Discommenti (febbraio 2024)

Slowaxx - Shapes Interfusion

Slowaxx – Shapes Interfusion (Broken District)
Si tratta del primo album che Riccardo Chiarucci ha realizzato combinando parti registrate in studio a sessioni live condivise con vari musicisti. Il lavoro è pervaso da atmosfere in perenne bilico tra funk, acid jazz, abstract e broken beat, con punte di straordinaria vitalità e virtuosismi (si senta “Pantere Rosee”, dove le improvvisazioni generano un percorso un filo cervellotico ma decisamente d’impatto). Il featuring del rapper Young A.M.A. decora “Y.B.A” e “No Secret”, costruite tenendo bene a mente l’estetica e il piglio compositivo che marchiò a fuoco etichette come Mo Wax e Talkin’ Loud, “Emoyeni” mette in loop meccanico il rhodes suonato da Luca Sguera, “Femmes” si cala in un mood lounge, ma Chiarucci si supera con “Stazione Funk”, col telaio ritmico ridotto all’osso sul quale si innestano a stantuffo irresistibili pistonate boogie. Il risultato lascia immaginare un’ipotetica jam session tra George Clinton e James Lavelle a indicare la strada di possibili nuove collisioni musicali.

Jimy K - She's Gone Away

Jimy K. – She’s Gone Away (Bordello A Parigi/Giorgio Records)
Diversi mesi fa Massimo Portoghese della barese Giorgio Records ne preannunciò l’uscita proprio attraverso le pagine di questo blog (si legga Discommenti di settembre 2023): a essere riportato in superficie dal buio dell’oblio in cui era piombato è “She’s Gone Away”, un pezzo italo disco prodotto nel 1984 da Rodolfo Grieco e scritto insieme a Naimy Hackett. Uscito ai tempi su Eyes, ora si ripresenta su un 12″ stampato in tandem dalla citata Giorgio Records e l’olandese Bordello A Parigi che, oltre alla Vocal 12″ Version e all’Instrumental 12″ Version, vogliono pure la Vocal 7″ Version, quarant’anni fa destinata alla versione 45 giri. Tutte sono state restaurate dai nastri originali da Tommy Cavalieri presso il Sorriso Studio di Bari. Particolarmente ambito dai collezionisti (nel 2023, attraverso il marketplace di Discogs, è stato venduto per 250 €), “She’s Gone Away” torna dunque a pulsare di vita coi suoi tagli oscuri, orli frastagliati funkeggianti e l’alternanza vocale maschile/femminile.

Ten Lardell - Anterspace 03

Ten Lardell – Anterspace 03 (Anterspace)
Dal 2022 Ten Lardell è apparso sul mercato con la sua pseudo etichetta, l’Anterspace, e dischi simili a white label promozionali. Nessuna info aggiuntiva oltre al numero di catalogo e titoli delle tracce, un’essenzialità tipica di chi è fermamente convinto che la musica sia sufficiente a trasmettere il proprio messaggio. Anche a questo giro il misterioso artista mantiene intatta la comunicazione con una techno/electro di matrice tipicamente drexciyana e di red planetiana memoria, basta poggiare la puntina su “The Far Moog Sector” o “Black Gaze” per capire quali siano i suoi riferimenti. Contorsioni acquatiche sorrette da accordi che squarciano le tenebre si ritrovano pure in “Vibranium Prt 1” mentre “Year 6900” lascia scorrere immagini distopiche di città rase al suolo da orde di robot ribelli. Ma chi opera dietro Ten Lardell? Un giovane talento appassionato o un veterano esperto che gioca a nascondino? Le ipotesi, al momento, restano tutte aperte.

l'oggetto - Musica Da Discoteca Vol.3

l’oggetto – Musica Da Discoteca Vol.3 (MKDF Records)
È tempo del terzo (e pare ultimo) volume per Marco Scozzaro, artista multidisciplinare italiano di stanza nella Grande Mela che dal 2021 veste i panni de l’oggetto, scritto rigorosamente senza maiuscole. L’intento resta quello di trovare un’identità ben definita esplorando e tributando la vicendevole contaminazione che riguardò la house music in un ping pong continuo di influenze tra Chicago, Detroit, New York e… la riviera adriatica italiana. “Aquatico” si muove sotto il pelo dell’acqua, incrociando pesci e vegetazione marina in un caleidoscopio di colori, “Fluido” mette in relazione nervosismi ritmici con rassicuranti pad e sinuose arcature filo acide per un risultato che gioca con perizia sui contrasti, “DeepOrg” solletica l’ascolto con pennellate chiare su fondo scuro, “AltVers” tira il sipario con una serie di soluzioni che sembrano uscire dal catalogo Irma o MBG International Records. Il tutto a 120 bpm, le pulsazioni di un sogno sincronizzato sulla musica della discoteca di un tempo che fu.

The Exaltics - Das Heise Experiment - The Remixes

The Exaltics – Das Heise Experiment – The Remixes (Solar One Music)
Escono su vinile arancione marmorizzato quattro remix di altrettanti brani tratti dall’album “Das Heise Experiment” che The Exaltics pubblicò nel 2013 sulla britannica Abstract Acid. “Dreizehn” diventa “Dreizehn Habits” e rivive per mano degli ADULT. in un trattamento che ripialla la materia ritmica e la interfaccia a rigonfiamenti new wave, “Sieben” viene riletta da Gesloten Cirkel (l’unico remixer qui a non essere nativo di Detroit) in un moto sussultorio con darkismi funerei, “Acht” è ciberneticizzata da K1 (Keith Tucker) e per finire “Zwoelf” rimodulata da Arpanet arpionando atmosfere ambientali e geometrismi post kraftwerkiani. Dedicato ai collezionisti è invece il box set pensato per celebrare il decennale dell’album che contiene, oltre ai remix sopra descritti, la riedizione dell’album stesso in colore bianco, un 7″, un CD, una cassetta, una collection di file, un fumetto, un poster e degli adesivi. Appena cento le copie, già sold out ovviamente.

Dopplereffekt - Infinite Tetraspace

Dopplereffekt – Infinite Tetraspace (Curtis Electronix)
Trincerato dietro Rudolf Klorzeiger, Gerald Donald torna ad animare uno dei progetti più apicali della sua carriera, Dopplereffekt, pietra angolare dell’electro dell’ultimo trentennio, affiancato per l’occasione dalla moglie Michaela To-Nhan Barthel e da una certa Beatrice Ottman. Il disco è diviso idealmente in due sezioni: la prima si muove su materie ritmiche con “Programmable Organism” ed “Entity From Tetraspace”, segnate da riverberi metallici, striscianti bassline, effetti che salgono e scendono a spirale, arpeggi velenosi e un brillante impasto cromatico; la seconda invece si tuffa nelle ambientalizzazioni attraverso “Tachyon Intelligence”, un sogno-incubo, e “Computronium”, immersa in un’atmosfera pensosa e fantascientifica. A pubblicare il 12″ è un’etichetta italiana, la barese Curtis Electronix, che negli ultimi anni si è fatta notare in primis per le produzioni di CEM3340 ma ospitando pure diverse incursioni estere di artisti come Detroit’s Filthiest, Galaxian e DJ Overdose.

Global Goon - Nanoclusters

Global Goon – Nanoclusters (Central Processing Unit)
Sebbene non sia proprio recentissimo, questo mini album che Jonathan Taylor firma col suo moniker più noto non merita affatto di passare inosservato nel diluvio quotidiano di nuove pubblicazioni. L’artista britannico si diverte a flirtare con più riferimenti stilistici, come del resto faceva già negli anni Novanta nelle prime apparizioni su Rephlex. In “Nanoclusters” regna un pulsare dinamico di emozioni, ora rivelate da scuffiate sintetiche (“Khroxic Mould”), poi da irradiamenti dark (“Metallik”), varchi armonici malinconici (“Syntheseers”, “Digit Six”, l’eccelsa “Calcula” che lascia dietro una scia cosmica siderale) e pure sapienti lavori sui filtri che sottolineano i movimenti arcuati dei suoni (“Metro Esc”). Non manca il volo nel freestyle agghindato di funky (“Snapterisk”) e persino un’escursione in madide ruderie in botta hardcore (“Metal Glass”), dalle cadenze ritmiche più accentuate.

Various - You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5

Various – You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5 (Moustache Records)
Analogamente a quanto avvenuto col Vol. 4 del 2022, anche questo quinto atto della serie “You Can Trust A Man With A Moustache” sta destando attenzioni così forti da mandare in sold out la tiratura di 500 copie a pochi giorni dall’uscita e, conseguentemente, alimentare le speculazioni da parte dei venditori privati. Difficile poi capirne poi il perché visto che si tratta di un various dignitoso ma privo di particolari slanci da renderlo un must have. Dentro c’è l’italo disco 2.0 di Tending Tropic (“Hondebrok”), l’electro house che Cafius ha scolpito riciclando il riff di un classico eurodance dei Le Click (“Tonight Is The Night”), la post EBM degli Im Kellar (“Not To Be Compromised”) e per finire una versione sotto steroidi che Adrian Marth ricava dall’eurodisco (“Icon Of The Night”). Un 12″ senza infamia e senza lode, che pare uscito dagli anni che seguirono il boom electroclash.

The Hacker - No Senor

The Hacker – No Señor (Italo Moderni)
Michel Amato non ha mai fatto mistero della sua viscerale passione per la new wave e l’industrial più oscure e tenebrose parimenti a tutta la scuola EBM, e questo disco, uscito da poco sull’iberica Italo Moderni, ne è ulteriore testimonianza. “No Señor” ripesca a piene mani dal campionario di Liaisons Dangereuses, Cabaret Voltaire, No More, Front 242, D.A.F. e soprattutto Nitzer Ebb (mettete su “Let Your Body Learn” e magari provate a mixarli insieme) e l’effetto viene ulteriormente riverberato nel remix di Terence Fixmer, un altro che in tempi non sospetti rimise mano a tutto quel repertorio declinandolo in chiave technoide e ottenendo quella che fu ribattezzata TBM (techno body music). A completare il quadro le due parti di “Me & My Sequencer”: la prima con l’aggiunta di tocchi di matrice dopplereffektiana, la seconda con un piglio ancora più militaresco con vampate di spippolamenti analogici.

Abyssy - Extra Meta

Abyssy – Extra Meta (New Interplanetary Melodies)
È un progetto decisamente sostanzioso quello messo in piedi da Andrea ‘Mayo Soulomon’ Salomoni che torna sull’etichetta fiorentina di Simona Faraone (intervistata qui) con un album, in uscita il 22 febbraio, a cui si aggiungerà un EP il 14 marzo. Mediante un ricco armamentario fatto di intramontabili cimeli che, alla stregua dei migliori whisky, più invecchiano e più diventano ambiti (dai classici Roland – MC-202, TR-808, TR-909, Juno-60 – a Yamaha DX100 passando per Korg MS-10 ed E-mu SP 1200), il compositore bolognese colloca le sue opere in scansioni ritmico-armoniche non convenzionali e si lancia a capofitto in un’avventura che muove più corde dei suoi gusti e sensibilità. Si fluttua su materie gassose e ritmi destrutturati (“Samba Temperado”, “Quantum”, “Vectrex”) ma poi si torna coi piedi per terra per marciare insieme a grovigli di ricordi chicagoani (“Mars Trax”, “Acid Rio”, “A Mixed Feeling”) e poi attivare la connessione con la rivisitazione di stilemi italo disco (“Italodoppler”) ma con l’aggiunta di elementi onirici. Nell’EP Salomoni infonde altre tangibili prove del suo talento, prima disegnando arazzi kraut di göttschinghiana memoria (“Busy Line”, “C3C6”, un possibile omaggio al monolitico “E2-E4”?) e poi rituffandosi nelle atmosfere soleggiate e ridenti di un suono meticcio tra house e italo disco (“Lower Milky Way”). A tutto questo si sommano quattro ulteriori tracce destinate al solo formato digitale, “Supernova”, “Ordinateur Numerique”, “Choices” e “Drumatic”, tra iniezioni di theme music, divagazioni low-fi, esplorazioni ambientali issate su scheletri ritmici e misteriosi tam tam che rompono il silenzio delle oscurità spaziali.

Innershades - Explorer EP

Innershades – Explorer EP (Altered Circuits)
Terza apparizione su Altered Circuits per Thomas Blanckaert che in questo extended play continua a spingere verso l’alto una techno frammista a preponderanti elementi electro. I riferimenti a Detroit si palesano proprio nella title track, “Explorer”, un susseguirsi di lanci melodici e cortine fumogene filo acid su una rete ritmica in sincopi. L’aderenza allo stile della Città dei Motori si rende ancora più evidente in “Aquaculture”, un incrocio tra il primo Atkins su Metroplex e il suono acquatico dei Drexciya e il titolo, in tal senso, non lascerebbe adito ad alcun dubbio. Dallo stesso ceppo il prolifico produttore belga ricava pure “Super 6” e “Unknown Depths”, ulteriori slanci verso quel suono che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha fatto sognare un’intera generazione facendole sentire l’accelerazione del futuro ben prima dell’arrivo di internet, degli smartphone o dell’intelligenza artificiale.

(Giosuè Impellizzeri)

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Fabrizio Gatto, una storia di successo dall’italo disco all’eurodance

L’attività nella sfera discografica di Fabrizio Gatto inizia nei primi anni Ottanta, quando la musica dance nostrana assume una nuova connotazione sulla spinta di influssi provenienti dall’estero (new wave, synth pop, hi nrg, eurodisco etc). Il primo pezzo, “Take A Chance” di Bizzy & Co., lo incide nel 1982 e da quel momento in poi non si ferma più. Con l’energia straripante tipica di quel periodo e in coppia col musicista Aldo Martinelli, realizza dozzine di brani destinandoli prevalentemente ad una delle roccaforti italiane dell’italo disco, Il Discotto. Da Doctor’s Cat a Martinelli passando per Raggio Di Luna, Topo & Roby e Cat Gang: i risultati, ottenuti pure oltralpe, sono galvanizzanti. Con la fine dell’epopea dell’italo disco, la dance si evolve ulteriormente in nuove ramificazioni e Gatto prosegue la corsa: il 1989 lo vede tra i fondatori di Musicola, struttura che cavalca l’esplosione della house music contando su nomi come FPI Project, Bit-Max, JT Company e licenze tipo Nomad e Rozalla. La solidità di Musicola è però minata da circostanze che ne determinano il fallimento. Dalle sue ceneri nasce la Dancework con cui Gatto e il socio Claudio Ridolfi troveranno ancora successo sino ai primi anni Duemila riuscendo a piazzare la propria bandiera sulle vette delle classifiche eurodance internazionali.

Con che artisti e band cresci durante l’adolescenza?
Sino ai tredici anni la musica non era così tanto importante. Il gioco faceva da padrone quindi la mia formazione era legata perlopiù ai brani trasmessi in radio e in televisione. Il primo disco che comprai coi miei risparmi fu “Cuore Matto” di Little Tony ed era il 1967. In seguito, sino ai sedici anni circa, iniziai ad ascoltare, grazie ad amici più grandi, gruppi come Jethro Tull, Genesis, Emerson, Lake & Palmer, Deep Purple, Led Zeppelin ed altri di quel tipo. A diciassette misi piede per la prima volta in discoteca, un mondo fantastico assai lontano dal mio quotidiano, fatto di volumi esagerati, ritmi incalzanti e balli sfrenati. A quel punto la disco music prevalse su tutto.

Sotto il profilo compositivo invece, hai maturato studi di qualche strumento?
No assolutamente, nessun tipo di studio accademico.

01) Bizzy & Co - Take A Chance
“Take A Chance” di Bizzy & Co. è il primo disco inciso da Gatto. A pubblicarlo, nel 1982, la DeeJay di Claudio Cecchetto accompagnata dallo stesso logo di Radio DeeJay nata ufficialmente l’1 febbraio di quell’anno

Chi ti introdusse al mondo della discografia? Cosa voleva dire dedicarsi alla musica da ballo, in Italia, nei primi anni Ottanta?
A darmi una mano per realizzare il primo disco furono Mario Boncaldo e Tony Carrasco, reduci del successo di “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., che si impegnarono a venire in studio per seguire il mixaggio e procurare le cantanti che lo avrebbero interpretato, Naimy Hackett ed una esordiente Rossana Casale. Dedicarsi alla dance in quegli anni era una cosa di poco conto almeno secondo certi ambienti musicali accademici. Quella non era “vera musica” ma soltanto un surrogato e, in tutta franchezza, credo che per alcuni sia ancora così. I comuni mortali invece ritenevano la musica da discoteca sinonimo di gioia e spensieratezza.

La tua prima produzione a cui fai riferimento sopra è “Take A Chance” di Bizzy & Co. pubblicata nel 1982 dall’etichetta di Claudio Cecchetto, la DeeJay, e scelta come sigla di apertura (come si vede qui) di Premiatissima, programma televisivo di Canale 5 presentato dallo stesso Cecchetto ed Amanda Lear. Con quale spirito ed approccio giungesti a quel sound poi definito italo disco, parzialmente illuminante per chi dall’altra parte dell’Atlantico getta le basi di house e techno pochi anni dopo?
Erano lo spirito e l’approccio di chi riusciva ad incidere un disco per la prima volta, nient’altro. Non conoscevo davvero nulla di quel mondo, le modalità, i tempi, le difficoltà e i risultati. La fortuna giocò un ruolo rilevante per “Take A Chance” e l’emozione che ne scaturì fu grandissima. Sentirlo in radio ed addirittura in televisione fu qualcosa che non aveva prezzo.

02) Gatto e Martinelli @ Discoring, 1985
Aldo Martinelli (a sinistra) e Fabrizio Gatto (a destra) ospiti a Discoring nel 1985. Al centro il conduttore del programma, Sergio Mancinelli

Oggi l’italo disco è ricordata oggi in virtù dell’utilizzo intensivo di personaggi-immagine, scelti per copertine, spettacoli dal vivo ed apparizioni televisive così come descritto accuratamente in questo reportage ma svelato in qualche occasione pure ai tempi (si veda questa clip del 1985 che immortala la tua ospitata insieme ad Aldo Martinelli a Discoring condotto da Sergio Mancinelli). Talvolta capitava persino che gli autori figurassero solo nelle retrovie lasciando ad altri il ruolo di frontman/frontwoman, proprio come accadde in questa performance del 1983 sempre a Discoring, dove tu ed Aldo Martinelli mimate di suonare rispettivamente sax e tastiera. A tuo avviso tutto ciò penalizzò l’italo disco agli occhi della critica?
No, non credo, anzi fu un pro. Ai tempi bisognava far sognare il pubblico («le persone apparivano felici e si aspettavano ragionevolmente di diventarlo ancora di più», da “Per Il Potere Di Greyskull” di Alessandro “DocManhattan” Apreda, Limited Edition Books, 2014, nda) mostrando un mondo migliore di quello reale e per farlo si ricorse a personaggi di bella presenza, tutto qui. Oggi questo fenomeno è di gran lunga circostanziato, ci sono molti più cantanti bravi e nel contempo belli ma è inutile negarlo, l’occhio vuole sempre la sua parte. In quegli anni scarseggiavano i cantanti validi e capaci. I pochi sulla piazza venivano ingaggiati in molti progetti gestiti anche da etichette concorrenti. Per evitare problematiche legate ad esclusive quindi, preferivano prestare solo la propria voce alla stregua di musicisti turnisti. Il loro nome, in tal modo, rimaneva relegato allo studio di registrazione. Sarebbe stato impossibile essere cantanti ed interpreti allo stesso tempo, ciò avrebbe generato tantissima confusione per il pubblico ma anche per gli stessi addetti ai lavori.

Dal 1981 al 1986 gli Hot Mix 5 (“un quintetto multirazziale di DJ”, dal libro “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton) diffondono musica mixata attraverso l’emittente WBMX, prevalentemente synth pop e new wave europea ma anche tanta italo disco nostrana. Tra i brani più suonati, oltre a “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick” di cui parliamo qui, pare ci fossero proprio quelli di Doctor’s Cat e qua, ad esempio, c’è un set del 1985 di Mickey “Mixin” Oliver in cui figura “Watch Out! insieme ad altre tracce che tengono alto il nostro tricolore firmate dai Baricentro, My Mine e Fun Fun. Eravate consci dell’influenza esercitata oltreoceano? Hai mai avuto modo di interfacciarti con qualcuno di Detroit e Chicago, come Benji Espinoza intervistato qui, che ha riconosciuto i meriti all’italo disco delle prime annate?
Ai tempi c’era una davvero scarsa conoscenza di quello che accadeva all’estero. Ho appreso queste notizie soltanto molti anni dopo, leggendole su internet, e mentirei se dicessi che scoprire ciò non mi abbia regalato piacevoli sensazioni. Sarebbe stato davvero interessante allacciare rapporti con chi seguiva attentamente la nostra musica dall’altra sponda dell’Atlantico ma purtroppo non ho mai avuto modo di scambiare opinioni con nessuno dei personaggi da te menzionati.

03) Gatto e Martinelli, 198x
Fabrizio Gatto e Aldo Martinelli in una foto scattata negli anni Ottanta

La citata “Take A Chance” viene scritta da Tony Carrasco ed Aldo Martinelli. Con quest’ultimo instauri una proficua collaborazione che si traduce in moltissimi brani anche di clamoroso successo, su tutti quelli di Doctor’s Cat (“Feel The Drive”, “Watch Out!”), Martinelli (“Cenerentola”, “O. Express”, “Revolution”, “Victoria”, “Voice (In The Night)”, Topo & Roby (“Under The Ice”), e Raggio Di Luna (“Comanchero”, “Viva”, “Tornado Shout”) per la maggior parte cantati dall’italoamericana Simona Zanini. Come era organizzato il lavoro in studio? Chi faceva cosa?
Conosco Aldo sin da piccolo, siamo nati nello stesso quartiere. Lui, ottimo musicista ed insegnante di musica alle scuole medie, possedeva l’attrezzatura necessaria per imbastire provini e dare un’idea compiuta di ciò che poi avremmo ottenuto registrando in un vero studio perché, non lo nascondo, non disponevamo mica di una sala di incisione, facevamo tutto a casa sua. Ci incontravamo mediamente due o tre giorni a settimana e mettevamo a punto le varie idee ritmiche e le melodie in provini incisi su nastro a due piste. Provvedevamo inoltre a fornire ai cantanti la melodia del brano e le linee di canto con varie parole-chiave da inserire nel testo. Quando tutto era pronto ci ritrovavamo in uno studio professionale che, ai tempi, si prendeva a nolo e costava un occhio della testa, circa un milione di lire al giorno. Per tale ragione era necessario arrivare lì preparatissimi e soprattutto dopo aver ottimizzato il lavoro per ridurre al massimo i tempi morti. Completata la registrazione delle parti, si passava alla fase di mixaggio, la più lunga ma per me anche la più costruttiva e fantasiosa, in cui si poteva stravolgere letteralmente la canzone, invertire le sezioni, inserire effetti ed altro. Allora si registrava su nastro magnetico e per aggiungere effetti, oggi ottenibili in appena una manciata di secondi, potevano servire anche diverse ore. Durante il mixing io e Aldo discutevamo spesso e chi ci conosce non faticherà a rammentare le nostre diatribe: lui, da musicista, tendeva a privilegiare la fase musicale mentre io, avendo a che fare ogni giorno coi DJ, puntavo più al tiro. Alla fine ci incontravamo sempre a metà strada ottenendo una mediazione tra le parti. I risultati, fortunatamente, si sono rivelati spesso vincenti. Con gli aneddoti di quel periodo potrei riempire un libro intero ma forse uno dei più simpatici riguarda “Comanchero”. Il brano non piaceva a nessuno e secondo molti addetti ai lavori a cui lo facemmo ascoltare non avrebbe venduto nulla. «Al massimo intrigherà i tamarri che ascoltano l’autoradio col volume a palla, coi finestrini abbassati e il gomito fuori!» dicevano. Noi però, convinti della forza del brano, insistemmo e riuscimmo a spuntarla. Il pezzo venne pubblicato ad agosto, periodo peggiore per far uscire un disco visto che tutti erano in ferie, ma il risultato ci diede ragione. Ad oggi abbiamo venduto circa cinque milioni di copie di “Comanchero”. A questo punto ben vengano i tamarri.

Con Aldo Martinelli fondi la Moonray Record, attiva nel triennio 1985-1988: come la ricordi?
Costituimmo la Moonray Record principalmente per ragioni fiscali, fatturazioni, acquisti, noleggi e via dicendo, oltre che per stipulare contratti con le varie compagnie discografiche, sia italiane che estere, ed avere potere decisionale sulle scelte finali relative alle nostre pubblicazioni. Le cose andarono particolarmente bene e non incontrammo problemi di sorta.

04) Il Discotto
Il logo de Il Discotto, tra le etichette più rappresentative nel panorama italo disco

Molte delle tue produzioni dei primi anni Ottanta vengono pubblicate da una delle etichette nostrane più emblematiche nel panorama italo disco, Il Discotto di Roberto Fusar-Poli, che in quel periodo rivaleggia con la Discomagic di Severo Lombardoni. Come arrivasti lì? Com’era il tuo rapporto con Fusar-Poli?
Nel 1979 aprii un negozio di dischi in Veneto, inizialmente generalista perché trattava un po’ tutti i generi musicali. Negli anni seguenti frequentare le discoteche mi convinse a dare ad esso un indirizzo più specializzato in dance, italiana e d’importazione. Per soddisfare le richieste di una clientela fatta principalmente da DJ quindi mi avvicinai a vari grossisti ed importatori attivi all’epoca come Discomagic, Gong e Il Discotto per l’appunto. Il mio rapporto con Fusar-Poli era normale, sia da cliente che da produttore, ma una volta conclusa la collaborazione non ho più avuto modo di rivederlo o risentirlo. In quel periodo i discografici non impartivano grandi insegnamenti su come perseguire obiettivi e mantenere vivi eventuali successi. La dance era una cosa nuova per tutti ed esplose inaspettatamente lasciandoci spiazzati. A fare la differenza erano le vendite consistenti, in caso contrario eri solo uno dei tanti che ci provavano.

Da essere un mercato rivolto quasi esclusivamente ai DJ, quello della gergalmente detta “dance” divenne qualcosa di ben più rilevante, anche a livello internazionale. Come fecero le etichette indipendenti italiane a dare filo da torcere alle multinazionali?
Le multinazionali erano focalizzate esclusivamente sul pop. La dance music inizialmente rappresentava solo una piccola fetta di mercato non appetibile per le major che quindi non mostrarono alcun interesse. Le indipendenti inoltre erano molto più veloci e scaltre nella produzione e soprattutto non subivano le lungaggini burocratiche che invece caratterizzavano le multinazionali, e per questo ebbero la meglio.

Come raccontiamo in questo reportage, con l’arrivo della house music, tra 1987 ed 1988, l’italo disco implode, e ciò è alimentato peraltro dal cul-de-sac creativo in cui il genere si infila nella seconda metà del decennio. Analogamente a tanti altri, tu prosegui esplorando nuove direzioni stilistiche. Come ricordi quel particolare momento?
Il biennio 1987-1988 fu effettivamente difficile per l’italo disco. Di fatto si produceva poco e niente e senza riscontri importanti di vendite, il tuo nome finiva inesorabilmente nel dimenticatoio. Da parte dei discografici non giunse mai nessun consiglio e suggerimento su come diversificare o vivacizzare l’italo disco che aveva dato splendore e gloria a tanti. Per mia fortuna, grazie alla frequentazione mai interrotta di DJ e discoteche, entrai in contatto con un nuovo genere chiamato house. Muoveva bene le folle e non mi dispiaceva affatto anzi, lo trovavo interessante ed adatto a progetti futuri. La musica continuava a stupirmi.

05) In studio, 1991
Joe T. Vannelli, Claudio Ridolfi, Albertino, Fabrizio Gatto e Molella immortalati in uno studio di registrazione nel 1991 quando Musicola è all’apice del successo

Nel 1989, anno in cui l’italo house si afferma sulla piazza internazionale, nasce Musicola di cui sei co-fondatore. Al suo interno varie etichette tra cui la Beat Club Records che in catalogo vanta dischi di Bit-Max (di cui parliamo qui), JT Company ed FPI Project nonché importanti licenze di Rozalla e Nomad, oltre alla No Name Records, la Stil Novo Records e la Oversky Records. Quanto fu esaltante quel periodo?
Dopo qualche anno di pausa la dance nostrana tornò finalmente protagonista nelle classifiche mondiali e quello fu un momento più che memorabile. Proprio nel 1989 vide luce Musicola, società editoriale e discografica nata dalla ripartizione in parti uguali tra me, Claudio Ridolfi e il proprietario della distribuzione Non Stop SpA. Partimmo alla grande, lavoravo anche quindici ore al giorno dividendomi tra ufficio, studio di registrazione e discoteche ma non provavo affaticamento, era tutto molto appagante. Inizialmente i produttori riservarono un po’ di scetticismo nei nostri confronti. L’idea di una casa discografica nata all’interno di un distributore, ai tempi il più grosso d’Italia, non andava particolarmente giù. Il pensiero comune era che quest’ultimo avrebbe favorito la stessa penalizzando gli esterni ma pian piano, mostrando la nostra vera indole, le cose presero forma e giunsero produttori da ogni parte del Paese con risultati a dir poco eclatanti. Si vendeva e licenziava tantissimo e Ridolfi, occupandosi dell’estero, era in continuo fermento, subissato da richieste non solo per gli artisti più noti ma pure per quelli sconosciuti in Italia ma che vantavano un grosso riscontro oltre le Alpi. In circa due anni riuscimmo a diventare, anche grazie alla collaborazione della quasi totalità dei produttori dance italiani, una delle più belle realtà indipendenti dello Stivale. Tra i primi ad arrivare ci furono gli FPI Project. Uno di loro ci portò “Rich In Paradise” chiedendoci se fossimo interessati ed affermando che gli sarebbe bastato venderne anche solo mille copie. Coincidenza volle che in quel periodo fossi in studio per realizzare la cover dello stesso brano, “Going Back To My Roots” di Lamont Dozier. Cosa fare? Avremmo potuto pubblicare entrambi, con due nomi diversi ovviamente. La loro versione la sentivo un po’ vuota, la mia era molto più sviolinata ed orchestrata a mo’ di canzone. Forse troppo prevenuto, preferivo la mia ma la prova definitiva avveniva in auto che consideravo il mio secondo ufficio, dove mi relazionavo alla musica senza distrazioni. Quella sera ascoltai un paio di volte il pezzo degli FPI Project e subito dopo il mio. In seguito ad una mezzora di silenzio e riflessione giunsi alla conclusione che il loro fosse venti volte più strepitoso del mio! Con poche cose avevano realizzato una bomba. Il piano in stile Richie Havens (che incide una cover di “Going Back To My Roots” nel 1980, nda) calzava a pennello, la voce impostata del conduttore radiofonico Paolo Dini era accattivante e il loop col sample di James Brown era puro spettacolo. Io invece mi ero fermato più allo stile dell’originale di Dozier, elegante ma in pista non c’era paragone, la loro versione era quella vincente ed infatti decisi di non pubblicare più la mia. Poco tempo dopo giunse Joe T. Vannelli, che non conoscevo ancora, con un suo brano. Lo ascoltai e non era male ma a mio giudizio necessitava di essere perfezionato. A quel punto lui mi confidò di averlo già fatto sentire ad altri a cui però non era piaciuto. Due giorni dopo, in uno studio amatoriale allestito in un garage per auto con luce praticamente inesistente, un mixer Mackie e pochissime altre cose, riarrangiammo e re-mixammo tutto. Risultato? “Don’t Deal With Us” di JT Company, licenziato dalla EastWest in tutto il mondo. Poi però, così come accade in tante favole, l’incantesimo si ruppe.

Cosa successe di preciso?
I tempi erano più che propizi per vendere dischi e noi stavamo andando alla grandissima quando avvenne l’imprevedibile. La Non Stop era da tempo in sofferenza e lo sapevano più o meno tutti. Noi eravamo solo distribuiti dalla stessa visto che stampavamo dischi a nostre spese ed avanzavamo davvero un mucchio di soldi. Tuttavia gli affari andavano talmente bene da riuscire ad essere in positivo e non di poco. I produttori però iniziarono a preoccuparsi e ci chiedevano continuamente a quali rischi andavano incontro. Noi li rassicuravamo: qualora la Non Stop avesse malauguratamente chiuso battenti, noi saremmo stati comunque in grado di pagare le royalty ma soprattutto di proseguire l’attività giacché eravamo creditori di parecchio denaro dall’estero per le licenze stipulate e in banca eravamo più che coperti. Una mattina però ricevemmo la telefonata di un fornitore che lamentava una fattura non pagata. Mi recai subito in banca per chiedere spiegazioni e, con immenso stupore, scoprii che i nostri conti correnti erano stati prosciugati. Com’era possibile? Chi aveva preso il denaro? Era stato il terzo socio, proprietario di Non Stop che, nel contempo, era parte attiva di Musicola. Gli chiedemmo subito ragguagli ma senza mai ricevere risposta. Ci recammo allora dal notaio che aveva redatto gli atti per la costituzione della società con le partecipazioni dei soci e lì subimmo un’altra doccia fredda: asseriva di non conoscerci e di non averci mai visto prima. Solo a distanza di anni siamo venuti a sapere che sono stati giudicati e condannati, notaio compreso, per vari reati, ma servì a ben poco. Musicola aveva perso e non esisteva più.

06) Premiazione Gam Gam Compilation, 1994
Da sinistra: Max Monti, Fabrizio Gatto, Mauro Pilato, Claudio Ridolfi e, alle spalle, Roberto Delle Donne. La foto viene scattata in occasione della premiazione col disco di platino della “Gam Gam Compilation” nel 1994

Nonostante tutto però tu e Ridolfi ci riprovate e nel 1993 dalle ceneri di Musicola nasce la Dancework, questa volta con risultati più continuativi. Il successo non si fa attendere: Dynamic Base, Gam Gam, Indiana, Two Cowboys (di cui parliamo rispettivamente qui e qui), Nikita, Brainbug ed importanti licenze come Marvin Gardens (a cui abbiamo dedicato un articolo qui), Celvin Rotane, New Atlantic, Fifty Fifty e Milk Incorporated sono solo alcuni dei nomi apparsi su numerose label che la società incorpora tra cui Volumex, Welcome, Strike Force, @rt Records, Joyful e Mammut. C’erano sostanziali differenze rispetto all’attività precedente in Musicola e Moonray Record?
Ripartire dopo quella batosta non fu affatto facile. A causa di ciò che avvenne con Musicola, perdemmo la maggior parte dei produttori e gli abituali fornitori stentavano a fornirci il materiale, alcuni pensavano (e forse lo pensano ancora oggi) che fossimo d’accordo col fallimento. Per fortuna qualcuno credette nella nostra innocenza e buona fede e, con un pizzico di fortuna, ricominciammo a lavorare. Tra Musicola e Dancework non sussistevano particolari differenze ma con Moonray Record sì perché quella non era una società editoriale. Inizialmente in Dancework lavoravamo solo io e Ridolfi: lui continuava ad occuparsi principalmente dell’estero (acquisizione master e contrattualistica) mentre io di produzione e promozione. Confrontarci sempre su tutto rese vincente la nostra collaborazione e giovò all’operatività dell’azienda, più o meno come avvenne negli anni precedenti in Musicola. Pian piano abbiamo assunto una segretaria ed un promoter, abbiamo allestito gli studi di incisione ed ingaggiato un team di produzione. Le soddisfazioni furono davvero tantissime. Una su tutte? “Gam Gam” di Mauro Pilato & Max Monti, uscito a gennaio del 1994 ma esploso solo a giugno. In quei sei mesi aveva venduto appena cinquecento copie, un’inezia. Le radio (compresi i network) non avevano alcuna intenzione di trasmetterlo e aver fatto realizzare dei remix da vari DJ noti dell’epoca non sortì alcun risultato. Poi, come d’incanto, esplose, proprio con la versione originale, quella che non piaceva a nessuno, e di colpo divenimmo bravi. Piovevano richieste per decine e decine di compilation, tutte le emittenti lo inserirono nelle playlist e se ne interessarono persino stampa e televisione. Fu appagante ma che fatica!

Nel corso degli anni Novanta il tuo nome finisce su centinaia di dischi come “Dance The Night Away” di Nina, “All I Need Is Love” di Indiana (costretta a cambiare nome in Diana’s) per cui realizzi la versione più nota, ed “Eterna Divina” di Nikita. Oggi ti riascolti e rivedi con più piacere nell’italo disco o nell’eurodance/italodance?
Seppur con modalità e tempi differenti, per certi versi ho vissuto entrambi i periodi col medesimo entusiasmo. Durante la fase dell’italo disco c’era molta più inesperienza, approcciavo ad una cosa nuova e mai fatta prima di quel momento, avevo mille dubbi e mi assaliva spesso la paura di sbagliare. Negli anni dell’eurodance invece avevo ormai acquisito la competenza che mi permetteva di osare di più. Certo, i dubbi e la paura di fare passi falsi permanevano ma l’obiettivo restava lo stesso, lavorare divertendosi e sperare che altri giovassero di ciò che stavo facendo. Riuscire a conquistare l’attenzione della gente col tuo pensiero, la tua fantasia, il modo di porti e il tuo gusto musicale è motivo di una inimmaginabile soddisfazione. Per me ogni cosa che ho fatto ha il suo valore, che sia italo disco o eurodance. Rappresenta un passaggio di vita reale di quel preciso momento.

07) Gatto e Michel Chacon, 2009
Gatto e Michael Chacon a Roma, nel 2009, ospiti nel programma televisivo di Rai 1 “I Migliori Anni” condotto da Carlo Conti

Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, quando Dancework raccoglie ancora consensi con brani tipo “Rain” di Brainbug, “Tonight I’m Dreaming” dei Fifty Fifty, “Indian Summer” di B1 Feat. Maverick e il tormentone latino di Michael Chacon, “La Banana”, il comparto discografico dance italiano subisce radicali trasformazioni e ne esce come un piccolo arenile dopo uno tsunami. Nulla è più lo stesso e a rimetterci le penne sono innumerevoli etichette e distributori ma pure emittenti radiofoniche e personaggi che da star si trasformano in sconosciuti. Ad ormai venti anni di distanza, credi che le ragioni siano attribuibili alla poca flessibilità/capacità di adattamento alle nuove dinamiche, alla chiusura di un ciclo, all’esponenziale aumento della concorrenza o ad altro ancora?
La flessione negativa della discografia dance italiana è indubbia. A mio avviso i motivi sono attribuibili all’aumento della concorrenza estera ma anche alla chiusura immotivata del nostro mercato nei confronti di un genere di immediato riscontro. Da un certo punto in poi tutto mi è sembrato improvvisato, privo di idee reali e basato solo su similitudini, abusate al punto tale da precludere qualsiasi sbocco verso i più redditizi mercati esteri.

Pensi ci possa essere un nuovo momento dorato per la dance italiana, così come accadde con l’italo disco e l’italodance?
Sarebbe bello (ri)vedere di nuovo gli italiani in cima alle classifiche di tutto il mondo ma la vedo dura. Nel panorama musicale attuale non ricopriamo alcun tipo di rilevanza se non in casi sporadici e fortuiti. Le nuove generazioni puntano subito al grosso bersaglio, alla fama, al denaro, alla notorietà e al prestigio. Poco importa conoscere ed approfondire la storia della musica e capire ciò che c’è stato prima e che ci ha rappresentati per anni. È necessario intraprendere un percorso di apprendimento e soprattutto fare la gavetta ma adesso, con la sovrapproduzione mondiale di musica non ha più senso neanche cosa componi. Le idee e le melodie passano in secondo piano, la cosa più importante è affermarsi nel minor tempo possibile. I migliori risultati, purtroppo per noi, arrivano solo dall’estero, dalle major, dai nomi famosi e dalle etichette importanti gestite da personaggi potenti che influenzano il mercato. Poi, sotto tutto ciò, esiste una fascia di musica pubblicata senza alcun tipo di filtro. Ormai tutti possono comporre, è un concetto democraticamente corretto ma c’è un rovescio della medaglia e lo abbiamo sotto gli occhi ormai da anni.

08) Gatto e Bob Sinclar, 2018
Gatto e Bob Sinclar, nel 2018. Quando al DJ francese dicono che tra il pubblico c’è Fabrizio Gatto lui canticchia immediatamente “Comanchero”

Qual è il bestseller del tuo repertorio, sia da compositore che produttore?
Prendendo in considerazione il livello di vendite il bestseller resta, senza ombra di dubbio, “Comanchero” di Raggio Di Luna. Seguono “Feel The Drive” di Doctor’s Cat, “Cenerentola” di Martinelli, “Under The Ice” di Topo & Roby, “Take A Chance” di Bizzy & Co. ed altri ancora. Ci sono anche pezzi che, per vari motivi, non hanno raccolto risultati eclatanti ma a cui sono legato in particolar modo come “In Zaire” di African Business, “Please Don’t Go” di Another Class Featuring KC & The Sunshine Band, i remix italiani di “Faith (In The Power Of Love)” di Rozalla, di “This Is Your Life” dei Banderas e di “My Body And Soul” dei Marvin Gardens. Senza dimenticare “Eterna Divina” di Nikita e “Dance The Night Away” di Nina, ma fosse per me li citerei tutti perché li considero alla stregua di miei bambini, fortunati e meno che siano stati.

Qual è stato invece il flop inaspettato, nonostante il potenziale?
Forse “All I Need Is Love” di Indiana: la FFRR aveva investito moltissimo nel progetto stampando circa ventimila copie promozionali. Il brano iniziò a girare nelle discoteche e sembrava piacere molto ma fu fermato dalla causa legale legata al nome (come spiegammo in Decadance già nel 2008 e pure qui, nda). Quando, diversi mesi più tardi, tornò sul mercato con un nuovo pseudonimo non diede più i risultati sperati.

09) Linda Jo Rizzo, Christa Mikulski, Gatto, settembre 2019
Linda Jo Rizzo, Christa Mikulski della ZYX e Fabrizio Gatto a Milano nel 2019

Qual è la carognata più grossa che hai subito nella tua carriera?
Aver perso Musicola in modo così vigliacco.

La Dancework è ancora attiva: a cosa stai lavorando al momento?
Opero su svariati fronti ma pianificare cose adesso è davvero difficile. Diversi motivi personali mi hanno allontanato dalla musica per un periodo piuttosto lungo e nell’era del digitale, degli aggregatori e dei social network ho perso parecchio terreno. Ci sto riprovando cercando di valorizzare l’esperienza acquisita negli anni con nuove idee oppure riciclandone di vecchie attraverso sviluppi diversi più consoni ai tempi che viviamo. Sono cosciente che tutto ciò non basti ma sono pronto a rimettermi in discussione come ho sempre fatto per cercare soluzioni che mi appaghino e mi facciano stare bene. Per me la musica serve proprio a questo.

(Giosuè Impellizzeri)

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