La dance rimasta nel cassetto

Annunciare l’uscita di un disco che poi però resta nel cassetto: capita più volte negli anni Novanta, quando la musica dance vive una delle sue fasi più entusiasmanti. È accaduto per motivi legali, connessi ad esempio all’uso non autorizzato di un campionamento, per scelta dell’autore o, più frequentemente, per un ripensamento della casa discografica.
Per l’occasione Luca Giampetruzzi e Giosuè Impellizzeri, che tornano a scrivere un articolo a quattro mani a distanza di diversi anni, fanno incetta di informazioni d’archivio e le mettono in fila per indagare e raccontare le vicende di brani sconosciuti perché mai pubblicati o usciti dopo decenni a insaputa degli stessi autori. Non manca neanche qualche caso legato a pezzi finiti sul mercato con il nome artistico diverso rispetto a quello dichiarato inizialmente. Il risultato finale è una gallery che conta circa una ventina di titoli legati a storie rimaste nell’ombra, arricchite da dichiarazioni riscoperte su vecchie riviste o raccolte ad hoc.

Aladino – Nasty Rhythm
Forte di una storia lunga ormai quarant’anni, la bresciana Time Records è una delle etichette dance più importanti nei Novanta, con diversi progetti di successo. Tra questi, a partire dal 1993, anche Aladino, nome legato al DJ e produttore Diego Abaribi, che esordisce nell’estate di quell’anno con “Make It Right Now” (di cui parliamo qui) e si conferma qualche mese dopo con “Brothers In The Space”, entrambi scanditi dalla voce di Emanuela Gubinelli meglio conosciuta come Taleesa. Nell’autunno del 1994, su alcune riviste, si parla di un LP per Aladino ma Abaribi, contattato per l’occasione, spiega che «nonostante fossero pronti diversi singoli, tra cui “Promise”, poi uscito come No Name, il progetto dell’album venne accantonato in quanto la Time puntava più al mercato dei singoli. Tra i pezzi già pronti c’era anche “Nasty Rhythm”, che a mio parere sarebbe stato il disco migliore tra quelli usciti a nome Aladino, era davvero forte. In quello stesso periodo decisi di lasciare l’ambiente musicale per dedicarmi all’azienda dolciaria di famiglia, quindi la traccia non venne mai pubblicata». Orfano del bravo produttore bresciano, il progetto Aladino vede un’altra uscita a ottobre 1995 con “Stay With Me”, prodotta dal duo Trivellato-Sacchetto e con la voce di Sandy Chambers.

Albertino Feat. The Outhere Brothers – ?
Speaker di successo e assoluto protagonista della scena radiofonica italiana fin dagli anni Ottanta, Albertino è diventato negli anni Novanta il punto di riferimento per il genere dance, grazie ai suoi programmi DeeJay Time e DeeJay Parade in onda su Radio DeeJay. Significativa anche la sua carriera a livello discografico che l’ha visto protagonista con alcune produzioni come “Your Love Is Crazy”, a cui abbiamo dedicato un articolo qui, e collaborazioni in vari progetti (Do It!, Lost Tribe – di cui parliamo qui – The End, Control Unit), soprattutto a inizio anni Novanta. Nel luglio 1995, come dichiarato dallo stesso Albertino attraverso un’intervista per la rivista di videogiochi The Games Machine realizzata da Stefano Petrullo, era in programma l’uscita di un disco realizzato con gli Outhere Brothers. «Dopo il successo ottenuto all’Aquafan a ferragosto (del 1994, nda) ero impazzito, mi sentii un po’ cantante e volevo fare un disco con gli Outhere Brothers. Loro mi mandarono la base da Chicago, tra l’altro molto bella, ma poi mi sono vergognato e non l’ho fatto… Se questa cosa fosse andata in porto però, penso che sarei arrivato al primo posto delle classifiche». Un disco con la voce di Albertino uscirà anni dopo, nel 2001, e arriva proprio al numero uno della classifica di vendita italiana: “Super”, realizzato insieme a Gigi D’Agostino.

Alex Party – Now It’s Time
Il progetto di Alex Natale e i fratelli Gianni e Paolo Visnadi è, soprattutto tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, uno dei più importanti tra quelli da esportazione, con una posizione numero due raggiunta nella classifica di vendita nel Regno Unito, a febbraio 1995, grazie a “Don’t Give Me Your Life”. Con “Wrap Me Up”, sempre nello stesso anno, diventano profeti in patria, visto che il brano interpretato da Shanie Campbell è uno dei grandi successi estivi per lo Stivale tricolore. Dopo il fallimento della Flying Records però, avvenuto alla fine del 1997 e quindi anche dell’etichetta UMM (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) in cui militavano Natale e i Visnadi, il progetto subisce un repentino stop che pare possa terminare a novembre del 1998 quando sul mercato appare una white label intitolata “Now It’s Time”. Il brano, tuttavia, non vede ufficialmente la luce perché gli autori, a dispetto del titolo, non sono convinti al 100% dell’operazione, e ciò fa calare (temporaneamente) il sipario sul progetto prodotto nel 77 Studio di Mestre. Il ritorno però è solo rimandato, visto che nell’estate del 2000 gli Alex Party ricompaiono con un singolo dal titolo “U Gotta Be” su etichetta Undiscovered, che ottiene ottimi riscontri ed è impreziosito da un remix ad opera degli Eiffel 65.

Claudio Coccoluto – Rio
L’uscita di “Rio” di Coccoluto non è mai stata annunciata pubblicamente ma pare che nel 1998 il pezzo fosse destinato all’etichetta milanese Reshape, tentacolo house del gruppo Dipiù guidato da Pierangelo Mauri. Costruita su campionamenti tratti da “Rio De Janeiro” di Gary Criss uscito su Salsoul Records nel 1977, la traccia nasce nell’HWW Studio di Cassino insieme all’inseparabile Savino Martinez che, come racconta qui, non ricorda nel dettaglio le ragioni per cui rimase chiusa nel cassetto ma ipotizza che la causa fosse legata alla mancata autorizzazione dell’uso del sample. Un paio di minuti di “Rio” finiscono sul canale Soundcloud della thedub: Martinez conserva ancora il DAT nel suo studio.

Countermove - Something
La copertina dell’album dei Countermove diffusa in formato digitale nel 2009

Countermove – Something
Nato alla fine del 1998, Countermove prende le mosse dalla new wave e dal synth pop, generi che gli autori Cristian Camporesi (intervistato qui) e Alberto Frignani conoscono più che bene e a cui puntano con l’aiuto di Davide Marani, cantante dal timbro molto simile a quello di Dave Gahan (è sua la voce di “A Question Of Time” di Tony H, artista di cui si parla più avanti, nonché di altre cover della band di Basildon come “Personal Jesus” dei Bond Street, “Little 15” dei Mustache e “Flexible” dei Miami Dub Machine”). “Myself Free”, uscito nella primavera ’99 e per cui viene girato anche un videoclip, apre la strada con discreti risultati che si cerca di replicare con “Unbelievable” del 2000. L’anima pop alla base del progetto spinge la Do It Yourself a prendere in considerazione l’ipotesi di pubblicare persino un album, “Something”. Alla fine però tutto si arena con l’EP omonimo diffuso solo in formato promozionale. «Quando incontrai Cristian e Alberto, c’erano già diverse canzoni allo stato di demo o poco più» spiega Marani, anni fa, sulle pagine di Decadance Appendix. «L’ingaggio con la Do It Yourself avvenne perché Molella, amico di Cristian, ascoltò un paio di brani probabilmente intravedendo il potenziale commerciale con dei remix ossia “Myself Free” e “Another Day”. Sul primo non si sbagliava affatto e da lì a poco ci chiesero di preparare l’album. Avevamo tempo sino al 10 settembre di quell’anno, il 1999. Nel frattempo uscì il secondo singolo, “Unbelievable”, spinto ancora dal remix di Molella & Phil Jay. Noi ci presentavamo come band pop o techno pop, ma con l’alto airplay radiofonico legato a un’etichetta prettamente dance tutti ci inquadrarono semplicemente come gruppo dance. A emergere fu dunque un’immagine “strozzata” e piuttosto riduttiva per chi, come noi, suonava anche la chitarra acustica ed eseguiva brani unplugged. “Dive” avrebbe dovuto anticipare l’uscita di “Something”, pianificata prima per ottobre, poi per dicembre, poi per gennaio 2000 in occasione del Midem, poi a febbraio … ma alla fine fu chiuso in un cassetto. Forse non era propriamente adatto al pubblico italiano visto che ricalcava gli schemi dei Depeche Mode, la passione che condividevo con Cristian e Alberto. In seguito l’etichetta ci chiese di scrivere qualcosa sulla falsariga di “Myself Free”: preparammo delle bozze ma nessuna andava bene. Il tempo passava e la scadenza del contratto era ormai prossima, non vedevamo l’ora di spedire una raccomandata con ricevuta di ritorno affinché non fosse rinnovato per tacito consenso. A posteriori, credo che finimmo nelle mani sbagliate: noi eravamo pop e facevamo pop ma l’etichetta era dance e vide il lucro solo in un paio di singoli remixati in chiave dance». Il 27 agosto 2009, a sorpresa, la Do It Yourself pubblica in digitale l’album dei Countermove, fortemente intriso di riferimenti derivati dalla band britannica oggi attiva con Martin Gore e Dave Gahan, forse proprio quei riferimenti che contribuirono a farlo naufragare circa dieci anni prima.

Datura & Carol Bailey – I Can Feel It
1997: il suono della dance made in Italy sta attraversando per l’ennesima volta una fase di cambiamento e in primavera le produzioni tornano ad avere un sapore pop, dopo l’abbuffata di dream progressive dei mesi precedenti. Sulle pagine della rivista DiscoiD si parla di un’inedita collaborazione marchiata Time Records, tra i Datura e Carol Bailey (cantante di cui parliamo qui), tra i nomi di maggior spicco dell’etichetta bresciana di Giacomo Maiolini. L’annuncio però cade nel vuoto visto che nei mesi seguenti si perdono le tracce del pezzo intitolato “I Can Feel It”. Tempo dopo Ciro Pagano dei Datura afferma che «si stava pianificando l’uscita, ma poiché il brano non piacque a uno speaker radiofonico di riferimento dell’epoca, si preferì seguire il suo suggerimento e non commercializzarlo, cosa che, a ogni modo, in quegli anni capitava spesso». Relativamente ai Datura, nel cassetto resta pure il remix di “Angeli Domini” realizzato dai tedeschi Scooter. Come spiegano Stefano Mazzavillani e il citato Pagano nell’intervista finita in “Decadance”, la ragione per cui ciò avvenne fu legata a un problema di tempistiche: «quando gli amici Scooter ci consegnarono quel remix, sulla rampa di lancio era già posizionato “Mantra”. All’epoca in Time Records non c’era la mentalità adatta per stampare un singolo nuovo con una traccia uscita in precedenza, seppur in versione inedita. Da lì a breve fu la Media Records di Gianfranco Bortolotti a dare inizio a questo tipo di pratica che permetteva di creare un filo conduttore tra una pubblicazione e l’altra dello stesso artista». Intorno al 1996 si parla anche di un nuovo album per i Datura, il secondo dopo “Eternity” del 1993: «circa un anno fa era pronto l’LP che però abbiamo bloccato perché troppo legato al nostro vecchio sound. Successivamente è nata “Voo-Doo Believe?” e abbiamo voltato del tutto pagina» chiariscono Pagano e Mazzavillani in un’intervista di Paolo Caputo apparsa sulla rivista Future Style nel 1997, aggiungendo che il progetto in tale direzione ormai non fosse più tra le priorità. «Fare un album è un lavoro importante che richiede un grande sforzo di tempo ed energie, sarebbe un peccato sprecarlo con tempi e modi che non sono ideali. Oggi in Italia la situazione commerciale e artistica nel mondo della dance è molto delicata, restiamo quindi in attesa di un segno». Quel segno, evidentemente, non è mai arrivato.

DJ Cerla & Moratto – Baby Love
A metà degli anni Novanta, tra i generi più apprezzati dai fruitori di musica dance, c’è la happy hardcore, caratterizzata da pianoforti sincopati, alti bpm e melodie felici, happy per l’appunto. Nonostante le produzioni di questo stile arrivassero principalmente dai Paesi nordeuropei, ad abbracciarlo sono anche alcuni artisti italiani, con fortune alterne. Tra questi i D-Juno, Tiny Tot (di cui parliamo qui), Russoff e l’accoppiata formata da Gabriele Cerlini, meglio noto come DJ Cerla, e il musicista Elvio Moratto. All’inizio del 1995 i due, accompagnati dalla voce di Jo Smith, scalano le classifiche di vendita con “Wonder” che ripesca la melodia di “Help Me (Get Me Some Help)”, brano del 1971 di Tony Ronald già ricostruito in versione happy hardcore qualche mese prima dagli olandesi Charly Lownoise e Mental Theo per “Wonderfull Days”.

Cerla & Moratto - Baby Love
La compilation in cui finisce “Baby Love”

Il seguito intitolato “Baby Love”, la cui pubblicazione è prevista per l’estate dello stesso anno, stranamente non vede ufficialmente la luce nonostante l’inserimento nella compilation “Festivalbar Superdance ’95”. «La Flying Records, nostra etichetta di quel periodo, ci chiese di realizzare velocemente un brano da destinare a un’importante compilation e così facemmo. Poi però, per l’uscita ufficiale, era necessario elaborarlo adeguatamente ma visto che non fu possibile farlo per vari motivi, non venne ritenuto abbastanza forte per la pubblicazione e quindi accantonato» spiega in merito DJ Cerla.

Freestylers – B Boy Breakers
Non è raro che negli anni Novanta si mettano sul mercato produzioni discografiche in formato white label disponibili in poche centinaia di copie: è una modalità che permette di testare le proprie idee con un investimento economico ridotto al minimo e praticabile anche senza il supporto di un distributore. Avviene più o meno così per il duo britannico dei Freestylers, formatosi nel 1996 dalla collaborazione tra Aston Harvey e Matt Cantor, entrambi reduci di diverse esperienze, anche di successo, come Uno Clio e Strike. In occasione della nuova avventura optano per uno pseudonimo inedito, Freestylers per l’appunto, con cui realizzano un remix di “Do You Wanna Get Funky” dei C+C Music Factory, originariamente del 1994. Lo solcano su un test pressing single sided con l’intenzione di inaugurare la loro nuova etichetta, la Freskanova, ma qualcosa non va per il verso giusto. Per gettare luce sull’accaduto risulta provvidenziale Nico De Ceglia (intervistato qui) che a dicembre ’97, attraverso le pagine di DiscoiD, chiede ragguagli a David Morgan, uno dei manager dell’etichetta: «il disco non è mai uscito per problemi irrisolti legati all’autorizzazione di alcuni samples. Tuttavia è diventato un classico nonostante sia praticamente impossibile trovarlo» spiega Morgan. «Sono ancora molti quelli che ci chiamano per avere informazioni a riguardo ma credo che solo tre o quattro persone ne posseggano una copia, oltre ovviamente agli stessi autori. Non uscirà mai anche se una sua commercializzazione probabilmente lo avrebbe reso un successo». Il primo disco della Freskanova è quindi destinato a rimanere nel cassetto, almeno parzialmente, visto che il secondo brano, “Beat Of The Year”, finisce sulla quinta uscita dell’etichetta firmata Freska Allstars. Qualche copia, nel corso degli anni, è transitata dal marketplace di Discogs subendo peraltro un sensibile incremento nella quotazione che il 26 aprile 2015 ha toccato i 332 €. Per i Freestylers e la loro Freskanova però è solo questione di tempo: nel ’98, grazie al boom commerciale del big beat, spopolano con “B-Boy Stance” col featuring del compianto Tenor Fly e trainato da un videoclip in alta rotazione su MTV. Il pezzo è estratto dall’album “We Rock Hard” da cui vengono prelevati altri singoli come “Ruffneck” e “Here We Go”, pubblicati anche in Italia dalla T.P. del gruppo Dipiù.

Gabry Ponte – Power Of Love
È convinzione generale che il primo singolo ufficiale del noto DJ torinese sia quello uscito nel 2001 intitolato “Got To Get”, che mette insieme “Dance Your Ass Off” dell’olandese R.T.Z. e “Feel That Beat” dei 2 Static. In realtà Gabry Ponte cerca la via solista già a gennaio 1999 con “Always On My Mind” (nulla a che vedere col brano omonimo contenuto nel suo primo album) del progetto The Gang @ Gabry Ponte, con la voce di Jeffrey Jey. Ad onor del vero però il primissimo tentativo risale addirittura al 1997 con una traccia intitolata “Power Of Love” realizzata insieme a Simone Pastore dei Da Blitz di cui parliamo qui, che si aggiungeva ad altri progetti curati da lui stesso all’interno della Bliss Corporation come Sangwara e Blyzart. Il brano non esce ufficialmente ma anni dopo viene inserito all’interno del catalogo di Danceria, portale attraverso cui l’etichetta di Massimo Gabutti (intervistato qui) e Luciano Zucchet vendeva la propria musica in formato digitale e ricercava giovani talenti attraverso un nutrito forum.

Molella & Phil Jay – Don’t You Want Me
Una problematica molto diffusa, fin dalla nascita della house music e dell’utilizzo dei campionatori come strumento per creare musica, è legata all’utilizzo dei sample, parti di altre canzoni già edite e magari di successo adoperati per creare brani inediti. Come visto più sopra nei casi di Claudio Coccoluto e dei Freestylers, non sempre gli autori o gli editori originali permettono l’uso di campionamenti tratti dal proprio repertorio e questo, di fatto, può bloccare l’uscita delle musiche che li contengono. È proprio quanto accaduto a “Don’t You Want Me”, follow-up di “With This Ring Let Me Go”, successo estivo del duo Molella e Phil Jay i quali, dopo aver rispolverato il brano “Let Me Go!” degli Heaven 17, targato 1982, tentano di fare il bis riprendendo una hit degli Human League dello stesso anno, “Don’t You Want Me”. L’operazione non va in porto a causa della mancata autorizzazione del “sample clearance” da parte degli autori come dichiarato dallo stesso Molella in una puntata del 2008 di Samples, programma condotto all’epoca da Paolo Noise e Wender su Radio 105.

Netzwerk - Love Is Alive
Annunciato come il nuovo Netzwerk, “Love Is Alive” esce come Johanna

Netzwerk – Love Is Alive
Progetto di punta della DWA (etichetta a cui abbiamo dedicato qui una monografia) fino a metà degli anni Novanta e passato nel 1997 alla scuderia della Dancework per il poco noto “Dream”, Netzwerk, animato dai toscani Gianni Bini, Fulvio Perniola, Marco Galeotti e Maurizio Tognarelli ha segnato il periodo eurodance grazie a diverse hit, in primis “Passion” (di cui parliamo qui) e “Memories”, entrambi interpretati da Simone Jackson, successivamente nota come Simone Jay come raccontiamo qui. Nel 1999 su Volumex, sublabel dell’etichetta milanese gestita da Fabrizio Gatto (intervistato qui) e Claudio Ridolfi, viene annunciato il nuovo singolo dei Netzwerk intitolato “Love Is Alive”. L’uscita ufficiale avviene però sotto un altro nome, Johanna, dietro il quale si nasconde Karen Jones, cantante precedentemente impegnata col progetto Bit Machine ad opera di Daniele Davoli e i suoi Black Box. Una delle quattro versioni è firmata dal compianto Alberto Bertapelle alias Brainbug, che pochi anni prima spopola a livello internazionale con “Nightmare”.

R.A.F. By Picotto - What I Gotta Do
L’info sheet che accompagna la tiratura promozionale di “What I Gotta Do” su GFB

R.A.F. By Picotto – What I Gotta Do
Per “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto probabilmente sarebbe più corretto parlare di ripensamento giacché il brano, alla fine, viene pubblicato ma con alcune modifiche e soprattutto con un nome d’artista diverso da quello pianificato in prima battuta. Le copie promozionali iniziano a circolare a gennaio del 1994 e contengono quattro versioni tra le quali svetta l’Extended Mix. In buona sostanza il pezzo è un rifacimento eurodance di “Days Of Pearly Spencer” di David McWilliams, un brano del 1967 che forse ispira Cerrone per “Supernature” e che viene coverizzato a più riprese da artisti sparsi per il mondo, tra cui Marc Almond e la nostra Caterina Caselli che lo reintitola in “Il Volto Della Vita”. Ai tempi Mauro Picotto, affiancato in studio da Steven Zucchini, ricorre anche a uno stralcio melodico di “Pure” dei GTO e un paio di frammenti vocali: uno è un campionamento preso da “My Family Depends On Me” di Simone e già usato in “What I Gotta Do” di Antico, l’altro è un rap di Ricardo Overman alias Mc Fixx It (“I love music yeah, can you feel it”) che si ritroverà qualche mese dopo in “Move On Baby” dei Cappella. “What I Gotta Do” finisce proprio nel secondo album di questi ultimi intitolato “U Got 2 Know”. Contattato con la speranza di poter aggiungere dettagli circostanziati, l’artista piemontese purtroppo non rammenta nello specifico le ragioni che spinsero la Media Records a cambiare il nome dell’artista ma ipotizza che ciò avvenne perché sorse l’esigenza di ultimare il nuovo album dei Cappella sottolineando, come peraltro già fatto nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” a cui abbiamo dedicato un articolo qui, come allora ci fosse chi produceva musica e chi invece decideva la modalità con cui pubblicarla, nomi e marchi inclusi. «Più che la traccia in sé, riascoltare il pezzo mi fa pensare a quanti ingredienti eterogenei cercai di incastrare» commenta Picotto. «Oltre alla melodia di “Days Of Pearly Spencer” e il campionamento di Simone, in “What I Gotta Do” c’erano anche un frammento di Herb Alpert e uno preso da un mix hip hop che comprai al Disco Più di Rimini. È pazzesco come un riff o una tonalità inconsueta possano fare riaffiorare ricordi ormai andati persi, ma del resto è questa la magia della musica». Vale la pena sottolineare infine che a “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto venne abbinato anche un numero del catalogo GFB in previsione di una pubblicazione ufficiale, lo 063, poi riassegnato a “Doop” dell’omonimo duo olandese (formato da Ferry Ridderhof e Peter Garnefski, già artefici del successo “Hocus Pocus”) che la Media Records prende in licenza per il territorio italiano.

Systematic – Upside Down
Una partenza sotto i migliori auspici colloca Systematic, a cui abbiamo dedicato qui un articolo/intervista, tra i progetti italiani meglio riusciti del ’94, anno di grazia dell’eurodance. Dopo lo sprint iniziale ottenuto con “I Got The Music” e “Love Is The Answer” però l’interesse si flette sino a lasciare quasi nell’anonimato “Stay Here (In My Heart)”, cantato da Sandy Chambers, e “Suite #1 D-Minor/Klavier Concert”, entrambi del ’96. Affidato a un nuovo team di produzione composto dal musicista Bruno Guerrini e dal giornalista Riccardo Sada, Systematic risorge nel 2000 con “Everyday”, ispirato dai primi successi messi a segno dagli Eiffel 65. L’interesse mostrato da vari Paesi europei lascia presagire un follow-up che viene effettivamente annunciato a febbraio del 2001 proprio da Riccardo Sada attraverso la sua rubrica Le Fromage sulle pagine del mensile d’informazione discografica DiscoiD.

Systematic - Upside Down
“Upside Down” esce nel 2021, venti anni dopo la sua creazione

Contattato per l’occasione, Sada spiega che l’intenzione era quella di dare un seguito al fortunato “Everyday” ma usando un riff potenzialmente utilizzabile per le suonerie dei telefoni cellulari, un segmento di mercato che in quel periodo iniziava a mostrare interessanti potenzialità e sbocchi commerciali. «Guerrini mi telefonò mentre ero in vacanza in Grecia e mi fece ascoltare un frammento della melodia ma mi resi subito conto che non fosse forte e immediata come quella di “Everyday”» ricorda il giornalista. «Il testo e la voce erano ancora di Ivano Fizio e i riferimenti agli Eiffel 65 non mancavano, tuttavia la Energy Production, proprietaria del marchio Systematic, preferì non investire denaro su “Upside Down”, essenzialmente nato dallo scarto della melodia di “Everyday”». A maggio del 2021, a un ventennio di distanza, l’etichetta di Raimondi e Ugolini pubblica in digitale “Upside Down” inserendolo peraltro nella tracklist di “Love Is The Answer”, un best of che raccoglie il repertorio del progetto Systematic.

Ti.Pi.Cal. - What I Like

Ti.Pi.Cal. – What I Like
Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea sono stati per anni, con il nome Ti.Pi.Cal. e altri, tre dei produttori più prolifici della scena dance italiana. Dopo un decennio costellato di hit legate al loro progetto più importante, Ti.Pi.Cal. per l’appunto, nell’estate del 2001 esce “Is This The Love”, brano che vede il ritorno alla parte vocale del cantante americano Josh Colow. Successivamente arriverà una pausa lunga ben dieci anni intervallata però, nel 2006, dal promo single sided su LUP Records di una traccia cantata da Kimara Lawson e dal titolo “What I Like”, caratterizzata da un insolito stile pop. A tal proposito, Vincenzo Callea chiarisce: «il brano risale al 2000 e doveva sancire il nostro passaggio dalla New Music International alla Time ma poi l’accordo con l’etichetta di Giacomo Maiolini saltò e quindi anni dopo uscì solo come promo, ricevendo qualche passaggio su Radio DeeJay. A dir la verità non sembrava neanche un disco dei Ti.Pi.Cal.». Il successo busserà ancora alla porte dei tre siciliani con “Stars”, tra le hit dance dell’estate 2011.

Tony H – Year 2000 (I Wanna Fly)
Entrato nella scuderia BXR nel 1998, Daniele Tognacca alias Tony H incide per l’etichetta della Media Records (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) “Zoo Future”, “Sicilia…You Got It!” e “Tagadà/www.tonyh.com”. A luglio del 2000 su DiscoiD viene annunciata l’uscita di un quarto disco, composto da “due versioni diversissime tra loro, una strumentale, l’altra cantata e dedicata all’estate di Ibiza”. Il trafiletto rimanda anche alla pubblicazione nel Regno Unito prevista a settembre. Di questo pezzo però, intitolato “Year 2000 (I Wanna Fly)” si perdono le tracce.

Tony H - Year 2000 (I Wanna Fly)
Una delle due compilation in cui finisce “Year 2000”

Contattato per l’occasione, Tognacca spiega che non riuscì a finalizzare il progetto per problemi di tempo perché, proprio in quel periodo, lasciò Radio DeeJay, dove era arrivato nel 1989, per approdare a Radio Italia Network che stava cominciando un nuovo percorso editoriale, e gli impegni in quella direzione finirono con l’assorbire tutte le sue energie. La lavorazione del brano non fu quindi portata a termine e si limitò a una sola versione che venne trasmessa come Disco Strobo in “From Disco To Disco”, su Radio DeeJay, nella puntata di sabato 29 aprile 2000. Quella stessa versione finisce nella tracklist del quarto volume della compilation “Collegamento Mentale” mixata dallo stesso Tony H e nel primo di “Maximal.FM” mixata da Ricky Le Roy, dove c’è un altro inedito confinato al CD in questione, “Happy” di Massimo Cominotto. Dal web però affiora una seconda versione di “Year 2000 (I Wanna Fly)” intitolata CRW Mix interpretata da Veronica Coassolo, in quel periodo voce del progetto CRW, che confermerebbe i dettagli emersi dal trafiletto su DiscoiD: a quanto riportato da un lettore del blog, a renderla disponibile anni addietro sul proprio profilo SoundCloud fu proprio Tognacca che però poi decise di rimuoverla. Sul fronte “annunciati ma mai pubblicati”, di Tony H si ricordano pure il mash-up “Hard Spice” del 1997, di cui parliamo qui, e “Delicious” che il DJ originario di Seregno presenta attraverso le pagine di DiscoiD a dicembre 2001 quando sta per partire il suo nuovo programma chillout su Radio Italia Network chiamato provvisoriamente “Delicious” per l’appunto ma poi diventato “Suavis”. Si segnala infine la ripubblicazione della Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” sotto il titolo “Mutation” e l’artista Pivot, su Pirate Records, l’ennesima delle etichette sussidiarie della Media Records. A oggi resta ignota la ragione per cui ciò avvenne.

USURA - Evolution - Magic Fly
L’advertising su cui si fa cenno a “Evolution/Magic Fly” (giugno ’96)

U.S.U.R.A. – Evolution/Magic Fly
Esplosi in tutta Europa tra 1992 e 1993 grazie a “Open Your Mind” che la bresciana Time Records pubblica su Italian Style Production a cui abbiamo dedicato qui una monografia, gli U.S.U.R.A. tentano di mantenere alte le proprie quotazioni per buona parte degli anni Novanta ma riuscendo solo parzialmente nell’impresa. Il team, rappresentato pubblicamente dai veneti Claudio Varola, Michele Comis ed Elisa Spreafichi ma completato, nell’attività in studio, dal produttore Valter Cremonini e dal musicista Alex Gilardi, continua a raccogliere consensi significativi sino al 1995. Nella seconda metà del decennio, quando l’eurodance cede il passo a nuove tendenze, il marchio perde quota. A “Flying High”, cantata dalla britannica Robin Campbell che aveva già interpretato dei brani per gli Alex Party, avrebbe dovuto fare seguito “Evolution/Magic Fly”, come annunciato da una pagina pubblicitaria della Time Records a giugno ’96. In realtà sul mercato, in estate, arriva “In The Bush”, remake house di un classico disco/funk del 1978 degli americani Musique. Contattato per l’occasione, Alex Gilardi rivela di non ricordare nulla in merito a “Evolution”, diversamente da “Magic Fly”, cover dell’omonimo degli Space del 1977. «Lo reinterpretammo in chiave dream progressive, così come voleva la moda del periodo, ma alla fine, su suggerimento di Giacomo Maiolini, rimase nel cassetto» afferma a tal proposito. Per gli U.S.U.R.A. ci sarà una nuova fiammata nel 1997 grazie al remix di “Open Your Mind” realizzato da DJ Quicksilver (e dal fido collaboratore Tommaso De Donatis). Sull’onda di questo risultato Maiolini affida proprio a loro “Trance Emotions” del 1998, rimasta l’ultima tessera del progetto nato a Padova di cui però si ipotizza un ritorno nel nuovo millennio.

Jinny - Don't Stop The Dance
La pagina pubblicitaria che annuncia “Don’t Stop The Dance” di Jinny (maggio ’95)

Nel 2002 infatti la Time distribuisce delle copie promozionali single sided con su inciso “Rage Hard”, rifacimento dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood. «Purtroppo non riuscimmo ad ottenere l’autorizzazione per l’uso dei sample e ritenemmo inutile proseguire, quindi quel promo venne siglato col nome Arsuu, anagramma di U.S.U.R.A.» spiega ancora Gilardi. Andando indietro negli anni e spulciando nella stampa dell’epoca, si ritrovano altri annunci della Time Records non andati a buon fine, come quelli relativi a possibili follow-up previsti per il 1995 di progetti curati dallo stesso team di produzione degli U.S.U.R.A. ovvero Silvia Coleman, Deadly Sins e Jinny. Per quest’ultimo in particolare, un advertising a maggio 1995 fa cenno a “Don’t Stop The Dance” ma ad uscire, poche settimane più tardi, è invece “Wanna Be With U” interpretata in incognito da Sandy Chambers. «Per un certo periodo eravamo come in fabbrica, la mole di musica che componevamo era talmente grande che divenne difficile se non impossibile tenere traccia di tutto. Non escludo quindi che “Don’t Stop The Dance” di Jinny (act di cui parliamo qui, nda) possa essere stato uno degli innumerevoli provini poi scartato per qualche motivo e magari riciclato, parzialmente o integralmente, per progetti di nome differente» conclude Gilardi.

(Giosuè Impellizzeri & Luca Giampetruzzi)

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La carriera di Digital Boy, quando la techno divenne pop

Parlare di techno, in Italia, è sempre stato piuttosto difficile e controverso, specialmente in riferimento ai primi anni Novanta quando il genere sbarca da Detroit nel Vecchio Continente e inizia a europeizzarsi mutando sensibilmente le proprie caratteristiche in base a diverse dinamiche, inclusa la collocazione geografica. Da noi, ad esempio, c’è una cerchia di artisti, prevalentemente romani, che tiene bene a mente la lezione impartita dai decani della Motor City, ma è una minoranza. La techno che prende piede nello Stivale, tra 1991 e 1992, è prevalentemente figlia della new beat belga amalgamata a elementi della cultura rave della produzione anglo-olandese. Un filone edificato su gimmick ricavati da campionamenti di provenienza eterogenea (incluse pellicole cinematografiche, cartoni animati e suoni onomatopeici), assoli di sintetizzatori e strutture ritmiche con kickdrum in evidenza: per un numero imprecisato di italiani infatti, techno è sostanzialmente tutto ciò che gira su una cassa marcata e bpm sostenuti, e va messo in netta antitesi con l’house/garage permeata invece di sonorità più affini agli strumenti tradizionali e legata a parti cantate. Secondo tale approccio semplificatore, la techno si configura quindi come un genere rabbioso, sfrontato, energico, vigoroso, adrenalinico, quasi sempre strumentale e alimentato dalle tec(h)nologie che invadono capillarmente ogni studio di registrazione, sintetizzatori, batterie elettroniche e soprattutto campionatori con cui captare ed isolare frammenti da ogni dove e ricollocarli all’interno di nuovi nuclei sonori.
Tra i protagonisti italiani di questa fase c’è un giovane ligure, Luca Pretolesi, nato a Genova nel 1970 e attratto dalla musica al punto da mollare la città natale a sedici anni per trasferirsi a Milano dove frequenta una scuola per apprendere i rudimenti delle registrazioni audio, Professione Musica. «Ero il più piccolo della classe e frequentai quel corso per un triennio ma, vista la giovane età, non pensavo di utilizzare ciò che stessi apprendendo per qualcosa di preciso» rivela in questa intervista del 2015. In realtà Pretolesi metterà presto a frutto le conoscenze acquisite in quella scuola del comune meneghino, decisive per la sua carriera artistica che inizia inaspettatamente da lì a breve.

La Bestia
S 900/S 950, la prima autoproduzione che Pretolesi pubblica su Demo Studio

1990, il Demo Studio e le prime produzioni da indipendente
L’house music è la grande novità in ambito dance che dal 1989 in avanti gli italiani, dopo un biennio di training come raccontato qui, riescono ad esportare in ogni angolo del globo, Stati Uniti inclusi. Si tratta di un genere capace di mandare in frantumi l’elitarismo che per decenni ha permesso di comporre musica solo ad un certo tipo di musicisti, un suono ancora più “democratico” dell’italo disco degli anni immediatamente precedenti perché non prevede necessariamente uno schema legato al formato canzone che implichi quindi un testo e un cantante che lo interpreti. La house music funziona anche in forma strumentale ma può comunque vantare voci d’eccezione grazie al campionatore, così come testimonia uno dei grandi successi nostrani dei tempi, “Ride On Time” dei Black Box, costruito sul sample carpito, suo malgrado, a Loleatta Holloway e la sua “Love Sensation”. Con una spesa relativamente abbordabile si può approntare un provino tra le mura casalinghe per poi affinarlo in qualche studio più equipaggiato e farlo mixare in modo appropriato per procedere con la stampa su vinile. C’è anche chi riesce a fare tutto in modo autonomo ed indipendente proprio come Pretolesi: «rispetto ai colleghi dell’epoca ero un ibrido» afferma nell’intervista sopraccitata. «Sapevo come registrare gli strumenti, ero un tastierista ed anche un DJ, fusi queste capacità per creare la mia musica occupandomi pure del mixaggio della stessa». Con un po’ di risparmi messi da parte, Pretolesi acquista un campionatore Akai S 900, un sequencer Roland MC-500 e una batteria elettronica Roland TR-909. Con quelli crea il Demo Studio, un piccolo home studio allestito nel retrobottega del negozio di ceramiche di famiglia, ai tempi al 21 di Largo Giuseppe Casini, a Chiavari. «Aspettavo che i miei (Sergio Pretolesi, musicista, e Francesca Musanti, pittrice, in seguito coinvolti in alcune produzioni discografiche del figlio, nda) chiudessero il negozio per fare musica, a volte fino al mattino, e subito dopo andavo a scuola» racconta in questa intervista edita da Vice nel 2012. «Era un periodo in cui riuscivo a completare anche quindici pezzi al mese. Il proprietario (Enrico Delaiti? nda) del negozio di dischi da cui mi rifornivo, Good Music, mi convinse a mandare una cassetta con un mixato a Radio DeeJay. Non avevo grosse aspettative però ricevetti una telefonata da Molella che mi invitava a partecipare ad un contest che la radio avrebbe organizzato da lì a poco all’Aquafan di Riccione, la Walky Cup Competition. Era il 1989 e a sfidarci eravamo io, Mauro Picotto, Daniele Davoli dei Black Box e Francesco Zappalà (ma pure Max Kelly e Fabietto Cataneo come raccontiamo rispettivamente qui e qui, nda), tutti giovanissimi. Vinse Picotto ma ebbi comunque la sensazione che tutto si stesse muovendo nella direzione giusta ed è incredibile come ognuno di noi poi abbia avuto successo».

Demo Studio logo
Il ritratto di Beethoven e il logo del Demo Studio a cui questo pare ispirarsi chiaramente

Nel 1990 la techno inizia il processo di europeizzazione ma, come detto all’inizio, in Italia solo una minoranza segue con attenzione il fenomeno e a dirla tutta il confine tra house e techno è labile e non ancora definito come invece sarà poco tempo dopo. Pretolesi, convinto che le sue creazioni siano all’altezza dei dischi che trova in vendita nei negozi, decide di provarci. La prima (auto)produzione si intitola “La Bestia (Bring It On Down)” e la firma con uno pseudonimo-citazione, S 900/S 950, un palese rimando ai campionatori Akai S900 ed S950, assoluti protagonisti della dance music prodotta a cavallo tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il brano viene pubblicato su Demo Studio, brand omonimo del citato studio di Pretolesi per l’occasione abbinato ad un logo che vede la fumettizzazione di quello che pare il volto di Ludwig van Beethoven con la cuffia che affiora sotto la fluente capigliatura. A seguire arriva “Electric Live”, questa volta firmato Luca P. e prodotto in coppia con Vincenzo Ciannarella con cui Pretolesi ricostruisce “Electric Fling” dei RAH Band con divagazioni hip house e downtempo. La traccia vive una seconda vita attraverso il remix di M&M Crew edito dalla tedesca Hansa e distribuito in Europa dalla BMG Ariola oltre ad essere licenziata in Germania dalla Metrovynil per intercessione della Discomagic di Severo Lombardoni.

Kokko
“Kokko” dei Digital Boys, inciso sul lato b del terzo e ultimo 12″ su Demo Studio (1990)

«Dopo i primi dischi alcuni amici mi dissero che la mia musica suonava davvero bene e così iniziai a produrre e mixare anche per altre persone» aggiunge Pretolesi nell’intervista del 2015. Tra 1990 e 1991 infatti è impegnato come mixing engineer in “Eurovision” di Demo, sulla Tasmania Records, e “Back In The Time” di Kamera, su Flying Records. A quest’ultima, con cui chiude un accordo di distribuzione in contovendita, si presenta col terzo (ed ultimo) disco su Demo Studio che, come avvenuto per “Electric Live”, è costruito a quattro mani, questa volta con Mauro Fregara con cui Pretolesi forma il duo dei Digital Boys. Si intitola “Techno (Dance To The House)” ma di techno non ha nulla. È un rimaneggiamento di “Dance To The House” di The House Crew edito dalla Strictly Rhythm e il featuring attribuito al fittizio Cool De Suck (ironica anglofonizzazione di cul-de-sac?) in realtà cela il campionamento dell’acappella originale di Norberto ‘Bonz’ Walters. Nulla di autenticamente nuovo insomma. La sorpresa però è incisa sul lato b dove si trova “Kokko” rivista in due versioni, Elettro Mix e Suicide Mix, in cui si sviluppa un carattere musicale insolito. A differenza dei pezzi sinora messi in commercio, sostanzialmente manipolazioni ed interpolazioni di tracce già edite, in “Kokko” viene convogliata maggiore vitalità ed esuberanza oltre ad elementi saldati tra loro da patch campionate (su tutte l’hook ‘dance, you got the chance’ preso dalla Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters Featuring MC Action e finito anche in “Dance, You Got The Chance” dei Rhythm Masters). La lunga lingua filo acida che si dipana lungo la stesura, troncata dalle punteggiature di stab, fa di “Kokko” qualcosa di diverso dalla classica house cantierizzata da un numero crescente di etichette, seppur un vocione continui a declamare “house”. «Grazie ad un passaggio di Albertino su Radio DeeJay le mille copie che avevo stampato a mie spese si esaurirono in due giorni così la Flying Records decise di mettermi sotto contratto e stamparne subito altre trentamila» svela ancora nell’intervista a Vice. «Quello fu il momento della svolta, cominciai a suonare in giro per l’Italia e l’Europa proprio quando la techno veniva sdoganata nei club e nasceva la rave culture».

In Order To Dance 2
“Kokko” dei Digital Boys finisce nel secondo volume di “In Order To Dance”, sulla belga R&S Records

A mostrare interesse per “Kokko” sono anche i DJ esteri sparsi tra Germania, Regno Unito (dove tra i supporter pare ci fosse anche Sasha), Paesi Bassi e Belgio. Ma non è tutto: il brano viene ripubblicato in Spagna dalla Max Music, ai tempi etichetta particolarmente influente nell’area iberica, e scelto da Renaat Vandepapeliere per il secondo volume della compilation “In Order To Dance” su R&S Records. In tracklist ci sono tracce di CJ Bolland, Frank De Wulf, Joey Beltram, James Pennington, Dave Clarke, Mark Ryder ed altri due italiani, i Free Force (Roberto Fontolan e il compianto Stefano Cundari) col brano “M.I.R.C.O.”. «”Kokko” riempiva le piste delle discoteche, in Italia e all’estero» ricorda oggi Mauro Fregara, contattato per l’occasione. «Impiegammo un pomeriggio per realizzare “Techno (Dance To The House)”. Dopo aver mangiato una pizza e bevuto una birra tornammo in studio e in appena un’ora nacque “Kokko”. “Techno (Dance To The House)” germogliò dai ripetuti ascolti della rivoluzionaria “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. (di cui parliamo qui, nda), ma rispetto a “Kokko” funzionò poco. Ai tempi incidere un disco di musica dance era una scommessa, specialmente per chi, come noi, provava a fare roba innovativa. Prima di collaborare con Luca, avevo prodotto un altro disco insieme a Charlie Storchi, un bravissimo DJ con cui lavoravo a Radio Babboleo. Si intitolava “Calanza” ed era firmato Macha, ma non ebbe grandi riscontri seppur fu utilizzato per un servizio mandato in onda dalla Rai, forse Tg2 Dossier, in cui si parlava di discoteche ed ecstasy. Andò decisamente meglio con “Kokko”, un successo anche ad Ibiza. Tuttavia dopo quello non incisi più dischi, concentrandomi sul lavoro in radio (facevo il tecnico per un programma chiamato Rock Cafè che andava in onda da Milano). Quella fu l’unica apparizione dei Digital Boys, un nome che ideai proprio io: la parola “digital” in quel periodo era sinonimo di tecnologia e faceva pensare subito al futuro. Poi forse la Flying Records suggerì a Luca di tenere l’alter ego al singolare per il suo progetto solista ma è solo una supposizione perché io non fui informato su nulla e tutto finì così come era iniziato» conclude Fregara. “Kokko”, comunque siano andate le cose, apre di fatto un nuovo scenario per Pretolesi che da quel momento diventa Digital Boy.

Gimme A Fat Beat
“Gimme A Fat Beat” è il brano con cui Digital Boy debutta sulla Flying Records

1991-1992, l’ingresso nella Flying Records e il boom dell’eurotechno
“Kokko”, b-side della terza autoproduzione di Pretolesi, è una palla di neve che si trasforma in valanga e cambia letteralmente lo status quo. Il successo raccolto in vari Paesi europei gli fa guadagnare un ingaggio dalla Flying Records, tra i poli discografici italiani più agguerriti in quel momento storico. Con un ruolo importante ricoperto anche come distributore ed importatore (ha una filiale a Milano, in Via Mecenate, ed una a Londra a cui se ne aggiungerà poi una terza a New York), la casa discografica campana di Flavio Rossi ed Angelo Tardio mette Pretolesi sotto contratto e nel 1991 pubblica “Gimme A Fat Beat”. Trainato dall’hook vocale preso da “The Party” di Kraze e frammenti di “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Jewel (Rough Cut)” dei Propaganda, il brano non impiega molto a consacrarsi in Italia, complice il supporto massivo di Albertino che lo porta al vertice della DeeJay Parade. Sul centrino del mix si rinviene, seppur piccolissimo, il logo del Demo Studio, ultima connessione con la breve parentesi “indie” dell’artista. La copertina invece, di Patrizio Squeglia, vede una sorta di installazione artistica col corpo di una donna sovrappeso seduta su un televisore. Un secondo televisore è piazzato al posto della testa. «La composizione grafica aveva solo un riferimento metaforico col titolo, appunto il “fat beat”, ed usai un concetto rappresentativo puramente astratto» spiega Squeglia poche settimane fa. «Nonostante il brano avesse un evidente suono accattivante e molto pop, allo stesso tempo risultava decisamente originale per i tempi. Per questo mi interessava creare un’immagine che potesse colpire ed incuriosire senza essere per forza didascalica, ma volevo soprattutto che la copertina catturasse un pubblico internazionale come quello del mercato inglese dove la creatività nella musica stava disegnando un percorso innovativo che in breve tempo andò ad influenzare tutti i settori merceologici e non».

Technologiko
Il fronte della copertina di “Technologiko” occupato integralmente dal primo logo di Digital Boy realizzato da Patrizio Squeglia

“Gimme A Fat Beat”, con la sua energia frenetica e ribollente, anticipa l’uscita del primo album di Digital Boy, “Technologiko”, pubblicato su vinile, cassetta e CD. Su quest’ultimo la tracklist include due tracce in più, la blippeggiante “Unisys” e “Yo! Techno”. La scelta di mettere sul mercato un album con questa musica è parecchio inusuale ai tempi, specialmente in Italia dove la dance viaggia quasi esclusivamente su 12″. L’LP, tendenzialmente legato ad ambienti pop e rock, faticherà non poco ad affermarsi nel comparto della musica da discoteca, ma è un chiaro segno di come alla Flying Records ambissero a ridurre la distanza tra mercato pop e dance, e fare di Digital Boy una star giovanile gestita come quelle dei grandi concerti. La stampa su vinile (gatefold), cassetta e CD ne rappresenta un’ulteriore conferma. Da “Technologiko” affiora un suono di matrice nordeuropea, fortemente dominato dall’uso del campionatore e dalla partizione sampledelica post marssiana come attestano “Digital Danze”, “This Is Metal Beat!”, riadattamento di “Acid Rock” di Rhythm Device, o “Rave Situation” con classici stab e voci adoperate come snodi ritmici, ma a presenziare è pure una solarità dal taglio melodico quasi eurodance con parentesi rappate in stile Technotronic (“Logik”). C’è spazio anche per una nuova versione di “Kokko” chiamata Jungle Remix (il “jungle” probabilmente deriva dai suoni ambientali usati ed evidenti nell’intro). Il fronte della copertina è occupato per intero dal logo di Digital Boy racchiuso in un quadrato di colore azzurro. «Il logo fu realizzato da me contestualmente alla scritta (rinvenibile sul retro e all’interno del gatefold, nda) “Digital Boy”» spiega ancora Squeglia. «Più che un significato specifico, questo segno distintivo incastrato tra le due parole aveva un riferimento preciso a quelle che erano le linee guida della grafica che si stava sviluppando all’inizio degli anni Novanta. La scelta di usare due elementi dalla forma rigida e definita (quadrato ed ellisse) disturbati da un graffio centrale, fu dettata dalla volontà di creare una rottura con quello che era stato il segno “morbido e romantico” che aveva accompagnato diversi progetti dell’industria discografica italiana negli anni Ottanta». Un elemento grafico di discontinuità insomma, che faccia il paio con il tipo di musica profondamente differente da ciò che il decennio precedente aveva lasciato in eredità.

Il secondo singolo estratto da “Technologiko è “OK! Alright”, ancora costruito su quell’essenzialità che tiene insieme tutti i pezzi pretolesiani del periodo innestati su moduli simili ossia brevi campionamenti a dare respiro tra gli anelli dei loop ritmici, un basso in stile Bobby Orlando su onda quadra, sirene e mini riff di poche note sincopate. Licenziato in Belgio dalla Music Man Records, il brano nasce sulla base di “OK, Alright” di The Minutemen, progetto del DJ newyorkese Norty Cotto edito dalla Smokin’ nel 1989. Così come si usa fare ai tempi, escono anche i remix tra cui quelli di Frank De Wulf e DJ Herbie, il primo all’opera su “Gimme A Fat Beat”, il secondo su “OK! Alright” e “Kokko”. Il 1991 è pure l’anno in cui debutta la UMM – Underground Music Movement, diretta artisticamente da Angelo Tardio e diventata presto un marchio di punta della Flying Records. Proprio a UMM Pretolesi destina “The Voice Of Rave” del progetto one shot omonimo, probabilmente interpretato nelle parti vocali dall’amico Ronnie Lee. Nel catalogo della main label del gruppo discografico napoletano, Flying Records per l’appunto, finisce invece “Just Let Your Body Ride” di Oi Sonik, pure questo limitato ad una sola apparizione e portato in Belgio dalla Music Man Records. Parallelamente inizia a muoversi sia l’attività sul fronte remix, con le versioni approntate per “Extasy Express” dei The End e “Thunder” dei Mato Grosso di cui parliamo qui e qui, sia quella nel redditizio comparto compilation con “Techno Beat”, mixata dal ragazzo digitale, edita ancora da Flying Records e sequenziata prevalentemente su materiale made in Italy alternata a due presenze d’oltralpe, “Hell Or Heaven” del compianto L.U.P.O. e “What Time Is Love” dei KLF. Tra le altre, pure un inedito a firma Digital Boy, “Rotation”, blipperia hardcore mista a sirene e bassline squadrati ed un sample preso da “Jump To The Pump” di 2-Wize che fa impazzire le platee all’estero. Il pezzo si ritroverà, due anni più tardi, sul CD singolo di “Crossover”.

La techno riformulata in Europa ormai ha preso piede a livello internazionale, è una tendenza consolidata che macina numeri inimmaginabili sino a poco tempo prima. Sul mercato si riversa un fiume di techno music o presunta tale, in grado di conquistare un numero crescente di ascoltatori disposti a farsi risucchiare in un vortice di musica mai sentita prima, sia per suoni che ritmiche. Un autentico boom commerciale che da un lato porta al diapason il fenomeno ma dall’altro finisce per inflazionarlo attraverso prodotti alquanto discutibili. C’è chi spera che quel momento non finisca mai, soprattutto i grossisti e le etichette discografiche che producono a nastro prodotti seriali, ma pure chi auspica che tale sovraesposizione si eclissi al più presto perché sta portando alla deriva ciò che la techno era originariamente, ossia tutto fuorché genere governato da espressioni stilistiche convenzionali. La stella di Digital Boy è ancora luminosissima: è ospite in importanti club tra Germania, Belgio e Paesi Bassi, la “mecca” di quel suono ronzante, ma pure in alcuni prestigiosi eventi statunitensi, su tutti il rave organizzato a Los Angeles da R.E.A.L. Events il 7 marzo ’92 in cui il nostro si esibisce insieme ad artisti del calibro di Joey Beltram e Doc Martin. Il flyer dell’evento viene spillato ad un flexi-disc 8″ prevedibilmente diventato un cimelio per i collezionisti. Non mancano ovviamente le serate in Italia in posti come il Cocoricò o l’Immaginazione di Pantigliate, dove propone un suono rude, acido ed inselvaggito come si sente in questa clip. In buona sostanza Digital Boy diventa uno degli artisti di riferimento per chi segue un suono descritto da Christian Zingales nel libro “Techno” come «una sintesi commerciale dell’imprinting abrasivo di Underground Resistance, humus principale di una bastardizzazione europea che dettò legge su Radio DeeJay con Albertino che ribattezzò “zanzarismo” quel sound».

This Is Mutha Fuker
“This Is Mutha F**ker!”, una conferma per Digital Boy nel 1992

Le idee per alimentare la discografia non mancano e ripercorrendo le orme lasciate da “Who Is Elvis?” dei Phenomania (di cui parliamo qui) e flirtando col cosiddetto hoover sound ottenuto con la Roland Alpha Juno-2 ed eternato da pezzi tipo “Dominator” degli Human Resource o “Mentasm” di Second Phase, Pretolesi sfodera “This Is Mutha F**ker!”, con suoni che si spandono come inchiostro su carta assorbente. Sulla copertina del 12″ realizzata ancora da Patrizio Squeglia l’autore, fotografato da Emanuele Mascioni, inforca uno strano paio di occhiali con le lenti a forma di mirino, acquistati a Camden Town, nella capitale britannica, come lui stesso svela nell’intervista a Vice. «Quegli occhiali furono un accessorio che finì con l’identificare Luca anche senza usare il suo nome d’arte» spiega Squeglia. «Li propose in maniera autonoma e tutto il team della Flying Records sposò la scelta senza esitazioni. Tra l’altro la copertina di Digital Boy a cui sono legato di più è proprio quella di “This Is Mutha F**ker!”: per arrivare a quello scatto io ed Emanuele Mascioni chiedemmo a Luca, durante lo shooting fotografico, di eseguire un’infinita di flessioni e per questo, probabilmente, lui arrivò ad “odiarci”. La tensione del suo corpo, il bianco e il nero, il logo nella versione minimale e le proporzioni striminzite del titolo in netto contrasto coi titoloni usati da altri artisti italiani, resero quell’artwork iconico e riconoscibile in mezzo a mille. Operavo sempre in simbiosi con Luca, il fine ultimo era proporre l’immagine di un artista di carattere internazionale, diverso dalla solita pop star italiana vestita bene per l’occasione. Ovviamente il tutto era legato al sound proposto e penso che, visti i risultati ottenuti, il lavoro abbia funzionato».

Sul retro della copertina di “This Is Mutha F**ker!” si legge uno speciale ringraziamento rivolto all’Akai insieme ad una foto dell’MPC60, strumento che l’azienda nipponica sviluppa insieme a Roger Linn. Tra i crediti si apprende anche della nascita del Digital Boy Management, curato da Mario Cirillo. Ormai Pretolesi è lanciato nello star system, “This Is Mutha F**ker!” staziona per tutto il mese di aprile al vertice della DeeJay Parade e sembrano davvero lontanissimi i tempi in cui armeggia nello studio amatoriale ricavato nel negozio dei genitori provando ad assemblare suoni e ritmiche con le poche macchine di cui dispone. A remixare “This Is Mutha F**ker!” (che stando a quanto riportato dalle Raveology News a marzo 1997, avrebbe venduto 55.000 copie in Italia ma 200.000 includendo le numerose licenze estere) sono gli Underground Resistance, artefici di una versione in chiaro hoover style che palpita su uno sfondo fiammeggiante. In parallelo il team di Detroit approda sulla neonata UMM con “Living For The Nite” i cui remix vengono affidati a Digital Boy che ne ricava due reinterpretazioni, The Digital Morning After e The Boy’s Nite Before. A fare da “ponte” tra Pretolesi e gli americani è il citato Tardio che oggi rammenta: «Conobbi Jeff Mills e Mike Banks al New Music Seminar di New York dove mi trovavo insieme ad Alberto Faggiana, responsabile legale della Flying Records. Erano persone simpatiche, gentili ed affabili, in netto contrasto con la musica che producevano, così violenta ed alienante, e diventammo presto amici. Mi sembrò naturale quindi, qualche tempo dopo, coinvolgerli in alcuni progetti discografici che stavo curando. In virtù del ruolo consolidato come distributore, la Flying Records era un punto di riferimento non solo per le realtà italiane ma pure per quelle estere che si affidavano a noi sapendo di poter contare su una distribuzione efficace e capillare nonché su una società più che solida sotto il profilo finanziario, in quel periodo il fatturato annuo era pari a quaranta miliardi di lire».

Punizione
L’artwork della compilation “Punizione”

“This Is Mutha F**ker!” finisce pure nella tracklist della compilation “Punizione” in cui Digital Boy mette insieme un collage di pezzi ascritti a quel filone che vive l’apice del successo in Europa, da “Babilonia” di Moka DJ a “Mig 29” dei Mig 29, da “UHF” di UHF (tra i primi progetti di Moby) a “The Sound Of Rome” di Lory D e “Purgatorio” di Technicida passando per varie hit come “Pullover” di Speedy J, “Dominator” di Human Resource, “Who Is Elvis?” dei Phenomania, “Dance Your Ass Off” di R.T.Z. ed “Everybody In The Place” dei Prodigy. La copertina, ancora di Patrizio Squeglia, è una provocazione che i benpensanti possono tacciare facilmente di blasfemia, la riproposizione della crocifissione cristiana dove la croce è fatta però da maxi subwoofer e il volto di Cristo sostituito dal monitor di un computer, un chiaro rimando all’artwork di “Gimme A Fat Beat”. «Essendo ateo ho una percezione delle immagini sacre diversa rispetto a quella di un credente, per me il Cristo sulla croce è solo un uomo torturato ingiustamente» chiarisce Squeglia. «Terminologie come “Punizione”, “Yerba Del Diablo” (Datura, nda) e simili, erano frequenti ai tempi, specialmente nel circuito techno. Essere in bilico tra sacro e profano aveva un fascino particolare, catturava l’attenzione del pubblico che voleva cambiare le regole del club allontanandosi dalle pedane luminose e ballare nel buio, in linea con le basse frequenze del nuovo suono che stava esplodendo. L’utilizzo di immagini sacre (si veda la copertina di “The Age Of Love” di cui parliamo qui, nda) in contesti così forti veniva percepito come una grande volontà di rottura col passato e col finto perbenismo dilagante. Qui in Italia abbiamo un esempio eccellente di questa scuola di pensiero, il grande tempio della techno, sua maestà il Cocoricò, su cui ci sarebbe l’impossibile da raccontare soprattutto per quello che riguarda la grafica».

Futuristik
“Futuristik”, secondo LP di Digital Boy uscito poco dopo “Technologiko”

“This Is Mutha F**ker!” è il primo singolo estratto dal nuovo album, “Futuristik”, che la Flying Records stampa ancora su CD, cassetta e vinile, questa volta doppio. Rispetto a “Technologiko”, figlio delle sperimentazioni casalinghe generate durante quella sorta di apprendistato tra le mura del Demo Studio, il secondo LP vive in un’atmosfera variopinta e si nutre di una gamma ispirativa più ampia, probabilmente derivata dalle esperienze che l’autore matura in giro per l’Europa («non puoi fare dischi di successo se non hai un feeling e un contatto costante col pubblico» dirà in una videointervista nel 1994), e mostra un appeal meno commercia(bi)le. Non è inoltre un disco monocorde come potrebbe apparire il predecessore, Pretolesi esplora nuove vie cimentandosi in un paio di tracce filo house (“If You Keep It Up”, “Touch Me”) che mettono un po’ di brio nella tavolozza compositiva che comunque resta ad appannaggio dell’eurotechno forata da vocalizzi umani (“Avreibody Move”, “Jack To The Max”), cavalcata da suoni cristallini (“The B-O-Y”, “Wave 128”), stab di memoria rave (“D-Dance”, una specie di italianizzazione di “I Like It” di Landlord Featuring Dex Danclair), euforie hardcore (“Kaos”, “In The Mix”, “Now Come-On”, “Energetiko”), minimalismo post pulloveriano (“Tilt 21”). Di tanto in tanto affiorano gli interventi vocali di Ronnie Lee che ai tempi si fa chiamare MC Fresh, come quelli in “Children Of The House” registrata durante un live al Parkzicht di Rotterdam.

123 Acid
La copertina di “1-2-3 Acid!” dominata ancora dagli occhiali con le lenti a forma di mirino

“1-2-3 Acid!” è il secondo singolo preso da “Futuristik” in cui l’autore ritaglia un elemento vocale da “In The Bottle” dei C.O.D. e torna a campionare la Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters seppur nel video diretto da Nick Burgess-Jones quella parte venga mimata dal menzionato Lee, il futuro Ronny Money. In copertina finisce un altro scatto di Mascioni caratterizzato ancora dagli occhiali-mirino, gli stessi che si scorgono sull’artwork dell’album dove Pretolesi è immortalato per intero ed indossa t-shirt e scarpe SPX, brand britannico importato in Italia dalla Interga di Bressanone insieme ad altri marchi come Daniel Poole, Nervous, Apollo, Million Dollar, DeLong, World Tribe Productions, Caterpillar e Trigger Happy. Il modello Street Slam finito sull’artwork diventa particolarmente popolare nell’ambiente delle discoteche grazie a vari testimonial che l’Interga coinvolge ai tempi come Rexanthony, KK, Digital Boy per l’appunto e il suo master of ceremonies, MC Fresh, che in parallelo debutta da solista con “Don’t You Wanna Be Free”. A conti fatti Pretolesi è già un endorser capace di catalizzare i gusti del pubblico, principalmente dei giovanissimi, ed è desideroso di dare voce alla sua creatività non solo nella musica ed infatti firma col suo marchio una linea di abbigliamento (cappellini, t-shirt, pantaloni, accessori vari).

Digital Boy & SPX
Digital Boy è uno degli endorser italiani del brand britannico SPX (foto tratta da una brochure dell’Interga del 1992)

La Flying Records pubblica “Futuristik” anche in territorio britannico ma c’è qualcosa che non va secondo i piani. «Vorremmo approdare negli Stati Uniti ma è un mercato molto diverso da quello europeo e giapponese» dichiara il promoter Alessandro Massara in un articolo di David Stansfield pubblicato su Billboard il 4 luglio 1992. «Per raggiungere un vasto pubblico negli States è necessario che un artista venga gestito da una multinazionale. Dare in licenza il prodotto ad etichette indipendenti è irrilevante, possono muovere circa 5000 copie e non basta. Uno dei problemi che la Flying Records sta incontrando è rappresentato dal fatto che alcuni Paesi siano interessati solo ad un singolo» prosegue Massara. «La nostra priorità, al momento, è Digital Boy ma vorremmo andare oltre la vendita del classico mix visto che è tra i pochi artisti techno, in Italia, a potersi esibire come in un vero e proprio concerto. Per questa ragione abbiamo rifiutato diverse offerte giunte da etichette indipendenti, auspichiamo che qualche major possa farsi avanti magari dopo il New Music Seminar o il mega rave a Los Angeles previsto per il 4 luglio». Le speranze di Massara si infrangono, non c’è nessuna multinazionale interessata a Digital Boy che nel frattempo remixa “Nana” dei N.U.K.E. (uno dei progetti del tedesco Torsten Stenzel intervistato qui) e “Ti Sei Bevuto Il Cervello” di Control Unit, deriva demenziale dell’euro(techno)dance firmata da Albertino e Pierpaolo Peroni, per ovvie ragioni pompata sulle frequenze di Radio DeeJay. «A mio avviso tra la pubblicazione di “Technologiko” e “Futuristik” trascorse troppo poco tempo» afferma Tardio. «Farlo uscire pochi mesi dopo il primo LP fu un errore che si ripercosse sulle vendite, ridimensionate rispetto al precedente. A complicare ulteriormente la situazione fu inoltre la posizione dicotomica di Digital Boy nel mercato: in Italia era seguito perlopiù dai teenager ed era considerato un nome commerciale perché entrato nelle grazie di Albertino che lo supportava su Radio DeeJay al contrario dell’estero dove invece continuava ad essere un nome di nicchia dell’underground e credibile per un pubblico più adulto. Per questa ragione le multinazionali non si mossero, evidentemente non considerarono l’ipotesi di investire su un artista legato ad un genere musicale ancora lontano dai riflettori e dalle copertine patinate come allora era la techno». Nel corso dell’anno la Flying Records gli affida anche il mix di due compilation, “Punizione Continua” e “Digital Beat”, quest’ultima accompagnata da una copertina che richiama quella di “Futuristik” con una foto probabilmente scattata nella stessa session ma con una giacca di pelle al posto della felpa e un altro paio di SPX ai piedi, le CB 104 in nubuck rosso. Sotto il profilo musicale invece, la prima annovera qualche concessione techno (Underground Resistance, Solid State), la seconda invece tracima nel suono dance generalista italiano di allora (U.S.U.R.A., Anticappella, Ramirez, Glam, Mato Grosso) al quale l’artista si avvicina di più a partire dall’anno seguente.

1993-1994, l’avvicinamento all’eurodance e la fine del sodalizio con la Flying Records
A partire dal 1993 il trend commerciale europeo della techno va progressivamente sgonfiandosi, soverchiato da nuove tendenze che conquistano il gusto del grande pubblico. In Italia, tuttavia, c’è un colpo di coda rappresentato da un ibrido sonoro portato avanti da artisti come Ramirez, DJ Cerla, Masoko, Z100, Virtualmismo e Digital Boy. La figura di quest’ultimo si ritrova in una posizione difficile: la sua musica è fin troppo “cheesy” per i soldati dell’underground ma nel contempo suona troppo “dura” per gli irriducibili della melodia e del formato canzone. «Tra coloro che facevano techno nei primi anni Novanta, in Italia, sono quello che è finito in radio prima di altri» afferma a tal proposito l’artista in questa intervista a cura di Damir Ivic, pubblicata su Soundwall il 15 ottobre 2018. «”Kokko”, “Gimme A Fat Beat” e “OK! Alright” erano mandati in onda da Radio DeeJay e se finivi lì automaticamente diventavi “commerciale”. Lory D ha smesso di suonare i miei pezzi da quando iniziarono ad essere trasmessi in un certo tipo di contesto. Dal punto di vista pratico, divenni l’artista techno con un pubblico fatto di non appassionati techno. La Gig Promotion (agenzia di management legata a Radio DeeJay, nda) mi faceva suonare in posti dove il pubblico non era assolutamente composto da raver bensì da gente che frequentava le discoteche “normali”. I miei colleghi quindi ad un certo punto mi hanno visto andare “di là”, seppur io continuassi a suonare le stesse cose di prima, di fronte ad un’audience diversa, sì, ma la musica era la stessa».

Crossover
“Crossover” è l’unico brano che Pretolesi pubblica come Digital Boy nel 1993

Probabilmente è questa singolare collocazione nella scena che persuade Pretolesi a dare un taglio diverso alle sue (poche) produzioni discografiche, ridotte sensibilmente rispetto alle due annate precedenti. Alla Discoid Corporation, uno dei tanti tentacoli della Flying Records, destina due 12″ dell’amico Lee che abbandona le vesti di MC Fresh diventando Ronny Money, “Ula La” e “Money’s Back”. Solo uno invece il disco a nome Digital Boy uscito nel ’93, “Crossover”, successo estivo con cui l’artista, pur non cedendo in modo evidente alla costruzione tipica dell’eurodance, applica una sostanziale modifica alla matrice del suo stile adesso più vicino al modello tedesco di artisti come Genlog, General Base, N.U.K.E. o U96. Il titolo stesso del brano sembra sintetizzare gli intenti indicando un miscuglio di elementi eterogenei che possano transitare attraverso diversi mondi musicali. All’interno di “Crossover” c’è ritmo, energia, un breve messaggio vocale (dell’amico Ronny Money) ed una spirale acida, ma la costruzione assai prevedibile del tutto rivela un approccio che divide ben poco con la techno. Sul retro della copertina una foto, ancora di Mascioni, restituisce un’immagine di Pretolesi un po’ diversa rispetto a quella del biennio precedente, più composta e sobria e meno ravecentrica. La versione che apre il lato b, la L.U.C.A. Over Mix, pulsa su battiti accelerati e viene ulteriormente rivista nella L.U.C.A. Over Remix (solcata su un 12″ di colore blu) che pare una summa tra il suono spiritato dei Datura e le sincopi balbettanti di Ramirez. Sul lato a invece figura una Edit LP Mix che lascia supporre la presenza di un nuovo album di cui peraltro si parla ma che, come si vedrà più avanti, non vedrà la concretizzazione. L’Italia danzereccia accoglie con entusiasmo “Crossover”: sebbene non conquisti la cima della DeeJay Parade, il brano resta nell’ambita classifica settimanale per due mesi e mezzo circa (dal 3 luglio al 18 settembre) e la Flying Records cavalca comprensibilmente l’onda, prima con la “Crossover Compilation” mixata da Pretolesi in modo parecchio creativo a mo’ di medley, e poi con vari remix come quello di “Atchoo!!!” dei Control Unit e soprattutto quello per “Ricordati Di Me” di Fiorello, edito su vinile giallo e ricavato dallo stesso telaio di “Crossover”. Tutto sembra andare per il verso giusto ma alcune nuvole si profilano all’orizzonte.

Il 1994 si apre con “It’s All Right” della vocalist britannica Jo Smith, cover eurodance dell’omonimo di Sterling Void e Paris Brightledge uscito nel 1987. ‎A produrre, arrangiare e mixare il brano è Digital Boy nel suo Demo Studio. Sul lato b del disco, edito da Flying Records, c’è pure un inedito, “Incomprehensions”, scritto da Pretolesi e dalla Smith. Il titolo, a giudicare da ciò che avviene pochi mesi dopo, è forse un indizio su quello che sta avvenendo dietro le quinte? Su Discoid Corporation torna invece Ronny Money col poco fortunato “Again N’ Again”, un’altra produzione proveniente dal Demo Studio in chiave smaccatamente euro: il Digital Boy di adesso è davvero irriconoscibile se paragonato a quello di pochi anni prima. Rimasto nell’anonimato è pure il remix realizzato per “Another Love” di Further Out, sempre su Flying Records.

Dig It All Beat
Con “Dig It All Beat!” si conclude l’avventura di Digital Boy al fianco della Flying Records

Tuttavia le aspettative dei fan sono alte e ad aprile esce “Dig It All Beat!” che richiama i suoni e la stesura di “Crossover” ma con l’aggiunta di una componente pop più evidente derivata dalle presenze vocali incrociate di Jo Smith e Ronny Money. Sebbene ricordi il successo dell’estate precedente, “Dig It All Beat!” non riesce però a replicarne i risultati, non figura né tra i mix più venduti né tantomeno tra i titoli irrinunciabili di DJ ed emittenti radiofoniche. Fugace l’apparizione nella DeeJay Parade per appena due settimane a giugno e limitata alla parte più bassa della classifica. Il vento sta cambiando e il periodo più creativo sembra già essere alle spalle. Un’impasse. La figura di Digital Boy appare più aderente al fermento musicale italiano che a quello internazionale e la pubblicazione del secondo volume della “Crossover Compilation” non lascia adito a dubbi. In tracklist si va da Masoko Solo ad Anticappella, dai Datura a Silvia Coleman passando per Molella, The Outhere Brothers, 2 Unlimited ed Aladino. Non c’è ombra neanche dell’eurotechno e il pezzo che avrebbe potuto aprire una nuova traiettoria preservando connessioni col passato, “Inkubo”, viene relegato invece al CD singolo di “Dig It All Beat!”. Durante la primavera viene ancora annunciata l’uscita del nuovo album, il terzo, accompagnato da un VHS, atteso già ad ottobre ’93 come sottolinea Marco Biondi in una recensione su Tutto Discoteca Dance a maggio. «Il nuovo LP arriverà insieme ad un home video che raccoglie spettacoli fatti un po’ in tutta Italia e poi rieditati, oltre a brani nuovi» spiega Pretolesi in un’intervista rilasciata alla rivista Trend Discotec a giugno 1994. «In particolare c’è uno spettacolo fatto all’Ultimo Impero di Airasca che abbiamo filmato appositamente per la videocassetta con una troupe video e con piccole telecamere amatoriali». Uno scatto dell’evento in questione finisce sul retro della copertina di “Dig It All Beat!”, un’annunciazione in pompa magna di un lavoro che, almeno sulla carta, sembra molto forte. «”Digital Boy Live”, titolo dell’album ma pure del VHS, è un crossover di situazioni» prosegue l’artista nell’intervista. «È techno ma raccoglie influenze diverse. Ha voci, di Jo Smith e Ronny Money, completamente inedite, originali, e non più campionamenti come in passato. Sto lavorando a questo LP da molto tempo visto che faccio tutto da solo, penso i pezzi, li compongo e poi li mixo. I testi invece sono di Ronny Money. […] Nella mia musica rappresento me stesso, non c’è un team di studio che produce un pezzo da mettere in commercio ma un artista che si espone in prima persona e rappresenta un certo tipo di musica. Io sono un rappresentante della techno e sono me stesso in tutte le cose che faccio, negli spettacoli, nei dischi, nelle copertine. Non si tratta di un’immagine per vendere un prodotto. Il brano può essere commerciale ma è quello che sento io». Per l’occasione Pretolesi annuncia che da “Digital Boy Live” verranno estratti due o tre singoli ma nel momento in cui viene pubblicata l’intervista sono ancora da definire. «Posso però dire che uscirà un’edizione limitata e numerata su 10″ del singolo “Dig It All Beat!” con due ulteriori versioni del pezzo. Ne verranno stampate solo mille copie che verranno messe in vendita nei migliori negozi di dischi dopo una selezione fatta dalla Flying Records».

Dell’album, del VHS e del 10″ in limited edition però si perdono le tracce. A saltare fuori invece è una notizia clamorosa, iniziata a trapelare a fine estate: Digital Boy abbandona la Flying Records. In un primo momento sembrano solo voci di corridoio prive di fondamento ma nell’arco di qualche settimana giunge l’ufficialità. Pretolesi tornerà ad essere indipendente, col supporto distributivo della Dig It International di Milano. La Flying Records para il colpo mettendo sotto contratto Moratto, temporaneamente allontanatosi dall’Expanded Music di Giovanni Natale, intervistato qui, e i salernitani KK, reduci di gloriose esibizioni ai campionati DMC ed introdotti alla discografia dalla modenese Wicked & Wild Records di Fabietto Carniel, così come raccontiamo qui. «Tra ’93 e ’94 la musica di Digital Boy divenne sempre più commerciale e per questa ragione smisi di occuparmene» spiega ancora Angelo Tardio. «Entrare a far parte di un’agenzia di spettacolo come la Gig Promotion voleva dire vedere aumentare sensibilmente il numero delle serate ma nel contempo sacrificare la parte di pubblico che seguiva tutt’altra musica. Era impossibile tenere il piede in due scarpe e ad un certo punto Luca se ne accorse e mostrò il desiderio di tornare ad essere indipendente, forse per uscire dalla dimensione pop in cui lo aveva proiettato la Flying Records con importanti investimenti economici. Il nostro fu comunque un “divorzio” consensuale, non avevamo alcun interesse ad impedirgli di proseguire la carriera come meglio credeva. Ricordo Pretolesi come un ragazzo dal talento pazzesco, con una dimestichezza unica nell’usare le macchine, sia analogiche che digitali. Nonostante fosse poco più che ventenne, sembrava maneggiarle da sempre e in grado di parlare con ogni strumento su cui metteva le mani. Era inoltre una persona che accettava di buon grado i consigli e non nutriva il suo ego come altri artisti o presunti tali. Solitamente veniva da noi con un demo che ascoltavamo insieme e sistemavamo marginalmente, magari per qualche suono o dettagli della stesura. Era molto creativo ma a volte necessitava di essere indirizzato su qualcosa di preciso per non perdersi. Fui proprio io, ad esempio, a suggerirgli di usare la base di “OK, Alright” di The Minutemen che poi divenne “OK! Alright”, ma lungi da me prendermi dei meriti: Luca è il vero artefice di tutto quello che ha fatto, era una persona che capiva al volo e parecchio intuitiva. A mio avviso sono tre i pezzi cardine della sua discografia, “Gimme A Fat Beat”, “OK! Alright” e “This Is Mutha F**ker!”, il mio preferito. In quel periodo vendeva vagonate di mix, anche 50.000/60.000 copie a titolo, risultati che però non riuscì più ad eguagliare dopo aver abbandonato la Flying Records».

The Mountain Of King
Con “The Mountain Of King” Digital Boy torna al successo nell’autunno del 1994 e lancia la sua personale etichetta, la D-Boy Records

Un passo indietro per andare avanti: il ritorno all’indipendenza
Nonostante le interviste rilasciate nel corso del primo semestre ’94 non facciano sospettare nulla, corre voce che negli ultimi tempi i rapporti tra Digital Boy e la Flying Records non fossero idilliaci. Una volta esauritasi la spinta della bolla eurotechno, gonfiata tra 1991 e 1992 e poi scoppiata nel corso del ’93, sorge la necessità di voltare pagina e ricostruire una nuova immagine intorno al “ragazzo digitale” che però, probabilmente, non è allettato dall’idea di seguire le mode e le tendenze del momento. A chiarirlo è lui stesso in un’intervista a cura di Roberto Dall’Acqua, realizzata a settembre ma pubblicata a novembre sul mensile Tutto Discoteca Dance: «Negli ultimi tempi avvertivo il rischio di trovarmi prigioniero di un cliché, costretto dai vincoli contrattuali a dover fare un singolo di un certo tipo perché era estate ed uno di un altro tipo perché era inverno. Non avevo spazio per la sperimentazione, lavorare con un’etichetta mia mi tranquillizza molto in tal senso perché ho un totale controllo artistico su ciò che faccio». L’etichetta a cui fa riferimento è la D-Boy Records che debutta in autunno con “The Mountain Of King”, pezzo lanciato su una velocità atipica per la dance (specialmente italiana) del periodo e che ha una duplice valenza, riportare l’artista all’indipendenza e fargli riassaporare parte del successo dei primi tempi. Ad interpretarlo è Sharon Rose Francis in arte Asia, cantante di colore che rimpiazza Jo Smith, impossibilitata a proseguire la collaborazione per motivi contrattuali. Da noi il successo è più che evidente, “The Mountain Of King” cattura all’istante l’attenzione di DJ e programmatori radiofonici perché non somiglia a niente in circolazione in quel momento ed entra in decine di compilation e in praticamente tutte le classifiche dance dell’FM inclusa la DeeJay Parade di cui conquista il vertice per tre settimane a novembre.

classifica da Billboard 24-12-1994,
La top ten dei singoli in Italia a dicembre ’94: Digital Boy è sul terzo gradino del podio

Viene girato anche un videoclip (incluso in “T.V.T.B. – La Televisione Che Non C’è”, VHS di successo di Albertino) in cui Digital Boy è alle prese con una tastiera Ensoniq ASR-10 e che nella parte finale mostra un rocambolesco volo in elicottero e chiarisce la ragione del titolo: il “re” è Martin Luther King. A curare il design della copertina del disco è Claudio Gobbi mentre autore delle due foto, una sul fronte ed una, più piccola, sul retro, che probabilmente mostra per la prima volta al pubblico il volto di Asia, è Lorenzo Camocardi. Più che incoraggianti le vendite, in sole tre settimane macina oltre 40.000 mix e come testimonia la top ten dei singoli italiani di Musica E Dischi apparsa su Billboard il 12 dicembre, il brano si piazza in terza posizione, dopo “It’s A Rainy Day” di Ice MC e “Stay With Me” dei Da Blitz, davanti a star stellari del pop come Bon Jovi, Madonna e Vasco Rossi. Nello stesso periodo Digital Boy partecipa al brano “Song For You” nato a supporto dell’iniziativa solidale di Radio DeeJay, con cui si stanziano proventi per ricostruire la scuola elementare Giovanni Bovio di Alessandria gravemente danneggiata dall’alluvione del 5 e 6 novembre. Diventata, con gli estremi speculari di melodia e ritmo, una sorta di archetipo di una eurodance steroidizzata, “The Mountain Of King” (affiancata dalla virulenta “S.A.L.T.A.” sul lato b) apre inconsciamente una strada nuova e sprona un crescente numero di produttori italiani a cimentarsi in brani a bpm sostenuti, un vero trend che andrà avanti per tutto il 1995 e parte del ’96. La D-Boy Records, col centrino quadrato anziché rotondo e con un logo in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi, non si configura come un’etichetta nata come piattaforma esclusiva per le sue produzioni così come è stata la Demo Studio nel 1990. «La label nasce con la finalità di dare alla luce nuovi progetti artistici curati da giovani produttori con idee innovative ed originali, senza seguire canoni predeterminati o obblighi di mercato. L’unico scopo a cui miriamo è proiettarci verso il futuro seguendo il nostro senso artistico» sottolinea Pretolesi in un’intervista di Nello Simioli su Tutto Discoteca Dance a maggio 1995, ed aggiunge: «ogni sei mesi pubblicherò il mix di un personaggio esordiente grazie agli innumerevoli provini che ricevo da tutta Italia».

cartolina fan club 1994
L’opuscolo che annuncia l’apertura del Digital Boy Fan Club a dicembre ’94

A fine ’94, poco prima dell’uscita del nuovo album, apre i battenti anche il Digital Boy Fan Club, iniziativa attraverso cui i fan possono mantenere un filo diretto con il loro beniamino. Due le operazioni attivate, la Fan Card e il Cofanetto Digitale. La Fan Card garantisce sconti sul merchandising in vendita nei negozi di dischi, offre la possibilità di partecipare ad incontri con l’artista ed entrare in una mailing list (postale) per ricevere mensilmente notizie in anteprima e il calendario aggiornato con le date dei live; il Cofanetto Digitale contiene invece un manifesto, una cartolina autografata, una t-shirt e il VHS “Digital Boy Live” che i fan attendono ormai impazientemente da circa un anno.

1995, il terzo (ed ultimo) album
“The Mountain Of King” anticipa di pochi mesi l’uscita del terzo LP di Digital Boy, “Ten Steps To The Rise”. «È un disco che non si limita a guardare al mercato italiano e non è nemmeno il classico disco di “spaghetti dance” cioè un freddo progetto di studio che vede in azione il musicista e il DJ che usano delle “controfigure mute” come immagine per i passaggi televisivi» spiega Pretolesi nell’intervista a cura di Dall’Acqua sopraccitata. Ed aggiunge: «questa produzione è senza ombra di dubbio un ritorno all’istintività e all’intuitività dei miei primi lavori. Mi riporta a quando registravo le tracce e le mettevo su vinile così come le sentivo, senza alcuna malizia commerciale. La cosa veramente importante per me era la spinta, la motivazione che c’era dietro». L’artista individua una linea da seguire sullo sfondo di nuove prospettive e prende le distanze dal tipico modus operandi della dance nostrana, popolata da tanti (o troppi?) personaggi immagine come descritto qui. Pare inoltre voglia dare un taglio di forbici al suo passato, contestualmente al cambio dell’etichetta discografica. Molla la natia Liguria per trasferirsi a Melazzo, un piccolo paesino della provincia di Alessandria, in Piemonte, dove fissa la nuova base operativa, e crea un nuovo logo, già apprezzato sulla copertina di “The Mountain Of King” e piazzato al centro del vecchio logotipo “Digital Boy”, unico elemento grafico a garantire un continuum con gli anni precedenti. L’autore ora vuole guardare meno le cose dall’aspetto commerciale, come sostiene nella videointervista di Marco Gotelli trasmessa da Entella Tv nell’autunno ’94 e in effetti “Ten Steps To The Rise” evade dalla classica prevedibilità delle produzioni dance mainstream italiane e non è proprio il classico disco destinato al mercato di massa, seppur la linea sfacciatamente melodica di “The Mountain Of King”, pervasa da un filo di malinconica nostalgia, pare sconfessare gli intenti alternativi.

Ten Steps To The Rise
“Ten Steps To The Rise”, terzo e ultimo LP di Digital Boy

È sufficiente però ascoltare il brano d’apertura, “Ten Steps To The Rise”, che è una sorta di prologo narrato dalla voce di Ronny Money, per capire come Pretolesi non voglia affatto scimmiottare le hit del momento. “Exterminate”, coi profondi vocalizzi di Flame, è una cavalcata hard trance sullo sfondo di iridescenti melodie daturiane, “Get Up (To The Old School)” è un salto indietro nel breakbeat britannico post Prodigy con una vena rock incastonata all’interno (a suonare la chitarra è Sergio Pretolesi, padre di Luca), “The Ride” si spinge a lambire sponde acidcore, “7 A.M. Day Dream”, ancora con l’intervento di Flame, è un’escursione onirica, “Party Hardy” è giocosa happy hardcore, “Mental Attack” galleggia su bolle di trance solforica, “S.A.L.T.A.” è un martello demolitore, “Acid Boy” avrebbe fatto ottima figura nel catalogo Bonzai insieme ad Yves Deruyter, Jones & Stephenson e Cherry Moon Trax. In fondo ci sono “Trippin'”, ipnosi in slow motion, e “Set Um’ Up, Dee”, dove il rap di Ronny Money è incorniciato da una cortina di acidismi dai quali emerge anche una citazione per “Crossover”. A chiudere è una versione di “The Mountain Of King” ad 80 bpm, quasi trip hop. Pretolesi, a conti fatti, si rimette in discussione sviluppando e sperimentando cose nuove e più stimolanti, in risposta alla rassicurante standardizzazione dell’eurodance. Edito su (doppio) vinile, CD e cassetta, “Ten Steps To The Rise” risulta essere un album decisamente atipico per un personaggio finito nelle spire della dance generalista da Superclassifica Show, spiazzante perché non ruota su una carrellata di brani simili a quello più popolare (e questo lascia profondamente deluso chi si aspettava invece un’altra “The Mountain Of King” o comunque brani da DeeJay Parade) ma mostra all’ascoltatore i vari volti sonori dell’autore non configurandosi come un banale contenitore di qualche promettente singolo accompagnato da ovvietà riempitive. Non a caso ad essere estratto, in estate, è solo un secondo brano, “Exterminate”, abbinato all’inedito “Direct To Rave”, un ingranaggio mosso da bracci pneumatici che funge da cartina tornasole della nuova rave music cambiata rispetto ai primi Novanta: al posto delle sirene, dei reticoli breakbeat, degli stab e dei suoni hoover ora ci sono velocità sostenute, traslitterazione audio del futuro che avanza fulmineo, e melodie festaiole, in rappresentanza di un’epoca prospera sotto il profilo economico e geopolitico. Sono gli anni in cui l’hardcore vive la fase commercialmente più fortunata ed eventi come la Love Parade vedono aumentare esponenzialmente l’affluenza «capitalizzando e disciplinando l’energia dei primi rave clandestini in un network milionario fatto di sponsor ed indotti sempre più roboanti», come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”. “Exterminate” e “Direct To Rave” vengono pubblicate su CD e su un vinile particolare perché incise entrambe sul lato a ma in due solchi affiancati. Più di qualcuno pensa si tratti di un errore di stampa ma invece è un espediente che rende più particolare il tutto, insieme alla doppia copertina e al lato b decorato con l’incisione del nuovo logo di Digital Boy, seppur a conti fatti risulti un disco destinato più al collezionismo che all’utilizzo nelle discoteche, l’involontario salto della puntina finirebbe col disorientare sia il DJ che il pubblico.

successi eurodance
I tre brani che Digital Boy realizza nel 1995 sul fortunato schema di “The Mountain Of King”

Una tattica efficace?
“The Mountain Of King”, che i collezionisti oggi cercano anche nel formato picture disc, diventa un brano di rilievo per la dance nostrana, capace di affermarsi a livello generalista ma con un imprinting diverso rispetto a ciò che il mainstream chiede in quel determinato momento storico. La discografia tradizionale avrebbe cavalcato l’onda sfornando, a pochi mesi di distanza, un follow-up dalle caratteristiche identiche al fine di rendere longevo il successo e garantirsi un rientro economico con sforzi ridotti quasi a zero. A seguire questo modus operandi è pure Pretolesi ma non esattamente nella formula canonica. Il seguito di “The Mountain Of King” arriva nella primavera del 1995 e si intitola “Happy To Be” ma è firmato dalla sola Asia. Approntato nel nuovo Demo Studio che diventa Demo Studio Professional, il pezzo inizia lì dove finisce il precedente, marciando su bpm serrati, una melodia felice che pare eseguita con una banale Bontempi ed un riff euforico a presa rapida. Il continuum tra i due brani è tale che per l’ospitata nell’ultima edizione di Non È La Rai vengono eseguiti entrambi uno dopo l’altro, a mo’ di medley. Se Pretolesi è messo nella condizione, come avviene sempre in tv, di mimare l’esecuzione su una tastiera Roland, Asia invece canta dal vivo e dimostra di non essere una frontwoman specialmente alla fine quando accenna “Fever” di Peggy Lee al fianco di Ambra Angiolini e sul battito di mani delle ragazze che, a posteriori, hanno trasformato il programma di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo in un cult. Nell’autunno dello stesso anno Pretolesi appronta un altro brano che ricalca le orme di “The Mountain Of King” ed “Happy To Be” ossia “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, ma anche in questo caso decide di affidarlo ad un altro membro della D-Boy Records, Ronny Money, per l’occasione affiancato da Jeffrey Jey dei Bliss Team, quell’anno lanciatissimi con “You Make Me Cry” ed “Hold On To Love”. Il pezzo, a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui, chiude la trilogia eurodance pretolesiana di successo. Pubblicare follow-up con nomi differenti, dunque, potrebbe essere considerata una strategia messa in atto col fine di coinvolgere altri componenti del team e lanciarli nel mondo parallelo delle esibizioni in discoteca, più che utili per rimpinguare le finanze. Nel contempo ciò avrebbe garantito un maggiore dinamismo all’etichetta, non relegandola ad un unico artista. C’è anche un quarto brano che potrebbe rientrare in questa parentesi, “Sky High” di Individual, per cui Digital Boy realizza due remix (il Part 1 è quello che segue la scia di “The Mountain Of King”). La voce è di Billie Ray Martin nonostante il featuring sia intenzionalmente celato su volontà della cantante tedesca, come lei stessa spiega qui. Nel corso del 1995 la Dig It International affida a Pretolesi pure il remix di “La Casa” di Adrian & Alfarez, finito su Top Secret Records. Nel catalogo della stessa confluiscono anche le compilation “Energia Digitale” ed “Energia Pura”: in entrambe, doppie, Digital Boy alterna classica italodance ad hard trance, house ed hardcore, un enorme calderone multiverso non inusuale per i tempi.

Logo D-Boy Records
Il logo della D-Boy Records in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi

Il primo anno di attività della D-Boy Records
Inaugurata nella migliore delle maniere con “The Mountain Of King” nell’autunno ’94, la D-Boy Records cerca sin da subito di ritagliarsi un posto nel mercato della musica hardcore ed happy hardcore, allora in forte ascesa ed espansione. Tra i primi brani messi sul mercato il gioioso “Voulez Vous Un Rendez – Vous?” di Lee Marrant a cui segue “Khorona – Nooo!!!” del quindicenne siciliano The Destroyer che ironizza su una delle maggiori hit del periodo, “The Rhythm Of The Night” di Corona (di cui parliamo qui), attraverso una specie di audiosatira intavolata con la fittizia Concetta. Il brano è solcato su 7″ con la stessa versione incisa su entrambi i lati. Così come anticipato in varie interviste, Pretolesi scommette sulla musica di giovani emergenti come gli Underground Planet (Emanuele Fernandez e Fabio Mangione) e Giorgio Campailla alias Placid K, oltre a rilevare qualche licenza dall’estero (la prima è “The Power Of Love” degli scozzesi Q-Tex per cui lui stesso realizza due remix di taglio happy hardcore). Alla tripletta “The Mountain Of King”, “Happy To Be” e “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, la D-Boy Records aggiunge un altro discreto successo, “Discoland” di Tiny Tot, un pezzo happy hardcore nato un po’ per gioco con una vocina all’elio che, come raccontato qui da uno dei produttori, Bob Benozzo, è quella di Asia opportunamente modificata. Da noi il brano funziona bene, ancora di più nei Paesi nordeuropei dove viene licenziato da label locali e diventa un classico negli ambienti hardcore trainato da vari remix. Nel 1995 la D-Boy Records viene affiancata dalla Big Trax Records, la prima delle due sublabel che fanno la staffetta nel biennio ’95/’96. Orientata a prodotti nati sul crocevia tra eurodance ed eurotrance, non riesce però ad emergere dal mare magnum della discografia fermando la sua corsa dopo appena cinque pubblicazioni rimaste confinate al quasi totale anonimato e in virtù di ciò oggi particolarmente quotate sul mercato del collezionismo, su tutte “Talk About Me” di Vision e “Rock My Body” di Nice Price che suona come una versione velocizzata dei bortolottiani Cappella.

Asia e Tiny Tot
I follow-up di Asia e Tiny Tot falliscono l’obiettivo

1996, tra follow-up poco fortunati e successi oltre le Alpi
Nel corso del 1996 la D-Boy Records consolida l’interesse nutrito per la musica hardcore e gabber mandando in stampa gli EP di Placid K, The Destroyer e Ryan Campbell & The Acme Hardcore Company, ma non tagliando del tutto il filo che la lega al movimento eurodance. È tempo di follow-up per Asia e Tiny Tot, i due nomi che hanno generato parecchio interesse nei dodici mesi precedenti. Pretolesi produce “Hallelujah” per la prima, con qualche bpm in meno ma con una vena melodica ancora saldamente ancorata al modello di “The Mountain Of King”. Le vendite del 12″, disponibile anche in colore rosso, però non sono esaltanti e gli esiti sono simili per “La Bambolina” di Tiny Tot, remake di “La Poupee Qui Fait Non” di Michel Polnareff di trent’anni prima, ricostruito seguendo il modello di “Luv U More” di Paul Elstak e con un sample preso da “Crazy Man” dei Prodigy. Sia Asia che Tiny Tot perdono repentinamente quota, sopraffatti dalla tendenza italiana dell’anno per la dream di Robert Miles e la mediterranean progressive della BXR, di cui parliamo rispettivamente qui e qui, due generi capaci di mettere all’angolo persino un fenomeno consolidato ed apparentemente imbattibile come quello dell’eurodance.

Rhio
“Feeling Your Love” di Rhio, prodotto dai fratelli Andrea e Paolo Amati

Pretolesi e il suo team però non si abbattono e continuano a puntare su un suono che trova terreno fertile in Germania, Regno Unito e soprattutto nei Paesi Bassi. In quest’ottica la D-Boy Records scommette su “Feeling Your Love” di Rhio, brano ascritto al filone happy hardcore marginalmente battuto pure da noi dove si sviluppa un micro alveolo di produttori (si sentano pezzi come “Sikret” di Russoff, “Dream Of You” di Venusia – di cui parliamo qui -, “Mamy” di Polyphonic o “A Song To Be Sung” di Byte Beaters). A realizzarlo ed arrangiarlo sono i fratelli Andrea e Paolo Amati che, contattati per l’occasione, raccontano: «Nonostante fossimo presenze un po’ anomale per la dance in quanto attivi prevalentemente nella musica leggera italiana con collaborazioni con Gianni Morandi, Mietta, Flavia Fortunato, Biagio Antonacci e Pupo, proponemmo dei pezzi ad alcune etichette discografiche tra cui la D-Boy Records. In quel periodo le label che operavano nel comparto della musica da discoteca prendevano spesso licenze ed inserivano nel proprio catalogo brani di produttori indipendenti, come noi, scegliendoli in base al genere che più si confaceva ai propri interessi. Andammo personalmente a Melazzo, quartier generale di Digital Boy, per proporre “Feeling Your Love” di Rhio. Pretolesi ci ricevette nel suo studio ed ascoltò insieme a noi, con molta attenzione, tutte le versioni approntate. Si dimostrò da subito entusiasta e non richiese modifiche su suoni o parti, come invece avveniva di frequente ai tempi, ma volle comunque realizzare insieme al suo staff due versioni finite sul mix (la Happy Hardcore Mix e la Radio Mix, nda). Ricordiamo Luca come una persona cordiale e molto disponibile, fu quindi facilissimo raggiungere un accordo di licenza. Pur non andando malissimo, “Feeling Your Love” non riuscì a raccogliere un grosso riscontro ma fu comunque inserito in alcune compilation tra cui il secondo volume di “100% Hardcore Warning!”. Era un periodo in cui uscivano decine se non centinaia di prodotti al giorno ed essere notati in quel mare immenso di pubblicazioni non era facile per nessuno. Le soddisfazioni, tuttavia, sono giunte a distanza di qualche decennio, quando i cultori di quel genere si sono accorti di tanti brani che non erano poi così malvagi seppur rimasti nell’ombra. Oltre a “Feeling Your Love” di Rhio, nel nostro repertorio dance ci sono anche altri pezzi tra cui “Far Away” di France, che cedemmo alla Zac Records, e “Stop Burning” di U.F.O. Featuring Dr. Straker, edito dalla Exex Records».

Dopo Rhio su D-Boy Records seguono a ruota “Good Vibrations” di Oddness, chiaramente ispirato da “Let Me Be Your Fantasy” di Baby D, e “Fuck Macarena”, sarcastica reinterpretazione della “Macarena” dei Los Del Rio con cui Ronnie Lee apre una nuova fase della sua carriera nelle vesti di MC Rage. Il pezzo, supportato da un videoclip altrettanto canzonatorio, diventa un top seller nel nord Europa dove, si dice, abbia venduto circa 30.000 CD singoli e un milione di copie calcolando dischi e compilation. La D-Boy Records dunque, in netta controtendenza, fa volentieri a meno della dream e della progressive (nonostante qualche disco segnalato in seguito ne ricalchi le orme) per dedicarsi all’hardcore e alla gabber. «La nascita del movimento mediterranean progressive è senza dubbio un buon punto a favore dell’Italia» afferma Pretolesi in un’inchiesta pubblicata su Tutto Discoteca Dance a novembre 1996, «ma ciò che non mi convince è che il nostro Paese si stia fossilizzando in uno schema. Preferisco la spregiudicatezza dei tedeschi».

Let's Live
“Let’s Live”, ultimo tentativo di Pretolesi di cavalcare l’onda eurodance

Nel 1996 il posto della Big Trax Records viene preso da una nuova sublabel, la Electronik Musik, sulla quale vengono convogliate produzioni filo trance come “Desires” di Indaco Feat. Leika (realizzata da Massimo Tatti parecchio influenzato da “Children”), “Free Dimension” di Umma-Y, “Tomorrow” di P. Logan (un misto tra R.A.F. By Picotto e Robert Miles), un paio di EP dei BioMontana (neo progetto di Flavio Gemma e Massimiliano Bocchio che come Urbanatribù incidono un EP ed un ammirevole album per la Disturbance del gruppo barese Minus Habens di Ivan Iusco intervistato qui) ed “Euphonia” degli Underground Planet. In primavera finisce proprio nel catalogo Electronik Musik “Let’s Live”, il 10″ che sancisce il ritrovato asse artistico tra Asia e Digital Boy, nonostante in copertina il nome di quest’ultimo venga troncato in Digital B., un’autentica stranezza per i fan. Il pezzo è completamente fuori dalle tendenze che in quei mesi si consumano nel nostro Paese, una scelta azzardata ma senza ombra di dubbio coerente con quanto affermato in diverse interviste sull’intenzione di non seguire in modo pedestre i continui mutamenti del mercato. “Let’s Live” gira su retaggi eurodance del biennio ’93-’94 e su una stesura alquanto irregolare. Nonostante l’hook vocale, ripetuto ossessivamente per quasi tutta la durata, sembri garantire quasi un flashback di “The Mountain Of King”, il brano non riesce a carburare e convincere. Davvero risicati i passaggi nel DeeJay Time, presenza non pervenuta invece nella DeeJay Parade: Albertino, che cinque anni prima aveva aiutato la musica di Digital Boy a trovare una vasta audience in Italia, adesso pare indifferente. È l’ultimo tentativo da parte di Pretolesi di calcare una scena a cui, probabilmente, non sente più di appartenere. Asia riapparirà nel ’99 con “Take Me Away” sulla romana X-Energy Records che, nello stesso anno, pubblica “Groovin’ On The Dance Floor” di Night Delegation da lei cantato. In entrambi, passati inosservati, Luca Pretolesi figura come autore ma è legittimo ipotizzare che si tratti di iniziative sviluppate partendo da vecchi demo inutilizzati e risalenti al periodo della D-Boy Records, poi finalizzati dai DJ riminesi Enrico Galli e Luca Belloni.

Hardcore Bells
La copertina di “Hardcore Bells” con gli autori trasformati in personaggi di un ipotetico fumetto

Tempo di extremizzazione: la fase hardcore
Il cuore di Digital Boy ormai pulsa quasi esclusivamente per hardcore e gabber, generi che inizia ad esplorare già nei primi anni Novanta cercando di trovare ad essi una collocazione anche in posti fuori contesto come testimonia questa clip del 1994 registrata al Genux di Lonato. Battere un percorso poco compatibile coi gusti italiani non lo intimorisce però, anzi, sembra spronarlo a prendere sempre più le distanze dalla scena nazionale. «Suono spesso in Scozia e nei Paesi Bassi» afferma nell’inchiesta su Tutto Discoteca prima menzionata. «In particolar modo lavoro per la one night chiamata Old School durante la quale educhiamo il pubblico facendo sentire molti pezzi vecchi. Il popolo deve sapere e conoscere quello che balla. Spesso mi esibisco al Parkzicht, venite a sentirmi e capirete. Non uso i piatti come i DJ né tantomeno i dischi. Con me porto macchine analogiche, batterie elettroniche, computer, sintetizzatori e campionatori per sviluppare dal vivo i demo che faccio in studio così noto la reazione della gente e devo ammettere che i risultati sono molto soddisfacenti». A ridosso delle feste natalizie del ’96 esce “Hardcore Bells”, hardcorizzazione del tradizionale “Jingle Bells” promosso Disco Makina da Molella ad inizio dicembre in una delle ultime puntate del programma radiofonico Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui nel dettaglio. Il 10″ è impreziosito da una copertina che ripropone in chiave fumettistica i D-Boy Bad Boys (ovvero Tiny Tot, MC Rage, The Destroyer, Placid K ed ovviamente Digital Boy). Subito dopo arriva il primo volume di “Back To The Past”, progetto con cui Pretolesi inizia a riportare indietro le lancette dell’orologio e riavvolgere il nastro per tornare parzialmente nel passato, nel suo passato, rispolverando “Kokko” e “OK Alright!”. Sulla prima mette le mani l’olandese DJ Rob, sulla seconda invece si attiva lui stesso. Il disco, presentato in anteprima domenica 8 dicembre presso il Number One di Cortefranca, esce sulla neonata Italian Steel, una delle etichette della Raveology S.r.l. – “Raveology” è uno dei brani che Pretolesi destina nel ’91 alla UMM per The Voice Of Rave – che, come si legge sul n. 2 della rubrica D-Boy News a dicembre, è una nuova società che gestisce dischi, eventi, merchandising e management.

Back To The Past 1
Col primo volume di “Back To The Past” uscito a fine ’96 Digital Boy inizia a ripercorrere la sua carriera in chiave hardcore

Il 1997 vede la pubblicazione del secondo e terzo volume di “Back To The Past” che ripercorrono ancora la fase carrieristica di Pretolesi sotto l’egida della Flying Records con l’aggiunta di nuovi remix (gli Stunned Guys – presto ripagati con una versione di “Paranoia” di Baba Nation – e Placid K mettono mano rispettivamente su “This Is Mutha F**ker” e “Gimme A Fat Beat”, Neophyte rilegge “Digital Danze” mentre la coppia DJ Jappo e Lancinhouse riassembla “Crossover”). È sempre l’Italian Steel a pubblicare “Beats & Riffs 1”, un disco contenente tre tracce (“163 – 179”, “Him Again” e “Fist Like This”) che Pretolesi firma col nom de plume The Dark Side, oggetto di particolari apprezzamenti all’estero. Nei primi mesi del ’97 parte anche l’avventura radiofonica: Digital Boy conduce una striscia quotidiana nel pomeriggio di Italia Network, venticinque minuti di musica hardcore e gabber. Titolo? “Extreme”. Nel corso degli anni il programma si evolve e diventa anche una finestra d’informazione ed approfondimento sui grandi eventi hardcore esteri, come si può sentire in questa clip. Pretolesi viene poi affiancato nella conduzione da Randy ed Extreme diventa un vero punto di riferimento per gli hardcore warriors italiani. Col rebranding dell’emittente che si trasforma in RIN – Radio Italia Network, il programma però viene interrotto. «Secondo il mio punto di vista è stato un passo indietro!» sentenzia senza mezze misure Pretolesi in questa intervista del 2001 curata da Antonio Bartoccetti per Future Style. Tuttavia in Italia il movimento regge ancora. «La vendita delle nostre compilation tematiche ora si aggira tra le 10.000 e le 12.000 copie» aggiunge Pretolesi. «Se arrotondiamo per eccesso, sapendo che la compilation viene prestata all’amico, allo zio o alla sorella minore, questo numero cresce». Per l’occasione l’artista stila pure un ritratto dell’ascoltatore medio della musica hardcore: «la compra, l’ascolta, la balla e si muove solo fra i confini tecnologici. Può amare la new style, un certo tipo di hard trance ma non si sposta dal filone tec(h)nologico e non acquisterebbe mai un cantautore, sorridendo di fronte alla comicità del pop e cosciente che fenomeni come “The Fat Of The Land” dei Prodigy o i Chemical Brothers siano invenzioni commerciali che hanno dovuto trovare un po’ di oro attingendo dal vecchio rock».

Randy e Pretolesi (1999)
Randy e Digital Boy in uno scatto del 1999 con un disco della Head Fuck Records, una delle etichette raccolte sotto l’ombrello Raveology

Attraverso l’hardcore e la gabber Digital Boy, tra ’99 e ’00 frequentemente alla consolle di locali romagnoli come il Gheodrome e l’Ecu, rafforza parecchio la competitività all’interno del mercato mondiale e stringe proficue collaborazioni con artisti del calibro di Scott Brown (suo il remix di “Asylum” firmato The Scotchman) e The Masochist (insieme realizzano “Shout Out”). Sono gli anni che, inoltre, vedono l’affermazione globale della D-Boy Black Label che prende il posto della iniziale D-Boy Records Black Label, ora assorbita dalla Raveology subentrata in modo definitivo alla D-Boy Records nel 1996 (l’ultimo 12″ col logo rosso è quello coi remix de “La Bambolina” di Tiny Tot realizzati dagli Stunned Guys, Bass-D & King Matthew e Placid K). Nel nuovo millennio Pretolesi inizia a diradare progressivamente l’attività produttiva, mantenendo comunque i piedi sempre ben saldi nella scena hardcore come attestano pezzi come “Akkur” in coppia con MC Rage, “I’m Hard To Da Core” in tandem con DJ J.D.A. o “How You Diein'” a quattro mani con DJ Bike dei Noize Suppressor. Tra gli ultimi dischi realizzati c’è “Sugar Daddy” (con un frammento di “Sugar Is Sweeter” di CJ Bolland), ancora insieme al vecchio amico Lee e sulla D-Boy Black Label, oggetto di un update grafico del logo col cane bassotto incattivito. Inspiegabile solo la riapparizione, nel 2008, con Shane Thomas per l’anonima “Sexy, Sultry, Delicious, Dirty” incapsulata nell’electro house. Pretolesi, con molta probabilità, non vuole vivere nel passato e non è disposto a finire in svendita al mercato della nostalgia o essere sacrificato sull’altare del revivalismo, così decide di dedicarsi ad altro.

ai Latin Grammy Awards (2018)
Pretolesi e la moglie ai Latin Grammy Awards (Las Vegas, novembre 2018)

Il ragazzo digitale un trentennio dopo
Sono trascorse poco più di tre decadi da quando il “ragazzo digitale” inizia la sua carriera. Di quel ventenne che i magazine nostrani definivano “l’eroe della techno italiana”, dalla lunga chioma, il cappellino da baseball quasi sempre in testa, gli occhiali tondi con le lenti a forma di mirino ed animato dal desiderio di mettere a soqquadro le regole della discografia, probabilmente resta poco o nulla: il “boy” è diventato “man”, ha oltrepassato la soglia dei cinquant’anni e il suo sguardo è meno innocente e più scafato. Dal 2001 risiede a Los Angeles dove ha messo su un super studio di mix e mastering, lo Studio DMI (DMI è l’acronimo di Digital Music Innovation), frequentato da personaggi assai popolari della scena pop e da dove sono usciti pezzi come “On My Mind” di Diplo & Sidepiece (che gli garantisce una nomination ai Grammy), “Mi Gente” di J Balvin, “Goodbye” di Jason Derulo & David Guetta Feat. Nicki Minaj & Willy William e “Lean On” di Major Lazer. Basta un banale clic su Google per imbattersi in recenti interviste come questa ed approfondire adeguatamente sul nuovo ciclo lavorativo di Pretolesi che, costantemente attratto dall’inarrestabile tecnologia, ha smesso di vestire i panni di Digital Boy tornando ad essere, per l’appunto, Luca Pretolesi, considerato un luminare in fatto di ingegneria del suono, richiesto ovunque per corsi, seminari e workshop. Per tale ragione lasciamo ad altri il compito di tracciare e narrare le coordinate di un percorso che esula dal tipo di ricerche svolte sulle pagine di questo blog ma con la consapevolezza che la sua storia non sia terminata ma proseguita in un’altra direzione, sempre all’interno del caleidoscopico e multiforme mondo della musica elettronica.

(Giosuè Impellizzeri)

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DWA, un faro per l’eurodance

Tra l’italo disco degli anni Ottanta e l’eurodance dei Novanta corre più di qualche analogia a partire dal formato canzone, passando per il modus operandi legato a turnisti e personaggi immagine, sino agli strabilianti risultati in termini di vendite. Uno di quelli che hanno creato un solido continuum tra le fogge stilistiche dei due decenni è Roberto Zanetti: nato a Massa, dopo aver militato tra le fila di alcune band come i Taxi (insieme a Zucchero) e i Santarosa, nel 1983 diventa un idolo dell’italo disco più romantica e malinconica nelle vesti di Savage realizzando ed interpretando successi internazionali, su tutti “Don’t Cry Tonight” con cui approda a Discoring dove viene annunciato come “una nuova firma della disco dance made in Italy”, ed “Only You”, ricamato su una placida delicatezza melodica da carillon.

Savage (198x)
Zanetti ai tempi in cui spopola come Savage

Spalleggiato da Severo Lombardoni della Discomagic, che dell’italo disco è stato uno dei principali traghettatori, Zanetti è un compositore a tutto tondo capace di scrivere, arrangiare ed interpretare i suoi brani, e questo lo differenzia da gran parte degli artisti che popolano l’italo disco (prima) e l’eurodance (poi), rivelatisi spesso un ibrido tra cantanti turnisti ben lontani dall’autonomia ed indipendenza compositiva e performer specializzati in lip-sync. Quando, alla fine degli anni Ottanta, l’house music fa scivolare ai margini della scena l’italo disco soppiantandola, un mondo si sgretola e il comparto dance nostrano, inizialmente disorientato, è da rifondare e ricostruire. Il musicista massese approccia al nuovo genere a partire dal 1988 attraverso vari dischi come “Me Gusta” e “Te Amo” di Raimunda Navarro, “Allalla” di Abel Kare e “The Party”, una cover-parodia dell’omonimo dei Kraze che firma Rubix, variante del Robyx in uso sin dal 1983 per siglare il lavoro da produttore. «In quel momento sentii l’esigenza di creare un mio sound ed ebbi la necessità di fondare un’etichetta personale per dare una precisa identità ai miei progetti» spiega in questo articolo del 2020. L’etichetta in questione è la DWA, acronimo di Dance World Attack, un ambizioso slogan che punta all’internazionalità ma senza tradire o rinnegare l’amor patrio che per alcuni invece, ai tempi, è quasi ingombrante perché apparente segno di provincialismo (il commercialmente ambito italian sounding sarebbe giunto solo molti anni più tardi). Il primo logo non lascia adito a dubbi, è inscritto nel tricolore nostrano, e lo spiccato senso di italianità si farà sentire presto anche attraverso la musica marchiata con tale sigla, foneticamente simile a quella della compagnia aerea statunitense TWA così come lo stesso Zanetti chiarisce nella videointervista del 21 marzo 2020 a cura de LoZio Peter.

Raimunda Navarro - No Lo Hago Por Dinero
Il 12″ d’esordio della DWA su cui si scorge il primo logo della label collocato nel tricolore nazionale

1989-1990, tempo di spaghetti house
A produrre il 12″ inaugurale della DWA nel cruciale 1989 è Zanetti sotto il citato pseudonimo Raimunda Navarro, coniato l’anno prima con “Me Gusta” destinato alla Out di Severo Lombardoni. “No Lo Hago Por Dinero” si sviluppa su una scansione ritmica simile a “Sueño Latino”, seppur qui manchi un sample indovinato come “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching, rimpiazzato dalla chitarra più latineggiante di Claudio Farina abbinata comunque ad una suadente voce femminile a ricordare quella di Carolina Damas. Uno dei remix giunti qualche mese più tardi fruga nel tipico campionario spaghetti house, tra pianate e sample carpiti a vecchie incisioni ed inchiodati ad un battente beat in 4/4. A firmarlo è Zanetti trincerato dietro Bob Howe («a quel tempo era di moda firmarsi con pseudonimi “internazionali” per apparire stranieri» rivela l’artista contattato per l’occasione). Titolo? The Paradise Remix, rimando più che chiaro al citato “Sueño Latino” trainato, per l’appunto, dall’estatica The Paradise Version lunga oltre dieci minuti.

Ice MC - Easy
“Easy” è il singolo di debutto di Ice MC

È sempre Zanetti nelle vesti di Howe a mettere le mani sui remix di “Easy”, singolo di debutto del ballerino/rapper britannico Ian Colin Campbell alias Ice MC che segue il filone del downbeat/hip hop con uno scampolo ritmico preso da “Paid In Full” di Eric B. & Rakim e ricami reggae sottolineati da un breve intervento vocale interpretato da Zanetti stesso. Sul lato b spazio a “Rock Your Body” tangente l’hip house. Il pezzo, pubblicato anche sulla lombardoniana Out e promosso da un videoclip, raccoglie un clamoroso successo in tutto il mondo a partire dalla Francia e conquista decine di licenze, inclusa quella sulla blasonata Cooltempo, ma passa inosservato in Italia. È il primo centro per la DWA che continua a scommettere sul filone dorato della house pianistica ma senza riuscire a sfondare come 49ers, FPI Project o Black Box. In rapida sequenza escono “House From The World” dei Meeting Place (Marco Bresciani e Davide Ruberto), “Face To Face” di Lovetrip, “Together” di Shade Of Love e “Polskie Beat” di Krymu, edificato sullo schema sampledelico di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. in una sorta di megamix/medley assemblato con lo strumento protagonista di quel periodo, il campionatore. L’ottima resa commerciale del downbeat in stile Milli Vanilli o Snap! adottato per Ice MC convince Zanetti a riprendere la cover di “Live Is Life” degli Opus a firma Stargo, già uscita nel 1985, per svilupparla in nuove versioni più adatte ai tempi. Al successo però torna con “Scream”, secondo singolo di Ice MC estratto dall’album “Cinema” che muove i passi su un’impalcatura melodica in stile “Profondo Rosso”. Le urla sono di una certa Vivianne (ossia Viviana Zanetti, sorella di Roberto che, come lui stesso dichiara, «lavora da sempre nell’ufficio della DWA ma è anche una brava cantante e la registravo spesso per voci o effetti»), gli inserti maschili di Zanetti mentre i cori di Alessia Aquilani alias Alexia Cooper, una giovane cantante della provincia di La Spezia destinata ad una rosea carriera. Giacomo De Simone gira un videoclip immerso in atmosfere tenebrose, a rimarcare l’impostazione sonora. “Cinema” è anche il titolo di un altro singolo estratto dall’LP in cui il rapper elenca, su una base filo house, una corposa lista di attori, da John Wayne ad Alain Delon, da Sean Penn a Robert De Niro passando per Charlie Chaplin, Chuck Norris, Charles Bronson, Sean Connery ed Arnold Schwarzenegger senza dimenticare diversi italiani come Marcello Mastroianni, Alberto Sordi e Sophia Loren. Questa volta il video, diretto ancora da De Simone, è ambientato (prevedibilmente) in una sala cinematografica.

L’album di Ice MC si muove bene soprattutto in Francia e in Polonia e produce “carburante” per mandare avanti l’attività. Zanetti è pronto a reinventarsi e rimettersi in gioco di volta in volta con nuovi nomi di fantasia come Pianonegro, pseudonimo con cui firma il brano omonimo, versione in slow motion della piano house virata downtempo che stuzzica parecchio il pubblico del Regno Unito. In coppia con Marco Bresciani poi realizza, in scia alla diffusione europea dell’hip house, “Typical” di Soul Boy a cui fa seguito un altro progetto one shot sempre condiviso con Bresciani, Soul Emotion, che col brano omonimo emula i bortolottiani 49ers. Da “Cinema” viene estratto un altro singolo, “Ok Corral!”, hip house in bolla country, mentre il pucciniano “Nessun Dorma” viene traslato da DFB Featuring Walter Barbaria su un reticolo che ammicca a “Sadeness Part I” degli Enigma di Michael Cretu. A leggere le note in copertina pare si trattasse di un disco registrato al Teatro Internazionale dalla Moscow Philharmonic Orchestra diretta da un certo Victor Bradley ma in realtà, come svela oggi Zanetti, tutti i nomi, l’orchestra e il teatro erano immaginari «a parte Barbaria che è un cantante lirico molto bravo». Ubicata tra reggae e downbeat è la cover di “No Woman No Cry” (in origine di Bob Marley & The Wailers) a firma Babyroots, ennesimo act messo su da Zanetti nel suo Casablanca Recording Studio col supporto vocale della turnista Aquilani. È sempre lui ad innestare canti africani su base house (“The Sound Of Afrika” di Humantronics), a campionare l’acapella di “Warehouse (Days Of Glory)” di New Deep Society per “Party Children” di Wareband che si muove ottimamente all’estero, e produrre “Freedom”, il singolo di debutto del congolese Bale Mondonga. Il brano, ripubblicato anche dalla Sugar ma senza particolari risultati, auspica un nuovo mondo con meno differenze sociali e più equità. A distanza di oltre un trentennio le speranze restano ancora le stesse.

Alexia Cooper - Boy
Una giovane Alessia Aquilani, poco più che ventenne, immortalata sulla copertina di “Boy” (Euroenergy, 1989)

1991-1992, alla ricerca di un’identità
Ice MC è già pronto col secondo album, “My World”, dedicato alla sorella Sandra e ceduto in licenza alla tedesca Polydor. La DWA pubblica una special limited edition con tre versioni remix (la 909 Heavy Mix, il Jump Swing Remix e il Work Remix) di un estratto, “Happy Weekend”. Aria di remix pure per la citata “Party Children” di Wareband e “Don’t Cry Tonight” del redivivo Savage, riarrangiata su base downbeat. Echi hip house si rincorrono in “Jumbo” di Tity B., scritta da Nathaniel Wright e prodotta da Leonardo Rosi alias Fairy Noise che a Zanetti affida, poco dopo, le cover di due classici della canzone italiana, “Senza Una Donna” (di Zucchero) ed “Albachiara” (di Vasco Rossi), entrambe a nome Stargo. È proprio Zanetti invece a produrre “Vocalize” di Scattt, pseudonimo derivato dal virtuosismo vocale, lo scat per l’appunto, adottato nel medesimo periodo in “You Too” di Nexy Lanton, prodotto da Gianni Vitale per la debuttante Line Music di Giacomo Maiolini. Bale Mondonga riappare, questa volta con lo pseudonimo Momo B. che lo accompagnerà sino ai tempi di Floorfilla, con la ridente “Be Happy”, e lo stesso avviene con la Aquilani che torna come artista a nome Alexia Cooper a due anni di distanza da “Boy”, una sorta di incrocio tra “Boys” della prorompente Sabrina Salerno e “La Notte Vola” di Lorella Cuccarini. Abbandonato il filone hi nrg destinato perlopiù al mercato nipponico, la cantante interpreta “Gotta Be Mine”, in linea con la dance europea del periodo. Sull’onda di “Party Children”, Wareband cerca il bis attraverso “A Better Day” ma non riuscendo completamente nell’impresa. Sulla rampa di lancio c’è un progetto nuovo di zecca, Data Drama, che debutta con “The Rain”. Insieme a Zanetti in studio ci sono Riccardo Bronzi ed un talentuoso cantante londinese, William Naraine.

Dal Casablanca Recording Studio arriva pure “The Wind” di Zero Phase, act one shot poco fortunato che cerca di ricalcare le orme di un successo proveniente dal Nord Europa, “James Brown Is Dead” degli olandesi L.A. Style, dichiaratamente preso a modello pure per “James Brown Has Sex”, l’ultimo firmato da Zanetti come Raimunda Navarro. In preda al boom commerciale dell’eurotechnodance, la DWA pubblica “S.l.e.e.p. Tonight” di 303 Trance Factor (una delle quattro versioni, la After-Hour Factor Frequency, in cui ben campeggia il vocal sample preso da “The Dominatrix Sleeps Tonight” di Dominatrix, è realizzata dal pugliese Michele Mausi – intervistato qui – ma senza che il suo nome venga riportato tra i crediti), “Pump The Rhythm” di Fletch Two, “Don’t Stop The Movie” di V.I.R.U.S. 666 e “De Puta Madre” dei Terra W.A.N., quest’ultimo preso in licenza dai Paesi Bassi e ripubblicato con dicitura DWA Underground. La strada maestra di Zanetti però non è quella della musica strumentale, i tentativi di raccogliere consensi con prodotti filo techno – compresi quelli di cui si parlerà poco più avanti – sono vani ed infatti torna presto a scommettere sulla vocalità, prima col follow-up di Scattt, “Scat And Bebop”, e poi con Naraine che, nascosto dietro il nomignolo Willy Morales, reinterpreta un classico degli Electric Light Orchestra, “Last Train To London”. La cover attecchisce nel mercato estero e fa da apripista ad un altro remake che segna indelebilmente uno degli zenit per la label massese, “Please Don’t Go”, originariamente dei KC & The Sunshine Band e già riproposto in chiave dance nel 1985 dai Digital Game prodotti da Alessandro Novaga con la voce di Romano Bais, come lo stesso Novaga afferma in questa intervista del 26 marzo 2009.

Double You - Please Don't Go
“Please Don’t Go” dei Double You, tra i bestseller del catalogo DWA

A realizzare la nuova versione è il team dei Double You formato dal musicista Franco Amato, dal DJ Andrea De Antoni e dal citato William Naraine che oltre a cantare ricopre anche ruolo di frontman. Registrato a dicembre del 1991, il brano viene pubblicato a gennaio del 1992 e, come si legge sul sito della stessa DWA, «divenne un successo immediato che garantì a Double You tournée in tutta Europa ed apparizioni in numerosi programmi televisivi. Con più di tre milioni di copie vendute, “Please Don’t Go” si aggiudica dischi d’oro e di platino spopolando in Paesi come Germania, Francia, Olanda, Spagna, Belgio, Svizzera, Austria, Grecia, Turchia, Europa dell’Est, tutta l’America Latina (nessuna nazione esclusa) e molti stati dell’Africa e dell’Asia. Il disco vende anche nell’America del Nord, entrando nella top 10 maxi sales, e nel Regno Unito dove si piazza secondo nella Cool Cuts Chart». Trainato da un videoclip diretto ancora da Giacomo De Simone in cui la scena è dominata da Naraine che su qualche rivista viene definito una sorta di “Nick Kamen prestato alla dance italiana”, “Please Don’t Go” gira su un organo hammond in stile “Gypsy Woman (She’s Homeless)” di Crystal Waters e “Ride Like The Wind” degli East Side Beat (cover dell’omonimo di Christopher Cross di cui parliamo qui), entrambi del 1991, e glorifica la “covermania” da noi andata avanti per quasi un biennio. In Italia diventa un tormentone, aiutato dalle ragazze di “Non È La Rai” che lo ballano quasi come un mantra e da Fiorello che lo ricanta in italiano in “Si O No”, ma anche all’estero, come già detto, le cose vanno alla grande e senza intoppi, almeno sino a quando si fa avanti un’etichetta britannica, la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker, intenzionata a pubblicarlo oltremanica. Poiché già ceduto ad un’altra compagnia discografica, alla Network Records cercano di trasformare l’imprevisto in un’opportunità per non perdere l’affare e trovano presto la soluzione: incidere una nuova versione. Non si tratta però di una cover dell’originale dei KC & The Sunshine Band bensì di una copia carbone del remake italiano realizzata dai K.W.S. (Chris King, Winston Williams e il vocalist Delroy St. Joseph), un banale tarocco insomma. Grazie pare ad una pratica sleale che blocca oltremanica il disco dei Double You, la “Please Don’t Go” dei K.W.S. ha via libera e riesce a conquistare il vertice delle classifiche britanniche (per ben sette settimane consecutive) e statunitensi, coadiuvata da un videoclip e dal supporto di un colosso come la Next Plateau Records di Eddie O’Loughlin. La reinterpretazione (o presunta tale) sbarca anche in Italia attraverso la Whole Records del gruppo Media Records. La questione desta scalpore e finisce prevedibilmente nell’aula di un tribunale. Informazioni dettagliate trapelano attraverso un articolo di Roger Pearson pubblicato su Billboard l’1 aprile del 1995: Steve Mason e Sean Sullivan, rispettivamente proprietario e co-direttore della Pinnacle che distribuisce il disco dei K.W.S., sono considerati colpevoli di aver condotto una campagna di pirateria internazionale che infrange il diritto d’autore col chiaro fine di trarre enormi vantaggi economici ai danni della ZYX a cui la DWA di Zanetti aveva precedentemente concesso in licenza il brano dei Double You. Una vicenda analoga toccherà, anni dopo, a “Jaguar” di The Aztec Mystic aka DJ Rolando, come descritto in Decadance Extra, e in un certo senso anche a “Belo Horizonti” dei nostri The Heartists, come racconta Claudio Coccoluto in questo articolo/intervista. Talvolta, è risaputo, il successo ha un prezzo da pagare e può risultare particolarmente alto.

Il 1992 si apre comunque sotto i migliori auspici: insieme ad Ice MC, Pianonegro e Wareband, la DWA adesso mette nel forziere dei successi anche i Double You con “Please Don’t Go”, quarantaseiesima pubblicazione di un catalogo che continua a crescere senza esitazioni ed oggi considerata alla stregua di un’istantanea della spensieratezza degli adolescenti di allora. Da “My World” viene estratto un secondo singolo, il malinconico “Rainy Days” che prova a rimettere al centro della scena Ice MC ma senza grandi consensi. La combo tra hip house e downbeat, tenuti insieme da un breve campionamento vocale preso ancora dal citato “Warehouse (Days Of Glory)” – lo stesso che anni dopo ricicleranno gli svedesi Antiloop per la hit del 1997 “In My Mind” – sembra non fare più grande presa sul pubblico della dance generalista. “Love For Love” dei C. Tronics (Alessandro Del Fabbro, Claudio Malatesta alias Claudio Mingardi – per cui Robyx produce “Star” già nel 1984, in seno al fermento dei medley come raccontato qui – e Stefano Marinari) punta ancora su derivazioni technodance in stile Cappella seppur non manchi una versione spassionatamente italo house, la Original ’70 Mix; la Aquilani veste i panni, per l’ultima volta, di Alexia Cooper con “Let You Go” trainato da un fraseggio jazz che strizza l’occhio a quello di “How-Gee” dei Black Machine di cui parliamo qui, e vagamente jazzy è pure la salsa di “Guitar” di Larry Spinosa, altro nome di fantasia dietro cui si cela Francesco Alberti «che oltre ad essere il fonico del Casablanca Recording Studio era anche un musicista» spiega Zanetti.

Delirio compilation
La compilation “Delirio” fotografa bene il mondo della “techno all’italiana” che si sviluppa tra 1991 e 1992

L’onda di quella che viene sommariamente definita “techno” cresce ed impatta fragorosamente in Italia dove si moltiplicano i tentativi di emulazione di replicare i numeri dei successi nordeuropei. La DWA non si esime dal seguire questa tendenza generalizzata, seppur appaia evidente che quello continui a non essere affatto il genere in cui riesca a dare il proprio meglio. Escono “Confusion” di Psycho, “Can You Hear Me” di Walt 93 e la compilation “Delirio” che rappresenta bene lo spaccato di quel mondo “techno all’italiana”, fatto di campionamenti troppo ovvi e semplificazioni che collocano il genere nato a Detroit «su binari semplici e riconoscibili […], oltre a spingerlo verso ritmi produttivi pari a quella dell’ormai consolidata piano house» come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, specificando che «il sound generale di quei dischi aveva veramente poco di techno nel senso più puro della parola. Si tratta infatti di produzioni realizzate perlopiù da musicisti che hanno un background musicale non adatto alle strutture minimali ed eclettiche del sound di Detroit, e al massimo assomigliano alle produzioni europee di label come R&S o Music Man ma senza averne l’impatto e le giuste sonorità». I Data Drama riappaiono, per l’ultima volta, con “Close Your Eyes”, ancora cantato da Naraine che però non compare nelle esibizioni pubbliche (come questa) perché impegnato coi Double You, Claudio Mingardi produce “L.O.V.E.” di 2 Fragile, ennesimo act one shot a cui si sommano Larry Liver Lip con “Challowa”, attraverso cui Zanetti ed Alberti (il Larry rimanda al sopramenzionato Larry Spinosa) rimaneggiano il ragamuffin coadiuvati dalla voce di Ian Campbell e parzialmente ispirati da “Informer” di Snow, “Razza” dei Razza Posse (promosso sullo sticker in copertina come “raggarappin”) e il “Contraddizione EP” dei Contraddizione Posse. Tutti finiscono in una compilation intitolata “Italiano Ragga” omonima di un pezzo di Ice MC racchiuso in “My World”, uscita dopo lo scandalo di Tangentopoli di cui si rinviene qualche riferimento sulla copertina e nella quale, tra gli altri, presenzia Frankie Hi-NRG MC con “Fight Da Faida”.

Double You - We All Need Love LP
Un primo piano di William Naraine finito sulla copertina del primo album dei Double You

Il vero banco di prova per l’etichetta è rappresentato dal follow-up di “Please Don’t Go” dei Double You ossia “We All Need Love”, registrato a giugno 1992 durante la tournée europea. Si tratta ancora di una cover, questa volta del pugliese trapiantato in Canada Domenic Troiano, capace di raggiungere in tempi brevi i vertici delle classifiche di vendita di tutto il mondo. Abbinato ad una base che ricorda, come vuole la ricetta del classico follow-up, quella di “Please Don’t Go”, “We All Need Love” è anche il titolo del primo album della band. Non manca il videoclip dominato ancora dalla figura del carismatico Naraine. A fare da contorno “Rock Me Baby” e “Gimme Some” di Babyroots, interpretate da Sandy Chambers e cover rispettivamente degli omonimi di Horace Andy e Jimmy “Bo” Horne scritti da Harry Casey e Richard Finch. A settembre è tempo di “Who’s Fooling Who”, terzo singolo dei Double You ancora estratto da “We All Need Love”, cover dell’omonimo dei One Way e per cui viene girato un videoclip. È una cover pure quella dei debuttanti Netzwerk, team composto dai produttori Marco Galeotti, Marco Genovesi e Maurizio Tognarelli, che per l’occasione ricostruiscono “Send Me An Angel” degli australiani Real Life avvalendosi della voce della citata Chambers che fa anche da frontwoman per le esibizioni nelle discoteche e in tv. Tra echi à la Snap! (“Rhythm Is A Dancer” è una delle hit dell’anno a cui si ispira più di qualcuno), la vena malinconica preservata dall’originale e il climax raggiunto dopo un effetto stop che introduce il ritornello e che diventa la tag identificativa della DWA, il brano conquista diverse licenze estere e circola parecchio nei primi mesi del 1993. Provengono d’oltralpe invece “Keep Our Love Away” di Sophie Hendrickx e “Use Your Voice” di Red Zone, entrambe prese in licenza dalla belga Rox Records di Roland De Greef.

Digilove - Let The Night Take The Blame
Digilove, uno dei tanti progetti a cui presta la voce Alessia Aquilani

1993, 1994, 1995: la consacrazione dell’eurodance
Ancora estratto da “We All Need Love”, “With Or Without You” è il nuovo singolo dei Double You, cover dell’omonimo degli U2. Posizionato nei binari timbrici di “Please Don’t Go”, il brano rivive attraverso molteplici versioni solcate su un doppio mix tra cui alcune ritmicamente più impetuose come la Mind 150 Mix. Claudio Mingardi torna con un progetto nuovo di zecca, Gray Neve, varato con l’onirica “I Need Your Love” scritta insieme ad Alessia Aquilani con qualche rimando che vola ad “Exterminate!” degli Snap!. L’assenza di una personalità definita e di un’idea sviluppata a dovere lasciano però il pezzo nell’anonimato. Decisamente più convincente e coinvolgente invece la cover di “Let The Night Take The Blame” di Lorraine McKane con cui debutta Digilove, act messo su dal team M.V.S. (il citato Mingardi, Gianluca Vivaldi e Riccardo Salani). Il brano valorizza il timbro prezioso e sensuale della Aquilani e conquista licenze in Germania, Francia e Spagna e lo spazio in numerose compilation che ai tempi possono rappresentare l’ago della bilancia di alcune produzioni discografiche soprattutto in ambito eurodance. Quest’ultimo si configura come un filone dalle caratteristiche ben precise rappresentate da uno spiccato apparato melodico ottenuto con riff di sintetizzatore in cui si incrociano vocalità maschili e femminili, spesso le prime in formato rap nella strofa, le seconde invece a scandire l’inciso, in uno schema apparso già nel 1989 con la profetica “I Can’t Stand It” di Twenty 4 Seven a cui abbiamo dedicato qui un articolo. Dal 1992, con l’esplosione di “Rhythm Is A Dancer”, questo modello diventa praticamente una matrice a cui un numero indefinito di produttori europei fa riferimento per comporre la propria musica. È il caso dello svizzero René Baumann alias DJ Bobo che entra nel mercato discografico nel 1990 con “I Love You”, distillato tra l’house balbettante di Chicago, le pianate italo e ganci hip hop, e che adesso cavalca in pieno il fermento eurodance con “Somebody Dance With Me”, pubblicata a novembre del ’92 ma esplosa in diversi Paesi europei ed extraeuropei (come Australia ed Israele) nel corso dell’anno seguente, quando arriva anche in Italia attraverso la DWA. Si narra che sia stato proprio il successo internazionale ad aver attirato l’attenzione della celebre Motown accortasi dell’evidente somiglianza tra il ritornello di “Somebody Dance With Me” e quello di “Somebody’s Watching Me” di Rockwell, interpretato da Michael Jackson. L’etichetta di Berry Gordy, padre dello stesso Rockwell, avrebbe intentato causa ai danni dello svizzero accusandolo di plagio. In occasione del loro ventennale d’attività, la DWA pubblica il megamix dei KC & The Sunshine Band intitolato ironicamente “The Official Bootleg”. Segue una tiratura su LP, “Oh Yeah!”, che in tracklist annovera una versione di “Please Don’t Go” registrata live in Versilia. Il chitarrista Francesco ‘Larry Spinosa’ Alberti offre un continuum al “Guitar”, “The Guitar E.P. Nº 2” che all’interno ospita due tracce (e due remix) di stampo house rigate da una vena papettiana, e un ritorno è pure quello degli olandesi Terra W.A.N. con “Caramba (Dance 2 Dis)”, traccia ai confini con l’hardcore incanalata nel brand DWA Interface.

È pop dance made in Italy invece “Baby I Need Your Loving” di Johnny Parker Feat. Robert Crawford, prodotto da Marco Mazzantini e Daniele Soriani (quelli che tempo dopo armeggiano dietro Gayà) e coi backing vocal di Alessia Aquilani. A sorpresa Zanetti riporta in vita il suo alter ego Savage, assente da circa un triennio, con “Something And Strangelove”: “Something” è un inedito che risente dell’influsso della dance mitteleuropea, “Strangelove” è la cover dell’omonimo dei Depeche Mode. Sull’etichetta centrale si legge DWA Infective, ennesima declinazione che il musicista utilizza per personalizzare l’iter artistico della sua label analogamente a DWA Italiana, usata per il remix di “Sesso O Amore” degli Stadio realizzato dal sopraccitato team degli M.V.S. (Mingardi, Vivaldi, Salani). I Double You tornano con “Missing You”, primo singolo estratto da “The Blue Album” che uscirà l’anno dopo: sganciata dalla formula del filone iniziato con “Please Don’t Go”, la band inforca una nuova strada contaminata da elementi rock. Sul lato b (e sul CD singolo) finiscono i remix house di Fulvio Perniola e Gianni Bini che proprio quell’anno debuttano su UMM come Fathers Of Sound. Roberto Calzolari e Massimo Traversoni invece, già dietro Dyva, si propongono con “You Make Me Feel” cantata da Gwen Aäntti, un brano in cui pare riascoltare un frammento (velocizzato) di “What Is Love” di Haddaway. Per l’occasione si firmano S.D.P., acronimo di Sweet Doctor Phybes. Il 1993 partorisce un numero abissale di cover dance di classici pop/rock, proprio come “You And I” di Zooo, remake del classico dei Delegation prodotto da Claudio Mingardi e Marco Mazzantini. I due si occupano anche di “Love Is The Key” di Simona Jackson, cantante americana più avanti nota come Simone Jay che inizia a collaborare con la struttura zanettiana mediante un brano di estrazione house. È il centesimo disco della DWA, che scommette ancora sulle potenzialità di DJ Bobo e della sua “Keep On Dancing!”, perfetto follow-up di “Somebody Dance With Me” costruito sui medesimi elementi ossia base che fonde pianate ai bassi sincopati in stile “Rhythm Is A Dancer” condita dal rap maschile e dal ritornello affidato ad una voce femminile. Il successo internazionale convince Zanetti a licenziare nel nostro Paese anche il primo album dell’artista svizzero, “Dance With Me”, pubblicandolo in formato CD.

Ice MC e la tedesca Jasmin ‘Jasmine’ Heinrich che lo affianca quando la DWA lo rilancia nell’eurodance

Assente da quasi due anni, Ice MC riappare sotto la dimensione narrativa dell’eurodance auspicando un ritorno ai fasti reso possibile da “Take Away The Colour” uscito ad ottobre, in cui Robyx assembla con maestria il rap di Campbell ad una trascinante base a cui aggiunge un ritornello a presa rapida. A cantarlo è la menzionata Simona Jackson che però non compare nel videoclip, rimpiazzata dalla tedesca Jasmin Heinrich alias Jasmine, scelta per affiancare Campbell nei live e nei servizi fotografici secondo una pratica comune sin dai tempi dell’italo disco così come descritto in questa inchiesta. È uno dei primi pezzi eurodance prodotti in casa DWA che, in virtù del significativo impatto sul mercato continentale con oltre 200.000 copie vendute, genera più di qualche epigono a partire da “Get-A-Way” dei tedeschi Maxx, così come scrive James Hamilton sulla rivista britannica Music Week il 18 marzo 1995. Insieme ad Ice MC ritornano anche i Netzwerk con un’altra cover, “Breakdown”, originariamente di Ray Cooper ed ora ricantata da Sandy Chambers. Nell’ultimo scorcio del ’93 l’etichetta mette sul mercato i remix di “Give It Up” di KC & The Sunshine Band, “Part-Time Lover” dei Double You (ancora estratto dall’imminente “The Blue Album”), “Give You Love” dei Digilove cantata dall’infaticabile Alessia Aquilani, “I Tammuri” di Andrea Surdi e Tullio De Piscopo e “Take Control” di DJ Bobo, ormai lanciatissimo nel firmamento eurodance internazionale ma con pochi responsi raccolti in Italia.

Corona - The Rhythm Of The Night
La copertina di “The Rhythm Of The Night” di Corona

Menzione a parte merita “The Rhythm Of The Night” di Corona, progetto ideato dal DJ Lee Marrow e registrato nel Pink Studio di Reggio Emilia di Theo Spagna, fratello di Ivana. A scrivere il testo è Annerley Gordon, la futura Ann Lee, a cantare (in incognito) il brano è invece la catanese Jenny B. mentre a portarlo in scena è la frontwoman brasiliana Olga De Souza, unica protagonista del videoclip diretto da Giacomo De Simone. Ottenuto incrociando abilmente parti inedite ad una porzione melodica di “Save Me” delle Say When! ed un riff di tastiera simile a quello di “Venus Rapsody” dei Rockets, “The Rhythm Of The Night”, uscito a novembre e racchiuso in una copertina che immortala lo skyline newyorkese notturno con le Torri Gemelle luccicanti come gioielli nell’oscurità, diventa presto un successo globale che vive tuttora attraverso remix, cover ed interpolazioni, su tutte “Of The Night” dei Bastille e “Ritmo (Bad Boys For Life)” dei Black Eyed Peas e J. Balvin. Innumerevoli anche i derivati, a partire da “The Summer Is Magic” di Playahitty prodotta da Emanuele Asti, uscita nel ’94 e curiosamente interpretata dalla stessa Jenny B. seppur nel video finisca una modella. Quello di Corona è il primo mix ad essere stampato col logo bianco su fondo blu, declinazione grafica più rappresentativa della DWA rimasta in uso sino alla fine del 1996.

Il 1994 inizia con “Number One – La Prima Compilation Dell’Anno”, una raccolta edita su CD e cassetta e mixata da Lee Marrow che raduna materiale prevalentemente dwaiano, alternato a successi del periodo come Silvia Coleman, Cappella ed Aladino. All’interno c’è anche un’anteprima, “Everybody Love” di TF 99, nuovo progetto del team M.V.S. solcato su 12″ a gennaio ed oggetto di discreti riscontri oltralpe. Arrivano dall’estero invece “Is It Love?” dei Superfly e “I Totally Miss You” di Mike L.G., entrambi prodotti da George Sinclair ed Eric Wilde ma passati inosservati da noi. Per i Double You è tempo del secondo LP, “The Blue Album”, dal quale viene prelevato “Heart Of Glass”, cover dell’omonimo dei Blondie. Il fenomeno dei remake è ormai sulla via del tramonto ma certamente non quello dei remix: la DWA rimette in circolazione la musica di Savage attraverso un greatest hits, “Don’t Cry”, abbinato a numerose versioni remix dell’evergreen “Don’t Cry Tonight” incise su due dischi. A firmarle, tra gli altri, Mr. Marvin, Stefano Secchi, Fathers Of Sound e Claudio Mingardi. Proprio quest’ultimo, insieme agli inseparabili Vivaldi e Salani e alla “solita” Aquilani, dà alle stampe “Under The Same Sun”, ignorata in Italia ma accolta bene in altri Paesi europei (Germania, Francia, Spagna). Il nome del progetto one shot è DUE, la medesima sigla (acronimo di Dance Universal Experiment) con cui il team M.V.S. lancia la propria etichetta l’anno dopo, la DUE per l’appunto. Passando per i poco noti “Space Party People” di Arcana, prodotto a Trieste da David Sion (intervistato qui) e Chris Stern, “I Wanna Be With You” dei Cybernetica (Mingardi e soci) e “Better Be Allright” di Space Tribe (una sorta di risposta a “Move Your Body” degli Anticappella realizzata dai componenti dei Double You), la DWA garantisce un po’ di longevità a “The Rhythm Of The Night” di Corona attraverso i (primi) remix tra cui quello di Mephisto (intervistato qui), e scommette sulle potenzialità di “It’s A Loving Thing” di CB Milton, eroe dell’eurodance in buona parte dell’Europa settentrionale prodotto dagli artefici dei 2 Unlimited, Phil Wilde e Jean-Paul De Coster. Il cantante olandese è tra i protagonisti dell’ondata di interpreti come Haddaway, Lane McCray dei La Bouche, Captain Hollywood, Ray Slijngaard dei 2 Unlimited, Dr. Alban, Jay Supreme dei Culture Beat, B.G. The Prince Of Rap o Turbo B. degli Snap! e Centory, accomunati non solo dal genere musicale ma anche dal colore (scuro) della pelle, come del resto vale per Ice MC.

Ice MC - Think About The Way
“Think About The Way” sancisce la completa affermazione di Ice MC in Italia

Il primo boom dell’anno è proprio il suo: “Think About The Way” esce alle porte della primavera ed è il brano con cui l’etichetta di Zanetti conferma il successo internazionale per Campbell. La scrittura si evolve entro canoni ben definiti e l’effetto cover inizia a dissolversi a favore di una personalizzazione dei suoni dalle tonalità calde e brillanti, equilibri attentamente studiati e ponderati tra parti strumentali e vocali nonché una meticolosa attenzione per le stesure accomunate dall’inciso con accento metrico in levare anticipato dall’effetto stop, laser, blip (o comunque un fx simile ad una scarica elettrica) adottato ripetutamente per circa un quadriennio. Questa volta ad affiancare il rapper è la Aquilani che però non compare nel video diretto da Giacomo De Simone e nemmeno sul palco del Festivalbar, nella clip per Superclassifica Show e tantomeno nei live come questo al pugliese Modonovo Beach, rimpiazzata da Jasmin Heinrich già incrociata nel video di “Take Away The Colour” e, un paio di anni dopo, entrata nella formazione degli E-Sensual. La spezzina tuttavia prende parte ad alcune esibizioni live, come questa all’evento francese Dance Machine, o questa in occasione del programma “Donna Sotto Le Stelle” trasmesso da Italia 1. Questa singolare situazione, non nuova negli ambiti dance specialmente nostrani, non la infastidisce almeno a giudicare da quanto dichiara a Riccardo Sada in un’intervista pubblicata ad aprile 1998 su Jocks Mag: «non sono stata vittima nel progetto Ice MC, io cantavo e sul palco ci andava una mulatta, ma mi è bastato. Adesso però sul palco ci vado io e mi diverto». In “Think About The Way” c’è ancora l’impronta rap ma senza riferimenti all’hip house. La produzione zanettiana ora vira verso la melodia più ariosa, e l’indovinato ritornello fa il resto insieme all’hook “bom digi digi digi bom digi bom”. Sebbene pubblicato a marzo, il brano di Ice MC, tempo dopo entrato nella colonna sonora del film “Trainspotting”, diventa un inno estivo dal successo ulteriormente prolungato da nuove versioni tipo la Noche De Luna Mix con una chitarra spagnoleggiante in stile Jam & Spoon. Come sottolinea Manuela Doriani in una recensione di agosto ’94, l’uscita di questo remix risulta decisamente provvidenziale «perché l’originale stava cominciando un po’ a stancare le masse discotecare».

Da “Dance With Me” viene estratto “Everybody” con cui DJ Bobo rallenta i bpm a favore di una canzone downtempo rigata di reggae, tentando di fare il verso ad “All That She Wants” degli Ace Of Base, Mingardi, Vivaldi e Salani clonano “Move On Baby” dei Cappella attraverso “Music Is My Life” di Galactica, Ice MC viene coinvolto in un nuovo remix di “The Rhythm Of The Night” (lo Space Remix), CB Milton riappare con “Hold On (If You Believe In Love)” e i Double You con “Run To Me”, montata sul riff identificativo di “Don’t Go” di Yazoo. Nel turbinio delle pubblicazioni rispunta anche Savage con l’inedito “Don’t You Want Me”, scritto insieme a Fred Ventura (intervistato qui) ed incastonato nella base di “Think About The Way” con qualche marginale variazione. Non è intenzione di Zanetti però rilanciarsi nella scena, è chiaro sin dall’inizio che il musicista non voglia usare la casa discografica per sponsorizzare la sua carriera da artista. La DWA invece veicola nel mondo il suo ruolo da produttore e questo spiega la ragione per cui l’alter ego principale di Zanetti occupi una posizione decisamente defilata rispetto ad altri progetti ed artisti, in primis Corona ed Ice MC, talmente forti da oscurare pure altre proposte dell’etichetta, come “Don’t U Feel The Beat” di Timeshift, importato dal Belgio, “Do You Know” di Black & White, prodotto da Massimo Traversoni e Roberto Calzolari scopiazzando palesemente “Think About The Way”, e “I Don’t Wanna Be” di Crystal B., un altro act one shot registrato presso il Crystal Studio di Francesco Alberti e noto perlopiù all’estero. Nel frattempo Corona arriva oltremanica con la WEA del gruppo Warner aggiudicandosi, come riportato sul sito DWA, un disco d’oro con oltre 400.000 copie vendute. Per l’occasione “The Rhythm Of The Night” viene remixata dai Rapino Brothers (italiani trapiantati nel Regno Unito) e dai fratelli Adrian e Mark LuvDup, anticipando lo sbarco oltreoceano. Alla fine dell’anno saranno più di quindici i dischi d’oro e di platino appesi alla parete. Davvero niente male per un pezzo che, come l’autore racconta qui, viene inizialmente rifiutato da un discografico della Dig It International convinto che non fosse affatto adatto ai tempi e che oggi, paradossalmente, è finito col diventare una specie di elemento mitologico di quell’epoca.

Ice MC + Netzwerk
“It’s A Rainy Day” e “Passion”, due grandi successi della DWA usciti nel secondo semestre ’94

Dopo un’estate vissuta da assoluto protagonista, Ice MC torna con “It’s A Rainy Day”, che davvero nulla divide col quasi omonimo “Rainy Days” di due anni prima. Scritto e prodotto da Zanetti mescolando gli stessi elementi di “Think About The Way” incluso un nuovo hook vocale (“eh eh”), il brano è issato da una suggestiva frase di organo sposata perfettamente con l’atmosfera malinconica tipica delle produzioni a nome Savage. La Aquilani è confermata come voce femminile e questa volta la si ritrova anche nel video ancora diretto da Giacomo De Simone. I tempi sono maturi per lanciare l’album dell’artista, il terzo della carriera, intitolato “Ice’ N’ Green” che gioca sull’assonanza fonetica col quartiere il cui Campbell è cresciuto, Hyson Green, a Nottingham. Quella della DWA ormai è una matrice costituita da suoni e stesure a cui un numero imprecisato di produttori eurodance si ispira, come Malatesti, Salani e Vivaldi che affidano a Zanetti “Don’t Leave Me”, il primo brano firmato Fourteen 14 riuscendo ad ottenere ottimi riscontri all’estero. Percorso inverso invece per CB Milton che dalla belga Byte Records si ritrova in Italia con un altro singolo estratto da “It’s My Loving Thing” ovvero “Open Your Heart”. Allineati al modulo Corona/Ice MC risultano anche i Netzwerk, orfani di Marco Genovesi rimpiazzato da Gianni Bini e Fulvio Perniola, che in autunno tornano con “Passion” lanciata su un ritmo ondulatorio e galoppante. La nuova formazione vede anche la defezione di Sandy Chambers sostituita da Simone Jackson, scelta che però, come lo stesso Bini spiega in questa intervista, «non fu legata a questioni artistiche ma, più banalmente, all’impossibilità della Chambers di cantare in quel periodo». La Jackson, nel 1994, interpreta anche “You’re The One”, prodotto da Francesco Racanati alias Frankie Marlowe, già attivo in progetti come E. L. Gang, Nine 2 Six e 2 B Blue, che però resta nel cassetto. «Dopo il grande successo di “The Rhythm Of The Night” di Corona pensai di realizzare un brano che potesse collocarsi su quel genere» svela oggi Racanati. «Scrissi il testo e mi rivolsi all’amico Alex Bertagnini che mi presentò Vito Ulivi. Lavorammo insieme al pezzo affidandolo vocalmente alla Jackson per l’appunto. Fabrizio Gatto della Dancework (intervistato qui, nda) era intenzionato a farlo uscire come singolo ma parallelamente lo feci ascoltare a Roberto Zanetti che conoscevo dai tempi dei Taxi e con mia sorpresa, sapendo quanto fosse esigente e selettivo, rimase colpito. “You’re The One” gli piaceva e mi consigliò di approfondire il discorso con Lee Marrow per inserirlo nel primo album di Corona che era in lavorazione. Purtroppo Alex e Vito non furono d’accordo, preferivano l’offerta di Gatto che puntava all’uscita come singolo. Tuttavia la Dancework alla fine pubblicò un altro brano in cui non ero coinvolto ossia “All I Need Is Love” di Indiana (di cui parliamo qui, nda), e nel contempo anche il “treno” con Zanetti era ormai passato e perso. “You’re The One”, a cui partecipò pure Marco Tonarelli, rimase quindi in archivio». A chiudere, sotto le feste natalizie, è il Christmas Re-Remix di “It’s A Rainy Day”. Sul 12″ c’è spazio anche per un altro pezzo tratto dall’album, “Dark Night Rider”, col riff di sintetizzatore che paga l’ispirazione a “Move On Baby” dei Cappella, un’altra mega hit italiana messa a segno nel 1994.

Il 1995 riprende dallo stesso nome con cui è terminato il 1994, Ice MC. Non si tratta proprio di un pezzo nuovo di zecca bensì di una rivisitazione di “Take Away The Colour” codificata in copertina come ’95 Reconstruction: ricantata dalla Aquilani che fa capolino anche nel videoclip, la traccia è “figlia” della velocizzazione impressa alla dance nostrana, accelerazione ritmica importata in primis dalla Germania dove quella che a posteriori viene ribattezzata hard dance garantisce un exploit commerciale anche a correnti parallele come l’happy hardcore. La “ricostruzione” di “Take Away The Colour” guarda proprio in quelle direzioni, occhieggiando alle melodie festaiole dei Sequential One del futuro ATB André Tanneberger, alla hit di Marusha (“Over The Rainbow”) e, con un assolo salmodiante a rinforzo del flusso lirico, un po’ anche a quella di Digital Boy (“The Mountain Of King”) che, da noi, fu tra le prime ad innescare quel vigoroso scossone ritmico. «In realtà della versione originale è rimasta solo una piccola parte» spiega Campbell in un’intervista pubblicata su Tutto Discoteca Dance a marzo. «Il pezzo è stato completamente rifatto a 160 bpm, e questo è un disco importante perché segna un’evoluzione del mio stile. La sonorità generale si è rinnovata diventando una via di mezzo tra la melodia, il suono tecnologico tedesco e la jungle britannica». Il brano, in cui si scorge pure qualche rimando vocale non troppo velato a “Think About The Way”, apre la tracklist del remix album dello stesso artista che DWA pubblica insieme alla Polydor del gruppo Polygram.

DWA al Midem
Una foto scattata al Midem di Cannes: a sinistra Steve Allen, A&R della WEA, al centro Roberto Zanetti affiancato da Lee Marrow

È tempo di remix anche per “Passion” dei Netzwerk, ugualmente dopato nella velocità che nella Essential Mix oltrepassa i 140 bpm, e qualche battuta in più la prende anche il nuovo di Corona, “Baby Baby”, rifacimento di “Babe Babe” pubblicato nel 1991 come Joy & Joyce. Ricantato per l’occasione da Sandy Chambers che ovviamente non compare nel video in cui il ruolo da protagonista è sempre di Olga De Souza, il brano, uscito a marzo, conta sul remix di Dancing Divaz utile per penetrare nel mercato britannico ed incluso nella tracklist dell’album uscito in contemporanea, “The Rhythm Of The Night”. La DWA, ancora insieme alla Polydor, lo pubblica solo in formato CD. In Europa è un tripudio. L’etichetta di Zanetti è tra le etichette premiate al Midem di Cannes in virtù di quasi una ventina di dischi d’oro e platino conquistati. La velocità di crociera della dance, nel corso del 1995, aumenta ancora e ciò solleva qualche interrogativo tra gli addetti ai lavori: è corretto parlare di eurobeat? A novembre del ’95 Federico Grilli, sulle pagine di Tutto Discoteca Dance, firma uno speciale in cui pone l’accento proprio sulla trasformazione che investe il filone, «più radicato in Germania e nel Nord Europa che in Italia dove le radio, in alcuni casi, fanno ancora il bello e il cattivo tempo di alcuni dischi». Tanti nomi noti oltralpe (Cartouche, T-Spoon, Maxx, Pandora, Cutoff, Magic Affair, E-Rotic, Imperio, Fun Factory, Intermission, Masterboy) da noi non riescono ad attecchire nonostante l’interesse mostrato per alcuni di essi dalle etichette nostrane, evidentemente incapaci di portare al successo in modo autonomo le scelte dei propri A&R. All’inchiesta prende parte anche Roberto Zanetti che parla dell’eurobeat come «un genere non certamente nuovo ma in vita da oltre un decennio, diretta evoluzione dell’hi NRG con cui Stock, Aitken & Waterman facevano esplodere artisti e band come Rick Astley, Mel & Kim, Dead Or Alive, Hazell Dean e Bananarama. In seguito la Germania, l’Italia e i Paesi limitrofi si sono uniformati ed hanno cominciato a produrre cose simili. Oggi per eurobeat si deve intendere tutto ciò che ha una forte melodia abbinata a suoni e ritmiche attuali, alla moda. In Italia, oltre alle mie produzioni, nella pop dance vedo con interesse dischi come Cappella o Whigfield che di sicuro hanno un sapore internazionale. In conclusione ritengo che l’eurobeat non morirà mai anzi, si andrà sempre più ad identificare con il pop e con tutto ciò che diventa commerciale».

Double You, Netzwerk, Corona (1995)
Double You, Netzwerk e Corona, il tridente d’attacco della DWA nell’estate 1995

L’eurobeat nostrana (o più propriamente eurodance in quanto, come sottolinea Grilli, il fenomeno interessa solamente l’Europa e non l’America) respira a pieni polmoni grazie alla DWA che, a primavera inoltrata, mette sul mercato due mix destinati a diventare in un battito di ciglia dei successi estivi, “Dancing With An Angel” dei Double You e “Memories” dei Netzwerk. Per questi ultimi, ancora affiancati da Simone Jackson che diventa l’immagine e voce nei live così come si vede in questa clip, è una conferma dopo l’exploit invernale ottenuto con “Passion”; per i Double You invece, per l’occasione abbinati al featuring della Chambers che interpreta il ritornello, è un clamoroso ritorno al successo dopo un 1994 vissuto un po’ in sordina. Entrambi testimoniano l’espressività stilistica diventata il trademark della DWA, composto da una pasta del suono limpida e cristallina, irradiata da un bagno di luce che non rompe mai il contatto con la tradizionale formula della song structure. L’inesauribile vena di Robyx porta ad uno stile compositivo ormai inconfondibile che per le radio e i DJ pop dance rappresenta una consolidata certezza in un oceano di produzioni. Quell’anno Corona e la band capitanata da Naraine partecipano alla trasmissione televisiva brasiliana Xuxa Hits che vanta centinaia di migliaia di spettatori: il Brasile è senza timore di smentita tra i Paesi in cui le produzioni DWA fanno maggiore presa. Insieme a loro c’è anche un altro progetto italiano, Andrew Sixty, emerito sconosciuto in patria ma popolarissimo nello Stato sudamericano come testimoniano diverse clip come questa, questa o questa. Nella line up, tra gli altri, figura Max Moroldo, che poco tempo dopo fonda la Do It Yourself e che abbiamo intervistato qui. In estate arrivano “I Want You” dei Po.Lo., prodotto da Mingardi, Vivaldi e Salani sulla falsariga di “Dancing With An Angel” con la voce di Marco Carmassi che ricorda parecchio quella di Naraine, e “Try Me Out” di Corona, rilettura dell’omonimo del ’93 di Lee Marrow cantato da Annerley Gordon ora sostituita da Sandy Chambers ed ispirato da “Toy” delle Teen Dream del 1987. Olga De Souza resta la primattrice del video. Il lato b del disco annovera due remix, quello degli Alex Party e quello di Marc ‘MK’ Kinchen, artefice del successo internazionale dei Nightcrawlers come descritto qui. Kinchen appronta pure una versione strumentale che finisce su un secondo mix codificato, per l’appunto, come Dub Mixes.

In autunno viene annunciato il “divorzio” tra Ice MC e la DWA: Tutto Discoteca Dance fa riferimento alla “stipula di un contratto mondiale tra il cantante di colore e la multinazionale tedesca Polydor” ma per anni le voci che si rincorrono sono discordanti ed alimentano parecchia confusione. Da un lato c’è chi parla dell’uso illegittimo che Campbell avrebbe fatto dello pseudonimo Ice MC – di proprietà della DWA – durante la militanza nella Polydor, dall’altro chi invece punta il dito contro Zanetti, reo di non aver pagato le royalties pattuite a cui il rapper reagisce con una denuncia. «In realtà» come lo stesso Zanetti spiega in un’intervista contenuta nel libro Decadance Appendix, «nessuna delle due versioni è propriamente corretta. Charlie Holmes, manager fino ad allora sconosciuto che viveva a Firenze vicino alla casa italiana di Ice MC, riuscì a convincere l’artista di non essere gestito bene dalla DWA. Ciò portò la rottura improvvisa e non giustificata del contratto e la firma con la Polydor, etichetta con cui, tra l’altro, la DWA già collaborava. A quel punto sorse una causa che venne risolta, amichevolmente, un paio di anni dopo. Holmes aveva un grande potere su Ice MC e lo portò a compiere molte scelte sbagliate che incrinarono la sua carriera. A mio avviso il più grosso errore fu quello di affidare il progetto discografico ai Masterboy che, pur copiando spudoratamente lo stile Robyx, non riuscirono a portare al grande successo brani come “Music For Money” e “Give Me The Light” contenuti nell’album “Dreadatour” uscito nel 1996».

Alexia + Sandy
Nell’autunno ’95 Zanetti lancia Alexia e Sandy come interpreti soliste dopo un numero indefinito di featuring spesso non palesati sulle copertine

L’allontanamento dell’artista su cui aveva scommesso sin dal 1989 e nel tempo diventato un pilastro della sua etichetta non ferma Zanetti che dimostra, immediatamente, di avere un asso nella manica. Nei negozi arriva “Me And You” con cui Alessia Aquilani, da anni turnista per la DWA, diventa Alexia. Ad affiancarla, per una breve parte vocale, è William Naraine dei Double You. Il successo è immediato, il brano conquista il vertice delle classifiche di vendita in Italia e in Spagna col conseguente avvio delle prime tournée da solista. In copertina finisce una foto di Fabio Gianardi che immortala il particolare look della cantante spezzina dalla chioma raccolta in treccioline. Ma le sorprese non sono finite: Zanetti affianca ad Alexia un’altra turnista che ha maturato numerosissime esperienze, Sandra Chambers, ora pronta a spiccare il volo da solista come Sandy. Il suo brano si chiama “Bad Boy” e macina decine di licenze, non solo in Europa, trainato da un refrain di tastiera simile a quello di “Tell Me The Way” dei Cappella, già oggetto di una sorta di ripescaggio nell’omonimo dei The Sensitives nato dalla partnership tra la Bliss Corporation e la Sintetico. A novembre esce “I Don’t Wanna Be A Star” che traghetta Corona nelle atmosfere della discomusic con qualche occhiata a “Can’t Fake The Feeling” di Geraldine Hunt. Il video omaggia la “Dolce Vita” romana ancora con la briosa Olga De Souza, bellezza sudamericana dalla capigliatura fluente e dalla risata peculiare ma un po’ sgraziata, seppur a cantare resti la Chambers. Per non scontentare i fan dell’eurodance viene approntata una versione apposita, la Eurobeat Mix, ma a colpire maggiormente gli addetti ai lavori è la 70’s Mix: in relazione ad essa Nello Simioli, in una recensione apparsa a dicembre su Tutto Discoteca Dance, ipotizza la nascita di un «nuovo filone che possa innalzare il livello qualitativo di un mercato stanco e disorientato». A tirare il sipario sono i Double You con “Because I’m Loving You”, impostato come “I Don’t Wanna Be A Star”: da un lato la versione eurodance pensata come follow-up di “Dancing With An Angel”, dall’altro la ’70 Mix, sincronizzata col video girato in teatro che invece capovolge tutto a favore di dimensioni disco, preservando la linea melodica principale che ammicca a “You Keep Me Hangin’ On” di Kim Wilde. L’idea c’è ma paragonato al predecessore il brano perde un po’ in potenza ed immediatezza. Rispetto alle annate precedenti, quella del 1995 è la prima in cui la frequenza delle pubblicazioni DWA scende a circa una ventina di uscite, riducendo quasi del tutto i progetti one shot e le compilation ed azzerando le licenze estere. Un preludio di ciò che avverrà negli anni a seguire.

1996-1997, un biennio in chiaroscuro
Dopo circa centottanta uscite, la DWA cambia in modo definitivo la numerazione del catalogo del vinile uniformandola a quella del CD: i primi due numeri identificano l’anno, i restanti il tradizionale ordine cronologico di uscita. Il primo è dunque il 96.01 che esce in primavera, “Summer Is Crazy” di Alexia, un pezzo che vuole imporsi come successo estivo sin dal titolo e per cui viene girato anche un video. La Aquilani conferma le proprie doti canore e Zanetti quelle da compositore e produttore. La dance italiana però attraversa una fase particolare, la popolarizzazione di formule strumentali trainata in primis dall’exploit mondiale di “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui) finisce col mettere all’angolo e in ombra il formato canzone sul quale la DWA ha edificato il proprio successo. I suoni della progressive e della dream fanno apparire vecchia e stantia l’eurodance, in tanti(ssimi) preferiscono voltare pagina e cercare fortuna scomodando suoni e stesure che con la dance delle classifiche avevano ben poco in comune.

Alexia - Summer Is Crazy
“Summer Is Crazy” di Alexia, un brano eurodance dai chiari riferimenti dream

In un certo senso lo fa anche Zanetti, come testimoniano i chiari rimandi pianistici a “Children” in “Summer Is Crazy”, portata al Festivalbar e pochi mesi più avanti ricostruita da DJ Dado (e Roberto Gallo Salsotto, intervistato qui) in una versione “pop-gressive”, la World Mix, ottenuta incrociando “Acid Phase” di Emmanuel Top ad “On The Road (From “Rain Man”)” degli Eta Beta J. a cui abbiamo dedicato un articolo qui. Per tentare di cavalcare la transitoria ondata progressive Zanetti riporta in vita, dopo sei anni di assenza, il progetto Pianonegro con “In Africa”, un brano edito anche in formato picture disc nato dalla distillazione della citata “Children”. Ancora una volta appare parecchio evidente che l’artista massese non sia tagliato per i generi strumentali, la sua cifra creativa emerge dalla scrittura di canzoni intarsiate ad efficaci melodie e non dalla ricerca di timbriche inedite che disorientano l’ascoltatore, nuove traiettorie ritmiche o calibrazione di layer davanti a muri di sintetizzatori modulari. «Prima di pensare ai suoni, voci ed arrangiamenti, partivo sempre da una bella canzone» dichiara in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. Con un’anima genuinamente canzonistica Zanetti è dunque un profondo conoscitore della melodia, elemento a cui ha sempre attribuito un ruolo prioritario nelle proprie opere.

A ridosso dell’estate esce il “Megamix” di Corona, composto dai suoi successi usciti tra ’93 e ’95. Quell’anno Olga De Souza è ancora sul palco del Festivalbar ma non come artista bensì come co-conduttrice insieme ad Amadeus ed Alessia Marcuzzi. Tra i cantanti che introduce, come si vede in questa clip, c’è anche Ice MC con la citata “Give Me The Light”, prodotta in Germania dai Masterboy scopiazzando palesemente il DWA style. Zanetti non molla ed appronta un nuovo pezzo per Alexia che esce a novembre, “Number One”, composto sulla falsariga di “Summer Is Crazy” e con l’inciso in comune con “(You’ll Always Be) The Love Of My Life” di Pandora uscito l’anno dopo («alcuni autori britannici mi mandarono un demo da cui presi le note del ritornello, ma tutto il resto fu scritto da me ed Alexia» spiega Zanetti, specificando che ci fosse un accordo a monte di questa scelta). Questa volta oltre al pianoforte childreniano figura pure qualche occhiata a “Seven Days And One Week” dei BBE. Immancabile il video che traina il brano soprattutto all’estero dove l’eurodance non viene intorpidita dalla fiammata progressive. Del pezzo escono svariate versioni remix tra cui la latineggiante Spanish Club Mix in spanglish e la Fun Fun Party Mix, piena di riferimenti agli Alex Party, del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano coadiuvato, tra gli altri, dagli esordienti Harley & Muscle.

E.Y.E. Feat. Alexia - Virtual Reality
“Virtual Reality” di E.Y.E. Feat. Alexia è l’ultimo tentativo della DWA di cavalcare l’onda progressive

Ad inizio ’97 il fenomeno progressive appare già sensibilmente depotenziato rispetto a dodici mesi prima, e nell’arco dell’anno la flessione sarà costante sino ad un calo completo a favore di un ritorno alla vocalità, ad atmosfere più festose e alle tradizionali stesure in formato canzone. Per la DWA, che dopo un triennio rinnova l’impianto grafico ora su fondo nero, l’ultima prova sotto il segno della progressive è rappresentato da “Virtual Reality” di E.Y.E. feat. Alexia, una traccia lontana dalle coordinate robyxiane che tenta di deviare verso stilemi “popgressive” rimaneggiando elementi di “Flash” dei B.B.E. e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. L’effetto finale è la sovrapposizione tra prevedibili bassi in levare e girotondi di “pizzicato style”, propaggine di un effimero trend commerciale sdoganato in Europa da pezzi come “Encore Une Fois” dei Sash!, “La Vache” dei Milk Inc. o “Bellissima” di DJ Quicksilver e probabilmente istigato dai Faithless con “Salva Mea (Save Me)” ed “Insomnia”, entrambi del ’95.

Un riavvicinamento alle sponde stilistiche per cui la DWA si è fatta conoscere nel mondo si registra con “Uh La La La” di Alexia, ma non è propriamente un ritorno all’eurodance: Zanetti vira verso il downtempo più scanzonato ai confini con le pop hit r&b, ma lo fa con cognizione di causa. Il brano, con cui la Aquilani partecipa al Festivalbar, diventa un successo estivo europeo, sorretto da un video registrato a Miami. Della ballad arrivano diversi remix realizzati dai Fathers Of Sound pressati su un doppio che ingolosisce i DJ devoti alla house/garage come Paolo Martini che, in una recensione apparsa a maggio su DiscoiD, spende parole più che positive sul progetto: «quando ho ascoltato il DAT sono quasi svenuto, Alexia ha una voce da panico e nel momento in cui sentirete queste versioni anche voi mi darete ragione. Purtroppo (per noi) ha un contratto in esclusiva con la DWA, cosa farei altrimenti con quella voce…». Nei negozi comunque arriva anche un remix espressamente destinato alle radio e ai locali generalisti firmato da Fargetta affiancato da Pieradis Rossini.

Alexia + Sunbrother
Con Alexia e Sunbrother la DWA ritrova la sua dimensione stilistica

“Uh La La La” è tratto da “Fan Club”, primo album di Alexia che la DWA pubblica insieme alla Polydor vendendone più di 600.000 copie e dal quale viene estratto pure “Hold On” con una versione affidata al brasiliano Memê probabilmente ispirato da “Keep On Jumpin'” di Todd Terry. In Italia però i risultati dell’LP non sono completamente soddisfacenti, a dirlo è la stessa cantante in un’intervista pubblicata ad aprile ’98 sulla rivista Jocks Mag in cui sostiene altresì che la sua presenza al Festivalbar «abbia infastidito qualcuno». Perniola, Bini, Galeotti e Tognarelli tornano sull’etichetta zanettiana ma nelle vesti di Sunbrother con “Tell Me What”, una specie di rilettura di “Stop That Train” di Clint Eastwood And General Saint, un vecchio brano reggae del 1983 reimpiantato per l’occasione su una base macareniana. Netzwerk invece “trasloca” sulla Volumex, etichetta della milanese Dancework, con “Dream”, pop tranceggiante interpretata da Sharon May Linn, completamente disallineato dai due precedenti successi e finito inesorabilmente nell’oblio. Un altro ritorno è quello dei Double You prossimi a firmare con la BMG che, orfani di Andrea De Antoni e reduci di un clamoroso successo in Brasile dove esce l’album “Forever” (ma non edito da DWA), si ripropongono con “Somebody”, brano vicino (forse troppo?) alla romantic dance di Blackwood e alla deviazione pop di DJ Dado. Come per Alexia, anche in questo caso ci pensano i Fathers Of Sound a rileggere il brano in numerose versioni house oriented incise su un doppio mix. Il numero risicato di pubblicazioni, una decina nel 1996 ed altrettante nel ’97, è un segnale che qualcosa sia mutato in modo radicale nella struttura discografica massese.

Gli ultimi anni Novanta
Come si è visto, il 1996 e il 1997 segnano un nuovo passo per l’etichetta di Zanetti. Sono ormai lontani i tempi delle pubblicazioni mensili multiple (l’apice è nel 1994 con circa una cinquantina di uscite annue), delle compilation, delle licenze dall’estero e delle scommesse su progetti one shot. I bilanci della discografia, in generale, cambiano bruscamente nell’arco di pochi anni: a Billboard, il 2 luglio ’94, Alvaro Ugolini della Energy Production dichiarava di aver incassato 1 miliardo e 200 milioni di lire nel ’92 e più del doppio nel ’93 mentre Luigi Di Prisco della Dig It International prevedeva di fatturare, per il ’94 ancora in corso, almeno 30 miliardi di lire. Gianfranco Bortolotti della Media Records invece, in un’intervista del giugno ’95 finita nel libro “Discoinferno” di Carlo Antonelli e Fabio De Luca, parla di 10 miliardi di lire in royalties, presumibilmente relativi all’anno precedente. Gli imprenditori del comparto iniziano a capire che sia necessario produrre meno ed alzare l’asticella qualitativa perché i tempi delle vacche grasse stanno repentinamente trasformandosi in ricordi e a testimonianza ci sono eclatanti chiusure, dalla Flying Records («a causa di un insostenibile carico di debiti» come si legge in un trafiletto di Mark Dezzani su Music & Media del 24 gennaio ’98) alla Zac Music, «in ritirata strategica da un mercato ormai depresso», passando per la Discomagic di Severo Lombardoni (distributore della DWA sino a fine ’96) a cui si aggiungerà, nel ’99, la citata Dig It International. Per DWA inoltre si è drasticamente assottigliata pure la scuderia artistica coi nomi statuari ormai defilati dalla scena o già finiti nel dimenticatoio ad eccezione di Alexia, sulla quale Robyx continua a credere ciecamente spinto e motivato anche da un accordo internazionale stretto nel ’97 con la divisione dance della Sony, la Dance Pool. Da quel momento in poi è la multinazionale ad occuparsi della promozione e della distribuzione della musica dell’artista spezzina in tutto il globo. Adesso la DWA, come Zanetti rimarca a Dezzani in uno special sulla scena delle etichette dance indipendenti nostrane pubblicato sul citato numero di Music & Media ad inizio ’98, «è più una casa di produzione che un’etichetta discografica, stiamo concentrando le nostre energie maggiormente su artisti che possano fare crossover tra la dance e il pop come Alexia, a cui vengono aggiunti remix più incisivi destinati alle discoteche. Ritengo che la strada da percorrere sia quella con meno progetti, in questo modo si possono seguire meglio le priorità. Concentrandosi sulla produzione e la gestione dell’artista, è possibile ottenere un prodotto di qualità, quello che attualmente chiedono i consumatori».

Grafico DWA anni 90
La quantità di pubblicazioni DWA nel decennio 1989-1999

Zanetti parla di questo “ridimensionamento progettuale” anche in un’intervista raccolta per il libro Decadance Appendix: «quando, nella seconda metà degli anni Novanta, i miei colleghi della Time, della Media Records e di altre strutture simili si ingrandivano diventando piccole industrie, io preferii rimanere ancorato a dimensioni ridotte per avere un controllo totale sui miei progetti. Basti pensare che nel momento di massimo successo in DWA lavoravano appena quattro persone, io, mia sorella alla contabilità, un ragazzo in studio come aiuto fonico ed una segretaria. Poi, visto che una volta raggiunta fama e popolarità i miei artisti diventavano intrattabili, decisi di lasciarli per dedicarmi a tempo pieno ad Alexia». È altrettanto importante sottolineare che, oltre ad una quantità minore di titoli immessi sul mercato, la DWA abbia sempre poggiato su un lavoro più indipendentista rispetto a quello delle citate Time o Media Records. Nel Casablanca Recording Studio opera il solo Zanetti affiancato da Francesco Alberti, non ci sono team di produzione che possano garantire una maggiore prolificità e tantomeno non si riscontra la presenza di nessuna sublabel, cosa atipica per i tempi quando ci si inventava marchi di ogni tipo e genere spesso con l’unico fine di evitare l’inflazione, tanta era la quantità di dischi immessi mensilmente sul mercato. Se altri portano avanti un’operosità quasi industriale, la DWA resta invece legata ad una sorta di piccolo artigianato.

Alexia LP
Gli album “The Party” ed “Happy” fanno di Alexia una cantante non più legata esclusivamente alla dance

A marzo del 1998 viene pubblicato “Gimme Love” di Alexia, scritto da Zanetti affiancato nel suo studio dall’inseparabile Francesco Alberti, che pare una specie di rivisitazione italica dei fortunati remix di Todd Terry per gli Everything But The Girl. Italia, Spagna e Finlandia sono tra i primi Paesi a “capitolare” ma qualcosa accade anche oltremanica dove Alexia, per sua stessa ammissione in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile per Jocks Mag, è ancora impopolare. La Dance Pool pubblica i remix (incluso quello degli Almighty) del precedente “Uh La La La” e il brano entra in classifica alla decima posizione, garantendo alla cantante la presenza ad importanti trasmissioni tv, incluso Top Of The Pops. Da noi è tempo del Festivalbar dove Alexia si esibisce prima con “Gimme Love” e poi con “The Music I Like”, secondo singolo estratto dall’album “The Party” uscito a maggio ed inserito in una posizione abilmente giocata tra pop e dance. Le oltre 500.000 copie vendute richiamano l’attenzione del mercato statunitense ed asiatico. La Aquilani figura pure in “Superboy” di Tuttifrutti, un brano bubblegum che Zanetti dedica al mondo del calcio, quell’anno animato dai Mondiali che si disputano in Francia. In autunno è ancora la volta di Alexia con “Keep On Movin'” dove prevale una vocazione maggiormente legata al pop, dimensione in cui la cantante entra definitivamente da lì a breve col terzo album uscito nel ’99, “Happy”, anticipato da “Goodbye” a cui partecipa il musicista Marco Canepa.

Per Alexia è l’LP della consacrazione e la sua musica, seppur ancora in lingua inglese, non è più relegata solo all’ambiente delle discoteche ma abbraccia un pubblico eterogeneo. Anche la sua immagine inizia a conoscere un rinnovamento: appare ancora vispa e sbarazzina, spesso abbigliata con colori fluo così come vuole la moda del periodo, ma senza più le lunghe treccioline. Dall’album viene estratto anche l’omonimo “Happy”, accompagnato da un video in cui l’interprete è proiettata negli anni Sessanta mediante una sorta di macchina del tempo chiamata Virtual Transfer. Nel 2000 tocca ad un inedito, “Ti Amo Ti Amo”, l’ultimo scritto da Zanetti e contenuto nella raccolta “The Hits” che riassume le tappe essenziali della carriera artistica della Aquilani. È l’ennesimo brano a confermare l’abilità del produttore toscano nel costruire canzoni semplici ed efficaci, montate su stesure immediate ed incisi facilmente memorizzabili e collocati in un contesto privo di qualsiasi dettaglio superfluo. Nonostante il considerevole successo, a questo punto qualcosa si incrina. Come riportato sul sito DWA, la cantante chiude un nuovo accordo con la Sony estromettendo Zanetti «costretto ad intentare un procedimento legale per inadempimento di contratto». Alexia ormai non è più la ragazzina dei turni in sala canto, all’orizzonte c’è il Festival di Sanremo a cui partecipa nel 2002 con “Dimmi Come… “ sfiorando la vetta conquistata l’anno successivo con “Per Dire Di No”. Eppure sino a pochi anni prima l’ipotesi di cantare in italiano non la sfiorava nemmeno da lontano: «la lingua inglese mi è molto affine e credo di esprimere con essa il meglio di me stessa» affermava in un’intervista di Barbara Calzolaio pubblicata ad aprile 1998 su Trend Discotec.

Ice MC con Time
I due singoli che nel 2004 segnano la ritrovata collaborazione tra Ice MC e Zanetti

Il ritorno dopo il buio, l’attività nel nuovo millennio
Dopo la rottura del sodalizio con Alexia, la DWA si ferma ma non il suo fondatore che non resta con le mani in mano. Tra le altre cose, Robyx scrive e produce “www.mipiacitu” dei romani Gazosa, hit dell’estate 2001 scelta per lo spot televisivo della Summer Card Omnitel con Megan Gale. La DWA riappare nel 2004 quando, nell’incredulità di molti, l’asse creativo tra Zanetti ed Ice MC viene ristabilito. Il primo risultato della ritrovata partnership è rappresentata dal brano “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” pubblicato in tandem con la Time di Giacomo Maiolini. Contrariamente a quanto si aspettano gli eurobeatiani più convinti e nostalgici, non contiene nulla delle hit nazionalpopolari del rapper britannico se non l’attitudine hip hop che lo accompagna sin dagli esordi spinta verso sponde reggae à la Shaggy o Sean Paul. Il pezzo, per cui viene girato anche un videoclip, è estratto dall’album “Cold Skool” che però passa completamente inosservato. Probabilmente il vero miracolo risiede nel fatto che i due si siano riavvicinati lasciandosi alle spalle i dissapori di metà anni Novanta. «Nel 2004 abbiamo tentato di dare un nuovo avvio alla carriera di Ice MC, prima con “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” e poi con “My World”» (ancora su Time e solo omonimo dello sfortunato album del ’91, nda) ma probabilmente non era il momento propizio per quel genere musicale» dichiara Zanetti in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. «Malgrado non abbiano raccolto ampio successo come negli anni Novanta, nutro grande rispetto per quei due singoli e credo rientrino a pieno merito tra i brani più belli di tutta la discografia di Ice MC» aggiunge. L’eurodance ormai appartiene ad un passato che inizia ad essere remoto, e i suoi protagonisti stanno per trasformarsi in materiale revivalistico. Nel 2005 Robyx si cimenta in un pezzo house, “Wonderful Life” di Creavibe, che affida alla Ocean Trax degli amici Gianni Bini e Paolo Martini. Sono anni piuttosto difficili per il mercato discografico, letteralmente sconvolto dalla “digital storm” che azzera gli introiti legati ai tradizionali formati (dischi, CD e cassette). Il mercato generalista, a differenza di quello settoriale, è il primo a non puntare più sui prodotti fisici. Inizia la corsa alla conversione digitale dei cataloghi nella speranza che ciò possa rappresentare un paracadute ed evitare lo schianto, ma le promesse dell’MP3 non verranno mai mantenute perché non c’è stata, oggettivamente, una generazione ad aver raccolto il testimone della precedente che anziché comprare dischi ha investito denaro in file, perlomeno non nei numeri auspicati.

Ural 13 Diktators - Total Destruction
In “Total Destruction” degli Ural 13 Diktators c’è un brano che riprende la melodia di “Only You” di Savage

Nel frattempo, sotto la spinta dei fermenti underground nati all’estero, in primis nei Paesi Bassi, si prospetta una seconda vita per l’italo disco. Dalla fine degli anni Novanta è un crescendo continuo e da genere bistrattato si trasforma in un trend battuto da alcuni DJ che vantano un nutrito seguito, da I-f ad Hell passando per Felix Da Housecat e Tiga. L’italo disco diventa, insieme ad altre correnti stilistiche come new wave, eurodisco e synth pop, materiale da riconvertire per una nuova generazione. Nasce quindi l’electroclash che fa incetta di un numero abissale di musica “retroelettronica”, svecchiata e pronta a risorgere con nuova energia perché, come scrive Simon Reynolds in “Retromania”, ora il plastic pop «viene spogliato dalle connotazioni negative (usa e getta, finto) e recupera il carattere utopico di materia prima del futuro». Nel radar finisce anche la tastiera di “Only You” di Savage, ricollocata in un inedito scenario dai finnici Ural 13 Diktators nella loro “Name Of The Game” (dall’album “Total Destruction”, Forte Records, 2000). Ancora più d’impatto la Vectron Mix dell’anno dopo messa a punto dal compianto Christian Morgenstern sotto le sembianze di The Bikini Machine, accompagnata da un video immerso nel mondo ad 8 bit dei vecchi videogiochi arcade. Ad innamorarsene è anche Gigi D’Agostino che la inserisce nel primo volume della compilation “Il Grande Viaggio Di Gigi D’Agostino”.

Savage - Twothousandnine
“Twothousandnine” riporta Savage all’istintività degli esordi

Così come accaduto ad Alexander Robotnick, Fred Ventura e ai N.O.I.A., di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui, anche Savage è destinato a tornare a splendere di luce propria in una specie di cortocircuito cronologico col presente sempre più intriso di passato e ciò avviene nel 2009 col brano “Twothousandnine”, dedicato alla figlia Matilde e solcato su 12″ dall’etichetta olandese I Venti d’Azzurro Records. In copertina c’è Zanetti bambino: “Twothousandnine” è fondamentalmente un ritorno alla giovinezza, alla spontaneità e all’istintività dei suoi primi lavori, sotto la campata dell’italo più romantica e malinconica. Il disco è già diventato un cimelio ambito per i collezionisti ed è sulla stessa strada il CD edito dalla DWA. Corrono ancora i tempi di MySpace, l’epoca dei social network è alle porte, il mondo sta cambiando velocemente pelle, quello della musica in modo radicale. La tecnologia mette nelle condizioni di poter approntare brani anche nelle camerette con strumenti dai costi più che abbordabili, tanti giovani provano a fare il salto. Tra quelli anche la venticinquenne Elisa Gaiotto alias Eliza G in cui Zanetti crede producendo “Summer Lie” in cui si ritrova parte del mood di “It’s A Rainy Day”. Passando per le cover di “The Rhythm Of The Night” e “Think About The Way” approntate dai britannici Frisco e quella di “Please Don’t Go” dell’italiano DJ Ross, la DWA mette in circolazione “Mad 90’s Megamix” di DJ Mad, un medley di classici (“Saturday Night”, “Please Don’t Go”, “The Rhythm Of The Night”, “Me And You”, “Think About The Way”) che alimenta la voglia di riavvolgere il nastro di una dance d’antan. Zanetti non perde di vista l’italo disco che continua a conquistare consensi sempre più ampi all’estero e, tra 2009 e 2010, ripubblica in digitale “To Miami” dei Taxi, “Magic Carillon” di Rose, “Buenas Noches” di Kamillo, e la tripletta “I’m Singing Again”, “Show Me” e “Sometimes” di Wilson Ferguson. Non mancano ovviamente i pezzi del repertorio savagiano, da “So Close” a “Good-Bye” (ricantata da Alexia nella versione dei Fourteen 14 uscita nel ’95), da “I Just Died In Your Arms” a “Don’t Leave Me”, da “Time” a “Radio”, da “Love Is Death” a “Celebrate” passando per gli evergreen, “Don’t Cry Tonight” ed “Only You”, sino ai primi tentativi di approcciare all’house music come “Volare” di Rosario E I Giaguari, piuttosto improbabile rivisitazione dell’eterna “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno.

Savage - Love And Rain
“Love And Rain”, l’album di Savage uscito nel 2020

La DWA dei giorni nostri, tra inediti e ristampe
Nell’attività recente e contemporanea della DWA si segnala l’uscita, nel 2020, di “Love And Rain”, nuovo album di Savage di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui. Dal disco vengono estratti diversi singoli come “I Love You”, “Where Is The Freedom”, “Italodisco” e “Lonely Night” dati in pasto ad una nutrita squadra di remixer tra cui il danese Flemming Dalum, intervistato qui. In parallelo viene sviluppato e portato a termine il progetto “Ritmo Sinfonico”, rilettura in chiave orchestrale delle hit dell’etichetta. La costante spinta al recupero di materiale del passato non si esaurisce: sono migliaia ormai le label sparse per il mondo a dedicarsi al reissue, pratica supportata anche dalle giovani generazioni che oggi possono scoprire musiche ed artisti dimenticati con estrema facilità ed immediatezza rispetto alle precedenti che invece non potevano contare su un mezzo potente come internet. Ad onor del vero, la DWA sonda il terreno già nel 1999, anno in cui pubblica circa una decina di dischi contrassegnati dalla sigla CL (ossia CL-assic): ci sono i primi Savage ma anche Stargo, Ice MC e Pianonegro. A distanza di poco più di un ventennio l’etichetta torna dunque ad investire sul proprio passato, mandando in (ri)stampa “Tonight” di Savage e gli album più rappresentativi del proprio repertorio (“Ice’ N’ Green” e “Cinema” di Ice MC, “The Rhythm Of The Night” di Corona, “We All Need Love” dei Double You, “Fan Club” di Alexia) che fanno felici gli irriducibili di un genere rimasto impresso a fuoco nella memoria di un’intera generazione, quello stesso genere a cui Zanetti ha dato credibilità sul fronte internazionale lasciando un’impronta indelebile con la sua inesauribile capacità di suggestionare e rapire l’attenzione di chi ascolta.

La testimonianza di Roberto Zanetti

Cosa o chi ti torna in mente pensando ai primi mesi di attività della DWA?
Senza dubbio Ice MC. Avevo voglia di creare una mia etichetta per essere immediatamente riconoscibile coi miei progetti e differenziarmi da Discomagic, il mio distributore che a quel tempo immetteva sul mercato troppi brani. Così realizzai “Easy” di Ice MC e fu immediatamente un successo incredibile in tutta Europa. Si piazzò ai primi tre posti delle classifiche ovunque ma tranne in Italia.

Perché inizialmente Ice MC venne ignorato nel nostro Paese?
Il primo album, “Cinema”, era più hip hop che dance e non partì dalle discoteche come invece capitava spesso ai miei progetti. Ho sempre realizzato canzoni maggiormente legate al pop che alla dance, ma secondo i DJ dei network nostrani erano troppo commerciali. Nel momento in cui riscuotevano successo in discoteca però entravano anche nelle programmazioni radiofoniche.

Fu la scarsa considerazione in patria a convincerti a non pubblicare su DWA “My World”, il secondo album di Ice MC?
No. Visto il successo del primo album, la Polydor tedesca volle acquisire la licenza del secondo per tutto il mondo.

Quanto costò realizzare i primi videoclip di Ice MC? Ai tempi girare il video di un pezzo dance poteva essere determinante per il successo?
In quel periodo girare un videoclip era molto costoso, mediamente la spesa andava dai cinque ai dieci milioni di lire. A volte riuscivo a contenerla grazie ai contributi delle case discografiche a cui licenziavo i brani. Nel caso di Ice MC, esistono due videoclip di “Easy”, uno realizzato a Parigi quando il pezzo era al numero uno della classifica francese, ed uno a New York fatto quando fu preso in licenza dall’americana Virgin. Ad onor del vero, credo che ai tempi il video servisse poco a lanciare il brano ma risultava comunque importante per far conoscere l’artista una volta che il pezzo era partito nelle radio.

Casablanca Recording Studio
Uno scorcio del Casablanca Recording Studio: in primo piano il mixer Trident Series 80B

La DWA gravitava intorno al suono approntato prevalentemente nel tuo Casablanca Recording Studio: come era equipaggiato e perché gli avevi dato questo nome?
Ho investito nell’allestimento dello studio di registrazione tutti i guadagni ottenuti col progetto Savage, la musica era la mia vita e volevo vivere di quello. Altri colleghi invece spesero tutto in bella vita, donne e champagne, io invece venivo da una famiglia umile ed ambivo a crearmi un lavoro per il futuro. Avevo capito che l’italo disco avrebbe avuto una scadenza e così investii le risorse economiche in uno studio. Affittai una villetta bianca in collina e per questo lo chiamai Casablanca. Ai tempi gli studi di registrazione costavano una fortuna: io spesi cento milioni di lire che nel 1985/1986 erano davvero tantissimi. Avevo un mixer Trident Series 80B, un registratore a 24 tracce Sony/MCI, i monitor Westlake e tante tastiere Roland, Moog e Korg.

declinazioni tag DWA
Le quattro branch della DWA

Nei primi anni di attività alcune pubblicazioni erano marchiate da particolari sigle, DWA Underground, DWA Italiana, DWA Interface e DWA Infective: come mai? C’era forse l’intenzione di creare delle branch in base al genere musicale affrontato?
Sì esattamente, volevo differenziare l’etichetta in base al tipo di progetto. Al tempo non esisteva un genere di dance ben preciso e pertanto procedevo di volta in volta in base ad esperimenti. Ad esempio avevo già creato, a fine anni Ottanta, il fenomeno della “house demenziale” (con dischi come “Volare” di Rosario E I Giaguari e “The Party” di Rubix, nda), non destinato alla DWA ma utile per pagare un po’ di debiti contratti per l’allestimento dello studio.

Esisteva una ragione anche dietro le varie declinazioni grafiche che si sono succedute nel corso del tempo come il centrino carioca, quello fiorato e quello su fondo blu che rimase in uso per un triennio?
No, nessun motivo in particolare. Erano semplicemente il marchio e i colori che si adeguavano ai tempi.

Nel primo lustro di attività la DWA è stata operativa anche sul fronte licenze: c’è qualche pezzo importato dall’estero che ha tradito le tue aspettative?
Non davo molta importanza alle licenze, preferivo piuttosto investire sui miei progetti ma talvolta i pezzi presi oltralpe facevano comodo per le compilation. Nel caso di DJ Bobo, ad esempio, ascoltai il demo al Midem di Cannes e lo presi per tutti i Paesi in cui era ancora libero ma purtroppo il nome stesso “Bobo” era un po’ penalizzante in alcuni mercati. Per CB Milton invece, feci un favore ad un partner straniero che pubblicava le mie cose e con cui ci scambiavamo i rispettivi progetti.

Il mancato supporto di Albertino, probabilmente all’apice della sua popolarità radiofonica tra ’93 e ’94, ha forse pregiudicato l’esito di licenze potenzialmente forti proprio come quelle di DJ Bobo e CB Milton?
Le radio dance erano molto importanti e potevano far decollare un progetto se lo spingevano. Alla fine degli anni Ottanta l’emittente più di tendenza era 105, poi arrivò Radio DeeJay con Albertino che però non ha mai supportato i miei brani sin dalla loro uscita, per lui erano troppo commerciali. Forse la colpa era anche di Dario Usuelli, ai tempi responsabile della programmazione in Via Massena. DJ Bobo era un successo in tutta Europa ed avrebbe potuto esserlo anche qui da noi ma forse, come dicevo prima, era il suo nome a remare contro. In Francia, ad esempio, “bobo” significa “stupido”.

Alexia e Ice MC (1994)
Alexia ed Ice MC in una foto del 1994

In quello stesso periodo Ice MC viene affiancato da una ballerina tedesca, Jasmine, nonostante a cantare nei brani fossero prima Simone Jackson e poi Alexia. Come mai decidesti di ricorrere ad un personaggio immagine, analogamente a quanto avvenne per Corona?
Era una consuetudine abbinare ai progetti da studio dei frontman/frontwoman che avessero una buona presenza scenica nelle apparizioni televisive e negli spettacoli in discoteca. Simone Jackson stava iniziando già la sua strada da solista mentre Alessia Aquilani era bravissima come cantante ma non aveva ancora maturato sufficiente esperienza nei live. Così iniziammo la promozione con Jasmine ma poi, quando esplose il successo di “Think About The Way”, chiamammo pure Alessia per alcune performance pubbliche. Devo ammettere che fu bravissima a crearsi un’immagine e ad imparare a ballare, tanto che poco tempo dopo decisi di produrla per un disco solista con cui divenne la Alexia che tutti conosciamo.

Ritieni che le “controfigure mute” che caratterizzarono prima l’italo disco e poi l’eurodance fossero strettamente necessarie? Secondo più di qualcuno fu proprio la pratica dei cosiddetti “ghost singer” (non solo italiana, si pensi all’eclatante caso dei Milli Vanilli prodotti dal tedesco Frank Farian) ad aver svilito l’immagine dei cantanti dance facendoli passare per personaggi artefatti e privi di ogni talento, insinuando e alimentando ulteriormente i pregiudizi nel grande pubblico.
All’inizio dell’italo disco c’erano ben pochi cantanti e quindi i produttori si ritrovarono costretti ad usare la stessa voce per un mucchio di progetti. Quando questi ultimi iniziavano a funzionare però, serviva un volto che andasse in tv e quindi tornava comodo assoldare fotomodelli e ballerine che impersonassero l’artista. C’erano cantanti, come ad esempio Silver Pozzoli, che prestavano la propria voce ad un sacco di progetti immessi sul mercato con vari nomi. In qualche caso alcuni contavano persino su più immagini simultanee: in Spagna, ad esempio si ricorreva al fotomodello tizio mentre in Germania appariva il ballerino caio. Lo riconosco, era una pratica un po’ spudorata. Gli artisti veri che cantavano realmente le proprie canzoni però erano davvero pochissimi e questo sicuramente non giocò a favore dell’italo disco, ma anche all’estero facevano la stessa cosa, proprio come i Milli Vanilli menzionati prima e peraltro ancora attivi, in playback naturalmente, nonostante uno dei due volti pubblici del gruppo, Rob Pilatus, sia deceduto nel 1998. Analogamente altre band come Bad Boys Blue, Joy o Boney M. hanno cambiato tutti o quasi i membri originali ma continuano a vivere attraverso live con performer nuovi e più giovani.

A partire dal 1995 hai ridotto sensibilmente il numero delle pubblicazioni ed azzerato del tutto le licenze. Rispetto a molti competitor in fase di netta espansione, avevi forse intuito con lungimiranza che per le etichette indipendenti preservare dimensioni aziendali più piccole, a distanza di qualche anno, si sarebbe rivelato un pro e non un contro?
Io sono sempre stato più “produttore” che “discografico”, volevo avere pieno controllo sui miei progetti e pertanto non mi sono volutamente ingrandito come hanno fatto altri anzi, quando mi era possibile stringevo accordi per delegare promozione e distribuzione così come avvenne con la Sony per Alexia. Alcuni miei colleghi si ritrovarono a dover pubblicare un sacco di pezzi per mantenere il fatturato e pagare gli stipendi delle decine di dipendenti che avevano assunto. Come ho già dichiarato in altre interviste (inclusa una finita in Decadance Appendix nel 2012, nda), mi rammarica il fatto che in Italia non siano state create strutture indipendenti importanti. Saremmo stati fortissimi se ci fossimo uniti in un’unica label ed avremmo sicuramente dominato il mondo.

In un paio di occasioni (prima tra ’91 e ’92, con l’esplosione dell’euro(techno)dance, poi tra ’96 e ’97 con la fiammata pop-gressive) ti sei ritrovato a puntare su generi strumentali che non appartengono alla tua verve creativa. Era solo un modo per seguire le tendenze in atto del mercato discografico nostrano?
Quando sei produttore, soprattutto nella dance, devi per forza seguire il mercato ed adeguarti alle sonorità del momento. Io ho sempre cercato di prendere spunti ma modificandoli per farli miei. A volte ho creato io stesso le mode, così come avvenne nel ’93 con “Take Away The Colour” di Ice MC con cui lanciai in Europa l’eurobeat misto al rap-ragga.

Fu l’invasione della cosiddetta dream progressive ad interrompere il successo (italiano) dell’eurodance che nel frangente mainstream pareva non temere rivali?
Sì, ma solo in Italia. Quando arriva un successo planetario come quello di Robert Miles è ovvio che tutto il mondo venga influenzato. Il fenomeno dream comunque è stato più italiano che internazionale, e forse da noi a determinare il successo del filone furono le miriadi di compilation commercializzate con quel nome.

In passato hai speso parole positive sulla Media Records ed anni fa Bortolotti indicò proprio te, in una mia intervista, come uno dei pochi produttori ed artisti in grado di generare successi e denaro con continuità. Sebbene sia stata proprio la Media Records a licenziare in Italia la “Please Don’t Go” dei K.W.S., hai mai pensato di trasformare questa vicendevole ammirazione e rispetto in una collaborazione, analogamente a quanto fatto nel 2004 con la Time di Giacomo Maiolini per rilanciare Ice MC?
In Italia non è facile collaborare perché i discografici citati, ma anche tutti gli altri, hanno un grosso ego ed ognuno vede le cose alla sua maniera. Tutti i miei successi sono nati perché io non davo ascolto a nessuno e facevo di istinto quello che mi veniva in mente, a volte sbagliando, altre creando le hit che conosciamo. Se avessi ascoltato i pareri degli altri non avrei fatto nulla. Sono sempre stato un “solitario” nei miei progetti. Nel ’98, ad esempio, un discografico della Jive mi fece ascoltare un demo di “…Baby One More Time” di Britney Spears chiedendomi se avessi voglia di collaborare con loro e con la Disney ma rifiutai perché stavo lavorando ai pezzi di Alexia che, nel contempo, stava crescendo e volevo dedicarmi solo a lei.

In un’intervista di oltre un decennio fa mi dicesti che una delle ragioni per cui l’Italia non è più sulla mappa della dance internazionale, tranne poche eccezioni, è la mancanza di umiltà. «Negli anni Novanta i francesi si facevano produrre i pezzi da noi, poi hanno imparato a farlo (copiandoci) ed oggi lo fanno meglio perché rispettano i ruoli: esiste il discografico, il produttore, il manager e l’autore, non come da noi che vogliamo fare tutto e male» affermasti, aggiungendo che «se ci fossimo organizzati come gli inglesi, gli svedesi e i francesi saremmo sicuramente i primi produttori al mondo perché abbiamo una creatività esagerata, invece siamo scarsamente considerati dalla grossa industria discografica mondiale e purtroppo oggi, senza multinazionali che investono in promozione, è molto difficile farsi notare ed emergere». Credi che negli ultimi dieci anni la situazione sia cambiata? Hanno ancora ragione di esistere le etichette indipendenti? E quanto conta fare scouting?
Gli italiani sono degli “arrangioni” nel senso che hanno sviluppato l’arte e la capacità di arrangiarsi. Quando hanno un briciolo di successo si mettono in proprio e si gestiscono da soli anche in quei campi dove non hanno alcuna esperienza o talento. Quando un cantante diventa famoso vuole decidere tutto da solo, vuole fare l’autore, il manager, il produttore… ed ecco che quindi perde la freschezza che lo aveva fatto emergere all’inizio. Cantanti popolari come Zucchero, Renato Zero o Ligabue fanno dischi carini ma non forti come all’inizio perché vogliono gestire tutto in autonomia. Se c’è di mezzo un produttore, desiderano che faccia solo ciò che decidono loro. Non esistono più produttori “con le palle”, capaci di prendere per mano l’artista ed aiutarlo a creare un progetto intorno. Forse negli ultimi anni è tutto peggiorato ulteriormente perché le case discografiche sono diventate distributori, non hanno più personale che possa aiutare a sviluppare la parte creativa della musica. Le etichette indipendenti potrebbero assumere un ruolo importante in tal senso e preparare l’artista al grande salto, ma purtroppo quelle storiche sono fin troppo orientate al business. In circolazione ci sono un sacco di artisti validi ma non trovano alcuno sbocco perché non esiste più un vero e proprio scouting. Pure le multinazionali oggi si affidano solo ai contest. Inoltre se adesso vuoi scritturare un artista sconosciuto, ti si avvicina un avvocato del settore pronto a presentarti un contratto pari a quello che un tempo avevano solo le star. Nessun produttore indipendente potrebbe accettare di sottoscriverlo. Questo fa capire come si sia praticamente estinto il concetto di gavetta. Una volta portavi un pezzo a Lombardoni della Discomagic e ti dava settecento lire a copia, poi aumentavano a mille, milledue e, man mano che cresceva il successo salivano le royalties e così guadagnavano tutti. Io forse non pagavo royalties altissime ai miei artisti ma investivo molti più soldi rispetto alle multinazionali. Ricordo, ad esempio, il video di “Uh La La La” di Alexia girato a Miami che costò cento milioni di lire, tutti interamente sborsati dalla DWA. Poi gli artisti mi ringraziavano perché diventavano famosi e guadagnavano tantissimo dai concerti.

Negli anni Novanta a decretare il successo di tanti dischi dance prodotti dalle etichette indipendenti erano le emittenti radiofoniche. Adesso invece? C’è ancora qualcosa o qualcuno che riesce a fare il bello e il cattivo tempo?
Come dicevo all’inizio, il successo poteva partire dalle radio ma anche dalle discoteche: talvolta i network arrivavano a certi pezzi solo quando erano già strasuonati dai DJ, e a me succedeva quasi sempre così, specialmente dopo le prime hit. I disc jockey compravano i nostri dischi a scatola chiusa perché certi di usarli per tenere la pista piena. Quando usciva un DWA c’era un fermento incredibile, talvolta stampavamo quindicimila/ventimila copie solo come prima tiratura. Oggi penso sia tutto casuale, ci sono i nuovi canali rappresentati dai social network a spingere un nome piuttosto che un altro, ma il grande successo parte ancora dal pubblico. Solo in un secondo momento arrivano la radio e la televisione. Resto dell’opinione che non sia possibile far decollare un pezzo solo in virtù di un ingente investimento economico promozionale. Esistono personaggi ricchissimi che producono musica spendendo fortune in pubblicità ma non riuscendo ad ottenere il successo che vorrebbero.

Col senno di poi, quali sono gli errori che non ricommetteresti?
Con la DWA non ci sono grandi errori di cui mi rammarico. Con questo non voglio dire di non aver fatto sbagli ma quelli fanno parte del gioco. Forse come artista, nelle vesti di Savage, avrei potuto gestirmi meglio ma ero molto inesperto e non avendo alcun produttore al seguito ho sbagliato alcune canzoni. Ad un certo punto volevo fare l’electro pop inglese ma il pubblico voleva da me ancora l’italo disco.

A distanza di oltre un ventennio la DWA è tornata a credere nelle ristampe solcando dischi, come gli album “The Rhythm Of The Night” di Corona e “Fan Club” di Alexia, che ai tempi dell’uscita originaria non commercializzò in formato vinile. Paradossalmente oggi ci sono più persone rispetto a ieri disposte ad acquistare certi titoli in un supporto ormai obsoleto per la musica pop? Si tratta forse di banale collezionismo che riduce il disco ad un gadget?
Oggi stampare un disco in vinile costa parecchio, parliamo quindi di un mercato molto di nicchia. Ho deciso di ristampare gli album originariamente apparsi solo in CD per accontentare soprattutto fan e collezionisti. Possedere un disco in vinile adesso dà una soddisfazione che non offre il file digitale. Se poi include canzoni che hanno segnato la tua adolescenza acquista ulteriore valore e rimane nel tempo.

Qual è stato il più alto fatturato della DWA?
Preferisco glissare sul discorso economico perché non potremmo utilizzare il dato per confrontarlo con altre realtà. La DWA realizzava poche compilation, veicolo primario di introiti, e il grosso del fatturato era rappresentato da licenze e royalties che arrivavano soprattutto dall’estero. La rivista Musica E Dischi stilava una classifica annuale delle etichette che avevano venduto più singoli e ricordo con orgoglio quando, tra 1993 e 1994, la DWA era prima davanti a tutte le major malgrado avesse pubblicato meno titoli rispetto ad esse. Quasi ogni disco mix che mettevamo in commercio vendeva infatti oltre trentamila/trentacinquemila copie.

Se l’italo disco non fosse collassata ed incalzata dalla house music negli ultimi anni Ottanta, la DWA sarebbe nata ugualmente?
Certo perché volevo essere autonomo nelle scelte artistiche e musicali ed avrei potuto fare ciò che volevo solo creando una mia etichetta.

E se invece la DWA fosse nata esattamente trent’anni dopo ossia nel 2019, quali artisti o brani ti sarebbe piaciuto produrre ed annoverare nel catalogo?
Sicuramente non avrei mai prodotto gli artisti che non sanno cantare ed usano l’autotune, è facile capire a chi mi riferisco. Mi piacciono tantissimo i Måneskin ma ritengo che avrebbero bisogno di canzoni più forti. Ho apprezzato anche i Melancholia provenienti dalla penultima edizione di X Factor. A livello internazionale comunque, al momento il più forte in assoluto per me resta The Weeknd.

(Giosuè Impellizzeri)

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BXR, una squadra di DJ alla conquista del mondo

Negli anni Novanta la musica destinata alle discoteche, composta da DJ e team di musicisti ed arrangiatori, è in prevalenza marchiata con pseudonimi. Ciò avviene per moda, per questioni legate ad esclusive discografiche ma anche per differenziare le inclinazioni stilistiche del proprio repertorio. «L’effetto fondamentale è il distanziamento, una rottura col tradizionale impulso pop di associare la musica ad un essere umano in carne ed ossa» scrive Simon Reynolds in “Futuromania”. «L’anonimato ha l’effetto di scardinare i meccanismi della fedeltà al gruppo o al marchio, l’abitudine di seguire la carriera degli artisti tipica del pubblico rock». In egual modo le etichette indipendenti diffondono i propri prodotti attraverso un fiume di sublabel, marchi creati ad hoc per diversificare l’offerta e nel contempo evitare l’inflazione vista l’alta prolificità. La bresciana Media Records di Gianfranco Bortolotti, attiva sin dalla fine del 1987, è tra quelle che nel corso del tempo collezionano più sottoetichette. Ad inizio decennio già vanta la Baia Degli Angeli, la GFB, l’Inside, la Pirate Records, la Signal (contraddistinta da una singolare numerazione del catalogo), l’Underground, la Heartbeat (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) e la Whole Records. A queste, nel 1992, se ne aggiunge un’altra, la BXR, il cui nome deriverebbe dall’antica denominazione della città di Brescia, Brixia, opportunamente modificata in una sorta di sigla a fare il paio con la citata GFB, acronimo di GianFranco Bortolotti. A sottolineare la connessione con le fasi storiche del comune lombardo è pure il logo, la testa di una leonessa, citando Giosuè Carducci che ne “Le Odi Barbare” parla di Brescia come “leonessa d’Italia”. Il payoff invece è il medesimo dell’etichetta-madre, “The Sound Of The Future”.

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Sopra il disco di debutto della BXR (1992), sotto il primo logo dell’etichetta

1992-1994, un avvio nell’ombra
Il primo brano pubblicato su etichetta BXR, nel 1992, è “Space (The Final Frontier)” di DJ Spy. Ispirato al suono nordeuropeo che scavalca la palizzata dei rave e fa ingresso nelle classifiche di vendita (il 1991 ha visto consacrare dal grande pubblico tracce come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Activ 8 (Come With Me)” degli Altern8, “Dominator” degli Human Resource, “Inssomniak” di DJPC, “Mentasm” di Second Phase, “Ambulance” di Robert Armani, “Adrenalin” degli N-Joi, “Who Is Elvis?” dei Phenomania – di cui parliamo qui, “Charly” ed “Everybody In The Place” dei Prodigy, “Pullover” di Speedy J ed “Anasthasia” dei T99, quasi tutte provenienti dall’area anglo-germanica-olandese), il pezzo è un veloce riassunto del modello edificato su amen break e stab. Prodotto da Max Persona e Pagany, che insieme ad Antonio Puntillo e Roby Arduini formano il team veronese ai tempi al lavoro in pianta stabile presso la struttura di Bortolotti, quello del fittizio DJ Spy è un veloce, ingenuo e non troppo ragionato assemblaggio di frammenti tratti da altri brani più fortunati del catalogo Media Records di quel periodo, come “What I Gotta Do” di Antico, “The Music Is Movin'” di Fargetta (di cui parliamo qui nel dettaglio), “Take Me Away” di Cappella, “Mig 29” di Mig 29, “We Gonna Get…” di R.A.F. e “2√231” di Anticappella, giusto per citarne alcuni dietro cui, peraltro, armeggiano gli stessi autori. Il sample vocale principale è tratto dal monologo di Star Trek e ciò spiega la ragione del titolo. L’assenza di un’idea compiuta e definita rende però “Space (The Final Frontier)” solo una delle centinaia di cloni generati dal filone rave, che attrae pletore di produttori sparsi in tutto il continente ambiziosi di replicare i risultati economici delle hit ma talvolta senza particolari slanci creativi.

Calamitate dagli elementi caratteristici che segnano il boom commerciale della (euro)techno tra 1991 e 1992 sarebbero state pure Marina Motta e Donatella Valgonio, le due ragazze che avrebbero operato dietro le quinte di Davida. La loro “I Know More”, secondo disco edito da BXR, rappresenta perfettamente la declinazione italiana della techno nordeuropea, ottenuta con la fusione di pochi elementi presi a modello e semplificati il più possibile per essere “digeriti” da un vasto pubblico. In realtà la Valgonio, conduttrice e speaker radiofonica contattata per l’occasione, rivela di non aver mai partecipato al progetto Davida. «Conobbi Gianfranco Bortolotti quando iniziò a muovere i primi passi nel mondo della musica» spiega, «e in quel periodo era Mario Albanese, all’epoca mio marito, ad occuparsi dei contatti con musicisti e discografici. Io, semplicemente, cantavo, così come feci prima con “Baby, Don’t You Break (My Heart)” di Argentina, l’unico pubblicato dalla Media Records nel 1986 (quando si chiama ancora Media Record, nda) e poi con “Summer Time”, sempre di Argentina ma finito sulla Memory Records a mia insaputa, ai tempi mi dissero che sarebbe stato ricantato da un’altra cantante. Non ho più avuto la possibilità e la fortuna di collaborare con la Media Records che nel frattempo divenne un colosso della discografia. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita artistica se avessi collaborato con Bortolotti. Tengo a precisare comunque che Mario Albanese non ha alcuna colpa perché la prima a non crederci fino in fondo ero proprio io che continuavo a sentirmi come un pesce fuor d’acqua nonostante i suoi ripetuti incoraggiamenti». È plausibile dunque ipotizzare che i nomi della Valgonio e della Motta siano stati usati a mo’ di pseudonimi, così come avviene per “I’m The Creator” di DJ Creator finito nel catalogo di un’altra etichetta della Media Records, la Pirate Records. I risultati di vendita non esaltanti delle prime due uscite, uniti alla progressiva attenuazione della popolarità della rave techno palesatasi nel corso del ’92, probabilmente convince Bortolotti a non insistere su quella formula. Il terzo 12″ su BXR, difatti, guarda nella direzione della garage house, quella che arriva da Londra e da New York. Enrico Serra, Gianluca Brachini e Gianluigi Gallina realizzano, presso l’H.O.G.I.C.A. Studio, “Here With Me” di Miss Mary, pezzo da cui emerge il calore del funk e dell’r&b e che riporta in vita certe atmosfere tipiche della prima house pianistica nostrana con cui qualche anno prima proprio la Media Records si impone all’attenzione internazionale. Nonostante i buoni spunti, Miss Mary non lascia il segno e si rivela incapace di far decollare il marchio BXR temporaneamente messo in stand by. Riappare nel 1994 con “Day By Day” di Laura Becker, che Alex Pagnucco e Davide Ageno realizzano mescolando i classici elementi dell’eurodance ottenendo una sorta di ibrido tra Le Click, Intermission e Corona ma con meno appeal per l’assenza di un efficace ritornello. La prevedibilità e la scontatezza dei suoni e della stesura fanno il resto lasciando il progetto nel quasi totale anonimato, quello stesso anonimato che una manciata di decenni più avanti lo trasforma in un cimelio per i collezionisti disposti a spendere cifre consistenti per entrare in possesso delle pochissime copie in circolazione. È l’ultimo tentativo di riscatto per la BXR, un’iniziativa che, a dirla tutta, in questa prima fase non conta su particolari energie e risorse. Basti pensare all’esigua quantità delle pubblicazioni (appena quattro in un biennio circa, decisamente un’inezia per i tempi) ma anche alla quasi inesistente promozione. Se a ciò si somma la scarsa identità, dovuta ad un mancato focus stilistico, è facile comprendere le ragioni per cui il tutto appaia soltanto un progetto embrionale dal basso potenziale, un’idea non sviluppata a dovere, col fiato corto ed incapace di farsi largo in mezzo ad una giungla di realtà discografiche indipendenti. Ma è solo questione di tempo, la BXR si riprenderà tutto e con gli interessi.

La rinascita sotto una nuova stella
Il 1995 imprime bruschi cambiamenti al mainstream dance italiano a partire dalla velocità di crociera che, complice l’influenza mutuata dalla scena tedesca, aumenta sino a toccare soglie inimmaginabili sino a poco tempo prima. Il fenomeno, iniziato negli ultimi mesi del ’94, si consolida e trascina gran parte dei principali esponenti dell’ambiente danzereccio nostrano, dai Bliss Team a Molella, dai Mato Grosso ai Club House, da Ramirez a Z100 passando per Cerla & Moratto, Double You, Da Blitz, JT Company e Digital Boy che è tra i primi a dare il la a questa adrenalinizzazione ritmica arrivata a sfondare la soglia dei 160 bpm. Nella seconda metà dell’anno, insieme alla velocizzazione e all’avvicinamento a filoni come makina ed happy hardcore, si registra un secondo sostanziale mutamento rappresentato dalla popolarizzazione di formule sino a quel momento adottate in prevalenza nelle discoteche specializzate. La cosiddetta progressive fa breccia in un numero sempre più consistente di ascoltatori sino a prevalere sulla eurodance tradizionale costruita su strofa, ponte e ritornello. La spallata decisiva giunge grazie a Robert Miles che con la Dream Version della sua “Children” (di cui parliamo qui) di fatto inaugura una stagione inedita che vede la supremazia quasi assoluta di brani strumentali. È una sorta di nuovo 1991-1992 insomma, ma questa volta non è una tendenza importata dall’estero bensì germogliata e svezzata entro i nostri confini.

secondo logo BXR
Il secondo logo con cui la BXR torna sul mercato nel 1996

Tale nuova fase risulterà decisiva per la BXR che rinasce proprio sotto la stella della progressive, forma ammorbidita della techno/trance d’impostazione mitteleuropea segnata da evidenti presenze melodiche che attingono dall’ambient, dalle colonne sonore cinematografiche, dal funky, dall’afro e dalla new beat. Così l’etichetta riappare dopo circa due anni di silenzio con più vigore e consapevolezza, accompagnata da una nuova numerazione col prefisso 10 e soprattutto un nuovo logotipo meno anonimo del primo, forgiato su caratteri di bladerunneriana memoria (la B è simile ad un 3 ed infatti inizialmente c’è chi crede che il nome sia 3XR) ed immerso in una dimensione spaziale che rispecchia la vocazione più internazionale, in contrasto con quella di partenza fin troppo legata alla realtà autoctona bresciana. Al nome viene altresì aggiunto un suffisso, Noise Maker, usato a mo’ di payoff, derivato da quello dell’etichetta sulla quale tra 1994 e 1995 Gigi D’Agostino, artista che tiene a battesimo la BXR, pubblica alcuni brani determinanti per la nascita della (mediterranean) progressive, la Noise Maker per l’appunto, gestita dalla Discomagic di Severo Lombardoni.

Homepage del primo sito Media (1996)
L’homepage del primo sito della Media Records (1996)

La nuova immagine della BXR proiettata nel futuro coincide anche col lancio del primo sito internet della Media Records che, tra le altre cose, permette di fare un tour virtuale nella sede a Roncadelle, accedere al cyber shop in cui acquistare il merchandising nonché immergersi nel suono di un juke-box virtuale, una specie di Spotify ante litteram fruibile attraverso il lettore multimediale RealPlayer. A guidare artisticamente la BXR è Mauro Picotto che, come racconta nel suo libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” (recensito qui), voleva radunare dei disc jockey che suonavano nei club, «veri, non quelli usati come immagine dalle grandi case discografiche». Ed aggiunge: «Parlai a Bortolotti del mio progetto e l’idea gli piacque subito visto che aveva già tentato una sortita simile con la Heartbeat. Il primo DJ che contattai ed invitai ad unirsi fu Gigi D’Agostino, uno degli ideatori del party torinese Le Voyage. Ricordo ancora il suo arrivo all’Hotel Continental di Roncadelle (ubicato nello stesso stabile della Media Records, nda) con una vecchia Chrysler Voyager da sette posti, era già un personaggio. […] Gigi però uscì quasi subito dal progetto, evidentemente soffriva qualcosa o qualcuno del mondo BXR, non mi è mai stato chiaro. Comunque gli offrimmo l’opportunità di creare una sua label esclusiva, la NoiseMaker, per continuare ad esprimersi secondo la sua stessa direzione artistica».

Mediterranean progressive, una parentesi su genesi, evoluzione e dissolvimento
Come raccontato nel 2015 da Gianfranco Bortolotti in questa intervista, il termine “mediterranean progressive” fu da lui approvato su suggerimento di Mauro Picotto o di Riccardo Sada (giornalista ai tempi in forze alla Media Records) dopo aver letto una recensione di Pete Tong che parlava, per l’appunto, di mediterranean progressive in riferimento a quei dischi provenienti dall’Italia (come “Sound Of Venus” di Lello B., Subway Records, “Atmosphere” di Voice Of The Paradise, Area Records, o “Advice” di Nuke State, Metrotraxx) che finivano in un’area grigia non essendo facilmente incasellabili nella techno, nella house e tantomeno nella progressive d’oltremanica in stile Sasha e John Digweed. Un filone che da noi pulsava già da qualche anno, irradiato da etichette indipendenti localizzate prevalentemente tra Lombardia, Toscana e Piemonte, ma senza ottenere riscontri commerciali importanti ed infatti Roland Brant lamenterà, in un’intervista, di essere stato ignorato dal grande pubblico nonostante seguisse questo genere da diverso tempo.

RAF by Picotto e compilation Diva
Sopra “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto (GFB, 1995), pare il primo disco a raggiungere il mercato con la dicitura “mediterranean progressive”, usata nello specifico come titolo della versione principale; sotto le copertine di due compilation curate da Claudio Diva uscite nel 1996

Alla Media Records intercettano la tendenza che vede salire le quotazioni commerciali della progressive e pianificano strategicamente di adottare tale dicitura in occasione del (ri)lancio della BXR, nei primi giorni del 1996. Sulle riviste, allora primarie fonti di informazione, la BXR viene presentata come l’etichetta che seguirà un nuovo genere, la mediterranean progressive, catalizzando l’attenzione del grande pubblico. «Il fine era distinguerci da ciò che altri facevano nel Nord Europa» spiega Bortolotti nell’intervista sopraccitata. «Per un fatto oggettivo l’Italia era (ed è) un Paese mediterraneo, quindi da lì nacque la fusione». È bene rammentare però che la tag “mediterranean progressive” aveva già timidamente fatto capolino nel mercato discografico attraverso “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto, pubblicata su un’altra etichetta della Media Records, la GFB, nell’autunno inoltrato del 1995, seppur il successo giunga a distanza di qualche mese, quando per l’appunto esplode il fenomeno progressive in tutta Italia e nei negozi arrivano un paio di compilation intitolate proprio “Mediterranean Progressive” edite dalla Discomagic e compilate da Claudio Diva, alla guida della Subway Records considerata tra le antesignane dei filoni dream e della stessa mediterranean progressive.

Il 1996, per il mainstream nostrano, è quindi l’anno della progressive, glorificata anche sull’etere da un numero imprecisato di programmi, incluso il Molly 4 DeeJay di Molella su Radio DeeJay di cui parliamo dettagliatamente qui. Produttori e promoter puntano tutto su questo genere, investendo denaro ed ambendo a sostanziosi ritorni. La Media Records, ad esempio, riporta in vita sotto il segno della progressive Antico, uno dei marchi che aveva contraddistinto la prima ondata “italo techno” ed ormai assente dal mercato da un quadriennio, ma anche un paio di etichette ibernate come la Pirate Records e la Underground (il nuovo corso di quest’ultima comincia con “The Test” di Mauro Picotto analizzato qui), oltre a contagiare la GFB, sulla quale appaiono i brani di R.A.F. By Picotto, e la Whole Records. Prevedibilmente la progressive diventa il nuovo pop e ciò attrae come una calamita parecchie critiche di chi è convinto che si tratti solo di un’indebita appropriazione di suoni, così come avvenuto qualche tempo prima con la techno. In un’intervista di Paolo Vites pubblicata ad ottobre del 1996, Killer Faber parla di grossa speculazione: «si incidono dischi copiati spudoratamente da altri, si creano mode musicali inesistenti, si immettono sul mercato centinaia di compilation tutte uguali saturando il mercato. Bisognerebbe rischiare e lanciare pochi ma veri artisti dance». A gennaio ’97 Massimo Cominotto raccoglie altre testimonianze in un’inchiesta intitolata “Prog E Contro”, come quella di Paolo Kighine: «Ultimamente la progressive ha preso i connotati da fenomeno di massa e per questo viene additata come commerciale. Questo, secondo me, dovrebbe essere un motivo in più per stimolare i miei colleghi ad offrire un prodotto di qualità elevata […]. L’etichetta “progressive” comunque lascia molto spazio all’immaginazione, puoi scartabellare tra vecchi pezzi acid house per curvare sugli Orb o KLF e magari finire sul made in Italy, l’importante è far stare bene il proprio pubblico». Più disilluso e diretto appare invece Christian Hornbostel: «Il termine “progressive” è già sprofondato nel caos, così come era avvenuto a suo tempo per l’omologo “underground”, diventando la risposta più inflazionata alla fatidica domanda “che genere suoni?”. Migliaia di DJ affermano di proporre progressive ed alcuni di loro si fanno addirittura la guerra per dimostrare al popolo italico di esserne gli assoluti inventori. Sono passati più di quattro anni da quando il vero fenomeno progressive (tutt’altra musica!) faceva la sua comparsa nel Regno Unito ma ecco che in Italia qualcuno ha pensato che il solo utilizzo del bassline 303 bastasse a giustificare la creazione di una nuova corrente musicale chiamandola “progressive”. Nessuno pertanto all’estero capisce l’italianissimo modo di definire progressive tracce che godono di ben altre definizioni. Non parliamo poi della confusione creata dalle compilation che di progressive hanno solo il nome. Dobbiamo dunque accettare a denti stretti che il significato di progressive sia un’amorfa terminologia creata per vendere incoerenti compilation in un mercato discografico già agonizzante, per dar lustro a DJ che si vantano di suonarla (mixando Alexia con DJ Dado ed una traccia su Attack) e per far contenti alcuni proprietari di locali che nella stessa serata propongono, con innocente orgoglio, revival, underground, liscio, latinoamericano e… progressive».

Gg e Picotto 1996
Gigi D’Agostino e Mauro Picotto in due foto del 1996, quando vengono lanciati dalla Media Records come alfieri della mediterranean progressive

Ma cosa è la progressive che si impone tra 1995 e 1997 al grande pubblico nostrano? «Forse è la sorellina della techno» sostiene Mauro Picotto in un’intervista raccolta da Riccardo Sada a novembre 1996. «È sicuramente nata grazie ai DJ della Toscana sotto altri nomi come “virtual music” per colmare un vuoto perché con un certo tipo di techno eravamo arrivati all’apice e c’era voglia di ripartire da zero, svuotando i brani di tanti suonini e suonacci superflui […]. Le produzioni progressive italiane si discostano da quelle estere perché hanno molta melodia, ormai l’Italia ha il suo imprinting». È la melodia, dunque, il punto focale di questo filone, e a tal proposito DJ Panda, ancora intervistato da Sada e quell’anno nelle classifiche con “My Dimension” di cui parliamo nello specifico qui, afferma che «a noi italiani la melodia viene fuori d’istinto perché abbiamo un animo mediterraneo. L’unico rischio è che questa progressive diventi troppo pop». I timori dell’artista si rivelano fondati ed infatti la sbornia progressive (o meglio, popgressive) del 1996 renderà sterile il filone, sino ad inflazionarlo ed obbligarlo ad una costante e netta flessione nel corso del 1997.

D'Agostino Planet 1
“Fly” di D’Agostino Planet riapre il catalogo della BXR dopo circa due anni di silenzio

1996-1997, il biennio della mediterranean progressive
Corrono i primi giorni del 1996 quando la napoletana Flying Records distribuisce “Fly” i cui promo girano tra gli addetti ai lavori già da qualche settimana. Autore è Gigi D’Agostino dietro il moniker D’Agostino Planet, nome perfetto per la nuova dimensione spaziale della BXR anzi, a dirla tutta qualcuno ritiene che l’etichetta possa gravitare esclusivamente intorno alla sua musica e che il pianeta immortalato sulla logo side del disco sia proprio il suo. Tale teoria sembrerebbe trovare riscontro in questa intervista a cura di Leonardo Filomeno e pubblicata da Libero il 14 settembre 2014, in cui D’Agostino afferma: «Nell’autunno del ’95 chiesi di poter fondare un’etichetta con dei principi precisi, libertà dei suoni, dei ritmi, dei tempi. In Media Records mi dissero che avevano una label sulla quale, in passato, avevano pubblicato dei brani e che in quel momento non era in uso, la BXR. Ricordo il primissimo 1001, il 1002, il 1003 e ricordo benissimo le ragioni del blocco della pubblicazione del 1004. Il resto ho preferito rimuoverlo». Il DJ torinese di origini salernitane, noto nelle discoteche piemontesi tipo il Due di Cigliano o L’Ultimo Impero di Airasca, ha già maturato diverse esperienze discografiche, come “Creative Nature” o “Hypnotribe” di cui parliamo rispettivamente qui e qui, ma rimaste sostanzialmente confinate alla platea dei soli appassionati. Con l’arrivo in Media Records le cose cambiano e “Fly”, primo tassello della rinnovata BXR, diventa anche il trampolino di lancio dell’ormai ufficializzata mediterranean progressive. Riadattamento ballabile del tema “Il Tempo Passa” composto da Giancarlo Bigazzi per il film “Mediterraneo” diretto da Gabriele Salvatores, “Fly” plana su struggenti melodie e lunghi accordi che si tuffano tra le onde di un sequencer ipnotico e rotolante che sembra autoalimentarsi per inerzia, senza mai perdere vigore per quasi tutti i nove minuti di durata.

Seguono altri tre brani sul 1002, “Melody Voyager”, “Marimba” ed “Acidismo”, che esaltano lo stile d’agostiniano di allora, stratificato, ritmicamente minimale ed asciutto, adornato da melodie intrecciate ad armonie tra il romantico e il malinconico con frequenti cambi tonali che giocano sui contrasti e fluttuano su nuvole cangianti. In un’intervista rilasciata a Federico Grilli per il magazine Tutto Discoteca Dance a marzo 1996, D’Agostino parla della progressive come «un suono emozionale, energetico e molto convincente» ma ammette di essere conscio che si stia entrando nella fase della commercializzazione: «se prima era un genere destinato a fare tendenza, ora è rivolto alla grande massa che ne fruirà in maniera positiva, come spesso accade in fenomeni simili. Il pubblico reagisce bene e sicuramente ora la risposta è amplificata dato che il fenomeno sta cambiando, prima era ristretto ad alcune realtà locali». Pochi mesi più tardi, ad agosto, l’artista affiderà alla stessa testata un’altra affermazione che conferma la fase ascendente e il desiderio di sfondare i confini alpini: «Credo che la progressive nostrana abbia buone possibilità per imporsi nel mercato europeo e quindi cercheremo di spingerla in ogni occasione, come ho fatto lo scorso 5 luglio al Ministry Of Sound di Londra», ed aggiunge: «la mediterranean progressive è nata dalla personalizzazione da me apportata alla progressive, con suoni minimali e melodie orecchiabili, un po’ spagnole, forse latine, no ecco, proprio mediterranee».

A trainare BXR e Gigi D’Agostino è la compilation “Le Voyage ’96” che Media Records realizza insieme alla Virgin. Gran parte della tracklist è occupata dai suoi brani e remix ma non mancano le già citate “Children” e “Bakerloo Symphony”, “Goblin” della coppia Tannino-Di Carlo ed un paio di titoli d’importazione, “Hit The Bang” di Groove Park (dal catalogo Bonzai, l’etichetta di Fly intervistato qui) e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. Le 80.000 copie vendute de “Le Voyage ’96” e le 60.000 dell’album “Gigi D’Agostino”, in tandem questa volta tra BXR e RTI Music, testimoniano che l’intuizione di scommettere sulla musica strumentale sia giusta e fanno da volano per nuove produzioni dello stesso D’Agostino come “Gigi’s Violin”, dove troneggia un violino talmente ammaliante da far ricordare i Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi, ed “Elektro Message”, versione vitaminizzata di “Live Line” dei tedeschi You. Nel frattempo BXR mette a segno la prima licenza, “Electronic Pleasure” degli N-Trance, ma optando per le versioni trance (quella che si sente in radio finisce invece nel catalogo Signal).

Mauro Picotto - My House
“My House” di Mauro Picotto viene ritirato dal mercato per ragioni ignote

Mauro Picotto si prende il 1004 con la sua “My House”, naturale seguito a “Bakerloo Symphony” che viene per l’appunto remixata sul lato b in due versioni a creare una sorta di tessuto connettivo. Per ragioni mai chiarite del tutto, il disco verrà ritirato dal commercio pochi giorni dopo essere stato distribuito nei negozi. “My House” riappare, insieme ad “Halleluja”, su Pirate Records nel “Progressive Trip”, l’unico che l’artista firma MP8, accorciamento dell’anglofonizzazione M-Peak-8 usata per la poco nota “I Can’t Bear” l’anno precedente. Considerati gli alfieri del movimento mediterranean progressive dell’etichetta bresciana, Picotto e D’Agostino realizzano a quattro mani “Angels’ Symphony” da cui emergono distintamente tutti gli elementi salienti del filone, forse già all’apice del successo. Sul mercato giunge una tiratura che parrebbe frutto di un errore o di un ripensamento, contenente due versioni (Plastic Mix e Tranxacid Mix) che spariscono dal 12″ distribuito con lo stesso numero di catalogo, 1006. I buoni riscontri procurano ad entrambi alcuni ingaggi come remixer, Picotto rilegge “Mantra” dei Datura, D’Agostino invece “The Flame” dei redivivi Fine Young Cannibals, oltre a spartirsi rispettivamente “Turn It Up And Down” e “U Got 2 Know” dei Cappella, un marchio ormai quasi sulla via del tramonto. Alla Media Records poi arrivano nuovi DJ ad infoltire le fila della BXR: il toscano Mario Più, prima con l’estivo “Mas Experience”, una romanza elettronica agghindata da virtuosi sentimentalismi sintetici utilizzata per lo spot dell’Aquafan di Riccione, e poi con l’autunnale “Dedicated”, dedicato alla futura moglie Stefania alias More ed aperto da una citazione straussiana del poema sinfonico “Così Parlò Zarathustra”, il veneto Saccoman con “Pyramid Soundwave” (di cui parliamo nel dettaglio qui), una sorta di rilettura trancey del classico dei Korgis, “Everybody’s Got To Learn Sometime”, e il laziale Bismark, invitato dall’amico Gigi D’Agostino, che con “Double Pleasure” mette a punto un suono bifase lanciato su tensioni alternate che ha già sperimentato in pezzi usciti precedentemente come “Brain Sequences” o “Chrome”.

D'Agostino-RondoVeneziano
Similitudini grafiche tra le copertine dell’album “Gigi D’Agostino” e de “La Serenissima” dei Rondò Veneziano: androidi argentei che suonano strumenti a corda con città futuristiche sullo sfondo

Gigi D’Agostino torna con “New Year’s Day”, rivisitazione strumentale dell’omonimo degli U2. Sul lato b la lunga “Purezza”, quasi dieci minuti di un ribollire celestiale che i fan hanno già conosciuto grazie al citato album “Gigi D’Agostino”, quello col robot violinista e lo skyline di una città del futuro in copertina che sembra rimandare (intenzionalmente o involontariamente?) alle androidizzazioni a cui talvolta vengono sottoposti i menzionati Rondò Veneziano – si veda l’artwork de “La Serenissima”, 1981. Ma in fondo la mediterranean progressive della BXR per certi versi potrebbe essere considerata una proiezione modernista dell’ensemble diretto da Reverberi, coi suoi barocchismi e contrappunti ricamati su arie melodiche zuccherose innestate su arrangiamenti melliflui. L’eurodance delle annate 1992-1994 adesso sembra davvero lontanissima e simbolo di un’età conclusa, rimpiazzata da un suono nuovo proiettato verso il futuro che avanza. «Fatta eccezione per i Cappella, che riscuotono ancora successo in Francia, stiamo invadendo l’Europa con la progressive» afferma con decisione Gianfranco Bortolotti in un articolo di Billboard risalente al 22 giugno 1996. «Il nostro slogan è “The Sound Of The Future” e credo che il più grande vantaggio della dance indipendente sia quello di potersi trasformare rapidamente abbracciando le nuove tendenze. Dalla nostra parte abbiamo quattro dei migliori rappresentanti della scena mediterranean progressive incluso il fondatore, Gigi D’Agostino». Per l’occasione il manager bresciano si conferma come un sostenitore convinto delle nuove tecnologie ed avanza un’ipotesi profetica: «Grazie alla collaborazione con Zero City, provider milanese che offre l’accesso gratuito ad internet, stiamo entrando in un progetto che ci permetterà di avere una visione chiara sul futuro dell’industria musicale. Prima di quanto previsto, la musica verrà venduta attraverso il web, coi clienti che pagheranno uno o due dollari ogni volta che scaricheranno le nostre ultime uscite». A fine ’96 arriva un altro DJ a dare manforte alla squadra della BXR, Riccardo Cenderello, da Sarzana (La Spezia), acclamato in discoteca come l’angelo biondo. Inizialmente noto come Ricky, si trasforma in Ricky Le Roy dopo aver prestato l’immagine ad un progetto di Alex Neri, DJ Le Roy per l’appunto, destinato alla Palmares Records. “First Mission” è, dunque, la sua prima missione discografica ufficiale, uno slancio nel cielo più terso a bordo di un tappeto volante che si ritaglia, grazie all’edenica vena melodica, un posto nell’airplay radiofonico nostrano.

Il 1997 si apre attraverso “My World” di Bismark con cui il DJ romano intinge i pennelli in una mistura agrodolce per realizzare un quadro dalle tinte cromatiche giustapposte. Alla luminosità degli archi corrispondono vortici acidi, binomio che viene ulteriormente sviluppato nei due remix approntati in Belgio da Jan Vervloet, in quel momento all’apice del successo col progetto Fiocco, che la BXR pubblica su un 10″ colorato. A realizzare una versione di “My World” è anche Pablo Gargano, italiano trapiantato nel Regno Unito intervistato qui, seppur questa non finisca nel catalogo dell’etichetta bresciana. Aria di remix pure per “Dedicated” di Mario Più, analogamente solcato su un 10″ splatter blu/nero. Nel contempo il DJ toscano rilegge “I Just Can’t Get Enough” dell’elvetico DJ Energy per la GFB, campionando “Conflictation” di Cherry Moon Trax. Il successo primaverile è comunque “No Name” di Mario Più & Mauro Picotto, una sorta di summa tra “Mystic Force” dell’omonimo artista australiano e “Landslide” dei britannici Harmonix condita con una melodia ricavata da “Close To Me” dei Cure e frammenti ambientali presi dalla pellicola spielbergiana “Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo”. Le potenzialità sono tante al punto che la Media Records lo pubblica anche in formato CD singolo. Si rifanno sentire Saccoman con “Open Your Heart”, trance di facile impatto issata da una melodia triggerata, e Ricky Le Roy col cupo “Tunnel”, più cavernoso e vitreo rispetto al precedente e per questo chiuso in un contesto che riduce al minimo la possibilità di raggiungere l’airplay radiofonico.

Con “Music (An Echo Deep Inside” D’Agostino cerca nuove dimensioni stilistiche. È il primo BXR ad includere l’inserto cartaceo su cui si rinvengono titoli e crediti

Discorso a parte per “Music (An Echo Deep Inside)” di Gigi D’Agostino, brano con cui il DJ torinese inizia ad allontanarsi dalla dimensione iniziale del suo sound, in primis con l’inserimento di una parte cantata incorniciata da una serie di frasi zigzaganti di violino ed un sibilo filmico morriconiano. Nella parte centrale il lirismo vocale è accentuato ed un po’ rammenta quanto sperimentato pochi mesi prima da Marco Grasso in “Melodream” di Bakesky (sulla milanese Diamond Pears diretta da Nando Vannelli) che sovrappone non memorabili stilemi progressive all’italiana agli elementi di un’orchestra (violini, viole, violoncelli, contrabassi, oboe, fagotto ed altro ancora). Anche a livello grafico c’è qualcosa di nuovo: la label copy è occupata, su entrambi i lati, da una foto dell’artista pertanto titoli e crediti finiscono su un inserto di carta infilato all’interno della copertina. La presenza di tale inserto diventa fissa quando l’etichetta rinnova la brand identity (con “Lizard”, 1998), e nel corso del tempo sarà oggetto di variazioni nelle dimensioni. Con “Music (An Echo Deep Inside)” D’Agostino prende le misure di una nuova dimensione artistica in cui immergersi, ma prima di avventurarsi sul percorso che lo trasformerà in uno degli idoli della seconda ondata italodance, si cimenta in una serie di tracce da cui affiora sia la passione per la sampledelia, sia il desiderio di creare qualcosa ex novo, che non assomigli al suo più recente passato forse perché si è già reso conto che l’epoca della mediterranean progressive sia ormai agli sgoccioli e il mercato si è stancato di brani strumentali. La cesura, tuttavia, non è netta ed immediata, “My Dimension”, “Psicadelica” (una specie di nuova “Fly” con ridotti varchi melodici), “Living In Freedom” e “Wondering Soul” (rilettura di “No Time” dei Guya Reg, edita dalla DBX Records di Joe T. Vannelli) contengono ancora chiari retaggi dell’epoca progressive ma in “Bam”, “Tuttobene” e “Locomotive” (rivisitazione di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, già riadattata con successo dagli U.S.U.R.A. in “Open Your Mind” nel ’92) l’artista dimostra la chiara volontà di andare oltre e rimettersi in discussione, anche a rischio di scontentare parte dei fan. Nella vivace “Rumore Di Fondo” rispolvera reticoli ritmici breakbeat, in “All In One Night” trova rifugio in una specie di trance epica trainata da un basso lanciato al galoppo, in “Gin Tonic” rallenta atipicamente i bpm. Non c’è un filo conduttore, sono tracce discontinue che abbracciano un’ampia gamma di sfumature sulla base di impeti creativi nuovi ed un pizzico eccentrici, ad attestare la voglia dell’artista di sperimentare mettendo in comunicazione e in relazione passato e presente, così come avviene in “Gin Lemon”, a posteriori configuratosi come un ibrido tra i cut-up meccanici di “Bla Bla Bla” o “Cuba Libre” e la vocalità umana di “Elisir”. Il pezzo è sequenziato su un sample celebre quanto simbolico per la house music continentale, il “pump up the volume” preso da “I Know You Got Soul” di Eric B. & Rakim ed eternato dai M.A.R.R.S. in “Pump Up The Volume” per l’appunto, di cui parliamo qui. Tutto questo avviene nel “Gin Lemon EP”, un avventuroso, eterogeneo e bizzarro triplo mix disponibile anche in versione colorata (verde, giallo, rosso) diventato ambito per i collezionisti. Altrettanto ricercata l’edizione su CD decorata dall’artwork di Tiberio Faedi intervistato in Decadance Extra, per cui sono stati già sborsati 450 €. Dall’extended play vengono estratti vari brani incisi su un 12″ contenente anche il remix di “Music (An Echo Deep Inside)” a firma Mario Scalambrin, vicino al modello utilizzato per la sua Van S Hard Mix di “Baby, I’m Yours” dei 49ers di cui parliamo qui. Nel contempo anche “Gin Lemon”, l’unico a colpire nel segno e finire nelle rotazioni radiofoniche, viene riversato su un singolo sul quale, tra le varie versioni, c’è pure una R.A.F. Zone Mix di Picotto in bilico tra hard house d’oltremanica e pizzicato style teutonico.

Mario Più (1997)
Mario Più in una foto del 1997

Progetto-miscellanea è anche quello di Bismark che incide un doppio mix intitolato “Project 696”, omonimo del programma radiofonico in onda su Power Station ai tempi condotto con Luca Cucchetti così come lui stesso racconta qui. All’interno sei tracce sviluppate intorno alla trance ma con ampie divagazioni che toccano solarità (“Female Vox”, “Trance Sensation”) e stratificazioni più scure (“Synthesis”) passando per echi mediterranean progressive (“Shadow”), rimbalzi à la “Chrome” (“Space Is The Place”) ed impervie modulazioni drum n bass miste a pulsioni speed garage (“Give Yourself 2 Me”). “Project 696” avrebbe dovuto anticipare l’uscita dell’album, così come annuncia lo stesso Bismark in un’intervista rilasciata a Barbara Calzolaio a novembre 1997, ma il progetto non andrà mai in porto. Sempre in autunno la BXR tira fuori un’altra hit destinata alle radio e al circuito più commerciale, “All I Need” di Mario Più Feat. More, un brano costruito sulla falsariga dei successi dei tedeschi Sash! che conquista licenze sparse per il mondo, Regno Unito e Stati Uniti inclusi con l’interesse mostrato dalla MCA. Una delle versioni remix, la Love Mix, uscita un paio di mesi più tardi, ricalca invece i suoni di “Come Into My Life” di Gala. Parallelamente Mario Più incide la strumentale “Your Love”, con l’aiuto e il supporto di Mauro Picotto e Francesco Farfa, destinata alle discoteche e per questo siglata con l’appellativo Club aggiunto al suo nome.

1998, un anno di transizione
Il primo BXR del 1998 è “All 4 One”, un EP contenente quattro tracce di altrettanti artisti. Da un lato Mario Più e Gigi D’Agostino, rispettivamente con una versione semistrumentale di “All I Need” (un possibile edit della Massive Mix?) e con la citata “All In One Night” presa dal descritto “Gin Lemon EP”, dall’altro Mauro Picotto e Ricky Le Roy, il primo con “Jump”, rivisitazione del marziale “Mig 29” di Mig 29, un classico hooveristico del 1991 tratto dal catalogo Pirate Records realizzato da Mauro ‘Pagany’ Aventino e Francesco Scandolari, il secondo con “Bridge”, riapparso poco tempo dopo col titolo “Speed” e modellato sulla falsariga dei successi dei B.B.E., “Seven Days And One Week” e “Flash”. Ai più attenti non passa inosservato il salto di parecchi numeri di catalogo, quasi una ventina (dal 25 al 43): ai tempi la Media Records spiega che la serie compresa tra il 1026 e il 1042 è destinata ad uso interno e non per dischi commercializzati ma in seguito emergerà una ragione più plausibile legata al fallimento del distributore, la Flying Records, a cui subentra temporaneamente la milanese Self. Sembra che il disallineamento del catalogo possa essere stato causato da quel passaggio ma non è dato sapere se ai diciassette numeri mancanti furono effettivamente attribuiti dei brani rimasti in archivio. Nei primi mesi dell’anno nei negozi arriva anche il nuovo di Saccoman, “Magic Moments”, ascritto a quel tipo di trance che il DJ programma come resident al Cocoricò di Riccione. A ruota segue Ricky Le Roy con “Speed”: se la Blond Angel Mix ha il tiro della hard house britannica sul modello di “Keep On Dancing” dei Perpetual Motion, la Sara Song Mix (già in circolazione col titolo “Bridge”, come annunciato poche righe sopra) batte più sul filone franco-teutonico con svirgolate acide e pause melodiche. Due i remix: quello techno di Francesco Farfa nascosto dietro Mr. Message, pseudonimo utilizzato poco tempo prima per lanciare la Audio Esperanto, e quello di Tony H chiamato Strobo Mix, presentato in anteprima nel suo programma del sabato notte su Radio DeeJay, “From Disco To Disco”, e costruito sullo stampo di “Black Alienation” che il compianto Zenith destina alla IST Records di Lenny Dee.

Mauro Picotto - Lizard
“Lizard”, il disco della svolta internazionale per Picotto e per la stessa BXR

La BXR naviga in una sorta di limbo: ormai la mediterranean progressive è un ricordo, per alcuni persino scomodo, ed urge scovare un nuovo filone da battere per tenere alto l’interesse. La svolta è dietro l’angolo ma nessuno lo sa ancora, incluso l’autore del brano che sancirà il “next step”, Mauro Picotto. L’accoglienza riservata alla sua “Lizard”, nella primavera del 1998, è piuttosto tiepida. Le quattro versioni racchiuse sul mix sono radicalmente diverse l’una dall’altra, ma una di esse risulterà determinante per gli sviluppi futuri, la Tea Mix, contraddistinta da un particolare disegno di basso (simile a quello della Explorer Version di “Dune” di Valez, Subway Records, 1994) la cui genesi viene raccontata dall’artista nel suo libro, “Vita Da DJ – From Heart To Techno” e che noi già svelammo, attraverso l’intervista al musicista Andrea Remondini, in Decadance Appendix nel 2012. L’effetto Larsen avvenuto al Joy’s di Mondovì genera una reazione euforica del pubblico e così Picotto, con l’aiuto del citato Remondini, cerca di riprodurlo in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando, un paio di mesi più tardi, arrivano i remix. In particolare, come raccontato qui, è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale e una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary e, forse, dal riff di “Prophecy” dei WW 3 (l’assonanza è particolarmente evidente nella Marathon Mix). Corre voce che a dare la spinta decisiva al brano sia stato Junior Vasquez dopo aver convinto John Creamer, l’A&R della Empire State Records (division della nota Eightball Records), a licenziarlo negli States. A ruota seguono Judge Jules, Graham Gold e soprattutto Pete Tong che lo inserisce in Essential Mix su BBC Radio 1 e che, poco tempo dopo, ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”. Il pezzo farà il giro del mondo aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per il DJ piemontese. “Lizard” è anche il primo disco che BXR pubblica con un rebranding grafico, contraddistinto ancora dall’immagine del pianeta ma avvolto in una sorta di spirale ciclonica e che per qualche tempo viene utilizzato (in ordine randomico?) insieme al primo, in uso dal 1996. Titoli e crediti, come preannunciato nel precedente paragrafo, finiscono su un inserto cartaceo allegato.

Gigi D'Agostino - Elisir
“Elisir” di Gigi D’Agostino, un successo dell’estate 1998 che però “disarciona” la BXR dalla posizione legata a generi come progressive e trance

Con l’arrivo dell’estate escono due dischi dichiaratamente pop che seguono la strada aperta da “All I Need”, “Sexy Rhythm” di Mario Più, ispirata da “Your Love” dei canadesi Lime, ed “Elisir” di Gigi D’Agostino, interpretata in incognito da David Michael Johnson che per la Media Records ha già inciso alcuni brani tempo prima tra cui la cover di “I Say A Little Prayer”. Come emerso dai contenuti del “Gin Lemon EP” uscito negli ultimi mesi del 1997, D’Agostino è in cerca di un’evoluzione e la trova, come lui stesso afferma in un’intervista del settembre ’98, in una via di mezzo tra house e progressive, «sempre con sonorità energetiche ma senza ritmi troppo ossessivi. I tempi cambiano, le ore corrono e si è già arrivati al nuovo capitolo». A dirla tutta di progressive in “Elisir” resta poco e niente, in prima linea c’è la marcetta che prende le mosse dalla verve sampledelica di “Gin Lemon” e la parte vocale (con qualche similitudine che vola a “Closer” di Liquid) esplosa nel ritornello sorretto dal pianoforte, ma questo non è il piano imperante in stile “Children” di Robert Miles, è piuttosto un elemento coadiuvante che l’autore adopera, con la complicità del musicista Paolo Sandrini, per creare un nuovo standard della dance. La posizione da DJ attivo solo in club di settore forse inizia a stare stretta a D’Agostino, vuole una nuova collocazione nella scena ma soprattutto nel mercato discografico, e questo lo si intuisce sin dai tempi di “Music (An Echo Deep Inside)” che intende andare oltre l’inflazionata mediterranean progressive. Ora riesce a trovare la quadra con una formula alchemica inaspettata per i suoi fan più incalliti e destinata a gettare i semi della seconda ondata italodance, attesa dalle grandi platee generaliste dopo la parentesi del biennio ’96-’97. “Elisir”, licenziato in parecchi Paesi europei ma anche negli States dove la Tommy Boy lo pubblica col titolo “Your Love”, viene salutato con tripudio dalle radio ed anche dalle tv. Memorabile l’apparizione ad “Italia Unz” su Italia 1, in cui D’Agostino sceglie di starsene comodamente sdraiato su un materassino gonfiabile piuttosto che mimare imbarazzanti performance in playback, lasciando invece il compito a David Michael Johnson di occuparsi del (pare necessario) lip-sync. Quella di “Sexy Rhythm” ed “Elisir” è una doppietta, disponibile anche in formato CD, che garantisce ottimi risultati alla Media Records, specialmente in riferimento ad “Elisir”, ma che nel contempo lascia spiazzato chi pensa alla BXR come etichetta legata a soluzioni meno commerciali e più vicine alla progressive (prima) e trance (poi). Che fine hanno fatto gli intenti di sfondare la barriera del prevedibile formato canzone? C’è forse la necessità di tornare a formule più canoniche e tradizionali per mantenere viva l’attenzione del pubblico?

Una foto dell’autunno 1998 in cui si scorge l’ideogramma che Picotto si “tatua” sui capelli: da lì a breve il simbolo diventa un elemento identificativo della sua immagine

A diversificare l’offerta, tenendo un piede nella dimensione più appetibile ai club e al frangente internazionale, sono comunque Tony H con “Zoo Future” (la versione destinata alle radio, la Lion Mix, ricicla il riff di “Get The Balance Right!” dei Depeche Mode) e Bismark con “Street Festival”, pensato come colonna sonora dell’omonimo evento che si tiene a Roma domenica 21 giugno e il nome delle quattro versioni (Colosseum Mix, Fori Imperiali Mix, Piazza Venezia Mix, Circo Massimo Mix) non lascia adito a dubbi sul legame con la Città Eterna. Alla manifestazione, organizzata sul modello della berlinese Love Parade ideata quasi dieci anni prima da Dr. Motte e Danielle de Picciotto intervistata qui, partecipano decine di DJ che si alternano su consolle allestite su camion. La Media Records ha un proprio carro sul quale si esibiscono praticamente tutti gli artisti della scuderia. Quell’estate al debutto su BXR ci sono anche i fratelli Giorgio ed Andrea Prezioso ed Alessandro ‘Marvin’ Moschini con “I Wanna Rock”, un divertente cut-up pubblicato pure su CD (con la copertina curata da Tiberio Faedi) ottenuto incrociando su una trascinante base hard house le chitarre di “Should I Stay Or Should I Go?” dei Clash ed un frammento vocale di “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock. L’idea però non raccoglie consensi analogamente a “Burning Like Fire / The Pinzel” che i tre firmano Stop Talking su GFB poche settimane prima. La rivincita, come si vedrà avanti, arriva circa dodici mesi più tardi. Ad anticiparla è “Hardcat” che Giorgio Prezioso realizza con Picotto come Tom Cat ma su Underground. La tornata autunnale continua ad alternare pezzi di estrazione trance/hard trance ad altri crossover: si passa così da “Distant Planet” di Saccoman, adorato da Talla 2XLC, a “Unicorn” di Mario Più, da “Under The Sea” di Ricky Le Roy ai remix di “Zoo Future” di Tony H (tra cui quello dei tedeschi DuMonde prossimi all’affermazione mondiale), da “Honey” di Mauro Picotto, ricamato sul giro di “Two Tribes” dei Frankie Goes To Hollywood ed affiancato sul lato b dalla coriacea “Smile” con una risata beffarda, a “Cuba Libre” di Gigi D’Agostino, un’ossessiva marcetta (licenziata negli States dalla Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez ma col nome Noise Maker) sincronizzata sui vocal di “Caught, Can We Get A Witness?” dei Public Enemy, già rispolverati con successo tempo prima dai Natural Born Chillers in “Rock The Funky Beat” in chiave drum n bass. A fine anno giunge “Spectra”, il primo col centrino su fondo verde e il pianeta irriconoscibile per la gradazione cromatica, con cui Mario Più e Mauro Picotto rinnovano il sodalizio e campionano la sezione ritmica di “Spastik” di Plastikman per innestare all’interno l’essenza del nuovo “BXR sound” che marchierà l’annata seguente.

Gigi D'Agostino - Bla Bla Bla
“Bla Bla Bla”, il primo successo messo a segno dalla BXR nel 1999

1999, verso ambiziosi obiettivi con hit internazionali e un nuovo logo
Per BXR il 1999 si apre all’insegna della neo eurodance di Mario Più Feat. More con “Run Away”: il DJ toscano continua ad alternare produzioni trance/hard trance ad altre di stampo prettamente pop come questa in cui, col tocco di Paolo Sandrini come arrangiatore, cerca di riagguantare l’essenza che ha fatto la fortuna dell’eurodance/italodance nostrana tra 1993 e 1994 con ovvi update del banco suoni e con l’esclusione del rap maschile a vantaggio di un’unica voce, quella femminile. Sul 12″ e sul CD singolo figura anche una versione di estrazione filo drum n bass, la Free Style Mix, forse pensata per il territorio britannico dove alcuni esperimenti simili, tipo quello di “Before Today” degli Everything But The Girl, destano particolare interesse. Il primo centro dell’anno, seppur in circolazione da diversi mesi (a dicembre ’98, quando è ancora privo di titolo, Picotto lo recensisce sulle pagine di DiscoiD definendolo «un pezzo che ha dell’incredibile»), è rappresentato da “Bla Bla Bla” di Gigi D’Agostino: edificato su una base simile a quella di “Elisir” e di “Cuba Libre”, la traccia diventa presto un autentico tormentone grazie al fulminante e ribaltante uso di un campionamento vocale tratto da “Why Did You Do It” degli Stretch, tagliato e montato a mo’ di filastrocca nonsense («l’ho realizzato pensando a tutta quella gente che parla tanto senza dir niente» dichiarerà poco tempo dopo l’autore, che in copertina vuole una massima del filosofo Voltaire). Il lato b è occupato per intero dalla Africanismo Mix di “Voyage”, poco più di quindici minuti trasognati e vissuti all’interno di uno shaker che frulla una particolare scansione ritmica che travalica i generi, a riprova della volontà di D’Agostino di dare costantemente una spinta in avanti alla sua musica. “Bla Bla Bla”, per cui viene realizzato un video-parodia de La Linea di Osvaldo Cavandoli, entra in dozzine di compilation e conquista il vertice di un numero imprecisato di classifiche. È il primo disco che BXR affida ad un nuovo distributore, la campana Global Net, lì dove lavora Daniele ‘Dany T’ Tramontano che a tal proposito rammenta: «Un mattino arrivarono in prima battuta diecimila copie di quel BXR e la sera ne erano rimaste forse appena cinquecento».

label variation
Due variazioni grafiche utilizzate dalla BXR tra 1998 e 1999

In primavera si ripresenta Mauro Picotto con “Pulsar”, un pezzo trance dedicato alla figlia primogenita Alessia che ricalca prevedibilmente lo schema di “Lizard” con l’aggiunta di un hook vocale che fa lo spelling del nome dello stesso artista. Tante le versioni approntate, due delle quali finite su un secondo 12″ codificato come Deeper Mixes. Nella stagione dei fiori si fanno risentire anche Bismark con gli affreschi melodici di “Parapapa”, e Tony H con “Sicilia…You Got It!”, che passa dalla tempestosa hard trance con tagli lavici acid della Etna Vulcan Mix alla ridente Taormina Mix, una specie di risposta a “Bla Bla Bla” che usa il campione vocale di “Ride The Pony” dei Peplab abbinato ad una linea melodica in stile “Profondo Rosso”. Curiosità: la Stromboli Mix viene pubblicata quasi contemporaneamente su Pirate Records ma con titolo ed autore differenti, “Mutation” di Pivot. Poco tempo dopo per la medesima etichetta Tony H realizza, con Picotto, “Venezia” di Venice, scandito da un fraseggio di violini che rilancia le atmosfere mediterranee di qualche anno prima. Riappare pure Saccoman con “The Bounce”: le due versioni sulla logo side, la Jumpin’ e la Pumpin’, girano sul classico disegno trance che il DJ veneto spinge in discoteca, mentre sulla info side trovano spazio la Surfin’, con una stesura ed evoluzione progressive che ricorda un classico di quattro anni prima, “Pleasure Voyage” di X-Form al quale abbiamo dedicato qui un articolo, e la Teain’ a firma Picotto, un incrocio tra la sua “Lizard”, un frammento di “Communication” di Mario Più di cui si parla più avanti, e le percussioni di “20Hz” di Capricorn. A ridosso dell’estate BXR prende in licenza per l’Italia “The Launch” dell’olandese DJ Jean, rivisitazione di “The Horn Song” di The Don del 1998 che funziona nei Paesi del Nord Europa ma che da noi fatica a spopolare seppur finisca in diverse compilation tra cui quella dedicata all’Energy mixata da Molella, e “Dream A Dream” dei Captain Jack, act hard dance di Colonia prodotto da Eric Sneo e remixato dai DuMonde. È tempo pure di una tripletta di remix, “Unicorn” di Mario Più, “Tunnel” di Ricky Le Roy e “Lizard” di Mauro Picotto che sbarca ufficialmente oltremanica attraverso la VC Recordings del gruppo Virgin. Proprio su “Lizard” mettono le mani il britannico Tall Paul, reduce dal successo di “Let Me Show You” di Camisra, e Gigi D’Agostino che disfa e ricostruisce il puzzle riciclando un frammento ritmico della sua “Elisir”. Proprio Picotto riporta in vita, per l’ultima volta, l’alter ego R.A.F. By Picotto per “America”, ennesimo derivato di “Lizard”. Sul lato b il remix di “Tuttincoro”, pubblicato a fine ’98 sulla Pirate Records e germogliato su “Leave In Silence” dei Depeche Mode.

Prezioso e Mario Più
Altre due hit annuali della BXR, “Tell Me Why” di Prezioso Feat. Marvin e “Communication” di Mario Più

Dopo il poco fortunato “I Wanna Rock”, i fratelli Prezioso si prendono la rivincita: accompagnati dalla voce di Marvin e con la collaborazione di Paolo Sandrini, incidono “Tell Me Why”, una hit dell’estate ’99 per cui viene girato un videoclip e che finisce al Festivalbar quell’anno presentato da Fiorello ed Alessia Marcuzzi. Nel pezzo i più attenti riconoscono due principali ispirazioni, la tastiera di “Talking In Your Sleep” dei Romantics e la strofa di “Family Man” di Mike Oldfield, ma quello dei Prezioso Feat. Marvin non è un collage figlio della sampledelia più macchinosa, sullo stile dei programmi radiofonici “blobbistici” di Giorgio, ma una canzone solare e perfetta per le platee delle megadiscoteche, non solo italiane a giudicare dal numero di licenze macinate in diversi Paesi del mondo. Va particolarmente bene in Svizzera, in Danimarca ma soprattutto in Austria e in Germania, piazzato rispettivamente in seconda e decima posizione della classifica di vendita. Proprio nella terra dei crauti i tre tengono parecchie serate ed apparizioni televisive come questa su RTL. Un’altra mina lasciata deflagrare dalla BXR nell’estate ’99 è “Communication” di Mario Più: colorita dal suono dell’interferenza del telefono cellulare, parallelamente usato dai Dual Band (Paolo Kighine e Francesco Zappalà) in “GSM” sulla modenese Stik, la traccia attinge (ancora) le forze dallo schema di “Lizard”, mietendo consensi grazie ad una potente dinamica del suono e rumorose rullate che fanno impazzire gli amanti dell’hard trance. Sul lato b figura “Hertz”, cover di un brano che Mario Più suona spesso nelle sue serate, “Pleasure” dei belgi The Squeakers pubblicato nel ’98 su etichetta Hertz. Il grande successo di “Communication” viene garantito però da un remix che giunge a distanza di qualche mese, quello realizzato oltremanica da Yomanda, scelto per sincronizzare il videoclip e sviluppato sulla base della More Mix. Il brano conquista il vertice della Top 40 Club Chart UK con circa 200.000 copie vendute, e l’autore viene ribattezzato “il Fatboy Slim italiano”. In autunno è tempo di una versione di Picotto firmata come Lizard Man. Parallelamente esce “Serendipity” con cui Mario Più rispolvera la melodia di “Showroom Dummies” dei Kraftwerk ed ufficializza la paternità del progetto DJ Arabesque, partito nel ’97 su etichetta Underground. Dopo i vari featuring per Mario Più, More (ex frontwoman dei T-Move Experience inizialmente nota come Jody Moore) incide il primo singolo da solista, “4 Ever With Me”. Il pezzo si inserisce in quella rosa di dance made in Italy al femminile interpretata da cantanti come Kim Lukas, Ann Lee o Neja. A fronte di ciò, il progetto traslocherà presto sulla division pop della BXR, la W/BXR, di cui si parla più avanti.

Mauro Picotto - Iguana
“Iguana”, il follow-up di “Lizard”, è una conferma per la carriera internazionale di Mauro Picotto

Se sino al 1998 il successo dell’etichetta è stato episodico ed occasionale, dal 1999 i trionfi diventano quasi sistematici. È il momento in cui la BXR catalizza l’attenzione della stampa internazionale che ne parla come squadra composta esclusivamente da DJ attivi nelle discoteche di settore e per questo particolarmente abili nell’intercettare i gusti del pubblico. «Abbiamo messo sotto contratto i più importanti disc jockey provenienti da differenti regioni italiane offrendo loro facoltà di produrre la musica che amano proporre durante le proprie serate» spiega Picotto in un articolo di Mark Dezzani pubblicato su Billboard il 12 giugno 1999. «Ci siamo accorti che esiste un grande mercato per la musica progressive/techno seppur le emittenti radiofoniche italiane, fatta eccezione per quelle specializzate, continuino a preferire house e pop dance» prosegue Bortolotti. «Abbiamo dunque deciso di alimentare e sviluppare ulteriormente questi generi più sperimentali e sfruttare internet per promuoverli anche se i software per scaricare illegalmente dalla Rete brani in formato MP3 metteranno presto in ginocchio il mondo della musica. Piuttosto che ignorare questa nuova realtà, però, useremo la tecnologia per portare online il nostro catalogo». Due le importanti novità autunnali: la prima riguarda il cambiamento di logo, con la X rossa in evidenza che manda definitivamente in soffitta le declinazioni grafiche precedenti, la seconda l’avvio di tre serie, Claxixx, Club e Superclub, rispettivamente contraddistinte dai colori bianco, nero ed argento e nate col fine di categorizzare in modo più accurato le pubblicazioni in base ai suoni e il pubblico di riferimento. Questa gradazione cromatica abbraccia inoltre le copertine generiche, sino a questo momento stampate in cinque colorazioni (rosso, nero, blu, giallo, celeste). Il primo ad essere interessato dal nuovo ordine/raggruppamento è “Iguana” di Mauro Picotto, follow-up di “Lizard” in cui l’autore torna ad utilizzare un sample vocale (preso da un live dei Kiss in cui la band esegue “Hotter Than Hell”) che ha già inserito nella sua prima produzione destinata alla Media Records, “We Gonna Get…” del 1991, ai tempi “ritagliato” da “Adrenalin” degli N-Joi. Sono svariate le versioni approntate tanto che nel complesso “Iguana” occupa tutte le serie, la Claxixx, la Club e la Superclub. Nel pacchetto è incluso anche un remix a firma Blank & Jones con cui i tedeschi ripagano la versione che Picotto realizza per la loro “After Love” uscita quasi in contemporanea. Il successo di “Iguana” tocca tutta l’Europa, in particolare la Germania dove resta per settimane al vertice delle classifiche di vendita. Viene prevedibilmente girato un videoclip diretto da Oliver Sommer e finito in high rotation su MTV, VIVA e tutte le principali tv musicali.

BXR Superclub apertura
Uno degli advertising con cui viene annunciata l’apertura del BXR Superclub, il 9 ottobre 1999

A consolidare ulteriormente la posizione, la promozione e la comunicazione di BXR, sono due progetti collaterali: uno su Italia Network, prossima a trasformarsi in RIN, chiamato Maximal, che porta in scena i DJ dell’etichetta con selezioni musicali in cui vengono palesate le coordinate dei brani selezionati, l’altro sul fronte discoteca con l’apertura, sabato 9 ottobre presso lo Shibuya di Rezzato, del BXR Superclub, il miglior palcoscenico che i DJ della Media Records potessero avere in quel momento, seppur rimanga in attività per appena una stagione (la serata di chiusura è del 20 maggio 2000). Maximal e il BXR Superclub veicolano in modo ferreo il suono del pianeta BXR, non più quello celeste del periodo mediterranean progressive bensì uno fiammeggiante rosso fuoco ben visibile sulla copertina del primo volume della “BXR Superclub Compilation”. Entrambe si rivelano presto come due straordinarie vetrine pubblicitarie in un periodo in cui il pubblico, o perlomeno quella parte di esso rappresentata dai fan più sfegatati, si emoziona e si sente fortunata ad ascoltare in anteprima i nuovi brani dei propri beniamini della consolle. Scommettendo su nomi nuovi anche a rischio di non centrare perfettamente l’obiettivo, la BXR mette a segno altre tre licenze, “Gouryella” dei Gouryella alias Tiësto e Ferry Corsten (dal catalogo Tsunami), il remix di “Madagascar” degli Art Of Trance (dal catalogo Platipus), e “The Day” di Lunatic House Sounds (dal catalogo DiKi Records, quella di Age Of Love di cui parliamo approfonditamente qui). Spazio anche agli artisti interni come Bismark con “Reactivate”, Massimo Cominotto con “Minimalistix” (il primo inciso per la BXR dopo un biennio vissuto su Underground), e Tony H con “Tagadà / www.tonyh.com”. «Il tagadà è una giostra techno con un movimento tipo centrifuga, e questo movimento mi fa pensare ad una rullata devastante con effetto energizzante sul corpo, lo stesso che il mio disco vuole ricreare» spiega l’autore ai tempi. «A “Tagadà” si aggiunge “www.tonyh.com”, proprio come il mio nuovo sito internet» conclude. Poi tocca a “Slave To The Rhythm”, cover dell’omonimo di Grace Jones realizzata dai PPK, progetto one shot nato sull’asse italo-britannico formato da Pete Pritchard, Mauro Picotto e Ben Keen alias BK (PPK è l’acronimo dei loro cognomi). Negli ultimi giorni dell’anno arriva infine “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, trance dolcemente immersa in atmosfere orientaleggianti rimarcate dalla grafica in copertina da cui affiorano i loghi degli autori.

Gigi D'Agostino - Tanzen
La copertina di “Tanzen” che nel ’99 apre il catalogo di W/BXR

Canalizzazioni tematiche per fare ordine
Il catalogo della BXR inizia a essere troppo eterogeneo: a produzioni di stampo progressive e trance se ne aggiungono altre prettamente pop ma tale sovrapposizione di mondi musicali, oltre a risultare dispersiva, disorienta i seguaci. Al fine di convogliare tutti quei pezzi dichiaratamente mainstream quindi, nel 1999 viene creata una “filiale” apposita, la W/BXR, partita col triplo “Tanzen” di Gigi D’Agostino che al suo interno raccoglie futuri successi (“The Riddle”, la strumentale “Passion” poi diventata “La Passion”, “Another Way”), nuove marcette ipnotiche à la “Cuba Libre” (“Acid”, “Movimento”, pubblicata l’anno prima su Underground e firmata come Noise Maker, “Coca & Havana”), rimembranze tranceoidi rilette a suo modo (“One Day”), una nuova versione di “Bla Bla Bla” intitolata Dark Mix, una sorta di remix della stessa, “A. A. A.”, realizzato da Mario Più e Ricky Effe, ed anche una hit mancata, “Star”. Per un anno circa la W/BXR raduna le ramificazioni della BXR destinate alle grandi masse generaliste, da “Let Me Stay” dei Prezioso Feat. Marvin ad “Around The World” di More passando per “Ritual Tibetan” dei Kaliya e le versioni vocali di “Techno Harmony” di Mario Più e di “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, quest’ultima interpretata dalla cantante algerina Amel Whaby. Dopo diciassette uscite, il progetto viene assorbito dalla ex Noise Maker ora NoiseMaker, riavviata con l’album “L’Amour Toujours” attraverso il quale D’Agostino si consacra a livello planetario radunando attorno a sé un oceano di supporter estatici, talvolta animati da una devozione ai limiti del fanatismo.

BXR Club, Gold, Sacrifice
I dischi inaugurali di BXR Club, BXR Gold e Sacrifice

Sempre del 1999 è una sottoetichetta di BXR chiamata BXR Club, nata con lo scopo di raccogliere le produzioni dal carattere più schiettamente clubby e con nessuna probabilità di fare crossover. A tagliare il nastro inaugurale è Gabry Fasano con “Jaiss Bangin'”, presto seguito da “Metempsicosi” di Ricky Le Roy (omonimo del gruppo di DJ a cui appartiene, fondato nella primavera del 1997), “Imperiale” di Mario Più & Mauro Picotto (con una pausa sonorizzata sulla melodia di “Merry Christmas Mr. Lawrence” di Ryuichi Sakamoto, dal film “Furyo”) e “Red Moon” ancora di Ricky Le Roy, che arriva a fine ’99 e chiude la breve parentesi rimpiazzata dalla categorizzazione distinta tra Claxixx, Club e Superclub di cui si è già detto sopra. Nell’estate del 2000 nasce la BXR Gold, espediente con cui la Media Records rimette in circolazione alcuni pezzi del repertorio BXR (ma non solo, qualcosa proviene dai cataloghi GFB ed Underground), organizzati in diversi EP che fanno felici i collezionisti seppur alla fine il progetto pecchi un po’ come esercizio autocelebrativo. Pochi mesi più tardi parte invece Sacrifice, etichetta che si colloca in posizione mediana tra Underground e BXR, sia per declinazione grafica che sonora. A marchiare la maggior parte delle pubblicazioni sono le lettere dell’alfabeto ellenico usate per siglare i nomi degli autori. A suggellare il tutto una linea di merchandising e l’apertura di branch sparse per l’Europa (Regno Unito, Germania, Benelux) che rappresentano un supporto valido ed utile per penetrare più capillarmente nei territori esteri.

Mauro Picotto - Pegasus
Sopra la copertina di “Pegasus”, sotto la foto da cui viene sviluppata la grafica

2000-2001, alla conquista del mondo con la supertechno
Uscita indenne dal temuto millennium bug, la BXR inizia il nuovo anno/secolo/millennio lanciando il sito web, che include anche un frequentatissimo forum, e riprendendo il discorso lasciato in sospeso a fine ’99 con “Arabian Pleasure” con canti esotici che fanno venire subito in mente dune, palmeti e qualche oasi. Adesso a marciare verso la calura desertica a bordo di un rullo compressore che fa il verso ai disegni di basso hi NRG di Bobby Orlando è Ricky Le Roy con “Tuareg”. Pronto probabilmente dall’autunno, esce in pieno inverno “Autumn” che dà avvio al progetto Lava, nato tra Italia e Germania dalla collaborazione tra Mauro Picotto, Riccardo Ferri e Tillmann Uhrmacher, DJ tedesco e noto speaker radiofonico su Sunshine Live dove conduce il programma Maximal, che divide solo l’omonimia con quello prima descritto e trasmesso da Italia Network. Come solista, Mauro Picotto sfodera “Pegasus”: la Tea Mix contiene ancora elementi lizardiani ma appare subito chiaro che il DJ si stia stancando di riciclare il basso “wuooom wuooom” ricavato da un vecchio BassStation Novation abbinato ad infinite rullate di snare, schema peraltro imitato da un numero sempre più consistente di competitor già dal 1998 (si sentano, ad esempio, “Enjoy” di Alex Castelli o “Zi-Muk” di CAP). La Superclub Mix di “Pegasus” difatti sposta il baricentro verso costrutti più intrisi di (hard)groovismo post millsiano, arricchito da una vena italo/europea. È uno dei primi brani con cui si inizia a parlare di supertechno, un nuovo filone che BXR, quell’anno premiata dalla rivista tedesca Raveline e corteggiatissima al Midem di Cannes e al Winter Music Conference di Miami, annuncia di seguire per scrollarsi di dosso il passato e restare fedele allo storico payoff della casa madre, “the sound of the future”. In copertina finisce l’elaborazione grafica di una foto scattata nei corridoi della Media Records da cui spicca il pittogramma asiatico giallo che Picotto si “tatua” all’altezza della tempia sinistra sin dall’autunno del ’98 e che diventa una vitale caratteristica della sua immagine pubblica nonché tag identificativa sulle copertine dei dischi. 

Mario Più - Techno Harmony
“Techno Harmony” conferma l’exploit internazionale di Mario Più

Analogamente a Massimo Cominotto, anche Joy Kitikonti approda su BXR dopo aver inciso svariati brani, pure sotto pseudonimi, su altre etichette del gruppo bortolottiano (Underground, GFB, Audio Esperanto). Il debutto sulla label, privo di botto ma solo posticipato di un anno circa, avviene attraverso “Agrimonyzer” in cui il DJ toscano fa sfoggio di numerose linee tambureggianti, retaggio delle esperienze giovanili come batterista. In particolare in una delle quattro versioni, la Hacker’s Mix, campiona il suono emesso dagli ormai obsoleti modem analogici a 56k, quella specie di telefonata non vocale che permetteva di entrare in Rete, un mondo che in quel momento inizia la corsa alla popolarizzazione su larga scala. Reduce dallo strepitoso successo oltremanica ottenuto con “Communication”, Mario Più appronta un follow-up mirato ad espandere la propria fanbase oltre i confini nazionali. In primavera è quindi la volta di “Techno Harmony”, una traccia nata in seno al fermento eurotrance che diventa canzone col titolo “My Love” grazie all’apporto vocale di Maurizio Agosti meglio noto come Principe Maurice, celebre performer del Cocoricò di Riccione. Come da copione, secondo una procedura in uso sin dai primi anni Novanta, la Media Records appronta un alto numero di versioni incise su vari 12″ e sul CD singolo. Gli sforzi vengono premiati, il brano vola alto nelle classifiche internazionali e conquista numerose licenze in primis nei Paesi chiave per la discografia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Mauro Picotto - Komodo
Con “Komodo” Mauro Picotto chiude la trilogia dei rettili e tocca l’apice della popolarità

Non da meno è certamente Mauro Picotto con “Komodo”, con cui chiude la trilogia rettiliana iniziata (non intenzionalmente) nel ’98. Annunciato come “Komodo Dragon” e col featuring dei Deep Forest che sarebbe stato legittimato da un campionamento della loro “Sweet Lullaby”, il pezzo, descritto dalla stampa come una specie di medley tra trance e world music, viene poi commercializzato più semplicemente come “Komodo” e trainato da un videoclip ancora diretto da Oliver Sommer in cui Picotto veste i panni di un investigatore che indaga su una serie di morti sospette. Il testo scritto ex novo sulla melodia di “Sweet Lullaby” diventa “Save A Soul” usato come sottotitolo. Sul 7″ allegato al doppio mix che la BXR pubblica in primavera inoltrata figura “Come Together”, brano downtempo (praticamente un mix tra “Save A Soul” e “Komodo”) che riflette un lato inedito di Picotto legato alla musica lounge e chillout. È il momento in cui l’artista piemontese tocca l’apice commerciale della carriera, finendo nelle lineup di eventi dalla risonanza internazionale come MayDay, Love Parade, Time Warp, Gatecrasher, Atlantis ed Homelands, in club come il Twilo di New York, nella Top 100 DJs di DJ Mag (al 27esimo posto) e sul palco di Top Of The Pops dove non mima azioni su una consolle spenta, così come solitamente è costretto a fare chi viene dal mondo delle discoteche per sottostare agli stringati tempi televisivi. Senza ovviamente tralasciare la sfilza di remix già approntati per artisti del calibro di System F e Blank & Jones a cui ne seguono molti altri di cui si parla più avanti. In Germania è un vero trionfo dove “Komodo” vende circa 300.000 copie. Davvero tante le versioni sfornate negli studi in Via Martiri Della Libertà come quella di Megamind, nome che Picotto usa prima con ruolo di remixer e poi come artista a partire da “Listen To Me” dell’autunno ’98, e quella di Saccoman. Quest’ultimo riappare con “Metamorph”, ennesima escursione nella trance di matrice tedesca ma variata, nella Part One Mix, in qualcosa di diverso e meno prevedibile. È quella che alla Media Records chiamano supertechno, «un’ulteriore evoluzione della tech-house classica ma rivista nello stile BXR» dirà in merito Mauro Picotto qualche tempo dopo. All’esordio su BXR c’è anche Franchino, vocalist popolarissimo in Toscana in locali come Imperiale ed Insomnia. Anche per lui, come per Cominotto e Kitikonti, dopo un paio di anni di training su Underground e GFB, si aprono le porte marchiate dalla X rossa e ciò avviene con “Calor”, traccia senza troppe pretese costruita su una parte più solare, trainata da un basso in ottava, ed una più scura ma un po’ anonima.

Svariati i pezzi presi in licenza dall’estero: i remix di “Schall” – inclusi quelli di Pascal F.E.O.S. e Thomas P. Heckmann – di Elektrochemie LK alias Thomas Schumacher (nel ’98 già approdato su GFB con “When I Rock”, su segnalazione di Picotto), “Communication Part II” di Armin Van Buuren, “Oasis” di Y.O.M.C., cover dell’omonimo dei Paragliders uscito cinque anni prima e diventato uno dei dischi del repertorio BXR più quotati sul mercato collezionistico, “Something About U” di The Act, “Pussylovers” di DJ Balloon (con uno stralcio vocale preso dal film “From Dusk Till Dawn” del ’96), “Digital Dialogue” di Nick Sentience, i remix di “Don’t Laugh” di Winx tra cui uno a firma Mauro Picotto (all’opera anche su “Time To Burn” degli Storm, “See The Light” dei DuMonde e “Running” dei Tyrell Corp.), e quelli di “Science Fiction” di Taucher, un buon successo in Germania sul quale mettono le mani i Cosmic Gate e Mario Più. Proprio quest’ultimo, dopo aver ottenuto un discreto responso oltralpe con “Serendipity”, ci riprova come DJ Arabesque e fa centro grazie a “The Vision”, eurotrance a presa rapida che fa letteralmente il giro del mondo macinando decine di licenze ed affermandosi completamente nel 2001. Più contenuti i risultati di “Dolphin” di Gee Moore, il DJ del Bora Bora di Ibiza con cui il team della Media Records inizia a collaborare l’anno prima con “All Fat Boys Dancing” finito su Underground. Fedele alla linea trance è Bismark che con “Make A Dream” europeizza il suo suono e fa breccia nella Kontor Records che lo ripubblica in Germania col remix di Azzido Da Bass. Dopo diversi mesi di programmazione su Italia Network, Maximal si trasforma in una compilation. Il primo volume, affidato a Ricky Le Roy, include tra le altre “Happy” di Cominotto e “Year 2000” di Tony H, rimaste confinate al formato CD.

La supertechno targata BXR continua a propagarsi in autunno con “Species” del citato Cominotto («un “disco da viaggio” privo di ritornelli a guidare l’ascoltatore, crossover tra trance e techno con qualche occhiata alla Detroit anni Novanta» come lo descrive ai tempi l’autore) ed un paio di feroci 12″ di Picotto contenenti quattro tracce tratte dal suo primo album (“Underground / Baguette”, “Bug / Eclectic”) ma non indirizzate al frangente radiofonico. Il follow-up di “Komodo” infatti è “Proximus” in cui trova alloggio un campionamento tratto da “Adiemus” di Karl Jenkins e che gli italiani hanno facoltà di ascoltare in anteprima attraverso un servizio messo a punto da Omnitel che trasforma il telefono cellulare in un juke-box chiamando il numero 2552. Immancabile il videoclip che chiude la serie diretta da Oliver Sommer, iniziata con “Iguana” e proseguita con “Komodo”: come Alberto Beltrame scrive qui il 27 maggio 2020, «al regista viene commissionato il compito di narrare le vicende dell’investigatore Mauro Picotto e della sua sexy antagonista, la misteriosa donna dagli occhi di drago […], un’assassina seriale che (nel video di “Proximus”, nda) sembra essere diventata ancora più potente e sfuggente, ma l’investigatore riuscirà a trovarla alla fine di un inseguimento» (a bordo di una Ferrari, nda). Negli ultimi frame il colpo di scena, la donna si trasforma in iguana e gli occhi di Picotto diventano gli stessi della donna-lucertola. Le numerose versioni aiutano la diffusione del brano sul fronte estero, quello a cui BXR ormai sembra ambire in modo deciso e non a caso il 20 dicembre Picotto raccoglie diversi premi ai German Dance Awards tenutisi ad Amburgo.

Mario Più - Sfyflex
Dopo circa cento pubblicazioni, la BXR abbandona il payoff Noise Maker

Nel frattempo i DJ della label bresciana continuano a radunare migliaia di adepti provenienti da diverse regioni d’Italia ogni sabato notte. Un autentico nomadismo che si alimenta anche grazie a nastri doppiati a profusione sui quali si rinvengono tanti dei pezzi che vengono testati con diversi mesi d’anticipo rispetto alle date di uscita ufficiali. È il caso di Mario Più con “Sfyflex”, finito sul lato b dei remix di “Techno Harmony” (con cui BXR perde definitivamente il payoff Noise Maker, diventato il nome di un’altra etichetta della Media Records curata artisticamente da Gigi D’Agostino), e di “Matrix”, pubblicato insieme a “Morpheus” in cui riaffiorano elementi di “Tryouts For The Human Race” degli Sparks, prodotta da Giorgio Moroder nel 1979, gli stessi riportati in superficie da Trisco nella sua “Musak”. Proprio “Matrix” è dedicata all’omonimo club, prima ospitato presso il fiorentino Central Park e poi al Ritmodromo di Coccaglio, dove Mario Più e i colleghi del gruppo Metempsicosi si trasferiscono nell’autunno 2000 dopo la fine del sodalizio con l’Insomnia di Ponsacco. Negli ultimi mesi dell’anno escono in rapida sequenza “All The Way” di Ricky Le Roy, trainato da una base in stile “Kernkraft 400 (Remix) di Zombie Nation o “The Greatest DJ” di Lexy & K-Paul, “Ogni Pensiero / È Controllo” di Franchino, al lavoro su una serie di interpolazioni prese dal film “Matrix”, “Just A Moment” di Bismark e “Global Players (My Name Is Techno)” di Mr. X & Mr. Y (WestBam ed Afrika Islam), preso in licenza dalla berlinese Low Spirit ed impreziosito dal remix di Beroshima. A questi si aggiungono “Weltklang” firmato da una new entry proveniente dalla filiale tedesca della BXR capeggiata da Robin Ewald ovvero Marco Zaffarano, consolidato nome che vanta produzioni su Harthouse e due album sull’indimenticata MFS, e “Tenshi” dei Gouryella, che non riesce però a raccogliere gli stessi risultati ottenuti all’estero.

Il 2001 vede proseguire la marcia trionfale di Mauro Picotto, nuovamente sotto i riflettori con un altro estratto dall’album, “Like This Like That”, melodicamente derivato da “Blue Fear” di Armin del 1997. Il DJ originario di Cavour, un piccolo paesino in provincia di Torino, conquista per l’ennesima volta le classifiche di vendita d’oltralpe con licenze sparse in tutto il mondo. Il videoclip, trasmesso massivamente da VIVA, contribuisce alla popolarizzazione della sua immagine. A dirigerlo è ancora Oliver Sommer che, come scrive Alberto Beltrame nel già citato articolo del 2020, «si basa sul parallelismo per opposizione di due mondi in un bellissimo gioco sul bianco e nero. Gli unici elementi che possono far ricordare la video-serie (“Iguana”, “Komodo”, “Proximus”, nda) sono l’intro e l’outro alla James Bond, potenzialmente leggibili come un vago richiamo all’investigatore Picotto ed alle sue avventure». È un momento propizio anche per Mario Più che torna con l’album “Vision”, una raccolta dei suoi maggiori successi con qualche anticipazione su ciò che avverrà nei mesi a venire come “Love Game”, ancora interpretato da Principe Maurice. Ispirato da “Back To Earth” di Yves Deruyter è Saccoman che riappare con “The Recall” seguito da Franchino e la sua “Magia Technologika” in cui rivivono fraseggi quasi mediterranean progressive. “Spring Time (Let Yourself Go)” è il follow-up di Lava che il compianto Tillmann Uhrmacher produce ancora con Picotto e il fido Riccardo Ferri. Dall’estero arrivano l’irlandese Darren Flynn, il britannico Simon Foy e l’elvetico DJ Pure, rispettivamente con “Spirit Of Sp@ce”, “Insideout” e “My Definition”, tutti in stile trance.

Joy Kitikonti - Joyenergizer
“Joyenergizer” porta il nome di Joy Kitikonti all’attenzione del grande pubblico

Su “My Definition” mette le grinfie, come remixer, Joy Kitikonti che si ripresenta con “Joyenergizer”, una traccia sviluppata, come lui stesso racconta qui, «partendo da una kick ottenuta col sintetizzatore Access Virus A, poi lavorata con LFO e processata attraverso vari plugin durante la costruzione su Logic». La Psico Mix travolge e stravolge con un’effettistica strisciante e liquefatta, particolarmente efficace nei break. Senza ombra di dubbio è la matrice del suono a fare la differenza e a giocare sull’unicità. Diversamente dalle sue precedenti produzioni, questa entra in classifica di vendita e ciò impone la realizzazione di un videoclip girato ad Ibiza.

Mentre Kitikonti dà alle stampe un pezzo capace di abbracciare un pubblico più eterogeneo e trasversale, Picotto (che ritocca “Joyenergizer” in un remix madido di sudore) prende qualche distanza dal mondo delle hit a presa rapida orientate alle radio e al pubblico generalista convogliando nel “Metamorphose EP” cinque tracce incise su un doppio mix pensate e destinate ai soli club. Allineati all’hardgroove che vive un momento particolarmente galvanizzante, i pezzi del piemontese mescolano tribalismi demolitori di scuola millsiana (“Prendi & Scappa”, “Wake Up”) a svirgolate di techno frammista ad affilate linee di sintetizzatore sullo stile dello sloveno Umek (“Verdi”, “Kebab”) passando per un intro ambientale beatless (“Luna“). 

Picotto - Metamorphose Awesome
Con “Metamorphose EP” e “Awesome!!!” Mauro Picotto inizia a prendere le distanze dal collaudato schema delle sue hit più popolari

«Ora preferisco fare dischi con più sound e meno melodia» dichiara l’artista pochi mesi prima dell’uscita dell’EP in un’intervista di Riccardo Sada pubblicata a febbraio. «So che così facendo perderò una buona fetta di mercato, magari quello italiano, ma probabilmente potrò conquistarne tanti altri. In Germania il vento soffia a mio favore così come nel Regno Unito e ad Ibiza che è una cosa a sé rispetto alla Spagna». Picotto ormai è nel gotha del DJing mondiale, vede riconfermare la propria presenza nella Top 100 DJs del magazine britannico DJ Mag in ottava piazza (posizione più alta in assoluto sinora conquistata da un italiano) e fa da apripista a colleghi che militano con lui tra le fila della BXR ossia Mario Più (54esimo) e Gigi D’Agostino (98esimo). Poi è la volta di Cominotto con “Trouble”, «una produzione in cui credo molto dopo aver visto gli effetti in locali tipo Cocoricò, Red Zone, Alter Ego e Supalova» come afferma lo stesso autore che aggiunge: «all’interno c’è una versione sfacciatamente tech-house, neologismo che tra le ilarità generali uso da qualche anno e che casualmente oggi rappresenta il crossover più seguito, non certamente per merito mio ma in questa porca Italia sono stato tra i primi a crederci». Seguono Ricky Le Roy con “Dancer” e Bismark con “Triplet”, entrambi con lo shuffle applicato alla batteria in memoria di un successo tedesco di qualche tempo prima, “The Darkside” di Hypetraxx. Accolti su BXR, dopo un “praticantato” su Underground, sono Sandro Vibot con “Everyday”, Zicky (ormai non più “Il Giullare”) con “Follow Me” e Fabio MC con “Mimic”. Lasciandosi alle spalle la comparsata del ’99 sulla effimera BXR Club, riappare pure Gabry Fasano: il “cacciabombardiere” del Jaiss, così come lo chiamano affettuosamente i fan, firma una doppia a side racchiusa in una cornice sonora dai tratti impetuosi e che trasuda energia, “Catapulta”, con un frammento ritmico carpito da un EP di Christian Fischer su Statik Entertainment del ’99 opportunamente velocizzato, e “Ringmo”, che si avvicina alla scuola di Chris Liebing. Attratti dalle manipolazioni del beat sono pure Mario Più, che in “Ayers Rock” inserisce il suono di un didgeridoo, ed Athos Botti, semplicemente noto come Athos, con l’incalzante “Infect”.

In autunno tornano l’ibizenco Gee Moore col percussivo “G-Tribe”, Bismark con “Primitive Love” e Saccoman con “Revelation” mentre Mario Più e Fabio MC (che su Underground danno avvio al progetto TK 401) firmano “Invaders / Away”. In solitaria invece Mario Più realizza “Sensation”, altro estratto dall’album “Vision” in chiave smaccatamente trance. Menzione a parte merita il secondo doppio mix dato alle stampe da Mauro Picotto, “Awesome!!!”, naturale prosieguo al “Metamorphose EP” di pochi mesi prima. Appare sempre più evidente come al DJ inizi a stare stretto il ruolo da coordinatore dell’etichetta e che soprattutto sia stanco di confezionare follow-up standard per accontentare le richieste del mercato discografico più mainstream. Non è certamente un caso che nessuna delle sei tracce incluse (tra cui “Cyberfood”, “Hong Kong” e “Bangkok”) attinga elementi dalle sue hit nazionalpopolari. A cambiare, oltre ai suoni, sono le stesure e soprattutto il mood. «Avevo saturato il mio gusto commerciale ed avvertii la necessità di compensarlo con qualcosa di più club» dirà lui stesso qualche mese più tardi. Picotto cerca nuove strade per rivoluzionare la sua carriera e le trova. Il cambiamento radicale arriverà alla fine del 2002.

“Gula-Matari” è l’ennesimo dei dischi con cui Cominotto traduce il suo spirito eclettico da DJ

2002, i primi scricchiolii
Massimo Cominotto è tra i DJ della scuderia BXR a saper resistere al richiamo della popolarità generalista. «Ci fu una corsa a chi faceva canzonette orecchiabili ma io non ne sono stato capace oppure, più semplicemente, non mi interessava comporle» dichiara in questa intervista del 2020. Alla sua fermezza da DJ si somma quindi la coerenza stilistica delle produzioni discografiche a cui ora si aggiunge “Gula-Matari”. Da un lato la Techno Mix che arde in loop circolari, dall’altro la Funky Mix che sovverte il rodato schema sonoro dell’etichetta bresciana con patchwork di micro sample fusion (presi da “Gula Matari” di Quincy Jones) inchiodati su un sostenuto pianale ritmico. «Vorrei vedere la faccia dei technofili mentre ascoltano fiati, chitarre wah wah e voci femminili» ironizza l’autore ai tempi dell’uscita. Più canonico invece il carattere che Ricky Le Roy infonde in “One Day”, tra suoni cristallini in cascata e aggressività hardgroove, la stessa che qualifica pure il “Percutor EP” di Fabio MC trainato dal pezzo “Klaude”. Ascritto al comparto techno groovy è anche Marco Zaffarano con “Re-Take” che sul lato b vede il remix di “Playback” a firma Picotto con inserti latini in scia a vari successi internazionali di quel periodo realizzati da artisti come Tomaz vs. Filterheadz, Cristian Varela o Renato Cohen. Fedelmente ancorato alla trance resta invece Bismark con la sua “E.R.K.”, ed è trance anche quella di “Like A Dream” del tedesco Andy Jay Powell, arricchita da un remix degli RMB (proprio quelli di “Universe Of Love” di cui parliamo dettagliatamente qui), e di “Believe Me”, quinto brano che Mario Più firma come DJ Arabesque. Retrogusto inaspettatamente house/disco invece per Franchino che ritorna con “Ficha No Caixa”, una specie di french touch velocizzato ai confini con apparati technoidi, segno della fusione tra mondi musicali che avviene nei primi anni Duemila quando la distanza tra house e techno diventa sempre più labile o si azzera del tutto.

Dopo diverse esperienze consumate su Underground, sbarca su BXR come artista anche Riccardo Ferri alias Ricky Effe, collaboratore di vecchia data di Media Records e fedele spalla di Mauro Picotto. Le due tracce solcate sul 12″, “Rectifier” e “Trythis”, occhieggiano all’hardgroove teutonica, la medesima con cui Picotto sta progressivamente sostituendo la formula techno trance, oggetto di un’evidente inflazione, ma non prima di lanciare i remix 2002 di “Pulsar” (tra cui uno a firma Tiësto ma stranamente ora escluso dalla pubblicazione italiana) e soprattutto “Back To Cali”, riverberato da un remix dell’infaticabile Push, tra gli artisti chiave della Bonzai. Col follow-up “Joydontstop”, costruito sul giro portante della citata “Schall” di Elektrochemie LK e per cui viene approntato un videoclip, Joy Kitikonti prova a bissare il successo di “Joyenergizer” ma raccogliendo solo parzialmente i risultati attesi mentre Athos campiona le voci da una puntata della serie televisiva “South Park” per “Oh My God!!!” che si afferma nel circuito dei club. Saccoman ritorna con “Deep In The Woods”, Zicky con “Yeah Man Bomboclat”, Fabio MC con “Prisma EP” e Bismark con “Fluid” ma qualcosa nel BXR Sound comincia a mutare. Se da un lato la costante vocazione all’europeizzazione (quell’anno la Media Records inaugura le filiali iberiche e scandinave) rende i prodotti appetibili sul fronte internazionale, dall’altro tende ad allinearli troppo ad uno standard che gioca a svantaggio dell’identità. Alcune nuove uscite, come “Into The Blue” di Saccoman o “Kiss Me” di Ricky Le Roy ad esempio, non lasciano il segno, tuttavia la spinta ottenuta nelle annate precedenti è talmente forte da non incrinare del tutto gli equilibri. Nella Top 100 DJs di DJ Mag infatti Picotto è 14esimo, Mario Più 82esimo e Joy Kitikonti 91esimo.

Mentre il tenace Cominotto continua ad incidere ciò che più gli aggrada (“Iron Butterfly”) senza preoccuparsi di trovare il modo per penetrare nelle classifiche di vendita, Bismark produce a quattro mani “The Theme Of Sphere” con lo svizzero Philippe Rochard. Alla brigata si aggiunge poi Angelo Pandolfi che come Pan Project firma “L’Amour Pour La Musique” ed “NRG”, due brani influenzati dallo stile di Gigi D’Agostino che però dividono poco e niente con la linea intrapresa dalla BXR, e a dirla tutta anche la resurrezione di “U Got 2 Know” dei Cappella, attraverso i remix di R.A.F. e Joy Kitikonti, non pare proprio una mossa azzeccata. Decisamente più pertinenti risultano “Capsule / Random” di Trasponder, secondo (ed ultimo) atto del progetto messo su l’anno prima da Gabry Fasano e Riccardo Ferri su Underground, “Flair / Return Of Memory” di Fabio MC (“Return Of Memory”, in particolare, è una piroetta nel suono belga della Bonzai, con rimandi a “Synthetic Apocalypse” dei Musix) e “96 Street” di Sandro Vibot. Una deviazione hard house, sullo stile di Sharp Boys, Tony De Vit, Malcolm Duffy ed Alan Thompson, viene presa grazie a Pagano, fattosi notare con alcune pubblicazioni sulla Fragile Records (etichetta del gruppo Arsenic Sound di Paolino Nobile intervistato qui) quell’anno nominato A&R della Nukleuz Italy: prima con “Work It”, realizzata con Marco ‘Maico’ Piraccini, e poi con “(You Better Not) Return To Me” (ripescando frammenti vocali di “Return To Me” di Fits Of Gloom, Baia Degli Angeli, 1994), il DJ nativo di Catania tenta di aprire nuovi spiragli nel mercato estero, in primis quello britannico dove il filone hard house vive uno spiccato fermento.

Above & Beyond - Far From In Love
“Far From In Love” di Above & Beyond, tra i primi 12″ attraverso cui filtra la nuova veste grafica della BXR

In autunno arrivano due licenze, “Ligaya” di Gouryella, nel frattempo diventato progetto solista di Ferry Corsten, e “Far From In Love” del trio Above & Beyond, oggetto di forti interessi nell’Europa centrale ma praticamente ignorati da noi. Sono tra i primi dischi con cui BXR rinnova ancora il layout grafico, minimalizzato e spinto verso il bicromatismo bianco/nero già adoperato da qualche anno per Underground e Sacrifice. La notizia che chiude il 2002 intristendo migliaia di fan è quella dell’abbandono di Mauro Picotto che lascia l’etichetta di Bortolotti dopo undici anni. «La Media Records è stato il mio primo sogno realizzato con successo» dichiara nell’intervista rilasciata allo scrivente pubblicata a dicembre, la prima in cui annuncia pubblicamente la decisione. «La scelta di lasciare è legata agli impegni e soprattutto ai miei sogni, e lo dico in modo chiaro perché vorrei che non venisse fuori nessuna storia strampalata o riportata in modo traviato. L’ultimo anno mi ha visto parecchio impegnato in giro per il mondo come DJ e questo mi ha portato, inevitabilmente, a trascurare gli studi di registrazione. Perché quindi continuare ad essere responsabile di un prodotto se non posso più controllarne la qualità? Così ho maturato la decisione di lasciare e per me è stata una cosa naturale, ho bisogno di obiettivi e stimoli nuovi. Per quanto riguarda le produzioni, continuerò a seguire il mio istinto, come ho sempre fatto. Farò quello che mi pare a seconda del mio umore e soprattutto senza vincoli, perché vorrei decidere in autonomia la data di pubblicazione di un nuovo brano. “Back To Cali”, ad esempio, è uscito ad un anno dalla sua produzione, quando ormai non era più in linea con ciò che proponevo nei miei set da DJ. Insomma, vorrei condividere le cose col mio pubblico nel momento in cui emozionano anche me e non vederle bloccate dalle leggi di mercato delle varie aziende». Per l’occasione Picotto spiega anche le ragioni che lo allontanano dalla trance da classifica e lo fanno uscire dalla comfort zone: «Mi sembra che nella trance non ci siano grandi novità e non ho più voglia di produrre brani in stile “Lizard”. Preferisco piuttosto rischiare e cercare cose nuove, non amo ripetermi eccessivamente. Talvolta i cambiamenti sono stimolanti e permettono di vedere nuove frontiere. Attenzione però, non sto rinnegando il mio recente passato. Sarò sempre legato a “Lizard”, che ho suonato per la prima volta su un acetato domenica 7 dicembre 1997 all’Ultimo Impero di Airasca e che, a mio avviso, ha aperto le porte ad uno stile musicale e rimarrà una pietra miliare. Il fatto che in Italia non venne presa in considerazione dai network radiofonici è stata la sua fortuna: essendo una club hit, ha visto allungarsi la vita più del doppio rispetto ai classici successi trasmessi in FM». L’occasione è giusta pure per fare dei paragoni con l’estero: «Musicalmente i club europei non hanno nulla a che vedere con la maggior parte di quelli italiani anche perché non vengono influenzati dai network. All’estero inoltre i palinsesti delle emittenti radiofoniche includono programmi tematici che accrescono l’informazione musicale del pubblico ed influiscono positivamente sulle vendite dei dischi. Tante produzioni che sono in classifica da noi invece non vengono minimamente prese in considerazione oltre le Alpi. […]. Il successo di questi anni mi ha portato un ricco bottino di soddisfazioni e sono fiero di essere stato il primo e sinora l’unico italiano ad aver solcato l’ambita soglia della top 10 della classifica annuale di DJ Mag. Non che sia così determinante nella vita di un DJ, sia chiaro, ma una certa visibilità non guasta mai. Adesso inizio a sentirmi appagato delle tante fatiche spese ad inizio carriera quando qualcuno, tra i colleghi, rideva dei miei sogni».

2003, il primo anno post Picotto
Il 2003 consegna una BXR con evidenti differenze rispetto a quella che il grande pubblico ha conosciuto negli anni precedenti, a partire dalla nuova impostazione grafica che minimalizza il logo ora ridotto alla sola X sino alla scuderia artistica che inizia a disgregarsi. Alcune partenze però sono presto rimpiazzate con nuovi arrivi. Attraverso “Trip On The Moon / M.I.R.” ed “Elektronic Atmosphere”, ad esempio, debuttano rispettivamente Paola Peroni, che già collabora con Media Records una decina di anni prima, e il DJ bresciano Giovanni Pasquariello alias Exile. A pochi mesi di distanza dall’esordio riappare Pagano con la doppia a side “Packet Of Peace” (cover dell’omonimo dei Lionrock, portato in Italia esattamente un decennio prima proprio attraverso una delle etichette della Media Records, la GFB) / “Blade“, e viene accolto l’olandese Marco V con “Simulated”, su licenza ID&T. Riconfermate le presenze del capitolino Bismark con “In My Heart” e del livornese Mario Più con “Devotion” contenente “C’era Una Volta Il West”, cover dell’omonimo di Ennio Morricone per cui viene girato un videoclip a Bormio, in montagna, sullo sfondo di un paesaggio innevato.

Mario Più e Joy Kitikonti in una foto del 2003, anno in cui diventano gli A&R della BXR

I prescelti per guidare la BXR post picottiana sono Mario Più e Joy Kitikonti che prima realizzano “Strance” firmata con gli pseudonimi DJ Arabesque e Jakyro e poi producono “Mossaic” del DJ colombiano Moss, approdato su Underground nel 2001 con “Bogotá Experiences”, e “Light My Fire” come Rocktronic Orchestra, cover dell’evergreen dei Doors. Saranno sempre loro due, uniti in parallelo come MariKit, gli artefici di gran parte delle versioni remix apparse durante l’annata su BXR. La linea stilistica predominante di questa fase è divisa tra trance/hard trance ed hardgroove, come attestano la nuova licenza per Marco V (“C:\del*.mp3 / Solarize”), “Freedom” di Ricky Le Roy, “Roraima / Logic Guitar” di Mario Più ed “Harem” di Paola Peroni, che tanto ammicca alla techno latina di cui si è già detto sopra. Il cremonese Eros Ongari alias Ronnie Play appronta “It’s Time To Dance”, una specie di rilettura italica dell’electroclash costruita sul giro di accordi di “Fade To Grey” dei Visage, Fabio MC staziona sul segmento hardgroove con la doppietta “Impact / Zelig” e “Priority / Reality”, Kitikonti prova ancora a sfruttare la scia di “Joyenergizer” con “Pornojoy”, trascinato in tv da un videoclip ispirato dai film erotici degli anni Settanta e per questo censurato a causa di contenuti considerati troppo espliciti, e Gee Moore si rifà vivo con “Slam Dunk Funk”. Sul fronte licenze tocca all’argentino DJ Dero (quello di “Batucada” e “La Campana”) con “Revolution 07”, scovato da Kitikonti e con remix annesso di Robbie Rivera, e ai tedeschi Tube-Tech con un’altra cover dei Doors di Jim Morrison, “The End”, arricchita dal remix dei Vanguard reduci dal successo ottenuto poco tempo prima col remake di “Flash” dei Queen.

Della BXR «che guardava avanti e che prende spunto dai DJ che suonavano musica diversa lasciando spazio alla creatività, senza supervisioni dei capi», come la descrive Bismark in un’intervista pubblicata a gennaio 2003, resta ormai ben poco. In autunno arrivano gli Spolvet (Andrea Vettori e Niccolò Spolveri) con “Rock The Sun”, in posizione mediana tra hardgroove ed hard trance, Joman (una delle tante impersonificazioni di Joy Kitikonti) con “Tronic Toys”, Zicky con “The Party Goes On” e i Kiper (Joy Ki-tikonti e Paola Per-oni) con “The Land Of Freedom”. A chiudere è “Incanto Per Ginevra” di Mario Più, dedicata alla nascita della figlia Ginevra immortalata in copertina. Nel frattempo Picotto e l’inseparabile Riccardo Ferri approdano alla britannica Primate Recordings con “Alchemist EP” trainato da “New Time New Place”: il doppio mix vende oltre dodicimila copie ma non genera introiti economici a causa del fallimento del distributore, la Prime Distribution. Picotto però non demorde e vara la sua personale etichetta, la Alchemy, inaugurandola con “Playing Footsie / Amazing” e sulla quale ospiterà alcuni artisti che lo seguono dopo l’abbandono della BXR ossia Massimo Cominotto, Gabry Fasano e il prematuramente scomparso Athos.

2004-2005-2006, gli ultimi anni di attività
L’inizio del nuovo millennio è nefasto per la discografia mondiale. Innumerevoli etichette indipendenti chiudono battenti sopraffatte dalla pirateria e dalla crisi che sembra non conoscere fine. L’atteso salto nel futuro che avrebbe garantito il 2000 in realtà riserva solo strade in salita e prospettive tutt’altro che rosee: le soglie di vendita di pochi anni prima («numeri notevoli sia in Italia che all’estero, che partivano da ventimila copie o giù di lì per nomi tipo Picotto, Più o Kitikonti» rammenta ancora Daniele Tramontano della Global Net in relazione a BXR) si assottigliano sensibilmente, la maggior parte dei distributori fallisce e l’invasione di nuovi equipment digitali sferra il colpo di grazia al mercato del disco in vinile, ridotto ormai ad una nicchia di utenza sempre più esigua. A tutto ciò si aggiunge l’introduzione dell’euro, un cambiamento epocale che mette a dura prova il potere di acquisto di chi, in Italia, continua a credere nel supporto analogico. La Media Records non esce indenne da questa “tempesta”, nonostante fosse preparata ed avvezza da anni alle nuove forme di fruizione della musica, e l’allontanamento di Gianfranco Bortolotti, ormai impegnato come architetto, e l’attività ridimensionata della BXR e di tutte le etichette del gruppo ne sono palesi testimonianze.

Mario Più - Champ Elisées
Con “Champ Elisées” Mario Più tenta di tornare al grande successo

Il senso di confusione e smarrimento sul versante stilistico non aiuta di certo gli A&R della label, disorientati come tanti di fronte a repentini mutamenti che vedono crollare tutte le vecchie certezze. «I DJ che suonano house si sono appropriati di sonorità techno, progressive ed elettroniche» dichiara Mario Più in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile 2004. Ed aggiunge: «C’è stato un notevole avvicinamento dei generi. Io stesso adesso posso esibirmi in locali house perché propongo un suono meno “duro”». Proprio Mario Più incide prima l’anonimo “Green Day EP” e poi “Champ Elisées” in compagnia di Gare Mat K, con cui prova a rilanciarsi nel mainstream abbracciando il mondo electro house che pare la tendenza più importante del momento. Il brano, immerso in atmosfere piuttosto malinconiche ed annunciato come primo singolo del nuovo album “From Dusk Till Dawn” rimasto nel cassetto sino al 2015, è interpretato vocalmente da una certa Catalina B. ed è imperniato su un giro di chitarra che fa il verso a quello di “A Forest” dei Cure. Exile ritorna con “Tragic Error…”, in balia di una techno frammista ad elementi elettronici, Ronnie Play ci riprova con “Walking On The Sunshine”, electro house un filo maldestra e grossolana con qualche propaggine rockeggiante, mentre Franchino (con la K nel nome al posto della ch) si ripresenta con “Solidão”, trance dai riflessi mediterranei forse composta pensando ai bei tempi che furono.

Spazio anche al team dei Trilogy con “Navaho”, che a seconda della versione imbocca sentieri progressive house ed electro house, e ad un paio di licenze estere, “White Scale” dei Subnerve (uscito originariamente nel 1996) e “One Way Out” di Niels Van Gogh col remix di Martin Eyerer che da lì a breve fonda la Kling Klong. A mitigare il proprio apparato stilistico è persino un integralista della techno, Fabio MC, in “Tridonic / Meteor-A”, composte ancora con Simone Pancani. I fasti della BXR ormai sono lontani. A rammentarli è “Iguana” di Mauro Picotto che riappare attraverso due versioni, A Different Starting Mix e il remix del giapponese Yoji Biomehanika che precipita in pozzi hardstyle. Nel corso dell’anno anche Mario Più lascia la Media Records per fondare la sua etichetta, la Fahrenheit Music, nonostante dichiari, in un’intervista pubblicata ad aprile, di non avere alcuna intenzione di mettersi in proprio: «Non andrei molto lontano, specialmente in questo periodo, e non avrei ragione di farlo perché in Media Records mi trovo benissimo, da una struttura così solida e consolidata ho tutto il supporto che mi serve». Per BXR il destino è ormai segnato. Ad inizio 2005 esce “Pulsar 2K5” di Mauro Picotto, ennesimo tentativo di tenere a galla un transatlantico che si sta inesorabilmente inabissando. In copertina si fa riferimento a due “unreleased mix” mai pubblicati in Italia ma che i fan conoscono bene, la Megavoices Mix e il remix di Tiësto. A tirare il sipario è Joy Kitikonti, prima insieme a Cristian Vecchio per il “Finally EP” e poi con Joys Audino per “Started”, nel segno dell’electro house.

BXR last logo
Il logo, il quinto, con cui la BXR riappare nel 2017

2017, un’effimera ripartenza
Tra le etichette che Gianfranco Bortolotti prova a lanciare e rilanciare a partire dal 2015 col gruppo Media Records EVO, oltre ad Underground, UMM ed Heartbeat, c’è anche la BXR, affidata all’A&R Philipp Kieser e marchiata con un nuovo logo. L’idea prende corpo ad inizio del 2016 ma bisogna attendere febbraio dell’anno successivo per vederla concretizzata attraverso la pubblicazione del “No Mercy EP” di 6470 alias Davide Piras. Il 12″ raduna quattro brani (“Our Cognitive Dissonance”, “No Mercy”, “Introspection”, “September 10”) affini alla techno ormai definitivamente sdoganata nel mainstream e richiesta nei circuiti EDM. A giugno segue, questa volta solo in formato digitale, “Mapping A Messiah EP” del bulgaro Ghost303 alias Ivan Shopov, ulteriore tentativo di salire sul treno in corsa di quella techno di cantiere drumcodiano adorata da folle oceaniche ma vacua sotto il profilo delle sollecitazioni creative. Si parla di una possibile terza uscita che avrebbe contato sulle jam session registrate in studio da Kieser, Piras e Shopov, ma il progetto non va in porto. L’altoatesino Kieser, in un comunicato stampa diramato a febbraio 2016, dichiara che il suo intento non è quello di limitarsi ad una strategia copia-incolla: «Ci lanceremo sulla scena con un sound autentico e totalmente all’avanguardia. Punteremo anche su facce nuove e nuovi talenti». Bortolotti aggiunge: «Nuovo A&R, nuovo vestito, nuova strategia, nuovo sound. BXR, come un caccia in ricognizione, sarà affiancata da due label, una alla sua sinistra, la Underground, l’altra alla sua destra, la Divergent, e come per UMM, sarà ricerca e stile orientati verso i clubgoer. Sarà dark, essenziale e culturalmente evocativa. Sara la mia anima. Essere, non esserci, è il suo destino».

Claxixx
Insieme a BXR si ripresenta anche Claxixx, questa volta come etichetta e non serie

Dell’annunciata futuretechno però, che avrebbe dovuto raccogliere il testimone della mediterranean progressive e della supertechno, non resta niente se non un’idea dall’esito caduco. Contestualmente alla temporanea riapparizione di BXR si segnala pure la nascita, a settembre del 2017, della Claxixx, contenitore che utilizza il medesimo nome di una delle serie della BXR con la finalità di rilanciare nuove versioni di classici tratti dal catalogo della Media Records, analogamente a quanto avviene su EDMedia. Alla fine il progetto si arena sul nascere col remix di “Tuareg” di Ricky Le Roy realizzato dal greco George V a cui fa seguito un inedito di Nicola Maddaloni intitolato “L-R”.

Rimasta operativa per circa dodici anni, la BXR lascia un’eredità importante, sia sotto il profilo manageriale per metodo di lavoro, creatività e capacità progettuale, sia sotto quello strettamente musicale raccolta da tantissimi fan sparsi per il mondo. L’alta tiratura e l’ampia disponibilità, fatta qualche eccezione, non la ha (ancora) trasformata in una label appetibile sul fronte ristampe ma senza ombra di dubbio rimane un ottimo esempio che attesta come la visione d’insieme, l’affiatamento e lo spirito di squadra possano fare la differenza in un Paese come l’Italia in cui la cooperazione, specialmente nel contesto musicale, è ancora una meta utopica.

(Giosuè Impellizzeri)

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Negozi di dischi del passato: Newstyle a Lecce

sticker su copertina
Vecchi dischi della collezione di Paolo, affezionato cliente di Newstyle. In alto si intravedono un 12″ della UMM, “Bla Bla Bla” di Gigi D’Agostino ed un 12″ della W/BXR, sotto invece “I Wanna Mmm…” di The Lawyer e “Shine On Me” di Gayà con lo sticker del negozio

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia di Newstyle col titolare Vito Forcignanò

Quando apre i battenti il negozio a Lecce, al 4A di Via Braccio Martello? E quali motivi ti spronarono a lavorare nel mondo della musica?
Inaugurammo nel dicembre del 1992. Ripensare al Newstyle anzi, “alla” Newstyle così come dicevano i tantissimi amici salentini utilizzando la declinazione al femminile, non posso fare a meno di raccontare un po’ di me stesso e le ragioni che mi portarono ad aprire quell’attività. Un ruolo da principale protagonista, ça va sans dire, lo ebbe la mia passione per la musica dance nelle varie diramazioni. Fui catturato, nei primi festini tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, dalle sonorità e dall’energia di pezzi come “Born To Be Alive” di Patrick Hernandez, “Don’t Let Me Be Misunderstood” dei Santa Esmeralda ed “Enola Gay” degli O.M.D., solo per citarne alcuni, proseguendo con tutta l’italo disco e il synth pop e rimanendo letteralmente folgorato dai Depeche Mode. Poi i primi balli in discoteca durante l’house music revolution con Joe Smooth, Todd Terry, Frankie Knuckles, Kraze…ed ancora l’italo house, l’hi NRG italiana e la prima techno. Durante l’adolescenza dedicavo tantissimo tempo ad ascoltare e registrare (su musicassetta ovviamente) programmi radiofonici. Seppur sia salentino d’adozione, sono nato e vissuto a Milano sino al 1990 quindi le emittenti lombarde, e più in generale del Nord Italia, ebbero un grande ascendente su di me. Fondamentale fu Radio DeeJay e in particolare il programma DeeJay Time dal quale ho attinto, sin dal 1986, parecchie novità in uscita, senza dimenticare tante altre stazioni storiche come Radio Milano International col compianto DJ Leopardo, predecessore ed ispiratore di Albertino, RTL 102.5 con le dirette del sabato sera, Italia Network ed altre radio locali sconosciute al sud e probabilmente estinte. La mia prima consolle domestica era composta da due giradischi Technics SL-BD22 (a cinghia e con pitch a rotellina) ed un mixer Davoli da 19″. I primi dischi invece li ho acquistati nel 1989, all’età di diciannove anni. Tra quelli figuravano “Just Keep Rockin'” di Double Trouble & Rebel MC, “Relax Your Body” di D.F.X., “Get Busy” di Mr. Lee, l’album “Pump Up The Jam” dei Technotronic ed “Hysteria” di Amnesia. Era il periodo in cui esplose l’hip house e la new beat finiva la sua corsa. Molti di quei dischi li comprai da Wimpy Music, noto negozio in Viale Monza, a Milano, a pochi passi dall’attività di ristorazione dei miei genitori. Dopo aver conseguito il diploma, nel 1990 mi trasferii a Lecce e mi iscrissi all’Università ripercorrendo quasi in senso inverso il cammino da immigrato che mio padre Rosario, originario di San Cesario di Lecce, fece negli anni Sessanta trasferendosi al nord. Nel “periodo sabbatico” post diploma, tra la fine del ’90 e i primi del ’91, frequentai parecchi party casalinghi disseminati in provincia, autentico lascito delle festicciole organizzate nei decenni precedenti, prendendo coscienza dello sviluppo che stesse vivendo la figura del DJ. Scoccò così una prima scintilla legata alle potenzialità di mercato di quello che per me come per tanti altri era solo un fantastico hobby. Un garage, un terrazzo, un corner di un ristorante, un canneto di un bar sulla spiaggia: in ogni possibile angolo poteva trovarsi una consolle ed aria di festa e divertimento. A luglio del ’91 partii per il militare rimandando gli studi a servizio di leva conseguito. Da lì a breve l’imprevedibilità della vita però bussò alla porta della mia famiglia, e la prematura scomparsa di mia madre, proprio mentre espletavo il servizio militare, creò un dolore indescrivibile che solo la musica che usciva dal mio walkman fu capace di lenire. Terminata la naja, a luglio 1992, meditai sul mio futuro: incamminarsi per il percorso studentesco o intraprendere un’avventura partendo dall’idea ambiziosa ma rischiosa di aprire un negozio per DJ? Adesso, ai tempi della globalizzazione con internet e multinazionali che hanno cambiato (secondo me in peggio) le regole del mercato del lavoro e della distribuzione e vendita di beni, chiunque sarebbe scoraggiato ad aprire una propria attività, soprattutto di rivendita, ma chi ha una certa età sa bene che la situazione commerciale e distributiva di quegli anni era florida e votata agli acquisti presso piccole realtà individuali e di quartiere. Davvero nulla faceva presagire, neanche lontanamente, che il mondo sarebbe cambiato così tanto nel giro di qualche lustro. Fino ai primi anni Novanta aprire un’attività commerciale propria era qualcosa di ambito ed agognato, e chi aveva idee e capacità economiche per realizzarle poteva ritenersi fortunato. Per questo non posso non ringraziare mio padre per tutto l’aiuto e i sacrifici compiuti affinché il progetto si realizzasse. Uno degli aspetti più complessi fu proprio convincerlo della validità della mia idea, ma per fortuna riuscii a spuntarla. Altrettanto problematico fu trovare l’ubicazione. Al contrario di oggi nel 1992 a Lecce (come presumo nel resto d’Italia) era davvero arduo trovare un vano negozio libero, sia in centro che in periferia. La fortuna volle che in via Braccio Martello, in piena zona Piazza Mazzini, ci fosse un posto sfitto composto da una superficie al pian terreno relativamente piccola, di 25 metri quadri, presumibilmente poco appetibile per le attività dell’epoca. Al piano inferiore però c’erano ben altri 140 metri quadri sfruttabili ad uso commerciale, e ciò mi convinse che quello fosse il posto perfetto. Dopo essermi accordato per l’affitto, inaugurai solo sul piano superiore ma non in pompa magna e senza ricorrere neanche alla pubblicità. Era il 16 dicembre del 1992. Ricordo ancora il primo cliente che varcò la soglia e il primo disco che vendetti, “Don’t You Want Me” di Felix (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda). Aprii il seminterrato al pubblico qualche mese più tardi, precisamente ad aprile del 1993.

Al punto vendita di Lecce viene successivamente affiancato quello di Maglie, in Via Capece. Perché un secondo negozio?
Aprimmo la sede di Maglie a maggio 1995. Fu una scelta conservativa ed espansionistica perché una buona fetta della nostra clientela proveniva anche dal sud Salento e per evitare che la concorrenza ci privasse di una sensibile parte di mercato, decidemmo di impiantare una filiale lì affidandone la gestione a mio fratello Dario. Il negozio fu allestito con non pochi sacrifici, rifacemmo la pavimentazione e i serramenti per avere lo stesso appeal e stile del punto vendita di Lecce, arredamento, loghi ed insegna compresa. Pure l’affitto, essendo in zona centralissima, era equiparabile a quello della sede principale. Lo chiudemmo alla fine di agosto del 2003 ed ebbe un ruolo importantissimo e fondamentale sino a quando è durata la “febbre del vinile”.

Newstyle
Il logo di Newstyle

Perché optasti per il nome Newstyle?
Derivò da una ragione sentimentale e nel contempo tecnica. Quella sentimentale era legata al sample dei Beastie Boys tratto da “It’s The New Style”, utilizzato spesso nelle intro delle musicassette a fine anni Ottanta da tanti DJ e riproposto dai Datura in un pezzo del 1991 che mi piaceva molto, “Nu Style”; quella tecnica era connessa invece al nome neutro: in caso di cambiamento di articoli trattati, avrei continuato ad utilizzare lo stesso marchio senza cambiare intestazione. Certo, DJ World o DJ Zone sarebbero stati più accattivanti ma mi sarei precluso la possibilità di espandermi verso altre tipologie merceologiche come difatti avvenne in seguito. Fu pertanto una scelta cautelativa ma che nel complesso ha portato fortuna e non solo perché new style, per definizione, è anche sinonimo di qualcosa di nuovo, un mezzo differente di approcciarsi al pubblico. È stato, per appeal estetico ed embrione di “brand” se vogliamo, qualcosa che provava a distinguersi dalle realtà commerciali dell’epoca. La busta, l’insegna, l’arredamento, gli adesivi, i colori sociali del giallo e del nero hanno fatto tendenza, e tuttora mi sento chiamare Vito Newstyle da molti ex clienti e non.

Che investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
Non posso specificare con precisione le cifre investite all’epoca ma lo sforzo economico, sommato alle energie spese per aprire il negozio di Maglie, fu veramente notevole. L’intenzione era quella di avere sin da subito un appeal professionale, accattivante e facilmente riconoscibile al pubblico. Come già accennato, non tralasciammo i dettagli estetici per ottenere riconoscibilità ed uniformità nel marchio. Mobilia personalizzata, vetrine, materiale pubblicitario come adesivi per vinile, adesivi per copertine, per flight case, gadget, buste personalizzate, davvero niente fu lasciato al caso. Ogni particolare, dai pomelli gialli delle vetrine nere al controsoffitto in doghe alternate gialle e nere, era studiato per far immergere il cliente in una realtà completamente nuova, appetibile e ben definita.

C’erano altri negozi di dischi come il tuo nella stessa città?
La lacunosa offerta, sia in città che in provincia, rapportata alla crescente richiesta di dischi mix per me fu un forte incentivo ad aprire Newstyle. In tutta la provincia di Lecce non esisteva un negozio completamente dedicato ai disc jockey. Vi erano due o tre negozi di dischi generici che trattavano il settore dei cosiddetti “mix” (giusto una manciata sparsi qua e là) ma senza cognizione di causa, spesso dettati più da arrivi casuali o rilevati dalle classifiche (all’epoca assai influenti) che da scelte ponderate. Talvolta lo stesso venditore tendeva più ad imporre il proprio gusto che assecondare le esigenze del cliente. Totalmente o quasi assenti le strumentazioni e gli accessori relegati solitamente ai negozi di strumenti musicali. Dopo la nostra apertura sorsero altre realtà simili (la virtù insegna che copiare è una forma d’arte!) tra cui un Match Music Store, favorito da tanto supporto pubblicitario a livello nazionale ma a cui, con orgoglio e sacrificio, sono riuscito a resistere. Chiuse pochi anni dopo l’apertura.

disco con adesivo
L’adesivo personalizzato per l’etichetta centrale del disco

Come era organizzato il punto d’ascolto nel negozio di Lecce?
Quello principale contava su un mixer da 19″, due immancabili Technics SL-1210 ed amplificazione Outline Digital 400+400 watt. Al centro della sala, nel piano interrato, vi erano inoltre quattro giradischi Gemini entry level a cinghia completi di amplificatore per cuffia allestiti come punti di ascolto indipendenti.

Che generi musicali trattavate? E quali erano i più richiesti?
A fare da padrone tra i generi più venduti è stato ovviamente il mainstream, quello coi cavalli da battaglia del momento. Le hit “commerciali” erano immancabili e le richieste davvero fortissime. C’erano la novità della settimana, le hit consolidate ma anche svariati outsider che riuscirono a conquistarsi una fetta di mercato. Grandissimo spazio lo aveva pure il revival, perlopiù inciso su dischi multitraccia talvolta privi di licenza ufficiale. Quindi, in linea di massima, si vendeva di tutto, sia italiano che d’importazione, dalla dance più cheesy alla house/underground passando per la techno, l’acid jazz, il downbeat e il revival.

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
La settimana di apertura partimmo con poco meno di trenta dischi ma di giorno in giorno fu un crescendo continuo. Il periodo migliore è stato quello compreso tra 1993 e 1997 in cui vendemmo oltre seicento dischi a settimana, praticamente cento al giorno di media. Da quel momento in poi ci fu un lento calo fisiologico dovuto sia alla concorrenza, sia alla disaffezione verso la pratica del DJing. Dal lunedì al giovedì si vendevano circa cinquanta dischi al giorno, il venerdì ma soprattutto il sabato il negozio diventava una sorta di supermercato e pullulava di persone che facevano man bassa di dischi e si recavano direttamente alla cassa senza neanche ascoltarli, essendo la consolle e i punti d’ascolto costantemente occupati. Chi ha conosciuto Newstyle a fine anni Novanta o addirittura dal 2000 in avanti non ha minimamente idea di ciò che sia stato negli anni d’oro appena descritti, quando circolavano cifre pazzesche.

Vendevate anche per corrispondenza?
No, nessuna spedizione a distanza semplicemente perché ai tempi era una prassi scarsamente usata, soprattutto spedire dal sud verso sud. Si è andata sviluppando perlopiù tramite realtà come Disco Inn e Disco Più spinte da pubblicità sulle riviste specializzate. La tendenza semmai era appunto spedire dal settentrione verso meridione. Tuttavia alcuni DJ acquistavano per corrispondenza reperibilissima musica commerciale causa l’atavica ed errata convinzione che al nord i dischi uscissero un mese prima rispetto al sud. Discorso diverso per promo ed import dove il proprio gusto e le proprie capacità economiche potevano richiedere un impegno non facilmente gestibile. Molti clienti hanno ignorato per anni che i fornitori fossero praticamente gli stessi per tutti i negozi di dischi sparsi in Italia. La differenza, in merito ai promo o alle chicche d’importazione, stava nel rapporto che si creava col negoziante. Vendere l’import (che per noi esercenti voleva dire acquistare materiale senza possibilità di resa al distributore) era assai rischioso, a meno che non si trattasse di hit affermate e consolidate. Ogni disco invenduto rappresentava una perdita mostruosa che per essere ripagata richiedeva la vendita di tre o quattro copie andate a buon fine. Talvolta venivano clienti sporadici che magari passavano una manciata di volte all’anno ma pretendevano ugualmente di trovare tutto il catalogo Azuli piuttosto che quello di Nite Grooves o di Tribal America, giusto per citare qualche etichetta blasonata ai tempi. Non funzionava così e molti non lo hanno mai capito. Un conto era vendere David Morales licenziato su D:vision, sempre disponibile e facilmente rifornibile, un altro era pretendere di trovare un titolo d’importazione magari uscito un mese prima. Coloro che invece costruirono con noi un rapporto fiduciario, fatto di preordini o semplici richieste, hanno sempre avuto la loro copia da parte e difficilmente non ho accontentato qualcuno.

Afrika Bambaataa - Pupunanny
La copertina di “Pupunanny” di Afrika Bambaataa (DFC, 1994), best seller da Newstyle

Quali sono stati i best seller di Newstyle?
Per rispondere a questa domanda faccio appello ad appunti dettagliati, rigorosamente battuti a macchina da scrivere, in cui segnavo i titoli degli arrivi settimanali, quantità di vendite e rimanenze. Tra i best seller alcune delle hit dance ancora in voga come “The Rhythm Of The Night” di Corona o “Children” di Robert Miles (di cui parliamo rispettivamente qui e qui, nda), ma al primo posto, con ben 175 copie vendute, c’è “Pupunanny” di Afrika Bambaataa.

C’erano DJ noti che frequentavano Newstyle? Ad essi erano riservati trattamenti particolari o margini di sconto?
Un passaggio all’interno del mio negozio lo hanno fatto tutti, dagli amatori ai dilettanti, dai DJ delle festicciole ai professionisti più o meno noti della provincia, sia di Lecce ma anche del brindisino e del tarantino. Alcuni erano assidui, altri un po’ meno, ma sempre col massimo della trasparenza e reciproco rispetto. Dopo i successi iniziali dei primissimi mesi di attività vennero a farmi visita alcuni DJ “noti” ma non per fare acquisti. Ascoltarono pochissimi dischi facendomi presente che si rifornissero da altre parti, nel barese o per corrispondenza. Nei venti anni successivi non si sono più fatti rivedere. Probabilmente si trattò di una reazione dettata dall’invidia ma va bene così, non si può piacere a tutti. Ho cercato di assumere un comportamento omogeneo e corretto verso la clientela, che fosse un semplice amatore o un grosso acquirente. Spesso e volentieri, dal semplice rapporto negoziante-cliente, con molti frequentatori si passava al livello successivo di profonda conoscenza se non di amicizia ed era pratica comune, quando il tempo lo permetteva, di concederci una pausa al bar per una consumazione conviviale. Da Newstyle inoltre il costo dei dischi è stato sempre competitivo, per anni sono riuscito a contenere il prezzo del mix italiano nelle 10.000 lire quando da altre parti costava già 11.000 o 12.000. Per la scontistica si faceva quel che si poteva, più che altro si effettuava un po’ di credito, anche troppo direi (risate).

Quale fu la richiesta più stramba, particolare o assurda avanzata da un cliente?
C’era chi credeva che nascondessi qualche “bomba” da parte destinata a presunti DJ più meritevoli, e ripensare a questa cosa adesso mi crea ancora ilarità. Capitava pure di imbattersi in clienti in cerca di versioni ascoltate in radio introvabili su vinile, sicuramente frutto di remix, edit o mash-up. Un tizio invece si lamentò del fatto che, a suo parere, in radio i mix “suonassero” meglio rispetto a quelli del negozio, ignaro che negli studi radiofonici fossero in uso processori del suono per migliorare il segnale ed enfatizzarlo.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente? Seguivi un metodo per filtrare e selezionare la merce da acquistare?
Le novità giungevano quasi quotidianamente, dal lunedì fino al carico last minute del sabato. La lista delle nuove uscite ci perveniva via fax ed adottavo un filtraggio (applicato sia ai mix italiani che stranieri) secondo l’etichetta, l’artista e l’eventuale notorietà del brano. È capitato per esempio di ordinare ben cento copie di un 12″, praticamente un collo intero, e terminarlo nel giro di cinque giorni appena, e se non sbaglio ciò avvenne con “Brothers In The Space” di Aladino, nell’autunno del 1993.

Quanto influiva sul rendimento di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ “di grido”?
Il passaggio radiofonico era fondamentale per le vendite. Le emittenti, sia locali che nazionali, influenzavano parecchio le scelte del pubblico ma nonostante ciò notai tanto buon gusto emergere da parte della mia clientela, comunque orientata sempre ad un genere di musica “passabile” nelle realtà locali delle feste salentine. Non mancarono tantissimi acquirenti che rimasero fermi invece alle proprie scelte stilistiche, stazionando su generi ben definiti ed esclusivi come techno, trance ed house, indipendentemente dalla promozione radiofonica.

C’è stato un momento in cui hai avuto l’impressione che il trend di vendite ed interesse si stesse invertendo?
Quando il mainstream radiofonico comprese le potenzialità del fenomeno dance, tutto si trasformò in un carrozzone che vendeva “fumo”, finalizzato quasi esclusivamente a realizzare facili guadagni. Dal 1995 in poi la qualità calò a picco nella dance commerciale e, nonostante i passaggi radiofonici, le vendite risultarono ben poco convincenti rispetto al più vicino passato. Il declino di quegli anni bui complicò le cose e la house pian piano soppiantò l’eurodance. Dalla fine degli anni Novanta in poi proposi cose più “morbide” e “mature” dal profumo house o progressive house e tendenzialmente meno dance, nonostante i grandi successi di Gala e di altri artisti simili. Dal 1999 Eiffel 65 e Gigi D’Agostino diedero nuovo impulsi su vasta scala ma ormai il declino era iniziato e nel successivo quadriennio, più che proporre e far ascoltare personalmente i dischi, era il cliente ad optare per il self listening senza più richiedere quindi il mio supporto. Vista la situazione, iniziai a dedicare più tempo ad attività parallele ed economicamente più redditizie che erano sorte nel negozio.

Alcuni negozi di dischi sono stati pure la culla di produzioni discografiche e conseguentemente di etichette. In tal senso avevi preventivato qualcosa di simile? Ricordo che nel piano interrato c’era una piccola stanza in cui ti dilettavi a comporre…
In fondo al piano inferiore del negozio c’era una stanzetta che, oltre ad essere la base operativa per banali pratiche amministrative, era anche uno studio di registrazione. Allestito sulla base di nozioni empiriche e scopiazzate da riviste, inizialmente era composto da un mixer Roland a 16 canali, un computer Atari ST-1040 (poi sostituito da un PC), un sintetizzatore Roland JD-800, una batteria elettronica Roland R-8 MKII, un campionatore Roland DJ-70, un MIDI patchbay sempre Roland, due diffusori Arbour Indiana Line, un sub ed un microfono Sennheiser, oltre ad un buon trattamento di fonoassorbenza sulle pareti. A ciò si aggiunse una consolle con mixer Outline 405 con cui, per molti anni, ho realizzato la “cassettina del mese” venduta a 10.000 lire, eredità delle cassette vendute illegalmente nel retro delle consolle di tutte le discoteche. Quello studio rappresenta la nota dolceamara del Newstyle. Da autodidatta, mi buttai nel mondo della produzione imparando più dalla pratica che dalla teoria visto che i manuali non erano facilmente reperibili e non c’era nessuno a spiegarti i concetti di MIDI, di sintesi, di campionamento o di sound design. I primi anni Novanta mi videro impegnato ore ed ore nell’attività di vendita a stretto contatto col pubblico e ciò non mi lasciò sufficienti energie per sviluppare qualche brillante idea e tantomeno il tempo da dedicare alla produzione discografica. A ciò si aggiunse qualche intoppo tecnico, problemi col mixer (ne ho bruciati tre!) e coi primi hard disk con la conseguente perdita di dati. Mi ritrovai a metà degli anni Duemila con poca voglia e poche idee. Oltre a qualche lavoro di broadcasting, montaggio e jingle per conto terzi, le produzioni sono state veramente poche. Il cassetto era pieno di progetti ma sono rimasti tutti lì, nel cassetto dei sogni.

Vito Forcignano col vinile di Why
Un recentissimo scatto di Vito Forcignanò con “Why?” di Al Tarf – Melody

Qualche produzione discografica la hai comunque incisa, come “Why?” di Al Tarf – Melody, oggi ben quotata sul mercato collezionistico, ed un paio di 12″ firmati Bass Club per la milanese Masters Of Funck (gruppo Hitland). Potresti raccontare, anche dettagliatamente, i retroscena di queste pubblicazioni?
“Why?” venne finalizzato partendo da un’idea di Adriano Urso, un amico che conobbi nel 1993 ad Andrano, un piccolo paesino in provincia di Lecce. Adriano veniva spesso a trovarmi in negozio ed un giorno imprecisato del 1997 si presentò con un interessante arrangiamento eseguito live fatto da piano e voce. Convinti che fosse un buon punto d’inizio, ci mettemmo al lavoro. All’attrezzatura prima descritta si aggiunse una tastiera Korg 01/W da cui prendemmo il pianoforte ed altri suoni tra cui pad ed effetti vari. Sul 12″ finirono tre versioni, la Radio Version, la Power Version e la Dream Version. Nella Radio Version, praticamente l’Original Mix nata dall’idea iniziale, compare uno stupendo giro di pianoforte che rappresentava l’elemento portante, oltre al testo cantato dallo stesso Adriano. Il suono del basso in levare invece fu programmato da me sulla Roland JD-800 in stile dream progressive. L’arrangiamento e i suoni della Power Version, caratterizzata da un sintetizzatore tipicamente eurodance, vennero curati principalmente da me, ed infine la Dream Version fu il risultato della fusione delle idee di entrambi. Di questa ultima versione rammento ancora l’automazione su Cubase dei volumi delle due voci del pizzicato che si alternano. Al tutto si aggiunse l’aiuto prezioso di Alberto Costantini che si occupò, nel suo studio più attrezzato, della registrazione della parte vocale, dell’effettistica post primo mixaggio e della masterizzazione finale che per ovvie ragioni tecniche non potevo realizzare nel mio studiolo. Dopo averla incisa su DAT, mandammo la traccia alle principali etichette italiane che all’epoca si occupavano di dance ma a mio avviso la snobbarono in quanto la dream progressive stava ormai tramontando dopo i grandi fasti del 1996. A quel punto Adriano decise di autofinanziarsi e stampare un certo numero di copie del disco da solo, con notevoli sacrifici. Creò quindi una sua etichetta, la DBS, ma senza contare sul supporto di nessuna distribuzione. Io non contribuii al finanziamento economico, non per mancanza di fiducia nel progetto e nel brano stesso ma perché stavo iniziando a rivolgere i miei investimenti verso altri settori merceologici come quello della vendita di videogiochi domestici che, da lì a poco, presero il posto dei dischi nella mia attività lavorativa. Riascoltare “Why?” mi rende veramente soddisfatto del lavoro svolto insieme ad Adriano ed Alberto. Il disco suona bene, gira su un testo non banale e chiaramente poetico e spero che il suo “successo” su Discogs non sia legato esclusivamente alla rarità ma anche alla qualità. Chi ha amato l’eurodance in voga a metà degli anni Novanta non potrà fare a meno che collegarlo al filone dream traendone giudizi positivi.
Nel progetto Bass Club, dal tiro funky house, invece ho ricoperto un ruolo più marginale legato perlopiù all’assistenza tecnica come supervisore di studio e mixaggio. A tal proposito lascio quindi la parola all’amico ed autore Daniele Miglietta: Iniziai a creare musica a sedici anni, nel 1990, quando ebbi l’opportunità di utilizzare per la prima volta un software per la composizione su piattaforma Amiga. Cominciai creando pezzi house/techno sfruttando le limitate potenzialità di campionamento del computer. Il progetto Bass Club nacque nel 1996, anno in cui il mio gusto musicale si spinse verso sonorità house/funk. La collaborazione con Vito Forcignanò però ebbe inizio già nel 1994 quando mi poggiavo al suo piccolo studio di registrazione allestito all’interno di Newstyle. La prima produzione fu “I’ve Got To Know”, pubblicata nel ’97 dalla Masters Of Funck e basata su sonorità disco/funk anni Settanta rielaborate in chiave house. Ai tempi il modo di produrre musica era strettamente legato alla tecnologia e non si poteva ancora usare il computer come registratore multitraccia. Il PC fungeva da semplice sequencer MIDI per gli strumenti musicali, tutti i suoni venivano miscelati attraverso un banco mixer analogico e registrati su supporto magnetico digitale, il DAT. Per l’incisione del basso elettrico mi rivolsi all’amico Andrea Colella. Realizzare “I’ve Got To Know” non fu semplice: tutti i suoni della drum machine Roland R-8 MKII, delle sequenze ritmiche, dei loop di chitarra e basso e delle voci erano stipati nella memoria di un campionatore Roland DJ-70 che, seppur dotato di espansione di 2MB di RAM, non era sufficiente. Ricordo ancora il mio sconforto nel capire che non sarei riuscito a fare quello che volevo dopo tanto lavoro. Fortunatamente dopo pochi giorni Vito riuscì a procurarsi un secondo Roland DJ-70 e non credevo ai miei occhi, avevo a disposizione “ben” 4 MB di memoria! Ascoltando l’Extended Mix si può immediatamente riconoscere un sample proveniente da un favoloso brano di Hamilton Bohannon mentre il groove ricorda molto le sonorità disco. La Rewind Mix invece strizzava l’occhio alle sonorità trip hop ma anche all’house più deep. In quella versione cercai di sfruttare appieno le capacità del Roland DJ-70 filtrando i campioni e facendoli suonare pure in reverse. Il secondo 12″ di Bass Club, ancora pubblicato dalla Masters Of Funck, giunse nel 1999, periodo in cui ormai i computer potevano essere impiegati ampiamente anche come sampler agevolando enormemente il lavoro di produzione e di mixaggio. Così realizzai “You Get The Power Of Love” ed affidai nuovamente le parti di basso ad Andrea Colella. In quella traccia utilizzai in modo intensivo la Yamaha CS1x, strumento che si prestava molto bene alle sonorità electrofunk che volevo inserire all’interno. A differenza del precedente però, non feci leva su nessun campionamento illustre ma cercai di costruire un groove tipicamente anni Settanta con l’uso di suoni che richiamavano l’organo Hammond, il Clavinet e tutti i sintetizzatori analogici old school. In seguito abbandonai il progetto Bass Club per lavorare ad altri come Cuban Dance Affair, Afrobeat, Danny Manetti e Black Zone Ensemble con cui ho pubblicato diversi singoli e due album.

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare in modo sensibile le vendite e il fatturato?
Le vendite subirono un leggero calo fisiologico tra 1996 e 1997. Da quel momento in poi fu un declino lento ma costante che purtroppo continuò anche quando rimasi l’unico a vendere dischi per DJ a Lecce, dopo la chiusura di tutta la concorrenza.

busta Newstyle (fine anni '90)
La busta di Newstyle risalente alla fine degli anni Novanta, quando il negozio vende anche videogiochi e non più solo dischi ed attrezzature per DJ

A tuo parere ci fu qualcosa ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Le ragioni furono multiple. La prima ondata di disaffezione per me venne influenzata da regolamentazioni di carattere pubblico-amministrativo. Mi spiego meglio: come raccontavo prima, l’enorme numero di party non ufficiali fu il primo indizio che mi fece intravedere, agli inizi degli anni Novanta, un potenziale mercato per la diffusione e vendita dei dischi per DJ. Nella seconda metà del decennio però iniziò una feroce ma lecita caccia alle feste abusive. Partivano task force capitanate dalla SIAE con carabinieri al seguito che generarono sequestri di attrezzature, multe salate e denunce varie. Per quanto idilliaca e romantica, la situazione dei piccoli party organizzati nei garage e nelle ville con ingresso a 5000 lire o con consumazione obbligatoria, non poteva più reggere per tutta una serie di problematiche, quelle di sicurezza in primis. Di conseguenza tantissimi DJ che ammortizzavano le spese dei dischi con gli introiti di quelle feste decisero di mollare. Ciò creò subito un vuoto, sia nel comparto dei dischi che in quello delle attrezzature. Le uniche occasioni per esibirsi restavano legate ai locali ufficiali che però nella provincia di Lecce si contavano sulle dita di una mano. La seconda ragione della disaffezione invece è legata ad un calo di interesse generale per la musica avvenuto nella prima metà degli anni Duemila, quando altri media, come i videogiochi domestici (PlayStation ed affini) presero il sopravvento riuscendo a conquistare i giovani.

Ad inizio nuovo millennio gran parte dello spazio nel piano interrato di Newstyle fu occupato da vari PC destinati ad essere utilizzati con scopi ludici (videogame in modalità multiplayer tramite rete LAN) o per connessioni internet, ai tempi ancora scarsamente diffuse nelle case. La tua scelta, analoga a quella di un altro importante negozio di dischi di cui si parla qui, il Rebel Grooves di Anversa nato dalle ceneri del Blitz, lì dove nacque la Bonzai Records, mirava forse a bilanciare le perdite nel settore della musica?
Iniziai a vendere videogiochi già nel 1997 proprio per contrastare il calo di vendite dei dischi e degli accessori legati al DJing. Nel 2001, dedicando sempre più tempo al fenomeno dei videogame, ebbi l’intuizione di creare una LAN, in principio composta da quattro PC collegati in Rete, ed offrire al pubblico l’opportunità di navigare e giocare in multiplayer che allora era un termine semisconosciuto. Nell’arco di pochi anni il numero dei PC si moltiplicò sensibilmente ed arrivai a metterne ben diciotto a disposizione. Frequentato in prevalenza da adolescenti e studenti universitari, Newstyle continuava ad essere sempre pieno, sia di mattina che di pomeriggio, seppur per ragioni diverse rispetto a quelle dell’inizio. È stato così sino al 2010. Poi gli effetti della crisi finanziaria e della new economy, che hanno spinto il cliente sempre più verso l’home demand di merci e servizi, si fecero sentire pesantemente, sia nell’ambito della LAN che nella vendita al dettaglio di videogiochi.

screensaver-login del periodo della Lan, logo ridisegnato
Screensaver/login dei computer di Newstyle nel periodo della LAN multiplayer. Il logo viene ridisegnato ex novo

Quando chiude New Style a Lecce?
Dal 2005 ormai ci occupavamo esclusivamente di vendita di videogiochi e consolle casalinghe e dell’area ricreativa del centro internet/LAN multiplayer. Il fatidico giorno arrivò il 31 dicembre 2012. Fu ovviamente una decisione maturata da mesi, eravamo in piena crisi economica e nonostante il 2008, il 2009 e parte del 2010 furono tutto sommato positivi, alla fine di quell’anno registrammo un sensibile calo delle presenze nella LAN sino a raggiungere preoccupanti cifre nel 2011 e 2012. La contrazione dei consumi e l’apertura di una multinazionale concorrente nelle vendite dei videogiochi proprio nei pressi del negozio ci diedero il colpo di grazia, non era più possibile sostenere l’elevato affitto e le spese di gestione. Chiudere Newstyle fu ovviamente una scelta molto sofferta, soprattutto dal punto di vista emotivo. Contraddistinta dalla struttura camaleontica del marchio che transitò dal mondo dei DJ a quello dei videogiochi, Newstyle la considero una “creatura” che si è evoluta per rimanere in vita quanto più tempo possibile. Abbassare definitivamente la saracinesca fu altrettanto duro dal punto di vista individuale perché, analogamente a tantissime altre persone, mi sono ritrovato a dover cercare un nuovo lavoro in un mondo sempre meno propenso ad offrire opportunità. Il destino di Newstyle, ma pure il mio e quello di mio fratello, è simile a quello di tante altre attività storiche italiane, talvolta centenarie, di aziende familiari costrette a dover chiudere battenti nell’ultimo ventennio.

Pensi che in futuro ci sarà ancora spazio per i negozi di dischi? La collocazione geografica potrebbe rivestire una valenza primaria in questo tipo di attività?
Newstyle era ubicato a Lecce, una città di circa 100.000 abitanti, non certamente paragonabile a Milano o Roma, e credo che la bellezza del fenomeno fu anche legata a questo. Oggi, quando sento parlare di negozi di dischi (qualche nostalgico mi ha persino invitato a riaprire Newstyle!), mi viene solo da sorridere. I sacrifici per mettere in piedi un’attività devono essere ripagati dagli incassi. Non si può pensare di aprire un punto vendita per hobby o farne la propria discoteca in cui esporre in vetrina o sui muri i propri gusti e le copie introvabili. Aprire un buco per vendere dieci dischi al giorno, in una realtà come quella salentina, non mi pare una grande prospettiva. Possono esistere casi in cui, ad esempio, il titolare dell’attività sia anche il proprietario delle mura del negozio: in tale eventualità una bella parte di costi sarebbero abbattuti e il gioco varrebbe la candela, accontentandosi di vendere una manciata di dischi al giorno e qualche gadget. Ma la realtà di un negozio di vendita al dettaglio, indipendentemente dalla classe merceologica trattata, è una cosa seria, e non vorrei passare per uno che voglia impartire lezioni di economia. Auguro tutto il meglio e lunga vita a chiunque voglia intraprendere questo tipo di attività o a chi la pratica già, ma i potenziali numeri di vendita sono veramente bassi e di conseguenza anche i margini di guadagno.

Cosa c’è adesso al posto dei negozi di Lecce e di Maglie?
A Lecce un’agenzia immobiliare, a Maglie non ne ho la più pallida idea.

Qual è la prima cosa che ti viene in mente ripensando a Newstyle?
Una bella fetta della mia vita, purtroppo fatta a pezzi ed ingoiata dalla tanto acclamata new economy, dal silenzio delle istituzioni che vedevano (e vedono ancora) chiudere ditte individuali ed aziende una dietro l’altra senza muovere un dito. Proprio quelle ditte ed aziende che rappresentavano la linfa vitale dell’occupazione ed una fonte enorme di introito fiscale che ha tanto giovato alle casse statali. Nel contempo però Newstyle mi fa sentire orgoglioso con la giusta dose di nostalgia nell’aver creato qualcosa di irripetibile che rimarrà scolpita per sempre nella mia memoria e di quella di tanti altri affezionati, clienti ed amici che non ci hanno mai dimenticati e a cui adesso rivolgo i miei più calorosi saluti e ringraziamenti.

(Giosuè Impellizzeri)

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Lost Tribe – Gimme A Smile For The Future (Next Records)

Lost Tribe - Gimme A Smile For The Future

In passato la dance viene realizzata prevalentemente da team in cui ognuno mette a disposizione le proprie competenze. Non tutti i componenti finiscono sotto le luci dei riflettori perché esistono ruoli ben precisi e l’individualismo, complici le caratteristiche di un mondo profondamente diverso rispetto a quello odierno, è ben poco radicato o quasi del tutto inesistente, soprattutto nel settore musicale. Per districarsi da quel labirintico puzzle di nomi, talvolta celati da pseudonimi che ne complicano ulteriormente l’identificazione, oggi viene in soccorso Discogs, ma non basta. Per aggiungere nuovi tasselli a storie magari filtrate parzialmente attraverso i mass media dei tempi, è necessario solleticare la memoria di chi vive gli eventi in prima persona pur rimanendo dietro le quinte. È il caso di Alberto Lapris che, come la maggior parte dei coetanei, si avvicina alla musica attraverso la radio: «Sono cresciuto ascoltando le primissime emittenti libere ma pure alcuni programmi di mamma Rai, in particolare Alto Gradimento» racconta oggi. «Pian piano cominciai a seguire realtà più grandi come Radio Milano International con Leopardo, un nome su tutti e per sempre, e Radio Music 100, l’antesignana di Radio DeeJay. A ciò si aggiunse la possibilità di aiutare Lorenzo Gallini nel suo storico negozio di dischi, il 747, a Crema, la mia città natale. Il mio background affonda le radici nel punk, nell’heavy metal e nella new wave di metà anni Settanta/inizi Ottanta, e proprio con quel bagaglio cominciai l’avventura nel mondo della musica partecipando a decine di concerti, acquistando migliaia di dischi e ricercando e frequentando costantemente locali alternativi come il Plastic, il Punto Rosso, il Leoncavallo e il Virus, tutti a Milano, ma pure altri club della mia zona dove era possibile ascoltare diversi tipi di musica senza pregiudizi e preclusioni. Con quell’approccio approdai, nel 1987, alla Discomagic. Lì, per necessità, dovetti ampliare le conoscenze al mondo della dance che all’epoca era il mio lato meno sviluppato. L’arrivo all’azienda di Severo Lombardoni rappresentò inoltre il trampolino di lancio nel mondo delle produzioni discografiche. Da perfetto “analfabeta musicale” contattai Mario Riboldi, conosciuto e stimato musicista cremasco nonché amico di vecchia data, proponendogli una collaborazione. Con le mie idee unite alle sue capacità e qualità compositive avremmo provato ad entrare nel mondo della dance, contando peraltro su un canale più diretto rappresentato per l’appunto dal mio impiego presso la Discomagic. Avuto il suo assenso, cominciammo a scambiarci idee ed opinioni per collaborare in modo fattivo allo sviluppo di tracce destinate al pubblico prettamente dance, trovando la quadra coi progetti Lost Tribe e Maximum Respect. In quella nuova avventura ero The Indian, un nickname affibbiatomi da Daniele ‘Mad’ Boagno, ai tempi commesso del Disco Inn di Modena di Fabietto Carniel, per via della mia capigliatura (una chioma molto lunga abitualmente raccolta in una treccia) e della mia carnagione olivastra post abbronzatura che, a sua opinione, mi faceva assomigliare ad un indiano pellerossa».

1 - Discomagic
A sinistra uno scorcio della Discomagic tra 1992 e 1994, a destra parte dello staff immortalato in una foto scattata tra 1994 e 1998

Per Lapris quindi, il lavoro in Discomagic è decisivo nel momento in cui sceglie di avventurarsi sul sentiero della dance. «Avrei bisogno di giorni, o forse settimane, per raccontare dettagliatamente la mia esperienza in Discomagic» ammette, «e comunque non sarebbero sufficienti per descrivere cosa è stato Severo Lombardoni per me e per tutta la discografia italiana e mondiale, con tutti i pro e i contro associabili alla sua figura. Arrivai da lui come semplice magazziniere, masticare un po’ di inglese mi aiutò ad entrare nelle dinamiche aziendali dell’epoca, quando tutto il lavoro di import si basava sugli ordinativi fatti ascoltando in anteprima, via telefono, le tracce in uscita e facendo da tramite e traduttore a Vittorio Lombardoni, fratello di Severo e responsabile del settore. Così mi guadagnai una prima e parziale stima da parte loro, per l’impegno e la disponibilità. Ad un certo punto mollai Discomagic per andare a prestare l’attività presso Non Stop, il primo magazzino italiano per quantità e qualità: lì mi affidarono la completa gestione dell’import e lavorai in totale autonomia ma sempre con l’incommensurabile apporto dei colleghi venditori. Quando tornai in Discomagic, dopo quella fantasmagorica esperienza, ebbi la fortuna di vedere riconosciuta la mia professionalità da chi questo lavoro l’aveva letteralmente inventato e di essere messo in condizioni di poter gestire al meglio le dinamiche dell’azienda con l’assoluto rispetto delle mie capacità. Avere Severo come supervisore gestionale mi ha aiutato anche ad approfondire le conoscenze di cui necessitavo per operare in un ambiente a me completamente sconosciuto giacché venivo da un’esperienza tragica come operaio su una linea di montaggio, oltre ad affinare quanto avessi imparato nella breve seppur intensa frequentazione universitaria alla Bocconi. Una delle sue doti che più ho apprezzato e che mi ha aiutato maggiormente anche fuori dal mondo del lavoro, è stata la capacità di riconoscere l’operato e di esprimerlo con parole semplici ma d’effetto, la tanto sbandierata “meritocrazia” di cui tanti si riempiono la bocca ma che pochi(ssimi) sanno mettere in pratica, alternata a possenti e giustificate sclerate se non si seguivano i suoi suggerimenti».

Tra i primi progetti messi in piedi da Lapris, oltre a Maximum Respect, Multi Timbral e Cool Thing, c’è Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley, ammantato di mistero per via di scarsissime informazioni diffuse e contraddistinto da un nome che nel corso degli anni subisce qualche variazione (The Lost Tribe Of The Lost Minds o il più sintetico Lost Tribe). Il debutto nel 1992 con “Que Viva Mexico”, su Discomagic, seguito da “Mu-Sika” sulla Next Records del gruppo Energy Production, forgiato su un fraseggio country e che tra gli autori vede la presenza di Albertino. «In realtà il nome artistico è sempre stato Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley ma per comodità tecniche ed esigenze radiofoniche venne abbreviato in Lost Tribe, seppur nel 1993 apparve un gruppo jazz/rock omonimo» spiega in merito Lapris. «Quel nome si ispirava a gruppi come KLF ed Orb e più precisamente ai titoli piuttosto psichedelici che affibbiavano ai remix o a versioni dei loro brani. All’epoca frequentavo spesso Radio DeeJay incontrando Albertino e i responsabili della programmazione Dario Usuelli e Pierpaolo Peroni ai quali proponevo le novità in arrivo, tra dischi d’importazione e produzioni nostrane. Ciò mi consentiva di avere un feedback immediato e portare avanti il lavoro in Discomagic. Il rapporto con Albertino era di amichevole e reciproca stima, le sue conoscenze hanno permesso lo sviluppo, in sintonia con le visioni, di tutte le tracce da lui firmate affinché si potessero incrociare con le esigenze di programmi come il DeeJay Time e la DeeJay Parade. Per tale motivo le seguì passo dopo passo, dalla prima stesura alla versione finale». Ad eccezione di “Que Viva Mexico”, i restanti 12″ dei Lost Tribe vengono pubblicati dalla Next Records, una delle etichette più prolifiche del gruppo discografico di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi che tra il 1992 e il 1994 si fa ben notare con Face The Bass, Fishbone Beat (di cui parliamo qui), Z100, Pan Position e Daydream, oltre a mettere a segno diverse licenze estere, General Base su tutte. «La collaborazione con la Next Records nacque dall’incontro del tutto casuale al Midem di Cannes con Raimondi Cominesi» rammenta Lapris a tal proposito. «Dario aveva raccolto informazioni su di me che lo intrigavano sotto l’aspetto creativo ed artistico, seppur non ci fossimo mai conosciuti personalmente. Dopo aver messo al corrente Lombardoni ed aver avuto il suo nulla osta, io e Mario Riboldi destinammo quindi all’etichetta romana una serie di pezzi marchiati Lost Tribe».

Tra quelli c’è “Gimme A Smile For The Future” che Lapris produce insieme a Franco Moiraghi e al fido Riboldi, trincerato dietro il nomignolo Lupin III. Al pezzo partecipa ancora Albertino ma in incognito con lo pseudonimo Cencito coniato, così come lui stesso spiega nell’intervista finita in Decadance Extra, col fine di non far sapere ai DJ delle radio concorrenti che dietro quei pezzi ci fosse lui ed evitare quindi una possibile esclusione pregiudizievole a priori. Costruito su un sample di chitarra dal retrogusto funkeggiante tratto da “Purple Love Balloon” dei britannici Cud, “Gimme A Smile For The Future” riesce ad oltrepassare i confini patri conquistando una licenza da parte della Stress Records di Dave Seaman sulla quale pochi anni prima escono “Let Me Hear You (Say Yeah)” di PKA e “Last Rhythm” dell’omonimo progetto italiano. È la stessa label d’oltremanica inoltre a commissionare vari remix tra cui spicca quello di Dharma Bums Vs The Delorme. «Tutto iniziò con un campione che girava in studio e che meritava di essere utilizzato al meglio» spiega Lapris. «Così, di comune accordo con Riboldi, contattai Franco Moiraghi al quale ero (e sono ancora) legato da un rapporto speciale di amicizia chiedendogli se fosse disposto a metterci a disposizione la sua maestria nell’elaborazione di una traccia. Stendemmo insieme la bozza nello studio di Mario per poi andare in un altro provvisto di strumentazioni migliori e svilupparla a dovere. Penso che “Gimme A Smile For The Future” sia stato il brano dei Lost Tribe ad averci tenuti impegnati più a lungo, forse tre mesi. Man mano che completavamo le parti prendevamo coscienza delle potenzialità. Per quanto riguarda invece l’interesse della britannica Stress, i meriti vanno riconosciuti alla Next ed al suo license department per il grande lavoro svolto e per essere riuscito a coinvolgere un produttore del calibro di Dave Seaman in un progetto italiano portato avanti con nottate infinite in studio fatte da continui ritocchi, anche nei più profondi e minimi particolari, alla ricerca di sonorità che potessero dare già al primo ascolto una “patente” di internazionalità. Questo avvenne anche grazie ai continui interscambi di opinioni tra tutti i soggetti coinvolti, desiderosi di ottenere il massimo risultato possibile da subito».

2 - altri singoli Lost Tribe
Le copertine di “My Vision, One Nation, One Tribe” e “Dogo”, pubblicati nel 1994 dalla Next Records

A campeggiare sulla copertina di “Gimme A Smile For The Future” (e pure su quelle dei seguenti due, “My Vision, One Nation, One Tribe” e “Dogo”) è un particolare logo composto da un uccello ad ali spiegate sotto il quale trova spazio il simbolo della pace ideato da Gerald Holtom. «L’idea mi balenò riflettendo sul titolo della traccia» rivela Lapris, «ma non avendo le capacità di utilizzare i primi software di grafica, chiesi aiuto al carissimo amico Roberto Rossini, oggi docente presso lo IED di Milano. Con lui sviluppai il logo e la stessa copertina, ispirata dalle grafiche dei gruppi psichedelici attivi negli anni Settanta. Il messaggio di quel disegno, implicito e sempre valido, è affrontare le sempre più opprimenti ed abominevoli situazioni che intersecano la vita». Nel 1994 è tempo quindi dei citati “My Vision, One Nation, One Tribe” (un vago rimando al celebre slogan di Radio DeeJay?) e “Dogo”, col featuring del misterioso The Stammerin’ Chatterbox, entrambi scritti ancora con Albertino ed intrecciati al filone della prima ondata italodance che tra 1993 e 1995 tiene banco senza temere rivali. «Anche in quei due tutto partì da campionamenti che giravano in studio, ma il riferimento al claim di Radio DeeJay è del tutto casuale, quel sample vocale preso da “Move Any Mountain degli Shamen fu utilizzato solo in funzione della base musicale» risponde Lapris. «Il fatto che non sia mai stato usato dall’emittente di Via Massena per dei jingle promozionali, così come si faceva allora, credo possa confermare l’assoluta buona fede. Discorso analogo spetta a “Dogo”, con un campionamento vocale di origine ragamuffin che ci spinse a creare la figura di un ipotetico MC, il fantomatico The Stammerin’ Chatterbox. Il riscontro delle vendite si attestò su un buon livello ma inferiori a “Mu-Sika” che invece ebbe un impatto “innovativo” sul mercato, poiché creò dal nulla il fenomeno della cosiddetta “demential techno”, così come la ribattezzarono alcune riviste, che poi portò alla ribalta altri gruppi che inseguivano un suono simile, uno su tutti gli svedesi Rednex».

Nel 1994 la corsa dei Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley termina. Mentre si tira il sipario sul progetto cresciuto sulla Next Records però, ne viene inaugurato un altro destinato ad una delle etichette più attive del gruppo Time Records, Italian Style Production a cui abbiamo dedicato qui una monografia. Insieme a Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto, Alberto Lapris crea i Marvellous Melodicos, oltre ad aggiungere un tassello alla storia dei Phase Generator attraverso “Nevermind”. «Lost Tribe si fermò principalmente per problemi legati sia alla collaborazione artistica con la Time Records, sia alla nascita di mia figlia Valentina che assorbì gran parte dei tempi extralavorativi, non permettendomi più continui spostamenti negli studi di registrazione» chiarisce lo stesso Lapris. «La collaborazione con l’etichetta bresciana fu il risultato del costante corteggiamento professionale di Giacomo Maiolini e del maggiore sviluppo delle mie conoscenze musicali maturate col passare degli anni. Dovendo affrontare un mercato in continua evoluzione come quello della dance ed avendo spostato i gusti personali verso sonorità più house e tendenzialmente meno vicine a quello che allora veniva considerato techno, accettai la proposta di Maiolini e provai a mettermi in gioco in un ambito più ampio e meno specifico offerto dalla Time Records. La condivisione di idee ed opinioni in maniera più continuativa coi musicisti dello staff (in primis il team de “Le Ginestre”, così come erano conosciuti Trivellato e Sacchetto) aiutò a sviluppare la mia creatività ed incrementò l’ispirazione. A ciò si aggiunse la costante ricerca di nuovi suoni e campionamenti da riversare in tracce più melodiche ed orecchiabili. Tra i vantaggi di quella collaborazione ci fu la possibilità di muovermi meno spesso da Milano: bastava infatti andare un paio di giorni a Brescia per spiegare a Giordano e Giuliano quali fossero i miei punti di vista e poi aspettare la cassetta (allora unico mezzo per ascoltare fino allo sfinimento l’evoluzione di un pezzo) che Giacomo mi faceva prontamente recapitare in Discomagic al fine di apportare correzioni e migliorie in corso d’opera. Lavorare in Discomagic, distributore della Time Records, mi permise inoltre di seguire più che bene l’andamento delle vendite oltre a darmi la soddisfazione di toccare, letteralmente con mano, le imponenti quantità di supporti che partivano per i negozi di dischi, sia in Italia che all’estero».

3 - Time e Marvellous Melodicos
Sopra la foto del team della Time Records scattata in occasione del decennale di attività (1994): Lapris è il terzo uomo da sinistra, dopo Trivellato e Sacchetto; sotto le copertine del trittico di Marvellous Melodicos, edito tra 1994 e 1995 dall’Italian Style Production

Dopo tre 12″ usciti tra 1994 e 1995, “Sing, Oh!”, “The Sun And The Moon” ed “Over The Rainbow”, anche i Marvellous Melodicos spariscono nel nulla come del resto avviene alla maggior parte degli studio project di quegli anni. A sorpresa però, nel 2020, il marchio riappare con “Say It Ain’t So” e “Time (To Move On)”, entrambi pubblicati dalla J.K.R. Records di Bruno Le Kard, coautore di un altro successo messo a segno dall’Italian Style Production ad inizio anni Novanta, “Do You Know My Name” di Humanize di cui parliamo qui nel dettaglio. La stessa J.K.R. Records sancisce pure la resurrezione di Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley col brano “R.T.T.J.”. «Il ritorno di tanti nomi artistici dell’epoca e la mai sopita vena creativa insita nella mia indole mi hanno spinto a rispolverare Marvellous Melodicos e Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley a circa cinque lustri dall’ultima apparizione, senza dimenticare ovviamente l’opportunità di collaborare ancora con Mario Riboldi» spiega Lapris. «Aver avuto la possibilità di utilizzare i brand che mi hanno accompagnato in quegli anni, grazie alle gentili concessioni da parte di Giacomo Maiolini e Barbara Ugolini, ed avere più tempo a disposizione da pre-pensionato, hanno fatto il resto. Trovo che creare musica sia un ottimo strumento per tenere allenata la mente e mantenere la freschezza delle proprie idee».

4 - Alberto Lapris in consolle
Un recente scatto di Lapris impegnato in consolle

In questa intervista realizzata da Stefano Mauri e pubblicata il 20 maggio 2020, Lapris dice che gli piacerebbe assistere, dopo l’attesa ed auspicata fine della pandemia, al ritorno delle discoteche nella più classica accezione del termine: «locali esclusivamente dedicati al ballo con zone ben definite, pista, corridoi perimetrali, bar, posti a sedere e, soprattutto, DJ professionisti che sanno come intrattenere il pubblico». Ed aggiunge che «sarebbe il momento di non vedere più all’opera pletore di sedicenti “diggei” chiamati da altrettanto sedicenti “impresari” in nome del “quanta gente mi porti?” Figure queste che hanno mortificato e depauperato il mondo della club culture, portandolo ad essere un divertimentificio di plastica, finto, senza un’anima, più apparenza che sostanza». Il covid-19 quindi ha solo dato il colpo di grazia ad un settore che aveva perso la sua cifra identitaria da tempo? «Penso che il coronavirus sia un incidente di percorso, grave e da non sottovalutare, che si è sommato all’ormai cronico decadimento del mondo della dance per come era vissuto e visto all’interno del movimento» afferma. «Da anni assisto all’appiattimento dell’offerta che ciclicamente ripropone la stessa apocrifa ed amorfa sbobba non più destinata ad un pubblico partecipe bensì ad una massa di padiglioni auricolari insipienti. Non è un caso che le produzioni di alto livello siano destinate a persone con un certo background musicale. Chi invece ha ripudiato le proprie radici svendendosi a ben più facili e remunerative “alternative” fatte di copia/incolla ha gradualmente impoverito la scena della dance mondiale. Leggo di importanti festival organizzati appositamente per menti acritiche ed ormai assuefatte al nulla cosmico, che per non inficiare il proprio status di evento hanno preferito “autosospendersi” in attesa di “ritornare”. Parallelamente però, per fortuna, sento parlare di altri festival che non necessitano di grandi arene o di palcoscenici da film disneyani, e che si accontentano di spazi relativamente piccoli proponendo DJ di altissimo profilo artistico per serate di altrettanto sommo carattere. Negli ultimi tempi ho assistito a DJ set virtuali svolti nelle consuete location senza pubblico ma con ballerini, scenografie e proposte musicali di classe superiore, della durata anche di otto ore. Gli utenti coinvolti sono stati così tanti da mandare in crash i server per eccesso di connessioni. C’è chi spera che in un prossimo futuro le cose possano cambiare positivamente ma, in tutta onestà, non penso possa avvenire, se chi vorrebbe far ripartire il mondo della notte è proprio lo stesso che propina ciò che gira adesso spacciandolo per “dance”. Così come diceva Edoardo Bennato, “sono solo canzonette” che, se traslate su un dancefloor, porterebbero a reazioni uguali al famoso meme di John Travolta che si guarda intorno confuso» conclude il lombardo. (Giosuè Impellizzeri)

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Stefano Sorrentino – Sans Egal (Streetlab Records)

Stefano Sorrentino - Sans Egal

Entrare in possesso di un disco, non necessariamente comprandolo al negozio ma anche prendendolo in prestito da un amico, leggere riviste, seguire programmi radiofonici, frequentare discoteche, ascoltare un nastro mixato di qualche DJ: più o meno così negli anni Novanta ci si appassiona alla musica da ballo che mettono nei locali e si propaga nell’etere. È andata in questo modo pure per il milanese Stefano Sorrentino, classe ’81, catapultato in quella dimensione grazie ad un’amica che gli regala l’album degli Snap!, “The Madman’s Return”, nella versione contenente la hit “Rhythm Is A Dancer”. «Di fatto, sino a quel momento, ignoravo l’esistenza della musica elettronica» afferma oggi con onestà. «Fu allora che scoprii letteralmente un nuovo mondo. Come ha fatto buona parte della mia generazione, passai l’adolescenza incollato su Radio DeeJay ad ascoltare il DeeJay Time di Albertino, ma pian piano iniziai ad appassionarmi anche a generi meno commerciali come la drum n bass. Quasi parallelamente approcciai alla composizione: il mio papà suona le tastiere e quindi sono cresciuto con la fortuna di averle a portata di mano anche se non colsi l’occasione sino ai dodici anni circa. Anziché imparare a suonarle eseguendo musica altrui però, mi focalizzai subito sulla creazione di tracce mie e sul sound design. I primissimi esperimenti li feci con un multitraccia a quattro piste, una Gem S2 e poco altro. Poi arrivò Cubase e a diciassette anni comprai il Roland JP-8080, il primo di una lunga serie di sintetizzatori. A parte qualche consiglio ricevuto da mio padre, dovetti imparare tutto da solo perché, purtroppo, non conoscevo altri musicisti che bazzicavano quegli ambienti. Adesso ho uno studio decisamente più equipaggiato e moderno ma confesso di divertirmi ancora tantissimo quando riaccendo quegli strumenti, forse proprio per le limitazioni che conferiscono più carattere rispetto ad alcuni dei loro eredi più evoluti».

Sorrentino (primi anni 2000)
Sorrentino in una foto dei primi anni Duemila

A diciotto anni Sorrentino incide il primo disco, “Sometime Love” di The Mockers, pubblicato dalla napoletana Bustin’ Loose Recordings ed impreziosito dal remix di Don Carlos. Tra 2000 e 2002 ne seguono altri come “Once In A Lifetime” di Y2K, “Back To Afrika” di Groove Juice, “How Do You Feel” di Shepan’ e “Take Your Time” di Danich. «Li ricordo come veri reperti archeologici» prosegue l’autore. «Iniziai a mandare demotape a varie etichette milanesi sin da quando avevo sedici anni, intorno al 1997. Facevo soprattutto jungle, musica legata ad un mercato obiettivamente assai ristretto in Italia ed infatti le reazioni furono scettiche. Un giorno, durante uno dei miei giri in Via Mecenate, incontrai Stefano Silvestri, ex dipendente della Dig It International e passato alla Bustin’ Loose Recordings, una realtà molto interessante e con una vocazione internazionale che sulla rampa di lancio aveva ambiziosi pezzi di Karen Ramirez e Planet Funk oltre al remix di “Flawless” di The Ones. Silvestri fece uscire “Sometime Love” ma in una versione completamente diversa rispetto alla mia demo originale, pertanto resta un disco che non sento propriamente “mio”. Tuttavia aver pubblicato qualcosa mi aprì nuove porte che mi permisero, appena raggiunta la maggiore età, di parlare coi discografici, ascoltare brani inediti e scoprire tanti retroscena. Se avessi proseguito su quella strada però probabilmente sarei diventato un pessimo A&R perché i miei pezzi di maggior successo sono quelli su cui non avrei mai puntato, e viceversa. Un esempio? “Back To Afrika” di Groove Juice che gli X-Press 2 inserirono nel loro Essential Mix su BBC Radio 1 suonando la Tribal Mix, una versione che avevo fatto giusto per riempire il disco».

Sorrentino ai tempi di Sans Egal
Sorrentino in studio ai tempi di “Sans Egal”

Inaspettato è pure il successo che bacia Sorrentino nell’autunno del 2001 grazie a “Sans Egal”: edita dalla veneta Streetlab Records del gruppo Jaywork, è una traccia ritmicamente riscaldata da componenti tribaleggianti ed avvolta da elementi funk che occhieggiano al passato. In particolare il modello sembra essere quello offerto da “Right On!” degli scozzesi Silicone Soul, una hit sapientemente costruita su un campionamento preso da “Right On For The Darkness” di Curtis Mayfield. Entusiasticamente recensito da Spiller su DiscoiD ad ottobre e programmatissimo da Alex Benedetti in Suburbia su RIN – Radio Italia Network, che peraltro lo vuole nella “Suburbia Compilation” insieme a pezzi di Ultra Natè, Una Mas, Sono, Jakatta, Filippo “Naughty” Moscatello ed Agent Sumo, “Sans Egal” promette più che bene anche in previsione di un possibile airplay radiofonico generalista. Stefano Sorrentino è artefice di una house competitiva a livello internazionale ed infatti sono diverse le licenze giunte d’oltralpe, su tutte quella della tedesca Brickhouse Records che sceglie il suo brano per inaugurare il catalogo della sublabel Brickhouse Tracks. «”Sans Egal” nacque dopo una notte passata nell’omonimo locale in zona Brera, a Milano» rivela Sorrentino. «Non era un pezzo creato per cercare il successo e tantomeno inseguendo un sound predefinito, assemblai semplicemente suoni ed armonie che mi piacevano e credo che a testimoniare ciò sia la stesura poco convenzionale. Creai il basso col citato Roland JP-8080, i tappeti con un sampler Yamaha A4000 mentre la maggior parte dei suoni rimanenti erano di un Korg Trinity e di un Roland JV-1080 con un layering improbabile di Minimoog e sitar. Vista la mia pessima fantasia nel creare nomi artistici, non riuscii ad inventare uno pseudonimo convincente in tempo per la stampa così la Brickhouse, prima licenziataria del disco, mi convinse ad usare il mio vero nome. Da un lato ciò si rivelò una scelta fortunata perché ottenni un sacco di visibilità, dall’altro invece decisamente meno perché, a causa di varie clausole contrattuali, non potei più firmare pezzi con le mie coordinate anagrafiche per diversi anni. Il successo di “Sans Egal” fu inaspettato quanto immediato, probabilmente perché girava su un sound fresco e diverso. Lo suonarono davvero tanti top DJ a partire da Pete Tong e Seb Fontaine su BBC Radio 1. La Cream, storica etichetta britannica legata all’omonimo locale di Liverpool ed appartenente alla Parlophone, pagò profumatamente la licenza con l’intenzione di incidere una versione cantata e fare crossover col pop (analogamente a quanto avvenuto con la citata “Right On!” dei Silicone Soul e diversi altri brani di quel periodo, nda). Purtroppo da lì a breve l’etichetta chiuse battenti e, fatta eccezione per una tiratura promozionale, “Sans Egal” non uscì mai nel Regno Unito, una vera sfortuna».

Il follow-up arriva nella primavera del 2002 e si intitola “House Freak” ma, pur rievocandone lo spirito con una dose ancora maggiore di funk, non riesce a bissarne i risultati. «”House Freak” rimase una white label a causa di un sample non autorizzato incastrato al suo interno» chiarisce Sorrentino. «La cosa mi mise un po’ di angoscia perché temevo serie ripercussioni legali. In quegli anni ebbi comunque l’opportunità di produrre tanti remix alcuni dei quali raccolsero un buon riscontro come ad esempio quello per “Cherish The Day” di Plummet, che uscì in Gran Bretagna su Manifesto, o quello di “Cry Little Sister (I Need U Now)” dei Lost Brothers che funzionò bene sia in Germania che oltremanica, complice qualche passaggio radiofonico di Judge Jules. In quel periodo trascorsi diversi pomeriggi negli studi della Motivo che era una vera hit factory, ed imparai molto da persone come Luca Moretti ed Andrea Corelli. Fu proprio quest’ultimo a pubblicare “Mighty Lover” e la compilation da me selezionata “Night Beat” sulla sua etichetta, la M.O.D.A., allora affiliata alla Warner».

Stellar Project - Get Up Stand Up
La copertina di Stellar Project, ripubblicato dalla Data Records del gruppo Ministry Of Sound

Sorrentino si rifà con gli interessi nel 2004 grazie a “Get Up Stand Up” di Stellar Project, un successo internazionale che cavalca l’allora imperante trend electro house. Partito dalla campana Absolutely Records, il pezzo finisce nell’orbita della statunitense Ultra e viene supportato da un videoclip he ne alimenta ulteriormente la visibilità. «Nel 2004, un po’ per caso, tornai in contatto con Stefano Silvestri» racconta a tal proposito l’autore. «Lui nel frattempo aveva abbandonato la Bustin’ Loose per avviare la Absolutely Records, nata come label di supporto per i Phunk Investigation con cui avevo fatto uno scambio di remix. Proprio da quella collaborazione nacque “Stellar” di Stellar Project (a riprova del mio scarso talento nell’inventare pseudonimi!), una traccia strumentale molto sognante che volevano tutti gli A&R a cui la feci ascoltare. Nonostante fosse una piccola etichetta, alla fine decisi di pubblicarla con la Absolutely Records in segno di riconoscenza per il contributo dei Phunk Investigation che realizzarono il remix. Artisticamente fu una scelta azzeccata perché lavorarono assiduamente alla riuscita del progetto, economicamente molto meno perché non mi furono saldate tutte le fatture. La fortuna fu che Pete Tong si innamorò del brano e lo suonò quasi ogni venerdì sera, per mesi, nella Essential Selection su BBC Radio 1. In pochi giorni scrissi un testo che proposi di cantare alla mia fidanzata che lo registrò più per farmi un favore che per ambizione artistica. L’intenzione ovviamente era trovare una cantante madrelingua che effettivamente giunse in seguito, Brandi Emma, e a quel punto il pezzo divenne “Get Up Stand Up”. Pete Tong però ci sorprese tutti e suonò la demo della versione cantata “in famiglia”, eleggendola Essential New Tune durante la diretta dal Winter Music Conference di Miami. Ricordo ancora tutte le telefonate incredule che ricevetti in diretta mentre Tong mandava in onda il disco, è uno dei ricordi più belli in assoluto che conservo. La settimana successiva licenziammo “Get Up Stand Up” in tutto il mondo, ottenendo importanti risultati di vendita. In Gran Bretagna si piazzò quattordicesimo sulla Data Records del gruppo Ministry Of Sound, in Francia sedicesimo su Sony mentre negli Stati Uniti conquistò la prima posizione della Billboard Dance Airplay, su Ultra. Non so esattamente quanto abbia venduto perché dopo un anno non ricevetti più i rendiconti ma sommando le compilation siamo comunque nell’ordine di qualche milione di copie. Nel 2008 fu la volta di un altro successo ovvero “Feel Your Love” di Kim Sozzi, un pezzo interamente scritto e prodotto da me. L’avevo pensato come follow-up di “Get Up Stand Up” ma le vicissitudini che seguirono mi fecero perdere interesse per la discografia. Kim aveva sentito una demo tramite la Ultra e mi chiamò sostenendo che fosse il brano perfetto per lei. In pochi giorni mi organizzai per farglielo cantare a New York e la Ultra lo pubblicò nell’arco di un paio di settimane appena. Fu un successo immediato sulle radio orientate alla dance della East Cost e quell’anno Kim tenne un numero incredibile di gig. Per me la soddisfazione maggiore fu restare in classifica nella Billboard Dance per ben quarantacinque settimane e conquistare la prima posizione della Year End 2009 davanti ad artisti del calibro di David Guetta e Lady Gaga. Pure il singolo successivo, “Secret Love”, per cui realizzai una versione come Stellar Project, raggiunse il vertice di Billboard nel 2010. Poi uscì l’album, “Just One Day”, per il quale produssi alcune tracce. L’esperienza con Kim Sozzi fu davvero rigenerante e mi fece riscoprire il piacere di pubblicare musica. Da allora però ho composto con la sola ambizione di divertirmi. Chissà, forse un giorno uscirà qualcosa di nuovo, per ora preferisco stare dall’altra parte del mixer o meglio, dentro gli strumenti musicali».

Sorrentino oggi (Suonobuono)
Un recente scatto di Sorrentino nel laboratorio di Suonobuono

Stefano Sorrentino abbandona quindi la composizione di musica per dedicarsi ad altro attraverso la sua società, la Suonobuono nata nel 2018. «Quell’anno vinsi un premio come “Inventore Dell’Anno” per alcuni brevetti che non hanno nulla a che fare con la musica e decisi di re-investire i soldi in qualcosa di divertente ma rischioso» illustra. «Così ho fondato Suonobuono, una mini azienda che produce strumenti musicali elettronici innovativi. È un’opportunità nata per combinare le conoscenze accumulate nella produzione musicale, nel disegno di circuiti e nel processamento dei segnali, tutto sommato sono le uniche cose che so fare nella vita. Il primo prodotto è stato il nABC+, un compressore sidechain che, unico nel suo genere, può essere pilotato non solo con segnali audio ma anche via MIDI e con segnali analogici modulari. La mole di lavoro necessaria per portare un prodotto di questo tipo sul mercato è stata davvero enorme ma la soddisfazione ha ripagato alla grande di tutto. Finora non ho avuto nemmeno un reso e tanti clienti mi hanno scritto spontaneamente per ringraziarmi. Uno di loro ha deciso di comprarne persino cinque unità! Da un anno sto lavorando ad un nuovo prodotto, molto più complesso ed ambizioso, che spero di poter presentare entro il 2022. Per lo sviluppo di alcuni dettagli ho coinvolto anche alcuni studenti, un tesista del Royal Institute Of Technology a Stoccolma e vari tirocinanti dei Politecnici di Milano e di Torino. Non aggiungo altro per pura scaramanzia». Oltre all’attività, Sorrentino ha cambiato anche il Paese di residenza mollando l’Italia per la Svezia. «Mentirei se dicessi di non rimpiangere l’Italia ma rifarei la stessa scelta» afferma. «Quando ci si trasferisce altrove si sacrificano, in una certa misura, famiglia, amici e la propria cultura in cambio di nuove esperienze e di una prospettiva allargata. Certamente mi mancano l’umorismo, il calore e soprattutto la spontaneità di tanti italiani. Sul fronte musica non sono particolarmente aggiornato, soprattutto in riferimento a generi più di nicchia. Sento l’assenza di un certo tipo di radio che proponeva suoni non necessariamente mainstream ma che allo stesso tempo faceva informazione come B Side di Alessio Bertallot (intervistato qui, nda) per intenderci, ma ammetto senza vergogna di apprezzare anche il pop, a patto che presenti elementi di originalità». (Giosuè Impellizzeri)

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Giovanni Natale di Expanded, con Sueño Latino entrammo nel club dei migliori

Giovanni Natale

Inizialmente Expanded Music pubblica dischi new wave, post punk ed industrial provenienti dall’estero e firmati da band come Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Clock DVA e Modern English. Nel corso degli anni però l’attrazione per la dance, sbocciata nel pieno dell’ondata italo disco, diventa sempre più forte ed infatti è tra le prime, in Italia, a scommettere sulla musica house, precisamente dal 1987 quando nasce la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, etichetta con una vocazione per il sound ballabile inscritta chiaramente nel DNA. Nel 1989 proprio su DFC arriva “Sueño Latino” del progetto omonimo, pietra angolare di quel fenomeno che cresce rigoglioso nei primi anni Novanta sotto forma di dream house, alternativa clubbistica alla piano house che sfocia con risultati strepitosi nel mainstream internazionale. In breve tempo la DFC si rivela un inesauribile serbatoio di hit: da Atahualpa a Ramirez, da Glam a Moratto passando per Paraje e tutta la parentesi italodance di Afrika Bambaataa. L’attività di Expanded Music è tentacolare e multiforme e si materializza attraverso svariate sottoetichette (Dance And Waves, B4, Plastika, Audiodrome, PRG, Steel Wheel, Mantra Vibes, giusto per citare le più note) da cui emerge una miriade di nomi che scandiscono con incisività la dance nostrana tra cui Einstein Doctor DJ, Mato Grosso, Ava & Stone, Steam System, Virtualmismo, V.F.R. e Mo-Do. In grande rilievo pure le licenze prese oltralpe, da KLF a Sunbeam, da Transformer 2 a Capricorn, da Technotronic a 2 Fabiola, da Junk Project a Trancesetters, da ASYS a Marco Bailey passando per produzioni più settoriali come Encephaloïd Disturbance, Idjut Boys & Laj, Aurora Borealis, Unit Moebius, Cortex Thrill, Yves Deruyter e vari episodi della saga Code. Tra tradizione e sfrontatezza, la casa discografica emiliana conquista dunque un numero sempre maggiore di consensi facendo registrare un balzo prestazionale non indifferente. Al comando c’è Giovanni Natale che in questa intervista ripercorre la propria carriera pluridecennale nel mondo della musica.

Ci fu qualcuno o qualcosa ad avvicinarti alla musica?
Potrebbe sembrare strano ma da ragazzo non nutrivo una passione particolare nei confronti della musica: non compravo dischi, non andavo ai concerti e non avevo nemmeno manifesti di rockstar appesi nella mia cameretta.

01 - furgoncino Harpo's Bazaar (fonte bibliotecasalaborsa.it
Il furgoncino con cui gli Harpo’s Bazaar girano il capoluogo emiliano durante i giorni del Convegno nazionale contro la repressione nel ’77 (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Nel ’77 però, mentre frequenti il DAMS a Bologna, nasce la cooperativa culturale Harpo’s Bazaar di cui sei tra i fondatori e che opera anche in ambito musicale. Cosa ricordi di quel periodo?
Il progetto Harpo’s Bazaar in realtà inizia prima di diventare una cooperativa e, a tal proposito, credo sia necessario fare qualche puntualizzazione visto che in Rete circolano tante narrazioni non corrispondenti al vero, Wikipedia inclusa. Eravamo un gruppo di studenti/amici di Gianni Celati, docente d’inglese al DAMS negli ultimi anni Settanta. Con un furgone sgangherato, battezzato per l’appunto Harpo’s Bazaar, girammo per Bologna con una cinepresa super 8 durante i tre giorni del Convegno nazionale contro la repressione, a settembre del ’77. Realizzammo le riprese che trent’anni dopo sono diventate il video “Cineamatori Militanti” pubblicato qui. I componenti erano solo quelli riportati nei titoli di coda dello stesso video, Aldo Castelpietra, Gianni Celati, Leonardo Giuliano ed io. L’idea di trasformare l’esperienza “movimentista” in una cooperativa per avere un lavoro creativo fu di Leonardo Giuliano. Tra tutti noi era quello che volava più alto. Da sognatore ed imprenditore utopista, ci convinse a gettare il cuore oltre l’ostacolo ed iniziare. Fu sempre Leonardo, tra i fondatori della Fonoprint, a presentare al gruppo Harpo’s Bazaar Gianni Gitti e a seguire Cialdo Capelli, Antonella Leporati, Oderso Rubini ed Anna Persiani. A quel punto tutti insieme fondammo la cooperativa. In seguito entrarono a far parte anche Nino Iorfino e Jean-Luc Dorn. Col contributo attivo di tutte queste persone appena menzionate fu possibile realizzare l’evento Bologna Rock e dar vita all’Italian Records. Ps: Gianni Gitti è stata una persona speciale. È venuto a mancare da alcuni anni e meriterebbe davvero un racconto a parte. Fu il vero scopritore degli Skiantos, ne registrò il primo album intitolato “Inascoltable” e lo prestò ad Harpo’s Bazaar. La stessa cosa avvenne col primo album dei Confusional Quartet uscito nel 1980.

Proprio nel 1980 la Harpo’s Music, etichetta discografica di Harpo’s Bazaar, si trasforma in Italian Records così come spiegato in questa monografia, e quello stesso anno nasce Expanded Music: in che modo le due case discografiche erano collegate?
Nel 1980 Harpo’s Bazaar aveva già perso per strada alcuni dei soci iniziali e non aveva la forza economica per continuare. Avevamo bisogno di un socio finanziatore e, per questa operazione, la cooperativa non era lo strumento migliore. Harpo’s Bazaar quindi fu messa in liquidazione e fondammo l’Expanded Music Srl. Da quel momento l’Italian Records è diventata una delle etichette dell’Expanded Music. Ad entrare nelle vesti di socio finanziatore fu Federico Venturoli del Disco D’Oro di Bologna. Il nome Expanded Music nacque come omaggio al libro Expanded Cinema di Gene Youngblood, pubblicato nel 1970 e considerato la bibbia del cinema sperimentale. Al DAMS mi ero laureato proprio con una tesi sul cinema.

02 - le prime pubblicazioni Expanded
Le copertine di alcune fra le prime pubblicazioni dell’Expanded Music risalenti al 1981: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus e Clock DVA

Le prime pubblicazioni dell’Expanded Music fugano ogni dubbio sul tipo di inclinazione stilistica a cui l’etichetta è legata: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Modern English, Thomas Leer & Robert Rental, Lounge Lizards, Flesh Eaters giusto per citarne alcuni. Sul piano economico, quanto reggevano quelle scelte artistiche in un mercato discografico come quello italiano ai tempi dominato dal cantautorato?
Con le sole produzioni dell’Italian Records l’attività non era sostenibile, serviva allargare il catalogo. Non essendo direttamente coinvolto nella direzione artistica dell’Italian Records, campo esclusivo di Oderso Rubini, mi ritagliai un mio spazio. Conoscevo abbastanza bene l’inglese e dopo il DAMS mi iscrissi a giurisprudenza studiando diritto privato e diritto d’autore. Con questi strumenti mi avventurai in giro per il mondo ad acquisire licenze di dischi da pubblicare in Italia. Ai tempi prendere un disco in licenza costava molto meno che produrlo. Distribuendo quei prodotti riuscivamo a finanziare le produzioni dell’Italian Records.

Dal 1983 in poi, analogamente a quanto avviene per Italian Records, anche l’Expanded Music si apre progressivamente a generi musicali ballabili, italo disco in primis. È vero che ai tempi la dance era vista di traverso nel nostro Paese, specialmente dalla stampa e dalle radio?
L’italo disco rappresenta uno dei periodi d’oro della produzione indipendente italiana. Parafrasando “Destra – Sinistra” di Giorgio Gaber, se fare il bagno nella vasca è di Destra e far la doccia invece è di Sinistra, per gran parte della stampa specializzata italiana l’italo disco era di Destra e non degna di attenzione come la new wave che invece era di Sinistra. Nel 1983 i Gaznevada pubblicarono “I.C. Love Affair” che, nella versione remixata da Claudio Ridolfi, faceva l’occhiolino all’italo disco. Per la prima volta un brano dell’Italian Records finiva in classifica e veniva pubblicato anche all’estero. Attenzione però: “I.C. Love Affair” era ben lontano dall’essere un successo internazionale dell’italo disco ma fece scorgere comunque all’Expanded Music una luce in fondo al tunnel. Ovviamente non tutti furono d’accordo con quella svolta dance e la complicità tra i soci iniziò a vacillare. Le produzioni che seguirono furono un tentativo interessante di coniugare la new wave con la dance ma, come ho imparato in seguito, la musica dance ha delle regole e se non le rispetti i dischi non possono funzionare. Così il successo di “I.C. Love Affair” non si ripeté e l’Expanded Music precipitò in una nuova crisi economica. Il feeling tra i soci si consumò ulteriormente fino alla definitiva separazione. Iniziò quindi una nuova storia per l’Expanded Music e se oggi il repertorio dell’Italian Records è ancora vivo (si vedano le recenti ristampe degli album dei Gaznevada e dei Confusional Quartet) è anche grazie a quella scelta.

03 - Natale e Gaznevada
Una recente foto che immortala Natale e due componenti dei Gaznevada, Marco Bongiovanni (a sinistra) e Ciro Pagano (a destra), scattata in occasione della ristampa dell’album “Sick Soundtrack” avvenuta nel 2020

A partire dal 1987 Expanded Music, attraverso la DFC (prima) e Dance And Waves (poi), inizia a sondare le potenzialità della house music come dettagliatamente illustrato in questo reportage. L’affermazione mondiale arriva due anni dopo con “Sueño Latino” del progetto omonimo, successivamente impreziosita dai remix di Derrick May e riconosciuta pietra miliare di un momento probabilmente irripetibile per creatività e dinamismo. Cosa voleva dire investire denaro nella house music in Italia in quel periodo?
Alla fine degli anni Ottanta l’italo disco era ormai in declino e, con la diffusione del campionatore, nasceva e proliferava la musica house. Nella filosofia della DFC c’era molto dell’esperienza maturata con le pubblicazioni internazionali dell’Expanded Music e della stessa Italian Records: non cercare il commerciale ad ogni costo ed avere una grafica riconoscibile. A tal proposito vorrei ricordare che Anna Persiani realizzò per l’Italian Records alcune delle più belle copertine pubblicate in Italia. In quella fase Ricky Persi fu il mio principale collaboratore. Oltre a conoscere bene la musica dance, aveva la capacità di scovare e far lavorare insieme persone con qualità complementari. La DFC aveva un obiettivo preciso, far ballare. Non importava se un disco fosse commerciale o meno, i DJ dovevano riconoscere dalla copertina che fosse un DFC e comprarlo a scatola chiusa con la certezza di usarlo in pista. Il successo arrivò nel 1989 con “Sueño Latino” per cui va riconosciuto il merito principale a Massimino Lippoli che ebbe l’idea ed ovviamente a Manuel Göttsching perché senza il sample tratto dal suo “E2-E4” non ci sarebbe mai stato “Sueño Latino”.

04 - Natale e Manuel Göttsching
Giovanni Natale e Manuel Göttsching, autore di “Ruhige Nervosität” (incluso nell’album “E2-E4” del 1984) da cui cinque anni dopo verrà tratto il sample utilizzato in “Sueño Latino” del progetto omonimo

Dal 1990 in poi la strada sembra in discesa per la musica da discoteca, sino a poco tempo prima genericamente detta “disco-dance” visto che ai tempi le numerosissime categorizzazioni a cui oggi siamo abituati non esistono ancora. Che ricordi conservi dei primi anni Novanta quando Expanded Music diventa una delle protagoniste di quella fase?
Proprio nel 1990 raggiungemmo il primo posto in classifica con “Ultimo Imperio” degli Atahualpa, nel 1991 arrivò “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, il 1992 e il 1993 furono gli anni di Ramirez con pezzi come “Orgasmico”, “Terapia” ed “El Gallinero”, per il 1994 mi limito a citare “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (al numero uno delle classifiche europee) ma nello stesso anno dei cento singoli più venduti in Italia quattordici erano dell’Expanded Music. Successivamente abbiamo contato sulla fortunata serie di Floorfilla e “Camels” di Santos.

Parimenti ai grossi gruppi discografici attivi allora, anche Expanded Music conta su un ricco roster di etichette per declinare generi disparati. Dalle già citate DFC e Dance And Waves (dalla quale decollano i Mato Grosso partiti come Neverland come spiegato qui) alla B4, da Audiodrome a Plastika passando per PRG (inaugurata con “Mismoplastico” di Virtualmismo, di cui parliamo qui), Steel Wheel, Mantra Vibes ed altre ancora tra cui le poco prolifiche Creative Label e Full Motion Records. Utilizzare un numero così elevato di marchi poteva essere in qualche modo fuorviante?
Creare tante etichette fu un errore dovuto all’indecisione della strada da prendere. Ogni DJ/produttore pensava di potersi distinguere solo se avesse avuto un’etichetta sulla quale non pubblicassero altri ma, come imparammo presto, non è l’etichetta a fare il DJ. Al contrario invece, sono i buoni dischi a decretare il successo di una label e di un DJ.

Quali sono i cinque best seller di Expanded Music?
In ordine di uscita e non per valori effettivi delle vendite, “Sueño Latino” di Sueño Latino, “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, “El Gallinero” di Ramirez, “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do e “Camels” di Santos.

Cosa ti viene in mente ripensando ad ognuno di essi?
Prima hai già detto tu cosa rappresenta oggi “Sueño Latino”, la sua storia è tutta un aneddoto tanto che nel 2015 l’abbiamo pubblicata sul fronte della copertina della ristampa in occasione del venticinquesimo anniversario.
Per “Just Get Up And Dance”, la cosa più difficile fu convincere Bambaataa, leader della Zulu Nation, a cantare un testo non suo. Comunque avemmo ragione e il testo, scritto da David Sion, si dimostrò perfetto.
A proposito di “El Gallinero”, c’è un video su YouTube che conta oltre nove milioni di visualizzazioni ed intitolato “Gallinazo y la Bolsa de Coca” in cui i protagonisti sono Paco Stanley e Mario Bezares, ai tempi gli uomini di spettacolo più famosi in Messico, che per l’appunto ballano il pezzo di Ramirez. Stanley fu ucciso nel 1999 a colpi di mitra all’uscita di un ristorante, si dice per mano dei narcos, e proprio questo video apparso su YouTube molti anni dopo fece riaprire le indagini sull’omicidio. Mentre in televisione ballava “El Gallinero”, a Bezares cadde dalla tasca una bustina bianca, forse “la bolsa de coca”?
Su “Eins, Zwei, Polizei” ricordo che Fabio Frittelli alias Mo-Do, doveva registrare un’altra canzone e in studio, invece di dire al microfono il solito “uno, due, tre, prova” se ne uscì con “eins, zwei, polizei”. Gli chiesero cosa fosse e a quel punto lui recitò di getto la filastrocca che gli cantava la nonna quando era bambino.
Infine Santos con la sua “Camels”, inizialmente incisa sul retro di “The Riff”. Di quel disco ne vendemmo solo una decina di copie. Tempo dopo però, ad Ibiza, Judge Jules cominciò a suonare “Camels” e in poche settimane piovvero richieste da ogni parte del mondo. Dopo lunghe trattative (battemmo il record per l’anticipo più alto pagato per un singolo nel Regno Unito) ci incontrammo per stipulare il contratto a Bologna ma proprio all’ultimo momento Santos andò in paranoia e non voleva più firmare. Sembrava l’episodio “Il Matrimonio Temuto” di “Appartamento Al Plaza” con la sposa chiusa in bagno il giorno del matrimonio…

05 - Collage Expanded Music
Un collage di copertine di fortunate produzioni marchiate Expanded Music uscite tra 1989 e 1994

Quali invece i brani in cui vedesti del potenziale ma che, per qualche motivo, non riuscirono a sortire i risultati sperati?
“Bye Baby”, “All Aboard” e “Yeh Yoh” di Ava & Stone, tutti prodotti da Graziano ‘Tano’ Pegoraro, un amico scomparso prematuramente che mi manca ancora tantissimo (per approfondire si rimanda a questo articolo, nda). Andarono tutti in classifica in Italia però mi aspettavo di più dall’estero.

Negli anni Novanta gli esiti di tanti artisti dance erano direttamente proporzionali al supporto offerto dai network radiofonici e, in parte, dalle tv in occasione di programmi come Festivalbar, Un Disco Per L’Estate o Mio Capitano. Come si muoveva Expanded Music in tal senso? Quanto “pesava” sul rendimento di una produzione il passaggio nell’FM o sul piccolo schermo?
In verità ho sempre creduto più alla pista che alla radio o televisione. Non che i media non fossero importanti, sia chiaro, ma servivano quando il disco era già un successo. La musica dance è così, la definisco “democratica” perché se un pezzo non funziona in discoteca non c’è promozione che tenga e non potrà mai avere successo. Al contrario, se è valido in pista, anche senza il supporto della radio potrà essere scovato dalle migliaia di DJ sempre a caccia di novità. Se è veramente forte emergerà da solo, seppur firmato dall’artista più sconosciuto al mondo e di esempi se ne potrebbero fare tanti, da “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda) a “Satisfaction” di Benny Benassi al già citato “Camels” di Santos.

06 - Albertino e DFC
Albertino a Radio DeeJay in uno scatto risalente ai primi mesi del 1995. Sul giradischi c’è lo slipmat della DFC

«Se Albertino non lo passa, anche un gruppo che ha venduto cinque milioni di copie in sei mesi come i Rednex rischia di passare inosservato in Italia. Motivo? Altri dischi devono avere un posto assicurato nella DeeJay Parade» scriveva il compianto Salvatore Cusato sulla rivista Disk Jockey New Trend a giugno 1995. Polemiche a parte su ipotetici favoritismi, ritieni che il mercato dance domestico nostrano sia stato eccessivamente influenzato, suo malgrado, dal noto speaker di Radio DeeJay?
Senza togliere nulla ad Albertino, ci sono tanti dischi che non ha trasmesso ma che sono diventati ugualmente delle hit. L’influenza di Radio DeeJay finiva in Italia, da Lugano in poi i dischi vendevano solo se piacevano e non perché in Italia erano suonati da una radio in particolare. Nei primi anni Novanta Albertino ha sicuramente avuto un effetto positivo sulle produzioni italiane, selezionava pezzi interessanti ed era uno stimolo per chi lavorava in studio. Io non ho mai fatto parte della corte dei questuanti, le mie visite a Radio DeeJay si contano sulle dita di una mano, eppure non era raro per l’Expanded Music avere più titoli contemporaneamente nella famosa Pagellina. Dalla seconda metà degli anni Novanta in poi il “tocco vincente” della dance italiana andò perdendosi e, se le scelte di Albertino non sono più state le migliori, era dovuto anche al fatto che la qualità media delle produzioni nostrane diminuì, ad iniziare da quelle della stessa Expanded Music.

Gli anni Ottanta e i Novanta furono economicamente redditizi per la discografia dance ma oggi ad essere rimpianta è anche una ricchezza di tipo creativo, quella di cui si lamenta spesso la cronica assenza. C’era qualcuno, tra i competitor italiani, che a tuo avviso lanciò modelli ispirativi?
In tutta franchezza non ho mai cercato ispirazione nelle produzioni dei miei colleghi, gli stimoli venivano piuttosto da chi collaborava con noi come il DFC Team ad esempio, che operava tra Udine e Trieste, una posizione piuttosto defilata rispetto a Milano, l’Emilia e Roma. La creatività si nutriva delle diverse professionalità ma principalmente del divertimento che si provava nel fare insieme le cose. Oltre al già menzionato Ricky Persi, è impossibile pensare alla DFC senza ricordare Andrea Gemolotto (intervistato qui, nda), la tecnica straordinaria di Davide Rizzatti, le capacità musicali di Elvio Moratto (intervistato qui e qui, nda) e Claudio Collino e il fiuto di Ricci DJ. Non posso dimenticare neanche Claudio Zennaro alias Einstein Doctor DJ (intervistato qui, nda) che mi ha dato, tra i vari successi, anche “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do, ed altrettanto importanti sono stati Sergio Portaluri, Fulvio Zafret e David Sion del team De Point (di cui parliamo qui, nda) con “Just Get Up And Dance” e tutti i pezzi di Afrika Bambaataa di quegli anni. Infine, come non citare l’intelligenza di Cerla alias Floorfilla o la “follia” di Santos? Per mestiere non ho fatto altro che tirare fuori il meglio da ognuno di loro e credo sia proprio questo il lavoro di un discografico e non suggerire di copiare i competitor.

07 - Natale, Frittelli, Zennaro, consegna disco d'oro in Germania
Giovanni Natale, Claudio Zennaro e il compianto Fabio Frittelli ricevono il disco d’oro in Germania per le vendite di “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (1994)

In barba alle aspettative, il nuovo millennio fa segnare un cambio di marcia negativo per il comparto dance tricolore. «La scarsa cultura imprenditoriale e la fuga centrifuga di molti produttori che pensavano di poter raggiungere gli stessi risultati avviando label autonome hanno impedito il consolidamento del settore» dichiarasti nell’intervista finita in Decadance Extra qualche anno fa, aggiungendo che «mentre i produttori di tutto il mondo si ispiravano ed imparavano dalle produzioni italiane, i nostri artisti implodevano creativamente e sembravano vergognarsi dei propri successi inseguendo sperimentalismi spesso fini a se stessi ed alimentando un mercato che non ha lasciato quasi nessun segno». A conti fatti, la chiusura di quel ciclo oggi ricordato con infinita malinconia e rimpianti dai protagonisti fu innescato dagli stessi italiani, incapaci di misurarsi con un mercato globalizzato?
Confermo in toto quanto mi hai ricordato in queste righe ed aggiungerei che a penalizzarci sia stato anche il ritardo strutturale dell’Italia per quanto riguarda sia la cultura imprenditoriale che le infrastrutture digitali. Questo spiega il fatto che, nonostante le etichette italiane siano state tra le migliori al mondo per creatività, professionalità e capacità economiche, nessuna abbia saputo cavalcare il mercato digitale come hanno fatto, ad esempio, Ultra, Spinnin’ o Kontor.

In un editoriale apparso sulla rivista Jocks Mag a marzo 2002 puntasti il dito contro la SIAE, non ricorrendo a giri di parole per dichiarare quanto gli editori italiani, te compreso, ci abbiano rimesso in proporzione ai propri successi. «Il totale riportato semestralmente è solo il 50% di quanto la SIAE ha effettivamente incassato dal nostro repertorio. A differenza di ogni altro genere musicale, la SIAE non ci paga tutto quello che ha incassato per l’utilizzo delle nostre musiche nei locali da ballo, ma solo la metà! Il restante 50% viene distribuito ad altre classi di opere che nulla, o quasi, hanno a che vedere con queste esecuzioni. Non correte nei loro uffici a chiedere di più, non vi daranno retta, e non sperate neanche in una trattativa privata. Si parla di decine di miliardi di lire che per tanti anni hanno rimpinguato le tasche di altre persone che ovviamente ora non hanno alcun interesse a rinunciarci». A distanza di quasi un ventennio, è cambiato qualcosa?
Confermo che questo fosse quanto accadeva, con un’aggravante che mi coinvolge direttamente. Nel 2002 mi lamentavo del comportamento e delle regole della SIAE, ma tra il 2003 e il 2010 sono stato un membro del CdA della stessa SIAE e, in tanti anni, non sono stato capace di contribuire a migliorare la situazione. È stata un’esperienza iniziata con molto orgoglio ed ottimismo ma conclusasi con una grande delusione. Sicuramente la responsabilità è da cercarsi nei limiti della mia azione ma non ha aiutato l’atteggiamento di alcuni colleghi che, più pragmaticamente, hanno scelto di adeguarsi alle interferenze politiche. Alla fine ho preferito dimettermi da ogni incarico e dalle associazioni di categoria. Ognuno vive la coerenza come vuole e non è detto che il mio sia il modo più giusto. La situazione oggi è peggiorata e non mi riferisco solo alla SIAE. Con la smaterializzazione del mercato musicale, i diritti si sono vaporizzati e per calcolarli e gestirli occorre la matematica infinitesimale. I vecchi modelli di business sono implosi, ormai i nuovi padroni del mercato sono Google, Amazon e Spotify che hanno deciso come distribuire la musica, come e quanto retribuirla. C’è una distorsione del mercato nota come “value gap”, inaccettabile. Puoi rifiutarti di lavorare con queste piattaforme ma in quel caso smetti di esistere. Che ruolo quindi devono avere oggi le vecchie società d’autore come la SIAE? Come recuperare la differenza tra il valore economico dell’utilizzo online di un brano musicale e l’incasso riconosciuto ad editori e produttori? Non sono problemi solo italiani ma, come dicevo, ormai sono fuori dalla vita associativa di categoria, non ho proposte e sono prossimo alla pensione. Sicuramente c’è chi ne sa più di me.

In questa intervista a cura di Andrea De Sotgiu pubblicata il 31 gennaio 2019, sostieni che uno dei maggiori problemi con cui ti sei ritrovato a fronteggiare sia il campionamento illegale. «È una battaglia continua trovare questi brani su piattaforme come iTunes o Spotify e toglierli dal mercato. Se la tecnologia ci consentirà di essere remunerati correttamente, cosa che oggi non avviene, per il reale valore che i nostri repertori hanno apportato al mercato digitale, allora la rivoluzione tecnologica premierà tutti». Credi che il campionamento selvaggio sia un fenomeno in qualche modo arginabile? Si pensi pure alle migliaia di brani riversati in Rete da quelle etichette dedite al re-edit che forse fanno anche peggio visto che utilizzano, senza alcuna autorizzazione, brani altrui opportunamente re intitolati, rendendo ancora più difficile l’identificazione.
Il problema non è solo scovarli ma difendersi dal danno che arrecano al repertorio. Faccio due esempi: di recente ho concluso un accordo con l’etichetta Anjunabeats per l’uso di un sample tratto da “Hazme Soñar” di Morenas in “Moment In Time”, una nuova produzione di Icarus e Jamie N Commons, una trattativa soddisfacente che valorizza il pezzo originale e il nostro catalogo. Al contrario due anni fa negoziavo con una multinazionale francese che avrebbe voluto usare una parte di “Funky Heroes” di Afrika Bambaataa in un nuovo ed importante progetto discografico. Avevamo stabilito ottime condizioni ma quando hanno visto quante volte lo stesso sample fosse presente illegalmente online hanno rinunciato. L’abuso dei campionamenti impoverisce il valore dei repertori. Si può continuare ad inseguire i file pirata ma non basta eliminarli. Amazon, Spotify ed altre piattaforme dovrebbero essere responsabili per i danni che subiscono musicisti e case discografiche. Sembra una battaglia persa ma non lo è, su questo fronte sono molto attivo.

Cosa vuol dire occuparsi di discografia nel 2021? Ci sono ancora i margini di crescita in un settore ormai irriconoscibile se paragonato a quello di qualche decennio fa? Servono ancora intuito, vocazione imprenditoriale e background musicale?
Intuito, vocazione imprenditoriale e background occorrono ancora e più di prima. Lo dimostrano i traguardi raggiunti dalle etichette dance straniere che ho menzionato sopra. Credo pure che ci siano grandi margini di crescita ma è un mondo completamente diverso rispetto a quello degli anni Ottanta e Novanta. Al di là delle critiche, è pur vero che i giganti del web hanno apportato una rivoluzione che apre ampi spazi al consumo della musica ma è necessario riequilibrare il potere tra i vari operatori.

08 - Uffici-studi dell'Expanded Music
Uno scorcio degli attuali uffici e studi dell’Expanded Music

Expanded Music esiste da più di quarant’anni: qual è stato il momento più emozionante e gratificante che hai vissuto?
Quando “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do raggiunse il primo posto della classifica in Germania ricevetti un fax (che conservo ancora!) da Bernhard Mikulski, fondatore della ZYX, che recitava più o meno così: «dopo tanti anni e successi della ZYX, questa è la prima volta che conquistiamo il vertice, è qualcosa che abbiamo fatto insieme».

Quale invece quello più difficile?
La separazione dai miei soci iniziali: ero senza soldi e solo con debiti, un futuro incerto da affrontare e tutto sotto la mia responsabilità. Ma alla fine è andata bene.

Ad oggi quante pubblicazioni conta l’intero catalogo Expanded Music?
Non so quantificare in titoli ma in numero di master sono circa quattromila.

C’è un pezzo che ti sarebbe piaciuto annoverare nel repertorio della Expanded Music?
“Satisfaction” di Benny Benassi. Un pezzo che è pura creatività senza nessuna concessione al commerciale ma che è riuscito ugualmente a convincere tutti i DJ del mondo.

Qual è invece il brano che ha sancito lo stato di grazia della tua etichetta?
“Sueño Latino”. Non è stato il successo commerciale più grosso ma il primo disco che ci ha dato credibilità internazionale e fatto entrare nel club dei migliori.

Se avessi la possibilità di cavalcare il tempo a ritroso, quali errori non commetteresti più?
Di errori ce ne sono stati ma ormai è inutile rivangarli.

Hai mai sbagliato la valutazione di un pezzo giunto sulla tua scrivania?
Direi di no, non ho mai avuto la sfortuna di rifiutare un brano che poi è diventato un successo, a parte “Vamos A La Playa” dei Righeira. Quando ascoltai il provino di Johnson (Stefano Righi, nda) lo chiamai subito per dirgli che era una bomba ma qualcun’altro decise che fosse troppo commerciale per l’Italian Records. Comunque non saremmo stati capaci di realizzare l’impeccabile produzione dei fratelli La Bionda e per Johnson, quindi, è stato meglio così.

Per concludere, quali sono le tre parole che sintetizzano al meglio la tua avventura pluridecennale nella musica?
Incoscienza, fortuna e professionalità. “Incoscienza” perché senza quella avrei cercato un lavoro da dipendente, “fortuna” perché serve sempre, “professionalità” perché un colpo fortunato capita a tutti ma quando arriva devi avere gli strumenti per coglierlo.

(Giosuè Impellizzeri)

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Quando il remix batte l’originale

Di solito nella musica destinata alle discoteche le versioni originali restano imbattibili ma è capitato che a fare la differenza siano stati i remix, soprattutto negli anni Novanta quando tale pratica raggiunge probabilmente l’apice per esiti creativi e popolarità. A testimonianza ci sono brani noti unicamente attraverso i remix e di cui oggi è difficile recuperare le versioni originali, sepolte e dimenticate persino dagli stessi autori. L’articolo di Giosuè Impellizzeri che segue si pone il fine quindi di riassumere quanto avvenuto grazie ai remix nel decennio compreso indicativamente tra il 1990 e il 2000, sia a hit da milioni di copie che a brani dal successo più contenuto, per offrire al lettore un vero viaggio immersivo che conta oltre cento casi, in rigoroso ordine alfabetico e a cavallo dei generi più disparati, dall’eurodance alla house, dalla trance alla progressive. Non manca qualche particolare episodio in cui sarebbe più pertinente parlare di rivisitazione o dove il termine remix è stato usato in modo improprio. L’indagine evidenzia inoltre il ruolo tutt’altro che marginale rivestito dagli italiani, artefici in più di qualche sporadica occasione di autentiche hit mondiali. Il tutto senza la pretesa di essere esaustivo, probabilmente è utopico stilare una lista omnicomprensiva e per turare le falle della ricerca non è escluso che nel corso del tempo possano aggiungersi altri titoli e quindi nuove storie e testimonianze.

49ers - Baby, I'm Yours49ers – Baby, I’m Yours
La versione iniziale di “Baby, I’m Yours”, in chiave hi nrg, è pensata per essere esportata nel mercato orientale, quello a cui la Media Records destina diverse produzioni raccolte sotto il brand Media Sound For Japan. Il caso però vuole che Mario Scalambrin senta il pezzo negli studi roncadelliani e si offra spontaneamente per reinterpretarlo. A venir fuori è la versione più nota, la Van S Hard Mix (il Van è un tributo ad Armand Van Helden, la S invece sta per Scalambrin), completamente diversa da quella di partenza, col cantato di Ann-Marie Smith ridotto all’osso ed uno spingente giro di basso. «All’inizio non piacque a Bortolotti tanto che dovetti insistere parecchio per farla inserire sul 12″» racconta lo stesso Scalambrin in questa intervista. Finito alla fine del ’96 nel catalogo della Heartbeat, etichetta a cui abbiamo dedicato una monografia qui, “Baby, I’m Yours” rilancia il nome dei 49ers dopo alcuni pezzi passati inosservati soprattutto in Italia come spieghiamo qui ed apre un’elettrizzante fase per Scalambrin, A&R in carica della citata Heartbeat e da lì a breve autore (insieme a Roberto Guiotto) della versione più forte di “Gipsy Boy” di Sharada House Gang, una miscellanea tra “Hideaway” di De’Lacy e i suoni della sua reinterpretazione di “Baby, I’m Yours”.

740 Boyz - Shimmy Shake740 Boyz – Shimmy Shake
In scia alla rinnovata formula hip house in grande spolvero dopo i fasti iniziali sviluppati a Chicago, i 740 Boyz prodotti da Winston Rosa debuttano nel ’92 con “It’s Your Party”. Due anni più tardi arriva “Shimmy Shake” in stile miami bass, passato completamente inosservato. A cambiare le sorti del brano, nei primi mesi del 1995, è il remix realizzato in Italia da Costantino ‘Mixmaster’ Padovano e Ciro Sasso che lo stravolgono interamente ispirandosi in modo piuttosto palese allo stile degli Outhere Brothers, team chicagoano che in quel periodo si impone in Europa con diverse hit. Un autentico colpaccio per la Cutting Records dei fratelli Aldo ed Amado Marin che, archiviata l’electrofunk di Hashim, Imperial Brothers e Nitro Deluxe, vive una seconda giovinezza grazie ai 2 In A Room con “Wiggle It” ed altri fortunati singoli come “El Trago (The Drink)”, “Ahora! (Now!)”, “Giddy Up” e “Carnival” a cui i 740 Boyz (più avanti remixati anche da Fargetta, si senta “Party Over Here” del 1996) fanno da cornice.

Age Of Love - The Age Of LoveAge Of Love – The Age Of Love
Nel 1990 nessuno alla DiKi Records immagina cosa sarebbe diventato questo brano nel corso del tempo. Prodotto dall’italiano Bruno Sanchioni che assembla vari sample (tra cui quelli di “Native House” di MTS And RTT e “Native Love (Step By Step)” di Divine) a cui aggiunge una breve parte vocale femminile registrata ad hoc ed uno pseudo rap maschile scritto ed interpretato da un altro italiano, Giuseppe Chierchia meglio noto come Pino D’Angiò, “The Age Of Love” si trasforma in uno dei primi prototipi trance. Ai tempi della pubblicazione totalizza appena una manciata di licenze e circa duemila copie, soglia davvero risibile. La situazione si ribalta due anni più tardi quando, su iniziativa dell’etichetta britannica React, “The Age Of Love” viene remixata dall’emergente duo tedesco Jam & Spoon. La Watch Out For Stella Club Mix, come descritto in questo articolo, rimette tutto in discussione attraverso una schematizzazione diversa degli elementi di partenza che esalta il potere ipnotico dell’originale raggiungendo esiti virtuosistici inaspettati. Ad oggi è difficile stabilire con precisione quante copie siano state vendute ma, considerando la sfilza di remix e ristampe giunte sul mercato in circa un trentennio, è ipotizzabile stimarne oltre un milione.

AK Soul - FreeAK Soul – Free
Col fine di tornare al successo raccolto tra 1991 e 1993 con gli Euphoria, l’australiano Andrew Klippel si ribattezza prima Elastic e poi AK Soul. I primi tentativi sono vani ma è solo questione di tempo. Un suo pezzo intitolato “Free”, incluso nell’album omonimo in circolazione dal 1996 ed interpretato da Jocelyn Brown, stuzzica l’interesse di Joe T. Vannelli che lo prende in licenza dalla Festival Records e lo pubblica su Dream Beat prima coi remix (house) di Marco ‘Polo’ Cecere e poi con quello (eurodance) di Fargetta, particolarmente fortunato nel mainstream nostrano. Spazio anche a due reinterpretazioni dello stesso Vannelli, la Club Mix e la Corvette Mix (Corvette è il nome con cui in quegli anni il DJ sigla decine di remix tra cui quelli di “Return Of The Mack” di Mark Morrison, “Love Shine” di Rhythm Source, “Nite Life” di Kim English e “Looking At You” dei Sunscreem). Impreziosito da tutto ciò, nei primi mesi del 1998 “Free” esce dall’anonimato e vive un’ottima parabola europea a cui la Dream Beat cerca di dare un continuum attraverso i remix di un altro pezzo dell’album, “Show You Love”, ma raggiungendo inferiori risultati.

Amos - Only Saw TodayAmos – Only Saw Today
Collaboratore di vecchia data di Boy George, nella primavera del 1994 Amos Pizzey vive uno dei momenti più esaltanti della carriera. La More Protein, nata nel 1989 con “Everything Begins With An ‘E'” degli E-Zee Possee, un classico dell’acid house britannica, pubblica “Only Saw Today”, un brano house che Pizzey produce insieme ad Andronicus dei Diss-Cuss e in cui campeggia un sample di “Instant Karma!” di John Lennon. All’inizio la Murder Mix incuriosisce solo i DJ specializzati ma a mutare le sorti è il remix realizzato in Italia dal Factory Team composto per l’occasione da Fabio Serra, Mauro Farina e Johnny Di Martino che trasformano la house in eurodance, rendendo accessibile al grande pubblico ciò che invece è riservato ad una ristretta nicchia di ascoltatori. Visto il successo internazionale la versione approntata negli studi della Saifam, a Verona, viene scelta per sincronizzare il videoclip. Il Factory Team metterà mano pure ai successivi “Sweet Music” e “Let Love Shine” ma con esiti calanti.

Andreas Dorau - Girls In LoveAndreas Dorau – Girls In Love
Finito nelle classifiche nel 1981 con “Fred Vom Jupiter” realizzato quando è ancora adolescente, il musicista tedesco Andreas Dorau scrive musica per film e si interessa di video. Negli anni Novanta collabora con Tommi Eckart col quale realizza il brano “Girls In Love”. La versione originale, aperta dall’urlo preso da “Scream For Daddy” di Ish Ledesma, inclusa nell’album “70 Minuten Musik Ungeklärter Herkunft” ed accompagnata dal relativo videoclip è un’allegra canzoncina da intonare sotto la doccia. In Italia però ad avere la meglio è il remix di Wolfgang Voigt alias Grungerman. Riducendo la struttura e gli elementi al minimo indispensabile, il prolifico produttore di Colonia, co-fondatore della nota Kompakt, ottiene una traccia meno pop e scanzonata che però riesce incredibilmente a fare crossover tra le discoteche specializzate e le radio. Autentico collante tra la compassata griglia ritmica e le strofe in lingua tedesca è il ritornello, in inglese, ricavato da “Girl’s In Love” di Shirley Kim del ’78 e reinterpretato da Inga Humpe, che qualche anno più tardi forma col citato Eckart il duo 2raumwohnung. A pubblicare in Italia i remix di “Girls In Love” (ma escludendo la versione originale) è la PRG del gruppo Expanded Music. Parti del remix di “Girls In Love” si ritroveranno in un pezzo prodotto nella nostra penisola che, tra la fine del 1997 e il primi mesi del 1998, si afferma sulla piazza internazionale, “Repeated Love” di A.T.G.O.C., acronimo di A Thousand Girls One Condom.

Ayla - AylaAyla – Ayla
Praticamente sconosciuto in Italia ma non nel nord Europa dove vende svariate migliaia di copie, “Ayla” è il brano con cui, nel 1996, il tedesco Ingo Kunzi, già noto come DJ Tandu, inaugura un nuovo corso della sua carriera da produttore. Edita dalla Maddog del gruppo Intercord, la versione originale della traccia plana su incantati pad a cui si sovrappone, in progressione, una melodia di pianoforte. Poi arriva l’onda acida della TB-303 che si infrange portando schegge taglienti ed arroventate. A fare la differenza nelle classifiche è però il remix di Ralph Armand Beck alias Taucher in cui viene sviluppata una linea melodica più marcata che garantisce un’incredibile longevità ulteriormente riverberata dal remake di Kosmonova giunto nel 1997. A cimentarsi in un rifacimento è pure l’italiano Luca Moretti in “Ayla” su Italian Style Production, firmato come Sunrise nel 1998. Alla luce del successo ottenuto, Kunzi produrrà “Ayla Part II” avvalendosi del supporto di Taucher e dell’inseparabile Torsten Stenzel intervistato qui.

Azzido Da Bass - Dooms NightAzzido Da Bass – Dooms Night
Nel 1999 è la Club Tools del gruppo Edel a pubblicare il brano con cui il tedesco Ingo Martens materializza il progetto Azzido Da Bass. La Club Mix, prodotta ed arrangiata con Stevo Wilcken, è trance assemblata senza particolari doti creative e che rasenta la banalità per stesura e scelta di suoni (basso in levare, cassa con riverbero, accenni acid, melodia monocorde ed un sample estorto ad una hit di quell’anno, “Flat Beat” di Mr. Oizo). Tra i remix commissionati e pubblicati in seguito però ce n’è uno che cambia tutto, quello di Timo Maas (affiancato da Andy Bolleshon e Martin Buttrich), che trasforma Azzido Da Bass in una star internazionale con una soglia stimata di circa un milione di copie vendute. «Il primo remix che realizzammo di “Dooms Night” fu rifiutato dalla Edel perché all’interno non c’era nessun elemento tratto della traccia originale» racconta Maas in questa intervista. «Riprovammo usando solo il basso e dopo circa quattro ore il secondo remix, quello che oggi tutti conoscono, era pronto. Il primo lo riciclammo qualche tempo dopo e divenne la mia “Ubik”». Una cosa simile avviene anche in Italia giusto un paio di anni prima: il remix di “Back To The 70’s” di Carl si trasforma in “Disco Fever” di Carl Feat. Music Mind, così come lo stesso Fanini svela qui.

Basic Connection - Hablame LunaBasic Connection – Hablame Luna
Corre il 1996 quando la No Colors, etichetta del gruppo F.M.A., pubblica il 12″ di debutto di Basic Connection. Ad armeggiare dietro le quinte del progetto è il compositore e musicista Mauro Tondini, uno dei Tipinifini scritturati da Claudio Cecchetto per la sua Ibiza Records nel 1985, affiancato dalla vocalist Daniela Gorgoni. Il brano si intitola “Faithless (Hablame Luna)” ed è quasi interamente strumentale. L’Original Mix gira su un intensivo arpeggio che pare tributare “Where The Street Have No Name” degli U2 (proprio quell’anno ripreso in “Landslide” dagli Harmonix, sull’esempio offerto dall’australiano Mystic Force nel brano omonimo del ’94 a cui si ispirano pure Mario Più e Mauro Picotto per “No Name” nel ’97) mentre la Progressive Mix si adagia sull’annunciata formula progressive con tanto di graffiate acide che nel ’96 tiene banco in Italia spodestando l’eurodance nella sua forma più classica. “Faithless (Hablame Luna)” si perde nel marasma delle produzioni simili piombate quell’anno ma tutto cambia nell’autunno del 1997 quando riappare in una nuova versione, questa volta sviluppata sulla song structure ed intitolata “Hablame Luna”. Ridotta la componente progressive in favore di quella pop, il pezzo esplode in tutta Europa, trainato dal relativo videoclip in heavy rotation su MTV. Sul 12″ c’è pure il remix firmato da uno dei guru della house statunitense, Todd Terry, forse pensato per introdurre i Basic Connection in una scena parallela a quella pop ma in questo caso non determinante per il successo come invece avvenuto in altre occasioni.

Billie Ray Martin - Your Loving ArmsBillie Ray Martin – Your Loving Arms
A produrre “Your Loving Arms”, estratto come primo singolo da “Deadline For My Memories”, sono i Grid (quelli di “Texas Cowboys”) e il musicista David Harrow alias James Hardway. È proprio quest’ultimo ad approntare la base su cui la cantante, ex componente degli Electribe 101, scrive il testo. «Conservo ancora la cassetta su cui Hardway incise il demo, sopra c’era scritto “little techno demo”» racconta Billie Ray Martin in questa intervista. La versione più nota però non è l’Original, con arrangiamenti tangenti l’eurodance, bensì la Soundfactory Vocal realizzata da Junior Vasquez, che fa di “Your Loving Arms” una hit mondiale da circa due milioni di copie. «Non scelsi Vasquez personalmente ma fui entusiasta del suo lavoro» prosegue l’artista. «Senza il suo intervento il disco non sarebbe diventato quello che è stato».

Black Connection - Give Me RhythmBlack Connection – Give Me Rhythm
Black Connection è il progetto dietro cui operano i DJ capitolini Corrado Rizza e Gino ‘Woody’ Bianchi affiancati dal musicista Domenico Scuteri. Il nome sottolinea l’amore che gli autori nutrono per il funk, il soul e la musica black in generale. Nel 1997 realizzano, per la loro Lemon Records, il brano “Rhythm”, in cui figurano vari campioni vocali e ritmici presi dal mondo del philly sound. Quando Alex Gold dell’Xtravaganza Recordings si mostra interessato a licenziare il brano nel Regno Unito i tre decidono però di apportare delle modifiche e chiedono ad Orlando Johnson di scrivere un testo e cantarlo col fine di dare al risultato finale un’impronta più pop. Dopo queste variazioni la traccia viene reintitolata “Give Me Rhythm” ed affidata ai Full Intention che realizzano un nuovo remix che va ad affiancare quello di Victor Simonelli già presente sulla prima tiratura. A quel punto, come Corrado Rizza racconta in questo articolo, «il pezzo entrò nella classifica britannica e venne suonato da tutte le radio. Pete Tong lo inserì nella sua raccolta annuale, “Essential Selection – Spring 1998” e finì in tante altre compilation come quella del tour australiano del Ministry Of Sound e quella dello Space di Ibiza. Nei club dell’isla blanca divenne una vera hit! In Italia lo cedemmo alla VCI Recordings, divisione dance della Virgin che si fece avanti dopo il clamore suscitato oltremanica». Per i Black Connection, dunque, si rivela propizia la scelta di far cantare il brano ed è simile la sorte di altri pezzi commercializzati in forma strumentale ma diventati successi con la versione cantata, da “Needin’ You” di David Morales/The Face ad “Horny” di Mousse T., da “Right On!” dei Silicone Soul a “Da Hype” di Junior Jack passando per “Hindu Lover” di Djaimin, “Groovejet” di Spiller e “Jambe Myth” degli Starchaser.

Blackwood - Ride On The RhythmBlackwood – Ride On The Rhythm
Attivo sin dal 1992 ma più noto all’estero che in Italia, il progetto Blackwood si impone anche in patria alla fine del 1996 con “Ride On The Rhythm”. Scritto ed interpretato dalla vocalist americana Taborah Adams e prodotto da Toni Verde e Sandro Murru, il brano non sortisce grandi risultati con la prima tornata di remix tra cui quello di Marascia scopiazzato dal trattamento dei Deep Dish su “Hideaway” dei De’Lacy. Va diversamente però quando arriva la versione di Alex Natale, composta sulla falsariga del remix realizzato pochi mesi prima per “What Goes Around Comes Around” di Bob Marley, usata per il videoclip e cruciale per il successo. Il momento è galvanizzante per l’etichetta romana A&D Music And Vision che per un biennio circa continuerà a scommettere su Blackwood ed altri progetti complementari come Chase e Gate.

Blast - Crayzy ManBlast – Crayzy Man
Partiti nel 1993 col poco noto “Take You Right”, i siculi Blast (Fabio Fiorentino, Roberto Masi e il cantante Vito De Canzio alias V.D.C.) si impongono a livello internazionale l’anno dopo con “Crayzy Man”, oggetto di numerose licenze estere, Regno Unito e Stati Uniti inclusi. Sul 12″ edito dalla napoletana UMM la versione originale del brano, la Club On Blast, finisce sul lato b. A prevalere è il remix realizzato dai Fathers Of Sound (Gianni Bini e Fulvio Perniola) che traina il pezzo dalle discoteche specializzate alle classifiche radiofoniche e di vendita. «Con la loro versione chiamata F.O.S. In Progress i Fathers Of Sound stravolsero l’originale dotandola di sonorità più aperte e tipiche della house internazionale» afferma De Canzio in questa intervista qualche anno fa. «Riuscirono a valorizzare ulteriormente le nostre idee portando il brano ad un livello superiore, facendolo uscire dai confini della house da club traghettandolo nel mondo commerciale (nel senso positivo del termine), con un appeal vendibile e radiofonico». A supporto di “Crayzy Man” è pure il video girato al cretto di Burri e sincronizzato sulla F.O.S. In Progress. Saranno sempre i Fathers Of Sound a mettere mano al follow-up, “Princes Of The Night” mentre a “Sex And Infidelity” del ’95 ci penseranno gli svedesi StoneBridge e Nick Nice e i Ti.Pi.Cal. che, come i Blast, sono originari dell’isola della trinacria.

Bloodhound Gang - The Bad TouchBloodhound Gang – The Bad Touch
Corrono i primi mesi del 2000 quando la band indie rock statunitense Bloodhound Gang si ritrova proiettata inaspettatamente nell’eurodance. Ciò avviene attraverso il remix di un brano estratto dal terzo album “Hooray For Boobies”, pubblicato nel ’99 dalla Geffen e in circolazione attraverso un ironico videoclip. A dirla tutta la versione originale mostra già propaggini ballabili ma il trattamento riservato ad essa dagli Eiffel 65, ovviamente sullo schema di “Blue (Da Ba Dee)”, ne amplifica la portata sino a farne un classico proposto ancora oggi a distanza di oltre vent’anni. Per Lobina, Ponte e Randone è un momento magico sancito da decine di remix e dall’uscita del loro primo album, “Europop”, per cui pare la Universal abbia sborsato 500.000 dollari per assicurarsi i diritti.

Bob Marley - What Goes Around Comes AroundBob Marley – What Goes Around Comes Around
Così come riportato nelle note del 12″ e del CD su JAD Records, le parti vocali di “What Goes Around Comes Around” vengono registrate in Jamaica nel 1967 ma restano nel cassetto sino al 1996, anno in cui sul mercato arrivano diverse versioni come quelle di Fabian Cooke e di Christopher Troy e Zack Harmon. A fare la differenza però, senza timore di smentita, è quella realizzata in Italia da Alex Natale (affiancato da Alex Baraldi con cui l’anno dopo mette mano a “Oh What A Life”, un inedito di Gloria Gaynor), diventata una hit estiva. A pubblicare da noi “What Goes Around Comes Around” è la Dance Factory del gruppo EMI che, parimenti alla JAD Records, sottolinea l’inedicità del pezzo apponendo la dicitura “previously unreleased” in copertina. Natale e Baraldi ci riprovano l’anno seguente ritoccando “Fallin’ In & Out Of Love” ma non riuscendo nel difficile compito di eguagliare i risultati. Va meglio invece a “Sun Is Shining”, riconfezionata nel 1999 dal danese Funkstar De Luxe. Ps: tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97 un altro protagonista del reggae finisce in classifica con un remix, il giamaicano Jimmy Cliff. A curare la nuova versione di “Breakout” sono i fratelli Visnadi.

Bobby Brown - Two Can Play That GameBobby Brown – Two Can Play That Game
Ex componente dei New Edition, Bobby Brown si costruisce una solida carriera solista sin dal 1986, anno in cui debutta con “Girlfriend”. Svariati i successi incisi nel corso del tempo tra cui “My Prerogative” (remixato da Joe T. Vannelli), “Every Little Step”, “Something In Common”, duettando con la moglie Whitney Houston, e “Two Can Play That Game”, presente nella tracklist del suo quarto album, “Bobby”, uscito nel 1992. Il remix che consegna il brano r&b alla storia però arriva due anni dopo ed è firmato dai britannici K-Klass, abili nel ricostruire la tessitura ritmica in cui trova ricollocazione la voce di Brown. Il videoclip, programmatissimo da MTV, funge da propellente per la diffusione del pezzo finito nella top ten dei singoli più venduti nei Paesi Bassi e nella top twenty nel Regno Unito. In Italia il disco giunge nel 1995 grazie alla ZAC Records su licenza MCA. Negli advertising pubblicitari l’artista viene definito, con non poca esagerazione ed immodestia, “il re della dance music”.

B-Zet - Everlasting PicturesB-Zet – Everlasting Pictures
All’anagrafe è Steffen Britzke ma il mondo della musica lo conosce come B-Zet. Artefice, insieme a Matthias Hoffmann, Ralf Hildenbeutel e Sven Väth, di progetti come Mosaic, Odyssee Of Noises e They, il tedesco veste i panni di B-Zet dal 1993, anno in cui pubblica il primo album da solista, “Archaic Modulation”. I suoi interessi primari risiedono nella trance e nell’ambient, i due filoni entro cui si inscrive il brano “Everlasting Pictures (The Way I See)”, incluso nel secondo album intitolato “When I See…” e in cui si apprezza una breve parte cantata da Darlesia Cearcy. Nella tracklist dell’LP edito da Eye Q esiste una seconda versione, “Everlasting Pictures (Right Through Infinity)”, con maggiori concessioni al downtempo ed alla song structure. Nell’autunno del 1995 a decretare la fortuna di Britzke, riconosciuto come straordinario tastierista, è proprio uno dei remix di “Everlasting Pictures – Right Through Infinity”. A firmarlo sono StoneBridge e Nick Nice che continuano a riciclare la formula utilizzata per un altro epocale remix di cui si parlerà più avanti, quello di “Show Me Love” di Robin S.

Cappella - U Got 2 Let The MusicCappella – U Got 2 Let The Music
Quello dei Cappella è un caso non legato propriamente a un remix bensì a una reinterpretazione di un pezzo preesistente. Tutto ha inizio nel 1992 quando la Aries Records pubblica “Let The Music” di Legend, un brano eurodance costruito sul riff preso da “Sounds Like A Melody” degli Alphaville e un frammento vocale di “Let The Music Take Control” dei J.M. Silk. A produrlo è Pierre Feroldi, DJ bresciano particolarmente prolifico allora, seppur sulla white label promozionale, si dice limitata a una tiratura di poche decine di copie, non vengano riportate molte informazioni. Nell’autunno dell’anno dopo la rielaborazione del brano riappare sulla Media Records diventando la hit planetaria dei Cappella. «Due transfughi della Media Records tentarono di mettersi in proprio fondando una nuova etichetta, la Aries, ma si ritrovarono in seria difficoltà pochi mesi dopo essersene andati» racconta Gianfranco Bortolotti in questa intervista del 2015. «Pentiti della loro fuga, mi pregarono di aiutarli e salvarli dal fallimento così affidai il compito a Vicky, la figlia del mio socio Diego Leoni, di gestire quell’azienda mentre chiudevamo i rapporti coi fornitori e i creditori e valutavamo il prodotto ereditato. Tra i brani che avevano realizzato ne scovai uno che mi colpì e, seppur i miei collaboratori più stretti mi criticarono a lungo convinti che l’idea non avrebbe sortito buoni risultati, decisi che quello dovesse essere il punto di partenza per il follow-up di “U Got 2 Know” dei Cappella. Così, dopo circa quindici/venti rimaneggiamenti, trovai la soluzione, il mixaggio adeguato, l’alchimia giusta e fu un massacro, top in tutto il mondo». Delle tantissime versioni di “U Got 2 Let The Music” approntate negli studi a Roncadelle, la KM 1972 Mix di Pagany è quella più nota ed efficace. Analogamente a Cappella, anche altri brani trovano fortuna attraverso rielaborazioni: si segnalano “Technotronic” di The Pro 24’s da cui nasce “Pump Up The Jam” dei Technotronic, “Babe Babe” di Joy & Joyce e “Try Me Out” di Lee Marrow, diventati rispettivamente “Baby Baby” e “Try Me Out” di Corona, “Don’t You Worry” di Caminita Feat. Lorena Haarkur ricostruito per generare “Don’t Worry” di Clutch e “Get Together” di DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue trasformata in “Move Your Feet” di Jack Floyd (parliamo dettagliatamente di entrambe qui e qui), “Future Love” di Brahama premiata quando diventa “Future Woman (Future Love)” di Brahama / Rockets e “Mutation” di Pivot convertita, ma pare senza alcun intervento, nella Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” firmata Tony H.

Ce Ce Peniston - FinallyCe Ce Peniston – Finally
Quando il produttore Manny Lehman sente la voce della Peniston in alcuni brani di Overweight Pooch chiede al DJ Felipe Delgado, che pare avesse spronato l’amica cantante a collaborare con la rapper, di preparare un pezzo ad hoc per lei. A sua volta Delgado interpella un amico, Rodney Jackson, ed insieme approntano la versione originale di “Finally”. Per la A&M Records è un successo quasi istantaneo, la canzone entra nella Hot 100 di Billboard rimanendoci per ben 33 settimane e raggiungendo la quinta posizione il 18 gennaio 1992. A supporto giunge un remix che porta la giovane nativa di Dayton, in Ohio, a sfiorare la vetta della classifica di vendita dei singoli nel Regno Unito. Artefice è David Morales, l’anno prima all’opera su “Deep In My Heart” dei nostri Club House, che realizza la Choice Mix ispirato dal riff di pianoforte di “Someday”, successo di Ce Ce Rogers del 1987 prodotto da Marshall Jefferson. Da Ce Ce (Rogers) a Ce Ce (Peniston) è un attimo.

Cenith X - FeelCenith X – Feel
Dietro Cenith X c’è Achim Schönherr, compositore presumibilmente tedesco che nel 1995 debutta con “Feel”. La versione originale del pezzo incisa sul lato b, la SMP-Club Mix, scorre su layer di hammond e pianoforte, elementi tipicamente house ma per l’occasione piantati su una base ritmica a velocità sostenuta. A fare da collante tra le parti è un breve campione vocale femminile da cui deriva il titolo del brano. La 3 Lanka che pubblica il disco però scommette tutto sul remix realizzato dai Legend B (Peter Blase e Jens Ahrens), costruito sulla falsariga della loro “Lost In Love” uscita pochi mesi prima. È proprio questa versione, diventata un classico dell’hard trance, ad essere sincronizzata col videoclip e a decretare il successo in patria e in altri Paesi europei, Italia inclusa dove “Feel” gode del supporto di Molella nella prima edizione del programma Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui. A licenziarla da noi è la Discomagic che la convoglia su una delle sue innumerevoli etichette, la Hard Dance. Sul 12″ c’è pure un secondo remix a firma CZ 101, stilisticamente più affine alla versione di Schönherr.

Charlie Dore - Time Goes ByCharlie Dore – Time Goes By
Attrice, musicista e cantautrice pop/folk, la britannica Charlie Dore incide dischi sin dal 1979 col supporto della Island. Nel corso del tempo scrive prevalentemente per artisti di alto calibro come Tina Turner e Celine Dion (è suo il testo di “Refuse To Dance”, da “The Colour Of My Love” del ’93) ma non perde mai la voglia di riproporsi come interprete ed infatti nel 1995, a quattordici anni dal precedente, incide il terzo album, “Things Change”. All’interno, tra le altre, c’è “Time Goes By” che nella sua versione originale passa totalmente inosservata. Sono gli italiani Souled Out a stravolgere le sorti della canzone, data in pasto al popolo che anima le discoteche tra la fine del ’96 e l’inizio del ’97. Il successo è tale da richiedere anche un videoclip. La Bustin’ Loose Recordings, ai tempi guidata dall’A&R Stefano Silvestri, completa il quadro con ulteriori versioni affidate ad altri remixer di pregio tra cui Mike Delgado, Ivan Iacobucci e i fratelli Visnadi.

Chase - Stay With MeChase – Stay With Me
Come avvenuto a Blackwood, anche i primi anni del progetto Chase sono legati al “nemo propheta in patria”. Con “Obsession” però, inizialmente pubblicato con l’omonimo nome artistico e prodotto in scia al remix di “Missing” degli Everything But The Girl (da cui trae, oltre ad un sample ritmico, pure l’atmosfera tra romantico e malinconico), anche l’Italia cede al progetto eurodance che spopola tra la primavera e l’estate ’97. Da quel momento voce ed immagine vengono affidate alla cantante Cindy Wyffels. La fortuna di “Stay With Me”, uscito in autunno, risiede nel remix realizzato dagli stessi autori, Toni Verde e Sandro Murru, affiancati da Marascia, che puntano alla miscela del precedente così come vuole la ricetta del classico follow-up. La versione originale invece è una ballata pop rock, inserita nell’album “Barefoot” ma poco nota al grande pubblico. Anche per il singolo seguente, “Gotta Lot Of Love”, uscito ad inizio ’98, è determinante il remix questa volta affidato a Mario Fargetta coadiuvato in studio da Graziano Fanelli e Max Castrezzati.

Chicane - OffshoreChicane – Offshore
Gran Bretagna, 1996: Nicholas Bracegirdle è un musicista venticinquenne con studi classici maturati alle spalle ma attratto sin dall’infanzia dall’elettronica di compositori come Vangelis, Jean-Michel Jarre o Harold Faltermeyer e di gruppi come Yazoo. Durante la rave age scocca la scintilla per la nuova dance grazie ad “Anthem” degli N-Joi: «era una traccia ballabile con fantastici cambi di tonalità e melodia» spiega in un’intervista a Top Magazine ad aprile del 2000. Nel suo futuro però c’è musica piuttosto diversa da quella degli N-Joi, più rilassata, distesa e sognante, impregnata di una sorta di romanticismo misto a malinconia. «Tutto nasce dalle lunghe vacanze estive che trascorrevo coi miei genitori da bambino» spiega ancora in quell’intervista. «Ero sempre l’ultimo in spiaggia, quello che non voleva mai andarsene quando la bella stagione finiva. Credo di essermi sempre portato dietro questa sensazione di malinconia». È quell’atmosfera a contraddistinguere i suoi primi lavori discografici tra cui “Offshore EP #1”, uscito nel ’96 sull’etichetta pare creata dallo stesso autore, la Cyanide. Uno dei quattro brani racchiusi all’interno dell’extended play e prodotti in coppia con Leo Elstob è “Offshore”, crocevia tra contorte porzioni ritmiche breakkate e melodie che disegnano paesaggi incontrastati, ispirate da “Love On A Real Train” dei Tangerine Dream e “The Boys Of Summer” di Don Henley. Realizzata con modesti mezzi, inizialmente la traccia desta poca attenzione perché poco ballabile e quindi scarsamente utilizzabile in discoteca se non in particolari situazioni, quelle gergalmente dette “da decompressione”. La situazione viene capovolta però da un remix realizzato dagli stessi Bracegirdle ed Elstob nascosti dietro il nome Disco Citizens, pseudonimo con cui avevano già firmato “Right Here Right Now” l’anno prima per la Deconstruction. Ora dotato di un impianto ritmico in 4/4, “Offshore” viene acquisito dalla neonata Xtravaganza Recordings di Alex Gold e volta alto nelle classifiche di tutto il mondo (Stati Uniti inclusi) col suo carico “chill-trance”, ulteriormente riverberato in un videoclip sincronizzato proprio sul remix. Nel 1997 viene ufficializzata anche la versione cantata, realizzata a mo’ di mash-up dal DJ australiano Anthony Pappa incrociando la base del remix di “Offshore” all’acappella di “A Little Love A Little Life” dei Power Circle. Questa rivisitazione conquista il pubblico britannico e finisce anche nella tracklist del primo album di Chicane, “Far From The Maddening Crowds”, insieme ad altri singoli estratti, “Sunstroke”, “Red Skies” e “Lost You Somewhere”. Per Bracegirdle è solo l’inizio di una sfolgorante carriera che tocca l’apice tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila grazie a “Saltwater”, rilettura di “Theme From Harry’s Game” dei Clannad, e “Don’t Give Up” che vanta un featuring d’eccezione, quello di Bryan Adams.

CJ Bolland - Sugar Is SweeterCJ Bolland – Sugar Is Sweeter
Estratto dall’album “The Analogue Theatre” del 1996, lo stesso da cui proviene “The Prophet”, “Sugar Is Sweeter” è il brano in cui l’autore condensa una breakbeat rabbiosa ed intensa, sullo stile di “Poison” dei Prodigy a cui pare essersi ispirato scatenando peraltro le ire dei fan del gruppo di Liam Howlett. Il pezzo di Bolland non ha la forza di diventare trasversale però avviene comunque qualcosa che ne cambia gli esiti. Col suo remix, Armand Van Helden sostituisce la radice della traccia spostandola dalle sincopi del breakbeat alle misure quaternarie della house, nonostante il nome della versione, Drum ‘n Bass Mix, faccia pensare ad altro. Un ruolo più marginale spetta alla parte vocale della belga Jade 4 U a cui spetta un trattamento simile a quello riservato a Tori Amos e la sua “Professional Widow” di cui si parla più avanti.

Cornershop - Brimful Of AshaCornershop – Brimful Of Asha
Similmente ai Bloodhound Gang di cui si è già detto sopra, i britannici Cornershop vengono dall’indie rock. Quando “Brimful Of Asha”, uno dei brani del loro terzo album pubblicato nel ’97 ed intitolato “When I Was Born For The 7th Time”, finisce nelle mani di Norman Cook, dell’indie rock di partenza però rimane ben poco. Il DJ di Brighton, ribatezzatosi Fatboy Slim nel 1995 con “Santa Cruz” ed “Everybody Needs A 303”, ne ricava un incalzante inno big beat spinto da un hook che resta impresso a fuoco nella memoria di una generazione, “everybody needs a bosom for a pillow”. Cook conferma dunque la sua straordinaria versatilità dopo alcune prove ben riuscite tra ’96 e ’97 (“I’m Alive” di Stretch & Vern, “Renegade Master” di Wildchild) a cui se ne aggiungeranno molte altre in futuro (“Body Movin'” dei Beastie Boys, “King Of Snake” degli Underworld, “I See You Baby” dei Groove Armada, “Ride The Pony” dei Peplab, “I Get Live” di Mike & Charlie giusto per citarne alcune) ad eternare l’apice creativo.

CRW - I Feel LoveCRW – I Feel Love
Le prime due versioni di “I Feel Love”, l’Extended Mix e la Clubby Mix, escono nel 1998 su una delle tante etichette della Media Records, la Inside, e battono il percorso progressive trance. A produrle sono Mauro Picotto ed Andrea Remondini. In Italia non avviene niente a differenza dei Paesi mitteleuropei dove escono alcuni remix tra cui quello degli olandesi Klubbheads, richiestissimi dopo le hit “Discohopping” e “Kickin’ Hard”. Tuttavia a fare la differenza qualche tempo dopo è una versione riconfezionata in Italia, la R.A.F. Zone Mix, dagli stessi Picotto e Remondini che rivedono sia la parte ritmica che quella melodica, scardinando l’impostazione iniziale a favore di un costrutto che si rifà ai bassi ragga della speed garage e che viene decorato dalla sibillina voce di Veronica Coassolo. A pubblicare la nuova versione oltremanica è la Nukleuz e da quel momento è un effetto domino che contagia, tra le altre, la VC Recordings del gruppo Virgin e la statunitense Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez. A ben poco servono ulteriori remix come quello di JamX & De Leon alias DuMonde e DJ Isaac. In scia al successo di “I Feel Love” Picotto e Remondini, sempre nelle vesti di CRW, contribuiscono sensibilmente al successo di “On The Beach” di York con una versione di cui si parla nello specifico più avanti.

Cunnie Williams Feat. Monie Love - SaturdayCunnie Williams Feat. Monie Love – Saturday
Cantante r&b dalla potente voce paragonata più volte a quella di Barry White, Cunnie Williams debutta nel 1993 con l’album “Comin’ From The Heart Of The Ghetto” prodotto da Ralf Droesemeyer dei Mo’ Horizons. Nel ’99, messo sotto contratto dalla Peppermint Jam, incide “Star Hotel”, il terzo LP in cui presenzia, tra le altre, “Saturday”, un brano a cui partecipano Inaya Day e Monie Love. La versione che gli garantisce massima visibilità nei primi mesi del 1999 però è la Welcome To The Star-Hotel Mix approntata da Mousse T., il DJ tedesco di origini turche che finisce sotto i riflettori l’estate precedente con “Horny ’98”, versione cantata dell’omonimo brano strumentale passato del tutto inosservato e realizzato riciclando parti ritmiche del remix confezionato per “Ghosts” di Michael Jackson uscito nel 1997, quando altresì remixa “All My Time” di Paid & Live Feat. Lauryn Hill. È sempre Mousse T. a mettere mano a un altro singolo di Cunnie Williams, “A World Celebration”, rigato dal rap di Heavy D.

Da Hool - Meet Her At The Love ParadeDa Hool – Meet Her At The Love Parade
Il tedesco Frank Tomiczek inizia a produrre musica nei primi anni Novanta come DJ Hooligan (è tra i nomi citati dagli Scooter in “Hyper Hyper”). Nel 1996, anno in cui vara l’etichetta B-Sides, modifica lo pseudonimo in Da Hool. Proprio su B-Sides, in autunno, esce un EP intitolato “Meet Her At The Love Parade” aperto dalla traccia omonima. Ritmicamente rasenta la banalità ma contiene un riff di sintetizzatore che resta appiccicato alle orecchie come un chewing gum sotto le scarpe. «Contrariamente a quanto diffuso su internet, il brano non fu dedicato a nessuna donna» chiarisce Tomiczek contattato per l’occasione qualche tempo fa. «Lo realizzai in una sola notte, dopo essere tornato dalla Love Parade. Forse a causa dell’esagerata euforia non riuscivo a prendere sonno, mi chiusi in studio e “Meet Her At The Love Parade” fu il risultato. Colsi al volo l’ispirazione che mi diede la parata berlinese con le sue impareggiabili atmosfere e fu l’ironia a suggerirmi quel titolo, era praticamente impossibile trovare qualcuno che si conoscesse in mezzo ad una folla di un milione di persone». I responsi raccolti dal brano non sono entusiasmanti ma la situazione cambia nel 1997 quando la Kosmo Records lo reimmette sul mercato col remix più accattivante realizzato da Nalin & Kane che quell’anno spopolano con “Beachball”. Il successo è clamoroso (si parla di circa sei milioni di copie vendute) e il titolo trasforma il brano di Da Hool nell’inno non ufficiale della Love Parade ’97 (l’ufficiale è “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam). In Italia è un’esclusiva della Bonzai Records Italy del gruppo Arsenic Sound guidato da Paolino Nobile intervistato qui.

Dakar & Grinser - Stay With MeDakar & Grinser – Stay With Me
Formato da Christian ‘Dakar’ Kreuz (sintetizzatori, voce) e Michael ‘Grinser’ Kuhn (sintetizzatori, batteria elettronica), il duo Dakar & Grinser debutta nel ’96 con “Shot Down In Reno”. Supportati dalla Disko B, tre anni dopo i tedeschi incidono un album, “Are You Really Satisfied Now”, che si inserisce a pieno titolo nel vasto campionario pre-electroclash con rimandi a suoni e musiche del passato (come “I Wanna Be Your Dog”, cover dell’omonimo degli Stooges di Iggy Pop uscito trent’anni prima). Nella playlist dell’LP c’è pure “Stay With Me”, una traccia costruita sul formato canzone ma senza tradire ambizioni schiettamente commerciali. Non succede nulla sino a quando l’etichetta di Peter Wacha lo ripubblica come singolo, nella primavera del 2001, dotandolo di nuove versioni remix a firma Patrick Pulsinger, Abe Duque, Portofino Rockers e Gary Wilkinson. Tuttavia a trascinare la traccia nelle programmazioni radiofoniche è la 2001 Mix (ribattezzata Murphy’s Law Single Mix sul CD singolo) realizzata da Christian Kreuz e Tobi Neumann, una rivisitazione scandita da un ammiccante giro di chitarra ed un fascinoso retrogusto retrò che manda subito in solluchero quei DJ che hanno lasciato parte di cuore negli anni Ottanta. In Italia a descrivere il pezzo in toni entusiastici attraverso le pagine del magazine DiscoiD ad aprile 2001 sono Vincenzo Viceversa, che definisce Dakar & Grinser «i campioni assoluto del nuovo techno-pop», e Massimo Cominotto che invece parla di “Stay With Me” come «il suo pezzo del momento». L’interesse cresce al punto da creare i presupposti per una licenza rilevata dalla Ultralab, neonata etichetta dance del gruppo Virgin curata da Ilario Drago che sul 12″, oltre alla Murphy’s Law Single Mix (sincronizzata sul videoclip e finita persino nella compilation del Festivalbar) e al remix di Abe Duque, solca pure una versione realizzata in loco dai P&F ossia Paolino Rossato e Francesco Marchetti, che garantisce a Dakar & Grinser la presenza in altre compilation di dance generalista come la “Deejay Parade” di Albertino e la “Discomania Mix” di Radio 105.

Dana Dawson - 3 Is FamilyDana Dawson – 3 Is Family
Dana Dawson incide il primo disco per la CBS, “Ready To Follow You”, nel 1988 quando ha appena quattordici anni. Nel ’91 esce l’album “Paris New-York And Me” che la aiuta a farsi notare anche in Europa ma per la consacrazione definitiva dovrà attendere ancora qualche tempo. Nel 1995, sotto contratto con la EMI, arriva il secondo LP “Black Butterfly” prodotto da Narada Michael Walden. Uno dei pezzi racchiusi al suo interno è “3 Is Family” in cui la cantante statunitense esprime al massimo la vocazione soul/r&b anche se a spopolare è uno dei remix, quello di Dancing Divaz. Velocizzato e trascinato su una base disco house impostata su un ammaliante giro di pianoforte che pare citare “Drive My Car” dei Beatles e che anni dopo forse ispira “Gimme Fantasy” dei Red Zone da cui nel 2002 Gianni Coletti trae il suo più grande successo, il brano si impone nelle discoteche di tutto il mondo. La EMI prova a replicare i risultati attraverso “Got To Give Me Love”, “How I Wanna Be Loved” e “Show Me” dati in pasto al mondo della notte ma con risultati calanti. L’obiettivo della Dawson non è la dance (seppur nel ’97 interpreti “More More More” di Dolce & Gabbana, remake dell’omonimo di Andrea True Connection) ma i musical di Broadway dove approda nel 2000. La sua carriera si ferma nel 2010 quando perde la lotta contro il cancro. Ha solo trentasei anni.

Datura - Mystic MotionDatura – Mystic Motion
Insieme a “Devotion e “Passion”, “Mystic Motion” è tra i brani nati sull’asse Italia-Germania nel 1993, scritti dai Datura (che ai tempi sono in quattro, i musicisti Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani e i DJ Cirillo e Ricci) e la cantante tedesca Billie Ray Martin. “Devotion” si impone proprio quell’anno come hit estiva ma gli altri due restano confinati alla tracklist di “Eternity”, il primo (ed unico) album che il team bolognese incide per la Irma Records. Nel 1995 Pagano e Mazzavillani passano alla Time Records firmando “Infinity” con gli U.S.U.R.A. a cui segue, in autunno, “Angeli Domini”. In parallelo la Irma rispolvera “Mystic Motion” attraverso vari remix tra cui quello dei Bum Bum Club che, strizzando l’occhio allo stile di StoneBridge, ne fanno un successo stagionale. Ulteriori rivisitazioni, come quella di Charles Webster, giungono dall’estero. Visti i risultati, nel ’96 ai Bum Bum Club viene commissionato anche il remix di “Passion” che però ottiene responsi più contenuti.

Deejay Punk-Roc - My BeatboxDeejay Punk-Roc – My Beatbox
Tra 1997 e 1998 la fortuna di alcuni brani come “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam, “Sonic Empire” di Members Of Mayday, “Super Sonic” di Music Instructor ed “Energie” di U96 riportano sotto i riflettori del panorama mainstream l’electrofunk di inizio anni Ottanta. In questo contesto stilistico si inserisce “My Beatbox” di Deejay Punk-Roc, progetto che batte bandiera britannica ma gestito secondo una metodologia tipicamente italiana: in studio opera Jon Paul Davies mentre le esibizioni pubbliche toccano al DJ americano Charles Gettis. “My Beatbox” catalizza l’attenzione generale col supporto di MTV che manda in onda il video più volte al giorno. A decretare una diffusione maggiore del brano, qualche tempo dopo finito nella colonna sonora del videogioco per PlayStation “Thrasher Presents Skate and Destroy”, è il remix di Stuart Price alias Les Rythmes Digitales che la Independiente riversa pure sul successivo “Far Out”. Il DJ e produttore anglosassone, noto anche come Jacques Lu Cont, Man With Guitar e Thin White Duke, linearizza il ritmo trasformandolo nel pianale su cui installare la filastrocca eseguita col talkbox e la spirale di basso rotolante che prefigura con lungimiranza gli stilemi dell’electro house post electroclash, gli stessi che utilizzerà anni dopo per produrre “Confessions On A Dance Floor” di Madonna trainato dai singoli strapazzaclassifiche “Hung Up” e “Sorry”.

De'Lacy - HideawayDe’Lacy – Hideaway
La versione originale di “Hideaway”, prodotta dai Blaze e cantata da Rainie Lassiter, esce nel 1994 su Easy Street Records. Pare un pezzo garage come tanti che escono ai tempi, destinato a non lasciare il segno, ma quando l’anno dopo arriva il remix dei Deep Dish tutte le previsioni vengono azzerate. La versione di Dubfire e Sharam, lunga quasi dodici minuti, conta su un’irresistibile sezione ritmica su cui si arrampica gradualmente l’anima del brano, con la voce della Lassiter abbinata agli accordi di un organo liturgico. Il successo contagia tutta l’Europa al punto da spingere la casa discografica a girare un videoclip sincronizzato proprio sul remix dei Deep Dish. Quasi irrilevante invece la versione dei K-Klass, esclusa dalla stampa italiana sulla rediviva Full Time tornata in attività dopo un periodo di pausa. Ai Deep Dish spetta remixare il follow-up, “That Look”, ma è difficile o forse impossibile bissare i risultati di “Hideaway”. Decisiva invece la versione di “All I Need Is Love” realizzata a fine ’97 dall’italiano Massimo Braghieri alias Paramour.

Delerium Feat. Sarah McLachlan - SilenceDelerium Feat. Sarah McLachlan – Silence
Nato da una costola dei Front Line Assembly, Delerium è un progetto partito nel 1988 che si muove nei territori industrial e dark ambient. Nel 1999 la Nettwerk pubblica il remix di “Silence”, uno dei brani dell’album “Karma” uscito nel ’97. La versione originale, in bilico tra new age e downtempo, pare pagare il tributo agli Enigma di Michael Cretu. Nella loro Sanctuary Mix i Fade (Chris Fortier e Neil Kolo) ricostruiscono il pezzo rendendolo ballabile ma nel contempo preservando parte della caratteristica atmosfera gregoriana. Tutto ciò però non basta. È un olandese a fare la differenza: Tiësto, da Breda, con gli oltre undici minuti del suo In Search Of Sunrise Remix, trasforma “Silence” in un inno, valorizzando la voce di Sarah McLachlan con una serie di plananti pad. Più euforica la versione degli Airscape ma incapace di reggere il confronto con quella di Tiësto destinato ad una sfolgorante carriera da DJ.

DNA Featuring Suzanne Vega - Tom's DinerDNA Featuring Suzanne Vega – Tom’s Diner
Incluso in una raccolta del 1984 allegata alla rivista Fast Folk Musical Magazine, “Tom’s Diner” è il brano acappella scritto qualche tempo prima dalla cantautrice californiana Suzanne Vega ispirata da un piccolo ristorante, il Tom’s Restaurant per l’appunto, situato a Broadway. Nel 1987 il pezzo viene incluso nell’album “Solitude Standing” ed estratto come singolo ma senza raccogliere grandi consensi. A creare i giusti presupposti per il successo internazionale sono i DNA ossia i produttori britannici Nick Batt e Neal Slateford che nel 1990 ricollocano la voce della Vega su una base downtempo carpendo un sample a “Keep On Movin” dei Soul II Soul dell’anno prima. In assenza delle autorizzazioni necessarie, i due si vedono costretti a solcare la versione su un’anonima white label sulla fittizia S+B Records che inizialmente circola solo nelle discoteche. In qualche modo quella rivisitazione giunge alla Vega e il verdetto positivo convince i dirigenti della sua etichetta, la A&M Records, a credere nel progetto e pubblicarlo ufficialmente. “Tom’s Diner” così, supportato adeguatamente dal videoclip diretto da Gareth Roberts, si impone in tutto il mondo, conquistando la top 5 delle due classifiche più ambite di allora, quella britannica e quella statunitense. Per la canzone si apre un secondo ciclo biologico, ben più fortunato rispetto al primo, scandito da nuovi remix, remake (tra i più recenti quello firmato da Giorgio Moroder con l’ausilio vocale di Britney Spears), campionamenti e, non meno importante, l’utilizzo da parte dell’ingegnere del suono Karlheinz Brandenburg per mettere a punto il sistema di compressione di un formato che avrebbe stravolto la musica nel nuovo millennio, l’MP3 (per approfondire si rimanda a questo articolo). Entusiasmati dai risultati, i DNA scommettono ancora sui campionamenti come avviene in “Rebel Woman”, in cui riciclano il riff di “Rebel Rebel” di David Bowie, o ne “La Serenissima”, cover dell’omonimo dei nostri Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi.

Duke - So In Love With YouDuke – So In Love With You
Cantautore e polistrumentista, Mark Adams nasce a Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell’Inghilterra. I suoi modelli di riferimento in età adolescenziale sono idoli del soul come Marvin Gaye, Isaac Hayes e Sly & The Family Stone ma pure eroi della generazione rock n roll, da Buddy Holly a Little Richard passando per Gene Vincent ed Eddie Cochran. Insieme alla sua band chiamata Catch 22 si esibisce nei locali della città natale con un repertorio di cover di classici degli anni Cinquanta. Poi, complice l’annuncio su una tv privata, entra nella formazione dei One Hand One Heart incidendo, nei tardi anni Ottanta, alcuni singoli ed un album per la Epic. Per la sua carriera solista si ribattezza Duke debuttando con “New Beginning”, prodotto da Tony Mansfield e remixato, tra gli altri, da Jaydee ma senza grandi risultati. Poi arriva “So In Love With You” in cui fa sfoggio delle sue abilità vocali di chiara matrice soul. A spalancargli le porte del successo è uno dei remix del pezzo, quello realizzato da Norman Cook (prossimo ad imporsi come Fatboy Slim) e firmato con lo pseudonimo Pizzaman. Come afferma lo stesso Adams nella sua biografia, tutto inizia nei Paesi Bassi dove DJ Marcello suona per primo il remix di “So In Love With You” all’Escape di Amsterdam. L’interesse della Virgin fa il resto, trasformando Duke in uno dei protagonisti della scena dance/house nell’autunno 1995 e facendone una sorta di nuovo Jimmy Somerville. Ad accaparrarsi la licenza in Italia è la Propio Records di Stefano Secchi che, sfruttando il momento propizio, commissiona altre versioni (tra cui quelle di Miky B, Max Baffa, Franco Moiraghi e del compianto Mauro M.B.S.) raccolte in un doppio vinile.

Elektrochemie LK - SchallElektrochemie LK – Schall
Coniato nel 1995 col brano “Da Phonk”, Elektrochemie LK è uno degli pseudonimi utilizzati dal tedesco Thomas Schumacher. Nel 1996 la Confused Recordings pubblica “Schall & Rauch” aperto proprio da “Schall” in cui il DJ originario di Brema sovrappone balbuzienti tessere vocali campionate da “Acid Poke” di Adonis (ma ignorandone il significato, come lui stesso ammette qui) ad un basso sbilenco che funge da argano per tirarsi dietro un granitico beat. La traccia funziona bene nei club di matrice techno ma non è memorabile. Nel 1999 è sempre la Confused Recordings a rimettere in circolazione “Schall” attraverso un remix realizzato da Schumacher stesso che ricostruisce il mosaico questa volta adoperando un basso distorto ed un reticolo ritmico più incisivo. Grazie a queste nuove caratteristiche si fa avanti la Leaded, etichetta del gruppo Warner che ripubblica il brano in Germania sia su 12″ che CD, abbinandolo ad ulteriori remix (Toktok, Pascal F.E.O.S., Thomas P. Heckmann). L’attenzione cresce e contagia pure il Regno Unito dove se lo aggiudica la FFRR che nel pacchetto inserisce la versione di Trevor Rockcliffe. Si accodano poi altre nazioni europee come Francia, Spagna, Paesi Bassi e Danimarca. A prenderlo in licenza in Italia invece è la Media Records che lo convoglia sulla sua etichetta di punta, la BXR. Tra 2000 e 2001 il fortunato remix di “Schall” approntato da Schumacher fa ingresso in decine di compilation e finisce pure nella programmazione delle tv musicali grazie al videoclip. Il successo è tale da spingere la Leaded a scommettere sull’album, “Gold!”, da cui viene estratto “Girl!”, abilmente costruito su un vecchio pezzo rock dei Kinks, “All Day And All Of The Night”, e in cui figura, tra le altre, “When I Rock”, un pezzo che Schumacher firma col suo nome anagrafico nel ’97 vendendo ben 25.000 copie e che la Warner decide di rilanciare e ripubblicare come Elektrochemie LK abbinandolo ad un paio di remix realizzati per l’occasione da DJ Rush e dall’italiano Santos.

Energy 52 - Cafe Del MarEnergy 52 – Café Del Mar
Partito nel 1991 da un’idea del DJ tedesco Paul Schmitz-Moormann meglio noto come Kid Paul, il progetto Energy 52 emerge due anni più tardi quando la nota Eye Q Records di Sven Väth, Matthias Hoffmann ed Heinz Roth pubblica “Café Del Mar”. Ispirata nel titolo dal noto bar ibizenco e nel suono da “Struggle For Pleasure” del compositore belga Wim Mertens, la traccia diventa un caposaldo della prima ondata trance teutonica istigata dalla MFS di Mark Reeder. Sul 12″ della Eye Q ci sono due versioni, quella di Kid Paul e quella di Harald Blüchel alias Cosmic Baby ma il pezzo non riesce ad andare oltre la scena dei club seppur maturi la presenza in una serie di compilation tematiche tra cui la “Logic Trance 2”. Tre anni più tardi “Café Del Mar” è già considerato materiale d’archivio ed infatti la Bonzai lo ristampa sulla branch Classics che tra gli altri annovera “My Name Is Barbarella” di Barbarella, “Body Motion” degli italiani Sadomasy & DJ One, “My Noise” di Master Techno e “Perfect Motion” dei Sunscreem. C’è qualcuno però ad auspicare ancora una seconda vita della traccia come Red Jerry della Hooj Choons, che affida ad una pagina di Bandcamp i suoi ricordi: «Abbiamo passato circa diciotto mesi a remixarlo e non ricordo neanche i nomi di tutti coloro che ci hanno provato fallendo ripetutamente. Il problema di base era rappresentato dalla scala del riff principale e dalla progressione dei relativi accordi che nessuno riusciva a combinare con un certo impatto. Risultato? Ogni versione andava alla deriva, sommersa dalle melodie. Poi, ad inizio ’97, accadde qualcosa:  tornai a casa con una cassetta su cui era inciso l’ennesimo remix di “Café Del Mar”». A realizzare la nuova versione sono i Three ‘N One (André Strässer e Sharam Jey), reduci dal successo ottenuto con “Reflect”. «Seduto a casa a Kentish Town, con la luce dell’alba dopo una notte in discoteca, ascoltai per la prima volta quel remix su un impianto audio decente. Fu uno di quei momenti che non si dimenticano facilmente» conclude Red Jerry. I Three ‘N One riescono dove tanti altri avevano fallito. Sarà il loro remix ad iniettare nuova linfa vitale nelle melodie di “Café Del Mar” che questa volta, complice l’affermazione della trance su larga scala, segna inequivocabilmente lo zenit per Energy 52. La Hooj Choons mette sul mercato due ulteriori rivisitazioni a firma Solar Stone e Universal State Of Mind a cui se ne aggiungeranno altre ancora tra cui quelle di Oliver Lieb e di Nalin & Kane. Tra 1997 e 1998 il pezzo conosce dunque una nuova giovinezza che lo trasforma in un classico, oggetto di continui rimaneggiamenti nonché in fonte d’ispirazione per altri artisti come gli olandesi Three Drives e la loro “Greece 2000”.

Everything But The Girl - MissingEverything But The Girl – Missing
Insieme sin dal 1982 quando debuttano con “Night And Day”, cover dell’omonimo di Cole Porter, Ben Watt e la moglie Tracey Thorn sono gli Everything But The Girl. Prendono il nome d’arte dallo slogan usato da un negozio d’abbigliamento su Beverley Road ad Hull, il Turners, e fanno pop rock ai confini col jazz. Pur maturando una carriera di tutto rispetto che, tra le altre cose, annovera la collaborazione coi Massive Attack per un paio di brani finiti in “Protection”, riescono a conquistare il grande pubblico generalista solo nel 1995 con un remix. “Missing”, dalla tracklist del loro ottavo album intitolato “Amplified Heart”, è una ballata unplugged che passa inosservata ma grazie al tocco di Todd Terry cambia tutto. Il DJ/produttore statunitense, tra i decani dell’house music, trasforma quella ballata in un classico che vende oltre un milione di copie e per cui viene girato un nuovo videoclip diretto da Mark Szaszy. Il remix inizia a girare nell’autunno del 1994 ma il successo non è immediato specialmente in Europa (Italia compresa) dove bisogna attendere la primavera dell’anno seguente per sentire “Missing” in radio e in discoteca. Todd Terry si occuperà poi di “Wrong” (estratto dall’album “Walking Wounded” del ’96) ma con risultati inferiori. Ps: esiste una versione di “Missing” prodotta in Italia, la Rockin’ Blue Mix, realizzata da Alex Natale e i Visnadi.

Face On Mars - The BugFace On Mars – The Bug
Il progetto one-shot Face On Mars batte bandiera britannica ed è prodotto da Kenny Young e dal duo ManMadeMan (Paul Baguley e Sonya Bailey). Entrati nelle grazie di Judge Jules, Pete Tong, Sasha e John Digweed con dischi firmati con vari pseudonimi, riescono a raccogliere modesti consensi tra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000 grazie a “The Bug” che, come testimonia anche la copertina, fa leva sui timori, poi rivelatisi quasi del tutto infondati, derivati dal presunto millennium bug che avrebbe mandato in tilt i sistemi informatici di tutto il mondo al cambio di data tra il 31 dicembre 1999 e il primo gennaio 2000. La versione originale chiamata Teotwawki si inserisce nel filone hard house, sullo stile di artisti come Da Junkies, Knuckleheadz e BK, ma resta confinata al quasi totale anonimato. A rendere “The Bug” un pezzo appetibile per le radio e le tv musicali a cui è destinato il videoclip sono Marco Baroni ed Alex Neri con il loro remix firmato Kamasutra. In Italia è un’esclusiva della napoletana Bustin’ Loose Recordings che in catalogo vanta, tra gli altri, Individual (“Sky High” è cantato da Billie Ray Martin ma in incognito), Charlie Dore e soprattutto Karen Ramirez.

Felix - Don't You Want MeFelix – Don’t You Want Me
Regno Unito, 1992: Francis Wright è un diciottenne come tanti, desideroso di entrare a far parte del mondo della musica. Si diletta a comporre nella sua cameretta con pochi strumenti presi in prestito dallo zio e dal fratello maggiore che gestiscono una società di noleggio strumentazioni. Dispone di un campionatore Akai S950 e qualche sintetizzatore come un Korg MS-20, un Roland JX-1 ed un Oberheim Matrix 1000. Il tutto pilotato dal Notator installato su un computer Atari 1040 ST. Un giorno riceve la telefonata di Jeremy Dickens alias Red Jerry, uno dei titolari dell’etichetta Hooj Choons a cui ha mandato alcuni demo qualche settimana prima. A catalizzare l’attenzione del discografico è un brano in particolare, “Don’t You Want Me”, che Wright realizza ispirandosi allo stile di Steve “Silk” Hurley e in cui piazza un sample vocale preso da “Don’t You Want My Love” delle Jomanda. A Dickens piace ma gli chiede di sviluppare l’idea in modo alternativo. Wright allora piazza un organo al posto del pianoforte e crea la base di quella che sarebbe diventata la Hooj Mix, la versione più nota. «A quel punto Red Jerry mi invitò a Londra per registrare le due versioni» racconta Wright in questo articolo. «L’Original Mix rimase praticamente la stessa del demo mentre alla Hooj Mix aggiungemmo ulteriori elementi. Purtroppo fu fatta confusione coi crediti sul disco che attribuiscono la paternità della Hooj Mix ai soli Red Jerry e Rollo, cosa che non è esatta visto che fu un lavoro interamente sinergico». Il successo di “Don’t You Want Me” è stellare, grazie all’interesse mostrato dalla Deconstruction. Il brano, da noi licenziato dalla GFB, etichetta della Media Records, conquista la prima posizione in molte classifiche sparse per il mondo e si stima abbia venduto oltre tre milioni di copie.

Fifty Fifty - Tonight I'm DreamingFifty Fifty – Tonight I’m Dreaming
I britannici Fifty Fifty (il produttore Jason Smith e il cantante Steve Trowell) esordiscono in sordina nel 1996 col poco noto “Crazy Thing” ma balzano agli onori della cronaca due anni dopo con “Tonight I’m Dreaming”, un brano di matrice progressive house pubblicato dalla Jackpot impreziosito subito da vari remix tra cui quello di Eric Kupper proteso verso la garage. A far cambiare profondamente aspetto al pezzo è però la Blue Moon Mix approntata in Italia negli studi milanesi della Dancework da Fabrizio Gatto, Roberto Zucchini, Germano ‘Jerma’ Polli e Marco ‘China B’ Brugognone. «L’idea di fare un remix fu nostra» racconta Gatto contattato per l’occasione. «”Tonight I’m Dreaming” era una bella canzone ma non abbastanza commerciale, così ci attivammo e realizzammo alcuni remix più adatti al mercato italiano dell’epoca». A spiccare dalle tre versioni pubblicate dalla @rt Records, sublabel del gruppo Dancework, è la citata Blue Moon Mix che imperversa nelle discoteche e in radio nell’autunno ’98. La Rosa Shocking Mix riprende lo stile latineggiante di Paradisio mentre la Tribe Art Production Mix, realizzata da Massimiliano Falchi ed Umberto Ferraro, resta ancorata alle atmosfere house di partenza. «Il mix vendette dalle ventimila alle venticinquemila copie e il brano entrò in svariate compilation» prosegue Gatto. «Quella volta mi firmai come El Zigeuner, nome nato pochi anni prima da una telefonata che un mio promoter fece ad un suo amico. Essendo di Bolzano, ogni tanto parlava in tedesco e quella volta al telefono disse “el Zigeuner” (lo zingaro), una parola che mi piacque subito e che decisi di adottare come pseudonimo». I tentativi di mantenere alte le quotazioni dei Fifty Fifty vanno a vuoto nonostante il remix del successivo “Listen To Me” a firma StoneBridge. Riscontri flebili giungono pure quando nel ’99 Smith e Trowell si ripresentano come Apple 9 firmando “What You Do To Me” per la Time Records.

Freddie Mercury - Living On My OwnFreddie Mercury – Living On My Own
Estratto come singolo dall’album “Mr. Bad Guy”, il primo che Mercury realizza come solista dopo aver abbandonato i Queen, “Living On My Own”, del 1985, è un pezzo synth pop che non riscuote consensi memorabili. Decisamente diversi però i risultati raccolti circa otto anni più tardi quando l’artista è già prematuramente passato a miglior vita e sul mercato arriva il remix realizzato dai No More Brothers (Carl Ward, Colin Peter e Serge Ramaekers) nel loro studio ad Anversa, in Belgio, ad aprile del ’93: con un taglio house friendly corroborato da un cristallino arpeggio, i tre conferiscono a “Living On My Own” la spinta necessaria per essere apprezzato dal pubblico trasversale di tutto il mondo che non si è ancora stancato di ascoltarlo. Per avere un’idea della longevità è sufficiente aprire YouTube: ad oggi la somma delle visualizzazioni ottenute dal remix oltrepassa i cento milioni. Proprio nello stesso periodo in cui imperversa “Living On My Own”, sul mercato arrivano i remix di un altro brano pop internazionale, “Dreams” di Gabrielle. La House Mix degli Our Tribe (Rollo, futuro membro dei Faithless nonché fratello della cantante Dido, e Rob Dougan) è tra le versioni che si distinguono meglio, con un retrogusto à la “Plastic Dreams” di Jaydee. Nel contempo in Italia finiscono in discoteca “Delusa” di Vasco Rossi e “Ricordati Di Me” di Fiorello, rispettivamente remixati dagli U.S.U.R.A. e Digital Boy.

Fun Factory - Close To YouFun Factory – Close To You
Tra la miriade di gruppi eurodance tedeschi emersi nei primi anni Novanta, i Fun Factory si fanno notare a livello europeo tra 1993 e 1994 con “Groove Me”, “Pain”, “Close To You” e “Take Your Chance”, tutti estratti dal primo album intitolato “Nonstop!”. “Close To You”, per cui viene girato questo videoclip, sfiora il plagio delle hit messe a segno dai connazionali Culture Beat (“Mr. Vain”, “Got To Get It”, “Anything”) ma sono tempi in cui clonare talvolta può portare buoni risultati. In Italia la versione originale di “Close To You” passa inosservata a differenza del remix dei Positive Groove, side project degli stessi Fun Factory. Nella reinterpretazione, intitolata Energy Trance e licenziata nell’estate ’94 da Dig It International, la componente vocale è ridotta ai minimi termini per privilegiare un costrutto di matrice trance. Eliminata la parte rappata, dopo un lungo intro strumentale filo acid affiora un brandello dell’inciso, unico elemento tratto dalla versione di partenza. Anche per il remix i Fun Factory però si ispirano palesemente a qualcosa di preesistente, il Fruit Loops Remix dei Jens di cui si parla dettagliatamente più avanti.

Gayà - It's LoveGayà – It’s Love
Nel ’98 la J&Q diretta da Enzo Martino pubblica il terzo singolo del progetto Gayà, partito tre anni prima con “Lovin’ The Way”. A produrre “It’s Love”, un brano house ai confini con la garage colorito da un virtuosismo vocale a mo’ di scat, sono Daniele Soriani e Marco Mazzantini, ma il successo arriva poco tempo dopo col remix curato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che riadatta tutto in chiave eurodance. Gli apprezzabili risultati vengono sottolineati dal videoclip in cui appare l’americana Stephanie Haley, scelta come immagine del progetto e per le esibizioni live come quella ad Italia Unz. Sarà sempre Fargetta a confezionare le versioni di punta dei successivi singoli di Gayà, “Shine On Me”, “I Keep On Dreaming” e “Never Meet”, utili a trainare altri artisti della J&Q come Jola, Underfish e Bibi Schön.

Gigi D'Agostino - L'Amour ToujoursGigi D’Agostino – L’Amour Toujours
In virtù della popolarità raggiunta, “L’Amour Toujours” è diventato il brano più noto del repertorio d’agostiniano. La versione originale, apparsa nel 1999 nell’album omonimo, gira su ritmi sincopati, un basso in ottava (forse “stimolato” da un preset dell’Hohner HS-1, versione tedesca del Casio FZ-1) ed armonie ispirate da “But Not Tonight” dei Depeche Mode, così come già descritto in Decadance. A decretare il successo è però il remix che la Media Records pubblica nel 2000 attraverso l’EP “Tecno Fes”: arrangiato insieme a Paolo Sandrini, il Tanzen Vision Remix fa leva sulla caratteristica frase di tastiera evidenziata ulteriormente nella versione usata per il videoclip ad oggi visualizzato su YouTube più di 320 milioni di volte. A seguire arrivano altre reinterpretazioni, come la Cielo Mix e L’Amour Vision, ed un indefinito numero di cover che garantiscono ulteriore longevità ad un pezzo italodance ormai diventato transgenerazionale.

Gigi D'Agostino & Daniele Gas - Creative NatureGigi D’Agostino & Daniele Gas – Creative Nature
La prima versione di “Creative Nature” esce nel 1994 sulla Subway. A distanza di qualche mese sulla stessa etichetta appaiono due versioni (Fly Side ed Eternity Side) realizzate dagli stessi autori ma a lasciare il segno nel cuore degli irriducibili della progressive italiana è il remix edito dalla Metrotraxx, altra sussidiaria della Discomagic di Severo Lombardoni, intitolato Giallone e contenuto nel doppio “Creative Nature Vol. 2”. A dirla tutta pare più una sorta di re-edit con variazione della stesura e non del banco suoni che rimane pressoché invariato ma i risultati, specialmente a partire dall’autunno del 1995, sono ben diversi. Con un sample di campana sincronizzato su un basso ottavato ed un riff d’atmosfera giocato anch’esso sulle ottave, D’Agostino (che riciclerà tutto nel 2000 per la sua “Campane”) e Gas si confermano tra gli artefici di un sound presto ribattezzato e sdoganato come mediterranean progressive in cui minimalismo e struggenti melodie vanno a braccetto. «Una notte ero al Le Palace di Torino con Gigi e Francesco Farfa» racconta Daniele Gas in questa intervista. «Prima della serata chiacchierammo anche di produzioni e Francesco ci propose di fare una nuova versione del “giallone”, riferendosi al remix di “Creative Nature” pubblicato dalla Subway su un’etichetta di colore giallo per l’appunto. Da quel momento lo chiamammo amichevolmente Giallone Remix, proprio in ricordo del suggerimento di Farfa che, ovviamente, fu tra i primi a ricevere il promo».

Gisele Jackson - Love CommandmentsGisele Jackson – Love Commandments
È il pezzo più noto della Jackson, cantante nativa di Baltimora messa sotto contratto dalla Waako Records di Bob Shami. La versione originale di “Love Commandments”, un pezzo garage non particolarmente pretenzioso, inizia a circolare nel 1996 quando viene pubblicato anche in Italia dalla UMM. La spallata determinante giunge l’anno dopo con vari remix firmati, tra gli altri, da Danny Tenaglia, Jason Nevins, StoneBridge, Dancing Divaz e Loop Da Loop. Quest’ultimo, in particolare, con qualche occhiata non velata al tocco di Van Helden, catalizza l’attenzione generale introducendo la Jackson nel segmento speed garage. A pubblicare in Italia quattro remix di “Love Commandments”, incluso ovviamente quello di Loop Da Loop, è la D:vision.

Hanky Panky - Hanky PankyHanky Panky – Hanky Panky
Pubblicato inizialmente dalla Love, una delle etichette della EMI tedesca, “Hanky Panky” del progetto omonimo segue il corso eurodance in salsa house, utilizzando i suoni “tubati” resi popolarissimi da StoneBridge abbinati ad una specie di filastrocca scritta da Najib Hachim e Carolin Schwarz e musicata dagli stessi insieme a Jürgen Hildebrandt. Di loro si sa davvero poco e niente. Di certo è che ad aiutarli ad uscire dall’anonimato, riservato invece ad altri brani del loro risicato repertorio come ad esempio “Me & Mr. Fantasy” di Cosma Das Sternenkind, è il remix realizzato da Mousse T: con una versione che occhieggia ai Max-A-Million prodotti dai 20 Fingers ed ai Reel 2 Real di Morillo ma in chiave ancora più scanzonata, “Hanky Panky” riesce a raccogliere qualche licenza in Europa. A crederci in Italia è la Dance Factory del gruppo EMI ma pure Albertino che propone il brano in radio e lo vuole nel sesto volume della compilation “Alba” uscita nell’autunno del 1996.

Jamiroquai - Space CowboyJamiroquai – Space Cowboy
La versione originale di “Space Cowboy”, inclusa nell’album “The Return Of The Space Cowboy” del 1994, non è certamente passata inosservata ma il remix di David Morales, uscito l’anno dopo, ha il merito di aver ingigantito la notorietà della band britannica. Con un lavoro magistrale curato tanto nella parte ritmica quanto in quella degli arrangiamenti, il DJ tocca uno dei momenti clou della propria carriera. Tuttavia Jay Kay gli riserva toni piuttosto polemici, almeno inizialmente: «non capisco perché devo dare quindicimila sterline ad un tizio americano quando un qualsiasi mio collaboratore può fare la stessa cosa, ma ho imparato che i remix fanno parte del gioco, così come i video» afferma il cantante in un’intervista risalente al gennaio 1997. «Devo essere onesto, i remix di Morales (oltre a “Space Cowboy” anche quello di “Cosmic Girl”, nda) hanno funzionato molto bene ed hanno aumentato la mia popolarità. La gente voleva ballare i miei pezzi in discoteca e lui la ha accontentata».

Jens - Loops & TingsJens – Loops & Tings
Contenuta nel “Glomb EP” pubblicato nel 1993, “Loops & Tings” è il pezzo che Jens Mahlstedt, Gerret Frerichs ed Hans Jürgen Vogel realizzano assemblando magnetiche onde trance a svasati beat che ogni tanto vedono rompere il 4/4 metronomico sotto la spinta di inserti raggamuffin, striature acide e sincopi breakbeat. Nel momento in cui la Superstition pubblica i remix del brano, le cose prendono una piega diversa. È il Fruit Loops Remix, realizzato dagli stessi Mahlstedt e Frerichs, a tracciare una nuova strada per il progetto Jens, sino a quel momento rimasto a solo appannaggio dei DJ specializzati. Merito di una vena melodica più pronunciata issata da un riff riciclato dai menzionati Fun Factory nel remix di “Close To You” ed una struttura ritmica maggiormente trascinante, resa tale anche da un rotolante bassline. Il remix di “Loops & Tings” diventa così un autentico classico nel 1994, anno in cui viene pubblicato anche in Italia dalla Downtown del gruppo Time Records. Seguirà un’infinita serie di altre versioni più o meno fortunate tra qui quella di Marco V che nel 2003 rilancia per l’ennesima volta uno dei maggiori inni della hard trance tedesca degli anni Novanta.

Jestofunk - Special LoveJestofunk – Special Love
Con un background che affonda saldamente le radici nel funk, nel soul e nel jazz, i Jestofunk (Alessandro ‘Blade’ Staderini, Francesco Farias e Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli) debuttano nel 1991 con “I’m Gonna Love You” supportati dalla bolognese Irma Records. “Say It Again” e “Can We Live”, entrambi interpretati da Ce Ce Rogers, li aiutano ad imporsi anche nel mainstream ma senza scendere a compromessi. Nel 1998 è tempo di un’altra hit trasversale, “Special Love”, estratta da “Universal Mother”, il loro terzo album. Jazzdance rigata di funk, r&b e disco, la traccia gode di un featuring vocale d’eccezione, quello di Jocelyn Brown, protagonista del videoclip. A far prendere il volo però è la Special House Mix realizzata da Steve “Silk” Hurley, uno dei pionieri della house statunitense che in quel periodo torna al successo con “The Word Is Love”. Sul 12″ presenzia una seconda reinterpretazione, la Disco Fusion Mix di Joey Negro probabilmente più vicina al mondo dei Jestofunk ma con minori potenzialità commerciali.

Josh One - ContemplationJosh One – Contemplation
DJ e produttore losangelino, Josh One debutta nel 2001 con “Contemplation”, un pezzo che lascia sfilare i lascivi vocalizzi di Julie Walehwa su una base downtempo altrettanto seducente costruita insieme al musicista Patrick Bailey. Annessa alla musica lounge e chillout che nei primi anni Duemila vive un fortissimo boom così come raccontiamo qui, la traccia riesce a conquistare anche le discoteche grazie a King Britt ed alla sua Funke Mix che proietta tutto su uno schema house dagli evidenti richiami funk giocati in modo sampledelico. Riscontri ancora più tangibili giungono con una seconda versione realizzata in Italia da Alex Neri: nel Road Trip Remix resta intatto un frammento di voce della Walehwa ma il resto scorre su un binario decisamente diverso, fatto da suoni cristallini messi in sequenza in un ossessivo ed inarrestabile arpeggio. Proprio grazie ai remix, nel 2002 Josh One fa il giro d’Europa spinto da etichette come Prolifica, Ministry Of Sound e Vendetta Records. A pubblicarlo da noi è la Rise del gruppo maioliniano Time.

Karen Ramirez - If We TryKaren Ramirez – If We Try
La carriera della londinese Karen Ramirez mostra diverse analogie con quella dei Jestofunk descritti poche righe sopra. Anche lei parte dalla musica black, dal soul e dal jazz, generi che il team di produzione Souled Out (da cui nasceranno poco tempo dopo i Planet Funk) affronta con maestria nell’album “Distant Dreams” da cui vengono estratti diversi singoli, da “Troubled Girl” a “Looking For Love” (cover di “I Didn’t Know I Was Looking For Love” degli Everything But The Girl) passando per “Lies” ed “If We Try”. Tutti godono di numerosi remix realizzati da pesi massimi della house internazionale ma quest’ultimo, in particolare, si distingue per la rivisitazione di Steve “Silk” Hurley, richiestissimo dopo l’exploit a fine ’97 di “The Word Is Love”.

KC Flightt - Bang!KC Flightt – Bang!
Franklin Toson Jr. alias KC Flightt prende parte alla prima ondata hip house che si propaga a fine anni Ottanta da Chicago, riuscendo ad entrare nelle grazie della RCA che pubblica un album e diversi singoli tra cui “Planet E”, “Summer Madness” e “Voices”. Dopo qualche tempo sottotono, riappare con “Bot Dun Bot” e soprattutto “Bang!” che nella versione originale riavvolge il nastro sino a dove tutto era cominciato nella città del vento. A fare la fortuna del pezzo nell’autunno 1995 è la Mixmaster Club realizzata da Costantino Padovano e Mirko Braida, sincronizzata col video e in linea con quanto già fatto per “Shimmy Shake” dei 740 Boyz analizzata più sopra.

Kim Lukas - All I Really WantKim Lukas – All I Really Want
Nata nella contea di Surrey, nell’Inghilterra sud-orientale, Kim Woodcock è la cantante che si fa spazio nel circuito eurodance nel 1999 con “All I Really Want”, prodotto dal team G.R.S. composto da Gino Zandonà, Roberto Turatti e Silvio Melloni. L’Original Single Mix fa leva su una base dai richiami disco / funk, senz’altro gradevole ma con un tiro forse non adatto ad accontentare del tutto il pubblico a cui il progetto è destinato. Ci pensano gli Eiffel 65 a ricostruire la stesura in un remix creato sul fortunato modello di “Blue (Da Ba Dee)”. È quindi loro la versione che spopola e fa la fortuna della biondina che nel 2000 incide un album, “With A K”, da cui vengono prelevati altri tre singoli più o meno fortunati, “Let It Be The Night”, “To Be You” e “Cloud 9”.

L'Homme Van Renn - The (Real) Love ThangL’Homme Van Renn – The (Real) Love Thang
A pubblicare “The Real Thang” nel 1993 è la Nocturnal Images Records, piccola etichetta di Davina Bussey distribuita dalla Submerge di Detroit. È la stessa Bussey a curare tre versioni fatte di house intrecciata al soul che mettono in evidenza le doti canore di Paul Randolph. Nel 1995 la 430 West, in cooperazione con la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker e con la filiale britannica della KMS di Kevin Saunderson, rimettono in circolazione il brano ma con un titolo leggermente diverso, “The (Real) Love Thang”, e vari remix di Rob Dougan, Parks & Wilson e Mike Banks. «Credo che l’operazione nacque con l’obiettivo di portare il mio nome ad un pubblico più vasto e non più solo quello dei DJ specializzati visto che il pezzo aveva un grande potenziale» racconta qui Randolph. Effettivamente le cose vanno proprio così e “The (Real) Love Thang” inizia la “mainstreamizzazione” attraverso la versione del citato Dougan in cui la stesura viene interamente ricostruita giocando sull’alternanza di parti beatless ed altre più incisive legate alla progressive house britannica. Ciò garantisce un risultato apprezzabile in Europa dove il brano viene licenziato in più Paesi ed incuriosisce anche chi non conosceva affatto la versione iniziale. A pubblicarlo in Italia a gennaio 1996 è la milanese Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, che aggiunge al pacchetto due ulteriori versioni a firma M2 ed Italia House Nation.

Lisa Marie Experience - Keep On Jumpin'Lisa Marie Experience – Keep On Jumpin’
Inizialmente pubblicato col titolo “Jumpin”, la hit dei Lisa Marie Experience (il duo britannico formato da Dean Marriott e Neil Hinde) si afferma nel vecchio continente tra l’inverno e la primavera del 1996 come “Keep On Jumpin'”. Il pezzo entra nella top ten dei più venduti nel Regno Unito ed è uno dei tanti di quel periodo a rinvigorire il fil rouge tra la house music e discomusic mediante il campionamento di un classico di fine anni Settanta, “Keep On Jumpin'” dei Musique, ripreso peraltro pochi mesi più tardi pure da Todd Terry con le voci di Martha Wash e Jocelyn Brown. La versione che funziona di più e che viene scelta per accompagnare il videoclip è però quella dei redivivi Bizarre Inc, autentici protagonisti tra 1991 e 1992 con successi come “Playing With Knives”, “Such A Feeling” ed “I’m Gonna Get You”. Con una stesura più d’impatto ed un’elaborazione del sample (a cura di Dave Lee alias Joey Negro ed Andrew “Doc” Livingstone, così come chiariscono i crediti in copertina) maggiormente incisiva, il Bizarre Inc Remix è pertanto quello che decreta il temporaneo momento di gloria dei Lisa Marie Experience, incapaci di mantenere intatto il successo col successivo “Keep On Dreaming”. In compenso però ricevono una sfilza di richieste di remix e tra i tanti mettono mano a “Bamboogie” di Bamboo, act messo su con eclatante riscontri dal citato Livingstone ad inizio ’98 mutuando un sample da un altro evergreen disco, “Get Down Tonight” di KC & The Sunshine Band.

Love Connection - The BombLove Connection – The Bomb
Dietro Love Connection, act one shot creato nel 2000 con “The Bomb”, opera il team di produttori francesi formato da Rabah Djafer, Omar Lazouni e Michel Fages. Il pezzo è costruito su un doppio campionamento: da un lato c’è la melodia di “Love Magic” di John Davis & The Monster Orchestra, un vecchio successo del 1979, dall’altro invece la parte vocale presa da “Love Generation” degli italiani Lost Angels, pubblicato originariamente nel 1996 dalla Volumex del gruppo Dancework ma senza grandi risultati, specialmente in patria. Unendo i due elementi, corroborati da una trascinante base disco house, i transalpini ricavano un pezzo orecchiabile e a presa rapida ma a perfezionarlo ulteriormente è il duo Triple X (Luca Moretti e Ricky Romanini), reduce dal successo europeo di “Feel The Same”. È il loro remix infatti ad avere la meglio e ad essere sincronizzato col videoclip. In Italia è un’esclusiva della Time di Giacomo Maiolini il cui supporto, pare, sia stato determinante per ottenere il clearance del sample di “Love Magic”.

Mario Più - CommunicationMario Più – Communication
Il DJ toscano è stato molto abile nel tenere un piede nelle produzioni destinate a discoteche di tipo progressive/trance e l’altro in quelle più dichiaratamente commerciali. Così, mentre da un lato sforna pezzi come “Your Love”, “Unicorn” o “Serendipity”, dall’altro finisce nelle classifiche di vendita con successi radiofonici tipo “All I Need”, “Sexy Rhythm” e “Runaway”. Nel 1999 però è capitato che un suo brano tendenzialmente rivolto ai club si sia trasformato in una hit trasversale. Tutto ha inizio a ridosso dell’estate quando nei negozi arriva “Communication”, un pezzo creato sul telaio picottiano di “Lizard” e caratterizzato dal suono dell’interferenza creata dal telefono cellulare in una cassa spia (idea che, praticamente nel medesimo periodo, viene sfruttata in “GSM” dai Dual Band – Paolo Kighine e Francesco Zappalà). I responsi nelle discoteche sono ottimi ma a decretare il successo su scala internazionale con oltre 200.000 copie vendute è la versione approntata oltremanica pochi mesi dopo da Paul Masterson alias Yomanda. Diventata “Communication (Somebody Answer The Phone)” ed accompagnata da un videoclip sincronizzato proprio sul remix, la traccia assume una veste hard house in cui compare, oltre all’interferenza, anche il trillo di un telefono cellulare, immortalato in copertina dalla BXR.

Mato Grosso - LoveMato Grosso – Love
Partiti nel 1990 come Neverland, Graziano Pegoraro, Marco Biondi e Claudio Tarantola si ribattezzano Mato Grosso con “Thunder” per motivi illustrati in questo articolo e diventano uno dei nomi più longevi in campo eurodance/italodance, area notoriamente soggetta a successi che difficilmente riescono a reggere più di qualche stagione. “Love” esce intorno alla fine del 1993 sulla B4, etichetta fondata dallo stesso team insieme al gruppo Expanded Music, ma gode di poca attenzione. Pochi mesi più tardi, in soccorso, giungono due remix realizzati dagli stessi Pegoraro e Biondi. In particolare è la Fuzzy Mix a risollevare le sorti del pezzo non partito col piede giusto, col beneplacito di Albertino e dei suoi soci del DBM (Fargetta la sceglie e mixa in “Original Megamix 2”) a cui poi si accodano altre emittenti e varie compilation italiane ed estere. «La versione originale, per ammissione dello stesso Pegoraro, peccò a causa di un mixaggio non del tutto riuscito» racconta oggi Marco Biondi contattato per l’occasione. «La Shuttle ‘N’ Space ‘N’ Love Mix iniziava con un intro caratterizzato dal countdown della NASA, senza dubbio d’effetto ma privo di quell’immediatezza che ai tempi serviva alla dance per farsi notare. Facendo tesoro degli errori quindi, rielaborammo tutto in un remix più incisivo, dinamico ed efficace, doti premiate da Albertino che lo tenne nella DeeJay Parade per circa due mesi (dal 26 febbraio al 23 aprile, nda). Il suo supporto fu determinante per raggiungere un buon risultato in termini di vendite, tra mix e remix infatti “Love” contò tra le 16.000 e le 17.000 copie. A scandire marcatamente la nuova versione era un hook vocale realizzato con la mia voce seppur davvero in pochi la riconobbero nonostante conducessi un programma quotidiano su Radio DeeJay. Pure nel follow-up, “Mistery”, figuravano voci vere: il “mistery mistery” era di Miko Mission mentre ad interpretare il “bebele simele amele” era Nikki, mio collega in via Massena. L’idea di partenza era campionare un frammento di “Just A Gigolo” di David Lee Roth ma non avremmo mai avuto il clearance così optammo per quell’alternativa che si rivelò particolarmente fortunata» conclude Biondi.

Mauro Picotto - LizardMauro Picotto – Lizard
Quando le prime copie di “Lizard” raggiungono gli scaffali dei negozi di dischi, nella primavera del 1998, nessuno è in grado di pronosticare cosa sarebbe avvenuto poco tempo dopo. Picotto stesso, nella recensione apparsa sulla rivista Trend Discotec di aprile, è ben lontano da pomposi annunci e ne parla sommessamente come «un mix che forse è un EP, tanto sono differenti le versioni in esso contenute». In effetti le quattro versioni presenti sul 12″ della BXR mostrano evidenti diversità: la Picotto Mix (promossa “Disco Strobo” da Tony H in From Disco To Disco il 7 marzo) punta dritta alla trance, la Nation Mix irrigidisce i suoni tirando dentro un frammento vocale di Martin Luther King, la Mondo Bongo Mix introduce la componente tribale e la Tea Mix, fondamentale per gli sviluppi futuri, riduce tutto a pochi elementi, scroscianti cascate di snare e soprattutto un caratteristico basso. Come descritto dal musicista Andrea Remondini nell’intervista finita in Decadance Appendix nel 2012, la Tea Mix viene realizzata in buona parte un lunedì mattina. «Durante il fine settimana Mauro si esibì in una discoteca in cui il DJ che lo aveva preceduto in consolle terminò il set con un disco che finiva con una lunghissima nota bassa» racconta. «A quel punto lui si sovrappose con un altro brano che iniziava con battute di sola cassa. Il risultato creò un effetto imprevisto: ogni colpo di cassa soffocava la nota bassa, che tornava poi a farsi sentire nelle pause tra un colpo e l’altro. Ipotizzai che la causa del fenomeno fosse un compressore applicato all’uscita del mixer» (ma Picotto, nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” recensito qui, parla di un microfono lasciato inavvertitamente aperto da cui «entrò il rumore dell’effetto Larsen sull’impianto audio della sala – il Joy’s di Mondovì – una risonanza che determinò un suono simile alla coda di un boato», nda). Vista l’euforica reazione del pubblico di fronte a quel fortuito abbinamento di suoni, i due cercano di riprodurre l’effetto in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa abbastanza inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando arrivano i remix. In particolare è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia (adorata da Pete Tong che ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”) si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale ed una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary. In pochi mesi “Lizard” fa il giro del mondo, Stati Uniti compresi, aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per Picotto debitamente irrorata da altre hit come “Iguana” e “Komodo” che insieme a “Lizard” costituiscono l’ideale trilogia rettiliana. I suoni di “Lizard” diventano presto un autentico marchio di fabbrica per la BXR ed innescano centinaia di campionamenti ed imitazioni di ogni tipo. «A quel punto, così come era già avvenuto con la mediterranean progressive, abbandonammo quel suono per primi, dopo averlo inventato» aggiunge Remondini nella menzionata intervista. Curiosità: per il remix la BXR usa un numero di catalogo inferiore (1047) rispetto a quello del disco che ospita invece le prime versioni del brano (1048) nonostante la pubblicazione sia successiva.

Moby – Everytime You Touch Me
Archiviata la disputa legale con la Instinct Records che pubblica i primi due album, Moby firma per la Mute di Daniel Miller. È proprio questa a mandare in stampa il suo terzo LP, “Everything Is Wrong”, l’ultimo con cui l’artista newyorkese cavalca la dance music, un filone che gli fa guadagnare, seppur a malincuore, le critiche di certa stampa convinta che non sia capace di suonare alcuno strumento. «È una fissa mettere in dubbio le mie capacità» afferma in un’intervista realizzata a Londra da Piergiorgio “P.G.” Brunelli ed apparsa su Dance Music Magazine a maggio 1995. «Suono la chitarra da venti anni, perché dovrei usare un campionamento? Ho suonato di tutto, dalla chitarra al basso, dalle tastiere alle percussioni sino alla batteria. Ammetto che la maggioranza dei musicisti dance non sappia suonare musica ma io sono tutt’altro che un idiota. Qualsiasi cosa che esca da uno speaker e genera in me emozioni è positiva, non importa che sia un campionamento o un assolo di chitarra. Vorrei che fosse possibile apprezzare allo stesso tempo la gay-disco e i Biohazard, senza barriere mentali». Uno dei singoli estratti da “Everything Is Wrong” è “Everytime You Touch Me”: la versione originale contiene ancora retaggi del breakbeat di memoria rave ma con meno asperità ritmiche ed inselvaggimenti ridotti praticamente a zero, rimpiazzati da evidenti slanci melodici (vocali e pianistici) intarsiati a brevi parentesi raggamuffin ai tempi parecchio in auge nell’eurodance. A garantire il successo al brano nei primi mesi del 1995 però è uno dei tanti remix giunti sul mercato, quello degli infaticabili Beatmasters che nella loro Uplifting Mix lo ricostruiscono interamente edificando all’interno di esso due blocchi, uno più felice e radioso alimentato dalle voci di Rozz Morehead e Kochie Banton, l’altro più ombroso da cui riaffiora la sensibilità ravey. La Beatmasters 7″, una sorta di re-edit ma con un appeal più radiofonico, viene scelta invece per il videoclip. «Preferisco remixare le mie canzoni da solo perché è divertente ed economico, ma non sono geloso di ciò che faccio e se qualcuno vuole lavorare su un mio pezzo solitamente lascio fare» prosegue l’artista nella sopraccitata intervista. «Non tutti i miei brani però sono a disposizione, quelli molto personali non voglio darli a nessuno. Sono come i miei bambini ed hanno un significato particolare che non va stravolto». A prendere in licenza per l’Italia “Everytime You Touch Me” è la napoletana Flying Records che lo abbina ad una copertina di Patrizio Squeglia e lo convoglia sulla neonata Drohm varata a fine ’94 con “I Let U Go” dei KK e trainata dal successo di “Wonder” di DJ Cerla & Moratto. Sul 12″, oltre alle due versioni dei Beatmasters, ci sono pure la Na Feel Mix e la Freestyle Mix ad opera dello stesso Moby, e a completamento quella di Jude Sebastian, vincitore di una remix-competition a cui partecipano ben quattrocento persone. Da noi il successo è palpabile, il pezzo entra nell’airplay radiofonico e in decine di compilation. Pochi anni più tardi il musicista statunitense rimette tutto in discussione aprendo una nuova fase della carriera caratterizzata da caleidoscopiche sollecitazioni che lo trasformeranno in una sorta di cantautore electronic pop del nuovo millennio. Risultano profetiche, a tal proposito, le parole con cui chiude quell’intervista del 1995 in cui Brunelli gli domanda se abbia una band: «Io sono il gruppo, suonerò tutto eccetto le percussioni. Ho poca pazienza coi musicisti che non sono capaci di fare ciò che gli chiedo, ed io ho grosse pretese».

Moloko - Sing It BackMoloko – Sing It Back
Il duo dei Moloko (il compositore/produttore Mark Brydon e la cantante Róisín Murphy) non impiega molto a raggiungere il successo: già nel 1995, anno del debutto, si impone un po’ ovunque con “Fun For Me”, estratto dall’album “Do You Like My Tight Sweater?”. Nel successivo, “I Am Not A Doctor” uscito nel 1998, figura “Sing It Back”, un brano che plana magicamente su una coltre di materia fumosa dalla singolare consistenza. A dargli la spinta necessaria per trasformarlo in un successo pop è una delle versioni che appaiono nei primi mesi del ’99, la Boris Musical Mix del DJ tedesco Boris Dlugosch, affermatosi nel ’96 con “Keep Pushin'”, nonostante l’etichetta avesse puntato tutto sul remix di Todd Terry, la Tee’s Freeze Mix, sperando che potesse seguire lo stesso corso di “Missing” degli Everything But The Girl. Corre voce che Brydon e la Murphy abbiano faticato non poco per convincere i dirigenti della Echo ad inserire sul disco la versione di Dlugosch (affiancato dal fido collaboratore Michi Lange con cui incide altri discreti successi come “Check It Out! (Everybody)” di BMR, “Azzurro” di Fiorello e i remix per “Blen Blen” di Edesio e “Never Enough” della stessa Murphy) a conti fatti quella che ha trasformato “Sing It Back” in una hit mondiale.

Moratto - WarriorsMoratto – Warriors
Analogamente ad altri dischi trattati in questo articolo, pure “Warriors” viene immesso sul mercato con un remix ad affiancare la versione originale. Nella Bat Mix Elvio Moratto riversa la passione che ai tempi nutre per la dance di matrice mitteleuropea, quella che prende le mosse da generi come hard trance, progressive, rave techno ed happy hardcore, ma nel contempo la farcisce con una vena melodica tipicamente all’italiana. Cantato da Jo Smith, “Warriors” esce nei primi mesi del 1995 raccogliendo discreto successo grazie al remix dei Datura intitolato, forse non casualmente, Main Mix. Pagano, Mazzavillani e Ricci DJ approntano una versione che non differisce molto da quella originale ma risultando d’impatto e garantendo un buon airplay radiofonico ed un’apprezzabile resa in termini di vendite seppur non paragonabile a quella di altri pezzi del repertorio morattiano, su tutti “La Pastilla Del Fuego” dell’anno prima, peraltro remixato sempre dai bolognesi Datura in una sorta di mash-up con la loro “Eternity”. «L’idea di affidare il remix ai Datura fu mia, trattandosi di un team con cui avevo piacere di collaborare» dichiara oggi Moratto contattato per l’occasione. «La scelta di puntare su quella versione come principale però non dipese da me. “Warriors” vendette 20.000 copie in Italia, compreso il Live Remix che feci successivamente e che viene ancora suonato in alcuni club oltremanica». Discutibile, forse, la scelta della Flying Records di commercializzare “Warriors” proprio mentre imperversa “Wonder” che Moratto realizza a quattro mani con DJ Cerla per un’etichetta della stessa società, la neonata Drohm, ritrovandosi paradossalmente a far concorrenza a se stesso. «Entrambi i brani furono prodotti nello stesso periodo ma non credo sia stato controproducente pubblicarli quasi in contemporanea. “Wonder” abbracciò il pubblico commerciale e vendette molto di più ma poiché editi dallo stesso gruppo discografico, alla Flying decisero di investire solo in un video, quello di “Wonder”» conclude Moratto.

Mulu - PussycatMulu – Pussycat
Autentica meteora nella seconda metà degli anni Novanta, i Mulu (Alan Edmunds e Laura Campbell) debuttano nel ’96 con “Desire”, primo singolo estratto da “Smiles Like A Shark”. Nel ’97, tratto dallo stesso LP, tocca a “Pussycat”, un brano downtempo per cui viene girato un videoclip e che, come si usa fare allora, viene dato in pasto a vari remixer. Tra loro c’è François Kevorkian che rende il pezzo appetibile alle piste da ballo trasformandolo in una gioiosa cantilena. A pubblicarlo in Italia è la Nitelite The Club Records, etichetta del gruppo Do It Yourself che in copertina piazza un bel “n° 1 club hit”.

Negrocan - Cada VezNegrocan – Cada Vez
Nati a Londra nei primi anni Novanta dalla collaborazione tra diversi musicisti provenienti da più parti del globo (tra cui il percussionista triestino Davide Giovannini), i Negrocan incidono il primo album intitolato “Medio Mundo” nel 1996. Uno dei pezzi racchiusi all’interno ed estratto come singolo è “Cada Vez”, scandito da ritmi caraibici, elementi bossanova e dalla voce della brasiliana Liliana Chachian. I responsi sono impietosi e il brano finisce presto nel dimenticatoio. Alla fine del 1999 però il remix del britannico Grant Nelson, che trasla il mood latino di partenza nel mondo della house facendo il verso allo stile dei Masters At Work, apre nuove ed inaspettate prospettive. In verità a sancire la rinascita del brano nel 2000 è un’altra versione, quella realizzata da Jerry Ropero, belga trapiantato in Spagna, capace di enfatizzare ulteriormente le potenzialità del brano dei Negrocan. L’Avant Garde Remix (Avant Garde è il progetto con cui nel ’99 Ropero & soci catalizzano l’attenzione europea attraverso “Get Down”) conquista prima i DJ dei club e poi anche i programmatori radiofonici, e nell’arco di pochi mesi il pezzo esplode in buona parte del vecchio continente. A pubblicarlo in Italia (inclusa la Album Version) è la Heartbeat del gruppo Media Records che, in seconda ripresa, mette in circolazione due ulteriori rivisitazioni, quella di Intrallazzi & Fratty e quella di Gigi D’Agostino che, all’apice della popolarità, alimenta ulteriormente il successo trasversale e momentaneo dei Negrocan.

Neja - RestlessNeja – Restless
Dopo l’esordio in sordina del ’97 con “Hallo”, per Agnese Cacciola alias Neja si aprono le porte del successo. Ciò avviene con “Restless”, un pezzo prodotto da Alex Bagnoli presso il suo Alby Studio, a Modena, che si impone come hit estiva in Italia e poi fa il giro del mondo ma soltanto a diversi mesi dall’uscita del disco. L’Extended Version è gradevole ma poco impattante a livello pop. Ci pensano i Bum Bum Club a riconfezionare la canzone in un efficace remix perfettamente calato in una dimensione che sposa le capacità vocali della cantante piemontese alle caratteristiche dell’italodance di fine decennio. Tale versione è scelta per accompagnare il videoclip. Alla luce dei risultati, i Bum Bum Club vengono ingaggiati per il follow-up, l’autunnale “Shock!”, che però raggiunge risultati più contenuti. Il tutto sotto la direzione di Pippo Landro della New Music International che vuole Neja su LUP Records, etichetta partita con “Illusion” dei Ti.Pi.Cal. nel 1994.

New Atlantic - The Sunshine After The RainNew Atlantic – The Sunshine After The Rain
Sino al 1994 la popolarità dei New Atlantic (Richard Lloyd e Cameron Saunders, da Southport, a pochi chilometri da Liverpool) non riesce ad andare oltre i confini patri. I tentativi di replicare il buon successo ottenuto con “I Know” vanno a vuoto ma quando tutte le speranze sembrano perdute accade qualcosa di inaspettato. Sulla scrivania di Jon Barlow, manager della 3 Beat Music che ha messo sotto contratto il duo, arriva “The Sunshine After The Rain”, cover dell’omonimo di Ellie Greenwich del ’68 e già ripreso con successo da Elkie Brooks nel ’77. La versione originale, pare realizzata da Neil Bowser alias U4EA, è inchiodata ad una base breakbeat, piena di asperità ritmiche. Il successo è assicurato dal remix realizzato in Italia da Roberto Gallo Salsotto in cui vengono sapientemente bilanciate ariose melodie eurodance al rigore meccanico di un bassline di moroderiana memoria. «Alla 3 Beat furono entusiasti del risultato e, per dare al disco una spinta maggiore in scia al successo di “Everybody Gonfi-Gon” che avevano licenziato pochi mesi prima, mi chiesero di usare il marchio Two Cowboys che condividevo con Maurizio Braccagni, nonostante avessi eseguito quel remix da solo» racconta qui Gallo Salsotto. La sua versione viene scelta sia per sincronizzare il videoclip che per accompagnare le apparizioni televisive come quella a Top Of The Pops. L’immagine è affidata invece a Rebecca Sleight alias Berri che dal 1995 diventa unica interprete del brano pubblicato in tutto il mondo con oltre 200.000 copie vendute.

Nick Beat - TechnodiscoNick Beat – Technodisco
Partito nel 1996 con “Bow Chi Bow” che attinge dal classico dei Vicious Delicious intitolato “Hocus Pocus”, Nick Beat è il progetto tedesco messo su da Tom Keil e Thorsten Adler. I due fanno centro nel 2000 con “Technodisco”, un pezzo che inizia a circolare in formato white label e che in breve tempo conquista le attenzioni della Zeitgeist del gruppo Polydor, probabilmente attratta dalla evidente somiglianza con una hit di poco tempo prima, “Kernkraft 400” degli Zombie Nation. La versione originale, la Technodiscomix, fa incetta dei tipici elementi della dance tedesca di allora con retaggi hard trance misti a suonini che sembrano saltare fuori da un vecchio coin-op degli anni Ottanta. Dei diversi remix giunti sul mercato quello di Axel Konrad, figura chiave della handsup teutonica, si distingue meglio per il grande pubblico. Più “picchiaduro”, per restare ancorati al mondo dei videogiochi d’antan, sono le versioni del compianto Pascal F.E.O.S. e di Thomas P. Heckmann. A pubblicare il disco in Italia è la Green Force del gruppo Arsenic Sound, lo stesso che prende in licenza “Kernkraft 400″ e che, a distanza di qualche settimana, mette in vendita un 12” con due ulteriori remix di “Technodisco” a firma DJ Gius, l’artefice del successo mondiale di Zombie Nation di cui si parla più avanti.

Nightcrawlers - Push The Feeling OnNightcrawlers – Push The Feeling On
Ispirata da “Pass The Feelin’ On” dei Creative Source, “Push The Feeling On” esce nel 1992 e prova a ritagliarsi un posto nel mercato acid jazz a cui la band dei Nightcrawlers, guidata dal cantante John Reid, approccia già l’anno prima con “Living Inside A Dream”. Il destino però ha in serbo altri progetti. La Nocturnal Dub realizzata dal DJ americano Marc ‘MK’ Kinchen, fratello di Scott Kinchen alias Scotti Deep, dona al brano una veste completamente diversa, ritmicamente (con una base in stile StoneBridge) e sotto il profilo dell’arrangiamento con un assolo di sax che, insieme ad una filastrocca di loop vocali concatenati, diventa un autentico tormentone. Sarà sempre Kinchen a perfezionare ulteriormente “Push The Feeling On” nella MK Mix 95 giunta, per l’appunto, nel 1995, anno in cui si cerca, proprio col suo aiuto, di bissare il successo con altri singoli (“Surrender Your Love”, “Don’t Let The Feeling Go”, “Let’s Push It”) ma con risultati inferiori. Difficile o forse impossibile tenere il conto dei remix, riadattamenti (si senta, ad esempio, “Control Your Body” di Wagamama) e cover di “Push The Feeling On” usciti nell’arco di quasi un trentennio a cui si è recentemente aggiunta la fortunata versione di Riton.

Nina - I'm So ExcitedNina – I’m So Excited
La croata Nina Badric inizia la carriera da cantante nei primi anni Novanta ma con pochi risultati che valicano i confini. La situazione cambia alla fine del 1998 grazie al brano “I’m So Excited”, remake dell’omonimo delle Pointer Sisters prodotto da Albert Koler, che invece fa il giro di buona parte d’Europa conquistando in particolar modo Austria, Francia, Spagna, Grecia ed Italia. La main version, la NYC RnB Mix, è una slow ballad r&b per l’appunto. Koler appronta comunque una versione destinata alle discoteche, la Exciting House Mix. In Italia però Nina spopola grazie ad uno dei due remix realizzati da Alex Voghi e Filippo ‘Sir H’ Soracca, precisamente il Solid State Dance, che tiene banco sino all’estate 1999. A pubblicare il brano, sia su 12″ che CD singolo, è la Dance Excess del gruppo Hitland. Per il follow-up, “One & Only”, la casa discografica scommette sulla versione di DJ Dado realizzata insieme a Roberto Gallo Salsotto presso il suo Stockhouse Studio.

Olive- You're Not AloneOlive – You’re Not Alone
Londra, 1994: il musicista Tim Kellett, ex componente dei Simply Red, e Robin Taylor-Firth, dalla formazione dei Nightmares On Wax, si conoscono attraverso un amico comune ed iniziano a buttare giù idee nello studio casalingo di Kellett. Approntano tre demo, strumentali. Uno di quelli diventa “You’re Not Alone” con la voce di Ruth-Ann Boyle che proprio Kellett sente per caso, attraverso una registrazione, durante una tappa del tour dei Durutti Column per cui quell’anno è ingaggiato come tastierista. La Boyle, tra le coriste dell’album “Sex And Death” degli stessi Durutti Column, si diletta a cantare con band locali della sua città natale, Sunderland, ma sino a quel momento non ha maturato significative esperienze professionali. A settembre del 1995 i tre firmano un contratto con la RCA che nel 1996 pubblica l’album “Extra Virgin”. L’LP, come dichiara Taylor-Firth in questa intervista del 2007, viene realizzato con un paio di sintetizzatori (Roland Juno-60 ed E-mu Vintage Keys) e tre campionatori Akai S3000. Il primo singolo ad essere estratto è “You’re Not Alone”, accompagnato dal relativo videoclip. I responsi sono impietosi, il mix tra rarefatte atmosfere ambientali ed accartocciamenti trip hop non sortisce grandi risultati, e neanche i remix firmati da nomi blasonati come X-Press 2 e Tin Tin Out, tempestivamente pubblicati anche in Italia dalla Flying Records, riescono ad invertire la rotta. Nel 1997 arrivano nuove versioni tra cui quelle di Roni Size, The Ganja Kru, Rollo & Sister Bliss dei Faithless e Paul Oakenfold & Steve Osborne e per gli Olive le cose cambiano radicalmente, in modo simile a quanto avvenuto pochi anni prima ai connazionali N-Trance con “Set You Free”. “You’re Not Alone” entra nella classifica britannica e vende oltre 500.000 copie trainando “Extra Virgin” che la RCA ovviamente ristampa distribuendolo in tutto il mondo, ma curiosamente solo in formato CD e cassetta (il vinile arriva quasi venti anni dopo, nel 2016). A maggio del 1997 ad osannare gli Olive è anche il pubblico di Top Of The Pops mentre arriva un secondo video di “You’re Not Alone” che fa da cornice ad un tour internazionale. Così come la Boyle raccontava anni fa sul suo sito, Madonna assiste ad una performance in Germania proprio durante quel tour e, con entusiasmo, propone alla band di incidere un nuovo album per la sua etichetta, la Maverick. Il disco arriva nel 2000 e si intitola “Trickle”. Più di qualche critico musicale (tra cui Larry Flick in una recensione apparsa su Billboard l’11 aprile 1998) però fa notare che la fascinazione su Madonna prende già corpo con “Frozen”, prodotta da William Orbit, remixata per i club da Victor Calderone e contenente i parametri di “You’re Not Alone”. La hit degli Olive continuerà ad essere motivo d’ispirazione come testimoniano molteplici cover uscite nel corso degli anni a partire da quella del tedesco ATB risalente al 2002.

Paul van Dyk - For An AngelPaul van Dyk – For An Angel
“For An Angel” è uno dei brani racchiusi in “45 RPM”, album di debutto per Paul van Dyk nonché il primo dei due che il DJ destina alla MFS di Mark Reeder. Co-prodotta con l’ingegnere del suono Johnny Klimek, la traccia è imperniata su un breve riff melodico innestato su una base più vicina alla progressive house che alla trance. Nota essenzialmente a chi ha comprato quell’album, nel 1998 per “For An Angel” si apre una seconda vita, molto più intensa della precedente. La britannica Deviant Records del compianto Rob Deacon pubblica un 12″ con tre remix della traccia per lanciare il tedesco oltremanica. Tra quelle nuove versioni c’è la E-Werk Club Mix, approntata dallo stesso van Dyk: grazie ad un ritmo più euforico simile a quello costruito per il remix di “1998” dei Binary Finary, il brano adesso conquista l’intera platea europea, complici la Love Parade di Berlino dove è consacrata allo status di inno ed un videoclip girato per l’occasione. A pubblicare il disco in Italia è la Milk’n Honey, una delle etichette del gruppo More Music curata artisticamente da Raffaela Travisano intervistata qui.

Powerhouse Featuring Duane Harden - What You NeedPowerhouse Featuring Duane Harden – What You Need
Powerhouse è il nome con cui il DJ newyorkese Lenny Fontana firma un successo mondiale nel 1999. Avvalendosi della graffiante voce di Duane Harden, lo stesso che interpreta “You Don’t Know Me” di Armand Van Helden, e sfruttando abilmente un campionamento tratto da “I’m Here Again” di Thelma Houston, Fontana assembla un brano irresistibile, legato tanto alla house quanto alla disco. La versione passata alla storia però non è l’Original Mix bensì il remix dei britannici Full Intention (Jon Pearn e Michael Gray), da anni attratti da quel tipo di fusione stilistica a cui peraltro devono gran parte della loro popolarità (si pensi a brani del repertorio come “Uptown Downtown”, “America (I Love America)” e “Shake Your Body (Down To The Ground)”). È proprio il remix dei Full Intention ad essere sincronizzato sul videoclip programmato dalle tv musicali sparse in tutto il pianeta.

Rachid - PrideRachid – Pride
Figlio del compianto Ronald Nathan Bell, uno dei fondatori dei Kool & The Gang, l’allora ventiquattrenne Rachid non intende affatto usare il nome del padre come scorciatoia per raggiungere il successo o grimaldello per aprire porte nel music biz. Si propone piuttosto come un sedicente poeta punk, ispirato da Björk, Bauhaus, Sonic Youth, Chaka Khan, David Bowie e Marcel Proust, e mostra interessi plurimi che passano dal trip hop all’industrial, dal drum n bass al folk e al soul con l’intenzione di creare il prototipo della musica del futuro. Non a caso “Prototype” è il titolo del suo primo (ed unico) album che Universal pubblica nel 1997 raccogliendo rincuoranti consensi dalla critica che ne parla come disco candidato a ridefinire i confini del pop. Anche il primo singolo estratto, “Pride”, promette molto bene. «È stata la prima canzone che ho registrato, musicandola con un sample hip hop e il suono del violoncello, credo sia perfetta per introdurre il pubblico a ciò che rappresento» spiega l’artista in un’intervista a cura di Michael A. Gonzales apparsa a settembre 1998 sulla rivista americana Vibe. In circolazione finisce pure il video destinato al circuito delle tv musicali. Una serie di remix poi traghetta Rachid anche nel mondo dei DJ e delle discoteche: in particolare è la versione dei Mood II Swing ad essere salutata con maggior entusiasmo, pure in Italia dove viene pubblicata ad inizio ’98 dalla Nitelite The Club Records del gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che rimarca la presenza di quella versione in copertina. Sul trampolino di lancio c’è già il secondo singolo, “Charade”, ma dissapori con la Universal, causati da un presunto cambio di politica aziendale, bloccano tutto. Di “Charade” inoltre è pronto un remix realizzato da Grooverider ma la fine del rapporto con la casa discografica vanifica tutto. Nel 2007 lo stesso Grooverider manda in onda quel remix nel suo radio show su BBC Radio 1, invitando gli ascoltatori a registrarlo perché rarissimo ed inciso su pochissimi acetati.

Rahsaan Patterson - Where You AreRahsaan Patterson – Where You Are
Dopo alcune esperienze come attore, Patterson approda alla musica figurando come corista per vari artisti, su tutti Brandy nel brano “Baby” del ’94. L’anno dopo viene scritturato dalla MCA che nel ’97 pubblica il suo primo album intitolato “Rahsaan Patterson”, un condensato di soul ed r&b. In questo LP c’è “Where You Are”, una ballata romantica supportata dal relativo video. A portare la musica di Patterson al grande pubblico è però il remix di Steve “Silk” Hurley, praticamente in stato di grazia dopo “The Word Is Love” realizzata pochi mesi prima con Sharon Pass e a cui i suoi tanti remix di quel periodo, incluso quello per Rahsaan Patterson, sono direttamente connessi.

Ralphi Rosario Featuring Donna Blakely - Take Me Up (Gotta Get Up)Ralphi Rosario – Take Me Up (Gotta Get Up)
Tra i veterani della scena house chicagoana nonché membro del collettivo Hot Mix 5, Ralphi Rosario incide un inno monolitico nel 1987, “You Used To Hold Me”. Instancabile DJ e produttore/remixer, torna al successo trasversale capace di abbracciare pure il frangente mainstream esattamente dieci anni più tardi, a fine ’97, quando circola un doppio mix su Underground Construction intitolato “Take Me Up (Gotta Get Up)”. La versione originale del brano, interpretato dalla compianta Donna Blakely che mette bene in mostra le proprie potenzialità vocali, gira su un ossessivo basso su cui si innesta a ventaglio tutta una serie di elementi, da fiati ad inserti di tastiere. È perfetto per i club specializzati, meno per le radio e le grandi platee. Uno dei quattro remix incisi sul doppio però, quello di Rafael Rodriguez alias Lego che un paio dopo spopola grazie ad “El Ritmo De Verdad”, capovolge la situazione. Con un ipnotico loop ritmico su cui cresce rigogliosamente la voce della Blakely, il pezzo esplode nei primi mesi del 1998 affermandosi in buona parte d’Europa. A licenziarlo in Italia è la Rise, neonata etichetta della Time Records curata da Alex Gaudino che sul 12″, oltre alla Lego’s Mix ovviamente piazzata in posizione A1, vuole pure la versione dei Fire Island. L’Original Club Mix di Rosario è relegata invece al lato b. Sul CD singolo finiscono infine altri due remix, quelli di Kevin Halstead (anche lui passato a miglior vita) e JJ Flores ma ininfluenti per il successo commerciale del brano.

Reel 2 Real - Go On MoveReel 2 Real – Go On Move
Balzati all’attenzione generale tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994 con “I Like To Move It”, i Reel 2 Real capitanati dal compianto Erick Morillo cavalcano la seconda ondata hip house insieme ad artisti come 2 In A Room, 740 Boyz, Outhere Brothers e KC Flightt. Il follow-up del citato “I Like To Move It” è proprio “Go On Move”, un brano risalente all’anno prima quando la Strictly Rhythm lo pubblica ma senza raccogliere grandi risultati. Nella Erick “More” Mix si sente bene l’imprinting morilliano ma solo grazie alla Erick “More” 94 Vocal Mix, accompagnata dal relativo videoclip e da una parte vocale più estesa interpretata da Mark Quashie alias The Mad Stuntman, il brano diventa un successo estivo. In Italia è un’esclusiva della napoletana UMM che in autunno pubblica anche l’album “Move It!” da cui verranno estratti altri singoli più o meno fortunati come “Can You Feel It?”, “Raise Your Hands” e “Conway”.

Rexanthony - Capturing MatrixRexanthony – Capturing Matrix
Le prime versioni di “Capturing Matrix”, tra cui svetta la Trancegression, iniziano a circolare nella primavera del 1995 attraverso un mix edito dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. Quella dell’allora diciottenne Anthony Bartoccetti, figlio dei musicisti Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui) ed Antonio Bartoccetti, è indiavolata hard trance in cui scorre una spiccata vena melodica che gli apre le porte del mainstream. A decretare il successo del brano a fine estate è il remix realizzato dallo stesso Rexanthony che la S.O.B. immette sul mercato su un 12″ contenente “Cocoacceleration”, realizzata a quattro mani con Molella, e “Deltasygma”. Il successo è tale da conquistare la vetta della classifica dance ai tempi più monitorata ed influente d’Italia, la DeeJay Parade, e generare più di qualche clone realizzato in copia carbone come “Melody In Motion” di Liberty. Ps: si narra che la linea melodica di “Capturing Matrix” sia stata ispirata da “Capturing Universe”, un brano composto dai genitori di Bartoccetti nel 1980 per l’album “Praeternatural” ma di cui non vi è traccia sino al 2003, anno in cui viene pubblicato dalla Black Widow Records. Pare più plausibile invece la relazione tra “Capturing Matrix” (e il follow-up autunnale “Polaris Dream”) e “Universe Of Love” del tedesco RMB, uscita nel ’94 e di cui parliamo qui nel dettaglio.

Robert Miles - ChildrenRobert Miles – Children
Quando si accorge che in circolazione c’è un altro Roberto Milani, pseudonimo utilizzato per alcuni dischi che non riescono ad uscire dall’anonimato, Roberto Concina modifica il suo alter ego ed opta per l’inglesizzazione, Robert Miles. Il primo 12″ firmato col nuovo nome è “Soundtracks”, pubblicato nei primi mesi del 1995 da una delle etichette di Joe T. Vannelli, la DBX Records. Uno dei quattro brani inclusi è “Children”, seppur storpiato da un errore tipografico, sia sulla copertina che sull’etichetta centrale, in “Childrtens”. Questa versione, un ibrido tra progressive house e progressive trance con arcate melodiche in grande evidenza, viene completamente snobbata. Quando la Platipus di Simon Berry prende in licenza “Children” per il territorio britannico però cambia tutto. All’etichetta d’oltremanica Concina destina anche un remix del brano in cui la vena melodica è implementata da un assolo di pianoforte che anni dopo si scoprirà essere parzialmente ispirato da “Napoi Menia Vodoi” del musicista russo Garik Sukachov, sembra col suo benestare. Ad onor del vero anche l’impostazione armonica di stampo new age, già presente nell’Original Version, pare non essere farina del suo sacco: come si legge in questo articolo del 18 settembre 1997, il musicista Patrick O’Hearn accusa Concina di plagio ai danni del suo “At First Light”, contenuto nell’album “Ancient Dreams” del 1985, e chiede oltre dieci milioni di dollari come risarcimento. Comunque siano andate le cose, quel remix del brano, poi diventato la definitiva Dream Version, cambia la vita di Concina, conquistando la vetta delle classifiche in ben diciotto Paesi del mondo e vendendo milioni di copie, dai tre e mezzo ai cinque, secondo diverse interviste. Il resto lo potete leggere in questo dettagliato articolo.

Robin S - Show Me LoveRobin S – Show Me Love
Nata nel 1962 a New York, Robin Stone debutta nel 1990 col brano “Show Me Love”, scritto e prodotto per la londinese Champion da Allen George e Fred McFarlane incontrati, come lei stessa racconta in un’intervista rilasciata nell’autunno del 1994, durante una delle serate che tiene nei dinner club e nei privée delle discoteche dell’area newyorkese insieme alla sua band, i Top Shelf. La versione principale, la Montego Mix, è mixata da Anthony King e scorre su partiture house garage, non pretenziose ed un filo banali seppur ben realizzate. In pochi si fanno avanti, la ZYX per la Germania, la Carrere per la Francia e la Media Records per l’Italia che lo pubblica sulla Whole Records ma con risultati deludenti. “Show Me Love” finisce presto nel dimenticatoio. Un paio di anni dopo circa però un remix proveniente dalla Svezia cambia il corso degli eventi. A realizzarlo sono StoneBridge e Nick Nice della SweMix, un collettivo di DJ e produttori in cui figurano, tra gli altri, anche il compianto Denniz Pop e Douglas Carr. Gli svedesi dotano il pezzo di un apparato ritmico/sonoro interamente nuovo che fornisce a “Show Me Love”, ora ripubblicato in tutto il mondo, una seconda vita che di fatto non si è mai conclusa a giudicare dal numero di remake e remix usciti sino ad oggi. Anche la cantante, coinvolta nel videoclip sincronizzato sulla nuova versione, si ripresenta al pubblico con un nome parzialmente diverso, Robin S. Ad accaparrarsi i diritti per la pubblicazione in Italia è D:Vision Records del gruppo Energy Production, la stessa che si aggiudica il follow-up “Luv 4 Luv”, ancora remixato da StoneBridge.

Roc & Kato - AlrightRoc & Kato – Alright
Il duo americano formato da Ramon Ray Checo e Juan Kato incide house music sin dal 1991 ma senza velleità commerciali. Il loro sound è fedelmente ancorato alla scena house newyorkese come testimoniato dai vari dischi del repertorio, incluso “Alright” che la Slip ‘n’ Slide pubblica nella primavera del 1995. La Original Vocal Mix è spassionata house garage, cantata da Charmaine Radcliff e Bendel Holt con inserti di pad ed un organo hammond. Sul doppio figurano già un paio di remix, tra cui quello di Davidson Ospina, che ingolosiscono gli adepti della garage e che stuzzicano qualcuno alla sede della Discomagic che prende in licenza il brano per l’Italia ristampandolo su etichetta Reform. A far cambiare traiettoria ad “Alright” sarà, qualche mese più tardi, il remix firmato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che da noi diventa un discreto successo autunnale. La nuova versione, pubblicata sempre da Reform e realizzata negli studi della bresciana DJ Movement insieme al musicista Pieradis Rossini, mantiene pochi elementi dell’originale puntando ad una ricostruzione fatta di suoni eurodance ed un cantato che fa leva sull’hook di facile memorizzazione.

Rosie Gaines - Closer Than CloseRosie Gaines – Closer Than Close
La versione originale, in stile r&b, risale al 1995 ed è inclusa nell’album omonimo su Motown, “Closer Than Close”, il secondo inciso dalla cantante californiana, ex corista dei New Power Generation. A conquistare il mondo delle discoteche e le classifiche di vendita europee (soprattutto quella britannica di cui raggiunge la vetta) è però il remix esploso due anni più tardi. A realizzarlo sono i Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza) che con la loro rielaborazione garage house, in circolazione già dal 1996 in formato white label e supportata da molti DJ tra cui il nostro Coccoluto come si legge qui, garantisticono alla Gaines un momento di inaspettata popolarità riuscendo a dare filo da torcere agli altri remixer coinvolti, i londinesi Tuff Jam e l’indimenticato Frankie Knuckles. Per l’occasione viene girato un videoclip diretto da Steve Price. Nella sua biografia Torrales parla di oltre otto milioni di copie vendute, una soglia incredibile per un pezzo che nella versione di partenza aveva rivelato ben poche speranze di sviluppo. Con lo scopo di rendere quanto più longevo possibile l’exploit di Rosie Gaines, la Bigbang Records commissiona sempre ai Mentor il remix del follow-up, “I Surrender”, ma fallendo l’obiettivo.

Run Feat. Justine Simmons - Praise My DJ's (My Funny Valentine)Run Feat. Justine Simmons – Praise My DJ’s (My Funny Valentine)
Inizialmente pubblicato dalla britannica Positivity Records diretta dall’A&R Carlton Brady, “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” è un pezzo hip house modellato sulle liriche di una vecchia canzone scritta negli anni Quaranta da Richard Rodgers e Lorenz Hart, “My Funny Valentine”. Ad interpretarlo sono Joseph Simmons alias Run (il Run dei Run-DMC) e la moglie Justine, ma i risultati ottenuti con le versioni iniziali prodotte da Kirwin Rolle e Remano Dunkley sono particolarmente deludenti. Il remix invece, realizzato in Italia dal team dei Mach 3, capovolge letteralmente la situazione trasformando la traccia in un successo dalle dimensioni internazionali. Merito di un trattamento che gli autori (Alessandro Zullo, Andrea Monta e Luca Neuburg, coadiuvati dagli scratch di DJ Aladyn) edificano rispolverando il mood nevinsiano di “It’s Like That” abbinato a stab di memoria rave ma soprattutto ad un riff fischiettato, vero elemento identificativo che fa di “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” un tormentone tra la primavera e l’estate 1999, accompagnato dal relativo videoclip ovviamente sincronizzato sul remix. A commissionare il lavoro ai Mach 3 (e al veneto Spiller, prossimo ad esplodere con la sua “Groovejet”) è la More Music Italy, ai tempi guidata dalla citata Raffaela Travisano, che convoglia il brano su etichetta Priveé. «Super programmato in radio e in discoteca e presente nelle top ten di vendita, a dimostrazione che le diffidenze delle prime settimane erano totalmente ingiustificate» scrive in merito Eugenio Tovini sulle pagine di Trend Discotec a luglio di quell’anno. Il follow-up, “Check Out The Floor (Summer Breeze)”, remixato ancora dai Mach 3 in quella che pare davvero la fotocopia del precedente, arriva solo nel 2001 sulla 909 Records, una delle label di Joe T. Vannelli, ma ormai fuori tempo massimo.

Run-DMC - It's Like ThatRun-DMC – It’s Like That
Nel 1997, quattordici anni dopo la pubblicazione sulla Profile Records, un remix (in Italia pubblicato dalla bresciana Time) riporta in vita “It’s Like That”, singolo d’esordio dei Run-DMC, dando ad esso una nuova veste sonora ed un’inedita prospettiva. L’artefice, il newyorkese Jason Nevins, sovrappone l’acappella originale ad una trascinante base e il risultato piace talmente tanto da conquistare la prima posizione delle classifiche di vendita in svariate nazioni e macinando oltre cinque milioni di copie anche se Nevins, pare, abbia incassato solo 5000 sterline così come riportato qui dalla BBC. Per far fronte al successo inaspettato viene girato un videoclip che proietta il gruppo in una scena ben diversa rispetto a quella hip hop e ciò provoca, prevedibilmente, aspre critiche degli integralisti, poco propensi a mandare giù una versione più volte definita “pacchiana”. Si parla anche di screzi e risentimenti tra il remixer e gli autori emersi nel 1999 attraverso la rivista XXL Magazine. Comunque sia il particolare beat, una sorta di brutalizzazione di “The House Of God” di DHS, diventa una tag identificativa per Nevins, pronto a riutilizzarlo per altri remix come quello di “It’s Tricky”, ancora dei Run-DMC, e “We Want Some Pussy!” dei 2 Live Crew a cui seguono anche vari tentativi di imitazione come “Work It” di Junkfood Junkies e “I Know You’ve Got Soul” di Trade Secrets.

Sandy B - Make The World Go RoundSandy B – Make The World Go Round
Contrariamente a quanto avviene di solito nel mondo della musica, la carriera della cantante statunitense Sandra Barber decolla dopo aver mollato le multinazionali in favore di etichette indipendenti. Negli anni Ottanta milita prima nei Chew (per la Capitol Records) e poi nei Blue Moderne, sotto contratto con l’Atlantic, ma il successo internazionale giunge nel ’92 grazie a “Feel Like Singin'”, edito da Nervous Records ed impreziosito da un remix di David Morales. Il vero botto nel 1996 con “Make The World Go Round”, pubblicato dalla Champion pare bypassando del tutto la versione originale rimasta, secondo quanto riportato ai tempi da un magazine tedesco, nel cassetto ed allo stato di demo. Scritto da Brinsley Evans e Thomas Del Grosso, il brano si impone in tutto il mondo grazie al remix dei Deep Dish, colorito da un caratteristico disegno di basso che risulterà l’indiscusso punto di forza tanto da essere riproposto in innumerevoli salse, a partire da “Let Me Show You” di Camisra. Con il loro Round The World Remix dunque, Dubfire e Sharam surclassano le rivisitazioni di esimi colleghi come StoneBridge e Kerri Chandler, e dimostrano che il successo ottenuto l’anno prima col remix di “Hideaway” dei De’Lacy, di cui si è già detto sopra, non fu solo frutto della fortuna. Commercialmente meno entusiasmante sarà invece il follow-up, “Ain’t No Need To Hide”, che i Deep Dish rileggono nella Sequel Mix in Italia pubblicata, analogamente a “Make The World Go Round”, dalla D:Vision Records.

Scott Grooves - Mothership ReconnectionScott Grooves – Mothership Reconnection
A portare grande popolarità a Patrick Scott, DJ e produttore di Detroit meglio noto come Scott Grooves, è “Mothership Reconnection”, rielaborazione house di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton anche se, come chiariscono i crediti, i frammenti campionati non sono del brano uscito nel 1975 bensì quelli presi dal Live di Houston registrato dieci anni più tardi. Ai tempi la versione di Scott viene incanalata nel French Touch seppur la traccia provenga dagli States: col suo metti e togli di fiati e scampoli di batteria, pare davvero un pezzo uscito dallo studio dei Motorbass, I:Cube o Dimitri From Paris. Magari sarà stata proprio questa somiglianza a spingere i vertici della scozzese Soma a commissionare un remix ad un duo francese su cui avevano scommesso per primi nel ’94, i Daft Punk. Così, dal Daft House di Parigi, arriva un remix che sintetizza le idee di partenza di Scott centrifugate in un energetico puzzle da cui affiorano tessere electrofunk. Il risultato è irresistibile e finisce col mettere in ombra la versione originale inclusa nell’album “Pieces Of A Dream” pubblicato sempre dalla Soma di Glasgow.

Shamen - Move Any MountainShamen – Move Any Mountain
Analogamente ai connazionali Underworld, pure gli Shamen iniziano con un nome diverso (Alone Again Or) abbracciando il rock alternativo seppur senza vantare un successo simile per dimensioni a “Doot-Doot”. Quando si ribattezzano col nuovo moniker, nel 1985, le differenze con quanto avvenuto degli anni precedenti non sono ancora evidenti ma le prospettive muteranno presto. I riscontri raccolti con “Jesus Loves Amerika” ed altri singoli estratti dall’album “In Gorbachev We Trust” contribuiscono ad edificare la nuova estetica sonica della band fondata da Colin Angus e dai fratelli Derek e Keith McKenzie, a cui si aggiungono altri componenti come Richard West meglio noto come Mr. C (proprio quello del londinese The End), il bassista Will Sin e la cantante Plavka Lonich, pochi anni dopo voce dei pezzi commercialmente più fortunati dei Jam & Spoon. In “En-Tact”, del ’90, le matrici rock collidono in scenari elettronici. Uno dei brani contenuti è “Progen”, antesignano del chemical beat e di tutta quella che, a posteriori, la critica definirà indie dance. Gli inserti rappati dal citato West stuzzicano ricordi hip house ma sarebbe un errore annettere il brano a tale corrente. Estratto come singolo e mixato da Paul Oakenfold, “Progen” conquista una serie di licenze sparse in Europa (Italia compresa, su Ricordi International) ma vedrà la completa affermazione soltanto l’anno seguente quando viene remixato e ripubblicato col titolo “Move Any Mountain” (e il sottotitolo “Progen 91”). Tra le tante versioni approntate risulta decisiva e determinante quella dei Beatmasters, pionieri della house music d’oltremanica con pezzi come “Rok Da House”, “Burn It Up”, “Warm Love” ed “Hey DJ / I Can’t Dance (To That Music You’re Playing)”. È la loro rivisitazione dunque a permettere alla band scozzese di varcare per la prima volta la soglia della top ten dei dischi più venduti in patria e conquistare la quarta posizione nonché piazzarsi alla 38esima piazza dell’ambita Billboard Hot 100 dall’altra parte dell’Atlantico. La Beat Edit mette insieme con lungimiranza spunti breakbeat, rock ed hip hop su uno sfondo psichedelico, vero leitmotiv della produzione shameniana di quegli anni, ed è sincronizzata col video girato nella primavera del 1991 alle pendici del vulcano Teide, a Tenerife. Al termine delle riprese Will Sin, poco più che trentenne, muore annegato nelle acque dell’isola vicina di Gomera, risucchiato da insidiose correnti marine. La tragedia comunque non impedisce di proseguire la carriera agli Shamen che incidono nuovi album da cui vengono prelevati singoli di successo tra cui “Ebeneezer Goode”, “Phorever People”, “L.S.I. (Love Sex Intelligence)”, “Comin’ On”, “Transamazonia” e “Destination Eschaton” e rivelandosi, così come scrive Rita Ferrauto su Dance Music Magazine a novembre del 1995, «la band che allaccia circuiti musicali e mentali tra l’antica mitologia, lo sciamanesimo e le nuove tecnologie informatiche».

Shauna Davis - Get AwayShauna Davis – Get Away
Nata Stéphane Moraille, Shauna Davis debutta come solista nel 1995 col brano “Get Away” pubblicato dalla canadese Hi-Bias Records e in Italia licenziato su Downtown (gruppo Time Records). L’Original Mix resta praticamente ignota al contrario della Club Mix firmata da StoneBridge e Nick Nice: gli svedesi continuano abilmente a sfruttare l’onda innescata dai tempi di “Show Me Love” di Robin S riuscendo a trasformare in successo quasi qualsiasi cosa tocchino. Dello stesso periodo si segnalano infatti, oltre ad “Everlasting Pictures – Right Through Infinity” di B-Zet e “Sex And Infidelity” dei nostri Blast di cui abbiamo già parlato sopra, altri loro fortunati remix come quelli per “Boombastic” di Shaggy, “This Time I’m Free” di Dr. Album e “Deep In You” di Tanya Louise. La Davis inciderà altri due singoli sino al 1998, anno in cui sarebbe dovuto uscire un album rimasto però nel cassetto. La cantante si rifà interpretando “Drinking In L.A.”, hit estiva dei Bran Van 3000.

Simian - We Are Your FriendsSimian – We Are Your Friends
Nel 2002 la Source pubblica “Never Be Alone” dei Simian, brano indie rock estratto dall’album “We Are Your Friends” che non riscuote significativi consensi. L’anno dopo gli allora sconosciuti Justice (i francesi Gaspard Augé e Xavier de Rosnay) realizzano, per un contest, un remix che gli apre le porte della neonata Ed Banger Records. In questa nuova versione, finita su un 12″ della label di Busy P, resta parte della voce originale (un mix tra Iggy Pop e Robert Smith) incastrata in una graffiante e flessuosa base electro house. Qualcosa inizia a muoversi nel 2004 grazie a DJ Hell che intuisce le potenzialità del brano e lo licenzia sulla International Deejay Gigolo, ma la consacrazione pop arriva solo nel 2006 quando la 10 Records del gruppo Virgin ripubblica la traccia reintitolata “We Are Your Friends” e premiata agli MTV Europe Music Awards per il video diretto da Rozan & Schmeltz.

Smoke City - Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)Smoke City – Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)
Non si può dire che la versione originale di “Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)”, presente nell’album “Flying Away”, sia passata proprio inosservata. Con un seducente mix tra trip hop ed acid jazz saldato da richiami latini analogamente a quanto avviene in “Underwater Love” scelta per lo spot Levi’s, la band britannica conquista spazi sempre più consistenti nell’audience internazionale. Tuttavia è il remix del brano a sancire una popolarità ancora più trasversale abbracciando anche il mondo delle discoteche. Merito della Vocal Mix approntata dai Mood II Swing (gli americani John Ciafone e Lem Springsteen, quell’anno all’opera su “Free” di Ultra Naté) in cui le avvolgenti atmosfere evocate dalla voce sibillina di Nina Miranda vengono preservate e fatte confluire in una gabbia di ritmo irresistibile che ne fa una hit nell’estate 1997 e riesce a reggere ottimamente il confronto col remix di “Underwater Love” realizzato da David Morales.

Steam System - Barraca DestroySteam System – Barraca Destroy
“Barraca Destroy” esce nella primavera del 1993 segnando il debutto del progetto Steam System dietro cui armeggiano Claudio Collino (che all’attivo ha già le hit di Sueño Latino ed Atahualpa), Piero Pizzul, e Michele Menegon alias Michael Hammer, futuro direttore di Italia Network. Come racconta proprio Menegon in questa intervista, «”Barraca Destroy” fu una produzione commissionata dall’Expanded Music per la nota discoteca spagnola Barraca. Doveva essere l’inno del locale e il lavoro fu piuttosto semplice: una melodia orecchiabile, parole spagnole comprensibili ed una buona dose di energia, tutti elementi convogliati della Destruction Version. Una volta terminato, il brano fu spedito in Spagna ma appena duemila copie furono stampate per l’Italia. Soltanto Italia Network lo programmò, credo per farmi un piacere. Poi il disco finì nel dimenticatoio. Un giorno di fine estate mi chiamò Giovanni Natale, boss dell’Expanded Music, dicendomi che Molella, di ritorno dalla Spagna, aveva acquistato il disco e che lo fece ascoltare ad Albertino e Fargetta. Tutti erano convinti che si trattasse di una hit. A quel punto mi chiese di rientrare in studio e realizzare un remix che ne esaltasse la forza. Con Claudio e Piero componemmo quindi la traccia oggi nota a tutti». La versione che arriva al grande pubblico è proprio tra i remix, la En Directo, colorita dal battito di mani di “We Will Rock You” dei Queen.

Sven Väth - Dein SchweissSven Väth – Dein Schweiss
La versione originale di “Dein Schweiss”, inclusa nell’album “Contact” edito dalla Virgin nel 2000, è frutto del lavoro sinergico tra Sven Väth e Johannes Heil. Supportata da un videoclip in cui il DJ biondo di Obertshausen domina la scena con la sua solita verve e spigliatezza, la traccia mischia elementi techno ed electro. Quando, tra fine 1999 ed inizio 2000, la Virgin pubblica il singolo però alla Master Mix aggiunge un feroce remix che nell’arco di pochi mesi finisce col diventare decisamente più noto dell’originale: a realizzarlo, spingendosi sino a lambire sponde EBM, è Thomas P. Heckmann, prolifico produttore di Magonza con un eccelso repertorio da cui svettano pure successi dalle dimensioni europee come “Amphetamine” di Drax e “Sync In” di Silent Breed.

Sweetbox Feat. Tempest - Booyah (Here We Go)Sweetbox Feat. Tempest – Booyah (Here We Go)
Prodotto da Roberto ‘Geo’ Rosan e partito dalla tedesca Maad Records, “Booyah (Here We Go)” è un pezzo che si fa lentamente strada nei primi mesi del 1995 unendo una base simile a quella di “Short Dick Man” dei 20 Fingers alla voce di Kimberly ‘Tempest’ Kearney che ammicca invece all’eurorap in stile Technotronic, Leila K o Daisy Dee. La versione originale, supportata dal relativo videoclip, fa presa nei locali e in radio ma a garantire un airplay ancora più incisivo specialmente nel nostro Paese è uno dei remix intitolato Hot Pants Club Mix realizzato da Nique a mo’ di mash-up tra l’acappella di Tempest e la base di “We Are Family” delle Sister Sledge. A pubblicare il brano in Italia è la Discomagic di Severo Lombardoni, la stessa che in autunno licenzia il follow-up “Shakalaka”, una specie di incrocio tra Outhere Brothers e Reel 2 Real che però si rivela meno fortunato nonostante annoveri il remix di Mousse T.

T42 - Melody BlueT42 – Melody Blue
Partito nel ’97 con “Every Life Unfolds” e “Children’s Voices” editi dalla Dance Factory del gruppo EMI, il progetto T42 si fa notare meglio due anni più tardi quando passa all’indipendente No Colors (gruppo F.M.A.) che pubblica “Melody Blue”. L’Original Mix, prodotta dal compianto Graziano Pegoraro, finisce sul lato b mentre a torreggiare è il remix di Fargetta, arrangiato da Graziano Fanelli e Max Castrezzati sul classico modello italodance di fine anni Novanta. Sarà sempre Fargetta a tenere alte le quotazioni di T42 firmando le versioni più note dei successivi “Run To You”, “Find Time” e “Set Me Free” usciti tra 2000 e 2002.

Technohead - I Wanna Be A HippyTechnohead – I Wanna Be A Hippy
I coniugi britannici Lee Newman e Michael Wells, già noti come GTO e Tricky Disco, vestono i panni dei Technohead dal 1993, incidendo primariamente hardcore e gabber. Nel 1995, quando l’happy hardcore e la musica ad alta velocità vive la sua parentesi commerciale più importante, riescono ad intrufolarsi nel mainstream col brano “I Wanna Be A Hippy” pubblicato dall’olandese Mokum Records. A fare da cassa da risonanza però non è l’agitata Original Mix bensì il remix realizzato da Flamman & Abraxas scelto per sincronizzare il videoclip. Il successo è tale da portare, ad inizio ’96, i Technohead persino a Top Of The Pops seppur con due censure nel testo ( si veda qui e qui). Sul palco però non c’è la Newman, morta di cancro ad agosto dell’anno prima ed ignara del successo raccolto da “I Wanna Be A Hippy” di cui si stima siano state vendute oltre 150.000 copie. Curiosità: c’è chi propone il brano a 33 giri anziché 45 come fa in Italia Albertino nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade.

The Corrs - DreamsThe Corrs – Dreams
Quartetto irlandese formato dai fratelli Corr, i Corrs si costruiscono una solida carriera nel ramo rock/folk. Nel 1998 aderiscono al progetto patrocinato dall’Atlantic per una raccolta celebrativa sui Fleetwood Mac, “Legacy: A Tribute To Fleetwood Mac’s Rumours”, che al suo interno raccoglie cover del gruppo londinese. Insieme a loro, tra gli altri, Elton John, The Cranberries e Goo Goo Dolls. I Corrs ricantano “Dreams”, con la produzione di Oliver Leiber e Peter Rafelson, ma a decretare il successo è il remix firmato da Todd Terry, lanciato nella top ten britannica dei singoli con evidenti richiami a quello realizzato qualche anno prima per “Missing” degli Everything But The Girl. Incoraggianti responsi giungono pure per il video approntato per l’occasione entrato nelle nomination ai Billboard Music Video Awards come Best New Clip. Considerato il grande successo, l’etichetta discografica ristampa l’album “Talk On Corners” uscito l’anno prima inserendo in tracklist anche il remix di “Dreams”. A sugellare il tutto è il concerto alla Royal Albert Hall dove i Corrs eseguono dal vivo il brano insieme a Mick Fleetwood, batterista e cofondatore dei Fleetwood Mac.

The Original - I Luv U BabyThe Original – I Love U Baby
Nato su iniziativa di Walter Taieb, DJ parigino di stanza a New York, il progetto The Original prende corpo nella primavera del 1994 con l’arrivo di Giuseppe ‘DJ Pippi’ Nuzzo, italiano trapiantato ad Ibiza dove è resident al Pacha. È lui a suggerire le linee guida di un brano che si completa grazie al supporto vocale del cantante turnista Everett Bradley. Ultimate le due versioni, la Swing Mix e la No! Swing Mix, Taieb e Nuzzo le sottopongono all’attenzione di una multinazionale ma ricevendo picche. Per non vanificare tutto, Taieb opta per l’autoproduzione e pubblica il disco su un’etichetta creata per l’occasione, la WT Records. Fiocca qualche licenza in Europa ma nulla di realmente esaltante, almeno sino a quando giungono i remix dal Regno Unito. A realizzare una delle nuove versioni è Ian Bland alias Dancing Divaz: la sua Club Mix è una cannonata per le classifiche che smonta l’apparato originario della traccia, fondato su un giro di organo contrapposto all’assolo di sax, a favore di arrangiamenti dal sapore più epico e malinconico, con pianate in grande evidenza ad incorniciare la voce di Bradley. Dal 1995 in poi è un tripudio di riconoscimenti, specialmente oltremanica, culminati con l’apparizione a Top Of The Pops dove il brano viene eseguito sulla base del remix, scelto ovviamente anche per accompagnare il videoclip. A pubblicare da noi “I Love U Baby” è la partenopea Flying Records che prende in licenza pure il follow-up, “B 2Gether”, ancora remixato da Dancing Divaz ma con resa inferiore. Taieb e Nuzzo torneranno al successo internazionale nel 1998 grazie a “On The Top Of The World” di Diva Surprise, cantato da Georgia Jones e scandito da un campionamento preso da “YMCA” dei Village People.

The Presence - Forever On My MindThe Presence – Forever On My Mind
Non è stata una hit con centinaia di migliaia di copie all’attivo ma un discreto successo nazionale nella primavera del 1996: “Forever On My Mind”, realizzata dal duo formato da Mauro Di Martino e Carlo Di Rosa nel loro Mad Studio a Ragusa, è una traccia house impreziosita dal contributo vocale del cantante statunitense Stefan Ashton Frank. A fare la differenza però è il remix dei Ti.Pi.Cal., solcato sul lato a del disco e realizzato sul modello garage d’oltreoceano, con la vocalità incastonata all’interno di paratie melodiche. Il 12″ apre il catalogo della Entroterra Records, etichetta creata dagli stessi Ti.Pi.Cal. in collaborazione con la bresciana Time Records ma la cui operatività è ricondotta ad una sola pubblicazione, analogamente a quanto avviene, peraltro nel medesimo periodo, alla E.S.P. – Extra Sensorial Productions, con “Electro Sound Generator” di Neutopia. Saranno sempre i Ti.Pi.Cal. a firmare il remix del follow-up, “Tonight”, pare rifiutato dalla Time di Maiolini e pubblicato dalla Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, la stessa che chiude il cerchio con “Wanna Be The One” ritoccato ancora da Tignino, Piparo e Callea.

Tom Jones - Sex BombTom Jones – Sex Bomb
La Album Version ha il retrogusto di un vecchia canzone degli anni Sessanta pur essendo scritta e composta alle porte del nuovo millennio. A fare la differenza è la Peppermint Disco Mix realizzata da Mousse T. e i Royal Garden, pensata a mo’ di mash-up tra l’acappella del brano e la base ricavata da “All American Girls”, un successo del 1981 delle Sister Sledge. Per Mousse T. è l’inizio della fase pop della carriera che si evolve con una serie di successi radiofonici come “Fire” ed “Is It ‘Cos I’m Cool?”, entrambi cantati da Emma Lanford, e “Il Grande Baboomba” che lo vede impegnato insieme al nostro Zucchero con cui si esibisce alla Royal Albert Hall di Londra nel 2004 come testimonia questa clip.

Tomcraft - ProsacTomcraft – Prosac
La versione originale di “Prosac”, inchiodata ad un battente bassline e scivolosi suoni in reverse, esce nel 1997 ma senza raccogliere particolari elogi. A quattro anni di distanza la Kosmo Records pubblica due remix realizzati dallo stesso autore affiancato da Eniac, e a quel punto per la traccia si prospetta una seconda giovinezza dal più ampio respiro. Alla New Clubmix ed alla TC-THC Mix, elaborate meglio sul piano melodico rispetto alla prima, si somma il videoclip che fa presa sulle tv musicali. Il brano viene licenziato pure in Italia dalla Wild! Entertainment di Raffaela Travisano, a cui abbiamo dedicato una monografia qui, che però opta per due remix ex novo commissionati per l’occasione a Tony H e Karin De Ponti.

Tony Di Bart - The Real ThingTony Di Bart – The Real Thing
Il britannico Antonio Carmine Di Bartolomeo, nato a pochi chilometri da Londra ma di chiare origini italiane, viene baciato dal successo nel 1994 grazie a “The Real Thing”. La versione originale, scritta dallo stesso Di Bartolomeo insieme a Luce Drayton ed Andy Blissett e in circolazione dall’autunno del ’93, è una ballata pop con influssi jazzati poco nota e passata decisamente inosservata. A dare ad essa un taglio completamente diverso è il team dei Joy Brothers, artefice di un remix che si pone sulla linea di mezzeria tra house ed eurodance e conquista l’intera Europa incuriosendo anche Stati Uniti e Canada (in Italia arriva curiosamente attraverso due etichette, la X-Energy Records e la UDP del gruppo Disco Più di Lino Dentico). Sul 12″ c’è pure una seconda versione, la Original Dance Mix, parecchio simile alla prima ma firmata da Rhyme Time Productions (non è chiaro se gli artefici siano proprio gli stessi). Al di là dell’uso di pseudonimi e nickname, Di Bart porta il remix del pezzo a Top Of The Pops ad aprile, cantandolo dal vivo e non ricorrendo, come allora fa la maggior parte degli artisti, al playback. Segue una caterva di date nelle discoteche di tutta Europa, Italia compresa, e la nomination agli International Dance Awards, tenutisi a Londra il 22 gennaio 1995 dove “The Real Thing” è in lizza insieme a pezzi come “Anytime You Need A Friend” di Mariah Carey ed “Incredible” di M-Beat Featuring General Levy. La Cleveland City tenterà di tenere alto l’interesse nei confronti dell’artista con altri singoli come “Do It”, “Why Did Ya” e “Turn Your Love Around”, ma riuscendo solo parzialmente nell’intento.

Tori Amos - Professional WidowTori Amos – Professional Widow
Inclusa nell’album “Boys For Pele”, “Professional Widow” è una canzone che Tori Amos scrive attingendo alcuni versi da “La Sfinge”, il racconto di Edgar Allan Poe. Musicalmente è legata al rock alternativo ma il remix che ne decreta il successo mondiale la traghetta in un mondo completamente differente. Nella sua Star Trunk Funkin’ Mix Armand Van Helden ricostruisce il pezzo partendo, pare, da un frammento ritmico carpito a “Trinidad” di John Gibbs & The U.S. Steel Orchestra, e poi prosegue verso un universo fatto di house music squarciata da un basso funk assassino e sbilenco in cui dondolano brevi cellule vocali della Amos. Sembra più una traccia inedita che un remix tanto è il divario col brano originale e pare che questa audace rilettura sia piaciuta parecchio anche all’autrice, felice che il DJ non abbia tenuto saldi i tasselli di partenza preferendo invece andare in una direzione totalmente diversa. Sul 12″ edito dalla Atlantic figura pure un secondo remix a firma MK che però risulta irrilevante se messo a confronto col primo. A curare la post-produzione della celebre Star Trunk Funkin’ Mix è Johnny De Mairo, fondatore della Henry Street Music per cui Van Helden incide dal ’94 e ai tempi A&R per l’Atlantic. La versione di Van Helden, infine, viene scelta per un videoclip realizzato riciclando ed assemblando frame tratti da altri video della cantante come quelli di “Crucify”, “Winter” e “Silent All These Years”.

Wamdue Project - King Of My CastleWamdue Project – King Of My Castle
La versione originale di “King Of My Castle” è inclusa in “Program Yourself”, il secondo dei tre album che Christopher Brånn, da Atlanta, firma Wamdue Project. Pubblicata dalla Strictly Rhythm, la traccia vive in una bolla di deep house tinta di funk ed è irrorata dalla voce di Gaelle Adisson, la stessa che si sente in “You’re The Reason”, un altro pezzo dell’LP che a tratti ricorda lo stile di “Disco’s Revenge” di Gusto uscito qualche anno prima. A trasformare quello che è destinato ad una ristretta cerchia di eletti in un successo mainstream dalle dimensioni colossali è il remix realizzato in Italia da Mauro Ferrucci per l’occasione trincerato dietro lo pseudonimo Roy Malone. Insieme a lui, nel Cotton Fields Studio di Padova, c’è Walterino, quello del team L.W.S. ed Olga intervistato qui. La King Mix mostra pochi punti in comune con l’originale: l’armatura ritmica corazzata incornicia arrangiamenti essenziali e la sezione vocale della Adisson, finita ovviamente nel videoclip che ad oggi conta più di nove milioni di visualizzazioni su YouTube. Altri remix si sommano al pacchetto, da quello di Roger ‘The S-Man’ Sanchez a quello di Charles Schillings (editi, insieme alla versione di Malone, dalla veneta Airplane! Records) passando per quelli di Armin van Buuren e di Bini & Martini usciti nel 1999.

Whatever, Girl - Activator (You Need Some)Whatever, Girl – Activator (You Need Some)
Col suo incedere ipnotico abbinato ad inserti tribaleggianti, nel 1994 “Activator (You Need Some)” diventa un autentico tormentone nelle discoteche specializzate. A produrlo sono Bill Coleman e Louie Guzman uniti come Whatever, Girl ma le loro versioni, la Gee, Your Hair Smells Terrific! Mix e la T.C.B. Mix, non sono depositarie del successo. A fare la differenza è invece la Jheri Curl Sucker Wearin’ High Heeled Boots Mix incisa sul lato a ed approntata da Johnny Vicious, che peraltro pubblica il disco sulla sua etichetta, la Vicious Muzik Records. In Italia arriva attraverso la bresciana Downtown del gruppo Time che assegna erroneamente la paternità proprio a Johnny Vicious, annunciato sull’adesivo rettangolare applicato in copertina come “the next David Morales”.

Whigfield - Saturday NightWhigfield – Saturday Night
È un caso strano quello di Whigfield, progetto ideato da Davide Riva (intervistato qui) e Larry Pignagnoli e giunto sul mercato nel 1993 con “Saturday Night”. La versione incisa sul lato a, la Dida Mix, è figlia di quanto avvenuto nel biennio precedente con l’esplosione e massificazione di suoni tendenzialmente legati alla eurotechno, e contiene quindi i retaggi di tutto quel serbatoio con cui il mainstream italiano approccia ad un genere messo in antitesi alla house fatto da casse marcate, suoni di sintetizzatore in grande evidenza, arrangiamenti dalle espressività meccaniche, voci campionate ed usate a mo’ di strumenti. Probabilmente, proprio in relazione a questa attinenza stilistica, alla Energy Production decidono di pubblicare il 12″ su Extreme, etichetta usata in prevalenza per produzioni di estrazione filo techno e sulla quale, peraltro, poco tempo prima trovano spazio fortunatissime licenze come “The House Of God” di D.H.S. ed “Ambulance” di Robert Armani. Sul lato b finiscono altre due versioni, la Nite Mix, inserita a giugno ’93 dal team dell’AID su uno dei dischi destinati al servizio per corrispondenza Promo Mix, e la Beagle Mix, radicalmente differenti dalla prima. Per circa un anno non avviene nulla fatta eccezione in Spagna dove “Saturday Night” raccoglie discreti consensi anche grazie ad un particolare balletto abbinato, pare inventato in una discoteca iberica. Whigfield sembra comunque destinato a finire nell’oblio, tra la miriade di brand usciti dagli studi di registrazione italiani negli anni più floridi e prolifici dell’eurodance. Alla fine dell’estate ’94 però la Nite Mix entra nella classifica britannica dei singoli direttamente al primo posto forte di 500.000 copie vendute, togliendo lo scettro ai Wet Wet Wet con “Love Is All Around” e ritrovandosi a dividere la parte più alta di quella chart con un’altra hit made in Italy, “The Rhythm Of The Night” di Corona. Da quel momento in poi per Pignagnoli e Riva cambia davvero tutto: l’interesse mostrato dal Regno Unito, ai tempi autentica cartina tornasole delle tendenze musicali europee, innesca un effetto domino che si propaga ovunque. Fioccano richieste di licenze da ogni angolo del globo (un anno prima erano state appena un paio) e viene girato un videoclip in cui la scena è dominata da Sannie Charlotte Carlson, modella danese ventiquattrenne scelta come frontwoman del progetto (a cantare è invece la britannica Annerley Gordon). Immancabile l’ospitata a Top Of The Pops col debutto il 15 settembre ’94 a cui si somma la puntata natalizia in cui la Carlson è introdotta da due presentatori d’eccezione, Howard Donald e Jason Orange dei Take That. Per gestire meglio tutto ciò la Energy Production ristampa il disco (affiancandolo al CD singolo), questa volta sulla label principale del gruppo, la X-Energy Records, aggiungendo una manciata di rivisitazioni a firma Fishbone Beat e la dicitura “remix ’94” seppur a spopolare non sia affatto un remix ma la Nite Mix, adesso finita sul lato a (la Dida Mix invece viene relegata alla posizione periferica B3). Più di qualcuno quindi pensa erroneamente che a cambiare le sorti della canzone sia un remix, alimentando in buona fede un falso storico. Sul retro della copertina trova spazio inoltre l’accurata guida (anche fotografica) per il sopraccitato balletto a cui è abbinato il brano di Pignagnoli e Riva, in seguito oggetto di qualche accusa di plagio ai danni di “Rub A Dub Dub” degli Equals e “Fog On The Tyne” degli Lindisfarne ma a quanto pare caduta in assenza di oggettivi appigli legali. Alla fine di “Saturday Night”, «inno pigolante con una tastierina che si infilava nel cervello e non lo lasciava più», come scrivono Carlo Antonelli e Fabio De Luca in “Discoinferno”, ne vengono vendute oltre due milioni di copie.

York - On The BeachYork – On The Beach
Il progetto York gestito dai fratelli Jörg e Torsten Stenzel debutta nel 1997 con “The Big Brother Is Watching You” ripubblicato poco tempo dopo come “The Awakening”. Nel 1999 tocca a “On The Beach”, rivisitazione dell’omonimo di Chris Rea del 1986 immersa in una soluzione a metà strada tra house e trance. «Registrammo l’assolo di chitarra nel mio studio, risuonandolo e non campionandolo come qualcuno potrebbe immaginare» racconta Torsten Stenzel in questa intervista. «Una volta completato il brano, lo licenziammo alla Sony e alla Manifesto che commissionarono vari remix». Tra le tante nuove versioni ce n’è una che spicca in modo particolare, quella realizzata in Italia negli studi della Media Records da Mauro Picotto ed Andrea Remondini e firmata CRW. Ritmicamente potenziato, il pezzo rivive nella dimensione eurotrance conquistando il favore del Regno Unito e rivelandosi determinante per raggiungere lo strepitoso risultato di oltre 300.000 copie vendute. A pubblicare in Italia “On The Beach” è la No Colors del gruppo F.M.A. che sul 12″ e sul CD singolo inserisce il remix dei CRW ma attribuendolo, per ragioni mai chiarite, a Basic Connection, un marchio di cui abbiamo parlato sopra. Ciò scatena una controversia tra la F.M.A. e la Media Records. Quest’ultima ristamperà il remix in questione su W/BXR, sussidiaria pop della BXR, ma con un nome artistico diverso, Lesson Number 1.

Ziggy Marley And The Melody Makers - Power To Move YaZiggy Marley And The Melody Makers – Power To Move Ya
Così come avvenuto al padre Bob, anche Ziggy Marley e i suoi Melody Makers vengono trascinati nella musica da discoteca attraverso un remix. Incluso nell’album “Free Like We Want 2 B”, il brano originale oltrepassa la soglia della classica formula reggae adoperando una base downtempo in cui fanno capolino persino chitarre elettriche. Per i remix l’Elektra coinvolge vari artisti: Hani e DJ Dmitry, artefici della Kundalini Rising Mix, Longsy D, Mousse T. ed E-Smoove. È la versione di quest’ultimo a svettare su tutte, la Smoove Power, che adatta perfettamente “Power To Move Ya” in una cornice house garage, con grandi pianate in evidenza. Ziggy Marley diventa così un protagonista dell’estate ’95 facendo la staffetta con altri fortunati remix già descritti sopra (De’Lacy, Bobby Brown, Jamiroquai, Dana Dawson, Everything But The Girl…). Nel ’97 l’Elektra tenta di fare il bis affidando ancora ad E-Smoove il remix di “Everyone Wants To Be” estratto dall’album successivo di Ziggy Marley And The Melody Makers, “Fallen Is Babylon”, ma l’impresa non riesce. Il DJ americano si rifarà comunque nel 2001 incidendo “Shined On Me” come Praise Cats.

Zombie Nation - Kernkraft 400Zombie Nation – Kernkraft 400
Nei primi mesi del 1999 a pubblicare il primo disco degli Zombie Nation (Florian ‘Splank!’ Senfter ed Emanuel ‘Mooner’ Günther), da Monaco di Baviera, è l’International DeeJay Gigolo Records di DJ Hell. Uno dei cinque brani dell’EP è “Kernkraft 400”, «un pezzo electro cadenzato da incastri di suonini in stile chiptune, un sample vocale che ripete il nome del gruppo, un basso in ottava e soprattutto il riff di “Stardust” composto da David Whittaker per il videogioco “Lazy Jones” del 1984» (da Gigolography, 2017). Immerso tra retaggi di Kraftwerk e Yellow Magic Orchestra, “Kernkraft 400” è destinato all’underground più settoriale da poche migliaia di copie ma poi arriva un remix che lo trasforma in un successo pop mondiale. Artefice è l’italiano Cristiano ‘DJ Gius’ Giusberti, la cui versione, frutto di una semplificazione degli elementi di partenza, viene scelta per accompagnare il video che sostituisce il più macabro e violento realizzato qualche tempo prima sulla base dell’originale e in cui compare Senfter. È sempre il remix italiano ad essere utilizzato per gli spettacoli televisivi tra cui l’apparizione a Top Of The Pops per cui Zombie Nation viene trasformato in una sorta di gruppo carnevalesco: l’effetto finale rammenta quanto avvenuto pochi anni prima ai Technohead con “I Wanna Be A Hippy” di cui si è già detto prima. Grazie alla rivisitazione di Giusberti “Kernkraft 400” diventa una hit planetaria anche se Splank!, nel frattempo diventato unico componente del progetto Zombie Nation, non risparmierà toni fortemente polemici nei confronti dell’etichetta italiana che fa realizzare il remix ed una Live Version correlata, la Spectra Records del gruppo bolognese Arsenic Sound diretto da Paolino Nobile intervistato qui.

(Giosuè Impellizzeri)

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R.O.D. – Heaven Or Hell (Muzic Without Control Records)

C’è stato un periodo, indicativamente tra l’autunno del 1994 e il primo semestre del 1996, in cui un’ampia frangia della dance music nostrana vive una netta accelerazione ritmica. Probabilmente innescata dalle produzioni tedesche tipo Marusha, Dune, Bass Bumpers, Perplexer, Mark ‘Oh, General Base, Scooter o Jam & Spoon che vendono centinaia di migliaia di copie e finiscono in compilation altrettanto fortunate supportate pure dalle multinazionali (come “Dance Nation”), quella che sembra una parentesi momentanea finisce col diventare una tendenza piuttosto consolidata. Tra i primi ad aderire a questo fenomeno c’è Digital Boy con “The Mountain Of King” il cui successo forse convince altri connazionali a cimentarsi in un nuovo tipo di eurodance dopata, steroidizzata e lanciata a velocità folli. Da Z100 ai Club House, da Exit Way a Molella, da Moratto a Giorgio Prezioso passando per Da Blitz, Ramirez, Bliss Team, Kina, Mato Grosso, JT Company ed altri ancora. Insomma, il gotha dell’italodance di allora si butta a capofitto in un’autentica scorribanda di bpm farcita da elementi desunti dalla hard trance mitteleuropea ai confini con la happy hardcore di paternità olandese. In questo contesto si inserisce perfettamente R.O.D. che debutta nei primi mesi del 1995 con “Heaven Or Hell”.

Dietro le quinte del progetto opera un team di giovani produttori lombardi tra cui Fabio Giraldo che, contattato per l’occasione, racconta: «In quel periodo ascoltavo parecchia hard trance tedesca e, in compagnia dell’amico Max Cassan, iniziai a buttare giù una traccia in quello stile che poi divenne “Heaven Or Hell”. Realizzammo il demo nella sala b del JTC Recording Studio, praticamente un corridoio vista la sua forma stretta e lunga. La voce era di Rodney Freake, giunto in studio grazie al compianto Greg Girigorie, ai tempi vocalist di JT Company, che propose a Vannelli di produrlo». A pubblicare il disco è proprio Joe T. Vannelli che lo convoglia su una delle sublabel del suo gruppo discografico, la Muzic Without Control Records. La versione più nota, la Heaven Mix, attinge spunti dalla hard trance e dalla happy hardcore analogamente alla Hot & Wet mentre la Hell Mix spinge in direzione makina. C’è pure una quarta interpretazione, la Jungle R.O.D. che, come anticipa il titolo stesso, prende le mosse dalle sincopi della jungle. «A noi piaceva parecchio sperimentare per non stazionare banalmente su una formula e a testimonianza di ciò ci sono le versioni così diverse tra loro» prosegue Giraldo. «La Jungle R.O.D., ad esempio, derivava dalla curiosità per il mondo della jungle che in quel periodo stava partendo dalla Gran Bretagna contagiando pure l’Italia. “Heaven Or Hell” fu realizzato con un mixer Mackie 8 Bus a 24 piste, un computer Atari 1040 ST abbinato al sequencer Notator Logic, campionatori Roland S-750 ed S-770, sintetizzatori Roland Juno-106, Roland JX-3P, Yamaha TX81Z, un multieffetto Alesis Midiverb III, drum machine Alesis D4, monitor Yamaha NS10 ed Electro Voice Sentry 500, un (immancabile) giradischi Technics SL-1210 e, per finire, un registratore DAT Tascam DA-P1. Completammo tutte le versioni in una quindicina di giorni circa. In studio ci eravamo divisi i ruoli: Max Cassan era il musicista e curava arrangiamenti e composizione, Fausto Intrieri era il fonico mentre io mi occupavo della direzione musicale e delle sonorità da seguire. Ovviamente tutti potevano dare suggerimenti ed opinioni anche nei campi di competenza altrui in modo da avere uno scambio completo. Non seguivamo però un modus operandi preciso nella fase compositiva, tante cose germogliavano dall’improvvisazione e da ispirazioni estemporanee. Ad “Heaven Or Hell” è legato un aneddoto tecnico che oggi ricordo col sorriso: per passare la traccia sul DAT dovemmo fare più tentativi perché il MIDI saltava, il bus dell’Atari era sovraccarico».

Le copertine dei successivi 12″ di R.O.D. usciti tra 1995 e 1996

In Italia il pezzo si muove piuttosto bene, complice il supporto di Albertino che lo spinge nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade (dove rimane per circa due mesi, dal 25 febbraio al 15 aprile) e lo sceglie per la compilation “Alba Volume 1”. «R.O.D. entrò nella “Alba Volume 1” proprio all’ultimo momento» rammenta ancora Giraldo. «La traccia non era ancora finita ma Vannelli andò in radio con una cassetta con su inciso il rough mix ottenendo subito l’approvazione da Albertino. A quel punto Joe tornò in studio comunicandoci che “Heaven Or Hell” sarebbe stato inserito in quella compilation. Rimanemmo piacevolmente sorpresi e felici e ci demmo subito da fare per finalizzare la traccia. Credo che in Italia il disco abbia venduto circa ventimila copie ma fu pubblicato anche in Germania dalla Urban, ai tempi etichetta del gruppo Motor Music GmbH, e quella per noi fu decisamente una bella soddisfazione». Il follow-up, “Free Your Soul”, esce a ridosso dell’estate ma rispetto al primo punta sul formato canzone con un falsetto in stile “Smalltown Boy”. Nel ’96 invece “Flight 777” riprende il discorso lasciato in sospeso da “Heaven Or Hell”, con forti attinenze hard trance corroborate da svirgolate acid, ma i tempi dell’eurodance velocizzata ormai sono quasi al capolinea e a posteriori quella particolarità ritmica così evidente giocherà persino a svantaggio. Il movimento revivalista infatti fatica non poco a riproporre il filone “speedy”, oggi poco adatto sia alle discoteche che alle selezioni radiofoniche. «Se non ricordo male, puntammo su un follow-up completamente diverso da “Heaven Or Hell” su espressa richiesta di Rodney Freake, desideroso di interfacciarsi con un brano con dosi maggiori di cantato» dichiara Giraldo. «Lo accontentammo ma purtroppo senza riscuotere gli stessi risultati. “Flight 777” invece, nettamente più vicino allo stile di “Heaven Or Hell”, lo realizzammo nell’Underfloor Studio a Misinto, in Brianza, di proprietà di Carlo Fath (il futuro Io, Carlo di “L’Ego” e “Figlio Dei Manga”, nda) che collaborò con noi coproducendolo. Di quel brano ricordo l’errore ortografico in copertina: “flight” fu erroneamente riportato come “flyght”». Proprio con “Flight 777” si chiude la trilogia di R.O.D., seppur Freake incida l’houseggiante “Rise Up” per la Dream Beat sotto la produzione vannelliana. «”Rise Up” nacque come primo singolo solista di Rodney Freake e venne realizzato da Joe T. Vannelli e Max Cassan» chiarisce Giraldo. «La mia collaborazione con Vannelli invece si interruppe nel 1996, anno in cui iniziai un percorso musicale da indipendente».

Polyphonic e Byte Beaters, altri dischi a cui partecipa Giraldo nel 1996

Per Giraldo il periodo è particolarmente ricco di produzioni più e meno note legate al movimento makina/happy hardcore e progressive trance: da “Always On My Mind” di Pink Noize, cover dell’omonimo dei Pet Shop Boys, ad “Ivory” di Romantics, da “The Hammer” di Hammerhead a “Try” di Glissando, da “Optical EP” di Identification Two ad “I Wait For You (Movin’ On Baby)” di Screen passando per “Mamy” di Polyphonic e il remix di “A Song To Be Sung” dei Byte Beaters, queste ultime due promosse Disco Makina da Molella nella stagione più fortunata del suo Molly 4 DeeJay di cui parliamo nel dettaglio qui. «Innegabilmente furono annate piene di idee» afferma l’artista. «Ricordo con piacere la voglia di fare di tutte le persone coinvolte nei vari di team di produzione, le notti trascorse in studio da dove uscivamo per andare a fare colazione prima di recuperare le ore di sonno perse, o quando ci trattenevamo sino a tardi ed andavamo a cena, sempre tutti insieme. Un simpatico aneddoto di quel periodo riguarda “Always On My Mind” di Pink Noize, cantato da Max Cassan con la voce pitchata (analogamente a quanto fanno i Sensoria in “Dream Of You” di Venusia, come raccontato qui, nda). Dovevamo consegnare il master per la stampa ma riascoltandolo ci accorgemmo che la seconda strofa aveva lo stesso testo della precedente. In soccorso venne il sistema Atari Falcon030 che permetteva la gestione di due o quattro canali audio e in quella maniera riuscimmo a posizionare la seconda strofa col testo corretto a tempo di record. Per l’occasione però prosciugammo la grande scorta di lattine di aranciata che Carlo Fath aveva nel suo frigorifero.

Ripensare al passato mi fa tornare in mente pure la mia prima produzione in assoluto, “Extroscopic” di D.A.T.A., pubblicata nel 1993 dalla Out di Severo Lombardoni. La realizzai insieme a Max Cassan e Leo Mazza partendo da un’idea di Maurizio Guglielmelli che aveva un piccolo studio vicino casa mia. Gli strumenti a nostra disposizione erano pochissimi: un campionatore Ensoniq EPS-16+ con pochissima RAM (credo appena 2 MB!), un computer Atari 1040 ST, un mixer Yamaha MC 1202, una drum machine Roland R-8, un multieffetto Alesis Midiverb III, un Roland Juno-60, un Roland JD-800 ed una coppia di monitor Yamaha NS10. Ai tempi per costruire un brano si partiva da un’idea rappresentata solitamente da un giro armonico o da un sample carpito da qualche disco. Per arrivare alla pubblicazione le strade percorribili erano due: o conoscevi qualcuno nel settore discografico indipendente disposto a darti retta oppure dovevi recarti personalmente nella sede di qualche etichetta, previo appuntamento telefonico, per far ascoltare i brani all’A&R di turno. Nel nostro caso ci interfacciammo con Nando Vannelli, uno degli A&R della Discomagic. Fu lui a decidere di pubblicare il brano e francamente non so neanche se Severo Lombardoni lo abbia mai ascoltato. Poi nell’autunno del ’93 sapemmo, grazie ad una dritta di Filippo Carmeni alias Phil Jay/Z100, che Joe T. Vannelli era in cerca di produttori. Realizzai subito, con Max Cassan, alcuni demo che un sabato pomeriggio portammo personalmente nel suo studio. Quando entrammo stava lavorando al remix di “All About Love” di Analogue City e rimanemmo impressionati da ciò che si presentò ai nostri occhi, in particolare un bellissimo mixer Amek 2500 che avrebbe lasciato estasiato chiunque operava in quel settore ma in modo particolare chi, come noi, era abituato a lavorare con pochissimi strumenti e di un’altra categoria. Dopo aver ascoltato i demo, Joe ci disse che a partire dal 3 gennaio 1994 avremmo iniziato a lavorare nei suoi studi e da lì a breve, infatti, sulla neonata DBX uscirono “Give It Alone” di X Tracks e “Choir Boys” di Black Bulldog. Con Max e Fausto c’era una forte intesa e l’unico rimpianto che mi porto dietro è non aver continuato a lavorare con quel team composto da persone eccezionali con cui, comunque, mi sento ancora regolarmente. In studio c’era un’atmosfera magica e sono certo che avremmo potuto realizzare molto di più di quello che abbiamo fatto» conclude Giraldo. (Giosuè Impellizzeri)

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