Enrico Mantini: lascio la house e il DJing per nuove sfide

Ingegnere del suono, DJ e compositore: la figura artistica di Enrico Mantini ruota intorno a questi tre ruoli. Il debutto discografico ad appena diciott’anni, nel 1990, quasi nell’anonimato e nel solco della deep house strumentale, un filone emerso dopo il boom commerciale dell’italo house pianistica apparentemente privo di appeal internazionale e ai tempi, pare, incapace di reggere il confronto col suono garage di blasonate realtà discografiche di Londra o New York. Paradossalmente, a distanza di un venticinquennio circa, sono stati proprio influenti DJ esteri a istigarne il ripescaggio e la conseguente rivalutazione che ha condotto a una sorta di riscatto. Mantini, in quella prima fase europeizzante della house music, è un autentico fiume in piena. Incide decine di tracce finite in altrettante pubblicazioni marchiate prima con pseudonimi e poi con le coordinate anagrafiche. Entrare nella scuderia artistica di un’etichetta cardine di quel periodo, la napoletana UMM fondata e diretta da Angelo Tardio, lo aiuta a farsi notare oltre i confini e ad accrescere la reputazione da DJ. Alla fine degli anni Novanta però il sogno sembra dissolversi, l’eclissi di tante stelle lo spingono a reinventarsi e percorrere itinerari differenti. Il proliferare di nuovi formati liquidi e il ritorno in auge del disco in vinile lo convinceranno a tornare sui suoi passi nei primi anni Dieci, complice pure l’interesse nei confronti della sua musica avanzato da etichette italiane e straniere (Traxx Underground, 4 Lux, Wilson Records, Half Baked, Gua Limited, Detroit Side, Assemble Music, giusto per citarne alcune). Mantini si proietta nel futuro senza nascondere il passato anzi, è proprio quest’ultimo a diventare il motore capace di alimentare con rinnovata energia la sua carriera. Passa quasi un decennio, tra ristampe chieste a gran voce dalle nuove generazioni e inediti, ma ora per l’artista pescarese è giunto di nuovo il tempo di voltare (definitivamente?) pagina e iniziare nuove avventure.


Inizi a praticare il DJing nel 1987, anno in cui comincia il percorso di europeizzazione della house music. Da quali presupposti partiva un giovane come te che voleva cimentarsi in quel tipo di attività artistica? Quali sostanziali differenze correvano tra il DJ radiofonico e quello da discoteca?
Iniziai dapprima proprio come DJ radiofonico, un percorso in qualche modo più accessibile nella mia città, Pescara, visto il grande numero di radio libere e la limitata presenza di club. Per me il presupposto è sempre stato legato alla viscerale passione per la musica, di qualsiasi genere. All’età di dieci anni, piuttosto che scendere in strada o andare al parco per giocare coi miei coetanei, preferivo trascorrere i pomeriggi ad ascoltare la radio registrando su nastro Super 8 le canzoni che più mi piacevano. Per il pubblico, il DJ radiofonico non aveva lo stesso appeal di quello che lavorava in discoteca ma non mi importava affatto, da ragazzino ero molto introverso e volevo solamente esprimere me stesso e i miei stati d’animo attraverso la musica quindi era di vitale importanza che potessi farlo anche al di fuori delle mura domestiche.

Sussisteva un forte tessuto connettivo tra la dance degli anni Settanta e quella che poi fu riformulata a Chicago negli Ottanta? In buona sostanza la house fu, come più di qualcuno ha affermato nel corso del tempo, il genere con cui la disco si prese la rivincita?
L’evoluzione della disco in house music fu innescata dall’avvento della tecnologia digitale, basti pensare a brani come “How Far I Go” di Peter Black per capire quanto sottile e labile fosse il confine da valicare. In poco tempo i DJ passarono da realizzare semplici edit di brani disco a comporre complessi remix da suonare nei loro set in cui la componente elettronica, derivata in primis da sintetizzatori e drum machine, ebbe sempre più peso. Agli inizi degli anni Ottanta erano già molti a comporre brani esclusivamente elettronici poi battezzati con il nome house music. Considerato l’impatto che la musica house ebbe negli anni a seguire, la vastità del fenomeno sociale correlato a essa e le persone chiave che ne resero possibile la diffusione, trovo sia corretto affermare che fu esattamente questo il modo in cui la disco music, relegata perlopiù alla comunità afroamericana, si prese la rivincita su scala mondiale.

Come ricordi i primi anni di diffusione in Italia della house music?
Quando ascoltai i primi brani di musica house fu subito chiaro che l’elettronica sarebbe stata la via con cui, anche io, avrei avuto modo di comporre e portare a termine un brano in totale autonomia. Prima iniziai a introdurre il campionatore nei miei DJ set, poi la Roland TR-909 arrivando a suonare di tanto in tanto, da cassetta, tracce interamente composte da me. Il pubblico salutò con entusiasmo la novità, forse perché incuriosito dai DJ alle prese con strumenti nuovi (campionatori, batterie elettroniche) sino a quel momento relegati quasi esclusivamente allo studio di registrazione, ma un ruolo la ricoprì anche la ripetitività degli elementi contenuti in ogni brano house che evocava ritmi ancestrali. Reperire i primi dischi di house music però non fu semplice, almeno fino alla seconda metà degli anni Ottanta, momento in cui cominciarono a essere importati in discrete quantità essendo iniziata la diffusione radiofonica.

Alla fine degli anni Ottanta inizi a cimentarti nelle prime prove da produttore: ci fu qualcosa o qualcuno a spingerti verso l’attività compositiva in studio di registrazione?
A spronarmi nel trovare una strada per esprimermi fu la mia passione, insieme a tenacia e determinazione che mi aiutarono a raggiungere il risultato. Da bambino ero molto attratto dalla stanza in cui mio padre custodiva l’impianto hi-fi e le luci psichedeliche. Lui non era un frequentatore di discoteche, aveva nozioni musicali e suonava la tastiera ma in quanto a gusti si lasciava trasportare dalle mode. Correvano i tardi anni Settanta e alcuni brani disco funk popolavano le classifiche. Ogni qualvolta lui mettesse un disco, mi precipitavo nella stanza a guardare l’esplosione di colori e assorbivo la magia di quei suoni che mi sono lentamente entrati nell’anima al punto che, quando iniziai a comporre, involontariamente e in modo del tutto spontaneo, approdai spesso a soluzioni musicali tipiche di quel genere. Durante l’adolescenza invece strimpellavo il basso elettrico in una band new wave ma era complicato mettere insieme le idee di più persone e soprattutto ottenere un contratto discografico. Lo spiraglio offerto dall’elettronica, anche in considerazione del fatto che mi esibissi come DJ, fu determinante.

707 Boyz
Nel 1990, con l’EP firmato 707 Boyz, si apre la carriera discografica di Enrico Mantini

La tua prima produzione fu siglata 707 Boyz, pseudonimo che ti vide in azione insieme a Fabrizio Cini. In quell’occasione chi fece cosa?
Nel 1989 il mio setup era composto da un sintetizzatore Roland D-5, un campionatore Akai S950 e un sequencer Kawai Q-80. Completai i primi due brani a casa, “Freedom” e “Emotions”, testandoli in discoteca: funzionavano ma le proporzioni tra i volumi necessitavano di essere riviste e al tempo non avevo ancora competenze come sound engineer così, tramite, un amico, entrai in contatto con lo studio di registrazione in cui lavorava Fabrizio Cini, il Bess Studio a Montesilvano. La sua preparazione in termini di fonia era notevole ma soprattutto era un validissimo chitarrista e tastierista. Ci mettemmo subito a lavorare insieme su nuovi brani creando “Track F..K” e “Prototype” coi quali completammo l’EP. In studio a disposizione avevamo un’ampia scelta di sintetizzatori e anche tre batterie elettroniche, nello specifico una Roland R-8, una Roland TR-707 e una Yamaha RX15. Quando dovemmo scegliere un nome di fantasia col quale proporre i brani optammo per 707 Boyz visto che la Roland TR-707 era l’unica tra quelle drum machine di cui non avevamo capito a fondo il funzionamento della sezione di sequencing. Non approfondimmo mai sino al momento in cui in studio arrivò una TR-909.

A pubblicare il disco, oggi ricercato sul mercato dell’usato forse grazie al recente inserimento di “Emotions” in uno dei volumi della raccolta “Welcome To Paradise”, è la DJ Tendance Records la cui esistenza è circoscritta proprio a quell’uscita. Perché un’apparizione episodica?
Una volta completati i quattro brani, iniziammo a contattare varie etichette con l’auspicio di poter firmare presto un contratto discografico. Col nastro a bobina da 1/4 di pollice sotto il braccio, cominciammo il pellegrinaggio a Milano per fare ascoltare i master. Bussammo alla Discomagic di Severo Lombardoni, alla New Music International di Pippo Landro e alla Non Stop dove ci imbattemmo in Fabrizio Gatto (intervistato qui, nda). La strada fu lunga, tortuosa e tutta in salita, la Non Stop ci “rimbalzava” sistematicamente accampando futili scuse. Purtroppo non conoscevamo nessuno nell’ambiente discografico e la situazione era in stallo. A quel punto il compianto Nino D’Angelo, titolare del Bess Studio che aveva già finanziato la produzione dei brani e tutti i viaggi a Milano, alla luce delle spese già sostenute sino a quel momento decise che sarebbe stato meglio, e soprattutto più economico, che il disco lo avessimo pubblicato noi. Non avendo un marchio col quale proporre l’EP, creammo per l’occasione la DJ Tendance Records. Così, con mille copie nel bagagliaio, tornammo alla Non Stop chiedendo solo di distribuire il prodotto. Appena uscito, il disco suscitò l’interesse di Stefano Secchi che inserì “Freedom” nella classifica di Radio 105. Finalmente potevo considerarmi un produttore musicale.

Credo che in Italia la mancanza di voci inglesi madrelingua abbia limitato lo sviluppo della house in direzione garage ma nel contempo, per i produttori nostrani, quella tara rappresentò uno stimolo per elaborare intriganti variazioni strumentali. Concordi con questa interpretazione?
Sono d’accordo con quanto affermi. Il fatto di optare per forme strumentali fu dettato soprattutto dalla mancanza di voci e dall’assenza di budget. Sino a quando un pezzo restava strumentale, era fattibile portare avanti composizione, arrangiamento e missaggio interamente a casa, con spese tutto sommato contenute. Con un investimento pari a qualche decina di milioni di lire si poteva disporre di un proprio studio di registrazione. Per me, nello specifico, avere uno studio personale mi consentì di essere artisticamente molto prolifico e di tradurre di continuo le idee in musica. La scelta dei suoni, nel mio caso, non dipese tanto dall’hardware utilizzato (gran parte li realizzavo all’interno del campionatore) bensì dalla sperimentazione, influenzata dalla fascinazione esercitata dal sound americano.

Smooth Sounds
Il logo della Smooth Sounds

Nel 1992 è tempo dei tuoi primi dischi firmati col nome anagrafico, “Smooth Sound Start One” e “The Maze”, entrambi su Smooth Sounds, etichetta affiliata alla MBG International Records di Giorgio Canepa. Perché il marchio non proseguì il cammino dopo quella doppietta?
Verso la fine del 1991, tramite un amico, conobbi Giorgio Canepa a Rimini e gli feci ascoltare quattro brani che avevo composto con Arnaldo Guido. Gli piacquero molto e decise di pubblicarli sulla sua etichetta, la MBG International Records, in “Brainstorm”, il primo EP di Deep Choice a cui poco tempo dopo seguì “Time + Space” di Nuclear Child. Con quel disco nacque la nostra collaborazione e, vista la mia creatività in continuo fermento che mi permetteva di comporre quotidianamente nuovi brani, decidemmo di fondare insieme una nuova etichetta discografica attraverso la quale avrei potuto pubblicare anche cose un po’ diverse rispetto a quelle che lui convogliava solitamente su MBG International Records. Nacque così la Smooth Sounds, accompagnata da un’idea grafica di Marco Fioritoni alias DJ Dsastro che con me compose parte dei brani confluiti nelle due pubblicazioni. Ero particolarmente stimolato dalle collaborazioni artistiche che mi consentivano di confrontarmi con altri e spaziare nel suono rispetto a quella che era la mia personale visione di musica. Purtroppo il sodalizio con Canepa non durò a lungo a causa di divergenze sul piano economico e così, nell’arco di un paio di anni, il progetto Smooth Sounds venne accantonato.

Uneasy EP
“Uneasy EP” inaugura il catalogo della Groove Sense Records (1993)

Come ricordi invece la Groove Sense Records, partita nel 1993 con “Uneasy EP” e distribuita dalla pugliese Marcon Music? Cosa significava, ai tempi, mandare avanti un’etichetta discografica di quel tipo?
Avviai la Groove Sense Records con Pietro De Rosa, sulla base dell’esperienza fatta con Smooth Sounds. In principio fummo noi a finanziare la stampa dei dischi, con la Flying Records che ne curava la distribuzione. Dovevamo anche occuparci della promozione quindi inviavamo comunicati stampa via fax alle varie testate giornalistiche di settore e ci sinceravamo di persona o al telefono che venissero prese in considerazione. Il lavoro da svolgere era davvero tanto se si considera che io e Pietro eravamo anche artisti di ogni singola pubblicazione. A partire dalla seconda uscita firmammo un fortunato, e per l’epoca pionieristico, contratto di produzione e distribuzione (P&D) con la Marcon Music tramite il quale riuscimmo a concentrarci maggiormente sull’aspetto artistico sgravandoci dagli impegni meramente gestionali, continuando comunque a curare di persona la promozione dell’etichetta. Il sodalizio con la Marcon Music andò avanti sino al 1995, anno in cui l’industria legata al disco in vinile cominciò a rivelare i primi segni di cedimento in Italia mietendo le prime “vittime” tra cui la stessa Marcon Music finita in bancarotta. Decidemmo quindi di stoppare momentaneamente l’etichetta nell’attesa (e speranza) che le sorti del mercato mutassero in meglio.

Il 1992 è l’anno in cui, col primo volume di Transitive Elements, parte la collaborazione con la napoletana UMM. Come rammenti la sinergia stretta con l’etichetta ai tempi guidata artisticamente da Angelo Tardio e a cui abbiamo dedicato qui un’ampia monografia?
Arrivai a UMM tramite Ivan Iacobucci con il quale avevo co-prodotto “All Night” pubblicato per l’appunto dall’etichetta campana nel 1991. Al tempo ero attivo anche come DJ e beatmaker nell’hip hop italiano con artisti come Lou X e C.U.B.A. Cabbal. Proprio attraverso quest’ultimo un giorno mi ritrovai nella sede della Flying Records con l’intento di fare ascoltare delle demo di musica rap. Con me avevo portato anche un DAT pieno di house music così chiesi a chi avrei potuto sottoporre quel tipo di materiale. Mi accompagnarono nell’ufficio di Angelo Tardio che, dopo aver speso un’ora buona a sentire alcuni dei miei pezzi, mi chiese di lasciargli quel DAT perché c’erano troppe cose che gli piacevano e le avrebbe volute ascoltare con calma. Nei giorni successivi quindi scelse sei tracce che confluirono nel primo volume di Transitive Elements (co-prodotto con Argentino Mazzarulli, nda). Da quel momento, in completa sinergia artistica, cominciai a mandargli di continuo brani e tra di noi si instaurò un rapporto di rispetto e fiducia reciproca, al punto che tutta la musica che sottoponevo alla sua attenzione venisse puntualmente stampata su UMM. Vista la quantità di brani, optammo per più alias al fine di evitare di inflazionare le uscite e la stessa etichetta e fu allora che decisi di debuttare col mio nome di battesimo.

In studio hai alternato avventure soliste a progetti tandem, come Mood 2 Create, High Fly, The White Fluid o Stinkingmen. Quali sono i pro di lavorare a quattro mani?
Come anticipavo prima, il maggior vantaggio di collaborare in studio con altre persone è poter varcare i propri confini musicali e aprirsi a nuovi orizzonti compositivi e stilistici. È fondamentale quando si è particolarmente attivi e non si vuole restare intrappolati nelle proprie idee.

È opinione comune pensare agli anni Novanta come il decennio creativamente più prolifico per la dance elettronica nelle sue innumerevoli declinazioni. Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando a quegli anni?
Sono tantissimi ma senza dubbio a lasciare un ricordo indelebile in me sono stati “Waterfalls (3 A.M. Mix)” di After Hours alias Andrew Richardson, una delle tracce deep house più belle di sempre, poi “Stuck In The Middle (Mo’ Deep For Sticky Stewart Mix)” di DJ Duke, col suo elegante e ipnotico riff di organo, e “Music Harmony And Rhythm”, fortunata collaborazione tra Giorgio Canepa e Ricky Montanari siglata con lo pseudonimo Optik, un brano del 1991 che, dopo più di trent’anni, mi fa ancora venire la pelle d’oca.

dalla sessione di What U Want nel 1994
Due scatti che immortalano Enrico Mantini in studio durante la sessione di registrazione di “What U Want”, pubblicato su UMM nel 1994

Lasciandoti alle spalle altre produzioni sulla romana Lemon Records e sulla barese Marcon Music, nella seconda metà degli anni Novanta viri verso la drum n bass col progetto The Fast Runna: forse la house ti aveva stancato e sentisti la necessità di esplorare nuovi territori?
Nel 1996 mi trasferii a Londra per alcuni mesi e lì scoprii il fenomeno della drum n bass. Ne rimasi letteralmente rapito al punto che, al mio rientro in Italia, iniziai a comporre tracce in quel genere e fare saltuariamente serate come DJ proponendo solo drum n bass. Il venir meno di realtà come Marcon Music prima e Flying Records poi, unitamente all’avvento della disco house che non gradivo in modo particolare, mi spinsero a mettere temporaneamente da parte la house per dedicarmi a qualcosa che trovavo più stimolante. Col progetto The Fast Runna entrai in contatto con vari musicisti e gettai le basi per avventure più entusiasmanti e gratificanti. Realizzammo un intero album e lo mandammo alla Irma Records. Umbi Damiani propose di inserire alcuni brani in delle loro compilation jungle per poi pubblicare l’intero LP più avanti, cosa che però non avvenne mai visto che in Italia il fenomeno drum n bass si consumò troppo rapidamente.

Le funkeggianti “Find It/Vibes In Bahia” di Riviera Kids, che realizzi con Alessandro Marini nel 2000, sembrano calare il sipario: tornerai a incidere nuovi brani a tuo nome parecchi anni più tardi, nel 2008, con la Sweetleaf Recordings che fondi e tieni in vita sino al 2012 con l’intenzione di sondare il mercato delle pubblicazioni digitali che, nel frattempo, prendono piede in modo definitivo. Che idea ti sei fatto del mercato (o presunto tale) legato ai download?
Dal 1997 al 2000 lavorai in giro per l’Italia nel ruolo di fonico per artisti come Taglia 42, Biagio Antonacci, Ian Paice e Issac Delgado, mettendo a frutto il diploma di sound engineer conseguito nel 1993. Un giorno incontrai Alessandro Marini, amico di adolescenza, e per gioco provammo a buttare giù le idee per due brani. Era il periodo in cui tornai a dedicarmi allo studio del basso elettrico e infatti in quei pezzi l’elemento portante era proprio quello. Il caso volle che, una volta fatte girare le demo, saltasse nuovamente fuori Fabrizio Gatto che si offrì di pubblicarle su una delle tante etichette del gruppo Dancework, la Clubnoize Records. Il disco iniziò a circolare suscitando molto interesse e guadagnandosi presto il supporto di diversi DJ di rilievo, tra cui David Morales, che di fatto ne fecero un piccolo club anthem negli Stati Uniti. Correva il 2000 e la resa di quella produzione mi convinse a tornare a occuparmi di house music per le etichette britanniche Dirty Blue Records e Rated-X e per l’italiana Sound Division, nascosto dietro vari pseudonimi. Pubblicai pure un paio di bootleg in white label di cui uno di una famosa hit di Sterling Void. Non mi sono mai fermato del tutto insomma e nel 2005, dopo aver conosciuto Davidson Ospina, Hector Romero e Keith Thompson, abbracciai il filone soulful e iniziai a pubblicare in digitale per etichette statunitensi, sondando quello che poi sarebbe diventato lo standard della fruizione discografica. Il periodo che va dal 2005 al 2008 fu determinante per l’acquisizione delle capacità che mi consentono tuttora di gestire con successo la distribuzione in formato digitale. Durante quel triennio ero spesso negli Stati Uniti a esibirmi come DJ ma soprattutto per imparare il modello di business grazie a personaggi chiave come Kevin Green che dalla Gossip Records passò a lavorare in Beatport. Il mercato del download è decollato in modo definitivo nel 2010, supportato da realtà parallele come Bandcamp. La Sweetleaf Recordings venne fondata nel 2008 unitamente a uno studio di registrazione con l’intento di abbracciare il filone minimale che mi vide collaborare nuovamente con Ivan Iacobucci (di cui parliamo qui, nda), ai tempi impegnato pure lui con un’etichetta digitale, la Smoke Joke Records. Negli ultimi anni assistiamo a un’ulteriore virata del mercato verso lo streaming che sta soppiantando l’ormai obsoleto download. L’alternarsi delle tecnologie ha reso sempre più facile la fruizione della musica rendendone però più difficile la monetizzazione da parte di artisti e case discografiche.

Sweetleaf Recordings 001
Col “Changes EP” del 2008 Mantini ricomincia ad apparire sul mercato discografico con regolarità

Da una quindicina di anni a questa parte hai ripreso a pubblicare musica a pieno regime: c’è stato qualcuno o qualcosa a darti la giusta spinta?
Intorno al 2009 ho cominciato a ricevere messaggi tramite i social network da parte di fan intenti a riscoprire la mia discografia degli anni Novanta. Ricordo con piacere un giovanissimo Sammy, poi esploso artisticamente come Brawther, e Jeremy Underground che mi scrissero informandomi che i miei vecchi dischi su UMM fossero tra le loro fonti di ispirazione. Nel 2012 conobbi Thomas Franzmann alias Zip che mi confessò di suonare spesso le mie produzioni. Grazie a un catalogo molto ampio e soprattutto alle tante collaborazioni di quegli anni, il mio repertorio spaziava dalla deep house più classica alla techno, per cui accadde in modo naturale che più DJ attivi in stili completamente differenti, si ritrovassero a supportare i miei vecchi lavori, destando l’interesse del pubblico e delle case discografiche. Le richieste di ristampa non tardarono ad arrivare e mi sono fatto trovare pronto con nuove produzioni vincendo la diffidenza di chi, in un primo momento, non credeva fossi ancora in grado di tenere botta.

I tempi sono propizi anche per lanciare nuove etichette, la Veniceberg Records, la PURISM, la Down Da Mountains e la Bold Choices. Con quali finalità e progettualità porti avanti il loro iter e, soprattutto, oggi quanto è complesso tenere in vita piccole label indipendenti?
Dopo aver ricevuto varie proposte di P&D da parte di alcuni distributori e visto il ritorno in auge del vinile, nel 2014 ho deciso di avviare nuovi progetti discografici. A eccezione di Down Da Mountains e Bold Choices, che sono outlet a esclusivo uso personale, Veniceberg Records promuove il sound del club dando voce a vari artisti mentre PURISM mira esclusivamente a scoprire nuovi talenti che affondano le radici nell’old school. Grazie agli accordi di produzione e distribuzione, il lavoro da svolgere si è decisamente semplificato rispetto a quello di trent’anni fa. Attualmente il mercato del vinile sta subendo una nuova flessione causata dal difficile scenario economico e gran parte dei diggers è alla ricerca di novità su Bandcamp. Anche in questo caso mi sono mosso in anticipo mettendo online il mio vecchio catalogo completamente rimasterizzato già dal 2017.

Parecchie delle tue pubblicazioni più recenti gravitano intorno a tracce prodotte nei primi anni Novanta ma rimaste nel cassetto e a ristampe di EP del tuo repertorio, difficilmente reperibili sul mercato dell’usato. Sembra che la fascinazione della musica retrò oggi stia avendo la meglio, sono tantissimi infatti i giovani che si dedicano alla composizione con lo scopo di somigliare il più possibile ai decani di house/techno di ieri, ricorrendo anche a strumenti che possano rendere più verosimile il risultato finale. Questa perdurante voglia di passato sta forse sottraendo energie per scoprire e immaginare traiettorie nuove come invece avveniva quando hai iniziato tu?
Decisamente sì. L’estrema facilità con cui è possibile fare musica oggi ha impoverito la mente al punto da intaccarne la creatività.

Mantini dj set
Enrico Mantini in consolle pochi anni fa

La retromania teorizzata da Simon Reynolds ha conquistato anche il mercato discografico, sistematicamente inondato da ristampe di ogni genere e tipo: i reissue stanno erodendo spazio e terreno alle nuove uscite?
Sì, l’offerta di ristampe e produzioni ispirate al passato è maggiore rispetto a quella di nuovo materiale originale. L’essere pionieri e il percorrere strade non battute ormai è una prerogativa di pochi. Nel 2012 c’è stato un momento in cui ho fatto fatica a pubblicare materiale nuovo, tutti preferivano andare sul sicuro con le ristampe. A quel punto quindi mi sono imposto negandole e proponendo materiale inedito. In seguito, viste le innumerevoli e continue richieste nonché l’incontenibile retromania dilagata in tutti i settori, mi sono dovuto arrendere. Paradossalmente, utilizzando vecchio materiale inedito che mai avrei creduto di poter pubblicare, ho fatto decollare la mia pagina Bandcamp e ho ceduto in licenza parte degli inediti che hanno poi meritatamente conquistato la stampa su vinile.

Tra gli innumerevoli filoni riscoperti nell’ultimo decennio c’è pure quello della house italiana, glorificata da raccolte come “Italo House” di Joey Negro (2014), la citata “Welcome To Paradise” di Young Marco e Christiaan Macdonald (2017), “Paradise House (Deep Ambient Dream Paradise Garage House From 90’s)” di Don Carlos (2018) ed “Echoes Of House (Italo House Foundamentals Tracks)” di Ricky Montanari (2019), a cui si è aggiunta più recentemente “Ciao Italia – Generazioni Underground” di cui parliamo qui. Quanto era complesso, per la house underground nostrana, imporsi all’estero negli anni Novanta?
Ho avuto la fortuna di approdare in UMM che ha reso credibile la mia musica anche oltre i confini ma ai tempi erano ben poche le etichette italiane in grado di penetrare il mercato straniero a eccezione delle realtà più commerciali. Complice la scena musicale italiana, esterofila da sempre, non siamo mai riusciti a porci nello stesso modo in cui giungevano qui le produzioni estere. A tal proposito, intorno al 1993 scoprii che mentre in Italia la mia musica risultava essere troppo minimale, grezza e poco melodica, gli americani riservavano a essa un ascolto ben più attento, forse anche grazie al fenomeno UMM che stava scoppiando proprio in quel momento. Capitava spesso che DJ come David Camacho, Louie Vega, Kenny “Dope” Gonzalez o Roger Sanchez fossero ospiti in club italiani e proponessero brani miei a differenza dei connazionali che li scartavano dalle proprie selezioni, eccetto Ricky Montanari e Flavio Vecchi (di cui parliamo qui e qui, nda), pionieri e visionari da sempre.

Ha ancora senso parlare di underground nel 2023?
No, e non ha più senso parlarne già da un po’ di anni a questa parte. Le nuove generazioni perseguono obiettivi artistici e fanno musica per target specifici muovendosi all’interno di un sistema ben definito, nulla di più lontano dal concetto di underground.

Circa sei mesi fa hai annunciato l’interruzione dell’attività da DJ e produttore house: quali ragioni ti hanno convinto a smettere?
Non ricevendo più stimoli dall’attuale scena legata al clubbing, ho deciso di abbandonare sia il DJing che la produzione di musica dance per intraprendere una nuova sfida artistica e voltare completamente pagina. La musica house mi ha dato tante soddisfazioni ma non me la sento di insistere in qualcosa che non mi appaga più. Al momento sono impegnato come musicista e produttore in un nuovo progetto che fonde jazz e funk in chiave elettronica, affiancato da musicisti di caratura nazionale.

Il prezzo da pagare per la consacrazione a livello generalista del DJing è stato piuttosto alto visto che per certi versi l’attuale “DJ rock star” è solo una parodia di quello che in origine era il DJ, in primis perché il divismo e il DJing non avevano punti in comune ma oggi sono legati a doppio filo. Al netto della nostalgia e da discorsi facilmente tacciabili di boomerismo, come ti poni rispetto a questa evoluzione o presunta tale?
Sino a quando ho messo dischi come DJ, l’ho fatto alla vecchia maniera, zero divismo e senza prendermi cura del look ma per pura passione e divertimento. Mi rendo conto però, visto il trend generale, che figure come la mia probabilmente suscitano poco interesse nelle generazioni attuali.

Come immagini le discoteche e il relativo pubblico del 2050?
Non mi sono mai soffermato a pensarci, preferisco sia una sorpresa.

E i DJ invece? Esisteranno ancora?
È difficile dirlo. La figura del DJ è fondamentale all’interno del club ma è anche vero che l’avvento dell’intelligenza artificiale sta mettendo in seria discussione tante professioni e il DJing potrebbe essere tra queste. Non essendoci più “anima” nell’attuale musica da club, è probabile che, in un futuro non così lontano, il compito di selezionare brani e miscelarli con successo verrà affidato a un computer.

(Giosuè Impellizzeri)

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Art Déco, l’anello di congiunzione tra new romantic e italo disco

01) Art Deco (1983)
Gli Art Déco immortalati durante una serata al New Life di Venezia nel 1983: da sinistra Stefano Montefusco, Marco Todesco e Claudio Valente

I primi anni Ottanta rappresentano un momento storico fondamentale per la musica, specialmente quella elettronica. La diffusione di sintetizzatori, drum machine e sequencer ispirano intere generazioni di giovani musicisti che riescono a comporre anche senza ricorrere a studi di incisione multimilionari, necessari sino a poco tempo prima. Il proliferare di piccole etichette indipendenti, d’altro canto, alimenta la creatività e rende fattibili anche imprevedibili collisioni stilistiche, rivelatesi seminali per generi futuri. In Italia lo sdoganamento dei sintetizzatori viene intercettato sia da coloro che armeggiano con la discomusic e si ritrovano, inconsapevolmente, a gettare le basi dell’italo disco, sia dai fedeli del rock e del punk che si buttano a capofitto nella new wave sul modello britannico e nordeuropeo, come i veneti Art Déco.

«Ci formammo nell’autunno del 1982 da un’idea mia, che mi occupavo di voce, testi e musiche, e il tastierista Marco Todesco» spiega Claudio Valente. «A noi si unirono presto Stefano Montefusco alla batteria e Gianpaolo Diacci al basso. Avevo iniziato da poco a scrivere ed esibirmi con una band punk wave mentre Todesco e Montefusco venivano da esperienze prog. Tutti ci sentivamo attratti dalla nuova scena new romantic compreso Diacci che arrivò rispondendo a un classico annuncio affisso sulla bacheca dei negozi di dischi di Mestre. Oltre a David Bowie e i Roxy Music, i nostri riferimenti erano rappresentati sia dai gruppi synth pop d’oltremanica come Ultravox, Japan, Visage, Human League, Tears For Fears e Depeche Mode, sia dalla new wave più “buia” dei Joy Division, New Order e Cure. L’idea di proporre un sound sperimentale e raffinato che riproducesse le atmosfere mitteleuropee ma nel contempo fosse anche ballabile ci portò a scegliere come moniker il nome del movimento artistico sbocciato nei primi del Novecento, a cavallo tra avanguardia e modernismo, tra sperimentazione e mercato, che in qualche modo potesse evocare pure l’estetica new dandy che tra l’altro portavamo sul palco con l’adozione di un look assai ricercato. Nacquero così gli Art Déco, la prima band new romantic d’Italia in assoluto, non solo per genere musicale ma anche per l’abbigliamento che ci faceva apparire come giovani adolescenti appena usciti da un party del Blitz di Londra, mecca del movimento new romantic».

02) Art Deco (1984) A
Un live degli Art Déco al Charisma Club di Mogliano Veneto nel 1984: nella foto di Carlo Chiapponi ci sono Marco Todesco alla tastiera e Stefano Montefusco alla batteria

Sebbene la loro musica risulti avere più rapporti e connessioni con new romantic e new wave, in Italia gli Art Déco finiscono nel calderone eterogeneo e multiverso dell’italo disco che a detta di molti, a partire dal 1985 in avanti ingloba progressivamente musiche e interpreti alquanto discutibili. Ai tempi però la classificazione dei generi è assai sommaria e talvolta gli ibridi restano privi di una collocazione precisa, in una sorta di limbo. «Senza ombra di dubbio gli Art Déco erano in linea con lo zeitgeist new romantic, forse in maniera ancora più preponderante rispetto alla new wave, e questo finì col portarci in un’area mainstream» prosegue Valente. «L’esplosione dell’italo disco ci permise di ottenere il primo contratto discografico in quanto i produttori indipendenti stavano investendo sempre di più su quel genere e aziende come Il Discotto e Discomagic supportavano con distribuzione e promozione quei prodotti senza fare troppi distinguo, tanto che ancora adesso i nostri EP sono catalogati, sul mercato del collezionismo, come italo disco. All’epoca vivevamo con fierezza la nostra diversità di discendenza all’interno di quell’enorme macro genere considerandoci, con un po’ di sana arroganza giovanile e dandy, molto più cool dei colleghi smaccatamente dance, ma nel contempo scontavamo la differenza occupando un mercato più di nicchia e meno nazionalpopolare. Anche rispetto alla scena new wave nostrana, decisamente più spostata sul gothic e dark e ossessionata dal cantare in lingua italiana, gli Art Déco partivano come outsider perché considerati troppo mainstream ma questa era una cosa che vivevamo con spensierato divertimento e sentendoci più “avanti” degli altri».

Dopo qualche anno per la band mestrina giunge l’ora di incidere un disco. «Vista l’enorme disponibilità di tempo libero (io e Diacci eravamo ancora studenti, gli altri appena diplomati ma senza lavoro), trascorremmo un anno in classiche e interminabili session pomeridiane e notturne» continua Valente. «Utilizzavamo mezzi semplici come registratori a cassetta per poi approdare a un classico Fostex a quattro piste. Stavamo cercando di capire come proporci a eventuali etichette quando sentimmo parlare dei Nite Lite, band di Mestre in cui cantava Massimo Filippi che aveva scelto di impegnarsi come produttore indipendente aprendo la sua label, la Art Retro Ideas, sulla quale era già uscita la seminale compilation di new wave veneziana intitolata “Samples Only”. Conoscemmo Filippi quasi per caso una sera, all’esterno di una sala prove in centro a Mestre, alla fine di una session dei Nite Lite. Stavano trasportando in auto un sintetizzatore, un Yamaha DX9, e incuriosito mi fermai, insieme a Marco Todesco, per entrare in contatto con altri musicisti che come noi usavano macchine elettroniche per comporre. Facemmo amicizia e a quel punto Filippi ci disse che era in cerca di nuove band per la sua neonata etichetta. Decidemmo così di proporgli una demo di alcuni nostri brani di cui ricordo ancora i titoli, seppur poi furono scartati: “Danceway” e “Dreamless Nights” che ho riproposto di recente in un mio lavoro intitolato “Il Blu Di Ieri” ma in una versione italiana intitolata “Notti Senza Sogni”. Si tratta di un pezzo che rievoca nel testo e nell’atmosfera proprio quella sensazionale stagione musicale».

03) Because The Movie Is On
La copertina di “Because The Movie Is On”, brano d’esordio degli Art Déco (1985)

Per gli Art Déco giunge quindi il momento di debuttare sul mercato discografico. Il 12″ che la Art Retro Ideas pubblica nel 1985 si intitola “Because The Movie Is On” e è un sunto tra new romantic, synth pop e italo disco. «Registrammo due versioni del pezzo ma Filippi scelse di pubblicare solo la seconda, più elettronica e con un nuovo ritornello, con una melodia completamente diversa che modificai in corso d’opera» chiarisce Claudio Valente. «La batteria era una Oberheim DMX perché nel frattempo Stefano Montefusco, purtroppo, partì per prestare il servizio militare in Libano. Tuttavia l’utilizzo di una drum machine fu un ingrediente che ci caratterizzò, almeno nelle incisioni in studio. Tra le tastiere invece una Roland Jupiter-8 e una Elka Synthex. Intanto all’orizzonte comparvero Alessandro Spanio, il bassista che sostituì Gianpaolo Diacci per problemi di salute, il chitarrista Paolo Sisto e Marco Paties che suonava un po’ tutto. Nel contempo David Mora dei Nite Lite, chitarrista, tastierista e programmatore di sequenze, ci aiutava collaborando dietro le quinte.

Registrammo “Because The Movie Is On” al mitico Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian (intervistato qui, nda), a Gambellara, uno studio simbolo per chi produceva italo disco in quegli anni e da dove sono transitati davvero tantissimi artisti. Dian resta uno dei musicisti e tecnici di studio più competenti che abbia mai conosciuto, oltre a essere il più paziente per noi adolescenti alle prime armi e piuttosto presuntuosi. Non ho mai visto nessuno fare con la sua stessa precisione i tagli sul nastro analogico con lametta e nastro adesivo e incollare al punto esatto i due pezzi della bobina. Per quanto concerne invece l’aspetto più commerciale, il disco vendette circa cinquemila copie e avrebbe potuto raggiungere soglie ancora più ragguardevoli dato che lo passavano tante radio e club del nord est ma Il Discotto non lo distribuì bene, molti cercavano il mix nei negozi senza trovarlo. La promozione invece fu lasciata alla Art Retro Ideas che però, essendo una piccola etichetta indipendente, arrivava fin dove era possibile. Anche il profilo artistico era curato dalla label di Filippi, incluse le grafiche, gli shooting fotografici, gli showcase… un sacco di lavoro insomma. A tal proposito mi tornano in mente alcune serate promozionali che ci dividemmo con Valerie Dore e altri artisti del panorama italo, soprattutto in club e discoteche del nord est, la nostra zona d’origine».

04) European Crime
L’artwork di “European Crime”, sviluppato da un fotogramma del film “Blade Runner”

Il follow-up di “Because The Movie Is On” è “European Crime” in cui gli Art Déco continuano a rimarcare la chiara adesione alla new wave, presente anche nel brano inciso sul lato b, “The Fake Of Lovin'”. «”European Crime” è il disco del nostro repertorio che preferisco ed è tuttora un fiore all’occhiello perché rappresenta perfettamente ciò che erano e volevano essere gli Art Déco nel loro momento migliore» afferma candidamente Valente. «Si trattava di new wave romantica dal sound suggestivo ma nel contempo ballabile nei club, del resto come New Order, Human League o Simple Minds. Eravamo in linea con la scena internazionale e questo lo dico con grande orgoglio. Registrammo il disco sempre al Sandy’s Recording Studio con le stesse modalità del precedente ma in quell’occasione Il Discotto mandò Maurizio Chiesura, un suo A&R, ad ascoltare e divertirsi nel realizzare una versione alternativa e creativa (sic!) insieme a Massimo Filippi e Sandy Dian, inserita come bonus sul lato b.

Tra gli strumenti utilizzati una batteria elettronica Linn 9000, un sintetizzatore Oberheim OB-8 e una Yamaha DX7. Per il sequencer invece adoperammo, analogamente a quanto fatto in “Because The Movie Is On”, uno Yamaha monofonico. Il basso elettronico del brano, infine, fu doppiato da uno vero suonato da Alessandro Spanio. Pure quella volta cambiai il ritornello poco prima di incidere la parte ma conservo gelosamente la demo originale insieme a quella di “Because The Movie Is On”. Per il resto, mi spiace dirlo, ma il team de Il Discotto riuscì a fare peggio di quanto avesse già fatto, investendo pochissimo in promozione, forse perché rapito da altri progetti senz’altro più commerciali del nostro che, in quell’occasione, mostrò un volto molto poco italo disco. Tuttavia l’accordo prevedeva che fossero loro a distribuirlo quindi non potemmo fare granché se non constatare i problemi. Dopo il fallimento il catalogo fu venduto alla tedesca ZYX che ancora oggi utilizza i nostri brani per le loro compilation… italo disco».

Oltre all’ispirazione tipicamente nordeuropea, ad accomunare i primi due dischi degli Art Déco è l’apparato grafico delle copertine curate da Luigi Gardenal, immerse tra futurismo e surrealismo. «Per noi la grafica era importante quanto la musica» afferma a tal proposito Claudio Valente. «Gardenal seppe interpretare magnificamente l’atmosfera di “European Crime” con quel fotogramma tratto da “Blade Runner” (un film mito per noi!) rielaborandolo pittoricamente. Consideravamo fondamentale evocare suggestioni artistiche anche attraverso le copertine dei nostri dischi e sia futurismo che surrealismo erano senz’altro movimenti che ci affascinavano e sentivamo vicini. Sull’artwork di “Because The Movie Is On” invece Gardenal inserì una fotografia di Stefano Padovan, fotografo che ha raccolto grosso successo internazionale nel campo della musica e della moda».

05) Secret Divine
“Secret Divine” è il disco conclusivo per gli Art Déco

Nel 1986 arriva il terzo e ultimo disco degli Art Déco, “Secret Divine”, in cui la componente new wave è ridotta rispetto ai due precedenti. Prodotto ancora da Massimo Filippi e mixato al Nova Studio di Vicenza, esce su Modern Music Productions, una delle centinaia di etichette distribuite dalla lombardoniana Discomagic. Spiccatamente art déco la copertina, in stile Tamara de Lempicka. «”Secret Divine” fu il nostro ultimo mix e quello più italo della triade» spiega Valente. «Lo registrammo al Simple Studio di Reggio Emilia con Ivana Spagna, collaboratrice del fonico, che si occupò dei cori. In quell’occasione ci fece sentire in anteprima “Easy Lady” e la sera venne a cena da noi speranzosa che una volta uscito andasse bene. Due mesi dopo era prima in classifica! Ivana era bravissima sin da allora, oltre a essere molto simpatica e alla mano. Anche in “Secret Divine” ci fu il “tradizionale” cambio del ritornello all’ultimo momento. In archivio conservo la demo originale, a questo punto potremmo pensare a una pubblicazione delle versioni mai uscite! A pubblicare il disco fu la Modern Music Productions, una nuova etichetta fondata da Filippi distribuita dalla Discomagic di Severo Lombardoni. Per quanto concerne le vendite, “Secret Divine” si attestò intorno alle tremila copie ma è un dato non ufficiale perché non eravamo così attenti ai conteggi. Però ci tengo a dire che Massimo Filippi è sempre stato un produttore generoso, trasparente e onesto, infatti dopo quarant’anni siamo ancora amici e ci frequentiamo con regolarità. A realizzare la copertina del mix fu l’ufficio grafico della Discomagic, quel cambio di direzione estetica ben rappresentava il contenuto musicale del disco. Credo fosse una potenziale hit per i canoni italo disco ma non fu spinta abbastanza per diventarlo».

06) Garland - Heartbeat
“Heartbeat” di Garland, progetto solista one shot di Valente

Nel 1986, sempre su Modern Music Productions e con la produzione del fido Filippi, Claudio Valente scrive e interpreta “Heartbeat” di Garland, un pezzo arrangiato dal compianto Claudio Corradini che flirta con l’hi NRG e mostra qualche evidente rimando melodico a “Smalltown Boy” dei Bronski Beat. «Garland era il nome che scelsi per un mio one shot solista dichiaratamente italo disco e quindi intenzionalmente coperto con uno pseudonimo visto che volevo continuare a fare le mie cose rock e new wave» chiarisce l’autore. «La song, arrangiata e scritta insieme al caro amico Corradini, a Filippi e a Marco Todesco alle tastiere, mi aveva intrigato proprio per quel legame con l’hi NRG. Sono sempre stato attratto da certa “motorik disco”, da Moroder in giù diciamo. Il tizio in copertina, con giacca e capelli lunghi, sono io. Registrato al Sandy’s Recording Studio, “Heartbeat” ha conquistato considerevole valore sul mercato del collezionismo, è stato inserito in diverse compilation e perfino rielaborato da qualche DJ all’estero. Un brano che nel mondo italo ha avuto i suoi consensi e che a distanza di oltre trentacinque anni continua a vantare un suono potente frutto di macchine elettroniche analogiche e una eccelsa registrazione su nastro».

07) Art Deco (1984) B
Un altro scatto di Chiapponi agli Art Déco nel 1984, con Paolo Sisto e Alessandro Spanio che suonano sintetizzatori Yamaha DX7 e DX9

La musica degli Art Déco è stata riesumata dal danese Flemming Dalum (intervistato qui) in “Boogie Down Box-Set” del 2009 e più recentemente dalla Fonogrammi Particolari diretta da Fred Ventura (intervistato qui) e Davide Persichella (che ristampa “European Crime” nel 2017) e dalla Spittle Records che la colloca in diverse raccolte antologiche come “The Other Side Of Italy” e la citata “Samples Only” con l’aggiunta di “European Crime” e “The Fake Of Loving”, non ancora incisi ai tempi dell’uscita originaria, nel 1981.

L’invasione dei reissue iniziata poco più di un decennio fa, di pezzi noti e non ma pure di inediti, pare stia avendo la meglio sulle uscite contemporanee. Per uno strano paradosso storico, la musica di ieri risulta essere più attrattiva rispetto a quella di oggi. «Credo ci sia una grande fame di passato, specie in riferimento a musiche di quell’epoca» sostiene Valente. «Sono stati anni in cui è iniziato tutto e con gli strumenti più giusti, in primis i sintetizzatori analogici e i computer, considerate macchine creative. Con tanta musica derivativa in circolazione trovo normale che i giovani di oggi sognino quel passato e vogliano saperne di più, magari solo per cercare ispirazione, ma ritengo che la musica odierna conservi ancora una certa attrattività, ogni stagione ha sempre i suoi frutti. Il potere d’acquisto delle tantissime edizioni limitate piombate sul mercato invece credo resti nelle mani di una generazione più adulta che ha vissuto quegli anni e che ama ancora il disco in vinile e non si è lasciata conquistare dal download o dallo streaming».

08) Valente live 1984
Claudio Valente canta al King Club Tessera di Venezia nel 1984 (foto di Carlo Chiapponi)

Con “Secret Divine”, dunque, cala il sipario sugli Art Déco che restano immobilizzati nel decennio accusato a lungo di aver generato quintali di musica di plastica. Una plastica che a posteriori però si è rivelata perennemente riciclabile, a giudicare dagli infiniti ripescaggi e campionamenti. Non sarebbero certamente i primi ad annunciare una reunion ai tempi dell’algocrazia, magari proponendo un album di inediti registrati allora ma mai dati alle stampe. «Effettivamente qualche volta ci siamo baloccati con questa idea ma le reunion sono difficili da attuare e, in tutta onestà, nel nostro caso la vedrei possibile solo come duo formato da me e Todesco» dice Valente. «Non credo però che pubblicheremmo pezzi vecchi, qualora si concretizzasse davvero l’idea scriveremmo brani ex novo. Il primo a considerare chiusa l’avventura del gruppo, seppur con grande dolore, fui proprio io, che nel frattempo cominciai a scrivere in italiano e avevo voglia di rock and roll. Comunque il mio prossimo album, la cui uscita è prevista nel 2023, mi vedrà tornare alla lingua inglese e con più di un collegamento con quel sound».

Oltre a collaborazioni strette coi Circle, gli Unfolk, gli Holiday Futurisme e i Telegram, Claudio Valente incide quattro LP da solista, “Un Pò(p) Più Adulto” del 2008, “Maschere Nude” del 2011, “Cambiamori” del 2016 e “Il Blu Di Ieri” del 2018 a cui si è aggiunto, più recentemente, “Controllo”, un EP che tra le altre cose contiene la cover di “The Man Who Sold The World” di David Bowie. «Oggi fare musica sganciata dal mainstream significa essenzialmente agire in modalità do it yourself più che mai, investire le proprie risorse e lavorare molto sul web» chiosa il musicista. «Fortunatamente sono supportato da una label veneta indipendente, la Dischi Soviet Studio, e da un nuovo team di lavoro di professionisti molto competenti e ciò mi consente di continuare imperterrito a dare vita ai miei sogni musicali. Attualmente la discografia delle major vive di talent e di prodotti super commerciali, vedo poca voglia di rischiare, di investire in progetti particolari o di scommettere sulla crescita di un artista, concedendogli il tempo necessario, supportandolo economicamente e consentendogli la naturale maturazione ed evoluzione così come si faceva un tempo. Purtroppo manca anche un sostegno statale a quei progetti musicali non tradizionali e, più in generale, alla voglia di avventure artistiche» conclude Valente con mestizia. (Giosuè Impellizzeri)

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DWA, un faro per l’eurodance

Tra l’italo disco degli anni Ottanta e l’eurodance dei Novanta corre più di qualche analogia a partire dal formato canzone, passando per il modus operandi legato a turnisti e personaggi immagine, sino agli strabilianti risultati in termini di vendite. Uno di quelli che hanno creato un solido continuum tra le fogge stilistiche dei due decenni è Roberto Zanetti: nato a Massa, dopo aver militato tra le fila di alcune band come i Taxi (insieme a Zucchero) e i Santarosa, nel 1983 diventa un idolo dell’italo disco più romantica e malinconica nelle vesti di Savage realizzando ed interpretando successi internazionali, su tutti “Don’t Cry Tonight” con cui approda a Discoring dove viene annunciato come “una nuova firma della disco dance made in Italy”, ed “Only You”, ricamato su una placida delicatezza melodica da carillon.

Savage (198x)
Zanetti ai tempi in cui spopola come Savage

Spalleggiato da Severo Lombardoni della Discomagic, che dell’italo disco è stato uno dei principali traghettatori, Zanetti è un compositore a tutto tondo capace di scrivere, arrangiare ed interpretare i suoi brani, e questo lo differenzia da gran parte degli artisti che popolano l’italo disco (prima) e l’eurodance (poi), rivelatisi spesso un ibrido tra cantanti turnisti ben lontani dall’autonomia ed indipendenza compositiva e performer specializzati in lip-sync. Quando, alla fine degli anni Ottanta, l’house music fa scivolare ai margini della scena l’italo disco soppiantandola, un mondo si sgretola e il comparto dance nostrano, inizialmente disorientato, è da rifondare e ricostruire. Il musicista massese approccia al nuovo genere a partire dal 1988 attraverso vari dischi come “Me Gusta” e “Te Amo” di Raimunda Navarro, “Allalla” di Abel Kare e “The Party”, una cover-parodia dell’omonimo dei Kraze che firma Rubix, variante del Robyx in uso sin dal 1983 per siglare il lavoro da produttore. «In quel momento sentii l’esigenza di creare un mio sound ed ebbi la necessità di fondare un’etichetta personale per dare una precisa identità ai miei progetti» spiega in questo articolo del 2020. L’etichetta in questione è la DWA, acronimo di Dance World Attack, un ambizioso slogan che punta all’internazionalità ma senza tradire o rinnegare l’amor patrio che per alcuni invece, ai tempi, è quasi ingombrante perché apparente segno di provincialismo (il commercialmente ambito italian sounding sarebbe giunto solo molti anni più tardi). Il primo logo non lascia adito a dubbi, è inscritto nel tricolore nostrano, e lo spiccato senso di italianità si farà sentire presto anche attraverso la musica marchiata con tale sigla, foneticamente simile a quella della compagnia aerea statunitense TWA così come lo stesso Zanetti chiarisce nella videointervista del 21 marzo 2020 a cura de LoZio Peter.

Raimunda Navarro - No Lo Hago Por Dinero
Il 12″ d’esordio della DWA su cui si scorge il primo logo della label collocato nel tricolore nazionale

1989-1990, tempo di spaghetti house
A produrre il 12″ inaugurale della DWA nel cruciale 1989 è Zanetti sotto il citato pseudonimo Raimunda Navarro, coniato l’anno prima con “Me Gusta” destinato alla Out di Severo Lombardoni. “No Lo Hago Por Dinero” si sviluppa su una scansione ritmica simile a “Sueño Latino”, seppur qui manchi un sample indovinato come “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching, rimpiazzato dalla chitarra più latineggiante di Claudio Farina abbinata comunque ad una suadente voce femminile a ricordare quella di Carolina Damas. Uno dei remix giunti qualche mese più tardi fruga nel tipico campionario spaghetti house, tra pianate e sample carpiti a vecchie incisioni ed inchiodati ad un battente beat in 4/4. A firmarlo è Zanetti trincerato dietro Bob Howe («a quel tempo era di moda firmarsi con pseudonimi “internazionali” per apparire stranieri» rivela l’artista contattato per l’occasione). Titolo? The Paradise Remix, rimando più che chiaro al citato “Sueño Latino” trainato, per l’appunto, dall’estatica The Paradise Version lunga oltre dieci minuti.

Ice MC - Easy
“Easy” è il singolo di debutto di Ice MC

È sempre Zanetti nelle vesti di Howe a mettere le mani sui remix di “Easy”, singolo di debutto del ballerino/rapper britannico Ian Colin Campbell alias Ice MC che segue il filone del downbeat/hip hop con uno scampolo ritmico preso da “Paid In Full” di Eric B. & Rakim e ricami reggae sottolineati da un breve intervento vocale interpretato da Zanetti stesso. Sul lato b spazio a “Rock Your Body” tangente l’hip house. Il pezzo, pubblicato anche sulla lombardoniana Out e promosso da un videoclip, raccoglie un clamoroso successo in tutto il mondo a partire dalla Francia e conquista decine di licenze, inclusa quella sulla blasonata Cooltempo, ma passa inosservato in Italia. È il primo centro per la DWA che continua a scommettere sul filone dorato della house pianistica ma senza riuscire a sfondare come 49ers, FPI Project o Black Box. In rapida sequenza escono “House From The World” dei Meeting Place (Marco Bresciani e Davide Ruberto), “Face To Face” di Lovetrip, “Together” di Shade Of Love e “Polskie Beat” di Krymu, edificato sullo schema sampledelico di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. in una sorta di megamix/medley assemblato con lo strumento protagonista di quel periodo, il campionatore. L’ottima resa commerciale del downbeat in stile Milli Vanilli o Snap! adottato per Ice MC convince Zanetti a riprendere la cover di “Live Is Life” degli Opus a firma Stargo, già uscita nel 1985, per svilupparla in nuove versioni più adatte ai tempi. Al successo però torna con “Scream”, secondo singolo di Ice MC estratto dall’album “Cinema” che muove i passi su un’impalcatura melodica in stile “Profondo Rosso”. Le urla sono di una certa Vivianne (ossia Viviana Zanetti, sorella di Roberto che, come lui stesso dichiara, «lavora da sempre nell’ufficio della DWA ma è anche una brava cantante e la registravo spesso per voci o effetti»), gli inserti maschili di Zanetti mentre i cori di Alessia Aquilani alias Alexia Cooper, una giovane cantante della provincia di La Spezia destinata ad una rosea carriera. Giacomo De Simone gira un videoclip immerso in atmosfere tenebrose, a rimarcare l’impostazione sonora. “Cinema” è anche il titolo di un altro singolo estratto dall’LP in cui il rapper elenca, su una base filo house, una corposa lista di attori, da John Wayne ad Alain Delon, da Sean Penn a Robert De Niro passando per Charlie Chaplin, Chuck Norris, Charles Bronson, Sean Connery ed Arnold Schwarzenegger senza dimenticare diversi italiani come Marcello Mastroianni, Alberto Sordi e Sophia Loren. Questa volta il video, diretto ancora da De Simone, è ambientato (prevedibilmente) in una sala cinematografica.

L’album di Ice MC si muove bene soprattutto in Francia e in Polonia e produce “carburante” per mandare avanti l’attività. Zanetti è pronto a reinventarsi e rimettersi in gioco di volta in volta con nuovi nomi di fantasia come Pianonegro, pseudonimo con cui firma il brano omonimo, versione in slow motion della piano house virata downtempo che stuzzica parecchio il pubblico del Regno Unito. In coppia con Marco Bresciani poi realizza, in scia alla diffusione europea dell’hip house, “Typical” di Soul Boy a cui fa seguito un altro progetto one shot sempre condiviso con Bresciani, Soul Emotion, che col brano omonimo emula i bortolottiani 49ers. Da “Cinema” viene estratto un altro singolo, “Ok Corral!”, hip house in bolla country, mentre il pucciniano “Nessun Dorma” viene traslato da DFB Featuring Walter Barbaria su un reticolo che ammicca a “Sadeness Part I” degli Enigma di Michael Cretu. A leggere le note in copertina pare si trattasse di un disco registrato al Teatro Internazionale dalla Moscow Philharmonic Orchestra diretta da un certo Victor Bradley ma in realtà, come svela oggi Zanetti, tutti i nomi, l’orchestra e il teatro erano immaginari «a parte Barbaria che è un cantante lirico molto bravo». Ubicata tra reggae e downbeat è la cover di “No Woman No Cry” (in origine di Bob Marley & The Wailers) a firma Babyroots, ennesimo act messo su da Zanetti nel suo Casablanca Recording Studio col supporto vocale della turnista Aquilani. È sempre lui ad innestare canti africani su base house (“The Sound Of Afrika” di Humantronics), a campionare l’acapella di “Warehouse (Days Of Glory)” di New Deep Society per “Party Children” di Wareband che si muove ottimamente all’estero, e produrre “Freedom”, il singolo di debutto del congolese Bale Mondonga. Il brano, ripubblicato anche dalla Sugar ma senza particolari risultati, auspica un nuovo mondo con meno differenze sociali e più equità. A distanza di oltre un trentennio le speranze restano ancora le stesse.

Alexia Cooper - Boy
Una giovane Alessia Aquilani, poco più che ventenne, immortalata sulla copertina di “Boy” (Euroenergy, 1989)

1991-1992, alla ricerca di un’identità
Ice MC è già pronto col secondo album, “My World”, dedicato alla sorella Sandra e ceduto in licenza alla tedesca Polydor. La DWA pubblica una special limited edition con tre versioni remix (la 909 Heavy Mix, il Jump Swing Remix e il Work Remix) di un estratto, “Happy Weekend”. Aria di remix pure per la citata “Party Children” di Wareband e “Don’t Cry Tonight” del redivivo Savage, riarrangiata su base downbeat. Echi hip house si rincorrono in “Jumbo” di Tity B., scritta da Nathaniel Wright e prodotta da Leonardo Rosi alias Fairy Noise che a Zanetti affida, poco dopo, le cover di due classici della canzone italiana, “Senza Una Donna” (di Zucchero) ed “Albachiara” (di Vasco Rossi), entrambe a nome Stargo. È proprio Zanetti invece a produrre “Vocalize” di Scattt, pseudonimo derivato dal virtuosismo vocale, lo scat per l’appunto, adottato nel medesimo periodo in “You Too” di Nexy Lanton, prodotto da Gianni Vitale per la debuttante Line Music di Giacomo Maiolini. Bale Mondonga riappare, questa volta con lo pseudonimo Momo B. che lo accompagnerà sino ai tempi di Floorfilla, con la ridente “Be Happy”, e lo stesso avviene con la Aquilani che torna come artista a nome Alexia Cooper a due anni di distanza da “Boy”, una sorta di incrocio tra “Boys” della prorompente Sabrina Salerno e “La Notte Vola” di Lorella Cuccarini. Abbandonato il filone hi nrg destinato perlopiù al mercato nipponico, la cantante interpreta “Gotta Be Mine”, in linea con la dance europea del periodo. Sull’onda di “Party Children”, Wareband cerca il bis attraverso “A Better Day” ma non riuscendo completamente nell’impresa. Sulla rampa di lancio c’è un progetto nuovo di zecca, Data Drama, che debutta con “The Rain”. Insieme a Zanetti in studio ci sono Riccardo Bronzi ed un talentuoso cantante londinese, William Naraine.

Dal Casablanca Recording Studio arriva pure “The Wind” di Zero Phase, act one shot poco fortunato che cerca di ricalcare le orme di un successo proveniente dal Nord Europa, “James Brown Is Dead” degli olandesi L.A. Style, dichiaratamente preso a modello pure per “James Brown Has Sex”, l’ultimo firmato da Zanetti come Raimunda Navarro. In preda al boom commerciale dell’eurotechnodance, la DWA pubblica “S.l.e.e.p. Tonight” di 303 Trance Factor (una delle quattro versioni, la After-Hour Factor Frequency, in cui ben campeggia il vocal sample preso da “The Dominatrix Sleeps Tonight” di Dominatrix, è realizzata dal pugliese Michele Mausi – intervistato qui – ma senza che il suo nome venga riportato tra i crediti), “Pump The Rhythm” di Fletch Two, “Don’t Stop The Movie” di V.I.R.U.S. 666 e “De Puta Madre” dei Terra W.A.N., quest’ultimo preso in licenza dai Paesi Bassi e ripubblicato con dicitura DWA Underground. La strada maestra di Zanetti però non è quella della musica strumentale, i tentativi di raccogliere consensi con prodotti filo techno – compresi quelli di cui si parlerà poco più avanti – sono vani ed infatti torna presto a scommettere sulla vocalità, prima col follow-up di Scattt, “Scat And Bebop”, e poi con Naraine che, nascosto dietro il nomignolo Willy Morales, reinterpreta un classico degli Electric Light Orchestra, “Last Train To London”. La cover attecchisce nel mercato estero e fa da apripista ad un altro remake che segna indelebilmente uno degli zenit per la label massese, “Please Don’t Go”, originariamente dei KC & The Sunshine Band e già riproposto in chiave dance nel 1985 dai Digital Game prodotti da Alessandro Novaga con la voce di Romano Bais, come lo stesso Novaga afferma in questa intervista del 26 marzo 2009.

Double You - Please Don't Go
“Please Don’t Go” dei Double You, tra i bestseller del catalogo DWA

A realizzare la nuova versione è il team dei Double You formato dal musicista Franco Amato, dal DJ Andrea De Antoni e dal citato William Naraine che oltre a cantare ricopre anche ruolo di frontman. Registrato a dicembre del 1991, il brano viene pubblicato a gennaio del 1992 e, come si legge sul sito della stessa DWA, «divenne un successo immediato che garantì a Double You tournée in tutta Europa ed apparizioni in numerosi programmi televisivi. Con più di tre milioni di copie vendute, “Please Don’t Go” si aggiudica dischi d’oro e di platino spopolando in Paesi come Germania, Francia, Olanda, Spagna, Belgio, Svizzera, Austria, Grecia, Turchia, Europa dell’Est, tutta l’America Latina (nessuna nazione esclusa) e molti stati dell’Africa e dell’Asia. Il disco vende anche nell’America del Nord, entrando nella top 10 maxi sales, e nel Regno Unito dove si piazza secondo nella Cool Cuts Chart». Trainato da un videoclip diretto ancora da Giacomo De Simone in cui la scena è dominata da Naraine che su qualche rivista viene definito una sorta di “Nick Kamen prestato alla dance italiana”, “Please Don’t Go” gira su un organo hammond in stile “Gypsy Woman (She’s Homeless)” di Crystal Waters e “Ride Like The Wind” degli East Side Beat (cover dell’omonimo di Christopher Cross di cui parliamo qui), entrambi del 1991, e glorifica la “covermania” da noi andata avanti per quasi un biennio. In Italia diventa un tormentone, aiutato dalle ragazze di “Non È La Rai” che lo ballano quasi come un mantra e da Fiorello che lo ricanta in italiano in “Si O No”, ma anche all’estero, come già detto, le cose vanno alla grande e senza intoppi, almeno sino a quando si fa avanti un’etichetta britannica, la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker, intenzionata a pubblicarlo oltremanica. Poiché già ceduto ad un’altra compagnia discografica, alla Network Records cercano di trasformare l’imprevisto in un’opportunità per non perdere l’affare e trovano presto la soluzione: incidere una nuova versione. Non si tratta però di una cover dell’originale dei KC & The Sunshine Band bensì di una copia carbone del remake italiano realizzata dai K.W.S. (Chris King, Winston Williams e il vocalist Delroy St. Joseph), un banale tarocco insomma. Grazie pare ad una pratica sleale che blocca oltremanica il disco dei Double You, la “Please Don’t Go” dei K.W.S. ha via libera e riesce a conquistare il vertice delle classifiche britanniche (per ben sette settimane consecutive) e statunitensi, coadiuvata da un videoclip e dal supporto di un colosso come la Next Plateau Records di Eddie O’Loughlin. La reinterpretazione (o presunta tale) sbarca anche in Italia attraverso la Whole Records del gruppo Media Records. La questione desta scalpore e finisce prevedibilmente nell’aula di un tribunale. Informazioni dettagliate trapelano attraverso un articolo di Roger Pearson pubblicato su Billboard l’1 aprile del 1995: Steve Mason e Sean Sullivan, rispettivamente proprietario e co-direttore della Pinnacle che distribuisce il disco dei K.W.S., sono considerati colpevoli di aver condotto una campagna di pirateria internazionale che infrange il diritto d’autore col chiaro fine di trarre enormi vantaggi economici ai danni della ZYX a cui la DWA di Zanetti aveva precedentemente concesso in licenza il brano dei Double You. Una vicenda analoga toccherà, anni dopo, a “Jaguar” di The Aztec Mystic aka DJ Rolando, come descritto in Decadance Extra, e in un certo senso anche a “Belo Horizonti” dei nostri The Heartists, come racconta Claudio Coccoluto in questo articolo/intervista. Talvolta, è risaputo, il successo ha un prezzo da pagare e può risultare particolarmente alto.

Il 1992 si apre comunque sotto i migliori auspici: insieme ad Ice MC, Pianonegro e Wareband, la DWA adesso mette nel forziere dei successi anche i Double You con “Please Don’t Go”, quarantaseiesima pubblicazione di un catalogo che continua a crescere senza esitazioni ed oggi considerata alla stregua di un’istantanea della spensieratezza degli adolescenti di allora. Da “My World” viene estratto un secondo singolo, il malinconico “Rainy Days” che prova a rimettere al centro della scena Ice MC ma senza grandi consensi. La combo tra hip house e downbeat, tenuti insieme da un breve campionamento vocale preso ancora dal citato “Warehouse (Days Of Glory)” – lo stesso che anni dopo ricicleranno gli svedesi Antiloop per la hit del 1997 “In My Mind” – sembra non fare più grande presa sul pubblico della dance generalista. “Love For Love” dei C. Tronics (Alessandro Del Fabbro, Claudio Malatesta alias Claudio Mingardi – per cui Robyx produce “Star” già nel 1984, in seno al fermento dei medley come raccontato qui – e Stefano Marinari) punta ancora su derivazioni technodance in stile Cappella seppur non manchi una versione spassionatamente italo house, la Original ’70 Mix; la Aquilani veste i panni, per l’ultima volta, di Alexia Cooper con “Let You Go” trainato da un fraseggio jazz che strizza l’occhio a quello di “How-Gee” dei Black Machine di cui parliamo qui, e vagamente jazzy è pure la salsa di “Guitar” di Larry Spinosa, altro nome di fantasia dietro cui si cela Francesco Alberti «che oltre ad essere il fonico del Casablanca Recording Studio era anche un musicista» spiega Zanetti.

Delirio compilation
La compilation “Delirio” fotografa bene il mondo della “techno all’italiana” che si sviluppa tra 1991 e 1992

L’onda di quella che viene sommariamente definita “techno” cresce ed impatta fragorosamente in Italia dove si moltiplicano i tentativi di emulazione di replicare i numeri dei successi nordeuropei. La DWA non si esime dal seguire questa tendenza generalizzata, seppur appaia evidente che quello continui a non essere affatto il genere in cui riesca a dare il proprio meglio. Escono “Confusion” di Psycho, “Can You Hear Me” di Walt 93 e la compilation “Delirio” che rappresenta bene lo spaccato di quel mondo “techno all’italiana”, fatto di campionamenti troppo ovvi e semplificazioni che collocano il genere nato a Detroit «su binari semplici e riconoscibili […], oltre a spingerlo verso ritmi produttivi pari a quella dell’ormai consolidata piano house» come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, specificando che «il sound generale di quei dischi aveva veramente poco di techno nel senso più puro della parola. Si tratta infatti di produzioni realizzate perlopiù da musicisti che hanno un background musicale non adatto alle strutture minimali ed eclettiche del sound di Detroit, e al massimo assomigliano alle produzioni europee di label come R&S o Music Man ma senza averne l’impatto e le giuste sonorità». I Data Drama riappaiono, per l’ultima volta, con “Close Your Eyes”, ancora cantato da Naraine che però non compare nelle esibizioni pubbliche (come questa) perché impegnato coi Double You, Claudio Mingardi produce “L.O.V.E.” di 2 Fragile, ennesimo act one shot a cui si sommano Larry Liver Lip con “Challowa”, attraverso cui Zanetti ed Alberti (il Larry rimanda al sopramenzionato Larry Spinosa) rimaneggiano il ragamuffin coadiuvati dalla voce di Ian Campbell e parzialmente ispirati da “Informer” di Snow, “Razza” dei Razza Posse (promosso sullo sticker in copertina come “raggarappin”) e il “Contraddizione EP” dei Contraddizione Posse. Tutti finiscono in una compilation intitolata “Italiano Ragga” omonima di un pezzo di Ice MC racchiuso in “My World”, uscita dopo lo scandalo di Tangentopoli di cui si rinviene qualche riferimento sulla copertina e nella quale, tra gli altri, presenzia Frankie Hi-NRG MC con “Fight Da Faida”.

Double You - We All Need Love LP
Un primo piano di William Naraine finito sulla copertina del primo album dei Double You

Il vero banco di prova per l’etichetta è rappresentato dal follow-up di “Please Don’t Go” dei Double You ossia “We All Need Love”, registrato a giugno 1992 durante la tournée europea. Si tratta ancora di una cover, questa volta del pugliese trapiantato in Canada Domenic Troiano, capace di raggiungere in tempi brevi i vertici delle classifiche di vendita di tutto il mondo. Abbinato ad una base che ricorda, come vuole la ricetta del classico follow-up, quella di “Please Don’t Go”, “We All Need Love” è anche il titolo del primo album della band. Non manca il videoclip dominato ancora dalla figura del carismatico Naraine. A fare da contorno “Rock Me Baby” e “Gimme Some” di Babyroots, interpretate da Sandy Chambers e cover rispettivamente degli omonimi di Horace Andy e Jimmy “Bo” Horne scritti da Harry Casey e Richard Finch. A settembre è tempo di “Who’s Fooling Who”, terzo singolo dei Double You ancora estratto da “We All Need Love”, cover dell’omonimo dei One Way e per cui viene girato un videoclip. È una cover pure quella dei debuttanti Netzwerk, team composto dai produttori Marco Galeotti, Marco Genovesi e Maurizio Tognarelli, che per l’occasione ricostruiscono “Send Me An Angel” degli australiani Real Life avvalendosi della voce della citata Chambers che fa anche da frontwoman per le esibizioni nelle discoteche e in tv. Tra echi à la Snap! (“Rhythm Is A Dancer” è una delle hit dell’anno a cui si ispira più di qualcuno), la vena malinconica preservata dall’originale e il climax raggiunto dopo un effetto stop che introduce il ritornello e che diventa la tag identificativa della DWA, il brano conquista diverse licenze estere e circola parecchio nei primi mesi del 1993. Provengono d’oltralpe invece “Keep Our Love Away” di Sophie Hendrickx e “Use Your Voice” di Red Zone, entrambe prese in licenza dalla belga Rox Records di Roland De Greef.

Digilove - Let The Night Take The Blame
Digilove, uno dei tanti progetti a cui presta la voce Alessia Aquilani

1993, 1994, 1995: la consacrazione dell’eurodance
Ancora estratto da “We All Need Love”, “With Or Without You” è il nuovo singolo dei Double You, cover dell’omonimo degli U2. Posizionato nei binari timbrici di “Please Don’t Go”, il brano rivive attraverso molteplici versioni solcate su un doppio mix tra cui alcune ritmicamente più impetuose come la Mind 150 Mix. Claudio Mingardi torna con un progetto nuovo di zecca, Gray Neve, varato con l’onirica “I Need Your Love” scritta insieme ad Alessia Aquilani con qualche rimando che vola ad “Exterminate!” degli Snap!. L’assenza di una personalità definita e di un’idea sviluppata a dovere lasciano però il pezzo nell’anonimato. Decisamente più convincente e coinvolgente invece la cover di “Let The Night Take The Blame” di Lorraine McKane con cui debutta Digilove, act messo su dal team M.V.S. (il citato Mingardi, Gianluca Vivaldi e Riccardo Salani). Il brano valorizza il timbro prezioso e sensuale della Aquilani e conquista licenze in Germania, Francia e Spagna e lo spazio in numerose compilation che ai tempi possono rappresentare l’ago della bilancia di alcune produzioni discografiche soprattutto in ambito eurodance. Quest’ultimo si configura come un filone dalle caratteristiche ben precise rappresentate da uno spiccato apparato melodico ottenuto con riff di sintetizzatore in cui si incrociano vocalità maschili e femminili, spesso le prime in formato rap nella strofa, le seconde invece a scandire l’inciso, in uno schema apparso già nel 1989 con la profetica “I Can’t Stand It” di Twenty 4 Seven a cui abbiamo dedicato qui un articolo. Dal 1992, con l’esplosione di “Rhythm Is A Dancer”, questo modello diventa praticamente una matrice a cui un numero indefinito di produttori europei fa riferimento per comporre la propria musica. È il caso dello svizzero René Baumann alias DJ Bobo che entra nel mercato discografico nel 1990 con “I Love You”, distillato tra l’house balbettante di Chicago, le pianate italo e ganci hip hop, e che adesso cavalca in pieno il fermento eurodance con “Somebody Dance With Me”, pubblicata a novembre del ’92 ma esplosa in diversi Paesi europei ed extraeuropei (come Australia ed Israele) nel corso dell’anno seguente, quando arriva anche in Italia attraverso la DWA. Si narra che sia stato proprio il successo internazionale ad aver attirato l’attenzione della celebre Motown accortasi dell’evidente somiglianza tra il ritornello di “Somebody Dance With Me” e quello di “Somebody’s Watching Me” di Rockwell, interpretato da Michael Jackson. L’etichetta di Berry Gordy, padre dello stesso Rockwell, avrebbe intentato causa ai danni dello svizzero accusandolo di plagio. In occasione del loro ventennale d’attività, la DWA pubblica il megamix dei KC & The Sunshine Band intitolato ironicamente “The Official Bootleg”. Segue una tiratura su LP, “Oh Yeah!”, che in tracklist annovera una versione di “Please Don’t Go” registrata live in Versilia. Il chitarrista Francesco ‘Larry Spinosa’ Alberti offre un continuum al “Guitar”, “The Guitar E.P. Nº 2” che all’interno ospita due tracce (e due remix) di stampo house rigate da una vena papettiana, e un ritorno è pure quello degli olandesi Terra W.A.N. con “Caramba (Dance 2 Dis)”, traccia ai confini con l’hardcore incanalata nel brand DWA Interface.

È pop dance made in Italy invece “Baby I Need Your Loving” di Johnny Parker Feat. Robert Crawford, prodotto da Marco Mazzantini e Daniele Soriani (quelli che tempo dopo armeggiano dietro Gayà) e coi backing vocal di Alessia Aquilani. A sorpresa Zanetti riporta in vita il suo alter ego Savage, assente da circa un triennio, con “Something And Strangelove”: “Something” è un inedito che risente dell’influsso della dance mitteleuropea, “Strangelove” è la cover dell’omonimo dei Depeche Mode. Sull’etichetta centrale si legge DWA Infective, ennesima declinazione che il musicista utilizza per personalizzare l’iter artistico della sua label analogamente a DWA Italiana, usata per il remix di “Sesso O Amore” degli Stadio realizzato dal sopraccitato team degli M.V.S. (Mingardi, Vivaldi, Salani). I Double You tornano con “Missing You”, primo singolo estratto da “The Blue Album” che uscirà l’anno dopo: sganciata dalla formula del filone iniziato con “Please Don’t Go”, la band inforca una nuova strada contaminata da elementi rock. Sul lato b (e sul CD singolo) finiscono i remix house di Fulvio Perniola e Gianni Bini che proprio quell’anno debuttano su UMM come Fathers Of Sound. Roberto Calzolari e Massimo Traversoni invece, già dietro Dyva, si propongono con “You Make Me Feel” cantata da Gwen Aäntti, un brano in cui pare riascoltare un frammento (velocizzato) di “What Is Love” di Haddaway. Per l’occasione si firmano S.D.P., acronimo di Sweet Doctor Phybes. Il 1993 partorisce un numero abissale di cover dance di classici pop/rock, proprio come “You And I” di Zooo, remake del classico dei Delegation prodotto da Claudio Mingardi e Marco Mazzantini. I due si occupano anche di “Love Is The Key” di Simona Jackson, cantante americana più avanti nota come Simone Jay che inizia a collaborare con la struttura zanettiana mediante un brano di estrazione house. È il centesimo disco della DWA, che scommette ancora sulle potenzialità di DJ Bobo e della sua “Keep On Dancing!”, perfetto follow-up di “Somebody Dance With Me” costruito sui medesimi elementi ossia base che fonde pianate ai bassi sincopati in stile “Rhythm Is A Dancer” condita dal rap maschile e dal ritornello affidato ad una voce femminile. Il successo internazionale convince Zanetti a licenziare nel nostro Paese anche il primo album dell’artista svizzero, “Dance With Me”, pubblicandolo in formato CD.

Ice MC e la tedesca Jasmin ‘Jasmine’ Heinrich che lo affianca quando la DWA lo rilancia nell’eurodance

Assente da quasi due anni, Ice MC riappare sotto la dimensione narrativa dell’eurodance auspicando un ritorno ai fasti reso possibile da “Take Away The Colour” uscito ad ottobre, in cui Robyx assembla con maestria il rap di Campbell ad una trascinante base a cui aggiunge un ritornello a presa rapida. A cantarlo è la menzionata Simona Jackson che però non compare nel videoclip, rimpiazzata dalla tedesca Jasmin Heinrich alias Jasmine, scelta per affiancare Campbell nei live e nei servizi fotografici secondo una pratica comune sin dai tempi dell’italo disco così come descritto in questa inchiesta. È uno dei primi pezzi eurodance prodotti in casa DWA che, in virtù del significativo impatto sul mercato continentale con oltre 200.000 copie vendute, genera più di qualche epigono a partire da “Get-A-Way” dei tedeschi Maxx, così come scrive James Hamilton sulla rivista britannica Music Week il 18 marzo 1995. Insieme ad Ice MC ritornano anche i Netzwerk con un’altra cover, “Breakdown”, originariamente di Ray Cooper ed ora ricantata da Sandy Chambers. Nell’ultimo scorcio del ’93 l’etichetta mette sul mercato i remix di “Give It Up” di KC & The Sunshine Band, “Part-Time Lover” dei Double You (ancora estratto dall’imminente “The Blue Album”), “Give You Love” dei Digilove cantata dall’infaticabile Alessia Aquilani, “I Tammuri” di Andrea Surdi e Tullio De Piscopo e “Take Control” di DJ Bobo, ormai lanciatissimo nel firmamento eurodance internazionale ma con pochi responsi raccolti in Italia.

Corona - The Rhythm Of The Night
La copertina di “The Rhythm Of The Night” di Corona

Menzione a parte merita “The Rhythm Of The Night” di Corona, progetto ideato dal DJ Lee Marrow e registrato nel Pink Studio di Reggio Emilia di Theo Spagna, fratello di Ivana. A scrivere il testo è Annerley Gordon, la futura Ann Lee, a cantare (in incognito) il brano è invece la catanese Jenny B. mentre a portarlo in scena è la frontwoman brasiliana Olga De Souza, unica protagonista del videoclip diretto da Giacomo De Simone. Ottenuto incrociando abilmente parti inedite ad una porzione melodica di “Save Me” delle Say When! ed un riff di tastiera simile a quello di “Venus Rapsody” dei Rockets, “The Rhythm Of The Night”, uscito a novembre e racchiuso in una copertina che immortala lo skyline newyorkese notturno con le Torri Gemelle luccicanti come gioielli nell’oscurità, diventa presto un successo globale che vive tuttora attraverso remix, cover ed interpolazioni, su tutte “Of The Night” dei Bastille e “Ritmo (Bad Boys For Life)” dei Black Eyed Peas e J. Balvin. Innumerevoli anche i derivati, a partire da “The Summer Is Magic” di Playahitty prodotta da Emanuele Asti, uscita nel ’94 e curiosamente interpretata dalla stessa Jenny B. seppur nel video finisca una modella. Quello di Corona è il primo mix ad essere stampato col logo bianco su fondo blu, declinazione grafica più rappresentativa della DWA rimasta in uso sino alla fine del 1996.

Il 1994 inizia con “Number One – La Prima Compilation Dell’Anno”, una raccolta edita su CD e cassetta e mixata da Lee Marrow che raduna materiale prevalentemente dwaiano, alternato a successi del periodo come Silvia Coleman, Cappella ed Aladino. All’interno c’è anche un’anteprima, “Everybody Love” di TF 99, nuovo progetto del team M.V.S. solcato su 12″ a gennaio ed oggetto di discreti riscontri oltralpe. Arrivano dall’estero invece “Is It Love?” dei Superfly e “I Totally Miss You” di Mike L.G., entrambi prodotti da George Sinclair ed Eric Wilde ma passati inosservati da noi. Per i Double You è tempo del secondo LP, “The Blue Album”, dal quale viene prelevato “Heart Of Glass”, cover dell’omonimo dei Blondie. Il fenomeno dei remake è ormai sulla via del tramonto ma certamente non quello dei remix: la DWA rimette in circolazione la musica di Savage attraverso un greatest hits, “Don’t Cry”, abbinato a numerose versioni remix dell’evergreen “Don’t Cry Tonight” incise su due dischi. A firmarle, tra gli altri, Mr. Marvin, Stefano Secchi, Fathers Of Sound e Claudio Mingardi. Proprio quest’ultimo, insieme agli inseparabili Vivaldi e Salani e alla “solita” Aquilani, dà alle stampe “Under The Same Sun”, ignorata in Italia ma accolta bene in altri Paesi europei (Germania, Francia, Spagna). Il nome del progetto one shot è DUE, la medesima sigla (acronimo di Dance Universal Experiment) con cui il team M.V.S. lancia la propria etichetta l’anno dopo, la DUE per l’appunto. Passando per i poco noti “Space Party People” di Arcana, prodotto a Trieste da David Sion (intervistato qui) e Chris Stern, “I Wanna Be With You” dei Cybernetica (Mingardi e soci) e “Better Be Allright” di Space Tribe (una sorta di risposta a “Move Your Body” degli Anticappella realizzata dai componenti dei Double You), la DWA garantisce un po’ di longevità a “The Rhythm Of The Night” di Corona attraverso i (primi) remix tra cui quello di Mephisto (intervistato qui), e scommette sulle potenzialità di “It’s A Loving Thing” di CB Milton, eroe dell’eurodance in buona parte dell’Europa settentrionale prodotto dagli artefici dei 2 Unlimited, Phil Wilde e Jean-Paul De Coster. Il cantante olandese è tra i protagonisti dell’ondata di interpreti come Haddaway, Lane McCray dei La Bouche, Captain Hollywood, Ray Slijngaard dei 2 Unlimited, Dr. Alban, Jay Supreme dei Culture Beat, B.G. The Prince Of Rap o Turbo B. degli Snap! e Centory, accomunati non solo dal genere musicale ma anche dal colore (scuro) della pelle, come del resto vale per Ice MC.

Ice MC - Think About The Way
“Think About The Way” sancisce la completa affermazione di Ice MC in Italia

Il primo boom dell’anno è proprio il suo: “Think About The Way” esce alle porte della primavera ed è il brano con cui l’etichetta di Zanetti conferma il successo internazionale per Campbell. La scrittura si evolve entro canoni ben definiti e l’effetto cover inizia a dissolversi a favore di una personalizzazione dei suoni dalle tonalità calde e brillanti, equilibri attentamente studiati e ponderati tra parti strumentali e vocali nonché una meticolosa attenzione per le stesure accomunate dall’inciso con accento metrico in levare anticipato dall’effetto stop, laser, blip (o comunque un fx simile ad una scarica elettrica) adottato ripetutamente per circa un quadriennio. Questa volta ad affiancare il rapper è la Aquilani che però non compare nel video diretto da Giacomo De Simone e nemmeno sul palco del Festivalbar, nella clip per Superclassifica Show e tantomeno nei live come questo al pugliese Modonovo Beach, rimpiazzata da Jasmin Heinrich già incrociata nel video di “Take Away The Colour” e, un paio di anni dopo, entrata nella formazione degli E-Sensual. La spezzina tuttavia prende parte ad alcune esibizioni live, come questa all’evento francese Dance Machine, o questa in occasione del programma “Donna Sotto Le Stelle” trasmesso da Italia 1. Questa singolare situazione, non nuova negli ambiti dance specialmente nostrani, non la infastidisce almeno a giudicare da quanto dichiara a Riccardo Sada in un’intervista pubblicata ad aprile 1998 su Jocks Mag: «non sono stata vittima nel progetto Ice MC, io cantavo e sul palco ci andava una mulatta, ma mi è bastato. Adesso però sul palco ci vado io e mi diverto». In “Think About The Way” c’è ancora l’impronta rap ma senza riferimenti all’hip house. La produzione zanettiana ora vira verso la melodia più ariosa, e l’indovinato ritornello fa il resto insieme all’hook “bom digi digi digi bom digi bom”. Sebbene pubblicato a marzo, il brano di Ice MC, tempo dopo entrato nella colonna sonora del film “Trainspotting”, diventa un inno estivo dal successo ulteriormente prolungato da nuove versioni tipo la Noche De Luna Mix con una chitarra spagnoleggiante in stile Jam & Spoon. Come sottolinea Manuela Doriani in una recensione di agosto ’94, l’uscita di questo remix risulta decisamente provvidenziale «perché l’originale stava cominciando un po’ a stancare le masse discotecare».

Da “Dance With Me” viene estratto “Everybody” con cui DJ Bobo rallenta i bpm a favore di una canzone downtempo rigata di reggae, tentando di fare il verso ad “All That She Wants” degli Ace Of Base, Mingardi, Vivaldi e Salani clonano “Move On Baby” dei Cappella attraverso “Music Is My Life” di Galactica, Ice MC viene coinvolto in un nuovo remix di “The Rhythm Of The Night” (lo Space Remix), CB Milton riappare con “Hold On (If You Believe In Love)” e i Double You con “Run To Me”, montata sul riff identificativo di “Don’t Go” di Yazoo. Nel turbinio delle pubblicazioni rispunta anche Savage con l’inedito “Don’t You Want Me”, scritto insieme a Fred Ventura (intervistato qui) ed incastonato nella base di “Think About The Way” con qualche marginale variazione. Non è intenzione di Zanetti però rilanciarsi nella scena, è chiaro sin dall’inizio che il musicista non voglia usare la casa discografica per sponsorizzare la sua carriera da artista. La DWA invece veicola nel mondo il suo ruolo da produttore e questo spiega la ragione per cui l’alter ego principale di Zanetti occupi una posizione decisamente defilata rispetto ad altri progetti ed artisti, in primis Corona ed Ice MC, talmente forti da oscurare pure altre proposte dell’etichetta, come “Don’t U Feel The Beat” di Timeshift, importato dal Belgio, “Do You Know” di Black & White, prodotto da Massimo Traversoni e Roberto Calzolari scopiazzando palesemente “Think About The Way”, e “I Don’t Wanna Be” di Crystal B., un altro act one shot registrato presso il Crystal Studio di Francesco Alberti e noto perlopiù all’estero. Nel frattempo Corona arriva oltremanica con la WEA del gruppo Warner aggiudicandosi, come riportato sul sito DWA, un disco d’oro con oltre 400.000 copie vendute. Per l’occasione “The Rhythm Of The Night” viene remixata dai Rapino Brothers (italiani trapiantati nel Regno Unito) e dai fratelli Adrian e Mark LuvDup, anticipando lo sbarco oltreoceano. Alla fine dell’anno saranno più di quindici i dischi d’oro e di platino appesi alla parete. Davvero niente male per un pezzo che, come l’autore racconta qui, viene inizialmente rifiutato da un discografico della Dig It International convinto che non fosse affatto adatto ai tempi e che oggi, paradossalmente, è finito col diventare una specie di elemento mitologico di quell’epoca.

Ice MC + Netzwerk
“It’s A Rainy Day” e “Passion”, due grandi successi della DWA usciti nel secondo semestre ’94

Dopo un’estate vissuta da assoluto protagonista, Ice MC torna con “It’s A Rainy Day”, che davvero nulla divide col quasi omonimo “Rainy Days” di due anni prima. Scritto e prodotto da Zanetti mescolando gli stessi elementi di “Think About The Way” incluso un nuovo hook vocale (“eh eh”), il brano è issato da una suggestiva frase di organo sposata perfettamente con l’atmosfera malinconica tipica delle produzioni a nome Savage. La Aquilani è confermata come voce femminile e questa volta la si ritrova anche nel video ancora diretto da Giacomo De Simone. I tempi sono maturi per lanciare l’album dell’artista, il terzo della carriera, intitolato “Ice’ N’ Green” che gioca sull’assonanza fonetica col quartiere il cui Campbell è cresciuto, Hyson Green, a Nottingham. Quella della DWA ormai è una matrice costituita da suoni e stesure a cui un numero imprecisato di produttori eurodance si ispira, come Malatesti, Salani e Vivaldi che affidano a Zanetti “Don’t Leave Me”, il primo brano firmato Fourteen 14 riuscendo ad ottenere ottimi riscontri all’estero. Percorso inverso invece per CB Milton che dalla belga Byte Records si ritrova in Italia con un altro singolo estratto da “It’s My Loving Thing” ovvero “Open Your Heart”. Allineati al modulo Corona/Ice MC risultano anche i Netzwerk, orfani di Marco Genovesi rimpiazzato da Gianni Bini e Fulvio Perniola, che in autunno tornano con “Passion” lanciata su un ritmo ondulatorio e galoppante. La nuova formazione vede anche la defezione di Sandy Chambers sostituita da Simone Jackson, scelta che però, come lo stesso Bini spiega in questa intervista, «non fu legata a questioni artistiche ma, più banalmente, all’impossibilità della Chambers di cantare in quel periodo». La Jackson, nel 1994, interpreta anche “You’re The One”, prodotto da Francesco Racanati alias Frankie Marlowe, già attivo in progetti come E. L. Gang, Nine 2 Six e 2 B Blue, che però resta nel cassetto. «Dopo il grande successo di “The Rhythm Of The Night” di Corona pensai di realizzare un brano che potesse collocarsi su quel genere» svela oggi Racanati. «Scrissi il testo e mi rivolsi all’amico Alex Bertagnini che mi presentò Vito Ulivi. Lavorammo insieme al pezzo affidandolo vocalmente alla Jackson per l’appunto. Fabrizio Gatto della Dancework (intervistato qui, nda) era intenzionato a farlo uscire come singolo ma parallelamente lo feci ascoltare a Roberto Zanetti che conoscevo dai tempi dei Taxi e con mia sorpresa, sapendo quanto fosse esigente e selettivo, rimase colpito. “You’re The One” gli piaceva e mi consigliò di approfondire il discorso con Lee Marrow per inserirlo nel primo album di Corona che era in lavorazione. Purtroppo Alex e Vito non furono d’accordo, preferivano l’offerta di Gatto che puntava all’uscita come singolo. Tuttavia la Dancework alla fine pubblicò un altro brano in cui non ero coinvolto ossia “All I Need Is Love” di Indiana (di cui parliamo qui, nda), e nel contempo anche il “treno” con Zanetti era ormai passato e perso. “You’re The One”, a cui partecipò pure Marco Tonarelli, rimase quindi in archivio». A chiudere, sotto le feste natalizie, è il Christmas Re-Remix di “It’s A Rainy Day”. Sul 12″ c’è spazio anche per un altro pezzo tratto dall’album, “Dark Night Rider”, col riff di sintetizzatore che paga l’ispirazione a “Move On Baby” dei Cappella, un’altra mega hit italiana messa a segno nel 1994.

Il 1995 riprende dallo stesso nome con cui è terminato il 1994, Ice MC. Non si tratta proprio di un pezzo nuovo di zecca bensì di una rivisitazione di “Take Away The Colour” codificata in copertina come ’95 Reconstruction: ricantata dalla Aquilani che fa capolino anche nel videoclip, la traccia è “figlia” della velocizzazione impressa alla dance nostrana, accelerazione ritmica importata in primis dalla Germania dove quella che a posteriori viene ribattezzata hard dance garantisce un exploit commerciale anche a correnti parallele come l’happy hardcore. La “ricostruzione” di “Take Away The Colour” guarda proprio in quelle direzioni, occhieggiando alle melodie festaiole dei Sequential One del futuro ATB André Tanneberger, alla hit di Marusha (“Over The Rainbow”) e, con un assolo salmodiante a rinforzo del flusso lirico, un po’ anche a quella di Digital Boy (“The Mountain Of King”) che, da noi, fu tra le prime ad innescare quel vigoroso scossone ritmico. «In realtà della versione originale è rimasta solo una piccola parte» spiega Campbell in un’intervista pubblicata su Tutto Discoteca Dance a marzo. «Il pezzo è stato completamente rifatto a 160 bpm, e questo è un disco importante perché segna un’evoluzione del mio stile. La sonorità generale si è rinnovata diventando una via di mezzo tra la melodia, il suono tecnologico tedesco e la jungle britannica». Il brano, in cui si scorge pure qualche rimando vocale non troppo velato a “Think About The Way”, apre la tracklist del remix album dello stesso artista che DWA pubblica insieme alla Polydor del gruppo Polygram.

DWA al Midem
Una foto scattata al Midem di Cannes: a sinistra Steve Allen, A&R della WEA, al centro Roberto Zanetti affiancato da Lee Marrow

È tempo di remix anche per “Passion” dei Netzwerk, ugualmente dopato nella velocità che nella Essential Mix oltrepassa i 140 bpm, e qualche battuta in più la prende anche il nuovo di Corona, “Baby Baby”, rifacimento di “Babe Babe” pubblicato nel 1991 come Joy & Joyce. Ricantato per l’occasione da Sandy Chambers che ovviamente non compare nel video in cui il ruolo da protagonista è sempre di Olga De Souza, il brano, uscito a marzo, conta sul remix di Dancing Divaz utile per penetrare nel mercato britannico ed incluso nella tracklist dell’album uscito in contemporanea, “The Rhythm Of The Night”. La DWA, ancora insieme alla Polydor, lo pubblica solo in formato CD. In Europa è un tripudio. L’etichetta di Zanetti è tra le etichette premiate al Midem di Cannes in virtù di quasi una ventina di dischi d’oro e platino conquistati. La velocità di crociera della dance, nel corso del 1995, aumenta ancora e ciò solleva qualche interrogativo tra gli addetti ai lavori: è corretto parlare di eurobeat? A novembre del ’95 Federico Grilli, sulle pagine di Tutto Discoteca Dance, firma uno speciale in cui pone l’accento proprio sulla trasformazione che investe il filone, «più radicato in Germania e nel Nord Europa che in Italia dove le radio, in alcuni casi, fanno ancora il bello e il cattivo tempo di alcuni dischi». Tanti nomi noti oltralpe (Cartouche, T-Spoon, Maxx, Pandora, Cutoff, Magic Affair, E-Rotic, Imperio, Fun Factory, Intermission, Masterboy) da noi non riescono ad attecchire nonostante l’interesse mostrato per alcuni di essi dalle etichette nostrane, evidentemente incapaci di portare al successo in modo autonomo le scelte dei propri A&R. All’inchiesta prende parte anche Roberto Zanetti che parla dell’eurobeat come «un genere non certamente nuovo ma in vita da oltre un decennio, diretta evoluzione dell’hi NRG con cui Stock, Aitken & Waterman facevano esplodere artisti e band come Rick Astley, Mel & Kim, Dead Or Alive, Hazell Dean e Bananarama. In seguito la Germania, l’Italia e i Paesi limitrofi si sono uniformati ed hanno cominciato a produrre cose simili. Oggi per eurobeat si deve intendere tutto ciò che ha una forte melodia abbinata a suoni e ritmiche attuali, alla moda. In Italia, oltre alle mie produzioni, nella pop dance vedo con interesse dischi come Cappella o Whigfield che di sicuro hanno un sapore internazionale. In conclusione ritengo che l’eurobeat non morirà mai anzi, si andrà sempre più ad identificare con il pop e con tutto ciò che diventa commerciale».

Double You, Netzwerk, Corona (1995)
Double You, Netzwerk e Corona, il tridente d’attacco della DWA nell’estate 1995

L’eurobeat nostrana (o più propriamente eurodance in quanto, come sottolinea Grilli, il fenomeno interessa solamente l’Europa e non l’America) respira a pieni polmoni grazie alla DWA che, a primavera inoltrata, mette sul mercato due mix destinati a diventare in un battito di ciglia dei successi estivi, “Dancing With An Angel” dei Double You e “Memories” dei Netzwerk. Per questi ultimi, ancora affiancati da Simone Jackson che diventa l’immagine e voce nei live così come si vede in questa clip, è una conferma dopo l’exploit invernale ottenuto con “Passion”; per i Double You invece, per l’occasione abbinati al featuring della Chambers che interpreta il ritornello, è un clamoroso ritorno al successo dopo un 1994 vissuto un po’ in sordina. Entrambi testimoniano l’espressività stilistica diventata il trademark della DWA, composto da una pasta del suono limpida e cristallina, irradiata da un bagno di luce che non rompe mai il contatto con la tradizionale formula della song structure. L’inesauribile vena di Robyx porta ad uno stile compositivo ormai inconfondibile che per le radio e i DJ pop dance rappresenta una consolidata certezza in un oceano di produzioni. Quell’anno Corona e la band capitanata da Naraine partecipano alla trasmissione televisiva brasiliana Xuxa Hits che vanta centinaia di migliaia di spettatori: il Brasile è senza timore di smentita tra i Paesi in cui le produzioni DWA fanno maggiore presa. Insieme a loro c’è anche un altro progetto italiano, Andrew Sixty, emerito sconosciuto in patria ma popolarissimo nello Stato sudamericano come testimoniano diverse clip come questa, questa o questa. Nella line up, tra gli altri, figura Max Moroldo, che poco tempo dopo fonda la Do It Yourself e che abbiamo intervistato qui. In estate arrivano “I Want You” dei Po.Lo., prodotto da Mingardi, Vivaldi e Salani sulla falsariga di “Dancing With An Angel” con la voce di Marco Carmassi che ricorda parecchio quella di Naraine, e “Try Me Out” di Corona, rilettura dell’omonimo del ’93 di Lee Marrow cantato da Annerley Gordon ora sostituita da Sandy Chambers ed ispirato da “Toy” delle Teen Dream del 1987. Olga De Souza resta la primattrice del video. Il lato b del disco annovera due remix, quello degli Alex Party e quello di Marc ‘MK’ Kinchen, artefice del successo internazionale dei Nightcrawlers come descritto qui. Kinchen appronta pure una versione strumentale che finisce su un secondo mix codificato, per l’appunto, come Dub Mixes.

In autunno viene annunciato il “divorzio” tra Ice MC e la DWA: Tutto Discoteca Dance fa riferimento alla “stipula di un contratto mondiale tra il cantante di colore e la multinazionale tedesca Polydor” ma per anni le voci che si rincorrono sono discordanti ed alimentano parecchia confusione. Da un lato c’è chi parla dell’uso illegittimo che Campbell avrebbe fatto dello pseudonimo Ice MC – di proprietà della DWA – durante la militanza nella Polydor, dall’altro chi invece punta il dito contro Zanetti, reo di non aver pagato le royalties pattuite a cui il rapper reagisce con una denuncia. «In realtà» come lo stesso Zanetti spiega in un’intervista contenuta nel libro Decadance Appendix, «nessuna delle due versioni è propriamente corretta. Charlie Holmes, manager fino ad allora sconosciuto che viveva a Firenze vicino alla casa italiana di Ice MC, riuscì a convincere l’artista di non essere gestito bene dalla DWA. Ciò portò la rottura improvvisa e non giustificata del contratto e la firma con la Polydor, etichetta con cui, tra l’altro, la DWA già collaborava. A quel punto sorse una causa che venne risolta, amichevolmente, un paio di anni dopo. Holmes aveva un grande potere su Ice MC e lo portò a compiere molte scelte sbagliate che incrinarono la sua carriera. A mio avviso il più grosso errore fu quello di affidare il progetto discografico ai Masterboy che, pur copiando spudoratamente lo stile Robyx, non riuscirono a portare al grande successo brani come “Music For Money” e “Give Me The Light” contenuti nell’album “Dreadatour” uscito nel 1996».

Alexia + Sandy
Nell’autunno ’95 Zanetti lancia Alexia e Sandy come interpreti soliste dopo un numero indefinito di featuring spesso non palesati sulle copertine

L’allontanamento dell’artista su cui aveva scommesso sin dal 1989 e nel tempo diventato un pilastro della sua etichetta non ferma Zanetti che dimostra, immediatamente, di avere un asso nella manica. Nei negozi arriva “Me And You” con cui Alessia Aquilani, da anni turnista per la DWA, diventa Alexia. Ad affiancarla, per una breve parte vocale, è William Naraine dei Double You. Il successo è immediato, il brano conquista il vertice delle classifiche di vendita in Italia e in Spagna col conseguente avvio delle prime tournée da solista. In copertina finisce una foto di Fabio Gianardi che immortala il particolare look della cantante spezzina dalla chioma raccolta in treccioline. Ma le sorprese non sono finite: Zanetti affianca ad Alexia un’altra turnista che ha maturato numerosissime esperienze, Sandra Chambers, ora pronta a spiccare il volo da solista come Sandy. Il suo brano si chiama “Bad Boy” e macina decine di licenze, non solo in Europa, trainato da un refrain di tastiera simile a quello di “Tell Me The Way” dei Cappella, già oggetto di una sorta di ripescaggio nell’omonimo dei The Sensitives nato dalla partnership tra la Bliss Corporation e la Sintetico. A novembre esce “I Don’t Wanna Be A Star” che traghetta Corona nelle atmosfere della discomusic con qualche occhiata a “Can’t Fake The Feeling” di Geraldine Hunt. Il video omaggia la “Dolce Vita” romana ancora con la briosa Olga De Souza, bellezza sudamericana dalla capigliatura fluente e dalla risata peculiare ma un po’ sgraziata, seppur a cantare resti la Chambers. Per non scontentare i fan dell’eurodance viene approntata una versione apposita, la Eurobeat Mix, ma a colpire maggiormente gli addetti ai lavori è la 70’s Mix: in relazione ad essa Nello Simioli, in una recensione apparsa a dicembre su Tutto Discoteca Dance, ipotizza la nascita di un «nuovo filone che possa innalzare il livello qualitativo di un mercato stanco e disorientato». A tirare il sipario sono i Double You con “Because I’m Loving You”, impostato come “I Don’t Wanna Be A Star”: da un lato la versione eurodance pensata come follow-up di “Dancing With An Angel”, dall’altro la ’70 Mix, sincronizzata col video girato in teatro che invece capovolge tutto a favore di dimensioni disco, preservando la linea melodica principale che ammicca a “You Keep Me Hangin’ On” di Kim Wilde. L’idea c’è ma paragonato al predecessore il brano perde un po’ in potenza ed immediatezza. Rispetto alle annate precedenti, quella del 1995 è la prima in cui la frequenza delle pubblicazioni DWA scende a circa una ventina di uscite, riducendo quasi del tutto i progetti one shot e le compilation ed azzerando le licenze estere. Un preludio di ciò che avverrà negli anni a seguire.

1996-1997, un biennio in chiaroscuro
Dopo circa centottanta uscite, la DWA cambia in modo definitivo la numerazione del catalogo del vinile uniformandola a quella del CD: i primi due numeri identificano l’anno, i restanti il tradizionale ordine cronologico di uscita. Il primo è dunque il 96.01 che esce in primavera, “Summer Is Crazy” di Alexia, un pezzo che vuole imporsi come successo estivo sin dal titolo e per cui viene girato anche un video. La Aquilani conferma le proprie doti canore e Zanetti quelle da compositore e produttore. La dance italiana però attraversa una fase particolare, la popolarizzazione di formule strumentali trainata in primis dall’exploit mondiale di “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui) finisce col mettere all’angolo e in ombra il formato canzone sul quale la DWA ha edificato il proprio successo. I suoni della progressive e della dream fanno apparire vecchia e stantia l’eurodance, in tanti(ssimi) preferiscono voltare pagina e cercare fortuna scomodando suoni e stesure che con la dance delle classifiche avevano ben poco in comune.

Alexia - Summer Is Crazy
“Summer Is Crazy” di Alexia, un brano eurodance dai chiari riferimenti dream

In un certo senso lo fa anche Zanetti, come testimoniano i chiari rimandi pianistici a “Children” in “Summer Is Crazy”, portata al Festivalbar e pochi mesi più avanti ricostruita da DJ Dado (e Roberto Gallo Salsotto, intervistato qui) in una versione “pop-gressive”, la World Mix, ottenuta incrociando “Acid Phase” di Emmanuel Top ad “On The Road (From “Rain Man”)” degli Eta Beta J. a cui abbiamo dedicato un articolo qui. Per tentare di cavalcare la transitoria ondata progressive Zanetti riporta in vita, dopo sei anni di assenza, il progetto Pianonegro con “In Africa”, un brano edito anche in formato picture disc nato dalla distillazione della citata “Children”. Ancora una volta appare parecchio evidente che l’artista massese non sia tagliato per i generi strumentali, la sua cifra creativa emerge dalla scrittura di canzoni intarsiate ad efficaci melodie e non dalla ricerca di timbriche inedite che disorientano l’ascoltatore, nuove traiettorie ritmiche o calibrazione di layer davanti a muri di sintetizzatori modulari. «Prima di pensare ai suoni, voci ed arrangiamenti, partivo sempre da una bella canzone» dichiara in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. Con un’anima genuinamente canzonistica Zanetti è dunque un profondo conoscitore della melodia, elemento a cui ha sempre attribuito un ruolo prioritario nelle proprie opere.

A ridosso dell’estate esce il “Megamix” di Corona, composto dai suoi successi usciti tra ’93 e ’95. Quell’anno Olga De Souza è ancora sul palco del Festivalbar ma non come artista bensì come co-conduttrice insieme ad Amadeus ed Alessia Marcuzzi. Tra i cantanti che introduce, come si vede in questa clip, c’è anche Ice MC con la citata “Give Me The Light”, prodotta in Germania dai Masterboy scopiazzando palesemente il DWA style. Zanetti non molla ed appronta un nuovo pezzo per Alexia che esce a novembre, “Number One”, composto sulla falsariga di “Summer Is Crazy” e con l’inciso in comune con “(You’ll Always Be) The Love Of My Life” di Pandora uscito l’anno dopo («alcuni autori britannici mi mandarono un demo da cui presi le note del ritornello, ma tutto il resto fu scritto da me ed Alexia» spiega Zanetti, specificando che ci fosse un accordo a monte di questa scelta). Questa volta oltre al pianoforte childreniano figura pure qualche occhiata a “Seven Days And One Week” dei BBE. Immancabile il video che traina il brano soprattutto all’estero dove l’eurodance non viene intorpidita dalla fiammata progressive. Del pezzo escono svariate versioni remix tra cui la latineggiante Spanish Club Mix in spanglish e la Fun Fun Party Mix, piena di riferimenti agli Alex Party, del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano coadiuvato, tra gli altri, dagli esordienti Harley & Muscle.

E.Y.E. Feat. Alexia - Virtual Reality
“Virtual Reality” di E.Y.E. Feat. Alexia è l’ultimo tentativo della DWA di cavalcare l’onda progressive

Ad inizio ’97 il fenomeno progressive appare già sensibilmente depotenziato rispetto a dodici mesi prima, e nell’arco dell’anno la flessione sarà costante sino ad un calo completo a favore di un ritorno alla vocalità, ad atmosfere più festose e alle tradizionali stesure in formato canzone. Per la DWA, che dopo un triennio rinnova l’impianto grafico ora su fondo nero, l’ultima prova sotto il segno della progressive è rappresentato da “Virtual Reality” di E.Y.E. feat. Alexia, una traccia lontana dalle coordinate robyxiane che tenta di deviare verso stilemi “popgressive” rimaneggiando elementi di “Flash” dei B.B.E. e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. L’effetto finale è la sovrapposizione tra prevedibili bassi in levare e girotondi di “pizzicato style”, propaggine di un effimero trend commerciale sdoganato in Europa da pezzi come “Encore Une Fois” dei Sash!, “La Vache” dei Milk Inc. o “Bellissima” di DJ Quicksilver e probabilmente istigato dai Faithless con “Salva Mea (Save Me)” ed “Insomnia”, entrambi del ’95.

Un riavvicinamento alle sponde stilistiche per cui la DWA si è fatta conoscere nel mondo si registra con “Uh La La La” di Alexia, ma non è propriamente un ritorno all’eurodance: Zanetti vira verso il downtempo più scanzonato ai confini con le pop hit r&b, ma lo fa con cognizione di causa. Il brano, con cui la Aquilani partecipa al Festivalbar, diventa un successo estivo europeo, sorretto da un video registrato a Miami. Della ballad arrivano diversi remix realizzati dai Fathers Of Sound pressati su un doppio che ingolosisce i DJ devoti alla house/garage come Paolo Martini che, in una recensione apparsa a maggio su DiscoiD, spende parole più che positive sul progetto: «quando ho ascoltato il DAT sono quasi svenuto, Alexia ha una voce da panico e nel momento in cui sentirete queste versioni anche voi mi darete ragione. Purtroppo (per noi) ha un contratto in esclusiva con la DWA, cosa farei altrimenti con quella voce…». Nei negozi comunque arriva anche un remix espressamente destinato alle radio e ai locali generalisti firmato da Fargetta affiancato da Pieradis Rossini.

Alexia + Sunbrother
Con Alexia e Sunbrother la DWA ritrova la sua dimensione stilistica

“Uh La La La” è tratto da “Fan Club”, primo album di Alexia che la DWA pubblica insieme alla Polydor vendendone più di 600.000 copie e dal quale viene estratto pure “Hold On” con una versione affidata al brasiliano Memê probabilmente ispirato da “Keep On Jumpin'” di Todd Terry. In Italia però i risultati dell’LP non sono completamente soddisfacenti, a dirlo è la stessa cantante in un’intervista pubblicata ad aprile ’98 sulla rivista Jocks Mag in cui sostiene altresì che la sua presenza al Festivalbar «abbia infastidito qualcuno». Perniola, Bini, Galeotti e Tognarelli tornano sull’etichetta zanettiana ma nelle vesti di Sunbrother con “Tell Me What”, una specie di rilettura di “Stop That Train” di Clint Eastwood And General Saint, un vecchio brano reggae del 1983 reimpiantato per l’occasione su una base macareniana. Netzwerk invece “trasloca” sulla Volumex, etichetta della milanese Dancework, con “Dream”, pop tranceggiante interpretata da Sharon May Linn, completamente disallineato dai due precedenti successi e finito inesorabilmente nell’oblio. Un altro ritorno è quello dei Double You prossimi a firmare con la BMG che, orfani di Andrea De Antoni e reduci di un clamoroso successo in Brasile dove esce l’album “Forever” (ma non edito da DWA), si ripropongono con “Somebody”, brano vicino (forse troppo?) alla romantic dance di Blackwood e alla deviazione pop di DJ Dado. Come per Alexia, anche in questo caso ci pensano i Fathers Of Sound a rileggere il brano in numerose versioni house oriented incise su un doppio mix. Il numero risicato di pubblicazioni, una decina nel 1996 ed altrettante nel ’97, è un segnale che qualcosa sia mutato in modo radicale nella struttura discografica massese.

Gli ultimi anni Novanta
Come si è visto, il 1996 e il 1997 segnano un nuovo passo per l’etichetta di Zanetti. Sono ormai lontani i tempi delle pubblicazioni mensili multiple (l’apice è nel 1994 con circa una cinquantina di uscite annue), delle compilation, delle licenze dall’estero e delle scommesse su progetti one shot. I bilanci della discografia, in generale, cambiano bruscamente nell’arco di pochi anni: a Billboard, il 2 luglio ’94, Alvaro Ugolini della Energy Production dichiarava di aver incassato 1 miliardo e 200 milioni di lire nel ’92 e più del doppio nel ’93 mentre Luigi Di Prisco della Dig It International prevedeva di fatturare, per il ’94 ancora in corso, almeno 30 miliardi di lire. Gianfranco Bortolotti della Media Records invece, in un’intervista del giugno ’95 finita nel libro “Discoinferno” di Carlo Antonelli e Fabio De Luca, parla di 10 miliardi di lire in royalties, presumibilmente relativi all’anno precedente. Gli imprenditori del comparto iniziano a capire che sia necessario produrre meno ed alzare l’asticella qualitativa perché i tempi delle vacche grasse stanno repentinamente trasformandosi in ricordi e a testimonianza ci sono eclatanti chiusure, dalla Flying Records («a causa di un insostenibile carico di debiti» come si legge in un trafiletto di Mark Dezzani su Music & Media del 24 gennaio ’98) alla Zac Music, «in ritirata strategica da un mercato ormai depresso», passando per la Discomagic di Severo Lombardoni (distributore della DWA sino a fine ’96) a cui si aggiungerà, nel ’99, la citata Dig It International. Per DWA inoltre si è drasticamente assottigliata pure la scuderia artistica coi nomi statuari ormai defilati dalla scena o già finiti nel dimenticatoio ad eccezione di Alexia, sulla quale Robyx continua a credere ciecamente spinto e motivato anche da un accordo internazionale stretto nel ’97 con la divisione dance della Sony, la Dance Pool. Da quel momento in poi è la multinazionale ad occuparsi della promozione e della distribuzione della musica dell’artista spezzina in tutto il globo. Adesso la DWA, come Zanetti rimarca a Dezzani in uno special sulla scena delle etichette dance indipendenti nostrane pubblicato sul citato numero di Music & Media ad inizio ’98, «è più una casa di produzione che un’etichetta discografica, stiamo concentrando le nostre energie maggiormente su artisti che possano fare crossover tra la dance e il pop come Alexia, a cui vengono aggiunti remix più incisivi destinati alle discoteche. Ritengo che la strada da percorrere sia quella con meno progetti, in questo modo si possono seguire meglio le priorità. Concentrandosi sulla produzione e la gestione dell’artista, è possibile ottenere un prodotto di qualità, quello che attualmente chiedono i consumatori».

Grafico DWA anni 90
La quantità di pubblicazioni DWA nel decennio 1989-1999

Zanetti parla di questo “ridimensionamento progettuale” anche in un’intervista raccolta per il libro Decadance Appendix: «quando, nella seconda metà degli anni Novanta, i miei colleghi della Time, della Media Records e di altre strutture simili si ingrandivano diventando piccole industrie, io preferii rimanere ancorato a dimensioni ridotte per avere un controllo totale sui miei progetti. Basti pensare che nel momento di massimo successo in DWA lavoravano appena quattro persone, io, mia sorella alla contabilità, un ragazzo in studio come aiuto fonico ed una segretaria. Poi, visto che una volta raggiunta fama e popolarità i miei artisti diventavano intrattabili, decisi di lasciarli per dedicarmi a tempo pieno ad Alexia». È altrettanto importante sottolineare che, oltre ad una quantità minore di titoli immessi sul mercato, la DWA abbia sempre poggiato su un lavoro più indipendentista rispetto a quello delle citate Time o Media Records. Nel Casablanca Recording Studio opera il solo Zanetti affiancato da Francesco Alberti, non ci sono team di produzione che possano garantire una maggiore prolificità e tantomeno non si riscontra la presenza di nessuna sublabel, cosa atipica per i tempi quando ci si inventava marchi di ogni tipo e genere spesso con l’unico fine di evitare l’inflazione, tanta era la quantità di dischi immessi mensilmente sul mercato. Se altri portano avanti un’operosità quasi industriale, la DWA resta invece legata ad una sorta di piccolo artigianato.

Alexia LP
Gli album “The Party” ed “Happy” fanno di Alexia una cantante non più legata esclusivamente alla dance

A marzo del 1998 viene pubblicato “Gimme Love” di Alexia, scritto da Zanetti affiancato nel suo studio dall’inseparabile Francesco Alberti, che pare una specie di rivisitazione italica dei fortunati remix di Todd Terry per gli Everything But The Girl. Italia, Spagna e Finlandia sono tra i primi Paesi a “capitolare” ma qualcosa accade anche oltremanica dove Alexia, per sua stessa ammissione in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile per Jocks Mag, è ancora impopolare. La Dance Pool pubblica i remix (incluso quello degli Almighty) del precedente “Uh La La La” e il brano entra in classifica alla decima posizione, garantendo alla cantante la presenza ad importanti trasmissioni tv, incluso Top Of The Pops. Da noi è tempo del Festivalbar dove Alexia si esibisce prima con “Gimme Love” e poi con “The Music I Like”, secondo singolo estratto dall’album “The Party” uscito a maggio ed inserito in una posizione abilmente giocata tra pop e dance. Le oltre 500.000 copie vendute richiamano l’attenzione del mercato statunitense ed asiatico. La Aquilani figura pure in “Superboy” di Tuttifrutti, un brano bubblegum che Zanetti dedica al mondo del calcio, quell’anno animato dai Mondiali che si disputano in Francia. In autunno è ancora la volta di Alexia con “Keep On Movin'” dove prevale una vocazione maggiormente legata al pop, dimensione in cui la cantante entra definitivamente da lì a breve col terzo album uscito nel ’99, “Happy”, anticipato da “Goodbye” a cui partecipa il musicista Marco Canepa.

Per Alexia è l’LP della consacrazione e la sua musica, seppur ancora in lingua inglese, non è più relegata solo all’ambiente delle discoteche ma abbraccia un pubblico eterogeneo. Anche la sua immagine inizia a conoscere un rinnovamento: appare ancora vispa e sbarazzina, spesso abbigliata con colori fluo così come vuole la moda del periodo, ma senza più le lunghe treccioline. Dall’album viene estratto anche l’omonimo “Happy”, accompagnato da un video in cui l’interprete è proiettata negli anni Sessanta mediante una sorta di macchina del tempo chiamata Virtual Transfer. Nel 2000 tocca ad un inedito, “Ti Amo Ti Amo”, l’ultimo scritto da Zanetti e contenuto nella raccolta “The Hits” che riassume le tappe essenziali della carriera artistica della Aquilani. È l’ennesimo brano a confermare l’abilità del produttore toscano nel costruire canzoni semplici ed efficaci, montate su stesure immediate ed incisi facilmente memorizzabili e collocati in un contesto privo di qualsiasi dettaglio superfluo. Nonostante il considerevole successo, a questo punto qualcosa si incrina. Come riportato sul sito DWA, la cantante chiude un nuovo accordo con la Sony estromettendo Zanetti «costretto ad intentare un procedimento legale per inadempimento di contratto». Alexia ormai non è più la ragazzina dei turni in sala canto, all’orizzonte c’è il Festival di Sanremo a cui partecipa nel 2002 con “Dimmi Come… “ sfiorando la vetta conquistata l’anno successivo con “Per Dire Di No”. Eppure sino a pochi anni prima l’ipotesi di cantare in italiano non la sfiorava nemmeno da lontano: «la lingua inglese mi è molto affine e credo di esprimere con essa il meglio di me stessa» affermava in un’intervista di Barbara Calzolaio pubblicata ad aprile 1998 su Trend Discotec.

Ice MC con Time
I due singoli che nel 2004 segnano la ritrovata collaborazione tra Ice MC e Zanetti

Il ritorno dopo il buio, l’attività nel nuovo millennio
Dopo la rottura del sodalizio con Alexia, la DWA si ferma ma non il suo fondatore che non resta con le mani in mano. Tra le altre cose, Robyx scrive e produce “www.mipiacitu” dei romani Gazosa, hit dell’estate 2001 scelta per lo spot televisivo della Summer Card Omnitel con Megan Gale. La DWA riappare nel 2004 quando, nell’incredulità di molti, l’asse creativo tra Zanetti ed Ice MC viene ristabilito. Il primo risultato della ritrovata partnership è rappresentata dal brano “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” pubblicato in tandem con la Time di Giacomo Maiolini. Contrariamente a quanto si aspettano gli eurobeatiani più convinti e nostalgici, non contiene nulla delle hit nazionalpopolari del rapper britannico se non l’attitudine hip hop che lo accompagna sin dagli esordi spinta verso sponde reggae à la Shaggy o Sean Paul. Il pezzo, per cui viene girato anche un videoclip, è estratto dall’album “Cold Skool” che però passa completamente inosservato. Probabilmente il vero miracolo risiede nel fatto che i due si siano riavvicinati lasciandosi alle spalle i dissapori di metà anni Novanta. «Nel 2004 abbiamo tentato di dare un nuovo avvio alla carriera di Ice MC, prima con “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” e poi con “My World”» (ancora su Time e solo omonimo dello sfortunato album del ’91, nda) ma probabilmente non era il momento propizio per quel genere musicale» dichiara Zanetti in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. «Malgrado non abbiano raccolto ampio successo come negli anni Novanta, nutro grande rispetto per quei due singoli e credo rientrino a pieno merito tra i brani più belli di tutta la discografia di Ice MC» aggiunge. L’eurodance ormai appartiene ad un passato che inizia ad essere remoto, e i suoi protagonisti stanno per trasformarsi in materiale revivalistico. Nel 2005 Robyx si cimenta in un pezzo house, “Wonderful Life” di Creavibe, che affida alla Ocean Trax degli amici Gianni Bini e Paolo Martini. Sono anni piuttosto difficili per il mercato discografico, letteralmente sconvolto dalla “digital storm” che azzera gli introiti legati ai tradizionali formati (dischi, CD e cassette). Il mercato generalista, a differenza di quello settoriale, è il primo a non puntare più sui prodotti fisici. Inizia la corsa alla conversione digitale dei cataloghi nella speranza che ciò possa rappresentare un paracadute ed evitare lo schianto, ma le promesse dell’MP3 non verranno mai mantenute perché non c’è stata, oggettivamente, una generazione ad aver raccolto il testimone della precedente che anziché comprare dischi ha investito denaro in file, perlomeno non nei numeri auspicati.

Ural 13 Diktators - Total Destruction
In “Total Destruction” degli Ural 13 Diktators c’è un brano che riprende la melodia di “Only You” di Savage

Nel frattempo, sotto la spinta dei fermenti underground nati all’estero, in primis nei Paesi Bassi, si prospetta una seconda vita per l’italo disco. Dalla fine degli anni Novanta è un crescendo continuo e da genere bistrattato si trasforma in un trend battuto da alcuni DJ che vantano un nutrito seguito, da I-f ad Hell passando per Felix Da Housecat e Tiga. L’italo disco diventa, insieme ad altre correnti stilistiche come new wave, eurodisco e synth pop, materiale da riconvertire per una nuova generazione. Nasce quindi l’electroclash che fa incetta di un numero abissale di musica “retroelettronica”, svecchiata e pronta a risorgere con nuova energia perché, come scrive Simon Reynolds in “Retromania”, ora il plastic pop «viene spogliato dalle connotazioni negative (usa e getta, finto) e recupera il carattere utopico di materia prima del futuro». Nel radar finisce anche la tastiera di “Only You” di Savage, ricollocata in un inedito scenario dai finnici Ural 13 Diktators nella loro “Name Of The Game” (dall’album “Total Destruction”, Forte Records, 2000). Ancora più d’impatto la Vectron Mix dell’anno dopo messa a punto dal compianto Christian Morgenstern sotto le sembianze di The Bikini Machine, accompagnata da un video immerso nel mondo ad 8 bit dei vecchi videogiochi arcade. Ad innamorarsene è anche Gigi D’Agostino che la inserisce nel primo volume della compilation “Il Grande Viaggio Di Gigi D’Agostino”.

Savage - Twothousandnine
“Twothousandnine” riporta Savage all’istintività degli esordi

Così come accaduto ad Alexander Robotnick, Fred Ventura e ai N.O.I.A., di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui, anche Savage è destinato a tornare a splendere di luce propria in una specie di cortocircuito cronologico col presente sempre più intriso di passato e ciò avviene nel 2009 col brano “Twothousandnine”, dedicato alla figlia Matilde e solcato su 12″ dall’etichetta olandese I Venti d’Azzurro Records. In copertina c’è Zanetti bambino: “Twothousandnine” è fondamentalmente un ritorno alla giovinezza, alla spontaneità e all’istintività dei suoi primi lavori, sotto la campata dell’italo più romantica e malinconica. Il disco è già diventato un cimelio ambito per i collezionisti ed è sulla stessa strada il CD edito dalla DWA. Corrono ancora i tempi di MySpace, l’epoca dei social network è alle porte, il mondo sta cambiando velocemente pelle, quello della musica in modo radicale. La tecnologia mette nelle condizioni di poter approntare brani anche nelle camerette con strumenti dai costi più che abbordabili, tanti giovani provano a fare il salto. Tra quelli anche la venticinquenne Elisa Gaiotto alias Eliza G in cui Zanetti crede producendo “Summer Lie” in cui si ritrova parte del mood di “It’s A Rainy Day”. Passando per le cover di “The Rhythm Of The Night” e “Think About The Way” approntate dai britannici Frisco e quella di “Please Don’t Go” dell’italiano DJ Ross, la DWA mette in circolazione “Mad 90’s Megamix” di DJ Mad, un medley di classici (“Saturday Night”, “Please Don’t Go”, “The Rhythm Of The Night”, “Me And You”, “Think About The Way”) che alimenta la voglia di riavvolgere il nastro di una dance d’antan. Zanetti non perde di vista l’italo disco che continua a conquistare consensi sempre più ampi all’estero e, tra 2009 e 2010, ripubblica in digitale “To Miami” dei Taxi, “Magic Carillon” di Rose, “Buenas Noches” di Kamillo, e la tripletta “I’m Singing Again”, “Show Me” e “Sometimes” di Wilson Ferguson. Non mancano ovviamente i pezzi del repertorio savagiano, da “So Close” a “Good-Bye” (ricantata da Alexia nella versione dei Fourteen 14 uscita nel ’95), da “I Just Died In Your Arms” a “Don’t Leave Me”, da “Time” a “Radio”, da “Love Is Death” a “Celebrate” passando per gli evergreen, “Don’t Cry Tonight” ed “Only You”, sino ai primi tentativi di approcciare all’house music come “Volare” di Rosario E I Giaguari, piuttosto improbabile rivisitazione dell’eterna “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno.

Savage - Love And Rain
“Love And Rain”, l’album di Savage uscito nel 2020

La DWA dei giorni nostri, tra inediti e ristampe
Nell’attività recente e contemporanea della DWA si segnala l’uscita, nel 2020, di “Love And Rain”, nuovo album di Savage di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui. Dal disco vengono estratti diversi singoli come “I Love You”, “Where Is The Freedom”, “Italodisco” e “Lonely Night” dati in pasto ad una nutrita squadra di remixer tra cui il danese Flemming Dalum, intervistato qui. In parallelo viene sviluppato e portato a termine il progetto “Ritmo Sinfonico”, rilettura in chiave orchestrale delle hit dell’etichetta. La costante spinta al recupero di materiale del passato non si esaurisce: sono migliaia ormai le label sparse per il mondo a dedicarsi al reissue, pratica supportata anche dalle giovani generazioni che oggi possono scoprire musiche ed artisti dimenticati con estrema facilità ed immediatezza rispetto alle precedenti che invece non potevano contare su un mezzo potente come internet. Ad onor del vero, la DWA sonda il terreno già nel 1999, anno in cui pubblica circa una decina di dischi contrassegnati dalla sigla CL (ossia CL-assic): ci sono i primi Savage ma anche Stargo, Ice MC e Pianonegro. A distanza di poco più di un ventennio l’etichetta torna dunque ad investire sul proprio passato, mandando in (ri)stampa “Tonight” di Savage e gli album più rappresentativi del proprio repertorio (“Ice’ N’ Green” e “Cinema” di Ice MC, “The Rhythm Of The Night” di Corona, “We All Need Love” dei Double You, “Fan Club” di Alexia) che fanno felici gli irriducibili di un genere rimasto impresso a fuoco nella memoria di un’intera generazione, quello stesso genere a cui Zanetti ha dato credibilità sul fronte internazionale lasciando un’impronta indelebile con la sua inesauribile capacità di suggestionare e rapire l’attenzione di chi ascolta.

La testimonianza di Roberto Zanetti

Cosa o chi ti torna in mente pensando ai primi mesi di attività della DWA?
Senza dubbio Ice MC. Avevo voglia di creare una mia etichetta per essere immediatamente riconoscibile coi miei progetti e differenziarmi da Discomagic, il mio distributore che a quel tempo immetteva sul mercato troppi brani. Così realizzai “Easy” di Ice MC e fu immediatamente un successo incredibile in tutta Europa. Si piazzò ai primi tre posti delle classifiche ovunque ma tranne in Italia.

Perché inizialmente Ice MC venne ignorato nel nostro Paese?
Il primo album, “Cinema”, era più hip hop che dance e non partì dalle discoteche come invece capitava spesso ai miei progetti. Ho sempre realizzato canzoni maggiormente legate al pop che alla dance, ma secondo i DJ dei network nostrani erano troppo commerciali. Nel momento in cui riscuotevano successo in discoteca però entravano anche nelle programmazioni radiofoniche.

Fu la scarsa considerazione in patria a convincerti a non pubblicare su DWA “My World”, il secondo album di Ice MC?
No. Visto il successo del primo album, la Polydor tedesca volle acquisire la licenza del secondo per tutto il mondo.

Quanto costò realizzare i primi videoclip di Ice MC? Ai tempi girare il video di un pezzo dance poteva essere determinante per il successo?
In quel periodo girare un videoclip era molto costoso, mediamente la spesa andava dai cinque ai dieci milioni di lire. A volte riuscivo a contenerla grazie ai contributi delle case discografiche a cui licenziavo i brani. Nel caso di Ice MC, esistono due videoclip di “Easy”, uno realizzato a Parigi quando il pezzo era al numero uno della classifica francese, ed uno a New York fatto quando fu preso in licenza dall’americana Virgin. Ad onor del vero, credo che ai tempi il video servisse poco a lanciare il brano ma risultava comunque importante per far conoscere l’artista una volta che il pezzo era partito nelle radio.

Casablanca Recording Studio
Uno scorcio del Casablanca Recording Studio: in primo piano il mixer Trident Series 80B

La DWA gravitava intorno al suono approntato prevalentemente nel tuo Casablanca Recording Studio: come era equipaggiato e perché gli avevi dato questo nome?
Ho investito nell’allestimento dello studio di registrazione tutti i guadagni ottenuti col progetto Savage, la musica era la mia vita e volevo vivere di quello. Altri colleghi invece spesero tutto in bella vita, donne e champagne, io invece venivo da una famiglia umile ed ambivo a crearmi un lavoro per il futuro. Avevo capito che l’italo disco avrebbe avuto una scadenza e così investii le risorse economiche in uno studio. Affittai una villetta bianca in collina e per questo lo chiamai Casablanca. Ai tempi gli studi di registrazione costavano una fortuna: io spesi cento milioni di lire che nel 1985/1986 erano davvero tantissimi. Avevo un mixer Trident Series 80B, un registratore a 24 tracce Sony/MCI, i monitor Westlake e tante tastiere Roland, Moog e Korg.

declinazioni tag DWA
Le quattro branch della DWA

Nei primi anni di attività alcune pubblicazioni erano marchiate da particolari sigle, DWA Underground, DWA Italiana, DWA Interface e DWA Infective: come mai? C’era forse l’intenzione di creare delle branch in base al genere musicale affrontato?
Sì esattamente, volevo differenziare l’etichetta in base al tipo di progetto. Al tempo non esisteva un genere di dance ben preciso e pertanto procedevo di volta in volta in base ad esperimenti. Ad esempio avevo già creato, a fine anni Ottanta, il fenomeno della “house demenziale” (con dischi come “Volare” di Rosario E I Giaguari e “The Party” di Rubix, nda), non destinato alla DWA ma utile per pagare un po’ di debiti contratti per l’allestimento dello studio.

Esisteva una ragione anche dietro le varie declinazioni grafiche che si sono succedute nel corso del tempo come il centrino carioca, quello fiorato e quello su fondo blu che rimase in uso per un triennio?
No, nessun motivo in particolare. Erano semplicemente il marchio e i colori che si adeguavano ai tempi.

Nel primo lustro di attività la DWA è stata operativa anche sul fronte licenze: c’è qualche pezzo importato dall’estero che ha tradito le tue aspettative?
Non davo molta importanza alle licenze, preferivo piuttosto investire sui miei progetti ma talvolta i pezzi presi oltralpe facevano comodo per le compilation. Nel caso di DJ Bobo, ad esempio, ascoltai il demo al Midem di Cannes e lo presi per tutti i Paesi in cui era ancora libero ma purtroppo il nome stesso “Bobo” era un po’ penalizzante in alcuni mercati. Per CB Milton invece, feci un favore ad un partner straniero che pubblicava le mie cose e con cui ci scambiavamo i rispettivi progetti.

Il mancato supporto di Albertino, probabilmente all’apice della sua popolarità radiofonica tra ’93 e ’94, ha forse pregiudicato l’esito di licenze potenzialmente forti proprio come quelle di DJ Bobo e CB Milton?
Le radio dance erano molto importanti e potevano far decollare un progetto se lo spingevano. Alla fine degli anni Ottanta l’emittente più di tendenza era 105, poi arrivò Radio DeeJay con Albertino che però non ha mai supportato i miei brani sin dalla loro uscita, per lui erano troppo commerciali. Forse la colpa era anche di Dario Usuelli, ai tempi responsabile della programmazione in Via Massena. DJ Bobo era un successo in tutta Europa ed avrebbe potuto esserlo anche qui da noi ma forse, come dicevo prima, era il suo nome a remare contro. In Francia, ad esempio, “bobo” significa “stupido”.

Alexia e Ice MC (1994)
Alexia ed Ice MC in una foto del 1994

In quello stesso periodo Ice MC viene affiancato da una ballerina tedesca, Jasmine, nonostante a cantare nei brani fossero prima Simone Jackson e poi Alexia. Come mai decidesti di ricorrere ad un personaggio immagine, analogamente a quanto avvenne per Corona?
Era una consuetudine abbinare ai progetti da studio dei frontman/frontwoman che avessero una buona presenza scenica nelle apparizioni televisive e negli spettacoli in discoteca. Simone Jackson stava iniziando già la sua strada da solista mentre Alessia Aquilani era bravissima come cantante ma non aveva ancora maturato sufficiente esperienza nei live. Così iniziammo la promozione con Jasmine ma poi, quando esplose il successo di “Think About The Way”, chiamammo pure Alessia per alcune performance pubbliche. Devo ammettere che fu bravissima a crearsi un’immagine e ad imparare a ballare, tanto che poco tempo dopo decisi di produrla per un disco solista con cui divenne la Alexia che tutti conosciamo.

Ritieni che le “controfigure mute” che caratterizzarono prima l’italo disco e poi l’eurodance fossero strettamente necessarie? Secondo più di qualcuno fu proprio la pratica dei cosiddetti “ghost singer” (non solo italiana, si pensi all’eclatante caso dei Milli Vanilli prodotti dal tedesco Frank Farian) ad aver svilito l’immagine dei cantanti dance facendoli passare per personaggi artefatti e privi di ogni talento, insinuando e alimentando ulteriormente i pregiudizi nel grande pubblico.
All’inizio dell’italo disco c’erano ben pochi cantanti e quindi i produttori si ritrovarono costretti ad usare la stessa voce per un mucchio di progetti. Quando questi ultimi iniziavano a funzionare però, serviva un volto che andasse in tv e quindi tornava comodo assoldare fotomodelli e ballerine che impersonassero l’artista. C’erano cantanti, come ad esempio Silver Pozzoli, che prestavano la propria voce ad un sacco di progetti immessi sul mercato con vari nomi. In qualche caso alcuni contavano persino su più immagini simultanee: in Spagna, ad esempio si ricorreva al fotomodello tizio mentre in Germania appariva il ballerino caio. Lo riconosco, era una pratica un po’ spudorata. Gli artisti veri che cantavano realmente le proprie canzoni però erano davvero pochissimi e questo sicuramente non giocò a favore dell’italo disco, ma anche all’estero facevano la stessa cosa, proprio come i Milli Vanilli menzionati prima e peraltro ancora attivi, in playback naturalmente, nonostante uno dei due volti pubblici del gruppo, Rob Pilatus, sia deceduto nel 1998. Analogamente altre band come Bad Boys Blue, Joy o Boney M. hanno cambiato tutti o quasi i membri originali ma continuano a vivere attraverso live con performer nuovi e più giovani.

A partire dal 1995 hai ridotto sensibilmente il numero delle pubblicazioni ed azzerato del tutto le licenze. Rispetto a molti competitor in fase di netta espansione, avevi forse intuito con lungimiranza che per le etichette indipendenti preservare dimensioni aziendali più piccole, a distanza di qualche anno, si sarebbe rivelato un pro e non un contro?
Io sono sempre stato più “produttore” che “discografico”, volevo avere pieno controllo sui miei progetti e pertanto non mi sono volutamente ingrandito come hanno fatto altri anzi, quando mi era possibile stringevo accordi per delegare promozione e distribuzione così come avvenne con la Sony per Alexia. Alcuni miei colleghi si ritrovarono a dover pubblicare un sacco di pezzi per mantenere il fatturato e pagare gli stipendi delle decine di dipendenti che avevano assunto. Come ho già dichiarato in altre interviste (inclusa una finita in Decadance Appendix nel 2012, nda), mi rammarica il fatto che in Italia non siano state create strutture indipendenti importanti. Saremmo stati fortissimi se ci fossimo uniti in un’unica label ed avremmo sicuramente dominato il mondo.

In un paio di occasioni (prima tra ’91 e ’92, con l’esplosione dell’euro(techno)dance, poi tra ’96 e ’97 con la fiammata pop-gressive) ti sei ritrovato a puntare su generi strumentali che non appartengono alla tua verve creativa. Era solo un modo per seguire le tendenze in atto del mercato discografico nostrano?
Quando sei produttore, soprattutto nella dance, devi per forza seguire il mercato ed adeguarti alle sonorità del momento. Io ho sempre cercato di prendere spunti ma modificandoli per farli miei. A volte ho creato io stesso le mode, così come avvenne nel ’93 con “Take Away The Colour” di Ice MC con cui lanciai in Europa l’eurobeat misto al rap-ragga.

Fu l’invasione della cosiddetta dream progressive ad interrompere il successo (italiano) dell’eurodance che nel frangente mainstream pareva non temere rivali?
Sì, ma solo in Italia. Quando arriva un successo planetario come quello di Robert Miles è ovvio che tutto il mondo venga influenzato. Il fenomeno dream comunque è stato più italiano che internazionale, e forse da noi a determinare il successo del filone furono le miriadi di compilation commercializzate con quel nome.

In passato hai speso parole positive sulla Media Records ed anni fa Bortolotti indicò proprio te, in una mia intervista, come uno dei pochi produttori ed artisti in grado di generare successi e denaro con continuità. Sebbene sia stata proprio la Media Records a licenziare in Italia la “Please Don’t Go” dei K.W.S., hai mai pensato di trasformare questa vicendevole ammirazione e rispetto in una collaborazione, analogamente a quanto fatto nel 2004 con la Time di Giacomo Maiolini per rilanciare Ice MC?
In Italia non è facile collaborare perché i discografici citati, ma anche tutti gli altri, hanno un grosso ego ed ognuno vede le cose alla sua maniera. Tutti i miei successi sono nati perché io non davo ascolto a nessuno e facevo di istinto quello che mi veniva in mente, a volte sbagliando, altre creando le hit che conosciamo. Se avessi ascoltato i pareri degli altri non avrei fatto nulla. Sono sempre stato un “solitario” nei miei progetti. Nel ’98, ad esempio, un discografico della Jive mi fece ascoltare un demo di “…Baby One More Time” di Britney Spears chiedendomi se avessi voglia di collaborare con loro e con la Disney ma rifiutai perché stavo lavorando ai pezzi di Alexia che, nel contempo, stava crescendo e volevo dedicarmi solo a lei.

In un’intervista di oltre un decennio fa mi dicesti che una delle ragioni per cui l’Italia non è più sulla mappa della dance internazionale, tranne poche eccezioni, è la mancanza di umiltà. «Negli anni Novanta i francesi si facevano produrre i pezzi da noi, poi hanno imparato a farlo (copiandoci) ed oggi lo fanno meglio perché rispettano i ruoli: esiste il discografico, il produttore, il manager e l’autore, non come da noi che vogliamo fare tutto e male» affermasti, aggiungendo che «se ci fossimo organizzati come gli inglesi, gli svedesi e i francesi saremmo sicuramente i primi produttori al mondo perché abbiamo una creatività esagerata, invece siamo scarsamente considerati dalla grossa industria discografica mondiale e purtroppo oggi, senza multinazionali che investono in promozione, è molto difficile farsi notare ed emergere». Credi che negli ultimi dieci anni la situazione sia cambiata? Hanno ancora ragione di esistere le etichette indipendenti? E quanto conta fare scouting?
Gli italiani sono degli “arrangioni” nel senso che hanno sviluppato l’arte e la capacità di arrangiarsi. Quando hanno un briciolo di successo si mettono in proprio e si gestiscono da soli anche in quei campi dove non hanno alcuna esperienza o talento. Quando un cantante diventa famoso vuole decidere tutto da solo, vuole fare l’autore, il manager, il produttore… ed ecco che quindi perde la freschezza che lo aveva fatto emergere all’inizio. Cantanti popolari come Zucchero, Renato Zero o Ligabue fanno dischi carini ma non forti come all’inizio perché vogliono gestire tutto in autonomia. Se c’è di mezzo un produttore, desiderano che faccia solo ciò che decidono loro. Non esistono più produttori “con le palle”, capaci di prendere per mano l’artista ed aiutarlo a creare un progetto intorno. Forse negli ultimi anni è tutto peggiorato ulteriormente perché le case discografiche sono diventate distributori, non hanno più personale che possa aiutare a sviluppare la parte creativa della musica. Le etichette indipendenti potrebbero assumere un ruolo importante in tal senso e preparare l’artista al grande salto, ma purtroppo quelle storiche sono fin troppo orientate al business. In circolazione ci sono un sacco di artisti validi ma non trovano alcuno sbocco perché non esiste più un vero e proprio scouting. Pure le multinazionali oggi si affidano solo ai contest. Inoltre se adesso vuoi scritturare un artista sconosciuto, ti si avvicina un avvocato del settore pronto a presentarti un contratto pari a quello che un tempo avevano solo le star. Nessun produttore indipendente potrebbe accettare di sottoscriverlo. Questo fa capire come si sia praticamente estinto il concetto di gavetta. Una volta portavi un pezzo a Lombardoni della Discomagic e ti dava settecento lire a copia, poi aumentavano a mille, milledue e, man mano che cresceva il successo salivano le royalties e così guadagnavano tutti. Io forse non pagavo royalties altissime ai miei artisti ma investivo molti più soldi rispetto alle multinazionali. Ricordo, ad esempio, il video di “Uh La La La” di Alexia girato a Miami che costò cento milioni di lire, tutti interamente sborsati dalla DWA. Poi gli artisti mi ringraziavano perché diventavano famosi e guadagnavano tantissimo dai concerti.

Negli anni Novanta a decretare il successo di tanti dischi dance prodotti dalle etichette indipendenti erano le emittenti radiofoniche. Adesso invece? C’è ancora qualcosa o qualcuno che riesce a fare il bello e il cattivo tempo?
Come dicevo all’inizio, il successo poteva partire dalle radio ma anche dalle discoteche: talvolta i network arrivavano a certi pezzi solo quando erano già strasuonati dai DJ, e a me succedeva quasi sempre così, specialmente dopo le prime hit. I disc jockey compravano i nostri dischi a scatola chiusa perché certi di usarli per tenere la pista piena. Quando usciva un DWA c’era un fermento incredibile, talvolta stampavamo quindicimila/ventimila copie solo come prima tiratura. Oggi penso sia tutto casuale, ci sono i nuovi canali rappresentati dai social network a spingere un nome piuttosto che un altro, ma il grande successo parte ancora dal pubblico. Solo in un secondo momento arrivano la radio e la televisione. Resto dell’opinione che non sia possibile far decollare un pezzo solo in virtù di un ingente investimento economico promozionale. Esistono personaggi ricchissimi che producono musica spendendo fortune in pubblicità ma non riuscendo ad ottenere il successo che vorrebbero.

Col senno di poi, quali sono gli errori che non ricommetteresti?
Con la DWA non ci sono grandi errori di cui mi rammarico. Con questo non voglio dire di non aver fatto sbagli ma quelli fanno parte del gioco. Forse come artista, nelle vesti di Savage, avrei potuto gestirmi meglio ma ero molto inesperto e non avendo alcun produttore al seguito ho sbagliato alcune canzoni. Ad un certo punto volevo fare l’electro pop inglese ma il pubblico voleva da me ancora l’italo disco.

A distanza di oltre un ventennio la DWA è tornata a credere nelle ristampe solcando dischi, come gli album “The Rhythm Of The Night” di Corona e “Fan Club” di Alexia, che ai tempi dell’uscita originaria non commercializzò in formato vinile. Paradossalmente oggi ci sono più persone rispetto a ieri disposte ad acquistare certi titoli in un supporto ormai obsoleto per la musica pop? Si tratta forse di banale collezionismo che riduce il disco ad un gadget?
Oggi stampare un disco in vinile costa parecchio, parliamo quindi di un mercato molto di nicchia. Ho deciso di ristampare gli album originariamente apparsi solo in CD per accontentare soprattutto fan e collezionisti. Possedere un disco in vinile adesso dà una soddisfazione che non offre il file digitale. Se poi include canzoni che hanno segnato la tua adolescenza acquista ulteriore valore e rimane nel tempo.

Qual è stato il più alto fatturato della DWA?
Preferisco glissare sul discorso economico perché non potremmo utilizzare il dato per confrontarlo con altre realtà. La DWA realizzava poche compilation, veicolo primario di introiti, e il grosso del fatturato era rappresentato da licenze e royalties che arrivavano soprattutto dall’estero. La rivista Musica E Dischi stilava una classifica annuale delle etichette che avevano venduto più singoli e ricordo con orgoglio quando, tra 1993 e 1994, la DWA era prima davanti a tutte le major malgrado avesse pubblicato meno titoli rispetto ad esse. Quasi ogni disco mix che mettevamo in commercio vendeva infatti oltre trentamila/trentacinquemila copie.

Se l’italo disco non fosse collassata ed incalzata dalla house music negli ultimi anni Ottanta, la DWA sarebbe nata ugualmente?
Certo perché volevo essere autonomo nelle scelte artistiche e musicali ed avrei potuto fare ciò che volevo solo creando una mia etichetta.

E se invece la DWA fosse nata esattamente trent’anni dopo ossia nel 2019, quali artisti o brani ti sarebbe piaciuto produrre ed annoverare nel catalogo?
Sicuramente non avrei mai prodotto gli artisti che non sanno cantare ed usano l’autotune, è facile capire a chi mi riferisco. Mi piacciono tantissimo i Måneskin ma ritengo che avrebbero bisogno di canzoni più forti. Ho apprezzato anche i Melancholia provenienti dalla penultima edizione di X Factor. A livello internazionale comunque, al momento il più forte in assoluto per me resta The Weeknd.

(Giosuè Impellizzeri)

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BXR, una squadra di DJ alla conquista del mondo

Negli anni Novanta la musica destinata alle discoteche, composta da DJ e team di musicisti ed arrangiatori, è in prevalenza marchiata con pseudonimi. Ciò avviene per moda, per questioni legate ad esclusive discografiche ma anche per differenziare le inclinazioni stilistiche del proprio repertorio. «L’effetto fondamentale è il distanziamento, una rottura col tradizionale impulso pop di associare la musica ad un essere umano in carne ed ossa» scrive Simon Reynolds in “Futuromania”. «L’anonimato ha l’effetto di scardinare i meccanismi della fedeltà al gruppo o al marchio, l’abitudine di seguire la carriera degli artisti tipica del pubblico rock». In egual modo le etichette indipendenti diffondono i propri prodotti attraverso un fiume di sublabel, marchi creati ad hoc per diversificare l’offerta e nel contempo evitare l’inflazione vista l’alta prolificità. La bresciana Media Records di Gianfranco Bortolotti, attiva sin dalla fine del 1987, è tra quelle che nel corso del tempo collezionano più sottoetichette. Ad inizio decennio già vanta la Baia Degli Angeli, la GFB, l’Inside, la Pirate Records, la Signal (contraddistinta da una singolare numerazione del catalogo), l’Underground, la Heartbeat (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) e la Whole Records. A queste, nel 1992, se ne aggiunge un’altra, la BXR, il cui nome deriverebbe dall’antica denominazione della città di Brescia, Brixia, opportunamente modificata in una sorta di sigla a fare il paio con la citata GFB, acronimo di GianFranco Bortolotti. A sottolineare la connessione con le fasi storiche del comune lombardo è pure il logo, la testa di una leonessa, citando Giosuè Carducci che ne “Le Odi Barbare” parla di Brescia come “leonessa d’Italia”. Il payoff invece è il medesimo dell’etichetta-madre, “The Sound Of The Future”.

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Sopra il disco di debutto della BXR (1992), sotto il primo logo dell’etichetta

1992-1994, un avvio nell’ombra
Il primo brano pubblicato su etichetta BXR, nel 1992, è “Space (The Final Frontier)” di DJ Spy. Ispirato al suono nordeuropeo che scavalca la palizzata dei rave e fa ingresso nelle classifiche di vendita (il 1991 ha visto consacrare dal grande pubblico tracce come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Activ 8 (Come With Me)” degli Altern8, “Dominator” degli Human Resource, “Inssomniak” di DJPC, “Mentasm” di Second Phase, “Ambulance” di Robert Armani, “Adrenalin” degli N-Joi, “Who Is Elvis?” dei Phenomania – di cui parliamo qui, “Charly” ed “Everybody In The Place” dei Prodigy, “Pullover” di Speedy J ed “Anasthasia” dei T99, quasi tutte provenienti dall’area anglo-germanica-olandese), il pezzo è un veloce riassunto del modello edificato su amen break e stab. Prodotto da Max Persona e Pagany, che insieme ad Antonio Puntillo e Roby Arduini formano il team veronese ai tempi al lavoro in pianta stabile presso la struttura di Bortolotti, quello del fittizio DJ Spy è un veloce, ingenuo e non troppo ragionato assemblaggio di frammenti tratti da altri brani più fortunati del catalogo Media Records di quel periodo, come “What I Gotta Do” di Antico, “The Music Is Movin'” di Fargetta (di cui parliamo qui nel dettaglio), “Take Me Away” di Cappella, “Mig 29” di Mig 29, “We Gonna Get…” di R.A.F. e “2√231” di Anticappella, giusto per citarne alcuni dietro cui, peraltro, armeggiano gli stessi autori. Il sample vocale principale è tratto dal monologo di Star Trek e ciò spiega la ragione del titolo. L’assenza di un’idea compiuta e definita rende però “Space (The Final Frontier)” solo una delle centinaia di cloni generati dal filone rave, che attrae pletore di produttori sparsi in tutto il continente ambiziosi di replicare i risultati economici delle hit ma talvolta senza particolari slanci creativi.

Calamitate dagli elementi caratteristici che segnano il boom commerciale della (euro)techno tra 1991 e 1992 sarebbero state pure Marina Motta e Donatella Valgonio, le due ragazze che avrebbero operato dietro le quinte di Davida. La loro “I Know More”, secondo disco edito da BXR, rappresenta perfettamente la declinazione italiana della techno nordeuropea, ottenuta con la fusione di pochi elementi presi a modello e semplificati il più possibile per essere “digeriti” da un vasto pubblico. In realtà la Valgonio, conduttrice e speaker radiofonica contattata per l’occasione, rivela di non aver mai partecipato al progetto Davida. «Conobbi Gianfranco Bortolotti quando iniziò a muovere i primi passi nel mondo della musica» spiega, «e in quel periodo era Mario Albanese, all’epoca mio marito, ad occuparsi dei contatti con musicisti e discografici. Io, semplicemente, cantavo, così come feci prima con “Baby, Don’t You Break (My Heart)” di Argentina, l’unico pubblicato dalla Media Records nel 1986 (quando si chiama ancora Media Record, nda) e poi con “Summer Time”, sempre di Argentina ma finito sulla Memory Records a mia insaputa, ai tempi mi dissero che sarebbe stato ricantato da un’altra cantante. Non ho più avuto la possibilità e la fortuna di collaborare con la Media Records che nel frattempo divenne un colosso della discografia. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita artistica se avessi collaborato con Bortolotti. Tengo a precisare comunque che Mario Albanese non ha alcuna colpa perché la prima a non crederci fino in fondo ero proprio io che continuavo a sentirmi come un pesce fuor d’acqua nonostante i suoi ripetuti incoraggiamenti». È plausibile dunque ipotizzare che i nomi della Valgonio e della Motta siano stati usati a mo’ di pseudonimi, così come avviene per “I’m The Creator” di DJ Creator finito nel catalogo di un’altra etichetta della Media Records, la Pirate Records. I risultati di vendita non esaltanti delle prime due uscite, uniti alla progressiva attenuazione della popolarità della rave techno palesatasi nel corso del ’92, probabilmente convince Bortolotti a non insistere su quella formula. Il terzo 12″ su BXR, difatti, guarda nella direzione della garage house, quella che arriva da Londra e da New York. Enrico Serra, Gianluca Brachini e Gianluigi Gallina realizzano, presso l’H.O.G.I.C.A. Studio, “Here With Me” di Miss Mary, pezzo da cui emerge il calore del funk e dell’r&b e che riporta in vita certe atmosfere tipiche della prima house pianistica nostrana con cui qualche anno prima proprio la Media Records si impone all’attenzione internazionale. Nonostante i buoni spunti, Miss Mary non lascia il segno e si rivela incapace di far decollare il marchio BXR temporaneamente messo in stand by. Riappare nel 1994 con “Day By Day” di Laura Becker, che Alex Pagnucco e Davide Ageno realizzano mescolando i classici elementi dell’eurodance ottenendo una sorta di ibrido tra Le Click, Intermission e Corona ma con meno appeal per l’assenza di un efficace ritornello. La prevedibilità e la scontatezza dei suoni e della stesura fanno il resto lasciando il progetto nel quasi totale anonimato, quello stesso anonimato che una manciata di decenni più avanti lo trasforma in un cimelio per i collezionisti disposti a spendere cifre consistenti per entrare in possesso delle pochissime copie in circolazione. È l’ultimo tentativo di riscatto per la BXR, un’iniziativa che, a dirla tutta, in questa prima fase non conta su particolari energie e risorse. Basti pensare all’esigua quantità delle pubblicazioni (appena quattro in un biennio circa, decisamente un’inezia per i tempi) ma anche alla quasi inesistente promozione. Se a ciò si somma la scarsa identità, dovuta ad un mancato focus stilistico, è facile comprendere le ragioni per cui il tutto appaia soltanto un progetto embrionale dal basso potenziale, un’idea non sviluppata a dovere, col fiato corto ed incapace di farsi largo in mezzo ad una giungla di realtà discografiche indipendenti. Ma è solo questione di tempo, la BXR si riprenderà tutto e con gli interessi.

La rinascita sotto una nuova stella
Il 1995 imprime bruschi cambiamenti al mainstream dance italiano a partire dalla velocità di crociera che, complice l’influenza mutuata dalla scena tedesca, aumenta sino a toccare soglie inimmaginabili sino a poco tempo prima. Il fenomeno, iniziato negli ultimi mesi del ’94, si consolida e trascina gran parte dei principali esponenti dell’ambiente danzereccio nostrano, dai Bliss Team a Molella, dai Mato Grosso ai Club House, da Ramirez a Z100 passando per Cerla & Moratto, Double You, Da Blitz, JT Company e Digital Boy che è tra i primi a dare il la a questa adrenalinizzazione ritmica arrivata a sfondare la soglia dei 160 bpm. Nella seconda metà dell’anno, insieme alla velocizzazione e all’avvicinamento a filoni come makina ed happy hardcore, si registra un secondo sostanziale mutamento rappresentato dalla popolarizzazione di formule sino a quel momento adottate in prevalenza nelle discoteche specializzate. La cosiddetta progressive fa breccia in un numero sempre più consistente di ascoltatori sino a prevalere sulla eurodance tradizionale costruita su strofa, ponte e ritornello. La spallata decisiva giunge grazie a Robert Miles che con la Dream Version della sua “Children” (di cui parliamo qui) di fatto inaugura una stagione inedita che vede la supremazia quasi assoluta di brani strumentali. È una sorta di nuovo 1991-1992 insomma, ma questa volta non è una tendenza importata dall’estero bensì germogliata e svezzata entro i nostri confini.

secondo logo BXR
Il secondo logo con cui la BXR torna sul mercato nel 1996

Tale nuova fase risulterà decisiva per la BXR che rinasce proprio sotto la stella della progressive, forma ammorbidita della techno/trance d’impostazione mitteleuropea segnata da evidenti presenze melodiche che attingono dall’ambient, dalle colonne sonore cinematografiche, dal funky, dall’afro e dalla new beat. Così l’etichetta riappare dopo circa due anni di silenzio con più vigore e consapevolezza, accompagnata da una nuova numerazione col prefisso 10 e soprattutto un nuovo logotipo meno anonimo del primo, forgiato su caratteri di bladerunneriana memoria (la B è simile ad un 3 ed infatti inizialmente c’è chi crede che il nome sia 3XR) ed immerso in una dimensione spaziale che rispecchia la vocazione più internazionale, in contrasto con quella di partenza fin troppo legata alla realtà autoctona bresciana. Al nome viene altresì aggiunto un suffisso, Noise Maker, usato a mo’ di payoff, derivato da quello dell’etichetta sulla quale tra 1994 e 1995 Gigi D’Agostino, artista che tiene a battesimo la BXR, pubblica alcuni brani determinanti per la nascita della (mediterranean) progressive, la Noise Maker per l’appunto, gestita dalla Discomagic di Severo Lombardoni.

Homepage del primo sito Media (1996)
L’homepage del primo sito della Media Records (1996)

La nuova immagine della BXR proiettata nel futuro coincide anche col lancio del primo sito internet della Media Records che, tra le altre cose, permette di fare un tour virtuale nella sede a Roncadelle, accedere al cyber shop in cui acquistare il merchandising nonché immergersi nel suono di un juke-box virtuale, una specie di Spotify ante litteram fruibile attraverso il lettore multimediale RealPlayer. A guidare artisticamente la BXR è Mauro Picotto che, come racconta nel suo libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” (recensito qui), voleva radunare dei disc jockey che suonavano nei club, «veri, non quelli usati come immagine dalle grandi case discografiche». Ed aggiunge: «Parlai a Bortolotti del mio progetto e l’idea gli piacque subito visto che aveva già tentato una sortita simile con la Heartbeat. Il primo DJ che contattai ed invitai ad unirsi fu Gigi D’Agostino, uno degli ideatori del party torinese Le Voyage. Ricordo ancora il suo arrivo all’Hotel Continental di Roncadelle (ubicato nello stesso stabile della Media Records, nda) con una vecchia Chrysler Voyager da sette posti, era già un personaggio. […] Gigi però uscì quasi subito dal progetto, evidentemente soffriva qualcosa o qualcuno del mondo BXR, non mi è mai stato chiaro. Comunque gli offrimmo l’opportunità di creare una sua label esclusiva, la NoiseMaker, per continuare ad esprimersi secondo la sua stessa direzione artistica».

Mediterranean progressive, una parentesi su genesi, evoluzione e dissolvimento
Come raccontato nel 2015 da Gianfranco Bortolotti in questa intervista, il termine “mediterranean progressive” fu da lui approvato su suggerimento di Mauro Picotto o di Riccardo Sada (giornalista ai tempi in forze alla Media Records) dopo aver letto una recensione di Pete Tong che parlava, per l’appunto, di mediterranean progressive in riferimento a quei dischi provenienti dall’Italia (come “Sound Of Venus” di Lello B., Subway Records, “Atmosphere” di Voice Of The Paradise, Area Records, o “Advice” di Nuke State, Metrotraxx) che finivano in un’area grigia non essendo facilmente incasellabili nella techno, nella house e tantomeno nella progressive d’oltremanica in stile Sasha e John Digweed. Un filone che da noi pulsava già da qualche anno, irradiato da etichette indipendenti localizzate prevalentemente tra Lombardia, Toscana e Piemonte, ma senza ottenere riscontri commerciali importanti ed infatti Roland Brant lamenterà, in un’intervista, di essere stato ignorato dal grande pubblico nonostante seguisse questo genere da diverso tempo.

RAF by Picotto e compilation Diva
Sopra “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto (GFB, 1995), pare il primo disco a raggiungere il mercato con la dicitura “mediterranean progressive”, usata nello specifico come titolo della versione principale; sotto le copertine di due compilation curate da Claudio Diva uscite nel 1996

Alla Media Records intercettano la tendenza che vede salire le quotazioni commerciali della progressive e pianificano strategicamente di adottare tale dicitura in occasione del (ri)lancio della BXR, nei primi giorni del 1996. Sulle riviste, allora primarie fonti di informazione, la BXR viene presentata come l’etichetta che seguirà un nuovo genere, la mediterranean progressive, catalizzando l’attenzione del grande pubblico. «Il fine era distinguerci da ciò che altri facevano nel Nord Europa» spiega Bortolotti nell’intervista sopraccitata. «Per un fatto oggettivo l’Italia era (ed è) un Paese mediterraneo, quindi da lì nacque la fusione». È bene rammentare però che la tag “mediterranean progressive” aveva già timidamente fatto capolino nel mercato discografico attraverso “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto, pubblicata su un’altra etichetta della Media Records, la GFB, nell’autunno inoltrato del 1995, seppur il successo giunga a distanza di qualche mese, quando per l’appunto esplode il fenomeno progressive in tutta Italia e nei negozi arrivano un paio di compilation intitolate proprio “Mediterranean Progressive” edite dalla Discomagic e compilate da Claudio Diva, alla guida della Subway Records considerata tra le antesignane dei filoni dream e della stessa mediterranean progressive.

Il 1996, per il mainstream nostrano, è quindi l’anno della progressive, glorificata anche sull’etere da un numero imprecisato di programmi, incluso il Molly 4 DeeJay di Molella su Radio DeeJay di cui parliamo dettagliatamente qui. Produttori e promoter puntano tutto su questo genere, investendo denaro ed ambendo a sostanziosi ritorni. La Media Records, ad esempio, riporta in vita sotto il segno della progressive Antico, uno dei marchi che aveva contraddistinto la prima ondata “italo techno” ed ormai assente dal mercato da un quadriennio, ma anche un paio di etichette ibernate come la Pirate Records e la Underground (il nuovo corso di quest’ultima comincia con “The Test” di Mauro Picotto analizzato qui), oltre a contagiare la GFB, sulla quale appaiono i brani di R.A.F. By Picotto, e la Whole Records. Prevedibilmente la progressive diventa il nuovo pop e ciò attrae come una calamita parecchie critiche di chi è convinto che si tratti solo di un’indebita appropriazione di suoni, così come avvenuto qualche tempo prima con la techno. In un’intervista di Paolo Vites pubblicata ad ottobre del 1996, Killer Faber parla di grossa speculazione: «si incidono dischi copiati spudoratamente da altri, si creano mode musicali inesistenti, si immettono sul mercato centinaia di compilation tutte uguali saturando il mercato. Bisognerebbe rischiare e lanciare pochi ma veri artisti dance». A gennaio ’97 Massimo Cominotto raccoglie altre testimonianze in un’inchiesta intitolata “Prog E Contro”, come quella di Paolo Kighine: «Ultimamente la progressive ha preso i connotati da fenomeno di massa e per questo viene additata come commerciale. Questo, secondo me, dovrebbe essere un motivo in più per stimolare i miei colleghi ad offrire un prodotto di qualità elevata […]. L’etichetta “progressive” comunque lascia molto spazio all’immaginazione, puoi scartabellare tra vecchi pezzi acid house per curvare sugli Orb o KLF e magari finire sul made in Italy, l’importante è far stare bene il proprio pubblico». Più disilluso e diretto appare invece Christian Hornbostel: «Il termine “progressive” è già sprofondato nel caos, così come era avvenuto a suo tempo per l’omologo “underground”, diventando la risposta più inflazionata alla fatidica domanda “che genere suoni?”. Migliaia di DJ affermano di proporre progressive ed alcuni di loro si fanno addirittura la guerra per dimostrare al popolo italico di esserne gli assoluti inventori. Sono passati più di quattro anni da quando il vero fenomeno progressive (tutt’altra musica!) faceva la sua comparsa nel Regno Unito ma ecco che in Italia qualcuno ha pensato che il solo utilizzo del bassline 303 bastasse a giustificare la creazione di una nuova corrente musicale chiamandola “progressive”. Nessuno pertanto all’estero capisce l’italianissimo modo di definire progressive tracce che godono di ben altre definizioni. Non parliamo poi della confusione creata dalle compilation che di progressive hanno solo il nome. Dobbiamo dunque accettare a denti stretti che il significato di progressive sia un’amorfa terminologia creata per vendere incoerenti compilation in un mercato discografico già agonizzante, per dar lustro a DJ che si vantano di suonarla (mixando Alexia con DJ Dado ed una traccia su Attack) e per far contenti alcuni proprietari di locali che nella stessa serata propongono, con innocente orgoglio, revival, underground, liscio, latinoamericano e… progressive».

Gg e Picotto 1996
Gigi D’Agostino e Mauro Picotto in due foto del 1996, quando vengono lanciati dalla Media Records come alfieri della mediterranean progressive

Ma cosa è la progressive che si impone tra 1995 e 1997 al grande pubblico nostrano? «Forse è la sorellina della techno» sostiene Mauro Picotto in un’intervista raccolta da Riccardo Sada a novembre 1996. «È sicuramente nata grazie ai DJ della Toscana sotto altri nomi come “virtual music” per colmare un vuoto perché con un certo tipo di techno eravamo arrivati all’apice e c’era voglia di ripartire da zero, svuotando i brani di tanti suonini e suonacci superflui […]. Le produzioni progressive italiane si discostano da quelle estere perché hanno molta melodia, ormai l’Italia ha il suo imprinting». È la melodia, dunque, il punto focale di questo filone, e a tal proposito DJ Panda, ancora intervistato da Sada e quell’anno nelle classifiche con “My Dimension” di cui parliamo nello specifico qui, afferma che «a noi italiani la melodia viene fuori d’istinto perché abbiamo un animo mediterraneo. L’unico rischio è che questa progressive diventi troppo pop». I timori dell’artista si rivelano fondati ed infatti la sbornia progressive (o meglio, popgressive) del 1996 renderà sterile il filone, sino ad inflazionarlo ed obbligarlo ad una costante e netta flessione nel corso del 1997.

D'Agostino Planet 1
“Fly” di D’Agostino Planet riapre il catalogo della BXR dopo circa due anni di silenzio

1996-1997, il biennio della mediterranean progressive
Corrono i primi giorni del 1996 quando la napoletana Flying Records distribuisce “Fly” i cui promo girano tra gli addetti ai lavori già da qualche settimana. Autore è Gigi D’Agostino dietro il moniker D’Agostino Planet, nome perfetto per la nuova dimensione spaziale della BXR anzi, a dirla tutta qualcuno ritiene che l’etichetta possa gravitare esclusivamente intorno alla sua musica e che il pianeta immortalato sulla logo side del disco sia proprio il suo. Tale teoria sembrerebbe trovare riscontro in questa intervista a cura di Leonardo Filomeno e pubblicata da Libero il 14 settembre 2014, in cui D’Agostino afferma: «Nell’autunno del ’95 chiesi di poter fondare un’etichetta con dei principi precisi, libertà dei suoni, dei ritmi, dei tempi. In Media Records mi dissero che avevano una label sulla quale, in passato, avevano pubblicato dei brani e che in quel momento non era in uso, la BXR. Ricordo il primissimo 1001, il 1002, il 1003 e ricordo benissimo le ragioni del blocco della pubblicazione del 1004. Il resto ho preferito rimuoverlo». Il DJ torinese di origini salernitane, noto nelle discoteche piemontesi tipo il Due di Cigliano o L’Ultimo Impero di Airasca, ha già maturato diverse esperienze discografiche, come “Creative Nature” o “Hypnotribe” di cui parliamo rispettivamente qui e qui, ma rimaste sostanzialmente confinate alla platea dei soli appassionati. Con l’arrivo in Media Records le cose cambiano e “Fly”, primo tassello della rinnovata BXR, diventa anche il trampolino di lancio dell’ormai ufficializzata mediterranean progressive. Riadattamento ballabile del tema “Il Tempo Passa” composto da Giancarlo Bigazzi per il film “Mediterraneo” diretto da Gabriele Salvatores, “Fly” plana su struggenti melodie e lunghi accordi che si tuffano tra le onde di un sequencer ipnotico e rotolante che sembra autoalimentarsi per inerzia, senza mai perdere vigore per quasi tutti i nove minuti di durata.

Seguono altri tre brani sul 1002, “Melody Voyager”, “Marimba” ed “Acidismo”, che esaltano lo stile d’agostiniano di allora, stratificato, ritmicamente minimale ed asciutto, adornato da melodie intrecciate ad armonie tra il romantico e il malinconico con frequenti cambi tonali che giocano sui contrasti e fluttuano su nuvole cangianti. In un’intervista rilasciata a Federico Grilli per il magazine Tutto Discoteca Dance a marzo 1996, D’Agostino parla della progressive come «un suono emozionale, energetico e molto convincente» ma ammette di essere conscio che si stia entrando nella fase della commercializzazione: «se prima era un genere destinato a fare tendenza, ora è rivolto alla grande massa che ne fruirà in maniera positiva, come spesso accade in fenomeni simili. Il pubblico reagisce bene e sicuramente ora la risposta è amplificata dato che il fenomeno sta cambiando, prima era ristretto ad alcune realtà locali». Pochi mesi più tardi, ad agosto, l’artista affiderà alla stessa testata un’altra affermazione che conferma la fase ascendente e il desiderio di sfondare i confini alpini: «Credo che la progressive nostrana abbia buone possibilità per imporsi nel mercato europeo e quindi cercheremo di spingerla in ogni occasione, come ho fatto lo scorso 5 luglio al Ministry Of Sound di Londra», ed aggiunge: «la mediterranean progressive è nata dalla personalizzazione da me apportata alla progressive, con suoni minimali e melodie orecchiabili, un po’ spagnole, forse latine, no ecco, proprio mediterranee».

A trainare BXR e Gigi D’Agostino è la compilation “Le Voyage ’96” che Media Records realizza insieme alla Virgin. Gran parte della tracklist è occupata dai suoi brani e remix ma non mancano le già citate “Children” e “Bakerloo Symphony”, “Goblin” della coppia Tannino-Di Carlo ed un paio di titoli d’importazione, “Hit The Bang” di Groove Park (dal catalogo Bonzai, l’etichetta di Fly intervistato qui) e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. Le 80.000 copie vendute de “Le Voyage ’96” e le 60.000 dell’album “Gigi D’Agostino”, in tandem questa volta tra BXR e RTI Music, testimoniano che l’intuizione di scommettere sulla musica strumentale sia giusta e fanno da volano per nuove produzioni dello stesso D’Agostino come “Gigi’s Violin”, dove troneggia un violino talmente ammaliante da far ricordare i Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi, ed “Elektro Message”, versione vitaminizzata di “Live Line” dei tedeschi You. Nel frattempo BXR mette a segno la prima licenza, “Electronic Pleasure” degli N-Trance, ma optando per le versioni trance (quella che si sente in radio finisce invece nel catalogo Signal).

Mauro Picotto - My House
“My House” di Mauro Picotto viene ritirato dal mercato per ragioni ignote

Mauro Picotto si prende il 1004 con la sua “My House”, naturale seguito a “Bakerloo Symphony” che viene per l’appunto remixata sul lato b in due versioni a creare una sorta di tessuto connettivo. Per ragioni mai chiarite del tutto, il disco verrà ritirato dal commercio pochi giorni dopo essere stato distribuito nei negozi. “My House” riappare, insieme ad “Halleluja”, su Pirate Records nel “Progressive Trip”, l’unico che l’artista firma MP8, accorciamento dell’anglofonizzazione M-Peak-8 usata per la poco nota “I Can’t Bear” l’anno precedente. Considerati gli alfieri del movimento mediterranean progressive dell’etichetta bresciana, Picotto e D’Agostino realizzano a quattro mani “Angels’ Symphony” da cui emergono distintamente tutti gli elementi salienti del filone, forse già all’apice del successo. Sul mercato giunge una tiratura che parrebbe frutto di un errore o di un ripensamento, contenente due versioni (Plastic Mix e Tranxacid Mix) che spariscono dal 12″ distribuito con lo stesso numero di catalogo, 1006. I buoni riscontri procurano ad entrambi alcuni ingaggi come remixer, Picotto rilegge “Mantra” dei Datura, D’Agostino invece “The Flame” dei redivivi Fine Young Cannibals, oltre a spartirsi rispettivamente “Turn It Up And Down” e “U Got 2 Know” dei Cappella, un marchio ormai quasi sulla via del tramonto. Alla Media Records poi arrivano nuovi DJ ad infoltire le fila della BXR: il toscano Mario Più, prima con l’estivo “Mas Experience”, una romanza elettronica agghindata da virtuosi sentimentalismi sintetici utilizzata per lo spot dell’Aquafan di Riccione, e poi con l’autunnale “Dedicated”, dedicato alla futura moglie Stefania alias More ed aperto da una citazione straussiana del poema sinfonico “Così Parlò Zarathustra”, il veneto Saccoman con “Pyramid Soundwave” (di cui parliamo nel dettaglio qui), una sorta di rilettura trancey del classico dei Korgis, “Everybody’s Got To Learn Sometime”, e il laziale Bismark, invitato dall’amico Gigi D’Agostino, che con “Double Pleasure” mette a punto un suono bifase lanciato su tensioni alternate che ha già sperimentato in pezzi usciti precedentemente come “Brain Sequences” o “Chrome”.

D'Agostino-RondoVeneziano
Similitudini grafiche tra le copertine dell’album “Gigi D’Agostino” e de “La Serenissima” dei Rondò Veneziano: androidi argentei che suonano strumenti a corda con città futuristiche sullo sfondo

Gigi D’Agostino torna con “New Year’s Day”, rivisitazione strumentale dell’omonimo degli U2. Sul lato b la lunga “Purezza”, quasi dieci minuti di un ribollire celestiale che i fan hanno già conosciuto grazie al citato album “Gigi D’Agostino”, quello col robot violinista e lo skyline di una città del futuro in copertina che sembra rimandare (intenzionalmente o involontariamente?) alle androidizzazioni a cui talvolta vengono sottoposti i menzionati Rondò Veneziano – si veda l’artwork de “La Serenissima”, 1981. Ma in fondo la mediterranean progressive della BXR per certi versi potrebbe essere considerata una proiezione modernista dell’ensemble diretto da Reverberi, coi suoi barocchismi e contrappunti ricamati su arie melodiche zuccherose innestate su arrangiamenti melliflui. L’eurodance delle annate 1992-1994 adesso sembra davvero lontanissima e simbolo di un’età conclusa, rimpiazzata da un suono nuovo proiettato verso il futuro che avanza. «Fatta eccezione per i Cappella, che riscuotono ancora successo in Francia, stiamo invadendo l’Europa con la progressive» afferma con decisione Gianfranco Bortolotti in un articolo di Billboard risalente al 22 giugno 1996. «Il nostro slogan è “The Sound Of The Future” e credo che il più grande vantaggio della dance indipendente sia quello di potersi trasformare rapidamente abbracciando le nuove tendenze. Dalla nostra parte abbiamo quattro dei migliori rappresentanti della scena mediterranean progressive incluso il fondatore, Gigi D’Agostino». Per l’occasione il manager bresciano si conferma come un sostenitore convinto delle nuove tecnologie ed avanza un’ipotesi profetica: «Grazie alla collaborazione con Zero City, provider milanese che offre l’accesso gratuito ad internet, stiamo entrando in un progetto che ci permetterà di avere una visione chiara sul futuro dell’industria musicale. Prima di quanto previsto, la musica verrà venduta attraverso il web, coi clienti che pagheranno uno o due dollari ogni volta che scaricheranno le nostre ultime uscite». A fine ’96 arriva un altro DJ a dare manforte alla squadra della BXR, Riccardo Cenderello, da Sarzana (La Spezia), acclamato in discoteca come l’angelo biondo. Inizialmente noto come Ricky, si trasforma in Ricky Le Roy dopo aver prestato l’immagine ad un progetto di Alex Neri, DJ Le Roy per l’appunto, destinato alla Palmares Records. “First Mission” è, dunque, la sua prima missione discografica ufficiale, uno slancio nel cielo più terso a bordo di un tappeto volante che si ritaglia, grazie all’edenica vena melodica, un posto nell’airplay radiofonico nostrano.

Il 1997 si apre attraverso “My World” di Bismark con cui il DJ romano intinge i pennelli in una mistura agrodolce per realizzare un quadro dalle tinte cromatiche giustapposte. Alla luminosità degli archi corrispondono vortici acidi, binomio che viene ulteriormente sviluppato nei due remix approntati in Belgio da Jan Vervloet, in quel momento all’apice del successo col progetto Fiocco, che la BXR pubblica su un 10″ colorato. A realizzare una versione di “My World” è anche Pablo Gargano, italiano trapiantato nel Regno Unito intervistato qui, seppur questa non finisca nel catalogo dell’etichetta bresciana. Aria di remix pure per “Dedicated” di Mario Più, analogamente solcato su un 10″ splatter blu/nero. Nel contempo il DJ toscano rilegge “I Just Can’t Get Enough” dell’elvetico DJ Energy per la GFB, campionando “Conflictation” di Cherry Moon Trax. Il successo primaverile è comunque “No Name” di Mario Più & Mauro Picotto, una sorta di summa tra “Mystic Force” dell’omonimo artista australiano e “Landslide” dei britannici Harmonix condita con una melodia ricavata da “Close To Me” dei Cure e frammenti ambientali presi dalla pellicola spielbergiana “Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo”. Le potenzialità sono tante al punto che la Media Records lo pubblica anche in formato CD singolo. Si rifanno sentire Saccoman con “Open Your Heart”, trance di facile impatto issata da una melodia triggerata, e Ricky Le Roy col cupo “Tunnel”, più cavernoso e vitreo rispetto al precedente e per questo chiuso in un contesto che riduce al minimo la possibilità di raggiungere l’airplay radiofonico.

Con “Music (An Echo Deep Inside” D’Agostino cerca nuove dimensioni stilistiche. È il primo BXR ad includere l’inserto cartaceo su cui si rinvengono titoli e crediti

Discorso a parte per “Music (An Echo Deep Inside)” di Gigi D’Agostino, brano con cui il DJ torinese inizia ad allontanarsi dalla dimensione iniziale del suo sound, in primis con l’inserimento di una parte cantata incorniciata da una serie di frasi zigzaganti di violino ed un sibilo filmico morriconiano. Nella parte centrale il lirismo vocale è accentuato ed un po’ rammenta quanto sperimentato pochi mesi prima da Marco Grasso in “Melodream” di Bakesky (sulla milanese Diamond Pears diretta da Nando Vannelli) che sovrappone non memorabili stilemi progressive all’italiana agli elementi di un’orchestra (violini, viole, violoncelli, contrabassi, oboe, fagotto ed altro ancora). Anche a livello grafico c’è qualcosa di nuovo: la label copy è occupata, su entrambi i lati, da una foto dell’artista pertanto titoli e crediti finiscono su un inserto di carta infilato all’interno della copertina. La presenza di tale inserto diventa fissa quando l’etichetta rinnova la brand identity (con “Lizard”, 1998), e nel corso del tempo sarà oggetto di variazioni nelle dimensioni. Con “Music (An Echo Deep Inside)” D’Agostino prende le misure di una nuova dimensione artistica in cui immergersi, ma prima di avventurarsi sul percorso che lo trasformerà in uno degli idoli della seconda ondata italodance, si cimenta in una serie di tracce da cui affiora sia la passione per la sampledelia, sia il desiderio di creare qualcosa ex novo, che non assomigli al suo più recente passato forse perché si è già reso conto che l’epoca della mediterranean progressive sia ormai agli sgoccioli e il mercato si è stancato di brani strumentali. La cesura, tuttavia, non è netta ed immediata, “My Dimension”, “Psicadelica” (una specie di nuova “Fly” con ridotti varchi melodici), “Living In Freedom” e “Wondering Soul” (rilettura di “No Time” dei Guya Reg, edita dalla DBX Records di Joe T. Vannelli) contengono ancora chiari retaggi dell’epoca progressive ma in “Bam”, “Tuttobene” e “Locomotive” (rivisitazione di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, già riadattata con successo dagli U.S.U.R.A. in “Open Your Mind” nel ’92) l’artista dimostra la chiara volontà di andare oltre e rimettersi in discussione, anche a rischio di scontentare parte dei fan. Nella vivace “Rumore Di Fondo” rispolvera reticoli ritmici breakbeat, in “All In One Night” trova rifugio in una specie di trance epica trainata da un basso lanciato al galoppo, in “Gin Tonic” rallenta atipicamente i bpm. Non c’è un filo conduttore, sono tracce discontinue che abbracciano un’ampia gamma di sfumature sulla base di impeti creativi nuovi ed un pizzico eccentrici, ad attestare la voglia dell’artista di sperimentare mettendo in comunicazione e in relazione passato e presente, così come avviene in “Gin Lemon”, a posteriori configuratosi come un ibrido tra i cut-up meccanici di “Bla Bla Bla” o “Cuba Libre” e la vocalità umana di “Elisir”. Il pezzo è sequenziato su un sample celebre quanto simbolico per la house music continentale, il “pump up the volume” preso da “I Know You Got Soul” di Eric B. & Rakim ed eternato dai M.A.R.R.S. in “Pump Up The Volume” per l’appunto, di cui parliamo qui. Tutto questo avviene nel “Gin Lemon EP”, un avventuroso, eterogeneo e bizzarro triplo mix disponibile anche in versione colorata (verde, giallo, rosso) diventato ambito per i collezionisti. Altrettanto ricercata l’edizione su CD decorata dall’artwork di Tiberio Faedi intervistato in Decadance Extra, per cui sono stati già sborsati 450 €. Dall’extended play vengono estratti vari brani incisi su un 12″ contenente anche il remix di “Music (An Echo Deep Inside)” a firma Mario Scalambrin, vicino al modello utilizzato per la sua Van S Hard Mix di “Baby, I’m Yours” dei 49ers di cui parliamo qui. Nel contempo anche “Gin Lemon”, l’unico a colpire nel segno e finire nelle rotazioni radiofoniche, viene riversato su un singolo sul quale, tra le varie versioni, c’è pure una R.A.F. Zone Mix di Picotto in bilico tra hard house d’oltremanica e pizzicato style teutonico.

Mario Più (1997)
Mario Più in una foto del 1997

Progetto-miscellanea è anche quello di Bismark che incide un doppio mix intitolato “Project 696”, omonimo del programma radiofonico in onda su Power Station ai tempi condotto con Luca Cucchetti così come lui stesso racconta qui. All’interno sei tracce sviluppate intorno alla trance ma con ampie divagazioni che toccano solarità (“Female Vox”, “Trance Sensation”) e stratificazioni più scure (“Synthesis”) passando per echi mediterranean progressive (“Shadow”), rimbalzi à la “Chrome” (“Space Is The Place”) ed impervie modulazioni drum n bass miste a pulsioni speed garage (“Give Yourself 2 Me”). “Project 696” avrebbe dovuto anticipare l’uscita dell’album, così come annuncia lo stesso Bismark in un’intervista rilasciata a Barbara Calzolaio a novembre 1997, ma il progetto non andrà mai in porto. Sempre in autunno la BXR tira fuori un’altra hit destinata alle radio e al circuito più commerciale, “All I Need” di Mario Più Feat. More, un brano costruito sulla falsariga dei successi dei tedeschi Sash! che conquista licenze sparse per il mondo, Regno Unito e Stati Uniti inclusi con l’interesse mostrato dalla MCA. Una delle versioni remix, la Love Mix, uscita un paio di mesi più tardi, ricalca invece i suoni di “Come Into My Life” di Gala. Parallelamente Mario Più incide la strumentale “Your Love”, con l’aiuto e il supporto di Mauro Picotto e Francesco Farfa, destinata alle discoteche e per questo siglata con l’appellativo Club aggiunto al suo nome.

1998, un anno di transizione
Il primo BXR del 1998 è “All 4 One”, un EP contenente quattro tracce di altrettanti artisti. Da un lato Mario Più e Gigi D’Agostino, rispettivamente con una versione semistrumentale di “All I Need” (un possibile edit della Massive Mix?) e con la citata “All In One Night” presa dal descritto “Gin Lemon EP”, dall’altro Mauro Picotto e Ricky Le Roy, il primo con “Jump”, rivisitazione del marziale “Mig 29” di Mig 29, un classico hooveristico del 1991 tratto dal catalogo Pirate Records realizzato da Mauro ‘Pagany’ Aventino e Francesco Scandolari, il secondo con “Bridge”, riapparso poco tempo dopo col titolo “Speed” e modellato sulla falsariga dei successi dei B.B.E., “Seven Days And One Week” e “Flash”. Ai più attenti non passa inosservato il salto di parecchi numeri di catalogo, quasi una ventina (dal 25 al 43): ai tempi la Media Records spiega che la serie compresa tra il 1026 e il 1042 è destinata ad uso interno e non per dischi commercializzati ma in seguito emergerà una ragione più plausibile legata al fallimento del distributore, la Flying Records, a cui subentra temporaneamente la milanese Self. Sembra che il disallineamento del catalogo possa essere stato causato da quel passaggio ma non è dato sapere se ai diciassette numeri mancanti furono effettivamente attribuiti dei brani rimasti in archivio. Nei primi mesi dell’anno nei negozi arriva anche il nuovo di Saccoman, “Magic Moments”, ascritto a quel tipo di trance che il DJ programma come resident al Cocoricò di Riccione. A ruota segue Ricky Le Roy con “Speed”: se la Blond Angel Mix ha il tiro della hard house britannica sul modello di “Keep On Dancing” dei Perpetual Motion, la Sara Song Mix (già in circolazione col titolo “Bridge”, come annunciato poche righe sopra) batte più sul filone franco-teutonico con svirgolate acide e pause melodiche. Due i remix: quello techno di Francesco Farfa nascosto dietro Mr. Message, pseudonimo utilizzato poco tempo prima per lanciare la Audio Esperanto, e quello di Tony H chiamato Strobo Mix, presentato in anteprima nel suo programma del sabato notte su Radio DeeJay, “From Disco To Disco”, e costruito sullo stampo di “Black Alienation” che il compianto Zenith destina alla IST Records di Lenny Dee.

Mauro Picotto - Lizard
“Lizard”, il disco della svolta internazionale per Picotto e per la stessa BXR

La BXR naviga in una sorta di limbo: ormai la mediterranean progressive è un ricordo, per alcuni persino scomodo, ed urge scovare un nuovo filone da battere per tenere alto l’interesse. La svolta è dietro l’angolo ma nessuno lo sa ancora, incluso l’autore del brano che sancirà il “next step”, Mauro Picotto. L’accoglienza riservata alla sua “Lizard”, nella primavera del 1998, è piuttosto tiepida. Le quattro versioni racchiuse sul mix sono radicalmente diverse l’una dall’altra, ma una di esse risulterà determinante per gli sviluppi futuri, la Tea Mix, contraddistinta da un particolare disegno di basso (simile a quello della Explorer Version di “Dune” di Valez, Subway Records, 1994) la cui genesi viene raccontata dall’artista nel suo libro, “Vita Da DJ – From Heart To Techno” e che noi già svelammo, attraverso l’intervista al musicista Andrea Remondini, in Decadance Appendix nel 2012. L’effetto Larsen avvenuto al Joy’s di Mondovì genera una reazione euforica del pubblico e così Picotto, con l’aiuto del citato Remondini, cerca di riprodurlo in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando, un paio di mesi più tardi, arrivano i remix. In particolare, come raccontato qui, è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale e una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary e, forse, dal riff di “Prophecy” dei WW 3 (l’assonanza è particolarmente evidente nella Marathon Mix). Corre voce che a dare la spinta decisiva al brano sia stato Junior Vasquez dopo aver convinto John Creamer, l’A&R della Empire State Records (division della nota Eightball Records), a licenziarlo negli States. A ruota seguono Judge Jules, Graham Gold e soprattutto Pete Tong che lo inserisce in Essential Mix su BBC Radio 1 e che, poco tempo dopo, ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”. Il pezzo farà il giro del mondo aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per il DJ piemontese. “Lizard” è anche il primo disco che BXR pubblica con un rebranding grafico, contraddistinto ancora dall’immagine del pianeta ma avvolto in una sorta di spirale ciclonica e che per qualche tempo viene utilizzato (in ordine randomico?) insieme al primo, in uso dal 1996. Titoli e crediti, come preannunciato nel precedente paragrafo, finiscono su un inserto cartaceo allegato.

Gigi D'Agostino - Elisir
“Elisir” di Gigi D’Agostino, un successo dell’estate 1998 che però “disarciona” la BXR dalla posizione legata a generi come progressive e trance

Con l’arrivo dell’estate escono due dischi dichiaratamente pop che seguono la strada aperta da “All I Need”, “Sexy Rhythm” di Mario Più, ispirata da “Your Love” dei canadesi Lime, ed “Elisir” di Gigi D’Agostino, interpretata in incognito da David Michael Johnson che per la Media Records ha già inciso alcuni brani tempo prima tra cui la cover di “I Say A Little Prayer”. Come emerso dai contenuti del “Gin Lemon EP” uscito negli ultimi mesi del 1997, D’Agostino è in cerca di un’evoluzione e la trova, come lui stesso afferma in un’intervista del settembre ’98, in una via di mezzo tra house e progressive, «sempre con sonorità energetiche ma senza ritmi troppo ossessivi. I tempi cambiano, le ore corrono e si è già arrivati al nuovo capitolo». A dirla tutta di progressive in “Elisir” resta poco e niente, in prima linea c’è la marcetta che prende le mosse dalla verve sampledelica di “Gin Lemon” e la parte vocale (con qualche similitudine che vola a “Closer” di Liquid) esplosa nel ritornello sorretto dal pianoforte, ma questo non è il piano imperante in stile “Children” di Robert Miles, è piuttosto un elemento coadiuvante che l’autore adopera, con la complicità del musicista Paolo Sandrini, per creare un nuovo standard della dance. La posizione da DJ attivo solo in club di settore forse inizia a stare stretta a D’Agostino, vuole una nuova collocazione nella scena ma soprattutto nel mercato discografico, e questo lo si intuisce sin dai tempi di “Music (An Echo Deep Inside)” che intende andare oltre l’inflazionata mediterranean progressive. Ora riesce a trovare la quadra con una formula alchemica inaspettata per i suoi fan più incalliti e destinata a gettare i semi della seconda ondata italodance, attesa dalle grandi platee generaliste dopo la parentesi del biennio ’96-’97. “Elisir”, licenziato in parecchi Paesi europei ma anche negli States dove la Tommy Boy lo pubblica col titolo “Your Love”, viene salutato con tripudio dalle radio ed anche dalle tv. Memorabile l’apparizione ad “Italia Unz” su Italia 1, in cui D’Agostino sceglie di starsene comodamente sdraiato su un materassino gonfiabile piuttosto che mimare imbarazzanti performance in playback, lasciando invece il compito a David Michael Johnson di occuparsi del (pare necessario) lip-sync. Quella di “Sexy Rhythm” ed “Elisir” è una doppietta, disponibile anche in formato CD, che garantisce ottimi risultati alla Media Records, specialmente in riferimento ad “Elisir”, ma che nel contempo lascia spiazzato chi pensa alla BXR come etichetta legata a soluzioni meno commerciali e più vicine alla progressive (prima) e trance (poi). Che fine hanno fatto gli intenti di sfondare la barriera del prevedibile formato canzone? C’è forse la necessità di tornare a formule più canoniche e tradizionali per mantenere viva l’attenzione del pubblico?

Una foto dell’autunno 1998 in cui si scorge l’ideogramma che Picotto si “tatua” sui capelli: da lì a breve il simbolo diventa un elemento identificativo della sua immagine

A diversificare l’offerta, tenendo un piede nella dimensione più appetibile ai club e al frangente internazionale, sono comunque Tony H con “Zoo Future” (la versione destinata alle radio, la Lion Mix, ricicla il riff di “Get The Balance Right!” dei Depeche Mode) e Bismark con “Street Festival”, pensato come colonna sonora dell’omonimo evento che si tiene a Roma domenica 21 giugno e il nome delle quattro versioni (Colosseum Mix, Fori Imperiali Mix, Piazza Venezia Mix, Circo Massimo Mix) non lascia adito a dubbi sul legame con la Città Eterna. Alla manifestazione, organizzata sul modello della berlinese Love Parade ideata quasi dieci anni prima da Dr. Motte e Danielle de Picciotto intervistata qui, partecipano decine di DJ che si alternano su consolle allestite su camion. La Media Records ha un proprio carro sul quale si esibiscono praticamente tutti gli artisti della scuderia. Quell’estate al debutto su BXR ci sono anche i fratelli Giorgio ed Andrea Prezioso ed Alessandro ‘Marvin’ Moschini con “I Wanna Rock”, un divertente cut-up pubblicato pure su CD (con la copertina curata da Tiberio Faedi) ottenuto incrociando su una trascinante base hard house le chitarre di “Should I Stay Or Should I Go?” dei Clash ed un frammento vocale di “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock. L’idea però non raccoglie consensi analogamente a “Burning Like Fire / The Pinzel” che i tre firmano Stop Talking su GFB poche settimane prima. La rivincita, come si vedrà avanti, arriva circa dodici mesi più tardi. Ad anticiparla è “Hardcat” che Giorgio Prezioso realizza con Picotto come Tom Cat ma su Underground. La tornata autunnale continua ad alternare pezzi di estrazione trance/hard trance ad altri crossover: si passa così da “Distant Planet” di Saccoman, adorato da Talla 2XLC, a “Unicorn” di Mario Più, da “Under The Sea” di Ricky Le Roy ai remix di “Zoo Future” di Tony H (tra cui quello dei tedeschi DuMonde prossimi all’affermazione mondiale), da “Honey” di Mauro Picotto, ricamato sul giro di “Two Tribes” dei Frankie Goes To Hollywood ed affiancato sul lato b dalla coriacea “Smile” con una risata beffarda, a “Cuba Libre” di Gigi D’Agostino, un’ossessiva marcetta (licenziata negli States dalla Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez ma col nome Noise Maker) sincronizzata sui vocal di “Caught, Can We Get A Witness?” dei Public Enemy, già rispolverati con successo tempo prima dai Natural Born Chillers in “Rock The Funky Beat” in chiave drum n bass. A fine anno giunge “Spectra”, il primo col centrino su fondo verde e il pianeta irriconoscibile per la gradazione cromatica, con cui Mario Più e Mauro Picotto rinnovano il sodalizio e campionano la sezione ritmica di “Spastik” di Plastikman per innestare all’interno l’essenza del nuovo “BXR sound” che marchierà l’annata seguente.

Gigi D'Agostino - Bla Bla Bla
“Bla Bla Bla”, il primo successo messo a segno dalla BXR nel 1999

1999, verso ambiziosi obiettivi con hit internazionali e un nuovo logo
Per BXR il 1999 si apre all’insegna della neo eurodance di Mario Più Feat. More con “Run Away”: il DJ toscano continua ad alternare produzioni trance/hard trance ad altre di stampo prettamente pop come questa in cui, col tocco di Paolo Sandrini come arrangiatore, cerca di riagguantare l’essenza che ha fatto la fortuna dell’eurodance/italodance nostrana tra 1993 e 1994 con ovvi update del banco suoni e con l’esclusione del rap maschile a vantaggio di un’unica voce, quella femminile. Sul 12″ e sul CD singolo figura anche una versione di estrazione filo drum n bass, la Free Style Mix, forse pensata per il territorio britannico dove alcuni esperimenti simili, tipo quello di “Before Today” degli Everything But The Girl, destano particolare interesse. Il primo centro dell’anno, seppur in circolazione da diversi mesi (a dicembre ’98, quando è ancora privo di titolo, Picotto lo recensisce sulle pagine di DiscoiD definendolo «un pezzo che ha dell’incredibile»), è rappresentato da “Bla Bla Bla” di Gigi D’Agostino: edificato su una base simile a quella di “Elisir” e di “Cuba Libre”, la traccia diventa presto un autentico tormentone grazie al fulminante e ribaltante uso di un campionamento vocale tratto da “Why Did You Do It” degli Stretch, tagliato e montato a mo’ di filastrocca nonsense («l’ho realizzato pensando a tutta quella gente che parla tanto senza dir niente» dichiarerà poco tempo dopo l’autore, che in copertina vuole una massima del filosofo Voltaire). Il lato b è occupato per intero dalla Africanismo Mix di “Voyage”, poco più di quindici minuti trasognati e vissuti all’interno di uno shaker che frulla una particolare scansione ritmica che travalica i generi, a riprova della volontà di D’Agostino di dare costantemente una spinta in avanti alla sua musica. “Bla Bla Bla”, per cui viene realizzato un video-parodia de La Linea di Osvaldo Cavandoli, entra in dozzine di compilation e conquista il vertice di un numero imprecisato di classifiche. È il primo disco che BXR affida ad un nuovo distributore, la campana Global Net, lì dove lavora Daniele ‘Dany T’ Tramontano che a tal proposito rammenta: «Un mattino arrivarono in prima battuta diecimila copie di quel BXR e la sera ne erano rimaste forse appena cinquecento».

label variation
Due variazioni grafiche utilizzate dalla BXR tra 1998 e 1999

In primavera si ripresenta Mauro Picotto con “Pulsar”, un pezzo trance dedicato alla figlia primogenita Alessia che ricalca prevedibilmente lo schema di “Lizard” con l’aggiunta di un hook vocale che fa lo spelling del nome dello stesso artista. Tante le versioni approntate, due delle quali finite su un secondo 12″ codificato come Deeper Mixes. Nella stagione dei fiori si fanno risentire anche Bismark con gli affreschi melodici di “Parapapa”, e Tony H con “Sicilia…You Got It!”, che passa dalla tempestosa hard trance con tagli lavici acid della Etna Vulcan Mix alla ridente Taormina Mix, una specie di risposta a “Bla Bla Bla” che usa il campione vocale di “Ride The Pony” dei Peplab abbinato ad una linea melodica in stile “Profondo Rosso”. Curiosità: la Stromboli Mix viene pubblicata quasi contemporaneamente su Pirate Records ma con titolo ed autore differenti, “Mutation” di Pivot. Poco tempo dopo per la medesima etichetta Tony H realizza, con Picotto, “Venezia” di Venice, scandito da un fraseggio di violini che rilancia le atmosfere mediterranee di qualche anno prima. Riappare pure Saccoman con “The Bounce”: le due versioni sulla logo side, la Jumpin’ e la Pumpin’, girano sul classico disegno trance che il DJ veneto spinge in discoteca, mentre sulla info side trovano spazio la Surfin’, con una stesura ed evoluzione progressive che ricorda un classico di quattro anni prima, “Pleasure Voyage” di X-Form al quale abbiamo dedicato qui un articolo, e la Teain’ a firma Picotto, un incrocio tra la sua “Lizard”, un frammento di “Communication” di Mario Più di cui si parla più avanti, e le percussioni di “20Hz” di Capricorn. A ridosso dell’estate BXR prende in licenza per l’Italia “The Launch” dell’olandese DJ Jean, rivisitazione di “The Horn Song” di The Don del 1998 che funziona nei Paesi del Nord Europa ma che da noi fatica a spopolare seppur finisca in diverse compilation tra cui quella dedicata all’Energy mixata da Molella, e “Dream A Dream” dei Captain Jack, act hard dance di Colonia prodotto da Eric Sneo e remixato dai DuMonde. È tempo pure di una tripletta di remix, “Unicorn” di Mario Più, “Tunnel” di Ricky Le Roy e “Lizard” di Mauro Picotto che sbarca ufficialmente oltremanica attraverso la VC Recordings del gruppo Virgin. Proprio su “Lizard” mettono le mani il britannico Tall Paul, reduce dal successo di “Let Me Show You” di Camisra, e Gigi D’Agostino che disfa e ricostruisce il puzzle riciclando un frammento ritmico della sua “Elisir”. Proprio Picotto riporta in vita, per l’ultima volta, l’alter ego R.A.F. By Picotto per “America”, ennesimo derivato di “Lizard”. Sul lato b il remix di “Tuttincoro”, pubblicato a fine ’98 sulla Pirate Records e germogliato su “Leave In Silence” dei Depeche Mode.

Prezioso e Mario Più
Altre due hit annuali della BXR, “Tell Me Why” di Prezioso Feat. Marvin e “Communication” di Mario Più

Dopo il poco fortunato “I Wanna Rock”, i fratelli Prezioso si prendono la rivincita: accompagnati dalla voce di Marvin e con la collaborazione di Paolo Sandrini, incidono “Tell Me Why”, una hit dell’estate ’99 per cui viene girato un videoclip e che finisce al Festivalbar quell’anno presentato da Fiorello ed Alessia Marcuzzi. Nel pezzo i più attenti riconoscono due principali ispirazioni, la tastiera di “Talking In Your Sleep” dei Romantics e la strofa di “Family Man” di Mike Oldfield, ma quello dei Prezioso Feat. Marvin non è un collage figlio della sampledelia più macchinosa, sullo stile dei programmi radiofonici “blobbistici” di Giorgio, ma una canzone solare e perfetta per le platee delle megadiscoteche, non solo italiane a giudicare dal numero di licenze macinate in diversi Paesi del mondo. Va particolarmente bene in Svizzera, in Danimarca ma soprattutto in Austria e in Germania, piazzato rispettivamente in seconda e decima posizione della classifica di vendita. Proprio nella terra dei crauti i tre tengono parecchie serate ed apparizioni televisive come questa su RTL. Un’altra mina lasciata deflagrare dalla BXR nell’estate ’99 è “Communication” di Mario Più: colorita dal suono dell’interferenza del telefono cellulare, parallelamente usato dai Dual Band (Paolo Kighine e Francesco Zappalà) in “GSM” sulla modenese Stik, la traccia attinge (ancora) le forze dallo schema di “Lizard”, mietendo consensi grazie ad una potente dinamica del suono e rumorose rullate che fanno impazzire gli amanti dell’hard trance. Sul lato b figura “Hertz”, cover di un brano che Mario Più suona spesso nelle sue serate, “Pleasure” dei belgi The Squeakers pubblicato nel ’98 su etichetta Hertz. Il grande successo di “Communication” viene garantito però da un remix che giunge a distanza di qualche mese, quello realizzato oltremanica da Yomanda, scelto per sincronizzare il videoclip e sviluppato sulla base della More Mix. Il brano conquista il vertice della Top 40 Club Chart UK con circa 200.000 copie vendute, e l’autore viene ribattezzato “il Fatboy Slim italiano”. In autunno è tempo di una versione di Picotto firmata come Lizard Man. Parallelamente esce “Serendipity” con cui Mario Più rispolvera la melodia di “Showroom Dummies” dei Kraftwerk ed ufficializza la paternità del progetto DJ Arabesque, partito nel ’97 su etichetta Underground. Dopo i vari featuring per Mario Più, More (ex frontwoman dei T-Move Experience inizialmente nota come Jody Moore) incide il primo singolo da solista, “4 Ever With Me”. Il pezzo si inserisce in quella rosa di dance made in Italy al femminile interpretata da cantanti come Kim Lukas, Ann Lee o Neja. A fronte di ciò, il progetto traslocherà presto sulla division pop della BXR, la W/BXR, di cui si parla più avanti.

Mauro Picotto - Iguana
“Iguana”, il follow-up di “Lizard”, è una conferma per la carriera internazionale di Mauro Picotto

Se sino al 1998 il successo dell’etichetta è stato episodico ed occasionale, dal 1999 i trionfi diventano quasi sistematici. È il momento in cui la BXR catalizza l’attenzione della stampa internazionale che ne parla come squadra composta esclusivamente da DJ attivi nelle discoteche di settore e per questo particolarmente abili nell’intercettare i gusti del pubblico. «Abbiamo messo sotto contratto i più importanti disc jockey provenienti da differenti regioni italiane offrendo loro facoltà di produrre la musica che amano proporre durante le proprie serate» spiega Picotto in un articolo di Mark Dezzani pubblicato su Billboard il 12 giugno 1999. «Ci siamo accorti che esiste un grande mercato per la musica progressive/techno seppur le emittenti radiofoniche italiane, fatta eccezione per quelle specializzate, continuino a preferire house e pop dance» prosegue Bortolotti. «Abbiamo dunque deciso di alimentare e sviluppare ulteriormente questi generi più sperimentali e sfruttare internet per promuoverli anche se i software per scaricare illegalmente dalla Rete brani in formato MP3 metteranno presto in ginocchio il mondo della musica. Piuttosto che ignorare questa nuova realtà, però, useremo la tecnologia per portare online il nostro catalogo». Due le importanti novità autunnali: la prima riguarda il cambiamento di logo, con la X rossa in evidenza che manda definitivamente in soffitta le declinazioni grafiche precedenti, la seconda l’avvio di tre serie, Claxixx, Club e Superclub, rispettivamente contraddistinte dai colori bianco, nero ed argento e nate col fine di categorizzare in modo più accurato le pubblicazioni in base ai suoni e il pubblico di riferimento. Questa gradazione cromatica abbraccia inoltre le copertine generiche, sino a questo momento stampate in cinque colorazioni (rosso, nero, blu, giallo, celeste). Il primo ad essere interessato dal nuovo ordine/raggruppamento è “Iguana” di Mauro Picotto, follow-up di “Lizard” in cui l’autore torna ad utilizzare un sample vocale (preso da un live dei Kiss in cui la band esegue “Hotter Than Hell”) che ha già inserito nella sua prima produzione destinata alla Media Records, “We Gonna Get…” del 1991, ai tempi “ritagliato” da “Adrenalin” degli N-Joi. Sono svariate le versioni approntate tanto che nel complesso “Iguana” occupa tutte le serie, la Claxixx, la Club e la Superclub. Nel pacchetto è incluso anche un remix a firma Blank & Jones con cui i tedeschi ripagano la versione che Picotto realizza per la loro “After Love” uscita quasi in contemporanea. Il successo di “Iguana” tocca tutta l’Europa, in particolare la Germania dove resta per settimane al vertice delle classifiche di vendita. Viene prevedibilmente girato un videoclip diretto da Oliver Sommer e finito in high rotation su MTV, VIVA e tutte le principali tv musicali.

BXR Superclub apertura
Uno degli advertising con cui viene annunciata l’apertura del BXR Superclub, il 9 ottobre 1999

A consolidare ulteriormente la posizione, la promozione e la comunicazione di BXR, sono due progetti collaterali: uno su Italia Network, prossima a trasformarsi in RIN, chiamato Maximal, che porta in scena i DJ dell’etichetta con selezioni musicali in cui vengono palesate le coordinate dei brani selezionati, l’altro sul fronte discoteca con l’apertura, sabato 9 ottobre presso lo Shibuya di Rezzato, del BXR Superclub, il miglior palcoscenico che i DJ della Media Records potessero avere in quel momento, seppur rimanga in attività per appena una stagione (la serata di chiusura è del 20 maggio 2000). Maximal e il BXR Superclub veicolano in modo ferreo il suono del pianeta BXR, non più quello celeste del periodo mediterranean progressive bensì uno fiammeggiante rosso fuoco ben visibile sulla copertina del primo volume della “BXR Superclub Compilation”. Entrambe si rivelano presto come due straordinarie vetrine pubblicitarie in un periodo in cui il pubblico, o perlomeno quella parte di esso rappresentata dai fan più sfegatati, si emoziona e si sente fortunata ad ascoltare in anteprima i nuovi brani dei propri beniamini della consolle. Scommettendo su nomi nuovi anche a rischio di non centrare perfettamente l’obiettivo, la BXR mette a segno altre tre licenze, “Gouryella” dei Gouryella alias Tiësto e Ferry Corsten (dal catalogo Tsunami), il remix di “Madagascar” degli Art Of Trance (dal catalogo Platipus), e “The Day” di Lunatic House Sounds (dal catalogo DiKi Records, quella di Age Of Love di cui parliamo approfonditamente qui). Spazio anche agli artisti interni come Bismark con “Reactivate”, Massimo Cominotto con “Minimalistix” (il primo inciso per la BXR dopo un biennio vissuto su Underground), e Tony H con “Tagadà / www.tonyh.com”. «Il tagadà è una giostra techno con un movimento tipo centrifuga, e questo movimento mi fa pensare ad una rullata devastante con effetto energizzante sul corpo, lo stesso che il mio disco vuole ricreare» spiega l’autore ai tempi. «A “Tagadà” si aggiunge “www.tonyh.com”, proprio come il mio nuovo sito internet» conclude. Poi tocca a “Slave To The Rhythm”, cover dell’omonimo di Grace Jones realizzata dai PPK, progetto one shot nato sull’asse italo-britannico formato da Pete Pritchard, Mauro Picotto e Ben Keen alias BK (PPK è l’acronimo dei loro cognomi). Negli ultimi giorni dell’anno arriva infine “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, trance dolcemente immersa in atmosfere orientaleggianti rimarcate dalla grafica in copertina da cui affiorano i loghi degli autori.

Gigi D'Agostino - Tanzen
La copertina di “Tanzen” che nel ’99 apre il catalogo di W/BXR

Canalizzazioni tematiche per fare ordine
Il catalogo della BXR inizia a essere troppo eterogeneo: a produzioni di stampo progressive e trance se ne aggiungono altre prettamente pop ma tale sovrapposizione di mondi musicali, oltre a risultare dispersiva, disorienta i seguaci. Al fine di convogliare tutti quei pezzi dichiaratamente mainstream quindi, nel 1999 viene creata una “filiale” apposita, la W/BXR, partita col triplo “Tanzen” di Gigi D’Agostino che al suo interno raccoglie futuri successi (“The Riddle”, la strumentale “Passion” poi diventata “La Passion”, “Another Way”), nuove marcette ipnotiche à la “Cuba Libre” (“Acid”, “Movimento”, pubblicata l’anno prima su Underground e firmata come Noise Maker, “Coca & Havana”), rimembranze tranceoidi rilette a suo modo (“One Day”), una nuova versione di “Bla Bla Bla” intitolata Dark Mix, una sorta di remix della stessa, “A. A. A.”, realizzato da Mario Più e Ricky Effe, ed anche una hit mancata, “Star”. Per un anno circa la W/BXR raduna le ramificazioni della BXR destinate alle grandi masse generaliste, da “Let Me Stay” dei Prezioso Feat. Marvin ad “Around The World” di More passando per “Ritual Tibetan” dei Kaliya e le versioni vocali di “Techno Harmony” di Mario Più e di “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, quest’ultima interpretata dalla cantante algerina Amel Whaby. Dopo diciassette uscite, il progetto viene assorbito dalla ex Noise Maker ora NoiseMaker, riavviata con l’album “L’Amour Toujours” attraverso il quale D’Agostino si consacra a livello planetario radunando attorno a sé un oceano di supporter estatici, talvolta animati da una devozione ai limiti del fanatismo.

BXR Club, Gold, Sacrifice
I dischi inaugurali di BXR Club, BXR Gold e Sacrifice

Sempre del 1999 è una sottoetichetta di BXR chiamata BXR Club, nata con lo scopo di raccogliere le produzioni dal carattere più schiettamente clubby e con nessuna probabilità di fare crossover. A tagliare il nastro inaugurale è Gabry Fasano con “Jaiss Bangin'”, presto seguito da “Metempsicosi” di Ricky Le Roy (omonimo del gruppo di DJ a cui appartiene, fondato nella primavera del 1997), “Imperiale” di Mario Più & Mauro Picotto (con una pausa sonorizzata sulla melodia di “Merry Christmas Mr. Lawrence” di Ryuichi Sakamoto, dal film “Furyo”) e “Red Moon” ancora di Ricky Le Roy, che arriva a fine ’99 e chiude la breve parentesi rimpiazzata dalla categorizzazione distinta tra Claxixx, Club e Superclub di cui si è già detto sopra. Nell’estate del 2000 nasce la BXR Gold, espediente con cui la Media Records rimette in circolazione alcuni pezzi del repertorio BXR (ma non solo, qualcosa proviene dai cataloghi GFB ed Underground), organizzati in diversi EP che fanno felici i collezionisti seppur alla fine il progetto pecchi un po’ come esercizio autocelebrativo. Pochi mesi più tardi parte invece Sacrifice, etichetta che si colloca in posizione mediana tra Underground e BXR, sia per declinazione grafica che sonora. A marchiare la maggior parte delle pubblicazioni sono le lettere dell’alfabeto ellenico usate per siglare i nomi degli autori. A suggellare il tutto una linea di merchandising e l’apertura di branch sparse per l’Europa (Regno Unito, Germania, Benelux) che rappresentano un supporto valido ed utile per penetrare più capillarmente nei territori esteri.

Mauro Picotto - Pegasus
Sopra la copertina di “Pegasus”, sotto la foto da cui viene sviluppata la grafica

2000-2001, alla conquista del mondo con la supertechno
Uscita indenne dal temuto millennium bug, la BXR inizia il nuovo anno/secolo/millennio lanciando il sito web, che include anche un frequentatissimo forum, e riprendendo il discorso lasciato in sospeso a fine ’99 con “Arabian Pleasure” con canti esotici che fanno venire subito in mente dune, palmeti e qualche oasi. Adesso a marciare verso la calura desertica a bordo di un rullo compressore che fa il verso ai disegni di basso hi NRG di Bobby Orlando è Ricky Le Roy con “Tuareg”. Pronto probabilmente dall’autunno, esce in pieno inverno “Autumn” che dà avvio al progetto Lava, nato tra Italia e Germania dalla collaborazione tra Mauro Picotto, Riccardo Ferri e Tillmann Uhrmacher, DJ tedesco e noto speaker radiofonico su Sunshine Live dove conduce il programma Maximal, che divide solo l’omonimia con quello prima descritto e trasmesso da Italia Network. Come solista, Mauro Picotto sfodera “Pegasus”: la Tea Mix contiene ancora elementi lizardiani ma appare subito chiaro che il DJ si stia stancando di riciclare il basso “wuooom wuooom” ricavato da un vecchio BassStation Novation abbinato ad infinite rullate di snare, schema peraltro imitato da un numero sempre più consistente di competitor già dal 1998 (si sentano, ad esempio, “Enjoy” di Alex Castelli o “Zi-Muk” di CAP). La Superclub Mix di “Pegasus” difatti sposta il baricentro verso costrutti più intrisi di (hard)groovismo post millsiano, arricchito da una vena italo/europea. È uno dei primi brani con cui si inizia a parlare di supertechno, un nuovo filone che BXR, quell’anno premiata dalla rivista tedesca Raveline e corteggiatissima al Midem di Cannes e al Winter Music Conference di Miami, annuncia di seguire per scrollarsi di dosso il passato e restare fedele allo storico payoff della casa madre, “the sound of the future”. In copertina finisce l’elaborazione grafica di una foto scattata nei corridoi della Media Records da cui spicca il pittogramma asiatico giallo che Picotto si “tatua” all’altezza della tempia sinistra sin dall’autunno del ’98 e che diventa una vitale caratteristica della sua immagine pubblica nonché tag identificativa sulle copertine dei dischi. 

Mario Più - Techno Harmony
“Techno Harmony” conferma l’exploit internazionale di Mario Più

Analogamente a Massimo Cominotto, anche Joy Kitikonti approda su BXR dopo aver inciso svariati brani, pure sotto pseudonimi, su altre etichette del gruppo bortolottiano (Underground, GFB, Audio Esperanto). Il debutto sulla label, privo di botto ma solo posticipato di un anno circa, avviene attraverso “Agrimonyzer” in cui il DJ toscano fa sfoggio di numerose linee tambureggianti, retaggio delle esperienze giovanili come batterista. In particolare in una delle quattro versioni, la Hacker’s Mix, campiona il suono emesso dagli ormai obsoleti modem analogici a 56k, quella specie di telefonata non vocale che permetteva di entrare in Rete, un mondo che in quel momento inizia la corsa alla popolarizzazione su larga scala. Reduce dallo strepitoso successo oltremanica ottenuto con “Communication”, Mario Più appronta un follow-up mirato ad espandere la propria fanbase oltre i confini nazionali. In primavera è quindi la volta di “Techno Harmony”, una traccia nata in seno al fermento eurotrance che diventa canzone col titolo “My Love” grazie all’apporto vocale di Maurizio Agosti meglio noto come Principe Maurice, celebre performer del Cocoricò di Riccione. Come da copione, secondo una procedura in uso sin dai primi anni Novanta, la Media Records appronta un alto numero di versioni incise su vari 12″ e sul CD singolo. Gli sforzi vengono premiati, il brano vola alto nelle classifiche internazionali e conquista numerose licenze in primis nei Paesi chiave per la discografia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Mauro Picotto - Komodo
Con “Komodo” Mauro Picotto chiude la trilogia dei rettili e tocca l’apice della popolarità

Non da meno è certamente Mauro Picotto con “Komodo”, con cui chiude la trilogia rettiliana iniziata (non intenzionalmente) nel ’98. Annunciato come “Komodo Dragon” e col featuring dei Deep Forest che sarebbe stato legittimato da un campionamento della loro “Sweet Lullaby”, il pezzo, descritto dalla stampa come una specie di medley tra trance e world music, viene poi commercializzato più semplicemente come “Komodo” e trainato da un videoclip ancora diretto da Oliver Sommer in cui Picotto veste i panni di un investigatore che indaga su una serie di morti sospette. Il testo scritto ex novo sulla melodia di “Sweet Lullaby” diventa “Save A Soul” usato come sottotitolo. Sul 7″ allegato al doppio mix che la BXR pubblica in primavera inoltrata figura “Come Together”, brano downtempo (praticamente un mix tra “Save A Soul” e “Komodo”) che riflette un lato inedito di Picotto legato alla musica lounge e chillout. È il momento in cui l’artista piemontese tocca l’apice commerciale della carriera, finendo nelle lineup di eventi dalla risonanza internazionale come MayDay, Love Parade, Time Warp, Gatecrasher, Atlantis ed Homelands, in club come il Twilo di New York, nella Top 100 DJs di DJ Mag (al 27esimo posto) e sul palco di Top Of The Pops dove non mima azioni su una consolle spenta, così come solitamente è costretto a fare chi viene dal mondo delle discoteche per sottostare agli stringati tempi televisivi. Senza ovviamente tralasciare la sfilza di remix già approntati per artisti del calibro di System F e Blank & Jones a cui ne seguono molti altri di cui si parla più avanti. In Germania è un vero trionfo dove “Komodo” vende circa 300.000 copie. Davvero tante le versioni sfornate negli studi in Via Martiri Della Libertà come quella di Megamind, nome che Picotto usa prima con ruolo di remixer e poi come artista a partire da “Listen To Me” dell’autunno ’98, e quella di Saccoman. Quest’ultimo riappare con “Metamorph”, ennesima escursione nella trance di matrice tedesca ma variata, nella Part One Mix, in qualcosa di diverso e meno prevedibile. È quella che alla Media Records chiamano supertechno, «un’ulteriore evoluzione della tech-house classica ma rivista nello stile BXR» dirà in merito Mauro Picotto qualche tempo dopo. All’esordio su BXR c’è anche Franchino, vocalist popolarissimo in Toscana in locali come Imperiale ed Insomnia. Anche per lui, come per Cominotto e Kitikonti, dopo un paio di anni di training su Underground e GFB, si aprono le porte marchiate dalla X rossa e ciò avviene con “Calor”, traccia senza troppe pretese costruita su una parte più solare, trainata da un basso in ottava, ed una più scura ma un po’ anonima.

Svariati i pezzi presi in licenza dall’estero: i remix di “Schall” – inclusi quelli di Pascal F.E.O.S. e Thomas P. Heckmann – di Elektrochemie LK alias Thomas Schumacher (nel ’98 già approdato su GFB con “When I Rock”, su segnalazione di Picotto), “Communication Part II” di Armin Van Buuren, “Oasis” di Y.O.M.C., cover dell’omonimo dei Paragliders uscito cinque anni prima e diventato uno dei dischi del repertorio BXR più quotati sul mercato collezionistico, “Something About U” di The Act, “Pussylovers” di DJ Balloon (con uno stralcio vocale preso dal film “From Dusk Till Dawn” del ’96), “Digital Dialogue” di Nick Sentience, i remix di “Don’t Laugh” di Winx tra cui uno a firma Mauro Picotto (all’opera anche su “Time To Burn” degli Storm, “See The Light” dei DuMonde e “Running” dei Tyrell Corp.), e quelli di “Science Fiction” di Taucher, un buon successo in Germania sul quale mettono le mani i Cosmic Gate e Mario Più. Proprio quest’ultimo, dopo aver ottenuto un discreto responso oltralpe con “Serendipity”, ci riprova come DJ Arabesque e fa centro grazie a “The Vision”, eurotrance a presa rapida che fa letteralmente il giro del mondo macinando decine di licenze ed affermandosi completamente nel 2001. Più contenuti i risultati di “Dolphin” di Gee Moore, il DJ del Bora Bora di Ibiza con cui il team della Media Records inizia a collaborare l’anno prima con “All Fat Boys Dancing” finito su Underground. Fedele alla linea trance è Bismark che con “Make A Dream” europeizza il suo suono e fa breccia nella Kontor Records che lo ripubblica in Germania col remix di Azzido Da Bass. Dopo diversi mesi di programmazione su Italia Network, Maximal si trasforma in una compilation. Il primo volume, affidato a Ricky Le Roy, include tra le altre “Happy” di Cominotto e “Year 2000” di Tony H, rimaste confinate al formato CD.

La supertechno targata BXR continua a propagarsi in autunno con “Species” del citato Cominotto («un “disco da viaggio” privo di ritornelli a guidare l’ascoltatore, crossover tra trance e techno con qualche occhiata alla Detroit anni Novanta» come lo descrive ai tempi l’autore) ed un paio di feroci 12″ di Picotto contenenti quattro tracce tratte dal suo primo album (“Underground / Baguette”, “Bug / Eclectic”) ma non indirizzate al frangente radiofonico. Il follow-up di “Komodo” infatti è “Proximus” in cui trova alloggio un campionamento tratto da “Adiemus” di Karl Jenkins e che gli italiani hanno facoltà di ascoltare in anteprima attraverso un servizio messo a punto da Omnitel che trasforma il telefono cellulare in un juke-box chiamando il numero 2552. Immancabile il videoclip che chiude la serie diretta da Oliver Sommer, iniziata con “Iguana” e proseguita con “Komodo”: come Alberto Beltrame scrive qui il 27 maggio 2020, «al regista viene commissionato il compito di narrare le vicende dell’investigatore Mauro Picotto e della sua sexy antagonista, la misteriosa donna dagli occhi di drago […], un’assassina seriale che (nel video di “Proximus”, nda) sembra essere diventata ancora più potente e sfuggente, ma l’investigatore riuscirà a trovarla alla fine di un inseguimento» (a bordo di una Ferrari, nda). Negli ultimi frame il colpo di scena, la donna si trasforma in iguana e gli occhi di Picotto diventano gli stessi della donna-lucertola. Le numerose versioni aiutano la diffusione del brano sul fronte estero, quello a cui BXR ormai sembra ambire in modo deciso e non a caso il 20 dicembre Picotto raccoglie diversi premi ai German Dance Awards tenutisi ad Amburgo.

Mario Più - Sfyflex
Dopo circa cento pubblicazioni, la BXR abbandona il payoff Noise Maker

Nel frattempo i DJ della label bresciana continuano a radunare migliaia di adepti provenienti da diverse regioni d’Italia ogni sabato notte. Un autentico nomadismo che si alimenta anche grazie a nastri doppiati a profusione sui quali si rinvengono tanti dei pezzi che vengono testati con diversi mesi d’anticipo rispetto alle date di uscita ufficiali. È il caso di Mario Più con “Sfyflex”, finito sul lato b dei remix di “Techno Harmony” (con cui BXR perde definitivamente il payoff Noise Maker, diventato il nome di un’altra etichetta della Media Records curata artisticamente da Gigi D’Agostino), e di “Matrix”, pubblicato insieme a “Morpheus” in cui riaffiorano elementi di “Tryouts For The Human Race” degli Sparks, prodotta da Giorgio Moroder nel 1979, gli stessi riportati in superficie da Trisco nella sua “Musak”. Proprio “Matrix” è dedicata all’omonimo club, prima ospitato presso il fiorentino Central Park e poi al Ritmodromo di Coccaglio, dove Mario Più e i colleghi del gruppo Metempsicosi si trasferiscono nell’autunno 2000 dopo la fine del sodalizio con l’Insomnia di Ponsacco. Negli ultimi mesi dell’anno escono in rapida sequenza “All The Way” di Ricky Le Roy, trainato da una base in stile “Kernkraft 400 (Remix) di Zombie Nation o “The Greatest DJ” di Lexy & K-Paul, “Ogni Pensiero / È Controllo” di Franchino, al lavoro su una serie di interpolazioni prese dal film “Matrix”, “Just A Moment” di Bismark e “Global Players (My Name Is Techno)” di Mr. X & Mr. Y (WestBam ed Afrika Islam), preso in licenza dalla berlinese Low Spirit ed impreziosito dal remix di Beroshima. A questi si aggiungono “Weltklang” firmato da una new entry proveniente dalla filiale tedesca della BXR capeggiata da Robin Ewald ovvero Marco Zaffarano, consolidato nome che vanta produzioni su Harthouse e due album sull’indimenticata MFS, e “Tenshi” dei Gouryella, che non riesce però a raccogliere gli stessi risultati ottenuti all’estero.

Il 2001 vede proseguire la marcia trionfale di Mauro Picotto, nuovamente sotto i riflettori con un altro estratto dall’album, “Like This Like That”, melodicamente derivato da “Blue Fear” di Armin del 1997. Il DJ originario di Cavour, un piccolo paesino in provincia di Torino, conquista per l’ennesima volta le classifiche di vendita d’oltralpe con licenze sparse in tutto il mondo. Il videoclip, trasmesso massivamente da VIVA, contribuisce alla popolarizzazione della sua immagine. A dirigerlo è ancora Oliver Sommer che, come scrive Alberto Beltrame nel già citato articolo del 2020, «si basa sul parallelismo per opposizione di due mondi in un bellissimo gioco sul bianco e nero. Gli unici elementi che possono far ricordare la video-serie (“Iguana”, “Komodo”, “Proximus”, nda) sono l’intro e l’outro alla James Bond, potenzialmente leggibili come un vago richiamo all’investigatore Picotto ed alle sue avventure». È un momento propizio anche per Mario Più che torna con l’album “Vision”, una raccolta dei suoi maggiori successi con qualche anticipazione su ciò che avverrà nei mesi a venire come “Love Game”, ancora interpretato da Principe Maurice. Ispirato da “Back To Earth” di Yves Deruyter è Saccoman che riappare con “The Recall” seguito da Franchino e la sua “Magia Technologika” in cui rivivono fraseggi quasi mediterranean progressive. “Spring Time (Let Yourself Go)” è il follow-up di Lava che il compianto Tillmann Uhrmacher produce ancora con Picotto e il fido Riccardo Ferri. Dall’estero arrivano l’irlandese Darren Flynn, il britannico Simon Foy e l’elvetico DJ Pure, rispettivamente con “Spirit Of Sp@ce”, “Insideout” e “My Definition”, tutti in stile trance.

Joy Kitikonti - Joyenergizer
“Joyenergizer” porta il nome di Joy Kitikonti all’attenzione del grande pubblico

Su “My Definition” mette le grinfie, come remixer, Joy Kitikonti che si ripresenta con “Joyenergizer”, una traccia sviluppata, come lui stesso racconta qui, «partendo da una kick ottenuta col sintetizzatore Access Virus A, poi lavorata con LFO e processata attraverso vari plugin durante la costruzione su Logic». La Psico Mix travolge e stravolge con un’effettistica strisciante e liquefatta, particolarmente efficace nei break. Senza ombra di dubbio è la matrice del suono a fare la differenza e a giocare sull’unicità. Diversamente dalle sue precedenti produzioni, questa entra in classifica di vendita e ciò impone la realizzazione di un videoclip girato ad Ibiza.

Mentre Kitikonti dà alle stampe un pezzo capace di abbracciare un pubblico più eterogeneo e trasversale, Picotto (che ritocca “Joyenergizer” in un remix madido di sudore) prende qualche distanza dal mondo delle hit a presa rapida orientate alle radio e al pubblico generalista convogliando nel “Metamorphose EP” cinque tracce incise su un doppio mix pensate e destinate ai soli club. Allineati all’hardgroove che vive un momento particolarmente galvanizzante, i pezzi del piemontese mescolano tribalismi demolitori di scuola millsiana (“Prendi & Scappa”, “Wake Up”) a svirgolate di techno frammista ad affilate linee di sintetizzatore sullo stile dello sloveno Umek (“Verdi”, “Kebab”) passando per un intro ambientale beatless (“Luna“). 

Picotto - Metamorphose Awesome
Con “Metamorphose EP” e “Awesome!!!” Mauro Picotto inizia a prendere le distanze dal collaudato schema delle sue hit più popolari

«Ora preferisco fare dischi con più sound e meno melodia» dichiara l’artista pochi mesi prima dell’uscita dell’EP in un’intervista di Riccardo Sada pubblicata a febbraio. «So che così facendo perderò una buona fetta di mercato, magari quello italiano, ma probabilmente potrò conquistarne tanti altri. In Germania il vento soffia a mio favore così come nel Regno Unito e ad Ibiza che è una cosa a sé rispetto alla Spagna». Picotto ormai è nel gotha del DJing mondiale, vede riconfermare la propria presenza nella Top 100 DJs del magazine britannico DJ Mag in ottava piazza (posizione più alta in assoluto sinora conquistata da un italiano) e fa da apripista a colleghi che militano con lui tra le fila della BXR ossia Mario Più (54esimo) e Gigi D’Agostino (98esimo). Poi è la volta di Cominotto con “Trouble”, «una produzione in cui credo molto dopo aver visto gli effetti in locali tipo Cocoricò, Red Zone, Alter Ego e Supalova» come afferma lo stesso autore che aggiunge: «all’interno c’è una versione sfacciatamente tech-house, neologismo che tra le ilarità generali uso da qualche anno e che casualmente oggi rappresenta il crossover più seguito, non certamente per merito mio ma in questa porca Italia sono stato tra i primi a crederci». Seguono Ricky Le Roy con “Dancer” e Bismark con “Triplet”, entrambi con lo shuffle applicato alla batteria in memoria di un successo tedesco di qualche tempo prima, “The Darkside” di Hypetraxx. Accolti su BXR, dopo un “praticantato” su Underground, sono Sandro Vibot con “Everyday”, Zicky (ormai non più “Il Giullare”) con “Follow Me” e Fabio MC con “Mimic”. Lasciandosi alle spalle la comparsata del ’99 sulla effimera BXR Club, riappare pure Gabry Fasano: il “cacciabombardiere” del Jaiss, così come lo chiamano affettuosamente i fan, firma una doppia a side racchiusa in una cornice sonora dai tratti impetuosi e che trasuda energia, “Catapulta”, con un frammento ritmico carpito da un EP di Christian Fischer su Statik Entertainment del ’99 opportunamente velocizzato, e “Ringmo”, che si avvicina alla scuola di Chris Liebing. Attratti dalle manipolazioni del beat sono pure Mario Più, che in “Ayers Rock” inserisce il suono di un didgeridoo, ed Athos Botti, semplicemente noto come Athos, con l’incalzante “Infect”.

In autunno tornano l’ibizenco Gee Moore col percussivo “G-Tribe”, Bismark con “Primitive Love” e Saccoman con “Revelation” mentre Mario Più e Fabio MC (che su Underground danno avvio al progetto TK 401) firmano “Invaders / Away”. In solitaria invece Mario Più realizza “Sensation”, altro estratto dall’album “Vision” in chiave smaccatamente trance. Menzione a parte merita il secondo doppio mix dato alle stampe da Mauro Picotto, “Awesome!!!”, naturale prosieguo al “Metamorphose EP” di pochi mesi prima. Appare sempre più evidente come al DJ inizi a stare stretto il ruolo da coordinatore dell’etichetta e che soprattutto sia stanco di confezionare follow-up standard per accontentare le richieste del mercato discografico più mainstream. Non è certamente un caso che nessuna delle sei tracce incluse (tra cui “Cyberfood”, “Hong Kong” e “Bangkok”) attinga elementi dalle sue hit nazionalpopolari. A cambiare, oltre ai suoni, sono le stesure e soprattutto il mood. «Avevo saturato il mio gusto commerciale ed avvertii la necessità di compensarlo con qualcosa di più club» dirà lui stesso qualche mese più tardi. Picotto cerca nuove strade per rivoluzionare la sua carriera e le trova. Il cambiamento radicale arriverà alla fine del 2002.

“Gula-Matari” è l’ennesimo dei dischi con cui Cominotto traduce il suo spirito eclettico da DJ

2002, i primi scricchiolii
Massimo Cominotto è tra i DJ della scuderia BXR a saper resistere al richiamo della popolarità generalista. «Ci fu una corsa a chi faceva canzonette orecchiabili ma io non ne sono stato capace oppure, più semplicemente, non mi interessava comporle» dichiara in questa intervista del 2020. Alla sua fermezza da DJ si somma quindi la coerenza stilistica delle produzioni discografiche a cui ora si aggiunge “Gula-Matari”. Da un lato la Techno Mix che arde in loop circolari, dall’altro la Funky Mix che sovverte il rodato schema sonoro dell’etichetta bresciana con patchwork di micro sample fusion (presi da “Gula Matari” di Quincy Jones) inchiodati su un sostenuto pianale ritmico. «Vorrei vedere la faccia dei technofili mentre ascoltano fiati, chitarre wah wah e voci femminili» ironizza l’autore ai tempi dell’uscita. Più canonico invece il carattere che Ricky Le Roy infonde in “One Day”, tra suoni cristallini in cascata e aggressività hardgroove, la stessa che qualifica pure il “Percutor EP” di Fabio MC trainato dal pezzo “Klaude”. Ascritto al comparto techno groovy è anche Marco Zaffarano con “Re-Take” che sul lato b vede il remix di “Playback” a firma Picotto con inserti latini in scia a vari successi internazionali di quel periodo realizzati da artisti come Tomaz vs. Filterheadz, Cristian Varela o Renato Cohen. Fedelmente ancorato alla trance resta invece Bismark con la sua “E.R.K.”, ed è trance anche quella di “Like A Dream” del tedesco Andy Jay Powell, arricchita da un remix degli RMB (proprio quelli di “Universe Of Love” di cui parliamo dettagliatamente qui), e di “Believe Me”, quinto brano che Mario Più firma come DJ Arabesque. Retrogusto inaspettatamente house/disco invece per Franchino che ritorna con “Ficha No Caixa”, una specie di french touch velocizzato ai confini con apparati technoidi, segno della fusione tra mondi musicali che avviene nei primi anni Duemila quando la distanza tra house e techno diventa sempre più labile o si azzera del tutto.

Dopo diverse esperienze consumate su Underground, sbarca su BXR come artista anche Riccardo Ferri alias Ricky Effe, collaboratore di vecchia data di Media Records e fedele spalla di Mauro Picotto. Le due tracce solcate sul 12″, “Rectifier” e “Trythis”, occhieggiano all’hardgroove teutonica, la medesima con cui Picotto sta progressivamente sostituendo la formula techno trance, oggetto di un’evidente inflazione, ma non prima di lanciare i remix 2002 di “Pulsar” (tra cui uno a firma Tiësto ma stranamente ora escluso dalla pubblicazione italiana) e soprattutto “Back To Cali”, riverberato da un remix dell’infaticabile Push, tra gli artisti chiave della Bonzai. Col follow-up “Joydontstop”, costruito sul giro portante della citata “Schall” di Elektrochemie LK e per cui viene approntato un videoclip, Joy Kitikonti prova a bissare il successo di “Joyenergizer” ma raccogliendo solo parzialmente i risultati attesi mentre Athos campiona le voci da una puntata della serie televisiva “South Park” per “Oh My God!!!” che si afferma nel circuito dei club. Saccoman ritorna con “Deep In The Woods”, Zicky con “Yeah Man Bomboclat”, Fabio MC con “Prisma EP” e Bismark con “Fluid” ma qualcosa nel BXR Sound comincia a mutare. Se da un lato la costante vocazione all’europeizzazione (quell’anno la Media Records inaugura le filiali iberiche e scandinave) rende i prodotti appetibili sul fronte internazionale, dall’altro tende ad allinearli troppo ad uno standard che gioca a svantaggio dell’identità. Alcune nuove uscite, come “Into The Blue” di Saccoman o “Kiss Me” di Ricky Le Roy ad esempio, non lasciano il segno, tuttavia la spinta ottenuta nelle annate precedenti è talmente forte da non incrinare del tutto gli equilibri. Nella Top 100 DJs di DJ Mag infatti Picotto è 14esimo, Mario Più 82esimo e Joy Kitikonti 91esimo.

Mentre il tenace Cominotto continua ad incidere ciò che più gli aggrada (“Iron Butterfly”) senza preoccuparsi di trovare il modo per penetrare nelle classifiche di vendita, Bismark produce a quattro mani “The Theme Of Sphere” con lo svizzero Philippe Rochard. Alla brigata si aggiunge poi Angelo Pandolfi che come Pan Project firma “L’Amour Pour La Musique” ed “NRG”, due brani influenzati dallo stile di Gigi D’Agostino che però dividono poco e niente con la linea intrapresa dalla BXR, e a dirla tutta anche la resurrezione di “U Got 2 Know” dei Cappella, attraverso i remix di R.A.F. e Joy Kitikonti, non pare proprio una mossa azzeccata. Decisamente più pertinenti risultano “Capsule / Random” di Trasponder, secondo (ed ultimo) atto del progetto messo su l’anno prima da Gabry Fasano e Riccardo Ferri su Underground, “Flair / Return Of Memory” di Fabio MC (“Return Of Memory”, in particolare, è una piroetta nel suono belga della Bonzai, con rimandi a “Synthetic Apocalypse” dei Musix) e “96 Street” di Sandro Vibot. Una deviazione hard house, sullo stile di Sharp Boys, Tony De Vit, Malcolm Duffy ed Alan Thompson, viene presa grazie a Pagano, fattosi notare con alcune pubblicazioni sulla Fragile Records (etichetta del gruppo Arsenic Sound di Paolino Nobile intervistato qui) quell’anno nominato A&R della Nukleuz Italy: prima con “Work It”, realizzata con Marco ‘Maico’ Piraccini, e poi con “(You Better Not) Return To Me” (ripescando frammenti vocali di “Return To Me” di Fits Of Gloom, Baia Degli Angeli, 1994), il DJ nativo di Catania tenta di aprire nuovi spiragli nel mercato estero, in primis quello britannico dove il filone hard house vive uno spiccato fermento.

Above & Beyond - Far From In Love
“Far From In Love” di Above & Beyond, tra i primi 12″ attraverso cui filtra la nuova veste grafica della BXR

In autunno arrivano due licenze, “Ligaya” di Gouryella, nel frattempo diventato progetto solista di Ferry Corsten, e “Far From In Love” del trio Above & Beyond, oggetto di forti interessi nell’Europa centrale ma praticamente ignorati da noi. Sono tra i primi dischi con cui BXR rinnova ancora il layout grafico, minimalizzato e spinto verso il bicromatismo bianco/nero già adoperato da qualche anno per Underground e Sacrifice. La notizia che chiude il 2002 intristendo migliaia di fan è quella dell’abbandono di Mauro Picotto che lascia l’etichetta di Bortolotti dopo undici anni. «La Media Records è stato il mio primo sogno realizzato con successo» dichiara nell’intervista rilasciata allo scrivente pubblicata a dicembre, la prima in cui annuncia pubblicamente la decisione. «La scelta di lasciare è legata agli impegni e soprattutto ai miei sogni, e lo dico in modo chiaro perché vorrei che non venisse fuori nessuna storia strampalata o riportata in modo traviato. L’ultimo anno mi ha visto parecchio impegnato in giro per il mondo come DJ e questo mi ha portato, inevitabilmente, a trascurare gli studi di registrazione. Perché quindi continuare ad essere responsabile di un prodotto se non posso più controllarne la qualità? Così ho maturato la decisione di lasciare e per me è stata una cosa naturale, ho bisogno di obiettivi e stimoli nuovi. Per quanto riguarda le produzioni, continuerò a seguire il mio istinto, come ho sempre fatto. Farò quello che mi pare a seconda del mio umore e soprattutto senza vincoli, perché vorrei decidere in autonomia la data di pubblicazione di un nuovo brano. “Back To Cali”, ad esempio, è uscito ad un anno dalla sua produzione, quando ormai non era più in linea con ciò che proponevo nei miei set da DJ. Insomma, vorrei condividere le cose col mio pubblico nel momento in cui emozionano anche me e non vederle bloccate dalle leggi di mercato delle varie aziende». Per l’occasione Picotto spiega anche le ragioni che lo allontanano dalla trance da classifica e lo fanno uscire dalla comfort zone: «Mi sembra che nella trance non ci siano grandi novità e non ho più voglia di produrre brani in stile “Lizard”. Preferisco piuttosto rischiare e cercare cose nuove, non amo ripetermi eccessivamente. Talvolta i cambiamenti sono stimolanti e permettono di vedere nuove frontiere. Attenzione però, non sto rinnegando il mio recente passato. Sarò sempre legato a “Lizard”, che ho suonato per la prima volta su un acetato domenica 7 dicembre 1997 all’Ultimo Impero di Airasca e che, a mio avviso, ha aperto le porte ad uno stile musicale e rimarrà una pietra miliare. Il fatto che in Italia non venne presa in considerazione dai network radiofonici è stata la sua fortuna: essendo una club hit, ha visto allungarsi la vita più del doppio rispetto ai classici successi trasmessi in FM». L’occasione è giusta pure per fare dei paragoni con l’estero: «Musicalmente i club europei non hanno nulla a che vedere con la maggior parte di quelli italiani anche perché non vengono influenzati dai network. All’estero inoltre i palinsesti delle emittenti radiofoniche includono programmi tematici che accrescono l’informazione musicale del pubblico ed influiscono positivamente sulle vendite dei dischi. Tante produzioni che sono in classifica da noi invece non vengono minimamente prese in considerazione oltre le Alpi. […]. Il successo di questi anni mi ha portato un ricco bottino di soddisfazioni e sono fiero di essere stato il primo e sinora l’unico italiano ad aver solcato l’ambita soglia della top 10 della classifica annuale di DJ Mag. Non che sia così determinante nella vita di un DJ, sia chiaro, ma una certa visibilità non guasta mai. Adesso inizio a sentirmi appagato delle tante fatiche spese ad inizio carriera quando qualcuno, tra i colleghi, rideva dei miei sogni».

2003, il primo anno post Picotto
Il 2003 consegna una BXR con evidenti differenze rispetto a quella che il grande pubblico ha conosciuto negli anni precedenti, a partire dalla nuova impostazione grafica che minimalizza il logo ora ridotto alla sola X sino alla scuderia artistica che inizia a disgregarsi. Alcune partenze però sono presto rimpiazzate con nuovi arrivi. Attraverso “Trip On The Moon / M.I.R.” ed “Elektronic Atmosphere”, ad esempio, debuttano rispettivamente Paola Peroni, che già collabora con Media Records una decina di anni prima, e il DJ bresciano Giovanni Pasquariello alias Exile. A pochi mesi di distanza dall’esordio riappare Pagano con la doppia a side “Packet Of Peace” (cover dell’omonimo dei Lionrock, portato in Italia esattamente un decennio prima proprio attraverso una delle etichette della Media Records, la GFB) / “Blade“, e viene accolto l’olandese Marco V con “Simulated”, su licenza ID&T. Riconfermate le presenze del capitolino Bismark con “In My Heart” e del livornese Mario Più con “Devotion” contenente “C’era Una Volta Il West”, cover dell’omonimo di Ennio Morricone per cui viene girato un videoclip a Bormio, in montagna, sullo sfondo di un paesaggio innevato.

Mario Più e Joy Kitikonti in una foto del 2003, anno in cui diventano gli A&R della BXR

I prescelti per guidare la BXR post picottiana sono Mario Più e Joy Kitikonti che prima realizzano “Strance” firmata con gli pseudonimi DJ Arabesque e Jakyro e poi producono “Mossaic” del DJ colombiano Moss, approdato su Underground nel 2001 con “Bogotá Experiences”, e “Light My Fire” come Rocktronic Orchestra, cover dell’evergreen dei Doors. Saranno sempre loro due, uniti in parallelo come MariKit, gli artefici di gran parte delle versioni remix apparse durante l’annata su BXR. La linea stilistica predominante di questa fase è divisa tra trance/hard trance ed hardgroove, come attestano la nuova licenza per Marco V (“C:\del*.mp3 / Solarize”), “Freedom” di Ricky Le Roy, “Roraima / Logic Guitar” di Mario Più ed “Harem” di Paola Peroni, che tanto ammicca alla techno latina di cui si è già detto sopra. Il cremonese Eros Ongari alias Ronnie Play appronta “It’s Time To Dance”, una specie di rilettura italica dell’electroclash costruita sul giro di accordi di “Fade To Grey” dei Visage, Fabio MC staziona sul segmento hardgroove con la doppietta “Impact / Zelig” e “Priority / Reality”, Kitikonti prova ancora a sfruttare la scia di “Joyenergizer” con “Pornojoy”, trascinato in tv da un videoclip ispirato dai film erotici degli anni Settanta e per questo censurato a causa di contenuti considerati troppo espliciti, e Gee Moore si rifà vivo con “Slam Dunk Funk”. Sul fronte licenze tocca all’argentino DJ Dero (quello di “Batucada” e “La Campana”) con “Revolution 07”, scovato da Kitikonti e con remix annesso di Robbie Rivera, e ai tedeschi Tube-Tech con un’altra cover dei Doors di Jim Morrison, “The End”, arricchita dal remix dei Vanguard reduci dal successo ottenuto poco tempo prima col remake di “Flash” dei Queen.

Della BXR «che guardava avanti e che prende spunto dai DJ che suonavano musica diversa lasciando spazio alla creatività, senza supervisioni dei capi», come la descrive Bismark in un’intervista pubblicata a gennaio 2003, resta ormai ben poco. In autunno arrivano gli Spolvet (Andrea Vettori e Niccolò Spolveri) con “Rock The Sun”, in posizione mediana tra hardgroove ed hard trance, Joman (una delle tante impersonificazioni di Joy Kitikonti) con “Tronic Toys”, Zicky con “The Party Goes On” e i Kiper (Joy Ki-tikonti e Paola Per-oni) con “The Land Of Freedom”. A chiudere è “Incanto Per Ginevra” di Mario Più, dedicata alla nascita della figlia Ginevra immortalata in copertina. Nel frattempo Picotto e l’inseparabile Riccardo Ferri approdano alla britannica Primate Recordings con “Alchemist EP” trainato da “New Time New Place”: il doppio mix vende oltre dodicimila copie ma non genera introiti economici a causa del fallimento del distributore, la Prime Distribution. Picotto però non demorde e vara la sua personale etichetta, la Alchemy, inaugurandola con “Playing Footsie / Amazing” e sulla quale ospiterà alcuni artisti che lo seguono dopo l’abbandono della BXR ossia Massimo Cominotto, Gabry Fasano e il prematuramente scomparso Athos.

2004-2005-2006, gli ultimi anni di attività
L’inizio del nuovo millennio è nefasto per la discografia mondiale. Innumerevoli etichette indipendenti chiudono battenti sopraffatte dalla pirateria e dalla crisi che sembra non conoscere fine. L’atteso salto nel futuro che avrebbe garantito il 2000 in realtà riserva solo strade in salita e prospettive tutt’altro che rosee: le soglie di vendita di pochi anni prima («numeri notevoli sia in Italia che all’estero, che partivano da ventimila copie o giù di lì per nomi tipo Picotto, Più o Kitikonti» rammenta ancora Daniele Tramontano della Global Net in relazione a BXR) si assottigliano sensibilmente, la maggior parte dei distributori fallisce e l’invasione di nuovi equipment digitali sferra il colpo di grazia al mercato del disco in vinile, ridotto ormai ad una nicchia di utenza sempre più esigua. A tutto ciò si aggiunge l’introduzione dell’euro, un cambiamento epocale che mette a dura prova il potere di acquisto di chi, in Italia, continua a credere nel supporto analogico. La Media Records non esce indenne da questa “tempesta”, nonostante fosse preparata ed avvezza da anni alle nuove forme di fruizione della musica, e l’allontanamento di Gianfranco Bortolotti, ormai impegnato come architetto, e l’attività ridimensionata della BXR e di tutte le etichette del gruppo ne sono palesi testimonianze.

Mario Più - Champ Elisées
Con “Champ Elisées” Mario Più tenta di tornare al grande successo

Il senso di confusione e smarrimento sul versante stilistico non aiuta di certo gli A&R della label, disorientati come tanti di fronte a repentini mutamenti che vedono crollare tutte le vecchie certezze. «I DJ che suonano house si sono appropriati di sonorità techno, progressive ed elettroniche» dichiara Mario Più in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile 2004. Ed aggiunge: «C’è stato un notevole avvicinamento dei generi. Io stesso adesso posso esibirmi in locali house perché propongo un suono meno “duro”». Proprio Mario Più incide prima l’anonimo “Green Day EP” e poi “Champ Elisées” in compagnia di Gare Mat K, con cui prova a rilanciarsi nel mainstream abbracciando il mondo electro house che pare la tendenza più importante del momento. Il brano, immerso in atmosfere piuttosto malinconiche ed annunciato come primo singolo del nuovo album “From Dusk Till Dawn” rimasto nel cassetto sino al 2015, è interpretato vocalmente da una certa Catalina B. ed è imperniato su un giro di chitarra che fa il verso a quello di “A Forest” dei Cure. Exile ritorna con “Tragic Error…”, in balia di una techno frammista ad elementi elettronici, Ronnie Play ci riprova con “Walking On The Sunshine”, electro house un filo maldestra e grossolana con qualche propaggine rockeggiante, mentre Franchino (con la K nel nome al posto della ch) si ripresenta con “Solidão”, trance dai riflessi mediterranei forse composta pensando ai bei tempi che furono.

Spazio anche al team dei Trilogy con “Navaho”, che a seconda della versione imbocca sentieri progressive house ed electro house, e ad un paio di licenze estere, “White Scale” dei Subnerve (uscito originariamente nel 1996) e “One Way Out” di Niels Van Gogh col remix di Martin Eyerer che da lì a breve fonda la Kling Klong. A mitigare il proprio apparato stilistico è persino un integralista della techno, Fabio MC, in “Tridonic / Meteor-A”, composte ancora con Simone Pancani. I fasti della BXR ormai sono lontani. A rammentarli è “Iguana” di Mauro Picotto che riappare attraverso due versioni, A Different Starting Mix e il remix del giapponese Yoji Biomehanika che precipita in pozzi hardstyle. Nel corso dell’anno anche Mario Più lascia la Media Records per fondare la sua etichetta, la Fahrenheit Music, nonostante dichiari, in un’intervista pubblicata ad aprile, di non avere alcuna intenzione di mettersi in proprio: «Non andrei molto lontano, specialmente in questo periodo, e non avrei ragione di farlo perché in Media Records mi trovo benissimo, da una struttura così solida e consolidata ho tutto il supporto che mi serve». Per BXR il destino è ormai segnato. Ad inizio 2005 esce “Pulsar 2K5” di Mauro Picotto, ennesimo tentativo di tenere a galla un transatlantico che si sta inesorabilmente inabissando. In copertina si fa riferimento a due “unreleased mix” mai pubblicati in Italia ma che i fan conoscono bene, la Megavoices Mix e il remix di Tiësto. A tirare il sipario è Joy Kitikonti, prima insieme a Cristian Vecchio per il “Finally EP” e poi con Joys Audino per “Started”, nel segno dell’electro house.

BXR last logo
Il logo, il quinto, con cui la BXR riappare nel 2017

2017, un’effimera ripartenza
Tra le etichette che Gianfranco Bortolotti prova a lanciare e rilanciare a partire dal 2015 col gruppo Media Records EVO, oltre ad Underground, UMM ed Heartbeat, c’è anche la BXR, affidata all’A&R Philipp Kieser e marchiata con un nuovo logo. L’idea prende corpo ad inizio del 2016 ma bisogna attendere febbraio dell’anno successivo per vederla concretizzata attraverso la pubblicazione del “No Mercy EP” di 6470 alias Davide Piras. Il 12″ raduna quattro brani (“Our Cognitive Dissonance”, “No Mercy”, “Introspection”, “September 10”) affini alla techno ormai definitivamente sdoganata nel mainstream e richiesta nei circuiti EDM. A giugno segue, questa volta solo in formato digitale, “Mapping A Messiah EP” del bulgaro Ghost303 alias Ivan Shopov, ulteriore tentativo di salire sul treno in corsa di quella techno di cantiere drumcodiano adorata da folle oceaniche ma vacua sotto il profilo delle sollecitazioni creative. Si parla di una possibile terza uscita che avrebbe contato sulle jam session registrate in studio da Kieser, Piras e Shopov, ma il progetto non va in porto. L’altoatesino Kieser, in un comunicato stampa diramato a febbraio 2016, dichiara che il suo intento non è quello di limitarsi ad una strategia copia-incolla: «Ci lanceremo sulla scena con un sound autentico e totalmente all’avanguardia. Punteremo anche su facce nuove e nuovi talenti». Bortolotti aggiunge: «Nuovo A&R, nuovo vestito, nuova strategia, nuovo sound. BXR, come un caccia in ricognizione, sarà affiancata da due label, una alla sua sinistra, la Underground, l’altra alla sua destra, la Divergent, e come per UMM, sarà ricerca e stile orientati verso i clubgoer. Sarà dark, essenziale e culturalmente evocativa. Sara la mia anima. Essere, non esserci, è il suo destino».

Claxixx
Insieme a BXR si ripresenta anche Claxixx, questa volta come etichetta e non serie

Dell’annunciata futuretechno però, che avrebbe dovuto raccogliere il testimone della mediterranean progressive e della supertechno, non resta niente se non un’idea dall’esito caduco. Contestualmente alla temporanea riapparizione di BXR si segnala pure la nascita, a settembre del 2017, della Claxixx, contenitore che utilizza il medesimo nome di una delle serie della BXR con la finalità di rilanciare nuove versioni di classici tratti dal catalogo della Media Records, analogamente a quanto avviene su EDMedia. Alla fine il progetto si arena sul nascere col remix di “Tuareg” di Ricky Le Roy realizzato dal greco George V a cui fa seguito un inedito di Nicola Maddaloni intitolato “L-R”.

Rimasta operativa per circa dodici anni, la BXR lascia un’eredità importante, sia sotto il profilo manageriale per metodo di lavoro, creatività e capacità progettuale, sia sotto quello strettamente musicale raccolta da tantissimi fan sparsi per il mondo. L’alta tiratura e l’ampia disponibilità, fatta qualche eccezione, non la ha (ancora) trasformata in una label appetibile sul fronte ristampe ma senza ombra di dubbio rimane un ottimo esempio che attesta come la visione d’insieme, l’affiatamento e lo spirito di squadra possano fare la differenza in un Paese come l’Italia in cui la cooperazione, specialmente nel contesto musicale, è ancora una meta utopica.

(Giosuè Impellizzeri)

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Lost Tribe – Gimme A Smile For The Future (Next Records)

Lost Tribe - Gimme A Smile For The Future

In passato la dance viene realizzata prevalentemente da team in cui ognuno mette a disposizione le proprie competenze. Non tutti i componenti finiscono sotto le luci dei riflettori perché esistono ruoli ben precisi e l’individualismo, complici le caratteristiche di un mondo profondamente diverso rispetto a quello odierno, è ben poco radicato o quasi del tutto inesistente, soprattutto nel settore musicale. Per districarsi da quel labirintico puzzle di nomi, talvolta celati da pseudonimi che ne complicano ulteriormente l’identificazione, oggi viene in soccorso Discogs, ma non basta. Per aggiungere nuovi tasselli a storie magari filtrate parzialmente attraverso i mass media dei tempi, è necessario solleticare la memoria di chi vive gli eventi in prima persona pur rimanendo dietro le quinte. È il caso di Alberto Lapris che, come la maggior parte dei coetanei, si avvicina alla musica attraverso la radio: «Sono cresciuto ascoltando le primissime emittenti libere ma pure alcuni programmi di mamma Rai, in particolare Alto Gradimento» racconta oggi. «Pian piano cominciai a seguire realtà più grandi come Radio Milano International con Leopardo, un nome su tutti e per sempre, e Radio Music 100, l’antesignana di Radio DeeJay. A ciò si aggiunse la possibilità di aiutare Lorenzo Gallini nel suo storico negozio di dischi, il 747, a Crema, la mia città natale. Il mio background affonda le radici nel punk, nell’heavy metal e nella new wave di metà anni Settanta/inizi Ottanta, e proprio con quel bagaglio cominciai l’avventura nel mondo della musica partecipando a decine di concerti, acquistando migliaia di dischi e ricercando e frequentando costantemente locali alternativi come il Plastic, il Punto Rosso, il Leoncavallo e il Virus, tutti a Milano, ma pure altri club della mia zona dove era possibile ascoltare diversi tipi di musica senza pregiudizi e preclusioni. Con quell’approccio approdai, nel 1987, alla Discomagic. Lì, per necessità, dovetti ampliare le conoscenze al mondo della dance che all’epoca era il mio lato meno sviluppato. L’arrivo all’azienda di Severo Lombardoni rappresentò inoltre il trampolino di lancio nel mondo delle produzioni discografiche. Da perfetto “analfabeta musicale” contattai Mario Riboldi, conosciuto e stimato musicista cremasco nonché amico di vecchia data, proponendogli una collaborazione. Con le mie idee unite alle sue capacità e qualità compositive avremmo provato ad entrare nel mondo della dance, contando peraltro su un canale più diretto rappresentato per l’appunto dal mio impiego presso la Discomagic. Avuto il suo assenso, cominciammo a scambiarci idee ed opinioni per collaborare in modo fattivo allo sviluppo di tracce destinate al pubblico prettamente dance, trovando la quadra coi progetti Lost Tribe e Maximum Respect. In quella nuova avventura ero The Indian, un nickname affibbiatomi da Daniele ‘Mad’ Boagno, ai tempi commesso del Disco Inn di Modena di Fabietto Carniel, per via della mia capigliatura (una chioma molto lunga abitualmente raccolta in una treccia) e della mia carnagione olivastra post abbronzatura che, a sua opinione, mi faceva assomigliare ad un indiano pellerossa».

1 - Discomagic
A sinistra uno scorcio della Discomagic tra 1992 e 1994, a destra parte dello staff immortalato in una foto scattata tra 1994 e 1998

Per Lapris quindi, il lavoro in Discomagic è decisivo nel momento in cui sceglie di avventurarsi sul sentiero della dance. «Avrei bisogno di giorni, o forse settimane, per raccontare dettagliatamente la mia esperienza in Discomagic» ammette, «e comunque non sarebbero sufficienti per descrivere cosa è stato Severo Lombardoni per me e per tutta la discografia italiana e mondiale, con tutti i pro e i contro associabili alla sua figura. Arrivai da lui come semplice magazziniere, masticare un po’ di inglese mi aiutò ad entrare nelle dinamiche aziendali dell’epoca, quando tutto il lavoro di import si basava sugli ordinativi fatti ascoltando in anteprima, via telefono, le tracce in uscita e facendo da tramite e traduttore a Vittorio Lombardoni, fratello di Severo e responsabile del settore. Così mi guadagnai una prima e parziale stima da parte loro, per l’impegno e la disponibilità. Ad un certo punto mollai Discomagic per andare a prestare l’attività presso Non Stop, il primo magazzino italiano per quantità e qualità: lì mi affidarono la completa gestione dell’import e lavorai in totale autonomia ma sempre con l’incommensurabile apporto dei colleghi venditori. Quando tornai in Discomagic, dopo quella fantasmagorica esperienza, ebbi la fortuna di vedere riconosciuta la mia professionalità da chi questo lavoro l’aveva letteralmente inventato e di essere messo in condizioni di poter gestire al meglio le dinamiche dell’azienda con l’assoluto rispetto delle mie capacità. Avere Severo come supervisore gestionale mi ha aiutato anche ad approfondire le conoscenze di cui necessitavo per operare in un ambiente a me completamente sconosciuto giacché venivo da un’esperienza tragica come operaio su una linea di montaggio, oltre ad affinare quanto avessi imparato nella breve seppur intensa frequentazione universitaria alla Bocconi. Una delle sue doti che più ho apprezzato e che mi ha aiutato maggiormente anche fuori dal mondo del lavoro, è stata la capacità di riconoscere l’operato e di esprimerlo con parole semplici ma d’effetto, la tanto sbandierata “meritocrazia” di cui tanti si riempiono la bocca ma che pochi(ssimi) sanno mettere in pratica, alternata a possenti e giustificate sclerate se non si seguivano i suoi suggerimenti».

Tra i primi progetti messi in piedi da Lapris, oltre a Maximum Respect, Multi Timbral e Cool Thing, c’è Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley, ammantato di mistero per via di scarsissime informazioni diffuse e contraddistinto da un nome che nel corso degli anni subisce qualche variazione (The Lost Tribe Of The Lost Minds o il più sintetico Lost Tribe). Il debutto nel 1992 con “Que Viva Mexico”, su Discomagic, seguito da “Mu-Sika” sulla Next Records del gruppo Energy Production, forgiato su un fraseggio country e che tra gli autori vede la presenza di Albertino. «In realtà il nome artistico è sempre stato Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley ma per comodità tecniche ed esigenze radiofoniche venne abbreviato in Lost Tribe, seppur nel 1993 apparve un gruppo jazz/rock omonimo» spiega in merito Lapris. «Quel nome si ispirava a gruppi come KLF ed Orb e più precisamente ai titoli piuttosto psichedelici che affibbiavano ai remix o a versioni dei loro brani. All’epoca frequentavo spesso Radio DeeJay incontrando Albertino e i responsabili della programmazione Dario Usuelli e Pierpaolo Peroni ai quali proponevo le novità in arrivo, tra dischi d’importazione e produzioni nostrane. Ciò mi consentiva di avere un feedback immediato e portare avanti il lavoro in Discomagic. Il rapporto con Albertino era di amichevole e reciproca stima, le sue conoscenze hanno permesso lo sviluppo, in sintonia con le visioni, di tutte le tracce da lui firmate affinché si potessero incrociare con le esigenze di programmi come il DeeJay Time e la DeeJay Parade. Per tale motivo le seguì passo dopo passo, dalla prima stesura alla versione finale». Ad eccezione di “Que Viva Mexico”, i restanti 12″ dei Lost Tribe vengono pubblicati dalla Next Records, una delle etichette più prolifiche del gruppo discografico di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi che tra il 1992 e il 1994 si fa ben notare con Face The Bass, Fishbone Beat (di cui parliamo qui), Z100, Pan Position e Daydream, oltre a mettere a segno diverse licenze estere, General Base su tutte. «La collaborazione con la Next Records nacque dall’incontro del tutto casuale al Midem di Cannes con Raimondi Cominesi» rammenta Lapris a tal proposito. «Dario aveva raccolto informazioni su di me che lo intrigavano sotto l’aspetto creativo ed artistico, seppur non ci fossimo mai conosciuti personalmente. Dopo aver messo al corrente Lombardoni ed aver avuto il suo nulla osta, io e Mario Riboldi destinammo quindi all’etichetta romana una serie di pezzi marchiati Lost Tribe».

Tra quelli c’è “Gimme A Smile For The Future” che Lapris produce insieme a Franco Moiraghi e al fido Riboldi, trincerato dietro il nomignolo Lupin III. Al pezzo partecipa ancora Albertino ma in incognito con lo pseudonimo Cencito coniato, così come lui stesso spiega nell’intervista finita in Decadance Extra, col fine di non far sapere ai DJ delle radio concorrenti che dietro quei pezzi ci fosse lui ed evitare quindi una possibile esclusione pregiudizievole a priori. Costruito su un sample di chitarra dal retrogusto funkeggiante tratto da “Purple Love Balloon” dei britannici Cud, “Gimme A Smile For The Future” riesce ad oltrepassare i confini patri conquistando una licenza da parte della Stress Records di Dave Seaman sulla quale pochi anni prima escono “Let Me Hear You (Say Yeah)” di PKA e “Last Rhythm” dell’omonimo progetto italiano. È la stessa label d’oltremanica inoltre a commissionare vari remix tra cui spicca quello di Dharma Bums Vs The Delorme. «Tutto iniziò con un campione che girava in studio e che meritava di essere utilizzato al meglio» spiega Lapris. «Così, di comune accordo con Riboldi, contattai Franco Moiraghi al quale ero (e sono ancora) legato da un rapporto speciale di amicizia chiedendogli se fosse disposto a metterci a disposizione la sua maestria nell’elaborazione di una traccia. Stendemmo insieme la bozza nello studio di Mario per poi andare in un altro provvisto di strumentazioni migliori e svilupparla a dovere. Penso che “Gimme A Smile For The Future” sia stato il brano dei Lost Tribe ad averci tenuti impegnati più a lungo, forse tre mesi. Man mano che completavamo le parti prendevamo coscienza delle potenzialità. Per quanto riguarda invece l’interesse della britannica Stress, i meriti vanno riconosciuti alla Next ed al suo license department per il grande lavoro svolto e per essere riuscito a coinvolgere un produttore del calibro di Dave Seaman in un progetto italiano portato avanti con nottate infinite in studio fatte da continui ritocchi, anche nei più profondi e minimi particolari, alla ricerca di sonorità che potessero dare già al primo ascolto una “patente” di internazionalità. Questo avvenne anche grazie ai continui interscambi di opinioni tra tutti i soggetti coinvolti, desiderosi di ottenere il massimo risultato possibile da subito».

2 - altri singoli Lost Tribe
Le copertine di “My Vision, One Nation, One Tribe” e “Dogo”, pubblicati nel 1994 dalla Next Records

A campeggiare sulla copertina di “Gimme A Smile For The Future” (e pure su quelle dei seguenti due, “My Vision, One Nation, One Tribe” e “Dogo”) è un particolare logo composto da un uccello ad ali spiegate sotto il quale trova spazio il simbolo della pace ideato da Gerald Holtom. «L’idea mi balenò riflettendo sul titolo della traccia» rivela Lapris, «ma non avendo le capacità di utilizzare i primi software di grafica, chiesi aiuto al carissimo amico Roberto Rossini, oggi docente presso lo IED di Milano. Con lui sviluppai il logo e la stessa copertina, ispirata dalle grafiche dei gruppi psichedelici attivi negli anni Settanta. Il messaggio di quel disegno, implicito e sempre valido, è affrontare le sempre più opprimenti ed abominevoli situazioni che intersecano la vita». Nel 1994 è tempo quindi dei citati “My Vision, One Nation, One Tribe” (un vago rimando al celebre slogan di Radio DeeJay?) e “Dogo”, col featuring del misterioso The Stammerin’ Chatterbox, entrambi scritti ancora con Albertino ed intrecciati al filone della prima ondata italodance che tra 1993 e 1995 tiene banco senza temere rivali. «Anche in quei due tutto partì da campionamenti che giravano in studio, ma il riferimento al claim di Radio DeeJay è del tutto casuale, quel sample vocale preso da “Move Any Mountain degli Shamen fu utilizzato solo in funzione della base musicale» risponde Lapris. «Il fatto che non sia mai stato usato dall’emittente di Via Massena per dei jingle promozionali, così come si faceva allora, credo possa confermare l’assoluta buona fede. Discorso analogo spetta a “Dogo”, con un campionamento vocale di origine ragamuffin che ci spinse a creare la figura di un ipotetico MC, il fantomatico The Stammerin’ Chatterbox. Il riscontro delle vendite si attestò su un buon livello ma inferiori a “Mu-Sika” che invece ebbe un impatto “innovativo” sul mercato, poiché creò dal nulla il fenomeno della cosiddetta “demential techno”, così come la ribattezzarono alcune riviste, che poi portò alla ribalta altri gruppi che inseguivano un suono simile, uno su tutti gli svedesi Rednex».

Nel 1994 la corsa dei Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley termina. Mentre si tira il sipario sul progetto cresciuto sulla Next Records però, ne viene inaugurato un altro destinato ad una delle etichette più attive del gruppo Time Records, Italian Style Production a cui abbiamo dedicato qui una monografia. Insieme a Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto, Alberto Lapris crea i Marvellous Melodicos, oltre ad aggiungere un tassello alla storia dei Phase Generator attraverso “Nevermind”. «Lost Tribe si fermò principalmente per problemi legati sia alla collaborazione artistica con la Time Records, sia alla nascita di mia figlia Valentina che assorbì gran parte dei tempi extralavorativi, non permettendomi più continui spostamenti negli studi di registrazione» chiarisce lo stesso Lapris. «La collaborazione con l’etichetta bresciana fu il risultato del costante corteggiamento professionale di Giacomo Maiolini e del maggiore sviluppo delle mie conoscenze musicali maturate col passare degli anni. Dovendo affrontare un mercato in continua evoluzione come quello della dance ed avendo spostato i gusti personali verso sonorità più house e tendenzialmente meno vicine a quello che allora veniva considerato techno, accettai la proposta di Maiolini e provai a mettermi in gioco in un ambito più ampio e meno specifico offerto dalla Time Records. La condivisione di idee ed opinioni in maniera più continuativa coi musicisti dello staff (in primis il team de “Le Ginestre”, così come erano conosciuti Trivellato e Sacchetto) aiutò a sviluppare la mia creatività ed incrementò l’ispirazione. A ciò si aggiunse la costante ricerca di nuovi suoni e campionamenti da riversare in tracce più melodiche ed orecchiabili. Tra i vantaggi di quella collaborazione ci fu la possibilità di muovermi meno spesso da Milano: bastava infatti andare un paio di giorni a Brescia per spiegare a Giordano e Giuliano quali fossero i miei punti di vista e poi aspettare la cassetta (allora unico mezzo per ascoltare fino allo sfinimento l’evoluzione di un pezzo) che Giacomo mi faceva prontamente recapitare in Discomagic al fine di apportare correzioni e migliorie in corso d’opera. Lavorare in Discomagic, distributore della Time Records, mi permise inoltre di seguire più che bene l’andamento delle vendite oltre a darmi la soddisfazione di toccare, letteralmente con mano, le imponenti quantità di supporti che partivano per i negozi di dischi, sia in Italia che all’estero».

3 - Time e Marvellous Melodicos
Sopra la foto del team della Time Records scattata in occasione del decennale di attività (1994): Lapris è il terzo uomo da sinistra, dopo Trivellato e Sacchetto; sotto le copertine del trittico di Marvellous Melodicos, edito tra 1994 e 1995 dall’Italian Style Production

Dopo tre 12″ usciti tra 1994 e 1995, “Sing, Oh!”, “The Sun And The Moon” ed “Over The Rainbow”, anche i Marvellous Melodicos spariscono nel nulla come del resto avviene alla maggior parte degli studio project di quegli anni. A sorpresa però, nel 2020, il marchio riappare con “Say It Ain’t So” e “Time (To Move On)”, entrambi pubblicati dalla J.K.R. Records di Bruno Le Kard, coautore di un altro successo messo a segno dall’Italian Style Production ad inizio anni Novanta, “Do You Know My Name” di Humanize di cui parliamo qui nel dettaglio. La stessa J.K.R. Records sancisce pure la resurrezione di Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley col brano “R.T.T.J.”. «Il ritorno di tanti nomi artistici dell’epoca e la mai sopita vena creativa insita nella mia indole mi hanno spinto a rispolverare Marvellous Melodicos e Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley a circa cinque lustri dall’ultima apparizione, senza dimenticare ovviamente l’opportunità di collaborare ancora con Mario Riboldi» spiega Lapris. «Aver avuto la possibilità di utilizzare i brand che mi hanno accompagnato in quegli anni, grazie alle gentili concessioni da parte di Giacomo Maiolini e Barbara Ugolini, ed avere più tempo a disposizione da pre-pensionato, hanno fatto il resto. Trovo che creare musica sia un ottimo strumento per tenere allenata la mente e mantenere la freschezza delle proprie idee».

4 - Alberto Lapris in consolle
Un recente scatto di Lapris impegnato in consolle

In questa intervista realizzata da Stefano Mauri e pubblicata il 20 maggio 2020, Lapris dice che gli piacerebbe assistere, dopo l’attesa ed auspicata fine della pandemia, al ritorno delle discoteche nella più classica accezione del termine: «locali esclusivamente dedicati al ballo con zone ben definite, pista, corridoi perimetrali, bar, posti a sedere e, soprattutto, DJ professionisti che sanno come intrattenere il pubblico». Ed aggiunge che «sarebbe il momento di non vedere più all’opera pletore di sedicenti “diggei” chiamati da altrettanto sedicenti “impresari” in nome del “quanta gente mi porti?” Figure queste che hanno mortificato e depauperato il mondo della club culture, portandolo ad essere un divertimentificio di plastica, finto, senza un’anima, più apparenza che sostanza». Il covid-19 quindi ha solo dato il colpo di grazia ad un settore che aveva perso la sua cifra identitaria da tempo? «Penso che il coronavirus sia un incidente di percorso, grave e da non sottovalutare, che si è sommato all’ormai cronico decadimento del mondo della dance per come era vissuto e visto all’interno del movimento» afferma. «Da anni assisto all’appiattimento dell’offerta che ciclicamente ripropone la stessa apocrifa ed amorfa sbobba non più destinata ad un pubblico partecipe bensì ad una massa di padiglioni auricolari insipienti. Non è un caso che le produzioni di alto livello siano destinate a persone con un certo background musicale. Chi invece ha ripudiato le proprie radici svendendosi a ben più facili e remunerative “alternative” fatte di copia/incolla ha gradualmente impoverito la scena della dance mondiale. Leggo di importanti festival organizzati appositamente per menti acritiche ed ormai assuefatte al nulla cosmico, che per non inficiare il proprio status di evento hanno preferito “autosospendersi” in attesa di “ritornare”. Parallelamente però, per fortuna, sento parlare di altri festival che non necessitano di grandi arene o di palcoscenici da film disneyani, e che si accontentano di spazi relativamente piccoli proponendo DJ di altissimo profilo artistico per serate di altrettanto sommo carattere. Negli ultimi tempi ho assistito a DJ set virtuali svolti nelle consuete location senza pubblico ma con ballerini, scenografie e proposte musicali di classe superiore, della durata anche di otto ore. Gli utenti coinvolti sono stati così tanti da mandare in crash i server per eccesso di connessioni. C’è chi spera che in un prossimo futuro le cose possano cambiare positivamente ma, in tutta onestà, non penso possa avvenire, se chi vorrebbe far ripartire il mondo della notte è proprio lo stesso che propina ciò che gira adesso spacciandolo per “dance”. Così come diceva Edoardo Bennato, “sono solo canzonette” che, se traslate su un dancefloor, porterebbero a reazioni uguali al famoso meme di John Travolta che si guarda intorno confuso» conclude il lombardo. (Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Marcello Giordani

1) discollezione Giordani
Marcello Giordani e parte della sua collezione di dischi. Tra le altre cose si scorgono un giradischi Technics SL-1210, un ghettoblaster ed uno Speak & Spell della Texas Instruments, in Italia commercializzato come Il Grillo Parlante

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
La stampa italiana su UMM di “Deep Inside” di Hardrive. A consigliarmelo fu mio cugino, tre anni più grande di me, che già faceva il DJ. A distanza di quasi un trentennio rimane un anthem della house music.

L’ultimo invece?
“Ways” di Robert Viger ed Alan Shearer, un disco economico ma di grande qualità annesso alla library music, pubblicato nel 1986. Sono innamorato di entrambe le versioni del brano “Champs Elysées” in esso contenute. Attualmente sto comprando parecchie library e sonorizzazioni di quel periodo, mi servono come ispirazione per il mio progetto Arredo destinato a musica in stile night club di periferia anni Ottanta.

Quanti dischi conta la tua collezione? Quanto hai speso per essa?
Ad oggi possiedo circa 6000 dischi ma ne ho venduti almeno 4000 prima di trasferirmi in Spagna, nel 2015. Ho deciso di tenere solo quelli che mi piace ascoltare dividendoli in quattro distinte categorie: italo disco, disco funk, house e boogie disco. Non saprei però quantificare il denaro speso, ma non penso tantissimo visto il valore attuale. Dal 2002 ho iniziato ad acquistare blocchi di dischi abbastanza grossi e ciò mi ha aiutato sensibilmente ad ampliare la mia raccolta scoprendo titoli nuovi (Discogs non era quello di oggi e YouTube non esisteva ancora) pagandoli pochissimo, dai trenta ai cinquanta centesimi l’uno. Tenevo quelli che mi piacevano, gli altri li ho venduti su eBay e, in seguito, su Discogs.

2) uno dei dischi di Giordani (1985)
“Working Overtime” di Goldie Alexander (1985), uno dei dischi presenti nella collezione di Giordani

Dove è sistemata e come è organizzata?
Si trova in una stanza a casa di mia madre, ho preferito non spostarla mai da lì, ed è indicizzata per stile musicale, così come spiegavo prima, o raggruppando i dischi appartenenti alla medesima etichetta.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Tutti i miei dischi sono imbustati dopo un accurato lavaggio con acqua, dischetti di cotone e sapone neutro. Non effettuo lavaggi periodici perché non credo sia necessario.

Ti hanno mai rubato un disco?
Me ne rubarono ben venti in un colpo solo mentre stavo suonando. Se non ricordo male era il 1996 e mettevo i dischi nella sala piccola della sede estiva del Marabù di Reggio Emilia chiamata Tempietto, durante i venerdì sera del Goldie Privée organizzati da Les Folies De Pigalle. Avevo la valigia super pressata di dischi così ne tirai fuori una ventina poggiandoli davanti alla stessa per facilitare la consultazione. Ad un certo punto mi girai e mi accorsi che erano spariti. Sguinzagliai immediatamente gli amici ma non trovarono nulla. Ancora oggi non riesco a spiegarmi come abbiano fatto a fregarmeli sotto il naso. Tra quei dischi ce n’era uno a cui tenevo particolarmente e che ho ricomprato, per soli due dollari, ad aprile del 2019 in un negozio ad Orlando, in Florida, durante un tour negli States.

3) MAW - To Be In Love
“To Be In Love” di MAW Featuring India, il disco a cui Giordani tiene maggiormente

Qual è il disco a cui tieni di più?
“To Be In Love” di MAW Featuring India perché, oltre ad essere a mio avviso la canzone house/garage più bella di sempre, penai a livelli assurdi per trovarlo. Credo di averlo sentito per la prima volta su Italia Network e me ne innamorai all’istante ma in radio evidentemente avevano un promo o un acetato perché nei negozi non c’era. Un paio di mesi dopo mi trovai a suonare al citato Goldie Privée dove ero resident mentre nella main room c’era Mauro Ferrucci. Lui chiese di iniziare nel privée mentre aspettava il suo turno da guest nell’altra sala e mise sul piatto un test pressing. A quel punto partì “To Be In Love”, non ci potevo credere! Chiesi subito a Mauro dove lo avesse trovato e mi disse di averlo preso in licenza per la sua etichetta, la Airplane! Records, anche se oggi ritengo fosse più banalmente un’incisione bootleg, sia perché era la Radio Edit, sia perché su Discogs non vi è traccia di quella stampa. Poco tempo dopo Dino Angioletti mi rivelò in una chiacchierata che quel brano si trovava su un CD di musica latina di Tito Puente (“Jazzin'”, del 1996, nda), visto che India era la nipote. Sino a quel momento non avevo mai comprato un CD anche perché non sapevo come suonarlo in discoteca. Tuttavia andai in un negozio della mia città e lo ordinai e dopo qualche giorno arrivò. Chiesi quindi in prestito a mio zio il lettore CD che, il venerdì seguente, collegai al mixer del Marabù. Ad un certo punto della serata “switchai” su CD e feci partire “To Be In Love”, finalmente lo suonavo anche io! Quello è stato l’unico CD che ho comprato nella mia vita. Quando il brano uscì ufficialmente ne presi due copie e da quel momento, ogni volta che ne trovo uno usato, lo compro senza battere ciglio. Credo di averne almeno quindici versioni di cui cinque della prima stampa su MAW Records.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una somma di rilievo?
“Night Fly/Shake It On” di The Clean – Hands Group: se mi capitasse a tiro potrei fare una pazzia. Però non l’ho mai visto in vendita da nessuna parte, ormai inizio a nutrire seri dubbi sulla sua reale esistenza.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti senza remore?
Migliaia. Fino al 2000 ho acquistato solo dischi nuovi (a parte qualcosa legata a disco e funk scovata alle fiere) ed ogni sabato andavo al Disco Inn di Modena. Per giustificare il viaggio che, tra andata e ritorno da Parma, contava 120 chilometri, compravo in media almeno dieci dischi di cui tre veramente belli e sette semplici tracce da “zero a zero” che suonavo una volta e poi finivano nel dimenticatoio. Ho svenduto tutto quel materiale in blocco nel 2015.

Quello con la copertina più bella?
“Magical Shepherd” di Miroslav Vitous, un LP del 1976.

4) altri dischi di Giordani
Un’altra foto di Giordani coi suoi dischi

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica e DJing?
Come anticipavo prima, solitamente andavo al Disco Inn di Modena che, insieme al Discopiù di Rimini, deteneva la leadership tra i meglio forniti in Italia. Essendo frequentato da praticamente tutti i DJ più famosi dell’epoca, l’aria che si respirava all’interno, per uno sbarbato come me, era di profonda sudditanza nei riguardi di Fabio Carniel, il “padrone della baracca”. Pur spendendo un sacco di soldi raccattati qua e là tra serate da 50.000 lire, paghetta settimanale e qualche 10.000 lire elargita sottobanco da mia nonna (avevo solo diciassette anni!), non venivo trattato da cliente ma piuttosto da semplice ragazzino che voleva emergere al cospetto di mostri sacri come Coccoluto, Massimino o DJ di quel tipo che ti ritrovavi sempre di fianco ad ascoltare dischi, quei dischi che però a me non facevano vedere neanche col cannocchiale. Ogni volta che entravo lì provavo un misto tra adrenalina e tensione ansiogena. Un giorno Daniele Mad, il commesso del Disco Inn, salì dal magazzino con venti copie di un 12″ appena arrivato e le distribuì a tutti i DJ importanti presenti in negozio curandosi però che io non la ricevessi. Mi misi quindi ad ascoltare quelli che mi avevano dato quando un tizio che mi stava di fianco me lo passò perché a lui non piaceva. Lo comprai solo per la soddisfazione di portare a casa un 12″ che in quel momento avevano solo i top DJ. Quando andai a pagare alla cassa, a farmi il conto fu Fabio e credo che il totale si aggirasse intorno alle 200.000 lire, per me davvero un sacco di soldi all’epoca. Nel momento in cui vide quel disco lo alzò e disse testualmente: «Daniele, ma chi cazzo ha dato ‘sto disco a questo qua?».

Internet ha stravolto i vecchi equilibri favorendo la diffusione libera di informazioni ma anche della musica. Ritieni che la gratuità abbia minato e distrutto il valore che le vecchie generazioni attribuivano alla musica? Cosa implicherà ciò in prospettiva futura?
Credo che la tecnologia sia una cosa buona se usata nel modo giusto. Sicuramente internet ha facilitato non poco, sia le nuove generazioni che quelle più vecchie. Io stesso, grazie al web, ho scoperto migliaia di brani che non avrei mai potuto conoscere recandomi semplicemente nei negozi di dischi, vedi tutta la scena nigeriana ed africana degli anni Ottanta per esempio. D’altro canto questa iper informazione super veloce e gratuita porta molte persone a non apprezzare realmente ciò che ascolta e a fare molta confusione. Ritengo però che, per merito di internet, sia aumentata parecchio la vendita dei dischi in vinile. Tutto sommato non la vedo così negativa.

Le tavolette cerate degli antichi romani o i papiri egiziani sono giunti sino a noi perché oggetti fatti da atomi, ma la conservazione della memoria potrebbe risentirne qualora la digitalizzazione prendesse il sopravvento? Si dice che in un futuro non troppo lontano esisteranno biblioteche/discoteche composte solo da ebook o file musicali, la cui esistenza sarà strettamente legata ad un backup archiviato su qualche nuvola informatica. In tal senso, la “cultura liquida” costituisce un pericolo per la tramandabilità ai posteri?
Dagli anni Settanta ad oggi la musica underground di qualità viene ancora stampata in vinile, fortunatamente direi. Quindi, prendendo in considerazione certa musica, rimarrà sicuramente anche un archivio di tipo “solido”. L’archivio digitale invece, piazzato su un server, potrebbe essere eliminato interamente dalla storia con un colpo solo o meglio con un semplice click. L’archivio solido, a differenza, è sparso in tutto il mondo e quindi, a meno che non arrivi un meteorite che disintegri l’intero pianeta, non potrà mai sparire da un giorno all’altro. Ma laddove dovessimo trovarci a fronteggiare una situazione simile, la musica sarebbe davvero l’ultimo dei nostri problemi.

5) L'home studio di Giordani
Uno scorcio dell’home studio di Marcello Giordani: si vedono, tra gli altri, un Sequential Circuits Prophet 600, un Roland Juno-106, una Yamaha TQ5 ed una Yamaha RX11

Una delle tue prime produzioni discografiche risale al 1999, “The Raw Show” di Jordany, sulla Hole Subaltern di Ivan Iacobucci. Come ricordi quell’esperienza e quali ragioni ti spinsero a cimentarti nell’attività compositiva?
All’epoca già esisteva il profilo del DJ producer quindi per me fu un passo abbastanza naturale. Nel 1999 avevo ventitré anni e già suonavo in posti famosi come il Kinki, Les Folies De Pigalle o l’Echoes ed avevo acquisito una sorta di credibilità tipo “questo emergente è bravino”. Conobbi Iacobucci grazie a Dino Angioletti di cui sono amico stretto da venticinque anni e gli proposi un EP mandandogli un CD con su incisi ben ventotto demo. Ne scelse tre, “Electro Stiff”, “Fully Loop” e “Funk Bandit”, finiti per l’appunto in “The Raw Show”. All’inizio in studio ero piuttosto inconcludente, non mi piaceva mai quello che facevo quindi ero sempre restio a mandare demo in giro. Per questa ragione la mia vera carriera da producer la considero a partire dal 2007.

Nel corso degli anni hai progressivamente intensificato il numero di produzioni, sia in solitaria che con altri artisti, ma con una costante ossia quella della pubblicazione “fisica”. C’è un livello emozionale, o qualcosa simile, che per te continua a contraddistinguere le uscite su 12″ rispetto a quelle digitali?
Assolutamente. Per me un’uscita solo in digitale non vale nulla, sia per il motivo che ho spiegato sopra ma anche perché il digitale, visto il costo di produzione praticamente nullo, ha contribuito ad immettere sul mercato una quantità massiccia di musica che, se qualcuno avesse dovuto investirci del denaro (tra master, transfer, stampa, artwork, promozione etc) non sarebbe mai uscita. Oggi ci si sveglia la mattina, si inventa un’etichetta, si carica un EP con tre tracce e si contatta una delle innumerevoli agenzie di promo pool che con 200 € le spammeranno ovunque. Per questa ragione ho preferito cancellarmi da quasi tutte le mailing list. In conclusione: se esce un disco “fisico” vuol dire che il tuo prodotto ha un potenziale che merita un investimento.

In un’intervista che ti feci nel 2012 parlammo di quei personaggi che si definiscono DJ pur non avendo mai tenuto un disco in mano. Il futuro, anche in relazione al difficile momento causato dalla pandemia, sarà dei file jockey che magari si esibiranno via streaming in club virtuali? Se sarà effettivamente così, si potrà ancora parlare di clubbing e di DJing?
Penso che il DJ set in streaming sia una delle cose più annoianti che possano esistere. Il DJing non è e non deve essere, a mio avviso, uno show spettacolare. In passato il DJ rimaneva in alto, vedeva la pista da una prospettiva borderline, spesso la cabina era addirittura chiusa col vetro come al Cosmic. Ora invece basta andare su Twitch per imbattersi in personaggi che, proponendo musica di dubbio gusto, si inventano i format più disparati pur di attirare l’attenzione del pubblico. C’è la DJ tettona, il DJ mascherato, il DJ col gattino, quello che ha la cameretta che pare voglia fare concorrenza al laser show del Tomorrowland… Non discuto il fatto che la tecnologia abbia facilitato l’avvento di nuovi DJ ma non digerisco che venga snaturata completamente l’etica di questo mestiere da chi, sprovvisto di talento, sfrutti la facilità che adesso permette di “sembrare” un DJ e lo faccia solo per la voglia di apparire.

Scegli tre brani che meglio si abbinano a tre momenti particolari della tua carriera: gli inizi come DJ, l’avvio del blog Italo Deviance e l’affermazione internazionale come Marvin & Guy insieme ad Alessandro Parlatore.
Riguardo i miei esordi nei primi anni Novanta citerei ancora “To Be In Love” di MAW Featuring India, il disco che più mi ha fatto capire come la musica house, se fatta bene, non abbia davvero nulla in meno rispetto a qualsiasi altro genere pop. Poi, solo a pensare quando lo mettevo a venti anni, mi viene ancora la pelle d’oca. Del periodo Italo Deviance invece direi “Dirty Talk” di Klein & MBO, il brano che mi ha convinto che l’house music sia nata in Italia e che noi italiani non abbiamo nulla da invidiare agli americani o agli inglesi. Riguardo Marvin & Guy, infine, sono legatissimo a “Meet Me At TOPAZdeluxe” di Rebolledo: oltre ad essere un pezzo stupendo, è stato uno dei brani che più ci ha ispirati quando siamo passati dal suono puramente disco a quello più elettronico che chiamavamo “groovy techno”. Il titolo fa riferimento al Topaz, un club di Monterrey, in Messico, dove abbiamo tenuto due/tre gig. L’ultima volta che ci siamo stati lo abbiamo messo ed è stato veramente magico: quando uscì, nel 2011, non ci conosceva nessuno ma in quel momento eravamo lì come ospiti.

6) Giordani con Plastic Love di Zed (Fuzz Dance, 1983)
Marcello Giordani ed un altro cult della sua raccolta, “Plastic Love” di Zed (Fuzz Dance, 1983)

Il tuo blog Italo Deviance, connesso all’omonima etichetta discografica, ha offerto una miriade di gemme del passato. Perché ad un certo punto hai mollato?
Il blog nacque per puro caso nel 2008 quando mi misi a digitalizzare i miei vinili italo disco. Pensai che sarebbe stato divertente proporre le rarità della collezione e le versioni strumentali che praticamente erano introvabili in Rete. Nel giro di un annetto l’iniziativa ebbe un successo inaspettato seppur non mi avesse mai sfiorato l’idea di intraprendere una carriera in quella direzione. Quando iniziarono ad ingaggiarmi per mettere dischi in tutto il mondo capii che, involontariamente, avevo fatto centro. Nel 2011 cominciai ad organizzare un party a Parma chiamato Apartment con Alessandro e l’anno dopo decidemmo di lavorare insieme in studio. Le cose andarono piuttosto bene ma visto che il progetto Marvin & Guy necessitava di parecchie energie, ho dovuto sacrificare il tempo che prima dedicavo al blog. Il progetto si è arenato del tutto quando mi sono trasferito in Spagna, da quel momento mi era impossibile reperire nuovo materiale da inserire.

Conti di incidere un nuovo album, dopo “Respect Yourself” del 2013 ed “Orizzonti” del 2018?
Lo ho completato giusto un mesetto fa: conterrà dodici tracce, si intitolerà “Advanced Process” ed uscirà a settembre su un doppio 12″ sempre su Slow Motion Records.

Nell’intervista del 2012 prima citata parlammo anche dell’immobilismo musicale italiano. «Il nostro Paese non è mai riuscito a farsi rispettare, non solo in ambito musicale» affermasti. Aggiungendo però che «la nuova generazione di DJ e produttori italiani si sta coalizzando, e invece di farsi la guerra come succedeva negli anni Ottanta, si supporta a vicenda. Ciò ha cambiato la percezione di chi vive all’estero, e i risultati si vedono». A quasi dieci anni di distanza, la situazione si è evoluta ulteriormente, nel bene o nel male? Cosa prevedi per il futuro, soprattutto dopo la fine dell’incubo covid-19?
Come stiamo assistendo in questi mesi, il popolo italiano è diviso più che mai su tutto e la scena musicale non fa eccezione. C’è comunque un progetto molto forte, ancora in fase di sviluppo, che punta a creare una scena italiana potente e compatta a livello mondiale, ma per ora non posso dire di più. Riguardo il mondo dei club post covid non saprei, a me stanno arrivando parecchie offerte ma è tutto talmente incerto che faccio fatica solo a tenerle in considerazione. Il sogno è quello di tornare liberi prima possibile ma non vorrei illudermi troppo.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegando le ragioni.

Nu Colours - DesireNu Colours – Desire
Penso che questo sia stato il disco, dopo “To Be In Love” di MAW Featuring India, ad avermi fatto penare di più. Era il periodo in cui frequentavo assiduamente (spesso suonando all’apertura) i più famosi club di Bologna e Riccione. Il posto che prediligevo su tutti era il New York Bar, il primo after tea italiano che partiva alle cinque del pomeriggio e si concludeva a mezzanotte, in cui il DJ resident superstar era Ivan Iacobucci. Durante la seconda stagione Ivan iniziò a proporre “Desire” attraverso un acetato e il pezzo divenne immediatamente l’inno di quel club a San Luca. Ogni settimana andavo a Modena al Disco Inn chiedendo se fosse uscito ma dovetti armarmi di pazienza ed aspettare la stampa italiana (su licenza Impulse del gruppo Media Records, nda) che arrivò quasi un anno dopo. Senza possedere il disco non potevo neanche ascoltarlo ed era davvero tragico per me. Una sera uscii con un amico e tornando a casa, verso le tre del mattino, mi addormentai in macchina. Mi svegliai sulle note della Full Chorus London dei Masters At Work e in quel momento credetti di sognare ma invece era tutto vero, il mio amico stava ascoltando una cassetta di Ralf del programma mixato su Radio DeeJay, Zerodue, registrato qualche giorno prima. Doppiai quel nastro ascoltandolo in loop per mesi fino al giorno dell’uscita ufficiale del disco. Adesso credo di possedere tutte le stampe esistenti compreso il test pressing.

Wanexa - The Man From ColoursWanexa – The Man From Colours
Per tutti i cultori dell’italo disco ritengo sia il most wanted per eccellenza. Oltre ad essere molto raro però “The Man From Colours” a mio parere rappresenta, attraverso arrangiamento e voce, il suono più puro degli albori dell’italo. Curiosamente a dispetto del prezzo ormai altissimo della stampa originale su Discomagic risalente al 1982, il disco suona veramente male. Una volta ne parlai con gli autori, Franco Rago e Gigi Farina che conosco molto bene, e mi dissero, ridendo, che venne registrato attraverso una comune piastra per cassette per giunta malfunzionante e che perdeva i giri. L’ho mancato un paio di volte nei mercatini dell’usato ma finalmente, dopo sedici anni, l’ho trovato in un blocco di dischi comprati su eBay pagandolo appena due euro. Così come si dice nel gergo di noi collezionisti, “prima o poi i dischi arrivano”. Keep on diggin’!

Caroline Crawford - My Name Is CarolineCaroline Crawford – My Name Is Caroline
Intorno al 1998 trovai un disco con un brano per lato ed etichetta verde senza scritte. Capii subito che si trattava di un bootleg stampato ai tempi della musica afro funky degli anni Ottanta ma riuscii a scoprire solo il titolo di una traccia, “J’Ouvert” di John Gibbs With The Jam Band, l’altra invece rimase avvolta nel mistero. Anni dopo presi, per puro caso, “My Name Is Caroline” di Caroline Crawford, corista di Hamilton Bohannon: una delle canzoni incluse nell’LP, “Riding On Your Love”, era proprio la seconda traccia di quel bootleg! Ps: per identificare brani ignoti, quando non esistevano ancora YouTube, Spotify, Discogs e tantomeno Shazam, andavo alle fiere del disco con walkman e cassette di Larry Levan e Ron Hardy facendo sentire i pezzi a cui ero interessato ad un venditore specializzato in discomusic in modo da acquistare, qualora fossero stati disponibili, i dischi in questione.

Kashif - KashifKashif – Kashif
C’è poco da dire qui, Kashif è e rimarrà per sempre il mio artista preferito. Il suo è un suono unico, con groove ed arrangiamenti impeccabili, sexy, funk, con inserti di sintetizzatore e voce angelica. Insomma, non ha rivali. Questo album del 1983 edito dalla Arista è il suo primo disco inciso da solista dopo aver lasciato i B.T. Express ed entra a pieno titolo nella mia personale top 5 di tutta la vita.

Giorgio Farina - DiscocrossGiorgio Farina – Discocross
Dal 1995 frequento il negozio di dischi Planet Music di Reggio Emilia, lì dove ho trovato parecchie chicche in occasione di “missioni” dalla durata esagerata (talvolta anche quattro ore!) svolte in un magazzino che conteneva 30.000 dischi. Un giorno mi misi ad ascoltare materiale appena arrivato e tra i tanti c’era un promo della RCA Italiana intitolato “Discocross”. All’epoca il mio gusto non era ancora molto formato a livello di discomusic, per me esisteva solo quella americana tipo Salsoul Records, West End, T.K. Disco etc. Lo ascoltai e fui subito attratto dal basso della traccia “Tawawa’s” ma essendo un disco italiano nutrivo parecchi pregiudizi a riguardo e non lo comprai seppur costasse appena cinquemila lire. Quella notte, a casa, continuava a frullarmi in testa così il giorno dopo tornai apposta a Reggio Emilia per riascoltarlo ma lo lasciai nuovamente lì. Qualche giorno dopo mi decisi dicendo, tra me e me, «vado e lo compro». Ovviamente non c’era più. Lo ritrovai diversi anni più tardi ed adesso è uno dei miei album preferiti di disco italiana.

Gwen Guthrie - PadlockGwen Guthrie – Padlock
Penso sia uno dei migliori mini album della scena post disco, uscito nel 1983 sulla Garage Records e mixato da Larry Levan. Contiene sette brani, uno letteralmente più bello dell’altro. Non ho aneddoti in particolare ma so per certo che non potrei farne a meno.

May Ervin - What Is ItMay Ervin – What Is It
Nel 2001 iniziai a seguire uno dei primi blog legati alla divulgazione di musica dance underground, www.danceclassics.net. Non esistevano ancora piattaforme attraverso cui scoprire nuova musica (l’alternativa era ascoltare i dischi, se li trovavi ovviamente), quindi affidarsi ai guru che pubblicavano brani assolutamente sconosciuti anche ai digger più incalliti era praticamente la scelta migliore. Quel tipo di blog, più avanti, ispirò pure il mio Italo Deviance. Danceclassics era orientato alla musica boogie disco anni Ottanta: non permetteva di scaricare file MP3 ma metteva a disposizione clip della durata di un minuto. Facendo tesoro di quell’ascolto si poteva andare su eBay, GEMM o MusicStack, tutti precursori di Discogs, e comprare il disco. A patto di trovarlo e di avere denaro a sufficienza ovviamente, visto che la maggior parte di quei titoli erano incisi su 12″ estremamente rari e spesso editi su private pressing prodotti da band di quartiere in quantità limitatissime. Tra le tante scoperte fatte su quel portale c’è “What Is It” di May Ervin, pubblicato anche col nome Maye Ervin e lo stesso brano in versione Dance Mix. Il bassline è incredibile, sicuramente fu suonato da un tastierista jazz perché è un virtuosismo che dura sei minuti, da pelle d’oca. La voce e l’arrangiamento super deep rendono questo pezzo un mix tra boogie disco e proto house music. Un brano difficile ma se ti conquista non smetti più di ascoltarlo, così come è successo a me.

Fascination - Shine My LoveFascination – Shine My Love
“Shine My Love” è un altro di quei dischi che ho posseduto parecchie volte sottostimandolo nettamente. L’ho venduto, scambiato, regalato…Mi è ricapitato tra le mani giusto qualche mese fa e lo ho riascoltato con attenzione rendendomi conto di come a volte essere prevenuti possa giocare nettamente a sfavore della scoperta compromettendo alcune esperienze. Sono un fan di Mauro Malavasi e di tutte le sue produzioni a partire dai Change e questo pezzo sembra recare proprio la sua firma. In realtà a scriverlo, nel 1984, furono David Sion ed Elvio Moratto, proprio quel Moratto che esplose con la techno commerciale negli anni Novanta.

Paul Russaw - Thoughts Of YouPaul Russaw – Thoughts Of You
Tra il 1995 e il 1996 la musica che andava di più nei club house in Italia era la garage ed io, ovviamente, suonavo quella. Essendo uno “sbarbo”, come ho raccontato prima molti dischi non me li facevano neanche vedere nei negozi ma tante cose me le perdevo anche perché non avevo abbastanza soldi per comprarle. Tre anni fa ho iniziato a fare incetta su Discogs di tutti i dischi di garage house americana, facilitato dal motore di ricerca del sito che permette di passare al setaccio le pubblicazioni in maniera capillare. Adesso posso vantare di possedere tutti i dischi che mi piacciono di quel genere, pagati veramente poco, ma anche di aver scoperto nel frattempo cose incredibili tra cui questo disco di Paul Russaw. Uscì in due versioni su Kult Records ma a colpirmi direttamente al cuore è quella che contiene la H. Squared Mix. Una voce incredibile abbinata ad un arrangiamento semplice ed ipnotico. Compratelo se siete amanti del genere.

Powerline - Watching YouPowerline – Watching You
Ad un certo punto, dopo anni ed anni di ricerche anche online, mi convinsi che questo disco non esistesse e che fosse solo una leggenda, ma poi, quando l’ho visto in vendita su Discogs ad un prezzo altissimo, mi sono dovuto ricredere. Tenuto in wantlist per un biennio circa, la pazzia l’ha fatta la mia fidanzata durante la cena del mio compleanno nel 2020: eravamo entrambi ubriachi e mi disse: «dai, questo te lo regalo io!».

(Giosuè Impellizzeri)

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Simon Dunmore – DJ chart dicembre 1995

Simon Dunmore, DiscoiD, dicembre 1995


DJ: Simon Dunmore
Fonte: DiscoiD
Data: dicembre 1995

1) Future Force – What You Want
È il brano con cui il DJ di Chicago Mark Picchiotti inaugura l’alter ego Future Force. La sua versione, la Mark!’s Massive Vocal, rilegge la formula garage attraverso suoni più compatti e di derivazione elettronica, su tutti quelli che a metà stesura circa creano una pozza quasi acida. Diversi i remixer coinvolti, da Richie Jones dei Degrees Of Motion, che opta per una visione più solare con grandi estensioni pianistiche in evidenza, ai Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza) che non si allontanano dai lidi deep/garage newyorkesi, sino agli italiani Kamasutra (Alex Neri e Marco Baroni) che con la loro Funky Express donano al tutto un gusto più deliziosamente funky. A pubblicare il disco è la AM:PM, nata dalle ceneri della A&M PM e guidata proprio da Simon Dunmore.

2) Kathy Brown – I Appreciate
Pare che il brano originale sia stato cantato dalla compianta Ceybil Jefferies per un album ma all’Atlantic non sono del tutto convinti e preferiscono accantonarlo. Qualche tempo dopo il produttore David Shaw decide di riesumarlo per ricavarne una nuova versione interpretata da Kathy Brown e remixata da un Benji Candelario in smagliante forma. A venirne fuori è un anthem garage a cui i fratelli Aldo ed Amado Marin non resistono e pubblicano sulla loro Cutting Records che nei primi anni Novanta vive una seconda giovinezza dopo i gloriosi trascorsi in epoca electrofunk con Hashim, Imperial Brothers e Nitro Deluxe.

3) Alcatraz – Giv Me Luv
Il brano, l’unico che Jean-Phillippe Aviance e Victor Imbres realizzano come Alcatraz, esce sulla Yoshitoshi Recordings dei Deep Dish ed è un trascinante tool sapientemente costruito sul loop ed almeno un paio di campionamenti (“Dancing In The Dark” di Mike Mareen e “The Bomb! (These Sounds Fall Into My Mind)” di Bucketheads). Trainato da un videoclip promozionale, nell’arco di pochi mesi diventa un must tra i DJ specializzati e riappare attraverso diversi remix contando su una distribuzione mondiale più capillare resa possibile dall’intervento di diverse etichette licenziatarie tra cui la AM:PM. Ad aggiudicarsi i diritti per la ripubblicazione in Italia invece è la Impulse del gruppo Media Records.

4) DJ Disciple – 10 Steps To Heaven
Reduce dal successo ottenuto l’anno prima con “On The Dancefloor”, il newyorkese David Banks noto come DJ Disciple incide questo disco per la Narcotic dell’amico Roger Sanchez e Marts Andrups, quest’ultimo prematuramente scomparso nel 1995. La title track marcia verso il paradiso su una scalinata di pronunciati rullanti, un sinuoso bassline ed una cortina di suoni ambientali, “Give Me The Love” e “Stay Together” virano verso la vocalità e “So Deep In His Hands” chiude un po’ come l’ascesa era cominciata, con l’intreccio tra percussioni ed un basso tondeggiante sullo sfondo di panorami edenici.

5) DJ Sneak – In Da Clouds
Il pezzo scelto da Dunmore è contenuto nel primo volume di “Sneak Essentials” pubblicato dalla Strictly Rhythm. L’idea nasce dal campionamento di “Clouds” di Chaka Khan, un brano risalente al 1980 scritto da Nickolas Ashford e Valerie Simpson. Con l’indiscussa maestria che da sempre lo contraddistingue, Sneak isola il sample ricostruendo intorno ad esso uno scenario completamente diverso da quello di partenza, fatto da tessere house e funk/disco sbilenche giocate abilmente in un metti e togli che non lascia un attimo di tregua. Tre le versioni, simili per impostazione, dalle quali svetta la Da New And Improved Mix. Un altro di quei pezzi da far ascoltare a chi attribuisce ancora la paternità della disco house ai soli francesi che emersero a fine decennio col cosiddetto French Touch.

6) Luther Vandross And Janet Jackson – The Best Things In Life Are Free
A produrre il brano, uscito nel 1992 e scelto per la colonna sonora del film “Mo’ Money”, sono Jimmy Jam e Terry Lewis, ma è legittimo ipotizzare che Dunmore, seppur non esplicitato nella chart, facesse riferimento ai remix pubblicati nel ’95 su AM:PM e firmati da K-Klass, MK, CJ Mackintosh e Roger Sanchez. Quest’ultimo realizza diverse versioni, tra cui l’indovinata Nasty Dub, che finiscono su un doppio promo particolarmente ambito ai tempi.

7) Daphne – I Found It
Ex cantante dei Pajama Party, corista per David Bowie, Jazzy Jeff & The Fresh Prince e Marcus Miller e particolarmente nota nell’ambiente dei musical di Broadway (è lei ad interpretare Mimi Márquez in “Rent”), Daphne Rubin-Vega si è distinta, per un breve periodo, anche nel circuito della house music. A supportarla nell’avventura è la Maxi Records, etichetta newyorkese di Claudia Cuseta che, è bene ricordarlo, nei primi anni di attività pubblica “Angels Of Love” di Cocodance (Claudio Coccoluto e Vincenzo Rispo). “I Found It”, prodotto da David Anthony, è un pezzo garage che mette in risalto la voce dell’attrice/cantante/ballerina di origini panamensi, opportunamente collocata in numerose versioni approntate per il doppio mix e il CD singolo tra cui anche una manciata di remix ritmicamente più aggressivi di Jean-Phillippe Aviance alias XS. “I Found It” chiude la trilogia di Daphne dopo “When You Love Someone” del ’93, prodotto da Danny Tenaglia e recentemente ristampato dall’italiana Groovin Recordings, e “Change” del ’94, curato ancora da Tenaglia e rimasto il più fortunato anche grazie al supporto nel vecchio continente dove, peraltro, viene remixato da Brothers In Rhythm, Jimmy Gomez (uno dei futuri Freemasons) e dai nostri Gianni Bini e Fulvio Perniola alias Fathers Of Sound.

8) Brooklyn Friends – Philadelphia
Un disco che shakera, come in un cocktail, venature jazzy e vibe tribaleggianti: si può sinteticamente descrivere così “Philadelphia”, una discreta club hit edita dalla Nite Grooves di New York guidata da Hisa Ishioka. Satoshi Tomiie, Terry Burrus e Peter Daou si occupano delle tastiere, il flauto e il sassofono sono di Paul Shapiro mentre le percussioni di Steve Thornton. A dirigere la jam session un direttore d’orchestra d’eccezione, David Morales, che dà il meglio di sé negli oltre tredici minuti afrodisiaci della D. M. Experience. A pubblicarlo da noi è la Reform del gruppo Discomagic di Severo Lombardoni.

9) Love Tribe – Stand Up
Nata sul campionamento di “There But For The Grace Of God Go I” dei Machine, già ripreso nel ’92 in “Hear The Music” che Todd Terry firma Gypsymen, “Stand Up” è un’altra hit messa a segno negli anni Novanta dalla AM:PM. Artefice del brano, un fibrillante distillato tra disco, house e funk, è Dewey Bullock, meglio noto come Dewey B. e cugino di E-Smoove, ma determinanti risultano i remix di Wildchild e Roger Sanchez (la Narcotic Mix di quest’ultimo è la più convincente) a cui se ne aggiungono progressivamente altri come quello dei sopraccitati Alcatraz, degli Sharp, dei R.I.P. e di Bobby D’Ambrosio. “Stand Up” verrà riconfezionato nel 2001 dai canadesi Thunderpuss in una nuova versione, l’ennesima, cantata da Latanza Waters, moglie di E-Smoove.

10) Wall Of Sound – Run To Me
Estratto dall’album “Storybook”, l’unico che John Ciafone e Lem Springsteen firmano con lo pseudonimo Wall Of Sound, “Run To Me” è un piacevole pezzo ai confini col soul e l’r&b da cui si leva l’intensa voce di Gerald Latham. A caratterizzare il singolo sono però le due versioni di Maurice Joshua: la Club Vibe Mix è stilosa garage nel suo essere più puro mentre la Hard Wildrun Mix contrae i blocchi ritmici e spinge verso costrutti dub. Oltre alla Album Version, sul 12″ c’è spazio pure per un terzo remix a cura UBQ Project, una sorta di summa tra l’original e il lavoro di Joshua con l’aggiunta di una buona dose di lead a completamento. Pubblicato dalla Eightball Records, “Run To Me” è l’ultimo brano che Ciafone e Springsteen destinano al progetto Wall Of Sound, preferendo poi convogliare le energie nel loro act principale, Mood II Swing.

(Giosuè Impellizzeri)

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R.O.D. – Heaven Or Hell (Muzic Without Control Records)

C’è stato un periodo, indicativamente tra l’autunno del 1994 e il primo semestre del 1996, in cui un’ampia frangia della dance music nostrana vive una netta accelerazione ritmica. Probabilmente innescata dalle produzioni tedesche tipo Marusha, Dune, Bass Bumpers, Perplexer, Mark ‘Oh, General Base, Scooter o Jam & Spoon che vendono centinaia di migliaia di copie e finiscono in compilation altrettanto fortunate supportate pure dalle multinazionali (come “Dance Nation”), quella che sembra una parentesi momentanea finisce col diventare una tendenza piuttosto consolidata. Tra i primi ad aderire a questo fenomeno c’è Digital Boy con “The Mountain Of King” il cui successo forse convince altri connazionali a cimentarsi in un nuovo tipo di eurodance dopata, steroidizzata e lanciata a velocità folli. Da Z100 ai Club House, da Exit Way a Molella, da Moratto a Giorgio Prezioso passando per Da Blitz, Ramirez, Bliss Team, Kina, Mato Grosso, JT Company ed altri ancora. Insomma, il gotha dell’italodance di allora si butta a capofitto in un’autentica scorribanda di bpm farcita da elementi desunti dalla hard trance mitteleuropea ai confini con la happy hardcore di paternità olandese. In questo contesto si inserisce perfettamente R.O.D. che debutta nei primi mesi del 1995 con “Heaven Or Hell”.

Dietro le quinte del progetto opera un team di giovani produttori lombardi tra cui Fabio Giraldo che, contattato per l’occasione, racconta: «In quel periodo ascoltavo parecchia hard trance tedesca e, in compagnia dell’amico Max Cassan, iniziai a buttare giù una traccia in quello stile che poi divenne “Heaven Or Hell”. Realizzammo il demo nella sala b del JTC Recording Studio, praticamente un corridoio vista la sua forma stretta e lunga. La voce era di Rodney Freake, giunto in studio grazie al compianto Greg Girigorie, ai tempi vocalist di JT Company, che propose a Vannelli di produrlo». A pubblicare il disco è proprio Joe T. Vannelli che lo convoglia su una delle sublabel del suo gruppo discografico, la Muzic Without Control Records. La versione più nota, la Heaven Mix, attinge spunti dalla hard trance e dalla happy hardcore analogamente alla Hot & Wet mentre la Hell Mix spinge in direzione makina. C’è pure una quarta interpretazione, la Jungle R.O.D. che, come anticipa il titolo stesso, prende le mosse dalle sincopi della jungle. «A noi piaceva parecchio sperimentare per non stazionare banalmente su una formula e a testimonianza di ciò ci sono le versioni così diverse tra loro» prosegue Giraldo. «La Jungle R.O.D., ad esempio, derivava dalla curiosità per il mondo della jungle che in quel periodo stava partendo dalla Gran Bretagna contagiando pure l’Italia. “Heaven Or Hell” fu realizzato con un mixer Mackie 8 Bus a 24 piste, un computer Atari 1040 ST abbinato al sequencer Notator Logic, campionatori Roland S-750 ed S-770, sintetizzatori Roland Juno-106, Roland JX-3P, Yamaha TX81Z, un multieffetto Alesis Midiverb III, drum machine Alesis D4, monitor Yamaha NS10 ed Electro Voice Sentry 500, un (immancabile) giradischi Technics SL-1210 e, per finire, un registratore DAT Tascam DA-P1. Completammo tutte le versioni in una quindicina di giorni circa. In studio ci eravamo divisi i ruoli: Max Cassan era il musicista e curava arrangiamenti e composizione, Fausto Intrieri era il fonico mentre io mi occupavo della direzione musicale e delle sonorità da seguire. Ovviamente tutti potevano dare suggerimenti ed opinioni anche nei campi di competenza altrui in modo da avere uno scambio completo. Non seguivamo però un modus operandi preciso nella fase compositiva, tante cose germogliavano dall’improvvisazione e da ispirazioni estemporanee. Ad “Heaven Or Hell” è legato un aneddoto tecnico che oggi ricordo col sorriso: per passare la traccia sul DAT dovemmo fare più tentativi perché il MIDI saltava, il bus dell’Atari era sovraccarico».

Le copertine dei successivi 12″ di R.O.D. usciti tra 1995 e 1996

In Italia il pezzo si muove piuttosto bene, complice il supporto di Albertino che lo spinge nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade (dove rimane per circa due mesi, dal 25 febbraio al 15 aprile) e lo sceglie per la compilation “Alba Volume 1”. «R.O.D. entrò nella “Alba Volume 1” proprio all’ultimo momento» rammenta ancora Giraldo. «La traccia non era ancora finita ma Vannelli andò in radio con una cassetta con su inciso il rough mix ottenendo subito l’approvazione da Albertino. A quel punto Joe tornò in studio comunicandoci che “Heaven Or Hell” sarebbe stato inserito in quella compilation. Rimanemmo piacevolmente sorpresi e felici e ci demmo subito da fare per finalizzare la traccia. Credo che in Italia il disco abbia venduto circa ventimila copie ma fu pubblicato anche in Germania dalla Urban, ai tempi etichetta del gruppo Motor Music GmbH, e quella per noi fu decisamente una bella soddisfazione». Il follow-up, “Free Your Soul”, esce a ridosso dell’estate ma rispetto al primo punta sul formato canzone con un falsetto in stile “Smalltown Boy”. Nel ’96 invece “Flight 777” riprende il discorso lasciato in sospeso da “Heaven Or Hell”, con forti attinenze hard trance corroborate da svirgolate acid, ma i tempi dell’eurodance velocizzata ormai sono quasi al capolinea e a posteriori quella particolarità ritmica così evidente giocherà persino a svantaggio. Il movimento revivalista infatti fatica non poco a riproporre il filone “speedy”, oggi poco adatto sia alle discoteche che alle selezioni radiofoniche. «Se non ricordo male, puntammo su un follow-up completamente diverso da “Heaven Or Hell” su espressa richiesta di Rodney Freake, desideroso di interfacciarsi con un brano con dosi maggiori di cantato» dichiara Giraldo. «Lo accontentammo ma purtroppo senza riscuotere gli stessi risultati. “Flight 777” invece, nettamente più vicino allo stile di “Heaven Or Hell”, lo realizzammo nell’Underfloor Studio a Misinto, in Brianza, di proprietà di Carlo Fath (il futuro Io, Carlo di “L’Ego” e “Figlio Dei Manga”, nda) che collaborò con noi coproducendolo. Di quel brano ricordo l’errore ortografico in copertina: “flight” fu erroneamente riportato come “flyght”». Proprio con “Flight 777” si chiude la trilogia di R.O.D., seppur Freake incida l’houseggiante “Rise Up” per la Dream Beat sotto la produzione vannelliana. «”Rise Up” nacque come primo singolo solista di Rodney Freake e venne realizzato da Joe T. Vannelli e Max Cassan» chiarisce Giraldo. «La mia collaborazione con Vannelli invece si interruppe nel 1996, anno in cui iniziai un percorso musicale da indipendente».

Polyphonic e Byte Beaters, altri dischi a cui partecipa Giraldo nel 1996

Per Giraldo il periodo è particolarmente ricco di produzioni più e meno note legate al movimento makina/happy hardcore e progressive trance: da “Always On My Mind” di Pink Noize, cover dell’omonimo dei Pet Shop Boys, ad “Ivory” di Romantics, da “The Hammer” di Hammerhead a “Try” di Glissando, da “Optical EP” di Identification Two ad “I Wait For You (Movin’ On Baby)” di Screen passando per “Mamy” di Polyphonic e il remix di “A Song To Be Sung” dei Byte Beaters, queste ultime due promosse Disco Makina da Molella nella stagione più fortunata del suo Molly 4 DeeJay di cui parliamo nel dettaglio qui. «Innegabilmente furono annate piene di idee» afferma l’artista. «Ricordo con piacere la voglia di fare di tutte le persone coinvolte nei vari di team di produzione, le notti trascorse in studio da dove uscivamo per andare a fare colazione prima di recuperare le ore di sonno perse, o quando ci trattenevamo sino a tardi ed andavamo a cena, sempre tutti insieme. Un simpatico aneddoto di quel periodo riguarda “Always On My Mind” di Pink Noize, cantato da Max Cassan con la voce pitchata (analogamente a quanto fanno i Sensoria in “Dream Of You” di Venusia, come raccontato qui, nda). Dovevamo consegnare il master per la stampa ma riascoltandolo ci accorgemmo che la seconda strofa aveva lo stesso testo della precedente. In soccorso venne il sistema Atari Falcon030 che permetteva la gestione di due o quattro canali audio e in quella maniera riuscimmo a posizionare la seconda strofa col testo corretto a tempo di record. Per l’occasione però prosciugammo la grande scorta di lattine di aranciata che Carlo Fath aveva nel suo frigorifero.

Ripensare al passato mi fa tornare in mente pure la mia prima produzione in assoluto, “Extroscopic” di D.A.T.A., pubblicata nel 1993 dalla Out di Severo Lombardoni. La realizzai insieme a Max Cassan e Leo Mazza partendo da un’idea di Maurizio Guglielmelli che aveva un piccolo studio vicino casa mia. Gli strumenti a nostra disposizione erano pochissimi: un campionatore Ensoniq EPS-16+ con pochissima RAM (credo appena 2 MB!), un computer Atari 1040 ST, un mixer Yamaha MC 1202, una drum machine Roland R-8, un multieffetto Alesis Midiverb III, un Roland Juno-60, un Roland JD-800 ed una coppia di monitor Yamaha NS10. Ai tempi per costruire un brano si partiva da un’idea rappresentata solitamente da un giro armonico o da un sample carpito da qualche disco. Per arrivare alla pubblicazione le strade percorribili erano due: o conoscevi qualcuno nel settore discografico indipendente disposto a darti retta oppure dovevi recarti personalmente nella sede di qualche etichetta, previo appuntamento telefonico, per far ascoltare i brani all’A&R di turno. Nel nostro caso ci interfacciammo con Nando Vannelli, uno degli A&R della Discomagic. Fu lui a decidere di pubblicare il brano e francamente non so neanche se Severo Lombardoni lo abbia mai ascoltato. Poi nell’autunno del ’93 sapemmo, grazie ad una dritta di Filippo Carmeni alias Phil Jay/Z100, che Joe T. Vannelli era in cerca di produttori. Realizzai subito, con Max Cassan, alcuni demo che un sabato pomeriggio portammo personalmente nel suo studio. Quando entrammo stava lavorando al remix di “All About Love” di Analogue City e rimanemmo impressionati da ciò che si presentò ai nostri occhi, in particolare un bellissimo mixer Amek 2500 che avrebbe lasciato estasiato chiunque operava in quel settore ma in modo particolare chi, come noi, era abituato a lavorare con pochissimi strumenti e di un’altra categoria. Dopo aver ascoltato i demo, Joe ci disse che a partire dal 3 gennaio 1994 avremmo iniziato a lavorare nei suoi studi e da lì a breve, infatti, sulla neonata DBX uscirono “Give It Alone” di X Tracks e “Choir Boys” di Black Bulldog. Con Max e Fausto c’era una forte intesa e l’unico rimpianto che mi porto dietro è non aver continuato a lavorare con quel team composto da persone eccezionali con cui, comunque, mi sento ancora regolarmente. In studio c’era un’atmosfera magica e sono certo che avremmo potuto realizzare molto di più di quello che abbiamo fatto» conclude Giraldo. (Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Massimo Berardi

Una panoramica su parte della collezione di dischi di Massimo Berardi. La foto è di Ivan Vonchesterfield, autore anche delle seguenti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo un 45 giri di Lucio Battisti. La mia prima passione, negli anni adolescenziali, è stata la musica italiana e le canzoni d’amore, complici il mangiadischi, le festicciole tra gli amici e i balli lenti. Spesso il sabato pomeriggio ci riunivamo nel garage della nostra amica del cuore, Daniela, visto che il suo papà lavorava nel mondo del cinema e portava a casa una marea di 45 giri tra cui c’era di tutto, dal pop al rock passando per la disco, il funky e la musica italiana. Ne ricordo uno in particolare che ben fotografa quel periodo spensierato, “Rock The Boat” di The Hues Corporation, uno dei primi 7″ disco che mi sia passato tra le mani. Ad attirarmi, oltre alla musica leggera, erano le colonne sonore dei film, in particolar modo quelle delle serie di fantascienza tipo “A Come Andromeda” di Mario Migliardi, “UFO” e “Spazio 1999” di Gerry Anderson, “Gamma” del Maestro Enrico Simonetti e tanti altri capolavori di cui si riesce a capirne il valore solo oggi. Il primo album che ho comprato invece è stato “Foxtrot” dei Genesis, uno dei gruppi che ho apprezzato di più insieme ai Pink Floyd. Il mio preferito però resta “Selling England By The Pound” che ascoltavo sul mio primo fantasmagorico giradischi, uno Stereorama 2000 De Luxe della Reader’s Digest, un modello compatto degli anni Settanta particolarmente di moda in quel periodo. Ho seguito molto anche i gruppi italiani come la Premiata Forneria Marconi o Il Banco del Mutuo Soccorso che a mio parere non avevano davvero nulla da invidiare a quelli esteri, anzi. Ho sempre pensato che la mia generazione sia stata davvero fortunata a vivere un periodo musicalmente tanto ricco.

L’ultimo invece?
Uno degli ultimi acquisti, sul fronte dell’usato, è stato “Just Can’t Help Myself (I Really Love You)” di Common Sense, un 12″ del 1980 discretamente quotato ed edito dalla BC Records di Began Cekic, fondatore dei Brooklyn Express. Continuo ovviamente a comprare anche molti dischi nuovi.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Dopo un calcolo approssimativo, credo fra i 7000 e gli 8000, tra LP e 12″. Ho anche 500/600 CD, un supporto che continua a piacermi molto specialmente per le compilation rare grooves in cui a volte ci si può imbattere in versioni differenti da quelle incise su vinile. Possiedo inoltre una discreta quantità di 7″, circa 400, supporto che adoro. Da qualche anno a questa parte ho cominciato a vendere tutti quei dischi di cui sento di poter fare a meno, le doppie copie (tantissime) e quelli degli anni a cui sono musicalmente meno legato. Sinora penso di aver venduto dai 3000 ai 4000 dischi.

Riusciresti a quantificare il denaro speso?
No, ma non ho alcun rimpianto e rifarei davvero tutto.

Una foto che testimonia l’ordine nella collezione di Berardi

Come è organizzata?
Pur non essendo particolarmente fiscale, l’ordine mi piace ma pulire, catalogare e sistemare i dischi, quando sono tanti, diventa un vero e proprio lavoro. Per quanto riguarda i mix funky e disco, ho optato per un ordine in base alle etichette storiche (T.K. Disco, Prelude Records, Salsoul Records etc). Le label minori invece sono organizzate per generi ed annate. House e techno infine sono incasellate per anni mentre gli album per genere.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Utilizzo le classiche foderine plastificate per proteggere le copertine dall’usura. Man mano che catalogo i dischi, li pulisco con un panno morbido ed un liquido apposito. Quelli più sporchi invece li porto da un amico che possiede la macchina lavadischi e li fa tornare come nuovi.

Ti hanno mai rubato un disco?
Sì, una volta hanno trafugato un’intera valigia dal bagagliaio della macchina. Fortunatamente non erano dischi particolarmente difficili da ritrovare ma non fu possibile placare la rabbia nel momento in cui me ne accorsi.

“Woman” di John Forde, tra i dischi a cui Berardi è più affezionato

Qual è il disco a cui tieni di più?
Tutti hanno lo stesso valore e fanno parte del percorso di vita. Alcuni rappresentano istantanee che mi ricordano momenti più o meno belli, altri invece compagnie, luoghi, discoteche… Forse quelli che mi emozionano di più sono i pezzi che ascoltavo nelle cassette registrate nella Baia Degli Angeli, un luogo di culto per i DJ della mia età e di cui ero letteralmente affascinato quando non ero ancora un professionista. Uno su tutti “Don’t You Know Who Did It” di John Forde, che continua a darmi le stesse emozioni di quando lo ascoltai per la prima volta, e a seguire “Africano” di Timmy Thomas, “Love For The Sake Of Love” di Claudja Barry, “Moon-Boots” degli O.R.S. e “Sneakers (Fifty-Four)” dei Sea Level, insomma, tutto quel filone che mi ha introdotto ad una ricerca più scrupolosa dei dischi da proporre nelle mie serate.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessuno, perché dietro ogni disco acquistato c’è sempre un motivo ben preciso. Sicuramente non è mancato quello che ha disatteso le mie aspettative ma lo avrò già venduto.

Quello che cerchi da anni e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Non sono un collezionista e quindi non ho mai investito grosse somme per accaparrarmi un disco e poi riporlo sullo scaffale (sarebbe rischioso portarsi un cimelio nei locali). Cerco piuttosto di comprarne ad un prezzo ragionevole, scegliendo quelli che diano ancora modo di emozionare il mio pubblico.

Berardi e la sua copia di “Animals”

Quello con la copertina più bella?
“Animals” dei Pink Floyd, immersa in un’atmosfera industriale. In quelle foto c’è tutta la storia dei brani incisi sul disco, guardarle mentre la puntina legge i solchi aiuta a comprendere meglio ciò che intendo. Poi, se si ha la possibilità di andare a Londra e passare davanti alla Battersea Power Station, l’immaginazione diventa realtà. L’energia che scaturisce da questo LP del 1977 è pari a quella che sviluppava l’ex centrale termoelettrica sulla rive del Tamigi. Provo sentimenti profondi ogni volta che lo riascolto, un disco essenziale per la mia crescita musicale nonché compagno di vita.

Che negozi di dischi frequentavi in passato?
Ho comprato i primi dischi nel negozio di elettrodomestici del mio quartiere che aveva un angolo dedicato agli album e ai 45 giri. Dopo qualche anno passai ai negozi specializzati, il primo fu Sound City, sulla via Tuscolana, credo tra il 1974 e il 1975. Erano i tempi di “The Sound Of Philadelphia” di MFSB, le radio private spuntavano come funghi e il sabato pomeriggio si organizzavano sempre feste a casa di qualcuno. La musica era una forma di aggregazione nel vero senso della parola. Allora ebbi la fortuna di conoscere, casualmente, il proprietario di una piccola emittente di quartiere, proprio nel negozio di dischi di cui parlavo prima. All’inizio la potenza era assai flebile, bastava spostarsi di un solo isolato per perdere il segnale ma col tempo fu potenziato sino ad essere venduto ad un network. Gli studi erano allestiti all’ultimo piano di un palazzo e, pur essendo molto piccola, disponeva di tutto quello di cui c’era bisogno. Il mondo della radio mi affascinava tantissimo e l’unico modo per imparare a “far girare i dischi” era guardare per ore ed ore i professionisti e rubare con gli occhi. Il proprietario mi diede l’opportunità di stare lì mentre mandava avanti il suo programma pomeridiano e così appresi tantissime cose. Dopo un po’ di tempo fui “promosso” ed iniziai a selezionare musica per quella piccola radio. Un altro negozio che ricordo con piacere è Magic Sound, a Piazza dei Re di Roma, dove le mie cassette mixate andavano a ruba. Lì ebbi la fortuna di arricchirmi musicalmente con Roberto che curava il reparto soul, jazz e fusion. Un posto altrettanto fornito era Discoteca Laziale, luogo tranquillo e silenzioso, perfetto per i veri audiofili, dove ho acquistato tantissimo materiale, specialmente album di musica elettronica come Alan Parsons Project, Kraftwerk e Jean-Michel Jarre che adoro. Poi naturalmente andavo nei negozi per DJ, quello in cui trascorrevo più tempo era Best Record in via Vodice: il proprietario, Claudio Casalini, solitamente lavorava nell’ufficio al piano superiore mentre Peter, con la sua calma anglosassone, era sempre disponibile a far ascoltare tutte le novità. Atmosfera leggermente più chic si respirava invece in Città 2000, in viale Parioli. Era il negozio di Peppe Farnetti, il primo DJ del Piper già nel 1965, e fu un autentico punto di riferimento dei più importanti DJ della capitale e non solo. L’ultimo baluardo rimasto è il mitico Goody Music che è stato, a quanto ricordo, il primo a far ascoltare dischi attraverso due casse poste agli angoli e piazzate su due colonne che ti “spettinavano”. Tutti i pezzi sembravano belli! Aveva una selezione di dischi d’importazione veramente notevole. In tutti questi negozi si respirava un’aria di sana competizione tra i DJ più o meno famosi, nella continua lotta per riuscire ad accaparrarsi un disco in più rispetto agli altri. Negli anni Ottanta, è bene ricordarlo, erano i proprietari delle discoteche a stanziare il denaro per comprare i dischi pertanto più era alto il budget e più c’era la possibilità di avere un buon repertorio di novità da parte. E lì entrava in moto anche il meccanismo della doppia copia personale.

Il crate digging online è differente rispetto a quello che un tempo si praticava nei negozi?
Direi proprio di sì, non c’è paragone e, un po’ come tutte le cose che si acquistano su internet, non sai mai cosa ti aspetta veramente seppur la scelta non manchi vista l’esistenza di tante piattaforme specializzate. A trarne beneficio è stata senza dubbio la conoscenza, basti pensare che chi si affaccia oggi al mondo del DJing può comprare, oltre al nuovo, una miriade di ristampe e, possibilità economiche permettendo, addirittura gli originali di cui magari si ignorava l’esistenza. Negli anni Settanta ed Ottanta i mezzi erano pochi per approvvigionarsi di dischi “differenti”, era necessario spostarsi in altre città e nel mio caso cito il Disco Più e la Dimar a Rimini, dove riuscivo a trovare cose fuori dai canoni disco.

Ritieni che la digitalizzazione abbia intaccato irrimediabilmente il valore attribuito alla musica?
Paradossalmente la tecnologia, pur rappresentando le fondamenta della musica contemporanea, ha generato un effetto boomerang. Aver reso tutto facilmente accessibile, troppo direi, ha finito col provocare un appiattimento dei gusti e delle conoscenze, e non solo nell’ambiente musicale. Ormai non si fatica più per scoprire qualcosa, a prescindere dall’area di interesse, e in alcuni casi l’uso del vinile, considerato come oggetto di resistenza alla digitalizzazione stessa, si è trasformato in un modo per apparire e darsi un tono. Comunque, al di là di ogni congettura, credo sia ormai sotto gli occhi di tutti che l’avvento del CD (prima) e del download (poi) abbia ucciso definitivamente la discografia, impoverendo le produzioni come non mai. Ormai un brano non dura più di una settimana sulle piattaforme, al massimo due se alle spalle c’è una grossa etichetta, poi solo il dimenticatoio. Prima dell’avvento del web si investiva sulla musica in maniera diversa, dalla grafica per la copertina alla scelta degli studi di registrazione passando per i musicisti e i cantanti. Adesso, con la tecnologia a basso costo ormai diffusa capillarmente in ogni angolo del globo o quasi, si può produrre un disco dalla a alla z con pochi mezzi e in casa. Tuttavia, secondo me, il disco in vinile continuerà a rappresentare meglio questo mondo rispetto ad altri supporti, e ci sarà sempre chi lo supporterà per l’amore di ascoltare o proporre ad altri quelle musiche. Il disco ha bisogno di uno spazio fisico che si materializza tra gli scaffali e questa è una delle ragioni che terrà in vita il valore della musica.

Il retro della copertina di “Walking In The Street” con le foto del Penny Club

Una delle prime produzioni su cui appare il tuo nome è stata “Walking In The Street” di Gold Rush And The Sun-Shine-Sisters, edita dalla Best Record di Claudio Casalini nel 1985. Come ricordi le tue primissime esperienze in studio di registrazione? Quali motivi spingevano allora i DJ come te a cimentarsi nella composizione?
Era il periodo in cui le discoteche sponsorizzavano i 12″ per farsi pubblicità, basti pensare allo Xenon di Firenze o a L’Altro Mondo Studios di Rimini. Per me era l’occasione giusta per oltrepassare la linea di confine tra DJ e produttore così avanzai la proposta a Carlo Bernaschi, proprietario del Penny Club, una splendida mega discoteca a Frascati, zona Castelli Romani, allestita in un palazzo dell’Ottocento e in cui ho lavorato come resident per parecchi anni. Accettò ed infatti sul retro della copertina vennero piazzate fotografie e logo del locale. Dal punto di vista musicale invece, Casalini, dopo aver ascoltato le mie idee, mi suggerì di svilupparle e registrare il tutto nello studio di Stefano Galante, compositore ed arrangiatore che insieme al bassista Paolo Del Prete aveva realizzato già diverse produzioni come “Sweepin’ Off” di High Resolution e “Do It Again” di Asso. La voce invece era di Orlando Johnson, presenza consolidata nelle produzioni italiane di quegli anni. Nello studio di Galante rimasi totalmente affascinato dalla strumentazione: il multitraccia, le batterie elettroniche, i campionatori, i sintetizzatori, ma a restare più impresso nella mia mente fu il processo di costruzione e stesura del brano, insomma, la creazione del pezzo musicale partendo dal nulla. Un anno dopo l’uscita di “Walking In The Street” fu la volta del mio primo remix, quello di “I Feel Good” di Herbie Goins pubblicato dalla Jumbo Records, una delle tantissime label raccolte sotto l’ombrello della Best Record di Casalini. Per l’occasione registrai, sempre su consiglio di Casalini, nel mega studio di Mario Zannini Quirini, oggi direttore d’orchestra. Dopo quelle due esperienze decisi che il mio futuro non sarebbe più stato solo nella consolle di una discoteca ma pure dietro il mixer di uno studio di registrazione. Cominciai gradualmente a comprare la strumentazione necessaria e alla fine degli anni Ottanta trovai un socio per aprire il primo studio. Da quel momento non avrei più trascorso i pomeriggi esclusivamente nei negozi di dischi ma anche nei punti vendita di strumenti come Musicarte e Cherubini. A spingere i DJ verso la creazione di musica in quegli anni ritengo sia stato il desiderio di sperimentare, alimentato fortemente da quelle “macchine infernali” che sprigionavano suoni mai sentiti prima, almeno per me fu così e credo che lo stesso valga per la maggior parte di coloro che gravitavano intorno a quel mondo. La voglia di spingersi sempre oltre era testimoniata anche dai dischi stessi, specialmente quelli provenienti dal Regno Unito che offrivano suoni in continua evoluzione. Il fermento era notevole quanto la condivisione: a tal proposito ricordo quando nell’ambiente romano si sparse voce dell’ottimo utilizzo che facevo del campionatore a tastiera Casio FZ-1 dal costo più accessibile rispetto ad altre macchine dai nomi maggiormente blasonati. Nel mio studio ci fu un bel via vai di amici armati di block notes per prendere appunti. Tra gli altri Michele Prestipino ed Eugenio Passalacqua del team Full Beat di Faber Cucchetti, e Claudio Coccoluto che mi chiese ragguagli sul tempo di campionamento e funzioni varie, seppur alla fine optò per un E-mu Emulator. Oggi le cose sono nettamente diverse, più produci e più ti metti in mostra cercando di ottenere ingaggi per le serate, rimasta praticamente l’unica maniera per guadagnare denaro. Prima gli introiti invece arrivavano principalmente dalle produzioni discografiche. I limiti erano rappresentati dal costo proibitivo delle strumentazioni. La mia prima produzione in assoluto, “The Story Is True” di Cut & Sew And The Partyrock, la feci con un mixer Tascam M-35, il campionatore Casio FZ-1 di cui parlavo prima, un expander Yamaha TX81Z, un multieffetto Lexicon ed una drum machine Yamaha RX5, oltre ad un Technics SL-1200 ed un registratore Revox B77. Fu un vero e proprio taglia e cuci autoprodotto, a cui parteciparono per l’editing Luca Cucchetti e Mauro Convertito, rispettivamente nascosti dietro gli alias L.L. Full C. e Moor Funk’s. Gli scratch invece erano di Ice One ma non ne sono proprio sicuro, sono passati così tanti anni.

Uno scatto che immortala alcune produzioni discografiche di Berardi, diversi flight case e il vecchio setup utilizzato. In particolare, a sinistra dall’alto in basso, si vedono Roland R-8, Casio FZ-10M, Oberheim Matrix 1000, E-mu Morpheus, E-mu Vintage Keys, E-mu Orbit 9090, Akai S3000 ed Akai S2000, accanto invece Casio FZ 1 e Roland JX-10 (Super JX)

Venivi da un passato fatto di rock, funk e disco. Come approcciasti alle “musiche nuove” come hip hop, house e techno?
Il mio approccio con la musica avvenne prima dell’avvento dell’elettronica da ballo, intorno agli undici/dodici anni, quando prendevo lezioni private di pianoforte e chiesi ai miei di regalarmi una batteria acustica (semiprofessionale ovviamente!) ed una pianola della Elka. Al DJing giunsi in seguito, verso i quattordici/quindici anni. Il primo locale in cui misi i dischi era un piccolo club di quartiere chiamato Marilyn. Passare dal funk/disco all’hip hop fu quasi naturale. Chi, come me, aveva seguito personaggi come DJ Kool Herc, Grandmaster Flash & The Furious Five, Marley Marl, Afrika Bambaataa, Whodini, Kurtis Blow, Spoonie Gee, Sugarhill Gang ed altri ancora non faticò certamente ad apprezzare la nuova ondata innescata dai Run-DMC, LL Cool J, Public Enemy o Eric B. & Rakim. La transizione dall’hip hop alla (hip) house invece fu stuzzicata dai campionatori e da pezzi come “Beat Dis” di Bomb The Bass o “Theme From S-Express” di S’Express che cambiarono l’utilizzo del sample rispetto a quello in uso sino a quel momento nell’hip hop. Il resto avvenne grazie alla continua evoluzione e sperimentazione di suoni, d’altronde l’avvicendarsi dei generi musicali è andato di pari passo con le innovazioni tecnologiche.

Un flight case di Berardi decorato da Ice One nel 1988

A partire dal 1989 la tua attività in ambito discografico subisce una netta intensificazione. Col supporto della Energy Production di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi metti su la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti e Sebastiano ‘Ice One’ Ruocco e poi produci musica (come il fortunato “You Don’t Get Stop”) con la sigla M.B., acronimo che ti accompagna tuttora. Potresti raccontare quella particolare fase creativa della tua carriera?
A fine anni Ottanta la musica hip hop imperversava nella capitale dove nascevano di continuo nuovi gruppi rap, grazie anche alla spinta dei film usciti qualche anno prima sulla break dance, uno su tutti “Beat Street”. In quel contesto nacque la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti, fresco di consolle condivisa con Jovanotti e del remix del suo “Walking”, ed Ice One, giovanissimo rapper e talentuoso writer (mentre eravamo in studio lui disegnava su qualsiasi superficie gli capitasse a tiro, conservo ancora qualche flight case coi suoi graffiti e il primo logo di M.B. è proprio opera sua!). Nel progetto Mad DJ’s Band coprivamo ruoli precisi: io mi occupavo dei sample, della parte ritmica, della struttura e del mixaggio, i testi e gli scratch erano di Sebastiano mentre gli editing di Luca. Poi, a seconda delle esigenze, interpellavamo amici come Elvio Moratto, che suonò le tastiere nel singolo d’esordio, “Get Mad”, o il giovane talento Stefano Di Carlo che si occupò delle linee melodiche dei brani pubblicati in seguito. Gli scratch addizionali invece erano degli italiani usciti vittoriosi dalle gare del DMC come Francesco Zappalà, Giorgio Prezioso e Andrea Piangerelli. Realizzammo tre singoli ed un doppio album a cui si aggiunse pure un 12″ con su incise basi ed effetti vari, “Mad DJ’s Grooves Volume 1”. M.B. invece nacque come avventura solista per poter identificare il mio lavoro in studio. Qualche viaggio oltremanica e le uscite che arrivavano dagli Stati Uniti mi spinsero a cimentarmi in altri generi. La X-Energy Records mi chiese di dare un taglio hi NRG alle nuove produzioni e in tal senso credo di aver campionato davvero tutto il campionabile. Avevo scatole piene di floppy disk con sample di bassline e sequencer in stile Giorgio Moroder, Patrick Cowley e Bobby Orlando. Per “Fast And Slow” del 1989, ad esempio, usai un frammento di “Hills Of Katmandu” di Tantra, prodotto da Celso Valli esattamente dieci anni prima. La grafica in copertina in stile murales era di Ice One. Per i dischi a seguire invece cambiai marcia anche grazie all’apporto di Stefano Di Carlo che suonava le tastiere. “The Beat”, del 1990, è quello a cui sono più legato e penso mi identifichi meglio, ma quell’anno uscì pure “You Don’t Get Stop” che riscosse un discreto successo e venne licenziato in Germania dalla Logic Records degli Snap! e in Spagna dalla Boy Records. I due singoli successivi, “Feel The Heat” e “Make It Right”, erano contraddistinti da un suono più duro influenzato dai rave di allora che riuscivano a raccogliere folle immense di pubblico anche di 5000 persone. All’Ombrellaro del 4 aprile 1992, a cui partecipò pure un giovanissimo Aphex Twin, eseguii dal vivo “Make It Right” così come si può vedere in questo documentario, e quella fu l’ultima uscita su X-Energy Records che per me chiuse il filone della rave techno.

Underground Nation Undertour Sensation (sopra) e Cosmic Underground (sotto), due produzioni particolarmente ricercate del repertorio di Berardi

Tra 1992 e 1993 col citato Cucchetti realizzi “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation e “Trance Me EP” di Cosmic Underground, editi rispettivamente da Mystic Records ed R. Records, due tra le numerose etichette patrocinate dal negozio Re-Mix di Sandro Nasonte. Ai tempi i negozi di dischi potevano rappresentare punti di ritrovo e confronto tra addetti ai lavori e semplici appassionati. Alcuni si trasformarono in veri e propri quartier generali di etichette o freemag, come il Disco Inn di Modena e il Disco Più di Rimini o, all’estero, il Disco King di Mouscron e il Blitz da cui nacquero la DiKi Records e la Bonzai come raccontiamo qui e qui. Ritieni che il web abbia sostituito egregiamente quelle iniziative oggi rimaste tra le espressioni di un mondo che non esiste più? In caso contrario invece, cosa si stanno perdendo le nuove generazioni rispetto alle vecchie?
Tra ’91 e ’92 ci fu un cambiamento quasi radicale. La house continuava ad evolversi, specialmente nel genere deep che iniziò ad allargarsi a macchia d’olio in Italia dove nacquero tantissime accreditate realtà guidate da personaggi come MBG (che per me resta il maggior esponente italiano di quella scuola), Alex Neri ed Andrea Torre, il “pifferaio magico”. Per quanto mi riguarda, quel cambiamento fu espresso pienamente da “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation, prodotto ancora con l’amico Luca Cucchetti (fu sua l’intuizione di unire le forze con Torre) che curò il mixing finale e Stefano Di Carlo alle tastiere. La versione più emblematica è la Noneta del citato Andrea Torre. Il progetto sembrava fatto su misura per il movimento che gravitava intorno al suo seguitissimo programma radiofonico e le serate “tappetose” al Uonna Club, uno storico locale romano in cui si celebrava proprio questo genere. La prima volta che portai il provino a Torre fu subito amore, ricordo ancora i momenti della costruzione di quella versione. L’idea (geniale) di aggiungere la voce di una signora anziana che raccontava la poesia “Le Nuvole” di Fabrizio De Andrè fu di Peter, il commesso di Best Record menzionato prima, e non a caso “nuvolosità variabile” era uno slogan creato ad arte da Andrea per il suo programma mentre il nome del progetto prendeva spunto da Underground Nation, la classifica deep in onda su Radio Centro Suono, un’emittente romana che in quegli anni rappresentò l’epicentro di un vero e proprio movimento. Dulcis in fundo, l’uscita del disco coincise con la nascita di mio figlio Andrea menzionato tra i ringraziamenti sul centrino, e il sample del bambino nella versione Hardcore di Paolo ‘Zerla’ Zerletti non fu casuale. Il “Trance Me EP” di Cosmic Underground invece nacque un anno dopo e l’idea di partenza era realizzare un remix di “Save Me” ma con un arrangiamento più trance. A quella versione aggiungemmo due inediti, “Minimal Dream” ed “House Evolution”. A differenza di quando uscì, oggi è diventato un disco piuttosto ricercato e con un discreto valore per gli appassionati e ciò non può che rendermi felice. Ho già ricevuto diverse richieste di ristampa. Per quanto riguarda i negozi, credo che negli anni Novanta Re-Mix sia stato un vero e proprio quartier generale, un punto di riferimento per la quasi totalità dei DJ e produttori di quel sound ma anche per coloro che ascoltavano la radio e partecipavano agli eventi. Una tappa obbligata per gli addetti ai lavori che bazzicavano la club culture capitolina, per non parlare poi delle produzioni annesse. Basterebbe citare la Sounds Never Seen, la Plasmek, la Synthetic, la Nature Records o la Killer Clown Records che hanno visto come protagonisti Lory D, Andrea Benedetti, Mauro Tannino, Stefano Di Carlo, Marco Passarani, Cristiano Balducci e molti altri ancora, tutte realtà che hanno contribuito alla nascita di una scena riconosciuta anche all’estero. I giovani adesso sono abituati a comprare online, chi è passato da lavorare dietro il bancone di un negozio agli store virtuali ha fatto comunque un lavoro enorme. Noto con piacere il fiorire e il proliferare di realtà che combinano etichetta, produzione, mastering e distribuzione con intenzione di dare spazio sia a nuove proposte che a ristampe di classici o rarità del passato.

Nel 1994 il progetto Cosmic Underground si trasforma in Cosmic Galaxy ed apre il catalogo della Virtual World, etichetta distribuita dalla milanese Discomagic a cui, nello stesso anno, tu e Cucchetti destinate “Pussy” di The Fair Sex, altrettanto ambito per i collezionisti. Come arrivaste a Lombardoni?
Cosmic Galaxy è stata croce e delizia. Per me ha rappresentato uno dei momenti peggiori a livello personale e, di conseguenza, una fase di stanchezza mentale. Avevo un cassetto pieno di idee e progetti lasciati a metà, così provammo a mettere in ordine qualcosa e finalizzare le tracce incomplete. Ricavammo tre DAT ma non ricordo quanti pezzi fossero incisi sopra. Ad occuparsi di chiudere i contratti con le etichette è sempre stato Luca e quella volta partì alla volta di Milano. Negli uffici della Discomagic incontrò Emilio La Notte che ascoltò i brani e creò appositamente la Virtual World per prodotti di quel tipo, diciamo un misto tra techno, minimal e deep house. Furono stampate 500 copie di “Dream Girl” di Cosmic Galaxy ed altrettante di “Pussy” di The Fair Sex. A seguire arrivarono “Change Position” di A Girl Called Bitch su Subway Records e “You Don’t Get Stop” di Morena su Out. Era ciò che restava di quei DAT ma francamente non ho memorie in merito. “Dream Girl” è stato ristampato nel 2019 dalla Obscure World mentre il brano “Walkin’ On The Moon” è finito sull’olandese Safe Trip per il terzo volume della fortunatissima compilation “Welcome To Paradise”. Per maggio è atteso un EP su KMA60, la label di Jamie Fry e Dana Ruh, che su un lato conterrà “Save Me” ed “House Evolution” di Cosmic Underground e sull’altro “Cosmic” e “Virtual Transpose” di The Fair Sex. Mi rende felice sapere che a distanza di tanti anni questi brani facciano parte di una cultura musicale ben definita e che le nuove etichette ne siano consapevoli.

Gli Harlem Hustlers in una foto del 2001

Negli anni Novanta chi, come te, produceva tanta musica ricorreva all’uso intensivo di molteplici nomi di fantasia a differenza di oggi, con la scena contraddistinta da un individualismo assai più pronunciato. Alito, Base On Space, The Night Fever, Critical Release, Players Inc., Star Funk e The Hammer sono solo alcuni di quelli che ti riguardano, ma menzione speciale merita Harlem Hustlers, condiviso con Roberto Masutti sin dal 1996, con cui realizzi vari brani ma soprattutto remixi un numero abissale di artisti. C’era (e c’è) un preciso modus operandi nel vostro lavoro in studio?
Usare più pseudonimi contemporaneamente era nella norma. Avere almeno due produzioni nuove ogni mese, che il più delle volte diventavano tre o quattro, obbligava ad una scelta simile per non inflazionare il nome su cui si puntava di più. Poi entravano in gioco ragioni di direzione musicale o di esclusive strette con alcune etichette. Come Base On Space, ad esempio, ho prodotto per la Lemon Records (di cui parliamo qui, nda), per la Big Big Trax di Victor Simonelli e per la D:Vision, Star Funk era destinato alla milanese Hitland, Cyclone alla Propaganda… Harlem Hustlers invece nacque per pura casualità con la voglia di provare a cambiare lo status quo della house nella seconda metà degli anni Novanta. Conobbi Roberto Masutti tramite un amico in comune. Ad oggi abbiamo realizzato, tra remix e produzioni, quasi duecento brani. Lui è un vero esperto dell’hardware e software, sempre aggiornatissimo sulle novità e con una specialità per l’effettistica. È dieci anni più giovane di me ed ha un gusto musicale molto raffinato. Dopo i primi lavori portati a termine in studi diversi, decidemmo di metterne su uno tutto nostro, il Penthouse Studio, ancora esistente, situato all’ultimo piano di un edificio. Scelsi il nome Penthouse anche in virtù di un apprezzato programma radiofonico su Radio Centro Suono. Il nostro rapporto è andato oltre la semplice collaborazione lavorativa. A tenerci uniti, oltre ad una solida amicizia, è sempre stato un grande rispetto reciproco. Modus operandi? Ascoltiamo il brano da remixare, decidiamo la direzione da prendere ed una volta trovato il sample giusto da accostare, ci dedichiamo alla linea di basso, alla drum e all’arrangiamento. A seguire stesura e missaggio finale, da riascoltare dopo un paio di giorni di pausa. Ricordo ancora molto bene l’emozione che provammo quando, grazie alla D:Vision, ascoltammo il 24 piste originale di “Guilty” delle First Choice, in cui le cantanti ridevano, scherzavano e provavano gli strumenti. Prima di quel momento per noi era una cosa impensabile poter lavorare sui brani della Philly Groove Records. Poi avremmo messo le mani pure su “Put Yourself In My Place” di TJM, in origine su Casablanca, su “Lovin’ You Is Killing Me” dei Moment Of Truth, dal catalogo Salsoul, e su “Don’t Put Me Down” di Finishing Touch: la nostra Soul Reconstruction Mix era tanto cara a Frankie Knuckles. Qualche tempo fa Domenico Scuteri della Lemon Records, a mio parere tra i migliori musicisti, compositori e sound engineer italiani, definì gli Harlem Hustlers gli artefici del “cut off sampling”. Non so se effettivamente siamo stati i primi ma quando sento un disco nuovo che lavora col filtro passa basso e l’automazione non posso non ricordare che noi lo facevamo già venti (e passa) anni fa. Anche con gli A&R delle varie etichette con cui abbiamo lavorato e collaborato c’è sempre stato un profondo rispetto. In qualche caso, come con la Strictly Rhythm o la Azuli Records, le richieste riguardavano perlopiù piccole correzioni ma mai stravolgimenti. Con la X-Energy c’era un rapporto praticamente quotidiano e il confronto con Alvaro Ugolini portava tanti buoni consigli. Una volta Bob Sinclar ci chiese le parti del remix che realizzammo per la sua hit del 2006, “World, Hold On (Children Of The Sky)”: volle fare un editing della nostra versione migliorandola con un paio di correzioni sulla stesura. Il risultato su la Bob Sinclar Vs. Harlem Hustlers Remix. Con Sinclar, peraltro, ci furono precedenti molto lusinghieri. Già nel 2004 infatti remixammo “Sexy Dancer” e la nostra versione venne pubblicata pure sulla sua Yellow Productions, e grande soddisfazione giunse anche quando il remix che facemmo per “Give A Lil’ Love” venne scelto dalla Tim come sigla del campionato di serie A 2006-2007.

Con alcuni musicisti capitolini ti sei affacciato anche alla musica lounge con Joker Juice.
Esattamente. Joker Juice nasce come progetto commissionato dalla Energy Production a cui hanno preso parte diversi musicisti una quindicina di anni fa circa. La considero una meteora quasi sperimentale in un periodo in cui imperversava la musica lounge con le mitologiche compilation in stile “Buddha Bar”. Alcuni brani dell’album “Contrast” sono stati selezionati per numerose compilation specializzate nel settore.

Continui tuttora a rieditare pezzi per la Full Time Records: cosa pensi del re-edit “selvaggio” praticato da quelle etichette, fisiche e digitali, che sfruttano la musica di altri ma senza alcuna autorizzazione da parte di autori ed editori depositari dei diritti? È un fenomeno arginabile in qualche modo?
Il re-edit che definisci “selvaggio” è un problema culturale, praticato perlopiù da chi vuole solo cavalcare l’onda di un genere senza farsi troppi scrupoli e non conosce a fondo la materia o non gliene importa nulla di approfondire sulle radici del brano che sta utilizzando. Un ventenne alle prese con un pezzo anni Settanta/Ottanta non si pone troppi problemi e preferisce fare ciò che meglio crede, aiutato dai software che facilitano la manipolazione. Però per fare cose buone non basta mettere una cassa dritta su un sample. Il re-edit dovrebbe limitarsi ad isolare le parti migliori di un brano e sistemarle in modo da non avere quelle interruzioni o classiche pause dei pezzi disco/funk. In questa disciplina uno dei migliori per me resta Danny Krivit. Leggere il suo nome sui dischi mi fa subito pensare ad un prodotto concepito col massimo rispetto per l’artista. Per quanto mi riguarda, cerco di essere sempre molto attento a non oltrepassare il limite. Provo un rispetto profondo per l’artista su cui lavoro e d’altronde vengo dalla scuola in cui si potevano campionare dalle due alle quattro battute. In passato c’era più rigidità nel controllo dei sample, adesso se il brano funziona, che sia un edit o un remix, si trova un accordo tra l’etichetta/editore e il producer creando una buona opportunità di lavoro per entrambe le parti. Tornando alla domanda, non credo che la pseudo cultura di saccheggiare materiale altrui sia arginabile. Ci dovrebbe essere un’educazione musicale, una sorta di bon ton che indichi dove fermarsi prima di essere risucchiati nel mercato ormai troppo inflazionato del disco re-edit. Speriamo in un cambio di direzione e che si ritorni a scrivere qualche nota in più in onore della nostra amata house music. Collaborare con la Full Time per me è una gran bella soddisfazione. Avere la possibilità di lavorare su brani inavvicinabili quando iniziai la mia carriera è qualcosa di magico. Adesso, con tutto il rispetto possibile, cerco di renderli più attuali e fornire ad essi una marcia in più ma senza offendere le versioni originali.

La pandemia da coronavirus ha “congelato” il mondo delle discoteche da ormai un anno a questa parte. In Rete si sentono e leggono tanti buoni propositi legati all’agognata ripartenza di cui però al momento nessuno è in grado di prevedere l’inizio. Credi sia possibile ristabilire priorità, scala valori e meritocrazia in un settore come quello del nightclubbing che nell’arco di un trentennio circa ha remato costantemente verso la mercificazione dell’arte e della passione?
Secondo me la pandemia ha solo dato lo schiaffo finale ad un mondo che ormai non funzionava più da un pezzo. Ci vorrà tempo e un cambio generazionale non indifferente per tornare ai fasti di una volta, bisognerebbe creare qualcosa di autenticamente nuovo per dare un seguito a ciò che fu fatto di buono in passato. Spero che l’incubo del covid-19 possa finire al più presto, abbiamo bisogno psicologicamente dei nostri punti di riferimento ma soprattutto di musica.

Due ultimi scatti relativi ad altre parti della collezione di Massimo Berardi

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato aggiungendo per ognuno di essi un’accurata descrizione.

Pink Floyd – The Dark Side Of The Moon
Da ragazzo rimanevo affascinato da tutto ciò che era futuristico e fantasticavo sul fatto che nel 2000 le astronavi avrebbero sostituito le utilitarie. “The Dark Side Of The Moon”, uscito nel 1973, è in assoluto l’LP che mi ha accompagnato più di tutti in quel viaggio immaginario. Sperimentazione allo stato puro, sia per l’uso dei sintetizzatori che per i rumori d’ambiente utilizzati come mai nessuno aveva saputo fare prima. Per tutti quelli della mia età fu un’introduzione a sonorità da viaggio mentale, un vero e proprio apriscatole delle emozioni.

Cerrone – Love In C Minor
La storia della disco music è piena zeppa di nomi importanti che hanno dato vita ad essa e Cerrone è sicuramente uno di questi. La prima volta che lo ascoltai avevo circa quattordici/quindici anni, i gemiti femminili abbinati alla cassa dritta mi fecero andare letteralmente in estasi. Potrebbe essere definito quasi un pezzo proto house. Da metà in poi, con l’esplosione di accordi e i fraseggi, era come fare sesso con le note musicali. Sono particolarmente legato a questo disco perché mi ricorda un caro amico che non c’è più con cui trascorrevo i pomeriggi a selezionare ed ascoltare musica sul suo mega impianto.

Jean-Michel Jarre – Oxygene
Dire che questo disco mi abbia influenzato è poco, e per capirlo basta ascoltare “Dream Girl” di Cosmic Galaxy. Lo comprai quando ero molto giovane ma nonostante ciò diedi ad esso il giusto valore tanto da ascoltarlo ininterrottamente in cuffia quasi a stancarmene. Lo “incrociai” nuovamente qualche anno dopo cercando di scoprire qualcosa in più sull’autore e sull’utilizzo che fece degli “strumenti infernali” tra cui il primo modello del VCS3 della EMS di Peter Zinovieff, l’organo elettrico Eminent 310 Unique ed una drum machine Korg Mini Pops. Semplicemente spettacolare.

Rose Royce – In Full Bloom
Cercai questo album del 1977 per un brano in particolare, “Do Your Dance”, uno di quelli che si sentivano nella Baia Degli Angeli, il tempio che ha spinto tanti ad intraprendere l’avventura da DJ. Nella sua interezza, “In Full Bloom” è uno di quei dischi che si apprezzano col passare del tempo. Puoi ascoltarlo in qualsiasi momento della tua vita e ti sembrerà sempre di averlo appena comprato. A produrlo fu Norman Whitfield, uno dei creatori del cosiddetto Motown Sound. Tra gli altri brani contenuti segnalo “Wishing On A Star” scritto da Billie Calvin e riproposto nel 1998 da Jay-Z in una fortunata cover.

Herbie Hancock – Future Shock
Hancock è uno dei tanti leggendari musicisti che hanno suonato per la band di Miles Davis. “Future Shock”, uscito nel 1983, probabilmente non è il lavoro migliore del suo repertorio ma il più vicino ai poveri mortali amanti della disco/funk, come me. Un artista un po’ nomade a cui è sempre piaciuto passare da un genere all’altro e che per l’occasione si avvicinò sensibilmente all’elettronica sperimentandone le potenzialità insieme al grande bassista Bill Laswell. A venirne fuori fu un fantastico album electro funk trainato dalla hit “Rockit”, devastante in pista.

Gaznevada – I.C. Love Affair
Nei primi anni Ottanta le domeniche pomeriggio in discoteca erano musicalmente assai diverse rispetto al venerdì o al sabato, quando la selezione era più certosina ed elegante. L’età media del pubblico che frequentava i locali la domenica pomeriggio era più bassa e quindi c’era grande possibilità di sperimentare cose nuove. A me piaceva molto proporre le novità di matrice elettronica, specie il filone italo disco, ma senza abbassare troppo la qualità, e i Gaznevada, come i N.O.I.A. o gli International Music System (di cui parliamo qui e qui, nda), si prestavano perfettamente a tale scopo. “I.C. Love Affair”, pubblicato dalla bolognese Italian Records (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), è uno dei pezzi con cui ho rischiato quasi di svuotare la pista la prima volta che lo misi ma poi, armandomi di costanza e tenacia, sono riuscito a farlo diventare un inno. Agli amanti del genere consiglio i remix pubblicati nel 2015 raccolti nella Exclusive Edition.

Adonis – No Way Back
È doveroso per me ricordare la Trax Records, iconica etichetta di Chicago che ha sconvolto il mercato dance nella seconda metà degli anni Ottanta con una miriade di produzioni passate alla storia. La scelta è difficile ma è caduta su questo brano di Adonis del 1986 che mi ricorda il primo viaggio a Londra. Entrai in uno dei tanti negozietti di dischi sparsi per la città e c’era questo brano sparato da un mega impianto. Rimasi folgorato dai club e dal modo in cui lì si viveva la musica, passando dai negozi di abbigliamento in stile acid house ed ovviamente quelli di dischi. Un autentico percorso di vita.

University Of Love Featuring MBG – Vostok 3
Un vero colpo al cuore, “Vostok 3”, uscito nel 1992, ha fatto il bello e il cattivo tempo dei miei sentimenti, un quadro da appendere in un punto quasi nascosto della casa in modo da soffermarti a guardarlo ogni volta che ci passi davanti. Inneggia a momenti memorabili di un periodo glorioso della musica dance e del clubbing italiano, un’opera d’arte per me come tutto quel filone nostrano deep house che ancora oggi, a distanza di ormai un trentennio, continua ad avere un ottimo mercato.

Raymond Castoldi – Biosphere 2
Se un giorno qualcuno mi domandasse quale disco avrei voluto realizzare indicherei senza ombra di dubbio questo, pubblicato dalla statunitense X-Ray Records nel 1993. Sino a qualche tempo fa ne possedevo tre copie, una l’ho venduta ad un carissimo collega, una continuo ad usarla senza sosta, l’ultima invece la ho riposta con cura sullo scaffale. Un disco pieno di tutto ciò che un DJ ha bisogno, suoni acidi, melodia, una bassline dal suono retrò e tanto amore.

Danny Tenaglia – Tourism
Penso sia uno degli album house più completi mai incisi in assoluto. Pubblicato nel 1998, gira su suoni techno, tribal e progressive incorniciati da splendide melodie. Un quadruplo pieno di pezzi (tra cui l’arcinoto “Music Is The Answer (Dancin’ And Prancin’)”, nda) che fanno la differenza ancora oggi. Il mio preferito resta “Do You Remember” col featuring di Liz Torres. Al Penthouse Studio non passò inosservato, io e Roberto Masutti ne comprammo una copia a testa.

(Giosuè Impellizzeri)

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Serious Danger – Deeper (Fresh)

Serious Danger - Deeper

Gli anni Novanta riservano una quantità incredibile di tendenze che si rincorrono con straordinaria velocità. È difficile tener traccia di tutte le fusioni, contaminazioni e collisioni stilistiche che avvengono. Alcune però emergono con più forza rispetto ad altre come nel caso della speed garage, filone che, come descrive Simon Reynolds in “Energy Flash”, «è un ibrido tipicamente britannico che fonde lo stile più atmosferico della house con l’esuberanza da teppisti della jungle». Analogamente ad altre commistioni dei tempi, pure la speed garage pare sia nata per mano dei DJ, in particolare coloro che suonano pezzi house/dub d’oltreoceano, tipo quelli di Todd Terry, Johnny Vicious o Armand Van Helden, aumentandone la velocità col pitch del giradischi ed intrecciandoli ad elementi jungle. A quel punto qualcuno inizia a solcare degli acetati che usa in discoteca per personalizzare le proprie performance. «Più dura e veloce del suo prototipo statunitense, la speed garage è la combinazione vincente degli elementi più populisti della house, della jungle di metà anni Novanta e del rave hardcore» scrive ancora Reynolds. Il giornalista afferma inoltre che a caratterizzare veramente la speed garage, oltre a bassi “dread”, cori da dancehall reggae e voci accelerate all’elio, è il ritmo: «colpi di rullante sincopati con complesse tessiture e un timbro curiosamente organico, quasi legnoso, una forma ritmicamente perversa, piena di tic percussivi e pruriginosi, micro breakbeat e tremolanti staffilate di synth».

Deeper su ISB e TP
Sopra “Deeper” su ISB, sotto invece ristampato in Italia dalla Dipiù

Tutto ciò avviene all’incirca tra la fine del 1996 e i primi mesi del 1997. Un anno dopo la speed garage è già un fenomeno da classifica radiofonica con una miriade di appigli ormeggiati a riviste patinate che la fanno diventare qualcosa di ben diverso dai dubplate che circolano in quantità esigue poco tempo prima. Tra i pezzi che la sdoganano al grande pubblico c’è “Deeper” di Serious Danger, progetto varato da Richard Philips nel 1996 su ISB, pseudo etichetta su cui convoglia alcune autoproduzioni come “Step Back” ed “A Taste Of Rio’s Showbar”, quest’ultima una sorta di re-edit di “Throw” di Paperclip People intrecciato al sample di “Ava” di David Byrne. Philips (o Phillips, la forma corretta del cognome è sempre stata poco chiara a causa di ripetuti errori tipografici) non è un debuttante. Incide musica già da qualche anno come Richie Marauder ed è tra gli autori di “Music ‘N’ Gurls” di Jetpac pubblicato dalla Fresh ma all’attivo non ha ancora nulla che lo abbia aiutato in modo determinante a farsi notare. Con Serious Danger però la situazione cambia radicalmente. Le cose iniziano a muoversi con “Love Is Forever”, un’altra limited edition su ISB in cui l’autore trapianta la melodia di “Diamonds Are Forever” di Shirley Bassey in una base speed garage. È il prodromo di “Deeper” per cui Philips appronta una base ritmica molto simile in cui trova alloggio un altro riff tratto dal passato, quello di “Liquid Is Liquid” dei Liquid, un classico della rave age britannica di cui parliamo qui a sua volta ispirato da “Conquering Lion” di Jah Shaka (dall’album “Revelation Songs” del 1983).

Strike - U Sure Do
La copertina di “U Sure Do” degli Strike, uno dei primi successi messi a segno dalla Fresh Records

In principio pure “Deeper”, analogamente ad altre tracce di Serious Danger, è stampata su ISB, per l’occasione insieme a “Battle Plate” ed “All Of That Dub”, traboccanti anch’esse di cut-up e citazioni. A ristamparla è la citata Fresh, piccola etichetta fondata a Londra nel 1992 da Dave Morgan e Vicky Aspinall il cui ufficio, come si legge in un articolo a cura di Sarah Singer apparso sull’inserto n. 6 della rivista Tutto Discoteca risalente al maggio 1995, viene ricavato nel soggiorno della loro casa mentre lo studio allestito nel retro dell’abitazione. «Pur non essendo supportata da nessuna emittente radiofonica e televisiva e non disponendo neanche di un ufficio stampa e tantomeno di budget elevati, la Fresh riesce a conquistarsi un posto al sole nel panorama delle indipendenti britanniche grazie a “U Sure Do” degli Strike (con ottimi riscontri anche in Italia dove è licenziato dalla Discomagic di Severo Lombardoni, nda) che raggiunge il primo posto delle chart del periodico DJ Mag ed è inserito nella programmazione giornaliera di svariate emittenti radiofoniche». Il successo della Fresh è sudato e meritato. Nel menzionato articolo del ’95 la Singer scrive che Morgan e la Aspinall, conosciutisi negli studi londinesi XYZ dove lui lavora come tecnico del suono e lei come cantante sotto contratto con la Cooltempo, impiegano più di un triennio per ottenere i primi consensi. «Cominciano a scrivere insieme i pezzi per Ronnie Simon e poi creano con Peter Gill, ex componente dei Frankie Goes To Hollywood, i Lovestation. Dato che nessuna major mostra interesse per il pezzo d’esordio, “Love Come Rescue Me” cantato da Lisa Hunt, i due decidono di stamparlo da soli e così creano la loro etichetta, la Fresh per l’appunto». Agli ottimi risultati raccolti col debutto dei Lovestation si aggiungeranno in seguito i citati Strike, ispirati da “Serious” di Donna Allen, i Mr. Roy con “Something About U” (da noi giunto ancora via Discomagic attraverso l’etichetta Reform) e Serious Danger.

Sembra che l’affermazione di quest’ultimo sia stata istigata e determinata da Pete Tong che a settembre del 1997 inizia a programmare “Deeper” nel suo Essential Selection. Da quel momento si assiste ad un effetto domino, programmatori radiofonici e DJ sparsi in tutta Europa si innamorano della speed garage di Serious Danger. In Italia il disco è licenziato dalla T.P., una delle etichette della Dipiù di Pierangelo Mauri e, come si apprende da diversi articoli apparsi ai tempi, “Deeper” riesce ad entrare sorprendentemente nella top ten di vendita italiana. Nella classifica dance più rilevante e monitorata di allora invece, la DeeJay Parade, il pezzo di Serious Danger fa ingresso il 13 dicembre. Uscirà soltanto l’11 aprile 1998 dopo aver stazionato in terza posizione per ben cinque settimane ed essere finito nella playlist di “One Nation One Station Compilation”, compilata da Albertino e mixata da Fargetta e Molella per la bresciana Time Records, “Hit Mania Dance ’98”, “Hit 105 Dance” e in dozzine di altre compilation generaliste. In quei mesi, in Italia, il fenomeno della speed garage è particolarmente sentito. Ispirati da “Deeper” e da svariati pezzi d’importazione come il remix di “Love Commandments” di Gisele Jackson realizzato da Loop Da Loop, “Ripgroove” dei Double 99, “Let Me Show You” di Camisra o “That’s The Way (I Like It)” dei Clock, molti italiani si lanciano a capofitto in quel genere. A tal proposito si ricordano “Cromacture” di DJ Levi, sincronizzata sullo spot della Casucci, “Kiss My Lips” di The Culture Feat. Francesca, “Jump” e “You Don’t Stop!” dei Buzzy Bus e “Screen Test” di B.O. & F.L.N. con cui l’American Records inaugura persino una label specializzata, la Sub Ground di cui parliamo qui.

High Noon e Do U Dream
“High Noon” e “Do U Dream” sono i singoli con cui Serious Danger tenta invanamente di replicare il successo di “Deeper”

Nel frattempo Serious Danger appronta il follow-up, “High Noon”, da noi pubblicato ancora dalla T.P. in primavera. Questa volta il riff, si dice, sia tratto dalla colonna sonora composta da Dimitri Tiomkin per il film western omonimo del 1952, noto in Italia come “Mezzogiorno Di Fuoco”. “High Noon” è accompagnato da un nuovo videoclip promozionale che avrebbe dovuto consolidare la posizione del progetto patrocinato dalla Fresh ma l’accoglienza è piuttosto tiepida. Pur licenziata in quasi tutta Europa, la traccia non eguaglia i risultati della precedente. Anche nella DeeJay Parade l’andamento di “High Noon” è ben diverso rispetto a quello di “Deeper”: entra il 25 aprile per restarci appena tre settimane. A livello internazionale comunque Serious Danger vive ancora un buon momento. Il Ministry Of Sound gli affida la compilation allegata al numero di aprile del magazine Ministry e fioccano le richieste di remix (tra i tanti “I Refuse (What You Want)” di Somore, “Spend The Night” di Danny J Lewis, “London Town” di JDS, “Club Lonely” di Groove Connektion e soprattutto “God Is A DJ” dei Faithless, “You Make Me Feel (Mighty Real)” di Byron Stingily e “Teardrops” dei Lovestation, un’altra hit messa a segno dalla Fresh nell’estate 1998). Per quanto riguarda la dimensione live invece, pare che l’immagine di Serious Danger venga affidata alla cantante e ballerina Aisha e al rapper Sarjant D, devoto al dancehall e proprietario di una piccola etichetta, la Plenty Hot Records. È proprio lui a comparire nel video di “High Noon” e ad essere immortalato sulla copertina del disco edito in Italia. Nel 1999 è tempo di un nuovo singolo, “Do U Dream”, remake dell’omonimo di Carlton risalente al 1990 e scandito da una melodia sfruttata a più riprese nel corso degli anni (“Inspiration” di Saccoman, “Club Bizarre” di U96, “Face To Face” di Walter One, “Day By Day” di Miss Peppermint, “Club Bizarre” di Brooklyn Bounce). L’interesse per la speed garage però si è già affievolito e nemmeno il remix di un colosso della house come Oscar G (Murk, Funky Green Dogs) riesce a cambiare le sorti del brano, desolatamente orfano di licenze. Pure l’album da cui è estratto intitolato “The Program” (seppur paia più una raccolta di cose già edite e remix), giunto nei negozi subito dopo l’estate, arriva fuori tempo massimo.

Girls On Top e Richard X
Le copertine di Girls On Top e Richard X, presunte nuove identità di Serious Danger

Si tira il sipario e Serious Danger esce dalle scene finendo nella lista delle meteore. Dalla sede della Fresh però, qualche anno fa, filtra un’indiscrezione. Richard Philips non sarebbe affatto stato inghiottito dal nulla e rimasto con le mani in mano dopo il declino della speed garage, anzi. Accompagnato da un nuovo pseudonimo, ad inizio Duemila comincia ad assemblare vari mash-up, tecnica a cui abbiamo dedicato un lungo approfondimento qui, coi quali conquista nuovamente l’attenzione dei media internazionali. “I Wanna Dance With Numbers”, accompagnata da un doppio artwork parodistico di Human League e Kraftwerk, e “We Don’t Give A Damn About Our Friends” di Girls On Top sarebbero sue creazioni come del resto “Being Nobody”, la mega hit dell’estate 2003 nata dall’incrocio tra “Ain’t Nobody” di Rufus & Chaka Khan e “Being Boiled” degli Human League, attraverso cui l’artista britannico entra nelle grazie della Virgin e si afferma come Richard X. Al suo volume di “Back To Mine” curato per il DMC nel 2004, in cui sfoggia tanto eclettismo selezionando, tra gli altri, pezzi di John Carpenter, Heaven 17, SYD Featuring Nancy Fortune, Pete Shelley, Trans-X, Legowelt & Orgue Electronique, FPU e The Silures, segue un’instancabile attività da remixer. Ad oggi però, è bene rimarcarlo, non esistono prove e fonti ufficiali che colleghino Serious Danger a Girls On Top e Richard X. Poco incline a parlare di se stesso e a rivelare dettagli biografici, in interviste come questa del 2003 o questa più recente del 2014, Philips non menziona mai i suoi eventuali trascorsi discografici, forse intenzionalmente. Al messaggio email speditogli per l’occasione al fine di ottenere una conferma o smentita non è mai giunta risposta quindi il dubbio resta. Per ora. (Giosuè Impellizzeri)

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