Back To Lo-Tech, il primo LP firmato da Coccoluto e Martinez

Nel 1998 Claudio Coccoluto e Savino Martinez sono reduci da un successo internazionale, “Belo Horizonti”. Le strategie di marketing della discografia tradizionale avrebbero promosso a pieni voti e senza riserve la pubblicazione di un album con la medesima ragione sociale, The Heartists, con almeno una coppia di brani-clone da estrarre come singoli e dare in pasto alle radio secondo un protocollo banale, da fare invidia a chi continua a mandare convintamente in onda “All I Want For Christmas Is You” di Mariah Carey o “Last Christmas” degli Wham! nel periodo natalizio. I due però non hanno affatto programmato di cavalcare quella popolarità inaspettata e neanche cercata, peraltro amplificata e spostata sui binari della scena mainstream dalla versione approntata ad hoc dai tedeschi Bellini (per approfondire si legga qui), che farà di Airto Moreira uno dei re dei trenini delle balere insieme a Two Man Sound e Lu Colombo.

Dall’HWW Studio quindi i nostri tirano fuori un LP firmato The Dub Duo, nomignolo che sino a quel momento hanno utilizzato poco più di una manciata di volte in occasione di qualche remix (“The Player” delle First Choice, insieme a Paolo Martini, “C Lime Woman” di The People Movers), un pezzo destinato a una compilation austriaca (“Drum-O-Tronic”) e giusto un paio di 12″ ossia l’EP di esordio della the dub e “Hi Energy” sull’etichetta di Leo Young, la britannica Pronto Recordings. Proprio d’oltremanica è anche la label che nel 1998 pubblica “Back To Lo-Tech”, la NRK di Bristol, partita l’anno prima da un’idea di Nick Harris e Redg Weeks e subito presa in considerazione dai DJ internazionali. Il catalogo cresce rigoglioso e in fretta grazie al supporto di artisti influenti come il canadese Nick Holder, gli americani Gemini e Lenny Fontana, il tedesco Ian Pooley e il francese Dimitri From Paris che, per l’appunto, firmano le prime produzioni.

“Back To Lo-Tech” è un doppio mix ed è considerato un LP (come peraltro viene indicato sul sampler contenente due tracce con cui la NRK anticipa l’uscita) ma a onor del vero il duo cassinate non aveva affatto cantierizzato l’incisione di un album, perlomeno non con le caratteristiche che le case discografiche di un certo tipo ai tempi esigono. Nella DJ culture di quegli anni, a dirla tutta, non c’è proprio la velleità di incidere album, formato che interessa più da vicino la cultura rock e pop, nonostante non manchino esempi con cui le grosse compagnie discografiche applicano gli stessi modelli alla musica delle discoteche, si pensi a “Paradise” di Inner City (1989), “World Power” degli Snap! e “Dreamland” dei nostri Black Box (entrambi del 1990), “Experience” dei Prodigy (1992), “Homework” dei Daft Punk (1996) o “You’ve Come A Long Way, Baby” di Fatboy Slim (1998), giusto per citarne alcuni tra i più noti e rappresentativi. Nel gergo DJistico inoltre, c’è l’abitudine di chiamare “album” ogni doppio mix, seppur la presenza di due dischi tante volte serva, più banalmente, solo a radunare in un’unica tornata il materiale che, per numero, sfonda il muro del Single o dell’EP.

“Back To Lo-Tech” è proprio questo, un doppio riempito con musiche composte in tempi diversi e non concepite per essere incorniciate in uno stesso quadro, seppur tra una traccia e l’altra ci sia un filo logico. La matrice è ballereccia, contraddistinta da un magma di elementi, un ribollire di influenze e una concatenazione infinita di sample che restituiscono la portata del background e l’ampiezza di vedute degli autori, che rivolgono un occhio al passato e l’altro al futuro. In molti pezzi si fatica a capire dove finisce una cosa e inizia l’altra, le citazioni si mescolano all’istintività e ciò fa del disco una sorta di cubo di Rubik, un poliedro in costante movimento in cui ogni rotazione equivale al desiderio di sconfinare gli stereotipi della house music più consueta.

Il contenuto del disco

A1 – I Love You (Main): funk disco svisata nella house, con un breve hook vocale (forse lo stesso che usano i CYB per “I Love You Darling”?) che si ripete in modo ossessivo ma seguendo diverse variazioni. Il resto viene spinto da stantuffi di suono prog con un finale ad appannaggio di percussività latine che comunicano forza ed energia. Una seconda versione, più intrisa di loopismi etnici, raggiungerà i negozi di dischi nel 1999 attraverso un 12″ sul quale la NRK vuole, oltre alla Main (riscoperta nel 2007 attraverso un remix degli Headhonchos ovvero i capi dell’etichetta), pure la bonus track “The Dream Drummer”, costruita con la stessa metodologia compositiva incrociando pulsazioni ritmiche house a porzioni di latinismi, campionamenti fOnky e frammenti di amen break che lo rendono appetibile anche a chi, ai tempi, impazzisce per il cosiddetto chemical beat.

A2 – Mes Amis De Paris: poco più di undici minuti in un brioso susseguirsi di ricami funky, mood brasiliani, talkbox intubati e virtuosismi in saliscendi decisamente incantatori e suggestivi. Il break, intorno al settimo minuto, serve a riprendere fiato, poco prima di tornare a sudare. Provate a immaginare Stevie Wonder e gli Zapp che si esibiscono sotto effetto di LSD orchestrati da Nicky Siano tra le mura del Loft di David Mancuso.

B1 – One’O’One: qui l’interscambio tra house, funk e disco è serrato, a reggere quel continuum che a Chicago e New York sostennero da subito quando meccanizzarono la disco nera degli anni Settanta. Tra sample frullati e sparsi qua e là, sinuosi bassi che s’infilano tra gli archi, voci mandate in reverse e dilatate dall’eco che torna utile anche per allungare le forme d’onda, “One’O’One” è tra le più rappresentative del disco, con un retrogusto french touch e venature che un po’ ricordano “Life Is Changing” che Cricco Castelli costruisce per la Kult Records nel 1997 campionando “My Lady” dei Crusaders, idea che verrà poi abilmente doppiata da Topazz per la hit internazionale “The New Millenium”.

B2 – The Sailing Suite: un battito ritmico minimale si prende lo spazio della prima parte, facendo da pianale agli scampoli di quelli che parrebbero frammenti di una suite, presa a morsi e dilaniata da effetti digitali e suoni computerizzati. A circa metà stesura entra un sample orchestrale che spinge via l’ossessività dei loop ed esegue una piroetta sul palco di un teatro immaginario, di fronte a un pubblico sbigottito che non capisce cosa stia accadendo. Per circa due minuti la scena è sua, in una specie di ouverture psichedelica. Poi pian piano guadagna le quinte e sparisce nelle oscurità mentre continua ad accennare passi della sua danza, in lontananza.

C1 – Empty Town: l’effetto phaser sulla griglia ritmica che tambureggia, tom dilatati dall’eco, voci che declamano versi da sermone tipo Chuck Roberts, suoni che si accavallano e finiscono in un vortice mentre un sax esegue poche note come se fosse affetto da balbuzie. Tutto questo mentre sullo sfondo lampeggiano segni di philly disco trafitta e fatta a pezzi, le tessere di un puzzle che Coccoluto e Martinez riassemblano all’interno di una nuova cornice.

C2 – Gold Sands: l’incipit è cibernetico, quasi progressive, con pennellate sonore irregolari e discontinue. Quindi un crescendo strumentale e percussivo, addolcito da frasi di tastiera un po’ sbilenche. Si sente che dietro c’è la stessa mano di “Belo Horizonti” ma qui le sequenze sono più meccaniche, arrotondate da una filigrana melodica quasi orientaleggiante abilmente intrecciata a componenti latine.

D1 – Journey To The South: un beat pulito e pulsante con geometrie e minimalismi ritmici, rigato da linee di pad decorative che somigliano alla bava delle lumache quando strisciano, fa da innesto ad accordi in stile garage house newyorkese, con l’aggiunta di una sgroppata di vibe percussivo, autentico trademark coccolutiano che esprime una solare vitalità. Una traccia che omaggia la house di inizio anni Novanta, quando tutto è ancora in divenire.

D2 – God’s Footsteps: la spinta iniziale nei meandri di funkytudini sovrapposte a voci afro, effetti stranianti ed estensioni armoniche quasi sotto effetto doppler. Dopo il quinto minuto è tempo di un intervento di matrice jazzistica alla tastiera nato, forse, sulle ali dell’improvvisazione pensando alle orme che Dio avrebbe potuto lasciare durante una giornata di pioggia sulla spiaggia di Copacabana.

Coccoluto e Martinez (1998)
Coccoluto e Martinez in una foto del 1998, su gentile concessione di Savino Martinez

La testimonianza di Savino Martinez

Anche il meno abile dei discografici vi avrebbe consigliato d’incidere un album come The Heartists per capitalizzare il successo di “Belo Horizonti”, ma voi invece lo firmaste con uno pseudonimo che sino ad allora avevate utilizzato poco più di una manciata di volte, incuranti dell’anonimato. Perché?
La risposta è semplice: non avevamo l’abitudine di programmare le cose a tavolino. Il caso volle che in quel momento avessimo accumulato un discreto quantitativo di pezzi, tutti prodotti nell’HWW Studio durante gli ultimi anni, e poiché li sentivamo maggiormente vicini alle sonorità di The Dub Duo, decidemmo di convogliarli su quello pseudonimo. Non c’era alcuna tattica o strategia discografica anzi, il fatto di poter incidere un LP come The Dub Duo ci gasò parecchio perché era il nome che stilisticamente ci rappresentava più di ogni altro.

Che significato si celava dietro il titolo “Back To Lo-Tech”? Qual era la tecnologia “low” a cui alludevate?
Fu un’idea di Claudio e faceva riferimento a una modalità compositiva legata a una tecnologia che ormai iniziava a risultare datata per i tempi, quando l’analogico cominciò a essere rimpiazzato dal digitale. L’intero album, infatti, era guidato da una profonda ricerca per il sampling, attività che mi appassionava tantissimo e che mi spingeva ad attingere praticamente da ogni fonte. Avevo persino preso l’abitudine di “ritagliare” i campioni che ritenevamo interessanti e salvarli in un vero e proprio archivio in modo da velocizzare parte del processo creativo.

Lo-Tech
La copertina di “It’s Clear To Me” che Coccoluto e Martinez firmano Lo-Tech (D:vision Records, 1996)

Esisteva anche un legame con “It’s Clear To Me” che nel 1996 firmaste con lo pseudonimo Lo-Tech per la D:vision Records?
Sì, assolutamente, c’era una correlazione. Quel concetto di “vecchia tecnologia” ci apparteneva già da qualche anno e decidemmo di riutilizzarlo in occasione dell’uscita dell’album.

La copertina e i quattro centrini dell’LP volevano rimarcare ulteriormente il concetto, attraverso la bobina col nastro?
Certo, traduceva graficamente il senso del titolo. La scelta di un nastro magnetico parve la più azzeccata per descrivere la filosofia della low tech(nology), in netta contrapposizione con l’invasione dei supporti digitali che promettevano l’alta fedeltà, l’hi tech(nology).

Con quali strumenti realizzaste le tracce dell’album?
Come anticipavo prima, nel disco erano disseminate decine e decine di campionamenti effettuati secondo registrazioni multitraccia in assenza di sistemi di hard disk recording. In studio avevamo tre E-mu Emulator IV e diversi Akai (S3200, S1000 ed S950) che ci consentivano di elaborare i sample secondo la nostra creatività. Il resto lo facevamo con un ricco parco macchine che, tra le altre, includeva Oberheim Matrix-6, Oberheim OB-8, Roland JD-800, Roland TR-909, Roland Alpha Juno-1, Korg MS-20 e Korg Prophecy. Tra i rack invece Oberheim Matrix-1000, Roland JV-1080 (un vero classico di quegli anni), E-mu Audity 2000 ed E-mu Proteus. Tra gli outboard per l’effettistica, moduli Lexicon ed Ensoniq. A completare il tutto un mixer Soundcraft, un computer Apple e i monitor Yamaha NS-10, un altro simbolo degli studi di quel periodo.

Come arrivaste alla britannica NRK?
Senza ombra di dubbio “Belo Horizonti” ci fece conoscere parecchio in Europa e soprattutto oltremanica (dove la rivista DJ Mag dedica a Coccoluto la copertina del numero 193, luglio 1997, nda), un posto che ai tempi era un autentico punto di riferimento per i DJ e le produzioni discografiche house. La NRK era un’etichetta giovane ma all’attivo vantava già diverse produzioni importanti e valide. Non rammento di preciso come catturammo la loro attenzione, forse attraverso un contatto di Fabietto Carniel del Disco Inn o della manager Karen Goldie. Fatto sta che accettammo di buon grado la proposta di incidere un album, anche perché avrebbe creato un continuum rispetto a ciò che avvenne poco più di un anno prima con l’Atlantic Jaxx dei Basement Jaxx che pubblicò “Belo Horizonti”. Le etichette britanniche lavoravano molto bene, erano note per l’efficace promozione ed erano ambite specialmente per noi DJ italiani. Però, ci tengo a precisare, il contatto con NRK non fu cercato intenzionalmente come del resto gran parte delle cose che avvenivano ai tempi. Bastava entrare nel giro giusto e qualcosa accadeva, anche solo grazie al passaparola.

La label di Bristol pubblica l’album sia su doppio vinile che CD: era forse un segno dell’intenzione di andare oltre il mercato per soli DJ?
In quegli anni i successi dance a livello mondiale, partiti dalla creatività dei DJ, erano veramente tantissimi, e questo allargò sensibilmente la forbice del pubblico non più composto da soli appassionati ma anche ascoltatori generalisti. La scelta del CD probabilmente derivò proprio dalla volontà di intercettare anche quella fetta di mercato di ascoltatori fuori dal circuito dei DJ e che utilizzava il CD per gli ascolti domestici.

Quante copie vendette l’album?
Non ricordo di preciso ma sicuramente non generò numeri tali da renderlo un prodotto commerciale. In compenso però ottenne tante recensioni entusiastiche e ci bastarono per appagarci.

Qual è la prima parola che ti viene in mente ripensando a “Back To Lo-Tech”?
Divertimento. Buona parte della nostra vita di quegli anni si svolgeva in studio, eravamo veramente “malati” di musica e tutto quello che abbiamo fatto era guidato dalla sola passione. Tra me e Claudio si creò un’alchimia fantastica che ci permise di compensarci a vicenda. Visto che lui suonava praticamente ogni sera e aveva meno tempo di me da trascorrere in studio, buttavo giù le idee, ritagliavo i campioni da dischi jazz, funky o soul e mettevo in cantiere più opzioni. Poi, quando arrivava lui, ci confrontavamo, facevamo dei test sul suono, studiavamo le modalità di sviluppo della traccia e decidevamo come elaborare il sample e inserirlo nel contesto. L’uso del campionatore in “Back To Lo-Tech” si rivelò determinante, come del resto nella maggior parte delle nostre produzioni. Era proprio la personalizzazione del sample a dare carattere ai pezzi negli anni Novanta, cosa che oggi è ormai poco attuabile visto che si usano perlopiù librerie col conseguente appiattimento di sound e grooves che suonano tutti uguali. L’amore per ciò che stavamo facendo era talmente forte da tenerci in studio anche per tutta la notte. Talvolta Claudio, dopo aver finito di lavorare in discoteca, mi telefonava e, laddove fossi ancora in mezzo ai dischi e agli strumenti, mi raggiungeva per rimanerci sino al mattino. Che bellissima avventura.

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (febbraio 2024)

Slowaxx - Shapes Interfusion

Slowaxx – Shapes Interfusion (Broken District)
Si tratta del primo album che Riccardo Chiarucci ha realizzato combinando parti registrate in studio a sessioni live condivise con vari musicisti. Il lavoro è pervaso da atmosfere in perenne bilico tra funk, acid jazz, abstract e broken beat, con punte di straordinaria vitalità e virtuosismi (si senta “Pantere Rosee”, dove le improvvisazioni generano un percorso un filo cervellotico ma decisamente d’impatto). Il featuring del rapper Young A.M.A. decora “Y.B.A” e “No Secret”, costruite tenendo bene a mente l’estetica e il piglio compositivo che marchiò a fuoco etichette come Mo Wax e Talkin’ Loud, “Emoyeni” mette in loop meccanico il rhodes suonato da Luca Sguera, “Femmes” si cala in un mood lounge, ma Chiarucci si supera con “Stazione Funk”, col telaio ritmico ridotto all’osso sul quale si innestano a stantuffo irresistibili pistonate boogie. Il risultato lascia immaginare un’ipotetica jam session tra George Clinton e James Lavelle a indicare la strada di possibili nuove collisioni musicali.

Jimy K - She's Gone Away

Jimy K. – She’s Gone Away (Bordello A Parigi/Giorgio Records)
Diversi mesi fa Massimo Portoghese della barese Giorgio Records ne preannunciò l’uscita proprio attraverso le pagine di questo blog (si legga Discommenti di settembre 2023): a essere riportato in superficie dal buio dell’oblio in cui era piombato è “She’s Gone Away”, un pezzo italo disco prodotto nel 1984 da Rodolfo Grieco e scritto insieme a Naimy Hackett. Uscito ai tempi su Eyes, ora si ripresenta su un 12″ stampato in tandem dalla citata Giorgio Records e l’olandese Bordello A Parigi che, oltre alla Vocal 12″ Version e all’Instrumental 12″ Version, vogliono pure la Vocal 7″ Version, quarant’anni fa destinata alla versione 45 giri. Tutte sono state restaurate dai nastri originali da Tommy Cavalieri presso il Sorriso Studio di Bari. Particolarmente ambito dai collezionisti (nel 2023, attraverso il marketplace di Discogs, è stato venduto per 250 €), “She’s Gone Away” torna dunque a pulsare di vita coi suoi tagli oscuri, orli frastagliati funkeggianti e l’alternanza vocale maschile/femminile.

Ten Lardell - Anterspace 03

Ten Lardell – Anterspace 03 (Anterspace)
Dal 2022 Ten Lardell è apparso sul mercato con la sua pseudo etichetta, l’Anterspace, e dischi simili a white label promozionali. Nessuna info aggiuntiva oltre al numero di catalogo e titoli delle tracce, un’essenzialità tipica di chi è fermamente convinto che la musica sia sufficiente a trasmettere il proprio messaggio. Anche a questo giro il misterioso artista mantiene intatta la comunicazione con una techno/electro di matrice tipicamente drexciyana e di red planetiana memoria, basta poggiare la puntina su “The Far Moog Sector” o “Black Gaze” per capire quali siano i suoi riferimenti. Contorsioni acquatiche sorrette da accordi che squarciano le tenebre si ritrovano pure in “Vibranium Prt 1” mentre “Year 6900” lascia scorrere immagini distopiche di città rase al suolo da orde di robot ribelli. Ma chi opera dietro Ten Lardell? Un giovane talento appassionato o un veterano esperto che gioca a nascondino? Le ipotesi, al momento, restano tutte aperte.

l'oggetto - Musica Da Discoteca Vol.3

l’oggetto – Musica Da Discoteca Vol.3 (MKDF Records)
È tempo del terzo (e pare ultimo) volume per Marco Scozzaro, artista multidisciplinare italiano di stanza nella Grande Mela che dal 2021 veste i panni de l’oggetto, scritto rigorosamente senza maiuscole. L’intento resta quello di trovare un’identità ben definita esplorando e tributando la vicendevole contaminazione che riguardò la house music in un ping pong continuo di influenze tra Chicago, Detroit, New York e… la riviera adriatica italiana. “Aquatico” si muove sotto il pelo dell’acqua, incrociando pesci e vegetazione marina in un caleidoscopio di colori, “Fluido” mette in relazione nervosismi ritmici con rassicuranti pad e sinuose arcature filo acide per un risultato che gioca con perizia sui contrasti, “DeepOrg” solletica l’ascolto con pennellate chiare su fondo scuro, “AltVers” tira il sipario con una serie di soluzioni che sembrano uscire dal catalogo Irma o MBG International Records. Il tutto a 120 bpm, le pulsazioni di un sogno sincronizzato sulla musica della discoteca di un tempo che fu.

The Exaltics - Das Heise Experiment - The Remixes

The Exaltics – Das Heise Experiment – The Remixes (Solar One Music)
Escono su vinile arancione marmorizzato quattro remix di altrettanti brani tratti dall’album “Das Heise Experiment” che The Exaltics pubblicò nel 2013 sulla britannica Abstract Acid. “Dreizehn” diventa “Dreizehn Habits” e rivive per mano degli ADULT. in un trattamento che ripialla la materia ritmica e la interfaccia a rigonfiamenti new wave, “Sieben” viene riletta da Gesloten Cirkel (l’unico remixer qui a non essere nativo di Detroit) in un moto sussultorio con darkismi funerei, “Acht” è ciberneticizzata da K1 (Keith Tucker) e per finire “Zwoelf” rimodulata da Arpanet arpionando atmosfere ambientali e geometrismi post kraftwerkiani. Dedicato ai collezionisti è invece il box set pensato per celebrare il decennale dell’album che contiene, oltre ai remix sopra descritti, la riedizione dell’album stesso in colore bianco, un 7″, un CD, una cassetta, una collection di file, un fumetto, un poster e degli adesivi. Appena cento le copie, già sold out ovviamente.

Dopplereffekt - Infinite Tetraspace

Dopplereffekt – Infinite Tetraspace (Curtis Electronix)
Trincerato dietro Rudolf Klorzeiger, Gerald Donald torna ad animare uno dei progetti più apicali della sua carriera, Dopplereffekt, pietra angolare dell’electro dell’ultimo trentennio, affiancato per l’occasione dalla moglie Michaela To-Nhan Barthel e da una certa Beatrice Ottman. Il disco è diviso idealmente in due sezioni: la prima si muove su materie ritmiche con “Programmable Organism” ed “Entity From Tetraspace”, segnate da riverberi metallici, striscianti bassline, effetti che salgono e scendono a spirale, arpeggi velenosi e un brillante impasto cromatico; la seconda invece si tuffa nelle ambientalizzazioni attraverso “Tachyon Intelligence”, un sogno-incubo, e “Computronium”, immersa in un’atmosfera pensosa e fantascientifica. A pubblicare il 12″ è un’etichetta italiana, la barese Curtis Electronix, che negli ultimi anni si è fatta notare in primis per le produzioni di CEM3340 ma ospitando pure diverse incursioni estere di artisti come Detroit’s Filthiest, Galaxian e DJ Overdose.

Global Goon - Nanoclusters

Global Goon – Nanoclusters (Central Processing Unit)
Sebbene non sia proprio recentissimo, questo mini album che Jonathan Taylor firma col suo moniker più noto non merita affatto di passare inosservato nel diluvio quotidiano di nuove pubblicazioni. L’artista britannico si diverte a flirtare con più riferimenti stilistici, come del resto faceva già negli anni Novanta nelle prime apparizioni su Rephlex. In “Nanoclusters” regna un pulsare dinamico di emozioni, ora rivelate da scuffiate sintetiche (“Khroxic Mould”), poi da irradiamenti dark (“Metallik”), varchi armonici malinconici (“Syntheseers”, “Digit Six”, l’eccelsa “Calcula” che lascia dietro una scia cosmica siderale) e pure sapienti lavori sui filtri che sottolineano i movimenti arcuati dei suoni (“Metro Esc”). Non manca il volo nel freestyle agghindato di funky (“Snapterisk”) e persino un’escursione in madide ruderie in botta hardcore (“Metal Glass”), dalle cadenze ritmiche più accentuate.

Various - You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5

Various – You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5 (Moustache Records)
Analogamente a quanto avvenuto col Vol. 4 del 2022, anche questo quinto atto della serie “You Can Trust A Man With A Moustache” sta destando attenzioni così forti da mandare in sold out la tiratura di 500 copie a pochi giorni dall’uscita e, conseguentemente, alimentare le speculazioni da parte dei venditori privati. Difficile poi capirne poi il perché visto che si tratta di un various dignitoso ma privo di particolari slanci da renderlo un must have. Dentro c’è l’italo disco 2.0 di Tending Tropic (“Hondebrok”), l’electro house che Cafius ha scolpito riciclando il riff di un classico eurodance dei Le Click (“Tonight Is The Night”), la post EBM degli Im Kellar (“Not To Be Compromised”) e per finire una versione sotto steroidi che Adrian Marth ricava dall’eurodisco (“Icon Of The Night”). Un 12″ senza infamia e senza lode, che pare uscito dagli anni che seguirono il boom electroclash.

The Hacker - No Senor

The Hacker – No Señor (Italo Moderni)
Michel Amato non ha mai fatto mistero della sua viscerale passione per la new wave e l’industrial più oscure e tenebrose parimenti a tutta la scuola EBM, e questo disco, uscito da poco sull’iberica Italo Moderni, ne è ulteriore testimonianza. “No Señor” ripesca a piene mani dal campionario di Liaisons Dangereuses, Cabaret Voltaire, No More, Front 242, D.A.F. e soprattutto Nitzer Ebb (mettete su “Let Your Body Learn” e magari provate a mixarli insieme) e l’effetto viene ulteriormente riverberato nel remix di Terence Fixmer, un altro che in tempi non sospetti rimise mano a tutto quel repertorio declinandolo in chiave technoide e ottenendo quella che fu ribattezzata TBM (techno body music). A completare il quadro le due parti di “Me & My Sequencer”: la prima con l’aggiunta di tocchi di matrice dopplereffektiana, la seconda con un piglio ancora più militaresco con vampate di spippolamenti analogici.

Abyssy - Extra Meta

Abyssy – Extra Meta (New Interplanetary Melodies)
È un progetto decisamente sostanzioso quello messo in piedi da Andrea ‘Mayo Soulomon’ Salomoni che torna sull’etichetta fiorentina di Simona Faraone (intervistata qui) con un album, in uscita il 22 febbraio, a cui si aggiungerà un EP il 14 marzo. Mediante un ricco armamentario fatto di intramontabili cimeli che, alla stregua dei migliori whisky, più invecchiano e più diventano ambiti (dai classici Roland – MC-202, TR-808, TR-909, Juno-60 – a Yamaha DX100 passando per Korg MS-10 ed E-mu SP 1200), il compositore bolognese colloca le sue opere in scansioni ritmico-armoniche non convenzionali e si lancia a capofitto in un’avventura che muove più corde dei suoi gusti e sensibilità. Si fluttua su materie gassose e ritmi destrutturati (“Samba Temperado”, “Quantum”, “Vectrex”) ma poi si torna coi piedi per terra per marciare insieme a grovigli di ricordi chicagoani (“Mars Trax”, “Acid Rio”, “A Mixed Feeling”) e poi attivare la connessione con la rivisitazione di stilemi italo disco (“Italodoppler”) ma con l’aggiunta di elementi onirici. Nell’EP Salomoni infonde altre tangibili prove del suo talento, prima disegnando arazzi kraut di göttschinghiana memoria (“Busy Line”, “C3C6”, un possibile omaggio al monolitico “E2-E4”?) e poi rituffandosi nelle atmosfere soleggiate e ridenti di un suono meticcio tra house e italo disco (“Lower Milky Way”). A tutto questo si sommano quattro ulteriori tracce destinate al solo formato digitale, “Supernova”, “Ordinateur Numerique”, “Choices” e “Drumatic”, tra iniezioni di theme music, divagazioni low-fi, esplorazioni ambientali issate su scheletri ritmici e misteriosi tam tam che rompono il silenzio delle oscurità spaziali.

Innershades - Explorer EP

Innershades – Explorer EP (Altered Circuits)
Terza apparizione su Altered Circuits per Thomas Blanckaert che in questo extended play continua a spingere verso l’alto una techno frammista a preponderanti elementi electro. I riferimenti a Detroit si palesano proprio nella title track, “Explorer”, un susseguirsi di lanci melodici e cortine fumogene filo acid su una rete ritmica in sincopi. L’aderenza allo stile della Città dei Motori si rende ancora più evidente in “Aquaculture”, un incrocio tra il primo Atkins su Metroplex e il suono acquatico dei Drexciya e il titolo, in tal senso, non lascerebbe adito ad alcun dubbio. Dallo stesso ceppo il prolifico produttore belga ricava pure “Super 6” e “Unknown Depths”, ulteriori slanci verso quel suono che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha fatto sognare un’intera generazione facendole sentire l’accelerazione del futuro ben prima dell’arrivo di internet, degli smartphone o dell’intelligenza artificiale.

(Giosuè Impellizzeri)

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Paolo Martini – DJ chart agosto 1994

Paolo Martini, Tutto Discoteca Dance, agosto 1994

DJ: Paolo Martini
Fonte: TuttoDiscoteca Dance
Data: agosto 1994

1) Patricia Kaas – Reste Sur Moi
Analogamente a quanto avviene ai tempi a tanti colleghi, la cantante e attrice francese Patricia Kaas, attiva nella scena pop nazionale sin dalla seconda metà degli anni Ottanta, si ritrova proiettata nel mondo delle discoteche e della house music grazie ai remix realizzati da un DJ. In questo caso l’artefice è Danny Tenaglia che rilegge “Reste Sur Moi”, dalla tracklist dell’album “Je Te Dis Vous” del 1993, in più versioni. A svettare su tutte è la Blue Velvet Mix in cui l’artista newyorkese trasforma radicalmente il brano originale, velocizzandolo e trapiantandolo in una base deep house da cui si levano seducenti vocalizzi e intriganti assoli pianistici. Tenaglia appronta anche una paradisiaca Stringapella, una Dub Mix dagli effetti chiaroscurali, e una Piano Mix che, come preannuncia il titolo stesso, è dominata da virtuosismi jazzistici al pianoforte. Curiosamente la Columbia commercializza in Europa il 12″ e il CD Maxi Single con l’acronimo PK anziché Patricia Kaas: problemi burocratici irrisolti o una possibile strategia di marketing per alimentare l’interesse dei DJ?

2) X-Press 2 – Rock 2 House
Rock 2 House è uno dei vari pseudonimi adottati da Darren Rock e Darren House (cercate “That Disco Thang” sulla Mousetrap Records) ma anche il titolo di un pezzo pubblicato dalla Junior Boy’s Own che i due firmano X-Press 2. Rocciosa come tanta house music che allora nasce oltremanica, la traccia mescola al suo interno percussività ritmiche e atmosfere noir. A metà stesura fanno ingresso voci che si impastano col resto sino a sfilare in un lungo pad su cui (ri)entrano le tambureggianti presenze per far crescere la tensione sino alla rullata energizzante e la ripartenza con l’aggiunta di fiati. Qualche mese più tardi il pezzo riceve il trattamento di Plastikman che, col suo Acid House Remix, trasforma tutto in un sinuoso serpente di lisergici acidismi.

3) The Look Featuring Franklin Fuentes – March
“March” è il secondo (e ultimo) disco che il sopraccitato Danny Tenaglia e il musicista Peter Daou firmano con lo pseudonimo The Look. Giunto dopo “Glammer Girl”, diventa un inno ballroom nei club grazie all’hook vocale (“march, cmon, I’ll take u there, take u there”) che nella Club Tip Mix funge da vero e proprio traino su una base house rigata da suonini elettronici, inserti percussivi e svuoti funzionali per la pista. Sul lato b la Rave Tip Mix ripesca gli stab che qualche anno prima fanno la fortuna dell’hardcore britannica nell’esposione ravey, sprigionando nuova energia insieme alle incitazioni vocali di Franklin Fuentes.

4) The Good Men – Make Up Your Mind
“Make Up Your Mind” è il tipico tool che i DJ utilizzano per risvegliare la pista nei momenti di stanca. Un pezzo diretto, non troppo elaborato, che punta per l’appunto a far ballare il pubblico facendo leva su pochissimi elementi, in primis una base tribaloide che gira come una ruota arpionando un breve ed efficace frammento vocale e un appena accennato riff melodico. Semplice ma efficace insomma. La traccia finisce sul lato b di “Damn Woman” con cui il duo olandese formato da Gaston Steenkist e René Ter Horst tenta invano di bissare il successo di “Give It Up”, che inietta la batucada nella house music e lancia una vera e propria moda che ispirerà più di qualcuno tra cui i Simply Red che la campioneranno per la loro “Fairground”.

5) Jamiroquai – Emergency On Planet Earth (Masters At Work Remix)
Non è esplicitato ma è plausibile che Paolo Martini non si riferisse affatto all’album di debutto della band britannica bensì ai nuovi remix del pezzo che si sommarono a quelli di Danny Tenaglia usciti già nel ’93. A firmare le nuove versioni sono i Masters At Work che si collocano in un punto mediano tra musica latina e house attraverso la London Rican Mix, scandita dalle linee percussive e l’intensità vocale di Jason Kay. Una variazione sul tema è offerta dalla Rican Dub. Il promo è riservato a pochissimi eletti data la sua esigua tiratura distribuita pare quasi esclusivamente negli Stati Uniti ma la Sony va incontro ai DJ solcando la London Rican Mix anche sul lato b di “Half The Man”.

6) Jodeci – You Got It
Così come avvenuto per Patricia Kaas, anche il quartetto r&b dei Jodeci vive una parentesi all’interno dei club grazie a versioni remix. A rimaneggiare “You Got It”, estratto dall’album del ’93 “Diary Of A Mad Band”, sono due nomi che ai tempi fanno grande la house music del Regno Unito, CJ Mackintosh e il team degli Uno Clio. Il primo, nella Mack Dub, punta diretto a lidi garage, giocando opportunamente i sample vocali in un metti e togli tra suoni gommosi e dilatazioni melodiche; i secondi invece, nella Raise The Roof Dub, rileggono il pezzo in una chiave più solare, con l’inserimento di pianoforti e sax che tagliano vicendevolmente la sezione ritmica. C’è spazio anche per una terza rivisitazione dei Global State. Sul doppio promo ci sono ulteriori due versioni, la Cosmack Dub e la Phat Dub Mix, sempre di CJ Mackintosh e Uno Clio, poi finite sul lato b del primo dei due mix di “Feenin'”.

7) U.N.I.T.E.D. – Mother Mary (Black Madonna Remixes)
La versione originale di “Mother Mary”, pubblicata nel ’93 dalla newyorkese Knockout Records, si perde nella miriade di produzioni garage di quel periodo, nonostante fosse curata nei dettagli. L’anno dopo la Produce Records di Liverpool rimette il brano in circolazione attraverso i remix di Frederick Jorio, che aveva già ricoperto un ruolo nelle versioni iniziali. Balzato sotto i riflettori per una serie di produzioni su Eightball Records firmate Lectroluv, Jorio lavora per sottrazione riducendo gli interventi vocali di Basil Rodericks a favore di strutture più orientate ai club specializzati. Si passa dalle atmosfere nebbiose della XRated Mix alla luminosità della Piano Dub con immancabile organata da Korg M1, sino alla percussiva Underground Depress che in certi punti rivela una vicinanza a “Plastic Dreams”, la mega hit messa a segno dall’olandese Jaydee di cui parliamo dettagliatamente qui. È sempre Fred Jorio a occuparsi di “Sing”, il pezzo che dopo “Revelation” e “Mother Mary” tira il sipario sul progetto U.N.I.T.E.D., commercialmente poco fortunato e per questo, chissà, oggetto di una possibile rivalutazione futura.

8) Alma Latina – To Get Up
Tra i progetti meno noti di Claudio Coccoluto, Alma Latina esce dall’HWW Studio di Cassino con un carico di riferimenti latini che occupano per intero la Cocodeepdub lunga oltre dieci minuti. Sul lato b l’Hard Mix curata da Paolo Martini, affiancato da Ricky Birickyno e Christian Hornbostel, meno intrisa di percussioni ma imbevuta di salsa prog (alcuni elementi del pianale effettistico sembrano riapparire l’anno dopo in “Full Steam Ahead” di Shoot-Proof, su PRG). Chiude le danze la Martinez Dub Mix di Savino Martinez che bazzica la sampledelia in un laborioso mosaico di dinamici start e stop. Il disco, pubblicato dalla Looking Forward, passa inosservato perché prende le distanze «dalla house classica che funzionava per la maggiore in Italia in quel periodo» spiega Martinez in questo articolo.

9) Joe T. Vannelli Featuring Csilla – Voice In Harmony
Con “Voice In Harmony”, giunto dopo “Play With The Voice” del ’93 che vanta, tra gli altri, remix di Masters At Work, Paul Van Dyk e Joey Beltram, Vannelli rinnova il sodalizio artistico con la cantante Csilla Domonkos. Pubblicato su Dream Beat, il brano è mosso da uno spirito dinamico e bilancia sapientemente ritmo e sensualità vocale, così come tramanda la migliore tradizione garage a cui il DJ allora si ispira chiaramente. Le versioni solcate sul doppio mix però sono svariate e diventeranno ancora di più quando il pezzo viene licenziato all’estero da pregevolissime etichette come l’americana Nervous Records e la tedesca MFS che alla già ricca carrellata aggiungono rispettivamente le reinterpretazioni di Frankie Feliciano e del citato Paul Van Dyk.

10) Gayland – No Pay Day (Remix)
Dopo aver preso in licenza “Get By” dalla newyorkese Easy Street Records, Angelo Tardio rinnova l’interesse per il progetto Gayland che con “No Pay Day” aggiunge un altro tassello garage al catalogo UMM a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Ricetta vincente non si cambia: così come aveva fatto qualche mese prima, Tardio continua ad affidare i remix a Paolo Martini e Michele Violante che comunicano la loro carica emotiva attraverso due Cut finiti sul lato b, in cui suoni quasi grattugiati incrociano un organo e dolciastri pad generando un piacevole contrasto. Sul lato a la Make Life Easy Mix, versione di un altro personaggio che ai tempi è dedito alla divulgazione della cultura house nel nostro Paese attraverso l’FM, Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi.

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (novembre 2023)

Andy Romano - Monday

Andy Romano – Monday (Bordello A Parigi)
Andy Romano si fece notare tra 2008 e 2010 con una serie di produzioni di taglio italo disco, tutte finite nei cataloghi di etichette estere. MySpace stava per cedere il passo a Facebook e il movimento che gravitava intorno al revivalismo dance degli anni Ottanta era ancora perlopiù relegato a piccole case discografiche indipendenti guidate da collezionisti incalliti desiderosi di ridare linfa vitale alle musiche che contraddistinsero la loro giovinezza. Poi, improvvisamente, di Romano si perdono le tracce e di lui non si è saputo più nulla. L’ennesima delle meteore insomma, ma rimpianta perché in studio ci sapeva fare davvero. Alla musica l’artista preferisce il lavoro di character designer nel settore dei videogiochi, del cinema e dell’editoria. A distanza di tredici anni dall’ultima apparizione però il nome del capitolino rispunta fuori, forse istigato dalla recente ristampa di “Every Time Feel Allright” su Cold Blow, con un EP destinato all’olandese Bordello A Parigi che sembra provenire da un vecchia bobina incisa nel biennio 1982-1983. “Monday” incrocia il tiro hi nrg di Bobby Orlando a tradizionali ouverture melodiche italo, e “Cyber Black Spaceship” ne segue la scia evidenziandone il lato cosmico. “Loredane” infine si cala del tutto nel classico stilema italo attraverso una canzoncina d’amore cantata (intenzionalmente) in un inglese stentato e immersa in zuccherose melodie: a venirne fuori è una specie di “Galactic Reaction” dei Milkways sovrapposta alla giocosità di “Amoureux Solitaires” di Lio con l’aggiunta di una spruzzata del romanticismo di Savage e Felli.

Robotron, The Egyptian Lover -Pornographix

Robotron Feat. The Egyptian Lover – Pornographix (Skynet Cybersonix)
Adalbert Kupietz torna a vestire i panni di Robotron e per l’occasione vanta al suo fianco un partner d’eccezione, il mitologico Egyptian Lover, con cui realizza il terzo episodio su Skynet Cybersonix. “Pornographix” nasce come riadattamento di un vecchio brano intitolato “Pornographics” che lo stesso Kupietz firma in solitaria come Interfunk nel 2009. La V1.0, sul lato a, intreccia schemi robotici dalle tinte fredde che accentuano l’atmosfera cupa a classiche ansimate e vocal dell’artista losangelino innamorato della Terra dei faraoni, la V2.0, sul b, avanza su una velocità di crociera più sostenuta, con geometrismi ritmici controbilanciati da effettistica spaziale e contrappunti melodici che omaggiano il remix che Heinrich Mueller realizza nel 2001 per “What Use” dei Tuxedomoon su International Deejay Gigolo Records. Come di consueto per Skynet Cybersonix, sono appena duecento gli esemplari, numerati a mano con annesso un cartoncino illustrato. Una parte della tiratura è stampata su vinile di colore argento marmorizzato ma solo cinquanta copie annoverano un ulteriore bonus diventato già ambito dai collezionisti, un poster.

Break 3000 - Emolotion EP

Break 3000 – Emolotion EP (Mondo Phase Rec.)
Così come avvenuto per Christian Gleinser (si veda Discommenti di settembre 2023), anche l’olandese Peter Gijselaers finisce nelle maglie della retromania. Il suo progetto Break 3000, partito in sordina nel 1999, si ritaglia spazio durante il boom dell’electroclash. Per Gijselaers, tuttavia, risulta decisiva la partnership con Felix B Eder con cui dà avvio ai Dirt Crew, cavalcando la moda della minimal house e in tal senso “808 Lazerbeam” resta un piccolo classico degli anni in cui i DJ iniziano a mixare senza cuffia con il laptop al posto dei giradischi. L’esperienza come Break 3000 finisce inevitabilmente nel dimenticatoio, arenandosi in mezzo alla giungla di produzioni che a inizio millennio giocano a riavvolgere il nastro, flirtando coi suoni new wave, synth pop e italo disco. Adesso però è tempo di riscoperta e al recente “The Rise Of Poseidon I” sull’argentina Calypso’s Dream segue questo EP che ripesca quattro brani del repertorio dell’artista nativo dei Paesi Bassi. Investire su musica vecchia, del resto, pare essere la grande vocazione dell’industria discografica contemporanea. «Sono due le ragioni che mi hanno spinto a credere in pezzi già editi» spiega Matteo Pepe alias Uabos, fondatore della neonata Mondo Phase Rec.: «la prima è strettamente personale, perché quello di Break 3000 è un disco che amo da sempre, fisso nelle mie prime serate da DJ e che mi distingueva a quel tempo visto che nel 2003 la scena milanese offriva raramente musica di questo genere. Mi sono sentito subito rappresentato da quei suoni, semplici, d’impatto, graffianti, con un’inclinazione punk che sposava l’electroclash oltre a reminiscenze italo disco; la seconda ragione è rappresentata dal fatto che questo tipo di suono risulta essere quanto mai attuale: i DJ più giovani amano cose simili e i produttori ne prendono spunto. Ho provato a cercare nuovi artisti disposti a produrre electroclash ma, nonostante ci siano tantissime cose valide in circolazione, mi pare che l’attitudine con cui vengano prodotte non sia proprio la stessa. Per far partire la mia etichetta invece avevo bisogno proprio di quel suono e approccio, non volevo lasciare spazio a diverse interpretazioni. Con la stampa di “Emolotion EP” quindi ritengo di aver lanciato un messaggio chiaro e preciso».

“Emolotion” è tratta da un various edito su Meuse Muzique Records nell’autunno 2003, “Plastique People” e “C’Mon Girl” provengono da “The Electronic Kingdom EP” mentre “Follow” è un inedito, prodotto ai tempi ma mai dato alle stampe. Anello di congiunzione di tutte è un suono meccanico retrò segnato da curvature melodiche un filo ingenue e voci robotiche. L’ispirazione paga il tributo ad artisti come David Carretta, The Hacker e l’Anthony Rother che, proprio in quel momento storico, riesce a rendere più accessibile la sua musica attraverso le pubblicazioni su Datapunk partite con “Back Home”. Al momento le reazioni del mercato paiono più che buone: «ho stampato 350 copie e il disco è quasi sold out» spiega Pepe. «Non credo però di far uscire la versione digitale dei brani (operazione già portata a termine da Gijselaers il 15 marzo 2023 attraverso Bandcamp , nda) ma non escludo che possa essere una possibilità da applicare alle prossime pubblicazioni. Nonostante i pezzi suonassero già bene, mi è sembrato logico rinfrescarli ricorrendo al remastering di Emanuel Geller presso il Salz Mastering Studio, a Colonia, con cui Peter lavora di solito. Il suono è assolutamente fedele all’originale, gli ha dato solo una “spintarella” per allinearlo allo standard attuale. Peter è davvero una persona fantastica ed estremante cordiale e gentile, possiede ancora quell’approccio positivo che a volte si perde col tempo. Non confidavo troppo in una suo assenso e invece nell’arco di appena ventiquattro ore mi ha risposto positivamente. Dopo aver chiuso l’accordo, la finalizzazione dell’EP è stata rapida: abbiamo discusso della tracklist ma lui si è sempre rivelato propositivo e ha riposto fiducia in una persona come me, nonostante non avessi maturato altre esperienze in ambito discografico ad eccezione di quelle come artista. Probabilmente l’unico dettaglio che ci ha impegnati di più è stato il nome da dare all’EP. Inizialmente non era d’accordo nell’intitolarlo come il suo cavallo di battaglia, “Emolotion”, ma poi ha capito che quella era la scelta giusta per fini commerciali. Attualmente stiamo ragionando su un possibile ritorno dietro la consolle come Break 3000, visto che gran parte della sua carriera è legata al progetto Dirt Crew. A breve pubblicheremo sul canale Soundcloud di Mondo Phase Rec. un suo vecchio mixato riproposto su Radio Raheem che trovo fantastico».

La retromania teorizzata da Simon Reynolds nell’omonimo libro del 2010 sta probabilmente toccando il suo apice: tutto è commemorativo, anche nella musica che un tempo puntava al futuro e non certamente al passato. Credere più in ciò che è stato piuttosto che in ciò che sarà è forse sintomo della perdita di fiducia nel domani? Nella musica dance elettronica, questo procedimento mentale rischia di limitare possibili nuove sollecitazioni artistiche? «Penso che in qualsiasi epoca ci sia stata una rivisitazione del passato, probabilmente ci aiuta a comprendere ciò che è stato prima e ci sprona nella ricerca del nuovo rispetto a qualsiasi ambito culturale» risponde Pepe in merito. «È anche vero però che viviamo un periodo in cui la società ci spinge a non avere grande fiducia per il futuro, e questo ovviamente si ripercuote in tutti gli ambiti della vita e probabilmente stimola meno a indagare strade non battute invitando, al contrario, a guardare con nostalgia il passato e rimanere stanziati in una zona di comfort. Che venti, trenta o quarant’anni fa ci fossero più stimoli nello sperimentare penso sia indubbio, ma in che tipo di società vivevamo? La paura di Reynolds che questa ossessione per il retrò predomini rispetto alla volontà di ricercare nuove forme penso sia fondata, tuttavia mi sembra di vedere comunque un progresso delle cose e la nostra evoluzione è ovviamente figlia di ciò che c’è stato prima, nel bene e nel male. Evocare e reinterpretare il passato può portare alla creazione di opere uniche, e connettere il presente col passato può aiutare a trovare nuove strade. Insomma, se gestita con equilibrio la retromania può arricchire la cultura contemporanea e rappresentare un ponte positivo e un collante generazionale».

Dopo Break 3000 la Mondo Phase Rec. proseguirà nel solco delle ristampe o scommetterà su qualche nuovo talento? «Ho voglia di battere il ferro finché è caldo» afferma Uabos. «Le prossime tre pubblicazioni sono praticamente pronte ma non svelo i nomi per pura scaramanzia. Colgo l’occasione per invitare a mandare dei demo a mondophase@gmail.com, a patto che siano in linea con la direzione musicale intrapresa. Il nostro è un collettivo che abbraccia varie forme creative. Ho avviato, ad esempio, una collaborazione col fotografo Alessandro Sorci con cui per anni abbiamo creato le immagini dei flyer delle nostre serate, foto che ora sono sulle cartoline all’interno della copertina del disco. Mi piacerebbe stringere più sinergie di questo tipo, correlate a discipline differenti rispetto alla musica, ma al momento è difficile a causa di budget molto bassi. Per ora, quindi, spingerò solo sulla musica. Dopo aver trascorso vent’anni dietro la consolle, ho sentito l’esigenza di dare una mia visione personale al mondo del clubbing contemporaneo, scegliendo la direzione da prendere, da quella musicale alla visiva e grafica. Per me il Mondo Phase richiama connessioni con diverse fasi e aspetti, rispecchia le diversità delle esperienze globali, il cambiamento attraverso il tempo e le fasi di crescita e sviluppo. Ogni fase ha contribuito a definire il mondo in cui viviamo oggi ed esprime concetti legati all’evoluzione e alla mutevolezza».

Livio Improta - Fondamentalismi

Livio Improta – Fondamentalismi (Tiella Sound)
Dopo aver inaugurato il catalogo con Daniele Tomassini alias Vaisa, che frugava negli interstizi ambient/IDM facendo leva su ritmi destrutturati ascritti a tragitti warpiani, la giovane etichetta fondata da Luca ‘Bigote’ Evangelista prosegue il cammino con la musica del DJ Livio Improta. Sono dieci i pezzi, prodotti parecchi anni fa ma rimasti nel cassetto per alcune vicissitudini, con cui l’artista campano arpiona stili complementari e li mescola facendoli palpitare e muovere in varie direzioni per ricavarne qualcosa che assomiglia a un patchwork audio in grado di riservare più di qualche sorpresa. Da tracce erranti tra dolci carezze e ruvide spigolosità (“Posidone”, “80123”, “Intransigenza”), a pulsazioni irregolari intrecciate a spasmi di glitch (“Fondamentalismi”), da vivaci contrasti tra luci e ombre (“Comunicando”, “Alpha”) sino a soluzioni ballabili (“Cuma, “Iblis”, da cui affiora una sorta di acid virata dub in salsa low-fi, “Marechiaro”) per atterrare infine su tessiture noise intrecciate a un metafisico spoken word in italiano (“Omega”). Un LP con cui Improta abbraccia un astrattismo che disorienta l’ascoltatore ed elude il facile incasellamento stilistico a favore di una totale libertà creativa, propensione che oggi purtroppo manca alla stragrande maggioranza di coloro che si dedicano alla composizione di musica elettronica. L’LP uscirà il prossimo 8 dicembre e sarà limitato alle 200 copie.

Bosconi Stallions III

Various – Bosconi Stallions Vol.III (Bosconi Records)
È un itinerario polimorfico quello riservato dal terzo atto della “Bosconi Stallions”, compilation che celebra i quindici anni di attività dell’etichetta fiorentina mettendo insieme dodici pezzi di altrettanti artisti, accomunati dalla nazionalità italiana e dalla propensione a esplorare varie sfaccettature della dance elettronica. All’interno si toccano molteplici lidi stilistici giocati sia sulle sfumature che sui contrasti, rimbalzando dalla techno alla house passando per l’electro, tutto con un piglio ballabile che a conti fatti risulta essere il leitmotiv dell’intera raccolta. Si transita, tra gli altri, dalle spigolosità ritmiche dei Minimono ai ventagli melodici di Feel Fly e Lucretio, dalla sgroppata di Queen Of Coins, che paga il tributo a tanti eroi dell’epopea electroclash con tinte vivaci e brillanti, al lancio nell’iperspazio di Twovi e Data Memory Access. Nota di merito per due colonne statuarie della scena nostrana, Marco Passarani e Alexander Robotnick che, rispettivamente con “Bungy Bungy Bungy” e “It’s So Easy”, annodano house e matrici italo disco con la loro riconosciuta padronanza e consapevolezza. A coronare il tutto è l’artwork di Niro Perrone, in bilico tra realtà e immaginazione, un confine che gli artisti coinvolti nel progetto valicano più volte.

MG Project - Friends

MG Project Feat. Miss Dee – Friends (Three-Bù Records)
Un gradito ritorno sulle scene discografiche quello di Marco Moreggia, tra i primi DJ a portare la house music a Roma a metà degli anni Ottanta come lui stesso racconta qui. Dai tempi del Devotion e de I Ragazzi Terribili è cambiato davvero tutto, mondo compreso, ma l’artista non ha perso la voglia di produrre house per i club, seppur l’attività in studio non sia mai rientrata tra le sue priorità. In questo pezzo prodotto con Stefano Guerra e la newyorkese Miss Dee, al momento disponibile solo in formato digitale, si sente odore di sound britannico, forse per i ghirigori progressive o per le aperture melodiche morbidamente accarezzate dalla luce che un po’ ricordano “Right On!” dei Silicone Soul (Curtis Mayfield docet). A condire il tutto una patina tribaleggiante, fraseggi jazzati di sax e un vocal hook preso da “Never Be Alone” dei Simian, ma meglio noto per la versione dei francesi Justice. Ulteriore rimando al passato è offerto dal nome dell’etichetta stessa, omonima di un progetto di Moreggia che prende vita tra 1991 e 1992 attraverso un paio di fugaci apparizioni sulla Mystic Records. «Ho voluto far rivivere Three-Bù, mantenendo senza variazioni lo storico logo disegnato a mano da Luigi Bonavolontà, perché per me rappresenta un momento molto importante legato a I Ragazzi Terribili» spiega il DJ in un post su Facebook dello scorso 6 novembre. «Three-Bù Records sará un’etichetta aperta a tutti quegli artisti che hanno qualcosa da dire e a quelli che non si adeguano ai soliti cliché. Ci impegneremo a costruire passo dopo passo la nostra storia non identificandoci in un genere preciso e saremo aperti a tutta la musica di qualità che fa ballare ma anche sognare». Annunciato giusto un paio di giorni fa è “Paradise” di Stefano Di Carlo Feat. S. Minnozzi, la cui uscita è attesa per la fine del mese in corso.

Skatebård - Spektral

Skatebård – Spektral (Digitalo Enterprises)
Arriva dalla fredda Norvegia questo album assemblato con una serie di inediti scritti e prodotti tra 2001 e 2005. L’Intro apre le porte del regno degli Asi mandando l’ascoltatore in compagnia di mostri della mitologia nordica ma ciò avviene per appena quaranta secondi perché “Vaskemaskin” trascina immediatamente sulla pista coi suoi turbinii incontrollati madidi di sudore che girano come lame roventi. L’effetto è simile in “Den Anarkistiske Anode”, rivista da DJ Sotofett, un sinuoso serpente di loopismi techno sporcati dal distorsore, e “Seventh”, che riaggancia ipnotismi in stile Maurizio. Con “Bassi” l’artista placa momentaneamente gli impeti più animaleschi adagiandosi su un fondo catramoso fatto di punteggiature housy in stile Chicago della prima ora. Sulle stesse coordinate si colloca “Ei Anna Framtid”, un take beatless di “Future” pubblicata dalla finlandese Keys Of Life nel 2003 che ora diventa un glaciale arabesco ambient techno a cui segue “Strengje”, house mutante scandita dai blip. La chiusura fa nuovamente calare la pressione: “Spektral-Electro” lambisce oscure galassie electroidi mentre in lontananza lampeggiano colori fluo tra nuvole minacciose. Bård Aasen Lødemel continua a toccare con disinvoltura più generi musicali marchiandoli puntualmente con la tipica impronta nordica di atmosfere tristi e riflessive, probabilmente derivata dalla cronica latitanza di sole nella Terra dei vichinghi.

Ma Spaventi & Demuro - La Molecola Del Tempo

Ma Spaventi / Demuro – La Molecola Del Tempo (New Interplanetary Melodies)
“Anno Domini 1987. La Grande Guerra Nucleare è terminata senza vincitori. Enormi nembi giallastri vagano tra i continenti a oscurarne il cielo. Il pianeta è amorfo, il suolo pregno di esalazioni tossiche. La bellezza, bandita dalla realtà, sopravvive solo nei ricordi di pochi scampati. Nessuna megalopoli, nessun parlamento, nessuna famiglia: tutto ciò che l’uomo aveva eretto al centro ora è periferico, sporadico, incerto. La distruzione dello spazio ha dissipato anche il tempo. Dell’uno e dell’altro non restano che frammenti sparsi, destinati a sgretolarsi sotto l’impeto di venti sulfurei e depressioni caustiche. La Società Degli Ultimi Esseri, nelle rare isole di terra fertile, vive stretta intorno all’estrema speranza. Rimangono solo pochi giorni per ingabbiare la molecola del tempo: presto l’ultimo nocciolo di energia sarà spento. L’esperimento finale è appena iniziato: troppo fantasiosi gli esiti per essere previsti, troppo confuse le probabilità per essere calcolate”: si legge così sul retro della copertina di questo avventuroso disco, l’incipit da cui (ri)parte il viaggio di MarcoAntonio Spaventi ed Enrico Demuro, a poco più di un anno di distanza da “The Great Walk”. “La Molecola Del Tempo” è un album intriso di pathos e intensità emotive che viaggiano speditamente da un pezzo all’altro disegnando prima atmosfere accomodanti e benevole, poi scure, con suoni minacciosi che si stagliano su un cielo livido e plumbeo, imperscrutabile, a incorniciare il tramonto della civiltà su scenari di inconsolabile devastazione. Un’immagine distopica, tipica della narrativa fantascientifica e cinematografica d’antan (si veda, ad esempio, la serie “Ora Zero E Dintorni” prodotta in Italia nel 1980) ma via via sempre più temibilmente contemporanea a giudicare dalla situazione attuale in cui versa la Terra. È legittimo pensare che a ispirare gli autori sia stato un evento in particolare, e il fatto che il disco sia stato composto, arrangiato e prodotto tra la fine di agosto 2019 e marzo 2021, abbracciando buona parte del periodo pandemico, avvalora l’ipotesi che il Covid-19 possa avere ricoperto un ruolo centrale nel processo creativo. A fugare i dubbi sono proprio gli artefici, contattati per l’occasione: «Verso la fine del 2019 la mia vita personale ha subito diversi cambiamenti molto importanti che mi hanno portato a lasciare quella comfort zone a cui ero abituato negli anni precedenti» spiega Spaventi. «L’arrivo del Covid-19 subito dopo ha certamente contribuito ad aumentare il senso di insicurezza e di crisi. La musica però, ancora una volta, mi ha dato la possibilità di trovare un momento di riposo mentale, di creatività che alimenta la rinascita. Le ambientazioni e, più in generale, la sonorità del disco, sono frutto proprio di questo particolare equilibrio. La ricerca sonora da una parte, che porta soddisfazione e senso di comfort, il sapore amaro e di disagio del mondo attuale dall’altro». Simile la prospettiva di Demuro: «La lunga parentesi della pandemia, i periodi di “reclusione domestica”, le nuove problematiche e le incertezze hanno influito nella fase creativa della musica e del concept. Nel mio caso a giocare un ruolo sono state anche le letture che ho affrontato in quel periodo. Ritengo ci sia una grande difficoltà a leggere con lucidità il nostro presente storico e costruire il futuro rimediando, in maniera consistente, alle falle del sistema capitalistico neoliberista e alla crisi crescente dei nostri sistemi democratico-liberali. Nel frattempo si sono aperti e riaperti nuovi scenari bellici attorno a noi, quindi mi sembra tutto di grande attualità».

Nonostante ci siano diversi anni a separare il concepimento dalla pubblicazione dell’album, “La Molecola Del Tempo” risulta essere perfettamente contemporaneo, proprio per la persistente fase di difficoltà che il nostro Pianeta si trova ad affrontare. Cambiare qualcosa forse avrebbe potuto dare un valore aggiunto? «Per me è perfetto così» afferma lapidario Spaventi. «Finire un disco è un’impresa colossale proprio perché non si vuole lasciare nulla al caso e si cura tutto nei minimi dettagli per creare un’opera che possa sostenere il passare del tempo». Pure Demuro è contento del risultato finale, «ma mi sarebbe piaciuto aggiungere parti di batteria e di percussioni suonate» dice «per renderlo un po’ meno sintetico/programmato e più suonato insomma. Auspico che questa possa essere la direzione del nostro prossimo disco, capiremo come fare». “La Molecola Del Tempo” garantisce all’ascoltatore un’autentica avventura verso “Nuovi Orizzonti”, per poi spingersi “Nel Vortice Di Una Vertigine” e toccare “Il Punto Di Fusione”, prendendo in prestito alcuni dei titoli in tracklist. Un sogno che diventa un incubo, atmosfere rasserenanti che si trasformano in severe, a tratti ansiogene con un filo di mestizia: davvero nulla si ripete meccanicamente, è un flusso emozionale che prima ti accarezza e poi ti fa gelare il sangue, forse un parallelo alla vita terrena che dà e toglie, purtroppo non sempre in modo bilanciato.

Per raggiungere questo risultato gli autori hanno adoperato una lista lunghissima di strumenti, di vecchia e nuova generazione. «Poco importa che una macchina sia vecchia o nuova se il suono e il prodotto che ne ricavo soddisfano le mie esigenze» afferma Spaventi. «La tecnologia mi affascina da sempre analogamente alla ricerca sonora». A supporto dell’intreccio tra ieri e oggi è anche Dimuro il quale sostiene che «l’interazione tra vintage e nuove tecnologie può aprire a nuove soluzioni sonore. Noi abbiamo privilegiato sintetizzatori di ieri abbinati a sequencer moderni che rendono la produzione più veloce e compressa. Abbiamo bisogno di nuove tecnologie per correggere i nostri errori ma il discrimine è nell’utilizzo, l’etica e le modalità d’impiego. La tecnologia senza etica è rovinosa perché procede eternamente in modo acefalo ma a me onestamente pare ormai troppo tardi per cambiare la sua dinamica evolutiva, e forse non è mai stato possibile farlo». Aver creato l’album in un periodo particolare come quello pandemico, ha per forza di cose inciso sul modus operandi con cui è stato realizzato. «Siamo stati costretti a lavorare per lo più a distanza ma qualche volta, soprattutto nella fase finale, ci siamo incontrati in studio» racconta Spaventi. «Ci si rimbalzava le sessioni fino a quando il materiale non era completo per essere missato. Un aneddoto particolare riguarda “Molecolare”, tra i pezzi più vecchi del disco. La sessione iniziale venne creata da me nel 2019, tra le ultime nel mio studio di allora. Ho sperimentato tantissimo con effetti e missaggio ma il tutto è maturato a dovere solo quando Enrico ha aggiunto le sue particolarissime linee di basso. Per scambiare materiale facevamo spesso ricorso al cosiddetto “bounce” che non consisteva in tutta la sessione ma solo di un file stereo, risultato del missaggio parziale del brano. Su questa base Enrico ha aggiunto, più o meno, tutti i suoi bassi. Quando ho importato le sue takes nella mia sessione originale però, il groove e il modo in cui il basso si appoggiava al ritmo non stavano più su. È un problema comune a chi produce col computer dovuto alla “latenza” del sistema. Sono millisecondi che il computer aggiunge via via per gestire tutto il calcolo del prodotto audio. Niente, il basso di Demo non ne voleva proprio sapere di starci dentro, neanche dopo tentativi di aggiustamenti manuali. Soluzione? Usare il missaggio parziale e sistemarlo in mastering: la fase finale del pezzo è proprio il premix originale che aveva un groove unico. Questo per dire che non importa di come si arriva al risultato, l’importante è che suoni nel modo giusto».

Uno dei pezzi che simboleggiano meglio il messaggio di Spaventi e Demuro è “Cadetti Dello Spazio-Tempo”, accompagnato anche da un videoclip girato tra Castelfiorentino e Marghera nel 2023 da Sabina Ismailova ma altrettanto convincente risulta “Cinematica Terrestre”, destinato a essere la bonus track del formato digitale uscito lo scorso 26 maggio. Con “Elettromagnetica” si alzano venti che spazzano via i nembi giallastri di cui si diceva all’inizio. Ma purtroppo è solo la sensazione suscitata dalla musica, le condizioni in cui versa la Terra continuano a non essere delle migliori e più di qualcuno probabilmente oggi vorrebbe trovarsi altrove. Chiedersi che volto avrà il nostro pianeta tra qualche decina d’anni è più che comprensibile, ma anche domandarsi che fine farà la musica. «Il passato non ha mai regalato epoche in cui tutto era perfetto» sostiene Spaventi. «Si stava meglio all’età della pietra, o quando ci si ammazzava per un tozzo di pane, si moriva di peste o inceneriti al rogo? O, ancora, alla fine dell’Ottocento quando le industrie pompavano fumo nero di carbone senza filtri o quando tutto il mondo era in guerra, meno di cento anni fa? Certo, al giorno d’oggi si potrebbe fare sicuramente meglio, vista la conoscenza accumulata dall’umanità dall’inizio della nostra storia. Tutto sommato però sono contento di vivere negli anni Duemila piuttosto che nel Duecento. Tra dieci anni sarà lo stesso, forse un po’ più caldo, un po’ più arido, un po’ più costoso e con tecnologia AI sempre più invadente. Ma sono certo che la musica sopravviverà insieme ai sintetizzatori vintage, perché ci sono quelli come noi che vivono e si nutrono di cose belle». Di opinione diversa è Dimuro il quale ammette candidamente che gli piacerebbe vivere nel Medioevo, un periodo storico affascinante, o militare tra le fila del Terzo Stato durante la Rivoluzione Francese o ancora scoprire il Nuovo Mondo imbarcato con Amerigo Vespucci: «oggi non ci sono, a livello globale, reali politiche di cambiamento radicali. Forse ci troviamo su una barca che affonda e cerchiamo solo di tapparne le piccole falle» aggiunge. «Ovviamente la Terra sopravvivrà e si trasformerà, magari senza gli esseri umani. Spero che in qualche modo la musica riesca a cavarsela, è la più grande forma di bellezza umana artificiale». Adatto a sonorizzare una pellicola catastrofica o un videogame survivalista, il disco di Spaventi e Demuro, prodotto da Simona Faraone (intervistata qui) sulla sua New Interplanetary Melodies, è la soundtrack calzante per restituire all’ascoltatore l’immagine di una Terra andata quasi tutta in pezzi, a un passo dall’essere inghiottita dal buio e dal silenzio eterno. Probabilmente un mondo perfetto non è mai esistito e mai ci sarà, ma nessuno ci impedisce di sognarlo ancora.

Noamm - Electroporation EP

Noamm – Electroporation EP (Tiger Weeds)
Batte bandiera ellenica questo EP sull’ateniese Tiger Weeds. A firmarlo il talentuoso Noamm, che negli ultimi anni ha dimostrato in molteplici occasioni di essere un abile intagliatore di materie electro. La partenza è diretta e senza fronzoli con la severa e minimalista “Electroporation” seguita da “Science We Trust” ed “Exobiology Radiation Assembly”, entrambe intrise di sequenze cybermeccaniche sovrapposte a brevi porzioni melodiche. La medesima andatura da androide si ritrova in “Electroporation II” e “Tele-Vision” probabilmente le più convincenti del disco, dove l’autore sfodera dal taschino il tesserino di adesione al club dopplereffektiano. Per “Intuition”, infine, pigia il pedale dell’acceleratore e riagguanta stilemi industrial / wave con l’aiuto della magnetica voce di Angelique Noir. Nel complesso è un extended play diligentemente prodotto, seppur non offra particolari guizzi estrosi perché si attiene a un modello creativo largamente battuto nell’ultimo ventennio.

Sonic Transmutations

Various – Sonic Transmutations (Clone Records)
Se la fiorentina Bosconi Records compie quindici anni – si legga qualche riga più sopra -, le candeline che spegne l’olandese Clone Records sono poco più del doppio, trentuno. Per festeggiare l’importante traguardo dunque, l’etichetta-distributore di Serge Verschuur mette sul mercato una compilation decisamente maxi visto che il box set racchiude ben otto dischi per un totale di 33 tracce. All’headquarter di Rotterdam parlano di un cofanetto “che riunisce talenti veterani ed emergenti iconoclasti” e, a leggere la tracklist, è difficile sconfessare tale definizione. Tra i veterani Anthony Rother, Dopplereffekt, Legowelt, Dexter, Detroit In Effect, E.R.P., The Exaltics e Alden Tyrell, tra gli emergenti invece Lenson, Alberta Balsam, Alex Ranzino, Dim Garden, PRZ e l’italiano Kreggo, tutti accomunati da una notevole forza espressiva e uniti nel credo della techno e dell’electro. Un possibile regalo da farsi o da fare, in previsione delle ormai non lontane strenne natalizie.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Nico De Ceglia

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
In realtà sono stati due. Ero solo un bambino ma già affascinato dal mondo della musica. Insieme alla mia migliore amica d’infanzia, decisi di investire la paghetta in due 45 giri, scegliendo tra le hit del periodo. Io optai per l’energia dei Knack con il classico “My Sharona” e “You And Me”, successo pop disco di un gruppo olandese chiamato Spargo, credo l’unico della loro carriera. La mia amica invece scelse “Video Killed The Radio Star” dei Buggles e “I Was Made For Lovin’ You” dei Kiss. Non avevo nemmeno un giradischi quindi usavamo di nascosto quello di suo fratello maggiore quando non era a casa, alzando il volume al massimo e sentendoci adulti e speciali.

L’ultimo invece?
Il nuovo album di Loraine James intitolato “Gentle Confrontation”. È un lavoro molto personale che fonde influenze IDM, glitch, R&B ed elettronica, oltre a intrecciare elementi digitali e acustici.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Il numero di dischi della mia collezione è in continua fluttuazione, purtroppo non dovuto a una costante crescita. Nel corso degli anni ho dovuto separarmi da una considerevole quantità di vinili in più di un’occasione, a causa di traslochi in appartamenti dove non potevo portare con me l’intera raccolta. L’ultimo di questi dolorosi addii risale a tre anni fa, quando ho dovuto prendere la difficile decisione di separarmi da oltre cinquecento titoli tra quelli che avevo lasciato a casa di mia madre, a Roma. Ho spedito una quantità ancora maggiore a Londra ma per motivi logistici e di costi sono stato costretto a scremare quei cinquecento. È un po’ che non conto quelli che ho ancora a casa, molti sono ancora imballati in vari cartoni il che rende la quantificazione più complicata. Credo comunque che oscillino tra i duemila e i tremila. Per quanto riguarda i costi, anche in questo caso è difficile stabilirli in modo preciso. Nella collezione ci sono molti titoli che ho ricevuto come promo nel corso degli anni, sia come DJ che giornalista, e molti altri durante il periodo in cui ho lavorato a BBC Radio 1 con Pete Tong.

Dove è collocata e come è organizzata?
Avevo un sistema di catalogazione basato su generi, artisti ed etichette, ma anche quello ha subito le conseguenze dei vari traslochi e si è disfatto nel tempo. Mi sono ripromesso più volte di iniziare a ricostruire un certo ordine ma continuo a rimandare. Attualmente gli acquisti più recenti e i dischi che utilizzo più spesso quando faccio set in vinile sono sistemati in un’apposita libreria in salone, oltre che in flight case pronti per le serate. Quelli a cui accedo meno frequentemente invece sono sparsi tra un’altra libreria, varie scatole sigillate e diverse borse che conservo con cura in un ripostiglio.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Purtroppo devo ammettere di non essere particolarmente rigoroso su questo aspetto, e i puristi potrebbero storcere il naso a sentirlo. Tuttavia, allo stesso tempo, posso affermare di aver sempre prestato grande attenzione alla cura dei miei dischi, e negli anni ho puntualmente ricevuto apprezzamenti per le loro condizioni impeccabili. Solo alcuni di quelli che avevo lasciato a casa dei miei, in Italia, hanno subito piccoli danni alle copertine a causa delle variazioni eccessive di temperatura nella stanza in cui erano conservati.

Ti hanno mai rubato un disco?
Una volta è successo che alcuni dischi siano scomparsi da casa mia, e il sospetto ricadde su una persona che era stata ospite qualche tempo prima. Tuttavia il danno più grande me lo causò mio padre che, con buone intenzioni ma ingenuamente, concesse l’accesso ai miei dischi che erano conservati a casa sua, al figlio di un amico che stava iniziando a fare il DJ. Considerando la grande quantità di dischi, secondo lui darne via qualcuno non avrebbe fatto molta differenza. Ho scoperto tutto ciò solo molto tempo dopo quando, cercando alcuni titoli che sembravano svaniti nel nulla, me lo rivelarono. Sono riuscito a recuperare solo alcuni di quei dischi ma purtroppo altri, di cui mi sono ricordato negli anni successivi, sono rimasti irrimediabilmente perduti.

Nico De Ceglia e UR
Nico De Ceglia e un disco marchiato Underground Resistance

C’è un disco a cui tieni di più?
Ci sono diversi titoli che hanno un significato davvero speciale per me. Sono una persona che spesso associa oggetti e momenti a preziose memorie. Tra questi, per esempio, gli album che ho comprato con i primi risparmi appena entrato nell’adolescenza occupano un posto particolare nel mio cuore. Parlo di dischi come “Love” dei Cult e “Black Celebration” dei Depeche Mode, che sono intrisi di ricordi di quel periodo. Lo stesso vale per i primi 12″ di house e rap, quando queste scene stavano emergendo, dischi a cui ho dedicato interi pomeriggi ad allenarmi a metterli a tempo e che hanno un posto speciale nel mio cuore. Poi ci sono tanti altri titoli a cui tengo per motivi personali. La lista sarebbe abbastanza lunga.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti volentieri?
Negli anni ho acquistato vari dischi di cui mi sono pentito una volta ascoltati a casa o dopo averli suonati in un club. Al contrario, ovviamente, ci sono stati titoli che avevo inizialmente scartato ma che ho rimpianto dopo averli ascoltati in un club. Nel corso del tempo ho fatto una sorta di pulizia degli errori, almeno per la maggior parte di essi. Qui a Londra, i vari Music & Video Exchange che comprano e vendono dischi, si sono sempre dimostrati estremamente utili, già in tempi pre Discogs.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una cifra significativa?
Un titolo che mi è stato alquanto difficile trovare, tanto che alla fine ho dovuto accontentarmi di una copia non ufficiale, è stato quello della colonna sonora del film “Solaris” composta da Cliff Martinez. Fu pubblicata in un numero molto limitato e per anni non ci sono state ristampe o altre edizioni. Un album che invece ho sempre desiderato e per cui sarei disposto a sborsare una cifra importante ma ragionevole, visto che alla fine copie in giro se ne trovano, è il leggendario “The Black Album” di Prince nella sua versione originale, considerando che nel corso degli anni sono state diffuse diverse copie non ufficiali. Poi ci sono alcuni lavori di Moodymann e Aphex Twin, il trittico colorato “Z Record” su Underground Resistance e alcune rare stampe dei Coil e Can, tutti titoli per cui sarei disposto a spendere cifre più alte.

Quello con la copertina più bella?
Ci sono davvero molte copertine che meriterebbero di essere menzionate. Dall’estetica sempre curata di Björk e Pet Shop Boys al minimalismo dei Depeche Mode di “Violator”, dall’impatto industriale dei primi Nine Inch Nails, Front 242, Nitzer Ebb fino a quelle che hanno segnato nuove scene come nel caso dei primi Massive Attack, Nirvana, New Order o Aphex Twin e l’intera produzione della Warp Records in generale. O ancora copertine iconiche come quella di “I Get Wet” di Andrew W.K. o quelle dominate dalla palette rosso, bianco e nero dei White Stripes. Una copertina che mi viene in mente per la sua immagine unica è quella del promo del singolo “Before” dei sopraccitati Pet Shop Boys. Raffigura il primo piano di una parte intima (lascio a voi il piacere di scoprire di quale si tratti) nelle varianti blu, rosa e bianco e nero. Quando uscì era un promo molto ricercato, tanto per la sua audacia quanto per l’esclusività.

Che negozi di dischi frequentavi da ragazzino e adolescente?
Da bambino, quando vivevo a Napoli, ho iniziato a esplorare i negozi di dischi praticamente da subito. Ricordo di aver costretto mia madre a fare una sosta fissa in un negozio che, se la memoria non mi inganna, si chiamava Top Music ed era uno dei punti di riferimento per i dischi nel quartiere Vomero, dove vivevamo. Nel frattempo mi perdevo tra gli scaffali pieni di vinili, affascinato dall’atmosfera e dalle copertine, anche se ovviamente a quell’età non conoscevo né gli artisti né altro. All’epoca, come ho accennato prima, non avevo nemmeno un giradischi a casa, era solo pura attrazione e passione. Quando ci siamo trasferiti vicino Roma, da adolescente, i miei punti di riferimento divennero i negozi storici della Capitale come Disfunzioni Musicali, il paradiso per gli acquisti alternativi e gli import, un vero tempio dove trovavi i titoli più oscuri, e per quanto riguarda la dance, posti come Goody Music di Claudio Donato, che è ancora in attività, ed altri come Re-Mix e Mix Up. Facevo anche ordini per corrispondenza dai pilastri della scena dance italiana, Disco Più di Rimini e Disco Inn di Modena. Ogni singolo negozio di dischi per me era un tempio magico, e anche quello di quartiere meno fornito diventava una tappa obbligata. Il semplice tocco delle pile di vinili e lo sfogliare con le mani tra i vari titoli mi trasportavano in una dimensione unica. Quando poi ho iniziato a frequentare i negozi specializzati in musica dance, si è aperta un’ulteriore dimensione. Trovarmi tra persone appassionate come me per questo nuovo e unico fenomeno, che il mondo esterno non aveva ancora scoperto e guardava con leggerezza e sospetto, fu un’esperienza straordinaria. Ci sentivamo unici, speciali. Sapere che in certi giorni e orari specifici dovevi visitare un negozio per beccare quelle rare chicche che arrivavano in pochissime copie prima dell’uscita ufficiale, ascoltare i consigli di chi lavorava nel negozio e conosceva i tuoi gusti. trovare una postazione libera, mettere su le cuffie, posare la puntina sul vinile e lasciarsi trasportare dalla musica… non saprei davvero dove fermarmi nel descrivere l’unicità e l’immensa magia di quegli anni.

Cosa ricordi relativamente all’avvento della house e della techno in Italia? Era complesso approvvigionarsi di nuovi titoli? Che “filtro” usavi per orientarti nel mare magnum di pubblicazioni settimanali? Seguivi, ad esempio, programmi radiofonici specializzati, leggevi riviste o ti affidavi semplicemente ai suggerimenti dei negozianti stessi?
Magia. Furono anni di pura magia e scoperta. La house e la techno, così come il rap, hanno rappresentato su vari aspetti le ultime grandi rivoluzioni musicali. Da allora non ci sono stati generi altrettanto rivoluzionari ma solo derivazioni e surrogati. Posso considerarmi incredibilmente fortunato ad aver vissuto in quel periodo. I miei primi approcci a questo movimento erano legati a programmi radio, sia nazionali che locali, che andavano in onda principalmente nei fine settimana e durante la notte, ma anche nel pomeriggio dopo la scuola. Da Italia Network ai mixati di Dimensione Suono, dal DeeJay Time ai programmi pomeridiani di Centro Suono che era un punto di riferimento per noi di Roma e dintorni, passando per gli eccezionali anni di Planet Rock e Suoni e Ultrasuoni: ero un avido ascoltatore di tutti questi programmi. Li registravo diligentemente su varie cassette e poi li editavo sulla doppia piastra, creando una forma primordiale di remix e di edit. Le riviste specializzate che arrivarono poi rappresentarono un’altra preziosa risorsa. Dalle inglesi Mixmag e DJ, quando riuscivo a recuperare delle copie, alle italiane come Discotec, Rumore e DiscoiD, ogni opportunità di scoprire e leggere su nuovi artisti, club e dischi non veniva mai persa. C’erano nomi di cui mi fidavo e che seguivo più ciecamente di altri. Tutto il team serale di Radio 2, quello legato a Planet Rock e ai successivi show, era ovviamente una garanzia, esperti unici nei vari generi, e DJ nostrani come Massimino, Ralf, Claudio Coccoluto e Luca Colombo, solo per citarne alcuni, erano delle vere guide di cui leggevo ogni classifica e recensione. Ricordo che Massimino e Claudio Coccoluto, per esempio, mi fecero scoprire alcuni di quei dischi house che sono rimasti tra i miei preferiti di sempre, come “Tonite” dei Those Guys. Non era poi così difficile trovare copie in giro una volta che arrivavano le versioni importate o venivano licenziati da etichette italiane, la vera sfida era accaparrarsi i leggendari promo.

Stop The Racism (16 febbraio 1991)
Il flyer di “Stop The Racism!”, il rave che si tiene a febbraio del 1991 e che segna la prima apparizione live in Italia di Adamski

Negli anni Novanta la scena della musica dance cambia nel profondo, sia nel comparto discografico che sotto il profilo organizzativo nei locali. A Roma prende piede un format importato dal Regno Unito, quello dei rave. Come hai dichiarato pubblicamente qualche tempo fa, il primo a cui partecipi è “Stop The Racism!”, svoltosi il 16 febbraio 1991 a Monterotondo. Cosa ricordi di quell’evento?
Sono trascorsi più di trent’anni ma come potrei dimenticarlo? Forse non ne ricordo tutti i dettagli ma indelebili sono l’emozione, l’eccitazione e l’energia di essere lì, di vedere esibirsi dal vivo artisti come Adamski e Digital Boy, di cui avevo sempre sentito parlare e visto nei video, e poi sentire le prime note di “Killer” (di cui parliamo qui, nda) e urlare all’unisono col resto della folla entrando in una sorta di trance. Erano tutte esperienze nuove non solo per noi, ma per la maggior parte delle persone presenti. Sentirsi parte di qualcosa di così grande, capire che fosse la nascita di un movimento ed essere al corrente che la maggioranza dei tuoi coetanei nemmeno sapeva dell’esistenza di tutto ciò è stato incredibile. Vissi quell’esperienza insieme al mio migliore amico, appena patentato come me. Prendemmo la macchina di suo padre e ci avventurammo verso il luogo del rave, che distava un bel po’ dalla zona in cui abitavamo. La mattina dopo, quando era ora di tornare a casa, ci perdemmo irrimediabilmente nelle strade della provincia romana. Non esistevano strumenti come Google Maps o navigatori e nemmeno telefoni cellulari per avvisare casa. Dopo ore di guida senza meta, chiamammo da una cabina telefonica trovando i nostri genitori estremamente preoccupati che si erano già contattati diverse volte cercando di capire cosa fare. Loro non sapevano nemmeno dove fossimo andati e anche se glielo avessimo detto, non avrebbero capito. Facile immaginare la situazione. Qualche anno dopo, con altri amici, abbiamo guidato fino a Monaco e ritorno per un Tribal Gathering nell’ex aeroporto. In quel caso i genitori non furono nemmeno informati del viaggio. I tempi erano profondamente diversi da oggi e le avventure irresponsabili costituivano una parte integrante dell’esperienza stessa.

DMM luglio 1995
Un articolo apparso sulla rivista DMM – Dance Music Magazine a luglio 1995 dedicato a Frankie Knuckles e Franco Moiraghi. A firmarlo sono Nico De Ceglia e Marco Malinverno

Nel ’92 inizi a scrivere di musica per la rivista DMM – Dance Music Magazine diretta da Carlo De Blasio. Come organizzavi il lavoro editoriale in epoca pre internettiana?
Fu la mia prima esperienza come giornalista. Era una storia completamente nuova per me, ma così come avevo fatto con la mia prima trasmissione radiofonica qualche anno prima, decisi di lanciarmi e li contattai per chiedere di collaborare. Ricordo di aver ricevuto una copia del primo numero della rivista al SIB di Rimini e, una volta tornato a Roma, pieno di entusiasmo, mi proposi a Carlo per scrivere. Mi chiesero subito di realizzare un profilo di Radio Dimensione Suono per il numero successivo, se non erro il secondo o forse il terzo. Non avevo mai fatto nulla del genere in precedenza, ero del tutto inesperto, e non sapevo nemmeno cosa volesse indicare il numero di “cartelle” da inviare. Per evitare di far trasparire la mia impreparazione, chiamai quelli di Planet Rock. In onda c’era il leggendario Luca De Gennaro, credo con Gennaro Iannuccilli e non ricordo chi altro. Lasciai un messaggio, sicuro che dalla loro vasta esperienza mi avrebbero aiutato. Spiegai che, durante le mie ricerche da studente universitario, mi ero imbattuto nel termine “cartella giornalistica” e chiesi di spiegarmi cosa significasse quel formato. Mi risposero in onda poco dopo, e da lì ho iniziato a scrivere il mio primo articolo. A essere a conoscenza di questo simpatico aneddoto erano solo i miei, non l’ho mai rivelato ad altri prima di questa intervista. Inizialmente facevo tutto in modo molto artigianale, prendendo appunti con penna e block notes, cercando di scrivere il più possibile. Poi tornavo subito a casa per trascrivere tutto al fine di evitare di dimenticare dettagli importanti. In seguito ho acquistato un registratore portatile che ha reso la mia vita più facile. La trascrizione degli articoli era ovviamente fatta a mano, prima con carta e penna, successivamente con una macchina da scrivere. Infine inviavo tutto in redazione tramite fax. Era il metodo di quegli anni, molto più complicato rispetto ai giorni nostri, ma in quell’epoca non si vedevano pro o contro, era semplicemente la modalità che tutti seguivano.

Nel 1995 ti trasferisci a Londra: quali ragioni ti convincono a lasciare l’Italia per emigrare oltremanica?
Londra in quegli anni rappresentava l’epicentro non solo della scena musicale ma anche delle nuove tendenze in moda, arte, società e molto altro. Come tanti, seguivo costantemente tutto ciò che accadeva in questa città attraverso le varie riviste, assorbendo ogni ispirazione e rimanendo affascinato da ogni aspetto. Ho trascorso circa due mesi nella Capitale britannica durante un’estate con un amico, e decisi subito che l’anno successivo mi sarei trasferito lì, nonostante fossi già impegnato con gli studi universitari a Roma. Londra aveva un fascino unico e il richiamo era irresistibile. Quando mi sono trasferito, la città non ha deluso le mie aspettative anzi, è stata ancora più intrigante e coinvolgente di quanto avessi immaginato. Purtroppo, non posso dire la stessa cosa della Londra di oggi. Nel corso degli anni, molte delle caratteristiche che rendevano la città unica sono state erose o cancellate, inclusi il tessuto della nightlife e della scena musicale che ora appaiono notevolmente ridotti.

Come racconti in un’intervista di Luca Schiavoni pubblicata da DJ Mag Italia il 20 maggio del 2012, nella Capitale britannica diventi un referente del negozio riminese Disco Più: «mi affidarono il compito di “scavare” tra i promo per procurare le esclusive che si trovavano solo a Londra. Dovevi avere buoni amici nei negozi di dischi che te li conservavano sotto banco». Come ricordi quei tempi vissuti da “promo hunter”?
Incontrai Gianni Zuffa, il proprietario di Disco Più, diverse volte al SIB di Rimini. Quando decisi di trasferirmi a Londra, nacque l’idea di agire come procacciatore di dischi promozionali, sfruttando sia i contatti che loro avevano già, sia cercandone di nuovi. Noi italiani eravamo tra i più ossessionati dalla ricerca di titoli inediti e rari, alcuni dei quali nel corso degli anni sono diventati veri e propri oggetti del desiderio. È stata un’esperienza assai stimolante ed eccitante. C’era una sorta di competizione con altri procacciatori di promo di negozi diversi, ma è sempre stata amichevole e leale, nessuno cercava di rubare i contatti agli altri. Ci si svegliava presto per essere i primi a passare dai vari negozi, ma a volte bisognava tornarci più volte durante la stessa giornata perché le consegne non si concentravano in un unico orario. Ogni settimana facevamo il giro degli uffici delle etichette e dei distributori. Eravamo costantemente aggiornati su ogni nuova uscita, senza trascurare alcun genere musicale. Inoltre c’erano eventi annuali come il Winter Music Conference di Miami, attesissimo proprio per le stampe promozionali esclusive che avrebbero fatto impazzire per mesi i DJ. I titoli ambiti si susseguivano continuamente. Lo scorso anno la rivista inglese Faith mi ha chiesto di stilare una classifica dei promo più ricercati in quegli anni in Italia, ma sarebbe stata un’impresa ardua realizzarne una definitiva. Ho stilato invece una lista delle etichette più ambite, menzionando alcune di esse come Junior Boy’s Own, AM:PM, MAW, Strictly Rhythm, F Communications, Wave, Azuli, Roulé, Freetown, Underground Resistance, Talkin’ Loud …

TheBlueGallery dicembre 1995
La rubrica “The Blue Gallery” che Nico De Ceglia cura per il magazine mensile DiscoiD (dicembre 1995)

A novembre del ’95 parte The Blue Gallery, la tua rubrica contenuta nel magazine gratuito di informazione discografica legato proprio al Disco Più, DiscoiD, a cui peraltro sono destinate anche alcune interviste da te curate per la rubrica “Label Of The Month”, e in seguito concretizzi la collaborazione con Italia Network e Roberto Corinaldesi. Ritieni che, ai tempi, iniziative di questo tipo alimentassero in qualche modo l’attenzione nei confronti di (certa) musica, solitamente fuori dalle orbite pop(olari)? Gli appassionati di techno, house e derivati, che leggevano avidamente recensioni e segnalazioni e che seguivano programmi di settore in radio, si sono estinti con lo sdoganamento del web o si sono trasformati in qualcos’altro?
L’idea della mia rubrica The Blue Gallery nacque parallelamente all’inizio della collaborazione con Disco Più. Volevo creare una sorta di galleria immaginaria in cui esporre ogni mese le ultime novità in arrivo. Un concept simile emerse anche durante il mio periodo a Italia Network, dove presentavo in diretta telefonica da Londra un nuovo disco ogni giorno. In seguito, dopo Corinaldesi, continuai la missione quotidiana con Marco Biondi su quella che sarebbe diventata RIN. Senza dubbio, tali iniziative erano strumenti vitali in quegli anni per diffondere nomi e suoni emergenti. Io stesso, in quanto appassionato, attingevo da ogni singola fonte di informazione musicale, ed è stato naturale passare dal ruolo di fruitore all’altro lato, in cui avevo l’opportunità di diffondere tali novità. Il web ha completamente rivoluzionato e frammentato queste abitudini, così come molte altre. Ha fornito incredibili strumenti che hanno reso molto più facile la scoperta e gli aggiornamenti costanti su ogni cosa, ma ha anche reso tutto meno specifico e meno diretto agli appassionati, abbattendo divisioni di genere nella nostra scena e neutralizzando, per esempio, quelle anteprime esclusive che erano un elemento fondamentale nel percorso di un disco. Purtroppo l’accesso globale ha portato anche a una massificazione estrema, con la quasi scomparsa delle scene più alternative e underground a favore di un flusso sonoro più facilmente praticabile e di consumo. Negli ultimi anni si è addirittura dato più rilievo ai contenuti visivi a discapito di quelli sonori. Tuttavia gli appassionati, sia delle vecchie che nuove generazioni, sono ancora presenti e capaci di scoprire le varie gemme in mezzo al marasma e alla vastissima offerta di materiale disponibile. È una categoria che ha dovuto e saputo evolversi, scoprendo nuovi strumenti di ricerca unici rispetto all’era pre web.

Black Market homepage 2000
L’homepage del sito di Black Market nel 2000

Per un certo periodo hai lavorato negli uffici di Black Market. Di cosa ti occupavi?
Black Market è stato un luogo simbolo per tutti i DJ e appassionati di dischi che visitavano Londra. Io stesso corsi subito a farci un salto la prima volta che venni qui in vacanza, per poi diventare un assiduo frequentatore quando mi trasferii. Nel periodo in cui mi occupavo di ricerca promo lo visitavo più volte al giorno, conoscevo molto bene quindi tutti quelli che lavoravano in negozio, sia al piano terra nella sezione house e techno che nel basement dedicato a jungle e drum’n’bass. Naturalmente avevo contatti anche con coloro che lavoravano negli uffici al piano di sopra incluso il capo, David Piccioni. All’inizio del nuovo millennio, quando l’idea di avere una presenza online cominciò a divenire essenziale per ogni store, mi contattò proprio David. Stava pianificando il primo sito web del negozio e mi offrì l’opportunità di supervisionarne i contenuti e il database. Sebbene fosse una novità per me, la mia esperienza passata mi diede la sicurezza necessaria e la prospettiva di unirmi a un team e a un’azienda che ammiravo profondamente non poteva che farmi dire di sì. Nel corso della creazione del sito, ho curato le classifiche settimanali per il negozio, ho stabilito nuovi contatti con le etichette e mi sono occupato di inserire ogni singolo disco che ci arrivava nel database. Quest’ultimo compito era particolarmente appagante per me dato che, fatta eccezione per il manager del negozio, ero il primo a mettere le mani su tutte le nuove uscite che arrivavano quotidianamente. Black Market era una tappa obbligata per i DJ di ogni calibro e provenienza. Basta citarne uno e con molta probabilità l’ho incontrato lì in quegli anni. È stata un’esperienza incredibile che mi ha preparato per il passo successivo con Pete Tong e BBC Radio 1. Durante il mio periodo lavorativo da Black Market, ho anche iniziato a stilare una classifica settimanale online per la prestigiosa rivista inglese Muzik, che purtroppo chiuse i battenti nel 2003. In seguito ho curato classifiche e recensioni per Ministry, il mensile del Ministry Of Sound, che però ebbe vita breve. Per un periodo sono stato anche membro del panel che stilava la leggendaria Buzz Chart per Update, classifica di riferimento in quegli anni. Al Ministry Of Sound ho pure avuto il mio primo programma radiofonico inglese, andando in diretta ogni due settimane per due ore. Nel programma presentavo novità musicali e ospitavo artisti dal vivo. Svariati amici italiani, come Stefano Fontana e Luca Bacchetti, vennero a trovarmi quando si trovavano in città, e ho avuto il piacere di accogliere nomi come Swayzak, Richard Sen, Rob Mello e molti altri. La radio del Ministry è stata una delle prime a sperimentare le trasmissioni via internet, attiva ben prima di molte altre giunte in seguito.

Nico De Ceglia at Winter Music Conference di Miami 1997
De Ceglia al Winter Music Conference di Miami nel 1997 mentre mostra un adesivo del free mag DiscoiD

Nel 2001 incontri Pete Tong e inizi a collaborare con lui sia come A&R per la FFRR che a BBC Radio 1 «cercando di fargli scoprire le cose più “underground”, come se fossimo ancora nell’era dei white label, riuscendo a mettere un po’ del nostro tocco e dando modo ad alcuni artisti italiani di essere presenti nello show», parafrasando ancora la sopramenzionata intervista di Luca Schiavoni del 2012. Ricordi almeno tre pezzi made in Italy che segnalasti a Tong e i suoi relativi commenti a caldo?
È stata un’esperienza straordinaria quella con Pete. Ho lavorato con lui per dodici anni, affiancandolo nella selezione settimanale per lo show. Nel corso del tempo questo rapporto lavorativo si è sviluppato in una sincera amicizia e stima reciproca. Ancora oggi, quando mi imbatto in titoli promettenti che potrebbero catturare il suo interesse, non esito a consigliarglieli. Come ho sottolineato in passato, Pete era già in contatto con la maggior parte dei grossi nomi della scena, ed era riconosciuto per il suo significativo impatto sul panorama dance internazionale. Se sceglieva di suonare un brano in radio poteva davvero cambiare il destino di quel disco e dell’artista che lo aveva creato. Il mio ruolo, oltre a effettuare con cura una preselezione tra l’enorme quantità di promo e acetati che arrivavano in ufficio ogni settimana, era far scoprire a Pete i titoli più alternativi e underground. Ho portato poi un po’ di estetica e attitudine italiana in un team che fino a quel momento era stato completamente inglese. Abbiamo creato subito una sintonia e Pete si è fidato immediatamente dei miei suggerimenti. Il mio arrivo nello show avveniva sulla scia di un paio di anni eccellenti per le produzioni italiane all’estero. Basti pensare ai numeri uno di Black Legend e Spiller in Regno Unito l’anno precedente, e alle tracce di Planet Funk e Par-T-One, ancora freschi successi in quel momento. Fra i nomi nostrani che ho contribuito a promuovere in quei primi anni a BBC Radio 1 ci sono Moony, Alex Gaudino, Antillas, Stylophonic, Psycho Radio, Pasta Boys, Santos, Pink Coffee, Nufrequency… per citarne solo alcuni. Poi ne sono arrivati molti altri, tra cui Tale Of Us, giusto prima della mia uscita dalla radio, e Fango, subito dopo. Non ricordo nei dettagli i commenti di Pete su questi lavori, ma è innegabile che fossero molto positivi, essendo poi stati artisti che hanno ricevuto il suo supporto in radio e nei club. Un aneddoto divertente? Tutti gli italiani che Pete incontrava in giro per il mondo gli dicevano puntualmente che erano miei amici.

Ci sono state anche “sviste”, ossia pezzi che gli avevi consigliato ma di cui non riuscì a cogliere subito le potenzialità?
Sono numerosi i titoli che negli anni avevo suggerito e che per varie ragioni furono trascurati per poi essere rivalutati, ma preferisco non entrare nei dettagli.

«È facile notare produzioni di fattura più che mediocre presenti in classifica e vendere migliaia di copie. Molti si fidano troppo di quanto gli venga detto da alcune persone non riuscendo ad analizzare da sole il valore delle singole produzioni o comprando un disco solo perché viene imposto dal mercato. […] Si tende quindi a far nascere mode che poi verranno puntualmente oscurate per dare spazio ad altre, e questo è un meccanismo schifoso»: a sostenere ciò è Lory D in una tua intervista pubblicata su DMM a febbraio del 1993. A distanza di poco più di trent’anni, la situazione è rimasta la stessa? Probabilmente a essere cambiate sono solo le modalità di persuasione?
Ricordo con piacere l’incontro con Lory D per l’intervista finita sulle pagine di DMM, occasione in cui andai a trovarlo nel suo studio a Roma. Rispetto a molti altri artisti dell’epoca, Lory era già avanti sia musicalmente che nella visione di come stava evolvendo la scena. Come non dargli ragione per quelle parole e come non vedere ancora oggi il loro significato, forse ancora più evidente di allora. Nel 1993 il mercato aveva già la sua quota di prodotti di qualità mediocre, proprio come oggi. D’altra parte, il consumatore medio tende ad accontentarsi di ciò che gli viene offerto, senza scavare a fondo per scoprire il resto. Tuttavia, trent’anni fa, era più facile evitare questi prodotti scadenti e concentrarsi su altro nel vasto panorama delle uscite discografiche. Oggi la massificazione ha raggiunto proporzioni enormi e il prodotto scadente e mediocre sembra dominare. Ci vogliono molto più tempo ed energie per scartare tali prodotti e concentrarsi su quelli di valore. I social media inoltre rappresentano uno strumento perfetto per amplificare il mediocre e dare voce a molte persone senza particolari talenti, se non la capacità di promuovere se stessi.

Una quindicina di anni fa circa hai dato avvio alle tue produzioni discografiche prevalentemente legate all’attività di remixer, su tutte il progetto Hyena Stomp condiviso con un altro italiano trapiantato a Londra, Severino Panzetta. Col senno di poi, avresti iniziato prima tale percorso artistico, quando comporre e incidere musica era più gratificante e remunerativo?
Hyena Stomp è stato un progetto affascinante. Abbiamo cercato di coniugare in un progetto artistico la nostra lunga amicizia e la passione per la scena club. Ci siamo dedicati principalmente ai remix, lavorando su brani di artisti come Tevo Howard & Tracey Thorn, DJ Hell, The 2 Bears o Ali Love, ma abbiamo anche dato vita a produzioni originali per label come la Rebirth. Dopo qualche anno abbiamo deciso di mettere in gioco i nostri veri nomi firmando remix per Róisín Murphy, Basement Jaxx, Ashley Beedle e tanti altri. Prima di Hyena Stomp, avevo già lavorato su progetti con altri amici, e anche dopo ho continuato a esplorare varie direzioni musicali. Ricordo con orgoglio il remix realizzato per “The Wanderer”, il classico di Romanthony pubblicato su Glasgow Underground sotto lo pseudonimo Photo 51, in collaborazione col talentuoso Franky Redente. Inoltre ci sono stati altri lavori firmati con Rui Da Silva, ma sono consapevole che avrei potuto investire più tempo in studio e sviluppare una discografia maggiormente consistente nel corso degli anni. Spesso mi trovavo a gestire una miriade di progetti contemporaneamente e questo mi ha impedito di dedicare periodi lunghi alla produzione. Qualche tempo fa, un po’ deluso dall’evoluzione dell’industria musicale, ho deciso di prendermi una pausa e concentrare le mie energie altrove, in attesa che tornasse l’ispirazione. Ora credo di essere pronto per nuove avventure in studio e non solo.

Ipotizziamo che The Blue Gallery appaia ancora mensilmente su DiscoiD e che le collaborazioni con la FFRR e BBC Radio 1 siano ancora in essere: quali sono i tre brani che segnaleresti attraverso questi canali?
È importante sottolineare che ciò che inserivo nella mia rubrica su DiscoiD e suonavo nei miei set non sempre si adattava allo show di Pete su BBC Radio 1, che aveva un approccio tendenzialmente più mainstream. Tuttavia i tre brani che ho selezionato qui avrebbero sicuramente trovato posto nei miei spazi. Comincerei con l’album “Stars Planets Dust Me” dei A Mountain Of One, reinterpretato magistralmente da Ricardo Villalobos. Basta menzionare i nomi per capire la ragione per cui ho scelto questo disco. Villalobos aveva già realizzato lo scorso anno una splendida versione del singolo “Black Apple Pink Apple” tratto dall’album, e questa collaborazione si è poi estesa a una reinterpretazione dell’intero lavoro. Nel tipico stile del cileno, ogni traccia è stata sottoposta a un raffinato processo di ristrutturazione, spogliata degli elementi originali e arricchita da tocchi discreti in punti strategici. Restando nel territorio di brani lunghi oltre i dieci minuti, vorrei menzionare il remix creato da Lovefingers per “Return To Centaurus” dei Mildlife. Con ben quattordici minuti e mezzo di durata, questo brano si snoda in un movimento lento, ipnotico e sensuale, idealmente definito nella presentazione che accompagna il promo come “erotic disco”. Infine, com’era tradizione nel mio spazio su DiscoiD così come nei miei programmi radiofonici e DJ set, ho sempre dato spazio a etichette e artisti che magari erano meno noti nel circuito grosso ma che meritavano il supporto. Oggi più che mai, questi talenti indipendenti e di nicchia dovrebbero ricevere l’attenzione che meritano. In tale contesto evidenzio la prossima uscita di David Agrella sulla sua etichetta AGR. David è un amico che vive a Londra da diversi anni e sta attirando l’attenzione grazie al suo stile distintivo. La precedente uscita includeva i remix di Baby Ford e GNMR, questa nuova contiene le tracce originali insieme ai remix di Priori e Domenico Rosa, a conferma della coerenza sonora.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone i motivi.

The Knack - My SharonaThe Knack – My Sharona
Ho già spiegato in apertura il significato che per me ricopre questo 45 giri del 1979, il mio primo acquisto discografico quando ero ancora un bambino, insieme a un altro degli Spargo. Tuttavia, tra i due, “My Sharona” era senza dubbio quello a cui tenevo di più. Un disco dal sound ribelle che mi faceva sentire più vicino al mondo degli adulti, sicuramente quello che ho ascoltato e riascoltato di più fra i due nel corso degli anni.

Depeche Mode - Black CelebrationDepeche Mode – Black Celebration
Ero già rimasto affascinato dai precedenti lavori dei Depeche Mode, e l’anno prima avevo acquistato sia il singolo “Shake The Disease” che la raccolta “The Singles 81-85”. Poi corsi a comprare “Stripped” che anticipò l’uscita dell’album. Con questo LP del 1986 si consolidava l’evoluzione verso sonorità più cupe e industriali che i Depeche Mode avevano iniziato qualche tempo prima. Era un sound perfettamente in linea con lo spirito alternativo e dark che stava emergendo in me nei primi anni dell’adolescenza.

Public Enemy - Fear Of A Black PlanetPublic Enemy – Fear Of A Black Planet
L’estetica militante, i messaggi altamente politicizzati e diretti e anche l’uso abile e all’epoca ancora innovativo di campioni e drum machine nella composizione delle canzoni: tutti questi elementi catturarono la mia immaginazione e il mio lato ribelle quando ero adolescente. Come nel caso dei Depeche Mode, anche i Public Enemy erano già presenti nella mia playlist grazie ai loro precedenti lavori, ma fu questo album, anticipato dal singolo “Fight The Power” utilizzato da Spike Lee nel film “Do The Right Thing” e che ovviamente acquistai, a farmi sentire una connessione ancora più forte con la band. Poi ebbi l’opportunità di vederli dal vivo a Roma in un tour in cui condivisero il palco coi Run-DMC e Derek B.

Róisín Murphy - Ancora Ancora Ancora (Severino & Nico De Ceglia Remix)Róisín Murphy – Ancora Ancora Ancora (Severino & Nico De Ceglia Remix)
Come accennato prima, ho realizzato vari progetti in studio con l’amico Severino di Horse Meat Disco, tra qui questo. Róisín aveva appena finito di lavorare a un disco in cui reinterpretava dei classici italiani di Mina, Lucio Battisti, Gino Paoli, Patty Pravo e altri e ci offrì l’opportunità di remixare la sua versione del classico di Mina, “Ancora Ancora Ancora”. Decidemmo di mantenerlo a bassi bpm e di dare un tocco balearic disco, scelta che poi si è rivelata vincente. La nostra versione è diventata un vero e proprio anthem nei set di artisti leggendari come DJ Harvey. Róisín ci inviò alcune copie del white label appena stampato che conservo con cura. Un lavoro di cui siamo molto fieri e che ci regala soddisfazioni ancora oggi, a distanza di quasi dieci anni dall’uscita.

The Orb - Little Fluffy Clouds (Danny Tenaglia Remix)The Orb – Little Fluffy Clouds (Danny Tenaglia Remix)
Un amico che lavorava in un negozio di dischi di seconda mano, dove molti noti DJ vendevano i vinili che non funzionavano nei loro set, mi procurò questo acetato (mai transitato dal marketplace di Discogs sino a questo momento, nda) del classico degli Orb con remix annessi di Tenaglia e una versione Fluffapella mai pubblicata. Un Tenaglia in gran forma creò due versioni da viaggio (D-Tour Mix e Down Tempo Groove) che uscirono insieme ad altri qualche tempo dopo. Gli acetati erano spesso utilizzati dalle etichette per offrire ad alcuni DJ considerati veri e propri tastemaker un accesso esclusivo alle tracce prima della loro uscita ufficiale. Non so chi di questi DJ abbia deciso di cedere la propria copia ma è stata sicuramente una gradita sorpresa per me poter prenderne possesso.

Underground Resistance w Yolanda - Your Time Is UpUnderground Resistance w/ Yolanda – Your Time Is Up
Si tratta dello UR001, il numero uno del catalogo Underground Resistance, prodotto da Jeff Mills e Mike Banks, che segnò l’inizio di una storia e di una legacy che avrebbero influenzato numerosi fra noi DJ e producer nel corso degli anni. “Your Time Is Up” aveva quei synth che ai tempi erano già familiari per lavori di Inner City e altri, più house che techno, ma ricopre un significato enorme per essere stata la prima uscita della label.

Aphex Twin - Selected Ambient Works 85-92Aphex Twin – Selected Ambient Works 85-92
Cosa aggiungere su questo capolavoro di Aphex Twin che non sia già stato detto o scritto? Le sue intricate trame sonore, le sperimentazioni soniche futuristiche e l’uso pionieristico della tecnologia lo rendono un punto di riferimento essenziale per ogni collezione di musica elettronica. Uno di quegli album che ha ridefinito i confini del sound elettronico, ispirando generazioni di produttori e DJ. Seminale.

Theo Parrish - Falling Up (Carl Craig Remix)Theo Parrish – Falling Up (Carl Craig Remix)
Theo Parrish remixato da Carl Craig: una combinazione destinata all’eccellenza. Quando i primi DJ iniziarono a suonare questa versione, divenne subito un oggetto del desiderio per molti di noi. In qualche negozio arrivarono dei 10″ in tiratura limitata e ne recuperai uno per me e uno per Pete Tong, inserendolo immediatamente nel mio set nei weekend. La reazione della pista, alimentata dal crescendo sincopato creato da Craig, fu semplicemente estatica. In quegli anni Craig sfornava lavori eccellenti uno dietro l’altro, potevi facilmente creare un set intero solo con la sua musica e non avresti mai sbagliato.

Coil - The Ape Of NaplesCoil – The Ape Of Naples
In questa top ten meriterebbe di essere inserita l’intera discografia dei Coil ma alla fine ho scelto questo titolo perché è l’ultimo album, creato prima della scomparsa di John Balance. Ho avuto la fortuna di vedere diverse delle loro esibizioni dal vivo, e ogni volta è stata un’esperienza straordinaria. “The Ape Of Naples” rappresentò per i Coil un periodo ancora altamente creativo, in cui misero in circolazione, come da abitudine, materiale inedito e brani reinterpretati, seguendo la loro caratteristica estetica. Questo album trasuda di malinconia e poesia dark che catturano l’essenza del loro genio artistico.

Metro Area - MiuraMetro Area – Miura
Come potrei esimermi dall’includere questo classico senza tempo, tratto dall’unico album realizzato da Morgan Geist e Darshan Jesrani nelle vesti di Metro Area? L’intero LP contiene varie perle ma “Miura”, col suo inconfondibile groove preso in prestito da una versione di “Funkytown” dei Lipps Inc. e quel basso incessante su due note che si ripetono all’infinito, rimane una traccia intramontabile. Ancora oggi la ritrovi in set di molti disc jockey. Non a caso lo scorso febbraio, l’EP 4 contenente “Miura” è stato ristampato e rimasterizzato. Senza dubbio un must per qualsiasi collezione da DJ.

(Giosuè Impellizzeri)

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L’house di Detroit e la techno di Chicago

No, non si tratta di un errore, seppur possa sembrare tale. L’articolo che segue cerca di ribaltare per qualche minuto il dualismo tra la techno della Città dei Motori e la house della Città del Vento proponendo una prospettiva diversa (e inversa) delle cose, ma non certamente per mettere in discussione passaggi epocali della storia della musica dance dell’ultimo quarantennio circa. L’intento, piuttosto, è porre l’accento sulla massima libertà creativa dei compositori localizzati nelle due metropoli statunitensi che, a conti fatti, non hanno considerato techno e house due realtà antitetiche come invece avvenne in Europa (e specialmente in Italia) negli anni Novanta. Nel Vecchio Continente la produzione dance parve più irreggimentata, da noi non mancò neppure chi ne parlò in termini divisivi e avrebbe voluto erigere un muro tra la techno e l’house asserendo che non si potesse parteggiare per entrambe. I dischi segnalati convergono quindi in due blocchi, indicizzati in ordine alfabetico, che però non hanno la benché minima pretesa di essere esaustivi anzi, non è escluso che in futuro si possano aggiungere nuovi autori e titoli per rendere l’indagine più completa.

L’house di Detroit…

Aaron-Carl - Crucified

Aaron-Carl – Crucified
Come i suoi coetanei, Aaron-Carl Ragland si appassiona di musica da ragazzino e con una tastiera economica e un registratore a quattro piste realizza un demo per Mike Banks che lo scrittura immediatamente per la Soul City. Nel ’96 così esce “Crucified”, un brano garage pieno di sentimento, parecchio newyorkese sotto il profilo stilistico. «Ron Murphy e Mad Mike sono stati i miei mentori in quel periodo» afferma l’artista nella sua biografia. «Mi hanno insegnato a fare grandi dischi dopo aver visto in me il potenziale e non avrebbero accettato nulla che fosse al di sotto delle mie possibilità. Mike era solito fare riunioni con tutti i produttori delle sue etichette, faceva ascoltare i brani più forti in circolazione e poi ci spronava a tornare a casa e fare di meglio». Per la Soul City Ragland realizza altri tre dischi, “Make Me Happy”, soulful made in Detroit, “Midnite Jams Vol. 1” e “Wallshaker”, per poi aprire i battenti della sua personale etichetta, la Wallshaker Music, attraverso la quale affinerà ulteriormente il tiro mettendo a segno una club hit come “My House” e stringendo varie collaborazioni, su tutte quella con gli Scan 7 per “4 Types Of People”. A interrompere tragicamente la sua creatività è un linfoma che gli toglie la vita il 30 settembre 2010 quando ha soli 37 anni.

Andrés - Trues

Andrés – Trues
Humberto Hernandez, figlio di un noto percussionista cubano, cresce nel mondo hip hop militando in gruppi come Da’ Enna C. e 12 Tech Mob e facendosi notare come DJ Dez. Col supporto dalla KDJ di Moodymann di cui si parla più avanti, nel 1997 si trasforma in Andrés e firma “Trues”, solo il primo di una lunga serie di produzioni da cui affiora un suono deep house finemente decorato da riferimenti funk, jazz e soul. Se l’ipnosi ciclica ha la meglio su “Trues” e “And This Club Song”, “Piece Of Mind” veleggia su un percorso più brioso e funkeggiante, con una micro porzione sullo sfondo trapiantata da “Wanna Be Startin’ Somethin'” di Michael Jackson. Hernandez prosegue la carriera sotto l’egida di Moodymann che pubblica, su Mahogani Music, tutti i suoi album, a oggi quattro, nei quali mette a punto una caleidoscopica vena creativa dalla quale emerge “New For U”, costruito sulle atmosfere di “Time Is The Teacher” di Dexter Wansel e diventato bestseller per il marketplace di Discogs nel 2012 con 497 copie.

Blake Baxter - Brothers Gonna Work It Out

Blake Baxter – Brothers Gonna Work It Out
Il “principe della techno” alle prese con un brano che pare provenire da New York o Londra. Non a caso a pubblicarlo nel ’92 è la branch britannica della tedesca Logic Records, che nel “pacchetto” inserisce anche una versione più tagliente, la Black Planet, realizzata da Moritz von Oswald e Thomas Fehlmann. La Red Planet Mix che apre il lato a o la Pump Da Bass Mix sul lato b, però depongono a favore di costrutti house, con suoni orchestrali tagliuzzati e fatti dialogare con brevi parti parlate. Quello stesso anno la Logic Records di Michael Münzing e Luca Anzilotti (meglio noti come 16 Bit, Off e Snap!) immette sul mercato pure “One More Time”, edificato su “Let No Man Put Asunder” di First Choice, uno dei classici più rimaneggiati da chi allora si dedica alla nuova musica dance. Due anni più tardi tocca a un altro pezzo di Baxter dichiaratamente house, “Touch Me”, potenziato dal remix degli X-Press 2, a cui segue “2Gether” firmato con lo pseudonimo Renee.

Bridgett Grace - Love To The Limit

Bridgett Grace – Love To The Limit
Nel settore discografico dalla fine degli anni Ottanta, la Grace balza agli onori della cronaca per aver interpretato “Take Me Away” dei Final Cut (Anthony Srock e Jeff Mills), pubblicato originariamente nel 1989 ma esploso in Europa solo due anni più tardi durante la rave age. È sempre Mills, affiancato da Mike Banks, a produrre per la neonata Happy Records la sua “Love To The Limit”, nel 1992, su tessiture garage, che non sfugge al radar della Network Records di Birmingham guidata da Neil Rushton e Dave Barker, pronta a ripubblicarlo nel Vecchio Continente.

Broad Mix Music - Can't Live Without Your Love

Broad Mix Music – Can’t Live Without Your Love
Prodotto nel 1992 dalla compianta Kelli Hand sulla sua Acacia Records, “Can’t Live Without Your Love” è un pezzo che intreccia classici suoni garage alla solare vocalità di Davina Bussey, vocalist cresciuta a Detroit che negli anni Ottanta tenta la carriera nel pop ma che viene ricordata più per il suo contributo alla house music, come si dirà più avanti. Sul 12″ presenziano vari remix tra cui quelli di Chez Damier e Stacey Pullen a cui se ne aggiungono altri due anni più tardi, quando il brano viene ripubblicato in Europa dalla britannica Other. La Hand, scomparsa prematuramente nel 2021 a soli 56 anni e considerata la “first lady della techno di Detroit”, aveva già bazzicato territori house con “Think About It”, col contributo di Robert Hood come ingegnere del suono, e “Living For Another”, remixato da Stacey ‘Hotwaxx’ Hale, altra primattrice del DJing detroitiano. Pubblicati entrambi nel 1990 a nome Etat Solide, finiscono nel catalogo della UK House Records che subito dopo cambia nome in Acacia Records.

Chez Damier & Stacey Pullen - Forever Mix 1

Chez Damier & Stacey Pullen – Forever Mix 1
Sebbene la produzione di Pullen affondi le radici nella techno, c’è qualche episodio che lo traghetta sulle sponde della house come questo “Forever Mix 1”, realizzato nel 1993 a quattro mani con Chez Damier e racchiuso nel “Classic EP” sulla Serious Grooves di Antonio Echols, fratello di Santonio. L’asse artistico col DJ di Chicago porta a un risultato mosso dalla leggiadria e sofficità di suoni vibranti, inchiodati a una linea ritmica che corre via senza grandi variazioni. Più atmosferica la versione incisa sul lato b, “Forever Mix 2”, coi primi due minuti in modalità beatless. Il brano viene ripubblicato nel ’95 dalla Balance dopo un opportuno remaster di Chez Damier e Ron Trent e col titolo “Forever Monna”, lo stesso che contraddistingue le ristampe più recenti inclusa quella sull’italiana Back To Life del 2021.

D-Ha - Happy Trax Vol. V

D-Ha – Happy Trax Vol. V
Proveniente dal collettivo Members Of The House di cui si parla più avanti, Lawrence Derwin Hall incide sotto la sigla D-Ha diversi brani nei primi anni Novanta, destinandoli alla Happy Records che li disloca in vari volumi della serie “Happy Trax” condivisi insieme all’amico Mike Banks. Il quinto, del 1994, è ad appannaggio del solo Hall e contiene tre tracce ricche di gaudiose melodie pianistiche e frammenti vocali dalla prorompente organicità: “Tuk My Luv”, “Stories” e “Happy’s Theme”. Degne di menzione anche “Rock Ya Body” e “Now’s The Time” (dal volume 4), “Cha Cha” e “Lift Me Up” (dal volume 3) e “Soul Kitchen” (dal volume 2).

Davina - Don't You Want It

Davina – Don’t You Want It
I brani usciti tra 1984 e 1987 non riescono a sortire grandi risultati ma negli anni Novanta per Davina Bussey arriva la rivincita. Determinante risulta l’incontro con Mike Banks che nel 1992 produce “Don’t You Want It” per la citata Happy Records, sublabel house della Underground Resistance, nata per colmare, così come viene chiaramente spiegato attraverso i crediti sul disco, il vuoto lasciato della Motown che aveva spostato il suo quartiere generale a Los Angeles, in California. «Moltissimi musicisti di talento, cantanti, scrittori, vocalist e altre persone associate all’industria musicale sono state abbandonate. Anche le loro speranze e i loro sogni sono stati lasciati morire. Noi di Happy Records siamo determinati a mantenere vivi quei sogni con le nostre produzioni di Detroit, perché senza speranza non siamo nulla. Ci auguriamo possiate sentire l’emozione nei nostri dischi perché per noi questo non è un hobby, è il nostro destino. Grazie per aver acquistato Happy Records». Davina rinnoverà il sodalizio con la house music nel ’93 attraverso “Let Me Be Me” e “Love & Happiness EP”, entrambi sulla Nocturnal Images Records, a cui segue “I’m Ready (For Your Love)” degli italiani M.C.J. (Andrea Gemolotto e Massimino Lippoli) di cui parliamo qui.

DJ Scott - Solid Grooves

DJ Scott – Solid Grooves
Un debutto di pregio per Patrick Scott che ai tempi, per la prima apparizione sulla Soiree Records International di Derrick Thompson, si firma DJ Scott: in “Music Man” è alle prese con un suono vellutato che si dipana tra esili impalcature pianistiche che fanno da contrappunto a frammenti di organo e un messaggio vocale flash, a cui si somma qualche svirgolata funky della Classic Example Mix. Il tutto orchestrato con dovizia su un tappeto ritmico finemente curato, sia nella costruzione percussiva che nei geometrismi degli hi-hat. Sul lato b “The Specialist”, edificata seguendo una procedura analoga al precedente e trovando il giusto equilibrio tra componenti tribaleggianti e lascive vene melodiche abbracciate a un bassline rotondo. Dopo aver inciso una manciata di dischi come Key Statements, per Scott, nel frattempo ribattezzatosi Scott Grooves, si aprono le porte della scozzese Soma sulla quale nel 1998 viene pubblicato il pezzo più noto del suo repertorio, “Mothership Reconnection”, rifacimento di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton eternato da un remix dei Daft Punk. Ps: “Music Man” finisce recentemente in una compilation della Soiree Records International che raduna i brani realizzati da Scott nei primi anni di attività. L’occasione si rivela propizia per tirare fuori dagli archivi anche due inediti, “On My Way” e “Anything 4 You”.

Donnie Mark - Stand Up For The Soul

Donnie Mark – Stand Up For The Soul
Tra i primi dischi della Simply Soul fondata da J.D. Simpson e distribuita dalla Submerge, “Stand Up For The Soul” di Donnie Mark è house di matrice garage, con una nitida impronta soul a caratterizzare l’apparato vocale. Oltre alla dub a opera di D-Ha, ci sono due versioni remix sul lato b, Grand Club Mix ed Explosive Soul Mix, entrambe firmate da Terrence Parker, tra i cantori più ispirati della house music della Città dei Motori. Donnie Mark riappare qualche tempo più tardi sulla Soul City di Mike Banks con “Hold On”, un altro pezzo dalle chiare reminiscenze soul. Per quanto riguarda invece la Simply Soul, val la pena segnalare altri pezzi commercializzati nel primo scorcio degli anni Novanta, da “Love So Good” di Robyn Lynn a “Soul Beats” di Seven Grand Housing Authority passando per “Soul Beats #2” di 2 Sweat Doctors e “Night Creepin'” di Eddie Flashin’ Fowlkes di cui si parla qui sotto.

Eddie Flashin' Fowlkes - Mad In Detroit! EP

Eddie Flashin’ Fowlkes – Mad In Detroit! EP
Contraddistinto da un titolo che gioca con la fonetica e il doppio senso tra mad e made, questo EP di Fowlkes targato ’92 mostra i due volti sonori dell’artista. Il primo è tendenzialmente legato alla house (genere a cui si accosta già nel 1986 con “Goodbye Kiss” su Metroplex) attraverso le due versioni di “Mr. E.”, la Mysterious Mix e la Ficticious Mix, con brevi inserti pianistici e virtuosi assoli di tastiera. Un ribollire di suono funkeggiante lo si sente poi in “Night Creepin'”, sulla citata Simply Soul, e “I’m A Winner Not A Loser” finita nel catalogo della londinese Infonet di Chris Abbot e cantata da Wonder Schneider.

Eddie, Santonio, Art Forest - Detroit Techno Soul

Eddie, Santonio, Art Forest – Detroit Techno Soul
Sono in tre (Eddie Fowlkes, Santonio Echols, che con Saunderson aveva già spopolato in epoca new beat con “Rock To The Beat”, e Arthur Forest) a costruire questo straordinario pezzo designato per tagliare il nastro inaugurale della M.I.D. Records, solo uno tra le dozzine di marchi discografici nati a Detroit tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il titolo pare del tutto fuorviante almeno per gli europei che nel momento in cui esce il disco, nel 1991, sono abituati a identificare ben altro con la parola “techno”. La ALF Mix che apre il lato a è un susseguirsi di spintoni e carezze, asperità e linearità, un continuo contrasto che fa il paio con la 5 A.M. Mix di Santonio e “Visitors”, traccia conclusiva in cui gli autori si divertono a tagliuzzare la voce per poi farla volare come si fa con pezzettini di carta davanti a un ventilatore acceso. Fowlkes ed Echols ci riprovano l’anno dopo con “Turn Me Out”, cantata da Janice Rawley in un duetto (virtuale) con Loleatta Holloway che esegue frammenti campionati di “Love Sensation”. Tra le sei versioni c’è persino una Radio Mix, approntata forse con l’ambizione di approdare al mondo dell’FM, cosa che però non accade. Per la M.I.D. Records è l’ultima apparizione.

Gari Romalis - Fult Tilt Production EP

Gari Romalis – Fult Tilt Production EP
Prodotto da Terrence Parker per la sua Intangible Records & Soundworks, questo extended play del 1995 segna il debutto di Gari Romalis e mette insieme cinque tracce, le ennesime in cui la house ritrova la disco e il funk in un fraterno abbraccio. “N-The Daze” apre il sipario lasciando rivivere frammenti di “Try It Out” di Gino Soccio su ritmiche aggiornate ai tempi, e il discorso prosegue con “Can U Dig It” dove, è chiaro, il modello ispirativo resta quello del passato che si fonde col presente. “Groovin'” vira verso una house più classicheggiante dai richiami latini, “The Game” punta al metti e togli sampledelico, “I’m Tryin’ 2 B Strong” infila nella centrifuga elementi di “Holdin’ On” di Michael Watford per ricavarne un tool prevalentemente strumentale e dalle puntellature ritmiche più solide, quasi saltellanti. Dopo un altro paio di pubblicazioni (tra cui un EP sulla scozzese Soma), Romalis interrompe l’attività in studio di registrazione. Tornerà nel 2012 dando avvio a una ricchissima parata di uscite tuttora in divenire. Ps: per un errore tipografico, sul “Fult Tilt Production EP” il nome dell’artista viene scritto con la y finale. L’imprecisione si ritrova anche sulla ristampa effettuata nel 2014 dalla tedesca Chiwax Classic Edition.

Gary Martin - Bliss

Gary Martin – Bliss
Martin ha i piedi ben saldi nella techno, sia chiaro, ma nel corso della sua trentennale carriera si è mosso anche in direzioni house, seppur attraverso un suono ribelle, mutante e in perenne contrasto con una classificazione radicale. Nel libro “Techno” Christian Zingales descrive il suo suono come un trait d’union tra «il ruggito funk meccanico della techno e la grande passione per l’exotica degli anni Cinquanta e Sessanta, un matrimonio fatto di vivande futuristiche che, opportunamente shakerate, rilasciano quel gioco aromatico di retro e post». È il caso di “Do It”, con sax e piano, contenuto nell’EP “Bliss” che nel ’93 apre il catalogo della Go Girl Records, a cui segue presto “Take Me”, coi vocal di Simone Taylor a incorniciare un reticolo che già spinge verso rive technoidi. Dopo i primi due dischi la Go Girl Records cambia nome in Teknotika e Gary Martin va avanti spedito come un treno pure attraverso il progetto parallelo Gigi Galaxy, ma di tanto in tanto tornando a toccare le sponde della house come ad esempio avviene in alcuni pezzi racchiusi nel suo primo album, “Viva La Difference”.

Juan Atkins - Beat Track

Juan Atkins – Beat Track
Quando nel 1987 esce questo disco, su un’etichetta fittizia chiamata Red Parrot 228, di techno non se ne parla ancora, perlomeno in forma ufficiale. «I suoi creatori», come scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”, «erano felici di farsi etichettare come “house” e gettarsi nella scena di Chicago» e l’ascolto di “Beat Track” palesa come non ci siano ancora sostanziali differenze tra le musiche prodotte nelle due città, fatta eccezione per alcune tracce uscite negli anni precedenti come “No UFO’s”, “Night Drive (Thru-Babylon)”, “Play It Cool” di Model 500, “Triangle Of Love” di Kreem o “Let’s Go” di XRay che, di fatto, preannunciano un nuovo itinerario creativo e concettuale. Da “Beat Track” emerge la sampledelia che shakera sample funky con l’aggiunta di scratch in modalità hip hop, tutti in una gabbia ritmica grezza, come quelle che contraddistinguono la maggior parte delle produzioni chicagoane. Non a caso il brano viene ripubblicato l’anno seguente su un’etichetta della Città del Vento, la House Musik, a nome Red Parrot. Atkins flirterà poco con la house: si ricorda, tra le altre, “You’re My Type (Make Your Body Move)” del progetto One On One condiviso con Rona Johnson (che approda pure su Metroplex con “By Your Side” in modalità downtempo) e Vision di cui si parla dettagliatamente più avanti.

Low Key - Rainforest

Low Key – Rainforest
“Rainforest” è il primo disco che, nel 1992, Claude Young firma Low Key per la Serious Grooves di Antonio Echols, fratello del più noto Santonio, ed è nel contempo anche il primo del catalogo. La traccia che dà il titolo è una fioritura armonica di chord posizionata su un tapis roulant di batteria che si spoglia e poi si agghinda nuovamente di elementi percussivi. Medesime atmosfere si rincorrono nelle due “Lovemagic”, con sussurri vocali in un ventaglio di suoni delicati. Nelle vesti di Low Key, Young inciderà altri due mix, “Try Me Baby”, con spunti scat, e “I Cant Stop” in cui sfoggia una marcata dose di ipnotismo.

Mad Mike - Happy Trax # 1

Mad Mike – Happy Trax # 1
Il repertorio di Mike Banks è imponente. La sterminata lista di produzioni, spesso privata intenzionalmente di coordinate autoriali, riserva più di qualche sorpresa come questo EP del 1992 su Happy Records comprendente tre tracce, “Heartbeat Of A Groove”, “Clap It Up (Happy Claps)” e “Trance Patrol”, in cui pulsa cuore techno su suoni house. Proprio “Trance Patrol” giunge in Italia attraverso la Downtown del gruppo bresciano Time Records che l’affida alle mani degli Unity 3 (Marco Franciosa, Mario Scalambrin e Paolo Chighine) reduci dal successo di “The Age Of Love Suite” pubblicata oltremanica dalla NovaMute. Banks incide altri volumi della serie “Happy Trax” attraverso ganci garage (“Give It To Me”, “Mad Scatter”, “Gotta Gimme Your Love”) e soluzioni percussive (“Take Me Higher”, “Soulnite”, “Work Me”). La sua è una sorta di figura mitologica bicefala, mezza house e mezza techno.

Marcellus Pittman - Come See

Marcellus Pittman – Come See
Seppur discograficamente più giovane rispetto alla maggior parte dei colleghi detroitiani qui elencati, Pittmann opera nello stesso alveo sonoro. In questo disco, con cui inaugura la sua Unirhythm, spennella i beat con delicati fraseggi jazz (“Come See”) per poi decorarli con deliziosi interventi pianistici (“A Mix”). Voluto da Theo Parrish nel collettivo The Rotating Assembly, l’artista vanta un rigoglioso repertorio da cui affiorano diverse collaborazioni proprio con Parrish, suo mentore, e James Curd. Senza omettere l’adesione a 3 Chairs, partito nel ’97 da un’idea di Rick Wilhite, Kenny Dixon Jr. alias Moodymann e Theo Parrish, e T.O.M. Project, ancora con Parrish e Omar S.

Mark Flash - Timbales Calientes - Hot Timbales

Mark Flash – Timbales Calientes – Hot Timbales
Come riportato nella biografia ufficiale, Mark Flash inizia a mettere a punto le sue abilità da produttore musicale per la Soul City di Mike Banks ma restando dietro le quinte (che sia lui uno degli artefici dei pezzi di The Choir Boys e Marc Pharaoh?). Debutta come Mark Flash nel 1998 attraverso la Upstart che manda in stampa un 12″ in cui esprime le doti da percussionista attraverso un percorso tambureggiante (“Timbales Calientes”) poi raggiunto da un buon esempio di tesco (techno disco) che cresce con un breve ma efficace hook vocale e un perdurante filtraggio delle frequenze (“Work”), e completato da “Fight It!” in cui convergono house, funk e disco fatte balbettare con un accurato lavoro di sampling. Metodologia di lavoro analoga si ritrova in “House Ballads Part One” del 2002, sulla britannica Footwork, e in “Soul Power” del 2006, potenziato da un remix del prolifico Mike Monday che rischia di diventare un inno mainstream. Entrato a far parte del collettivo Underground Resistance, Flash mostrerà via via attitudini più intrinsecamente techno.

Members Of The House - Share This House

Members Of The House – Share This House
Il collettivo Members Of The House debutta negli ultimi anni Ottanta su ITM Records con “Share This House” in cui non è difficile individuare diversi punti di contatto con la house chicagoana, presenti altresì nei brani dell’album “Keep Believin'” come “I Can’t Live Without You”, “Summer Nites” e “It’s Not The Same” cantata da Yolanda Reynolds. Prodotto dal compianto Don Davis, il pezzo tartaglia il verbo jack su uno scheletro ritmico fatto di ostinati clap e vorticosi rullanti. Il team, in cui figurano tra gli altri pure Mike Banks e Jeff Mills, incide parecchi pezzi tra cui “Don’t Do It Like Dat” (una specie di risposta a “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jessie Saunders), “Reach Out For The Love” e “These Are My People” partita dalla Shockwave Records – che nel ’92 tiene a battesimo Drexciya con “Deep Sea Dweller” – e giunta in diversi Paesi del mondo (da noi è un’esclusiva della campana UMM del gruppo Flying Records).

Metro D - What Is A Dancer

Metro D – What Is A Dancer?
Dietro Metro D armeggiano i fratelli Burden (Lawrence, Lenny e Lynell) coadiuvati dal rapper Anthony Terrell Langston e dalla vocalist Armeace Starks: “What Is A Dancer?” prende elementi hip hop e li mescola a delicati fraseggi di pianoforte che avanzano a strappi, intervallati dal suono metallico di un hammer. Edito dalla 430 West nel 1991 e arricchito dalle grafiche del compianto Dan Sicko, il disco annovera pure un remix di Anthony Shakir che enfatizza la tavolozza ritmica, ed “Elevation!”, sul lato b, che batte ancora la traiettoria hip house con qualche svirgolata funky. I Burden, meglio noti come Octave One, danno alle stampe un secondo atto di Metro D, “In The City” del ’92, un EP ancora più house del precedente, contenente griglie ritmiche (“Methodology”) e suadenti sax (“Feel It”, “All The Luv”, “Tomorrow (Like This Dub)”). Nel loro repertorio si rintracciano altre gemme house/garage, come “Jackie’s Theme” e “In The Breeze”, entrambe da “Day By Day” firmato Never On Sunday sempre su 430 West.

Mike Huckaby - Deep Transportation Vol. 1

Mike Huckaby – Deep Transportation Vol. 1
Tra i commessi che nei primi anni Novanta lavorano dietro il bancone del Record Time di Detroit c’è Mike Huckaby, un ventiquattrenne appassionato di musica e tecnologie. Dopo aver curato una manciata di remix (“I Feel Weak” di Eddie Fowlkes e “Work It” di Chris Simmonds) si dedica a creare il suo sound che prende le mosse dalla house quanto dal soul e dal jazz. Il debutto nel ’95 sulla Harmonie Park dell’amico Rick Wade, il primo volume di “Deep Transportation” che, fedele al titolo, trasporta l’ascoltatore nelle profondità di musiche tentacolari come “Luv Time”, che elabora un campionamento carpito dall’intro di “Carry On, Turn Me On” dei francesi Space, o “Disco Time” che invece accoglie nelle rotondità percussive uno scampolo vocale di “Let’s Go Down To The Disco” degli Undisputed Truth. L’anno seguente arriva il secondo volume con cui Huckaby continua a rimaneggiare con destrezza e creatività frammenti di musica del passato (in “We Can Make It” trapianta le voci di “Together Forever” di Exodus mentre in “Love Filter” incastra la chitarra di “Love Rescue” di Project). La sua attività discografica andrà avanti contestualmente al volontariato che lo spinge a insegnare la produzione di musica elettronica a giovani generazioni. Considerato uno dei nomi più granitici della house made in Detroit, Huckaby si spegne ad aprile del 2020 ad appena 54 anni.

MK - Somebody New

MK – Somebody New
Inizia con questo brano, uscito nel 1989 sulla KMS di Kevin Sauderson, la discografia solista di Marc Kinchen che sceglie di firmarsi con la sigla MK. “Somebody New” è una stratificazione tra voci campionate, archi, organi e blocchi ritmici ogni tanto mandati in reverse. Nella Music Institute Goodbye Mix, curata dal fratello di Kinchen, Scott, di cui si parla nel dettaglio più avanti, salgono in superficie le tastiere di pianoforte collocate su piattaforme scorrevoli. Il lato b si apre con le atmosfere più noir di “The Rains” a cui mette mano il citato Saunderson, e si chiude con “Mirror / Mirror”, da cui emerge in modo piuttosto evidente lo stile Inner City. Per Kinchen, che l’anno prima aveva inciso “1st Bass” sulla Express Records di Clifton Thomas incluso nell’EP dei Separate Minds condiviso con Terrence Parker e Lou Robinson, è solo questione di tempo: la hit arriva nel ’91, “Burning”, con la voce di Alana Simon che rinnova la collaborazione per “Always” e un intero album, “Surrender”, spinto a lambire sponde r&b. Nonostante gli ottimi propositi, l’artista non riesce nel difficile compito di creare nuovi successi internazionali ma verrà abbondantemente ricompensato sul fronte remix: senza il suo apporto infatti, “Push The Feeling On” dei Nightcrawlers sarebbe rimasto confinato all’anonimato come raccontato qui.

Moodymann - The Day We Lost The Soul

Moodymann – The Day We Lost The Soul
È arduo scegliere un disco in un repertorio così vasto come quello di Kenneth Dixon Jr., meglio noto come Moodymann. “The Day We Lost The Soul”, pubblicato nel 1995, è tra i primi firmati col suo alter ego più noto e mette subito a fuoco le coordinate entro cui si muove. Devoto da sempre alla house music, il suo è un suono flessuoso che si inerpica nei pertugi del soul, del funk e della disco, mettendo in rilievo un sostanzioso background che lo colloca a una distanza abissale dalla pletora di presunti “house producer”. I campionamenti (“What’s Going On” di Marvin Gaye in “Tribute! (To The Soul We Lost)”, “He’s The Greatest Dancer” delle Sister Sledge in “One Nite In The Disco” e “You Can’t Hide From Yourself” di Teddy Pendergrass in “Shades Of ’78′”) attestano da un lato i suoi riferimenti, dall’altro una inesauribile vivacità creativa. Il disco, tornato in commercio nel 2001 ma privato di “One Nite In The Disco” e “Shades Of ’78′” forse per problemi di mancati clearance, è uno dei primi a essere pubblicato sulla sua KDJ, affiancata in tempi più recenti dalla Mahogani Music. Quasi del tutto refrattario alle interviste, Moodymann inciderà parecchi 12″ e altrettanti album oggetto di spasmodiche ricerche dei collezionisti, oltre a prendere parte a progetti come Urban Tribe, con Anthony Shakir, Carl Craig, e Sherard Ingram, e 3 Chairs in compagnia di Theo Parrish e Rick Wilhite a cui si è poi aggiunto Marcellus Pittman.

Norm Talley - Grove Street Shuffle

Norm Talley – Grove Street Shuffle
Così come recita una biografia in Rete, la dipendenza dalla musica per Norm Talley inizia da tenera età. Consumatore abituale di jazz e disco, viene introdotto al DJing da Ken Collier, resident all’Heaven, che abita a soli tre isolati di distanza. Attivo in consolle dai primi anni Ottanta, si avvicina alla produzione discografica intorno alla fine del decennio successivo. Nel ’97, per la City Boy di Eddie ‘Flashin’ Fowlkes, realizza “Grove Street Shuffle” al cui interno raccoglie tre brani. “Powder”, imperniato sulla ripetizione ciclica di loop, “Grove Street Shuffle”, un saliscendi su scanalature jazzy contenente un campionamento di “Problèmes D’Amour” del nostro Alexander Robotnick, un pezzo di cui parliamo qui e che a Detroit ha lasciato il segno, e “Hold Me”, un’infusione deepeggiante che procede su un serrato groove. Dopo qualche altro disco, Talley si ferma per dedicarsi a progetti paralleli come City Boy Players e The Beatdown Brothers, quest’ultimo in compagnia di Mike Clark e Delano Smith. Tornerà a incidere a proprio nome nel 2009, questa volta prendendoci più gusto e contando sul supporto di numerose etichette tra cui la FXHE Records di Omar S che nel 2017 manda in stampa il primo (e sinora unico), album, “Norm-A-Lize”.

Omar S - Just Ask The Lonely

Omar S – Just Ask The Lonely
Analogamente a Marcellus Pittman, anche Alexander Omar Smith, noto come Omar S, è tra i più giovani di questa carrellata di artisti detroitiani ed è pure un altro capace di veleggiare con assoluta padronanza tra techno e house. La sua discografia, avviata nei primi anni del nuovo millennio e quasi esclusivamente relegata alla propria etichetta, la FXHE Records, è ricolma di musica che il più delle volte sfugge alle definizioni categorizzanti della stampa. Smith infatti passa con disinvoltura dalla disco/house (“Day”) a echi cosmici (“Psychotic Photosynthesis”), da minimalismi sotto effetto lsd (“Blown Valvetrane”) a scheletri ritmici e tappeti volanti nello spazio (“Incognigro” e “Automatic Night”, rispettivamente in coppia con Kai Alcé e Luke Hess). Le sue intenzioni sono chiare sin dal primo album uscito nel 2005, “Just Ask The Lonely”, in cui passa in rassegna un grande campionario, ora delicatamente poggiato su arazzi deep (“I Love U Alex”, “100% House”, “Congaless”), poi spostato su membrane puntute (“A Victim”) e materie granulose con inserti di vecchie drum machine (“Jit”). A guidare Smith è sostanzialmente la totale libertà creativa che se ne infischia delle richieste del mercato e delle tendenze effimere del momento. Quella stessa libertà che nitidamente filtra dalle grafiche che accompagnano la sua musica (Microsoft Paint per Windows 95?) e che si riflette nell’abnegazione all’indipendenza, visto che continua a gestire senza intermediari attraverso il proprio sito web la vendita di dischi, CD, file digitali, merchandising e gli ingaggi da DJ. Una netta presa di posizione contro la mercificazione dell’arte e il “sistema” che regolamenta il mondo della musica, e in tal senso fortemente esplicativo risulta il titolo di un suo album pubblicato nel 2020, “Simply (Fuck Resident Advisor)”.

Paperclip People - Throw

Paperclip People – Throw
Considerato il suo alter ego più house oriented (seppur nato con una tripletta di pezzi non propriamente ascrivibili a tale segmento stilistico, “Oscillator – Electronic Flirtation Device”, “Paper Clip Man” e “Gypsy Man (He’s A Hobo)”), Paperclip People è uno dei tanti volti di Carl Craig. Con “Remake”, del 1994, fa rivivere le atmosfere di “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching in una sinuosa spirale psichedelica, più impetuosa e meno seducente rispetto a quanto fanno i nostri Sueño Latino qualche tempo prima nel pezzo omonimo. Proprio nel ’94 Craig dà alle stampe “Throw” che il citato Zingales, in “Techno”, descrive come «15 minuti di minimalismo techno-disco, un giro hi-nrg debosciato tipo Moroder in eroina, archi a mezz’aria, tastiere deep, equalizzazioni». Il pezzo sfonda in Europa dove viene licenziato un po’ ovunque e fa circolare il nome dell’autore anche in ambienti trasversali. Da noi è un’esclusiva della D:vision Records che, forse per la presenza di “Remake” sul lato b, affida una versione edit a Massimino Lippoli che dei citati Sueño Latino fu uno degli artefici e istigatori. Di Craig in botta house si ricordano altre prodezze come “Love Is The Message” di FRS, un taglia e cuci di scampoli funk/disco che Sven Van Hees pubblica su Global Cuts, e “The Wonders Of Wishing” di Urban Culture dal lirismo quasi commovente, uscita su Eclipse Records, sublabel della KMS di Kevin Sauderson.

Paris - I Can Feel It

Paris – I Can Feel It
Pochi mesi dopo l’uscita di “Nude Photo” realizzato a quattro mani con Derrick May su Transmat, il giovane Thomas Barnett incide il primo brano da solista siglato con lo pseudonimo Paris. «Juan Atkins, che avevo conosciuto attraverso May il quale gli affidò il lavoro di editing di “Nude Photo”, mi disse che stava noleggiando lo studio della Metroplex e ne approfittai per lavorare lì su alcuni demo» spiega l’artista in questa intervista. «”I Can Feel It” era uno di quelli e una volta pronto mi proposero di pubblicarlo su Metroplex ma declinai l’offerta, volevo provare a fare da solo perché convinto di aver capito come fare. Col senno di poi avrei dovuto lasciare che Atkins e la Metroplex si occupassero di tutto. Avevo appena diciannove anni e commisi tanti errori in fase di promozione». La traccia, realizzata con una tastiera Yamaha DX7 II FD per il basso, i suoni di sintetizzatore e i gli archi, e un paio di batterie Roland (TR-808 e TR-909) per le ritmiche, rivela tutta la primitività tipica della prima ondata di produzioni di Chicago, con strutture ritmiche scheletriche e un pianale di arrangiamenti meccanici che tradisce inesperienza e anche una buona dose di naturale immaturità. Due le versioni, la Radio Mix e l’Extended Mix curata da Juan Atkins, solcate su un 12″ per cui Barnett crea un marchio ad hoc e one shot, Tomorrow. A ripubblicarlo, nel 2020, è l’italiana Omaggio.

Reese - You're Mine

Reese – You’re Mine
Tra i primi pseudonimi adottati da Kevin Saunderson, Reese è ricordato perlopiù in virtù di “Rock To The Beat” e “Inside-Out”. Nel repertorio però c’è pure “You’re Mine”, del 1989, un pezzo che scrive insieme a Chez Damier, Marc Kinchen e Flozelle Crosby. La Techno Hip Mix è un incrocio tra i suoni che fanno la fortuna di Inner City, un campionamento da “Walkin’ On Sunshine” di Rocker’s Revenge e uno stuolo di riferimenti hip house che ai tempi la collocano nel filone europeo trainato dai belgi Technotronic. Sul lato b due versioni remix, Red Zone Mix e Def Mix, a cura di un futuro divo della house music, David Morales. A seguire giungono altri rimaneggiamenti che palpeggiano quella zona grigia tra house e techno. A firmarli Bad Boy Bill, Anthony ‘Shake’ Shakir, Psyche alias Carl Craig e Derrick ‘Mayday’ May.

Rick Wade - Late Night Basix

Rick Wade – Late Night Basix
Nasce a Buchanan, piccolo paese agricolo nel Michigan ai confini con l’Indiana, ma è a Detroit che Rick Wade entra in contatto con la house e la techno, lavorando come commesso in un negozio di dischi della città, il Record Time. L’amico Dan ‘DBX’ Bell, che condivide l’esperienza lavorativa in quel posto, lo incoraggia a pubblicare la sua musica e così nel 1994 esce il primo disco, “Late Night Basix”, su un’etichetta creata per l’occasione, la Harmonie Park. L’apertura con “Nothing To Fear” ad appannaggio di un suono pulsante, tra singhiozzanti fiati, un messaggio vocale che si ripete e pianoforti che si intrufolano riempiendo gli spazi. La prima versione non prevede alcuna linea di basso ma l’autore, come racconta qui, apporta delle modifiche su suggerimento di Mike Huckaby che considera uno dei suoi mentori. A curare il remix di “Nothing To Fear” invece è il citato Bell che gioca col campionatore a frazionare il sample vocale lasciandolo volteggiare in aria con palloncini gonfiati a elio. Sul lato b Wade continua a esprimere il proprio concetto di house music attraverso due brani (“I Do Believe”, “I Can Feel It”) simili nella costruzione e nella scelta dei suoni. Il volume 2 giungerà solamente quattro anni più tardi ma nel frattempo Wade non dorme sugli allori e sfodera altri pezzi venati di jazz (“Angry Pimp”), di atmosfere notturne (“Night Track”) e di collisioni funk/disco (“Discolicious”, firmato come Dr. Low-Tech).

Rick Wilhite - Soul Edge

Rick Wilhite – Soul Edge
Il primo remix lo realizza nella seconda metà degli anni Ottanta per “Time To Party” dei NASA, su Express Records, un altro di quei dischi meticci tra spinte propulsive detroitiane e classicismi ritmici chicagoani. Occorre tempo però per elaborare lo stile in cui si sente proiettato maggiormente, e infatti questo “Soul Edge” arriva praticamente dieci anni più tardi, col benestare di Moodymann che lo vuole sulla propria KDJ. Ad aprire le danze è il remix di “Get On Up!!” di Theo Parrish (non è dato sapere che fine abbia fatto l’originale), un incalzante turbinio di house avvolta su spirali jazz spezzate in più punti da una voce femminile che declama a gran voce il titolo. Sul lato b si srotola il vibe percussivo di “What Do You See?”, edificata sottraendo uno scampolo vocale da “Coming On Strong” di Caroline Crawford, un vecchio pezzo di fine anni Settanta prodotto da Hamilton Bohannon, innestato a sua volta in uno stantuffo in cui scorre un frammento di “Love In C Minor” di Cerrone, stropicciato dai filtri in un metti e togli che i francesi poi sdoganeranno nel mondo pop favoriti dalla stampa (cieca) che chiamerà quel trend “french touch” convinta che la disco/funk in salsa house fosse nata all’ombra della Torre Eiffel. A chiudere è il citato Moodymann che appronta la sua versione di “What Do You See?” non scombinando gli elementi di partenza e ricavandone quindi un potente gancio filtered house pre french touch. Wilhite torna su KDJ coi due volumi di “The Godson EP” in cui prosegue il lavoro di sutura tra disco music e house music (“Drum Patterns & Memories”) e calandosi progressivamente nei meandri di un suono più nebbioso e oscuro (“Good Kiss”). Oltre a militare nel progetto 3 Chairs, vale davvero la pena segnalare il suo primo (e sinora unico) album, “Analog Aquarium”, pubblicato nel 2011 dalla Still Music di Chicago guidata da Jerome Derradji, un lavoro sfaccettato in cui Wilhite esprime al meglio la vocazione stilistica stringendo, di traccia in traccia, alleanze con colleghi come Billy Love, Marcellus Pittman, Calvin Morgan e Osunlade.

Sade - Surrender Your Love Illegal Remixes

Sade – Surrender Your Love (Illegal Remixes)
È il 1995 quando viene messa in circolazione questa white label sulla fittizia Illegal Detroit: a essere solcati sono due remix di “Give It Up” dei britannici Sade (l’originale è nell’album “Stronger Than Pride” del 1988) realizzati da Kenny Larkin e Stacey Pullen. Entrambe le versioni, simili tra loro, ondeggiano su una linea di percussioni tribaleggianti punteggiata dall’inconfondibile voce di Sade Adu, con un sax sussurrato che si insinua dolcemente nelle fenditure. Il lavoro dei due DJ di Detroit però non troverà mai modo di essere ufficializzato e per questo rimane, di fatto, una pubblicazione illegale. A spiegarne le ragioni è proprio Kenny Larkin in un post su Facebook del 25 agosto 2019: «quando pubblicai il bootleg in questione, scoprii molto velocemente che Sade odiava chi remixava la sua musica senza permesso. Durante le prime settimane il 12″ vendette circa ottomila copie, poi ricevetti formalmente dal suo management l’invito a interrompere la distribuzione. Ma come fecero a scoprire che fossi io l’autore, se il disco era una white label con un timbro che recava solo la dicitura Illegal Detroit? A spifferarlo fu il settimanale Mixmag Update che menzionò il mio nome in un articolo. Poco tempo dopo ricevetti la loro lettera con cui mi intimavano di smetterla. È stato divertente finché è durato». Nell’arco di quasi un trentennio il disco si è trasformato in un piccolo feticcio per gli appassionati che oggi sono disposti a spendere anche cifre ragguardevoli per assicurarsene una copia, come testimonia lo storico del marketplace di Discogs.

Scottie Deep - Fathoms

Scottie Deep – Fathoms
Scottie Deep è l’alter ego di Scott Kinchen, detroitiano che debutta nel ’91 con “It’s Dangerous” di 2 The Hard Way in tandem con Kevin Saunderson, una sorta di summa tra i suoni di “The Original Video Clash” di Lil’ Louis e il mood di Inner City. L’anno dopo Kinchen fonda la sua etichetta, la Aztonk, sulla quale darà vita a una serie di produzioni house a partire da “You Can’t Go Wrong” di D.D.S. (sul lato b c’è “I Love The Way” con un sample preso da “There But For The Grace Of God Go I” dei Machine, lo stesso che usa Todd Terry in “Hear The Music” di Gypsymen) a cui segue per l’appunto “Fathoms”, il primo firmato Scottie Deep. Intriso di suoni ovattati come un organo presumibilmente di un Korg M1 ai tempi in praticamente tutti gli studi di registrazione di chi produce house music, il brano coccola l’ascoltatore con un metti e togli ritmico e un breve ma incisivo passaggio vocale. A curare il remix è il fratello di Kinchen, Mark, meglio noto con l’acronimo MK. Scott, sbarcato su Strictly Rhythm nel ’93 con “Soul Searchin'”, intensifica l’attività lanciandosi in diverse avventure parallele (come Tympanum, con Kenny Dickerson e Anthony Shakir, Fathoms NY, che approda sulla nostra Heartbeat, Kitchen Sync, Daddy’s Moods e Time Bomb) ma non riuscendo a eguagliare i risultati del fratello minore seppur, come dichiara in questa intervista di Alexandra Cronin del 24 agosto 2019, sia stato lui a insegnargli tutto. È il tipico caso in cui l’allievo supera il maestro.

Servo Unique - Servo Unique

Servo Unique – Servo Unique
Unica uscita sulla Luxury Records, “Servo Unique” è un disco border line del 1993, che fatica a essere incasellato con precisione nella house o nella techno. Percussioni e un paio di sequenze vocali (vagamente somiglianti a “Let Me Be” di Cajmere) riscaldano di continuo la mistura proto tech house di “Ba’ Dum Bah Da”, un taglio più technoide è invece quello di “Let’s Swing It” sul lato b che però mostra suoni ai tempi sfruttati principalmente in produzioni di matrice house. A distanza di ormai un trentennio ha conquistato valore e richieste sul mercato del collezionismo, probabilmente in virtù della popolarità e credibilità dell’autore, Jeff Mills.

Shake - Club Scam EP

Shake – Club Scam EP
Presente con “Sequence 10” nell’epocale “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)” del 1988, Anthony ‘Shake’ Shakir è uno dei veterani della prima ondata techno di Detroit seppur mai celebrato in pompa magna e per questo finito, insieme ad altri, nell’ombra. È attivo principalmente nella techno e nell’electro tuttavia la sua creatività è in grado di sfondare i confini e raggiungere la house. Basta ascoltare “Club Scam”, il primo EP che nel ’93 firma Shake per la Trance Fusion, costruito su loopismi geometrici (“Thats What I Want”, con un ricamo sampledelico proveniente da “Mesopotamia” dei B-52’s) e ipnotici rendez-vous tra voci e brevi assoli tastieristici. Nel 1997, lasciandosi alle spalle altre gemme housy come “Get A Feeling” ed “Happy To Be Here”, sarà tempo del “Club Scam II”, questa volta sulla Frictional Recordings che fonda con l’amico Claude Young, per cui tira dentro anche retaggi disco/funk velocizzati (“The Floor Filler”) e “Plugged In”, forse costruita sulle parti di “I’m Here Again” di Thelma Houston, la stessa che ispira l’arcinota “What You Need” di Powerhouse Feat. Duane Harden.

Sight Beyond Sight - Good Stuff

Sight Beyond Sight – Good Stuff
Obiettivamente simile ai brani degli Inner City, “Good Stuff” è un pezzo che combina vocalità (di Andrea Gilmore) a riccioli di suono newyorkese intrecciati a stab. Il tutto piazzato su un piedistallo ritmico con qualche bpm in più rispetto alla canonica velocità di crociera della house. A produrlo Keith Tucker, Anthony Horton e Tommy Hamilton, da lì a breve uniti in Aux 88 nel credo dell’electro. Il 12″, edito nel ’93 dalla 430 West, contiene anche un remix degli Octave One che si muove sinuoso su curve deepeggianti e ampie arcate di pad ambientali al cui interno trovano alloggio pochi interventi vocali della Gilmore. Nel 1994 arriva un nuovo pezzo a nome Sight Beyond Sight, “No More Tears”, ancora più house del precedente. Tucker & soci incideranno anche un terzo brano spassionatamente deep house, “R U Sure?”, finito nella compilation “Soul From The City” su Submerge nel 1995, “la collection definitiva sulla house di Detroit” così come recita il sottotitolo in copertina.

Terrence Parker - Hold On

Terrence Parker – Hold On
A differenza della maggior parte dei produttori di Detroit che concentrano le proprie energie sulla musica techno, Terrence Parker è tra coloro che invece si lanciano a capofitto nella house. Le prime prove negli ultimi anni Ottanta (si senta “We Need Somebody” sulla Express Records di Clifton Thomas di cui si è già detto sopra) ma è nei Novanta che dà il meglio di se stesso, a partire proprio da “Hold On” finito nel catalogo Trance Fusion, sublabel della saundersoniana KMS. La title track è rivista in tre versioni, Spiritual Mix, Club Mix e Garage Mix, tutte connesse al suono newyorkese con vocalità e vivace partitura musicale a rivelare una familiarità con gli strumenti che va ben oltre l’assemblaggio di campionamenti ritagliati da pezzi preesistenti. Sul disco c’è spazio anche per un altro brano, “Come With Me”, con frammenti vocali presi da “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys a fare da cornice a un leggiadro tappeto deep. A coadiuvare il lavoro di Parker è Claude Young, altra colonna statuaria del suono detroitiano, con cui stringerà una proficua collaborazione siglata come Younger Than Park che rivelerà solide connessioni tra la house music e la città dei motori attraverso brani come “Woman”, “Ooh Baby” e “Can’t Turn Back”, tutti pubblicati dalla citata Serious Grooves di Antonio Echols. Parker va avanti anche in solitaria incidendo dozzine di tracce sotto pseudonimi: tra le tante si segnalano “Dynamic Audio” di 2 Sweat Doctors (su Simply Soul), “Make It Better” di Madd Phlavor (su KMS) e “Love’s Got Me High” di Seven Grand Housing Authority sulla Intangible Records & Soundworks che lui stesso crea nel 1993.

The Hard Hats - Tear Down The House!

The Hard Hats – Tear Down The House!
Tra le primissime produzioni messe sul mercato nel 1987 dalla Incognito Records di Clifton Thomas, “Tear Down The House!” è un pezzo che affonda le radici in una house profondamente venata di percussioni ma che nel contempo ripesca certe sfumature ai tempi in voga nell’eurodisco. A fungere da motore è il potente disegno di basso funkeggiante incorniciato da un vocal sample opportunamente giocato col campionatore. Un brano semplice quanto ingenuo, che potrebbe essere uscito pure da uno studio di Chicago. I crediti autoriali, completamente omessi, affiorano dalla stampa britannica su Groove & Move Records che consentono di collegare il progetto one shot The Hard Hats ai musicisti David McMurray (che si era già cimentato l’anno prima con una manciata di pezzi house, “Hot Box” e “Get Smart -Prep It Up-“ di The Preps, sempre prodotti da Clifton Thomas per l’Express Records) e Randy Jacobs, entrambi collaboratori della band Was (Not Was).

Underground Resistance Featuring Yolanda - Living For The Nite

Underground Resistance Featuring Yolanda – Living For The Nite
Un altro pezzo, targato ’91, che risente in modo inequivocabile del mood saundersoniano: “Living For The Nite”, prodotto da Jeff Mills e Mike Banks e cantato da Yolanda Reynolds, riprende il discorso lì dove era finito “Your Time Is Up” l’anno prima, che peraltro inaugura il catalogo dell’etichetta omonima del gruppo, Underground Resistance. Diverse le versioni incise sul mix, seppur derivate dalla stessa idea. Il brano sbarca anche in Italia attraverso la napoletana UMM diretta da Angelo Tardio, come raccontato qui, che commissiona un paio di remix a un astro nascente nostrano, Digital Boy. A cedere è persino Albertino che vuole “Living For The Nite” nella DeeJay Parade del sabato pomeriggio dove resta per dieci settimane arrivando a toccare la quinta posizione il 31 agosto. L’anno dopo la Reynolds interpreta un’altra traccia per gli UR, la solare “Children Of The World”, confluita nel catalogo della Happy Records.

Unit 2 - Sunshine

Unit 2 – Sunshine
Gli Unit 2 (i musicisti Niko Marks e Raphael Merriweathers Jr.) debuttano nel 1992 proprio attraverso “Sunshine”, una gemma della house prodotta a Detroit dagli Underground Resistance con pochi elementi (pianoforte, voci, sezione ritmica) e una buona dose di divagazioni jazzy. Il brano è recentemente resuscitato per mano del bulgaro KiNK e degli italiani Tiger & Woods che lo hanno reinterpretato in due versioni per le generazioni del nuovo millennio. Un paio di anni più tardi il duo affida alla 430 West il follow-up “Keep Your Head Up”, co-prodotto con Mike Banks. In parallelo approntano come 365 Black “Home Land” che include un paio di piacevoli alternative alla ricetta, la lisergica “Deliver Me” e la tribaleggiante “Just The Way You Love Me” in cui si riconosce un campionamento di possibile provenienza afro usato l’anno prima e l’anno dopo per due brani italiani agli antipodi l’uno dall’altro, rispettivamente “Gengennarugengè” di Z100 e “Like A Flute” di Cosmic Traveller.

Van Renn - The Real Thang

Van Renn – The Real Thang
Paul Van Buren Randolph debutta nel ’93 sulla Nocturnal Images Records di Davina Bussey attraverso “The Real Thang”, un pezzo attraverso il quale riesce a mettere in evidenza la passione per il soul. A incoraggiarlo in modo incisivo è Mike Banks, con cui tempo prima suona in due band di Detroit, i Mechanix e i Cherubim. «Era convinto che la house e la techno avessero bisogno di musicisti tradizionali ma dalle ampie vedute e soprattutto senza pregiudizi, come me insomma» racconta in questa intervista qualche tempo fa. Il successo per Randolph arriva due anni dopo quando “The Real Thang” diventa “The (Real) Love Thang” e viene (ri)pubblicato nel Vecchio Continente attraverso vari remix tra cui quello di Rob Dougan che, come spiegato qui, fa la differenza e finisce nei circuiti mainstream (la licenza per l’Italia se l’aggiudica il gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che la convoglia su Nitelite Records, subito dopo “Everyone Has Inside” di Gala). Prima dell’exploit europeo Van Renn, nel frattempo diventato L’Homme Van Renn, offre alla 430 West “The Man” contenente un pezzo strepitoso dalle venature gospel, “(Never Will Forget) Love And Affection”. A produrlo è l’amico Mike Banks che lo definisce “il primo uomo dell’underground”. Il seguito giunge nel ’96 sulla Soul City, “Luv + Affection”, occasione in cui Banks si divide il lavoro in studio coi fratelli Burden.

Vision - Other Side Of Life Touch Me

Vision – Other Side Of Life / Touch Me
Nata nel 1990 proprio con questo disco, la Interface Records di Juan Atkins parte con un seducente carico di house music trasognata e rigata dalla sensuale voce di Tracey Amos che ben si accorda col mood malinconico del brano inciso sul lato a, “Other Side Of Life”, ritoccato in una Dub Mix da Anthony ‘Shake’ Shakir che riduce al minimo gli interventi vocali. Sul lato b invece “Touch Me” che innesca un saliscendi emozionale tra lunghe arcate armoniche intrecciate alla vocalità della Amos a vibranti linee di tribalismi percussivi. Due i remix, firmati da Eddie ‘Flashin’ Fowlkes e Jay Denham. Quello che pare esaurirsi in un episodio one shot rivela però un seguito e ciò avviene grazie al supporto di un’etichetta italiana, la Flying Records, che nel 1992 pubblica “Is This Real?” seguito l’anno dopo da “Coming Home”, entrambi cantati da Dianne Lynn e caratterizzati dal moniker con la s finale, un’aggiunta forse involontaria. «Incontrai Juan Atkins al New Music Seminar di New York dove mi fece ascoltare alcuni brani inediti» racconta oggi Angelo Tardio, co-fondatore della casa discografica napoletana e già artefice, come si è visto prima, di alcune licenze Underground Resistance messe a segno su UMM. «Mi piacquero e gli proposi di sviluppare una serie di remix partendo dalle sole acapellas e fu così che uscirono il doppio “Is This Real?” e “Coming Home” (scritti entrambi da Anthony Shakir, nda) di cui la Flying Records deteneva i diritti di esclusiva nel mondo, Stati Uniti esclusi, assicurati per un’inezia, appena 500 dollari a titolo. Decisi di pubblicarli su Flying Records e non su UMM perché l’intento era cercare di fare crossover e uscire dai soli club specializzati, non a caso bypassammo l’uso delle copertine generiche col buco centrale per elaborare degli artwork con tanto di logo realizzato ad hoc da Patrizio Squeglia». Sono parecchi i remix commissionati da Tardio, alcuni dei quali ripubblicati dalla Tribal America insieme alla Juan’s Dub e Shake Dub, inedite sino a quel momento. A realizzarli sono tutti artisti affiliati alla Flying Records: i fratelli Visnadi, Roberto Masi dei Blast, Giuseppe ‘MAN-D.A.’ Manda e Ivan Iacobucci. «Cercavo di creare team di lavoro per spingere quanto più possibile il made in Italy» prosegue Tardio «ma quella volta non mancò un grande nome d’oltreoceano, Danny Tenaglia. Coadiuvato da Kerri Chandler, realizzò due versioni negli studi della Flying Records in occasione di una serata che tenne in Italia. Una si chiamava Dead Horse Dub, titolo scelto per la vicinanza alle scuderie dell’Ippodromo di Agnano, limitrofe alla sede della Flying Records in Via Raffaele Ruggiero. A impazzire per “Coming Home”, tra gli altri, era Claudio Coccoluto e infatti qualche anno dopo uscì pure un suo remix sulla britannica Stress Records» (di cui parliamo qui, nda). La sinergia tra Napoli e Detroit si chiude con “Forever My Sunset” uscito però a nome Dianne Lynn, ancora scritto da Shakir e prodotto da Atkins su licenza Metroplex. «Nessuno di questi tre titoli divenne un successo da classifica ma non disattesero del tutto le aspettative, ne vendemmo parecchi, nell’ordine di diverse migliaia ciascuno» conclude Tardio.

… e la techno di Chicago

326 - Just Like Heaven

3.2.6. – Just Like Heaven (Dance Mania)
Il debutto nel 1989 sulla Muzique Records con “Falling”, spalleggiato da Armando Gallop, che già lascia intravedere un’attitudine techno nell’assemblaggio delle parti. Due anni dopo la conferma su Dance Mania con un ricco EP, comprendente ben sette pezzi, che pare davvero un ipotetico Transmat. Forse ispirato da “Strings Of Life”, Dion Williams si lancia a capofitto di un suono che sembra scendere dal cielo a bordo di un disco volante pilotato da un alieno sotto effetto di anfetamine (“Just Like Heaven”), in “Love Is….” e “Magic Fingers” spennella la tela bianca con colori acidi, “Butterfly” è un ritmo brutale da cui si levano spirali di melodie sbilenche sovrapposte ad archi che tracciano ricordi bladerunneriani. Sconosciuto ai più, il disco diventa un cult per gli estimatori ed è l’ultimo a essere realizzato da Williams che trae lo pseudonimo dal numero civico dello stabile in cui c’era il Music Box guidato da Ron Hardy, al 326 di North Lower Michigan Avenue.

3 Down - Deep Trip

3 Down – Deep Trip
Nato sull’asse collaborativo Chicago-Detroit, “Deep Trip” è un pezzo del 1991 rimasto nell’ombra nonostante avesse tutte le caratteristiche per spopolare negli anni dell’esplosione europea della techno. Le cinque versioni incise sul disco, licenziato nel Regno Unito dalla The One After D legata al gruppo Network Records, derivano pressoché dalla stessa idea e veleggiano su un percorso ritmico di stampo breakbeat punteggiato da vari campionamenti come “Let The Music (Use You)” di The Night Writers e “Pleasure Principle” delle Parlet (gli stessi che si sentono rispettivamente in “DJ’s Take Control” di SL2 e “Tranqi Funky” degli Articolo 31). La Techno Mix è tra le più immediate e avanza sulle rasoiate degli amen break e sugli stab che tracimano gli argini sostenuti da una serie di graffi degli scratch. A coadiuvare il lavoro di Kevin Saunderson che pubblica il brano sulla sua KMS sono Martin Bonds e un amico di Chicago, Anthony Pearson alias Chez Damier che proprio in quegli anni ricopre ruolo di A&R per la stessa etichetta sulla quale pubblica alcuni pezzi come “Can You Feel It”, accompagnato dalla dicitura in copertina “techno disco”.

Boo Williams - A New Beginning

Boo Williams – A New Beginning
Willie Griffin inizia a pubblicare musica a nome Boo Williams nel 1994, spinto dagli amici Glenn Underground e Tim Harper coi quali, in un futuro non lontano, figurerà nella formazione Strictly Jaz Unit. “A New Beginning” esce quell’anno sulla Relief Records di Curtis Alan Jones e parte con la title track in cui si palesa presto la fascinazione techno dei suoni, con cowbell ubriachi e rullanti nervosi tipici della scuola di Chicago. L’effetto viene replicato in “The-B-W-Groove”, una sorta di reprise. Più house oriented il lato b con “Phasis” e “Quicksand”. Le armi di Williams sono affilate e lo si capisce quando su Djax-Up-Beats arriva “New Breed” in cui trovano alloggio altri pezzi di techno squadrata come “Endangered Species” o “Kiss’en Asses”.

DJ Deeon - Induced EP

DJ Deeon – Induced EP
Considerato uno degli iniziatori della ghetto house insieme a DJ Funk, DJ Slugo, Parris Mitchell e DJ Milton, DJ Deeon ha prodotto musica per circa trent’anni. Il suo stile è caratterizzato da strutture ritmiche ad anelli che procedono secondo una formula fondata su minimalismo ed essenzialità. Non è la microhouse teutonica però, la ghetto house di Chicago è meno sexy e più rozza, a volte ai confini con la techno così come testimonia il pezzo di apertura dell'”Induced EP” (Cosmic Records, 1995), “On Da Run”, dall’incedere quasi millsiano rotto qua e là da interventi vocali. “The Funk Electric” è una sbornia di elementi della TR-909, gli stessi che si sentono in “And I Sexxx” e “Sex Part 1”, in quest’ultima con l’aggiunta di una corposa dose di quel tipico suono che definisce la ghetto house che si muove come un ubriaco che cerca di ballare su una scala mobile. A fermare l’infaticabile Deeon, che in piena pandemia si prese la briga di lanciare un’etichetta, la Ghetto Rhythm Composers, è la prematura scomparsa avvenuta il 18 luglio 2023 a 57 anni.

DJ Hyperactive - Chicagoan EP

DJ Hyperactive – Chicagoan EP
Questo extended play del ’94, il secondo che Joseph Manumaleuna alias DJ Hyperactive realizza per la sua Contact, mette immediatamente in risalto le caratteristiche del proprio imprinting. Pochi gli elementi ma elaborati con massima scrupolosità come rivela “Chicago”, dove lo scandire metronomico di un roccioso bassdrum (i Daft Punk prenderanno nota per “Rollin’ & Scratchin'”, e non certamente a caso citeranno Hyperactive in “Teachers”) incornicia un tormentoso hook che ripete il titolo sul quale si inerpica un velenoso serpente di TB-303. La costruzione resta la medesima in “Rhythm In Acid” dove il bassline disegna grandi arabeschi, forse ispiratori di “Post Nasal Acid” di Winx. Il lato b è occupato per intero da “It’s My Life” dove spuntano arcate melodiche ad addolcire la mistura. Sempre nel ’94 Hyperactive approda alla Drop Bass Network con due dischi, “Hard Rhythmic Motions” e “Don’t Fuck With Chicago”, in cui spinge gli acidismi verso lidi hardcore con distorsioni e saturazioni. Seguiranno parecchi altri EP (alcuni dei quali editi dalla britannica Missile) e un album, “I’m Only Buggin'” che la svedese Hybrid di Cari Lekebusch pubblica nel 1996, anno in cui Manumaleuna crea Fuzz Face, il seguito al progetto Sync creato a quattro mani con Woody McBride.

DJ Milton - Scream

DJ Milton – Scream
Parte proprio con “Scream” la carriera discografica di Milton Jones: pubblicato nel 1994 dalla Dance Mania, il disco si articola attraverso sei tracce di suoni ruvidi innestati su schemi ritmici dall’intenzionale minimalismo. Da “Scream”, in cui affiorano urla voluttuose forse prese da qualche vecchia VHS porno, ad “House Clap”, con la base quasi identica alla precedente ma con inserti acidi, da “Saturn”, con schemi percussivi geometrici, a “Ride That M.F.”, chiaro ripescaggio della house balbettante di qualche anno prima ma col pitch della velocità aumentato, sino a “Hit It (Rx)” e “Late Nite Creep”. Prodotto parzialmente col sopraccitato DJ Deeon e masterizzato dal mitologico Mark Richardson, il lavoro segue la ricetta della ghetto house tuttavia tanta techno generata e propagata in Europa nei primi anni Novanta risulterà più debitrice a dischi come questo che a quelli di Detroit. La carriera di Milton si ferma nel 2000 per guai seri con la giustizia, omicidio e rapimento aggravato: viene condannato a poco meno di quarant’anni di reclusione che attualmente sta scontando in un penitenziario dell’Illinois come confermato in questo documento ufficiale.

DJ Rush - Drum Major EP

DJ Rush – Drum Major EP
Isaiah Major produce quintali di musica sin dai primissimi anni Novanta, è complesso quindi identificare un disco rappresentativo in un repertorio talmente vasto. La scelta cade sul primo EP ceduto alla tedesca Force Inc. Music Works nel ’95, riempito con una techno mutante che prima sferraglia lungo binari arroventati dal sole (“Electric Indigo”, forse un tributo all’omonima DJ austriaca?) e poi somministra un cocktail allucinogeno a un ipotetico organista jazz (“Prick Ryder”). La carica ritmica di Rush è inarrestabile e lo si capisce quando parte “Bang Bang” che sembra essere stato programmato sul cratere di un vulcano, nell’attesa di una possibile eruzione. “Punish Me”, infine, spiazza l’ascoltatore con una visione techno funk in cui i bpm calano per lasciare spazio a virtuosismi ritmici. Nel corso degli anni Major velocizzerà la sua musica traghettandola verso il genere schranz che cavalca a inizio millennio anche come Russian Roulette.

DJ Skull - Nuclear Fall Out

DJ Skull – Nuclear Fall Out
“Nuclear Fall Out” è il terzo disco che nel 1994 Ron Maney affida all’olandese Djax-Up-Beats, dopo “Stomping Grounds” e “Met”L”gear”. “Target Kill” avanza con un passo spedito, falciante, pronto a mordere, “Crash Dummy” è un classico scheletro ghetto che lascia ribollire all’interno una strana mistura alchemica, “Get Wicked” è un tripudio di snare ma probabilmente l’apice arriva con la title track, “Nuclear Fall Out”, un ordigno innescato da una serpentina acida che poi deflagra insieme a chiari riferimenti tratti da “Circus Bells” di Robert Armani, un classico della techno chicagoana di cui si parla dettagliatamente più avanti. A differenza di gran parte dei Djax-Up-Beats illustrati da Alan Oldham, questo reca la firma dello stesso Maney.

Ellery Cowles - Glaxy Of Interval

Ellery Cowles – Glaxy Of Interval
Con “Glaxy Of Interval”, giunto dopo “Sonic Control” e co-prodotto col sopraccitato DJ Skull, Cowles conferma la collaborazione con la Djax-Up-Beats di Miss Djax che negli anni Novanta è un ponte tra la Città del Vento e il Vecchio Continente. La title track fluttua su nubi tossiche di layer strumentali phaserizzate, “Planet Sex” s’infila in un corridoio buio e tenebroso, “Playing With Bass” fa salire la temperatura attraverso rullanti arroventati e sgambettanti, “Orbit Syquest 270” chiude con una visione in cui Detroit e Chicago sembrano davvero toccarsi con un dito come avviene nell’opera michelangiolesca nella volta della Cappella Sistina. Lontano dalla prolificità di molti colleghi, Ellery Cowles incide diversi altri dischi alcuni dei quali atterrati su etichette europee come la Hybrid di Cari Lekebusch e le parigine D3 Elements e Technorama.

Gene Farris - Blue Squad 001

Gene Farris – Blue Squad 001
Farris ha ampiamente dimostrato di essere un talento sia nella house che nella techno e questo avviene sin dalle prime battute del suo percorso produttivo in cui si poggia da un lato alla tedesca Force Inc. Music Works di Achim Szepanski e dall’altro alla Relief Records di Curtis Alan Jones. “Blue Squad 001” è il primo scelto nel 1995 dal citato Szepanski, probabilmente attratto dall’intreccio delle linee acide di “Pipe Dream”, una traccia che, come recitano i crediti, è un tributo a DJ Rush, amico e mentore di Farris stesso. Il disco riserva ancora curvilinee acide con “Unholy” oltre a una chiusura ad appannaggio del pungente ipnotismo, “Tribal Warfare”, il cui schema viene riadattato per “Sight ‘n’ Sound” uscita l’anno seguente su Relief Records.

Glenn Underground - The Unborn

Glenn Underground – The Unborn
Dopo “Future Shock” del 1993, Glenn Crocker alias Glenn Underground destina alla Djax-Up-Beats un secondo EP con cui mette in risalto l’abilità nel programmare ritmi non convenzionali, distanti dalla tradizionale costruzione house. Basta poggiare la puntina su “The Unborn” per afferrare il discorso al volo e rendersi conto di quanto possa essere libero da vincoli compositivi il territorio techno. In barba al titolo che lascerebbe presagire qualcosa di ancora più elaborato, “Teck-Na-Logie” vira verso quella che da noi, qualche anno prima, viene definita ambient house, seppur a reggere il tutto sia un possente impianto ritmico. Con “101 Dolmations” la corsa riprende sfociando in una sorta di techno jazzata inviperatissima. La chiusura è (ancora) sotto il segno di suoni ambientali, “New Age Experience”, che fanno bene il paio con quelli di “Teck-Na-Logie”. Val la pena segnalare anche alcuni brani che nel ’95 Crocker firma con lo pseudonimo Jellybean su Relief Records come “Drop Dead Zone” e “Twilight Drone”, ulteriori sviluppi di un suono personale che tiene bene in alto il vessillo della techno made in Chicago.

Green Velvet - Portamento Tracks

Green Velvet – Portamento Tracks
Nato nel 1968, Curtis Alan Jones comincia a incidere musica con la Clubhouse Records e mette presto a segno ottimi risultati, su tutti “Brighter Days” che firma Cajmere e che arriva anche in Italia attraverso la D:vision Records. Quando nel ’93 lancia la Relief Records, come appendice della Cajual Records, esce allo scoperto con un nuovo pseudonimo, Green Velvet, con cui mette da parte le costruzioni vellutate deep house a favore di misture intrise di jackismi di traxxiana memoria, così come si ascolta in questo EP del 1995. I suoni grassi di “I Want To Leave My Body”, poi la cassa rocciosa di “Flash” che dà il via a una serie di trivelle di rullanti in stile “Spastik” di Plastikman e infine le spirali psichedeliche di “Explorer”: Jones inietta suoni e costruzioni technoidi in circuiti house e va oltre con una bonus track senza titolo che fa volteggiare in aria rumorismi e distorsioni insieme a un campione vocale ripetuto con ossessione. Nel 2001 l’ingresso nelle classifiche generaliste con “La La Land” scandita da un tono di voce da pastore protestante e arditamente connessa vicendevolmente ad house e techno, modalità usata dall’artista anche in progetti collaterali come Geo Vogt (“Glitch” che marcia su severità EBM) e Gino Vittori con cui si cimenta in una rivisitazione di “Remember” di Gino Soccio (“Self-Evident”).

Joe Lewis - Funky Disco

Joe Lewis – Funky Disco
Joe Lewis è tra coloro che hanno visto nascere l’house music nonostante il suo nome sia finito nel dimenticatoio o comunque tra quelli secondari, ingiustamente se si pensa a pezzi come “The Love Of My Own”, realizzato con Larry Heard, “Set Me Free” o “Midnight Dancin'”, tutti sulla propria Target Records. Quando nasce il sodalizio con la Relief Records il suo suono si irrigidisce e acquista velocità e una nuova gamma cromatica. “Funky Disco” è uno dei 12″ che Lewis pubblica per l’appunto sull’etichetta di Green Velvet e dai quali emerge questo cambio di registro prima attraverso i ritmi a stantuffo della title track (a dispetto del titolo, di funky e disco non se ne vede l’ombra) e poi dalle stropicciature vocali di “Let Yourself Go” che un po’ suona come versione dopata del suono onirico del citato Heard ricontestualizzato su un frammento preso da “Nude Photo” di Rythim Is Rythim. Tra le altre, non manca la nota acida, “Confusion Land”, una possibile risposta a “Land Of Confusion” di Armando Gallop.

K-Alexi Shelby - All For Lee-Sah

K-Alexi Shelby – All For Lee-Sah
Tra i veterani della house della Windy City, Keith Alexander Shelby inizia ad armeggiare in studio negli anni Ottanta vantando pubblicazioni su etichette passate alla storia come D.J. International Records e la detroitiana Transmat. Proprio quest’ultima, nel 1989, pubblica “All For Lee-Sah”, un pezzo a metà strada tra acid house e techno corroborato da inserti vocali recitati quasi in modalità paranoica. Il lato b si apre con “My Medusa” dove TB-303 e TR-808 viaggiano in parallelo sviscerando le loro rispettive energie (un frammento della micidiale combo viene campionato dai belgi Atomizer per “Atom-B” del ’91). A chiudere è la simile “Vertigo”, dove l’acid line della scatola argentata della Roland continua a dimenarsi. A editare tutti i brani sul 12″ è Derrick May mentre l’artwork è di Alan Oldham che accompagnerà Shelby in una tappa del viaggio in Europa sulla Djax-Up-Beats (“Sex-N-R-001”, 1993).

Kareem Smith - Church Bells

Kareem Smith – Church Bells
È la Djax-Up-Beats a supportare il giovane Kareem Smith nella sua parabola artistica non intensa, iniziata nel ’91 dalla Saber Records in compagnia di Steve Poindexter di cui si parla più avanti. “There’s Some Hoes” è una brutalizzazione del suono ghetto, girata su un breve quanto ossessivo frammento vocale che non molla mai la presa. “Feel The Drums” è un’escursione in compagnia di una TR-909, “Lasertag ’96” è un cubo di Rubik dato alle fiamme, “Church Bells” pare un reprise non celato di “Circus Bells” di Robert Armani, descritta più giù.

L.A. Williams - Jedi Knight

L.A. Williams – Jedi Knight
Abile intagliatore di house e deep house, Lawrence Williams non disdegna affatto la techno che produce a fasi alterne. In questo “Jedi Knight”, mandato in stampa dalla Clashbackk Recordings nel 1996, si apprezzano prima le massicciate ritmiche sotto effetto ipnosi (“Logan’s Run”) e poi gli scontri fotonici tra sensualità e asperità acide (“Vadapod”). Dal ricco e variegato repertorio si evidenzia un piccolo gioiello techno del 1998, “This Is A Test”, e la tripletta destinata all’olandese Djax-Up-Beats tra ’95 e ’97 che Williams realizza in compagnia di Herbert Jackson e Spanky dei Phuture sotto lo pseudonimo Group X.

Lester Fitzpatrick - Frantic Frenzy

Lester Fitzpatrick – Frantic Frenzy
Un ottimo esempio della vena produttiva di Fitzpatrick è offerto da “Frantic Frenzy”, il primo EP che destina alla Relief Records nel 1995. Il brano di apertura, “Frantic Frenzy” per l’appunto, è un rullo compressore che si muove nei meandri del distorsore tirandosi dietro una tempesta di suonini in loop. Segue il sinusoidale “Tone Control” dove l’autore costruisce abilmente labirinti ipnotici. Il carico di intricati loopismi si ritrova sul lato b con “Mental Hardware”, dove i suoni sono tenuti insieme da un reticolo di filo spinato, e “Frequency Response”, continuum del precedente che ondeggia su un beat di impostazione ghetto. Dalla poderosa discografia di Lester Fitzpatrick emergono altre gemme come “Danger Room” sulla britannica Missile Records, con una cassa quasi Rotterdam style, e “Smash Traxx Vol. 1” sulla belga Minimalistix che elabora il ritmo su schemi millsiani.

Lil' Louis - The Original Video Clash

Lil’ Louis – The Original Video Clash
Il ban della BBC a causa di contenuti considerati troppo hot per essere mandati in onda non basta ad arginare il successo di “French Kiss” che, nel 1989, diventa un bestseller di dimensioni ciclopiche: licenziato da FFRR e dalla Epic, vende centinaia di migliaia di copie (tanti siti oggi riportano la cifra stellare di sei milioni ma senza mai specificarne la fonte). Per Marvin Burns, meglio noto come Lil’ Louis, è un tripudio ineguagliabile e ineguagliato. Circa un anno prima di conoscere il grande successo il DJ affida alla Dance Mania un brano in cui taglienti blipperie low-fi si infilano nei meandri di una rete ritmica che deflagra in più punti, lasciando scorrere magma e lapilli. Minimalismo, ciclicità, rotazione, visione techno: queste le linee sulle quali Burns crea “The Original Video Clash” che manda in frantumi i sound system e spinge alcuni concittadini a realizzare delle pseudo cover come Tyree Cooper e Mike Dunn, rispettivamente con “Video Crash” e “Magic Feet”. Molti anni più tardi salta fuori che in realtà anche quello di Louis è un rifacimento di un pezzo realizzato da Marshall Jefferson nel salotto di casa sua, alla presenza di vari amici tra cui Sterling Void, Kym Mazelle (che intona qualcosa sopra, in una sorta di jam session) e lo stesso Louis. «Lil’ insistette affinché dessi una copia su nastro a lui e non a Ron Hardy come ero solito fare, per suonarla in una delle sue feste» rammenta Jefferson in una vecchia intervista. «Una volta tornato a casa però, rimosse la parte vocale, fece delle modifiche e la pubblicò senza il mio nome. A quel punto, visto che in circolazione c’erano diversi dischi derivati dalla stessa idea, decisi di non accodarmi col mio, non volevo che il pubblico pensasse che avessi copiato». Il fatto che Lil’ Louis abbia aggiunto “The Original” nel titolo lascia supporre che la sua sia la versione originale e la perdita del nastro con la registrazione del vero originale di Jefferson (come confermato in questa intervista del 3 agosto 2009) rende inoppugnabile la vicenda. Tuttavia pare che Louis abbia deciso, una quindicina di anni or sono, di riconoscergli i diritti senza esitazione. «Adesso il denaro che genera il pezzo è poco o nullo ma giustizia è fatta» chiosa Jefferson.

Mike Dearborn - Unbalanced Frequency

Mike Dearborn – Unbalanced Frequency
Il debutto nel 1990 insieme a George Perry per “Make The Music” sulla Housetime Records che già lascia intravedere scenari technofili, gli stessi che l’anno dopo si ritrovano in “1991 (A New Age)” sulla Muzique Records di Armando e Steve Poindexter. La conferma arriva nel 1992 con “Unbalanced Frequency” sulla Djax-Up-Beats di Miss Djax con annesso artwork di Alan Oldham. Serpentine incandescenti (“Outer Limits”) e cordami ritmici (“8514”) si alternano alle sgroppate di 909 sul lato b (“Simply Complex”, “Harmonic Distortion”). È solo il primo disco di una lunga serie che Dearborn destina all’etichetta olandese, incluso un album, “Muzikal Journey”, crocevia di lame arroventate e febbricitanti propulsioni in cui c’è spazio pure per il remix di “Move” ad opera dei tedeschi Hardfloor. Gran parte del resto del repertorio convergerà nel catalogo della Majesty Recordings, l’etichetta da lui stesso fondata e gestita.

Paul Johnson - Foreign Music

Paul Johnson – Foreign Music
Ingiustamente ricordato dal grande pubblico solo per “Get Get Down” del ’99, costruito abilmente su un campionamento tratto da “Me And The Gang” di Hamilton Bohannon, il compianto Paul Johnson è stato uno degli assoluti protagonisti della scena di Chicago. La house music ha la meglio nel suo sconfinato repertorio ma non mancano gemme techno tipo quelle racchiuse nel “Foreign Music” (Djax-Up-Beats, 1993) come “Time Warp” o “U.F.O.”, a cui se ne sommano altre confluite nel doppio “Psycho Kong” dell’anno dopo. È sempre Johnson a realizzare, proprio nel 1994, “F_____n Suckin” per il progetto Traxmen su Dance Mania, in cui si recita una filastrocca farcita di parolacce su una base martellante e ipnotica. Inciso sul lato b del secondo volume di “Basement Traxx”, il pezzo parte dalle discoteche specializzate ma pian piano conquista favori nel nostro Paese finendo nel circuito generalista grazie al supporto di Albertino e Radio DeeJay.

Robert Armani - Armani Trax

Robert Armani – Armani Trax
Il suo vero nome è Robert Woods ma si ribattezza Robert Armani pare per tributare lo stilista italiano Giorgio Armani. Il debutto nel 1990 con “Armani Trax”, su Dance Mania, che riagguanta i minimalismi ritmici della house dei primordi per renderli autentici protagonisti e non più solo basi su cui innestare qualcosa. La traccia “Armani Trax” è esplicativa in tal senso, uno scheletro di pochi elementi che si rincorrono per tutta la stesura. Simile il contenuto del pezzo sul lato b destinato a diventare un classico, “Circus Bells”, dove il suono di una campana liquefatta e strisciante diviene una sorta di putrella costruttiva, un elemento portante e di sostegno per tutto il resto. A glorificarla ci penseranno i tedeschi Hardfloor nel 1993 attraverso uno dei primi remix della loro carriera. Sia “Armani Trax” che “Circus Bells” vengono riletti in due versioni da Armando Gallop, indicato altresì come presenter sull’etichetta centrale. Armani bissa la presenza su Dance Mania nel ’91 con “Ambulance” aperto dalla traccia omonima, una marcetta in cui shakera un lancinante suono che pare un sonar impazzito per qualche problema tecnico sopraggiunto negli abissi marini. Il pezzo raccoglie consensi in Europa, Italia compresa, dove giunge attraverso l’Extreme Records del gruppo Energy Production. Proprio in Italia l’artista trova da lì a breve un valido alleato discografico, l’etichetta capitolina ACV, che tra 1992 e 1997 pubblicherà ben sei album a cui si sommano numerosi EP.

Steve Poindexter - Demolition Man

Steve Poindexter – Demolition Man
Poindexter è un altro che assimila i traxismi pre novantiani per fonderli coerentemente coi suoi apporti trasformandoli in qualcosa di più muscolare e lanciarli in circuiti ad alto voltaggio. A venirne fuori è una felice sintesi riscontrabile in questo EP, pubblicato su Djax-Up-Beats nel 1997, in cui le cose appaiono chiare sin dal principio, quando parte “Demolition” che mette l’ascoltatore tra incudine e martello. “Return To The Getto” occhieggia al suono ghetto della Dance Mania, e probabilmente il titolo è un indizio rivelatore. “Express” è una pallina da flipper impazzita che urta contro il vetro lesionandolo, “Bring The Noice” scalpita ancora sui disegni ritmici fatti da clapperie e nervosi rullanti. Poindexter ha inciso anche un album, “Man At Work”, incentrato sulle squadrettature ritmiche tipiche della scuola chicagoana. A pubblicarlo, nel 1996, la romana ACV.

Terrance McDonald - Wreck The Floor

Terrance McDonald – Wreck The Floor
Lasciandosi alle spalle un timido esordio su Saber Records nel ’91, per Terrance McDonald si aprono le porte della Djax-Up-Beats che nel 1994 manda in stampa “Wreck The Floor”, coprodotto con l’amico DJ Skull. Le danze iniziano col brano omonimo, in buona sostanza una versione uptempo della house chicagoana targata ’85-’86 che scommette tutto sull’essenzialità e il minimalismo. Con “Electric Energy” l’autore inietta più elementi nei circuiti della sua musica, dotandola di soffici cuscini ottenuti con lunghi lead. Più ovattata l’edificazione dei suoni di “Pick Up The Pace”, issata da un breve messaggio vocale che ripete meccanicamente il titolo. Chiudono la rotolante “Hokus Pokus” e la seducente “Love Craze”. McDonald affida all’etichetta di Miss Djax un’altra manciata di EP in cui la techno divampa in modo ancora più intenso, “Hyper-Tension” e “X.S. NRG”, usciti entrambi nel 1995 ma sotto lo pseudonimo DJ Metal X.

Timewalkers - Melodic Butterfly

Timewalkers – Melodic Butterfly
Nel 1994, quando la belga Lightning Records (a cui fa capo la Bonzai guidata da Fly intervistato qui) inaugura il catalogo Unique Vinyl Movement con “Melodic Butterfly”, non esiste Discogs per individuare le coordinate autoriali. Sul centrino è riportato il nome di un certo Felix Stallings ma in pochi, specialmente in Italia, sanno chi sia. Il brano si presenta in due versioni, simili tra loro: la Thee Dark Mix lascia ondeggiare corone di fiori su un sequencer dal sapore quasi moroderiano, la Thee Lite Tribal Mix mette da parte le nuances più ombrose a favore di un panorama più cristallino. Dopo qualche mese la Unique Vinyl Movement commercializza un secondo (e ultimo) disco di Timewalkers, “This Is What I Believe In”, con cui l’autore prosegue la missione elaborando accuratamente la programmazione ritmica ed edificando un castello di suoni vaporosi dalle punte filo acide. Stallings concentrerà le energie su altri progetti come Aphrohead e soprattutto Felix Da Housecat con cui sfonderà nel pop nei primi anni del nuovo millennio quando incide l’album “Kittenz And Thee Glitz” trainato dall’arcinota “Silver Screen-Shower Scene” in coppia con la reginetta dell’electroclash, Miss Kittin.

Time For Techno - Get On It

Time For Techno Presents The Unknown – Get On It (Housetime Records)
Il nome che Derrick Carter sceglie per questa apparizione su Housetime Records del 1989 è già indicativo, ma ascoltare i cinque pezzi racchiusi all’interno dell’EP fuga definitivamente ogni dubbio. “Get On It” mostra il punto di avvio rappresentato da frequenze phaserizzate, pattern mandati in reverse, vocalizzi balbettanti, da “Velocity” in avanti si viaggia in dimensioni decisamente techno, “Abstract Expressionism” è una acid svisata con frequenti effetti backwards che diventano una vera e propria gimmick, “Non-Music No. 3” avanza a scatti come un androide pilotato da remoto, “Spirit Of Sound” chiude con annotazioni funk/disco ma fatte ribollire in un blocco ritmico duro come granito. Carter diventa un gigante della house ma non disdegnerà, seppur a tratti, di calarsi ancora in territori confinanti con la techno come avviene ad esempio con “Science Of Numbers” di Symbols & Instruments (KMS, 1989) “Shock Therapy” (Exploding Plastic Inevitable, 1994) o “Limbo Of Vanished Possibilities” di Tone Theory (Plink Plonk, 1995).

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (luglio 2023)

Dischi Spranti

Various – Dischi Spranti (Dischi Spranti)
Max Nocco annunciò la nascita della Dischi Spranti attraverso un’intervista pubblicata un anno fa proprio su queste pagine. Per il debutto la neoetichetta salentina, curata dallo stesso Nocco e Marco Erroi, raccoglie otto tracce in un collage multicolore ancorato all’area elettronica. Si parte con Franza e la sua “What Game Are We Playing?” dove la linea di basso si accartoccia e finisce in una spirale di raggi luminosi, e Francesco Fisotti affiancato da Done e la loro “E Mi Chiamerai?”, un ganglio tra funk, boogie e hip hop con liriche in italiano. Con “Shibui” di Queemose giungono echi orientaleggianti incastrati in un comparto ritmico che affonda le radici in umori balearici, “My Ghetto Acid” di Rah Toth And The Brigante’s Orchestra è straniante afrobeat in slow motion da cui filtrano echi jazz mutanti trafitti da lascive lingue acide, “Mamanera” di Populous salda reggae, calypso e moombahton con inserti raggamuffin, “Dhalsim” di Kamaji torna a frugare in riferimenti orientali (forse un rimando al personaggio indiano del capcomiano “Street Fighter”?) spezzettati e srotolati su un tappeto uptempo, “Wonderboy” di Wonderboy pare nascere dalle viscere di “Need You Tonight” degli INXS innescando una cascata di suoni cristallini e agitando romanticismi new wave. In fondo c’è “Ylenia” di Michele Mininni, pronto a portare per mano l’ascoltatore verso aree di cosmo inesplorato, tra leftfieldismi sorridenti in salsa kraut. Un’iniziativa musicocentrica quella della Dischi Spranti, limitata alle 410 copie di cui 20 in versione splatter, 20 marmorizzate e 70 trasparenti, tutte numerate, le restanti invece su tradizionale plastica nera. A impreziosirle ulteriormente è l’arte di Massimo Pasca che ne ha curato la copertina. Un’opera davvero “spranta” dunque, termine derivato dal dialetto salentino che, come chiarito nell’info sheet promozionale, «è qualcosa tra il verace e il grezzo, l’irruento e il veloce, ma soprattutto vera e autentica», e oggi il mondo della musica ha bisogno più che mai di autenticità.

The Exaltics - The 7th Planet

The Exaltics – The 7th Planet (Clone West Coast Series)
L’electro è un genere su cui si è lanciata una pletora di artisti o presunti tali. L’altissima concentrazione produttiva ha prevedibilmente finito con l’appiattire la creatività e banalizzare certe formule diventate ordinarie e vacue quanto l’uso contemporaneo degli aggettivi “iconico” o “visionario”. Tuttavia esistono delle eccezioni come Robert Witschakowski alias The Exaltics che, nell’ultimo quindicennio, ha saputo dare un indirizzo personalizzato all’electro senza imitare o scomodare i geni del passato. La sua è stata un’escalation costante sviluppata attraverso un cospicuo repertorio a cui da una manciata di settimane si è aggiunto un nuovo album, il terzo per l’olandese Clone, dopo “Some Other Place” del 2014 e “II Worlds” del 2019. Le sorgenti ispirative restano le stesse a cui ci ha ormai abituati, passate magistralmente in rassegna in “The 7th Planet”, aperto da un intro (“Landing Process”) e chiuso da un outro (“We Would Do It”) che hanno il chiaro sapore di viaggi interspaziali. All’interno si articola un percorso dominato da geometrismi ritmici, bassi corpulenti e impianti armonici meccanici (“Lets Fly The Gravity Fighter”, “Higher Levels”, “Resurface”, “The Long Goodbye”), incapsulati sotto un’atmosfera severa, rigida, ulteriormente rafforzata dagli interventi vocali di Paris The Black Fu (“Did You See Them” e la meravigliosa “Lif Eono Ther Planets”, cupa e oppressiva ma dall’incontenibile vitalità). Di rilievo pure “They’re Coming From Everywhere” e “We Never Had A Chance” dove i riferimenti al suono acquatico di Drexciya sono evidenti ma, come sostenuto all’inizio, l’intenzione dell’artista tedesco va ben oltre lo scimmiottamento e l’epigonismo. Parte della tiratura è solcata su vinile rosso marmorizzato.

Orlando Voorn - Outerworld

Orlando Voorn – Outerworld (Trust)
Ennesima produzione per il prolifico e instancabile artista dei Paesi Bassi, questa volta al debutto sull’austriaca Trust. Comune denominatore è un’estetica affine alla scuola techno di Detroit che parte da un saliscendi pneumatico (“Shockwave”, per cui è stato realizzato anche un videoclip) dal quale si passa a un carrello elevatore impazzito issato da taglienti blipperie e sequenze mandate in reverse (“Outerworld”) e poi a un ascensore che precipita violentemente negli abissi marini (“Reverse Psychology”) alla ricerca di possibili nuove forme di vita subacquee. Nella nota conclusiva, “Space Trap” – una possibile storpiatura intenzionale e ironica del più canonico Space Trip? – , Voorn si cimenta in una base trap per l’appunto lanciata nelle oscurità spaziali.

Manhattan Project - More Time Delivery - Stay Forever

Manhattan Project – More Time Delivery/Stay Forever (Flashback Records)
Analogamente a quasi tutti i generi musicali, anche l’italo disco annovera artisti nazionalpopolari celebri persino nelle balere, e altri la cui notorietà è invece circoscritta a piccoli nuclei di adepti proprio come nel caso di Manhattan Project, guidato da Riccardo Maggese e passato alla storia con un 12″ del 1986, a cui abbiamo dedicato qui un ampio approfondimento, commercializzato in una copertina in tessuto firmata da Riccardo Naj-Oleari che senza dubbio ha contribuito ad alimentarne il culto. In qualche modo, questo ritorno inizia esattamente lì dove era finita quella timida comparsata di trentasette anni or sono e lo si intuisce subito osservando l’etichetta centrale, parodia di quella della City Record, e ascoltando “More Time Delivery” che porge immediatamente il gancio a “Guinnesmen”. Bassline nervosa, ampie planate di synth lead, un’impronta vocale romantica: gli ingredienti dell’italo più classica ci sono davvero tutti. “Stay Forever”, sul lato b, prosegue nello stesso solco, ma con un pizzico di eurodisco in più. A produrre il mix è il finlandese Kimmo Salo per la sua Flashback Records impegnata ormai da un ventennio sul fronte del recupero dell’italo disco. Degna di menzione anche la copertina con cui il designer Juan Calia cerca apertamente il parallelismo grafico e cromatico con quella di “That’s Impossible/Guinnesmen”, ormai un cimelio per cui i collezionisti più incalliti sono disposti a spendere più di qualche centone.

Jensen Interceptor - The Fontainebleau Plus Remixes

Jensen Interceptor – The Fontainebleau Plus Remixes (Monotone)
Mikey Melas, il fecondo produttore che ha preso l’alias artistico da una vecchia auto sportiva, approda sull’etichetta di Larry McCormick alias Exzakt con un brano, sinora riservato a una compilation giapponese del 2016, che pare essere saltato fuori da un nastro inciso durante il periodo della breakdance e dei ghettoblaster. Dall’ossessivo beat emerge un frammento vocale carpito da un classico hip hop, “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock, presenza praticamente fissa nelle performance ai campionati DMC a cavallo tra anni Ottanta e primi Novanta. A rendere il tutto più emozionante e brioso sono però i remix dai quali si irradiano nuovi fasci di suoni e ritmi: Exzakt e BFX arroventano la materia sino a renderla incandescente, Salome ne sollecita le torsioni velocizzando l’esecuzione e inserendo nuovi fill di batteria e qualche richiamo hoover, Cisco ‘The Advent’ Ferreira col figlio Zein si divertono a sfibrare un lungo pattern ritmico, e infine DJ Godfather arricchisce il tutto con nuovi elementi melodici. Old school never die.

Scandinavia Bass Dreams

Various – Scandinavia Bass Dreams (Stilleben Records)
Ennesimo various EP per la Stilleben Records, piccola etichetta svedese fondata da Luke Eargoggle alla fine degli anni Novanta e legata a doppio filo all’electro. Ad aprire le danze sono “NoTV” e “The Broadcast” dei Television, neo progetto islandese messo su da Thorgerdur e Kuldaboli e sviluppato attraverso strutture ritmiche convenzionali ridotte all’asso, impianti melodici altrettanto minimalisti guidati dal gusto per il cibernetico e atmosfere spaziali. Sul lato b “Velour” di Br.Beta, dove i protagonismi melodici sono limitati e la malinconia new wave viaggia su binari kraftwerkiani, e infine “Olivedal” di Sir Kenneth Ray, ennesima incursione in un suono rasserenante, placido, pacato, che lascia immaginare androidi con un cuore umano pulsante sotto la pelle in titanio.

Moana Pozzi - Dance Hits

Moana Pozzi – Dance Hits (Mondo Groove)
Era prevedibile che nel flusso interminabile di ristampe finisse anche il nome di Moana Pozzi, coinvolta in alcuni progetti discografici alla fine degli anni Ottanta come descritto qui. A trainare l’EP è “Supermacho”, un brano pubblicato originariamente nel 1989 dalla romana ACV Sound su un picture disc limitato a un centinaio di copie pare mai distribuite e per questo conteso a prezzi piuttosto considerevoli sul mercato dell’usato. A produrlo Paolo Rustichelli intrecciando ciò che restava dell’italo disco con un pulsante impianto ritmico a metà strada tra house music ed eurodisco. È sempre Rustichelli, trincerato dietro il moniker Jay Horus, a comporre “Impulsi Di Sesso” destinato al film (erotico ovviamente) “Diva Futura – L’Avventura Dell’Amore”, e “Let’s Dance”, finito sul lato b del 7″ “L’Ultima Notte”, pure questo sembra mai distribuito ufficialmente. A completare è “Bonita”, un inedito che, come spiega la Mondo Groove nelle note introduttive, era utilizzato dalla Pozzi per le sue esibizioni e in cui la vocalità ammiccante fa il verso alla sensualità di Jane Birkin. Cult o trash? Il confine diventa labile.

Konerytmi - Teoreema EP

Konerytmi – Teoreema EP (Domina Trxxx)
È diventato piuttosto complicato stare dietro a tutte le uscite di Konerytmi, l’ennesimo dei moniker che nel 2020 Kirill Junolainen ha aggiunto al suo già imponente repertorio. Per questo EP su Domina Trxxx l’artista russo trapiantato a Turku, in Finlandia, ripesca a piene mani dall’immenso calderone stilistico che contraddistinse le annate 1998-2002 fatto di continui rimandi retrò (electrofunk, italo disco, new wave, synth pop). Così quando parte “Breikkitanssi” si ha l’impressione di avere a che fare con una sorta di nuova “Space Invaders Are Smoking Grass”, “Teoreema” fruga nei vintagismi ritmici di 808iana memoria con ghirigori melodici, “Avaruusunelma” ha il sapore delle prime prove strumentali targate DMX Krew, “Tikkukaramelli” sterza verso una specie di house chicagoana, scheletrica, essenziale e minimalista. Quasi in contemporanea nei negozi è arrivato pure “Astrodanssi EP” su Electro Music Coalition, con cui l’instancabile Junolainen maneggia ambientalismi aphexiani e incandescenti filamenti acidi, a cui seguirà presto “Tietovirta EP” sulla sopramenzionata Stilleben Records.

PRZ - Synthetic Man

PRZ – Synthetic Man (Clone West Coast Series)
Gal Perez è alla seconda prova su Clone dopo “Wishmaker EP” del 2021. Questo nuovo disco riprende il discorso lasciato in sospeso dal precedente, su una possente formula electro techno drexciyana (“LFO Brain”, “Double Data”). Il lato b, con la title track “Synthetic Man”, parte alla volta di un suono più ruvido che ruota come una trivella producendo schegge acide che schizzano via come scintille durante un impegnativo lavoro di saldatura. A tirare il sipario è “Pulsar” con cui l’autore si lancia ancora a capofitto in soluzioni stinsoniane intersecate a sibilanti riff che accrescono il livello di tensione.

Dana

Dana – Estate (Disco Segreta)
Devota alla riscoperta di tesori nascosti della nostra produzione disco/filo disco/post disco ancorata al segmento temporale ’68-’89, la Disco Segreta sapientemente guidata da Carlo Simula si conferma come una delle “etichette di salvataggio” più attente e meticolose. Per l’occasione rimette in circolazione due pezzi (gli unici del repertorio?) dei Dana, band attiva tra ’77 e ’80 e capitanata dal cantante e musicista sardo Gianni Virdis. “Estate” esce originariamente nel ’77 sulla Tekno Record di Franco Idini in formato 7″, ed è un ridente pezzo disco funky dedicato alla stagione calda e in tal senso la Disco Segreta non avrebbe potuto scegliere momento migliore per rilanciarlo. Il lato b prosegue il discorso con “S’Inghelada” in cui il mood resta il medesimo con inserti vocali in vernacolo sardo con tanto di falsetto tipico della moda musicale di quel periodo influenzata dal successo planetario di “Saturday Night Fever”. Rimasti confinati a una diffusione regionale, come avveniva a tanti 45 giri prodotti da piccole indipendenti, e pare penalizzati da una masterizzazione e stampa non eccelsi, i brani dei Dana tornano quindi a riecheggiare a distanza di quasi mezzo secolo adeguatamente rimasterizzati e solcati su un 12″ colorato da 180 grammi. Appena cento però le copie stampate da Disco Segreta, destinate a trasformarsi a loro volta in memorabilia negli anni a venire.

(Giosuè Impellizzeri)

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Enrico Mantini: lascio la house e il DJing per nuove sfide

Ingegnere del suono, DJ e compositore: la figura artistica di Enrico Mantini ruota intorno a questi tre ruoli. Il debutto discografico ad appena diciott’anni, nel 1990, quasi nell’anonimato e nel solco della deep house strumentale, un filone emerso dopo il boom commerciale dell’italo house pianistica apparentemente privo di appeal internazionale e ai tempi, pare, incapace di reggere il confronto col suono garage di blasonate realtà discografiche di Londra o New York. Paradossalmente, a distanza di un venticinquennio circa, sono stati proprio influenti DJ esteri a istigarne il ripescaggio e la conseguente rivalutazione che ha condotto a una sorta di riscatto. Mantini, in quella prima fase europeizzante della house music, è un autentico fiume in piena. Incide decine di tracce finite in altrettante pubblicazioni marchiate prima con pseudonimi e poi con le coordinate anagrafiche. Entrare nella scuderia artistica di un’etichetta cardine di quel periodo, la napoletana UMM fondata e diretta da Angelo Tardio, lo aiuta a farsi notare oltre i confini e ad accrescere la reputazione da DJ. Alla fine degli anni Novanta però il sogno sembra dissolversi, l’eclissi di tante stelle lo spingono a reinventarsi e percorrere itinerari differenti. Il proliferare di nuovi formati liquidi e il ritorno in auge del disco in vinile lo convinceranno a tornare sui suoi passi nei primi anni Dieci, complice pure l’interesse nei confronti della sua musica avanzato da etichette italiane e straniere (Traxx Underground, 4 Lux, Wilson Records, Half Baked, Gua Limited, Detroit Side, Assemble Music, giusto per citarne alcune). Mantini si proietta nel futuro senza nascondere il passato anzi, è proprio quest’ultimo a diventare il motore capace di alimentare con rinnovata energia la sua carriera. Passa quasi un decennio, tra ristampe chieste a gran voce dalle nuove generazioni e inediti, ma ora per l’artista pescarese è giunto di nuovo il tempo di voltare (definitivamente?) pagina e iniziare nuove avventure.


Inizi a praticare il DJing nel 1987, anno in cui comincia il percorso di europeizzazione della house music. Da quali presupposti partiva un giovane come te che voleva cimentarsi in quel tipo di attività artistica? Quali sostanziali differenze correvano tra il DJ radiofonico e quello da discoteca?
Iniziai dapprima proprio come DJ radiofonico, un percorso in qualche modo più accessibile nella mia città, Pescara, visto il grande numero di radio libere e la limitata presenza di club. Per me il presupposto è sempre stato legato alla viscerale passione per la musica, di qualsiasi genere. All’età di dieci anni, piuttosto che scendere in strada o andare al parco per giocare coi miei coetanei, preferivo trascorrere i pomeriggi ad ascoltare la radio registrando su nastro Super 8 le canzoni che più mi piacevano. Per il pubblico, il DJ radiofonico non aveva lo stesso appeal di quello che lavorava in discoteca ma non mi importava affatto, da ragazzino ero molto introverso e volevo solamente esprimere me stesso e i miei stati d’animo attraverso la musica quindi era di vitale importanza che potessi farlo anche al di fuori delle mura domestiche.

Sussisteva un forte tessuto connettivo tra la dance degli anni Settanta e quella che poi fu riformulata a Chicago negli Ottanta? In buona sostanza la house fu, come più di qualcuno ha affermato nel corso del tempo, il genere con cui la disco si prese la rivincita?
L’evoluzione della disco in house music fu innescata dall’avvento della tecnologia digitale, basti pensare a brani come “How Far I Go” di Peter Black per capire quanto sottile e labile fosse il confine da valicare. In poco tempo i DJ passarono da realizzare semplici edit di brani disco a comporre complessi remix da suonare nei loro set in cui la componente elettronica, derivata in primis da sintetizzatori e drum machine, ebbe sempre più peso. Agli inizi degli anni Ottanta erano già molti a comporre brani esclusivamente elettronici poi battezzati con il nome house music. Considerato l’impatto che la musica house ebbe negli anni a seguire, la vastità del fenomeno sociale correlato a essa e le persone chiave che ne resero possibile la diffusione, trovo sia corretto affermare che fu esattamente questo il modo in cui la disco music, relegata perlopiù alla comunità afroamericana, si prese la rivincita su scala mondiale.

Come ricordi i primi anni di diffusione in Italia della house music?
Quando ascoltai i primi brani di musica house fu subito chiaro che l’elettronica sarebbe stata la via con cui, anche io, avrei avuto modo di comporre e portare a termine un brano in totale autonomia. Prima iniziai a introdurre il campionatore nei miei DJ set, poi la Roland TR-909 arrivando a suonare di tanto in tanto, da cassetta, tracce interamente composte da me. Il pubblico salutò con entusiasmo la novità, forse perché incuriosito dai DJ alle prese con strumenti nuovi (campionatori, batterie elettroniche) sino a quel momento relegati quasi esclusivamente allo studio di registrazione, ma un ruolo la ricoprì anche la ripetitività degli elementi contenuti in ogni brano house che evocava ritmi ancestrali. Reperire i primi dischi di house music però non fu semplice, almeno fino alla seconda metà degli anni Ottanta, momento in cui cominciarono a essere importati in discrete quantità essendo iniziata la diffusione radiofonica.

Alla fine degli anni Ottanta inizi a cimentarti nelle prime prove da produttore: ci fu qualcosa o qualcuno a spingerti verso l’attività compositiva in studio di registrazione?
A spronarmi nel trovare una strada per esprimermi fu la mia passione, insieme a tenacia e determinazione che mi aiutarono a raggiungere il risultato. Da bambino ero molto attratto dalla stanza in cui mio padre custodiva l’impianto hi-fi e le luci psichedeliche. Lui non era un frequentatore di discoteche, aveva nozioni musicali e suonava la tastiera ma in quanto a gusti si lasciava trasportare dalle mode. Correvano i tardi anni Settanta e alcuni brani disco funk popolavano le classifiche. Ogni qualvolta lui mettesse un disco, mi precipitavo nella stanza a guardare l’esplosione di colori e assorbivo la magia di quei suoni che mi sono lentamente entrati nell’anima al punto che, quando iniziai a comporre, involontariamente e in modo del tutto spontaneo, approdai spesso a soluzioni musicali tipiche di quel genere. Durante l’adolescenza invece strimpellavo il basso elettrico in una band new wave ma era complicato mettere insieme le idee di più persone e soprattutto ottenere un contratto discografico. Lo spiraglio offerto dall’elettronica, anche in considerazione del fatto che mi esibissi come DJ, fu determinante.

707 Boyz
Nel 1990, con l’EP firmato 707 Boyz, si apre la carriera discografica di Enrico Mantini

La tua prima produzione fu siglata 707 Boyz, pseudonimo che ti vide in azione insieme a Fabrizio Cini. In quell’occasione chi fece cosa?
Nel 1989 il mio setup era composto da un sintetizzatore Roland D-5, un campionatore Akai S950 e un sequencer Kawai Q-80. Completai i primi due brani a casa, “Freedom” e “Emotions”, testandoli in discoteca: funzionavano ma le proporzioni tra i volumi necessitavano di essere riviste e al tempo non avevo ancora competenze come sound engineer così, tramite, un amico, entrai in contatto con lo studio di registrazione in cui lavorava Fabrizio Cini, il Bess Studio a Montesilvano. La sua preparazione in termini di fonia era notevole ma soprattutto era un validissimo chitarrista e tastierista. Ci mettemmo subito a lavorare insieme su nuovi brani creando “Track F..K” e “Prototype” coi quali completammo l’EP. In studio a disposizione avevamo un’ampia scelta di sintetizzatori e anche tre batterie elettroniche, nello specifico una Roland R-8, una Roland TR-707 e una Yamaha RX15. Quando dovemmo scegliere un nome di fantasia col quale proporre i brani optammo per 707 Boyz visto che la Roland TR-707 era l’unica tra quelle drum machine di cui non avevamo capito a fondo il funzionamento della sezione di sequencing. Non approfondimmo mai sino al momento in cui in studio arrivò una TR-909.

A pubblicare il disco, oggi ricercato sul mercato dell’usato forse grazie al recente inserimento di “Emotions” in uno dei volumi della raccolta “Welcome To Paradise”, è la DJ Tendance Records la cui esistenza è circoscritta proprio a quell’uscita. Perché un’apparizione episodica?
Una volta completati i quattro brani, iniziammo a contattare varie etichette con l’auspicio di poter firmare presto un contratto discografico. Col nastro a bobina da 1/4 di pollice sotto il braccio, cominciammo il pellegrinaggio a Milano per fare ascoltare i master. Bussammo alla Discomagic di Severo Lombardoni, alla New Music International di Pippo Landro e alla Non Stop dove ci imbattemmo in Fabrizio Gatto (intervistato qui, nda). La strada fu lunga, tortuosa e tutta in salita, la Non Stop ci “rimbalzava” sistematicamente accampando futili scuse. Purtroppo non conoscevamo nessuno nell’ambiente discografico e la situazione era in stallo. A quel punto il compianto Nino D’Angelo, titolare del Bess Studio che aveva già finanziato la produzione dei brani e tutti i viaggi a Milano, alla luce delle spese già sostenute sino a quel momento decise che sarebbe stato meglio, e soprattutto più economico, che il disco lo avessimo pubblicato noi. Non avendo un marchio col quale proporre l’EP, creammo per l’occasione la DJ Tendance Records. Così, con mille copie nel bagagliaio, tornammo alla Non Stop chiedendo solo di distribuire il prodotto. Appena uscito, il disco suscitò l’interesse di Stefano Secchi che inserì “Freedom” nella classifica di Radio 105. Finalmente potevo considerarmi un produttore musicale.

Credo che in Italia la mancanza di voci inglesi madrelingua abbia limitato lo sviluppo della house in direzione garage ma nel contempo, per i produttori nostrani, quella tara rappresentò uno stimolo per elaborare intriganti variazioni strumentali. Concordi con questa interpretazione?
Sono d’accordo con quanto affermi. Il fatto di optare per forme strumentali fu dettato soprattutto dalla mancanza di voci e dall’assenza di budget. Sino a quando un pezzo restava strumentale, era fattibile portare avanti composizione, arrangiamento e missaggio interamente a casa, con spese tutto sommato contenute. Con un investimento pari a qualche decina di milioni di lire si poteva disporre di un proprio studio di registrazione. Per me, nello specifico, avere uno studio personale mi consentì di essere artisticamente molto prolifico e di tradurre di continuo le idee in musica. La scelta dei suoni, nel mio caso, non dipese tanto dall’hardware utilizzato (gran parte li realizzavo all’interno del campionatore) bensì dalla sperimentazione, influenzata dalla fascinazione esercitata dal sound americano.

Smooth Sounds
Il logo della Smooth Sounds

Nel 1992 è tempo dei tuoi primi dischi firmati col nome anagrafico, “Smooth Sound Start One” e “The Maze”, entrambi su Smooth Sounds, etichetta affiliata alla MBG International Records di Giorgio Canepa. Perché il marchio non proseguì il cammino dopo quella doppietta?
Verso la fine del 1991, tramite un amico, conobbi Giorgio Canepa a Rimini e gli feci ascoltare quattro brani che avevo composto con Arnaldo Guido. Gli piacquero molto e decise di pubblicarli sulla sua etichetta, la MBG International Records, in “Brainstorm”, il primo EP di Deep Choice a cui poco tempo dopo seguì “Time + Space” di Nuclear Child. Con quel disco nacque la nostra collaborazione e, vista la mia creatività in continuo fermento che mi permetteva di comporre quotidianamente nuovi brani, decidemmo di fondare insieme una nuova etichetta discografica attraverso la quale avrei potuto pubblicare anche cose un po’ diverse rispetto a quelle che lui convogliava solitamente su MBG International Records. Nacque così la Smooth Sounds, accompagnata da un’idea grafica di Marco Fioritoni alias DJ Dsastro che con me compose parte dei brani confluiti nelle due pubblicazioni. Ero particolarmente stimolato dalle collaborazioni artistiche che mi consentivano di confrontarmi con altri e spaziare nel suono rispetto a quella che era la mia personale visione di musica. Purtroppo il sodalizio con Canepa non durò a lungo a causa di divergenze sul piano economico e così, nell’arco di un paio di anni, il progetto Smooth Sounds venne accantonato.

Uneasy EP
“Uneasy EP” inaugura il catalogo della Groove Sense Records (1993)

Come ricordi invece la Groove Sense Records, partita nel 1993 con “Uneasy EP” e distribuita dalla pugliese Marcon Music? Cosa significava, ai tempi, mandare avanti un’etichetta discografica di quel tipo?
Avviai la Groove Sense Records con Pietro De Rosa, sulla base dell’esperienza fatta con Smooth Sounds. In principio fummo noi a finanziare la stampa dei dischi, con la Flying Records che ne curava la distribuzione. Dovevamo anche occuparci della promozione quindi inviavamo comunicati stampa via fax alle varie testate giornalistiche di settore e ci sinceravamo di persona o al telefono che venissero prese in considerazione. Il lavoro da svolgere era davvero tanto se si considera che io e Pietro eravamo anche artisti di ogni singola pubblicazione. A partire dalla seconda uscita firmammo un fortunato, e per l’epoca pionieristico, contratto di produzione e distribuzione (P&D) con la Marcon Music tramite il quale riuscimmo a concentrarci maggiormente sull’aspetto artistico sgravandoci dagli impegni meramente gestionali, continuando comunque a curare di persona la promozione dell’etichetta. Il sodalizio con la Marcon Music andò avanti sino al 1995, anno in cui l’industria legata al disco in vinile cominciò a rivelare i primi segni di cedimento in Italia mietendo le prime “vittime” tra cui la stessa Marcon Music finita in bancarotta. Decidemmo quindi di stoppare momentaneamente l’etichetta nell’attesa (e speranza) che le sorti del mercato mutassero in meglio.

Il 1992 è l’anno in cui, col primo volume di Transitive Elements, parte la collaborazione con la napoletana UMM. Come rammenti la sinergia stretta con l’etichetta ai tempi guidata artisticamente da Angelo Tardio e a cui abbiamo dedicato qui un’ampia monografia?
Arrivai a UMM tramite Ivan Iacobucci con il quale avevo co-prodotto “All Night” pubblicato per l’appunto dall’etichetta campana nel 1991. Al tempo ero attivo anche come DJ e beatmaker nell’hip hop italiano con artisti come Lou X e C.U.B.A. Cabbal. Proprio attraverso quest’ultimo un giorno mi ritrovai nella sede della Flying Records con l’intento di fare ascoltare delle demo di musica rap. Con me avevo portato anche un DAT pieno di house music così chiesi a chi avrei potuto sottoporre quel tipo di materiale. Mi accompagnarono nell’ufficio di Angelo Tardio che, dopo aver speso un’ora buona a sentire alcuni dei miei pezzi, mi chiese di lasciargli quel DAT perché c’erano troppe cose che gli piacevano e le avrebbe volute ascoltare con calma. Nei giorni successivi quindi scelse sei tracce che confluirono nel primo volume di Transitive Elements (co-prodotto con Argentino Mazzarulli, nda). Da quel momento, in completa sinergia artistica, cominciai a mandargli di continuo brani e tra di noi si instaurò un rapporto di rispetto e fiducia reciproca, al punto che tutta la musica che sottoponevo alla sua attenzione venisse puntualmente stampata su UMM. Vista la quantità di brani, optammo per più alias al fine di evitare di inflazionare le uscite e la stessa etichetta e fu allora che decisi di debuttare col mio nome di battesimo.

In studio hai alternato avventure soliste a progetti tandem, come Mood 2 Create, High Fly, The White Fluid o Stinkingmen. Quali sono i pro di lavorare a quattro mani?
Come anticipavo prima, il maggior vantaggio di collaborare in studio con altre persone è poter varcare i propri confini musicali e aprirsi a nuovi orizzonti compositivi e stilistici. È fondamentale quando si è particolarmente attivi e non si vuole restare intrappolati nelle proprie idee.

È opinione comune pensare agli anni Novanta come il decennio creativamente più prolifico per la dance elettronica nelle sue innumerevoli declinazioni. Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando a quegli anni?
Sono tantissimi ma senza dubbio a lasciare un ricordo indelebile in me sono stati “Waterfalls (3 A.M. Mix)” di After Hours alias Andrew Richardson, una delle tracce deep house più belle di sempre, poi “Stuck In The Middle (Mo’ Deep For Sticky Stewart Mix)” di DJ Duke, col suo elegante e ipnotico riff di organo, e “Music Harmony And Rhythm”, fortunata collaborazione tra Giorgio Canepa e Ricky Montanari siglata con lo pseudonimo Optik, un brano del 1991 che, dopo più di trent’anni, mi fa ancora venire la pelle d’oca.

dalla sessione di What U Want nel 1994
Due scatti che immortalano Enrico Mantini in studio durante la sessione di registrazione di “What U Want”, pubblicato su UMM nel 1994

Lasciandoti alle spalle altre produzioni sulla romana Lemon Records e sulla barese Marcon Music, nella seconda metà degli anni Novanta viri verso la drum n bass col progetto The Fast Runna: forse la house ti aveva stancato e sentisti la necessità di esplorare nuovi territori?
Nel 1996 mi trasferii a Londra per alcuni mesi e lì scoprii il fenomeno della drum n bass. Ne rimasi letteralmente rapito al punto che, al mio rientro in Italia, iniziai a comporre tracce in quel genere e fare saltuariamente serate come DJ proponendo solo drum n bass. Il venir meno di realtà come Marcon Music prima e Flying Records poi, unitamente all’avvento della disco house che non gradivo in modo particolare, mi spinsero a mettere temporaneamente da parte la house per dedicarmi a qualcosa che trovavo più stimolante. Col progetto The Fast Runna entrai in contatto con vari musicisti e gettai le basi per avventure più entusiasmanti e gratificanti. Realizzammo un intero album e lo mandammo alla Irma Records. Umbi Damiani propose di inserire alcuni brani in delle loro compilation jungle per poi pubblicare l’intero LP più avanti, cosa che però non avvenne mai visto che in Italia il fenomeno drum n bass si consumò troppo rapidamente.

Le funkeggianti “Find It/Vibes In Bahia” di Riviera Kids, che realizzi con Alessandro Marini nel 2000, sembrano calare il sipario: tornerai a incidere nuovi brani a tuo nome parecchi anni più tardi, nel 2008, con la Sweetleaf Recordings che fondi e tieni in vita sino al 2012 con l’intenzione di sondare il mercato delle pubblicazioni digitali che, nel frattempo, prendono piede in modo definitivo. Che idea ti sei fatto del mercato (o presunto tale) legato ai download?
Dal 1997 al 2000 lavorai in giro per l’Italia nel ruolo di fonico per artisti come Taglia 42, Biagio Antonacci, Ian Paice e Issac Delgado, mettendo a frutto il diploma di sound engineer conseguito nel 1993. Un giorno incontrai Alessandro Marini, amico di adolescenza, e per gioco provammo a buttare giù le idee per due brani. Era il periodo in cui tornai a dedicarmi allo studio del basso elettrico e infatti in quei pezzi l’elemento portante era proprio quello. Il caso volle che, una volta fatte girare le demo, saltasse nuovamente fuori Fabrizio Gatto che si offrì di pubblicarle su una delle tante etichette del gruppo Dancework, la Clubnoize Records. Il disco iniziò a circolare suscitando molto interesse e guadagnandosi presto il supporto di diversi DJ di rilievo, tra cui David Morales, che di fatto ne fecero un piccolo club anthem negli Stati Uniti. Correva il 2000 e la resa di quella produzione mi convinse a tornare a occuparmi di house music per le etichette britanniche Dirty Blue Records e Rated-X e per l’italiana Sound Division, nascosto dietro vari pseudonimi. Pubblicai pure un paio di bootleg in white label di cui uno di una famosa hit di Sterling Void. Non mi sono mai fermato del tutto insomma e nel 2005, dopo aver conosciuto Davidson Ospina, Hector Romero e Keith Thompson, abbracciai il filone soulful e iniziai a pubblicare in digitale per etichette statunitensi, sondando quello che poi sarebbe diventato lo standard della fruizione discografica. Il periodo che va dal 2005 al 2008 fu determinante per l’acquisizione delle capacità che mi consentono tuttora di gestire con successo la distribuzione in formato digitale. Durante quel triennio ero spesso negli Stati Uniti a esibirmi come DJ ma soprattutto per imparare il modello di business grazie a personaggi chiave come Kevin Green che dalla Gossip Records passò a lavorare in Beatport. Il mercato del download è decollato in modo definitivo nel 2010, supportato da realtà parallele come Bandcamp. La Sweetleaf Recordings venne fondata nel 2008 unitamente a uno studio di registrazione con l’intento di abbracciare il filone minimale che mi vide collaborare nuovamente con Ivan Iacobucci (di cui parliamo qui, nda), ai tempi impegnato pure lui con un’etichetta digitale, la Smoke Joke Records. Negli ultimi anni assistiamo a un’ulteriore virata del mercato verso lo streaming che sta soppiantando l’ormai obsoleto download. L’alternarsi delle tecnologie ha reso sempre più facile la fruizione della musica rendendone però più difficile la monetizzazione da parte di artisti e case discografiche.

Sweetleaf Recordings 001
Col “Changes EP” del 2008 Mantini ricomincia ad apparire sul mercato discografico con regolarità

Da una quindicina di anni a questa parte hai ripreso a pubblicare musica a pieno regime: c’è stato qualcuno o qualcosa a darti la giusta spinta?
Intorno al 2009 ho cominciato a ricevere messaggi tramite i social network da parte di fan intenti a riscoprire la mia discografia degli anni Novanta. Ricordo con piacere un giovanissimo Sammy, poi esploso artisticamente come Brawther, e Jeremy Underground che mi scrissero informandomi che i miei vecchi dischi su UMM fossero tra le loro fonti di ispirazione. Nel 2012 conobbi Thomas Franzmann alias Zip che mi confessò di suonare spesso le mie produzioni. Grazie a un catalogo molto ampio e soprattutto alle tante collaborazioni di quegli anni, il mio repertorio spaziava dalla deep house più classica alla techno, per cui accadde in modo naturale che più DJ attivi in stili completamente differenti, si ritrovassero a supportare i miei vecchi lavori, destando l’interesse del pubblico e delle case discografiche. Le richieste di ristampa non tardarono ad arrivare e mi sono fatto trovare pronto con nuove produzioni vincendo la diffidenza di chi, in un primo momento, non credeva fossi ancora in grado di tenere botta.

I tempi sono propizi anche per lanciare nuove etichette, la Veniceberg Records, la PURISM, la Down Da Mountains e la Bold Choices. Con quali finalità e progettualità porti avanti il loro iter e, soprattutto, oggi quanto è complesso tenere in vita piccole label indipendenti?
Dopo aver ricevuto varie proposte di P&D da parte di alcuni distributori e visto il ritorno in auge del vinile, nel 2014 ho deciso di avviare nuovi progetti discografici. A eccezione di Down Da Mountains e Bold Choices, che sono outlet a esclusivo uso personale, Veniceberg Records promuove il sound del club dando voce a vari artisti mentre PURISM mira esclusivamente a scoprire nuovi talenti che affondano le radici nell’old school. Grazie agli accordi di produzione e distribuzione, il lavoro da svolgere si è decisamente semplificato rispetto a quello di trent’anni fa. Attualmente il mercato del vinile sta subendo una nuova flessione causata dal difficile scenario economico e gran parte dei diggers è alla ricerca di novità su Bandcamp. Anche in questo caso mi sono mosso in anticipo mettendo online il mio vecchio catalogo completamente rimasterizzato già dal 2017.

Parecchie delle tue pubblicazioni più recenti gravitano intorno a tracce prodotte nei primi anni Novanta ma rimaste nel cassetto e a ristampe di EP del tuo repertorio, difficilmente reperibili sul mercato dell’usato. Sembra che la fascinazione della musica retrò oggi stia avendo la meglio, sono tantissimi infatti i giovani che si dedicano alla composizione con lo scopo di somigliare il più possibile ai decani di house/techno di ieri, ricorrendo anche a strumenti che possano rendere più verosimile il risultato finale. Questa perdurante voglia di passato sta forse sottraendo energie per scoprire e immaginare traiettorie nuove come invece avveniva quando hai iniziato tu?
Decisamente sì. L’estrema facilità con cui è possibile fare musica oggi ha impoverito la mente al punto da intaccarne la creatività.

Mantini dj set
Enrico Mantini in consolle pochi anni fa

La retromania teorizzata da Simon Reynolds ha conquistato anche il mercato discografico, sistematicamente inondato da ristampe di ogni genere e tipo: i reissue stanno erodendo spazio e terreno alle nuove uscite?
Sì, l’offerta di ristampe e produzioni ispirate al passato è maggiore rispetto a quella di nuovo materiale originale. L’essere pionieri e il percorrere strade non battute ormai è una prerogativa di pochi. Nel 2012 c’è stato un momento in cui ho fatto fatica a pubblicare materiale nuovo, tutti preferivano andare sul sicuro con le ristampe. A quel punto quindi mi sono imposto negandole e proponendo materiale inedito. In seguito, viste le innumerevoli e continue richieste nonché l’incontenibile retromania dilagata in tutti i settori, mi sono dovuto arrendere. Paradossalmente, utilizzando vecchio materiale inedito che mai avrei creduto di poter pubblicare, ho fatto decollare la mia pagina Bandcamp e ho ceduto in licenza parte degli inediti che hanno poi meritatamente conquistato la stampa su vinile.

Tra gli innumerevoli filoni riscoperti nell’ultimo decennio c’è pure quello della house italiana, glorificata da raccolte come “Italo House” di Joey Negro (2014), la citata “Welcome To Paradise” di Young Marco e Christiaan Macdonald (2017), “Paradise House (Deep Ambient Dream Paradise Garage House From 90’s)” di Don Carlos (2018) ed “Echoes Of House (Italo House Foundamentals Tracks)” di Ricky Montanari (2019), a cui si è aggiunta più recentemente “Ciao Italia – Generazioni Underground” di cui parliamo qui. Quanto era complesso, per la house underground nostrana, imporsi all’estero negli anni Novanta?
Ho avuto la fortuna di approdare in UMM che ha reso credibile la mia musica anche oltre i confini ma ai tempi erano ben poche le etichette italiane in grado di penetrare il mercato straniero a eccezione delle realtà più commerciali. Complice la scena musicale italiana, esterofila da sempre, non siamo mai riusciti a porci nello stesso modo in cui giungevano qui le produzioni estere. A tal proposito, intorno al 1993 scoprii che mentre in Italia la mia musica risultava essere troppo minimale, grezza e poco melodica, gli americani riservavano a essa un ascolto ben più attento, forse anche grazie al fenomeno UMM che stava scoppiando proprio in quel momento. Capitava spesso che DJ come David Camacho, Louie Vega, Kenny “Dope” Gonzalez o Roger Sanchez fossero ospiti in club italiani e proponessero brani miei a differenza dei connazionali che li scartavano dalle proprie selezioni, eccetto Ricky Montanari e Flavio Vecchi (di cui parliamo qui e qui, nda), pionieri e visionari da sempre.

Ha ancora senso parlare di underground nel 2023?
No, e non ha più senso parlarne già da un po’ di anni a questa parte. Le nuove generazioni perseguono obiettivi artistici e fanno musica per target specifici muovendosi all’interno di un sistema ben definito, nulla di più lontano dal concetto di underground.

Circa sei mesi fa hai annunciato l’interruzione dell’attività da DJ e produttore house: quali ragioni ti hanno convinto a smettere?
Non ricevendo più stimoli dall’attuale scena legata al clubbing, ho deciso di abbandonare sia il DJing che la produzione di musica dance per intraprendere una nuova sfida artistica e voltare completamente pagina. La musica house mi ha dato tante soddisfazioni ma non me la sento di insistere in qualcosa che non mi appaga più. Al momento sono impegnato come musicista e produttore in un nuovo progetto che fonde jazz e funk in chiave elettronica, affiancato da musicisti di caratura nazionale.

Il prezzo da pagare per la consacrazione a livello generalista del DJing è stato piuttosto alto visto che per certi versi l’attuale “DJ rock star” è solo una parodia di quello che in origine era il DJ, in primis perché il divismo e il DJing non avevano punti in comune ma oggi sono legati a doppio filo. Al netto della nostalgia e da discorsi facilmente tacciabili di boomerismo, come ti poni rispetto a questa evoluzione o presunta tale?
Sino a quando ho messo dischi come DJ, l’ho fatto alla vecchia maniera, zero divismo e senza prendermi cura del look ma per pura passione e divertimento. Mi rendo conto però, visto il trend generale, che figure come la mia probabilmente suscitano poco interesse nelle generazioni attuali.

Come immagini le discoteche e il relativo pubblico del 2050?
Non mi sono mai soffermato a pensarci, preferisco sia una sorpresa.

E i DJ invece? Esisteranno ancora?
È difficile dirlo. La figura del DJ è fondamentale all’interno del club ma è anche vero che l’avvento dell’intelligenza artificiale sta mettendo in seria discussione tante professioni e il DJing potrebbe essere tra queste. Non essendoci più “anima” nell’attuale musica da club, è probabile che, in un futuro non così lontano, il compito di selezionare brani e miscelarli con successo verrà affidato a un computer.

(Giosuè Impellizzeri)

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NicoNote: ritrovare l’unicità come valore è ancora una prerogativa dell’underground

Figura artistica piuttosto atipica per la scena nostrana, Nicoletta Magalotti individua nella trasversalità l’habitat in cui muoversi, frequentando i club quanto i teatri, senza alcun pregiudizio. Tra 1984 e 1988 è la voce dei Violet Eves, band nata nell’alveo della new wave, poi si muove lungo coordinate differenti alla ricerca di un’identità costruita pazientemente e con tenacia. Musica, teatro, poesia, avanguardia: NicoNote, nome con cui si ribattezza nel 1996, non pone alcun limite al proprio raggio d’azione e, come si legge nella sua biografia, unisce la dimensione performativa al clubbing, l’improvvisazione radicale al pop, e crea uno stato d’animo, un mondo in cui qualcosa “succede”. In un articolo di qualche tempo fa Christian Zingales ne parla come una “suprema chanteuse tra spleen rivierasco e sirene mitteleuropee”, definizione calzante per descrivere una personalità a tutto tondo come la sua che, attraverso suoni e voci, attraversa plurimi generi e atmosfere mescolando tutto in un linguaggio sonoro più unico che raro.

Da piccola avevi già mostrato inclinazioni per la musica, il teatro e l’arte in genere?
Ero una bambina molto piena di energia, curiosa, bilingue, sognatrice. Vivevo a Rimini nella zona del Grand Hotel, vicina ai dancing più in voga, sentivo le orchestre suonare fino a notte inoltrata. Durante le vacanze estive, che negli anni Settanta duravano sino al primo di ottobre, trascorrevo un paio di mesi in Austria, nella casa di mia nonna. Il gioco che preferivo era inventare personaggi e drammaturgie istantanee. C’era una veranda in stile liberty, con finiture di rame e antichi vetri soffiati, che dava sul giardino, nel retro della casa e sul lungofiume. Quello era il mio regno, lì costruivo scene a canovaccio, personaggi e storie che si evolvevano coinvolgendo nel gioco le mie cugine, amici e amiche, per me era un appuntamento magico. Nello stesso periodo scoprii in soffitta un baule appartenuto alla sorella di mia nonna, danzatrice fantasista che si esibiva nei cabaret e music hall europei negli anni Trenta e Quaranta. Dentro c’erano cappelliere e valigie con timbri di hotel di riviere lontane, da Vienna a Sarajevo passando dal Mar Nero e Salonicco, e i suoi vestiti di seta antica e paillettes con cui ci travestivamo per immergerci meglio nelle nostre avventure. Ero una sorta di regista, dramaturg prima attrice mentre il gruppo una proto compagnia in stile Camp surrealista. A Rimini, fin dalle elementari, studiavo pianoforte: gli esercizi mi annoiavano ma mi piaceva comporre canzoncine. Frequentavo danza classica con ardore ed entusiasmo ma a nove anni un feroce dolore quando la mia insegnante mi disse che dovevo smettere perché troppo cicciottella. Il primo strappo della realtà. Poi l’adolescenza tra body shaming e bullizzazioni, il liceo, l’impegno politico studentesco, la scoperta del teatro di ricerca legato al Festival di Santarcangelo, la scoperta del punk, gli Skiantos, Patti Smith a Bologna, lo Slego psychodancing, i Magazzini Criminali, le prove di “Wielopole, Wielopole” di Kantor a Firenze, sonorità prospettiche, Robert Ashley e Blue Gene Tyranny della Lovely Music, Frigidaire, “La Voce Del Padrone”, “O Superman” di Laurie Anderson, Fassbinder, Wim Wenders, Peter Handke, la mia prima compagnia il TIC Teatroincerca / Macchine Celibi, l’incontro con Akademia Ruchu, poi Yoshi Oida, il Roy Hart Theatre, Leo Toccafondi…

La passione per la musica, lo sport o altre discipline artistiche sbocciata ai tempi dei social network è differente rispetto a quella nata in epoca pre-web? La Rete partorisce artisti “veri” o, come asseriscono alcuni, solo un mare infinito di aspiranti tali?
Non so risponderti. Io sono una boomer per età anagrafica ma non mi permetto di giudicare perché ci sono esperienze che mi interessano, altre meno. Siamo qui, oggi. E dico siamo, al plurale, noi, tante individualità. In generale non sono attratta dalle classificazioni, lascio la loro visione agli analisti degli algoritmi e al marketing. Personalmente, quando qualcosa mi parla, lo riconosco, che arrivi dal web, che sia per strada, in teatro o altrove. Mi piace sorprendermi, la curiosità è fondamentale perché nutre l’intuizione e affina le antenne e io ho sempre attinto dalle mie antenne. Credo che l’essere umano, in quanto tale, sia sempre lo stesso di cento anni fa, con emozioni, paure, sofferenze, gioie. Il corpo, gli organi e il loro funzionamento restano i medesimi. Noi crediamo di essere presenze diverse ma i nostri organismi, in realtà, sono esattamente uguali a quelli dei nostri avi. A cambiare è il pensiero, lo sviluppo cognitivo e della percezione ma su una base di umanità, di caducità del nostro essere. La passione per l’arte e la creazione arriva sempre dal profondo.

1) Violet Eves
I Violet Eves in una vecchia foto

Nel 1984 incontri i Violet Eves e l’anno successivo debuttate con “Listen Over The Ocean” su Anemic Music. Come nacque la collaborazione con la band?
Nel 1984, poco prima dell’estate, entrai in contatto con vari musicisti della scena in Riviera. Avevo ventuno anni e dopo il liceo mi iscrissi alla facoltà di filosofia a Urbino ma invece di studiare per gli esami mi muovevo tra frequentazioni di Slego, Aleph e gruppi di proto raver tipo Sguinc Way. Come accennavo prima, ero stata attratta dalla scena teatrale che in Romagna aveva come epicentro il Festival di Santarcangelo, e fin dai tempi delle scuole mi ero lasciata coinvolgere da gruppi teatrali e workshop di teatro di ricerca che mi fecero scoprire la mia voce. Durante l’estate di quell’anno andavo agitando visioni nella nightclubbing che si stava creando inventandomi come performer e art director, dal Lady Godiva all’Insomnia Cattolica passando per Le Navi e il Lily Marlene di Misano Adriatico. Facevo tutto senza strutturarmi, semplicemente seguendo a mia creatività. In questo quadro partecipai ad alcune session musicali in maniera informale col compositore Giorgio Fabbri Casadei (apparso come chitarrista in “Fire Night Dance” di Peter Jacques Band, nda), già fondatore dei Rimini Beach Party e poi in gruppi come Ella Guru e Trio Magneto, il primo musicista col quale abbia cantato in vita mia. Successivamente, proprio con Giorgio e Leonardo Militi, formammo un nucleo sonoro dal nome temporaneo Merrie And The Melodies, ma era tutto molto basico e senza definizione. Tenni altre session con vari musicisti tra cui Gabriele Tommasini dei Violet Eves, una band di cui avevo sentito parlare ma che non conoscevo, e un amico che era in vacanza a Rimini, Decio Guardigli detto Groghi, coi quali incidemmo su cassetta “1/100”, un brano sospeso tra elettronica e ambient psichedelico. Per l’occasione creammo una proto band chiamata My Favourite Lie. Nel frattempo i Violet Eves, il gruppo in cui suonavano Gabriele e Leonardo, stavano rivedendo la propria lineup in cerca di nuove sinergie. Io, come dicevo, non li conoscevo ma ero incuriosita e mi invitarono a fare delle session insieme al batterista Franco Caforio e il chitarrista Renzo Serafini, anche lui lì per la prima volta. Era l’ottobre 1984 e quelle sessioni davano risultati molto concreti ed emozionanti, tra noi c’era un buon feeling e a dicembre completammo un demotape con cinque brani originali, “Listen Over The Ocean”, “F. M. Night”, “Bords De Mer”, “Lifeless Town” e “I Can’t Reach You”, tutti molto particolari e in varie lingue. Poiché non era stato ancora pubblicato nessun disco, decidemmo di continuare a usare il nome Violet Eves, considerando quel momento un nuovo inizio. A trasmettere per la prima volta quei pezzi fu il DJ Thomas Balsamini, in seguito fondatore del Velvet Club, su Radio San Marino, l’emittente della Riviera underground di quegli anni.

A quanto si narra, fu Piero Pelù a passare “Listen Over The Ocean” ad Alberto Pirelli che aveva da poco fondato la sua etichetta, l’IRA (acronimo di Immortal Records Alliance) e che decise di mettervi sotto contratto. Così nel 1985 vi ritrovate nella stessa scuderia dei Diaframma e Litfiba e incidete il primo album, “Incidental Glance”, distribuito da PolyGram. Come ricordi quel periodo?
Tramite Franco Fattori, DJ dello Slego e di Radio San Marino, la nostra demo arrivò nelle mani di Piero Pelù che a dicembre del 1984 si esibì proprio allo Slego coi Litfiba. Piero, a sua volta, fece ascoltare la demo a Pirelli che, intorno alla metà di gennaio del 1985, ci convocò a Firenze, in Via Del Castellaccio, la prima sede dell’IRA Records. Nella primavera 1985 nei negozi di dischi arrivò il nostro disco di debutto, “Listen Over The Ocean”, un EP contenente tre brani, “Listen Over The Ocean” sul lato a, “F. M. Night” e “Bords De Mer” sul b. Lo registrammo a Firenze, presso gli studi della mitica GAS (Global Art Studio) con Daniele Trambusti come ingegnere del suono. Pochi mesi dopo, a luglio, suonammo alla Rokkoteca Brighton a Settignano, grande emozione. Grande grande. Tutto quel momento è stato magico e irripetibile, spontaneità assoluta e tutta l’energia dei vent’anni, genialità della giovinezza ancora non mediata da mentalità di marketing. Fummo molto apprezzati, anche dalla stampa specializzata, e io parecchio elogiata, forse perché ero l’unica (o quasi) donna della scena underground. Per me fu un tratto distintivo alquanto forte nonché un’esperienza toccante. Si stava creando tutto in quegli anni, dai rock club ai festival. In estate registrammo “Incidental Glance” che uscì nell’inverno seguente. Suonammo moltissimo, anche all’estero tra Francia, Svizzera, Austria e Grecia: al Festival Biennale dei Giovani del Mediterraneo, alle Trans Musicales di Rennes, a Le Printemps di Burges e a Parigi. In particolar modo rammento il concerto a Les Bains Douches proprio nella capitale francese, nell’inverno 1985, un locale mitico in cui si esibirono qualche anno prima i Joy Division (tra l’altro registrando un live pubblicato ufficialmente molto tempo dopo). Il nostro suono nasceva sul crocevia tra new wave, dream pop e indie, fu un’esperienza decisamente interessante, un momento nuovo, l’inizio di una scena e per questo sono felice e orgogliosa di esserne parte.

“Incidental Glance” venne pubblicato anche in Giappone: ciò si tradusse in qualche sinergia o iniziativa con l’estremo oriente?
No, nulla. Fu una bella pubblicazione con grafica spaziale ma niente di più, seppur per noi una notizia sorprendente e in qualche modo gratificante.

2) I due album dei Violet Eves
Le copertine dei due album dei Violet Eves

Per incidere un secondo LP impiegate tre anni, arco di tempo impensabile per le dinamiche della discografia odierna. “Promenade” arriva dunque nel 1988 e la prima cosa che salta all’orecchio sono i testi in lingua italiana. Era una scelta dettata dal desiderio di abbracciare e conquistare un pubblico più trasversale e magari accattivarsi le simpatie delle emittenti radiofoniche?
Una scelta non scelta è sempre una scelta. In parte fu un desiderio artistico, in parte un po’ la spinta delle circostanze. Scrivevo già in inglese, francese e tedesco e mi parve giusto provare anche l’italiano, cercando una forma canzone che mi corrispondesse nella nostra lingua. Poi, dettaglio non certamente marginale, incidevamo per un’etichetta che aveva adottato come slogan “la nuova musica italiana cantata in italiano”. La scelta dell’italiano da un lato ci fece progredire, dall’altro ha segnato uno spartiacque nella produzione creativa. A produrre il disco fu Roberto Colombo che portò molta consapevolezza alla band, sia in fatto di organizzazione e struttura del lavoro artistico, sia in direzione di un nuovo approccio al lavoro. Registrammo “Promenade” in inglese e in italiano ma alla fine optammo per quest’ultima versione. Ricordo un impegno molto forte nella scrittura dei testi, inizialmente in inglese insieme a Anthony Charles Dewhurst, già collaboratore dei Baciamibartali. Poi tradussi tutto in italiano, con l’aiuto del paroliere Elio Aldrighetti detto Broz durante l’estate del 1987, in un torrido luglio segnato dai viaggi in treno Milano-Lambrate, senza telefoni cellulari per comunicare ritardi o cambi di bar dove incontrarsi, davvero un’altra dimensione. L’album prese vita attraverso numerose e intense fasi di pre-produzione e arrangiamento che misero la band di fronte a scelte sonore molto definite che, contestualmente all’adozione della lingua italiana, crearono uno squilibrio, un gap, tra il nostro grado di adesione alla musica italiana e l’approccio all’uso dell’italiano e alla composizione. “Promenade” uscì anche in Francia, prodotto del citato Colombo e con due ospiti preziosi quali Patrizio Fariselli e Mauro Pagani. Da quel momento in poi avremmo dovuto spingere forte e tenere duro anche senza certezze ma non riuscimmo a cementare la collaborazione. Comunque è bizzarro che proprio “Promenade” verrà ristampato a breve dalla veronese Saifam, etichetta che si occupa di ristampe d’autore, con la supervisione di Roberto Mancinelli, nostro fan da sempre e grande professionista nel settore musicale.

Sempre nel 1988, insieme ai Litfiba e ai Moda, i Violet Eves prendono parte a un tour che tocca anche il Tursport di Taranto, un posto che ha visto transitare band del calibro di Bauhaus, Simple Minds, Ultravox, Siouxsie & The Banshees, Cult, Style Council e New Order. A proposito di questi ultimi, Giuseppe Basile e Marcello Nitti scrivono in “’80, New Sound, New Wave”, che “The Beach”, incisa sul retro dell’arcinota “Blue Monday”, fu ispirata proprio da una spiaggia tarantina, il più bel ricordo della loro prima tournée italiana risalente al 1982. Ricordi qualcosa di quel luogo e del pubblico?
In quegli anni a Taranto c’era un scena molto forte dell’underground italiano, lì ci sentimmo amati e ricordo un Tursport gremito all’inverosimile. Aprimmo quel concerto così importante con un’intro strumentale, “Cartolina A Nicole”, per poi proseguire con “Big Goodbyes”, un brano lentissimo, una ballad proto trip hop, molto magica, quasi surreale direi. La serata si protrasse in festa con tutti i musicisti delle band e gli amici tarantini. Sebbene abbia dei ricordi nitidi, parliamo di un’epoca davvero lontana, un altro secolo… Sono tornata a Taranto recentemente, invitata a suonare proprio dai ragazzi che organizzarono il concerto dei Violet Eves allora, e ho ritrovato una bella situazione, molto emozionante.

Prima di sciogliervi però, coi citati Litfiba e Moda realizzate “Padam Padam”, cover dell’omonimo di Edith Piaf.
Per promuovere la tournée francese dei Litfiba coi Violet Eves in apertura, in programma tra febbraio e marzo 1989, nacque l’idea di un disco promozionale destinato espressamente al mercato francese, la cui realizzazione fu coordinata da Claude Guyot, co-fondatrice della IRA di base a Parigi. Fondamentalmente era un disco promo in edizione limitata, con la cover della Piaf sul lato a, rielaborata e cantata a tre voci da me, Piero Pelù e Andrea Chimenti, con arrangiamenti di Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo. Tutti e tre insieme, Andrea Chimenti, io e Piero Pelù, la cantammo dal vivo una volta sola, a Parigi nella serata IRA a La Cigale, nell’ottobre 1988. A fine concerto in chiusura “Padam Padam” tutte e tre le band insieme sul palco. Il teatro era stracolmo e sembrava dovessero venire giù i lampadari. La gente era strafelice. Grande emozione. La tournée in Francia del 1989 la affrontai da sola poiché la band era splittata proprio alla fine del 1988, proponendomi in versione unplugged voce e piano con Mauro Sabbione alle tastiere, aprendo tutti i concerti dei Litfiba, l’ultimo tour della formazione originaria con Maroccolo e Ringo e Giorgio Canali come fonico. Nei bis finali Piero mi chiamava sul palco e cantavamo “Padam Padam” come long suite a chiusura di serata. Tempi lontanissimi. Inabissati.

3) Nico lp
L’artwork del primo album da solista che Nicoletta Magalotti incide per la EMI nel 1992

La fine dell’avventura coi Violet Eves non ferma la tua vocazione artistica: nel 1989 presti la voce a una rivisitazione di “Estrellita” dei Panoramics, finita nell’album “Bugie Colorate” e poi remixata in chiave ballabile dai 3/5 dei futuri Planet Funk per la Flying Records, nel 1990 reinterpreti “Alba Chiara” di Vasco Rossi per una compilation della CGD, nel 1991 partecipi alla colonna sonora del film “L’Amico Arabo” di Carmine Fornari. Nel 1992 i tempi sono maturi per il tuo primo LP da solista, “Nicoletta Magalotti: Nico”, prodotto ancora da Pirelli, edito dalla EMI e contenente collaborazioni con Ghigo Renzulli (“Terra Elettrica”) e Teresa De Sio (“Amore Da Vendere”). Cosa voleva dire, ai tempi, avere il supporto di una multinazionale? Te lo chiedo perché, in un’intervista di qualche tempo fa, dichiarasti di essere «rimasta profondamente bruciata dal sistema».
Sì è vero, “Estrelllita”… beh ai tempi l’ho fatto mossa da amicizia. Mi sembrava un bel brano! Eh sì, il primo periodo dopo lo lo scioglimento dei Violet Eves… uno dei più neri del mio percorso. Ho imparato tanto. In quel preciso momento anche le etichette indipendenti, compresa la IRA, si stavano muovendo verso le major e io sono capitata in mezzo a un ingranaggio che non mi corrispondeva, con problematiche legate sia alla produzione musicale in senso stretto (non piaceva ciò che componevo), sia al body shaming, parecchio aggressivo e radicato nel settore. Così, dopo alcune fatiche discografiche, mi sono ritrovata senza contratto, senza un nuovo progetto chiaro. Bruciata. Ed è in questa fase che la mia strada incontra da un lato la collaborazione con il teatro della Societas Raffaello Sanzio per il progetto “Orestea (Una Commedia Organica?)” e, in parallelo, la collaborazione con il Cocoricò dove ho potuto creare ed elaborare un personalissimo percorso artistico parallelo, nella “sparizione”, abbracciando una dimensione laterale sotterranea, per giungere dove sono adesso.

Nel 1994 parte l’avventura del Morphine, «un piccolo spazio slegato dalla necessità di far ballare e, di conseguenza, fondato sulla frequentazione prevalente di gente del tutto diversa rispetto a quella delle due sale principali del Cocoricò» come descriveva qualche anno fa David “Love” Calò in questa intervista. Un eremo scollegato quindi dal classico concetto di discoteca, la bambola più piccola di un’ideale matrioska rappresentata dal tempio del divertimentificio di Viale Chieti. Come e cosa ricordi di quel posto e come lo descriveresti a coloro che non hanno mai messo piede?
Un gesto plastico tutta la notte. Un po’ underground cave anni Ottanta, un po’ Twin Peaks e un po’ factory di Andy Warhol, passato e futuro mescolati, glamour e rock n roll. Un posto da creare e ricreare ogni volta. Nascosta dal mondo, esistendo, creando uno spazio in movimento, dove ho sperimentato suono e voce, visioni, senza necessità di riflettori. Ricordo anche molto lavoro fatto di giorno per allestire il dispositivo “scenico” da condividere la sera con passanti passeggeri.

4) Nico e David
Nicoletta Magalotti e David “Love” Calò ai tempi del Morphine

Dal Morphine sono passati personaggi di multipla estrazione artistica, da Roberto Cacciapaglia a Manlio Sgalambro, da Arto Lindsay a Enrico Ghezzi, da Piero Pelù a Faust’O passando per Blaine Reininger dei Tuxedomoon, Barbara Alberti, Howie B e Aphex Twin. Ritieni che oggi ci siano ancora gli estremi per ricreare quel concept oppure il luogo legato al disimpegno, come la discoteca e nella fattispecie il Cocoricò stesso, è finito con l’essere cannibalizzato dalla globalizzazione e dal generalismo meno illuminato?
Mi fa piacere che il Morphine venga ricordato e riconosciuto come un luogo speciale, personalmente lo considero un’estensione della mia produzione artistica, una sorta di opera in divenire. Per me fu parecchio faticoso lavorare alla programmazione e ciò che descrivi in queste righe fu particolarmente arduo crearlo in quegli anni, non era affatto scontato come si potrebbe credere. Poi, nel tempo, ha assunto forza, diventando un punto di riferimento. Ricordo le varie telefonate per invitare gli ospiti, non era semplice rintracciare i contatti come del resto non era impresa facile portare in un locale notturno artisti che solitamente si esibivano nei teatri o in luoghi deputati. Rammento con affetto la prima volta che chiamai Manlio Sgalambro, la telefonata a Laura Betti e a Roberto Cacciapaglia o, ancora, la conversazione con la Materiali Sonori per organizzare la mitica serata con Roger Eno o la telefonata con Mister Cohen a New York, manager di Arto Lindsay… poi Mixmaster Morris e altri ancora. Se da un lato fu complesso mettere insieme una programmazione di quel tipo, dall’altro fu altrettanto difficile convincere l’azienda. Ciò che oggi viene narrato come frutto di un tempo più aperto al nuovo fu creato grazie a grande determinazione, abnegazione e dedizione al fare con immenso lavorio dietro le quinte, a tutti i livelli. Concordo con quanto affermi, purtroppo oggi tutto è stato cannibalizzato e sminuito ma ciò vale non solo per l’ambiente discoteca. Le esperienze e le creazioni interessanti sono fatte dalle persone e dalle circostanze, talvolta del tutto casuali. Sinergie che accadono e quindi possono ripetersi nuovamente in futuro. Perciò sono e resto fiduciosa.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente pensando al Morphine o che pensi siano i più appropriati per descrivere quel luogo?
Credo che ognuno abbia il suo “film” con la soundtrack originale, ed è davvero impossibile restringere a soli tre brani il sound del Morphine. Ho parecchie ore di volo con la musica di David “Love” Calò nonché una traiettoria di ascolti e sguardo esperienziale molto personale. Quindi, per rispondere alla domanda, cito i primi tre che mi vengono in mente:
“Kiss Me” dei Don Air, dall’album “Carpenter’s Delight” del 1999, che utilizzo ancora nei miei set come citazione sonica e ironica di un tempo cristallizzato;
“The Needle And The Damage Done” di Neil Young, tratto da “Harvest” del 1972, un album di un altro tempo e senza tempo. Un brano che David “Love” Calò ha passato forse una sola volta in tutta la storia del Morphine. Ricorderò sempre la sua faccia mentre poggiò sopra la puntina dopo una serie di pezzi di ambient cosmica e psichedelica. Mi guardò e disse, con caustica ironia: «il danno è fatto!»;
“Cavern” dei Liquid Liquid, dall’EP “Optimo” del 1983, con quel basso così trascinante. Un brano che ho ascoltato a ripetizione durante la mia esperienza clubbing che unisce le prime serate all’Aleph nei primi anni Ottanta con le notti al Morphine e che, a distanza ormai di quarant’anni, conserva immutato un forte appeal.

5) Al Morphine nel 2006
NicoNote al Morphine nel 2006

Per decenni il Duemila è stato designato dalla narrativa letteraria, dai fumetti e dal cinema, come la porta che avrebbe spalancato il futuro all’umanità. Per certi versi così è stato, se si pensa ad esempio alla massificazione del web, alla diffusione capillare degli smartphone o allo sviluppo dell’e-commerce, tuttavia in alcuni ambiti, come quello della musica, il futuro è progressivamente sparito lasciando spazio a un numero indefinito di surrogati derivativi e un mare magnum di ripescaggi. Il passato ha preso il posto del futuro, inghiottito da una sorta di macchina del tempo. Come mai è accaduto ciò? È corretto sostenere quindi che il futuro fosse ieri?
Il futuro si crea nel presente. Respiriamo profondamente, qui, ora.

Internet ha stravolto le regole del gioco in numerosissimi campi, incluso quello della musica, riducendo quasi a zero gli introiti derivati dalla vendita della stessa e smaterializzando i supporti fisici, rimasti in vita perlopiù alla stregua di feticci e simboli di resistenza contro l’inesorabile digitalizzazione. Tutto questo ha mutato anche la percezione nei confronti della musica stessa, minando le certezze della vecchia discografia, sia mainstream che underground. Se la prima però tenta di arginare i danni cavalcando capitalisticamente le nuove tipologie di fruizione, la seconda pare annaspare in un oceano con ben poche vie di salvezza. Tantissime etichette hanno chiuso battenti o ridotto drasticamente le proprie pubblicazioni, in assenza di un numero sufficiente di acquirenti. Il web, dunque, sta uccidendo l’underground, la vera vittima dei cambiamenti epocali post millennio?
Forse hai ragione eppure, nonostante le difficoltà, ci sono ancora editori ed etichette che creano, producono e agiscono. Penso a Rizosfera, New Interplanetary Melodies o Mille Plateaux… ma non solo. Credo sia necessario ribaltare la prospettiva. La necessità di fare sperimentazione è stata sempre importante per me e probabilmente lo sarà anche in futuro. Con la predisposizione underground non si può pensare ai “numeri” con voracità. Un ridimensionamento drastico sulle aspettative del mercato è un atteggiamento che esorto, ritrovare l’unicità come valore è ancora una prerogativa dell’underground. Credo che quello che viviamo sia un periodo in cui si debbano inventare nuove formule, nuovi formati e nuovi valori. Ciò che più mi affascina è che, come nelle novelle distopiche, assistiamo a una sorta di resistenza all’algoritmo e osserviamo questo fenomeno nei più giovani. Una resistenza estetica da parte di chi vuole una forma identitaria molto personale che non si confronta necessariamente col mezzo dei portali digitali ma cerca altri formati. Assistiamo alla rivalutazione della musica nella sua accezione di opera e non solo come prodotto ma proprio come oggetto artistico. La grande esplosione del vinile, il libro, la cassetta, la pennetta USB personalizzata, lo streaming su siti dedicati e privati, insomma un intreccio di formati dove ognuno di essi viene scelto e impreziosito, non dai numeri degli ascolti ma dalla qualità dell’opera. Non tutto il mio repertorio è stato riversato sul web, ultimamente lavoro molto nella direzione delle copie numerate con modulazioni di formati, dal vinile al libro, da USB al CD fino allo streaming illimitato. Un’ibridazione di formati insomma, un concetto che mi interessa sviluppare, del resto sperimentare è una caratteristica intrinseca dell’underground. Le piattaforme vanno riformulate, sono ancora molto bidimensionali, potrebbero creare contenuti o distribuirli come gesti artistici. Spesso ho immaginato di poter sperimentare in questo senso, sarebbe una vera nuova opportunità. Proviamo a immaginare tutte le metapossibilità che i mezzi dello spazio digitale ci offre: si potranno sperimentare portali con allargamento dello spazio acustico? Rilanciare e aprire qualcosa di più articolato e meta-sinestetico? C’è ancora molto margine per sperimentare, specialmente in un territorio come quello del do it yourself, in tutte le sue caleidoscopiche forme, senza steccati. Lo affermo come auspicio e attitudine underground e colgo l’occasione per lanciare qualche suggestione di possibile traiettoria: rifondare, aiutare, riattivare, promuovere, sostenere, divertirsi, sentire la vitalità della scena, vivere lo spettacolo dal vivo a 360 gradi.

Un discorso analogo si può fare relativamente alle riviste musicali, falcidiate anno dopo anno dai bit digitali. Sono in poche a resistere in area rock e post rock, forse nessuna tra quelle devote a elettronica e dintorni. Perché il nostro Paese è così povero di letteratura specializzata su house/techno e derivati? Perché non esiste un nutrito gruppo di scrittori e critici dediti esclusivamente alla musica da ballo, pari a quello del rock o del jazz? Forse la dance è stata oggetto di una sorta di ghettizzazione, la stessa che fece storcere il naso ai musicisti, giornalisti (fortunatamente con qualche eccezione, su tutte Dino D’Arcangelo, a cui tu e Pierfrancesco Pacoda avete dedicato un recente volume) e accademici sin dai primi anni Ottanta?
Sì, sono d’accordo, di fondo sussiste una diffidenza culturale nei confronti della dance elettronica e tutto il clubbing più in generale, per tanti motivi storici ma forse anche perché la linea di demarcazione tra i generi è fortissima. C’è sempre una specie di polarizzazione schematizzante, rock o jazz, indie o cantautorato, pop o elettronica. Inoltre la “piattaformizzazione” della musica cavalca la frammentazione per generi sui portali e questo va proprio a forzare ed esacerbare tale aspetto. Recentemente però avverto una maggiore apertura tra gli addetti ai lavori, tuttavia rimane ancora evidente la separazione tra linguaggi. Personalmente mi sono sempre mossa ibridando i generi nelle macro aree di musica, teatro, performance, clubbing e installazione. Mi sono permessa di fare contemporaneamente pop e ricerca, dance e sperimentazione sulla voce, senza attendere che i tempi fossero maturi. Scegliere la sperimentazione ha il suo prezzo da pagare. Per quanto riguarda Dino D’Arcangelo, grazie per averne fatto menzione, per me “Tenera È La Notte” è stato come chiudere un cerchio. Ho raccolto, insieme a Pacoda, gli articoli del giornalista pugliese contenuti nella rubrica omonima destinata a La Repubblica, la prima che si sia mai occupata di clubbing sulla stampa generalista in Italia per raccontare una scena che per molto tempo è stata fonte di creatività e sopravvivenza.

6) NicoNote Live ph. Chiara Maretti
Nicoletta Magalotti immortalata da Chiara Maretti durante una performance

I primi anni Duemila ti vedono attiva come Slick Station, Dippy Site (insieme ai M.A.S. Collective) e col compianto Stefano Greppi coi quali realizzi, rispettivamente, “Cosmic”, “Panorama Astratto (Softly Changing)” e “Living In A Video”. Nello stesso periodo con Andrea Felli e il sopraccitato Calò dai vita al collettivo AND tirando fuori un album per la Kom-Fut Manifesto, “Fashion Victims”. Le collaborazioni rappresentano ancora occasioni di arricchimento e scambio oppure si stanno trasformando in formule studiate a tavolino finalizzate alla capitalizzazione di fanbase?
La musica è un gioco d’insieme e le collaborazioni sono fondamentali. Nel dialogo puoi crescere o anche fermarti. Io faccio solo ciò che mi interessa e non ho mai pensato in termini di marketing o per compiacere ai fan. Se ciò avviene ovviamente mi fa piacere e torna molto utile ma non è la ragione che mi muove. A guidarmi e segnalarmi il cammino piuttosto è la motivazione, la vera bussola per individuare la giusta cifra e la temperatura di ogni collaborazione. Curiosità: i progetti citati risalgono a un periodo in cui mi divertivo a coniare di volta in volta nuovi moniker per far perdere le mie tracce. Qualche tempo dopo con Giovanni ‘Limo’ Limongelli, oltre a Slick Station, feci anche “Party Girl” per la Recycle Limited, che includeva i remix di Dapayk, Guido Nemola e Dachshund.

In questa intervista a cura di Domenico Magnelli e pubblicata da Polpetta Mag il 23 gennaio 2021, parlavi di quel periodo come «momento giusto per ridisegnare e riformulare nuove possibilità, continuare a fare ricerca […], riprendere il calore della fidelizzazione del proprio pubblico, ritornare a essere laboratorio di idee». Lo stop pandemico ha generato miriadi di riflessioni, elucubrazioni e buoni propositi ma, a detta di tanti, rimasti incastrati nella fantasia utopica di quel particolare momento storico. Credi che la club culture nostrana (o ciò che resta di essa) abbia tratto qualche valido insegnamento dalla pandemia?
Personalmente in questa fase sono attratta dall’idea di post clubbing, un universo transculturale che riesce a legare argomenti distanti tra loro, dentro e fuori il mondo accademico, dal mondo pop e da quello politico. Pratiche reali che affondano radici in esperienze visionarie, legate agli spazi, al suono e alla performatività, in forma ibrida. Penso dunque a pubblicazioni, eventi e gesti artistici supportati da editori, label, festival di musica o teatro e a nuovi formati partecipativi. Un esempio può essere la mia Limbo Session, collocabile in una pratica post clubbing dove l’evocazione della dancefloor si ibrida con la ricerca vocale, la letteratura, lo spazio e il clima di insieme. Mi sembra tra l’altro ci siano al momento molti artisti che hanno assorbito la lezione del clubbing come radice di una nuova pratica artistica.

Rispetto agli anni Ottanta e Novanta, il numero delle DJ donne è cresciuto esponenzialmente e questo è un gran bene perché, pare, stia riducendo il maschilismo che da tempo immemore affligge il settore. Non posso fare a meno però di constatare come tantissime puntino, parimenti ai colleghi uomini, sia ben chiaro, a doti che poco hanno da spartire con la musica, più legate piuttosto alle movenze e agli approcci degli influencer. I risultati sono sotto gli occhi di tutti sui social, dove i commenti sessisti piovono senza soluzione di continuità. Come ti poni rispetto a questa deriva di performance consumistiche legate a doppio filo alla “divizzazione” del personaggio? È forse un’occasione sprecata nonché appiglio per coloro che continuano a vedere la donna poco compatibile con certi ruoli?
È vero, adesso si vedono molte più donne nelle lineup dei festival ma questo, purtroppo, è spesso dovuto soprattutto all’introduzione delle quote rosa richieste per avere accesso ai finanziamenti europei. La situazione sarà davvero cambiata quando non ci sarà più bisogno di scegliere donne in consolle per soddisfare le quote rosa. Nella mia storia, comunque, sono sempre stata una outsider, donna e anche fuori formato. Adesso c’è una maggiore attenzione ai temi del body shaming e all’opera si vedono molte artiste, ma è stato faticoso arrivare fino a qui. Paradossalmente proprio il fatto di essere un’artista outsider mi ha dato la forza di proseguire e continuare la ricerca della mia unicità.

7) NicoNote foto by Ali Bedoin per lo shooting di Chaos Variations
NicoNote in in suggestivo scatto di Alì Beidoun in occasione dello shooting di “Chaos Variation V”

Nel corso dell’ultimo decennio hai pubblicato due album, “Alphabe Dream” del 2013 ed “Emotional Cabaret” del 2017, a cui si sono aggiunti, tra le altre cose, “Chaos Variation V” e “Limbo Session 1” rispettivamente firmati con Obsolete Capitalism e Wang Inc., e “Orizzonti Perfetti”, traccia destinata al secondo volume di “Kimera Mendax”, progetto di cui parliamo qui. Stai lavorando a nuove produzioni al momento?
Proprio nel 2023, dopo “Canzone Istantanea” finita nel primo volume della collana Le Crisalidi a sostegno del progetto della Lady Day Records contro la violenza di genere, è stata la volta di “Paradiso Inconsapevole”, un brano scritto insieme a DJ Rocca (intervistato qui, nda) e Chris Coco e pubblicato sull’etichetta di quest’ultimo, la britannica DSPPR. Ai titoli sopramenzionati aggiungerei “Samples”, un album autoprodotto nel 1999 e limitato a copie numerate, “Deja V.” del 2018, un album “segreto” che raccoglie le mie interpretazioni dei pezzi dei Violet Eves con la produzione di Renzo Serafini e gli arrangiamenti di Toni Canto, e alcuni featuring con artisti elettronici come Polychron + e Club Paradiso, una collaborazione sui backvocal per il duo islandese Klemens / Hanningan, prodotto da Howie B in uscita su Massive 92 Records, e l’intensa collaborazione sul progetto Donnacirco. Al momento sto lavorando a un concept album, in divenire, un rework di “Regola”, una suite ispirata a Hildegard von Bingen partita da una performance del 2003 ripresa e riportata in scena durante gli anni pandemici. Mi sto occupando della produzione artistica di nuovo materiale sonoro insieme al sound designer Demetrio Cecchitelli e al produttore Dani Marzi: l’album uscirà nel 2024 sulla New Interplanetary Melodies, etichetta di Simona Faraone (intervistata qui, nda) con la quale collaboro da alcuni anni. Una volta ultimate le registrazioni vorrei focalizzarmi sulla performance. Al di là delle pubblicazioni infatti, amo curare il suono condiviso direttamente col pubblico. Negli anni ho creato diversi lavori di drammaturgia sonora portati solo nella dimensione live come “Porpora”, “Fever 103°”, “Drinnen”, “Rhapsody” e altri.

Per quanto riguarda invece il teatro e la curatela, quali saranno i tuoi obiettivi nel 2023?
È in nuce una performance-storytelling dedicata allo scrittore Thomas Bernhard, insieme al saggista Luca Scarlini col quale ho sviluppato un dialogo ormai ventennale creando progetti in bilico tra suono e letteratura, dal barocco al gotico, da Satie a Ingeborg Bachmann. La serata dedicata allo scrittore austriaco verrà presentata al Festival Intermittenze a Riva Del Garda a settembre. Sul versante curatela invece, ho portato a varie istituzioni progetti che riprendono gli eventi destinati ai musei raccolti nel concept Effetto Doppler, sono in attesa di risposte. Nel frattempo proseguo con Syntonic, il mio appuntamento mensile su Radio Raheem, libero, ibrido e sempre differente, e vado avanti con grande entusiasmo nell’attività didattica sulla vocalità attraverso le mie lezioni a Bologna presso Lo Studio Spaziale.

In questa intervista abbiamo parlato di passato, di presente e di futuro. Quali sono i tre brani che evocano in te emozioni legate a ognuno di tali tempi?
Passato: “I Talk To The Wind” dei King Crimson, un pezzo surreale tratto da un album diventato un’icona. Coi Violet Eves ne facemmo una versione molto intensa che oggi ricordo con grande empatia. Inoltre il testo è speciale, racchiude saggezza e leggerezza. In occasione del mio cinquantesimo compleanno postai la song abbinata all’hashtag “canzone del giorno” e Claudio Coccoluto mi rispose immediatamente: «ottima scelta, auguri». Lo tengo nel cuore, il passato.
Presente: penso ad Alva Noto, la sua ricerca e le sue traiettorie tra ritmo e ambient sono segno della contemporaneità. A tal proposito segnalo una traccia che uscirà a maggio, “Die Untergründigen”, realizzata per uno spettacolo teatrale. Atmosfera, spazio, clima, elettronica raffinatissima ma non aulica. Eccolo il presente.
Futuro: lo desidero nell’aria, voluttuoso, leggero e soave, pieno di ardore e contemplazione. Propongo “Le Canzonette D’Amore” di Monteverdi, forme sonore fuori dal tempo. Arie leggiadre, astratte, angelicate, un auspicio alla bellezza.

(Giosuè Impellizzeri)

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Dieci brani del repertorio di Claudio Coccoluto che forse non conosci

Life

Life – For What Is It To Love? (1987)
Life era una band di Formia innamorata di gruppi come Talk Talk, Spandau Ballet o Duran Duran. Nati da un’idea del batterista Stefano De Blasio, il bassista Roberto Vellucci e il cantante Alessandro Lucci, arrivano a Coccoluto, ancora residente a Gaeta, attraverso amici comuni. «Dopo aver ascoltato i nostri pezzi si propose per elaborarne delle parti in un modo diverso dal solito» racconta qui De Blasio. «La prima cosa nostra su cui mise le mani fu “Secret Memories”, pubblicato nel 1986 e incluso nella compilation “Live At The Blue Angel”. Il ricordo del suo magistrale lavoro col campionatore (un E-mu Emulator II acquistato nel 1984 per ben 17.000 dollari, nda) su voci e cori è ancora nitido nonostante siano trascorsi oltre trentacinque anni». Dopo “Secret Memories” tocca dunque a “For What Is It To Love?” di stampo new wave/new romantic, pubblicato dalla Blue Angel Records nel 1987 e per cui Coccoluto, menzionato nei crediti come Cocco Dance, effettua il lavoro di remix ed editing, ruoli ai tempi affidati ai DJ col fine di ravvivare le parti ritmiche e rendere il risultato più ballabile e adatto alle esigenze in discoteca. In tal senso è indicativo ascoltare l’Extended Version e la Dub Version le cui stesure sono ricche di misure che facilitano il mix in entrata e uscita, oltre a break conditi con scratch che accentuano l’idea di movimento. Gesti istintivi e primordiali di un DJ produttore dalla creatività spontanea. A oggi rimane la produzione più datata accreditata all’artista gaetano.

Jinny

Jinny – Never Give Up (Hype Remix) (1992)
Partito in sordina nel 1990 con “I Need Your Love” ma esploso (all’estero) l’anno dopo con “Keep Warm” come raccontato qui, Jinny è uno dei tanti studio project che animano le pubblicazioni dell’Italian Style Production di cui parliamo dettagliatamente in questa monografia. Nel ’92, proprio con “Never Give Up”, il marchio trasloca sulla label principale del gruppo guidato da Giacomo Maiolini, Time, oggetto di un rebranding e di una rinumerazione del catalogo. Cantato da Debbie French, il brano è scritto e prodotto da Walter Cremonini, Alex Gilardi e Claudio Varola, prossimi al successo internazionale con “Open Your Mind” di U.S.U.R.A., e si inserisce nel filone della post spaghetti house. Uno dei remix solcati su un secondo disco giunto a poca distanza dal primo è quello di Coccoluto, introdotto a Maiolini dall’amico Fabietto Carniel del Disco Inn di Modena che, contattato per l’occasione, rammenta di aver parlato col boss della Time al telefono: «ci bastavano appena due minuti per trovare un accordo». Coccoluto smonta l’apparato originario e isola frammenti delle parti vocali per utilizzarle alla stregua di inserti ritmici e poi lanciarsi in una sovrapposizione tra il prog britannico, l’italo nostrana (con qualche occhiata agli arrangiamenti di “Everybody Everybody” dei Black Box) ed echi funkeggianti, una commistione in cui predominano comunque suoni brillanti e luminosi. Il titolo della versione è Hype Remix, probabile tributo all’Hipe Club di Caserta dove Coccoluto si esibisce spesso ai tempi. «Claudio venne in studio da noi, a Brescia, per realizzare quel remix» ricorda qualche anno fa Alex Gilardi. «Anziché adoperare la Roland TR-909, usata praticamente da tutti, decise di costruire il groove con la sua drum machine che portò appositamente, una E-mu SP-12 Turbo». Il 12″, che annovera una seconda versione del britannico Philip Kelsey alias PKA, è facilmente reperibile sul mercato dell’usato per pochi euro ma curiosamente qualcuno, il 7 dicembre 2022, ha speso 113 € per accaparrarsene uno su Discogs. La collaborazione con la Time non si esaurisce con Jinny: dopo aver mixato la compilation “Atmosphera – Best Of Garage”, Coccoluto realizza il remix per “Been A Long Time” di The Fog (di cui parliamo qui), preso in licenza dalla Miami Soul e finito su etichetta Downtown. Seguirà, nel 1998, un altro remix, quello per “Another Star” di Coimbra, pezzo nato nel solco del successo internazionale di “Belo Horizonti”.

Jamie Dee

Jamie Dee – Get Ready (Coco Deep Dub) (1993)
La romana Marina Restuccia alias Jamie Dee, figlia del noto batterista Enzo, viene introdotta alla Flying Records nel ’91 da Paul Micioni, come ricorda Angelo Tardio, co-fondatore del gruppo discografico campano. Il brano di debutto è “Burnin’ Up” prodotto da Roberto Ferrante, lo stesso che si occupa di “Memories Memories” insieme ai cugini Frank e Max Minoia, reduci dallo strepitoso successo ottenuto con Joy Salinas di cui parliamo qui. Dopo “Two Time Baby”, con cui il team di produzione prende le misure di un nuovo segmento stilistico più votato all’eurodance, arriva “Get Ready” che cerca apertamente il successo mainstream. Sul lato b del disco trova spazio la Coco Deep Dub, rivisitazione che mette da parte gli istinti pop a vantaggio di soluzioni che, nella parte centrale, sfiorano formule garage. In rilievo l’elaborazione di alcuni vocalizzi che citano, in modo neanche troppo velato, una club hit di qualche tempo prima, “Deep Inside (Of You)” di Shafty, pubblicata dalla Heartbeat a cui abbiamo dedicato qui un’accurata monografia. Tra pianoforti segati col campionatore, tappeti atmosferici e brevi accenni di sax, scelti forse per creare una connessione con “Angels Of Love” di Cocodance di cui parliamo qui, Coccoluto trasforma letteralmente il brano di partenza dotandolo di uno sfondo illuminato da folgorazioni, ora incandescenti, poi fredde, e rendendolo appetibile per le piste “che adorano l’underground”, una dimensione agli antipodi per il prosieguo artistico di Jamie Dee che prima passa alla X-Energy Records e poi imbocca definitivamente la strada del pop come Marina Rei.

Alma Latina

Alma Latina – To Get Up (1994)
Negli anni Novanta i DJ si sbizzarriscono nel creare musica e siglarla di volta in volta con alter ego diversi. Ciò avviene per evitare di inflazionarsi a causa della prolificità, per marchiare itinerari stilistici differenti ma anche per svincolarsi da eventuali esclusive discografiche. In questo caso Coccoluto è alle prese con un pezzo costellato da riferimenti latini, frammenti di fiati, percussioni, scampoli vocali: Alma Latina pare davvero lo pseudonimo più pertinente e adatto. Nella Cocodeepdub, lunga circa dieci minuti, il DJ centrifuga l’infinita passione per il vibe caraibico intrecciandolo a tessiture house, alla base dell’elaborazione del suo linguaggio stilistico. Con l’aiuto dell’amico Dino Lenny nelle vesti di ingegnere del suono, il calore della musica brasiliana si scontra con la (presunta) freddezza del sound pilotato dal sequencer e generato dalle batterie elettroniche. Sul lato b “To Get Up” si ripresenta nella Hard Mix a cura di Paolo Martini, affiancato per l’occasione da Ricky Birickyno e Christian Hornbostel che si occupa delle percussioni: il risultato ha un sapore più britannico che brasiliano, con volteggi centrali in aree progressive attraverso patch sinuose e accattivanti. Spazio infine alla Dub Mix di Savino Martinez che si lancia a capofitto in un tool ricolmo di strappi sampledelici a incorniciare una stesura fatta di efficaci start e stop, speziati ovviamente col solito vibe percussivo, autentico marchio di fabbrica per tanti brani usciti dall’HWW Studio di Cassino. «Si trattò dell’ennesimo pezzo nato dalla fusione di generi e colorito dalla spasmodica ricerca dei sample» racconta oggi Martinez. «La nostra vocazione per suoni diversi dalla house classica che funzionava per la maggiore in Italia in quel periodo probabilmente giocò un po’ a svantaggio, tante cose non vennero capite e passarono inosservate, proprio come avvenne ad Alma Latina». A pubblicare il disco è la Looking Forward, tentacolo house della LED Records di Luigi Stanga che ha provveduto a diffonderlo in formato digitale nel 2008.

Sunhouse

Sunhouse – The True Adventure Of Sunhouse (1995)
Creato sull’asse Italia-Gran Bretagna, Sunhouse è il progetto messo in piedi da Claudio Coccoluto e il collega d’oltremanica Ashley Beedle, ai tempi tra le menti dei Black Science Orchestra ed X-Press 2 su Junior Boy’s Own. Ad aprire le danze è “The First Adventure”, pezzo dal titolo chiarificatore che snocciola il consueto vibe percussivo, tra i trademark coccolutiani, abbinato a un hook vocale d’antan di Chuck Roberts che funge da articolazione per segmenti melodici. Derivata dalla stessa idea è “The CocoDub Adventure” in cui le atmosfere si incupiscono puntando a una maggiore dose di ipnotismo ottenuto attraverso la ripetizione ossessiva del “jack your body” di chicagoana memoria. Pubblicato dalla Nite Stuff fondata da Maurizio Clemente e Massimo Maga, che in catalogo aveva già dischi di Jovonn, Mike Dunn e Ralphi Rosario, “The True Adventure Of Sunhouse” resta l’unico episodio con cui Coccoluto e Beedle cooperano nello stesso studio, coadiuvati dai “soliti” Lenny e Martinez. Quest’ultimo aggiunge a tal proposito: «ricordo con piacere quei due/tre giorni trascorsi nel nostro studio con Ashley, il disco rappresenta perfettamente il risultato finale di un lavoro corale».

Dana Dawson

Dana Dawson – 3 Is Family (The Wedding Remix) (1995)
Nell’ambiente discografico sin da adolescente, Dana Dawson conosce l’apice della popolarità nell’estate del 1995 grazie a un fortunato remix firmato Dancing Divaz. Come descritto qui, il pezzo viene velocizzato e trascinato su una base disco house impostata su un ammaliante giro di pianoforte che pare citare “Drive My Car” dei Beatles e che forse ispira “Gimme Fantasy” dei Red Zone da cui nel 2002 Gianni Coletti trae il suo più grande successo. Entrato nel mainstream, “3 Is Family” rivive in una versione che devia per lidi diversi, il Wedding Remix di Coccoluto che, affiancato dal fido Martinez, ricostruisce nell’HWW Studio il brano della compianta cantante statunitense, sovrapponendo le felici pianate a un beat più serrato che nella parte centrale si increspa e ingloba armonie severe affogate in un mood dal gusto tipicamente britannico. Tranciata da più break e piroette di campionamenti di “We Are Family” delle Sister Sledge che giocano con l’assonanza fonetica del titolo, la versione riprende brio nella parte finale in cui riaffiora il pianoforte in una salsa più energetica ma non disperdendo la visione serena e gioiosa del pezzo originale. Il tutto pubblicato su un doppio mix prodotto dal DMC per la serie Remix Culture, volume 151, che annovera, tra gli altri, le rivisitazioni di due brani partiti dall’Italia, “Think Of You” di Whigfield e “Boom Boom Boom” degli Outhere Brothers.

Visions

Visions – Coming Home (Claudio Coccoluto Vocal Mix) (1996)
Appartenente a una serie di brani scritti a Detroit da Anthony Shakir e prodotti da Juan Atkins, poi rilevati da Angelo Tardio per la Flying Records che ne deteneva i diritti di esclusiva nel mondo a eccezione degli Stati Uniti, “Coming Home” viene pubblicato inizialmente nel 1993, per l’appunto su Flying Records. «Claudio se ne innamorò letteralmente e iniziò a suonarlo in modo sistematico nei suoi set» rammenta oggi Tardio. «Col passare del tempo crebbe in lui la voglia di personalizzarlo e quindi realizzare un remix, cosa che effettivamente avvenne, e fui io stesso a fornirgli i sample». Nel 1996 il remix in questione finisce nel catalogo della Stress fondata da Dave Seaman che aveva interpellato il DJ laziale già l’anno prima affidandogli una versione di “Turn Me Out” di Kathy Brown. La Vocal Mix di Coccoluto tutela, come suggerisce il titolo stesso, la voce di Dianne Lynn, riposizionata su un tappeto su cui collimano fraseggi jazz e tipiche modulazioni deep stemperate nell’oscurità. Il DJ realizza anche una seconda versione quasi interamente strumentale e intitolata Claudio Coccoluto Dub, forgiata su spunti ritmici tribaleggianti sui quali si innesta un’impalcatura di tanto in tanto sferzata da deviazioni funky. Dieci minuti al galoppo in cui si sentono distintamente le influenze del nostro ma che, per qualche ragione, la Stress decide di relegare al solo formato promozionale e a un triplo mix in edizione limitata destinato ai collezionisti. Il 20 agosto del 2021, a pochi giorni da quello che sarebbe stato il 59esimo genetliaco dell’artista, esce un remake di “Coming Home” intitolato “Visions (A Tribute To Claudio Coccoluto)”: a realizzarlo è il suo amico Gianni Bini.

Sesso Matto

Sesso Matto – Sessomatto (Do You Think I’m In Sexy Mix) (1997)
A scrivere il brano originale è Armando Trovajoli per il film del 1973 “Sessomatto” diretto da Dino Risi. Tre anni più tardi sul mercato arriva una versione riadattata per le discoteche da Jimmy Stuard, astro nascente del DJing newyorkese (per approfondire rimandiamo a questo articolo di Max De Giovanni) morto giovanissimo in circostanze tragiche dopo un incendio. Oltre a passare alla storia per essere stato il primo a essere pubblicato dalla West End Records di Mel Cheren, tra i finanziatori del Paradise Garage, il disco diventa un must per i DJ hip hop che si cimentano con la tecnica dello scratch grazie ai fantasismi ritmici inseriti da Stuard, incluse parti in reverse. Circa un ventennio più tardi l’etichetta milanese Right Tempo, fondata da Rocco Pandiani che riscopre in assoluto anticipo i tesori della musica italiana destinata prevalentemente al cinema e alle sonorizzazioni, pubblica “Experience”, raccolta di remix di “Sessomatto”. Edita dalla sublabel Temposphere nella serie Easy Tempo in triplo vinile e CD, “Experience” offre nuove visioni e prospettive del pezzo di Trovajoli attraverso rivisitazioni oblique tra cui quelle di Coccoluto. «Inizialmente Claudio mi contattò perché gli erano piaciute molto le uscite Easy Tempo» rammenta oggi Pandiani. «Era un vero uomo di musica, dall’immensa cultura, eterna curiosità e doti umane straordinarie. La sua perdita è stata devastante, ho pianto tutto il giorno. Ancora oggi faccio fatica ad accettare che non ci sia più, ma forse è sbagliato affermare ciò. Come disse Salvador Allende, di noi rimarrà ciò che abbiamo donato agli altri e lui ha dato davvero tanto, musicalmente e non. Posso tranquillamente dire che la sua collaborazione con Right Tempo ha fortemente contribuito alla diffusione internazionale dell’etichetta». Oltre alla Do You Think I’m In Sexy Mix, registrata insieme al sodale Martinez col supporto di Fabrizio Bianco alla chitarra e con l’editing di Gak Sato, Coccoluto realizza, come è sua abitudine, pure una seconda versione, la Do You Think I’m In Dub Mix a 123 bpm, cesellando alcuni elementi e temprando la struttura ritmica. «A quelli per “Sessomatto” vanno aggiunti anche i remix che fece di “Mah-Na Mah-Na” e “Bob E Hellen” di Piero Umiliani finiti sempre su Easy Tempo» conclude Pandiani mentre gli fa eco Savino Martinez: «vivevamo un momento galvanizzante per il successo di “Belo Horizonti” e mettere le mani su musiche di maestri come Trovajoli e Umiliani fu un vero onore nonché una grande opportunità, realizzammo quei remix sapendo di cogliere un’occasione unica».

Rio

Claudio Coccoluto – Rio (1998)
Nel 1998 esplode a livello mainstream il combo disco house che, per una serie di circostanze, la stampa internazionale ribattezza french touch. In realtà di house venata da campionamenti funk/disco ne circola a iosa da anni e a produrla non sono affatto solo i francesi (a cui va riconosciuto comunque il merito di averla portata nelle classifiche di vendita) ma soprattutto americani e britannici e pure qualche italiano come Leo Young e i Tutto Matto di cui parliamo rispettivamente qui e qui. Coccoluto è promotore sin da tempi non sospetti di quel filone inizialmente battezzato nu funk e nel ’98, con l’inseparabile Martinez, appronta nell’HWW Studio un pezzo che si inserisce a pieno titolo in tale suddivisione stilistica. Si intitola “Rio” e all’interno riecheggiano campionamenti tratti da “Rio De Janeiro” di Gary Criss uscito su Salsoul Records circa un ventennio prima, ricollocati in una stesura condita con frustate funk.

Il DAT di Rio (1998)
Il DAT conservato nell’archivio di Savino Martinez con la registrazione di “Rio”

Il pezzo, pare destinato alla milanese Reshape, etichetta house del gruppo Dipiù guidato da Pierangelo Mauri, però non vedrà mai ufficialmente la luce. Un paio di minuti finiscono sul canale Soundcloud della thedub una decina di anni fa, su Discogs invece affiora solamente nel 2021 ma Savino Martinez è perplesso: «non sapevo fossero stati stampati dei test pressing di “Rio”, io non ho mai posseduto una copia e credo che nemmeno Claudio l’avesse. Non rammento neanche le ragioni per cui rimase nel cassetto, forse per difficoltà nell’ottenere il clearance del sample, forse perché volevamo destinarlo alla thedub o forse perché non eravamo del tutto convinti. Tuttavia conservo il brano su DAT quindi non escludo una possibile pubblicazione futura o un re-edit, seppur occorra aggiornare i suoni visto che si tratta di un pezzo prodotto 25 anni fa».

Domani

Claudio Coccoluto – Domani (2007)
«Musica senza filtri che sgorga come dalla sorgente, senza essere imbottigliata. Ecco perché sono un nemico giurato dei CD e degli MP3: la loro facile possibilità di manipolazione e di fruibilità toglie al DJ vero la possibilità della ricerca e il percorso che ogni ricerca richiede col relativo arricchimento culturale. Avere le cose troppo facilmente ne sminuisce il valore intrinseco e, in termini di pathos, ne mortifica il potenziale emotivo». Così si legge nel libro “Io, DJ”, edito da Einaudi nel 2007, scritto da Claudio Coccoluto e Pierfrancesco Pacoda e recentemente ripubblicato in una versione aggiornata e integrata con immagini a cura del figlio dello stesso Coccoluto, Gianmaria. Mai disposto a digitalizzare il suo banco professionale da DJ, Coccoluto non si esime però dal pubblicare musica in formati liquidi come avviene per “Domani”, sbarcato in Rete il 5 gennaio 2007. Cinquantesima uscita su thedub, la traccia è tra quelle realizzate in solitaria, senza l’apporto di Martinez, e proietta l’ascoltatore in una dimensione in cui la componente sonora vive sotto una campata di malinconia e mestizia mentre il tracciato ritmico elude la tradizionale programmazione destinata alla musica da ballo. L’autore dipinge, alla stregua di un pittore, un paesaggio pregno di emozionalità ma il timing limitato a poco più di una manciata di minuti fa del tutto una fuga breve ed estemporanea verso lidi che respingono i confini della house. Rimasto disponibile su Apple Music, Amazon Music e Spotify, “Domani” scruta dunque verso nuovi scenari forse pensando a ciò che sarà e verrà (e il titolo, in tal senso, assumerebbe un significato più che pertinente) e rispolvera l’entusiasmo compositivo di circa quindici anni prima, quando le potenzialità espressive della house music sembrano non finire mai.

Sulle medesime latitudini esce, proprio oggi, “Trip”, un’escursione sui pendii scoscesi del downtempo e del future jazz, con broken beat ricchi di modulazioni caleidoscopiche, accelerazioni e dilatazioni protese verso soluzioni ambientali, rumorismi glitch e immancabili frammenti di scorci latini affogati in misture astrattiste. Un progetto che scardina la prevedibilità e ci consegna un Coccoluto differente rispetto a quello acclamato dal grande pubblico delle discoteche, con un piglio più vicino ad artisti tipo Trüby Trio, Minus 8, Tosca, Mo’ Horizons, Jan Jelinek, Thievery Corporation, Jazzanova, Fauna Flash o Susumu Yokota e di cui si era già avvistato qualcosa in tempi recenti attraverso pezzi come “El Gato Negro”, “Chris The Dog”, “Urban Jungle”, “Querida Playa” e “Doin’ Our Best”, quest’ultimo destinato alla tedesca Compost Records di cui parliamo qui. In tracklist figura una traccia che sfiora l’omonimia proprio con “Domani”, una sorta di preludio rispetto a “Trip”, ossia “DoMai”, psichedelia in salsa leftfield e kraut. Questo album postumo di inediti, composti tra il 2004 e il 2020 come rivelano le note di copertina, apre il progetto “Infinito”, «serie di pubblicazioni atte a raccogliere tutta l’eredità delle registrazioni lasciate al figlio Gianmaria che saranno pubblicate negli anni a venire» (dalle note introduttive diffuse dall’etichetta in fase di lancio). Le opere dei grandi non vengono mai azzerate dalla morte, a cambiare è solo il modo di comunicare coi fruitori che dalla connessione fisica passano a una spirituale. La musica di Coccoluto continuerà quindi a vivere convincendoci che lui sia ancora lì, indaffarato nel suo studio a ideare e calibrare nuove prospettive sonore da autentico discepolo del suono.

(Giosuè Impellizzeri)

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