49ers – Keep Your Love (Media Records)

49ers - Keep Your Love

Tra i nomi che trainano l’italo house trasformandola in un fenomeno d’interesse planetario, i 49ers di Gianfranco Bortolotti inanellano una serie di successi sin dal 1988, anno in cui esce “Die Walküre” di cui parliamo nel dettaglio qui. Con “Touch Me” del 1989, “Don’t You Love Me” del 1990 e “Move Your Feet” del 1991, il “gruppo” bresciano si impone in modo definitivo nel mercato discografico internazionale destando l’interesse persino di un colosso come la Island di Chris Blackwell che pubblica l’album eponimo in diversi Paesi del mondo. Esaurito il potenziale della cosiddetta spaghetti house però, la formula necessita di un’evoluzione. Ridotte drasticamente le pianate, i 49ers insistono sulla house ma con maggiori slanci verso il suono garage newyorkese come avviene in “Got To Be Free” del 1992, remake dell’omonimo dei New Life pubblicato due anni prima ma senza particolari riscontri dalla A&M PM dalla quale nascerà la più nota AM:PM. Alle versioni approntate negli studi di Roncadelle si aggiungono diversi remix di pregevoli nomi dell’house music d’oltreoceano come E-Smoove e Maurice Joshua, oltre a quello del bravo Andrea Gemolotto ai tempi in forze alla Heartbeat a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Il brano finisce negli Hot Shot Debut di Billboard, tra “L.S.I.” degli Shamen e “Too Funky” di George Michael. Simile il percorso battuto con “The Message”, impreziosito dal remix dei Masters At Work e in virtù di ciò comprensibilmente adorato dai DJ devoti alla house.

49ers su Billboard, 1 agosto 1992
“Got To Be Free” dei 49ers è tra le nuove entrate nell’ambita classifica di Billboard (1 agosto 1992)

Esce un secondo album, “Playing With My Heart” che, come descritto in un articolo di David Stansfield pubblicato da Billboard il 4 luglio 1992, è il risultato di una co-produzione tra la Media Records italiana e la Media Records britannica. «In futuro vorrei che i DJ nostrani e quelli d’oltremanica collaborassero perché da ciò potrebbe svilupparsi un nuovo tipo di cultura legata alla musica dance» afferma Bortolotti in quell’occasione, aggiungendo che per la Media Records resta una priorità affidarsi a cantanti britannici o statunitensi. «È necessario perché la lingua inglese è sempre di moda». Nel 1993 cambia tutto. Col crescente successo dell’eurodance, la Media Records apporta significative variazioni all’apparato stilistico dei 49ers e sebbene la (potente) voce resti quella di Ann-Marie Smith, scelta anche come immagine pubblica, i suoni mutano in maniera più che evidente. Ad inaugurare il nuovo corso stilistico è “Everything” uscito in primavera, inserito già nella tracklist dell’album “Playing With My Heart” e finito in diverse compilation di successo tra cui “105 For You” e “Danceteria 4” ma con risultati più contenuti rispetto ai precedenti.

Per i 49ers il passaggio all’eurodance non risulta efficace e fortunato come quello di un altro progetto-simbolo della label bortolottiana, Cappella, e il brano seguente lo testimonia. Analogamente a quanto avvenuto con “Got To Be Free”, pure “Keep Your Love” fruga nel piccolo repertorio dei New Life, band britannica in cui milita, sino a pochi anni prima, proprio Ann-Marie Smith. La prima versione però, racchiusa in “Playing With My Heart”, risulta inadatta alle nuove tendenze dance in cui opera la Media Records così a Roncadelle ne realizzano di nuove. Antonio Puntillo e Mauro Picotto elaborano due rivisitazioni di taglio euro, la Extended Mix e la R.A.F. Mix, a cui se ne aggiungono altrettante orientate alla house, la Dub Mix e la XClub Cut, quest’ultima a firma DJ Professor (Cristian Piccinelli e Luca Lauri). La più accattivante ed appetibile per le radio è la Extended Mix, costruita sui suoni con cui la Media Records conquista un posto di assoluta rilevanza nella pop dance di quegli anni. L’intro richiama la nenia di un carillon ed incornicia il graffiante cantato della Smith abilmente ricollocato su una trascinante base a cui però manca la chiave di volta ossia un ritornello ammiccante sorretto da un fraseggio di sintetizzatore che conquisti il gusto delle grandi platee. In assenza di questi due elementi, fondamentali nell’eurodance che circola con insistenza nel primo lustro dei Novanta, le potenzialità sono di gran lunga smorzate e quindi il “trapianto” effettuato da Puntillo e Picotto, partito dalla Cherry Pie Mix scritta e co-prodotta dalla Smith e Justin Phil-Ebosie, risulta riuscito solo in parte. La R.A.F. Mix lavora sugli stessi elementi ma con rimandi più evidenti allo stile di StoneBridge. Destinate ad un pubblico completamente diverso le rimanenti due versioni, in bilico tra suoni ovattati tipici della house dei club specializzati in auge in quel periodo e frammenti funky ad irradiare di luce stesure particolarmente “ombrose”. Ulteriori remix vengono pubblicati in Svezia dalla Remixed Records tra cui quello dei Naked Eye che si pone come una sorta di raccordo tra l’eurodance e spunti house ma con poco mordente.

Ann-Marie Smith @ Sib (1993)
Ann-Marie Smith nello stand della Media Records allestito al SIB di Rimini nella primavera del 1993. In quell’occasione viene presentato il numero 0 del magazine WOM – World Of Media che si scorge nell’angolo in basso a destra

“Keep Your Love”, uscito a settembre in Italia, finisce in diverse compilation (su tutte “Danceteria 5”), ai tempi un canale più che determinante per la diffusione di musica tra i giovanissimi ma ciò non basta per farne un successo. A Roncadelle le attenzioni sono quasi tutte rivolte ai Cappella, all’apice della popolarità, mentre i 49ers perdono progressivamente intensità riapparendo sul mercato circa un anno più tardi con “Rockin’ My Body”. Altre prove giungono nel 1995 con “Hangin’ On To Love” e “Lovin’ You”, costruiti sulla falsariga delle hit dei Cappella ma senza riuscire ad eguagliarne i risultati. Una fugace inversione di tendenza avviene solo nel 1997 grazie ad una versione di “Baby, I’m Yours” approntata da Mario Scalambrin, di cui parliamo specificatamente qui con la testimonianza dello stesso autore. Il poco che esce in seguito non suscita attenzioni, inclusa la manciata delle più recenti riapparizioni (“Je Cherche Apres Titine” del 2010, che sfiora il plagio di “We No Speak Americano” di Yolanda Be Cool & DCup, e “Shine On In Love” del 2013, cantata da Cheryl Porter), in cui non si rintraccia davvero più niente di quei 49ers che circa una ventina di anni prima tengono in alto il vessillo dell’italo house nel mondo. (Giosuè Impellizzeri)

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Jack Floyd – Move Your Feet (Ocean Trax/Epic)

Jack Floyd - Move Your Feet

Da adolescente Giacomo Petroni, classe ’79, vive il boom che la musica dance conosce negli anni Novanta, sia quella di largo consumo che più settoriale. Come tanti ragazzini di allora è attratto da uno dei mass media che ricoprono una posizione più rilevante sino all’avvento di internet, la radio. «In quel decennio erano molteplici le emittenti a “passare” musica da discoteca ed alcune di esse avevano in palinsesto anche programmi dedicati a generi meno commerciali (house, deep, progressive, techno)» racconta oggi Petroni. «Una mia vicina di casa, Vania, più grande di me di un paio d’anni, ascoltava ogni sabato la DeeJay Parade ed io seguii il suo esempio. Fu sempre lei a convincere i miei genitori a mandarmi in discoteca una domenica pomeriggio, quando avevo solo quattordici anni. Era il locale che frequentava ogni settimana e pure la discoteca in cui, tempo dopo, suonai per la prima volta davanti al grande pubblico, nel 1995, proprio la domenica pomeriggio. Si chiamava Pianeta Rosso (ma noto anche più semplicemente come Il Pianeta) e quando ci misi piede per la prima volta rimasi folgorato dal DJ e da tutto quello che faceva. Però non mi affidarono la consolle ad occhi chiusi. Ad insegnarmi pazientemente la tecnica del mixaggio con musica funky, suonata a mano, dove non c’era niente di elettronico, fu Edoardo, un amico più grande di me purtroppo mancato prematuramente pochi anni fa. Era uno dei clienti del distributore di benzina che gestivano i miei genitori e viveva sulle colline, non distante da casa mia. Faceva il disc jockey in una nota discoteca della provincia così gli chiesi di andare a casa sua per vedere l’impianto che aveva (giradischi, mixer, casse). Ero davvero curiosissimo e mosso da quel tipico entusiasmo spasmodico di un adolescente. Una volta imparato a mixare col funky, avrei potuto fare altrettanto con la musica moderna anche senza l’uso delle cuffie! In seguito ho avuto altri “maestri” che ho seguito e dai quali ho imparato molto, ma tutto è avvenuto con naturalezza e senza alcun obiettivo di raggiungere la notorietà. Trascorrevo ore ed ore appoggiato alla consolle per osservare ed apprendere la tecnica dai veri professionisti».

“Fare il DJ”, ai tempi, è ancora considerato alla stregua di un hobby sebbene potenzialmente trasformabile in una professione. A differenza di adesso però, quella del disc jockey non era una figura che godeva di una conoscenza generalizzata e trasversale anzi, certi ambienti la vedevano un’attività di second’ordine. «”Fare il DJ” voleva dire tante cose» afferma laconicamente l’artista toscano. «Innanzitutto conoscere la musica, e non solo quella da discoteca, poi saper scegliere il genere da suonare ed essere impeccabile nella tecnica per evitare di essere fischiato. Bisognava inoltre saper gestire una serata spesso incrociando generi differenti seppur simili. Io riuscii a comprarmi due giradischi (a cui poi aggiunsi un terzo) ed un mixer ma non nell’immediato perché avevano un costo non trascurabile e non potevo permettermeli. Pur non disponendo di un impianto, spendevo i soldi che avevo in dischi, ascoltandoli a casa di amici che magari possedevano un giradischi dei genitori. La tecnica però, una volta imparata, non l’ho più dimenticata. Nel momento in cui ebbi la possibilità di acquistare il minimo indispensabile iniziai a passare ore sul mixer, un po’ come fanno oggi le nuove generazioni coi videogiochi. Da lì cominciai a mettere musica nelle varie festicciole di paese che pullulavano di pubblico. Era divertentissimo. Prima di comprare il terzo Technics SL-1200 me ne feci prestare uno da un amico per un po’ di tempo perché avevo il desiderio di provare a mixare con tre piatti. Il sogno divenne realtà e devo ammettere che mi riusciva piuttosto benino. Quando si prospettò la possibilità di suonare in discoteca, facevo set di musica techno/progressive di circa un paio d’ore con tre giradischi, un’assoluta novità per un locale di provincia dove c’erano in media almeno duemila persone ogni domenica. Fu un vero successo col pubblico in delirio. Il Pianeta Rosso di Antraccoli, nel tempo trasformato in Kuku, solitamente chiudeva alle 19 ma una volta continuai quasi sino alle 20:30. A quel punto il direttore, arrabbiatissimo, staccò la corrente dalla consolle. Il problema poi fu convincere ad uscire le persone che continuavano ad urlare “ultimo, ultimo!”».

Jack FLoyd @ Pianeta Rosso (1996)
Sopra due vecchie foto che ritraggono Jack Floyd in consolle al Pianeta Rosso nel 1996, sotto, da sinistra, il logo della discoteca di Antraccoli e un vecchio flyer su cui il nome del locale è Il Pianeta

A livello tecnologico le cose sono radicalmente mutate ma anche sotto il profilo motivazionale il DJing ha cambiato pelle con l’arrivo della globalizzazione. «L’approccio al mondo dei DJ e dei club oggi è totalmente diverso» prosegue Petroni. «Noi avevamo la fortuna di non avere ancora troppi “miti” proprio perché quelli che sono diventati guru della consolle stavano ancora nascendo. L’unica nostra aspettativa era essere bravi tecnicamente e in grado di proporre una buona selezione musicale. Ora invece, nella maggior parte dei casi, la competenza tecnica non è più indispensabile e potendo reperire tutta la musica che si vuole con una spesa minima o persino pari a zero, tutti possono spacciarsi per DJ. Molti però hanno un approccio da influencer con l’unico obiettivo di diventare famosi. A noi delle vecchie generazioni invece questa metodologia non interessava affatto. La “magia” che fortunatamente abbiamo vissuto adesso si è eclissata o quantomeno ridotta. Credo che tutto ciò abbia finito con lo sminuire la figura del DJ. Resto dell’idea che, seppur oggi chiunque possa mixare, i veri DJ siano pochi e quando salgono in consolle la differenza si vede e, soprattutto, si sente».

Spotlight Avenue - Get Together
La copertina di “Get Together”, il disco d’esordio di Petroni pubblicato dalla Ocean Trax nel 1999 e firmato come DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue. Opportunamente rielaborato, due anni dopo diventerà il più noto “Move Your Feet”

Già negli anni Ottanta molti disc jockey si cimentano come produttori ma questo avviene in maniera ancora più evidente e sistematica nei Novanta, decennio che elegge la figura del “DJ-produttore”. Favorito da tecnologia dal costo più abbordabile ed attratto da allettanti potenzialità economiche, un numero sempre più corposo di “fantini del disco” non si limita più a selezionare e mixare musica altrui ma crea la propria come avviene per Petroni che continua a raccontare: «Misi il primo piede in studio del 1997. Era di Alberto Bambini che avevo conosciuto tramite un amico DJ. Abitava a pochi chilometri da casa ed aveva allestito lo studiolo con PC, mixer e qualche sintetizzatore. In quel periodo produceva musica italodance (era dietro a “Disco Disco” di Mabel di cui parliamo qui, nda) e cercava un DJ che lo affiancasse per scegliere i groove migliori da campionare o risuonare nei suoi pezzi. In quel momento si aprì un nuovo mondo, nonostante quello non fosse proprio il genere che prediligessi. Mi piaceva stare in studio e pian piano imparai ad usare Cubase, sequencer che uso tuttora, e a costruire un brano da zero, dall’idea iniziale allo sviluppo delle ritmiche, dalla scelta dei suoni ai sintetizzatori e ai vocal». La prima produzione di Petroni, firmata DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue, viene pubblicata nel 1999 dalla Ocean Trax, blasonata etichetta house di Gianni Bini e Paolo Martini. Si intitola “Get Together” e gira su un sample tratto da un classico della disco, “Lady Bug” dei Bumblebee Unlimited, del 1978. «Vedere stampato un mio disco fu una cosa stratosferica a livello emotivo» ammette candidamente l’autore. «Arrivai a Gianni Bini attraverso David Togni, un suo amico DJ che mi ha insegnato tutto quello che c’era da sapere su come gestire una serata. Un giorno, forse in occasione di una cena, dissi a Bini che avevo iniziato a fare qualcosa in studio così quando la ultimai mi venne naturale proporla proprio a lui. Il pezzo gli piacque al punto da stamparlo su Ocean Trax, una delle etichette italiane più in voga all’epoca (con successi come “Makes Me Love You” di Eclipse, “Disco Down” di House Of Glass Featuring Giorgio Giordano e “Soul Heaven” di The Goodfellas, nda). Siccome l’iscrizione come autore/compositore in SIAE richiedeva ancora l’esame e, di conseguenza, mesi di attesa, decisi di far firmare Togni come autore del brano. Non avevo tempo poiché la pubblicazione del disco era prevista a breve. “Get Together” non vendette moltissimo per l’epoca ma rimase una soddisfazione immensa».

Nel 2001, dopo aver partecipato in veste di autore e remixer ad altre produzioni di Alberto Bambini come “Mabel” di Melba, “Hell Or Heaven” di Aural, “Bye Bye” di Rabanne e “Give Me More” di 4 Factory, “Get Together” si trasforma in “Move Your Feet” che ad oggi resta la maggiore hit del repertorio petroniano. Il rimaneggiamento si rivela provvidenziale al punto da trasformare un brano passato inosservato al grande pubblico in un autentico successo che coinvolge platee immense e radio generaliste. «”Get Together” era un disco “dub” suonato in vari club ed eventi da DJ di settore ma con una grossa presa sulla pista» spiega a tal proposito il DJ toscano. «Qualche tempo dopo la sua uscita Mauro Bonasio, allora A&R della Epic, etichetta del gruppo Sony, mi contattò dicendomi che se avessi trovato una buona linea vocale e riarrangiato/stesurato meglio la traccia strumentale, sarebbe stato interessato a ripubblicarlo perché a suo avviso era davvero forte ed aveva un grosso potenziale inespresso. Così tornai in studio e buttai giù un po’ di linee vocali. Dopo un paio di pomeriggi di prove inviai le demo a Bonasio a cui piacquero. Da quel momento iniziò il lavoro per la produzione finale. Mi richiusi in studio per qualche giorno, sempre con Alberto Bambini. Ai tempi avevamo un mixer Yamaha 01V, qualche synth rack, un paio di tastiere e due monitor Yamaha NS-10, ma per “Move Your Feet” servirono ben pochi strumenti perché il sample di “Lady Bug”, ben lavorato e supportato da una ritmica incalzante, era più che sufficiente. Il problema che si prospettò riguardava proprio il campionamento del brano dei Bumblebee Unlimited che decidemmo di risuonare dal vivo con vari strumenti. Ad occuparsi delle chitarre fu Vincenzo Bramanti mentre il basso era di Anacleto Orlandi. Fu un lavoro piuttosto impegnativo, considerando che non avevo molta dimestichezza nell’ambito delle produzioni discografiche, ma l’esperienza fu utile e portò buoni frutti». Per l’occasione Petroni modifica graficamente lo pseudonimo DJ-@K Floyd regolarizzandolo in Jack Floyd (ed omaggiando ancora il gruppo di cui è un grande estimatore, i Pink Floyd), e diventa autore di un pezzo che si inserisce nella scia disco house, fusione iniziata già nei primi anni Novanta (si veda, ad esempio, Daniel Wang di cui parliamo qui) e poi continuata per mano di tutta una serie di artisti (come gli italiani Tutto Matto o Leo Young, intervistati qui e qui) sino a sfociare nella mainstreamizzazione europea del french touch. L’aggiunta di un cantato ad un brano strumentale, formula atta a potenziare l’aspetto commerciale, è del tutto coerente con quanto avviene tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila visti i casi di “Needin’ U” di The Face, “Horny” di Mousse T., “Right On!” dei Silicone Soul o “Groovejet” di Spiller, a cui si aggiungerà pure “Universal Love” di Francesco Farfa, edito proprio da Ocean Trax nel 2004.

Scott Foster
Un primo piano del compianto Scott Foster, cantante di “Move Your Feet” nonché immagine pubblica di Jack Floyd nell’estate 2001

«Quando dovemmo scegliere chi avrebbe cantato il pezzo, proposi una mia conoscente, Lara Turio, cantante professionista già attiva in vari gruppi, con una voce molto soul ma parecchio potente» rivela Petroni. «Iniziammo a registrare e durante le session mi venne l’idea, poi rivelatasi vincente, di farla cantare due toni sopra la tonalità originale e poi “pitchare” il risultato tornando a quella di partenza. Da lì vennero fuori le voci ricantate da Scott Foster (già coinvolto in qualche produzione discografica minore tra cui “Let You Go” e i featuring per “Give A Nigga Little Room” di Booster Brown e “Close To You” di The Real Note, nda) che alla fine divenne il protagonista del videoclip e delle esibizioni live come quella al Festivalbar 2001. Purtroppo ci ha lasciati pochi anni fa per una brutta malattia, era un grande artista ed una brava persona. Ottimo performer oltre ad essere un valido cantante ed attore, Foster in quel periodo viveva a Milano e lavorava per un’agenzia di spettacolo. A suggerirmi il suo nome fu Bonasio. Dopo averlo conosciuto, provammo a fargli ricantare il pezzo. Boom! Le voci erano fortissime e stavano alla perfezione sulla nuova base che avevamo approntato. I backing vocal invece, come preannunciato, erano di Lara Turio alias Aguan. Riguardo il video, correvano ancora i tempi in cui, specialmente le grandi case discografiche, tendevano a creare un personaggio identificativo del progetto (così come illustrato in questo reportage, nda). In quel caso visto che Foster era un cantante di bella presenza, alla Epic decisero di puntare su di lui come unica immagine da abbinare al brano. Col senno di poi, non si rivelò una scelta a mio favore ma non avevo alcun potere decisionale in merito. Come spiegato, facevo il DJ già da diversi anni ed avrei preferito che il progetto Jack Floyd venisse promosso come DJ che aveva realizzato una produzione forte e non come uno dei tanti progetti di studio anche perché Jack Floyd non era affatto un progetto studiato a tavolino bensì una persona, io! Per il grande pubblico è naturale associare una canzone ad un viso ed è spontaneo pensare che il cantante sia anche l’artista che abbia composto il brano, ma nel mio caso non fu così. Si creò una confusione a livello di immagine che poteva essere evitata se gestita meglio. Sarebbe bastato anche un semplice “featuring”. Il pubblico che seguiva abitualmente i miei DJ set mi riconosceva come autore di “Move Your Feet” sebbene il mio volto non figurasse sulla copertina del disco o in tv. Purtroppo la gestione lacunosa della promozione sul piano artistico mi fece perdere diverse serate importanti. Mi servirono anni per far capire sia al pubblico che agli addetti ai lavori chi fossi in realtà. Considerando poi che tutta la promozione dell’epoca fosse cartacea visto che la diffusione di internet era ancora all’inizio, la comunicazione col resto del mondo divenne ancora più difficoltosa. Comunque, nonostante tutto, il pezzo andò benissimo. Tra dischi, CD singolo e compilation, “Move Your Feet” (che la Epic fa remixare da Riccardo Piparo dei Ti.Pi.Cal. e dalla coppia Donati & Amato, nda) vendette qualche centinaio di migliaio di copie».

Paradossalmente, pur ritrovandosi con una hit in tasca, Jack Floyd si scontra ancora con l’anonimato a causa delle discutibili strategie discografiche adottate, ma del resto la stagione dei cosiddetti “DJ rockstar” è ancora lontana. Sino a quel momento i disc jockey artefici di importanti successi vengono ingaggiati perlopiù come mimi. In tv pigiano randomicamente tastiere spente o simulano mixaggi su consolle non collegate e posizionate sui palchi di grosse manifestazioni a mo’ di scenografie. Tuttavia i rapporti tra Jack Floyd e la Epic proseguono e nel 2002 esce il secondo singolo, “Follow Your Feeling”, che stilisticamente segue fedelmente le orme del primo non deragliando dai binari della disco/funk trapiantata nella house (ancora con l’ausilio di diversi musicisti come il bassista Andrea Cozzani e il chitarrista Antonello Pudva) ma non riuscendo a bissarne il successo. «A mio avviso era il follow-up perfetto e tra l’altro neanche particolarmente studiato, nato e sviluppato in modo istintivo» dice in merito Petroni. «Era già pronto quando nei negozi arrivò “Move Your Feet”, nell’aprile del 2001, e sarebbe dovuto uscire a settembre ma non fu così. Posticiparono la pubblicazione rimandandola sino al 2002 quando ormai le tendenze erano cambiate e “Follow Your Feeling” non raccolse il successo che meritava». Nel corso degli anni sono svariati gli artisti, tra cui Felix, Robert Miles, Roberto Gallo Salsotto o White Town di cui parliamo rispettivamente qui, qui, qui e qui, ad ammettere di non aver vissuto esperienze rincuoranti con le multinazionali, più attratte dallo sfruttamento del successo del momento che dal supportare attivamente facoltà creative. «All’epoca, poco più che ventenne e con una smania di fare musica che usciva da tutti i pori, non ebbi remore a firmare con Epic/Sony» ammette Petroni. «Inoltre non avevo alcun tipo di esperienza nella contrattazione discografica ma non penso mi abbiano “fregato”, hanno curato semplicemente i loro interessi, magari non proprio nella maniera più sincera possibile, ma alla fine ero io a non essere ancora in grado di sostenere una contrattazione in un mondo, quello discografico, che sino a quel momento avevo visto solo come “artista”. E, si sa, gli errori si pagano, ed anche alla grande, ma servono pure a maturare anzi, credo siano quasi indispensabili per progredire, nell’arte come nella vita. L’importante è non ripeterli».

Jack Floyd @ Epidemic Festival, San Paolo (Brasile) 2007
Jack Floyd si esibisce all’Epidemic Festival a San Paolo, in Brasile, nel 2007

Archiviata la collaborazione con la major, Jack Floyd torna con le indipendenti ed incide altri pezzi house per la Beside Music di Paolino Bova dei T-Move Experience (di cui parliamo qui) come “Freedom”, “Before You” e “Fast Baby, Faster”. I tempi per la discografia però stanno radicalmente cambiando, quelle che erano certezze sino a pochi anni prima si sgretolano una dietro l’altra (etichette, distributori, emittenti radiofoniche). Dal comparto nostrano emergono veloci tutte le tare rimaste nascoste nel decennio precedente ed in breve è quasi tabula rasa. «Furono anni in cui il mercato discografico andò drasticamente giù» sintetizza l’artista lucchese. «I fattori che hanno influenzato quel trend negativo credo siano stati diversi ma coincidenti tra loro e a livello globale anche se in Italia ne abbiamo risentito un po’ di più rispetto ad altre nazioni. Le major iniziarono a chiudere i dipartimenti dance mentre le radio sottrassero progressivamente spazio alla musica da discoteca. Dagli inizi degli anni Duemila anche le trasmissioni che proponevano quel genere sposarono una linea stilistica opinabile, supportando produzioni a mio avviso scarsamente interessanti e di basso spessore creativo. L’avvento del digitale, giunto qualche tempo dopo, fu una “soluzione” abbastanza degradante per il commercio discografico. Il mercato, di fatto, si è ridotto a dimensioni microscopiche. Tanti pseudo DJ ormai neanche comprano più i file sui portali ufficiali pensando di far bene a scaricare illegalmente ma non rendendosi conto che, come in tutte le attività, il produttore ha bisogno di introiti per continuare a svolgere quella professione. Sostanzialmente è stato un periodo di rovesciamento quasi totale riguardo la metodologia di lavoro a cui tutti erano abituati sino a quel momento».

due uscite di JaCk
Due produzioni che Petroni firma col nuovo alias Ja:ck: sopra “Above & Beyond” (Fahrenheit Music, 2017), sotto “Paprika/Balearia” (Cocoon Recordings, 2018)

Se da un lato Petroni tiene vivo Jack Floyd (nel 2014, ad esempio, esce “About Reality And Fantasy” realizzata con Carlo Toma e cantata da Raphael Gualazzi), dall’altro prova a reinventarsi modificando parzialmente l’alias in Ja:ck approdando nel 2017 alla Cocoon Recordings di Sven Väth che pubblica la sua “Nattura” su un 10″ condiviso con lo svedese Joel Mull. L’anno dopo tocca invece a “Paprika/Balearia”. «La mia non è stata proprio una reinvenzione» dice. «Dopo anni mi sono reso conto che Jack Floyd fosse artisticamente troppo legato a “Move Your Feet” (rispolverato nel 2009 mediante nuovi remix sempre su Ocean Trax, nda) e tutti continuavano ad aspettarsi una produzione che funzionasse al pari di quella. Io però non ho mai composto musica con l’obiettivo di incidere una hit. Un successo è fatto da tanti tasselli che devono coincidere, non solo a livello artistico, quindi se arriva è il benvenuto ma non è mai stata una mia prerogativa. Così una mattina mi sono svegliato ed ho deciso di botto di porre fine a quello pseudonimo che mi aveva accompagnato per tanto tempo. Avevo bisogno di iniziare a produrre musica in piena libertà, priva di “paletti” di genere e tantomeno discografici. Musica che piacesse in primis a me, senza nessun obiettivo di conquistare il mercato. Quindi nuovi stimoli e totale libertà artistica. Ho mantenuto solo parte del nome, Jack, intervallandolo dai due punti (Ja:ck). Prodotte le prime quattro tracce, le ho fatte sentire a Mario Più che le ha pubblicate sulla sua Fahrenheit Music. Appena completate altre due, le ho inviate all’attenzione di un personaggio che ho sempre seguito nelle varie serate ma con cui non avevo mai avuto occasione di parlare, Sven Väth. Dopo circa un mese ho ricevuto una email dall’ufficio di Cocoon Recordings con cui mi informavano che a Väth sarebbe piaciuto pubblicare “Nattura”. La mia felicità era alle stelle: sapere che il DJ che preferivo su tutti voleva un mio pezzo su una label che ho sempre considerato all’avanguardia mi spiazzò. Insomma, tutto è avvenuto senza alcun accordo precostruito. La mia musica, quella che volevo produrre da tempo, è giunta sul mercato in virtù della stessa, senza conoscenze, intermediazioni o altro. È stata una cosa abbastanza magica. Da quel momento ho iniziato a frequentare il team Cocoon più da vicino e a trascorrere momenti particolari che mi hanno fatto crescere ulteriormente. Un anno dopo è uscito anche il 12″ “Paprika/Balearia” che Sven Väth ha supportato tantissimo nelle sue serate in tutto il mondo. La cosa che ho apprezzato di più, sia di Sven che della Cocoon, è la dedizione per la musica e l’atmosfera che si crea ogni volta che ci troviamo. È sempre una festa e questo non preclude affatto il lavoro, anzi. Nel frattempo sono sbarcato su altre label come Family Piknik Music, Loot e Natura Viva. Questa visibilità dal respiro più internazionale mi ha dato modo di conoscere un bel po’ di gente nuova tra DJ, produttori, organizzatori e manager. Sto aspettando la riapertura dei locali con trepidazione! Al momento ho diverse tracce pronte, due delle quali usciranno prossimamente su Cocoon Recordings. Nel contempo lavoro anche su altre idee ma col massimo relax e senza pressioni. Ho prodotto pure due pezzi con Luis Bertman, il DJ resident dello Spazio Novecento a Roma ed ho realizzato un remix che uscirà sulla spagnola Kulto. Al momento sto vagliando diverse proposte di management per quando tutto ripartirà, spero il prima possibile. Questa emergenza sanitaria ha cambiato in maniera irreversibile tante nostre abitudini, atteggiamenti e comportamenti. Le menti sono mutate, le persone pensano ed agiscono diversamente, anche nella vita quotidiana. Il club, purtroppo, non è rimasto escluso da tale cambiamento, era inevitabile. Ci sarà bisogno di ripartire da zero, quando sarà fattibile. Ritengo che se tutti gli addetti ai lavori, nessuno escluso, non faranno un passo indietro e torneranno a lavorare per il club così come avveniva negli anni Novanta, con la stessa dedizione, divisione di ruoli, professionalità e passione, sarà assai difficile ambire ad una vera ripresa del mondo della notte. Nel corso dell’ultimo decennio tutto è stato appiattito e confuso ad uso e consumo di pochi per la rovina di molti lavoratori del settore, forse troppi. Quindi, secondo me, quello che viviamo ora può essere davvero un periodo da sfruttare per la rinascita della scena dance, ed è quello che mi auguro avvenga. A livello discografico, le etichette non legate ad una promozione che passa principalmente dai club ma dal mondo digitale e/o radiofonico hanno registrato un calo ma continuano a lavorare ancora bene, quelle legate alle discoteche invece se la stanno passando peggio perché manca del tutto la promozione connessa ai DJ e alle loro serate. Ma, come già detto, se il mondo della notte si impegnerà tornando in qualche modo alle origini, potremo avere una buona chance di fare anche meglio di prima». (Giosuè Impellizzeri)

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DJ Hell – House Music Box – Past Present No Future (The DJ Hell Experience)

Rivolgere l’attenzione al passato è di gran lunga più rassicurante e semplice di delineare il futuro, specialmente di questi tempi in cui proprio il futuro è stato sostituito da un gigantesco punto interrogativo. Il futuro è fatto di sogni, progetti, idee, intuizioni e colpi di fulmine, cose a cui è arduo pensare adesso ma, pandemia a parte, è bene ricordare che la produzione discografica di matrice house/techno è da anni “ostaggio” della nostalgia, di strumenti destinati all’archiviazione rivalutati a peso d’oro, di espedienti creativi azzerati dalla praticità delle automazioni digitali ma recuperati ai fini di una composizione apparentemente più autentica e viscerale, di suoni che sembravano destinati all’oblio ma che riescono ancora a far palpitare cuori ed animi. Insomma, a conti fatti è un passato di cui si rimpiange un po’ tutto, incluse attitudini e prerogative di chi si dava da fare forse in modo naïf ma senza ricorrere a troppe strategie e fini opportunistici e calcolatori, perseguendo obiettivi che avevano poco da spartire con l’industrializzazione del mondo delle discoteche e la socialnetworkizzazione che ha reso esteticamente tutti simili ma disperdendo gran parte dei contenuti. Se da un lato ci si ripete che bisogna essere più audaci per lasciare il segno del proprio passaggio, dall’altro ci si rende conto che la sfida ormai è riuscire a piacere al maggior numero possibile di persone. Schiavizzate e spesso ubriacate dalle cifre del web, così inebrianti ma allo stesso tempo vacue ed illusorie, le nuove generazioni (ma pure le vecchie, e il disco qui analizzato ne è testimone) preferiscono rintanarsi in ciò che è stato piuttosto che esplorare ciò che sarà. Non era certamente questo il futuro che si sognava negli anni Ottanta e Novanta, quando si pensava al Duemila come porta che avrebbe spalancato il corso di un nuovo mondo e di una nuova esistenza. Certo, non viaggiamo ancora su automobili volanti così come si preannunciava fantasiosamente in alcuni romanzi e per certi versi profetici fumetti sci-fi, ma il turismo spaziale è imminente, le abitazioni si sono domotizzate a sufficienza e le vite informatizzate quanto basta per accorgerci di quanto tempo sia passato e dove siamo arrivati. C’è un prima e un dopo insomma, a livello storico, economico e tecnologico. Ed anche musicale ovviamente. Ma dove è finito il futuro? Qual è l’ultimo pezzo che ci ha fatto veramente sobbalzare dalla sedia? Una volta ci si sforzava il più possibile per incidere brani che potessero dare l’impressione di essere stati scritti nel futuro mentre adesso avviene l’esatto opposto, ci si impegna affinché i contenuti sembrino provenienti dal passato. Di futuro, dunque, se ne sente drammaticamente l’assenza e a rimarcarlo è pure DJ Hell, nato Helmut Josef Geier quasi sessant’anni fa in un piccolo paesino della Baviera e considerato una colonna granitica della club culture teutonica, tornato da pochissimi giorni con un nuovo album, il sesto di una carriera pluri quarantennale.

DJ Hell - Zukunftsmusik
La copertina di “Zukunftsmusik”, l’album di Hell uscito nel 2017, tematicamente in antitesi col nuovo “House Music Box – Past Present No Future”

Se nel 2017 il tedesco aveva premuto il pedale dell’acceleratore pubblicando “Zukunftsmusik” (ossia “Musica Del Futuro”), a tre anni di distanza pigia il freno, innesta la retromarcia e guarda nello specchietto retrovisore. Una delle tracce racchiuse in “Zukunftsmusik” si intitolava “I Want My Future Back” ma di quel futuro tanto desiderato non resta niente. «Nel 2020 il mondo si è rivelato fuori controllo, nessuno è alla guida di esso e tutto è surreale» afferma l’artista raggiunto per l’occasione pochi giorni fa. «Il titolo del mio nuovo album però è già pronto da circa due anni, quindi ben prima che la pandemia colpisse il pianeta e fermasse ciò che ha riempito la maggior parte delle nostre vite. Concerti, discoteche, teatri, cinema, adesso tutto è chiuso e stiamo vivendo un nuovo lockdown. Non mi è permesso viaggiare quindi non posso lavorare, guadagnarmi da vivere, gestire un’etichetta ed occuparmi di musica ed arte. In tantissimi vorrebbero tornare indietro sino a poco prima che tutto si congelasse e rimanesse sospeso. Governo e politica ci deludono e non ci sostengono. La musica elettronica e la club culture in Germania non possono contare su alcuna lobby e non hanno mai avuto supporto da nessuno. Comprendo che chi lavora in discoteca o nei festival rappresenti solo una piccola parte di popolazione ma il numero si allarga sensibilmente se si prende in considerazione anche chi opera nel campo dell’arte, dei teatri e della cinematografia. La situazione che si è delineata in questo 2020 dimostra chiaramente come il vecchio sistema politico non possa più funzionare. Se in futuro nuovi virus come il COVID-19 colpiranno il pianeta, nessuno sarà pronto per fronteggiare l’emergenza. Sono state prese troppe decisioni errate rivelatesi inefficaci. Molta gente ora è confusa e rabbiosa perché ha perso il lavoro e non vede alcuna speranza all’orizzonte. Dovremmo cambiare tutto ed imparare dagli errori commessi in passato».

È proprio nel passato che Hell (ri)trova rifugio. Già, perché sarebbe imperdonabile non ricordare che nella sua intraprendente attività artistica ci sia stato quasi sempre uno spiraglio aperto sullo “ieri”, specialmente dai tempi di “Munich Machine” (Disko B, 1998) e delle prime annate di attività della sua International Deejay Gigolo Records con vistose occhiate all’electro, all’italo disco, al synth pop, all’EBM e alle fasi prodromiche della house music avvenute tra Chicago, Detroit e New York (si pensi, in tal senso, a “True Story Of House Music” di Elbee Bad ed alla compilation “DJF 750 – DJ Freundschaft”, entrambi risalenti al 1999, o alla trilogia “My Definition Of House” che tra 2005 e 2006 raccoglie perle di Phuture, Mike Perras, 33 1/3 Queen, Earth People e Johnny Dangerous). «Sono cresciuto con quella musica e con quella ho imparato a svolgere il lavoro da DJ, come produrre dischi e come gestire una casa discografica» spiega Geier. «La maggior parte della mia vita è connessa proprio alle formule ed idee della prima stagione della nightlife, appartengono al mio DNA. Perché quindi non tornare al punto di partenza ed immergersi nel cuore della scena chicagoana di Lil’ Louis o Ron Hardy, e magari riabbracciare i primordi della techno di Detroit con “Sharevari” (due remix del cult dei A Number Of Names appaiono su International Deejay Gigolo Records nel 2002, nda) e della house music newyorkese di Larry Levan?».

Alla luce di ciò è facile comprendere la ragione per cui “House Music Box – Past Present No Future” sia disseminato di citazioni e riferimenti e contraddistinto da quella semplicità ed elementarità primitiva tipica della house music della prima ora, quando anche la sola programmazione della batteria può fare la differenza, stupire ed indicare nuovi percorsi da seguire come avvenuto ad esempio coi brani seminali degli Z-Factor di Jesse Saunders e Vince Lawrence. Hell però non ha la pretesa di somigliare troppo ai decani della house a stelle e strisce, e non intende nemmeno riciclare le connessioni soul/disco dei Visual o Colonel Abrams. Impasta quegli elementi, è fuor di dubbio, ma lo fa cercando di non perdere mai la propria cifra stilistica che, a conti fatti, è il valore più importante perché racchiude il senso dell’identità. L’itinerario inizia con “Jimi Hendrix”, un persuasivo trip estatico che, nei primi secondi, occhieggia al “Poney Part 1” di Vitalic (International Deejay Gigolo Records, 2001) ma che poi rivela tutt’altro, tirandosi dietro un bagaglio profondamente diverso rispetto ai riferimenti del francese lanciato proprio da Hell, con ombreggiature tetre più paragonabili alla sua “Music For Films” del ’96 svuotate dell’energia elettrizzante e dai ritmi collerici della techno di allora (si veda qui), oltre a staffilate di rullanti sghembi che squarciano le tenebre. Si prosegue con minimalizzazioni ritmiche, brevi gorgheggi acidi – forse un po’ più di TB-303 non avrebbe fatto male in tutto il full length – e l’essenzialità di un messaggio vocale ossessivamente ripetuto insieme ad affermazioni celebrative sul ruolo centrale di Chicago (“HausMusik”), incandescenze percussive à la Ron Trent/Armando Gallop con tanto di tutor vocale (“G.P.S.”), e contrasti tra un luminoso arpeggio a spirale e sinistre ombre sullo sfondo (“Freakshow”, omonimo del DVD edito ancora da International Deejay Gigolo Records nel 2005). È palese che nella prospettiva helliana risiedano pure ricordi recenti rispetto ad un passato più remoto, seppur quest’ultimo resti il fulcro del lavoro e ciò lo dimostra un’altra traccia-tributo, “Electrifying Mojo” dedicata a Charles Johnson, il DJ di Detroit che col suo programma radiofonico Midnight Funk Association ha contribuito a forgiare le personalità e i gusti dei futuri artefici della techno della città dei motori. I layer che si sovrappongono bilanciano incantatori stralci melodici ad una carica ritmica incessante e magnetica. Poi “Out Of Control” scelto come primo singolo, trainato da un video di Stacie Ant e probabilmente tra i pezzi col potenziale maggiore derivato dal ribollire cavernoso delle percussioni, da una velenosa linea funk e dal sapiente utilizzo di più sample incrociati tra cui “Don’t Lose Control” dei Material, 1982, e “Shake Your Body” di Jeanette Thomas, 1987, isolato e ricontestualizzato in modo simile a quanto avvenne nel ’92 in “My Definition Of House Music” con lo stralcio della Space Dance Mix di “Ava” di David Byrne ad opera di Rudy Tambala. “Tonstrom”, la più rilassata e sensuale del disco, è un flessuoso tool che rimanda al Bobby Konders di “The Poem”, anche questo recuperato da International Deejay Gigolo Records nel 2002. Immancabile la cover, questa volta “The Revolution Will Not Be Televised” di Gil Scott-Heron trasformata in “The Revolution Will Televised” inglobando all’interno il mood di “French Kiss” del già citato Lil’ Louis ma irrobustito da suoni più ferrosi e granulosi. Il numero totale di tracce, otto, costituisce un ulteriore legame col classico formato degli album 2×12″ ma esiste pure un disallineamento rispetto al passato dell’artista, l’assenza di co-produttori che sinora hanno sempre affiancato Hell in studio, provocando qualche polemica sulla sua presunta incapacità di maneggiare autonomamente le macchine. «Tutte le tracce sono state scritte, prodotte ed arrangiate da me» chiarisce l’autore. «Tuttavia ci sono molti studi di registrazione e persone coinvolte nella realizzazione di questo album. Alcune parti, ad esempio, sono state registrate, anni fa, ai Trixx Studios di Berlino, mentre il tocco finale lo ho dato con Ken Hayakawa nel suo studio a Vienna, in Austria. Tecnicamente invece, per tenere fede al concept, ho usato solo drum machine e sintetizzatori Roland, prevalentemente analogici, esattamente come avveniva quando house e techno mossero i primi passi».

le copertine di Jonathan Meese
In alto a sinistra la copertina del doppio vinile, a destra quella del CD, in basso, sempre da sinistra, quelle dei primi tre singoli estratti da “House Music Box – Past Present No Future”, “Out Of Control”, “Jimi Hendrix” e “Freakshow”, tutte realizzate da Jonathan Meese

Grande cura ed attenzione, come sempre, è rivolta all’artwork, realizzato per l’occasione da Jonathan Meese, a Berlino, autore di due versioni grafiche differenti, una destinata al doppio vinile (trasparente) ed una al CD. «Meese è tra gli artisti più bravi e potenti qui in Germania» dice Hell a tal proposito. «Amo profondamente la sua arte e i suoi quadri così gli ho chiesto se gli andasse di prendere parte a questo progetto. Le copertine che ha fatto per me (incluse quelle dei primi tre singoli, “Out Of Control”, “Jimi Hendrix” e “Freakshow”, usciti a novembre, nda) sono eccezionali ma la nostra collaborazione non si esaurisce qui. In arrivo c’è un altro album realizzato a quattro mani e che verrà pubblicato dalla Buback di Amburgo». Contrariamente a quanto si potesse immaginare e supporre, “House Music Box – Past Present No Future” non esce su International Deejay Gigolo bensì su una nuova etichetta partita ufficialmente ad inizio 2020 con la soundtrack del film “Yung”, The DJ Hell Experience. «Nuova label, nuova vita, nuove idee, un nuovo mondo» sintetizza l’autore, non sbilanciandosi però sulle ragioni che lo hanno convinto a non pubblicare il disco sulla sua etichetta storica, forte di un catalogo (analizzato in “Gigolography” del 2017) pieno di pezzi diventati segno dei tempi. Ci tiene a far sapere comunque che International Deejay Gigolo continuerà ad essere operativa. «Sarà particolarmente attiva nel 2021» annuncia. «Stiamo lavorando sull’intero catalogo al fine di poter effettuare varie ristampe ed organizzare nuovi party in tutto il mondo, coi nuovi artisti ma anche coi vecchi».

un frame del video di Out Of Control
Un frame tratto dal video di “Out Of Control”

In una video chat con Abe Duque risalente al maggio 2020, Hell accenna anche ad un secondo album già pronto di cui però si sono perse le tracce. «Non posso parlarne perché l’uscita non è stata ancora pianificata e trovo prematuro scendere nei dettagli adesso. L’intero movimento della musica elettronica si è fermato nel 2020, tante cose sono finite irrimediabilmente in stand-by. Le etichette continuano a pubblicare brani e ci sono tanti eventi trasmessi in streaming ma non credo che ciò possa rappresentare il futuro anzi, alla lunga finirà per uccidere l’intero comparto. Purtroppo, a causa di tutte le restrizioni, possiamo solo fermarci e riflettere su ciò che abbiamo fatto negli ultimi trentacinque anni. Tanti club non sopravvivranno e sarà arduo per i DJ andare avanti senza locali in cui lavorare. Dallo scorso febbraio siamo tempestati da informazioni confuse circa il coronavirus e ad essere onesto non sono molto ottimista per il 2021. Trasferirsi in Australia o Finlandia, tra i pochi Paesi che sono riusciti ad arginare la pandemia, potrebbe rappresentare una via d’uscita, ma se l’economia andrà a picco, moltissima altra gente perderà il proprio lavoro. Non ho intenzione di mollare però: continuerò a darmi da fare in più progetti possibili come documentari e la recitazione, oltre a praticare sport ogni giorno» conclude il tedesco. (Giosuè Impellizzeri)

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