annoverare nel proprio setup ma non rinunciando o disdegnando le moderne tecnologie digitali

Sei un noto collezionista di dischi ma non hai rinunciato a pubblicare la tua musica in digitale, oltre ad essere endorser per Ableton, Zoom, Allen&Heath e per aziende produttrici di plug-in come Nugen Audio e D16 Group. Come sei riuscito a far convivere l’amore per un oggetto tattile come il disco e l’incorporeità della musica liquida e degli strumenti virtuali? Ormai viviamo un periodo di assoluto fanatismo in cui il disco pare essere diventato, per molti, solo un feticcio da esibire.
Direi che nel 2019 un DJ debba tener conto che oltre al vinile esiste anche il digitale che rappresenta un mercato imponente. Sono svariate le produzioni che escono solo in formato digitale e, pur prediligendo il supporto fisico, non credo sia opportuno rinunciare ad un bel brano solo perché “liquido”. Amo la musica ma slegata dai limiti. La convivenza tra vinile e digitale c’è ed è naturale. Ho avuto la fortuna di iniziare questo lavoro con uno dei generi musicali più creativi e colti, ancora oggi oggetto di interesse da parte del clubbing mondiale. Dopo aver proposto dischi al pubblico per decine di anni, è istintivo pensare di creare qualcosa di personale. La produzione permette questo e nel contempo anche di far girare il tuo nome nel mondo attraverso le proprie creazioni. È bello avere un suono caratteristico, amo sentire e riconoscere la mano di un artista anche dopo una sola manciata di secondi. La tecnologia, dapprima con le macchine, non è mai stata cosa semplice. Devi passare ore e giornate sperimentando, sbagliando, provando, ricercando, fino a quando conosci perfettamente il potenziale di ciò che utilizzi e trovi il tuo sound. Attingere poi da una bella collezione vuol dire utilizzare sample ed idee che poi si potranno usare come stimolo o base per le proprie produzioni. Il passaggio ai plug-in e alle DAW ha aiutato molto ma in ogni caso le ore impiegate nella sola ricerca, anche oggi, non si contano. Lavorando a stretto contatto con le aziende sopraccitate è, oltre che bello, utile, perché quando c’è interazione con lo staff ricerca & sviluppo e sei uno “smanettone” e non l’amante del flyer che ha dei ghost per la realizzazione dei brani, tutto diventa gratificante e il tuo parere viene sempre ascoltato.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato per varie ragioni.
Anche in questo caso faccio difficoltà a sceglierne così pochi. Mi sento quasi in colpa nei confronti di quei dischi che in questo momento sto guardando e sembra che mi stiano dicendo «ed io?». Sottolineo che non si tratta di una classifica e i titoli non sono ordinati per importanza.

Rinocerose - Mes Vacances A RioRinôçérôse – Mes Vacances A Rio
Adoro la versione remix del grande François Kevorkian. Un viaggio di quasi tredici minuti di house raffinatissima, latineggiante, col classico stile Rinôçérôse pieno di variazioni sul tema. Le cose che ascolterei volentieri in loop sul dancefloor e non solo.

Faze Action - Turn The PointFaze Action – Turn The Point
Le produzioni Nuphonic o le ami o le odi, non sono per tutti. Questo è un disco del 1996 curato dai fratelli Rob e Simon Lee, assai difficile per la pista seppur dance. Molte le parti suonate ma non è “dritto” e questo è il suo bello, oltre ad essere arricchito da psichedelia gestita con maestria ed intelligenza.

Daniele Baldelli & Dario Piana - Zero GravityDaniele Baldelli & Dario Piana – Zero Gravity
Amo intensamente “Infinity Machine”, un brano di questo EP realizzato con Daniele Baldelli nel 2017 per la Leng, costantemente presente nelle mie serate. Downtempo, cosmic mood ed un synth acidissimo che sovrasta il pezzo, elemento che mi ha sempre catturato. Molto “groovy” e di buon impatto sul dancefloor.

Harry Thumann - UnderwaterHarry Thumann – Underwater
Un brano largamente utilizzato nel periodo cosmic da tutti i DJ trasversali a livello mondiale, non solo nel filone funk/disco ma anche house. Mi è capitato di sentirlo girare a tantissime velocità diverse ma il risultato è sempre lo stesso. Un pezzo elaboratissimo, pieno di strumenti e variazioni, che mi stupisce ogni volta. Tra quelli senza tempo e che quindi non passeranno mai di moda.

K.I.D. - Hupendi Muziki Wangu (You Don't Like My Music)K.I.D. – Hupendi Muziki Wangu? ! (You Don’t Like My Music)
Sam Records, anno 1981. Un pezzo molto conosciuto dagli amanti del suono disco-funk, una di quelle cose che danno la sensazione di aver letto il futuro, dalla stesura e dai suoni. Intro lunghissimo, percussivo e che cresce, archi, groove. Sembra house. Bellezza pura.

Lil' Louis & The World - Club LonelyLil’ Louis & The World – Club Lonely
Quando penso al club mi viene subito in mente questa traccia. Il groove, il cantato, la pasta del suono, un pezzo incredibile. Tra le cose intelligentemente scritte e realizzate con un fine che poi viene raggiunto. L’essenza del brano da club, almeno secondo il mio gusto personale. Al tutto, infine, si aggiunge una bella copertina.

Flash And The Pan - Flash And The PanFlash And The Pan – Flash And The Pan
Album edito nel 1978 dalla Epic con una copertina curiosissima su cui ci sono ragazzi e ragazze seduti in spiaggia, con jeans e t-shirt bianca ed occhiali neri rivolti verso il sole, mentre in cielo si levano frisbee colorati. Il brano che amo di questo disco, di cui ne possiedo tre copie, è “Walking In The Rain” e chi mi conosce bene non si meraviglierà nel trovarlo menzionato in questa sorta di top ten. Difficile catalogarlo come dance. Il suono è elettronico, cupo, soffuso ma elaborato ed avvolgente, guidato da una voce per tutta la durata. Un viaggio anzi, IL viaggio.

Ian Pooley - What's Your NumberIan Pooley – What’s Your Number
La versione che segnalo è la Swag FM Mix degli Swag, uscita su V2 Records nel 1998. Che sia Ian Pooley è un caso, poteva essere chiunque. Non amo particolarmente ciò che ha fatto e peraltro mi ritrovai questo disco tra le mani per puro caso. Difficile etichettarlo house, probabilmente per struttura non è propriamente da dancefloor ma rientra tra quelle produzioni mentali che girano bene, con groove spezzettato e continue pause.

Kool & The Gang - Love & UnderstandingKool & The Gang – Love & Understanding
In mezzo alla catasta di hit da dancefloor di fine anni Settanta, ancora in zona funk, uscì questo capolavoro che include uno dei brani che ho ascoltato più volte nella mia vita, “Summer Madness”. Non sono aggiornato ma fino a sei/sette anni fa risultava essere campionato in oltre cento produzioni. Tra le varie versioni che si possono trovare ho amato sempre quella racchiusa nell’album edito dalla De-Lite Records nel 1976, perché annovera oltre al viaggio del synth di Ronald Bell, una chiusura col coro in perfetto stile swing che è meravigliosa. Inavvicinabile.

Steve Miller Band - Circle Of LoveSteve Miller Band – Circle Of Love
La copertina mi catturò immediatamente, il mio brano preferito è “Macho City”. La band del buon Miller ha regalato molte perle rock ma con questo pezzo strizzò l’occhio alla dance. Quello che succede a 3:30 e prosegue per oltre tredici minuti è un vero regalo per gli amanti del filone psichedelico. Una bassline marcatissima attorniata dal meglio dei suoni che si potessero collocare su quel groove. L’inizio è funk, con un parlato ed un coro, ma sai già quello che ti aspetta perché avverti che a breve il brano svolterà. Queste sono le sensazioni che provo quando conosco bene l’artista, anche dopo qualche secondo dal primo ascolto. Meraviglioso.

Giosuè Impellizzeri

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Bruno Bolla, DJ dal vibe eclettico

Bruno BollaBruno Bolla vanta un ampio bagaglio culturale che attinge da un nugolo di generi musicali agli antipodi del mainstream. La sua prima passione è quella per il cosiddetto “afro”, un intricato filone-contenitore di materiale trasversale determinante per gli orientamenti stilistici futuri. Negli anni Novanta infatti si lascia conquistare dall’acid jazz che, analogamente a quanto avvenuto con l’afro, è simile ad un groviglio multisfaccettato di generi che collega il mondo degli strumenti acustici con quello degli elettronici. Tra i suoi interessi c’è anche la house, che interseca ecletticamente con disco, funk e soul. Attivo pure in ambito discografico ma prediligendo più intenti compilativi che produttivi, Bolla è oggi uno dei veterani italiani della consolle, con una passione quarantennale alle spalle che continua ad animarlo senza sosta.

Nell’intervista rilasciata qualche tempo fa ad Emanuele Treppiedi per Zero, racconti di aver frequentato i primi negozi di dischi d’importazione in Italia, come Goody Music di Jacques Fred Petrus o Il Bazaar di Pippo di Pippo Landro, ai quali abbiamo dedicato ampio spazio in Decadance Extra. Cosa significava, quarant’anni fa, comprare musica che conoscevano in pochi?
Alla fine degli anni Settanta i negozi in cui acquistare musica specializzata erano una marea. Ce n’erano moltissimi non legati alla dance music, dove trovavo jazz, funk, fusion, afro, brazil, new wave ed elettronica in genere. In realtà molti di questi erano librerie in cui vi era un reparto appositamente dedicato ai dischi. Se ripenso a cosa ho comprato in quei posti, peraltro a prezzi bassissimi, mi vengono i brividi! Adesso molti di quei dischi sono introvabili o disponibili, su internet, a prezzi incredibilmente alti. Nei primi anni Ottanta però, seppur i negozi fossero tantissimi, a suonare quelle cose a Milano eravamo davvero quattro gatti. Io compravo ovunque, da Pacha a Supporti Fonografici, da Mariposa a Tape Art, da Buscemi a Bonaparte Dischi passando per Stradivarius, Messaggerie Musicali, Iperdue in zona Brera e i magazzini sparsi in zona Mecenate dove era quasi impossibile accedere per un privato, senza dimenticare i minuscoli negozietti sparsi per la città con un ben di Dio incredibile.

Chi, come te, voleva intraprendere la carriera da DJ, era messo di fronte al bivio di scegliere se passare le musiche da hit parade o dedicarsi a cose più ricercate e quindi difficilmente proponibili al grande pubblico? Tale scelta implicava anche delle conseguenze a livello lavorativo?
In quegli anni, pur facendo il DJ ancora a livello hobbistico, desideravo prendere le distanze dai generi musicali mainstream che andavano per la maggiore a Milano. La musica commerciale più in voga era la disco, quella in stile Claudio Cecchetto che comunque era un “signor DJ”, tra i pochi che stimavo veramente in quel periodo in città. Io però stavo crescendo con altri gusti puntando ad un genere che non era popolarissimo nei club milanesi ma che palpitava nei cuori di molti “alternativi” e vantava migliaia di seguaci disposti a spostarsi persino in altre regioni, come il Veneto o l’Emilia Romagna, pur di seguirlo. Mi riferisco al filone “afro” nato in club come la Baia Degli Angeli, meno facile ed immediato rispetto alla disco proposta dai DJ importanti di Milano come Tony Carrasco, il menzionato Cecchetto o Moreno della discoteca Astrolabio (quest’ultimo, a mio avviso, una spanna sopra tutti), che erano la risposta italiana a David Mancuso, Nicky Siano o Larry Levan, e posso garantire che fossero tecnicamente persino migliori rispetto ai colleghi d’oltreoceano. Per il genere che piaceva a me però i modelli erano Moz-Art, Beppe Loda, Daniele Baldelli, TBC ed altri contraddistinti da scelte musicali coraggiose, cura nella selezione ed una certa apertura verso tutto quello che era meno scontato e scarsamente appetibile per il mondo radiofonico. Non certamente a caso questi DJ sono tuttora in attività e molti di loro stanno vivendo una seconda giovinezza, con un giusto tributo anche all’estero perché in quel periodo erano ben pochi i DJ in Europa a proporre musica simile. Nel Regno Unito, ad esempio, i DJ passavano bella musica ma il mixaggio non apparteneva alla loro cultura, davano priorità alla selezione più che alla tecnica. Io seguivo quindi gli input dei miei riferimenti ma avevo già una personalità e cercavo di metterci del mio. A causa della poca popolarità del genere però non fu facile approdare a consolle importanti e a livello lavorativo si faceva una grande fatica. C’era qualche party privato o serate tematiche nei circoli, che non erano molti e spesso legati troppo a livello politico. In linea di massima non si dedicava tempo ed attenzione al divertimento e al disimpegno. La discoteca poi non era ben vista, almeno tra le mie conoscenze. Io ero fortunato, mi capitava di finire dentro il locale trendy per qualche festa a tema organizzata da qualcuno che prediligeva i suoni strani ed affascinanti, e a tal proposito ricordo un bellissimo party dedicato ai fumetti che sonorizzai con musica afro/elettronica nel 1984. Il club si chiamava Primadonna e si trovava nei pressi di Via Monte Napoleone. Fu una festa fantastica, la gente ballava tutto ciò che mettevo e a Milano mi sembrò davvero un miracolo.

Bruno Bolla (1987)

Bruno Bolla in una foto risalente al 1987

Tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta l’arrivo di strumenti elettronici dal costo contenuto, in primis quelli della Roland, decretano la nascita di nuovi generi come new wave e synth pop che offuscano la popolarità del funk, del soul e specialmente della disco. Da appassionato proprio di questi generi, come vivesti quella fase?
Vissi quel periodo con poca sofferenza perché curiosità ed eclettismo mi avevano già portato a mischiare quei filoni. Alcune cose synth pop, ad esempio, si sovrapponevano bene ai suoni disco funk. Comunque iniziai a comprare molta meno disco, ma seppur si stessero manifestando i primi segni di stanchezza, artisti provenienti da Stati Uniti e Gran Bretagna continuarono a partorire grandi cose, lasciando emergere le prime contaminazioni.

Nel corso degli anni non hai mai fatto mistero della tua stima e devozione per il cosiddetto movimento “afro”, nato e sviluppato in locali come Baia degli Angeli, Cosmic, Ciak, Typhoon o Melody Mecca. Secondo te quelle sovrapposizioni stilistiche effettuate con maestria da DJ preparati tanto in tecnica quanto in cultura e background, sono state storicamente impattanti come house e techno? L’impressione è che sulla mappa mondiale della dance music culture, l’afro, inteso sia come stile che come attitudine, non sia finito forse proprio per la scarsa considerazione degli italiani.
Come hai giustamente detto, il cosiddetto “afro” era più un’attitudine che un genere, un po’ come avvenne per l’acid jazz negli anni Novanta. Effettivamente quello che si vedeva nei club italiani di allora non esisteva in molti locali europei. Eravamo avanti ma non siamo stati capaci di capitalizzare le nostre stesse intuizioni e questo, per noi italiani, purtroppo è un classico. La risposta a quanto mi chiedi l’abbiamo davanti agli occhi: i giovani adesso comprano ristampe e sono alla costante ricerca degli originali. Importanti label indipendenti di tutto il mondo dedicano gran parte dei loro budget per ristampare autentiche pietre miliari di questa “dance music” non proprio convenzionale, facendo scoprire cose di quel periodo rimaste nell’ombra per decenni. Le ristampe afro, disco, funk e boogie oggi vanno a ruba, ma l’impatto rispetto ad house e techno è stato minore, e credo non potesse essere diversamente. House e techno rientrano infatti nella categoria dei generi musicali ed hanno già una vita molto lunga, pluritrentennale. La loro collocazione è radicalmente legata alle evoluzioni tecnologiche al contrario dell’afro, un’attitudine ed un mix tra post punk, electro, industrial, new age, ethno, new wave, dark, funk, disco, prog rock…

Un flyer del Matmos (1991-1992)

Un flyer del Matmos (1991-1992)

Nei primi anni Novanta sei tra i DJ che animano una delle one night più note di Milano, Matmos, ideata dal compianto Marco Tini. Potresti descriverla?
Matmos fu, molto semplicemente, la prima one night milanese completamente dedicata all’house music. L’esordio fu al Beau Geste, tra 1990 e 1991, con tre DJ resident, Luca Colombo, Giorgio Matè e Ralf. Tra 1991 e 1992 la location si spostò al Linea, in Piazza San Babila. Ralf si alternava come guest a Ricky Montanari e Flavio Vecchi portando il suono della Riviera, e a Colombo e Matè si aggiunsero Jackmaster Pez ed Andrea Gemolotto. Io entrai come guest fisso, una volta al mese, esibendomi dopo aver suonato al Lizard dove ero resident. Insomma, ogni trenta giorni avevo una “doppia” in città, una vera rarità perché erano entrambe serate e non after hour, ma la cosa non dava fastidio a nessuno. Ricordo che si facevano serate sporadiche pure il giovedì, negli ultimi anni al Tainos in zona Piazza della Repubblica, dove si testavano anche giovani talenti in una specie di laboratorio, affiancati alternativamente da uno di noi resident. A Marco Tini piaceva cambiare quindi prenotò il Carisma di Piazzale Cordusio per la stagione 1992-1993 e lo inaugurò con un progetto fighissimo basato su due sale. In una c’erano i resident Luca Colombo, Jackmaster Pez e Giorgio Matè che suonavano house, nell’altra invece io e Steve Dub, ai tempi resident del Plastic con Nicola Guiducci, che invece proponevamo sonorità black, acid jazz, r&b ed hip hop. Visto il mio eclettismo, apprezzato senza riserve da Tini, mi chiesero di curare anche il set di chiusura in decompressione della sala house, col mio downbeat cosmico strumentale. Insomma, un progetto in cui risiedeva tutta la visione di Marco Tini relativa ad un locale perfetto e definitivo. Purtroppo Marco ci lasciò ancor prima di iniziare in seguito ad un tragico incidente stradale, e portare avanti il Matmos senza di lui non funzionò. Con Isa e Lucia, le sue assistenti che presero in mano le redini del progetto, approdammo al Lizard dove, come annunciato prima, ero resident col mio gruppo Les Fous De L’Île. Si trattava di un club fashion dove suonavo cose underground pur avendo a che fare con un pubblico modaiolo ed internazionale. Il sogno di Marco Tini, far convivere l’anima raver ed underground del Matmos col pubblico del jet set, più “fighetto” ma ricettivo, si realizzò ma purtroppo senza di lui. Mi emoziono ancora quando ci penso. Tempo fa un nostro vecchio cliente ed ormai grande amico mi disse: «Bruno, hai fatto una bellissima carriera ma con Marco accanto avresti raggiunto molti più obiettivi, ti adorava e credeva in te come pochi altri». Credo avesse ragione.

C’era una ragione dietro il nome Matmos, adottato in seguito dal duo americano di San Francisco formato da Drew Daniel e Martin Schmidt?
Il Matmos nostrano non ha davvero nulla da spartire con la band da te menzionata. Marco prese quel nome dal film “Barbarella” del 1968, con Jane Fonda come protagonista. Nella pellicola lei è una viaggiatrice dello spazio che ha tante avventure, fantastiche ed erotiche, e il Matmos è una sostanza energetica di cui vivevano gli abitanti di Sogo, la città dove approda. Sul perché Tini abbia optato per questo nome esistono varie versioni, ormai diventate quasi delle leggende. Per quanto ricordo io, c’erano connessioni con l’uso di sostanze stupefacenti e con la perversione, ma essendo un fanatico di quel film ed amandolo visceralmente, è probabile che la ragione si debba ricercare altrove. La serata incarnava in toto la sua visione cinematica e sotto questo aspetto Marco Tini fu un assoluto precursore di ciò che si fa oggi in molte one night.

riviste Bruno Bolla (1994-1996-2001)

Le rubriche musicali curate da Bruno Bolla sui magazine di settore

Nel 1996 inizi a scrivere per DiscoiD, freepress di informazione discografica particolarmente noto tra gli addetti ai lavori. La tua rubrica rimasta in vita per ben dieci anni, Eclectic Jazz, sembra raccogliere l’eredità sia dell’Hot From The Box curato qualche tempo prima sulle stesse pagine da Philippe Renault Jr., sia di Jazzy Vibes di cui ti occupavi personalmente nel 1994 su Trend Discotec e Tutto Discoteca. Eclectic Jazz bazzicava nei territori acid jazz, rare grooves, r&b, easy listening e jazz house/soul, con qualche incursione nel drum n bass e nel breakbeat. Come nacque la collaborazione con quella testata ideata da Vincenzo Viceversa (intervistato qui) e guidata da Gianni Zuffa del Discopiù di Rimini?
Effettivamente una rubrica simile esisteva già ed era curata da Philippe, con cui ho condiviso tantissime consolle ed è tuttora tra i miei amici più cari. Lui era molto impegnato sia come DJ che come imprenditore e quindi non riusciva più a seguire tutto come avrebbe voluto. Credo fu proprio lui a suggerire il mio nome a Gianni Zuffa, che tra l’altro conoscevo già perché ero cliente del suo negozio. È stato straordinario collaborare con DiscoiD e con tutti coloro che, come me, curavano le rubriche fisse. Senza presunzione, posso ammettere che fosse una guida sincera, appassionata ed imparziale, come poche altre in Italia. Un fantastico contributo di non professionisti, perché a quanto ricordo non c’erano giornalisti o aspiranti tali ad interessarsi a quelle musiche, che diede vita ad un magazine altamente professionale, costruito con pochi mezzi ma tanto entusiasmo. Ricevo tuttora attestati di stima per il mio lavoro e di questi tempi fa veramente piacere.

Come ti tenevi aggiornato negli anni Novanta? Oltre a frequentare i negozi di dischi, leggevi riviste specializzate?
Avevo dei giornali di riferimento ma quasi tutti stranieri, da Straight No Chaser a Blues & Soul e Wire. In Italia invece mi piaceva Blow Up e non disdegnavo Il Mucchio.

Ritieni che la stampa italiana relativa alla dance elettronica abbia educato il pubblico o gran parte delle riviste, come alcuni sostengono, erano riempite con recensioni accomodanti ed interviste simili a panegirici?
Entriamo in un argomento piuttosto delicato. Anche io, qualche volta, sono stato criticato per il lavoro su DiscoiD, accusato di parlare maggiormente di una certa etichetta o di un certo artista. A differenza di altri però non mi occupavo di un solo genere e in poche righe dovevo selezionare materiale eterogeneo, house, funk, jazz, broken beat, afro, trip hop, breakbeat, e non era facile. Da parte mia c’era molta ricerca ma nel contempo tentavo di avere un occhio di riguardo per i prodotti di “casa nostra” che le label mi mandavano in formato promozionale. La stampa italiana che si occupava di dance elettronica e in generale di musica mi è sempre sembrata discretamente imparziale, a parte qualche giornale in voga negli anni Novanta che puntava più al gossip e metteva l’aspetto musicale in secondo piano. In quel caso figuravano interviste “a comando” con l’intervistato che dettava le domande, sullo sfondo di celebrazioni gratuite a nastro che si sprecavano. Operazioni sostanzialmente commerciali basate sul triste scambio del dare-avere, che non hanno fatto bene al movimento abbassando terribilmente il livello. Ora credo ci sia più equilibro anche se purtroppo mi capita ancora di imbattermi in qualche intervista di quel tipo. Su internet però scrive pure gente molto più attenta ed appassionata, e questo dovrebbe onorare chi opera oggi.

Programmi radiofonici (vari su Italia Network, il tuo Dancefloor Jazz su Rai Radio 2 seguito da Cool Dance su Radio Montecarlo), programmi televisivi (Match Music, Crazy Dance, TSD, Videomusic ed altri minori diffusi in syndication), riviste: in passato era possibile percorrere tante strade con obiettivi di divulgazione, oggi invece pare che quei canali siano propensi a tutto fuorché dare voce a movimenti subculturali. Internet, che in teoria potrebbe condurre a riscontri ancora più forti, non sembra generare fidelizzazione o comunque un interesse pari a quello che avevano i giovani di qualche decennio fa. Possibile che a quasi vent’anni dal Duemila, data ideale di accesso al futuro, i vecchi mass media abbiano deciso di non puntare più su contenuti didattici preferendo l’intrattenimento leggero e molto spesso privo di alcuno spessore culturale? Perché avviene ciò?
Perché la musica non è più un motivo dominante. Le cose sono profondamente cambiate, i media se ne fregano della cultura musicale e cercano soluzioni facili ed immediate. Un vero peccato. Ormai se si cercano contenuti culturali relativi ad argomenti di nicchia, è necessario fiondarsi su internet o al massimo sui canali tematici televisivi, anche se lì ho visto più cose brutte del resto. I vecchi media sono oppressi dalla necessità di fare audience, non che prima non lo fossero ma ora chi rischia a parlare di argomenti che interessano a pochi? Vuoi sentire musica di un certo spessore? Vai sul web e lascia perdere le stazioni radiofoniche che non hanno più voglia, coraggio e competenze per investire sulla qualità. Il loro lavoro è mettere in rotazione venti brani, spesso pessimi. A questo punto, per me, possono diventare tutte radio di informazione, sul modello Radio 24. Fa eccezione, con buoni risultati, la Rai, forte del canone, dove c’è ancora voglia di far sentire musica seria, di raccontare una storia con calma e senza fretta. Spero possa durare. Sentire programmi liberi, senza significativi paletti editoriali come i miei Dancefloor Jazz e Cool Dance da te citati prima, ma anche come B Side di Alessio Bertallot o i mixati di Italia Network, è diventata pura utopia. Mi viene sempre in mente l’affermazione di uno che le radio private le aveva iniziate e alla grande, il compianto Leonardo Re Cecconi alias Leopardo, un genio assoluto. Nei primi anni Duemila, quando si iniziò a sentire aria di smobilitazione per i programmi radiofonici specializzati, mi disse: «Le radio private italiane, e quindi anche i network, sono sempre state fatte da tanti mediocri e pochi bravi». Mai come oggi quel concetto risulta veritiero. Leopardo stava anticipando ciò che sarebbe successo. Io, che in fondo nelle radio ho lavorato poco, solo cinque anni circa, ed essendo più un DJ da club, rimasi particolarmente colpito da quelle parole. Per quanto concerne la televisione e gli altri canali, l’analisi è molto più semplice: nei primi anni Novanta c’era un fermento incredibile intorno alla house music, risultò quasi logico creare televisioni e programmi dedicati, ma si trattò solo di un fenomeno passeggero. Io non ho mai creduto sino in fondo a quella vampata d’interesse, infatti declinai qualche proposta che sembrava interessante. Non mi rappresentava, non serviva e soprattutto non mi sentivo adatto. È un po’ come quello che è avvenuto ai club. Chi investe ancora in questo settore? Oggi non esiste più neanche un terzo delle discoteche che c’erano in Italia nel 1995. A fine anni Novanta è iniziato il declino ed è cambiato il sistema. Rimane internet ma, come dici tu, a dispetto del suo enorme potenziale non possiede la stessa forza di allora perché le nuove generazioni non hanno lo stesso interesse e rivolgono la loro attenzione altrove. Inoltre non c’è un fenomeno musicale dirompente come lo è stata l’house music. La trap? Non credo affatto. Assistiamo ad un calo vistoso dell’attenzione da parte dei giovani per la musica e le sue storie, ma anche per il clubbing. Questo argomento mi ha convinto a creare, con una crew di amici DJ, sia veterani che non, Brotherhood, un concept che non ha la pretesa di creare nulla di nuovo e fantastico ma solo di riportare al centro il valore della musica, come le one night degli anni Novanta tipo Matmos di cui parlavamo qualche riga fa. Insomma, prima la musica e poi il resto. È dura portare avanti un progetto del genere oggi ma qualche piccola soddisfazione ce la stiamo prendendo, ed abbiamo solo un anno di vita.

Discografia Bruno Bolla

Le copertine di alcune produzioni discografiche di Bruno Bolla

Il decennio 1990-1999 è stato l’ultimo a poter contare su un mercato regolato dall’economia pre-internet in cui le case discografiche incassavano denaro dalla vendita dei loro prodotti fisici (dischi, CD e cassette). Dal 2000 in poi le cose non sarebbero più state le stesse, e in tanti ci hanno rimesso le penne. Stranamente tu, a differenza di gran parte dei tuoi colleghi, non hai mai puntato a sviluppare il ruolo di produttore, seppur i tempi fossero ancora propizi, limitandoti perlopiù alla selezione di varie compilation tematiche (“Influencia Do Jazz”, “Break N’ Bossa”) a cui se ne aggiunsero altre nel nuovo millennio come i due volumi di “BlackTronic” su Cool D:vision. Perché hai preferito focalizzare la tua attività solo sul DJing?
Ho sempre avuto un rapporto particolare con la produzione di musica e soprattutto con la definizione di “produttore”. Quando sento qualcuno che si considera tale rimango sempre perplesso. Associo il fare musica all’essere musicista, ed io non lo sono. Ma cosa vuol dire realmente essere “produttori musicali”? Attribuirsi la paternità di un disco? Una buona parte dei nomi internazionali del DJing si avvale di ghost producer, musicisti con grande abilità nell’uso delle macchine, pagati per realizzare brani che escono a nomi di altri (a tal proposito si rimanda a questo reportage, nda). A metterci la firma è il DJ che grazie a questi dischi diventa famoso facendo più gig. In realtà più che essere un DJ, quello credo sia un imprenditore, label manager o qualcosa di simile. Qualora mettesse l’idea portante è giusto che gli vengano riconosciuti i meriti, ma se non lo fa? Questo succede abbastanza spesso, soprattutto oggi dove il marketing ha preso il sopravvento sul resto. Io sono molto rispettoso della mia attività da DJ ed anche di quella dei musicisti. Nel 1997 ho “prodotto” il mio primo disco, “Indefinita Atmosfera” di Neos, con Gerardo Frisina e musicisti straordinariamente importanti nel panorama jazz italiano come il sassofonista Gianni Bedori, scomparso nel 2005, e il pianista Luigi Bonafede. Il compito mio e di Gerardo, che poi ha intrapreso una strepitosa carriera solista, era dare degli input nu jazz con un’attitudine da club a dei musicisti tradizionali che della dance non sapevano nulla o quasi. Ecco perché sul disco c’è scritto “produzione artistica” accanto ai nostri nomi. Mi sembra una definizione corretta. Comunque il mio è un discorso generale, ovviamente esistono DJ che nel contempo possono essere anche musicisti e bravi producer, ma sono una minoranza contrariamente a quanto si possa credere. Si tratta di rispetto dei ruoli insomma. Io ad esempio realizzo e suono re-edit nelle mie serate, ma non le ho mai pubblicate, lungi da me appropriarmi di un brano su cui sono intervenuto facendo qualche cut, allungando delle parti ed aggiungendo beat e groove piu freschi. Nutro comunque rispetto per chi pubblica cose del genere, e devo dire che ci sono personaggi abili in questo, inclusi tanti amici DJ-producer, ma io non riesco proprio, almeno per il momento. Mi rifaccio a quella che è la mission del DJ sin dai tempi dei grandi maestri, Mancuso, Levan, Grasso, Hardy… ovvero selezionare, assemblare e mixare musica di altri dando ad essa l’energia necessaria per essere utilizzata in un club. Questo è il DJ, le altre funzioni sono accessorie, meno importanti. Per tale ragione non sono mai stato un “producer” prolifico, ho sempre lavorato sulla selezione e sul DJing piuttosto che sulla creazione. Quando sento un bel disco non penso quasi mai al groove da carpire per ricavarne un nuovo prodotto, bensì a quale possa essere il brano da accostare in un set. Ho questa attitudine, non c’è nulla da fare. Tuttavia in passato è capitato di collaborare in un team in cui il mio compito era rappresentare l’archivio storico e quindi tirare fuori l’idea da un disco che non conosceva nessuno. Un produttore artistico quindi, e non escludo che ciò possa accadere ancora in futuro. Gran parte dei miei sforzi, comunque, sono stati assorbiti dalle compilation: i tre volumi di “Influencia Do Jazz” raggiunsero, a metà anni Novanta, soglie di vendita impensabili per un progetto così specializzato, per di più made in Italy. Si parlava di ottomila/novemila copie a volume, forse anche di più, non ricordo bene. Stesso dicasi per i due volumi di “BlackTronic” usciti tra 2003 e 2005, tuttora un mio format da club.

Nel 2006 metti su, insieme a vari amici/colleghi, il team Love Supreme che debutta sulla Tirk di Sav Remzi, erede della Nuphonic citata spesso nei tuoi articoli e recensioni. L’ultima uscita però credo risalga al 2012, vi siete fermati?
Cause di forza maggiore ci hanno divisi. Io mi sono trasferito in Piemonte nel 2008, Roberto Di Movi ha mollato l’Italia per andarsene ad Ibiza più o meno nello stesso periodo. Nic Sarno invece ha iniziato con progetti solisti interessanti ma diversi. Luca Saponaro infine, musicista e perno del tutto, ha stretto varie collaborazioni con altri artisti della scena milanese, oltre ad aver fondato una propria etichetta, la Mad On The Moon, con risultati egregi anche se i dischi in quel periodo (2006-2010) si vendevano davvero poco e la riesplosione del vinile era piuttosto lontana. Era rimasto solo e noi, a differenza di tanti altri, non riuscivamo a scambiarci idee a distanza con Skype, avevamo bisogno del contatto fisico, di respirare la stessa aria, marijuana compresa (loro, io no) – ride. Molte incisioni dei Love Supreme erano jam improvvisate con una strumentazione quasi interamente analogica, nel pieno stile dei nostri eroi ed ispiratori come Can, Tangerine Dream, Klaus Schulze, Popol Vuh ed altre eminenze del krautrock tedesco. La spontaneità era la qualità primaria del nostro lavoro e riascoltando oggi quei brani mi accorgo che a guidarci era una grande creatività. Chissà, magari un giorno torneremo insieme.

Il mercato della musica è radicalmente cambiato ma si può dire altrettanto del DJing, spettacolarizzato come non mai e portato a livelli di popolarità esagerata, agli antipodi rispetto a quello che era il DJing degli albori. Tu, che hai avuto la possibilità di vivere almeno tre decenni in questo settore, come giudichi tale evoluzione o, come sostengono in tanti, involuzione?
La spettacolarizzazione e l’eccessiva popolarità di alcuni, cosiddetti, DJ, hanno ben poco da spartire con la mission per cui la figura del DJ stesso è nata. Negli anni d’oro il DJ era considerato importante quanto il barman del locale o poco più. Doveva solo caratterizzare il club con la sua musica. L’importanza attribuita ai DJ oggi è davvero eccessiva e lo dico anche se sono parte in causa. Non so se sia da considerare un’involuzione ma sono del parere che il DJ superstar odierno sia una figura ben diversa rispetto a quello che deve essere un DJ. Io lo chiamerei persino diversamente anche se non saprei come. Un DJ americano un giorno mi disse: «Un disc jockey non può valere più di cinquemila dollari, chiunque esso sia, è una questione di ruolo. Il DJ deve rimanere underground, anche sotto il profilo economico, è un concetto etico». Poi, come nel mondo del calcio, c’è la relazione tra domanda ed offerta ed è proprio lì che tutto diventa distorto. D’altra parte è un fenomeno strettamente connesso alla realtà contemporanea dove regnano eccessi incontrollati.

Oggi in discoteca pare si preferisca fare video con lo smartphone anziché ballare, e in relazione a ciò piovono costantemente critiche sulle nuove generazioni, accusate di non sapersi divertire e di frequentare locali (ma specialmente i grandi festival) per il solo gusto di far sapere agli altri di esserci stati. Come era il pubblico di venti o trent’anni fa invece? È vero che gli avventori dei club erano più appassionati rispetto a quelli odierni o è solo un luogo comune?
Esiste un pubblico appassionato anche ora, non tutto è negativo ed io non sono affatto un nostalgico. Sono però cambiati i numeri. Nei club ci andava più gente, questo è un aspetto non trascurabile, ora ci sono altre distrazioni proprio come lo smartphone. A questo proposito vorrei raccontare un aneddoto divertente e significativo. Nel 2008 sonorizzai l’apertura di un negozio di un brand italiano importante a Tokyo. Sentendo per caso un amico giapponese, un addetto ai lavori noto a Milano, mi venne in mente di allungare la permanenza in Giappone con un paio di gig in piccoli club dove normalmente si tenevano serate rare grooves. A rendere fattibile l’idea furono le mie raccolte “Influencia Do Jazz”, pare che grazie ad esse il mio nome fosse discretamente popolare da quelle parti. Portai solo CD per la performance nel negozio ed una quarantina di dischi rare grooves di tipo funk, brazil e jazz. Nel primo club, a Tokyo, la serata andò egregiamente, ricevetti tanti complimenti ed un ottimo riscontro. Il giorno dopo andai in un’altra località, fuori dal centro cittadino, praticamente in periferia, e lì ebbi quasi uno shock. C’erano tanti addetti ai lavori ma dopo un’ora mi resi conto che non ci fosse grande entusiasmo, ballavano in pochi e molti erano distratti, guardavano il telefonino ed io non capivo la ragione. Chiamai quindi il mio amico chiedendogli se fosse possibile farmi parlare con l’organizzatore che era a pochi metri da me. Gli domandai cosa non andasse, se stessi sbagliando qualcosa in quello che facevo e lui, dopo un paio di classici inchini, mi disse: «No amico, tutt’altro. Stai mettendo cose bellissime che non conoscono e quindi stanno cercando di capire cosa siano con l’aiuto di un’app installata sul cellulare». Caddi dalle nuvole, non sapevo neanche cosa fosse ma è risaputo, i giapponesi sono sempre stati avanti nella tecnologia. Rimasi talmente basito che il mio interlocutore capì l’imbarazzo e qualche minuto dopo, credo in seguito ad un robusto passaparola, tutti iniziarono magicamente a ballare e terminai il mio set in gloria. In quel caso ho dovuto ricorrere a tutta la mia sfacciataggine ed esperienza per non perdere la calma. Oggi quando vedo smartphone e video, invito la gente a godersi il momento ma purtroppo non ho l’antidoto a questo atteggiamento, credo sia una questione di cultura. Per quanto riguarda i festival invece, penso che abbiano accelerato il declino del clubbing. Come dicevo prima, in Italia il “decesso” è avvenuto da tempo, ma in Europa, soprattutto al nord, un certo modo di identificarsi nel club “di fiducia” resiste ancora e i frequentatori non sono certamente solo attempati nostalgici ma pure giovanissimi. Gli appassionati e i cultori restano ma sono meno. Personalmente mi piacciono alcuni piccoli festival a programmazione mista tra live e DJ set con un mix tra acustica ed elettronica, con act nuovi abbinati a show di figure storiche. Di questo tipo ce ne sono anche in Italia. Non mi piacciono invece i festival monocorde, quelli con trenta DJ di nome che fanno più o meno la stessa cosa, o coi tantissimi DJ che richiedono set lunghi per suonare la stessa minestra (e questo succede anche nei club). Li trovo noiosi ed inutili.

Bruno Bolla @ Country Club (Siziano, 1994)

Bruno Bolla in compagnia di un’amica al Country Club di Siziano (Pavia), nel 1994

Perché si parla sempre entusiasticamente degli anni Novanta?
Perché rappresentano la golden age del clubbing e forse anche la mia stessa “età dorata” soprattutto per i trascorsi più underground. Credo però che anche negli anni Novanta ci siano stati dei momenti d’ombra. Nel mio caso, intorno al 1996, vissi un’impasse perché la house sembrava aver esaurito la sua spinta delle origini. Quella “stasi creativa” mi portò ad esplorare altri mondi musicali come trip hop, breakbeat e le prime cose del french touch, correnti che però non mi convinsero appieno. Nel frattempo la scena rare grooves, altro mio volto sonoro, stava entrando nella fase nel cosiddetto “nuovo jazz da club” poi chiamato nu jazz, ma i tempi non erano ancora maturi. Fu un periodo di piccola confusione perché erano generi non molto popolari e quindi non era affatto facile acquisire gig ed avere sfoghi radiofonici. Ritrovai la giusta energia alla fine del decennio quando l’house prese nuovamente una piega a me congeniale, tingendosi di afro e jazz con bellissime pubblicazioni di artisti come Masters At Work, Joe Claussell, François Kevorkian ed Osunlade, solo per citarne alcuni. Iniziai quindi gli anni Duemila col piede giusto e con le idee molto chiare, infatti credo che il periodo 2000-2006 sia quello in cui il mio nome abbia conosciuto maggiore popolarità, anche grazie a Cool Dance a cui facevamo prima cenno, un radio show dal concept assolutamente innovativo per i tempi e veramente eclettico, che andava oltre i mix show, pur pregevoli, orientati ad house e dance commerciale sentiti fino ad allora. Mettere insieme ben cinquemila persone nei primi cinque anni della mia residenza decennale al Cafè Solaire con quel suono poteva sembrare solo un sogno eppure era realtà.

Hai più vissuto momenti di stanca come quello del 1996?
Sì, circa una decina di anni più tardi. Nel 2007 entrai nuovamente in una fase un po’ strana, le cose stavano cambiando sia professionalmente che umanamente. Il matrimonio, la nascita di mia figlia, il trasferimento in Piemonte in una casa con bed & breakfast e studio annessi: tutti eventi non certamente indifferenti per chi, come me, non avrebbe scommesso un centesimo sul creare una famiglia. Invece è successo, con tutto il coinvolgimento emotivo del caso. La ristrutturazione della casa, la totale devozione al mio orto, la costruzione di una nuova, seppur piccola, attività sono diventate la mia quotidianità. A dirla tutta, iniziai ad avere un certo senso di nausea del mondo del clubbing perché a mio avviso la scena stava cambiando in peggio e nelle discoteche italiane si cominciò a respirare un’altra aria. Milano, in particolare, toccò forse il suo momento più basso (non ricordo periodi peggiori del lustro 2006-2011), almeno per musica, arte e spettacolo. Trovavo molto più interessanti città come Torino che costruivano una visione differente di club culture. Inoltre terminai l’esperienza radiofonica, visto che importanti cambiamenti travolsero pure quel settore, e i locali in cui avevo lavorato come resident iniziarono un declino fisiologico. Sino al 2009 circa ebbi l’opportunità di fare un po’ di serate all’estero, soprattutto in Oriente, grazie ad amici sparsi per il mondo e solo talvolta tramite qualche agenzia, anche perché non ho mai avuto una booking agency che si occupasse di me. Poi seguì un po’ di consapevole isolamento. C’è stato un periodo in cui ho pensato di mollare del tutto la musica, anche a causa di cose che mi hanno profondamente amareggiato e deluso. Riflettere sull’età che avanza però è un errore, basti guardare al momento strepitoso che vivono tanti DJ old school che mi hanno ispirato, tutti ovviamente più grandi di me. Così, grazie ad amici e persone vicine, ho deciso di continuare a mettere dischi sino a novant’anni. Non sono mica un mediano del calcio, posso resistere!

Qualche riga fa hai fatto cenno ad una crisi della scena milanese avvenuta tra la seconda metà degli anni Zero e i primi Dieci. Cosa avvenne di preciso?
Cambiò tutto profondamente. Tolte rarissime eccezioni, il clubbing divenne assolutamente mediocre e la musica non era più l’elemento trainante. Pure i generi si rivelarono solo rimpasti privi di quella forza necessaria per generare e fidelizzare nuovi adepti entusiasti, e la gestione dei locali fu stravolta. Un tempo a scegliere gli ospiti stranieri erano gli art director, al massimo con qualche suggerimento di chi lavorava in consolle, in quegli anni invece capitava molto spesso che le decisioni venissero prese dagli stessi DJ che ambivano a mettersi in mostra e magari ottenere una gig nel Paese di provenienza dell’ospite come contraccambio. Per non parlare poi della valanga di newcomer che si sono avvicinati a questo settore solo grazie alla tecnologia ma con background pari a zero. Risultato? Confusione totale, nei club e tra gli addetti ai lavori, col marketing che ha preso il sopravvento e l’apparire diventato più importante dell’essere. Non nego che questo approccio esistesse già negli anni Novanta, ma era diverso perché la musica riusciva ancora a primeggiare su tutto. Le cose fortunatamente, dopo il 2012 circa, sono migliorate ma faccio ancora fatica a raccapezzarmi e credo che tanti altri si trovino nella mia stessa condizione. L’unico modo per rimanere a galla è adeguarsi, io ci sono arrivato negli ultimi anni ma a modo mio, mantenendo sempre una certa distanza da cose che non riesco proprio a concepire e tollerare. Ora ho una nuova consapevolezza ma non voglio appartenere alla schiera dei nostalgici. Ho ritrovato l’entusiasmo e la voglia di “esplorare”, cerco quindi di fare bene le cose in cui credo così come le facevo un tempo, che ci siano cinquanta o cinquemila persone davanti per me non cambia nulla.

Se da un lato viviamo costantemente immersi nelle tecnologie di asimoviana memoria, dall’altro fronteggiamo col costante recupero di cose passate, facilitato anche da internet che in alcuni casi può trasformarsi in una sorta di “macchina del tempo”. Si veda, ad esempio, l’attenzione che riguarda l’italo house, genere che forse sta ottenendo più consensi ora rispetto alla sua collocazione storica originaria. Cosa ne pensi in merito? Si tratta di fogge passeggere istigate da qualcuno o qualcosa?
Assolutamente sì. Alla fine internet fa anche qualcosa di buono. L’italo house ha partorito grandi dischi ed un sacco di micro etichette interessantissime. Alcuni produttori e label poco popolari all’epoca stanno finalmente raccogliendo riconoscimenti inaspettati. Grazie alla voglia di retrospettiva che adesso sta contagiando un po’ tutti, in Europa si sta facendo giustizia. Meglio tardi che mai! A Brotherhood, ad esempio, abbiamo dedicato un’intera rassegna chiamata “The Italo House 90s Heroes”, dedicata ai produttori e label manager più oscuri ed underground di quegli anni. In tutto questo un merito indiretto lo ha il ritorno del vinile. Io ero tra i tantissimi che avevano cantato il De Profundis dopo il 2004-2005 e sono davvero contento di essermi sbagliato. Non credo che questo recupero del passato durerà poco perché indubbiamente, parlando di dance music, i pezzi che hanno smosso le acque ed hanno lasciato il segno sono quelli usciti dagli anni Settanta a fine anni Novanta. In seguito sono apparse ancora cose interessanti ma a mio avviso generi come disco, funk, boogie, house e techno prima maniera sono irripetibili. Tuttavia le gemme da riscoprire sono sempre meno, ormai stanno setacciando tutto di tutto.

Continui a comprare dischi e musica in generale?
Non mi sono mai fermato ma sicuramente acquisto meno di prima. Dopo quasi quarant’anni e pesanti rinunce, soprattutto da giovanissimo, le priorità cambiano. Per la cosiddetta “musica di consumo”, ovvero quella che suono durante le serate, uso principalmente i file ma il mio set up ideale in consolle è un ibrido tra analogico e digitale, quindi prevede anche la presenza dei giradischi. In vinile compro ristampe di rare grooves di generi come afro, funk e soul, oltre a qualcosa contemporanea, sia in 12″ che LP.

Quanti dischi possiedi?
Ne ho davvero tanti, circa quarantacinquemila, a cui vanno sommati i CD. Inizio ad avere seri problemi di spazio e da qualche tempo a questa parte ho iniziato a vendere le doppie copie ed alcune cose che non mi interessano più. Nel complesso sono tutti catalogati ma qualche volta divento matto a ricercare qualcosa che non è al suo posto.

Bolla Studio (2018)

Una parte della collezione di dischi di Bruno Bolla, 2018

Ci sono artisti ed etichette che ti hanno colpito recentemente?
Mi piacciono molto le cose della nuova scena afro e neo soul, etichette come Freestyle, Soundway, BBE ed pure quelle più house oriented tipo la MoBlack Records, la Philpot, la Lumberjacks In Hell o la Local Talk. Seguo inoltre label elettroniche che definisco “sempreverdi”, come Warp e Ninja Tune, oltre ad una moltitudine di etichette dedite ai re-edit disco e funk, tantissime da menzionare.

Quali invece i nomi più rivoluzionari degli anni Novanta?
Tra i DJ/produttori Carl Craig, Laurent Garnier, Larry Heard, Romanthony, Little Louie Vega, Kenny Dope Gonzalez e François Kevorkian, tra le etichette invece le già citate Warp e Ninja Tune, Nu Groove, F Communications, Soul Jazz Records ma l’elenco potrebbe andare avanti a lungo.

Solitamente i DJ hanno sempre nel flight case qualche “secret weapon” che usano in momenti particolari delle proprie serate. Quali sono i tuoi?
Ne ho tanti. In questo momento citerei “Renegade” di David Camacho, un caro amico DJ scomparso qualche anno fa, una delle anime più soulful che abbia mai conosciuto.

C’è almeno un disco che ti faceva impazzire ma che suonandolo in pubblico rischiava di svuotare la pista?
Solitamente non metto dischi che possano svuotare ma se succede dipende dal fatto di non aver indovinato la giusta sequenza, una qualità basilare per un disc jockey. Puoi passare anche un disco “difficile” ma se ci arrivi con la sequenza giusta lo fai diventare “facile”. In fin dei conti è proprio questa l’essenza dell’essere DJ.

(Giosuè Impellizzeri)

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Ominostanco – 5 Seconds (Virgin Music Italy)

Ominostanco - 5 Seconds“Un safari in tre D attraverso giungle inesplorate, terribili cerimonie voodoo e riti iniziatici Maya. Complici i prodigiosi occhiali che permettono di esaltare le tre dimensioni, uno stereo ad alta fedeltà ed una comoda poltrona di pelle, mondi che credevamo lontanissimi, leggende che raccontano di foreste impenetrabili e di bellissime amazzoni che sembrano vivere in simbiosi col proprio cavallo, entrano d’improvviso tra le pareti confortevoli del nostro salotto, rumori evocativi irrompono inaspettati nelle cuffie esaltati dal cocktail Martini che amabilmente sorseggiamo. Vivere “lounge” insomma, scoprire il fascino misterioso dell’esotismo, da consumare sprofondati nel più accogliente divano mentre scorrono le immagini che ci raccontano di altri emisferi, altri popoli, altre radici, commentate da un cocktail di suoni, una miscela perfettamente dosata dove temi struggenti composti da John Barry fanno da perfetto contrappunto alle sontuose orchestrazioni di Burt Bacharach”. Si apre così un articolo scritto da Pierfrancesco Pacoda e pubblicato ad aprile del 2000, che racconta l’invasione della musica exotica in Italia. Il successo di album tipo “Moon Safari” degli Air, “Play” di Moby, “I Find You Very Attractive” dei Touch And Go e “The Fifth Release From Matador” dei Pizzicato Five usciti negli ultimi anni del secolo/millennio e la progressiva diffusione di locali sul modello del parigino Buddha Bar di Claude Challe anticipano l’esplosione nostrana di una scena in cui emergono artisti come Sam Paglia, Montefiori Cocktail, Flabby, Nicola Conte, Alberto Dati, Pilot Jazou e Doing Time mentre etichette come La Douce, Easy Tempo, Dagored o Schema ripescano una valanga di musica cinematica, easy listening e più gergalmente lounge.

In questo quadro di commistioni stilistiche e culturali che incrociano decenni profondamente diversi si inserisce l’attività di Roberto Vallicelli, meglio noto come Ominostanco, compositore dal background complicato, come lui stesso descrive: «Sono nato nel 1964. Nel ’65 esce “(I Can’t Get No) Satisfaction” e l’anno dopo “Lady Jane” dei Rolling Stones, a casa mia la radio era perennemente accesa, soprattutto la mattina. Ai tempi c’era solo quella nazionale con le redazioni regionali ma per un’ora al giorno trasmetteva musica “giovane”. Ho tuttora il nitido ricordo di me abbarbicato sulla sedia, intento ad ascoltare quei brani che mi piacevano, ma con gli Stones finì là. Iniziai ad avere coscienza dell’esistenza della musica praticamente da subito, da quando mia nonna mi prese in braccio per cantarmi “Bandiera Rossa” che all’epoca, incredibilmente, veniva trasmessa alla radio nazionale, nella rubrica di dediche (mia nonna la chiamava “gli auguri” e quel brano, insieme a “Romagna Mia” di Secondo Casadei, “Mamma” di Beniamino Gigli e “Vola Colomba” di Nilla Pizzi, era tra i più richiesti). Sono convinto che ognuno di noi tenda a replicare gli ascolti e le produzioni collegandosi con un filo diretto, ma nascosto e modulato, con ciò che ha ascoltato nei primi dieci anni di vita. Mio padre tentò invano di farmi piacere l’opera e Claudio Villa ma non ci fu nulla da fare. Nel frattempo il boom economico cominciò a farsi sentire e a casa mia arrivò la lavatrice, il tostapane e il mangiadischi che sostituì il giradischi a valigetta. Ereditai dei vecchi 45 giri da non so chi, che ancora posseggo: i miei pomeriggi furono accompagnati per diversi anni dai 7″ dei Beatles, James Brown, Peppino Di Capri, Richard Anthony, Gianni Morandi, Adriano Celentano, Aphrodite’s Child ed altri ancora in un mischione di roba assurda. Poi i cantautori, il prog rock, i Pink Floyd, la Premiata Forneria Marconi, Mike Oldfield, Emerson, Lake & Palmer, King Crimson e via dicendo. Avevo dieci anni, era il ’74 e per un ragazzino non era affatto strano ascoltare quel tipo di musica, la musica del momento che si trovava in tutte le classifiche, e per questo mi reputo fortunato. Inaspettatamente mi venne regalata una chitarra che però lascio inerte per tre anni. Abbandonai il corso dopo appena tre lezioni ma, di tanto in tanto, tornavo a guardare quello strumento con sospetto. Poi un giorno decido di imparare e mi appassiono a Neil Young, Edoardo Bennato, James Taylor e il blues, insomma tutta la musica da suonare a corda aperta. Meno male direi, perché la chitarra mi fece appassionare alla musica acustica di un’onda sonora generata fisicamente prima di scoprire l’esistenza del punk, della new wave, del post rock ma soprattutto dell’elettronica. A quel punto tutto cambiò. Scoprii che esisteva una musica e un mondo lontanissimo rispetto a quello in cui avevo vissuto. Abitavo in una cittadina di provincia, Forlì, che non ha certo la fama di essere una città viva, dove il mondo lo immagini ma non lo vivi, dove le tendenze arrivano con ritardo per la diffidenza delle masse adulte. Dopo aver superato i sedici anni, iniziai a lavorare d’estate come aiuto cuoco (ai tempi il lavoro minorile era una cosa abbastanza normale) ma ricordo di essermi licenziato in piena stagione balneare all’hotel dove lavoravo, suscitando le ire dello chef. Tronfio della mia consapevolezza di adolescente, me ne andai al grido di “io farò il musicista!”. Capisco che sentirsi ribelli ascoltando i Doors è da fricchettoni, ma fui irrimediabilmente attratto da sequencer, synth, drum machine, musica dalle sonorità assurde, fastidiose, affascinanti, cantanti dall’emotività spinta al massimo e dal concetto di strofa/ritornello che scompare. Roba da scoprire ce n’era veramente tanta e pian piano cominciai ad ascoltare tutto quello che era il riferimento in quegli anni, dai Joy Division ai Talking Head passando per Cabaret Voltaire e i Residents. All’epoca non potevi ascoltare in streaming, dovevi avere il vinile o la cassetta, così ci si trovava a casa di chi aveva il disco e si ascoltava, si immaginava, si presumeva, si leggevano sulla copertina i nomi dei componenti delle band, insomma si sognava come si fa da ragazzini.

A diciannove anni sarei dovuto partire per il militare ma scelsi il servizio civile che mi fece incontrare colui che diventerà il mio primo socio nella musica, Luca Ravaioli. Volevamo fare una band ma io suonavo male la chitarra e tentavo di cantare, mentre lui suonava altrettanto male il synth. Nonostante tutto i Tondo restano in piedi per almeno quindici anni, avanzando a fasi alterne ed allargando l’organico a tre, con Vincenzo Vasi al vibrafono e alla voce. Tra i nostri primi produttori invece Giorgio Canali e Roberto Zoli. Gli strumenti elettronici in quegli anni costavano un occhio della testa per noi che nemmeno lavoravamo, quindi capitava spesso di comprare strumenti in società con altri gruppi. Nel tempo riuscimmo a dotare il nostro studio con Sequential Circuits DrumTraks, Roland SH-101 e Roland MC-202, Korg MS-20, Yamaha CS-5 ed Akai X7000. Spesso ci facevamo prestare una Roland TB-303 ed una Roland TR-606. Purtroppo anni dopo, erroneamente folgorati dal digitale, vendemmo tutto. Non sono mai stato un musicofilo, di quelli che si ricordano le formazioni dei gruppi nel primo album, le etichette, che conoscono generi e sottogeneri e che amano i virtuosi dello strumento, ma sono sempre stato curioso della musica e di rimando nella mia espressione artistica confluiscono tutti gli stimoli ricevuti. Tutti quei 45 giri, quei pomeriggi passati a riascoltare lo stesso pezzo (ad esempio “Afrikaan Beat” di Bert Kaempfert) hanno rappresentato le mie ispirazioni».

Il tempo passa e per Vallicelli le cose si evolvono, la passione irrefrenabile per la musica lo porta verso nuove esperienze. «Nonostante i buoni risultati i Tondo si sciolsero e in quel momento vidi allontanarsi la speranza di suonare seriamente» prosegue. «Da alcuni anni lavoravo piuttosto assiduamente nelle discoteche della Romagna, ricoprendo praticamente tutti i ruoli tranne quello del DJ. Ero stanco, quello era un mondo che non mi apparteneva. Fu un modo per guadagnare soldi ed imparare tante cose ma cominciava davvero a starmi stretto e così decisi, all’età di trentatré anni, di fare il musicista. Con la chitarra ero migliorato ma continuavo a fare pena, mentre il lavoro sul sequencer e sul sampling mi riusciva piuttosto bene. Che carriera avrei potuto fare come musicista? Era l’ultima occasione che mi davo per vivere di quel che mi piaceva fare, ovvero suonare. Così, per continuare a mantenermi ed acquistare gli strumenti necessari per fare le produzioni a casa, dovevo escogitare qualcosa. Mi improvvisai tour manager, con quel po’ di esperienza acquisita nei locali dove organizzavamo concerti e con un inglese piuttosto miserevole, ma alla fine andò bene e raggiunsi lo scopo: fare la vita dei musicisti, andare in tour, guadagnare soldi ed accumulare contatti che sarebbero tornati utili per la mia musica. Nel frattempo cercavo di arrangiare brani con le poche cose che avevo, sempre tutto MIDI ovviamente. Dopo tre anni avevo messo da parte un po’ di soldi per comprarmi un mixer a 24 canali, un campionatore nuovo e un computer a supportare due expander della vecchia band e una master keyboard. Mi chiusi in casa, non uscivo, suonavo solo, cercai di realizzare del materiale da far sentire in giro ma il risultato mi sembrava tutta roba slegata, senza una direzione. Però mi piaceva il groove e l’idea di far ballare, e del resto amavo perdermi negli intrecci ritmici dei sample che si accavallavano. Misi in campo dei contatti per fare dei live, chiedevo ospitalità senza cachet per capire se ciò che facevo avesse o meno un senso. Spesso il senso sembrava non ci fosse affatto, eppure a me quella roba piaceva. Avevo finalmente modo di suonare live ciò che producevo a casa, possedevo un auto con cui trasportare gli strumenti ed avevo qualche contatto giusto, ma mi mancava il nome. Ne volevo uno italiano ma che non avesse a che fare col mio nome di battesimo, qualcosa che rappresentasse una persona e non un gruppo e che fosse possibilmente facile da ricordare ma non mi veniva in mente nulla. Poi un giorno ritrovai in un cassetto un foglio scarabocchiato con una forma che pareva un fantoccio accasciato sotto cui avevo scritto “ominostanco”. Ecco ciò che cercavo! Se ben ricordo era il 1997».

Il logo di Ominostanco

Il logo di Ominostanco

La musica che Vallicelli crea come Ominostanco è di ardua classificazione, specialmente per chi proviene dalla dance, dal suono in 4/4, dove il rassicurante “four-on-the-floor” viene a mancare lasciando l’ascoltatore spaesato, a meno che non abbia familiarizzato col suono di etichette come Compost Records, Talkin’ Loud, Acid Jazz, Ninja Tune e Mo Wax. «Trovo difficoltà nel descrivere la mia musica. La parte creativa, quella davanti al “foglio bianco”, alla timeline vuota, quella divertente insomma, dura solo cinque minuti, forse dieci. Tutto quel che resta è lavoro. Quando inizio un nuovo brano non so mai dove andrò a finire, ma adoro quella sensazione che provo nel trovare il primo suono che mi piace, quel “friccico” alla bocca dello stomaco che rappresenterà il carattere del brano, che mi fa immaginare una luce del giorno o una stanza umida nel più brutto hotel alla periferia di una metropoli. Insomma, anche nella musica più pensata per il club metto sempre un’immagine, un personaggio, una storia. Il tutto lo definirei un amalgama dal sapore a volte raffinato ma con un retrogusto che abbina anche caratteri più forti. Senza dubbio mi piacciono sia ritmo che melodia».

Nella primavera del 2000 la Virgin Music Italy pubblica “5 Seconds”, singolo di debutto per Ominostanco. Disponibile sia su 12″ che CD, il brano viene remixato da Adamski, quello della famosa “Killer” (di cui abbiamo parlato qui) che in quel periodo fissa la sua residenza in Italia. «Ero a cena da amici ed uno di loro mise una sua cassetta mixata che comprendeva roba mista, tra rare groove e varie stramberie. Ad un certo punto sentii partire un brano che, per un motivo ignoto, colpì la mia attenzione nonostante il chiasso della cena. Chiesi subito che pezzo fosse ma l’amico non ricordava. Qualche giorno dopo si presentò con quel brano, si trattava della colonna sonora di “55 Giorni A Pechino” composta da Dimitri Tiomkin per il film omonimo del 1963. Campionai l’intro del tema, fatto di archi acuti, percussioni vagamente sudamericane, e chitarra ritmica. Tutto viaggiava ad un BPM perfetto per farne una versione drum n bass lenta. Oltre ai sample di Tiomkin c’è la mia voce pitchata per farla sembrare femminile e un frammento di “Canzone Cinese” di Odoardo Spadaro, quello di “Porta Un Bacione A Firenze”. Come spesso accade a chi fa musica, non riconobbi quel “figlioccio” appena creato e lo avrei escluso da un eventuale album che prima o poi mi sarei stampato da solo. Mi sembrava un brano non finito, che aveva promesso qualcosa ma che poi non era stato in grado di mantenere. Però, contrariamente al mio giudizio, proprio “5 Seconds” venne scelto come singolo.

Ominostanco (2000)

Ominostanco in una foto scattata nel 2000

La voce nell’intro di Spadaro venne aggiunta in seguito e fu semplicemente una botta di fortuna. Acquistai due CD in Autogrill, alla perenne ricerca di sample, cercavo roba lontana dagli ascolti abituali e mi buttai sui cantanti italiani dei primi del Novecento. Uno di questi fu appunto Spadaro con “Canzone Cinese”, del 1939, un brano sottilmente irridente al regime fascista che trovai racchiuso in una raccolta. Quando sentii il campione di voce chiesi all’etichetta di poter fare ancora modifiche, visto che l’uscita del singolo era imminente, e mi risposero che avevo solo un paio di giorni a disposizione. Tornai quindi in studio, riaprii la sessione ed aggiunsi quel sample. Tecnicamente parlando non era proprio uno scherzo, giacché riaprire la sessione significava rifare il mix da capo, col banco analogico da reimpostare e via dicendo. Sostanzialmente realizzai “5 Seconds” con un campionatore Yamaha con appena 16MB di memoria. Per risparmiare spazio, la maggior parte dei sample era in mono. Tutto l’album fu prodotto in questa maniera, anche se poi rendemmo il tutto più bello aggiungendo suoni presi da un sampler Akai S950 e un expander Orbit, ma l’ossatura fu fatta col campionatore Yamaha A3000 e l’expander Roland D-110. Le sequenze invece giravano su Logic MIDI.

Quello con Adam (Adamski) fu un incontro del tutto casuale. Lui viveva a Bologna e il Bayer Studio in cui finalizzammo i pezzi era a Bubano, nelle campagne di Imola, a circa trenta chilometri di distanza. Il fonico e produttore era Alessandro Scala che conobbi facendo il facchino per un service. Lo studio era un po’ a pezzi ma c’era un banco analogico enorme su cui, si dice, abbiano mixato “Saturday Night Fever”, ed inoltre era un posto dove potevi incontrare Tanita Tikaram, Marco Sabiu dei Rapino Brothers ed altri musicisti di livello. Adam era in cerca di un luogo tranquillo, con gente capace e poche pretese. Aveva uno spirito rock n roll ma era piuttosto diffidente visti i problemi sorti con l’ultimo produttore con cui ebbe a che fare. Comunque mostrò molto interesse per quello che producevamo lì dentro ed anche lui stava buttando giù le idee di un nuovo album. Per me era davvero strano, mi trovavo di fronte ad un artista che non avevo seguito nella carriera artistica ma che, dieci anni prima, avevo visto su tutte le copertine dei giornali inglesi che riuscivo a comprare in Italia. Insomma, trovarmi Adamski nelle campagne di Imola fu semplicemente assurdo. Ci conoscemmo ed iniziammo a frequentarci. Una sera uscì dallo studio e poco dopo lo sentimmo urlare. Corremmo a vedere cosa fosse successo e lo trovammo di fronte al buio della campagna illuminato dalle lucciole. “È magia!” diceva, e secondo me era serio, non aveva mai visto quegli insetti. Un giorno venne in studio con Gerideau, voce di suoi brani come “One Of The People”, “Intravenous Venus” e “In The City”, e Shafiq, un amico che faceva del poetry. Io avevo un brano dell’album, “The Junkies”, da cui dovevo rimuovere il sample vocale per non pagare i diritti e quindi chiesi a Gerideau se avesse voglia di fare un paio di registrazioni di voce, con un testo che tenesse conto della metrica del campione. Detto fatto. Chiedere ad Adamski di fare un remix fu quindi abbastanza naturale, ed anche la Virgin era contenta di poter contare su una versione stilisticamente lontana dal mio mondo che in quel periodo era popolato principalmente da DJ drum n bass. Ho riascoltato quel remix qualche tempo fa ma continua a non piacermi, anche se non l’ho mai confessato ad Adam. Penso sia una persona davvero di cuore oltre che un piccolo genio. Produceva i suoi brani con una piccola tastierina (una Ensoniq SQ-80, come lui stesso dichiara nell’articolo citato prima, nda) una workstation che dava la possibilità di creare piccoli pattern con poche note, suoni duri e spietati. Eppure dopo un’oretta di cose per me confuse e senza capire come potessero stare insieme, il brano magicamente partiva e tutto quadrava. Grande Adam! Sia per me che per l’etichetta, “5 Seconds” è stata una vera sorpresa in termini di interesse per la stampa e di riscontro da parte delle radio. Risultati insperati per un brano strumentale, lontano dal mainstream dell’epoca, dalla house e dalla techno, solo con qualche riferimento drum n bass. I media si mostrarono interessati forse proprio perché era un pezzo con un suono nuovo per le radio, ma orecchiabile».

Alessandro Scala @ Bayer Studio (2000)

Alessandro Scala nel Bayer Studio a Bubano (200x)

Nel 2000 la Virgin pubblica il secondo singolo di Ominostanco, “Poshvee”. Rispetto al predecessore, qui figurano più parti vocali montate su una base ricca di fiati e percussioni, questa volta con la cassa in quattro. A supportarlo ci sono ancora diverse emittenti come Radio Italia Network che proprio in quel periodo inizia a trasmettere dalla nuova sede milanese in Viale Giulio Richard. «Nella corsa contro il tempo nel cercare le licenze per tutti i sample adoperati ci fu un intoppo. Mancava il clearance di due campioni di sitar e saroong presi da un CD di musica indiana che “spalmai” in un brano a mo’ di drone magmatico irriconoscibile. Però, comprensibilmente, l’etichetta non voleva avere grane e quindi chiese regolare licenza ma la label rispose picche perché era un brano religioso. A quel punto mi mancava un pezzo per finire l’album e visto che il primo singolo era già uscito stavamo cercando il secondo che avrebbe dovuto accompagnare la pubblicazione contemporanea dell’LP. C’era fretta e fare un brano nel 2000 non era come farlo ora, con la stessa velocità intendo. L’idea poteva nascere rapidamente ma la realizzazione aveva tempi più lunghi, ed inoltre essendo un perfezionista non me la sentivo proprio di raffazzonare. Cominciai quindi a svuotare le registrazioni della traccia da togliere e alla fine tenni solo una percussione iniziale, cestinando il resto. A quel punto iniziai ad aggiungere. L’idea era mantenere qualcosa di etnico in senso lato, per creare omogeneità con quasi tutti gli altri brani dell’album. Così nacque “Poshvee”, un titolo che non so neanche cosa significhi, credo sia una parola in sanscrito. In termini di vendite andò peggio rispetto a “5 Seconds” ma venne inserito in più compilation. “Poshvee” uscì sull’onda di una aspettativa forte visti i riscontri del primo singolo, e live funzionava piuttosto bene, gli intrecci ritmici erano interessanti e mi permettevano di giocare nonostante avesse un beat piuttosto dritto. Non replicò passivamente lo stile di “5 Seconds”, quindi anche per questo credo abbia venduto meno. In quel momento si svolgeva il Gay Pride a Roma, un evento che esplose letteralmente a livello di partecipazione, e “Poshvee” finì nella compilation ufficiale».

Ominostanco Album

La copertina del primo album di Ominostanco, edito dalla Virgin Music Italy nel 2000

Il 2000 è l’anno in cui la Virgin pubblica anche il primo album di Ominostanco, l’omonimo “Ominostanco”. Nella sua recensione, a giugno 2000, Pino Caffarelli parla di “una scena elettronica dolce, dove le macchine non producono alienazione ma emozione” e descrive Vallicelli come “il figlio naturale di questa filosofia che, tradotta in prassi, sa organizzare suoni di matrice diversa, citazioni, annotazioni ironiche e remix di varia natura, restituendo all’ascoltatore un panorama ritmico-armonico stratificato e suggestivo”. «Ad aiutarmi ad attirare l’attenzione di una multinazionale fu innanzitutto fortuna, che però ho istigato in qualche modo. Cercavo di suonare ovunque potessi, all’inizio quasi sempre gratis. Poi i live piacevano, si spargeva la voce e mi richiamavano. Un giorno Marco Boccitto, giornalista de Il Manifesto e conduttore di Rai StereoNotte che conoscevo da alcuni anni, mi disse che Riccardo Petitti (DJ romano scomparso prematuramente nel 2014, nda) mi avrebbe fatto suonare al Brancaleone. Avevo incrociato Petitti qualche tempo prima al Cap Creus di Imola, dove lavoravo, e l’amicizia fu immediata. Mi sarei esibito il venerdì nelle serate targate Agatha, con Petitti e Lai in consolle. Era la prima volta che portavo nella capitale il mio progettino elettronico e per me era come essere in paradiso. Con Riccardo, a dirla tutta, era facile essere amici, era sempre disponibile e mi faceva sganasciare dalle risate. L’impianto al Brancaleone era un’autentica macchina da guerra. Quando aprivo una cassa ed un hihat sul mixer, il sound system mi ripagava delle ore spese nella programmazione. Era come lo avrei sempre voluto, un palco, un club buio, un impianto incredibile e persone disposte ad ascoltare e a lasciarsi andare. In sala, all’inizio, c’era poca gente perché era presto ma si riempì sul finale. Chiuso l’ultimo fader la pista era quasi piena e partì un applauso. Non mi ero mai sentito così bene, e mi pagarono anche. Fico! Andò benone e lì ci tornai più volte. Iniziò a girare voce nell’ambiente romano e Petitti chiamò Francesca Bianchi che all’epoca faceva scouting e tanto altro per la Virgin, invitandola a sentire il mio live set. Mai mi sarei aspettato quello che sarebbe successo da lì a due settimane. Ricevetti una telefonata dalla Virgin, mi chiedevano una demo. In quel periodo cercavo di pubblicare la mia musica, ero presente in “Globe@t”, una compilation del ’97 curata da Boccitto per la Irma, ma il mio colpo da giocare fino a quel momento era una proposta di contratto da parte dell’americana OMW (Oxygen Music Works) che aveva pubblicato i dischi di Kurtis Mantronik. Mi accorgevo che c’era interesse intorno a ciò che facevo, in Italia allora c’erano tanti progetti elettronici, tutti molto settoriali a dire il vero, estremamente dance-oriented oppure spiccatamente intellettuali e sperimentali. La mia proposta invece era più varia ed ironica, alternavo serietà al divertimento e questa formula, abbinata allo pseudonimo, funzionò. Inoltre le iniziative e festival non mancavano, specialmente tra Milano, Torino, Bologna e Roma. Talvolta, in maniera acritica, si finiva per bersi anche la fuffa. A me comunque, come anticipavo prima, è sempre piaciuto scherzare e adoravo l’idea di fare live set che avessero una buona dose di ignoto davanti, non ricordarsi di cosa gira su quel canale del mixer mentre altri dodici sono aperti, fare casino, incartarsi ed essere obbligato a trovare velocemente una soluzione, fare andare le percussioni ed improvvisare qualcosa, poi guardare il pubblico e concedersi il rischio di cambiare completamente, ripartire e rallentare finalmente il ritmo, portare le donne a muovere i fianchi e finire in una sorta di inferno lascivo pieno di groove e sudore. All’epoca il mio set era composto da un sequencer Roland MC-500, un delay Vesta, un riverbero Yamaha SPX1000, un distorsore Korg A3 e i già citati Roland D-110 e Yamaha A3000, tutti splittati sui 24 canali di un mixer Mackie. I loop correvano costantemente senza una stesura e il lavoro su fader, mute e send, era piuttosto impegnativo avendo solo due mani e dieci dita.

Ominostanco al Vibra Club di Modena (2000)

Ominostanco durante un live al Vibra Club di Modena, nei primi anni Duemila

L’Oxygen Music Works nel frattempo chiedeva la firma del contratto e, seppur poco convinto, chiamai Alessandro per domandargli quanto volesse per affittare lo studio per un giorno e mixare dieci brani. Mi rispose che quello che stavo facendo gli piaceva e che se ci avesse messo mano lo avrebbe voluto fare seriamente. Mixare dieci brani in una sola giornata è da dementi. A quel punto mollai l’affare con gli americani che si stava rivelando troppo complicato e continuai a lavorare con Scala. Pian piano i pezzi prendevano una forma più concreta. Al contrario la mia vita si sgretolava, tra lutti famigliari, sentimentali ed economici. Continuai a girare l’Italia facendo il tour manager ed alternando studio all’ospedale. Non avendo casa, spesso finivo col dormire nello stesso studio. Della demo inviata alla Virgin non seppi nulla, e giunse l’estate del 1999. Alcuni ragazzi della Virgin andarono in vacanza e si portarono un po’ di CD tra cui, casualmente, anche la mia cassetta con la demo. La fortuna volle che nell’auto affittata fosse presente una radio a cassette e quindi la mia musica sarebbe diventata la colonna sonora delle loro vacanze. Firmai il contratto per strada sotto al Colosseo quadrato all’Eur dove stavo lavorando per i Mau Mau. Mi chiesero di eliminare un solo brano dalla tracklist dell’album, per il resto mi diedero massima disponibilità e nessuna pressione, anzi, erano propositivi verso altri progetti. Si fidavano, anche se la figura del produttore/artista, come la intendiamo oggi, era una novità. Tutto sommato si trattava di una bella label ma so che, nella maggior parte dei casi con le multinazionali non è così. Credo che ora sia tutto molto diverso, circolano meno soldi ma esistono tanti canali in più. La proposta oggi è massiccia, nel 2000 Facebook e YouTube non esistevano, internet era limitato alle email e poco più. Per me fu un bel momento, fatto anche di jetset ed incontri strambi, lo scambio con altri musicisti, il sentire che stavo facendo una cosa con professionisti. Ho lavorato e conosciuto persone molto velocemente grazie alla Virgin, ho aperto concerti per artisti del calibro di Moby, Laurent Garnier e St Germain e mi hanno sempre sostenuto parecchio, ma fu tutto molto rapido. Stavo ancora cercando di capire chi fossi e cosa dovessi fare e mi ritrovai davanti un mondo in cui tuffarmi senza saper nuotare. Non ho idea di quante copie abbiano venduto singolo ed album, credo realisticamente intorno alle seimila, forse qualcosa in più. Ho incontrato spesso persone che mi hanno confidato di averlo masterizzato. “Ominostanco” è stato un album ascoltato in maniera trasversale e di questo sono felice. Tuttora mi capita di conoscere vecchi estimatori di quel lavoro, parecchio diversi tra loro nei gusti musicali. Ho sempre avuto l’impressione che ci fosse stato più hype che reali vendite. Il merito dell’operazione va riconosciuto alla menzionata Francesca Bianchi e a Marco Cestoni, direttore di Virgin Music Italy, dotato di grande caparbietà e lucidità con cui spinse il progetto. L’asse Roma-Milano della EMI/Virgin funzionava, all’interno c’erano persone sveglie e la comunicazione dava i suoi frutti. Oggi come allora, un brano che arrivava da una major aveva più spinta e riusciva ad imporsi di più sui canali tradizionali».

Il secondo album di Ominostanco esce nel 2004, si intitola “La La La” e viene anticipato dal singolo “The Cake”. Questa volta a pubblicarlo è la EMI Music Italy che, come illustrato poche righe sopra, faceva parte del mondo Virgin. Le premesse c’erano ma i risultati, purtroppo, no. «Andò male per tanti motivi» afferma senza mezze misure Vallicelli. «Come hanno già detto mille altri prima di me, il secondo album è sempre più difficile, ma credo che la responsabilità di ciò che è avvenuto sia quasi solo mia. Sono stato pigro nel gestire i rapporti, artisticamente ho cercato qualcosa che mi è riuscito in parte. Il suono era completamente diverso dal primo album, troppo sofisticato, e il singolo, in tutta franchezza, era debole. Si sarebbe potuto fare un ragionamento diverso su tutto ma il tempo è passato, i termini del contratto scaddero e la label non produsse un secondo singolo. Nel frattempo in Virgin/EMI era cambiato tutto, dalla dirigenza al team di ragazzi con cui lavoravo. La Virgin veniva rottamata, Marco Cestoni e Francesca Bianchi presero altre strade, il mio telefono non squillava più. Era chiaro che i nuovi manager subentrati si fossero dimenticati del mio contratto. A quel punto intavolai una trattativa per il secondo album altrimenti avrei proceduto per vie legali. Parlammo ma non trovammo la sintonia, fu tutto molto manageriale, rampante. Ci accordammo per l’uscita di “La La La” e, consapevole di abbandonarlo a se stesso, incassai una somma piuttosto allettante per la cessione del master e la rinuncia al terzo album. Il divorzio con la Virgin si era concluso, ma l’album non fu promosso e stampato in sole mille copie. Continuo a pensare che lì dentro ci siano bei brani ma alcuni li eliminerei».

Archiviata l’esperienza con la major, Ominostanco ricomincia sulla piccola indipendente D-Verso che nel 2006 pubblica il singolo “Is It (Easy) 4 U”. A differenza dei precedenti, sembra rivolto in modo più marcato al pubblico delle discoteche. Nel frattempo l’ondata della lounge va affievolendosi e in ambito dance, dopo la sbornia electroclash, è tempo dell’esplosione electro house. «Quello fu un disco nato davvero per scherzo. La mia fidanzata mi ossessionava con tutta la musica di derivazione 80s in circolazione ed io rispondevo che con quelle cose ero cresciuto. Ero pronto a scommettere che avrei fatto un pezzo dal sapore “anni Ottanta” in appena trenta minuti. Così fu, ma rimase per lungo tempo in un angolo dell’hard disk. Poi Andrea Rango di m2o, che aveva già scelto miei brani per alcune compilation da lui curate come “Pure Nujazz” e “Pure NuLatin” per la Liquid Art Records, mi chiese di mandargli un po’ di materiale e tra le varie cose che gli inviai c’era pure “Is It (Easy) 4 U”. Dopo qualche mese mi richiamò dicendomi che quel pezzo lo aveva perso ma poi lo ritrovò e ci si era completamente fissato. Quindi fece tutto il resto, incluso il suo remix. Io nel frattempo avevo fatto un video col regista Cosimo Alemà, il brano era pronto, non c’era alcun motivo di continuare a tenerlo nel cassetto».

Ominostanco @ Italia Wave Love Festival (luglio 2007)

Ominostanco all’Italia Wave Love Festival, luglio 2007

Da quel momento in poi l’attività discografica di Ominostanco è meno frequente. Diversi album escono solo in formato digitale su Bacci Bros Records e sulla Microricordo, con musica che si presterebbe molto bene come colonna sonora di qualche film. «Quegli album fanno parte di una setacciata di vari brani realizzati nel corso degli anni. Idee, cazzeggi, musiche da documentari televisivi, insomma di tutto un po’. Tanti provengono da filmati o provini per documentari. Molti artisti che fanno musica prettamente strumentale fanno spesso riferimento ad un immaginario filmico, credo venga da sé anche per l’ascoltatore. Fino ad una decina di anni fa le colonne sonore in Italia erano piuttosto “classiche”, poi anche grazie al fenomeno delle serie e di alcuni registi, si è cominciato ad aprire a musiche diverse. Ultimamente ho lavorato per l’ultima commedia di Federico Moccia e un altro film per Guido Chiesa in collaborazione con Francesco Cerasi, autore della colonna sonora. In passato anche con Andrea Guerra per Ozpetek de “Le Fate Ignoranti”. Tanti anche i documentari di cui due su Netflix. All’attivo ho diverse cose per Sky, con Alex Infascelli, fiction soprattutto. Attualmente sto chiudendo le musiche di un’opera prima di Andrea Rusich e continuo a lavorare per la sincronizzazione componendo per library».

Le dinamiche del mondo della musica sono radicalmente cambiate, specialmente nell’ultimo quindicennio. La globalizzazione e massificazione di internet, la “liquefazione” dei supporti fisici e le nuove forme di fruizione (Spotify in primis) di fatto remano contro il concetto di “possesso”. Le nuove generazioni si accontentano di ascoltare i brani dei loro artisti preferiti con e sullo smartphone. In una condizione simile appare chiaro come gli introiti generati dalla vendita di musica stiano toccando i minimi storici e per i compositori il futuro (ma anche il presente) è assai incerto. Parlare di business spostato sull’attività live però non è propriamente realista, perché per ovvi motivi non c’è spazio per tutti, specialmente per i meno noti e quindi “inadatti”, rei di essere troppo poco pop(olari), senza dimenticare coloro che non sono nemmeno disposti ad esibirsi dal vivo. Per alcuni questa condizione sta già seriamente minando la creatività. «A mio avviso la creatività non viene penalizzata perché ci sono meno soldi, la creatività è innata, umana. Muore invece se culturalmente ci si spalma su modelli preconfezionati. Vivere di live è possibile ma dipende da quanto sei bravo, da cosa suoni, se hai idee, contatti e se ti sbatti parecchio. Certo, l’idea romantica del produttore che da casa fa i contratti importanti è ancora praticabile ma se qualche volta esci dalle pareti domestiche e vai nel mondo è meglio. Indubbiamente è diventato piuttosto faticoso, pieno di incertezze, zero spazi, zero interesse ad usufruire da parte di tutti della musica in una certa maniera. Quando vado a qualche serata vedo che l’attenzione verso chi suona è sempre marginale, è importante alzare le mani e fare “uh!” quando riparte la cassa, non importa se nel frattempo hai fatto una cosa meravigliosa che richiedeva di essere ascoltata, tra uno svuoto e una ripartenza in genere ci si fa i selfie. In sostanza si è aperta la lotta selvaggia ad avere uno spazio in una nicchia di ascoltatori, sperando di poter accedere ad un livello superiore o al massimo di continuare ad avere una nicchia fedele.

La cosa paradossale è che oggi tutti vogliono vivere di musica, quasi come i calciatori. Alcune volte mi è capitato di fare l’auditore e il consulente per un paio di talent show riguardanti la musica e il panorama, se parliamo di mainstream, è desolante per livello di idee, con alcune belle eccezioni che confermano la regola. In compenso è cresciuta molto la tecnica e ci si imbatte in musicisti e cantanti molto bravi ma in assenza di idee restano solo degli esecutori per un pubblico che spende molto per i device su cui ascolta la musica ma non vuole spendere nulla per il contenuto. Di conseguenza se vuoi affrontare il mondo del mainstream come produttore e compositore devi sapere che non hai scelta: devi difendere col coltello tra i denti il poco spazio che riesci a ritagliarti. Diverso, secondo me, è il discorso del club. Puoi cercare di farti spazio e puoi riuscire anche ad ottenere buoni risultati grazie al fatto di poter raggiungere l’intero globo in un click ma come lo stai facendo tu lo stanno facendo altri milioni di persone. Hai però la possibilità di entrare in circuiti del DJing e del live che possono farti vivere dignitosamente, forse non a lungo ma fa parte del gioco. Che il mondo della musica sia effimero lo sai da subito, semplicemente giochi la tua carta se credi in quello che fai. Negli ultimi anni i miei ascolti si sono rivolti sempre più a tutta quella musica già passata che non ho mai esplorato, spesso lontana dall’elettronica che in verità ormai seguo poco. Oggi mi pare tutto molto confuso, bello ma confuso, mi vengono consigliati continuamente nomi nuovi che ascolto distrattamente e poi me ne dimentico. Diciamoci la verità, è diventato tutto piuttosto noioso. Sento bei suoni ma poca personalità.

Insieme ad Edoardo Pietrogrande alias P41 ed Agostino Ticino dei Decomposer ho fondato una etichetta, la Festina Lente, orientata al suono da club ma che sia adulto ed abbia la possibilità di essere ascoltato oltre che ballato. Trovandomi a fare ricerca mi accorgo che il superamento della mia generazione da parte di quelle nuove, che temevo, non c’è stato, almeno in Italia. A me appare il perpetuarsi della stessa cosa da almeno dieci anni. Continuo a non percepire nessuna innovazione sostanziale in procinto di arrivare, ma la colpa è mia, forse sono solo stanco». (Giosuè Impellizzeri)

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Don Carlos – Alone (Calypso Records)

Don Carlos - AloneTra il 1989 e i primissimi anni Novanta, dopo il boom dell’italo house ribattezzata piano house per la sua caratteristica intrinseca probabilmente debitrice a “Move Your Body” di Marshall Jefferson del 1986 (“il primo pezzo house con una linea melodica di pianoforte”, come scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”), i compositori e produttori italiani si attivano per generare una variante di quel suono. Occorre sia prendere le distanze da un filone ormai commercializzato a livello internazionale (e quindi sulla via dell’inflazione), sia accontentare gli avventori dei locali considerati “di tendenza” nonché i DJ attratti dal materiale d’importazione. La deep house che fiorisce da noi non certamente a caso attinge spunti dal suono proposto dalle etichette di New York e di Londra, le due città che prendono le redini del controllo della scena house dopo il (veloce) declino di Chicago dove comunque affondano le radici, i seminali esperimenti e il luogo da cui partono le prime hit transatlantiche come “Love Can’t Turn Around” di Farley ‘Jackmaster’ Funk & Jesse Saunders, “Jack Your Body” di Steve ‘Silk’ Hurley e “Promised Land” di Joe Smooth.

A cavallo tra Ottanta e Novanta quindi in Italia avviene qualcosa che era già accaduto in modo analogo circa dieci anni prima con l’italo disco: la rivisitazione di stilemi ed espressioni estere crea i presupposti e le basi di un neo genere prevalentemente strumentale, oggi in gran spolvero specialmente sulla piazza internazionale. Tra i primi a dedicarsi con dedizione a quel suono, che al suo interno ingloba riferimenti jazzistici ed ambient, è Carlo Troja, da Varese, meglio noto come Don Carlos. DJ sin dalla fine degli anni Settanta, incide il primo 12″ nel 1986 con la Discomagic di Severo Lombardoni, “Disco Halloween” di Forbidden Fruits, arrangiato con Manlio Cangelli ed interpretato vocalmente da Jimmy Mc Foy. Il mancato successo lo trasforma in un cult ottimamente quotato sul mercato collezionistico e ristampato proprio poche settimane addietro dalla finlandese Wishing Well Records. «Quella di Forbidden Fruits fu la mia prima esperienza discografica che condivisi con un altro DJ, l’amico Massimo Scarpati» racconta oggi Troja. «Lo realizzammo in un grosso studio sui navigli milanesi, il Regson Studio, affidandoci a chi ai tempi faceva italo disco».

Tra 1987 e 1988 lo scenario musicale e discografico italiano vede una radicale trasformazione. Al declino inesorabile dell’italo disco, ai tempi gergalmente chiamata “disco dance”, si sostituisce progressivamente la house, specialmente grazie alla decisiva spinta dei britannici, tra i primi a fare “da ponte” con le realtà d’oltreoceano. È una fase entusiasmante sotto il profilo creativo ed imprenditoriale ma Troja ricorda pure un risvolto diverso della faccenda: «La musica viveva un periodo nero, c’era voglia di suonare bei dischi nei locali ma le produzioni lasciavano un po’ di amaro in bocca. Iniziai così a proporre solo classici del passato ma mai finendo nel revival più banale. Poi cominciai a comprare i primi mix provenienti d’oltreoceano ed oltremanica che cambiarono radicalmente la mia visione delle cose. In quei brani sentivo pulsare un sound che mi appagava sia ritmicamente che per i suoni». Nel 1991, a cinque anni da quel timido tentativo non andato molto bene, il DJ ci riprova presentandosi al pubblico con un nuovo pseudonimo, Don Carlos, con cui firma “Alone”, un paradisiaco ed estatico trip che rappresenta bene la scuola deep house italiana, con inflessioni ambient e qualche immancabile rimando al suono imperante del pianoforte, iconico per quello che alcuni giornalisti, specialmente anglosassoni, definiscono sprezzantemente “spaghetti house”.

mentre suona ad un rave a Zurigo nel 1992. Si esibisce come Don Carlo

Don Carlos si esibisce ad un rave a Zurigo nel 1992

«Facevo il DJ da anni ma il mio sogno restava quello di produrre musica mia, specialmente dopo l’arrivo sulla scena dei grandi DJ statunitensi, artefici dei remix che mettevo nei set sin dalla fine degli Ottanta. Cercai quindi un musicista che mi assistesse ed accompagnasse la mia voglia di produrre musica house e trovai Luca Martegani, ancora oggi al mio fianco in studio. Le cose che iniziammo a fare erano discrete ma prive di quella marcia in più che invece aveva “Alone”. Impiegammo circa un anno prima di ottenere un prodotto degno di essere pubblicato! Ricordo ancora quel pomeriggio in cui, dopo una bella lite con Luca, dal pianoforte emerse la melodia del brano. Poi creammo la linea armonica e a quel punto capii che si trattava del pezzo giusto su cui insistere. Mettemmo altri suoni insieme usando una Yamaha DX7, una Roland TR-808, un Moog ed alcuni effetti. Lo registrammo e nell’arco di pochi giorni lo mixammo. Quando aggiungemmo il sax parve crearsi un alone intorno al tutto e quindi optai per “Alone” come titolo, da leggere però con pronuncia inglese. “Solo” perché quel disco rappresentava la mia anima, quello che avrei voluto suonare nei club da quel momento in poi. Per iniziare l’avventura scelsi un nuovo nome ed optai per Don Carlos, volevo che le mie origini italiane fossero chiare a chiunque».

Sono tre le versioni di “Alone”: la Paradise, la Flute House e la Sax Ambient, derivate pressoché dalla stessa idea. A pubblicare il 12″ è la Calypso Records del gruppo bolognese Irma di Umbi Damiani e Massimo Benini. «Feci ascoltare il demo di “Alone” a molte etichette milanesi ma la risposta era sempre la stessa. I vari A&R lo apprezzarono per i suoni ma lamentavano l’assenza del cantato e mi consigliavano puntualmente di aggiungere alla stesura un inserto vocale, un rap o un campione preso da qualche vecchio disco, come fecero i Black Box. A me però quelle modifiche non convincevano affatto e quindi chiamai Damiani della Irma e presi un appuntamento. Ascoltammo insieme il pezzo e poco dopo Umbi mi disse che gli piaceva e che lo avrebbe voluto pubblicare sulla Calypso Records. Qualche mese più tardi mi telefonò annunciandomi che “Alone” stava scalando le club chart e che DJ del calibro di Frankie Knuckles e Tony Humphries lo stessero inserendo regolarmente nei loro set».

Don Carlos con un'amica al Paradiso di Rimini nel 1993

Don Carlos in compagnia di un’amica, al Paradiso di Rimini nel 1993

I galvanizzanti risultati irrorano di energia la vena creativa di Don Carlos che nel 1992 firma, sempre per la Calypso, il mini album “Mediterraneo” (recentemente ristampato dalla Flash Forward) contenente brani rimasti impressi nella memoria di una generazione come la title track, “Paranoia” o “Play It Again”. Seguono l’album “Aqua”, vari EP e svariatissimi remix (tra cui quelli per Gazzara, Adolfo, Argentino, Blacknuss, Byron Stingily, Karen Ramirez e persino Alex Britti col tormentone estivo del 1998 “Solo Una Volta (O Tutta La Vita)” ) che mettono in chiaro le sue inclinazioni stilistiche localizzate su un canovaccio di soluzioni deep house, jazz ed ambient. Da progetti paralleli condivisi con Stefano Tirone, come Antigua Managua e Montego Bay, emerge inoltre una vena funky che rende quelle annate pregne di una creatività imbattuta e forse imbattibile. «Era difficile creare qualcosa uguale ad “Alone” ed io non volevo affatto rovinare quel pezzo, così prese vita “Mediterraneo” per palesare a tutti da dove venivo e soprattutto che noi italiani eravamo perfettamente in grado di scrivere ancora belle melodie e che possedevamo eccome un’anima musicale. Per quel disco cercai sfumature più jazz, fondendo percussioni funk unite a parti elettroniche, insomma, la “spaghetti fusion” che tanti continuano ad invidiarci. Montego Bay invece nacque da un’idea di Umbi Damiani che mi presentò Stefano Tirone, già coinvolto in altri progetti della Irma. Cercammo un punto di contatto che non fu difficile trovare giacché lui aveva un’anima più funky ed io facevo il DJ sin dalla fine degli anni Settanta. Venne fuori un mix tra house, disco e funk che si concretizzò prima in “Everything…” del 1992 e poi si sviluppò in “Saturday Night EP” del 1993».

Qualche anno più tardi, nel 1996 per la precisione, Don Carlos approda alla statunitense Guidance Recordings per cui firma una trilogia come The Aquanauts che sottolinea ulteriormente il poderoso background con cui l’artista realizza opere di ampio spessore. Al netto di banale nostalgia, probabilmente alla maggior parte dei produttori odierni mancano proprio le radici solide da cui attingere la linfa vitale per creare il proprio stile ed evitare di uniformarsi passivamente a quello più in voga al momento. «La Guidance Recordings che stava nascendo era in cerca del meglio della deep house mondiale. Mi chiesero un EP e quindi inventai il progetto The Aquanauts che avanzò in modo parallelo alla mia attività come Don Carlos. In quei brani cercai di mettermi in gioco con suoni adesso ben rodati ma allora pure innovazioni, oltre a tanti sample che giravano in loop sopra le melodie. Era la trasposizione discografica di quello che facevo in consolle, ovvero mixare due brani saldandoli con una acappella ed ottenerne uno nuovo».

Nel 2001 è tempo del terzo album dal titolo esplicativo, “The Music In My Mind”, in cui Troja ha modo di collaborare con cantanti d’eccezione come Kym Mazelle, Michelle Weeks e Taka Boom. L’italo house dei primi anni Novanta è ormai lontana, i tempi iniziano a cambiare tecnologicamente e culturalmente e il DJing, da lì a breve, non sarebbe più stato lo stesso. «In quel periodo ero alla ricerca di suoni nuovi, latini, afro e brasiliani. Oltre a Martegani e Stefano Lucato (quest’ultimo giunto per “Love & Devotion” di Don Carlos Unlimited, sulla Subliminal Soul, in cui figura anche la chitarra di Beppe Pini), al team si unì Ricky D.T., un “mostro” alle tastiere, tecnicamente spaventoso e con un gusto comune a pochi altri. Intendevo uscire dalle solite cose che proponeva la house music, specialmente quelle con la ritmica ossessiva, così volli a tutti i costi vocalist del calibro di Kym Mazelle, che personalmente metto allo stesso livello di Chaka Khan, Michelle Weeks e Kevin Bryant. Desideravo incidere un album da cui emergesse in modo più evidente la mia artisticità, cercando prima il sound e il soul rispetto al classico tool da ballare in discoteca. In particolar modo fu il pubblico giapponese ad apprezzare quel disco. La Mazelle poi mi disse che Knuckles se ne era letteralmente innamorato ed avrebbe voluto realizzare il remix di “Someone Gotta Found Love” ma, un po’ per il budget della Irma, insufficiente a coprire la sua richiesta, e un po’ per la tempistica di realizzazione, purtroppo restò un sogno irrealizzato di cui comunque vado orgoglioso».

Don Carlos a Miami nel 1999

Don Carlos a Miami nel 1999, seduto sul suo flight case

Gli anni trascorrono e la deep house battente tricolore italiano, così come accaduto ad altri generi rivalutati nel corso del tempo, si ritrova a vivere di luce nuova. “Alone” viene recentemente ricommercializzato dalla milanese Groovin Recordings e sul mercato piomba una vera e propria invasione di ristampe, forse un campanello d’allarme che indica una fase inventiva stagnante. Anche molte produzioni nuove, peraltro, vengono create sulla falsariga di quelle di venti/venticinque anni or sono, decretando una non evoluzione connessa ad una voglia di emulazione forte e radicata specialmente nelle nuove generazioni che anagraficamente non hanno nemmeno vissuto gli anni per cui provano una strana forma di nostalgia. Fatto sta che italo house e deep (italo) house vivono un ritorno di fiamma dopo l’oblio che pareva infinito. Nel 2014 Joey Negro assembla la compilation “Italo House” sulla sua Z Records (aperta proprio da “Alone”), nel 2017 Young Marco e Christiaan Macdonald di Rush Hour creano la serie “Welcome To Paradise” dedicata alla cosiddetta dream house. Tenere il conto dei repress però, ufficiali e non, è veramente impossibile. «La italo house generò alcuni talenti ancora presenti sul mercato. Era un filone stilistico dalla spiccata “freschezza”, destinato ad una nicchia di ascoltatori seppur ci fu un periodo in cui divenne particolarmente popolare. Adesso la tecnologia aiuta ma limita il talento. Quasi chiunque può produrre musica a casa, con strumentazione dal costo irrisorio. Può essere un vantaggio ma anche l’esatto opposto. Noi realizzammo “Alone” in uno studio professionale. Tutte le tracce furono suonate e mixate manualmente. La versione Paradise la tagliai dal nastro, è un collage di pezzettini uniti che avevo pre-registrato su un 24 piste. Il computer difficilmente riesce a preservare quel suono caldo. Insomma, i limiti che sussistevano all’epoca si sono rivelati la nostra forza. Era necessario ingegnarsi per ottenere particolari risultati, adesso invece il mercato si limita a cercare cose che suonano ancora attuali. A testimonianza di ciò, il prossimo 20 ottobre sarò ad Amsterdam per una serata nell’ambito dell’ADE dedicata proprio alla italo house. Insieme a me artisti come Elbee Bad, System Of Survival ed Akira».

Giusto un paio di mesi fa è uscita la compilation “Paradise House” che Don Carlos ha curato per la Irma, praticamente una summa di tutto quel periodo realizzata setacciando i cataloghi della label bolognese che quest’anno taglia il trentennale d’attività. «”Paradise House” è nata da una mia idea poi condivisa con Umbi. Volevo scavare a fondo negli archivi di quella storica etichetta di cui orgogliosamente faccio parte, inserendo cose che a mio parere sono ancora proponibili. È come quando ti imbatti nelle b side di vecchi 7″ occupate da pezzi bellissimi ma sconosciuti. Ecco, secondo me c’è ancora tanto da scoprire nell’enorme catalogo della Irma. Prossimamente uscirà su vinile “The Cool Deep”, il mio quarto album del 2010 ai tempi edito solo su CD, a cui seguirà la ristampa di “Aqua” del 1993. In cantiere c’è anche un nuovo album, il quinto della mia carriera, che racchiuderà tracce inedite prodotte ai tempi, l’Original Version di “Alone” e due Extended di “Paranoia”. Insomma, un LP nuovo ma vecchio, che conterrà ciò che ero, che sono e che vorrò essere in futuro». (Giosuè Impellizzeri)

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Claudio Coccoluto – DJ chart marzo 1996

Disco Mix marzo 1996
DJ: Claudio Coccoluto

Fonte: Disco Mix
Data: marzo 1996

1) Rosie Gaines – Closer Than Close
È presumibile che Coccoluto facesse riferimento all’album della cantante californiana, pubblicato nel 1995 dalla Motown e costruito su itinerari funk, soul, hip hop ed r&b. In tracklist c’è pure un contributo di Prince (per “My Tender Heart”), artista con cui la Gaines collabora anni prima figurando nella formazione dei New Power Generation. Il brano che dà il titolo al disco, “Closer Than Close”, viene estratto come singolo solamente nel 1997 quando diventa una hit nel Regno Unito e vende, almeno stando a quanto si legge qui, oltre otto milioni di copie grazie al remix dei Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza), a cui si aggiungono pure quelli dei Tuff Jam e di Frankie Knuckles. La versione house garage dei Mentor, in circolazione in formato white label sin dall’autunno del 1996, garantisce a Rosie Gaines una visibilità inaspettata nel mondo dei DJ e delle discoteche, tanto da finire pure nei circuiti generalisti ed essere ripresa più volte negli anni a seguire in svariati nuovi remix.

Precisazione: dopo aver letto l’articolo, Claudio Coccoluto ci fa sapere che suonava un acetato col remix realizzato dai Mentor per “Closer Than Close”, proponendolo pertanto con circa un anno di anticipo rispetto all’uscita ufficiale. «Sono orgoglioso di aver contribuito al successo del brano» scrive su Facebook il 19 aprile.

2) Century Falls Feat. Philip Ramirez – It’s Music
Erroneamente attribuita al solo Crispin J. Glover che comunque produce il tutto per la Sound Proof Recordings, “It’s Music” è la cover dell’omonimo di Damon Harris risalente al 1978. Il brano lascia rivivere suoni funk/disco all’interno della house/garage tipica di metà anni Novanta, non dimenticando neanche influssi jazz. Sul doppio vinile trovano spazio pure i remix di 95 North, Idjut Boys & Laj e Black Science Orchestra, che sviluppano ulteriori diramazioni tangenti la house e la disco.

3) Groove Collective – I Want You (She’s So Heavy)
I Groove Collective sono un ensemble di musica acid jazz/funk fondato nel 1992. Il brano della chart viene estratto dal secondo album, “We The People”, e dato in pasto a Jazz Moses ed Eric Kupper che lo rileggono in chiave deep house. Sul doppio mix edito dalla Giant Step Records c’è anche la versione originale in cui la band di musicisti mette ampiamente in mostra stile e capacità artistiche.

4) Yellow Sox – Flim Flam
Prodotto da Darren House per la Nuphonic di David Hill e Sav Remzi, “Flim Flam” mette insieme house e referenze disco in una modalità che sarà abilmente commercializzata qualche tempo dopo sotto forma di french touch ma che, è bene ricordarlo, viaggia nell’oscurità del clubbing (soprattutto britannico) già da diversi anni. A riverberare la componente funk in tre reinterpretazioni ci pensano i Faze Action (i fratelli Simon & Robin Lee, tra i primi a ricollegare disco ed house). Il brano viene ripresentato nel 2000 attraverso la Yoshitoshi Recordings dei Deep Dish che pubblica un doppio mix con nuove versioni di Christian Smith & John Selway, Olav Basoski ed David Alvarado alle quali si aggiunge pure l’inedita Unreleased Mix con sprazzi di philly sound, probabilmente esclusa dalla stampa su Nuphonic quattro anni prima.

5) Davidson Ospina – The Chronicles
È la newyorkese Henry Street Music di Johnny “D” De Mairo a pubblicare il progetto “The Chronicles”. L’EP consta di quattro brani, “Strings”, “Get On Up”, “Key Of D’s” e “Shadow” attraverso cui il DJ/remixer mostra deep house dai riflessi jazzati sino a toccare ritmi più marcati decorati con brevi campioni vocali tra cui uno forse tratto da “Reach Up” di Toney Lee. Nel corso del 1996 la Henry Street Music pubblica pure “Chronicles II” e “Chronicles III” con cui Ospina continua a battere percorsi sonori analoghi contraddistinti da una particolare predilezione per gli strumenti a fiato.

6) Lectroluv Feat. Stephanie McKay – Oo La La
Frederick Jorio alias Lectroluv, ai tempi impegnato su etichette di tutto rispetto come Tribal America ed Eightball Records, incide sulla britannica Produce Records un brano garage in formato “canzone” interpretato dalla vellutata voce della cantante newyorkese Stephanie McKay che dona al tutto un tocco r&b. House lontana anni luce dalle tante pacchianerie odierne a base di striminziti loop, suoni precotti e voci tratte da librerie da una manciata di euro.

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Claudio Coccoluto sulla copertina della rivista Tutto Club, n. 5, 1994

7) Lo-Tech – It’s Clear To Me
Quella di “It’s Clear To Me” è house riscaldata da una voce femminile, dotata di un groove “rotondo” e qualche frammento funk sullo sfondo. A produrre, per l’italiana D:vision, è lo stesso Coccoluto affiancato dall’amico Savino Martinez. I due collaborano già da tempo (si senta “Bandit” di Mimi’ E Coco’ su UMM, 1995) e da lì a breve creano The Dub Duo approdando su NRK Sound Division (con un album che, in qualche modo, si riaggancia proprio al concetto di tecnologia destinata all’archiviazione, “Back To Lo-Tech”) e sulla Pronto Recordings di Leo Young ma soprattutto The Heartists che con “Belo Horizonti”, reinterpretazione di “Celebration Suite” di Airto Moreira, sbanca oltremanica dove viene licenziato dalla Virgin e remixato da David Morales e Basement Jaxx. Forte di questi risultati, nel 1997 Coccoluto conquista la copertina della rivista britannica DJ Mag e si piazza all’88esimo posto della Top 100 DJs. Nel frattempo la house latina à la The Heartists viene traghettata nel mainstream da brani come “2 The Night” di La Fuertezza, “Samba De Janeiro” dei tedeschi Bellini (che riprendono il medesimo pezzo di Moreira per ragioni specificate qui), “Spiller From Rio” di Laguna ed “Another Star” di Coimbra (remake dell’omonimo di Stevie Wonder) che consta peraltro di un remix a firma degli stessi Coccoluto e Martinez. La coppia è in azione pure su alcune versioni di “King Of Snake” degli Underworld pubblicate nel 1999 dalla Junior Boy’s Own e registrate presso l’HWW Studio di Cassino, omonimo del progetto HWW (House Without Windows) apparso sulla citata UMM nel 1993 con “Friend”. L’HWS riportato nella classifica è quindi da considerarsi un refuso.

8) The O’Jays – I Love Music (Disco-Tex Remix)
Il brano targato 1975 del gruppo americano di musica soul, r&b e disco viene trascinato nel mondo house attraverso un remix dei Disco-Tex, meglio noti come Full Intention. Preservando le atmosfere originali ma contestualizzandole in una nuova dimensione, emerge una versione perfettamente calata tra disco, funk ed house. Il brano è inciso sul doppio “Remix Culture 158″ edito dalla DMC insieme ad altri interessanti remix per Gusto, Babylon Zoo, Inner City e Deborah Cox ma viene inserito pure su un 12” della Disco-Tex Records, un altro di quei prodotti che testimoniano come la disco house non sia stata il frutto di un’intuizione esclusiva dei francesi seppur questi ultimi abbiano dato ad essa un’impronta personalizzata ed adatta(bile) al mercato mainstream.

9) Nu Colours – Desire
Estratto dall’album “Nu Colours” trainato dal singolo “Special Kind Of Lover”, “Desire” mette in forte evidenza inclinazioni soul, funk ed r&b. Seppur non sia scritto, è plausibile che Coccoluto suonasse uno dei ben quattro remix firmati dai Masters At Work, pubblicati in Italia dalla Impulse, etichetta della bresciana Media Records. Sul doppio mix c’è spazio per due ulteriori versioni, quella dei Mindspell e di Nutopia.

10) Daniel Wang – The Morning Kids
«La house è la rivincita della disco» diceva Frankie Knuckles nel 1990, e un parere molto simile è quello di Daniel Wang, californiano di origini cinesi che nel 1993 riavvicina la disco e il funk alla house attraverso la sua Balihu Records. “The Morning Kids” è il quarto 12″ di un catalogo cresciuto con netta discontinuità ma con altrettanta vitalità espressiva. Quattro i brani racchiusi al suo interno, “In A Golden Haze”, “Rooftop Boogie”, “Baby Powder Dementia” e “Free Lovin’ (Housedream)”, tutti straripanti di sample e citazioni che rimandano al repertorio Salsoul Records e alla disco anti nazionalpopolare. Wang e la sua Balihu Records, di cui abbiamo già parlato dettagliatamente qui, restano tra i primi nomi da menzionare quando si parla della genesi di un filone oggi fatto confluire nell’immenso calderone chiamato nu disco.

(Giosuè Impellizzeri)

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Ivan Iusco e la Minus Habens Records: una rara anomalia italiana

Ivan_Iusco“Il Paese della pizza, pasta e mandolino” recita uno dei più vecchi luoghi comuni sull’Italia. Per certi versi è vero ma non bisogna dimenticare che più di qualcuno si è dato attivamente da fare per azzerare o almeno ridurre i soliti pregiudizi. Tra questi Ivan Iusco che alla fine degli anni Ottanta, appena diciassettenne, diventa produttore discografico e crea un’etichetta per musica completamente diversa da quella che il nostro mercato interno prediligeva. Un ribollire di elettronica intellettualista, ambient, dark, industrial, quella che qualche tempo dopo sarebbe stata raccolta sotto la dicitura IDM (acronimo di Intelligent Dance Music) o braindance. Questa era la Minus Habens dei primi anni di intrepida sperimentazione, di registrazioni su cassetta vendute per corrispondenza ed effettuate da artisti che quasi certamente qui da noi non avrebbero trovato molti discografici disposti ad incoraggiare e supportare la propria creatività. Se oltralpe l’IDM viene consacrato da realtà come Warp Records, Apollo, Rephlex e Planet Mu, in Italia la Minus Habens pare non temere rivali. Dalla sua sede a Bari, tra le città probabilmente meno adatte ad alimentare il mito della musica sperimentale, irradia a ritmo serrato la musica di un foltissimo roster artistico che annovera anche band statuarie come Front 242 e Front Line Assembly. Iusco poi nel 1992 vara una sublabel destinata ad incidere a fondo nel sottobosco produttivo dei tempi, la Disturbance, approdo per italiani “molto poco italiani” sul fronte stilistico (Doris Norton, X4U, The Kosmik Twins, Baby B, Monomorph, Astral Body, The Frustrated, Xyrex, Dynamic Wave, T.E.W., Iusco stesso nascosto dietro la sigla It) e lido altrettanto felice per esteri destinati a lasciare il segno, su tutti Aphex Twin, Speedy J ed Uwe Schmidt. I Minus Habens e i Disturbance di quegli anni rappresentano il lato oscuro dell’Italia elettronica, quella adorata e rispettata dagli appassionati e che si presta più che bene per la locuzione latina “nemo propheta in patria”. Nel corso del tempo nascono altri marchi (QBic Records, Lingua, Casaluna Productions, Noseless Records, Betaform Records) che servono a rimarcare nuove traiettorie inclini a trip hop, nu jazz, funk, downtempo e lounge in senso più ampio destinato alla cinematografia anche con episodi cantautorali a cui Minus Habens Records, ormai vicina al trentennale d’attività, ha legato stabilmente la sua immagine. Al contrario di quanto suggerisce il nome (i latini indicavano sarcasticamente minus habens chi fosse dotato di scarsa intelligenza), la label di Ivan Iusco «è rimasta in piedi per un arco di tempo incredibilmente lungo, in cui numerose altre esperienze discografiche indipendenti, anche prestigiose, sono nate, cresciute e decedute», come si legge nel libro “Minus Habens eXperYenZ” del 2012 curato da Alessandro Ludovico, co-fondatore insieme allo stesso Iusco della rivista Neural, magazine pubblicato per la prima volta a novembre 1993 e dedicato a realtà virtuali, tecnologia, fantascienza e musica elettronica. Un’altra di quelle atipiche quanto meravigliose anomalie italiane.

Come e quando scopri la musica elettronica?
La musica elettronica iniziò a sedurmi verso la metà degli anni Ottanta in un percorso che mi portò rapidamente dai Depeche Mode ai Kraftwerk verso i Tangerine Dream, mentre esploravo parallelamente territori più oscuri con l’ascolto di gruppi come Virgin Prunes, Christian Death e Bauhaus per arrivare alle sperimentazioni dei Current 93, Nurse With Wound, Coil, Laibach, Diamanda Galás, Einstürzende Neubauten, Steve Reich, Arvo Pärt, Salvatore Sciarrino e tantissimi altri. Galassie musicali che ho scandagliato a fondo ascoltando migliaia di produzioni sotterranee. Acquistai il mio primo synth all’età di sedici anni.

Come ti sei trasformato da appassionato in compositore?
Non ho mai considerato la musica una passione o un amore ma una ragione di vita, un’entità magica, indispensabile e salvifica. Quando da bambino ascoltai per la prima volta il tema della colonna sonora “Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto” di Ennio Morricone rimasi letteralmente ipnotizzato. Avevo sei anni e quella musica scatenò un terremoto nella mia testa, infatti ricordo ancora con chiarezza dov’ero in quel momento e cosa indossavo. Sono anche certo che aver avuto una nonna pianista e compositrice, oggi 94enne, contribuì a porre la musica al centro di tutto.

La tua prima produzione fu “Big Mother In The Strain” dei Nightmare Lodge, inciso su cassetta nel 1987. Come fu realizzato quell’album?
Considero quel lavoro un’eruzione di idee nebulose, frutto della collaborazione con due amici: Beppe Mazzilli (voce) e Gianni Mantelli (basso elettrico). Non eravamo ancora maggiorenni ma intendevamo valicare barriere innanzitutto culturali. Il nostro approccio era piuttosto anarchico, pur essendo seriamente intenzionati a produrre qualcosa di concreto. Registrammo il nastro nell’estate del 1987 in un piccolissimo studio in una via malfamata di Bari. In quel locale c’era un registratore a quattro tracce, un microfono, due casse, un amplificatore e nient’altro, se non la foto della fidanzata tettona del fonico. Le registrazioni durarono una settimana. Noi portammo un sintetizzatore, un basso elettrico ed una serie di nostre sperimentazioni sonore su nastro effettuate nei mesi precedenti. Gli interventi vocali di Beppe furono registrati nella toilette dello studio, unico ambiente al riparo dal caos proveniente dalla strada. Pubblicai la cassetta nel dicembre del 1987, utilizzando per la prima volta il marchio Minus Habens, in una micro-edizione di cento copie vendute attraverso il passaparola ed una serie di annunci su fanzine specializzate, la via di mezzo fra gli attuali blog e i web magazine.

L’album dei Nightmare Lodge segna anche la nascita della Minus Habens Records, inizialmente una “ghost label” come tu stesso la definisci in questa intervista del marzo 1998. Come ti venne in mente di fondare un’etichetta discografica? Il nome si ispirava a qualcosa in particolare?
In primis l’obiettivo fu diffondere la mia musica ma subito dopo intuii la possibilità di far luce su alcuni artisti italiani e stranieri che meritavano decisamente più attenzione, così cominciai a pubblicare lavori inediti di Sigillum S, Gerstein e i primi album di Teho Teardo. I budget erano molto limitati: 500.000 lire per ogni pubblicazione su cassetta e circa 3.000.000 di lire per il vinile, denaro che agli inizi mi procurai attraverso piccoli prestiti e lavorando nello showroom di una nota clothing company europea. Ero così giovane da non potermi permettere una sede indipendente quindi trasformai una camera della casa dei miei genitori in “quartier generale”. Il nome Minus Habens per me rappresenta la condizione dell’uomo rispetto alla conoscenza: un orizzonte inarrivabile che lo rende eternamente affamato e che svela al tempo stesso l’immensità e forse l’irrilevanza di un percorso senza meta. Lo spazio incolmabile che separa l’uomo dalla conoscenza.

Minus Habens nasce a Bari, città che non compare su nessuna “mappa” quando si parla di un certo tipo di musica elettronica, e che non è neppure alimentata dal mito come Detroit, Chicago, Berlino o Londra. Come organizzasti il tuo lavoro lontano dai canonici punti nevralgici della discografia italiana, in un periodo in cui internet non esisteva ancora? Risiedere in Italia, e in particolare nel meridione, ha mai costituito un problema o impedimento?
Non saprei dire in che misura la mia città natale abbia contribuito al concepimento della Minus Habens. Sono quasi certo che il grande vuoto nell’ambito della musica elettronica offerto da Bari e più in generale dal meridione negli anni Ottanta mi aiutò a covare un sogno e ad avvertire fin da subito un senso di responsabilità, ponendomi davanti ad una missione molto ambiziosa: cambiare le cose. A quei tempi tutto era più lento e macchinoso, i rapporti di corrispondenza avvenivano solo e soltanto attraverso le poste. Giorni e giorni di attesa per il viaggio di lettere scritte a mano o a macchina e pacchi da e verso l’Italia e il mondo. Ma ne valeva la pena: tutto questo alimentava inconsapevolmente il desiderio. Scoprivo di volta in volta le musiche e l’identità di gruppi e musicisti da produrre attraverso cassette, DAT, minidisc, foto, flyer e fanzine che arrivavano con quei pacchi. Era una cultura che si consumava a fuoco lento. Ricordo però che già nei primi anni Novanta una rivista intitolò uno dei suoi articoli sulla nostra attività “Bari capitale cyberpunk!”. E comunque non sono stato il solo a muovermi con costanza e caparbietà da queste parti. Bari vanta infatti da trent’anni la presenza di uno dei più interessanti festival al mondo di musiche d’avanguardia, parlo di Time Zones che ha portato nella città nomi come David Sylvian, Philip Glass, Brian Eno, Steve Reich, Einstürzende Neubauten ed alcuni dei nostri: Paolo F. Bragaglia, Synusonde, Dati aka Elastic Society e i Gone di Ugo De Crescenzo e Leziero Rescigno (La Crus).

Le primissime pubblicazioni di Minus Habens erano solo su cassetta. Chi curò la distribuzione?
Nei primi due anni di attività mi affidai alla storica ADN di Milano, alla tedesca Cthulhu Records e ad alcuni store specializzati statunitensi. All’epoca occorreva avere dei radar al posto delle orecchie. Internet era agli albori mentre oggi siamo sommersi da dispositivi che ci permettono di accedere a qualsiasi informazione in tempo reale ed ovunque ci troviamo.

Nel 1989 inizi a pubblicare musica anche su vinile. Quante copie stampavi mediamente per ogni uscita? Quale era il target di riferimento?
Le prime pubblicazioni uscirono in tirature di 500/1000 copie, distribuite in Italia e nel mondo soprattutto da Contempo International, nota label e distribuzione di Firenze che vantava nel suo roster gruppi come Clock DVA e Pankow. Non ho mai avuto un’idea definitiva del nostro pubblico ma nel tempo ho constatato con piacere che i nostri clienti e sostenitori abbracciano fasce d’età e gruppi sociali sorprendentemente eterogenei.

Il catalogo di Minus Habens cresce con la musica di molti italiani (Sigillum S, Iugula-Thor, Red Sector A, Kebabträume, Pankow, Capricorni Pneumatici, Tam Quam Tabula Rasa, Brain Discipline, DsorDNE, Ultima Rota Carri) ma anche di esteri come Lagowski, Principia Audiomatica e persino miti dell’industrial e dell’EBM come Clock DVA, Front 242 e Front Line Assembly. Come riuscisti a metter su una squadra di questo tipo? Insomma, se tutto ciò fosse accaduto all’estero probabilmente Minus Habens oggi verrebbe paragonata a Warp, Rephlex o Apollo.
È avvenuto tutto molto gradualmente. Piccoli passi, giorno dopo giorno, fino ad arrivare a pubblicare album come quelli di Dive (Dirk Ivens) in 15/20mila copie o compilation come “Fractured Reality” con ospiti illustri tra cui Brian Eno, Depeche Mode, William Orbit, Laurent Garnier, Susumu Yokota e molti altri. Se la Minus Habens ti ha portato alla mente etichette come Warp, Rephlex o Apollo è perché in Italia non sono esistiti altri riferimenti di quel tipo, così la mia etichetta è diventata l’unico modello vagamente assimilabile a quelle realtà. È un’associazione ricorrente ma ci siamo distinti in modo inedito anche per aver raggiunto il cinema con numerose colonne sonore originali e pubblicazioni di artisti di rilievo come Angelo Badalamenti. Negli ultimi anni inoltre abbiamo avviato importanti collaborazioni nell’ambito dell’arte contemporanea tra le quali spiccano quelle con Cassandra Cronenberg e Miazbrothers.

Con quali finalità, nel 1992, crei la Disturbance?
L’idea seminale fu ibridare i suoni e le soluzioni concepite dai musicisti del circuito Minus Habens coi ritmi ipnotici della techno. Negli anni Novanta abbiamo pubblicato su Disturbance alcune decine di singoli in vinile con una discreta distribuzione internazionale in Germania, Francia, Benelux, Stati Uniti e Giappone.

Così come per Minus Habens, anche Disturbance vanta in catalogo gemme che meriterebbero di essere riscoperte, da Atomu Shinzo (Uwe Schmidt!) ai The Kosmik Twins (Francesco Zappalà e Biagio Lana), da Monomorph (i fratelli D’Arcangelo) ad altri estrosi italiani come Astral Body, Xyrex e Dynamic Wave. In termini di vendite, come funzionava questa musica? La costanza delle pubblicazioni mi lascia pensare che il mercato fosse vivo.
Significava insediarsi in un mercato fortemente influenzato da mode e tendenze. Ciononostante abbiamo raggiunto buoni risultati anche in quell’ambito. Ricordo che Mr. C degli Shamen e Miss Kittin suonavano spesso le nostre produzioni, mentre per una festa a Milano in occasione del Fornarina Urban Beauty Show coinvolgemmo Timo Maas ed Ellen Allen. Col marchio Disturbance abbiamo creato un repertorio davvero interessante con un’attenzione particolare al made in Italy.

Chi, tra i DJ, giornalisti e critici italiani, seguiva con più attenzione le tue etichette?
I giornalisti storici della stampa musicale italiana ci hanno sempre seguito con molto interesse: Vittore Baroni, Aldo Chimenti, Nicola Catalano, Luca De Gennaro, Paolo Bertoni e tanti altri. Fortunatamente negli anni abbiamo goduto della stessa attenzione anche da parte di numerosi giornalisti stranieri.

Hai mai investito del denaro in promozione?
Investiamo in promozione fin dagli esordi, anche se dal 1987 ad oggi abbiamo adeguato le nostre strategie al mutare dei media. Non ho mai pagato recensioni però, e dubito che esistano riviste che operano in questo modo e comunque lo troverei eticamente scorretto.

A proposito di riviste, nel 1993 hai fondato Neural con Alessandro Ludovico. Come nacque l’idea di creare un magazine con quel taglio avanguardista?
Anche nel caso di Neural cercammo di creare una pubblicazione che potesse rompere il silenzio editoriale in territori culturali che ci interessavano da vicino: tecnologie innovative come la realtà virtuale, hacktivism, new media art e musica d’avanguardia naturalmente. I primi numeri di Neural furono pubblicati in poche migliaia di copie diffuse da un distributore torinese, successivamente la rivista svegliò l’interesse dell’editore dello storico mensile Rockerilla e così, in seguito ad un accordo di licenza, Neural uscì in una tiratura di 15.000 copie distribuite nelle edicole italiane. Questa diffusione capillare catturò un pubblico ben più vasto ma dopo due anni la crisi dell’intero settore ci costrinse a scegliere un distributore alternativo. Atterrammo così nella catena Feltrinelli. Neural da allora, grazie all’impegno di Alessandro, non si è mai fermata. Esce tutt’oggi in versione cartacea ma si avvale anche di un sito costantemente aggiornato che offre ulteriori contenuti.

Recentemente ho letto questo articolo in cui si parla della scomparsa del pubblico delle recensioni. La diffusione e la democratizzazione di internet ha, in un certo senso, tolto valore ed autorevolezza a chi parla criticamente di musica? Insomma, così come proliferano i “produttori” pare nascano come funghi anche i “giornalisti”. Cosa pensi in merito?
Come per la musica e l’arte in genere, anche il giornalismo si manifesta attraverso la voce di autori che possono essere più o meno dotati di talento e capacità. Quando si leggono articoli deboli, senza fondamenta, noiosi e a volte dannosi, diventa difficile arrivare fino in fondo. Penso semplicemente che la curiosità culturale dei fruitori crei nel tempo gli strumenti necessari per scremare il meglio in ogni ambito.

Tra il 1993 e il 1997 su Disturbance compaiono i quattro volumi di “Outer Space Communications”, compilation che annoverano nomi come Nervous Project (Holger Wick, artefice della serie in dvd Slices per Electronic Beats), il citato Uwe Schmidt (come Atomu Shinzo e Coeur Atomique), la prodigiosa Doris Norton, Pro-Pulse (Cirillo e Pierluigi Melato), i QMen (i futuri Retina.it) Speedy J, Planet Love (Marco Repetto, ex Grauzone), Exquisite Corpse (Robbert Heynen dei Psychick Warriors Ov Gaia), i romani T.E.W., Le Forbici Di Manitù e persino Richard D. James travestito da Caustic Window (con “The Garden Of Linmiri”, finito nello spot della Pirelli con Carl Lewis) e da Polygon Window. Insomma, una manna per chi ama l’elettronica ad ampio raggio.
Fu l’apice di un enorme lavoro di relazioni e networking. In quel periodo nacque anche un bel rapporto di collaborazione e stima reciproca con Rob Mitchell (RIP), co-fondatore della Warp Records. Vista la mole dei brani contenuti e l’importanza degli artisti che vi presero parte, i quattro volumi della serie diventarono immediatamente oggetti da collezione. Le compilation includevano uno spaccato del roster Disturbance affiancato da grandi artisti della scena elettronica internazionale. All’interno dei booklet inserivamo anche piccoli riferimenti a culture nascenti o comunque underground come la realtà virtuale, la robotica, il cybersex, i rituali, le brain-machines e la crionica.

Come entrasti in contatto con gli artisti sopraccitati? Usavi già le comunicazioni via internet?
Il primo indirizzo email di Minus Habens risale al 1993, in quegli anni eravamo in pochissimi ad utilizzare internet mentre il fax raggiunse la sua massima diffusione. Abbiamo sempre adoperato qualsiasi mezzo di comunicazione pur di raggiungere i nostri interlocutori.

Nell’advertising di Minus Habens apparso sul primo numero di Neural si anticipavano alcuni nomi del secondo volume di “Outer Space Communications” tra cui Biosphere che però in tracklist non c’era. Cosa accadde? La presenza di Geir Jenssen era prevista ma qualcosa non andò per il verso giusto?
Quando richiesi la licenza di pubblicazione del brano “Novelty Waves” di Biosphere l’etichetta mi rispose che era stato appena dato in esclusiva ad una nota agenzia pubblicitaria internazionale per essere utilizzato come colonna sonora dello spot dei jeans Levi’s (in Italia il pezzo verrà poi licenziato dalla Downtown, etichetta della bresciana Time Records, nda).

A metà degli anni Novanta Disturbance accoglie Nebula (Elvio Trampus), che si piazza in posizione intermedia tra techno e trance, connubio che viene battuto pure dalla QBic Records, rimasta in attività per soli tre anni, dal 1996 al 1999. Come ricordi quel periodo in cui un certo tipo di musica iniziò il processo di “mainstreamizzazione”?
Non essendo il mainstream uno dei nostri obiettivi, non abbiamo mai inseguito il fantasma del successo. I risultati sono giunti soprattutto grazie alla costanza, alla continua ricerca ed alla qualità delle pubblicazioni. Più di una volta i brani del catalogo Disturbance sono arrivati ai primi posti di classifiche dance italiane (come quella della storica Radio Italia Network) e straniere, mentre le produzioni Minus Habens hanno trovato terreno fertile in ambito cinematografico (in numerosi film con distribuzione nazionale) e televisivo (in trasmissioni come Le Iene, Report, Target e tante altre). Inoltre abbiamo partecipato a decine di festival e proprio quest’anno il trio Il Guaio, del nostro marchio Lingua, è stato candidato alle selezioni ufficiali di Sanremo.

Nei primi anni Duemila, proprio dopo gli ultimi lavori di Nebula, Disturbance vira radicalmente direzione e registro, passando al downtempo, al trip hop e al future jazz, facendo l’occhiolino alla Compost Records di Michael Reinboth. Forse l’elettronica con derive dance o sperimentali ti aveva stancato?
Come ben sai credo profondamente nell’evoluzione e nella diversità della musica e dei suoni. All’inizio del nuovo millennio la techno e la drum’n’bass raggiunsero il loro picco evolutivo terminando in un cul-de-sac. Successivamente sono emerse nuove declinazioni come la minimal techno o il dubstep ma nulla di radicalmente innovativo. Ecco il motivo per cui ho sentito la necessità di proseguire verso altre direzioni creando un incubatore in cui abbiamo sviluppato progetti musicali come Pilot Jazou, Gone, Dati, Appetizer o la più recente collaborazione fra il producer Andrea Rucci e il pianista jazz Alessandro Galati. Le produzioni musicali più interessanti emerse in questi primi quindici del nuovo millennio sono il frutto di incontri e collaborazioni di musicisti con esperienze negli ambiti più diversi, e pare che l’elettronica sia diventata il tessuto connettivo privilegiato.

La tua collaborazione con Sergio Rubini comincia proprio in quel periodo, lavorando alle colonne sonore di suoi film come “L’Anima Gemella” e “L’Amore Ritorna”. Come nacquero tali sinergie?
Incontrai Sergio una sera in un bar. Grazie a quell’incontro casuale nacque il nostro rapporto lavorativo che si concretizzò prima con la composizione del tema principale del film “L’Anima Gemella” e successivamente con la colonna sonora del film “L’Amore Ritorna”, le musiche addizionali di “Colpo D’Occhio”, fino al suo progetto filmico “6 Sull’Autobus” in collaborazione con sei giovani registi e prodotto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Facendo qualche passo indietro, prima della collaborazione con Rubini, fui chiamato dal regista Alessandro Piva che mi commissionò le musiche dei film “LaCapaGira” (1999) e “Mio Cognato” (2003) con cui iniziai a raggiungere un pubblico più ampio anche grazie all’ottenimento di alcuni premi in Italia e all’estero.

Qualche sprazzo di dance elettronica torna a farsi sentire su Minus Habens tra 2005 e 2007, quando pubblichi anche una compilation di Alex Neri. Si rivelò solo una toccata e fuga però. Avevi già preso la decisione di dedicarti ad altro?
In quel periodo Minus Habens fu scelta dal festival Elettrowave (sezione elettronica di Arezzowave) per pubblicare le loro compilation ufficiali. Mi occupai personalmente della selezione degli artisti presenti nei diversi album. Considerando gli ospiti del festival, ebbi il piacere di ospitare grandi nomi fra cui Cassius, Modeselektor, Kalabrese, Stereo Total, Cassy, Mike Shannon, Zombie Zombie e molti altri. La musica elettronica è sempre stato il filo rosso della mia ricerca. È un universo dalle infinite possibilità e la missione della Minus Habens è quella di esplorarlo.

Il 2017 segnerà il trentennale di attività per Minus Habens Records. Avresti mai immaginato, nel 1987, di poter tagliare un così ambizioso traguardo?
È un sogno che si avvera, pur non avendolo mai immaginato come un traguardo.

Nel corso degli anni hai mai pensato di mollare tutto e dedicarti ad altro?
No, immagino da sempre le evoluzioni possibili della nostra attività cercando di incarnare soltanto le più ambiziose.

La sede è ancora in via Giustino Fortunato, nel capoluogo pugliese?
La sede e lo studio sono ancora a Bari anche se rispettivamente in zone diverse della città, ma proprio quest’anno abbiamo posto le basi per alcuni grandi cambiamenti.

Stai pensando già a qualcosa per festeggiare e celebrare i trent’anni di Minus Habens?
Stiamo lavorando ad un progetto che sta prendendo forma in queste settimane di cui però sarebbe prematuro parlarne adesso. Ci sono ancora troppi aspetti da sviscerare. Sarà una forma di condivisione celebrativa volta ad amplificare il concetto di collaborazione e di network. Naturalmente coinvolgeremo anche i musicisti che si sono uniti all’etichetta negli ultimi tempi come Andrea Senatore, Christian Rainer e Il Guaio.

Come vorresti che fosse ricordata la tua etichetta e la tua attività artistica, tra qualche decennio?
Sarebbe già davvero tanto se tutto questo fosse ricordato nel tempo. In fondo il libro Minus Habens eXperYenZ di 224 pagine pubblicato nel 2012 in occasione del venticinquesimo anniversario dell’etichetta ambiva proprio a questo: documentare, o come afferma nello stesso libro Dino Lupelli – fondatore di Elettrowave ed Elita Festival – “produrre per non dimenticare” le esperienze multiformi di un laboratorio che ha portato alla luce inusuali sperimentatori. Un’avventura alla ricerca di territori musicali inesplorati.

(Giosuè Impellizzeri)

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