Corona – The Rhythm Of The Night (DWA)

Corona - The Rhythm Of The NightGli anni Novanta hanno lasciato un’eredità musicale incredibile e trasversale a tutti i generi di musica dance, ma se si pensa all’eurodance virata italo più sfacciata e che riecheggiava ovunque, uno dei titoli a tornare immediatamente alla memoria è “The Rhythm Of The Night”. Il brano di Corona sfida l’incedere del tempo da ormai un venticinquennio a questa parte, e nonostante rappresenti l’estetica di una sfumatura stilistica durata circa un triennio (e non un intero decennio, come invece asseriscono tanti nostalgici), continua ad esercitare una sorta di potere salvifico per un numero imprecisato di DJ che ricorre ad esso, ancora oggi, per soddisfare il proprio pubblico.

Parte del merito probabilmente va riconosciuto anche a decine di remix e rivisitazioni in tutte le salse, come quello dei francesi The Golden Brothers, dei tedeschi Alex C. Feat. Yasmin K., dei Verano e di Sean Finn, dell’olandese Fedde Le Grand, dei britannici Bastille e Frisco e dell’italiano Simon From Deep Divas, che hanno contribuito ad eternarlo, senza omettere l’ironica cover del compianto Leone Di Lernia (a cui seguì la beffeggiatoria “Khorona – Nooo!!!” di The Destroyer Feat. Concetta) ed innumerevoli inserimenti in programmi televisivi (tra i più recenti “Avanti Un Altro”, con Paolo Bonolis e Luca Laurenti su Canale 5), che sul fronte nazionalpopolare nostrano giocano un ruolo altrettanto rilevante. Un autentico evergreen, entrato nell’immaginario collettivo e capace di reggere il peso degli anni come pochi altri.

Bravo chart (1985)

La classifica dei singoli più venduti sul settimanale tedesco Bravo (29 agosto/4 settembre 1985): “Shanghai” di Lee Marrow è in decima posizione

A produrre questo successo transgenerazionale è un DJ, Francesco ‘Checco’ Bontempi, che raccoglie le prime gratificazioni discografiche già nel 1985 quando inizia ad incidere brani come Lee Marrow, forte dell’esperienza accumulata in consolle sin dagli anni Settanta. Il singolo “Shanghai”, edito dalla Discomagic Records di Severo Lombardoni, fa il giro d’Europa e i successivi, come “Sayonara (Don’t Stop…)”, ancora in preda ad influssi orientali, “Mr. Fantasy”, con palesi citazioni cowleyane, e “Don’t Stop The Music”, contenente disegni ritmici filo house, gli forniscono una discreta notorietà. «La prima esperienza fu bellissima, mi ritrovai sia sui giornali stranieri che mi associavano ad artisti di caratura internazionale, sia nelle chart con Tina Turner, Duran Duran, Kool & The Gang e molti altri di quel calibro» racconta oggi Bontempi. «L’italodisco però non era ben vista, per tanti era solamente una musica per fare affari e praticamente nessuno, in Italia, mostrò meraviglia per i nostri risultati nelle classifiche. Gli stranieri avevano sempre una marcia in più, a dettare legge erano i Modern Talking, Michael Cretu ed altri che sfornavano un successo dietro l’altro. Poi c’erano quelli della corrente new wave che, pur non trovandosi ai vertici delle chart di vendita, dominavano il settore e grazie ai loro suoni innovativi erano, a ragion veduta, i più apprezzati dai DJ».

Bontempi passa dall’italodisco all’eurodance transitando attraverso la (fortunata) parentesi dell’italo house cavalcata con singoli come “Lot To Learn”, “Pain”, preso in licenza oltremanica dalla prestigiosa Champion, “Movin'” e “Do You Want Me”, oltre al precedente “Bauhaus” di Cappella, edito dalla Media Records di Gianfranco Bortolotti nel 1987 e tra i primi brani nati nel solco di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. ad essere prodotti in Italia. «La house music per me fu amore a prima vista» prosegue. «Ricordo bene quando iniziai a proporla in discoteca, insegnando i trucchetti del mestiere ad un allora giovanissimo Alex Neri che avevo trascinato nell’irresistibile vortice del DJing. Ci fu un periodo in cui mi diedero del pazzo perché mettevo dischi con una velocità maggiore rispetto ai soliti e con un basso sempre uguale e monotono alle orecchie di chi non capiva. Io però adoravo quel genere e presto si accorsero delle sue potenzialità pure le case discografiche e i giornalisti».

Il 1993 vede la nascita del maggiore exploit di Bontempi, Corona. Il singolo d’esordio, “The Rhythm Of The Night”, esce a novembre e rappresenta bene lo spirito e l’approccio DJistico applicato in discografia. Individuare un suono, un frammento o uno scampolo di un riff, poi isolarlo dal contesto originario e ricollocarlo in un nuovo mondo è il procedimento con cui la house music (e derivati) prende piede ritagliandosi spazi sempre più grandi e configurandosi come una specie di riciclo creativo e virtuoso. In quel caso riadattare per la strofa una porzione di “Save Me” delle Say When! (a cui sembrano essersi ispirati pure i Daft Punk per la loro “Get Lucky” del 2013) risulta geniale, seppur non sia stato quello l’unico elemento a determinare il risultato finale. I suoni scelti da Bontempi (affiancato da Francesco Alberti e Theo Spagna nel ruolo di sound engineer), il testo scritto da Annerley Gordon, la futura Ann Lee, il giro di tastiera (simile a quello di “Venus Rapsody” dei Rockets) e la costruzione del ritornello, da lì a breve diventato praticamente un trademark per la DWA dell’ex Savage Roberto Zanetti, fanno il resto ed ispirano decine di altri produttori come Emanuele Asti, per sua stessa ammissione nell’intervista raccolta in Decadance, con un altro successo di quegli anni, “The Summer Is Magic” di Playahitty. «I tuttologi dei social, che da anni mi accusano di aver copiato il brano delle Say When!, per me sono e resteranno sempre dei perfetti invisibili. Se bastasse semplicemente copiare, tutti farebbero delle hit! In realtà io non ho né copiato né preso spunto, ho più semplicemente “rubato”, e comunque resto del parere che a fare la differenza non sia stata la strofa bensì il ritornello. Le Say When! non se le filava nessuno o quasi, e non fui certamente l’unico a servirsi di sample o di idee altrui anzi, credo che chi, come me, produceva musica in quel periodo abbia creato un mercato esplorando in modo pionieristico tutto ciò che oggi rientra nella normalità quotidiana. La DWA fece un buon lavoro ma era semplice presentarsi alle major con un prodotto di quel tipo, voleva dire “vincere facile”. Aggiungo un aneddoto: “The Rhythm Of The Night” venne scartato da una persona che ai tempi lavorava in Dig It International, mi disse che non suonava bene, che risultava “vecchio” nella costruzione e che Albertino non avrebbe mai passato un pezzo del genere nel suo programma su Radio DeeJay. Eppure avvenne l’esatto opposto, e se non ci fosse stato Albertino non so se le cose sarebbero andate così. Sono convinto che, dopo tanti anni, senta “The Rhythm Of The Night anche un po’ suo visto che fu lui a tenerlo a battesimo. Ad oggi non è possibile quantificare con precisione le vendite del disco (e a testimonianza di ciò si vedano le differenti certificazioni riportate da Wikipedia sulla pagina inglese ed italiana, nda). Nonostante siano trascorsi venticinque anni è ancora nelle classifiche come su iTunes (in sedicesima piazza, sino a qualche tempo fa)».

Con Albertino (1993)

Checco Bontempi ed Albertino insieme alla consolle del Cavalluccio, discoteca di Lido di Camaiore, febbraio 1993

Per un po’ di tempo le cose vanno più che bene e il progetto trasforma in oro anche alcune vecchie (e meno fortunate) intuizioni di Bontempi: “Baby Baby” rinfresca “Babe Babe” firmato Joy & Joyce nel 1991, mentre “Try Me Out” rilegge l’omonima del 1993 giunta sul mercato come Lee Marrow. «Dopo un successo mondiale è piuttosto facile costruire dei follow-up» spiega l’autore. «C’erano delle cose prodotte qualche tempo prima che amavo ancora e non ho saputo resistere a “rubarmi” da solo. Il potenziale, a giudicare dai risultati, c’era»Con “I Don’t Wanna Be A Star” uscita nell’autunno del ’95, anno in cui arriva anche l’album “The Rhythm Of The Night” pubblicato in tutto il mondo, Bontempi dimostra ancora di avere un solido background da cui attingere le giuste ispirazioni (“Can’t Fake The Feeling” di Geraldine Hunt) e riplasmarle secondo il proprio gusto e sensibilità, ma è l’ultimo su DWA a riscuotere un certo consenso, almeno in Italia. Nel nostro Paese l’interesse per l’eurodance inizia a calare e l’attenzione si sposta, seppur momentaneamente, verso la musica strumentale, la progressive, ben distante dalla propizia formula bontempiana. Dopo sette singoli e due album Bontempi abbandona quindi il brand Corona che dal 2000 finisce nelle mani di un altro team di produzione. «Il successo nella dance è sempre stato effimero, oggi ci sei e domani no, l’obiettivo quindi è battere il ferro finché è caldo. Così, dopo un paio di anni di assoluto tripudio, improvvisamente cambiò tutto. In seguito all’uscita del secondo album, “Walking On Music”, nel 1998, decisi di dedicarmi ad altro. Non è facile tenere inalterate melodie e suoni mentre il mondo cambia, esistono epoche che hanno una durata e nella dance, come dicevo prima, tutto è soggetto a mutamenti fin troppo rapidi. Poi, quando mi accorsi che qualcuno all’interno del team non stesse riconoscendo il mio valore dando invece retta a qualsiasi altra persona che dicesse la sua, pur senza avere un minimo di esperienza, decisi di fermarmi. L’ingranaggio si era rotto, terminai il lavoro così come da contratto e proseguii per la mia strada. Tuttavia ricordo il periodo Corona con molto piacere visti i risultati raggiunti. Dopo di noi pochissimi italiani sono riusciti ad ottenere qualcosa di decente anzi, direi che in seguito ci fu il vuoto totale».

@Casablanca Studio

Checco Bontempi immortalato durante la registrazione del primo album di Corona nel Casablanca Studio di Roberto Zanetti, tra la fine del 1994 ed inizio 1995

Il problema del decadimento artistico e creativo forse va ricercato in una progressiva perdita d’intuito e scarsa capacità di aggiornarsi e rapportarsi in un mondo che proprio in quegli anni avvia una mutazione radicale, con l’avvento di internet che abbatte le barriere e la crescente disponibilità di tecnologia a basso costo che, di fatto, aumenta in modo esponenziale la concorrenza. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila la pop dance nostrana, tolte poche eccezioni, diventa un fenomeno sempre meno internazionale e più provinciale, perdendo l’appeal conquistato circa un decennio prima con l’italo house pianistica che colse di sorpresa persino i britannici. A tal proposito proprio Checco Bontempi dice la sua al magazine Jocks Mag, a maggio del 1998: «Mi hanno telefonato dall’estero suggerendomi di produrre il nuovo brano di Corona in uno stile molto vicino a “Doctor Jones” degli Aqua. Non ho ancora risposto a quest’invito ma la cosa non mi va proprio giù. “Doctor Jones” non è altro che la eurobeat col basso “cavallone” che producevo io, in Italia, anni fa. Mi chiedo allora il motivo per cui dovrei copiare un genere musicale quando questo, senza peccare di immodestia, è stato inventato proprio dal sottoscritto. Noi siamo i migliori a fare questo tipo di produzioni e ad esportare musica dance, cosa vorrebbero insegnarci dall’estero? Di questo passo verranno fuori di continuo cloni di brani già sentiti. Capisco che per il Dio denaro si producano cose commerciali e quasi in serie, come in una catena di montaggio, ma c’è un limite a tutto. Le canzoni non sono portacenere o fustini di detersivo anche se qualcuno le vede così. In passato chi ha osato ha vinto ed accadrà anche in futuro». A distanza di oltre vent’anni da quelle dichiarazioni, la digitalizzazione ha stravolto molte attività, inclusa quella discografica, e beffardamente la musica si è trasformata per davvero in un banale oggetto di ordinario consumo mentre la leggendaria verve degli italiani, un tempo capaci di esportare il prodotto interno in ogni angolo del globo, pare davvero solo un lontano ricordo, come le Torri Gemelle immortalate sulla copertina del mix di “The Rhythm Of The Night”. I competitor d’oltralpe sembrano imbattibili, specialmente sotto il profilo manageriale e di marketing, oggi aspetti incredibilmente più importanti rispetto alla musica stessa. «Il settore ha ormai perso quasi tutto» dice Bontempi senza mezze misure. «I discografici non hanno più la cognizione di ciò che è valido o meno, tutto quello che viene prodotto in Italia pare non vada bene e spesso sento frasi senza senso di persone incapaci di scegliere e lavorare ancora con la musica. Questa cosa è molto triste ed è riscontrabile assai facilmente, gran parte dei prodotti nostrani rivelano infatti un gran piattume senza precedenti»(Giosuè Impellizzeri)

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