La carriera di Digital Boy, quando la techno divenne pop

Parlare di techno, in Italia, è sempre stato piuttosto difficile e controverso, specialmente in riferimento ai primi anni Novanta quando il genere sbarca da Detroit nel Vecchio Continente e inizia a europeizzarsi mutando sensibilmente le proprie caratteristiche in base a diverse dinamiche, inclusa la collocazione geografica. Da noi, ad esempio, c’è una cerchia di artisti, prevalentemente romani, che tiene bene a mente la lezione impartita dai decani della Motor City, ma è una minoranza. La techno che prende piede nello Stivale, tra 1991 e 1992, è prevalentemente figlia della new beat belga amalgamata a elementi della cultura rave della produzione anglo-olandese. Un filone edificato su gimmick ricavati da campionamenti di provenienza eterogenea (incluse pellicole cinematografiche, cartoni animati e suoni onomatopeici), assoli di sintetizzatori e strutture ritmiche con kickdrum in evidenza: per un numero imprecisato di italiani infatti, techno è sostanzialmente tutto ciò che gira su una cassa marcata e bpm sostenuti, e va messo in netta antitesi con l’house/garage permeata invece di sonorità più affini agli strumenti tradizionali e legata a parti cantate. Secondo tale approccio semplificatore, la techno si configura quindi come un genere rabbioso, sfrontato, energico, vigoroso, adrenalinico, quasi sempre strumentale e alimentato dalle tec(h)nologie che invadono capillarmente ogni studio di registrazione, sintetizzatori, batterie elettroniche e soprattutto campionatori con cui captare ed isolare frammenti da ogni dove e ricollocarli all’interno di nuovi nuclei sonori.
Tra i protagonisti italiani di questa fase c’è un giovane ligure, Luca Pretolesi, nato a Genova nel 1970 e attratto dalla musica al punto da mollare la città natale a sedici anni per trasferirsi a Milano dove frequenta una scuola per apprendere i rudimenti delle registrazioni audio, Professione Musica. «Ero il più piccolo della classe e frequentai quel corso per un triennio ma, vista la giovane età, non pensavo di utilizzare ciò che stessi apprendendo per qualcosa di preciso» rivela in questa intervista del 2015. In realtà Pretolesi metterà presto a frutto le conoscenze acquisite in quella scuola del comune meneghino, decisive per la sua carriera artistica che inizia inaspettatamente da lì a breve.

La Bestia
S 900/S 950, la prima autoproduzione che Pretolesi pubblica su Demo Studio

1990, il Demo Studio e le prime produzioni da indipendente
L’house music è la grande novità in ambito dance che dal 1989 in avanti gli italiani, dopo un biennio di training come raccontato qui, riescono ad esportare in ogni angolo del globo, Stati Uniti inclusi. Si tratta di un genere capace di mandare in frantumi l’elitarismo che per decenni ha permesso di comporre musica solo ad un certo tipo di musicisti, un suono ancora più “democratico” dell’italo disco degli anni immediatamente precedenti perché non prevede necessariamente uno schema legato al formato canzone che implichi quindi un testo e un cantante che lo interpreti. La house music funziona anche in forma strumentale ma può comunque vantare voci d’eccezione grazie al campionatore, così come testimonia uno dei grandi successi nostrani dei tempi, “Ride On Time” dei Black Box, costruito sul sample carpito, suo malgrado, a Loleatta Holloway e la sua “Love Sensation”. Con una spesa relativamente abbordabile si può approntare un provino tra le mura casalinghe per poi affinarlo in qualche studio più equipaggiato e farlo mixare in modo appropriato per procedere con la stampa su vinile. C’è anche chi riesce a fare tutto in modo autonomo ed indipendente proprio come Pretolesi: «rispetto ai colleghi dell’epoca ero un ibrido» afferma nell’intervista sopraccitata. «Sapevo come registrare gli strumenti, ero un tastierista ed anche un DJ, fusi queste capacità per creare la mia musica occupandomi pure del mixaggio della stessa». Con un po’ di risparmi messi da parte, Pretolesi acquista un campionatore Akai S 900, un sequencer Roland MC-500 e una batteria elettronica Roland TR-909. Con quelli crea il Demo Studio, un piccolo home studio allestito nel retrobottega del negozio di ceramiche di famiglia, ai tempi al 21 di Largo Giuseppe Casini, a Chiavari. «Aspettavo che i miei (Sergio Pretolesi, musicista, e Francesca Musanti, pittrice, in seguito coinvolti in alcune produzioni discografiche del figlio, nda) chiudessero il negozio per fare musica, a volte fino al mattino, e subito dopo andavo a scuola» racconta in questa intervista edita da Vice nel 2012. «Era un periodo in cui riuscivo a completare anche quindici pezzi al mese. Il proprietario (Enrico Delaiti? nda) del negozio di dischi da cui mi rifornivo, Good Music, mi convinse a mandare una cassetta con un mixato a Radio DeeJay. Non avevo grosse aspettative però ricevetti una telefonata da Molella che mi invitava a partecipare ad un contest che la radio avrebbe organizzato da lì a poco all’Aquafan di Riccione, la Walky Cup Competition. Era il 1989 e a sfidarci eravamo io, Mauro Picotto, Daniele Davoli dei Black Box e Francesco Zappalà (ma pure Max Kelly e Fabietto Cataneo come raccontiamo rispettivamente qui e qui, nda), tutti giovanissimi. Vinse Picotto ma ebbi comunque la sensazione che tutto si stesse muovendo nella direzione giusta ed è incredibile come ognuno di noi poi abbia avuto successo».

Demo Studio logo
Il ritratto di Beethoven e il logo del Demo Studio a cui questo pare ispirarsi chiaramente

Nel 1990 la techno inizia il processo di europeizzazione ma, come detto all’inizio, in Italia solo una minoranza segue con attenzione il fenomeno e a dirla tutta il confine tra house e techno è labile e non ancora definito come invece sarà poco tempo dopo. Pretolesi, convinto che le sue creazioni siano all’altezza dei dischi che trova in vendita nei negozi, decide di provarci. La prima (auto)produzione si intitola “La Bestia (Bring It On Down)” e la firma con uno pseudonimo-citazione, S 900/S 950, un palese rimando ai campionatori Akai S900 ed S950, assoluti protagonisti della dance music prodotta a cavallo tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il brano viene pubblicato su Demo Studio, brand omonimo del citato studio di Pretolesi per l’occasione abbinato ad un logo che vede la fumettizzazione di quello che pare il volto di Ludwig van Beethoven con la cuffia che affiora sotto la fluente capigliatura. A seguire arriva “Electric Live”, questa volta firmato Luca P. e prodotto in coppia con Vincenzo Ciannarella con cui Pretolesi ricostruisce “Electric Fling” dei RAH Band con divagazioni hip house e downtempo. La traccia vive una seconda vita attraverso il remix di M&M Crew edito dalla tedesca Hansa e distribuito in Europa dalla BMG Ariola oltre ad essere licenziata in Germania dalla Metrovynil per intercessione della Discomagic di Severo Lombardoni.

Kokko
“Kokko” dei Digital Boys, inciso sul lato b del terzo e ultimo 12″ su Demo Studio (1990)

«Dopo i primi dischi alcuni amici mi dissero che la mia musica suonava davvero bene e così iniziai a produrre e mixare anche per altre persone» aggiunge Pretolesi nell’intervista del 2015. Tra 1990 e 1991 infatti è impegnato come mixing engineer in “Eurovision” di Demo, sulla Tasmania Records, e “Back In The Time” di Kamera, su Flying Records. A quest’ultima, con cui chiude un accordo di distribuzione in contovendita, si presenta col terzo (ed ultimo) disco su Demo Studio che, come avvenuto per “Electric Live”, è costruito a quattro mani, questa volta con Mauro Fregara con cui Pretolesi forma il duo dei Digital Boys. Si intitola “Techno (Dance To The House)” ma di techno non ha nulla. È un rimaneggiamento di “Dance To The House” di The House Crew edito dalla Strictly Rhythm e il featuring attribuito al fittizio Cool De Suck (ironica anglofonizzazione di cul-de-sac?) in realtà cela il campionamento dell’acappella originale di Norberto ‘Bonz’ Walters. Nulla di autenticamente nuovo insomma. La sorpresa però è incisa sul lato b dove si trova “Kokko” rivista in due versioni, Elettro Mix e Suicide Mix, in cui si sviluppa un carattere musicale insolito. A differenza dei pezzi sinora messi in commercio, sostanzialmente manipolazioni ed interpolazioni di tracce già edite, in “Kokko” viene convogliata maggiore vitalità ed esuberanza oltre ad elementi saldati tra loro da patch campionate (su tutte l’hook ‘dance, you got the chance’ preso dalla Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters Featuring MC Action e finito anche in “Dance, You Got The Chance” dei Rhythm Masters). La lunga lingua filo acida che si dipana lungo la stesura, troncata dalle punteggiature di stab, fa di “Kokko” qualcosa di diverso dalla classica house cantierizzata da un numero crescente di etichette, seppur un vocione continui a declamare “house”. «Grazie ad un passaggio di Albertino su Radio DeeJay le mille copie che avevo stampato a mie spese si esaurirono in due giorni così la Flying Records decise di mettermi sotto contratto e stamparne subito altre trentamila» svela ancora nell’intervista a Vice. «Quello fu il momento della svolta, cominciai a suonare in giro per l’Italia e l’Europa proprio quando la techno veniva sdoganata nei club e nasceva la rave culture».

In Order To Dance 2
“Kokko” dei Digital Boys finisce nel secondo volume di “In Order To Dance”, sulla belga R&S Records

A mostrare interesse per “Kokko” sono anche i DJ esteri sparsi tra Germania, Regno Unito (dove tra i supporter pare ci fosse anche Sasha), Paesi Bassi e Belgio. Ma non è tutto: il brano viene ripubblicato in Spagna dalla Max Music, ai tempi etichetta particolarmente influente nell’area iberica, e scelto da Renaat Vandepapeliere per il secondo volume della compilation “In Order To Dance” su R&S Records. In tracklist ci sono tracce di CJ Bolland, Frank De Wulf, Joey Beltram, James Pennington, Dave Clarke, Mark Ryder ed altri due italiani, i Free Force (Roberto Fontolan e il compianto Stefano Cundari) col brano “M.I.R.C.O.”. «”Kokko” riempiva le piste delle discoteche, in Italia e all’estero» ricorda oggi Mauro Fregara, contattato per l’occasione. «Impiegammo un pomeriggio per realizzare “Techno (Dance To The House)”. Dopo aver mangiato una pizza e bevuto una birra tornammo in studio e in appena un’ora nacque “Kokko”. “Techno (Dance To The House)” germogliò dai ripetuti ascolti della rivoluzionaria “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. (di cui parliamo qui, nda), ma rispetto a “Kokko” funzionò poco. Ai tempi incidere un disco di musica dance era una scommessa, specialmente per chi, come noi, provava a fare roba innovativa. Prima di collaborare con Luca, avevo prodotto un altro disco insieme a Charlie Storchi, un bravissimo DJ con cui lavoravo a Radio Babboleo. Si intitolava “Calanza” ed era firmato Macha, ma non ebbe grandi riscontri seppur fu utilizzato per un servizio mandato in onda dalla Rai, forse Tg2 Dossier, in cui si parlava di discoteche ed ecstasy. Andò decisamente meglio con “Kokko”, un successo anche ad Ibiza. Tuttavia dopo quello non incisi più dischi, concentrandomi sul lavoro in radio (facevo il tecnico per un programma chiamato Rock Cafè che andava in onda da Milano). Quella fu l’unica apparizione dei Digital Boys, un nome che ideai proprio io: la parola “digital” in quel periodo era sinonimo di tecnologia e faceva pensare subito al futuro. Poi forse la Flying Records suggerì a Luca di tenere l’alter ego al singolare per il suo progetto solista ma è solo una supposizione perché io non fui informato su nulla e tutto finì così come era iniziato» conclude Fregara. “Kokko”, comunque siano andate le cose, apre di fatto un nuovo scenario per Pretolesi che da quel momento diventa Digital Boy.

Gimme A Fat Beat
“Gimme A Fat Beat” è il brano con cui Digital Boy debutta sulla Flying Records

1991-1992, l’ingresso nella Flying Records e il boom dell’eurotechno
“Kokko”, b-side della terza autoproduzione di Pretolesi, è una palla di neve che si trasforma in valanga e cambia letteralmente lo status quo. Il successo raccolto in vari Paesi europei gli fa guadagnare un ingaggio dalla Flying Records, tra i poli discografici italiani più agguerriti in quel momento storico. Con un ruolo importante ricoperto anche come distributore ed importatore (ha una filiale a Milano, in Via Mecenate, ed una a Londra a cui se ne aggiungerà poi una terza a New York), la casa discografica campana di Flavio Rossi ed Angelo Tardio mette Pretolesi sotto contratto e nel 1991 pubblica “Gimme A Fat Beat”. Trainato dall’hook vocale preso da “The Party” di Kraze e frammenti di “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Jewel (Rough Cut)” dei Propaganda, il brano non impiega molto a consacrarsi in Italia, complice il supporto massivo di Albertino che lo porta al vertice della DeeJay Parade. Sul centrino del mix si rinviene, seppur piccolissimo, il logo del Demo Studio, ultima connessione con la breve parentesi “indie” dell’artista. La copertina invece, di Patrizio Squeglia, vede una sorta di installazione artistica col corpo di una donna sovrappeso seduta su un televisore. Un secondo televisore è piazzato al posto della testa. «La composizione grafica aveva solo un riferimento metaforico col titolo, appunto il “fat beat”, ed usai un concetto rappresentativo puramente astratto» spiega Squeglia poche settimane fa. «Nonostante il brano avesse un evidente suono accattivante e molto pop, allo stesso tempo risultava decisamente originale per i tempi. Per questo mi interessava creare un’immagine che potesse colpire ed incuriosire senza essere per forza didascalica, ma volevo soprattutto che la copertina catturasse un pubblico internazionale come quello del mercato inglese dove la creatività nella musica stava disegnando un percorso innovativo che in breve tempo andò ad influenzare tutti i settori merceologici e non».

Technologiko
Il fronte della copertina di “Technologiko” occupato integralmente dal primo logo di Digital Boy realizzato da Patrizio Squeglia

“Gimme A Fat Beat”, con la sua energia frenetica e ribollente, anticipa l’uscita del primo album di Digital Boy, “Technologiko”, pubblicato su vinile, cassetta e CD. Su quest’ultimo la tracklist include due tracce in più, la blippeggiante “Unisys” e “Yo! Techno”. La scelta di mettere sul mercato un album con questa musica è parecchio inusuale ai tempi, specialmente in Italia dove la dance viaggia quasi esclusivamente su 12″. L’LP, tendenzialmente legato ad ambienti pop e rock, faticherà non poco ad affermarsi nel comparto della musica da discoteca, ma è un chiaro segno di come alla Flying Records ambissero a ridurre la distanza tra mercato pop e dance, e fare di Digital Boy una star giovanile gestita come quelle dei grandi concerti. La stampa su vinile (gatefold), cassetta e CD ne rappresenta un’ulteriore conferma. Da “Technologiko” affiora un suono di matrice nordeuropea, fortemente dominato dall’uso del campionatore e dalla partizione sampledelica post marssiana come attestano “Digital Danze”, “This Is Metal Beat!”, riadattamento di “Acid Rock” di Rhythm Device, o “Rave Situation” con classici stab e voci adoperate come snodi ritmici, ma a presenziare è pure una solarità dal taglio melodico quasi eurodance con parentesi rappate in stile Technotronic (“Logik”). C’è spazio anche per una nuova versione di “Kokko” chiamata Jungle Remix (il “jungle” probabilmente deriva dai suoni ambientali usati ed evidenti nell’intro). Il fronte della copertina è occupato per intero dal logo di Digital Boy racchiuso in un quadrato di colore azzurro. «Il logo fu realizzato da me contestualmente alla scritta (rinvenibile sul retro e all’interno del gatefold, nda) “Digital Boy”» spiega ancora Squeglia. «Più che un significato specifico, questo segno distintivo incastrato tra le due parole aveva un riferimento preciso a quelle che erano le linee guida della grafica che si stava sviluppando all’inizio degli anni Novanta. La scelta di usare due elementi dalla forma rigida e definita (quadrato ed ellisse) disturbati da un graffio centrale, fu dettata dalla volontà di creare una rottura con quello che era stato il segno “morbido e romantico” che aveva accompagnato diversi progetti dell’industria discografica italiana negli anni Ottanta». Un elemento grafico di discontinuità insomma, che faccia il paio con il tipo di musica profondamente differente da ciò che il decennio precedente aveva lasciato in eredità.

Il secondo singolo estratto da “Technologiko è “OK! Alright”, ancora costruito su quell’essenzialità che tiene insieme tutti i pezzi pretolesiani del periodo innestati su moduli simili ossia brevi campionamenti a dare respiro tra gli anelli dei loop ritmici, un basso in stile Bobby Orlando su onda quadra, sirene e mini riff di poche note sincopate. Licenziato in Belgio dalla Music Man Records, il brano nasce sulla base di “OK, Alright” di The Minutemen, progetto del DJ newyorkese Norty Cotto edito dalla Smokin’ nel 1989. Così come si usa fare ai tempi, escono anche i remix tra cui quelli di Frank De Wulf e DJ Herbie, il primo all’opera su “Gimme A Fat Beat”, il secondo su “OK! Alright” e “Kokko”. Il 1991 è pure l’anno in cui debutta la UMM – Underground Music Movement, diretta artisticamente da Angelo Tardio e diventata presto un marchio di punta della Flying Records. Proprio a UMM Pretolesi destina “The Voice Of Rave” del progetto one shot omonimo, probabilmente interpretato nelle parti vocali dall’amico Ronnie Lee. Nel catalogo della main label del gruppo discografico napoletano, Flying Records per l’appunto, finisce invece “Just Let Your Body Ride” di Oi Sonik, pure questo limitato ad una sola apparizione e portato in Belgio dalla Music Man Records. Parallelamente inizia a muoversi sia l’attività sul fronte remix, con le versioni approntate per “Extasy Express” dei The End e “Thunder” dei Mato Grosso di cui parliamo qui e qui, sia quella nel redditizio comparto compilation con “Techno Beat”, mixata dal ragazzo digitale, edita ancora da Flying Records e sequenziata prevalentemente su materiale made in Italy alternata a due presenze d’oltralpe, “Hell Or Heaven” del compianto L.U.P.O. e “What Time Is Love” dei KLF. Tra le altre, pure un inedito a firma Digital Boy, “Rotation”, blipperia hardcore mista a sirene e bassline squadrati ed un sample preso da “Jump To The Pump” di 2-Wize che fa impazzire le platee all’estero. Il pezzo si ritroverà, due anni più tardi, sul CD singolo di “Crossover”.

La techno riformulata in Europa ormai ha preso piede a livello internazionale, è una tendenza consolidata che macina numeri inimmaginabili sino a poco tempo prima. Sul mercato si riversa un fiume di techno music o presunta tale, in grado di conquistare un numero crescente di ascoltatori disposti a farsi risucchiare in un vortice di musica mai sentita prima, sia per suoni che ritmiche. Un autentico boom commerciale che da un lato porta al diapason il fenomeno ma dall’altro finisce per inflazionarlo attraverso prodotti alquanto discutibili. C’è chi spera che quel momento non finisca mai, soprattutto i grossisti e le etichette discografiche che producono a nastro prodotti seriali, ma pure chi auspica che tale sovraesposizione si eclissi al più presto perché sta portando alla deriva ciò che la techno era originariamente, ossia tutto fuorché genere governato da espressioni stilistiche convenzionali. La stella di Digital Boy è ancora luminosissima: è ospite in importanti club tra Germania, Belgio e Paesi Bassi, la “mecca” di quel suono ronzante, ma pure in alcuni prestigiosi eventi statunitensi, su tutti il rave organizzato a Los Angeles da R.E.A.L. Events il 7 marzo ’92 in cui il nostro si esibisce insieme ad artisti del calibro di Joey Beltram e Doc Martin. Il flyer dell’evento viene spillato ad un flexi-disc 8″ prevedibilmente diventato un cimelio per i collezionisti. Non mancano ovviamente le serate in Italia in posti come il Cocoricò o l’Immaginazione di Pantigliate, dove propone un suono rude, acido ed inselvaggito come si sente in questa clip. In buona sostanza Digital Boy diventa uno degli artisti di riferimento per chi segue un suono descritto da Christian Zingales nel libro “Techno” come «una sintesi commerciale dell’imprinting abrasivo di Underground Resistance, humus principale di una bastardizzazione europea che dettò legge su Radio DeeJay con Albertino che ribattezzò “zanzarismo” quel sound».

This Is Mutha Fuker
“This Is Mutha F**ker!”, una conferma per Digital Boy nel 1992

Le idee per alimentare la discografia non mancano e ripercorrendo le orme lasciate da “Who Is Elvis?” dei Phenomania (di cui parliamo qui) e flirtando col cosiddetto hoover sound ottenuto con la Roland Alpha Juno-2 ed eternato da pezzi tipo “Dominator” degli Human Resource o “Mentasm” di Second Phase, Pretolesi sfodera “This Is Mutha F**ker!”, con suoni che si spandono come inchiostro su carta assorbente. Sulla copertina del 12″ realizzata ancora da Patrizio Squeglia l’autore, fotografato da Emanuele Mascioni, inforca uno strano paio di occhiali con le lenti a forma di mirino, acquistati a Camden Town, nella capitale britannica, come lui stesso svela nell’intervista a Vice. «Quegli occhiali furono un accessorio che finì con l’identificare Luca anche senza usare il suo nome d’arte» spiega Squeglia. «Li propose in maniera autonoma e tutto il team della Flying Records sposò la scelta senza esitazioni. Tra l’altro la copertina di Digital Boy a cui sono legato di più è proprio quella di “This Is Mutha F**ker!”: per arrivare a quello scatto io ed Emanuele Mascioni chiedemmo a Luca, durante lo shooting fotografico, di eseguire un’infinita di flessioni e per questo, probabilmente, lui arrivò ad “odiarci”. La tensione del suo corpo, il bianco e il nero, il logo nella versione minimale e le proporzioni striminzite del titolo in netto contrasto coi titoloni usati da altri artisti italiani, resero quell’artwork iconico e riconoscibile in mezzo a mille. Operavo sempre in simbiosi con Luca, il fine ultimo era proporre l’immagine di un artista di carattere internazionale, diverso dalla solita pop star italiana vestita bene per l’occasione. Ovviamente il tutto era legato al sound proposto e penso che, visti i risultati ottenuti, il lavoro abbia funzionato».

Sul retro della copertina di “This Is Mutha F**ker!” si legge uno speciale ringraziamento rivolto all’Akai insieme ad una foto dell’MPC60, strumento che l’azienda nipponica sviluppa insieme a Roger Linn. Tra i crediti si apprende anche della nascita del Digital Boy Management, curato da Mario Cirillo. Ormai Pretolesi è lanciato nello star system, “This Is Mutha F**ker!” staziona per tutto il mese di aprile al vertice della DeeJay Parade e sembrano davvero lontanissimi i tempi in cui armeggia nello studio amatoriale ricavato nel negozio dei genitori provando ad assemblare suoni e ritmiche con le poche macchine di cui dispone. A remixare “This Is Mutha F**ker!” (che stando a quanto riportato dalle Raveology News a marzo 1997, avrebbe venduto 55.000 copie in Italia ma 200.000 includendo le numerose licenze estere) sono gli Underground Resistance, artefici di una versione in chiaro hoover style che palpita su uno sfondo fiammeggiante. In parallelo il team di Detroit approda sulla neonata UMM con “Living For The Nite” i cui remix vengono affidati a Digital Boy che ne ricava due reinterpretazioni, The Digital Morning After e The Boy’s Nite Before. A fare da “ponte” tra Pretolesi e gli americani è il citato Tardio che oggi rammenta: «Conobbi Jeff Mills e Mike Banks al New Music Seminar di New York dove mi trovavo insieme ad Alberto Faggiana, responsabile legale della Flying Records. Erano persone simpatiche, gentili ed affabili, in netto contrasto con la musica che producevano, così violenta ed alienante, e diventammo presto amici. Mi sembrò naturale quindi, qualche tempo dopo, coinvolgerli in alcuni progetti discografici che stavo curando. In virtù del ruolo consolidato come distributore, la Flying Records era un punto di riferimento non solo per le realtà italiane ma pure per quelle estere che si affidavano a noi sapendo di poter contare su una distribuzione efficace e capillare nonché su una società più che solida sotto il profilo finanziario, in quel periodo il fatturato annuo era pari a quaranta miliardi di lire».

Punizione
L’artwork della compilation “Punizione”

“This Is Mutha F**ker!” finisce pure nella tracklist della compilation “Punizione” in cui Digital Boy mette insieme un collage di pezzi ascritti a quel filone che vive l’apice del successo in Europa, da “Babilonia” di Moka DJ a “Mig 29” dei Mig 29, da “UHF” di UHF (tra i primi progetti di Moby) a “The Sound Of Rome” di Lory D e “Purgatorio” di Technicida passando per varie hit come “Pullover” di Speedy J, “Dominator” di Human Resource, “Who Is Elvis?” dei Phenomania, “Dance Your Ass Off” di R.T.Z. ed “Everybody In The Place” dei Prodigy. La copertina, ancora di Patrizio Squeglia, è una provocazione che i benpensanti possono tacciare facilmente di blasfemia, la riproposizione della crocifissione cristiana dove la croce è fatta però da maxi subwoofer e il volto di Cristo sostituito dal monitor di un computer, un chiaro rimando all’artwork di “Gimme A Fat Beat”. «Essendo ateo ho una percezione delle immagini sacre diversa rispetto a quella di un credente, per me il Cristo sulla croce è solo un uomo torturato ingiustamente» chiarisce Squeglia. «Terminologie come “Punizione”, “Yerba Del Diablo” (Datura, nda) e simili, erano frequenti ai tempi, specialmente nel circuito techno. Essere in bilico tra sacro e profano aveva un fascino particolare, catturava l’attenzione del pubblico che voleva cambiare le regole del club allontanandosi dalle pedane luminose e ballare nel buio, in linea con le basse frequenze del nuovo suono che stava esplodendo. L’utilizzo di immagini sacre (si veda la copertina di “The Age Of Love” di cui parliamo qui, nda) in contesti così forti veniva percepito come una grande volontà di rottura col passato e col finto perbenismo dilagante. Qui in Italia abbiamo un esempio eccellente di questa scuola di pensiero, il grande tempio della techno, sua maestà il Cocoricò, su cui ci sarebbe l’impossibile da raccontare soprattutto per quello che riguarda la grafica».

Futuristik
“Futuristik”, secondo LP di Digital Boy uscito poco dopo “Technologiko”

“This Is Mutha F**ker!” è il primo singolo estratto dal nuovo album, “Futuristik”, che la Flying Records stampa ancora su CD, cassetta e vinile, questa volta doppio. Rispetto a “Technologiko”, figlio delle sperimentazioni casalinghe generate durante quella sorta di apprendistato tra le mura del Demo Studio, il secondo LP vive in un’atmosfera variopinta e si nutre di una gamma ispirativa più ampia, probabilmente derivata dalle esperienze che l’autore matura in giro per l’Europa («non puoi fare dischi di successo se non hai un feeling e un contatto costante col pubblico» dirà in una videointervista nel 1994), e mostra un appeal meno commercia(bi)le. Non è inoltre un disco monocorde come potrebbe apparire il predecessore, Pretolesi esplora nuove vie cimentandosi in un paio di tracce filo house (“If You Keep It Up”, “Touch Me”) che mettono un po’ di brio nella tavolozza compositiva che comunque resta ad appannaggio dell’eurotechno forata da vocalizzi umani (“Avreibody Move”, “Jack To The Max”), cavalcata da suoni cristallini (“The B-O-Y”, “Wave 128”), stab di memoria rave (“D-Dance”, una specie di italianizzazione di “I Like It” di Landlord Featuring Dex Danclair), euforie hardcore (“Kaos”, “In The Mix”, “Now Come-On”, “Energetiko”), minimalismo post pulloveriano (“Tilt 21”). Di tanto in tanto affiorano gli interventi vocali di Ronnie Lee che ai tempi si fa chiamare MC Fresh, come quelli in “Children Of The House” registrata durante un live al Parkzicht di Rotterdam.

123 Acid
La copertina di “1-2-3 Acid!” dominata ancora dagli occhiali con le lenti a forma di mirino

“1-2-3 Acid!” è il secondo singolo preso da “Futuristik” in cui l’autore ritaglia un elemento vocale da “In The Bottle” dei C.O.D. e torna a campionare la Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters seppur nel video diretto da Nick Burgess-Jones quella parte venga mimata dal menzionato Lee, il futuro Ronny Money. In copertina finisce un altro scatto di Mascioni caratterizzato ancora dagli occhiali-mirino, gli stessi che si scorgono sull’artwork dell’album dove Pretolesi è immortalato per intero ed indossa t-shirt e scarpe SPX, brand britannico importato in Italia dalla Interga di Bressanone insieme ad altri marchi come Daniel Poole, Nervous, Apollo, Million Dollar, DeLong, World Tribe Productions, Caterpillar e Trigger Happy. Il modello Street Slam finito sull’artwork diventa particolarmente popolare nell’ambiente delle discoteche grazie a vari testimonial che l’Interga coinvolge ai tempi come Rexanthony, KK, Digital Boy per l’appunto e il suo master of ceremonies, MC Fresh, che in parallelo debutta da solista con “Don’t You Wanna Be Free”. A conti fatti Pretolesi è già un endorser capace di catalizzare i gusti del pubblico, principalmente dei giovanissimi, ed è desideroso di dare voce alla sua creatività non solo nella musica ed infatti firma col suo marchio una linea di abbigliamento (cappellini, t-shirt, pantaloni, accessori vari).

Digital Boy & SPX
Digital Boy è uno degli endorser italiani del brand britannico SPX (foto tratta da una brochure dell’Interga del 1992)

La Flying Records pubblica “Futuristik” anche in territorio britannico ma c’è qualcosa che non va secondo i piani. «Vorremmo approdare negli Stati Uniti ma è un mercato molto diverso da quello europeo e giapponese» dichiara il promoter Alessandro Massara in un articolo di David Stansfield pubblicato su Billboard il 4 luglio 1992. «Per raggiungere un vasto pubblico negli States è necessario che un artista venga gestito da una multinazionale. Dare in licenza il prodotto ad etichette indipendenti è irrilevante, possono muovere circa 5000 copie e non basta. Uno dei problemi che la Flying Records sta incontrando è rappresentato dal fatto che alcuni Paesi siano interessati solo ad un singolo» prosegue Massara. «La nostra priorità, al momento, è Digital Boy ma vorremmo andare oltre la vendita del classico mix visto che è tra i pochi artisti techno, in Italia, a potersi esibire come in un vero e proprio concerto. Per questa ragione abbiamo rifiutato diverse offerte giunte da etichette indipendenti, auspichiamo che qualche major possa farsi avanti magari dopo il New Music Seminar o il mega rave a Los Angeles previsto per il 4 luglio». Le speranze di Massara si infrangono, non c’è nessuna multinazionale interessata a Digital Boy che nel frattempo remixa “Nana” dei N.U.K.E. (uno dei progetti del tedesco Torsten Stenzel intervistato qui) e “Ti Sei Bevuto Il Cervello” di Control Unit, deriva demenziale dell’euro(techno)dance firmata da Albertino e Pierpaolo Peroni, per ovvie ragioni pompata sulle frequenze di Radio DeeJay. «A mio avviso tra la pubblicazione di “Technologiko” e “Futuristik” trascorse troppo poco tempo» afferma Tardio. «Farlo uscire pochi mesi dopo il primo LP fu un errore che si ripercosse sulle vendite, ridimensionate rispetto al precedente. A complicare ulteriormente la situazione fu inoltre la posizione dicotomica di Digital Boy nel mercato: in Italia era seguito perlopiù dai teenager ed era considerato un nome commerciale perché entrato nelle grazie di Albertino che lo supportava su Radio DeeJay al contrario dell’estero dove invece continuava ad essere un nome di nicchia dell’underground e credibile per un pubblico più adulto. Per questa ragione le multinazionali non si mossero, evidentemente non considerarono l’ipotesi di investire su un artista legato ad un genere musicale ancora lontano dai riflettori e dalle copertine patinate come allora era la techno». Nel corso dell’anno la Flying Records gli affida anche il mix di due compilation, “Punizione Continua” e “Digital Beat”, quest’ultima accompagnata da una copertina che richiama quella di “Futuristik” con una foto probabilmente scattata nella stessa session ma con una giacca di pelle al posto della felpa e un altro paio di SPX ai piedi, le CB 104 in nubuck rosso. Sotto il profilo musicale invece, la prima annovera qualche concessione techno (Underground Resistance, Solid State), la seconda invece tracima nel suono dance generalista italiano di allora (U.S.U.R.A., Anticappella, Ramirez, Glam, Mato Grosso) al quale l’artista si avvicina di più a partire dall’anno seguente.

1993-1994, l’avvicinamento all’eurodance e la fine del sodalizio con la Flying Records
A partire dal 1993 il trend commerciale europeo della techno va progressivamente sgonfiandosi, soverchiato da nuove tendenze che conquistano il gusto del grande pubblico. In Italia, tuttavia, c’è un colpo di coda rappresentato da un ibrido sonoro portato avanti da artisti come Ramirez, DJ Cerla, Masoko, Z100, Virtualmismo e Digital Boy. La figura di quest’ultimo si ritrova in una posizione difficile: la sua musica è fin troppo “cheesy” per i soldati dell’underground ma nel contempo suona troppo “dura” per gli irriducibili della melodia e del formato canzone. «Tra coloro che facevano techno nei primi anni Novanta, in Italia, sono quello che è finito in radio prima di altri» afferma a tal proposito l’artista in questa intervista a cura di Damir Ivic, pubblicata su Soundwall il 15 ottobre 2018. «”Kokko”, “Gimme A Fat Beat” e “OK! Alright” erano mandati in onda da Radio DeeJay e se finivi lì automaticamente diventavi “commerciale”. Lory D ha smesso di suonare i miei pezzi da quando iniziarono ad essere trasmessi in un certo tipo di contesto. Dal punto di vista pratico, divenni l’artista techno con un pubblico fatto di non appassionati techno. La Gig Promotion (agenzia di management legata a Radio DeeJay, nda) mi faceva suonare in posti dove il pubblico non era assolutamente composto da raver bensì da gente che frequentava le discoteche “normali”. I miei colleghi quindi ad un certo punto mi hanno visto andare “di là”, seppur io continuassi a suonare le stesse cose di prima, di fronte ad un’audience diversa, sì, ma la musica era la stessa».

Crossover
“Crossover” è l’unico brano che Pretolesi pubblica come Digital Boy nel 1993

Probabilmente è questa singolare collocazione nella scena che persuade Pretolesi a dare un taglio diverso alle sue (poche) produzioni discografiche, ridotte sensibilmente rispetto alle due annate precedenti. Alla Discoid Corporation, uno dei tanti tentacoli della Flying Records, destina due 12″ dell’amico Lee che abbandona le vesti di MC Fresh diventando Ronny Money, “Ula La” e “Money’s Back”. Solo uno invece il disco a nome Digital Boy uscito nel ’93, “Crossover”, successo estivo con cui l’artista, pur non cedendo in modo evidente alla costruzione tipica dell’eurodance, applica una sostanziale modifica alla matrice del suo stile adesso più vicino al modello tedesco di artisti come Genlog, General Base, N.U.K.E. o U96. Il titolo stesso del brano sembra sintetizzare gli intenti indicando un miscuglio di elementi eterogenei che possano transitare attraverso diversi mondi musicali. All’interno di “Crossover” c’è ritmo, energia, un breve messaggio vocale (dell’amico Ronny Money) ed una spirale acida, ma la costruzione assai prevedibile del tutto rivela un approccio che divide ben poco con la techno. Sul retro della copertina una foto, ancora di Mascioni, restituisce un’immagine di Pretolesi un po’ diversa rispetto a quella del biennio precedente, più composta e sobria e meno ravecentrica. La versione che apre il lato b, la L.U.C.A. Over Mix, pulsa su battiti accelerati e viene ulteriormente rivista nella L.U.C.A. Over Remix (solcata su un 12″ di colore blu) che pare una summa tra il suono spiritato dei Datura e le sincopi balbettanti di Ramirez. Sul lato a invece figura una Edit LP Mix che lascia supporre la presenza di un nuovo album di cui peraltro si parla ma che, come si vedrà più avanti, non vedrà la concretizzazione. L’Italia danzereccia accoglie con entusiasmo “Crossover”: sebbene non conquisti la cima della DeeJay Parade, il brano resta nell’ambita classifica settimanale per due mesi e mezzo circa (dal 3 luglio al 18 settembre) e la Flying Records cavalca comprensibilmente l’onda, prima con la “Crossover Compilation” mixata da Pretolesi in modo parecchio creativo a mo’ di medley, e poi con vari remix come quello di “Atchoo!!!” dei Control Unit e soprattutto quello per “Ricordati Di Me” di Fiorello, edito su vinile giallo e ricavato dallo stesso telaio di “Crossover”. Tutto sembra andare per il verso giusto ma alcune nuvole si profilano all’orizzonte.

Il 1994 si apre con “It’s All Right” della vocalist britannica Jo Smith, cover eurodance dell’omonimo di Sterling Void e Paris Brightledge uscito nel 1987. ‎A produrre, arrangiare e mixare il brano è Digital Boy nel suo Demo Studio. Sul lato b del disco, edito da Flying Records, c’è pure un inedito, “Incomprehensions”, scritto da Pretolesi e dalla Smith. Il titolo, a giudicare da ciò che avviene pochi mesi dopo, è forse un indizio su quello che sta avvenendo dietro le quinte? Su Discoid Corporation torna invece Ronny Money col poco fortunato “Again N’ Again”, un’altra produzione proveniente dal Demo Studio in chiave smaccatamente euro: il Digital Boy di adesso è davvero irriconoscibile se paragonato a quello di pochi anni prima. Rimasto nell’anonimato è pure il remix realizzato per “Another Love” di Further Out, sempre su Flying Records.

Dig It All Beat
Con “Dig It All Beat!” si conclude l’avventura di Digital Boy al fianco della Flying Records

Tuttavia le aspettative dei fan sono alte e ad aprile esce “Dig It All Beat!” che richiama i suoni e la stesura di “Crossover” ma con l’aggiunta di una componente pop più evidente derivata dalle presenze vocali incrociate di Jo Smith e Ronny Money. Sebbene ricordi il successo dell’estate precedente, “Dig It All Beat!” non riesce però a replicarne i risultati, non figura né tra i mix più venduti né tantomeno tra i titoli irrinunciabili di DJ ed emittenti radiofoniche. Fugace l’apparizione nella DeeJay Parade per appena due settimane a giugno e limitata alla parte più bassa della classifica. Il vento sta cambiando e il periodo più creativo sembra già essere alle spalle. Un’impasse. La figura di Digital Boy appare più aderente al fermento musicale italiano che a quello internazionale e la pubblicazione del secondo volume della “Crossover Compilation” non lascia adito a dubbi. In tracklist si va da Masoko Solo ad Anticappella, dai Datura a Silvia Coleman passando per Molella, The Outhere Brothers, 2 Unlimited ed Aladino. Non c’è ombra neanche dell’eurotechno e il pezzo che avrebbe potuto aprire una nuova traiettoria preservando connessioni col passato, “Inkubo”, viene relegato invece al CD singolo di “Dig It All Beat!”. Durante la primavera viene ancora annunciata l’uscita del nuovo album, il terzo, accompagnato da un VHS, atteso già ad ottobre ’93 come sottolinea Marco Biondi in una recensione su Tutto Discoteca Dance a maggio. «Il nuovo LP arriverà insieme ad un home video che raccoglie spettacoli fatti un po’ in tutta Italia e poi rieditati, oltre a brani nuovi» spiega Pretolesi in un’intervista rilasciata alla rivista Trend Discotec a giugno 1994. «In particolare c’è uno spettacolo fatto all’Ultimo Impero di Airasca che abbiamo filmato appositamente per la videocassetta con una troupe video e con piccole telecamere amatoriali». Uno scatto dell’evento in questione finisce sul retro della copertina di “Dig It All Beat!”, un’annunciazione in pompa magna di un lavoro che, almeno sulla carta, sembra molto forte. «”Digital Boy Live”, titolo dell’album ma pure del VHS, è un crossover di situazioni» prosegue l’artista nell’intervista. «È techno ma raccoglie influenze diverse. Ha voci, di Jo Smith e Ronny Money, completamente inedite, originali, e non più campionamenti come in passato. Sto lavorando a questo LP da molto tempo visto che faccio tutto da solo, penso i pezzi, li compongo e poi li mixo. I testi invece sono di Ronny Money. […] Nella mia musica rappresento me stesso, non c’è un team di studio che produce un pezzo da mettere in commercio ma un artista che si espone in prima persona e rappresenta un certo tipo di musica. Io sono un rappresentante della techno e sono me stesso in tutte le cose che faccio, negli spettacoli, nei dischi, nelle copertine. Non si tratta di un’immagine per vendere un prodotto. Il brano può essere commerciale ma è quello che sento io». Per l’occasione Pretolesi annuncia che da “Digital Boy Live” verranno estratti due o tre singoli ma nel momento in cui viene pubblicata l’intervista sono ancora da definire. «Posso però dire che uscirà un’edizione limitata e numerata su 10″ del singolo “Dig It All Beat!” con due ulteriori versioni del pezzo. Ne verranno stampate solo mille copie che verranno messe in vendita nei migliori negozi di dischi dopo una selezione fatta dalla Flying Records».

Dell’album, del VHS e del 10″ in limited edition però si perdono le tracce. A saltare fuori invece è una notizia clamorosa, iniziata a trapelare a fine estate: Digital Boy abbandona la Flying Records. In un primo momento sembrano solo voci di corridoio prive di fondamento ma nell’arco di qualche settimana giunge l’ufficialità. Pretolesi tornerà ad essere indipendente, col supporto distributivo della Dig It International di Milano. La Flying Records para il colpo mettendo sotto contratto Moratto, temporaneamente allontanatosi dall’Expanded Music di Giovanni Natale, intervistato qui, e i salernitani KK, reduci di gloriose esibizioni ai campionati DMC ed introdotti alla discografia dalla modenese Wicked & Wild Records di Fabietto Carniel, così come raccontiamo qui. «Tra ’93 e ’94 la musica di Digital Boy divenne sempre più commerciale e per questa ragione smisi di occuparmene» spiega ancora Angelo Tardio. «Entrare a far parte di un’agenzia di spettacolo come la Gig Promotion voleva dire vedere aumentare sensibilmente il numero delle serate ma nel contempo sacrificare la parte di pubblico che seguiva tutt’altra musica. Era impossibile tenere il piede in due scarpe e ad un certo punto Luca se ne accorse e mostrò il desiderio di tornare ad essere indipendente, forse per uscire dalla dimensione pop in cui lo aveva proiettato la Flying Records con importanti investimenti economici. Il nostro fu comunque un “divorzio” consensuale, non avevamo alcun interesse ad impedirgli di proseguire la carriera come meglio credeva. Ricordo Pretolesi come un ragazzo dal talento pazzesco, con una dimestichezza unica nell’usare le macchine, sia analogiche che digitali. Nonostante fosse poco più che ventenne, sembrava maneggiarle da sempre e in grado di parlare con ogni strumento su cui metteva le mani. Era inoltre una persona che accettava di buon grado i consigli e non nutriva il suo ego come altri artisti o presunti tali. Solitamente veniva da noi con un demo che ascoltavamo insieme e sistemavamo marginalmente, magari per qualche suono o dettagli della stesura. Era molto creativo ma a volte necessitava di essere indirizzato su qualcosa di preciso per non perdersi. Fui proprio io, ad esempio, a suggerirgli di usare la base di “OK, Alright” di The Minutemen che poi divenne “OK! Alright”, ma lungi da me prendermi dei meriti: Luca è il vero artefice di tutto quello che ha fatto, era una persona che capiva al volo e parecchio intuitiva. A mio avviso sono tre i pezzi cardine della sua discografia, “Gimme A Fat Beat”, “OK! Alright” e “This Is Mutha F**ker!”, il mio preferito. In quel periodo vendeva vagonate di mix, anche 50.000/60.000 copie a titolo, risultati che però non riuscì più ad eguagliare dopo aver abbandonato la Flying Records».

The Mountain Of King
Con “The Mountain Of King” Digital Boy torna al successo nell’autunno del 1994 e lancia la sua personale etichetta, la D-Boy Records

Un passo indietro per andare avanti: il ritorno all’indipendenza
Nonostante le interviste rilasciate nel corso del primo semestre ’94 non facciano sospettare nulla, corre voce che negli ultimi tempi i rapporti tra Digital Boy e la Flying Records non fossero idilliaci. Una volta esauritasi la spinta della bolla eurotechno, gonfiata tra 1991 e 1992 e poi scoppiata nel corso del ’93, sorge la necessità di voltare pagina e ricostruire una nuova immagine intorno al “ragazzo digitale” che però, probabilmente, non è allettato dall’idea di seguire le mode e le tendenze del momento. A chiarirlo è lui stesso in un’intervista a cura di Roberto Dall’Acqua, realizzata a settembre ma pubblicata a novembre sul mensile Tutto Discoteca Dance: «Negli ultimi tempi avvertivo il rischio di trovarmi prigioniero di un cliché, costretto dai vincoli contrattuali a dover fare un singolo di un certo tipo perché era estate ed uno di un altro tipo perché era inverno. Non avevo spazio per la sperimentazione, lavorare con un’etichetta mia mi tranquillizza molto in tal senso perché ho un totale controllo artistico su ciò che faccio». L’etichetta a cui fa riferimento è la D-Boy Records che debutta in autunno con “The Mountain Of King”, pezzo lanciato su una velocità atipica per la dance (specialmente italiana) del periodo e che ha una duplice valenza, riportare l’artista all’indipendenza e fargli riassaporare parte del successo dei primi tempi. Ad interpretarlo è Sharon Rose Francis in arte Asia, cantante di colore che rimpiazza Jo Smith, impossibilitata a proseguire la collaborazione per motivi contrattuali. Da noi il successo è più che evidente, “The Mountain Of King” cattura all’istante l’attenzione di DJ e programmatori radiofonici perché non somiglia a niente in circolazione in quel momento ed entra in decine di compilation e in praticamente tutte le classifiche dance dell’FM inclusa la DeeJay Parade di cui conquista il vertice per tre settimane a novembre.

classifica da Billboard 24-12-1994,
La top ten dei singoli in Italia a dicembre ’94: Digital Boy è sul terzo gradino del podio

Viene girato anche un videoclip (incluso in “T.V.T.B. – La Televisione Che Non C’è”, VHS di successo di Albertino) in cui Digital Boy è alle prese con una tastiera Ensoniq ASR-10 e che nella parte finale mostra un rocambolesco volo in elicottero e chiarisce la ragione del titolo: il “re” è Martin Luther King. A curare il design della copertina del disco è Claudio Gobbi mentre autore delle due foto, una sul fronte ed una, più piccola, sul retro, che probabilmente mostra per la prima volta al pubblico il volto di Asia, è Lorenzo Camocardi. Più che incoraggianti le vendite, in sole tre settimane macina oltre 40.000 mix e come testimonia la top ten dei singoli italiani di Musica E Dischi apparsa su Billboard il 12 dicembre, il brano si piazza in terza posizione, dopo “It’s A Rainy Day” di Ice MC e “Stay With Me” dei Da Blitz, davanti a star stellari del pop come Bon Jovi, Madonna e Vasco Rossi. Nello stesso periodo Digital Boy partecipa al brano “Song For You” nato a supporto dell’iniziativa solidale di Radio DeeJay, con cui si stanziano proventi per ricostruire la scuola elementare Giovanni Bovio di Alessandria gravemente danneggiata dall’alluvione del 5 e 6 novembre. Diventata, con gli estremi speculari di melodia e ritmo, una sorta di archetipo di una eurodance steroidizzata, “The Mountain Of King” (affiancata dalla virulenta “S.A.L.T.A.” sul lato b) apre inconsciamente una strada nuova e sprona un crescente numero di produttori italiani a cimentarsi in brani a bpm sostenuti, un vero trend che andrà avanti per tutto il 1995 e parte del ’96. La D-Boy Records, col centrino quadrato anziché rotondo e con un logo in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi, non si configura come un’etichetta nata come piattaforma esclusiva per le sue produzioni così come è stata la Demo Studio nel 1990. «La label nasce con la finalità di dare alla luce nuovi progetti artistici curati da giovani produttori con idee innovative ed originali, senza seguire canoni predeterminati o obblighi di mercato. L’unico scopo a cui miriamo è proiettarci verso il futuro seguendo il nostro senso artistico» sottolinea Pretolesi in un’intervista di Nello Simioli su Tutto Discoteca Dance a maggio 1995, ed aggiunge: «ogni sei mesi pubblicherò il mix di un personaggio esordiente grazie agli innumerevoli provini che ricevo da tutta Italia».

cartolina fan club 1994
L’opuscolo che annuncia l’apertura del Digital Boy Fan Club a dicembre ’94

A fine ’94, poco prima dell’uscita del nuovo album, apre i battenti anche il Digital Boy Fan Club, iniziativa attraverso cui i fan possono mantenere un filo diretto con il loro beniamino. Due le operazioni attivate, la Fan Card e il Cofanetto Digitale. La Fan Card garantisce sconti sul merchandising in vendita nei negozi di dischi, offre la possibilità di partecipare ad incontri con l’artista ed entrare in una mailing list (postale) per ricevere mensilmente notizie in anteprima e il calendario aggiornato con le date dei live; il Cofanetto Digitale contiene invece un manifesto, una cartolina autografata, una t-shirt e il VHS “Digital Boy Live” che i fan attendono ormai impazientemente da circa un anno.

1995, il terzo (ed ultimo) album
“The Mountain Of King” anticipa di pochi mesi l’uscita del terzo LP di Digital Boy, “Ten Steps To The Rise”. «È un disco che non si limita a guardare al mercato italiano e non è nemmeno il classico disco di “spaghetti dance” cioè un freddo progetto di studio che vede in azione il musicista e il DJ che usano delle “controfigure mute” come immagine per i passaggi televisivi» spiega Pretolesi nell’intervista a cura di Dall’Acqua sopraccitata. Ed aggiunge: «questa produzione è senza ombra di dubbio un ritorno all’istintività e all’intuitività dei miei primi lavori. Mi riporta a quando registravo le tracce e le mettevo su vinile così come le sentivo, senza alcuna malizia commerciale. La cosa veramente importante per me era la spinta, la motivazione che c’era dietro». L’artista individua una linea da seguire sullo sfondo di nuove prospettive e prende le distanze dal tipico modus operandi della dance nostrana, popolata da tanti (o troppi?) personaggi immagine come descritto qui. Pare inoltre voglia dare un taglio di forbici al suo passato, contestualmente al cambio dell’etichetta discografica. Molla la natia Liguria per trasferirsi a Melazzo, un piccolo paesino della provincia di Alessandria, in Piemonte, dove fissa la nuova base operativa, e crea un nuovo logo, già apprezzato sulla copertina di “The Mountain Of King” e piazzato al centro del vecchio logotipo “Digital Boy”, unico elemento grafico a garantire un continuum con gli anni precedenti. L’autore ora vuole guardare meno le cose dall’aspetto commerciale, come sostiene nella videointervista di Marco Gotelli trasmessa da Entella Tv nell’autunno ’94 e in effetti “Ten Steps To The Rise” evade dalla classica prevedibilità delle produzioni dance mainstream italiane e non è proprio il classico disco destinato al mercato di massa, seppur la linea sfacciatamente melodica di “The Mountain Of King”, pervasa da un filo di malinconica nostalgia, pare sconfessare gli intenti alternativi.

Ten Steps To The Rise
“Ten Steps To The Rise”, terzo e ultimo LP di Digital Boy

È sufficiente però ascoltare il brano d’apertura, “Ten Steps To The Rise”, che è una sorta di prologo narrato dalla voce di Ronny Money, per capire come Pretolesi non voglia affatto scimmiottare le hit del momento. “Exterminate”, coi profondi vocalizzi di Flame, è una cavalcata hard trance sullo sfondo di iridescenti melodie daturiane, “Get Up (To The Old School)” è un salto indietro nel breakbeat britannico post Prodigy con una vena rock incastonata all’interno (a suonare la chitarra è Sergio Pretolesi, padre di Luca), “The Ride” si spinge a lambire sponde acidcore, “7 A.M. Day Dream”, ancora con l’intervento di Flame, è un’escursione onirica, “Party Hardy” è giocosa happy hardcore, “Mental Attack” galleggia su bolle di trance solforica, “S.A.L.T.A.” è un martello demolitore, “Acid Boy” avrebbe fatto ottima figura nel catalogo Bonzai insieme ad Yves Deruyter, Jones & Stephenson e Cherry Moon Trax. In fondo ci sono “Trippin'”, ipnosi in slow motion, e “Set Um’ Up, Dee”, dove il rap di Ronny Money è incorniciato da una cortina di acidismi dai quali emerge anche una citazione per “Crossover”. A chiudere è una versione di “The Mountain Of King” ad 80 bpm, quasi trip hop. Pretolesi, a conti fatti, si rimette in discussione sviluppando e sperimentando cose nuove e più stimolanti, in risposta alla rassicurante standardizzazione dell’eurodance. Edito su (doppio) vinile, CD e cassetta, “Ten Steps To The Rise” risulta essere un album decisamente atipico per un personaggio finito nelle spire della dance generalista da Superclassifica Show, spiazzante perché non ruota su una carrellata di brani simili a quello più popolare (e questo lascia profondamente deluso chi si aspettava invece un’altra “The Mountain Of King” o comunque brani da DeeJay Parade) ma mostra all’ascoltatore i vari volti sonori dell’autore non configurandosi come un banale contenitore di qualche promettente singolo accompagnato da ovvietà riempitive. Non a caso ad essere estratto, in estate, è solo un secondo brano, “Exterminate”, abbinato all’inedito “Direct To Rave”, un ingranaggio mosso da bracci pneumatici che funge da cartina tornasole della nuova rave music cambiata rispetto ai primi Novanta: al posto delle sirene, dei reticoli breakbeat, degli stab e dei suoni hoover ora ci sono velocità sostenute, traslitterazione audio del futuro che avanza fulmineo, e melodie festaiole, in rappresentanza di un’epoca prospera sotto il profilo economico e geopolitico. Sono gli anni in cui l’hardcore vive la fase commercialmente più fortunata ed eventi come la Love Parade vedono aumentare esponenzialmente l’affluenza «capitalizzando e disciplinando l’energia dei primi rave clandestini in un network milionario fatto di sponsor ed indotti sempre più roboanti», come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”. “Exterminate” e “Direct To Rave” vengono pubblicate su CD e su un vinile particolare perché incise entrambe sul lato a ma in due solchi affiancati. Più di qualcuno pensa si tratti di un errore di stampa ma invece è un espediente che rende più particolare il tutto, insieme alla doppia copertina e al lato b decorato con l’incisione del nuovo logo di Digital Boy, seppur a conti fatti risulti un disco destinato più al collezionismo che all’utilizzo nelle discoteche, l’involontario salto della puntina finirebbe col disorientare sia il DJ che il pubblico.

successi eurodance
I tre brani che Digital Boy realizza nel 1995 sul fortunato schema di “The Mountain Of King”

Una tattica efficace?
“The Mountain Of King”, che i collezionisti oggi cercano anche nel formato picture disc, diventa un brano di rilievo per la dance nostrana, capace di affermarsi a livello generalista ma con un imprinting diverso rispetto a ciò che il mainstream chiede in quel determinato momento storico. La discografia tradizionale avrebbe cavalcato l’onda sfornando, a pochi mesi di distanza, un follow-up dalle caratteristiche identiche al fine di rendere longevo il successo e garantirsi un rientro economico con sforzi ridotti quasi a zero. A seguire questo modus operandi è pure Pretolesi ma non esattamente nella formula canonica. Il seguito di “The Mountain Of King” arriva nella primavera del 1995 e si intitola “Happy To Be” ma è firmato dalla sola Asia. Approntato nel nuovo Demo Studio che diventa Demo Studio Professional, il pezzo inizia lì dove finisce il precedente, marciando su bpm serrati, una melodia felice che pare eseguita con una banale Bontempi ed un riff euforico a presa rapida. Il continuum tra i due brani è tale che per l’ospitata nell’ultima edizione di Non È La Rai vengono eseguiti entrambi uno dopo l’altro, a mo’ di medley. Se Pretolesi è messo nella condizione, come avviene sempre in tv, di mimare l’esecuzione su una tastiera Roland, Asia invece canta dal vivo e dimostra di non essere una frontwoman specialmente alla fine quando accenna “Fever” di Peggy Lee al fianco di Ambra Angiolini e sul battito di mani delle ragazze che, a posteriori, hanno trasformato il programma di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo in un cult. Nell’autunno dello stesso anno Pretolesi appronta un altro brano che ricalca le orme di “The Mountain Of King” ed “Happy To Be” ossia “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, ma anche in questo caso decide di affidarlo ad un altro membro della D-Boy Records, Ronny Money, per l’occasione affiancato da Jeffrey Jey dei Bliss Team, quell’anno lanciatissimi con “You Make Me Cry” ed “Hold On To Love”. Il pezzo, a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui, chiude la trilogia eurodance pretolesiana di successo. Pubblicare follow-up con nomi differenti, dunque, potrebbe essere considerata una strategia messa in atto col fine di coinvolgere altri componenti del team e lanciarli nel mondo parallelo delle esibizioni in discoteca, più che utili per rimpinguare le finanze. Nel contempo ciò avrebbe garantito un maggiore dinamismo all’etichetta, non relegandola ad un unico artista. C’è anche un quarto brano che potrebbe rientrare in questa parentesi, “Sky High” di Individual, per cui Digital Boy realizza due remix (il Part 1 è quello che segue la scia di “The Mountain Of King”). La voce è di Billie Ray Martin nonostante il featuring sia intenzionalmente celato su volontà della cantante tedesca, come lei stessa spiega qui. Nel corso del 1995 la Dig It International affida a Pretolesi pure il remix di “La Casa” di Adrian & Alfarez, finito su Top Secret Records. Nel catalogo della stessa confluiscono anche le compilation “Energia Digitale” ed “Energia Pura”: in entrambe, doppie, Digital Boy alterna classica italodance ad hard trance, house ed hardcore, un enorme calderone multiverso non inusuale per i tempi.

Logo D-Boy Records
Il logo della D-Boy Records in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi

Il primo anno di attività della D-Boy Records
Inaugurata nella migliore delle maniere con “The Mountain Of King” nell’autunno ’94, la D-Boy Records cerca sin da subito di ritagliarsi un posto nel mercato della musica hardcore ed happy hardcore, allora in forte ascesa ed espansione. Tra i primi brani messi sul mercato il gioioso “Voulez Vous Un Rendez – Vous?” di Lee Marrant a cui segue “Khorona – Nooo!!!” del quindicenne siciliano The Destroyer che ironizza su una delle maggiori hit del periodo, “The Rhythm Of The Night” di Corona (di cui parliamo qui), attraverso una specie di audiosatira intavolata con la fittizia Concetta. Il brano è solcato su 7″ con la stessa versione incisa su entrambi i lati. Così come anticipato in varie interviste, Pretolesi scommette sulla musica di giovani emergenti come gli Underground Planet (Emanuele Fernandez e Fabio Mangione) e Giorgio Campailla alias Placid K, oltre a rilevare qualche licenza dall’estero (la prima è “The Power Of Love” degli scozzesi Q-Tex per cui lui stesso realizza due remix di taglio happy hardcore). Alla tripletta “The Mountain Of King”, “Happy To Be” e “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, la D-Boy Records aggiunge un altro discreto successo, “Discoland” di Tiny Tot, un pezzo happy hardcore nato un po’ per gioco con una vocina all’elio che, come raccontato qui da uno dei produttori, Bob Benozzo, è quella di Asia opportunamente modificata. Da noi il brano funziona bene, ancora di più nei Paesi nordeuropei dove viene licenziato da label locali e diventa un classico negli ambienti hardcore trainato da vari remix. Nel 1995 la D-Boy Records viene affiancata dalla Big Trax Records, la prima delle due sublabel che fanno la staffetta nel biennio ’95/’96. Orientata a prodotti nati sul crocevia tra eurodance ed eurotrance, non riesce però ad emergere dal mare magnum della discografia fermando la sua corsa dopo appena cinque pubblicazioni rimaste confinate al quasi totale anonimato e in virtù di ciò oggi particolarmente quotate sul mercato del collezionismo, su tutte “Talk About Me” di Vision e “Rock My Body” di Nice Price che suona come una versione velocizzata dei bortolottiani Cappella.

Asia e Tiny Tot
I follow-up di Asia e Tiny Tot falliscono l’obiettivo

1996, tra follow-up poco fortunati e successi oltre le Alpi
Nel corso del 1996 la D-Boy Records consolida l’interesse nutrito per la musica hardcore e gabber mandando in stampa gli EP di Placid K, The Destroyer e Ryan Campbell & The Acme Hardcore Company, ma non tagliando del tutto il filo che la lega al movimento eurodance. È tempo di follow-up per Asia e Tiny Tot, i due nomi che hanno generato parecchio interesse nei dodici mesi precedenti. Pretolesi produce “Hallelujah” per la prima, con qualche bpm in meno ma con una vena melodica ancora saldamente ancorata al modello di “The Mountain Of King”. Le vendite del 12″, disponibile anche in colore rosso, però non sono esaltanti e gli esiti sono simili per “La Bambolina” di Tiny Tot, remake di “La Poupee Qui Fait Non” di Michel Polnareff di trent’anni prima, ricostruito seguendo il modello di “Luv U More” di Paul Elstak e con un sample preso da “Crazy Man” dei Prodigy. Sia Asia che Tiny Tot perdono repentinamente quota, sopraffatti dalla tendenza italiana dell’anno per la dream di Robert Miles e la mediterranean progressive della BXR, di cui parliamo rispettivamente qui e qui, due generi capaci di mettere all’angolo persino un fenomeno consolidato ed apparentemente imbattibile come quello dell’eurodance.

Rhio
“Feeling Your Love” di Rhio, prodotto dai fratelli Andrea e Paolo Amati

Pretolesi e il suo team però non si abbattono e continuano a puntare su un suono che trova terreno fertile in Germania, Regno Unito e soprattutto nei Paesi Bassi. In quest’ottica la D-Boy Records scommette su “Feeling Your Love” di Rhio, brano ascritto al filone happy hardcore marginalmente battuto pure da noi dove si sviluppa un micro alveolo di produttori (si sentano pezzi come “Sikret” di Russoff, “Dream Of You” di Venusia – di cui parliamo qui -, “Mamy” di Polyphonic o “A Song To Be Sung” di Byte Beaters). A realizzarlo ed arrangiarlo sono i fratelli Andrea e Paolo Amati che, contattati per l’occasione, raccontano: «Nonostante fossimo presenze un po’ anomale per la dance in quanto attivi prevalentemente nella musica leggera italiana con collaborazioni con Gianni Morandi, Mietta, Flavia Fortunato, Biagio Antonacci e Pupo, proponemmo dei pezzi ad alcune etichette discografiche tra cui la D-Boy Records. In quel periodo le label che operavano nel comparto della musica da discoteca prendevano spesso licenze ed inserivano nel proprio catalogo brani di produttori indipendenti, come noi, scegliendoli in base al genere che più si confaceva ai propri interessi. Andammo personalmente a Melazzo, quartier generale di Digital Boy, per proporre “Feeling Your Love” di Rhio. Pretolesi ci ricevette nel suo studio ed ascoltò insieme a noi, con molta attenzione, tutte le versioni approntate. Si dimostrò da subito entusiasta e non richiese modifiche su suoni o parti, come invece avveniva di frequente ai tempi, ma volle comunque realizzare insieme al suo staff due versioni finite sul mix (la Happy Hardcore Mix e la Radio Mix, nda). Ricordiamo Luca come una persona cordiale e molto disponibile, fu quindi facilissimo raggiungere un accordo di licenza. Pur non andando malissimo, “Feeling Your Love” non riuscì a raccogliere un grosso riscontro ma fu comunque inserito in alcune compilation tra cui il secondo volume di “100% Hardcore Warning!”. Era un periodo in cui uscivano decine se non centinaia di prodotti al giorno ed essere notati in quel mare immenso di pubblicazioni non era facile per nessuno. Le soddisfazioni, tuttavia, sono giunte a distanza di qualche decennio, quando i cultori di quel genere si sono accorti di tanti brani che non erano poi così malvagi seppur rimasti nell’ombra. Oltre a “Feeling Your Love” di Rhio, nel nostro repertorio dance ci sono anche altri pezzi tra cui “Far Away” di France, che cedemmo alla Zac Records, e “Stop Burning” di U.F.O. Featuring Dr. Straker, edito dalla Exex Records».

Dopo Rhio su D-Boy Records seguono a ruota “Good Vibrations” di Oddness, chiaramente ispirato da “Let Me Be Your Fantasy” di Baby D, e “Fuck Macarena”, sarcastica reinterpretazione della “Macarena” dei Los Del Rio con cui Ronnie Lee apre una nuova fase della sua carriera nelle vesti di MC Rage. Il pezzo, supportato da un videoclip altrettanto canzonatorio, diventa un top seller nel nord Europa dove, si dice, abbia venduto circa 30.000 CD singoli e un milione di copie calcolando dischi e compilation. La D-Boy Records dunque, in netta controtendenza, fa volentieri a meno della dream e della progressive (nonostante qualche disco segnalato in seguito ne ricalchi le orme) per dedicarsi all’hardcore e alla gabber. «La nascita del movimento mediterranean progressive è senza dubbio un buon punto a favore dell’Italia» afferma Pretolesi in un’inchiesta pubblicata su Tutto Discoteca Dance a novembre 1996, «ma ciò che non mi convince è che il nostro Paese si stia fossilizzando in uno schema. Preferisco la spregiudicatezza dei tedeschi».

Let's Live
“Let’s Live”, ultimo tentativo di Pretolesi di cavalcare l’onda eurodance

Nel 1996 il posto della Big Trax Records viene preso da una nuova sublabel, la Electronik Musik, sulla quale vengono convogliate produzioni filo trance come “Desires” di Indaco Feat. Leika (realizzata da Massimo Tatti parecchio influenzato da “Children”), “Free Dimension” di Umma-Y, “Tomorrow” di P. Logan (un misto tra R.A.F. By Picotto e Robert Miles), un paio di EP dei BioMontana (neo progetto di Flavio Gemma e Massimiliano Bocchio che come Urbanatribù incidono un EP ed un ammirevole album per la Disturbance del gruppo barese Minus Habens di Ivan Iusco intervistato qui) ed “Euphonia” degli Underground Planet. In primavera finisce proprio nel catalogo Electronik Musik “Let’s Live”, il 10″ che sancisce il ritrovato asse artistico tra Asia e Digital Boy, nonostante in copertina il nome di quest’ultimo venga troncato in Digital B., un’autentica stranezza per i fan. Il pezzo è completamente fuori dalle tendenze che in quei mesi si consumano nel nostro Paese, una scelta azzardata ma senza ombra di dubbio coerente con quanto affermato in diverse interviste sull’intenzione di non seguire in modo pedestre i continui mutamenti del mercato. “Let’s Live” gira su retaggi eurodance del biennio ’93-’94 e su una stesura alquanto irregolare. Nonostante l’hook vocale, ripetuto ossessivamente per quasi tutta la durata, sembri garantire quasi un flashback di “The Mountain Of King”, il brano non riesce a carburare e convincere. Davvero risicati i passaggi nel DeeJay Time, presenza non pervenuta invece nella DeeJay Parade: Albertino, che cinque anni prima aveva aiutato la musica di Digital Boy a trovare una vasta audience in Italia, adesso pare indifferente. È l’ultimo tentativo da parte di Pretolesi di calcare una scena a cui, probabilmente, non sente più di appartenere. Asia riapparirà nel ’99 con “Take Me Away” sulla romana X-Energy Records che, nello stesso anno, pubblica “Groovin’ On The Dance Floor” di Night Delegation da lei cantato. In entrambi, passati inosservati, Luca Pretolesi figura come autore ma è legittimo ipotizzare che si tratti di iniziative sviluppate partendo da vecchi demo inutilizzati e risalenti al periodo della D-Boy Records, poi finalizzati dai DJ riminesi Enrico Galli e Luca Belloni.

Hardcore Bells
La copertina di “Hardcore Bells” con gli autori trasformati in personaggi di un ipotetico fumetto

Tempo di extremizzazione: la fase hardcore
Il cuore di Digital Boy ormai pulsa quasi esclusivamente per hardcore e gabber, generi che inizia ad esplorare già nei primi anni Novanta cercando di trovare ad essi una collocazione anche in posti fuori contesto come testimonia questa clip del 1994 registrata al Genux di Lonato. Battere un percorso poco compatibile coi gusti italiani non lo intimorisce però, anzi, sembra spronarlo a prendere sempre più le distanze dalla scena nazionale. «Suono spesso in Scozia e nei Paesi Bassi» afferma nell’inchiesta su Tutto Discoteca prima menzionata. «In particolar modo lavoro per la one night chiamata Old School durante la quale educhiamo il pubblico facendo sentire molti pezzi vecchi. Il popolo deve sapere e conoscere quello che balla. Spesso mi esibisco al Parkzicht, venite a sentirmi e capirete. Non uso i piatti come i DJ né tantomeno i dischi. Con me porto macchine analogiche, batterie elettroniche, computer, sintetizzatori e campionatori per sviluppare dal vivo i demo che faccio in studio così noto la reazione della gente e devo ammettere che i risultati sono molto soddisfacenti». A ridosso delle feste natalizie del ’96 esce “Hardcore Bells”, hardcorizzazione del tradizionale “Jingle Bells” promosso Disco Makina da Molella ad inizio dicembre in una delle ultime puntate del programma radiofonico Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui nel dettaglio. Il 10″ è impreziosito da una copertina che ripropone in chiave fumettistica i D-Boy Bad Boys (ovvero Tiny Tot, MC Rage, The Destroyer, Placid K ed ovviamente Digital Boy). Subito dopo arriva il primo volume di “Back To The Past”, progetto con cui Pretolesi inizia a riportare indietro le lancette dell’orologio e riavvolgere il nastro per tornare parzialmente nel passato, nel suo passato, rispolverando “Kokko” e “OK Alright!”. Sulla prima mette le mani l’olandese DJ Rob, sulla seconda invece si attiva lui stesso. Il disco, presentato in anteprima domenica 8 dicembre presso il Number One di Cortefranca, esce sulla neonata Italian Steel, una delle etichette della Raveology S.r.l. – “Raveology” è uno dei brani che Pretolesi destina nel ’91 alla UMM per The Voice Of Rave – che, come si legge sul n. 2 della rubrica D-Boy News a dicembre, è una nuova società che gestisce dischi, eventi, merchandising e management.

Back To The Past 1
Col primo volume di “Back To The Past” uscito a fine ’96 Digital Boy inizia a ripercorrere la sua carriera in chiave hardcore

Il 1997 vede la pubblicazione del secondo e terzo volume di “Back To The Past” che ripercorrono ancora la fase carrieristica di Pretolesi sotto l’egida della Flying Records con l’aggiunta di nuovi remix (gli Stunned Guys – presto ripagati con una versione di “Paranoia” di Baba Nation – e Placid K mettono mano rispettivamente su “This Is Mutha F**ker” e “Gimme A Fat Beat”, Neophyte rilegge “Digital Danze” mentre la coppia DJ Jappo e Lancinhouse riassembla “Crossover”). È sempre l’Italian Steel a pubblicare “Beats & Riffs 1”, un disco contenente tre tracce (“163 – 179”, “Him Again” e “Fist Like This”) che Pretolesi firma col nom de plume The Dark Side, oggetto di particolari apprezzamenti all’estero. Nei primi mesi del ’97 parte anche l’avventura radiofonica: Digital Boy conduce una striscia quotidiana nel pomeriggio di Italia Network, venticinque minuti di musica hardcore e gabber. Titolo? “Extreme”. Nel corso degli anni il programma si evolve e diventa anche una finestra d’informazione ed approfondimento sui grandi eventi hardcore esteri, come si può sentire in questa clip. Pretolesi viene poi affiancato nella conduzione da Randy ed Extreme diventa un vero punto di riferimento per gli hardcore warriors italiani. Col rebranding dell’emittente che si trasforma in RIN – Radio Italia Network, il programma però viene interrotto. «Secondo il mio punto di vista è stato un passo indietro!» sentenzia senza mezze misure Pretolesi in questa intervista del 2001 curata da Antonio Bartoccetti per Future Style. Tuttavia in Italia il movimento regge ancora. «La vendita delle nostre compilation tematiche ora si aggira tra le 10.000 e le 12.000 copie» aggiunge Pretolesi. «Se arrotondiamo per eccesso, sapendo che la compilation viene prestata all’amico, allo zio o alla sorella minore, questo numero cresce». Per l’occasione l’artista stila pure un ritratto dell’ascoltatore medio della musica hardcore: «la compra, l’ascolta, la balla e si muove solo fra i confini tecnologici. Può amare la new style, un certo tipo di hard trance ma non si sposta dal filone tec(h)nologico e non acquisterebbe mai un cantautore, sorridendo di fronte alla comicità del pop e cosciente che fenomeni come “The Fat Of The Land” dei Prodigy o i Chemical Brothers siano invenzioni commerciali che hanno dovuto trovare un po’ di oro attingendo dal vecchio rock».

Randy e Pretolesi (1999)
Randy e Digital Boy in uno scatto del 1999 con un disco della Head Fuck Records, una delle etichette raccolte sotto l’ombrello Raveology

Attraverso l’hardcore e la gabber Digital Boy, tra ’99 e ’00 frequentemente alla consolle di locali romagnoli come il Gheodrome e l’Ecu, rafforza parecchio la competitività all’interno del mercato mondiale e stringe proficue collaborazioni con artisti del calibro di Scott Brown (suo il remix di “Asylum” firmato The Scotchman) e The Masochist (insieme realizzano “Shout Out”). Sono gli anni che, inoltre, vedono l’affermazione globale della D-Boy Black Label che prende il posto della iniziale D-Boy Records Black Label, ora assorbita dalla Raveology subentrata in modo definitivo alla D-Boy Records nel 1996 (l’ultimo 12″ col logo rosso è quello coi remix de “La Bambolina” di Tiny Tot realizzati dagli Stunned Guys, Bass-D & King Matthew e Placid K). Nel nuovo millennio Pretolesi inizia a diradare progressivamente l’attività produttiva, mantenendo comunque i piedi sempre ben saldi nella scena hardcore come attestano pezzi come “Akkur” in coppia con MC Rage, “I’m Hard To Da Core” in tandem con DJ J.D.A. o “How You Diein'” a quattro mani con DJ Bike dei Noize Suppressor. Tra gli ultimi dischi realizzati c’è “Sugar Daddy” (con un frammento di “Sugar Is Sweeter” di CJ Bolland), ancora insieme al vecchio amico Lee e sulla D-Boy Black Label, oggetto di un update grafico del logo col cane bassotto incattivito. Inspiegabile solo la riapparizione, nel 2008, con Shane Thomas per l’anonima “Sexy, Sultry, Delicious, Dirty” incapsulata nell’electro house. Pretolesi, con molta probabilità, non vuole vivere nel passato e non è disposto a finire in svendita al mercato della nostalgia o essere sacrificato sull’altare del revivalismo, così decide di dedicarsi ad altro.

ai Latin Grammy Awards (2018)
Pretolesi e la moglie ai Latin Grammy Awards (Las Vegas, novembre 2018)

Il ragazzo digitale un trentennio dopo
Sono trascorse poco più di tre decadi da quando il “ragazzo digitale” inizia la sua carriera. Di quel ventenne che i magazine nostrani definivano “l’eroe della techno italiana”, dalla lunga chioma, il cappellino da baseball quasi sempre in testa, gli occhiali tondi con le lenti a forma di mirino ed animato dal desiderio di mettere a soqquadro le regole della discografia, probabilmente resta poco o nulla: il “boy” è diventato “man”, ha oltrepassato la soglia dei cinquant’anni e il suo sguardo è meno innocente e più scafato. Dal 2001 risiede a Los Angeles dove ha messo su un super studio di mix e mastering, lo Studio DMI (DMI è l’acronimo di Digital Music Innovation), frequentato da personaggi assai popolari della scena pop e da dove sono usciti pezzi come “On My Mind” di Diplo & Sidepiece (che gli garantisce una nomination ai Grammy), “Mi Gente” di J Balvin, “Goodbye” di Jason Derulo & David Guetta Feat. Nicki Minaj & Willy William e “Lean On” di Major Lazer. Basta un banale clic su Google per imbattersi in recenti interviste come questa ed approfondire adeguatamente sul nuovo ciclo lavorativo di Pretolesi che, costantemente attratto dall’inarrestabile tecnologia, ha smesso di vestire i panni di Digital Boy tornando ad essere, per l’appunto, Luca Pretolesi, considerato un luminare in fatto di ingegneria del suono, richiesto ovunque per corsi, seminari e workshop. Per tale ragione lasciamo ad altri il compito di tracciare e narrare le coordinate di un percorso che esula dal tipo di ricerche svolte sulle pagine di questo blog ma con la consapevolezza che la sua storia non sia terminata ma proseguita in un’altra direzione, sempre all’interno del caleidoscopico e multiforme mondo della musica elettronica.

(Giosuè Impellizzeri)

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La genesi della techno di Detroit, una storia da riscrivere?

2022: sono trascorsi quasi trentacinque anni da quando la musica techno appare ufficialmente per la prima (?) volta sul mercato discografico attraverso la compilation “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)”, pubblicata nel 1988 dalla 10 Records del gruppo Virgin e considerata alla stregua del manifesto di quel genere in grado di veicolare un messaggio nuovo ed innovativo. La storia, riportata praticamente dalla totalità della letteratura specializzata, è univoca ed attribuisce a tre afroamericani, Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson, la fondazione di un nuovo stile musicale che ingloba e combina il funk e l’elettronica europea («pulsione tribale e filtro technologico, battito originario e strappo ultramoderno», così come la descrive Marco Mancassola in “Last Love Parade”). Di tanto in tanto però emerge qualche teoria alternativa secondo cui le cose sarebbero andate in modo diverso rispetto a quanto raccontato nei canali ufficiali. Prese di rado in considerazione dalla bibliografia di settore, tali versioni offrirebbero una prospettiva differente e stimolerebbero pertanto nuove considerazioni e riflessioni. Il condizionale però e d’obbligo, almeno sino a quando non emergeranno evidenze inoppugnabili che spingeranno a riconsiderare i meriti di alcuni e ridimensionare quelli di altri, obbligando sul serio a riscrivere la storia per scampare a presunte distorsioni della verità.

A sostenere la totale revisione della genesi della techno non è, come si potrebbe legittimamente pensare, qualche europeo in cerca di visibilità bensì un nativo di Detroit, Michael James, amico di vecchia data di Derrick May e co-autore di uno dei brani più noti della sua discografia, “Strings Of Life”. «La storia dei tre di Belleville inizia con un crimine» afferma lapidario in un post su Facebook qualche tempo fa. «Misero su uno studio di registrazione all’avanguardia dotato di batterie elettroniche, sintetizzatori, sequencer, giradischi e registratori grazie ad una truffa ai danni di ignari titolari di carte di credito. Sono a conoscenza di ciò perché Derrick mi offrì la possibilità di ordinare per posta tutto l’armamentario per fare musica, sfruttando il medesimo escamotage. Tra l’altro ero presente quando venne arrestato nel suo appartamento, poco distante dal mio. Gli agenti sospettavano che fossi coinvolto e volevano le mie generalità ma lui, da amico, si oppose con fermezza dichiarando che non avessi ricoperto alcun ruolo in quella truffa. Atkins, May e Saunderson riuscirono ad evitare il processo e poco dopo diventarono quelli che il mondo crede siano gli iniziatori della techno. Li chiamano padrini ma non è vero. La verità invece è che due di loro, Atkins e May, non hanno mai smesso di fare imbrogli pur di guadagnare qualche dollaro in più».

Atkins - Cybotron - Model 500
Sopra la copertina di “Enter” dei Cybotron (Fantasy, 1983), sotto “No UFO’s” di Model 500 (Metroplex, 1985)

Juan Atkins, l’allievo diventato maestro
Atkins, soprannominato “the originator”, è ritenuto l’artefice della filosofia che risiede alla base della musica techno. Michael James però demolisce la sua figura, riducendolo ad un losco mistificatore. «Si arrogò il merito di aver dato un’identità ed una visione alla musica che stava producendo, ancora senza nome nel 1987, ai danni della creatività di Richard ‘Rik’ Davis, suo mentore sin dai tempi dei Cybotron» afferma. «A differenza di Atkins, il nome di Davis non gode di gloria a Detroit anzi, qualcuno lo potrebbe scambiare addirittura per un pazzo vista la sua indole solitaria e bizzarra. Veterano della guerra in Vietnam e dieci anni più grande di Atkins, era la vera forza trainante dei Cybotron. Oggi combatte contro il PTSD cercando di dimenticare come colui che era il suo allievo lo abbia cancellato dalla storia. Ai reticenti, convinti che Atkins abbia creato la techno da zero traendo le ispirazioni della prospettiva culturale dall’unico libro letto nella sua vita, “La Terza Ondata” di Alvin Toffler, consiglio di ascoltare “Methane Sea”, brano che Davis incise da solo nel 1978. Qualche anno dopo fece vedere ad Atkins come si poteva comporre quella musica e il risultato fu Cybotron. Davis catalizzò l’attenzione ed ottenne la fiducia di Saul Zaentz, produttore cinematografico hollywoodiano e proprietario della Fantasy che pubblicò il primo album dei Cybotron, “Enter”, nel 1983. Fu sempre Davis a patrocinare artisticamente il giovane Atkins, ai tempi poco più che ventenne, offrendogli la facoltà di firmare come autore brani che non aveva scritto affatto come “Alleys Of Your Mind”, “Time Space Transmat”, “Techno City” ed altri. Davis scrisse musica e testi che poi Atkins rivendicò essere suoi».

Michael James illustra anche le ragioni per cui, nel 1985, i due avrebbero deciso di interrompere il sodalizio, motivazioni a suo dire non affatto determinate dal desiderio di Davis di seguire un itinerario più rock. «La rottura avvenne quando Atkins mostrò resistenze nel pubblicare il brano “Techno City”» spiega. «Dieci anni più tardi però, quando la techno aveva ormai preso piede a livello mondiale, la ripubblicò su Metroplex in una nuova versione, “Techno City ’95” per l’appunto, ma adoperando uno pseudonimo, Audiotech, ed escludendo dai crediti Rik Davis seppur il pezzo contenesse lo stesso refrain dell’originale. Con Davis fuori gioco e peraltro all’oscuro di ciò che stesse avvenendo, Atkins si trasformò da allievo in maestro. Ma non è tutto. Quando Atkins e Davis si separarono, nel 1985, quest’ultimo decise di mollare Detroit per trasferirsi a Berkeley, in California, e lasciò ad Atkins sia gli strumenti del suo studio, sia diversi inediti che lo stesso Atkins, furbescamente, ha poi pubblicato su Metroplex come Model 500. Il primo fu l’iconico “No UFO’s” che, stando a quanto mi hanno raccontato, riuscì a stampare col supporto economico del fratello, Marcellus ‘Pete’ Atkins apparso come produttore esecutivo. In quell’occasione non ebbe il coraggio di firmarsi come autore ma solo come produttore ed ingegnere del suono (anche se, in questa intervista di Vanessa Jane Brown pubblicata su Reverb il 26 marzo 2021, Atkins spiega che “No UFO’s” fu la prima traccia da lui realizzata dopo la separazione dei Cybotron, ed aggiunge che fu anche la prima occasione in cui riuscì a collegare due drum machine ossia la Roland TR-909 e il Sequential Circuits DrumTraks, nda). A testimonianza di ciò che sostengo ci sono i crediti sui dischi dei Cybotron in cui 3070 (pseudonimo di Davis ispirato dalla numerologia, con cui nel 1986 firma il singolo “Vision” ancora per la Fantasy, nda) è sempre elencato come primo proprio perché autore. Nel corso del tempo Atkins ha rimosso interamente il nome dell’amico dai crediti diventando, di fatto, il padrino della techno. Progressivamente è riuscito ad affinare l’abilità in studio di registrazione ma nel contempo la sua musica è diventata sempre più minimalista. Non fu, come si potrebbe pensare, una scelta artistica ma, più banalmente, l’effetto dell’assenza della creatività di Davis. Il suo materiale inedito ormai si era esaurito».

Derrick May, innovatore o impostore?
Dei tre di Belleville Derrick May viene ricordato come colui che teorizza meglio le caratteristiche della techno di Detroit, filosofeggiando sulla sua genesi e riassumendone l’essenza nella definizione “qualcosa come i Kraftwerk e George Clinton chiusi in un ascensore” affidata al giornalista britannico Stuart Cosgrove. «Sarà lui a portare velluti di pregio ed innesti lirici ma anche una grande rivoluzione ritmica alla scena» scrive Christian Zingales in “Techno”. May è il Miles Davis della techno che vuole cambiare le regole e spingere la musica verso aree ai tempi sconosciute, mischiando acrobaticamente house, techno, electro e jazz in qualcosa che lui stesso definisce “hi-tek soul”. Per questo si guadagna l’appellativo di “innovator”, analogamente a Juan Atkins, “the originator”, e Kevin Saunderson, “the elevator”. Nonostante tutto sulla figura di May aleggiano numerose polemiche come ad esempio quella legata alla gestione discutibile (e scellerata, come sostengono tempo addietro alcuni giornalisti d’oltralpe) della sua etichetta, la Transmat. Un esempio è offerto da “Der Klang Der Familie” dei tedeschi 3 Phase e Dr. Motte, a giudicare dai crediti preso legittimamente in licenza nel ’92 dalla berlinese Tresor Records. Pare invece che May, dopo aver sentito il brano in un locale, decise arbitrariamente di ripubblicarlo sulla propria label, bypassando ogni accordo con gli autori. Non è chiaro neanche se sia stato adeguatamente riversato sul vinile da un master o clonando l’incisione da un altro disco, alla stregua di un selvaggio bootleg insomma. Nel 2013 Dr. Motte accusa pubblicamente May di violazione di copyright sostenendo che non ci sia mai stato un accordo per la ripubblicazione su Transmat di “Der Klang Der Familie”, e che la stessa Transmat non abbia pagato un solo centesimo ai detentori dei diritti. Una vicenda analoga legata a mancati pagamenti sembra riguardi anche Cisco Ferreira che nel 1989 pubblica “Why (Don’t You Answer?)” su una sublabel della Transmat, la Fragile, senza ottenere alcun compenso. È giusto rammentare però che Ferreira continua a collaborare con la Fragile sulla quale, nel 1995, appare “Space Wreck / Industry” che firma Man Made insieme all’amico Colin Mc Bean con cui ai tempi condivide il progetto The Advent.

May
Sopra “Nude Photo” edito da Transmat nel 1987, sotto la stampa sull’olandese Prime risalente al 1993 a nome Thomas Barnett

Michael James invece attacca May in riferimento al brano “Nude Photo”: «Si appropriò indebitamente di quel pezzo in realtà composto da un diciannovenne, Thomas Barnett, che si rivolse a lui per terminarlo. Inizialmente a May quella traccia non piacque affatto ma tutto cambiò quando si fece avanti Neil Rushton, influente promoter e giornalista britannico». Nel momento in cui “Nude Photo” viene ripubblicata in due nuove versioni dall’olandese Prime nel 1993, per la prima volta a nome Thomas Barnett, sulla copertina appare una dettagliata descrizione in cui lo stesso Barnett ammette di essere stato intenzionalmente disinformato e tenuto all’oscuro della risposta europea ottenuta da “Nude Photo”. E poi narra di quando era un diciannovenne sognatore pieno di rabbia e passione, animato dall’ardente desiderio di manipolare suoni, ritmi e melodie: «Era una fredda notte di inizio 1987 ed ero in un vecchio edificio situato in una delle zone più sofferenti di Detroit dove ebbe luogo una sessione improvvisata su strumenti di qualità ben più elevata rispetto ai miei. Non avvenne nulla e quando mi misi in auto per tornare a casa, nelle prime ore del mattino, continuavo a pensare a quelle tre drum machine Roland strategicamente posizionate sul pavimento del salotto di Derrick che avrei voluto unire in una sorta di danza della pioggia extraterrestre. La notte seguente tornai lì ignaro di ciò che stesse per accadere e nei primi quarantacinque minuti le nostre vite cambiarono per sempre. Iniziai a registrare perdendo tempo dietro a materiale tratto dagli anni adolescenziali ma all’improvviso qualcosa prese il sopravvento e le mie dita cominciarono a danzare sopra i tasti […]. Dopo circa otto battute nella stanza calò il silenzio. Poi ripresi a suonare dimenticandomi totalmente di quanto avessi appena fatto. Ai primi raggi di sole sentii la necessità di riposare così tornai a casa lasciando a Derrick tutto quello che avevo fatto. Il pomeriggio successivo mi propose di pubblicare quel brano, ancora privo di titolo, sulla sua etichetta avviata da poco, la Transmat (che in catalogo aveva solo un’uscita, “Let’s Go” di XRay, nda). Sarebbe stato il secondo disco della Transmat con la mia traccia sul lato A e due delle sue sul lato B. Quella sera rincasai con mille idee in testa. Desideravo più di ogni cosa pubblicare la mia musica e non mi importava né del nome del gruppo (seppur fossi contento della scelta di Derrick di usare Rhythim Is Rhythim) e tantomeno del contratto. Ci accorgemmo dell’errore ortografico commesso dal tipografo che scrisse Rythim Is Rythim anziché Rhythim Is Rhythim solo dopo aver venduto le prime 200 copie, ma era così strano che decidemmo di tenerlo ugualmente. A richiedere più tempo di tutto il resto fu il titolo del mio brano inciso sul lato A. Il giorno prima di andare in stampa chiamai Derrick e gli dissi di cancellare quello provvisorio perché una navicella aliena me ne suggerì uno migliore, “Nude Photo”».

I crediti presenti sul disco attribuiscono a Barnett il ruolo di co-autore di “Nude Photo”, al cui interno si cela un frammento vocale carpito da “Situation” di Yazoo (forse uno dei pezzi adolescenziali a cui l’artista faceva riferimento?) e lo stesso avviene quando il pezzo viene ripubblicato nel Regno Unito nel 1988 attraverso la Kool Kat. Nel momento in cui la Transmat lo ristampa però, nel 1992, l’unico nome a comparire è l’alias di May ossia Mayday. A quel punto May è l’unico titolare del “brand artistico”, nel frattempo diventato Rhythim Is Rhythim ed esploso con altri pezzi, “It Is What It Is”, “Beyond The Dance” ma soprattutto “Strings Of Life” del 1987. E qui torna in gioco Michael James che, attraverso una clip caricata su YouTube il 2 aprile 2015, fa sapere di essere l’autore di tutta la parte melodica di “Strings Of Life”: «La canzone che scrissi ai tempi del college si intitolava “Lightning Strikes Twice”, Derrick la sequenziò, aggiunse la sezione ritmica e gli archi e divenne il brano che Frankie Knuckles chiamò “Strings Of Life”» dichiara. «Ho fornito dunque la sezione di pianoforte sulla quale May posò tutto il resto. Purtroppo, nel corso del tempo, lui si è attribuito più meriti del dovuto ma ammetto che senza il suo intervento non sarebbe stato possibile giungere a quel risultato. La techno era il suo mondo, io invece ero solo un ragazzo che suonava il pianoforte e scriveva canzoni».

Coniazione del termine
In alto il logo del Technoclub di Francoforte (1984), al centro la copertina di “Tekno Talk” dei Moskwa TV (1985), sotto il logo della Techno Drome International (1987): si tratta delle prove che garantirebbero al tedesco Andreas Tomalla alias Talla 2XLC l’idea di aver collegato per primo la parola “techno” ad un genere musicale

La coniazione del termine “techno”
Ad Atkins si riconosce il merito di aver dato alla musica prodotta a Detroit il nome “techno”, in occasione della già citata compilation “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)” in cui peraltro figura un suo brano intitolato proprio “Techno Music”. Tuttavia nel corso degli anni è emersa qualche controversia, come quella mossa dal DJ tedesco Andreas Tomalla noto come Talla 2XLC che, in diverse occasioni, dichiara di aver applicato il termine “techno” ad un genere musicale con largo anticipo rispetto ad Atkins. «Nei primi anni Ottanta lavoravo in un negozio di dischi e i clienti iniziarono a chiedermi la nuova elettronica che si stava sviluppando in Europa» racconta in un’intervista nel 2014. «Ai tempi sistemavo i dischi in ordine alfabetico e quindi ero costretto ogni volta a passare dalla a alla z per trovare ciò che cercavo. Pensai quindi di creare un nuovo scompartimento in cui inserire proprio quel tipo di musica, realizzata da umani ma solo con le macchine. “Technology” era un po’ lungo e quindi optai per “Techno”. Correva il 1982 e nessuno aveva pensato di chiamare in tal modo un genere di musica, tantomeno a Detroit. La techno nacque in Germania coi Kraftwerk, capaci di concepire musica elettronica ballabile. Afrika Bambaataa e i vari personaggi di Detroit e Chicago furono ispirati dall’elettronica tedesca, combinata con la house o l’hip hop». La tesi di Tomalla legata al negozio di dischi però non è suffragata, ad oggi, da alcuna prova oggettiva. A deporre a suo vantaggio ci sarebbero comunque la serata Technoclub, da lui lanciata nel 1984 nel Dorian Gray, una discoteca allestita all’interno dell’aeroporto di Francoforte, oltre al brano “Tekno Talk” (cover di “Dirty Talk” di Klein & MBO) che firma insieme ad alcuni connazionali come Moskwa TV nel 1985, e la label Techno Drome International varata nel 1987. È bene chiarire però che nonostante l’uso del termine techno sia precedente a quello della compilation sulla 10 Records, la musica di Tomalla appare decisamente più ancorata all’EBM e all’industrial che all’elettronica ballabile nata oltre l’Atlantico. Si potrebbe quindi affermare che, parallelamente a quella di Detroit, ci sia stata una corrente europea che si mosse negli stessi anni battendo un percorso stilistico differente seppur legato da un comune denominatore ovvero l’utilizzo della techno-logia.

Al di là di tutto pare comunque insufficiente ricondurre la nascita di un genere musicale al termine che lo identifica, soprattutto quando questo abbia una provata etimologia proprio come nel caso di “techno”, abbreviazione di “technology”. Se bastasse il termine “techno” per assegnare il merito di aver inventato il genere allora, bisognerebbe citare più di qualcuno: dagli Yellow Magic Orchestra con “Technopolis” (1979) e “Technodelic” (1981) a Man Parrish e i Techno Twins rispettivamente con “Techno Trax” e “Technostalgia” (entrambi del 1982), da Vee Dee U con “Technopop” (1983) a Hugh Masekela con “Techno-Bush” (1984) e Chris & Cosey con “Technø Primitiv” (1985). Madonna, in un’intervista rilasciata ad MTV nel 1984, parla di un “sound techno” e di “techno rock” si ritrova traccia persino sulle pagine di Topolino (n. 1318, 1 marzo 1981) per descrivere la musica dei Krisma. Senza dimenticare il compianto Yuzuru Agi, critico musicale e fondatore della Vanity Records ricordato per aver coniato il termine “technopop” già nel 1978 per descrivere “The Man-Machine” dei Kraftwerk attraverso il suo Rock Magazine.

Anche Michael James dice qualcosa in merito: «Poiché Atkins si rifiutava di mostrare pure agli amici più stretti, come May e Saunderson, il modo in cui produceva la sua musica, è improbabile che questi ultimi due sapessero dove avesse scovato la parola “techno”. Anche in questo caso il merito è di Davis che però usava scrivere tekno, alla giapponese. Davis può raccontare con precisione come giunse al concetto di techno e il modo in cui registrò particolari brani ma nonostante ciò è stato defraudato della sua eredità musicale ed ingiustamente escluso dai documentari sulla nascita di questo genere. Le sue spiegazioni sono assai approfondite e precise, di gran lunga più meticolose rispetto alle vaghe dichiarazioni rilasciate da Atkins nel corso degli anni, legate persino a presunti sogni. Con la mente offuscata dall’idolatria per il presunto genio di Atkins, il pubblico non ha mai dato peso al fatto di non averlo mai sentito suonare dal vivo, analogamente a May. Al fine di coprire e mascherare le sue falle, si è circondato di musicisti professionisti come ad esempio i Los Hermanos guidati da Gerald Mitchell, un autentico virtuoso della tastiera». James fa riferimento anche a un post scritto su Facebook il 28 marzo 2018 in cui Neil Rushton avrebbe lasciato intendere che non fu Atkins a suggerire il nome “techno” per la famosa compilation bensì Chez Damier, DJ nato a Chicago. «Se vi interessa conoscere la verità dovreste smettere di ripetere come pappagalli le falsità alimentate da Atkins in tutti questi anni» chiosa.

Il ruolo dell’Europa
Se Talla 2XLC, come si è visto più sopra, sostiene di essere arrivato prima degli afroamericani di Detroit a definire techno un genere musicale, ci sono pure altri europei che, in qualche modo, collegano la genesi della techno esclusivamente al Vecchio Mondo. Non è raro imbattersi infatti in affermazioni tipo quelle di Jens Lissat o di Rolf Maier-Bode, entrambi tedeschi ed intervistati rispettivamente qui e qui, che fanno coincidere la nascita della techno nei primi anni Novanta definendola un mix tra new beat belga ed EBM germanica. Simile il parere di altri tedeschi, come Mijk Van Dijk che in un’intervista del 2014 parla di techno come «uno stile “mondiale” non legato ad un luogo, colore o lingua», di Carola Stoiber, che nel 2013 la definisce «un filone nato in diverse città nello stesso periodo e a cui vari DJ e produttori diedero sfumature diverse sperimentando nuove tecniche compositive», e di Marusha che nello stesso anno si mostra altrettanto scettica nel connetterla ad una persona o ad un preciso Paese: «a Detroit furono rielaborate idee generate altrove e molto tempo prima, come quelle dei Kraftwerk» afferma. A menzionare questi ultimi è pure l’olandese Miss Djax che nel 2014 dipinge la techno come «evoluzione di altri stili, tra cui l’electro. A Detroit furono ispirati dai Kraftwerk ma molti non sanno che a loro volta i tedeschi presero spunto dal produttore olandese Kid Baltan che negli anni Cinquanta lavorava per la Philips e che considero l’inventore della musica elettronica». C’è pure chi ritiene i Kraftwerk fin troppo mainstream come Frank Müller che nel 2001 ammette di preferire Dave Ball, Visage e New Order e soprattutto gli elvetici Grauzone «che con “Film 2”, del 1981, forse incisero il primo disco techno della storia». Non manca neppure chi guarda ancora più indietro come WestBam che, nel 2013, ammette che ad inventare la techno «sia stato l’italiano Luigi Russolo e che Detroit abbia rappresentato solo una delle fasi dello sviluppo di quel genere dalle influenze molteplici e non riconducibili al solo frangente statunitense». Sulla questione interviene anche Doris Norton, considerata una delle pioniere italiane della computer music ed alla quale abbiamo dedicato qui una monografia: «dire che il grunge è nato a Seattle coi Nirvana o che la techno è nata a Detroit è un modo d’inquadrare la realtà molto restrittivo» dichiara in un’intervista del 2011. «La techno doveva nascere ed esplodere come conseguenza dell’ambiente e dello stile di vita in cui le società hanno fatto crescere i propri figli, meccanicità, temporizzazione, noise. La techno nacque in diverse parti del mondo fra cui Stati Uniti, Italia e Germania».

Nel 2013 lo scozzese Neil Landstrumm afferma, senza giri di parole, di preferire la techno britannica a quella statunitense: «Al massimo provavo più attrazione per la house di Chicago della Relief o della Dance Mania. Il movimento di Detroit è importante ma furono gli inglesi ad inventare il concetto di rave, mischiando il breakbeat alla techno e all’acid, fondendo differenti stili ed ottenendo qualcosa di completamente nuovo. A Detroit si crearono i “semi” della techno, poi importati da culture straniere che hanno aggiunto dell’altro. La storia, insomma, non fu scritta tutta e solo in America. Io impazzivo per la techno olandese della Djax-Up-Beats, un sound psichedelico, mentale, acido e contorto. Da non dimenticare anche l’influenza newyorkese di Joey Beltram, Mundo Muzique, Frankie Bones e Lenny Dee, ed altrettanto influente fu il ruolo della belga R&S e di altre etichette britanniche ed americane. Nella mia scala valori infatti prima di Detroit c’è New York». Contattato ai tempi, dice la sua anche Renaat Vandepapeliere della R&S: «scoprii la musica delle macchine coi Kraftwerk, gruppo a cui credo che l’intera scena di Detroit si sia liberamente ispirata. In Belgio il boom si ebbe col Boccaccio, un club vicino Gand che spinse tantissimo la new beat, una sorta di techno nata in seno all’EBM, ma chi produceva a Detroit e Chicago diede a quel filone un’anima più funky, che apprezzai moltissimo. Si trattò di una sottocultura che aprì nuovi scenari, e compositori come Derrick May e Juan Atkins prima e Carl Craig poi, hanno influenzato un’intera generazione. Per me il “nuovo mondo” si aprì nel 1988 ascoltando “It Is What It Is” di Rhythim Is Rhythim. Tuttavia non bisogna dimenticare i pionieri europei da cui questo genere si è sviluppato, come i citati Kraftwerk, Manuel Göttsching, Vangelis ed altri, che si dedicarono alla “techno” ancor prima che questa prendesse tale nome». Ad incidere proprio per la R&S un brano diventato un classico come “Mentasm” di Second Phase (in coppia con Mundo Muzique) è Joey Beltram, da New York. Nonostante sia americano, l’artista appoggia poco il ruolo nodale detroitiano e preferisce non relegare la nascita della techno ad un luogo specifico. «Mi avvicinai a quel genere attraverso la house, intorno al 1985, ascoltando lo show di Tony Humphries su 98.7 Kiss Fm. Molta di quella che chiamiamo techno è nata e si è evoluta nel medesimo periodo ma in differenti posti del pianeta. Tra il 1989 e il 1990 in ogni grande città c’era un club techno, che iniziava prendendo spunto da qualcuno e poi finiva con l’influenzare altri che a loro volta seguivano lo stesso corso». Interessante è anche il punto di vista del già citato Cisco Ferreira, portoghese trapiantato a Londra, oggi mente unica dietro il progetto The Advent: «Il concept della techno nacque a Detroit ma ritengo che certe forme technoidi fossero già emerse a Chicago e New York qualche tempo prima, sotto forma di house. Quando sbarcò in Europa il genere crebbe e si diversificò: se negli States le referenze erano quelle della synth music e dell’eurodisco, nel Vecchio Continente la techno si arricchì di componenti elettroniche». A sollevare qualche interrogativo è pure Fraktus, nelle sale a novembre 2012, un mockumentary diretto da Lars Jessen che rivede la storia della techno portando alla ribalta una (fittizia) band tedesca, i Fraktus per l’appunto, a cui secondo più autorevoli fonti andrebbe attribuito il merito di precursori del genere. Ultima, in ordine cronologico, l’iniziativa lanciata per far rientrare la cultura techno berlinese nel patrimonio culturale dell’UNESCO. Berlino infatti sarebbe, secondo l’organizzazione no profit Rave The Planet, la “capitale mondiale della techno”.

Il ruolo europeo
La copertina della fatidica raccolta ideata da Neil Rushton e pubblicata nel 1988 dalla 10 Records/Virgin

Una parentesi sulla coniazione/definizione della techno può essere aperta anche prendendo in esame quanto riportato da Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”, nel passaggio in cui si parla di techno come aggettivo e non sostantivo. «La parola techno non venne impiegata per indicare un genere a sé stante prima del 1988. Fino ad allora i suoi creatori erano felici di farsi etichettare come “house” e gettarsi nella scena di Chicago. Nel numero di NME dell’agosto 1987, Simon Witter descriveva Derrick May come “un terzo di un team di maniaci della house residenti a Detroit”. May parlava con nonchalance della sua musica chiamandola house e non facendo alcun riferimento a macchine, computer e fantascienza. Ciò che inizialmente portò una considerazione diversa per la musica di Detroit rispetto a quella di Chicago fu una mera strategia di marketing. […] Il titolo provvisorio della compilation ideata da Rushton era “The House Sound Of Detroit” ma diventò palese che, malgrado le affinità con la house, quella musica era molto diversa dalla sua sorella maggiore di Chicago. Il titolo fu perciò cambiato in “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)” per riflettere tale situazione». Rushton, tra i primi europei ad intercettare il cambiamento in atto, afferma che ad inventare la parola “techno” furono i ragazzi di Detroit ma aggiunge che non la usavano per descrivere la musica che producevano e che fosse solo un’espressione. «Grazie al nuovo nome (dato alla compilation, nda) la techno non era più soltanto una realtà musicale distinta ma aveva anche un’intrigante filosofia che metteva in precisa correlazione la città e il suo sound» proseguono Brewster e Broughton. «I giornalisti iniziarono a tessere lodi sperticate sull’immaginario postindustriale e i produttori capirono che intellettualizzare la propria musica avrebbe contribuito a promuoverla».

La techno nasce quindi per volontà di un manipolo di temerari afroamericani d’oltreoceano o in un lungimirante ufficio europeo per vendere meglio una compilation? John McCready, che si reca a Detroit per scrivere un articolo dedicato alla topica raccolta della Virgin insieme al collega Stuart Cosgrove, afferma di essere stato uno degli artefici di quella “intellettualizzazione musicale”: «a Detroit non immaginavano che avremmo fatto una cosa del genere. Loro incidevano per il gusto di farlo e ad un tratto la loro musica venne descritta come un’esperienza d’ascolto». Brewster e Broughton poi rincarano la dose scrivendo che «probabilmente, se i produttori di Chicago fossero stati sottoposti ad una simile raffica di domande, avrebbero spiegato la loro musica inventando teorie altrettanto elaborate […] ma a Detroit, grazie a qualche giornalista britannico fin troppo efficiente, la techno venne lanciata a tutta velocità lungo la strada dell’intellettualismo». McCready conclude affermando che «Juan, Derrick e Kevin erano ragazzi svegli e si accesero come lampadine quando capirono che dovevano recitare quella parte». Sia ben chiaro, i britannici non hanno mai preteso di essere considerati i “techno creatori”, ma con forti probabilità non avrebbero remore a prendersi il merito di aver investito quella musica di un’aura diversa.

Affine è l’opinione di un altro illustre giornalista d’oltremanica, Simon Reynolds, che nella versione rivista ed aggiornata di “Energy Flash” ammette di essere stato un po’ confuso da quella fatidica e cruciale compilation del 1988 perché non gli parve altrettanto anticonvenzionale rispetto alle tracce acid house: «All’epoca il ruolo di Detroit sembrava subalterno a quello della house di Chicago, la gente iniziò davvero a parlare di Detroit come origine delle idee e dei principi fondamentali solo quando prese piede l’hardcore nel 1991-1992. Era una mitologia di ritorno, reazionaria. […]. “Strings Of Life” è stato un inno rave, certo, ma se ci fosse stata solo la techno di Detroit non ci sarebbe stata nessuna cultura rave ma solo una rete di piccole scene alla moda in varie città sparse per il mondo». Una presa di posizione ancora più netta emerge quando Reynolds afferma che «l’idea di Detroit come “alpha & omega” della musica dance elettronica è storicamente imprecisa perché non è affatto vero che non c’era nessuna forma di dance elettronica prima che Atkins, May e Saunderson iniziassero a produrre le proprie tracce. In realtà loro reagivano a stimoli musicali che provenivano dall’Europa. Più realistico è vedere Detroit come un nodo cruciale in una rete, una stazione di interscambio, un momento in cui la musica si è fermata per un po’ prima di ripartire. La grande innovazione lasciata da Detroit è stata quella di eliminare le parti vocali e la struttura della canzone, un passaggio fondamentale». Per Reynolds sarebbe più giusto allora parlare di techno come genere musicale deterritorializzato? Tutte queste teorie sono forse frutto di istinti e giudizi più o meno nazionalistici? Meno attratto dalla reciprocità territoriale in tempi non sospetti è Mike Banks del collettivo detroitiano Underground Resistance che, intervistato da Andrea Benedetti per la fanzine Tunnel nel 1993, indica la techno come «musica universale, non riconducibile a nessun posto sul nostro piccolo pianeta. Potrebbe aver avuto le sue origini in Germania o a Detroit ma non avendo quasi per niente parole è facilmente comprensibile da moltissime persone, anche da alieni provenienti dallo spazio. Potrebbe eventualmente essere la nostra prima forma di comunicazione con popolazioni di altri mondi o con gli animali […] La techno è nata quando sono stati inventati i sintetizzatori e da allora è iniziato il viaggio verso il futuro».

I techno three sulla splash page di Deejay Show
I “techno three” sulla splash page dell’articolo pubblicato sulla rivista Deejay Show nel 1988. Il documento è stato gentilmente concesso da Maurizio Santi

I primi contatti con l’Italia
«L’ultima novità in fatto di house arriva da Detroit. Il “Detroit Techno” però non ha nulla a che vedere con il jackbeat o con la house di Chicago, né tantomeno con tutti i fenomeni replicanti inventati semplicemente guardando le classifiche di vendita. Pensate ad una musica brutale ed acida che arriva dalla città di Robocop, pensate all’uomo-macchina. Il Detroit Techno ha finalmente tagliato il cordone ombelicale che teneva unita la house music alla discomusic, guarda direttamente all’electropop inglese ed europeo degli anni Settanta, è affascinato dal futurismo e dal tecnicismo esasperati che sono stati i marchi distintivi di gente come i Kraftwerk, gli Human League, la Yellow Magic Orchestra, i primi Depeche Mode e persino Gary Numan». Con queste righe si apre quello che probabilmente è stato uno dei primi articoli dedicati alla techno apparsi in Italia, precisamente sul n. 13 della rivista Deejay Show del settembre 1988. Chi lo scrive, non firmandolo, resta colpito non poco da quella nuova forma musicale che prende qualcosa da un passato (prossimo) e lo lancia verso un futuro (remoto), tratteggiando la colonna sonora della civiltà del futuro, quella che ai tempi sogna ancora di varcare la soglia del fatidico anno 2000 a bordo di automobili volanti. «La techno music si considera distaccata dalla storia, come se fosse nata artificialmente e dal nulla» continua. «I suoi circuiti chiusi di tastiere, percussioni elettroniche preprogrammate e giri di basso generati da oscillatori sono un messaggio che non ha un mittente, una frase che si replica come una spirale di DNA. […] La techno music è una macchina che dà piacere con la ripetizione ossessiva di un anello ritmico, è un continuo vortice senza alti e bassi, un climax senza orgasmo, un invito all’alienazione, un viaggio nella perfezione asettica degli “showroom dummies”».

Nell’articolo il giornalista ignoto poi presenta quelli che definisce i “tre moschettieri della techno”, Derrick (ma sempre chiamato Derek) May, Kevin Saunderson e Blake Baxter. Stranamente non vi è alcuna menzione per Atkins, rimpiazzato da Baxter per motivi sconosciuti. È utile comunque riportare alcuni stralci delle dichiarazioni raccolte come quelle di May, introdotto come “teorico principale della techno di Detroit”, il quale illustra le ragioni per cui la techno non va confusa con la house: «la house music è opera dei ragazzi di colore che negli anni Ottanta hanno trovato un modo per ricollegarsi alla discomusic dei Settanta. A Chicago e Philadelphia sono cresciuti ascoltando la discomusic ma noi invece, qui a Detroit, preferivamo l’electropop europeo. La techno è musica dance che non ha alcun riferimento nella realtà ma si riferisce soltanto alle visioni nelle nostre menti. Gente bianca, come Daniel Miller della Mute Records, ha creato un certo tipo di suono. Ora tocca a noi, ragazzi di colore, far vedere quello che sappiamo fare coi sintetizzatori. I bianchi, dieci anni fa, non sapevano bene cosa stavano facendo. Gary Numan ha iniziato qualcosa ma non ha saputo concludere […]. La nostra musica non è quella di Detroit come è oggi ma quella della Detroit del futuro. La città sarà distrutta e ricostruita e sarà tutta di vetro, la nostra musica accompagnerà i tempi nuovi». A May segue Saunderson che prende le distanze dalla house music che in quel periodo inizia a dilagare commercialmente in Europa: «noi siamo diversi» afferma deciso. «Non ci curiamo del look e delle mode ma ci occupiamo solo della musica e non siamo disposti a lasciarci cannibalizzare dai mezzi di comunicazione. Techno music significa energia e futuro». A concludere è Blake Baxter che, tra le altre cose, racconta la genesi della sua “Body Work”, edita da KMS nel 1987: «il brano si riferiva ad una ragazza con la quale facevo ginnastica in palestra, aveva un gran seno ed un bellissimo posteriore, e il ritmo del pezzo è quello con cui lei muoveva queste parti del corpo». Tuttavia la techno di Baxter non vuole essere affatto musica per seduttori ma piuttosto quella di instancabili robot. «Nei club ognuno è solo con se stesso», spiega, «e il compito del DJ è suggerire stati d’animo da esplorare in perfetto isolamento».

Eterni esclusi
È un errore pensare ad Atkins, May e Saunderson come unici interpreti della techno della prima ora? In “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)”, ad esempio, figurano altri artisti di Detroit come Blake Baxter, Eddie Fowlkes ed Anthony Shakir che però non godono affatto della stessa popolarità dei tre di Belleville e in virtù di ciò Michael James sostiene che «per oltre un trentennio Atkins e May hanno parlato liberamente e senza sosta del loro ruolo chiave della techno, riuscendo a cementare l’idea nell’immaginario collettivo di essere i padrini assoluti del genere. Ciò che la gente ignora è che erano, sin dal principio, due giovani disposti a mentire, barare e rubare pur di ottenere ciò che volevano. Mi rendo conto che queste rivelazioni possano essere dolorose e più di qualcuno mi ha già accusato di distruggere la storia della techno di Detroit ma non è affatto quello che voglio, il mio desiderio è solo chiarire ciò che è successo, senza edulcorazioni, e dare il giusto riconoscimento a tutti coloro che in qualche modo hanno ricoperto un ruolo nello sviluppo del nuovo “suono house” uscito da Detroit. È difficile comprendere la ragione per cui Atkins e May abbiano omesso artisti come James Pennington, Blake Baxter, Eddie Fowlkes, D-Wynn, Robert Hood, Thomas Barnett, Brian e Martin Bonds, Santonio Echols ed altri ancora. Perché non posso raccontare la mia versione dei fatti? Loro hanno avuto carta bianca per almeno tre decenni».

Questione di date
«Negli ultimi anni sta crescendo il numero di coloro che pongono e si pongono domande più critiche in merito alla storia della techno di Detroit, non fermandosi più alle verità note» sostiene ancora Michael James. «Atkins però non intende più parlare di passato e l’unica cosa che fa May è sforzarsi di dimostrare che i Belleville Three abbiano fatto TUTTO per primi. A chi continua a mettere in dubbio le mie intenzioni e la mia buona fede dico che basterebbero un po’ di pazienza e tenacia per scovare cose interessantissime e capire qualcosa in più, come ad esempio un’intervista a Derrick May rilasciata a Sterling McGarvey per l’ormai defunto Lunar Magazine nell’agosto del 2003. In quell’occasione May divagò su tutto, dalla politica all’economia, ma ammise candidamente che “Nude Photo” fu il primo disco ad aprire le porte del Regno Unito e del mondo intero. Ma “Nude Photo” è del 1987, un anno prima dell’avvento dei Belleville Three, come è possibile quindi che siano loro i tre padri fondatori di tutto? La risposta mi pare ovvia, non lo sono affatto. Oppure, se lo sono, lo è altrettanto Thomas Barnett, autore di “Nude Photo” che May invece spacciò per suo». A sostenere che il genere techno ebbe inizio con “Nude Photo” (attribuito al solo Barnett in occasione delle ristampe su Prime nel 1993 e su Finale Sessions Limited nel 2018) è stato anche il compianto Dan Sicko in “Techno Rebels – The Renegades Of Electronic Funk”: «dopo la prima ondata di produzioni si poteva tranquillamente affermare che Detroit fosse un’appendice di Chicago finché non arrivò “Nude Photo” e la gente cominciò a pensare che quella non era più house music. Tutta la strumentazione venne modificata ed elaborata apposta, fu a mio avviso il primo disco techno con tutti i crismi. Con “Nude Photo” Derrick May e Thomas Barnett, suo collaboratore in quel brano, cambiarono il corso del sound di Detroit». Magari è proprio questa ultima frase a creare l’equivoco. A giudicare dai racconti di Barnett e di James sarebbe più corretto affermare che sia stato May il collaboratore di Barnett in “Nude Photo” e non il contrario. Una sottigliezza apparentemente insignificante ma che forse acquisterebbe un valore diverso nel dibattito storiografico sulla genesi della techno di Detroit.

Benedetti 02
Andrea Benedetti immortalato insieme ad una parte della sua collezione di dischi raccontata qui

Più mito o realtà? Il parere di Andrea Benedetti

Credi che dietro la storia dei “Belleville Three” ci siano delle zone d’ombra, ignorate dalla letteratura specializzata che ha raccontato la nascita e lo sviluppo della musica techno?
Sicuramente. La prima è quella di Eddie “Flashin” Fowlkes che faceva parte della crew Deep Space assieme ai tre di Belleville. Fowlkes è un personaggio molto esuberante e carismatico e non ho dubbi che all’interno del gruppo ci sia stato qualche problema di ego che lo ha fatto allontanare, seppur fosse lì fin dall’inizio. Gli va sicuramente dato qualche credito per “Goodbye Kiss” su Metroplex, che a Detroit (e non solo) fu una hit, ma a livello produttivo è stato più legato ad un sound house (o “techno soul” come lui stesso lo definiva) per cui i tre di Belleville sono stati molto più significativi. C’è inoltre tutta la storia dei college party che fu seminale per la scena di Detroit e che ha molti elementi ancora poco conosciuti che sarebbero utili per capirne meglio l’evoluzione. Lo dico tenendo però a mente che, in ultima analisi, sono i brani a creare un genere ed è indubbio che Atkins, May e Saunderson siano stati unici in questo. Rispetto a May, andrebbero approfondite le questioni ancora irrisolte di copyright o mancati pagamenti per “Strings Of Life” con Michael James e “Nude Photo” con Thomas Barnett.

Nelle sue invettive Michael James afferma chiaramente che il vero artefice della techno è stato Rik Davis, descritto come una sorta di eminenza grigia della techno stessa nonché “motore creativo” dei Cybotron e dietro le prime apparizioni di Model 500, seppur esautorato. Il ruolo di Davis però appare assai decentrato o persino marginale nella diffusione popolare della techno: a remare contro forse è stato il suo carattere schivo e giornalisticamente poco compatibile?
Per tutto quello che ho letto e sentito nel corso degli anni, onestamente non credo che Davis abbia nulla a che vedere con l’idea di techno che conosciamo. È stato senza dubbio un riferimento fondamentale, ma il concetto della techno a noi nota è al 100% di Juan Atkins, a partire dal nome che aveva dato a ciò che stavano facendo. La visionarietà di Davis fu anche il suo limite. La fissazione con la Bibbia e l’Apocalisse erano veramente troppo ingombranti per poter garantire quella visione di futuro che noi diamo alla techno, e ne ho avuto conferma dopo averlo intervistato. Fu chiaro in questo senso: lui voleva contaminare la musica dei Cybotron con elementi rock visto che è un fan di Hendrix, Atkins no e per questo si divisero. Atkins seguitò a fare musica sulla falsariga delle sue idee che poi divennero le prime uscite della Metroplex. Davis non mi ha mai parlato di tracce date da lui ad Atkins prima o dopo la divisione dei Cybotron.

Kreem - Triangle Of Love
“Triangle Of Love” di Kreem è uno dei primi brani pubblicati dalla Metroplex nel 1986

Uno dei primi pezzi pubblicati dalla Metroplex è stato “Triangle Of Love” che nel 1986 Atkins, May e Saunderson firmano Kreem. Adoperando un disegno di basso ispirato da “Blue Monday” dei New Order, una parte vocale femminile ed un’imperiosa sezione ritmica, i tre costruiscono qualcosa che oltrepassa la linea della house ma che nel contempo non assomiglia alle forme di dance music in auge allora, come l’eurodisco, l’italo disco o l’hi NRG. Potremmo pertanto considerarlo un chiaro tentativo di sganciarsi dai canoni convenzionali della musica da ballo e quindi annoverarlo nella techno?
La questione degli stili all’interno della techno di Detroit è tra gli argomenti più discussi e controversi di questo genere. Se esaminiamo la musica prodotta a Detroit nei primi anni solo dal punto di vista stilistico facciamo un errore perché in quel periodo gli stili musicali si andavano formando e dunque non potevano essere storicizzati e categorizzati. Inoltre negli Stati Uniti non esisteva la stessa analisi da parte di media e radio che c’era in Europa per cui quando questi ragazzi producevano musica lo facevano in modo libero, magari con influenze esterne, ma sempre all’interno di un flusso di ispirazione che veniva soprattutto dalla città e dal loro gruppo. Ecco perché la techno di Detroit, rispetto all’house di Chicago, era così variegata. Potevi sentirci elementi new wave, electro, EBM ed house, ma alla fine nel suo insieme era definibile come techno e questo avvenne per le motivazioni e le intenzioni degli artisti. La techno non è uno stile musicale con parametri specifici come l’house o l’hip hop ma una visione della vita che diventa musica. Detto questo, “Triangle Of Love” è assolutamente techno per me.

Secondo più di qualcuno, all’inizio la scena techno di Detroit rappresentò soltanto un’integrazione di quella house di Chicago. Quali furono i brani che, a tuo parere, sancirono in modo inequivocabile la cesura dalla Windy City? In virtù di quali caratteristiche la house non poteva più essere confusa con la techno?
Le prime uscite della Metroplex, come dicevamo poco fa, non avevano nulla di house. Forse il primo Transmat, “Let’s Go” di X-Ray, ma non presentava ad esempio l’hi hat in levare ed altri dettagli simili alle produzioni di Chicago. Per questo e per le motivazioni che ho esposto nella precedente risposta, Detroit per me non è mai stata un’appendice di Chicago. Lo dimostra anche la volontà di Atkins nella scelta del nome da dare alla loro musica nella famosa compilation della Virgin: c’era proprio il desiderio di essere diversi e di autodeterminarsi.

Sono parecchi gli europei a sostenere che la paternità della techno spetti più ai Kraftwerk che agli artisti di Detroit influenzati, per loro stessa ammissione, dalla band di Düsseldorf. In “Mondo Techno” tu però parli della techno come genere in cui «coabitavano spiritualità e sperimentazione sonora, afrofuturismo ed influenze bianche», e ciò spronerebbe a riconsiderare il genere sotto una luce nuova piuttosto che liquidarlo, ingenerosamente, come attualizzazione dei dettami kraftwerkiani. Cosa c’era di nuovo nella techno di Detroit e che solitamente sfugge a tanti?
La questione del termine è fondamentale, non tanto per il termine stesso in sé, ma appunto per la voglia di far capire al mondo che ci fosse qualcosa di diverso a Detroit. La musica era una reazione allo stallo della città ed una proposta concettuale di collaborazione fra uomo e macchine. Le stesse macchine che stavano contribuendo al degrado della città potevano invece esserne il riscatto. La techno è un esempio in tempo reale di visione di futuro e per questo è stata e sarà sempre unica. Appena la sentivi volevi non solo ballarla ma viaggiare con essa. È come la sensazione di “Autobahn” elevata al cubo. Non tutti hanno compreso che fosse appunto una questione concettuale legata alle “idee” e il genere si è esaminato quasi solo dal punto di vista stilistico. Da qui le varie interpretazioni ed incomprensioni che si trascinano ancora oggi.

Che fine avrebbe fatto la techno se non fosse mai uscita la compilation “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)”? Le cose avrebbero preso una piega diversa? La techno sarebbe emersa in qualche modo?
Difficile a dirsi, ma credo che brani potenti come “Big Fun” degli Inner City avrebbero trovato comunque la loro strada. È avvenuto con “Strings Of Life” che non era nella compilation per cui sarebbe accaduto pure con altri pezzi. Ovviamente la compilation ha dato un senso di unità di proposta. Si capiva molto meglio che c’era una scena, ma con tutta la stampa musicale di quegli anni sono sicuro che lo si sarebbe appreso ugualmente.

Perché artisti come Blake Baxter, Anthony Shakir o Eddie Fowlkes, peraltro presenti in quella raccolta, non sono riusciti a consolidare i propri nomi alla stregua dei tre di Belleville?
Sono stati comunque fondamentali per far capire le sfaccettature del genere ed hanno a loro volta ispirato tanti altri produttori, ma la potenza pop di “Big Fun” non era paragonabile a nessuno dei pezzi presenti nella compilation, per cui è normale che li abbia oscurati e fatto sentire la differenza. A dimostrarlo è anche il fatto che nella raccolta ci fossero tracce molto significative come “Techno Music” di Atkins ed “It Is What It Is” di May che però non hanno avuto lo stesso successo. A livello di massa, la techno era sicuramente un oggetto più complesso da decifrare rispetto alla fisicità dell’house e quindi hanno prevalso i brani più diretti e completi. Di fatto Baxter, Shakir e Fowlkes non hanno mai inciso brani con lo stesso impatto di “Big Fun” o “Strings Of Life”.

Cosa perse e cosa guadagnò la techno dopo l’arrivo in Europa?
Sicuramente ha perso in unicità perché alcuni elementi sono stati codificati ed usati fuori dal contesto, ma ha anche avuto dalla sua parte artisti che l’hanno aiutata ad evolversi. Penso, ad esempio, alla scena britannica con nomi come B12, Kirk Degiorgio, Black Dog, Stasis, Insync vs. Mysteron, Applied Rhythmic Technology (ART), Likemind, 10th Planet o a quella olandese con Stefan Robbers (Terrace, Florence, R.E.C.), Wladimir M, The Connection Machine, Frank De Groodt (Pieces Of A Pensive State Of Mind, Sonar Base, Random XS), Maarten van der Vleuten (Major Malfunction, G.S.G.) e label come Eevo Lute Muzique, Djax-Up-Beats e U-Trax. Soprattutto loro hanno preso gli elementi migliori della scena di Detroit e portati ad un nuovo livello, creando un interscambio con la Motor City molto bello ed utile.

Cartoons
La copertina della raccolta “Cartoons” (Dig It International, 1992), il probabile zenit della decontestualizzazione techno italiana avvenuta ad inizio anni Novanta

Nel citato “Mondo Techno” indichi la Sounds Never Seen e la ACV come le prime etichette techno italiane, uscite allo scoperto nel 1991. Il termine “techno” però si era già infiltrato in qualche modo nel panorama discografico nostrano, si vedano ad esempio dischi come “Technoboy” di Technoboys (1989), “Techno (Dance To The House)” di Digital Boys Featuring Cool De Suck, “Fixation” di Techno Age, “Dig-It” di Bit-Max, “Neue Dimensionen” di Techno Bert (di cui parliamo qui) ed “Antico” di Antico, tutti del 1990, seppur nessuno di essi risultò essere in linea con gli spunti di Detroit. A dirla tutta “Detroit” parve una parola maggiormente vicina alla house che alla techno, come testimoniano brani del 1991 tipo “Detroit 909” di KGB, “Yo Te Quiero (Detroit Version)” di DJ Le Roy Featuring Bocachica, “Sexitivity (Detroit Remix)” di MCJ (di cui parliamo qui) e “Nobody (Detroit Version)” di 9 Lives. Come e cosa ricordi dello sbarco e dell’esplosione della techno nel nostro Paese, più incline al modello mitteleuropeo del post new beat e creata seguendo una sorta di rigido disciplinare che si appropria di alcuni suoni ma non riuscendo, con la stessa facilità, ad interpretare e veicolare il messaggio originale? Come mai il fenomeno prese presto una piega “cartoonesca” (citando la serie Cartoons – Techno Dance Melodies, partita nel ’92 e trainata da “Pinocchio” dei Pin-Occhio), e vide sottrarsi praticamente per intero tutta l’intellettualizzazione con cui la techno fu investita quando oltrepassò l’Atlantico nel 1988?
La tesi centrale del mio libro è che il termine techno sia andato oltre il suo significato originario e sia diventato un contenitore in cui inserire tutte le tensioni futuriste e di cambiamento di quel periodo. Ecco perché fu usato in maniera decontestualizzata nei brani citati sopra. La nostra cultura elettronica è molto meno stratificata e solida rispetto a quella inglese, olandese o tedesca, per cui il termine venne utilizzato molto superficialmente. Quando arrivò nel 1990 ricordo chiaramente che per molti la grande novità fu la cassa in quattro tipica dell’house ma con più aggressività. Era un elemento molto semplice da copiare e venne fatto in modo sistematico. Da qui tutta una serie di incomprensioni acuite da una stampa poco attenta ed emittenti come Radio DeeJay che usarono il termine techno in maniera assolutamente impropria contribuendo a generare una confusione che si è protratta fino ad oggi.

May, nelle prime interviste rilasciate alle riviste europee, parlava della techno come musica che avrebbe accompagnato il futuro della civiltà umana ed obiettivamente, negli anni a seguire, quello fu il genere che meglio di tutti sposò l’idea del “domani”. Col passare degli anni però la techno ha inesorabilmente perso la visione, consumandosi e cristallizzandosi, sino a diventare un contenitore generalista per un pubblico altrettanto generalista. Ci saranno ancora slanci in avanti o dovremmo rassegnarci all’idea che il futuro fosse ieri, anche per la techno?
Ciò è accaduto per quello che scrivo nel mio libro. Se tutto ciò che ha una cassa in quattro con suoni più aggressivi diventa techno, come possiamo cogliere le numerose sfumature di cui parlavo agli inizi? Se la techno diventa solo una macchina da guerra sul dancefloor come si può pensare che abbia anche elementi diversi tipo quelli di Model 500 o Psyche? Quella interpretazione ha prevalso ed alcuni tra gli artisti di Detroit si sono adeguati ad essere ciò che non sono seguendo idee produttive più semplici. C’è ovviamente chi non lo fa, ma ormai l’idea generale di techno è compromessa rispetto a quella iniziale ed è molto difficile scalfirla.

Come immagini la techno della Motor City tra qualche decennio?
Onestamente non vedo un grande futuro per la techno di Detroit. I principali artisti non producono quasi più o non fanno musica con la visione di una volta. Tutto si è appiattito sul dancefloor e c’è poco spazio per sperimentare. Molti sono tornati a lavorare sulle radici della musica afroamericana tipo Theo Parrish, Carl Craig o gli Underground Resistance, perdendo quell’afflato universale degli inizi che rappresentava un ponte fra culture diverse. Non credo sarà quindi possibile tornare alla visione originale anche perché le necessità di stare nella scena corrente del clubbing e dei festival, con caratteristiche mediamente molto commerciali, porta inevitabilmente a scelte semplicistiche e banalizzanti.

(Giosuè Impellizzeri)

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Negozi di dischi del passato: Newstyle a Lecce

sticker su copertina
Vecchi dischi della collezione di Paolo, affezionato cliente di Newstyle. In alto si intravedono un 12″ della UMM, “Bla Bla Bla” di Gigi D’Agostino ed un 12″ della W/BXR, sotto invece “I Wanna Mmm…” di The Lawyer e “Shine On Me” di Gayà con lo sticker del negozio

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia di Newstyle col titolare Vito Forcignanò

Quando apre i battenti il negozio a Lecce, al 4A di Via Braccio Martello? E quali motivi ti spronarono a lavorare nel mondo della musica?
Inaugurammo nel dicembre del 1992. Ripensare al Newstyle anzi, “alla” Newstyle così come dicevano i tantissimi amici salentini utilizzando la declinazione al femminile, non posso fare a meno di raccontare un po’ di me stesso e le ragioni che mi portarono ad aprire quell’attività. Un ruolo da principale protagonista, ça va sans dire, lo ebbe la mia passione per la musica dance nelle varie diramazioni. Fui catturato, nei primi festini tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, dalle sonorità e dall’energia di pezzi come “Born To Be Alive” di Patrick Hernandez, “Don’t Let Me Be Misunderstood” dei Santa Esmeralda ed “Enola Gay” degli O.M.D., solo per citarne alcuni, proseguendo con tutta l’italo disco e il synth pop e rimanendo letteralmente folgorato dai Depeche Mode. Poi i primi balli in discoteca durante l’house music revolution con Joe Smooth, Todd Terry, Frankie Knuckles, Kraze…ed ancora l’italo house, l’hi NRG italiana e la prima techno. Durante l’adolescenza dedicavo tantissimo tempo ad ascoltare e registrare (su musicassetta ovviamente) programmi radiofonici. Seppur sia salentino d’adozione, sono nato e vissuto a Milano sino al 1990 quindi le emittenti lombarde, e più in generale del Nord Italia, ebbero un grande ascendente su di me. Fondamentale fu Radio DeeJay e in particolare il programma DeeJay Time dal quale ho attinto, sin dal 1986, parecchie novità in uscita, senza dimenticare tante altre stazioni storiche come Radio Milano International col compianto DJ Leopardo, predecessore ed ispiratore di Albertino, RTL 102.5 con le dirette del sabato sera, Italia Network ed altre radio locali sconosciute al sud e probabilmente estinte. La mia prima consolle domestica era composta da due giradischi Technics SL-BD22 (a cinghia e con pitch a rotellina) ed un mixer Davoli da 19″. I primi dischi invece li ho acquistati nel 1989, all’età di diciannove anni. Tra quelli figuravano “Just Keep Rockin'” di Double Trouble & Rebel MC, “Relax Your Body” di D.F.X., “Get Busy” di Mr. Lee, l’album “Pump Up The Jam” dei Technotronic ed “Hysteria” di Amnesia. Era il periodo in cui esplose l’hip house e la new beat finiva la sua corsa. Molti di quei dischi li comprai da Wimpy Music, noto negozio in Viale Monza, a Milano, a pochi passi dall’attività di ristorazione dei miei genitori. Dopo aver conseguito il diploma, nel 1990 mi trasferii a Lecce e mi iscrissi all’Università ripercorrendo quasi in senso inverso il cammino da immigrato che mio padre Rosario, originario di San Cesario di Lecce, fece negli anni Sessanta trasferendosi al nord. Nel “periodo sabbatico” post diploma, tra la fine del ’90 e i primi del ’91, frequentai parecchi party casalinghi disseminati in provincia, autentico lascito delle festicciole organizzate nei decenni precedenti, prendendo coscienza dello sviluppo che stesse vivendo la figura del DJ. Scoccò così una prima scintilla legata alle potenzialità di mercato di quello che per me come per tanti altri era solo un fantastico hobby. Un garage, un terrazzo, un corner di un ristorante, un canneto di un bar sulla spiaggia: in ogni possibile angolo poteva trovarsi una consolle ed aria di festa e divertimento. A luglio del ’91 partii per il militare rimandando gli studi a servizio di leva conseguito. Da lì a breve l’imprevedibilità della vita però bussò alla porta della mia famiglia, e la prematura scomparsa di mia madre, proprio mentre espletavo il servizio militare, creò un dolore indescrivibile che solo la musica che usciva dal mio walkman fu capace di lenire. Terminata la naja, a luglio 1992, meditai sul mio futuro: incamminarsi per il percorso studentesco o intraprendere un’avventura partendo dall’idea ambiziosa ma rischiosa di aprire un negozio per DJ? Adesso, ai tempi della globalizzazione con internet e multinazionali che hanno cambiato (secondo me in peggio) le regole del mercato del lavoro e della distribuzione e vendita di beni, chiunque sarebbe scoraggiato ad aprire una propria attività, soprattutto di rivendita, ma chi ha una certa età sa bene che la situazione commerciale e distributiva di quegli anni era florida e votata agli acquisti presso piccole realtà individuali e di quartiere. Davvero nulla faceva presagire, neanche lontanamente, che il mondo sarebbe cambiato così tanto nel giro di qualche lustro. Fino ai primi anni Novanta aprire un’attività commerciale propria era qualcosa di ambito ed agognato, e chi aveva idee e capacità economiche per realizzarle poteva ritenersi fortunato. Per questo non posso non ringraziare mio padre per tutto l’aiuto e i sacrifici compiuti affinché il progetto si realizzasse. Uno degli aspetti più complessi fu proprio convincerlo della validità della mia idea, ma per fortuna riuscii a spuntarla. Altrettanto problematico fu trovare l’ubicazione. Al contrario di oggi nel 1992 a Lecce (come presumo nel resto d’Italia) era davvero arduo trovare un vano negozio libero, sia in centro che in periferia. La fortuna volle che in via Braccio Martello, in piena zona Piazza Mazzini, ci fosse un posto sfitto composto da una superficie al pian terreno relativamente piccola, di 25 metri quadri, presumibilmente poco appetibile per le attività dell’epoca. Al piano inferiore però c’erano ben altri 140 metri quadri sfruttabili ad uso commerciale, e ciò mi convinse che quello fosse il posto perfetto. Dopo essermi accordato per l’affitto, inaugurai solo sul piano superiore ma non in pompa magna e senza ricorrere neanche alla pubblicità. Era il 16 dicembre del 1992. Ricordo ancora il primo cliente che varcò la soglia e il primo disco che vendetti, “Don’t You Want Me” di Felix (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda). Aprii il seminterrato al pubblico qualche mese più tardi, precisamente ad aprile del 1993.

Al punto vendita di Lecce viene successivamente affiancato quello di Maglie, in Via Capece. Perché un secondo negozio?
Aprimmo la sede di Maglie a maggio 1995. Fu una scelta conservativa ed espansionistica perché una buona fetta della nostra clientela proveniva anche dal sud Salento e per evitare che la concorrenza ci privasse di una sensibile parte di mercato, decidemmo di impiantare una filiale lì affidandone la gestione a mio fratello Dario. Il negozio fu allestito con non pochi sacrifici, rifacemmo la pavimentazione e i serramenti per avere lo stesso appeal e stile del punto vendita di Lecce, arredamento, loghi ed insegna compresa. Pure l’affitto, essendo in zona centralissima, era equiparabile a quello della sede principale. Lo chiudemmo alla fine di agosto del 2003 ed ebbe un ruolo importantissimo e fondamentale sino a quando è durata la “febbre del vinile”.

Newstyle
Il logo di Newstyle

Perché optasti per il nome Newstyle?
Derivò da una ragione sentimentale e nel contempo tecnica. Quella sentimentale era legata al sample dei Beastie Boys tratto da “It’s The New Style”, utilizzato spesso nelle intro delle musicassette a fine anni Ottanta da tanti DJ e riproposto dai Datura in un pezzo del 1991 che mi piaceva molto, “Nu Style”; quella tecnica era connessa invece al nome neutro: in caso di cambiamento di articoli trattati, avrei continuato ad utilizzare lo stesso marchio senza cambiare intestazione. Certo, DJ World o DJ Zone sarebbero stati più accattivanti ma mi sarei precluso la possibilità di espandermi verso altre tipologie merceologiche come difatti avvenne in seguito. Fu pertanto una scelta cautelativa ma che nel complesso ha portato fortuna e non solo perché new style, per definizione, è anche sinonimo di qualcosa di nuovo, un mezzo differente di approcciarsi al pubblico. È stato, per appeal estetico ed embrione di “brand” se vogliamo, qualcosa che provava a distinguersi dalle realtà commerciali dell’epoca. La busta, l’insegna, l’arredamento, gli adesivi, i colori sociali del giallo e del nero hanno fatto tendenza, e tuttora mi sento chiamare Vito Newstyle da molti ex clienti e non.

Che investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
Non posso specificare con precisione le cifre investite all’epoca ma lo sforzo economico, sommato alle energie spese per aprire il negozio di Maglie, fu veramente notevole. L’intenzione era quella di avere sin da subito un appeal professionale, accattivante e facilmente riconoscibile al pubblico. Come già accennato, non tralasciammo i dettagli estetici per ottenere riconoscibilità ed uniformità nel marchio. Mobilia personalizzata, vetrine, materiale pubblicitario come adesivi per vinile, adesivi per copertine, per flight case, gadget, buste personalizzate, davvero niente fu lasciato al caso. Ogni particolare, dai pomelli gialli delle vetrine nere al controsoffitto in doghe alternate gialle e nere, era studiato per far immergere il cliente in una realtà completamente nuova, appetibile e ben definita.

C’erano altri negozi di dischi come il tuo nella stessa città?
La lacunosa offerta, sia in città che in provincia, rapportata alla crescente richiesta di dischi mix per me fu un forte incentivo ad aprire Newstyle. In tutta la provincia di Lecce non esisteva un negozio completamente dedicato ai disc jockey. Vi erano due o tre negozi di dischi generici che trattavano il settore dei cosiddetti “mix” (giusto una manciata sparsi qua e là) ma senza cognizione di causa, spesso dettati più da arrivi casuali o rilevati dalle classifiche (all’epoca assai influenti) che da scelte ponderate. Talvolta lo stesso venditore tendeva più ad imporre il proprio gusto che assecondare le esigenze del cliente. Totalmente o quasi assenti le strumentazioni e gli accessori relegati solitamente ai negozi di strumenti musicali. Dopo la nostra apertura sorsero altre realtà simili (la virtù insegna che copiare è una forma d’arte!) tra cui un Match Music Store, favorito da tanto supporto pubblicitario a livello nazionale ma a cui, con orgoglio e sacrificio, sono riuscito a resistere. Chiuse pochi anni dopo l’apertura.

disco con adesivo
L’adesivo personalizzato per l’etichetta centrale del disco

Come era organizzato il punto d’ascolto nel negozio di Lecce?
Quello principale contava su un mixer da 19″, due immancabili Technics SL-1210 ed amplificazione Outline Digital 400+400 watt. Al centro della sala, nel piano interrato, vi erano inoltre quattro giradischi Gemini entry level a cinghia completi di amplificatore per cuffia allestiti come punti di ascolto indipendenti.

Che generi musicali trattavate? E quali erano i più richiesti?
A fare da padrone tra i generi più venduti è stato ovviamente il mainstream, quello coi cavalli da battaglia del momento. Le hit “commerciali” erano immancabili e le richieste davvero fortissime. C’erano la novità della settimana, le hit consolidate ma anche svariati outsider che riuscirono a conquistarsi una fetta di mercato. Grandissimo spazio lo aveva pure il revival, perlopiù inciso su dischi multitraccia talvolta privi di licenza ufficiale. Quindi, in linea di massima, si vendeva di tutto, sia italiano che d’importazione, dalla dance più cheesy alla house/underground passando per la techno, l’acid jazz, il downbeat e il revival.

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
La settimana di apertura partimmo con poco meno di trenta dischi ma di giorno in giorno fu un crescendo continuo. Il periodo migliore è stato quello compreso tra 1993 e 1997 in cui vendemmo oltre seicento dischi a settimana, praticamente cento al giorno di media. Da quel momento in poi ci fu un lento calo fisiologico dovuto sia alla concorrenza, sia alla disaffezione verso la pratica del DJing. Dal lunedì al giovedì si vendevano circa cinquanta dischi al giorno, il venerdì ma soprattutto il sabato il negozio diventava una sorta di supermercato e pullulava di persone che facevano man bassa di dischi e si recavano direttamente alla cassa senza neanche ascoltarli, essendo la consolle e i punti d’ascolto costantemente occupati. Chi ha conosciuto Newstyle a fine anni Novanta o addirittura dal 2000 in avanti non ha minimamente idea di ciò che sia stato negli anni d’oro appena descritti, quando circolavano cifre pazzesche.

Vendevate anche per corrispondenza?
No, nessuna spedizione a distanza semplicemente perché ai tempi era una prassi scarsamente usata, soprattutto spedire dal sud verso sud. Si è andata sviluppando perlopiù tramite realtà come Disco Inn e Disco Più spinte da pubblicità sulle riviste specializzate. La tendenza semmai era appunto spedire dal settentrione verso meridione. Tuttavia alcuni DJ acquistavano per corrispondenza reperibilissima musica commerciale causa l’atavica ed errata convinzione che al nord i dischi uscissero un mese prima rispetto al sud. Discorso diverso per promo ed import dove il proprio gusto e le proprie capacità economiche potevano richiedere un impegno non facilmente gestibile. Molti clienti hanno ignorato per anni che i fornitori fossero praticamente gli stessi per tutti i negozi di dischi sparsi in Italia. La differenza, in merito ai promo o alle chicche d’importazione, stava nel rapporto che si creava col negoziante. Vendere l’import (che per noi esercenti voleva dire acquistare materiale senza possibilità di resa al distributore) era assai rischioso, a meno che non si trattasse di hit affermate e consolidate. Ogni disco invenduto rappresentava una perdita mostruosa che per essere ripagata richiedeva la vendita di tre o quattro copie andate a buon fine. Talvolta venivano clienti sporadici che magari passavano una manciata di volte all’anno ma pretendevano ugualmente di trovare tutto il catalogo Azuli piuttosto che quello di Nite Grooves o di Tribal America, giusto per citare qualche etichetta blasonata ai tempi. Non funzionava così e molti non lo hanno mai capito. Un conto era vendere David Morales licenziato su D:vision, sempre disponibile e facilmente rifornibile, un altro era pretendere di trovare un titolo d’importazione magari uscito un mese prima. Coloro che invece costruirono con noi un rapporto fiduciario, fatto di preordini o semplici richieste, hanno sempre avuto la loro copia da parte e difficilmente non ho accontentato qualcuno.

Afrika Bambaataa - Pupunanny
La copertina di “Pupunanny” di Afrika Bambaataa (DFC, 1994), best seller da Newstyle

Quali sono stati i best seller di Newstyle?
Per rispondere a questa domanda faccio appello ad appunti dettagliati, rigorosamente battuti a macchina da scrivere, in cui segnavo i titoli degli arrivi settimanali, quantità di vendite e rimanenze. Tra i best seller alcune delle hit dance ancora in voga come “The Rhythm Of The Night” di Corona o “Children” di Robert Miles (di cui parliamo rispettivamente qui e qui, nda), ma al primo posto, con ben 175 copie vendute, c’è “Pupunanny” di Afrika Bambaataa.

C’erano DJ noti che frequentavano Newstyle? Ad essi erano riservati trattamenti particolari o margini di sconto?
Un passaggio all’interno del mio negozio lo hanno fatto tutti, dagli amatori ai dilettanti, dai DJ delle festicciole ai professionisti più o meno noti della provincia, sia di Lecce ma anche del brindisino e del tarantino. Alcuni erano assidui, altri un po’ meno, ma sempre col massimo della trasparenza e reciproco rispetto. Dopo i successi iniziali dei primissimi mesi di attività vennero a farmi visita alcuni DJ “noti” ma non per fare acquisti. Ascoltarono pochissimi dischi facendomi presente che si rifornissero da altre parti, nel barese o per corrispondenza. Nei venti anni successivi non si sono più fatti rivedere. Probabilmente si trattò di una reazione dettata dall’invidia ma va bene così, non si può piacere a tutti. Ho cercato di assumere un comportamento omogeneo e corretto verso la clientela, che fosse un semplice amatore o un grosso acquirente. Spesso e volentieri, dal semplice rapporto negoziante-cliente, con molti frequentatori si passava al livello successivo di profonda conoscenza se non di amicizia ed era pratica comune, quando il tempo lo permetteva, di concederci una pausa al bar per una consumazione conviviale. Da Newstyle inoltre il costo dei dischi è stato sempre competitivo, per anni sono riuscito a contenere il prezzo del mix italiano nelle 10.000 lire quando da altre parti costava già 11.000 o 12.000. Per la scontistica si faceva quel che si poteva, più che altro si effettuava un po’ di credito, anche troppo direi (risate).

Quale fu la richiesta più stramba, particolare o assurda avanzata da un cliente?
C’era chi credeva che nascondessi qualche “bomba” da parte destinata a presunti DJ più meritevoli, e ripensare a questa cosa adesso mi crea ancora ilarità. Capitava pure di imbattersi in clienti in cerca di versioni ascoltate in radio introvabili su vinile, sicuramente frutto di remix, edit o mash-up. Un tizio invece si lamentò del fatto che, a suo parere, in radio i mix “suonassero” meglio rispetto a quelli del negozio, ignaro che negli studi radiofonici fossero in uso processori del suono per migliorare il segnale ed enfatizzarlo.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente? Seguivi un metodo per filtrare e selezionare la merce da acquistare?
Le novità giungevano quasi quotidianamente, dal lunedì fino al carico last minute del sabato. La lista delle nuove uscite ci perveniva via fax ed adottavo un filtraggio (applicato sia ai mix italiani che stranieri) secondo l’etichetta, l’artista e l’eventuale notorietà del brano. È capitato per esempio di ordinare ben cento copie di un 12″, praticamente un collo intero, e terminarlo nel giro di cinque giorni appena, e se non sbaglio ciò avvenne con “Brothers In The Space” di Aladino, nell’autunno del 1993.

Quanto influiva sul rendimento di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ “di grido”?
Il passaggio radiofonico era fondamentale per le vendite. Le emittenti, sia locali che nazionali, influenzavano parecchio le scelte del pubblico ma nonostante ciò notai tanto buon gusto emergere da parte della mia clientela, comunque orientata sempre ad un genere di musica “passabile” nelle realtà locali delle feste salentine. Non mancarono tantissimi acquirenti che rimasero fermi invece alle proprie scelte stilistiche, stazionando su generi ben definiti ed esclusivi come techno, trance ed house, indipendentemente dalla promozione radiofonica.

C’è stato un momento in cui hai avuto l’impressione che il trend di vendite ed interesse si stesse invertendo?
Quando il mainstream radiofonico comprese le potenzialità del fenomeno dance, tutto si trasformò in un carrozzone che vendeva “fumo”, finalizzato quasi esclusivamente a realizzare facili guadagni. Dal 1995 in poi la qualità calò a picco nella dance commerciale e, nonostante i passaggi radiofonici, le vendite risultarono ben poco convincenti rispetto al più vicino passato. Il declino di quegli anni bui complicò le cose e la house pian piano soppiantò l’eurodance. Dalla fine degli anni Novanta in poi proposi cose più “morbide” e “mature” dal profumo house o progressive house e tendenzialmente meno dance, nonostante i grandi successi di Gala e di altri artisti simili. Dal 1999 Eiffel 65 e Gigi D’Agostino diedero nuovo impulsi su vasta scala ma ormai il declino era iniziato e nel successivo quadriennio, più che proporre e far ascoltare personalmente i dischi, era il cliente ad optare per il self listening senza più richiedere quindi il mio supporto. Vista la situazione, iniziai a dedicare più tempo ad attività parallele ed economicamente più redditizie che erano sorte nel negozio.

Alcuni negozi di dischi sono stati pure la culla di produzioni discografiche e conseguentemente di etichette. In tal senso avevi preventivato qualcosa di simile? Ricordo che nel piano interrato c’era una piccola stanza in cui ti dilettavi a comporre…
In fondo al piano inferiore del negozio c’era una stanzetta che, oltre ad essere la base operativa per banali pratiche amministrative, era anche uno studio di registrazione. Allestito sulla base di nozioni empiriche e scopiazzate da riviste, inizialmente era composto da un mixer Roland a 16 canali, un computer Atari ST-1040 (poi sostituito da un PC), un sintetizzatore Roland JD-800, una batteria elettronica Roland R-8 MKII, un campionatore Roland DJ-70, un MIDI patchbay sempre Roland, due diffusori Arbour Indiana Line, un sub ed un microfono Sennheiser, oltre ad un buon trattamento di fonoassorbenza sulle pareti. A ciò si aggiunse una consolle con mixer Outline 405 con cui, per molti anni, ho realizzato la “cassettina del mese” venduta a 10.000 lire, eredità delle cassette vendute illegalmente nel retro delle consolle di tutte le discoteche. Quello studio rappresenta la nota dolceamara del Newstyle. Da autodidatta, mi buttai nel mondo della produzione imparando più dalla pratica che dalla teoria visto che i manuali non erano facilmente reperibili e non c’era nessuno a spiegarti i concetti di MIDI, di sintesi, di campionamento o di sound design. I primi anni Novanta mi videro impegnato ore ed ore nell’attività di vendita a stretto contatto col pubblico e ciò non mi lasciò sufficienti energie per sviluppare qualche brillante idea e tantomeno il tempo da dedicare alla produzione discografica. A ciò si aggiunse qualche intoppo tecnico, problemi col mixer (ne ho bruciati tre!) e coi primi hard disk con la conseguente perdita di dati. Mi ritrovai a metà degli anni Duemila con poca voglia e poche idee. Oltre a qualche lavoro di broadcasting, montaggio e jingle per conto terzi, le produzioni sono state veramente poche. Il cassetto era pieno di progetti ma sono rimasti tutti lì, nel cassetto dei sogni.

Vito Forcignano col vinile di Why
Un recentissimo scatto di Vito Forcignanò con “Why?” di Al Tarf – Melody

Qualche produzione discografica la hai comunque incisa, come “Why?” di Al Tarf – Melody, oggi ben quotata sul mercato collezionistico, ed un paio di 12″ firmati Bass Club per la milanese Masters Of Funck (gruppo Hitland). Potresti raccontare, anche dettagliatamente, i retroscena di queste pubblicazioni?
“Why?” venne finalizzato partendo da un’idea di Adriano Urso, un amico che conobbi nel 1993 ad Andrano, un piccolo paesino in provincia di Lecce. Adriano veniva spesso a trovarmi in negozio ed un giorno imprecisato del 1997 si presentò con un interessante arrangiamento eseguito live fatto da piano e voce. Convinti che fosse un buon punto d’inizio, ci mettemmo al lavoro. All’attrezzatura prima descritta si aggiunse una tastiera Korg 01/W da cui prendemmo il pianoforte ed altri suoni tra cui pad ed effetti vari. Sul 12″ finirono tre versioni, la Radio Version, la Power Version e la Dream Version. Nella Radio Version, praticamente l’Original Mix nata dall’idea iniziale, compare uno stupendo giro di pianoforte che rappresentava l’elemento portante, oltre al testo cantato dallo stesso Adriano. Il suono del basso in levare invece fu programmato da me sulla Roland JD-800 in stile dream progressive. L’arrangiamento e i suoni della Power Version, caratterizzata da un sintetizzatore tipicamente eurodance, vennero curati principalmente da me, ed infine la Dream Version fu il risultato della fusione delle idee di entrambi. Di questa ultima versione rammento ancora l’automazione su Cubase dei volumi delle due voci del pizzicato che si alternano. Al tutto si aggiunse l’aiuto prezioso di Alberto Costantini che si occupò, nel suo studio più attrezzato, della registrazione della parte vocale, dell’effettistica post primo mixaggio e della masterizzazione finale che per ovvie ragioni tecniche non potevo realizzare nel mio studiolo. Dopo averla incisa su DAT, mandammo la traccia alle principali etichette italiane che all’epoca si occupavano di dance ma a mio avviso la snobbarono in quanto la dream progressive stava ormai tramontando dopo i grandi fasti del 1996. A quel punto Adriano decise di autofinanziarsi e stampare un certo numero di copie del disco da solo, con notevoli sacrifici. Creò quindi una sua etichetta, la DBS, ma senza contare sul supporto di nessuna distribuzione. Io non contribuii al finanziamento economico, non per mancanza di fiducia nel progetto e nel brano stesso ma perché stavo iniziando a rivolgere i miei investimenti verso altri settori merceologici come quello della vendita di videogiochi domestici che, da lì a poco, presero il posto dei dischi nella mia attività lavorativa. Riascoltare “Why?” mi rende veramente soddisfatto del lavoro svolto insieme ad Adriano ed Alberto. Il disco suona bene, gira su un testo non banale e chiaramente poetico e spero che il suo “successo” su Discogs non sia legato esclusivamente alla rarità ma anche alla qualità. Chi ha amato l’eurodance in voga a metà degli anni Novanta non potrà fare a meno che collegarlo al filone dream traendone giudizi positivi.
Nel progetto Bass Club, dal tiro funky house, invece ho ricoperto un ruolo più marginale legato perlopiù all’assistenza tecnica come supervisore di studio e mixaggio. A tal proposito lascio quindi la parola all’amico ed autore Daniele Miglietta: Iniziai a creare musica a sedici anni, nel 1990, quando ebbi l’opportunità di utilizzare per la prima volta un software per la composizione su piattaforma Amiga. Cominciai creando pezzi house/techno sfruttando le limitate potenzialità di campionamento del computer. Il progetto Bass Club nacque nel 1996, anno in cui il mio gusto musicale si spinse verso sonorità house/funk. La collaborazione con Vito Forcignanò però ebbe inizio già nel 1994 quando mi poggiavo al suo piccolo studio di registrazione allestito all’interno di Newstyle. La prima produzione fu “I’ve Got To Know”, pubblicata nel ’97 dalla Masters Of Funck e basata su sonorità disco/funk anni Settanta rielaborate in chiave house. Ai tempi il modo di produrre musica era strettamente legato alla tecnologia e non si poteva ancora usare il computer come registratore multitraccia. Il PC fungeva da semplice sequencer MIDI per gli strumenti musicali, tutti i suoni venivano miscelati attraverso un banco mixer analogico e registrati su supporto magnetico digitale, il DAT. Per l’incisione del basso elettrico mi rivolsi all’amico Andrea Colella. Realizzare “I’ve Got To Know” non fu semplice: tutti i suoni della drum machine Roland R-8 MKII, delle sequenze ritmiche, dei loop di chitarra e basso e delle voci erano stipati nella memoria di un campionatore Roland DJ-70 che, seppur dotato di espansione di 2MB di RAM, non era sufficiente. Ricordo ancora il mio sconforto nel capire che non sarei riuscito a fare quello che volevo dopo tanto lavoro. Fortunatamente dopo pochi giorni Vito riuscì a procurarsi un secondo Roland DJ-70 e non credevo ai miei occhi, avevo a disposizione “ben” 4 MB di memoria! Ascoltando l’Extended Mix si può immediatamente riconoscere un sample proveniente da un favoloso brano di Hamilton Bohannon mentre il groove ricorda molto le sonorità disco. La Rewind Mix invece strizzava l’occhio alle sonorità trip hop ma anche all’house più deep. In quella versione cercai di sfruttare appieno le capacità del Roland DJ-70 filtrando i campioni e facendoli suonare pure in reverse. Il secondo 12″ di Bass Club, ancora pubblicato dalla Masters Of Funck, giunse nel 1999, periodo in cui ormai i computer potevano essere impiegati ampiamente anche come sampler agevolando enormemente il lavoro di produzione e di mixaggio. Così realizzai “You Get The Power Of Love” ed affidai nuovamente le parti di basso ad Andrea Colella. In quella traccia utilizzai in modo intensivo la Yamaha CS1x, strumento che si prestava molto bene alle sonorità electrofunk che volevo inserire all’interno. A differenza del precedente però, non feci leva su nessun campionamento illustre ma cercai di costruire un groove tipicamente anni Settanta con l’uso di suoni che richiamavano l’organo Hammond, il Clavinet e tutti i sintetizzatori analogici old school. In seguito abbandonai il progetto Bass Club per lavorare ad altri come Cuban Dance Affair, Afrobeat, Danny Manetti e Black Zone Ensemble con cui ho pubblicato diversi singoli e due album.

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare in modo sensibile le vendite e il fatturato?
Le vendite subirono un leggero calo fisiologico tra 1996 e 1997. Da quel momento in poi fu un declino lento ma costante che purtroppo continuò anche quando rimasi l’unico a vendere dischi per DJ a Lecce, dopo la chiusura di tutta la concorrenza.

busta Newstyle (fine anni '90)
La busta di Newstyle risalente alla fine degli anni Novanta, quando il negozio vende anche videogiochi e non più solo dischi ed attrezzature per DJ

A tuo parere ci fu qualcosa ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Le ragioni furono multiple. La prima ondata di disaffezione per me venne influenzata da regolamentazioni di carattere pubblico-amministrativo. Mi spiego meglio: come raccontavo prima, l’enorme numero di party non ufficiali fu il primo indizio che mi fece intravedere, agli inizi degli anni Novanta, un potenziale mercato per la diffusione e vendita dei dischi per DJ. Nella seconda metà del decennio però iniziò una feroce ma lecita caccia alle feste abusive. Partivano task force capitanate dalla SIAE con carabinieri al seguito che generarono sequestri di attrezzature, multe salate e denunce varie. Per quanto idilliaca e romantica, la situazione dei piccoli party organizzati nei garage e nelle ville con ingresso a 5000 lire o con consumazione obbligatoria, non poteva più reggere per tutta una serie di problematiche, quelle di sicurezza in primis. Di conseguenza tantissimi DJ che ammortizzavano le spese dei dischi con gli introiti di quelle feste decisero di mollare. Ciò creò subito un vuoto, sia nel comparto dei dischi che in quello delle attrezzature. Le uniche occasioni per esibirsi restavano legate ai locali ufficiali che però nella provincia di Lecce si contavano sulle dita di una mano. La seconda ragione della disaffezione invece è legata ad un calo di interesse generale per la musica avvenuto nella prima metà degli anni Duemila, quando altri media, come i videogiochi domestici (PlayStation ed affini) presero il sopravvento riuscendo a conquistare i giovani.

Ad inizio nuovo millennio gran parte dello spazio nel piano interrato di Newstyle fu occupato da vari PC destinati ad essere utilizzati con scopi ludici (videogame in modalità multiplayer tramite rete LAN) o per connessioni internet, ai tempi ancora scarsamente diffuse nelle case. La tua scelta, analoga a quella di un altro importante negozio di dischi di cui si parla qui, il Rebel Grooves di Anversa nato dalle ceneri del Blitz, lì dove nacque la Bonzai Records, mirava forse a bilanciare le perdite nel settore della musica?
Iniziai a vendere videogiochi già nel 1997 proprio per contrastare il calo di vendite dei dischi e degli accessori legati al DJing. Nel 2001, dedicando sempre più tempo al fenomeno dei videogame, ebbi l’intuizione di creare una LAN, in principio composta da quattro PC collegati in Rete, ed offrire al pubblico l’opportunità di navigare e giocare in multiplayer che allora era un termine semisconosciuto. Nell’arco di pochi anni il numero dei PC si moltiplicò sensibilmente ed arrivai a metterne ben diciotto a disposizione. Frequentato in prevalenza da adolescenti e studenti universitari, Newstyle continuava ad essere sempre pieno, sia di mattina che di pomeriggio, seppur per ragioni diverse rispetto a quelle dell’inizio. È stato così sino al 2010. Poi gli effetti della crisi finanziaria e della new economy, che hanno spinto il cliente sempre più verso l’home demand di merci e servizi, si fecero sentire pesantemente, sia nell’ambito della LAN che nella vendita al dettaglio di videogiochi.

screensaver-login del periodo della Lan, logo ridisegnato
Screensaver/login dei computer di Newstyle nel periodo della LAN multiplayer. Il logo viene ridisegnato ex novo

Quando chiude New Style a Lecce?
Dal 2005 ormai ci occupavamo esclusivamente di vendita di videogiochi e consolle casalinghe e dell’area ricreativa del centro internet/LAN multiplayer. Il fatidico giorno arrivò il 31 dicembre 2012. Fu ovviamente una decisione maturata da mesi, eravamo in piena crisi economica e nonostante il 2008, il 2009 e parte del 2010 furono tutto sommato positivi, alla fine di quell’anno registrammo un sensibile calo delle presenze nella LAN sino a raggiungere preoccupanti cifre nel 2011 e 2012. La contrazione dei consumi e l’apertura di una multinazionale concorrente nelle vendite dei videogiochi proprio nei pressi del negozio ci diedero il colpo di grazia, non era più possibile sostenere l’elevato affitto e le spese di gestione. Chiudere Newstyle fu ovviamente una scelta molto sofferta, soprattutto dal punto di vista emotivo. Contraddistinta dalla struttura camaleontica del marchio che transitò dal mondo dei DJ a quello dei videogiochi, Newstyle la considero una “creatura” che si è evoluta per rimanere in vita quanto più tempo possibile. Abbassare definitivamente la saracinesca fu altrettanto duro dal punto di vista individuale perché, analogamente a tantissime altre persone, mi sono ritrovato a dover cercare un nuovo lavoro in un mondo sempre meno propenso ad offrire opportunità. Il destino di Newstyle, ma pure il mio e quello di mio fratello, è simile a quello di tante altre attività storiche italiane, talvolta centenarie, di aziende familiari costrette a dover chiudere battenti nell’ultimo ventennio.

Pensi che in futuro ci sarà ancora spazio per i negozi di dischi? La collocazione geografica potrebbe rivestire una valenza primaria in questo tipo di attività?
Newstyle era ubicato a Lecce, una città di circa 100.000 abitanti, non certamente paragonabile a Milano o Roma, e credo che la bellezza del fenomeno fu anche legata a questo. Oggi, quando sento parlare di negozi di dischi (qualche nostalgico mi ha persino invitato a riaprire Newstyle!), mi viene solo da sorridere. I sacrifici per mettere in piedi un’attività devono essere ripagati dagli incassi. Non si può pensare di aprire un punto vendita per hobby o farne la propria discoteca in cui esporre in vetrina o sui muri i propri gusti e le copie introvabili. Aprire un buco per vendere dieci dischi al giorno, in una realtà come quella salentina, non mi pare una grande prospettiva. Possono esistere casi in cui, ad esempio, il titolare dell’attività sia anche il proprietario delle mura del negozio: in tale eventualità una bella parte di costi sarebbero abbattuti e il gioco varrebbe la candela, accontentandosi di vendere una manciata di dischi al giorno e qualche gadget. Ma la realtà di un negozio di vendita al dettaglio, indipendentemente dalla classe merceologica trattata, è una cosa seria, e non vorrei passare per uno che voglia impartire lezioni di economia. Auguro tutto il meglio e lunga vita a chiunque voglia intraprendere questo tipo di attività o a chi la pratica già, ma i potenziali numeri di vendita sono veramente bassi e di conseguenza anche i margini di guadagno.

Cosa c’è adesso al posto dei negozi di Lecce e di Maglie?
A Lecce un’agenzia immobiliare, a Maglie non ne ho la più pallida idea.

Qual è la prima cosa che ti viene in mente ripensando a Newstyle?
Una bella fetta della mia vita, purtroppo fatta a pezzi ed ingoiata dalla tanto acclamata new economy, dal silenzio delle istituzioni che vedevano (e vedono ancora) chiudere ditte individuali ed aziende una dietro l’altra senza muovere un dito. Proprio quelle ditte ed aziende che rappresentavano la linfa vitale dell’occupazione ed una fonte enorme di introito fiscale che ha tanto giovato alle casse statali. Nel contempo però Newstyle mi fa sentire orgoglioso con la giusta dose di nostalgia nell’aver creato qualcosa di irripetibile che rimarrà scolpita per sempre nella mia memoria e di quella di tanti altri affezionati, clienti ed amici che non ci hanno mai dimenticati e a cui adesso rivolgo i miei più calorosi saluti e ringraziamenti.

(Giosuè Impellizzeri)

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Age Of Love – The Age Of Love (DiKi Records)

Age Of Love - The Age Of Love

I dibattiti sulla genesi di vari generi musicali infiammano costantemente gli animi degli appassionati, specialmente ai tempi dei social network. Su house e techno le teorie si sprecano ed aumentano di volta in volta per mano di chi cerca a tutti i costi la retrodatazione forse ambendo ad uno scoop giornalistico. Il discorso riguarda pure la trance le cui origini vengono solitamente ricondotte ad una triade di brani: “What Time Is Love?” dei britannici KLF (col sottotitolo Pure Trance 1 esplicitato in copertina), “We Came In Peace” dei tedeschi Dance 2 Trance e “The Age Of Love” degli italiani Age Of Love. Da qualche anno a questa parte qualcuno tende ad aggiungerne pure un quarto, prodotto in Italia nonostante il titolo in lingua teutonica, “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo qui. A livello di nomenclatura invece, se da un lato DJ Dag, qua, pare rivendicarne la paternità, dall’altro c’è chi attribuirebbe il merito a Klaus Schulze con l’album “En=Trance” del 1988 o a Chris & Cosey con “Trance” del 1982 (a cui nel 1985 si aggiunge “Technø Primitiv”, a rimarcare un certo senso di preveggenza su musiche future). Annoverando nell’indagine anche quei pezzi che parrebbero proto trance (come alcuni dei Delerium, nati da una costola dei Front Line Assembly, o il raro “Trance” del compianto Angus MacLise, 1987) si finirebbe però col perdere la bussola ed anche il senso della ricerca stessa. Scovare similitudini a posteriori non proverebbe granché visto che tutta la musica è costruita su continui rimandi a cose preesistenti. È fuor di dubbio comunque allacciare i primordi e l’innesco della trance a soluzioni armoniche e melodiche che diventano il nucleo della composizione, propellente ideale per imprimere una spinta nonché quid perfetto per differenziare quel filone stilistico da altri nati poco prima come house e techno. Tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta però le categorizzazioni non esistono ancora, le nuove musiche che si sviluppano tra Stati Uniti ed Europa appartengono ad un substrato culturale che assimila di tutto.

La trance di quel periodo è figlia della techno europea che punta a cullare l’emozionalità e non solo a soddisfare le esigenze del movimento, limitando gli elementi più aggressivi tipici della rave music a favore di impalcature armonico e melodiche intrise di retaggi new age, ambient e suoni tipici delle sonorizzazioni. “Musica per mente e spirito” dirà più di qualcuno tempo dopo. “The Age Of Love” sposa esattamente questo concept. La Flying Mix, incisa sulla Vocal Side (a cui si sommano altre due versioni annesse alla Deep Side, la New Age Mix e la Boeing Mix, derivate dalla stessa idea, oltre ad una più stringata Radio Version) è un sogno lungo poco meno di sei minuti in cui ghirigori paradisiaci ammorbidiscono il martellio della cassa in quattro. Un sinuoso arpeggio si somma ad un breve inserto vocale sinora attribuito, persino da fonti considerate attendibili come Wikipedia e Discogs, a Karen Mulder, celebre modella olandese, ma come si vedrà più avanti il suo coinvolgimento risulta totalmente infondato. Una voce maschile più roca poi fa da contraltare alla prima. È quella di Giuseppe Chierchia che il grande pubblico conosce come Pino D’Angiò, finito negli annali per la hit del 1980 “Ma Quale Idea”, trainata da un caratteristico disegno di basso ispirato da “Ain’t No Stoppin’ Us Now” di McFadden & Whitehead di poco tempo prima. Ad orchestrare tutto in “The Age Of Love” è un musicista italiano residente in Francia, Bruno Sanchioni. A pubblicare il disco nel 1990, sia su 12″ che 7″, è invece un’etichetta belga, la DiKi Records di Roger Samyn, nata nel retrobottega del suo negozio di dischi, il Disco King di Mouscron a cui il nome stesso fa riferimento (DiKi è l’acronimo di Disco King). Nel 1990 però non succede niente. Una manciata appena di licenze (in Francia e in Germania, rispettivamente su Airplay Records e ZYX Records che infilano il pezzo in qualche compilation sperando di rientrare almeno nei costi) lascerebbero supporre un flop discografico.

01) Age Of Love - The Age Of Love (J&S Remix)
La copertina che accompagna i remix di “The Age Of Love” realizzati da Jam & Spoon e pubblicati nel 1992

Bisogna attendere due anni affinché la situazione si ribalti completamente e ciò avviene per merito di un remix ad opera di un duo tedesco formatosi a Francoforte nel ’91, Jam & Spoon. La loro Watch Out For Stella Club Mix rimette tutto in discussione attraverso una schematizzazione diversa degli elementi di partenza che esalta il potere ipnotico della versione originale raggiungendo esiti virtuosistici inaspettati. Da quel momento per “The Age Of Love” cambia davvero tutto. «Ricevemmo la proposta di remix da un’etichetta britannica, la React» rammenta oggi Jam El Mar. «Per me la versione originale era già un successo e nei club specializzati di Francoforte la suonavano tutti. Ricordo quando Mark (Spoon, nda) entrò in studio dicendo “hey, allora dobbiamo remixare “The Age Of Love!”. Gli risposi “diavolo, è proprio così!”. Ci vollero appena due giorni per completare il lavoro, eravamo in una fase particolarmente creativa ed ispirata, trovammo il giusto flow, cosa che purtroppo non avveniva molto spesso. Ricostruimmo la sequenza originale con uno Yamaha TX802 ed un campionatore Akai S1000, i suoni sognanti erano di un Oberheim Xpander, i cori nel break di un E-mu Proteus mentre il pad di un Roland D-50. Alla Watch Out For Stella Club Mix aggiungemmo una seconda versione, la Sign Of The Time Mix in battuta spezzata che era una sorta di Dub Mix, per usare un termine in voga ai tempi. I diritti, negli anni, sono transitati attraverso diverse etichette e sono abbastanza sicuro che siano state vendute oltre 500.000 copie, magari anche di più, ma non ho certezze in tal senso. Il compenso per il remix fu pari a 1000 sterline e non sapemmo nient’altro dopo averlo consegnato. Purtroppo non ho mai avuto occasione di incontrare Sanchioni e Chierchia nonostante abbia suonato spesso in Belgio. Credo che abbiano apprezzato la nostra versione perché ci proposero di produrre un intero album di Age Of Love, progetto che non andò in porto perché eravamo già impegnati con l’LP di Jam & Spoon. “The Age Of Love” resta senza dubbio uno dei primi brani trance della storia, diventato una specie di modello per tante produzioni successive. La scena techno si è legata maggiormente al remix (in questi anni ho sentito suonarlo più volte da Nina Kraviz) e sono felice quanto onorato di aver messo le mani insieme a Mark su un pezzo di tale fattura, ma non dovremmo dimenticare ciò che fecero Sanchioni e Chierchia: senza la versione originale non ci sarebbe mai stato il nostro remix».

Dalle risicate licenze del 1990 si passa a decine di richieste provenienti da tutta Europa e persino dagli Stati Uniti. Ad accaparrarsi i diritti per l’Italia è la milanese Dig It International che ristampa il brano nel ’92 su una delle sue tante etichette, la S.O.B. (Sound Of The Bomb). Una nuova tornata di remix giunge nel 1997 quando arrivano le versioni di Paul van Dyk, Secret Knowledge, Baby Doc ed Emmanuel Top a cui ne seguono altre ancora, nel ’98, realizzate da Brainbug e Johnny Vicious. Ma la lista diventa interminabile se si estende la ricerca al nuovo millennio con ulteriori remix di Marco V, Mr. Sam & Fred Baker, Marc Et Claude, Cosmic Gate, Wrecked Angle, Abel Ramos & Matt Correa, Manu Kenton, Koen Groeneveld, Wippenberg, Franco Maldini, Manuel De La Mare, Tempered DJ’s, Sub Scape, Syndaesia, Ed Solo, David Forbes, Solomun ed altri ancora, non sempre ufficiali. Appare palese dunque che a poco più di trent’anni dalla pubblicazione, “The Age Of Love” si sia trasformato in un autentico evergreen, proposto ed apprezzato anche da DJ di una generazione diversa rispetto a quella che lo vede giungere nei negozi di dischi per la prima volta.

02) cartolina usata da Patrick Gypen
La cartolina sacra a cui Patrick Gypen si ispira per realizzare la copertina di “The Age Of Love”

Allo stesso modo pure la copertina, legata all’iconografia sacra, è diventata un elemento distintivo. A realizzarla è Patrick Gypen che, contattato per l’occasione, racconta: «Sono cresciuto in una famiglia cattolica con una solida educazione religiosa. Nella mia stanza c’era una piccola statua della Madonna che mia madre mi portò da Lourdes. Durante il giorno “assorbiva” la luce solare per rilasciarla durante le ore notturne attraverso un bagliore verdastro, simile a quello delle lucciole. La Madonna è il simbolo dell’amore così mi parve adeguato usare la sua immagine quando, anni dopo, dovetti elaborare la copertina per un brano chiamato “The Age Of Love”. Ho iniziato a curare il design di copertine di dischi sin dai primi anni Settanta. Intorno alla metà del decennio successivo lavoravo per case discografiche belghe ed olandesi come Indisc, USA Import Records, ARS Records, Sony, EMI, R&S, DiKi Records e parecchie altre che sorsero in Belgio durante l’epopea della new beat, dal 1988 in poi. Il mio lavoro subì una drastica accelerazione dopo aver acquistato un Apple Macintosh SE/30, nel 1989, con cui finalmente potevo creare un’intera copertina (artwork vettoriale, scritte coi caratteri da me disegnati, logo ed altro ancora) senza più ricorrere all’intervento di chi eseguiva fotocomposizione o di studi specializzati in repro, ossia il processo di copia di documenti o immagini su diversi supporti. Il disegno veniva salvato su un floppy disc per poi essere trasferito direttamente su pellicola usando PostScript abbinato ad una Linotronic o una Compugraphic. Se la musica poteva essere registrata digitalmente usando computer, drum machine e campionatori, altrettanto avveniva sul fronte grafico con le copertine prodotte completamente in digitale utilizzando beta software della Adobe come Illustrator 88 e Separator. La maggior parte delle copertine che ho realizzato però le feci senza aver ascoltato il brano, e questo avvenne anche per “The Age Of Love”. Roger Samyn ai tempi era un frequentatore abituale della USA Import Records, ad Anversa, aveva stretto una partnership per importare dischi dagli Stati Uniti. Le consegne avvenivano ogni giovedì, giorno in cui il materiale proveniente d’oltreoceano veniva sdoganato. In pratica José Pascual, proprietario del negozio USA Import, Dieter Hessel di Music Man a Gand e Samyn col suo Disko King a Mouscron, si aggiudicavano singoli ed album poco reperibili in Belgio dividendosi le spese di spedizione. Mentre ascoltavano i dischi che avevano ordinato io, da DJ, sceglievo quelli che a mio parere erano i migliori per poterli proporre nei locali in cui suonavo. Sia l’appartamento in cui vivevo che lo studio in cui lavoravo erano ubicati nello stesso stabile del negozio di dischi ma al piano superiore, quindi il rapporto coi clienti era ottimo e veloce. Gran parte delle commissioni per le nuove copertine giungevano il giovedì proprio come avvenne per “The Age Of Love” ed altre che realizzai per la DiKi Records tra cui “Baby Phibes” di Dr. Phibes ed “Acid Rock” di Rhythm Device. Quella di “The Age Of Love” però, per me, resta particolarmente speciale.

03) alcune copertine di patrick Gypen
Alcune copertine firmate da Gypen tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta

Da quando comprai il Macintosh SE/30 entrai a far parte di TypeLab, un consorzio di designer di caratteri tipografici che si poneva l’obiettivo di rompere il monopolio detenuto dai grandi produttori come Linotype, Monotype ed altri principali fornitori di font grafici. Nel nostro gruppo c’erano anche famosi designer del calibro di Martin Majoor ed Erik Spiekermann oltre ad alcuni “rivoluzionari” come Neville Brody ed io stesso. Brody era il designer che si occupava di due rinomate riviste di tendenza britanniche, The Face ed Arena. Mi ha ispirato moltissimo usando Illustrator 88 come strumento di progettazione di lettere vettoriali, nella realizzazione dei caratteri che destinai prima ad “Elle Et Moi” di Max Berlin e poi a “Pump Up The Jam” dei Technotronic, oltre a tanti altri giunti in seguito. Nel momento in cui questi caratteri divennero originali e disponibili in PostScript, usati su piattaforma Macintosh, cercammo di trovare la possibilità di distribuirli e venderli. Nonostante fossi solo un piccolo novizio nel campo dei software, riuscii a diventare beta tester e consulente per Adobe, azienda con la quale stavo instaurando uno stretto rapporto di collaborazione. Esattamente una settimana prima di avere da Samyn la richiesta di progettare la copertina di “The Age Of Love”, Adobe mi inviò cinque floppy contenenti la versione alpha di Photoshop. Quel giorno ricevetti anche il prototipo di uno scanner a colori da una società di Anversa con cui collaboravo in veste di beta tester, la Agfa-Gevaert. Ero ansioso di provare entrambe le allettanti novità il più presto possibile. L’impostazione dello scanner mi portò via parecchio tempo ed energie. Bisognava collegarlo usando un’interfaccia SCSI e per farlo funzionare correttamente impiegai più di una giornata. Per testarlo cercai nel mio studio un’immagine adatta e, tra varie cose, saltò fuori una cartolina con la Madonna e il cuore in fiamme. Era stampata a colori su un vecchio cartoncino che misurava 7 x 11 centimetri, destinata a commemorare la prima comunione di qualcuno. Una volta scannerizzata in 72DPI (il massimo della risoluzione che poteva raggiungere quello scanner) memorizzai il file su un floppy e passai all’installazione di Photoshop. Prima di tutto dovetti fare spazio sull’hard disk cancellando 40 MB e riversandone il contenuto su altri floppy da 1.44 MB. A quel punto ero pronto per installare il software ed imparare ad usarlo. Lo schermo quadrato del Macintosh SE/30 era di 23 centimetri, in bianco e nero ovviamente. La colorazione dell’immagine avveniva attraverso colori definiti in parte dall’RGB e dalla scala di grigi, senza poter contare su prove poiché non erano ancora disponibili stampanti a colori. Sul sistema Apple 6.0 purtroppo la versione alpha di Photoshop andava in crash ogni dieci minuti ma mi impegnai al massimo affinché la copertina di quel disco fosse realizzata nel migliore dei modi. La scritta bianca mostra i pixel sulle lettere perché Photoshop non riusciva a smussare i caratteri vettoriali. Dopo aver modificato l’immagine ed aver disegnato un nuovo cuore, aprii il file con Illustrator, lo ingrandii ed aggiunsi il titolo in rosso. L’unico software con cui ai tempi potevo separare i colori dell’immagine era Separator, sempre di Adobe, che però funzionava solo coi file generati da Illustrator 88. Prima di quel momento non avevo mai provato ad inserire un’immagine a colori basata su pixel su una pagina vettoriale per poi separare i colori da RGB a CMYK (necessari per la stampa) su quattro differenti pellicole. A lavoro ultimato, mettemmo al sicuro il file su un hard disc (con un salvataggio che richiese quindici minuti!) e poi mandammo il fronte della copertina, su un floppy da 1.44 MB, all’unica azienda che in Belgio aveva un typesetter PostScript. Giunse a destinazione oltre l’orario di lavoro ma un mio amico che gestiva quel posto decise di avviare comunque il processo di imaging, intorno alle otto della sera. Verso mezzanotte ricevetti la sua telefonata: il Raster Image Processor, apparecchio che serviva a trasformare i vettori e i pixel dell’immagine e convertire i colori RGB in CMYK, stava lavorando alacremente ed era evidente dalla luce lampeggiante sul Mac, ma l’immagine finale non si vedeva ancora. Solo la mattina dopo i quattro file erano finalmente pronti per lo sviluppo. A quel punto il mio amico tipografo mi chiese come diamine fossi riuscito a combinare file a colori basati su pixel a tipografie vettoriali, fondendo il tutto in un file. Per lui si trattò di una “repro revolution” ed aveva ragione. Felice che quell’esperimento fosse andato a buon fine, iniziai ad usare frammenti della copertina frontale e fare nuovi disegni in Photoshop, passandoli in Illustrator 88 per aggiungere i titoli delle tracce e le info di produzione. Una volta ottenute le separazioni dei colori, mancava un’ultima operazione prima di consegnare tutto all’azienda che avrebbe stampato le copertine. Gli studi dattilografici avevano un formato standard per le immagini su carta fotografica o pellicola. Le dimensioni delle copertine degli LP e dei 12″ erano di 31,5 x 31,5 centimetri, con un ulteriore margine di 0,3 centimetri su tutti i lati e 0,5 per la costola laterale. Il formato massimo della pagina era di 27,9 centimetri, non sufficienti. Per ovviare al problema realizzai molte copertine con un bordo bianco, oltre a comprare una camera repro con cui poter ingrandire le immagini e riprodurle autonomamente su una pellicola nella camera oscura. Erano anni in cui tutto stava cambiando nel settore della grafica e, in seguito a pure coincidenze, nel mio studio giunsero tutti gli strumenti che mi consentirono di aderire immediatamente a quella rivoluzione in atto. Visto il pionierismo nel settore, fui immediatamente assunto come consulente e sviluppatore da Adobe, Apple, Agfa-Gevaert, Mannesmann Scangraphic, Compugraphic ed altre grandi aziende specializzate in quel ramo. Dall’uscita di “The Age Of Love” sono trascorsi ormai più di trent’anni ma ritengo che sia il brano che la copertina restino più attuali che mai. In circolazione sono finite anche versioni grafiche realizzate da altri ma penso che nessuna riesca ad eguagliare o battere l’originale. Quell’immagine era pura, evolutiva, emozionale, sognante, sensuale, calda, astratta, ispirata, religiosa e controversa, tutto allo stesso tempo. Per tale ragione non cambierei nulla di essa».

Paradossalmente i meno disposti a parlare di “The Age Of Love” sono gli autori. Sanchioni, da sempre restio a farsi intervistare (questa può considerarsi decisamente un’eccezione) non ha mai risposto ai nostri ripetuti inviti di rilasciare qualche dichiarazione. Chierchia invece rivela qualcosa nell’intervista di Alessandro Dell’Orto pubblicata il 27 agosto 2011 su Libero, in cui si definisce, senza mezze misure, «l’inventore della musica tecno trance», parlando della bozza iniziale di “The Age Of Love”, piuttosto ingenerosamente, come «una specie di jingle assurdo». «Presi un microfono ripetendo cose a vanvera tipo “come on” ed aggiunsi suoni per riempire. Dopo qualche mese l’amico mi spedì un CD con “The Age Of Love” che ha venduto quattro milioni di copie ed è il brano di riferimento per chi ascolta questa musica, presente in quattrocento compilation. Ho inventato qualcosa e non so cosa!». Diverse le inesattezze e le informazioni fuorvianti a partire dalle parti vocali col “come on”, scritte ed interpretate precedentemente da una giovane cantante, alla cronologia degli eventi: ci vollero almeno due anni prima che “The Age Of Love” diventasse una hit, e ciò avvenne grazie al remix realizzato in Germania da Jam & Spoon. Da tali dichiarazioni si evincerebbe inoltre che Chierchia abbia contribuito anche alla scrittura della base musicale ma documenti ufficiali recuperati recentemente dagli archivi della DiKi Records lo sconfesserebbero in toto, attribuendogli unicamente la paternità del testo del brano, depositato in SABAM ad aprile del 1990 e in quell’occasione definito “rap dance”. Chierchia rincara ulteriormente la dose nell’intervista curata da Stefano Di Trapani alias Demented Burrocacao e pubblicata da Vice il 26 maggio 2016: «Ero in Belgio a casa di un amico, un grande editore franco-belga, Philippe De Keukeleire, che mi disse: “Dai vieni in studio, ho una base musicale e vorrei che la sentissi, magari se ne fa qualcosa”. Era davvero oscena, insopportabile, orrenda, una batteria tutta di piatti e bordo rullante, senza corpo, un basso senza capo né coda, una tastiera che gemeva in sottofondo come una gallina muta con le coliche. Un vero incidente musicale! Non sapevo che fare. Suonai una sequenza ripetuta all’infinito, cambiai tutti i pad e mi inventai un testo a vanvera, in inglese, lì in piedi di fronte al microfono, tanto per fare qualcosa. Poi uscii dallo studio e dissi al mio amico: “Fanne quello che vuoi, ma non metterci il mio nome sopra, abbi pietà! Mi raccomando”. Dopo sei mesi era il primo successo mondiale di un nuovo genere musicale, ma nonostante io risulti come autore, ancora mi gratto la testa e non capisco. Non so cosa fosse. Si racconta che Fleming scoprì la penicillina più o meno nello stesso modo… Da morire dal ridere». Polemiche a parte su chi abbia fatto cosa, da queste testimonianze e pure da quelle che seguono emerge come la genesi di “The Age Of Love” sia stata letteralmente casuale, imprevedibile, priva di una regia e frutto di un impeto creativo giunto da chissà dove. Se Chierchia e Sanchioni però si defilano, preferendo parlare poco e nulla di quell’episodio o aggiungendo, come si è visto, dettagli poco circostanziati ed oggetto di possibili smentite, di tutt’altro avviso è Jean-François Samyn, figlio del compianto Roger Samyn della DiKi Records, ben lieto di ripercorrere una fase della sua vita, forse la più emozionante.

La testimonianza di Jean-François Samyn della DiKi Records

04) Disco King al 56 di Rue du Christ, Mouscron
Una foto scattata negli anni Ottanta al negozio Disco King, ai tempi al 56 di Rue du Christ a Mouscron

Come parte l’avventura del Disco King?
All’inizio degli anni Settanta papà, un vero appassionato di musica, aprì un piccolo locale a Mouscron, nel sud del Belgio, ai confini con la Francia. Qualche anno più tardi affiancò a quell’attività un piccolo negozio di dischi specializzato in importazioni dagli Stati Uniti e Regno Unito. Si chiamava Disco King e si trovava al 56 di Rue du Christ, sempre a Mouscron. A spingerlo in quell’avventura fu la necessità di comprare dischi per il suo locale ed allora non era affatto semplice trovare un rivenditore che trattasse un certo tipo di musica. Nel corso del tempo entrò in contatto con altri titolari di rinomati negozi di dischi e grossisti come Hessel Tieter della Music Man, José Pascual di USA Import, Renaat Vandepapeliere di R&S Records e Laurent Vanmeerhaeghe della Big Time. Quello del mercato discografico era un universo nuovo e molto emozionante e non ci volle molto tempo prima che papà abbinasse alla vendita anche la produzione di musica.

Il passo successivo fu quindi la produzione discografica?
Esattamente. Iniziò nel 1982 con “Why Can’t We Live Together…” di Mike Anthony, su Ca$h Records, a cui l’anno dopo seguirono “Beats Of Love” di Nacht Und Nebel, “La Vie En Rose” di Martinique ed “Ha Chica” di Tony McKenzie. Avevo solo diciotto anni ed andavo ancora a scuola, ma ogni weekend frequentavo le discoteche, orgoglioso del lavoro che svolgeva il mio papà. Tempo dopo, quando iniziò a farsi strada la musica new beat, conoscemmo per caso Bruno Sanchioni, un giovane e sconosciuto musicista nato in Italia ma residente a Roubaix, molto appassionato e motivato. Era alla ricerca di un produttore e così firmammo presto il primo accordo, il 7 marzo 1988, a cui pochi mesi più tardi, precisamente il 12 ottobre, se ne aggiunse un secondo che riguardava il progetto Dr. Phibes. Il contratto non prevedeva un termine, eravamo certi che stesse arrivando il grande successo. Grazie al supporto del negozio fu facile accedere a tutti i nuovi arrivi dagli Stati Uniti e dall’Europa e scoprire prima di altri le nuove tendenze sonore. Poi, per fortuna, la new beat era un genere piuttosto facile da comporre se paragonato alle canzoni delle grosse band americane o britanniche. Mio padre mi diede l’opportunità di impratichirmi e vendere dischi nel negozio durante il weekend ma per me, come del resto per chiunque amasse la musica, quello non era affatto un lavoro bensì puro piacere. Non avevo alcuna voce in capitolo sulle produzioni ma mi era concesso dare qualche giudizio. Sanchioni, dunque, iniziò ad incidere dischi con mio padre nel 1988 ma i risultati non furono immediati. Cercai di dargli qualche consiglio facendo leva sulla mia visione da giovane clubber. Lui accolse di buon grado i suggerimenti al fine di ottenere i suoni giusti dalle grandiose macchine di cui disponeva in studio (Korg, Ensoniq, Roland, Akai) ed iniziò ad usare qualche sample. Qualche mese più tardi mi fece ascoltare una nuova traccia incisa su cassetta chiedendomi cosa ne pensassi. Fui completamente rapito da quei suoni e corsi a dirlo a mio padre. Finalmente un pezzo forte! Era “Acid Story”, secondo singolo di Dr. Phibes. L’entusiasmo crebbe ulteriormente quando mi chiesero di metter su un gruppo per far fronte alle live performance nei club visto che la new beat stava diventando un fenomeno di grossa portata nelle discoteche. “Acid Story” fu un autentico successo ed aprì un periodo rigoglioso della DiKi Records dopo qualche singolo non particolarmente fortunato (“Noise Gate” di Chico Crew, “”Vachillia” …6?” di Dr. Phibes ed “Hardcore Movies” di Doc And Co, tutti orchestrati da Sanchioni, nda). Durante il periodo dorato della new beat, io, Sanchioni e i ragazzi coinvolti nei progetti Dr. Phibes e Bazz facemmo davvero un mucchio di live, ogni weekend in una discoteca diversa. A quel periodo sono legati tantissimi ricordi ed incontri. Appena due anni più tardi però un nuovo genere musicale si profilò all’orizzonte, la techno. Pezzi come quelli degli Inner City di Kevin Saunderson fecero da apripista e in breve fummo letteralmente sommersi da un numero abissale di etichette e brani provenienti da ogni parte del mondo. Non bastò più mettere insieme una serie di sample ma fu necessario cercare anche parti vocali e Sanchioni a quel punto parve un po’ in preda al panico.

05) Sanchioni e Roger Samyn nel primo studio della DiKi Records (al n. 56)
Bruno Sanchioni e Roger Samyn nel primo studio della DiKi Records,1988 circa

Come affrontaste quella nuova fase stilistica che avrebbe interessato e coinvolto gran parte d’Europa?
Il negozio di dischi continuava a raccogliere enorme successo. Un numero sempre più corposo di DJ, anche molto popolari, veniva al Disco King a fare acquisti e ciò avviò una sorta di competizione coi semplici appassionati che cercavano a tutti i costi di mettere le mani sulle rarità destinate prevalentemente ai professionisti della consolle. Nel periodo in cui la new beat lasciò spazio alla techno arrivò Emmanuel Top. Ricordo come se fosse ieri il momento in cui lo incontrai per la prima volta. Quando varcò la soglia d’ingresso del negozio provai una strana sensazione, sentii qualcosa di positivo nella sua presenza. Mi chiese se avessimo “Rhyme Fighter” di Mellow Man Ace e “The House Of God” di DHS e gli risposi «certo!». Rimase quasi senza parole. «Finalmente, cerco questi titoli da settimane ma senza risultato!» disse. A quel punto gli domandai se avesse mai sentito parlare del nostro negozio. «No, ma ho visto Jean Vanesse, DJ del Fifty Five a Kuurne (oggi CEO della N.E.W.S. di Gand) andare in un altro negozio di dischi a Menin, il Disco Smash, e a quel punto lo ho seguito con la mia auto perché ero certo che stesse facendo il giro degli store in cerca di novità da proporre durante il weekend». Il nostro era un negozio piccolo ma altamente specializzato, proprio quello che stava cercando. Fu l’inizio di un vero rapporto di amicizia. Emmanuel Top rimase un cliente abituale del Disco King per circa un anno. Poi decise di investire del denaro nell’acquisto di vari sintetizzatori e fare coppia fissa in studio con Bruno. In quello stesso anno, il 1990, Sanchioni incontrò pure Gregory Dewindt (Master Techno, Total Groove, Deee Maestro etc) ed insieme realizzarono i singoli “1990 Is Our Space” e “Waresnare” di Dr. Phibes. Per l’occasione Gregory utilizzò due pseudonimi, Gregg Jones e Teddy Jones. L’arrivo di Emmanuel Top, di fatto diventato co-autore con Sanchioni, lasciò deluso Dewindt che a quel punto cercò nuove strade e firmò un contratto con la Sarema. Tuttavia grazie ai buoni contatti stretti con Rabah Djafer, manager della società francese, collaborammo ancora in occasione di alcuni dischi di Master Techno. Nel ’93 inoltre Dewindt incise per la DiKi Records “Pacific” di Pacific Trance a cui fece seguito, due anni dopo, “Jesus Trip” sulla sublabel X-Stream realizzato con Philippe Toutlemonde alias Phi-Phi (intervistato qui, nda), ai tempi uno dei DJ più famosi in Belgio in virtù dei dischi pubblicati su Bonzai. Grazie al successo e alla notorietà raggiunta sia col negozio che con le produzioni discografiche, ci trasferimmo in una sede più grande, sempre nella stessa via ma al numero civico 101. Lì avremmo avuto più spazio per lo studio e per la sala ascolto, allestita con una serie di Technics SL-1200 messi a disposizione dei clienti. Quel trasferimento alimenterà ulteriormente l’incredibile successo della DiKi Records.

06) Bruno Sanchioni e lo studio della DiKi (1991)
Sopra Sanchioni nel secondo studio della DiKi Records, sotto uno scatto che immortala alcuni degli strumenti utilizzati nel medesimo studio (1991)

Nel post new beat la Diki Records pubblica un disco seminale per la trance, “The Age Of Love”. Cosa ricordi in merito?
All’inizio del 1990 il negozio era ancora al numero 56 di Rue du Christ e Sanchioni lavorava in studio da solo. Quando non c’erano clienti, aprivo le porte della sala e lo sentivo suonare. A lui piaceva molto comporre ad alto volume e ciò mi diede la possibilità di sentire la costruzione di quel pezzo dall’inizio alla fine. L’ultimo suo successo, “Te Quiero” di Pedro Ramon, portato nei club con tantissimi live show, ormai era alle spalle e Bruno iniziò ad annoiarsi perché non riusciva a realizzare nuove tracce con vocal inediti e di pregio. Nella nostra zona era davvero difficile trovare cantanti capaci di interpretare testi in inglese senza tradire l’accento francese. In quel periodo stava lavorando ad una traccia strumentale che, pur essendo ancora allo stato di demo, prometteva piuttosto bene. All’interno aveva piazzato alcuni sample ed effetti tra cui il rumore di un aereo (e ciò spiega la ragione del nome di due versioni, Flying Mix e Boeing Mix, nda), l’ansimare di un orgasmo femminile ed un campionamento vocale preso da “Native House” di MTS And RTT uscito sulla Trax Records di Chicago che a sua volta includeva un frammento di “Native Love (Step By Step)'” di Divine che usò come bassline. I rullanti invece erano influenzati da “Work That Mutha Fucker” di Steve Poindexter. Quando creò il primo loop gli dissi immediatamente che fosse un punto di partenza interessante, e lo spronai a continuare. Se da un lato era entusiasta, dall’altro però si mostrava frustrato perché non riusciva a disporre dei vocal che desiderava. Arrivò persino a noleggiare alcune videocassette con la speranza di carpire qualche buon campionamento. Le voci presenti in “House Of Pax” di Bazz che recitano “je suis venu en paix”, ad esempio, le prese dalla versione francese del film “Dark Angel”. Lascio a voi immaginare da che tipo di pellicole trasse i gemiti che si sentono in “The Age Of Love”. Non soddisfatto del tutto dal risultato, continuava a chiedere a mio padre di procurargli dei vocal da utilizzare. Lui si convinse dopo aver fatto ascoltare quella demo ad amici e clienti del negozio che avevano espresso, all’unanimità, reazioni assolutamente positive. Il bassline, effettivamente, era irresistibile. In quel periodo girava un pezzo, diventato parecchio popolare, con un sample che recitava “waouw, c’mon, waouw”, ossia “Yaaaaaaaaaah” di D-Shake. A Bruno (ma anche a me) piaceva molto quella traccia e un giorno, ascoltandola, mi disse che ciò che occorreva alla sua nuova demo fosse proprio un sample tipo “c’mon”, magari cantato da una donna.

07) Age of Love deposito Sabam
La ricevuta della SABAM relativa al deposito di “The Age Of Love” (13 aprile 1990). Il genere musicale del brano è indicato come “Rap Dance”

08) Valerie Honore
Una recente foto di Valérie Honoré, voce femminile di “The Age Of Love” da anni attribuita erroneamente alla modella olandese Karen Mulder

Quel sample arriva e la ragazza che lo interpreta viene spacciata su internet come Karen Mulder, vero?
Già. Da anni sul web si parla di un presunto incontro con la Mulder, invitata nel nostro studio per occuparsi di una piccola parte vocale in “The Age Of Love” ma tutto ciò è solo frutto della spiccata fantasia di qualcuno. Le cose andarono in modo molto diverso, la modella olandese non ha mai messo piede alla DiKi Records e tantomeno cantato per quel disco e spero che questo articolo / intervista, attraverso cui rivelo per la prima volta tale retroscena, possa servire a fare chiarezza. La voce femminile che si sente in “The Age Of Love” è di Valérie Honoré che oggi vive vicino Lille, in Francia. Ai tempi aveva diciannove anni e un pomeriggio Sanchioni le chiese, quando eravamo ancora al 56 di Rue du Christ, se le andasse di ballare sul palco in occasione dei live di Pedro Ramon. Accettò. Poche settimane più tardi, mentre rientravano da una serie di serate in alcuni club parigini, Bruno le disse che stava cercando voci femminili per le sue nuove produzioni e le propose di fare una prova in studio. Avrebbe dovuto cantare solo una breve parte, tipo i versi in francese in “Fade To Grey” dei Visage per intenderci. Valérie annuì. Una volta giunti in studio Sanchioni le fece ascoltare la base e lei rimase piuttosto spiazzata visto che niente di quel pezzo somigliava ai Visage. Tuttavia non si tirò indietro e scrisse un paio di frasi in inglese: “Come on dance with me, move your body you like the beat”. Bruno campionò la voce e nell’arco di due/tre ore la piazzò nel brano ma Valérie, stanca, ormai era andata via. Pochi mesi più tardi lei incontrò in un bar della città Stéphane Pauwels, ai tempi DJ ed oggi impegnato in tv in programmi sportivi. Andarono insieme in una discoteca e lì ascoltò per la prima volta il brano con la sua voce. Era rattristata dal fatto che Bruno non l’avesse più contattata per informarla sullo sviluppo della vicenda e per ringraziarla. Comunque non tornò alla DiKi Records e non avanzò mai alcuna pretesa, ormai era occupata da un altro lavoro. Stanco di assistere alla continua diffusione su internet di informazioni completamente infondate, tempo fa mi misi alla ricerca di questa misteriosa cantante contattando pure Sanchioni ed alcuni vecchi DJ e clienti del negozio ma purtroppo senza successo. L’unica informazione che ottenni era il suo nome, Valérie. Complice quest’intervista, adesso sono riuscito ad entrare in contatto con lei attraverso Facebook e qualche settimana fa mi ha finalmente raccontato dettagliatamente come andarono le cose nel 1990. Valérie si occupa di artigianato dal 1998, oggi lavora come tappezziera e decoratrice ed è mamma di un bellissimo bambino di dieci anni. Il cerchio si è finalmente chiuso. Mi impegnerò affinché il suo nome e il testo originale che scrisse vengano riportati sulle copertine delle prossime ristampe di “The Age Of Love”.

Quando entra in gioco invece Giuseppe Chierchia?
Nel periodo in cui Sanchioni lavorava alla base di “The Age Of Love” mio padre iniziò a pubblicare alcuni brani, come “Baby Phibes” di Dr. Phibes, “The Right Song” di Neal Fox e il citato “Te Quiero” di Pedro Ramon, in cooperazione con Philippe De Keukeleire dell’Alpina Records e Carrera Records. Philippe era il figlio di Marcel De Keukeleire, produttore di una canzone arcinota, “La Danse Des Canards” di J.J. Lionel (nota in Italia come “Il Ballo Del Qua Qua”, ricantata da Romina Power, nda). Sapendo che Sanchioni fosse alla disperata ricerca di un/una cantante, mio padre chiese aiuto a lui. Il caso volle che quel giorno De Keukeleire stesse insieme ad un cantante italiano, Giuseppe Chierchia meglio noto come Pino D’Angiò, andato a trovarlo visto che erano buoni amici. Mezz’ora dopo Chierchia era già nel nostro studio intento a registrare i vocal giacché la parte strumentale era stata già completata. Mio padre e Bruno decisero di intitolare il pezzo “The Age Of Love” ispirati dal sample proveniente da “Native Love (Step By Step)” prodotto da Bobby Orlando. Chierchia, a sua volta, si lasciò trasportare dal titolo per scrivere un testo e registrarlo in poche ore. Quel giorno Sanchioni era decisamente felice visto che in studio si trovava con un altro italiano con cui divertirsi e farsi un sacco di risate. Quando la partitura fu completata, venne depositata in SABAM ma con un errore: il passaggio vocale “you like the beat” fu sostituito da “your life is beat”. Non fu una cosa intenzionale però. Chierchia non aveva mai incontrato Valérie Honoré, le rispettive parti furono registrate in momenti differenti e poiché nessuno si era preoccupato di annotare il testo di quel breve inserto vocale inciso come prova, vennero trascritte le parole che sembrava fossero state pronunciate da Valérie in quei pochi secondi. Le quattro versioni furono completate e mandate in stampa poche settimane più tardi ma il successo non giunse subito, seppur tutte le copie della prima tiratura vennero vendute presto. Due anni dopo, a pochi giorni dalla fine del Midem, Hessel Tieter della Music Man disse a mio padre che fu un vero peccato che non fosse a Cannes perché Thomas Foley della britannica React era alla ricerca di un referente della DiKi Records per un pezzo del catalogo chiamato “The Age Of Love”. Rimanemmo parecchio sorpresi visto che si trattava di una vecchia produzione.

09) Sanchioni e Chierchia (1990), la partitura di AOL
Nella foto sopra Bruno Sanchioni e Giuseppe Chierchia immortalati in studio nel marzo 1990, sotto la partitura depositata in SABAM in cui si rinviene anche il testo scritto ed interpretato precedentemente da Valérie Honoré parzialmente modificato

Nel frattempo su DiKi Records erano usciti tanti altri brani.
Sì, esattamente, avevamo pubblicato parecchie tracce composte da Sanchioni ed Emmanuel Top, intuendo che l’arrivo di quest’ultimo rappresentasse una grande spinta motivazionale per Bruno. Al fine di alimentare quella fertilità creativa, acquistammo nuovi strumenti per lo studio come una Roland TB-303 ed una Roland TR-909. Emmanuel Top inoltre iniziò a suonare con regolarità in club come il Boccaccio, il Fifty Five e il Villa, tutti parecchio popolari in Belgio. A ciò si sommò la massiccia importazione di musica techno ed house dagli Stati Uniti, l’influenza di Chicago e Detroit per noi fu determinante. Si trattò di un periodo fantastico sotto tutti gli aspetti. Il primo vero grande successo per la DiKi Records, diventato un classico in Belgio, è stato “Cactus Rhythm” di Plexus, uscito nel ’91. Mentre ero intento a vendere dischi in negozio, Bruno ed Emmanuel componevano musica nello studio al piano superiore, alla perenne ricerca del giusto sound. In quel periodo lo stile di Frank De Wulf e della R&S Records era tra i più apprezzati e richiesti dai nostri clienti ma Emmanuel non riusciva ad ottenere suoni simili. Gli suggerii allora di prendere a modello “Mentasm” di Second Phase, e mettendo il disco sul piatto proposi di campionarlo ma riproducendo il sample al contrario, magari incrociandolo al “waouw” di “100% Of Disin’ You” di Armando, a sua volta preso da “My Loleatta” di Ellis-D che rimaneggiava la voce di Loleatta Holloway. Mi guardò e poi corse su in studio. Qualche ora dopo tornò con un DAT che suonai in negozio alla presenza di parecchi clienti. Corsero in massa a chiedermi una copia di quel pezzo, fu pazzesco, ed Emmanuel mi fece l’occhiolino. Poche settimane più tardi divenne un successo.

Come già detto, Sanchioni realizza parecchie produzioni per la DiKi Records prima di “The Age Of Love”. Uno dei suoi progetti più popolari resta il menzionato Dr. Phibes che fece da ponte tra la new beat e la house/techno. Come reagì il pubblico quando iniziarono a diffondersi le varie forme di “neo dance” nella seconda metà degli anni Ottanta?
Prima del celebre “The Age Of Love”, Sanchioni fece centro con Dr. Phibes e Bazz, ma anche Pedro Ramon andò discretamente. “Te Quiero”, del 1989, era ispirato in modo piuttosto chiaro dall’italiana “Sueño Latino” e riscosse particolari consensi in radio, oltre ad essere il primo brano che licenziammo alla britannica Network Records del gruppo Kool Kat. “Acid Story” di Dr. Phibes e “The Drop Deal” di Bazz rappresentarono perfettamente Bruno e la sua band durante il periodo new beat, con particolari riscontri in Belgio e Francia. Il pubblico andava in visibilio quando sul palco si esibivano gruppi new beat, abbigliati in modo speciale con grandi smile e loghi in metallo di brand automobilistici come Mercedes o Volkswagen. Se ai tempi possedevi un’automobile di quelle case produttrici dovevi stare attento a non farti rubare i simboli attaccati alla carrozzeria! Per andare in alcune discoteche allora bisognava quasi travestirsi. I brani di Dr. Phibes e Bazz erano sempre mixati con “The Sound Of C…” dei Confetti’s alla fine delle serate presso l’Amnesia di Ibiza. In quegli anni si svolsero eventi grossissimi con tanti gruppi new beat e a volte, grazie al successo che ci portava in cima alle hit parade, l’accoglienza riservata fu esagerata. I produttori di quella musica erano considerati quasi delle star. Per quanto riguarda altri brani, il successo fu meno evidente anche perché, in assenza di internet, per farti conoscere all’estero era necessario chiudere accordi di licenze con altre case discografiche al fine di contare su una distribuzione capillare dei propri prodotti. La concorrenza era spietata e non mancavano favoritismi verso talune etichette. Adesso le cose sono completamente differenti e ci rende felici ricevere messaggi da fan sparsi in tutto il mondo che si congratulano per la musica che abbiamo pubblicato trenta (ed oltre) anni fa. Per la DiKi Records fu importante far parte del movimento new beat a cui si può ricondurre l’inizio della dance elettronica. Durò pochi anni ma decisamente intensi. Nel 1990 l’arrivo della techno in Europa rese il tutto ancora più intrigante.

10) i Dr Phibes nella formazione live (a sinistra c'è Gianni Battistel, morto a novembre 2020)
Una foto promozionale di Dr. Phibes: al centro Bruno Sanchioni affiancato da due personaggi che lo aiutano a portare il progetto nella dimensione live nelle discoteche quando imperversa la musica new beat a fine anni Ottanta. A sinistra Gianni Battistel, morto a novembre 2020

Ritieni quindi che la musica new beat possa essere considerata un punto di inizio per la techno e trance europea?
Senza ombra di dubbio la new beat è parte integrante dell’avvio della dance continentale ma a mio avviso quel fenomeno iniziò poco tempo prima, sempre in Belgio, con la cosiddetta AB Music proposta presso l’Ancienne Belgique, un locale a Bruxelles in cui i brani registrati a 45 giri venivano suonati a 33 giri ma aumentati a +8 col pitch del giradischi. Nello stesso periodo in cui imperversava la musica new beat circolavano grosse hit uscite dai confini britannici, tedeschi e statunitensi come “Jesus Loves The Acid” di Ecstasy Club, “Monkey Say, Monkey Do” di WestBam e “The Party” di Kraze. La musica, rispetto ad oggi, era consumata in modo radicalmente differente. Era impensabile restare a casa ed accontentarsi di sentire la radio se cercavi certi pezzi, bisognava andare fisicamente nei negozi di dischi specializzati per comprare particolari generi.

Torniamo a parlare di “The Age Of Love”, uscita nel 1990 quando la trance è ancora una sorta di prototipo. Quante copie vennero vendute inizialmente?
Solitamente in quel periodo stampavamo dalle 1000 alle 2000 copie ad uscita. Recentemente ho ritrovato un vecchio documento in archivio relativo ad una ristampa avvenuta a settembre del 1990 del DIKI 47.12.12, “The Age Of Love” per l’appunto, pari a 720 copie. Insomma, fu un disco che ottenne consensi parecchio circoscritti nella fase iniziale e credo non si possa neanche parlare di successo nazionale. Reazioni più entusiasmanti riguardarono invece altri brani della DiKi Records come Plexus ad esempio, ma in passato era impossibile sapere immediatamente se la musica che pubblicavi stesse raccogliendo successo in altri Paesi, era necessario attendere. Capitava anche di scoprire che, a causa della poca disponibilità, qualcuno stampasse bootleg white label in forma del tutto illegale come avvenne oltremanica ad “Auto Shutter” di Plexus. Distribuire i propri prodotti a migliaia di chilometri di distanza era un problema ed ottenere informazioni dall’estero non era mica facile come oggi. Noi non ci accorgemmo dell’enorme potenziale di “The Age Of Love” ma soprattutto nessuno fu in grado di prevedere che quello sarebbe diventato uno dei più grandi classici trance di tutti i tempi.

Riguardo il remix di Jam & Spoon invece?
Ricordo esattamente quando lo ascoltai per la prima volta. Era estate ed eravamo nei pressi di un magazzino in Francia che usavamo per esportare dischi in Italia e in vari negozi del luogo. Mio padre mi chiamò e disse: «Jeff, ho appena ricevuto la cassetta col remix di “The Age Of Love”. Ascoltala in macchina e poi dimmi che ne pensi». La sentii in auto e rimasi subito sorpreso dalla parte ritmica, più marcata rispetto all’originale, ma soprattutto dall’intro: l’intensità dei suoni aumentava e fui costretto ad abbassare il volume per mantenere alta l’attenzione mentre guidavo. Mi domandai a cosa servisse quella strana costruzione ma pochi secondi dopo fu come immergersi in un sogno. Wow! La riascoltai diverse volte e quando tornai da mio padre gli dissi che sarebbe stata una hit, ne ero quasi certo. Se avessi potuto modificare qualcosa forse avrei cambiato lo stridio di suoni che si alzava prima dei fantastici cori ma lui mi incalzò dicendomi che fosse proprio quell’elemento a rendere fantastico il remix. Misi la cassetta in play più volte nel negozio, nel frattempo trasferitosi al numero 101, e tutti i clienti presenti mi chiesero il titolo. A quel punto mi convinsi definitivamente. Non ringrazierò mai abbastanza Jam & Spoon per il lavoro che fecero. Il destino ha voluto che proprio il giorno in cui Mark Spoon morì, sia nato uno dei miei figli. Il pensiero volò a lui, non lo dimenticherò mai. Credo che la loro versione resti ad oggi la migliore. Rappresentò un ottimo biglietto da visita sia per i DJ set nei club che le produzioni future. A commissionare il remix fu la React accaparrandosi la gestione di “The Age Of Love” in tutto il mondo ad eccezione di Benelux, Francia, Germania, Austria e Svizzera secondo un accordo sottoscritto il 6 aprile 1992. L’unica cosa che rimpiango è che i remix di “The Age Of Love” non siano mai stati pubblicati su DiKi Records. Sono sicuro che avrebbero garantito ulteriore prestigio alla label che, comunque sia andata, riuscì ugualmente a ritagliarsi un posto di rilievo con la sua musica e i propri artisti. Circa un anno più tardi fu eletta “label del mese” dal magazine tedesco Frontpage grazie alle produzioni di Joey Beltram (X-Buzz), Acid Kirk e Sebastian S. (Cyberpsychose), Kelli Hand (Etat Solide) ed Antoine Clamaran (GTD). Poi fu la volta di Luc Devriese che arrivò quando Emmanuel Top decise di continuare la carriera da indipendente fondando la Attack Records. La sua scelta mi rattristò parecchio perché prima di essere un compositore era un amico, ma forse è il destino di ogni artista cercare di riuscire a fare le cose senza l’aiuto altrui. Sanchioni, pur essendo appagato, lo seguì creando poco tempo dopo il progetto BBE a cui aderì pure Bruno Quartier. Riscossero un grandissimo successo ma fu inevitabile lavorare nuovamente insieme.

11) Bruno Quartier e Bruno Sanchioni Live come BBE 20-12-1996
Bruno Quartier (a sinistra) e Bruno Sanchioni (a destra) durante un live di BBE svoltosi il 20 dicembre 1996

“The Age Of Love” sarebbe stata completamente dimenticata senza la Watch Out For Stella Club Mix di Jam & Spoon?
Sono un estimatore della musica di Jam & Spoon. Tra i miei preferiti i due “Tripomatic Fairytales”, il remix di “Go” di Moby ed ovviamente le canzoni cantate da Plavka. In negozio vendemmo moltissimi dei loro dischi, “Tripomatic Fairytales 2001” divenne un autentico classico al Disco King. Sono fermamente convinto che “The Age Of Love” non avrebbe mai raccolto i sorprendenti risultati che tutti conoscono se non fosse stata supportata dai remix usciti nel corso degli anni. Durante la partnership con la React, sia mio padre che Thomas Foley hanno costantemente insistito che tutti i remixer si ispirassero alla versione originale di Sanchioni. A tal proposito ricordo che la React rifiutò il primo remix di Paul van Dyk perché troppo simile a quello di Jam & Spoon, chiedendone un secondo che contenesse più punti in comune con l’originale. Lui capì ma sapeva che sarebbe stato impossibile fare di meglio. Tutte le versioni successive, inclusa quella di Emmanuel Top, vennero composte e costruite col preciso intento di non assomigliare a quella di Jam & Spoon, era un obbligo da rispettare. A distanza di poco più di trent’anni, il remix maggiormente suonato nelle discoteche e nei grandi eventi resta quello di Jam & Spoon, nel frattempo diventato anche IL riferimento per nuove generazioni di artisti. Continuiamo tuttora a ricevere remix, fin troppi direi, ma tutti puntualmente simili. Ultimo, in ordine di apparizione, quello di Solomun, artista per cui nutro rispetto ma pure la sua reinterpretazione non si ispira affatto all’originale del 1990. Preferisco il lavoro svolto da Mr. Sam e Fred Baker che rivela una completa rivisitazione del brano ma comprendo che ormai, per un pubblico sempre più ampio, quella di Jam & Spoon sia considerata alla stregua della versione originale. Sarà difficile cambiare tale percezione. Per garantire la sopravvivenza del pezzo e spronare nuovi artisti a fare di meglio, siamo tuttora costretti a rifiutare moltissimi remix.

12) Jeff e il padre (199x)
Roger Samyn e il figlio Jeff nel Disco King intorno alla metà degli anni Novanta. In primo piano la copertina di “The Age Of Love” già considerato un classico

Ritieni che “The Age Of Love” possa essere considerato uno dei primi brani trance della storia?
Nei primi anni Novanta in circolazione c’erano tantissimi pezzi straordinari di svariati generi. Era un periodo favoloso e il meglio doveva ancora venire, ma in relazione al suo storico devo ammettere, con la massima umiltà, che possa essere uno dei brani ad aver dato avvio al movimento trance, oltre a restare uno dei migliori di quel filone. Quando cerco di ricordare altri pezzi trance che mi siano piaciuti, mi rendo conto che sono tutti posteriori a “The Age Of Love”. Non so per quanti anni ancora questo brano figurerà nei DJ set ma è innegabile che sia diventata parte integrante della storia della musica elettronica globale e riesca a parlare a più generazioni.

L’età dorata della musica solcata su vinile è ormai lontana ed irripetibile. Cosa ricordi dei migliori anni d’attività del Disco King?
Il Disco King che si trovava al 56 di Rue du Christ era a tutti gli effetti una “creatura” del mio papà, purtroppo scomparso prematuramente poco più di venti anni fa (il 9 dicembre 2000). Per tale ragione non posso indicare con certezza assoluta il periodo più redditizio e fortunato, ma per me quel negozio ha rappresentato l’inizio dell’avventura nell’universo della musica quindi lo ricordo con infinito affetto. Mio padre era felice come un pesce nell’acqua e i due anni che trascorsi lì dentro promisero tanti successi. Il Disco King che riaprì al 101 invece rappresentò un’autentica sfida per me, visto che fui io a convincere papà ad espanderci. Il mio obiettivo era entrare nella top 5 belga dei negozi di dischi e per giungere a quel risultato ci vollero anni. Ero alla costante ricerca di dischi esclusivi e i contatti diretti coi grossisti statunitensi ci aiutarono non poco ad attirare l’attenzione dei DJ dei locali più quotati che venivano a rifornirsi da noi.

13) Disco King (1996 circa)
La seconda sede del Disco King, al 101 di Rue du Christ, a Mouscron: a sinistra l’insegna esterna, a destra Jeff Samyn (1996 circa)

In questa intervista a firma Jacques De Size, pubblicata il 17 dicembre 2019 da Redbull, si legge che tra i vostri clienti ci fosse pure un italiano. Chi era?
Si trattava di un personaggio che comprava intere casse di dischi ed ascoltava i nuovi arrivi al telefono. Gli mandavo la lista delle novità ogni settimana, era davvero un grande fan. Sono riuscito a ritrovarlo proprio recentemente con l’aiuto di Google, si chiama Giuseppe Acquadro e vive ad Andorno Micca in provincia di Biella. Sembra che ora, come si legge in questo articolo, sia un personaggio piuttosto influente nel mondo del ciclismo. Ai tempi veniva a trovarci portando sempre una guantiera di pasticcini. Nel 1993, su DiKi Records, pubblicammo pure un suo disco, “Acid Illusion” di Jos Q And Niki Fox. “Dream Trance” di Acqua & Sphere invece finì sulla sublabel Hit The Beat, sempre nello stesso anno.

Cosa rammenti con maggior piacere della DiKi Records degli anni Novanta?
Come ho detto precedentemente, le produzioni discografiche erano gestite da mio padre. Dopo che Bruno Sanchioni ed Emmanuel Top mollarono per iniziare un nuovo corso da indipendenti, l’atmosfera cambiò. Ci sentimmo come orfani ed iniziammo a stringere rapporti con altri artisti che avevano già sentito parlare di noi. Cominciammo pure a prendere in licenza pezzi che funzionavano bene nelle discoteche ed essere un assiduo frequentatore di locali mi aiutò non poco ad individuare su quali brani scommettere ed investire denaro. Nel 1992 venne a trovarci in negozio Luc Devriese che lavorava al leggendario Boccaccio, e con lui instaurammo subito un ottimo rapporto. Era l’inizio della sua nuova avventura artistica dopo decine di pubblicazioni precedenti sulla Target Records. Aveva uno studio di registrazione a Gand e mi chiese qualche idea per creare brani forti. Insieme abbiamo prodotto diversi successi come “Acid Creak” di Spokesman, “Midnight In New York” di Michael Sanctorum, “Wake Up”, “Breath Of Life” ed “Emotive Skin” di Trance Team, “Spring Of Life” di Brainwave, “Just A Little Bit Of Love” di Bruce Bap’s ed altri ancora. A partire dal 1992/1993 tutto avvenne in maniera molto spontanea e naturale. Tanti DJ, compositori ed artisti si avvicinarono a noi contribuendo a scrivere la storia della DiKi Records. Erano tutti entusiasti di pubblicare la propria musica sulla nostra etichetta e alla fine ciò che ha decretato il successo della label fu, a mio avviso, la grande diversità di artisti e stili. Rammento davvero tantissimi aneddoti. Il primo riguarda “Rio” di DJ M.D.: dopo aver ascoltato il demo cercai di convincere mio padre a non pubblicare quel brano perché non mi piaceva affatto. Lui però non seguì il mio consiglio facendolo uscire sulla sublabel Porshe Records e fece bene perché nell’arco di poche settimane “Rio” divenne richiestissimo, diventando uno dei migliori successi della DiKi Records per vendite e numero di compilation in Belgio e Francia. Rimasi veramente sbalordito. Il secondo aneddoto è legato all’Italia visto che concerne “Children” di Robert Miles. Fummo i primi ad inserirlo in una compilation su CD, “Welcome To The Club”, ma ingenuamente non pensammo di assicurarci l’esclusiva. Roberto Concina ci confidò, in occasione di un evento svoltosi a dicembre del ’95 per celebrare il compleanno della DiKi Records, di essere stato ingaggiato per la prima volta all’estero proprio grazie a noi. Non essere stato lungimirante a sufficienza sulla sua “Children” (di cui parliamo qui, nda), da lì a poco diventata un successo mondiale, resta uno dei più grandi rimpianti che mi porto dietro. Il terzo aneddoto è legato a “Traky” di People Of Cactus: fui svegliato nel cuore della notte da un tale che stava sentendo musica ad altissimo volume in auto e che, fermatosi per far scendere o salire qualcuno proprio sotto casa mia, aprì la portiera. Il suono era talmente forte da destarmi immediatamente dal sonno. Non ci fu verso di riaddormentarmi e di far uscire quella melodia dalla mia testa. Il giorno dopo cercai il titolo (“Tracky” dei Formic, tratto dall’EP “Trick Tracks” su Formic Records, 1995, nda) e contattai il produttore mostrando l’intenzione di prenderlo in licenza e farlo remixare da Emmanuel Top. Non era interessato a quel tipo di accordo ma disposto a cederlo del tutto. A quel punto divenni compositore della traccia con Bruno Sanchioni e “Traky” si trasformò in una hit, proposta in tutte le discoteche del Belgio tra la fine del 1998 e i primi mesi del 1999. Perché People Of Cactus? Semplicemente per creare una sorta di connessione con “Cactus Rhythm” di Plexus, che realizzai anni prima con Sanchioni ed Emmanuel Top. Cercavo un modo per spiegare alla gente che fossimo sempre noi e così optai per quello pseudonimo, sicuro che i fan più attenti avrebbero afferrato. L’ultimo aneddoto, infine, riguarda l’artista scozzese Stephen Brown che doveva esibirsi in un DJ set il 17 dicembre 1999 in occasione di un’altra festa di compleanno della DiKi Records. L’evento fu organizzato presso La Bush, una delle più grandi discoteche in Belgio che era davvero pienissima. Il clima era perfetto e il pubblico eccitatissimo. Brown non immaginava affatto di essere così popolare e mi chiese di suggerirgli qualcosa per il suo programma di quella sera, sostenendo di essere abituato a suonare in un piccolo club ad Edinburgo e che non volesse rischiare di deludere tutta quella gente accorsa lì per lui. Quando mise la sua “My Drums”, pubblicata pochi mesi prima su DiKi Records, la discoteca sembrò esplodere.

14) Mikka (02 04 1973 - 13 12 2001)
Mikka, collaboratore del Disco King, prematuramente scomparso a dicembre del 2001

Tutto però è cambiato da quei tempi.
Oggi è semplicemente impossibile generare i numeri discografici degli anni Ottanta o Novanta. Esisteva un sistema che contava su negozi di dischi, discoteche e pubblicazioni discografiche: se volevi essere aggiornato dovevi necessariamente acquistare dischi ma per sapere quali comprare andavi nei locali cercando di “estorcere” i titoli al DJ oppure rimanendo appiccicato alla consolle sperando di poterli scovare da solo mentre giravano sui piatti. Insomma, un autentico circolo virtuoso che sosteneva l’intero comparto. Quando organizzavamo gli eventi speciali poi, il giorno dopo in centinaia si riversavano nel negozio chiedendo di comprare gli stessi dischi che aveva messo il DJ la notte precedente. Per timore di non trovarli, alcuni ragazzi arrivavano ad aspettare l’apertura fuori, non rientrando neppure a casa per dormire. C’era pure chi acquistava le cassette dai DJ e poi ce le portava chiedendo di ascoltarle per scovare tutti i titoli e comprarli. Al fine di smaltire la ressa che si creava ogni volta, feci installare parecchi giradischi dotati di cuffia in modo tale che ognuno potesse fare da sé. C’era però un rovescio della medaglia, in quel modo la gente maneggiava una grande quantità di materiale talvolta danneggiando qualche copia, ma non era un problema visto che vendevamo più di mille dischi a settimana. Adesso invece è tutto diverso. Puoi ascoltare musica con un semplice clic del mouse e quando compri un disco arriva intonso, ancora avvolto nel cellophane. Non credo che il nostro negozio avrebbe ancora ragione di esistere, almeno secondo la vecchia tradizione di vendere musica. Mi capita di entrare in qualche record store ma, in tutta onestà, non ho mai trovato la stessa atmosfera di quegli anni. Il 2000 e il 2001 sono stati decisamente difficili per me. Nel 2000 un infarto ha ucciso mio padre, a soli 58 anni, e nel 2001 è toccato pure al mio amico Mikka, collaboratore di lunga data del Disco King, amato dai clienti e particolarmente influente pure sulla musica che producevamo. Una malattia rara se lo è portato via ad appena 29 anni. Per me fu un vero shock nonché l’inizio della fine di questa meravigliosa avventura nel mondo della musica. Il clima lavorativo cambiò, non mi interessava più essere al top e la crisi del mercato discografico innescò la chiusura di tanti negozi di dischi. Temevo per il futuro del Disco King ed interruppi il lavoro da produttore. Se non ricordo male, le ultime uscite che misi in circolazione furono quelle di Alex Peace, Doug Van Zant e Robert Armani, tra 2004 e 2005. A quel punto avviai un impianto di pressaggio dischi chiamato Vinylium, sebbene l’epoca del digitale fosse vicinissima. Ero certo che il disco sarebbe sopravvissuto a quella tempesta.

Com’è andata con Vinylium?
L’attività è partita nel 2007 e in quel momento trasformai in realtà un sogno di mio padre. La vita però è imprevedibile ed appena due anni più tardi toccò a me vivere qualcosa di terribile. Iniziai ad avere qualche dolore e dopo essermi sottoposto ad una serie di esami medici mi diagnosticarono un tumore al midollo osseo. Per ovvie ragioni ho dovuto accantonare tutto. Il negozio è stato venduto mentre la fabbrica smantellata e il materiale esportato a Seul e destinato al mercato asiatico. È stato frustrante ma, dopo una lunga battaglia sostenuta dai progressi della medicina, sono riuscito a vincere la malattia. Vinylium è ripartito come servizio ed io lavoro come broker per la francese MPO che si occupa di stampaggio dischi. La proprietà della DiKi Records, incluso l’intero catalogo, è stata rilevata nel 2017 da un appassionato di musica che mi ha chiesto di continuare ad occuparmi di alcune pratiche, seppur a gestire il tutto sia la N.E.W.S., da contratto sino al 2021. Stiamo valutando la possibilità per un possibile ritorno sul mercato ma le regole del business sono radicalmente cambiate e quindi è necessario ponderare bene le scelte. Sono consapevole che tanti nostalgici vorrebbero rivivere certi momenti cult del passato ma i tempi sono cambiati e con essi anche i gusti, le preferenze e le attitudini delle generazioni più giovani. La voglia di tornare indietro nel tempo per recuperare emozioni perdute non riguarda soltanto la musica, ma bisogna andare avanti. Spero che le nuove generazioni possano divertirsi almeno quanto ci siamo divertiti noi. Sono certo che tante cose belle debbano ancora arrivare.

(Giosuè Impellizzeri)

Questo articolo è dedicato alla memoria di Roger Samyn (1942-2000)

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La storia di Italian Style Production, etichetta-laboratorio della Time

Nel 1990 la house music ha già conquistato in modo definitivo i gusti dei giovani europei. Le prime produzioni italiane di questo genere circolano sin dal biennio 1987-1988 (per approfondire si rimanda a questo dettagliato reportage), ma nel 1989, con l’exploit mondiale di artisti come Black Box, FPI Project, 49ers e Sueño Latino, l’attenzione delle case discografiche indipendenti si sposta in modo netto verso quella che inizialmente sembra solo l’ennesima delle mode passeggere provenienti dall’estero. Alla Time Records, in attività sin dal 1984 in ambito italo disco/hi NRG, si cercano nuovi stimoli e strade da percorrere e in tal senso la house appare la scelta stilistica più ovvia e rassicurante dal punto di vista economico. «Fino all’esplosione della house made in Italy avevo indirizzato la nostra produzione prevalentemente all’hi NRG e al mercato giapponese» spiega Giacomo Maiolini, fondatore della Time, in un’intervista del febbraio 1993. Ed aggiunge: «Una volta scoppiato il boom dell’italian style (non è chiaro se il manager si riferisse allo stile italiano della house che conquista le classifiche internazionali o specificatamente alla sua etichetta, nda) ho aggiunto al nostro catalogo un buon quantitativo di prodotti ricalcanti questa linea con notevoli risultati». Nasce così una label finalizzata a coprire un nuovo segmento stilistico, diverso da quello che la Time destina al Paese del Sol Levante. Per cavalcare il boom della house però Maiolini, come lui stesso illustra in questa intervista di Alfredo Marziano pubblicata da Rockol il 24 gennaio 2014, si affida a persone completamente diverse perché «chi lavorava sulle produzioni giapponesi non era in grado di lavorare sulla house e viceversa». La neo etichetta, tra le prime sublabel del gruppo Time, si chiama Italian Style Production e già nel nome evidenzia lo spirito patriottico. Ad accompagnarla, per diversi anni, è la tagline “House Evolution” e un design grafico che mostra una coppia stilizzata di un uomo ed una donna che ballano a cui si somma un logo simile al simbolo della pace rovesciato. Il divertimento, la musica e il senso di unione, del resto, sono il leitmotiv di quel periodo, soprattutto se si pensa alla Berlino post Muro. Il business discografico prospera e sul mercato non faticano ad arrivare anche quei pezzi nati con l’obiettivo di prendere le misure di una musica nuova e dall’evoluzione in divenire. A dirla tutta, Italian Style Production sembra proprio un’etichetta-laboratorio da cui escono, per anni, centinaia di pubblicazioni tra cui, di tanto in tanto, qualche successo nazionale ed internazionale. Parte del resto diventa materiale cult per appassionati e collezionisti attenti a tutto ciò che, per ragioni plurime, non finisce nelle classifiche di vendita e sotto i riflettori.

1990-1991, l’avvio nel segno dell’italo house

DJ Pierre - Move Your Body

“Move Your Body” di DJ Pierre (il bresciano Pierangelo Feroldi) è il primo disco pubblicato su Italian Style Production

Ad aprire il catalogo è “Move Your Body” di DJ Pierre (Pierangelo Feroldi), disc jockey bresciano già con diverse produzioni alle spalle e che, come si evince dalla biografia di Maiolini disponibile sul sito della Time Records, è co-fondatore della stessa Italian Style Production. Il brano, scritto insieme al veronese Roberto ‘Roby’ Arduini, mette insieme le pianate tipiche della spaghetti house con una base in stile Twenty 4 Seven e sample tratti da “Get Up! (Before The Night Is Over)” dei belgi Technotronic. Segue “Come On Come On” di Aysha, scritto da Arduini e Ronnie Jones sulla falsariga dell’hip house degli olandesi Twenty 4 Seven (di cui abbiamo parlato qui) e “I Need Your Love”, primo disco di Jinny, progetto destinato a raccogliere particolari consensi ma solo negli anni a venire. Prodotto da Walter Cremonini e scritto da Francesco Boscolo, co-autore di “I’m Alone” dei Club House uscito nel 1989 su Media Records e di cui si parla qui, il pezzo fa leva su un sample vocale preso da “It’s Too Late” di Nayobe. Da questo momento in poi, Cremonini diventa uno dei principali protagonisti dell’Italian Style Production. Sua la firma dell’hip house di “Come On Yours” di B Master J, arrangiato con un altro di cui si parlerà parecchio in futuro, Claudio Varola. Più schiettamente italo house è invece “Movin Now” di Pierre Feroldi Featuring Linda Ray, costruito sulle armonie di “System” di Force Legato e le voci di “Waited So Long” di Darcy Alonso, riprese dallo stesso autore nel ’93 in “Make It Together” di Drop ma in chiave eurodance. È sempre Feroldi, affiancato da Laurent Gelmetti, a realizzare “I Can’t Feel It” di Yankees, quasi un clone di “I Can’t Stand It” dei Twenty 4 Seven, e “Going On” di KC Element, un mosaico di sample assemblato a mo’ di medley (“Happenin’ All Over Again” di Lonnie Gordon, “Don’t Miss The Party Line” dei Bizz Nizz, “Poetry House Style” di J.D. Featuring Inovator Dee e “A Little Love (What’s Going On)” di Ceejay). Pare che prima di essere pubblicato su Italian Style Production il brano circoli su un promo firmato come J.D. Element, poi cambiato in KC Element probabilmente per non correre il rischio di essere facilmente collegato col J.D. (John Laskowski) campionato. La decima uscita vede debuttare un altro nome di cui si sentirà parlare negli anni successivi, Dirty Mind. “The Killer” attinge dal campionario sonoro new beat ma con una citazione funk/disco dei MFSB tratta da “Zach’s Fanfare #2” (dall’album “Philadelphia Freedom” del ’75). A produrla è il team dell’Extra Beat Studio, Antonio Puntillo, Sergio Dall’Ora e Roby Arduini, con la collaborazione di Pagany. A mixarla invece Max Persona, intervistato qui. Arriva dall’estero invece “The Future Is Ours”, l’album della coppia Musto & Bones preso in licenza per l’Italia dalla City Beat e da cui viene estratto il singolo “All I Want Is To Get Away”.

Feroldi ed Arduini sono due autentici fiumi in piena: realizzano “House Of Hell” di House Corporation strizzando l’occhio agli Snap!, “For Your Love” di Anita Adams, “Ain’t No Sunshine” di Soul To Love, “Walking Away” di Synthesis e “Get Round” di Blazer. L’uso intensivo di un nuovo pseudonimo per ogni disco rivela una pianificazione tutto fuorché strategica. La house, del resto, è musica fitta di incognite e misteri, sbocciata tra mille nomi di fantasia e sample raccattati a destra e a manca (e senza alcun credito riservato agli autori originali), e ciò alimenta parecchio la curiosità del pubblico. Si rifanno vivi i veronesi dell’Extra Beat, prossimi ad essere messi sotto contratto dalla Media Records, con un altro pezzo che incrocia new beat (in Italia a lungo spacciata per techno) ed hip house, “I’m A R.A.B.O.L.” di Fighter MC. Quella su Italian Style Production è praticamente una staffetta tra Verona e Brescia: Feroldi gioca ancora coi sample in “Work For More” di Linda Ray, “Thank You” di Synthesis, “What’s Happened” di Yankees, “Spaak” di Task Force, “No One Can Do It Better” di B Master J, “African Jungle” di African Jungle e in “The Beat” firmata a suo nome. A “Brain” collega l’acronimo P.F. mentre con Marcello Catalano realizza “Got To Try” di KC Element, “It’s A New Day” di Jennifer Payne, “OK Radio” di Soggetto, “No Groove” di House Of Crazy Sound, “Back Again” di Rap Delight, “Let Your Body Move” di MC Marshall (cantato da Valerie Still, affermata cestista statunitense che tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta tenta la carriera musicale e di cui parliamo qui nel dettaglio), “Visions” di Basic Experience, “Double U” di Hypnotik (sul giro di “Assault On Precinct 13” di John Carpenter), “Go Get It” di Smiling Frogs e “Tonight” di In House, quest’ultimo in battuta downtempo ammiccando alla hit degli Enigma, “Sadeness Part I”. Dirty Mind riappare prima con “The Dream” in cui scorre, tra le altre cose, un sample ritmico dei Kraftwerk, e poi con “What Time Is It”, entrambe estratte dall’album “The Killer”. Su basi house iniziano ad apparire sovente suoni sintetici annessi convenzionalmente alla techno, come avviene in “Stop Provin'” di X.B.T. prodotto a Verona ancora da Arduini, Puntillo e Persona. I primi due affiancano Francesco Scandolari in “New Life, New Civilization” di Doctor Franz. Cremonini e Boscolo, da Padova, firmano invece il downtempo/hip hop di “Party Time” di M.C. Tad (Tad è l’acronimo di The Absolute Dopest) e la euro techno di “Got To Be” di Hypnotyk mentre Marco Bongiovanni, ex bassista dei Gaznevada e in quel periodo alle prese col fortunato progetto DJ H. Feat. Stefy condiviso con Enrico ‘DJ Herbie’ Acerbi (di cui si parla qui), produce “Just Groovin'” come DJ D Lite usando un sample di “Video Games” degli Alien con qualche anno di anticipo rispetto ai Pan Position che lo inseriranno in “Elephant Paw”.

KC Element - What Time Is It

“What Time Is It?” di K.C. Element è il primo 12″ che la Italian Style Production pubblica col centrino di colore blu

Il primo ad essere pubblicato nel 1991 è “What Time Is It?” di KC Element, prodotto da Feroldi e Dall’Ora seguendo lo stile della hardcore techno britannica che comincia a vivere un periodo di forte esposizione commerciale. È anche il primo 12″ dell’Italian Style Production col centrino di colore blu, da questo momento usato alternativamente al nero. Forse inizialmente tale scelta viene presa per evitare la monotematicità grafica ma, come si vedrà più avanti, la distinzione cromatica poi servirà anche ad un fine preciso. Blu è pure il colore scelto per l’etichetta centrale di “Run To Me” di Ruffcut Featuring Carol Jones, ad opera di Feroldi, Ivan Gechele e Mauro Marcolin. Campionando il riff di “Let Me Hear You (Say Yeah)”, la hit di PKA, sovrapposto al rap preso da “Jam It On The Dance Floor” di Unity Featuring The Fresh Kid e un frammento di “(I Wanna Give You) Devotion” dei Nomad, la coppia Feroldi/Marcolin realizza “Jammin On The Dance Floor” di House Corporation a cui seguono, in rapida sequenza, “Get On The Floor” di DJ Pierre, “Make A Move” di P.F. e “Rock The House” di Synthesis.

M.C. Claude - Highlander

Attraverso “Highlander” di M.C. Claude, Italian Style Production vara un diverso layout grafico usato per anni in modo saltuario

Poi si fanno risentire Boscolo e Cremonini con “Highlander” di M.C. Claude (il primo apparso con un layout diverso con una combinazione grafica minimalista) e sbuca una nuova licenza, “Love Let Love” di Tony Scott, rilevata dall’olandese Rhythm Records. Dopo un anno di attività e con oltre cinquanta uscite all’attivo, l’Italian Style Production inizia a circolare capillarmente nel mercato discografico seppur non abbia ancora centrato l’obiettivo con una vera hit. La situazione cambia col ritorno di Jinny per cui questa volta Cremonini si lascia affiancare da Alex Gilardi e Claudio Varola. “Keep Warm” è ispirato dal quasi omonimo “Keep It Warm” di Voices In The Dark del 1987 (campionato nel medesimo periodo dai romani Groove Section nella loro “Keep It Warm” su Hot Trax) e scandito da un secondo sample preso invece da “Playgirl” di La Velle, lo stesso che compare in “Your Love” di Fargetta nel 1993. Come racconta Gilardi qui, la Next Plateau di Eddie O’Loughlin pubblica “Keep Warm” negli Stati Uniti considerandola una potenziale hit e nell’affare entra anche la Virgin Records che gestisce il prodotto per il resto del mondo. Il brano fa ingresso nella top ten dance di Billboard e in decine di altre rilevanti classifiche statunitensi, finendo in programmazione radiofonica insieme a colossi del pop/rock. Ottimi risultati giungono anche dal Regno Unito e dall’Europa continentale ma, stranamente, non dall’Italia dove “Keep Warm” passa del tutto inosservata almeno sino al 1995 quando la londinese Multiply Records pubblica nuovi remix, tra cui quello dei veneti Alex Party, e Jinny finisce a Top Of The Pops.

Feroldi e Marcolin continuano ad incidere brani su brani, da “Everybody Get Up” di Magic Marmalade (a cui collabora Carlo Paitoni ovvero Carlo Vanni del negozio di dischi bresciano Deejay Choice di cui parliamo in Decadance Extra) a “Jungle Beat” di African Jungle, da “Get Away” di Pierre Feroldi Featuring Linda Ray (il main sample viene da “Stop And Think” dei Fire On Blonde) a “Living” di New World passando per “Love Me Now” di M.C. Marshal, “I’ve Got The New Attitude” di Linda Ray, “I’m Gonna Get You” di Jennifer Payne (il campione, preso da “Love’s Gonna Get You” di Jocelyn Brown, è lo stesso che useranno l’anno dopo, ma con più fortuna, i Bizarre Inc) e “Fever” di Carol, costruito sulla falsariga di “Touch Me” dei 49ers ed “I Like It” di DJ H. Feat. Stefy. Da Verona giunge “Everybody Let’s Go”, nuovo singolo di Dirty Mind allacciato ai suoni della eurotechno che vive la prima fase di commercializzazione, mentre da Padova “You Got The Dance” di Open Billet, “I Can’t Stand It” di Sound Machine, “Peecher Rap” di Woody Band e “Let’s Go” di B Master J per cui viene adoperata ancora una grafica differente insieme ad “I Wanna Be Right There” di Jennifer H. Featuring Marco Larri. Marcello Catalano, questa volta in solitaria, appronta il secondo (ed ultimo) disco di House Of Crazy Sound, “Best You Can Get”.

Italian Style Compilation

La copertina della “Italian Style Compilation” mixata da Maurizio “Bit-Max” Pavesi, in quel momento all’apice del successo

La settantesima uscita è rappresentata dalla “Italian Style Compilation”, raccolta edita su LP, musicassetta e CD e mixata da Maurizio Pavesi in quel periodo all’apice del successo come Bit-Max (di cui parliamo qui). Poco tempo dopo ne arriva un’altra intitolata “Megastyle” e mixata da Feroldi. La corsa riprende con “A. O. (No Bunga Low)” di Soul To Love, in cui Walter Cremonini riesce a sposare un frammento di “Rebel Without A Pause” dei Public Enemy con “A-O (No Bungalow)” dei norvegesi Data, già ripresa nel 1984 dagli italiani Yanguru prodotti dal citato Pavesi e Stefano Secchi. Coi fidi Varola e Gilardi, Cremonini realizza invece “Barbaro” di M.C. Claude, sullo stile di Digital Boy. Feroldi e Marcolin, in compagnia di Walter Biondi, producono “Get It On” di The First Twins, con una matrice ripresa in “Time” di K-F.M., pubblicato sulla stessa label l’anno successivo. Biondi e Minelli, quest’ultimo reduce della produzione di “Antico” del progetto omonimo tenuto a battesimo dalla GFB del gruppo Media Records, assemblano le tre versioni di “Atto I°” di Analogic. L’instancabile e vulcanico Feroldi produce “Don’t Try To Tease Me” di DJ Choice dove riappare Paitoni (e ciò spiegherebbe la ragione dell’alias scelto) e in cui pare di assaggiare un’anticipazione dell’eurodance che si svilupperà in modo compiuto dal 1992. Ancorata al combo techno/house sdoganato dai britannici Bizarre Inc e cavalcato con successo dai Cappella è “Like Like This” di KC Element. Sono gli anni in cui si campiona di tutto e da tutto, compreso le preghiere come avviene in “Alleluja” di Dirty Mind. La parte vocale di “Buffalo Bill” degli Indeep finisce in “Let’s Dance” di Magic Marmalade e quella di “Not Gonna Do It (I Need A Man)” di Vicky Martin in “Anymore” di Brenda. Ulteriori stimoli eurodance affiorano in “Could Be Rock” di Open Billet (una risposta a “Rock Me Steady” di DJ Professor?) mentre “House Time” di Synthesis occhieggia ai 2 Unlimited, “Movin Up And Down” di Anita Adams e “Talk About” di Ruffcut puntano ancora alla piano house ed “Everybody Need Somebody” di A.R.T. replica lo schema di “We Need Freedom” degli Antico. Modelli più house sono quelli di “Wake Up” di Sound Machine a cui si somma “Don’t Stop” di Celine, prodotto dallo stesso team di Jinny sull’onda di “Keep Warm”.

Feroldi (ri)mette mano a “Movin Now” dell’anno precedente ora ripubblicata come “Perfect Love” ed attribuita a Linda Ray (presumibilmente un nome fittizio adoperato per giustificare la presenza vocale solitamente campionata da brani esteri) a cui seguono la sua “Everyday” e “We Don’t Need No Music” di Party Machine in cui sono rispettivamente allocati i sample di “No Frills Love” di Jennifer Holliday e “Crash Goes Love” di Loleatta Holloway. Il campionatore è lo strumento fondamentale nella house music di quel periodo, irrinunciabile specialmente per chi, in Italia, fatica a trovare vocalist madrelingua vedendosi costretto a ripiegare sulle acappellas incise su dischi d’importazione. Cremonini, Gilardi e Varola usano quella di “I Need You Now” di Sinnamon per “Give Yourself To Me” di Sonic Attack mentre Gelmetti e Marcolin optano per quella di “K.I.S.S.I.N.G.” di Siedah Garrett per “Uh La La” di Soul System. Italo house con grandi pianate in evidenza è pure quella di “Beet Oven” di T.E.E. (Cremonini con Ricky Stecca, Roby ‘Long Leg’ Sartarelli – intervistato qui – ed Andrea Acchioni), “Everything” di Spiritual (Mauro Marcolin e Valerio Gaffurini), e “Get Into My Life” di Local Area Network (Gelmetti e Marcolin). La prolificità è senza dubbio tra i segni distintivi dell’Italian Style Production che sortisce più interesse all’estero che in Italia: è il caso di “It’s Not Over” di Istitution, prodotto da Luigi Stanga, Ivan Gechele e Franco Martinelli in cui si intravede la formula che porterà tanta fortuna ai Livin’ Joy pochi anni più tardi. Il brano viene licenziato oltremanica dalla Brainiak Records che commissiona i remix ad Andrew “Doc” Livingstone (quello di “Bamboogie” di Bamboo) e al compianto Caspar Pound (la sua “RHL Mix” è inchiodata al giro di “Rock To The Beat” di Reese). Spetta al remix di “Let’s Dance” di Magic Marmalade toccare quota cento del catalogo. Il repertorio inizia ad essere consistente e, col fine di fare un sunto di ciò che è avvenuto negli ultimi tempi, viene approntata la “Italian Style Compilation Vol. II”. Martinelli, Gechele e Stanga tornano a farsi sentire prima come Pharaoh con la cover new beat di “Dance Like An Egyptian” dei Bangles e poi con “I Feel The Friction” di Black House. Ritorna pure il team House Corporation con “I Know I Can Do It”: a capitanarlo è il “solito” Feroldi che nel contempo si occupa di “Everybody Move” di KC Spirit, col campionamento di un classico della house statunitense, “Ride On The Rhythm” di “Little” Louie Vega & Marc Anthony. A fine anno Maiolini apre i battenti dei Time Studios (in una “megainaugurazione”, come scrive Eugenio Tovini in un articolo sulla rivista Tutto Disco), lì dove vengono prodotti moltissimi dei brani che usciranno in seguito.

1992-1993, l’alba dell’eurodance

La parabola fortunata dell’italo house, costruita essenzialmente su campionamenti vocali ed estensivi giri di pianoforte, è quasi al termine. A circa tre anni dall’exploit internazionale, la formula entra in una fase di stanca e di sterile ripetitività dovuta al ristagno creativo. L’Italian Style Production, che sinora ha praticamente puntato quasi tutto su tale filone, è costretta a rivedere la propria progettualità ma non prima di aver immesso sul mercato “Down Town” di DJ Cornelius, “Do It Now” e “Don’t Stop The Beat” di Magic Marmalade e “Let’s Talk About You And Me” di Ella Lund. La house pianistica comincia a lasciare il posto a costrutti imparentati coi suoni ruvidi tipici delle produzioni nordeuropee (come “George Bush” di Wash. D.C., il primo Italian Style Production a cui collaborano Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto, coppia destinata ad una rosea carriera) e a soluzioni affini all’eurodance come “Gone Away” di Danaeh. In parallelo nasce e si sviluppa una visione house più legata ai suoni ovattati in auge nelle discoteche specializzate. È il caso di “Love Will Make It Right” di Ruffcut prodotto da Cremonini & company, scandito dal suono di una campana usata a mo’ di refrein. Strascichi hip house si sentono in “Let’s Get Together” di Synthesis caratterizzato da un hook vocale che sembra annunciare “Move On Baby” dei Cappella mentre in “Tropical Movement”, secondo ed ultimo disco che Marco Bongiovanni firma come DJ D Lite, fanno prepotentemente capolino le congas e un giro di organo.

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Alcuni dischi comparsi nel catalogo Italian Style Production marchiati con nomi di personaggi storici

Cremonini e i suoi sono infaticabili e tirano fuori pezzi a raffica dal Prisma Studio: dalla house (“Hot For You” di Three D, “Believe You” di Tune Grooves) a forme ibridate tra eurodance ed house (“Feel The Power” di Open Billet, “Sky” di Brenda) passando per “Funk Express” di Brothers Of Funk, che occhieggia ad “How-Gee” di Black Machine di cui parliamo qui, e “Highlander Part II” di MC Claude con rimandi alla hardcore techno dei Paesi Bassi. Marcolin, dal canto suo, non se ne sta con le mani in mano e sforna “Waste Your Time” di House Corporation, “Are You Ready” di KC Spirit, “Paura” di Louis Creole, “Play My Games” di Contact One e “Can’t Stop” di B Master J. Menzione a parte per “I Need Loving You”, primo disco di Quasimodo curato proprio da Marcolin che inaugura una serie di pubblicazioni legate a nomi di personaggi storici (scrittori, pittori, astronomi, esploratori). Filo conduttore resta la serrata pratica del campionamento che in “I Need Loving You” si rivela attraverso il riadattamento del riff di “Sweet Dreams” dei britannici Eurythmics. Segue “My Obsession” che Cremonini, Gilardi e Varola firmano come Keplero ma raccogliendo pochi consensi. La situazione si ribalta con “Open Your Mind” di U.S.U.R.A., l’ennesimo dei nomignoli comparsi nel catalogo della label bresciana. Messo a punto da Cremonini, Varola e Comis a cui si aggiungono Claudio Calvello e la bella Elisa Spreafichi tempo dopo nota come Lisa Allison, il pezzo ruota sul sample (pare risuonato) di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, ossessivamente scandito da un vocal tratto dalla pellicola “Total Recall” del 1990 controbilanciato da un frammento irriconoscibile di “Solid” di Ashford & Simpson. Stampato sia su etichetta blu che nera, “Open Your Mind” è, dopo “Keep Warm” di Jinny, la nuova hit internazionale messa a segno dalla Italian Style Production che macina licenze in tutto il mondo e vende centinaia di migliaia di copie, si dice almeno 700.000. Per l’occasione viene approntato un videoclip interamente basato sull’effetto morphing in cui passano in rassegna volti di celebrità tra cui Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Joseph Stalin e Benito Mussolini. Visto il grandissimo successo (Italia inclusa), gli U.S.U.R.A. “migrano” sulla label principale del gruppo diretto da Maiolini, la Time per l’appunto, sin dal successivo singolo intitolato “Sweat”, analogamente a quanto avviene per Jinny dopo “Keep Warm”.

U.S.U.R.A. - Open Your Mind

Con “Open Your Mind” degli U.S.U.R.A. l’Italian Style Production torna nelle classifiche internazionali dopo “Keep Warm” di Jinny dell’anno prima

Galvanizzato dagli strepitosi risultati, il team patavino mostra subito la sua iperattività ed incide pezzi a nastro, da “Transilvania” di I.N.C.U.B., trainato dall’assolo sinfonico di un organo della L.S.A. Version, a “Bam Bam Show” di Andros, a cui prendono nuovamente parte Trivellato e Sacchetto, da “Rag Time” di P.I.A.N.O., con una performance pianistica di Gaffurini, ad “Old Times” di S.H.O.K. passando per “I Want Your Love” di Open Billet. Nel frattempo, a Brescia, Mauro Marcolin e i suoi collaboratori più stretti come il sopracitato Gaffurini e Silvio Perrone, “rispondono” con altre produzioni come “America” di Magic Marmalade, un mix tra ripescaggi del passato (“Last Night A D.J. Saved My Life” degli Indeep, “On The Road Again” dei Barrabas e “Come To America” dei Gibson Brothers) e linee melodiche contemporanee, “Breaking Down” di Synthesis, che incapsula elementi della hoover techno, “Tubular Noise” di Phantomas e l’ipnotico “Dream On Ecstacy” di Extasy. Poi, come Techno Hype Council, realizzano “Welcome To The Real World” pubblicato anche in Spagna dalla Blanco Y Negro ma con l’acronimo T.H.C., a cui seguono “Until The End” di Ethiopia che gira su un sample preso da “Chase Across The 69th Street Bridge” di John Carpenter ed Alan Howarth (dalla colonna sonora di “Escape From New York”), “Good Morning” di Copernico (il riff è quello di “Enola Gay” degli Orchestral Manoeuvres In The Dark) e “Shut Up” di Contact Two, prosieguo di “Play My Games” uscito un paio di mesi prima come Contact One. Cremonini, Gilardi e Perrone riciclano l'”everybody fuck now” di Sissy Penis Factory (remake di “Gonna Make You Sweat (Everybody Dance Now)” dei C+C Music Factory) intrecciandolo ad un breve riff di sintetizzatore preso da “Send Me An Angel” dei Real Life, coverizzato con successo dai Netzwerk proprio quell’anno: il risultato è “Everybody Fuck Now” di Extensive. Gli stessi autori si celano dietro “Trauma” di 479 Experience, colorito da scat vocali, “Rage Thumb” di Caliope, “Take My Hand” di Trance Fusion e “Funkystein” dell’omonimo Funkystein (un omaggio a “The Clones Of Dr. Funkenstein” dei Parliament di George Clinton?), un potpourri sampledelico venato di funk – in evidenza c’è un frammento di “Hang Up Your Hang Ups” di Herbie Hancock, lo stesso che l’anno seguente figura nella T.C. Funky Mix di “Come On (And Do It)” degli FPI Project – dai contenuti graficamente tradotti nell’ironica illustrazione sulla logo side. La voce di “Big House (We’ve Got The Juice)” di MC Miker G finisce in “Hyper” di 44 Megabyte e la malinconica melodia di un carillon scorre in “Music Box” di Nenja. Il campionatore è il “motore creativo” di quel periodo e più le fonti sono inusuali, più l’attenzione cresce. Così, se Max Kelly cattura la voce delle colonnine Viacard in “M.K.O.K.” su Wicked & Wild Records (di cui parliamo qui), in “Free Message” Cremonini e soci optano per il messaggio della segreteria telefonica della SIP, poi diventata Telecom. Il nome del progetto? S.I.P. ovviamente.

“James Bond” di Spectre è il remake del tema cinematografico scritto da John Barry mentre “Time”, è l’unico brano che Franco Moiraghi realizza come K-F.M.. Sound à la 2 Unlimited è quello di “Get Hip To This” di B Master J. e “People Come Together” di KC Element (quest’ultimo sfiora davvero il plagio di “Twilight Zone”). Più house oriented, col riff di “Change” dei Tears For Fears ripreso l’anno dopo da Z100 in “On The Low”, è “Somebody” di Dominoes. Il synth pop, il funk e il rock rappresentano un serbatoio immenso da cui si attinge deliberatamente. È il caso di “Coming Up” di Magellano, edificato sulla melodia di “Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode, di “The Picture” di Giotto, costruito sul giro di “Last Train To London” degli Electric Light Orchestra, di “Mamamelo” di Dirty Mind, in cui si incrociano “Fade To Grey” dei Visage ed “Anastasis” dei Rockets, di “Let It Out” di Quasimodo, in cui viene arpionato “Mammagamma” degli Alan Parsons Project, di “Space Dream” di Space Dream, rilettura di “Pulstar” di Vangelis già oggetto di un fortunato rifacimento del 1983 ad opera degli Hipnosis del compianto Stefano Cundari, o di “Over Me” di Pharaoh in cui viene rispolverato “Situation” degli Yazoo. Scritto, registrato e mixato da Ugo Bolzoni presso il suo New Frontiers Studio, a Rovigo, è “Sexual Intimidation” di X-Ray. Il suono dell’Italian Style Production inizia a battere con regolarità il sentiero dell’eurodance, genere che tra 1992 e 1993 promette sempre di più in termini commerciali. Escono “It’s Gonna Be There” di Car Max, “Alphabet Mode” di Alphabet (nato dal campionamento di “It Gets No Rougher” di LL Cool J e prodotto dal menzionato Max Kelly insieme ad Alex Bagnoli e Sabino Contartese, rispettivamente il futuro produttore di Neja e il protagonista in Santos & Sabino con Sante Pucello), “I Feel So Good” di Boxster (che sfrutta il sample vocale “hope, cause I’ve learned to cope” di “Hope” di Phil Asher, usatissimo in futuro), “Giving My Heart” di Glamour e il più “picchiato” “Do It Do It” di Yama. Tra febbraio e marzo del 1993 inizia a circolare “We Are Going On Down”, l’ennesimo dei brani costruiti su sample di vecchi dischi con cui il team cremoniniano riporta in vita, dopo circa due anni d’inattività, il progetto Deadly Sins nato sulla Line Music con “Together” di cui parliamo qui. Il successo è clamoroso e il pezzo, ribattezzato “disco dell’ottovolante” in virtù del video, entra in decine di compilation ma soprattutto nel secondo volume della “DeeJay Parade” edita da Time e diventato uno dei bestseller estivi. A finire nell’ambita tracklist della compilation di Albertino è pure un altro brano del repertorio Italian Style Production, “Make It Right Now” di Aladino, interpretato da Emanuela ‘Taleesa’ Gubinelli, già turnista in decine di progetti che la Time destina al mercato nipponico. Prodotto da Mauro Marcolin, Valerio Gaffurini e Diego Abaribi ispirati da “Angel Eyes” dei canadesi Lime uscito esattamente dieci anni prima, “Make It Right Now” (di cui parliamo qui nello specifico) diventa una hit in Italia e contagia anche qualche Paese estero, segnando una tappa importante di quella che sarà poi identificata come prima ondata italodance. Il successo da noi è tale da richiedere le esibizioni nelle discoteche. A quel punto Abaribi, che già lavora come DJ, diventa il frontman del progetto portando il brand Aladino nei locali di tutto lo Stivale.

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“Progressive House” di Mah-Jong e “In The Ghetto” di Jam 2 Jam sono gli unici dischi che Italian Style Production pubblica su etichetta di colore verde

Sino a questo momento i due colori usati per le etichette centrali e per le relative copertine sono il nero e il blu, fatta eccezione per alcune cover rosse usate sporadicamente nei primi anni. Come racconta Abaribi in un’intervista finita in Decadance, da un certo momento in poi l’alternanza serve a velocizzare il lavoro del distributore: i dischi col logo blu sono destinati all’Italia, quelli col logo nero invece relegati al mercato estero. Non sempre però questa categorizzazione cromatica risulta essere adeguata e “Make It Right Now” di Aladino, stampato su etichetta nera, ne è un esempio. Alcuni inoltre, come “Open Your Mind” degli U.S.U.R.A., “Suicide” di Phase Generator o “Dirty Love” di Infinity (un altro discreto successo italiano messo a segno da Cremonini & co., con la chitarra di “Sweet Child O’ Mine” dei Guns N’ Roses e un breve passaggio vocale di “Human” degli Human League), vengono stampati in entrambe le versioni, blu e nera. Come si spiega in Decadance Extra, nel 1993 viene scelto anche un terzo colore, il verde, riservato però ad appena una manciata di pubblicazioni orientate ai club, “Progressive House” di Mah-Jong, prodotto da Gianni Bini nel Brain Studio a Viareggio, e “In The Ghetto” di Jam 2 Jam, dietro cui armeggiano Franco Moiraghi e Marco Dalle Luche. Proviene dal Ghost Studio di Francesco Marchetti invece “Jericho” di Jericho, in cui riappare l’hook vocal tratto da “The Badman Is Robbin'” degli Hijack, già ripreso nel ’92 dai Prodigy in “Jericho” e, qualche anno più tardi, da DJ Supreme in “Tha Horns Of Jericho”. La prolificità dei team che lavorano per Maiolini non conosce pause ma spesso tradisce similitudini troppo evidenti come in “Do You Want My Love” di House Corporation, simile a “Make It Right Now” di Aladino, “Time Is Right” di Synthesis, prodotto sulla falsariga di “We Are Going On Down” di Deadly Sins, o ancora “I’m Your Memory” di Copernico e “Let Me Down” di Rock House con l’assolo rock rispettivamente di “Eye Of The Tiger” dei Survivor e “Money For Nothing” dei Dire Straits, che si riagganciano ai Guns N’ Roses ripresi in “Dirty Love” di Infinity, e “Movin’ Over” di Trivial Voice che suona come una sorta di nuova “Open Your Mind”. Con la media di una nuova uscita a settimana, l’Italian Style Production è davvero un pozzo senza fondo. Da “What’s Your Name” di KC Spirit ad “Arriba Arriba” di DJ Cartoons, da “Sex” di Spirits a “Got To Feel Good” di Anita Adams, da “I Wanna Give Up” di Intuition ad “I Love Music” di Louis Creole passando per “Wash” di Alverman ed “Open Your Eyes” di Gulliver che pare una miscellanea tra “Suicide” di Phase Generator e “Make It Right Now” di Aladino con l’aggiunta di un testo scritto da Silver Pozzoli.

Dirty Mind - Bocca Boca

A causa di un presunto errore, il titolo riportato sulla copertina di Dirty Mind è “Bocca Boca” anziché “Back To Future”

Particolarmente fortunato il ritorno di Dirty Mind che con “Back To Future” tocca forse il punto più alto di popolarità. Facendo leva su un riff di fisarmonica suonato da Elvio Moratto e campionato da “¡Hablando!” di Ramirez & Pizarro, Marcolin, Gaffurini e Perrone ottengono un martellante pezzo che si ritaglia spazio nella programmazione estiva e stimola l’interesse della Jelly Street Records che lo licenzia nel territorio britannico. In copertina finisce un titolo diverso, “Bocca Boca”, poi coperto da rettangolini adesivi che recano invece quello esatto. Promette bene ma non riuscendo ad esplodere “Won’t You Find A Way” di D.R.A.M.A., prodotta ed arrangiata da Cremonini e Gilardi sul testo scritto da Fred Ventura e cantato da Debbie French, turnista che un paio di anni prima presta la voce a “Do What You Feel” di Joey Negro e “One Kiss” di Pacha. La britannica frequenta gli studi della Time e in quel periodo interpreta, tra le altre, “Confusion” di Molella e “Do You Know My Name” di Humanize di cui si parlerà in seguito. Cremonini, Gilardi ed Abaribi sono pure gli artefici di “Bump” di House Corporation (lo spunto viene da “Baby, Do You Wanna Bump” dei Boney M.). Stilisticamente simili sono “Movement Of People” di M.O.P., “Check It For Me (One Time)” di Strawberry Juice, “Let’s Spend The Night Together” di KC Element, “Don’t Look Back” di Carol Jones (che sul lato b annovera “Feel Underground”, a fare il verso ai suoni di “Plastic Dream” di Jaydee di cui parliamo qui) e “Popeye” di DJ Cartoons. Un altro pezzo che, come D.R.A.M.A., pare avere tutte le carte in regola per sfondare ma non riuscendoci è “We’ve Got To Live Together” di Andromeda, una specie di “Make It Right Now” che corre sull’acappella tratta da “Why Can’t We See” di Blind Truth, la stessa ad essere utilizzata nel ’91 da R.A.F. in “We’ve Got To Live Together” e nel ’94 da Proce in “Jump” (ma ricantata) e dai Systematic nella fortunata “Love Is The Answer”. Gli autori, Gilardi e Cremonini (insieme ad Abaribi), si rifanno comunque con gli interessi con un brano parecchio simile pubblicato su Italian Style Production nell’autunno del 1993, “Allright” di Silvia Coleman. Nato nel 1991 con “Into The Night (Taira Taira)”, pare interpretato da una certa K. Hausmann ed apparso su un’altra sublabel della Time, la citata Line Music, il progetto Silvia Coleman (l’ennesimo dei nomi di fantasia, scelto da Gilardi per omaggiare la pianista dei Revolution, Lisa Coleman, come lui stesso spiega in questa puntata di 90 All’Ora con DJ Peter e Luca Giampetruzzi) ora conosce una popolarità inaspettata grazie ad un brano a presa rapida che ricorda parecchio “Make It Right Now” di Aladino. A cantarlo è la britannica Denise Johnson, in quegli anni corista dei Primal Scream con cui Gilardi e Cremonini collaborano poco tempo prima attraverso “Matter Of Time” di D-Inspiration uscito su Time. Lo stesso team di lavoro sviluppa “Listen Up” di Synthesis, che occhieggia all’eurodance teutonica di Maxx, Culture Beat, Masterboy, Fun Factory o Intermission, e medesimi riferimenti stilistici sono pure quelli seguiti in “Dreams” di B.S. & The Family Stone, “Rock The Place” di Institution, “Girlfriend” di Frankie & The Boys, “All The Things I Like” di Brenda, “House Is Mine” di Rhythm Act e “Somebody” di Transit. Un vago rimando alla fisarmonica di “Back To Future” lo si assapora in “Straight Down On The Floor” di Yama mentre “Love On Love” di Dominoes stuzzica l’appetito della RCA tedesca. La musica del passato, recente e meno, continua a rappresentare una decisiva fonte di ispirazione intrecciando stesure e sonorità tipiche dell’eurosound di quel momento come avviene in “Again ‘N’ Again” di Magic Marmalade, che all’interno cela un campione di “Here Comes That Sound Again” di Love De-Luxe (1979), in “Out Of Control” di Digital Sappers, dove si scorge un fraseggio simile a quello di “Ultimo Imperio” degli Atahualpa (1990) ed uno stralcio vocale preso da “Go On Move” dei Reel 2 Real che si afferma commercialmente con la versione del 1994, e “Loving You” di Phase Generator scandito dal riff (risuonato) di “Take On Me” dei norvegesi a-ha.

Aladino - Brothers In The Space

“Brothers In The Space” è l’atteso follow-up di Aladino giunto nell’autuno del 1993

Insieme ad “Allright” di Silvia Coleman, nell’autunno del ’93 si impone “Brothers In The Space” di Aladino, atteso follow-up di “Make It Right Now”. Per l’occasione commercializzato con una grafica ad hoc, né blu né nera, il brano impasta elementi simili a quelli del precedente inclusa la voce di Taleesa seppur ancora esclusa dai crediti. Gli ultimi mesi dell’anno vedono uscire in rapida sequenza circa una quindicina di 12″ di cui alcuni rimasti nell’anonimato come “Got The Power” di Copernico, “Don’t Stop The Motion” di Andromeda, “Do You Really Love Me?” di Stereo Agents (un tentativo di rispondere alle hit provenienti dall’estero di B.G. The Prince Of Rap o Captain Hollywood), “Dance To The Beat” di Trivial Voice, “Barracuda” di Barracuda, “Shake It Up” di Loren-X (che ricicla la base di “We’ve Got To Live Together” di Andromeda uscito pochi mesi prima), “I Let You Go” di House Corporation e “Do The Dance” di Vi-King. La concorrenza nella cheesy dance è fortissima e spietata, le etichette immettono sul mercato enormi quantità di dischi nella speranza che in mezzo a così tanto materiale ci sia sempre qualcosa che possa trasformarsi in un successo. Quando l’imperativo diventa vendere a tutti i costi la creatività va a farsi benedire e ne risente come avviene in “Let’s Get It” di Marasma, dove un’anonima base eurodance diventa il pianale per reinnestare il sample vocale di “Get On Up” di Silvia Coleman edito dalla Line Music l’anno prima e realizzato dagli stessi autori, pare ispirati da “Rock The House” di Nicole McCloud del 1988. A spingere verso quel “riciclo forzoso” è forse “Get On Up” di Giorgio Prezioso, uscita nel medesimo periodo con lo stesso campionamento vocale? Chissà, magari qualcuno deve aver sperato che la proprietà commutativa fosse valida anche in musica (cambiando l’ordine degli elementi il successo non muta). Eurodance assemblata coi soliti ingredienti e senza guizzi è pure quella di “Gimme The Love” di Darkwood che gira sul riff di “Sounds Like A Melody” degli Alphaville, ripreso con più successo dai bortolottiani Cappella in “U Got 2 Let The Music” negli stessi mesi. L’intro di “I Need I Want” di Alison Price mostra qualche evidente similitudine con “La Pastilla Del Fuego” di Moratto (di cui parliamo qui) incrociata al sample vocale preso da “Was That All It Was” di Solution Featuring Tafuri riciclato nel ’94 in “I Need I Want” di Vince B, “T.J.X.4.” di Algebrika strizza infine l’occhio allo stile di Ramirez. Piero Fidelfatti e Sandy Dian firmano “El Ritmo Del Universo” di Amparo, Cremonini e soci “Ohmm” di Tibet e “Just A Minute” di Castilla, ma nessuno di questi riesce a farsi notare. Sorti diverse invece per le ultime pubblicazioni del 1993 che si faranno ben sentire nei primi mesi del ’94: “Come Down With Me” di Deadly Sins, cantato da Glen White, ex vocalist dei Kano, e “Do You Know My Name” di Humanize, eurodance prodotta da Bruno Cardamone, Gianluigi Piano e Giuseppe Devito ed interpretata da Debbie French sul ritornello di un vecchio brano della già citata Nicole McCloud, “Don’t You Want My Love” (per approfondire rimandiamo all’articolo/intervista disponibile qui).

1994-1995, tsunami italodance

Per Italian Style Production il 1994 si apre all’insegna dell’eurodance, genere che quell’anno domina la scena pop senza rivali. Il primo ad uscire è “Temptation” di Swag, un brano registrato presso il Red Studio di Palermo che mescola suoni tipici del filone insieme al binomio voce femminile/rap maschile (rispettivamente di Sandra Walters e di un certo Aziz) ma che non riesce a districarsi nella miriade di pezzi simili in circolazione. Gli autori, Daniele Tignino e Vincenzo Callea, trovano più fortuna qualche mese più tardi insieme al conterraneo Riccardo Piparo e il cantante Josh Colow con “Illusion”, che lancia in modo definitivo i Ti.Pi.Cal. dopo il poco noto “I Know” dell’anno prima ma con uno stile diverso dall’eurodance. Giorgio Signorini e Sergio Olivieri firmano “End Of Time” di Synthesis a cui seguono “Find A Way” di Ruffcut, “Won’t You Come With Me” di KC Element e “Can’t Give Up” di Dominoes, cantata dalla corista dei Simply Red, Janette Sewell. Cardamone, Piano e Devito, dopo gli esaltanti riscontri di Humanize, realizzano “Eyajalua” come Rajah ma tradendo le aspettative. Riappaiono Danaeh con “Walk Away”, che strizza l’occhio al primo Aladino e a Jinny, e gli Amparo di Fidelfatti e Dian che consegnano a Maiolini il seguito di “El Ritmo Del Universo” intitolato “La Magia De Mi Musica” e scandito ancora dalla voce di Rosalina Roche R., un mix tra Amparo Fidalgo dei Datura e Carolina Damas dei Sueño Latino. I due si fanno risentire, poco più avanti, come Thor col brano “Gibil”, sempre prodotto presso il Sandy’s Recording Studio a Gambellara, in provincia di Vicenza. I quattro remix di “Come Down With Me” di Deadly Sins invece giungono dalla Germania: a firmarli sono Ingo Kays (Genlog, Padre Terra etc) ed Antonio Nunzio Catania, siciliano trapiantato nel Paese dei crauti e dietro una miriade di produzioni come quelle con DJ Hooligan ma soprattutto Scatman John. Attitudini eurodance, le stesse che caratterizzano la prima ondata italodance, si ritrovano in “Never Let It Go” di Dis-Cover (in scia a Silvia Coleman), “Everybody” di Carol Jones, “Underpower” di Algebrika, “That Is Really Mine” di Black House (su cui mettono le mani Maurizio Braccagni e Roberto Gallo Salsotto), “Loverboy” di Mr. Signo, “No Lies” di M.C. Claude, “Easy” di Magic Marmalade, “People All Around” di B Master J (con un intro che rimanda a quello di “Everybody” di Cappella) e “Life Love & Soul” di D-Inspiration. Ed ancora: “Baby” di Mytho, prodotta da Roby Borillo dei Los Locos con una citazione vocale di “Take Your Time (Do It Right)” della S.O.S. Band, “I Need Love” di Open Billet, “Sex Appeal” di KC Spirit, “Keep On Movin'” di Yama, diventato un cimelio per i collezionisti con un sound à la “The Key: The Secret” degli Urban Cookie Collective, “Mastermind” di Hyppocampus e “Why” di Star System. Tutti passano inosservati dalle nostre parti trovando più fortuna in Paesi come Spagna, Francia e soprattutto Sudamerica dove eurodance ed italodance vivono un autentico exploit. Molti progetti risultano one shot probabilmente perché ritenuti tentativi di successo andati a vuoto con più nessuna energia ulteriormente investita.

successi ISP estate 1994

Alcuni successi messi a segno da Italian Style Production nell’estate 1994: dall’alto “Call My Name” di Aladino, “All Around The World” di Silvia Coleman e “Sing, Oh!” di Marvellous Melodicos

L’inversione di tendenza avviene durante la stagione estiva con almeno una manciata di titoli, “Call My Name” di Aladino, orfano della presenza di Marcolin e l’ultimo ad essere prodotto da Abaribi e cantato da Taleesa (che in parallelo interpreta “Promise” di No Name, su Time), ed “All Around The World” di Silvia Coleman, trainata dalla U.S.U.R.A. Mix. A questi si aggiunge “Transiberiana” di Dirty Mind, a cui pare collabori Molella in incognito, e “Sing, Oh!” di Marvellous Melodicos, nuovo progetto messo in piedi da Trivellato e Sacchetto (ed Alberto ‘The Indian’ Lapris) che utilizzano la parte vocale di un classico della musica brasiliana. Il successo coinvolge pure la Francia in autunno, quando si ipotizza l’uscita dell’album di Aladino, iniziativa che però non andrà mai in porto. Come contorno giungono “Batman” di DJ Cartoons, progetto nato in seno a quella che alcune riviste ribattezzano “techno demenziale”, “Watching You” di Frankie (prodotta dai fratelli Paul e Peter Micioni), “Sending (All My Love)” di Andromeda, “I Need A Man” di Buka e “U Love Me” di Delta, un altro di quelli che hanno acquisito valore collezionistico col passare degli anni. Scarsamente accolti in Italia sono “Take Me To Heaven” e “Make My Day” di Nevada, “I Want Your Love” di Etoile (davvero simile ad “I Found Luv” di Taleesa), “For Your Heart” di Alison Price, “Pinga” di El Loco, “Keep Me Going On” di D-Inspiration e “Freedom” di KC Element. Degna di menzione, sul fronte estero, è la nascita della Italian Style UK, filiale britannica accorpata alla Disco Magic UK gestita da Roland Radaelli, società sulla quale è possibile leggere interessanti dettagli cliccando qui. L’iniziativa però si rivela effimera visto che conta su appena tre pubblicazioni (“I Know I Can Do It” di House Corporation, del 1991, “Feel Free” di Debbe Cole, uscita su Time nel 1992, e “Let Me Down” di Rock House del 1993). Altre licenze, come “Moving Now” di Pierre Feroldi, “Keep Warm” di Jinny, “Everyday” di DJ Pierre, “It’s Not Over” di Istitution, “Wake Up” di Sound Machine e la compilation mixata “Megastyle Volume 1” finiscono invece nel catalogo della stessa Disco Magic UK.

Torniamo in Italia: in autunno riappare per l’ultima volta Deadly Sins con “Everybody’s Dancing”, ancora cantato da Glen White su una filastrocca da luna park, atmosfera rimarcata dalla foto vintage scelta per la copertina curata da Clara Zoni. Ultima apparizione pure per Silvia Coleman con “Take My Breath Away”, quasi una copia di “All Around The World” che sul lato b include “Feeling Now The Music” particolarmente apprezzata in Germania e Spagna. Meno fortunato il ritorno degli Humanize con “Take Me To Your Heart”, nonostante tutte le carte in regola per bissare il successo del precedente. Si risente Quasimodo con “All I Want Is You”, sequenzato sia su una parte vocale davvero simile a quella di “Don’t Leave Me Alone” dell’olandese Paul Elstak uscita poco tempo dopo, sia su una chitarra flamenco in stile Jam & Spoon che si ritrova altresì in “Jungle Violin” di Stradivari, prodotto da Roby Arduini e Pagany negli studi della loro Union Records fondata dopo aver lasciato la Media Records proprio quell’anno. Un altro disco che, pur sviluppato con perizia sullo schema eurodance, non riesce ad affermarsi del tutto in Italia è “If You Wanna Be (My Only)” di Orange Blue. Prodotto da Arduini ed Abaribi con la voce della compianta Melanie Thornton, reduce dei clamorosi successi di “Sweet Dreams” dei La Bouche e “Tonight Is The Night” dei Le Click, esce in autunno e conquista Germania, Spagna, Francia, e il Sud America. In cambio Amir Saraf ed Ulli Brenner, produttori di La Bouche e Le Click, e il rapper Mikey Romeo, si occupano del citato “I Found Luv” con cui Taleesa torna come solista dopo il poco fortunato “Living For Love” del ’91 (firmato Talysha), l’esperienza accanto ai Co.Ro., Stefano Secchi, Aladino (seppur mai ufficializzata) ed una caterva di lavori come turnista. Scarso interesse è suscitato da “Do You Wanna Right Now” di Andromeda, costruito sui sample presi dall’omonimo dei Degrees Of Motion (cover del classico di Siedah Garrett del 1985 già ripreso da Taylor Dayne e parzialmente riadattato da Stefano Secchi in “We Are Easy To Love”) e da “Ghostdancing” dei Simple Minds scelto nel medesimo periodo dai Dynamic Base in “Make Me Wonder” sulla Welcome del gruppo Dancework. Provengono degli anni Ottanta pure i campionamenti celati in “Feel So Good”di Ruffcut Feat. Carol Jones (“Venus” degli Shocking Blue) e in “Anything For You” di Trivial Voice (le voci da “The Reflex” dei Duran Duran e il riff da “Rain” dei Cult). In entrambi la parte di chitarra è eseguita da Enrico Santacatterina, da lì a breve coinvolto dagli U.S.U.R.A. in “The Spaceman”. Poco noto da noi ma ben piazzato nelle classifiche teutoniche è “The Light Is” di The Dolphin Crew, prodotto da Andrea De Antoni, Franco Amato e William Naraine ossia gli artefici dei Double You. A mixarlo è Francesco Alberti, ingegnere del suono della DWA. Provenienti dalla label di Roberto Zanetti sono pure i Digilove che realizzano “Touch Me”, un clone di “It’s A Rainy Day” di Ice MC. Alex Baraldi ed Andrea Mazzali producono la veloce “I’m Losing My Mind” di L.O.V. (acronimo di Licensed On Venus) che inizia a battere il sentiero di una dance dopata nei bpm a cui aderiscono già diversi act tedeschi e che in Italia trova il la grazie a “The Mountain Of King” di Digital Boy. In tal senso si fa ben notare, a fine anno, “Strange Love” di Kina, un pezzo di Trivellato e Sacchetto che ricicla la melodia di “Reality”, tra i brani della colonna sonora del film “Il Tempo Delle Mele” composta da Vladimir Cosma. Molto simili i contenuti di “Chanson D’Amour” che Arduini ed Abaribi firmano come Savoir Faire insieme a Geraldine, e di “Open Your Hands” di Tatanka, solo omonimo del DJ Valerio Mascellino. Preso in licenza dalla tedesca Maad Records (con l’aggiunta di un remix realizzato nel Time Studio da Gianluigi Piano e Roby Arduini) è “Frozen Luv” di Polaris Feat. Minouche, mentre esportato con successo nel Paese della Torre Eiffel è “Ride On A Meteorite” di Antares in cui la voce di Clara Moroni è alternata al rap di Asher Senator, lo stesso che un paio di anni più tardi affianca con discreto successo i JJ Brothers e Molella. “Adottato” dalla tedesca Polydor è pure “Nevermind” di Phase Generator, prodotto dallo stesso team di Marvellous Melodicos. Tra gli ultimi ad uscire nel ’94 ci sono “The Sun And The Moon” proprio dei Marvellous Melodicos, che risente della velocizzazione a cui allora va incontro la pop dance, e “Come On Let’s Go” di The Dog, prodotta da Cremonini e Gilardi sulla falsariga delle hit estive transalpine de La Bouche/Le Click sul testo scritto e cantato da Orlando Johnson, ricordato per aver interpretato ad inizio decennio i più grandi successi di Stefano Secchi come “I Say Yeah” e “Keep On Jammin'”.

Il 1995 si apre con “I Believe”, ultimo disco del progetto Copernico rappato da Asher Senator a cui si somma “Virtual Dreams”, una specie di incrocio tra Kina ed “Over The Rainbow” della tedesca Marusha che in quel periodo vive uno strepitoso successo commerciale. A realizzarla sono i già incrociati Baraldi e Mazzali che si firmano Argonauts. Bpm serrati e melodie festaiole sono pure gli ingredienti di “In The Name Of Love” di Aqua prodotto dalla premiata ditta Trivellato-Sacchetto che coi medesimi elementi appronta il secondo brano di Kina, “7 Days”. Ultima apparizione per Quasimodo con “Memories” (a scandirlo è una melodia molto simile a quella di “Outside World” dei Sunbeam che, a cavallo tra ’94 e ’95, si sente pure in “Heaven Or Hell” degli italiani R.O.D.) a cui seguono a ruota “Up In The Sky” di Andromeda, “The Big Beat” di Nouvelle Frontiere e “Dreamlover” di Orion (con occhiate a “The Mountain Of King” di Digital Boy), tutti accomunati da echi epic trance desunti dal successo internazionale dei citati Sunbeam. La musica ad alta velocità è il trend imperante di quell’anno che traina “Music Of Belgium” di The Choir (il nome è dovuto alla presenza di una parte ecclesiastico-corale). Più canonicamente eurodance sono “I Keep Calling You” di Prophecy, remixata per l’occasione dai Ti.Pi.Cal. (le versioni dei siculi sono due, Underground Mix e Crossover Mix, incise sul lato b), “Cannibal” di Black 4 White, progetto di Massimo Traversoni e Roberto Calzolari mixato presso il Casablanca Studio di Zanetti da Francesco Alberti, “You’re The Best Thing” di Gorky, “The Beat Of The Flamenco” di Trivial Voice, “All I Wanna Do” di Phase Generator e “Don’t U Bring Me Love” di Nevada, decisamente in “DWA style” analogamente a “To Be Free” di Prime, prodotto da un giovane Federico Scavo affiancato da Riccardo Menichetti. Sfruttando il successo di Ini Kamoze i DJ B. (Benny DJ, Mitia ed Umberto Benotto) incidono la cover di “Here Comes The Hotstepper” presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. Makina le matrici di “The Sugar Of Life” di Human Dragon, act rimasto nell’anonimato seppur orchestrato da Alex Quiroz Buelvas, frontman di uno dei progetti nostrani più fortunati di quel periodo, Ramirez. Trivellato e Sacchetto, con la vocalist Mireille, realizzano “Don’t U Know” di Pelican sullo schema seguito in parallelo per i singoli di Taleesa (“Let Me Be”, “Burning Up”, editi su Time). Maiolini affida loro il nuovo Orange Blue, “Sunshine Of My Life”, che conquista licenze in Spagna, Francia, Svezia e Canada come accade a “You Belong To Me” di Antares. I Discover riprendono “’74-’75” dei Connells ricantata da un certo Dominic.

tshirt ISP

Tre tshirt della Italian Style Production distribuite dalla Pro Mail tra 1994 e 1995

Con oltre dieci anni di attività alle spalle, la Time è tra le aziende discografiche italiane più consolidate. I tempi sono giusti per lanciare una ricca linea di gadget, merchandising ed abbigliamento tra cui orologi da parete e da polso, slipmat, flight case, borse portadischi in stoffa, bandane, camicie, cappellini, felpe ed alcune tshirt decorate con il logo Italian Style Production. A distribuire tutto questo materiale è la Pro Mail di Trento, specializzata in vendita per corrispondenza. In autunno arrivano due discreti successi messi a segno da Trivellato e Sacchetto: “Stay With Me”, il quarto (ed ultimo, almeno in questa fase) 12″ di Aladino, col featuring vocale ma non accreditato ufficialmente di Sandy Chambers, ed “Over The Rainbow”, ultima apparizione di Marvellous Melodicos ispirato da “Luv U More” del DJ olandese Paul Elstak, un successo estivo a metà strada tra eurodance ed happy hardcore. Torna anche Dirty Mind con un brano radicalmente diverso dai precedenti e che forse sarebbe stato più opportuno collocare su un’etichetta più legata alla house come la Downtown. Trattasi di “Make It Funky” in cui Walter Cremonini, Alex Gilardi e Ricky Romanini inseriscono il campionamento di “K-Jee” degli MFSB, un classico funk/disco estratto dal catalogo Philadelphia International Records. Chiudono l’annata la veloce “My Love” di Torricana, “Ridin’ On The Night” di Trivial Voice, “Wanna Move Up” di Ruffcut Feat. Carol Jones, “Take A Chance” di Dream Project (per cui Trivellato e Sacchetto ricorrono ancora alla voce della Chambers) ed “Everytime You Go” di Andromeda, annessi alla corrente eurodance ma probabilmente fuori tempo massimo visto che i suoni della dream progressive iniziano a farsi avanti e tutto sta per cambiare.

1996-1997, in balia di happy hardcore e dream progressive

Con una fama ben consolidata oltralpe, il progetto Antares ricompare con “Let Me Be Your Fantasy” a cui partecipa nuovamente il rapper Asher Senator. In scia si inserisce “Runaway” interpretato dalla Chambers, che chiude definitivamente l’operatività di Orange Blue. Influssi dream à la Robert Miles scandiscono “Como El Viento” di Lullaby, seppur intriso in modo evidente di salsa eurodance. Il brano, scritto da Alessandro Sangiorgio, viene utilizzato nel medesimo periodo dai G.E.M. prodotti da Stefano Secchi per un medley con “Batufest”, su Propio Records. Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto ora sono tra i produttori più prolifici in forze alla scuderia maioliniana e sfornano un pezzo dietro l’altro come “Feels Like Heaven” di Nevada e “Wonderful Life” di Phase Generator, quest’ultimo una risposta a “Discoland” di Tiny Tot (di cui parliamo qui) e a tutto quel filone euro happy hardcore sdoganato dal citato Paul Elstak e Charly Lownoise & Mental Theo ma anche da tanti act tedeschi come Das Modul e Dune, di cui si può approfondire qui e qui. Elevati bpm sono altresì quelli di “I Wanna Make U Happy” di Free Jack in cui Asher Senator rappa un brano semi-emulo di “I Wanna Be A Hippy” dei Technohead, “Heaven”, ultimo disco di Andromeda costruito sulla falsariga di “Can’t Stop Raving” dei Dune da poco citati, e il quasi omonimo “Heaven’s Door”, ultimo per Kina ed ancora fortemente ispirato dalla happy hardcore teutonica di Dune e Blümchen. Curiosamente la parola “heaven” si ripete nel titolo in tre uscite attigue (Nevada, Andromeda, Kina): ambizione a finire nel paradiso della dance?

The Spy - The Persuaders Theme

“The Persuaders Theme” di The Spy è il primo disco che Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani realizzano per Italian Style Production ad inizio ’96

Uscito intorno a febbraio è “The Persuaders Theme”, cover dell’omonimo tema composto da John Barry per la serie televisiva “The Persuaders” (“Attenti A Quei Due” in Italia) per cui Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani dei Datura, che poco prima abbandonano la Irma Records in favore della Time, coniano un nuovo progetto one-shot, The Spy. Ad affiancarli nell’avventura è Guido Caliandro di cui si parlerà più avanti e che nel medesimo periodo realizza col compianto Ricci DJ “Electro Sound Generator” come Neutopia, unica uscita sulla E.S.P. (Extra Sensorial Productions), anch’essa raccolta sotto l’ormai enorme ombrello della label bresciana di Maiolini. Pagano e Mazzavillani aggiungono nel catalogo ISP altre due cover: “Il Clan Dei Siciliani” di Goodfellas (dalla colonna sonora dell’eterno Ennio Morricone dell’omonimo film del ’69) e “A Whiter Shade Of Pale” di Doomsday (l’originale è un classico dei Procol Harum, scritto da Gary Brooker e Keith Reid), co-prodotta con MC Hair (il futuro Andrea Doria di cui si parla qui) in chiave hard trance con graffiate acide. “Tears” di Overture, “Rapsody” di Skylab, “Once Upon A Time In The West” di Evolution (ennesima e non certamente ultima cover della morriconiana “C’era Una Volta Il West”) e “Treasure” di Globo seguono pedestremente lo stile di “Children” di Robert Miles. Un mix tra dream ed eurodance è quello di “Need Somebody” con cui Claudio Varola e Michele Comis degli U.S.U.R.A., a cui si aggiunge il DJ veneto Andrea Tegon, riportano in vita, a tre anni di distanza, il progetto Infinity. Anche questa volta l’ispirazione viene dal passato, precisamente da “Crockett’s Theme” di Jan Hammer (dalla soundtrack della serie “Miami Vice”). Cremonini, Gilardi e Romanini approntano “Whenever You Want Me” di Antares, questa volta in uno stile più house oriented che comunque convince la francese Scorpio Music di Henri Belolo a prenderlo in licenza.

Historya - Catch Me If I Fall

Con “Catch Me If I Fall” di Historya, Italian Style Production rinnova il suo layout grafico

Al ritorno dalle vacanze estive Italian Style Production si ripresenta con una veste grafica aggiornata: non c’è più la coppia che balla, sostituita da un logotipo in stile graffitista creato con le iniziali I ed S intrecciate. Il primo disco ad essere accompagnato da tale design è “Catch Me If I Fall” di Historya, prodotto dagli instancabili Trivellato e Sacchetto che riciclano una base simile a quella di “Seven Days And One Week” dei B.B.E. sulla quale innestano una parte cantata dalla compianta Diane Charlemagne, ex Urban Cookie Collective. Sull’onda dell’ormai iperinflazionata progressive totalmente cannibalizzata dal pop riesce ad affermarsi, anche oltralpe, “Clap On Top Of Me” dei M.U.T.E., prodotto da Cremlins & Zuul ovvero Max Boscolo e Luca Moretti che abbinano una base trainata da un basso in levare ad una melodia in pizzicato style à la Faithless. A fare da collante un breve hook vocale campionato da “Sweet Pussy Pauline” di Hateful Head Helen, del 1989. Il brano finisce in una celebre scena girata in un negozio di dischi de “Uomo D’Acqua Dolce”, film diretto ed interpretato da Antonio Albanese. Un altro brano-emulo dei transalpini B.B.E. è “Try” di Glissando, composto da Carl Fath (il futuro Io, Carlo) e Fabio Giraldo, a cui si sommano “Take Your Body” di Tunnel Groove, “Happiness” di 2 Ghosts, “Phrygian” di Euphonia (prodotto da Michele Generale), “Esperantia” di Cremlins e “You And I” di Luna, una sorta di “Summer Is Crazy” di Alexia cantata da Sandy Chambers, arrangiata da Ricky Romanini e Stefano Marcato con la produzione addizionale di Luca Pernici e Marco Rizzi.

In circolazione già da dicembre ’96 ma fattosi notare ad inizio 1997 è “The Bit Goes On” di Snakebite, brano proveniente dal Coco Studio di Bologna e costruito su un sample vocale preso da “The Beat Goes On” di Orbit Featuring Carol Hall dai già citati Pagano, Mazzavillani e Caliandro. A differenza di The Spy però questa volta il pezzo intriga la londinese Multiply Records che lo licenza nel Regno Unito commissionando un paio di remix agli Ispirazione (Gordon Matthewman e Mike Wells) e a Jason Hayward alias DJ Phats, che da lì a breve crea con Russell Small il duo Phats & Small. Segue “The Mission” di Sosa, progetto di Massimo Bergamini per l’occasione diretto da Roberto Gallo Salsotto. Il pezzo è stilisticamente allineato alla formula di DJ Dado, artista prodotto dallo stesso Gallo Salsotto ed entrato nell’autunno del ’96 in Time Records con “Revenge”. In seguito Bergamini approderà con più fortuna alla Media Records che, tra ’97 e ’98, gli mette a disposizione i suoi studi ma soprattutto i propri musicisti e produttori come Mauro Picotto, Andrea Remondini e Riccardo Ferri che confezionano “Wave” ed “Accelerator”, esportati entrambi all’estero col supporto della Tetsuo di Talla 2XLC e i remix di Taucher e Torsten Stenzel (intervistato qui). Nonostante il trend principale resti ancora quello della progressive, Italian Style Production non si esime dal pubblicare brani più inclini all’eurodance come “Thinkin’ About You” di Discover, prodotto da Ricky Romanini e Stefano Marcato e cantato in incognito da Simone Jay (analogamente a quanto avviene in “Keep The Spirit” di Sarah Willer, finito su Downtown), “I Dream Of You” di Nevada, “Jump To The Beat” di Dr. Beat (col sample dell’omonimo di Stacy Lattisaw), “It’s Time To Party Now” di Star System, “All I Need Is Love” di Celine ed “I Want Your Love” di Antares, ormai all’ultima apparizione e che vanta un remix house di Alex Gaudino, futuro A&R della Rise. Connessi all’eurotrance che inizia a farsi spazio soprattutto nelle classifiche estere sono “It’s The Day After The Party” di DJ Zuul, sul modello di “Bellissima” di DJ Quicksilver, e “Where’s My Money” di Skanky, side project dei M.U.T.E. edificato sul cocktail tra acid line e pizzicato style. In mezzo, a mo’ di farcitura di un sandwich, il sample vocale tratto da “Cantgetaman, Cantgetajob (Life’s A Bitch!)” di Sister Bliss & Colette. Il risultato colpisce il mercato francese, spagnolo e tedesco. Ingredienti simili per “Dirty Tricks / Peer Gynt” di Neural-M, con cui Pagano, Mazzavillani e Caliandro riadattano il “Peer Gynt” di Grieg, “Electronic Trip” di Woodland (l’ennesimo di Cremlins e Zuul) ed “Harmonic Fly” di Vortex, combo di Davi DJ e Maurizio Pirotta alias Pirmaut 70. Scritto insieme al compianto Federico ‘Zenith’ Franchi e Mario Di Giacomo, il brano viene remixato dal citato Sosa sempre presso lo Stockhouse Studio di Gallo Salsotto. Galvanizzati dal successo ottenuto pochi mesi prima con “Clap On Top Of Me”, Boscolo e Moretti approntano il secondo ed ultimo brano di M.U.T.E. che si intitola “She Loves Me” e conquista un paio di licenze in Francia e Spagna. Questa volta l’ispirazione giunge da “Petal” dei Wubble-U, un discreto successo britannico del 1994. Una sorta di Gala, ma meno fortunata, è Nancy Sexton che firma “Never (Don’t Need Your Love)” solo col suo nome. Il brano è prodotto da Molella & Phil Jay che nell’estate di quello stesso anno le affidano il featuring vocale della loro “It’s A Real World” con risultati ben più lusinghieri. La Sexton comunque si rifà qualche anno più tardi interpretando il trittico degli E.Magic, “Prepare Yourself”, “Stop” e “Go!”, finiti nel catalogo di un’altra label della Time, la Spy, allora guidata da Rossano ‘DJ Ross’ Prini. Riconfezionato in nuove versioni più adatte alle platee della progressive è “My Body & Soul” dei Marvin Gardens, un successo del ’92 nato come rifacimento dell’omonimo dei Delicious del 1986 e di cui parliamo approfonditamente qui. Il remix di punta è di Space Frog che quell’anno fa il giro del mondo con “X-Ray (Follow Me)” e i suoni, prevedibilmente, sono praticamente gli stessi. Sulla falsariga giunge “God Of House” di Central Seven, un discreto successo oltralpe ma che da noi fatica ad imporsi. Con l’eurodance di “Stay With Me” e “Never Gonna Say Goodbye” si tira il sipario su Trivial Voice e Discover: entrambi sono prodotti da Romanini e Marcato mentre a cantare come turniste sono rispettivamente Sandy Chambers e Simone Jay. Alle battute finali pure Tunnel Groove con “Hot Stuff”, remake dell’omonimo di Donna Summer, e The Dog con “Without You”, cantato da Gianfranco ‘Jeffrey Jey’ Randone dei Bliss Team e, da lì a breve, negli Eiffel 65. Una specie di “Clap On Top Of Me” con rimandi al sound di Klubbheads, DJ Disco, DJ Jean e Vengaboys è “Don’t Clap Anybody” di Black Mushroom, progetto one shot dietro cui operano Max Boscolo, Luca Moretti e Rossano Prini.

Sundance, Sven Vath

Un paio di licenze messe a segno da Italian Style Production nella seconda metà del 1997: sopra “Sundance” dei londinesi Sundance, sotto “Fusion/Scorpio’s Movement” del tedesco Sven Väth

Intorno a metà anno il trend progressive è ormai in vistoso calo, le platee mainstream si sono già stancate dei pezzi strumentali e richiedono nuovamente vocalità. Non si fanno trovare impreparati Cremonini, Gilardi, Comis, Varola e Tegon con “Dance Around The World” di Rio, brano orecchiabilissimo che ruota su un giro di pianoforte simile a quello di “Two Can Play That Game” di Bobby Brown remixato dai K-Klass ed una stesura che rammenta i successi internazionali dei Livin’ Joy dei fratelli Visnadi. Nonostante i buoni propositi però il pezzo fatica ad emergere dall’anonimato. Resa simile per “Get Down On It” di Gravity One, cover dell’omonimo di Kool & The Gang assemblata sempre dal team della Prisma Record a Padova. Un altro remake è quello di “Ring My Bell” di Anita Ward realizzato dagli Star System. Arriva dall’estero invece “Sundance” del progetto omonimo creato da Mark Shimmon e Nick Woolfson. Sfruttando un celebre sample di “The New Age Of Faith” di L.B. Bad del 1989, già ripreso nel ’93 dai Sabres Of Paradise capitanati dal compianto Andrew Weatherall in “Smokebelch II”, i londinesi creano un brano che in estate spopola nelle discoteche ibizenche e che contribuisce, insieme ad altri, a sancire la commercializzazione della trance. Passando per la poco nota “Mediterranea” di Mundo Nuevo si raggiunge l’ultima apparizione di Dirty Mind che avviene sotto il segno della progressive con “Millennium”, riadattamento del brano scritto da Mark Snow per l’omonima serie televisiva. Artefici sono DJ Dado e l’inseparabile Gallo Salsotto. Atmosfere progressive trance sono pure quelle di “How U Feel” di Headroom, traccia proveniente dalla Germania che vanta i remix di Sash! e dei Brooklyn Bounce ma insufficienti per intrigare il mercato italiano. Luca Moretti si inventa l’ennesimo alias, Sunrise, scelto per “Theme From Furyo”, reinterpretazione eurotrance del celebre tema cinematografico scritto da Ryuichi Sakamoto per “Merry Christmas Mr. Lawrence”. Chiude, a fine anno, un’altra licenza, “Fusion / Scorpio’s Movement” di Sven Väth. Entrambi i brani, estratti dall’album “Fusion” edito da Virgin, recano la firma del celebre DJ di Francoforte e del musicista Ralf Hildenbeutel (insieme erano i Barbarella nei primi anni Novanta). Sul 12″ presenziano pure i remix dei Fila Brazillia e Doctor Rockit alias Matthew Herbert.

1998, capolinea, si scende!

Gabriele Pastori ed Andrea Mathee, reduci del discreto successo raccolto qualche tempo prima con “I Try” di Activa su UMM, collaborano col DJ Alberto Castellari tirando fuori dal milanese Spirit Studio il brano “Endless Wind” che firmano come Lifebeat. A trainarlo, ma senza particolari esiti, la versione di DJ Dado. A metà strada tra progressive e trance è “Magic Fly” di Atrax, progetto curato dai fratelli Visnadi che ripesca l’omonimo degli Space intrecciato ad un bassline che pare pagare il tributo al “Blade Runner (End Titles)” di vangelisiana memoria. Partorito in seno al fenomeno cover è pure “Original Sin” di Cremlins, remake del pezzo degli australiani INXS che giusto pochi mesi prima perdono tragicamente il loro cantante, Michael Hutchence. Una sorta di mash-up tra “The House Of God” di DHS e la base del pluridecorato remix di “It’s Like That” dei Run-DMC realizzato da Jason Nevins è “Tar-Zan” di BB’s. Dentro ci sono anche svirgolate di TB-303 ma soprattutto l’urlo di Tarzan che chiarisce la ragione del titolo. A produrlo, per la tedesca Orbit Records da cui Italian Style Production rileva la licenza, sono Ramon Zenker (quello degli Hardfloor, Interactive o Phenomania di cui si parla qui) e il compianto Gottfried Engels, fondatore tra le altre cose della popolare Tiger Records. A sorpresa riappare Deadly Sins col remix di “We Are Going On Down” rimodellato sulla base del citato remix di Nevins. DJ Zuul invece in “Feel The Music” rispolvera l’hook vocale di “Feel The Rhythm” di Jinny, collocandolo in un contesto eurotrance a cui crede la sopramenzionata Orbit Records che lo pubblica in territorio tedesco. Tratto dal catalogo della britannica Inferno è “Dreaming” di Ruff Driverz Presents Arrola, un grosso successo in Nord Europa esportato persino negli Stati Uniti ma che non riesce proprio ad attecchire in Italia dove la trance trova un terreno decisamente poco fertile. Sulla falsariga dei più recenti successi di DJ Dado (“Coming Back”, “Give Me Love”) che abbandona la dream progressive a favore della pop dance, si inseriscono i Seven Days con “Send Me An Angel”. Dietro le quinte operano i Devotional (Cristian Piccinelli, ex Media Records ed artefice del successo di Simone Jay di cui si parla qui) e Tiziano Giupponi. Luca Moretti, prossimo alla consacrazione con Triple X (prima) ed Antillas e Rhythm Gangsta (poi) porta in scena per l’ultima volta Sunrise con “Ayla”, rifacimento del brano omonimo del tedesco Ingo Kunzi alias Ayla, risalente al ’96 e diventato un classico della trance mitteleuropea. Sul lato b del disco è incisa “Loco Train”, prog trance trascinata dal sample di un treno, idea che nello stesso anno viene sfruttata con più efficacia da Robbie Tronco nella sua “Fright Train”.

Miss Kittin & The Hacker - 1982

“1982” di Miss Kittin & The Hacker è il disco che nell’autunno ’98 chiude in modo quasi definitivo l’attività di Italian Style Production

In autunno giunge “1982” del duo francese Miss Kittin & The Hacker, tra i brani che gettano le fondamenta dell’electroclash, genere all’apice nei primi anni Duemila. Il pezzo, preso in licenza dalla label tedesca di DJ Hell, l’International Deejay Gigolo Records, è «un viaggio a ritroso nel tempo attraverso un testo con rimandi a Jean-Michel Jarre (“Let’s go to the rendezvouz”), Klein & M.B.O. (“DJ play deja vu”), Visage (“I see your face fade to grey”), New Order (“just wait for the blue monday”), Kraftwerk (“you’re a robot, man machine”), Soft Cell (“I don’t want a tainted love”), Yazoo (“but don’t go”), Telex (“just play me moscow discow”), e Depeche Mode (“I just can’t get enough”)» (da Gigolography) e diventa un successo inaspettato entrando in numerose compilation, programmazioni radiofoniche e classifiche di vendita. Sul lato b si trovano “Gigolo Intro” e “Frank Sinatra”, rilanciata tempo dopo attraverso una versione più incisiva. È il disco che tira il sipario in modo quasi definitivo sull’Italian Style Production.

2004, una falsa ripartenza

ISP 2004

Sopra il 12″ di “Make It Right Now” di DJ Damm Vs Aladino (2004), sotto il cofanetto “The Best Of Italian Style” del 2014

I primi anni Duemila vedono l’affermazione di una seconda ondata italodance, partita intorno al 1998. Alcuni artisti e compositori, già protagonisti nella fase precedente, si ripresentano con nomi diversi (Eiffel 65, Paps N Skar, DJ Lhasa giusto per citarne alcuni), altri invece appartengono ad una nuova generazione cresciuta coi successi del decennio precedente e desiderosa di emularne lo spirito e i risultati. Il suono identificativo di tale passaggio, come descritto in Decadance Appendix, vede la preminenza di «basso in levare, ritmiche appena colorite dall’uso del charleston della batteria e riff portanti eseguiti con suoni corposi di sintetizzatore che riprendono la linea melodica vocale». Sono proprio questi ingredienti a riportare in vita l’Italian Style Production nel 2004, sia nel nome che nel layout grafico iniziale. Per i nostalgici è un vero tuffo al cuore, rimarcato peraltro dal contenuto musicale che attinge dagli indimenticati 90s. L’ISP 1400 infatti è un remix di “Memories” dei Netzwerk, un classico del ’95. A realizzarlo sono i Promise Land, coppia di DJ romani formata da Fabio Ranucci e Nazario Pelusi. Segue un secondo 12″ ancora legato a doppio filo con gli anni Novanta e, in questo caso, con la stessa Italian Style Production: solcate sul mix sono due nuove versioni di “Make It Right Now” realizzate dal fantomatico DJ Damm (in realtà acronimo di Diego Abaribi Mauro Marcolin, autori del brano originale del 1993). Abaribi, tornato ad occuparsi di musica dopo diversi anni di assenza, fa resuscitare Aladino nel 2002 con “Feel The Fire”, interpretato da un ancora poco noto Sagi Rei e pubblicato dalla Moremoney, sublabel del gruppo Melodica che lui stesso fonda qualche tempo prima insieme a Bob Salton. Per Italian Style Production però si tratta solo di una falsa ripartenza. Dopo l’uscita di DJ Damm l’etichetta bresciana si congeda definitivamente, fatta eccezione per la raccolta riepilogativa “The Best Of Italian Style”, uscita nel 2014 e racchiusa in un cofanetto contenente cinque CD con una manciata di brani tratti dal repertorio Line Music, e la conversione del catalogo in formato digitale avvenuta attraverso la T30, l’ennesimo marchio raccolto sotto l’egida del gruppo Time di Giacomo Maiolini.

grafici ISP

Grafici che sintetizzano l’attività di Italian Style Production: a sinistra l’istogramma relativo al numero di pubblicazioni annue, a destra l’aerogramma che evidenzia la categorizzazione stilistica. I dati presi in esame potrebbero essere soggetti a marginali errori (per quei dischi, ad esempio, pubblicati in un anno diverso rispetto a quello riportato sull’etichetta).

Un mercato che dà i numeri

L’impatto che internet (specialmente il peer-to-peer e la pirateria) ha sulla discografia dopo il 2000 è devastante ma già qualche anno prima il comparto dance inizia a risentire di una crisi, acuita dalla povertà di idee e clonazioni troppo frequenti che ingolfano e saturano il mercato. Inoltre la chiusura di aziende-simbolo come Flying Records e Discomagic non è incoraggiante ed infatti negli ultimi anni Novanta il business comincia a cristallizzarsi. Sono ormai lontani i tempi in cui Italian Style Production immette a nastro dischi sul mercato non lasciandosi intimorire da risultati altalenanti. Dallo studio allestito al 5 in Via Sabotino, a Brescia, esce davvero un mare di musica che adesso però necessita di un ridimensionamento. Giacomo Maiolini, in un articolo apparso sulla rivista Trend a dicembre 1998 a cura di Nello Simioli ed Eugenio Tovini, afferma che «il mercato diventa ogni giorno più difficile e solo un costante lavoro permette di mantenere una quota significativa dei 12″. Per i discografici della dance c’è anche lo scoglio della scarsa considerazione in cui è tenuto questo genere dai grandi media. Non si capisce perché un progetto come The Tamperer non possa essere ospitato a Sanremo con tutta la dignità che merita dopo aver venduto oltre un milione di copie. In ogni caso la mia società ha da qualche tempo deciso di ridurre radicalmente le uscite pubblicando solo quei dischi che hanno ricevuto un giudizio positivo nella fase di pre-release dalle radio o dai partner stranieri. Con questa strategia si raggiungono contemporaneamente due risultati: agevolare il compratore verso prodotti curati con particolare attenzione e garantire un’alta professionalità anche promozionale su ogni lavoro pubblicato dalle nostre etichette». Il calo delle pubblicazioni a cui si riferisce Maiolini appare evidente prendendo in esame lo storico di Italian Style Production che, è bene rammentarlo, è solo una delle sublabel del gruppo Time Records. Il biennio più prolifico di uscite risulta essere il 1993-1994, rispettivamente con 75 e 62 pubblicazioni. Dal ’95 in poi invece si avvia una drastica diminuzione che coincide in pieno con quanto il bresciano afferma in quell’intervista di fine ’98 di cui si è detto sopra. A livello stilistico invece, il filone maggiormente battuto è quello dell’eurodance con oltre 200 pubblicazioni. Seguono la house (poco più di 100), l’eurotechno (una quarantina) e dream progressive/trance (una trentina). Dal punto di vista collezionistico, infine, una stima, seppur parziale, la si ottiene analizzando i dati emersi dal marketplace di Discogs. “Sky” di Brenda, “My Love” di Torricana, “Dirty Tricks / Peer Gynt” di Neural-M e “Keep On Movin'” di Yama sono tra quelli pagati a prezzo più alto (rispettivamente 250 €, 160 €, 125 € e 104 €) e si difendono bene anche “Cannibal” di Black 4 White (100 €), “I Want Your Love” di Etoile e “Keep Me Going On” di D-Inspiration (entrambi 95 €), “The Big Beat” di Nouvelle Frontiere (89 €), “That Is Really Mine” di Black House (69 €), “U Love Me” di Delta (67 €) e “Baby” di Mytho (63 €). Sul fronte grafico, in ultima analisi, Italian Style Production alterna artwork studiati appositamente, adoperati in prevalenza nelle prime annate d’attività, a copertine decorate con lo stesso layout e colore dell’etichetta centrale sino a più banali ed economiche standard con sticker applicati nella parte superiore per cui si opta nell’ultima fase operativa. Con circa quattrocento pubblicazioni edite in otto anni, l’etichetta bresciana si è saputa imporre in Italia e all’estero, seppur con risultati alterni. Da un lato la prolificità ha alimentato una collana di brani che, in taluni casi, si specchiavano l’uno nell’altro differendo più per nomi che per stile, ma del resto quello della dance mainstream, è risaputo, è un mercato che ha sempre necessitato di novità costanti e il persistente utilizzo di nuovi alias orchestrati dai medesimi autori è servito a convincere il pubblico di avere a che fare di volta in volta con artisti diversi; dall’altro giovani ed intraprendenti DJ affiancati da validi musicisti sono riusciti a consegnare agli annali pezzi diventati “sempreverdi” o rivalutati a posteriori. Da rimarcare infine l’ingenuità delle prime annate, in cui non mancano spunti interessanti ma talvolta sviluppati in modo poco incisivo come avviene sovente all’italo house a cavallo tra ’89 e ’90. A conti fatti Italian Style Production lascia un ricordo indelebile nei cuori di tanti appassionati di dance music, oltre ad aver rappresentato una “palestra” dove moltissimi hanno fatto gavetta prima di spiccare il grande salto. (Giosuè Impellizzeri)

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Arkanoid – No Problem (Hi Tech Music)

Arkanoid - No ProblemÈ vero che, con la nascita di house e techno, a cimentarsi nella composizione di “musiche nuove” è anche chi non ha maturato una formazione accademica ed è incapace di leggere lo spartito, suscitando disapprovazione in certi ambienti, ma è altrettanto vero che in quei frenetici anni di radicale cambiamento (tra la seconda metà degli Ottanta e i primi Novanta) sono pure giovani musicisti, reduci di studi al conservatorio, ad essere attratti da nuove modalità compositive e sonorità non più riconducibili a strumenti tradizionali. Scrivere musica su un sequencer che scorre nel monitor di un computer, modificare il timbro dei suoni mediante manopole e programmare ritmi pigiando tasti è qualcosa che intriga non poco e fa sentire l’accelerazione del futuro su se stessi.

Potrebbe averla pensata così pure Edoardo Milani, studente di pianoforte e flauto presso il Conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste, che nel 1986 inizia ad armeggiare con la computer music. «Avevo la disco nel sangue e già quando cominciai a suonare il pianoforte da bambino sognavo di mettere le mani su quelle cose chiamate sintetizzatori che all’epoca si vedevano in televisione e che erano completamente fuori dalla portata della gente comune» racconta oggi. «Cominciai giovanissimo a fare il disc jockey, prima in radio e poi in discoteca. Nel frattempo militavo in una band che tentai di educare a suon di funk e Moroder ma quando mi resi conto come fosse difficile convincere i membri a seguire quel sound cercai di rendermi autonomo. Coi soldi guadagnati dalle serate comprai le prime tastiere ed apparecchiature varie e a studiarne le loro potenzialità per sfruttarle al meglio. Incisi il primo disco nel 1987, “Uh Uh Ah Ah” di Sband Aid (ironica risposta alla Band Aid di Bob Geldof, nda), una vera avventura nel gestire sia gli artisti partecipanti al progetto, sia i rapporti col distributore che si tirò indietro all’ultimo momento. Le mille copie della prima stampa infatti furono distribuite secondo la modalità “fai da te” e quell’esperienza mi fece capire bene i meccanismi di marketing dell’epoca. A Trieste, la mia città natale, c’era un fermento importante di cui purtroppo quasi nessuno parla perché è luogo fuori da certi circuiti. Potrei stilare un lungo elenco di triestini che hanno fatto la storia della dance italiana, cominciando da Vivien Vee» (di cui abbiamo parlato qui, nda).

Milani in studio nel 1987

Edoardo Milani in studio nel 1987

Ai tempi i pregiudizi riservati alla musica composta con mezzi diversi dai tradizionali sono particolarmente radicati e, ad ormai oltre un trentennio di distanza, non ancora del tutto sopiti, seppur oggi l’elettronica (inteso come mondo e non filone stilistico) abbia invaso praticamente ogni genere. Preclusioni fondate o dettate dallo scetticismo per il nuovo e il non conosciuto? «Non avevo alcun pregiudizio ma pian piano ho cambiato atteggiamento» risponde in merito Milani. «Mi sono battuto tanto per portare la cultura nelle discoteche con svariatissime iniziative più o meno riuscite, ma oggi posso affermare che sia una missione impossibile, a meno che ci si trovi a New York. Già negli anni Novanta era finita l’epoca del pubblico che andava nei club per sentire un genere piuttosto che un disc jockey. È chiaro che la musica elettronica colta parta da solide premesse culturali che generano l’opera stessa ed è qualcosa di completamente diverso da quello che volgarmente si chiama “elettronica”. Il tempo dimostra che tanta produzione snobbata all’epoca ha riacquistato dignità essendo universalmente riconosciuta come opera culturale di alto livello. Nel marasma della produzione c’è sempre qualche punta di diamante, ma per uno buono se ne trovano almeno altri mille che contribuiscono ad abbassare la stima per il genere e quindi ad aumentare il pregiudizio di cui si parlava prima. A prescindere dallo stile musicale a cui ci si accosti, è sempre necessaria una solida formazione e consapevolezza. A quel punto entra in gioco la creatività che, se prende il sopravvento in maniera originale con un buon controllo delle tecniche, riesce a fare la differenza». Di creatività però oggi pare se ne veda e senta sempre meno, col mercato invaso costantemente da prodotti derivativi. Qualcuno, già da tempo, ha avanzato l’ipotesi che la colpa sia attribuibile alla tecnologia, diventata fin troppo semplificatrice. Paradossalmente proprio la tecnologia, che qualche decennio fa spalancò le porte del futuro, adesso pare remare al contrario. «Alla metà degli anni Ottanta anche in una produzione a basso budget erano comunque presenti un ingegnere del suono, un musicista, un arrangiatore e un tecnico che curava il cosiddetto computer programming» dice Milani. «A loro si aggiungeva l’artista o la band, il produttore e il discografico. Queste teste insieme garantivano un livello minimo dignitoso, anche nel peggiore dei casi. Oggi invece tutte queste figure coincidono con un’unica persona che decide autonomamente per se stessa, a volte in maniera geniale, altre in modo fallimentare».

Milani e Lombardoni, nei primi anni Novanta

Edoardo Milani e Severo Lombardoni in uno scatto risalente ai primi anni Novanta

Nel 1990, col supporto della Discomagic di Severo Lombardoni, Edoardo Milani fonda la sua etichetta, la Hi Tech Music, inaugurandola con “No Problem” che lui stesso produce sotto uno pseudonimo preso in prestito dal mondo dei videogiochi, Arkanoid. Stilisticamente il brano attinge dal campionario new beat, dal bleep e dalla techno che inizia il processo di europeizzazione, analogamente a quanto avviene in un altro pezzo prodotto in Italia nello stesso anno, “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui abbiamo parlato qui. «All’epoca avevo parecchi contatti con vari editori ma nessuno voleva esporsi troppo col sound che arrivava dal Nord Europa e dagli Stati Uniti» rammenta l’autore. «Pensai così che fosse il momento giusto per rischiare e creare un marchio con una connotazione house e techno parecchio svincolata dal tipico italian sound in auge allora. Le maggiori difficoltà che si prospettarono erano legate alla comunicazione. Un telefono fisso ed un fax rappresentavano le porte per il mondo. Internet non c’era e quindi si spedivano i dischi per posta. Un altro problema piuttosto importante era reperire dei vocalist. Nessuno era disposto a cantare su quella “roba”, oggi invece ci sarebbe la fila di cantanti preparatissimi, anche con formazione accademica, pronti a sperimentare sulla dance. La Hi Tech Music nacque anche grazie alla Discomagic che però, all’epoca, era una ditta criticatissima nell’ambiente discografico seppur fosse l’unica a pagare gli anticipi e a detenere l’export più importante d’Italia attraverso il quale la produzione nazionale veniva catapultata in tutto il mondo. Alla Discomagic ho potuto operare sempre in totale autonomia in campo artistico (dalla musica fino all’artwork) e questo per me era molto importante. Con Lombardoni instaurai un ottimo rapporto, continuato dopo la crisi del disco ed andato avanti sino alla sua prematura scomparsa nel febbraio del 2012.

“No Problem” nacque in un momento in cui la musica new beat cominciò a portare una ventata di novità. A me piaceva molto il techno pop e volevo esprimermi con queste modalità filtrando il tutto con sonorità del momento. Il disco fu realizzato in circa un mese. Nel set up utilizzato figuravano un sequencer Roland MC-500, una workstation Roland W-30, un sintetizzatore Yamaha DX e il mitico Ensoniq Mirage. A dare il nome al mio progetto fu un videogioco da bar uscito pochi anni prima, Arkanoid per l’appunto. A dispetto dei crediti riportati sulla copertina però, il pezzo non fu affatto registrato presso il Seven Valleys Studio a Perugia (da dove quello stesso anno esce un successo internazionale, “Last Rhythm”, nda). Fu un errore di grafica commesso dalla Discomagic. Nonostante avessimo spedito l’impianto grafico completo, mi ritrovai sulla copertina crediti che non c’entravano davvero nulla con me. Qualcuno avrebbe fatto causa per una cosa del genere ma io invece lasciai perdere ed ordinai le ristampe in copertina generica. Fu comunque un peccato perché avevamo lavorato molto sull’artwork. Maurizio Verbeni, citato erroneamente tra i ringraziamenti, lo conobbi qualche anno dopo ma non abbiamo mai condiviso nulla di artistico. Anche quella parte di note, purtroppo, era frutto dell’errore di stampa. Aneddoti? La B2, “No Problem (Criminal Drum Box)”, la realizzai in una sola notte con un registratore Teac analogico a quattro piste».

Arkanoid su R&S

Sia “No Problem” che il singolo successivo “Limit” vengono ripubblicati in Belgio dalla R&S Records

“No Problem” non diventa un successo commerciale ma suscita l’attenzione di un’etichetta destinata a lasciare il segno, la belga R&S, particolarmente attratta dai prodotti nostrani di allora, da “Lot To Learn” di Lee Marrow ad “Hazme Soñar” di Morenas e, a seguire, “La Musika Tremenda” di Ramirez e “Funky Guitar” dei TC 1992 di cui abbiamo parlato nel dettaglio qui. Anche Arkanoid finisce nel catalogo della label diretta da Renaat Vandepapeliere, che prende in licenza pure il follow-up “Limit”, del 1991. «La stampa italiana di “No Problem” vendette diecimila copie, credo la maggior parte finite all’estero» spiega Milani. «All’epoca non era poi così difficile fare questi numeri. La R&S era una delle mie etichette preferite che seguivo con attenzione. Quando ricevetti la notizia rimasi davvero stupito! Pur cercandoli, non ebbi mai rapporti diretti con loro, a chiudere la licenza fu l’ufficio estero della Discomagic». Nella veste di Arkanoid Edoardo Milani incide diversi singoli tra cui il menzionato “Limit”, finito nuovamente su R&S, ed “Alpha Centauri” recuperato da Joey Negro nella raccolta celebrativa “Italo House” del 2014, ed anche un album, “Electronic Communications”, del 1992, dedicato alla madre Renata Del Conte e in cui figura una cover di “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim (alias Derrick May) e tracce dal respiro sperimentalista come “X A. M.”, “Waitin’ For The Next Track” e “The Jazzin’ Flute”. In copertina, tra i ringraziamenti, una sfilza di nomi (da Plus 8 a CJ Bolland, da Underground Resistance a Liam Howlett, dagli Orbital a Baby Ford passando per 808 State, Telex, Frank De Wulf, N-Joi, Eon, Public Enemy, Nightmares On Wax, MC 900 Ft Jesus, Gaznevada, Giorgio Moroder, Lime, Yellow Magic Orchestra e Dexter Wansel) che fa capire quali siano i riferimenti di Milani e quanto ampio sia il suo range d’interesse.

Arkanoid - Electronic Communications

La copertina di “Electronic Communications”, primo ed unico album che Edoardo Milani firma come Arkanoid e pubblica sulla sua Hi Tech Music nel 1992 anche su CD

In parallelo porta avanti molti altri progetti complementari come 2 Elektron, E.S.G. (“Electric Sound Generator”, ispirato a “Technarchy” dei Cybersonik), Edward’s World, Electric Choc (“Shock The Beat” gira parecchio nei rave britannici), Hypertone e Tribal Village. Nel 1993 torna sulla bolognese DFC, a tre anni da “Future” di Disco City, con “Nanah Trance” di Trans-Mission, “Proxima” di Club Futura (insieme a Dario Crisman, col quale già conia i Rex con “Credere Obbedire Combattere”) e nella seconda metà del decennio continua con Glamour Inc., DreamLand (prodotto dal compianto Salvatore ‘Casco’ Cusato), Interzona, Interstellar, Bubble Trouble, U.V.A. e Sonar. «Dopo le prime produzioni, la Hi Tech Music si espanse con due studi ed un piccolo team di artisti che collaboravano con idee e progetti» rammenta ancora Milani.

adv Hi Tech Music (maggio 1995)

Un advertising pubblicitario della Hi Tech Music (fonte Disk Jockey New Trend n. 5, maggio 1995)

«Durò qualche anno ma i generi cambiavano velocemente per cui si rese necessario rivedere il tutto, specialmente dal punto di vista artistico. Scelsi di lavorare anche come freelance pur mantenendo l’etichetta con cui continuavo a produrre musica più sperimentale. Era una vita difficile però, l’editore aveva il controllo diretto sugli artisti per cui andava a cadere quella libertà creativa plagiata da “consigli” che, nel mio caso, non produssero i risultati sperati. Non nascondo di aver fatto anche dischi non accreditati a mio nome per la maggior parte degli editori dance dell’epoca, tranne la Energy Production con cui non ho mai lavorato. Per me era diventata una sfida pubblicare musica sull’etichetta romana perché lì avevano puntualmente rifiutato tutti i pezzi che mandai. Ogni volta che avevo qualcosa che pensavo potesse fare al caso loro, mi recavo da Dario Raimondi Cominesi e lui ascoltava per poi dirmi sempre la stessa frase: “sì, il pezzo è bello ma non mi sembra così forte da prenderlo”. Questo per me è rimasto un mistero visto che nel loro catalogo figuravano anche dischi che in termini di vendite facevano molto meno di quello che totalizzavo io pubblicando altrove. “Shock The Beat” di Electric Choc e “Soul Roots” di Edward’s World, ad esempio, sono stati campionati o risuonati in tutte le salse (come in “Dream On” dei Que Pasa, Manifesto, 1999, nda), con e senza crediti, ma questo fa parte dei ricicli della dance. Con Crisman remixai anche “Harmony In Love” cantato da una giovane ed ancora sconosciuta Laura Pausini. Ci impegnammo parecchio ma per questioni contrattuali il disco venne ritirato dal mercato e risultò un buco nell’acqua. Le poche copie in circolazione, per tale ragione, hanno iniziato ad acquistare valore per i collezionisti».

Reflections (luglio 1995)

Una pagina di “Reflections”, la rubrica che Milani cura negli anni Novanta per la rivista Disk Jockey New Trend (n. 7/8, luglio/agosto 1995)

Negli anni Novanta Milani instaura anche una collaborazione con Disk Jockey New Trend, la rivista ufficiale dell’AID (Associazione Italiana Disc Jockey) poi diventata Jocks Mag, su cui appare la rubrica “Reflections”. In assenza di internet la comunicazione attraverso un canale tradizionale come la stampa è ancora la privilegiata, soprattutto nell’ambito musicale e discografico. «Per me gli anni Novanta erano un sottoprodotto degli Ottanta, che covava i segni della decadenza del sistema discoteca già dopo la metà della decade» afferma il musicista triestino. «Cavalcai quindi quella fase con molta consapevolezza per ciò che stava succedendo. I momenti esaltanti coincidono con l’incontro di molti personaggi coi quali ho condiviso studi di registrazione e la mia musica. Ho cercato di dare sempre il massimo con onestà, non portandomi dietro nessun rimpianto. Ho chiuso ufficialmente la mia carriera da disc jockey nel 2014. Mi sembrava giusto dare opportunità ai più giovani ma guardandomi indietro ho trovato il vuoto, un vuoto generazionale ed un totale disinteresse per questo fenomeno ormai ridotto al lumicino. Penso che tale epilogo sia la naturale risposta alla conclusione di un’epoca. Alcuni album comunque non invecchiano e restano delle pietre miliari: “Galaxy” dei War, “Computer World” dei Kraftwerk… senza dimenticare band come The Quick, label come la Transmat e tantissime altre che conservo nella collezione di circa quindicimila dischi che hanno scandito la mia esistenza.

Robotnick, Casco e Milani (2008)

Edoardo Milani insieme a Maurizio Dami (alias Alexander Robotnick, a sinistra) e il compianto Salvatore Cusato (alias Casco, al centro) in una foto del 2008

È difficile però individuare punti saldi nel panorama odierno, soprattutto nel mondo della dance dove i pezzi si compongono coi telefonini. Mi piace molto Mark Ronson e tra gli indipendenti Flamingosis. Trovo divertente stare davanti ad un computer portatile col remote a girare manopole ma questo, per come la penso io, non è fare il disc jockey. I grandi raduni con l’idolo fanno parte di qualcos’altro che non ha davvero nulla a che fare con un club da duecento persone dove c’è un personaggio che interpreta la tua voglia di ballare e la soddisfa con un bel disco in vinile mixato magistralmente. A soffrire, purtroppo, è anche la radio, soprattutto nel segmento dei più giovani, quelli che una volta rappresentavano la fascia d’utenza più consistente. Il panorama italiano è abbastanza livellato e terrorizzato dal passaggio al digitale. Qualche goccia nel mare ogni tanto ci regala belle emozioni nell’etere ma, a mio avviso, la questione è tutta da rivedere. Quando arriveremo ai giga illimitati e ad una connettività evoluta, tutto viaggerà solo sul web e la moltiplicazione dei canali cancellerà il mondo radiofonico così come lo abbiamo conosciuto e vissuto. Siamo ormai distanti dal Novecento e, come è sempre avvenuto nella storia, il mondo nuovo seppellisce quello vecchio. I dischi, le radio e i club ormai non sono che un fenomeno per soli amatori e nostalgici. Viviamo nell’epoca post Gutemberg dove l’opera autoriale si replica all’istante attraverso le Reti, sia una canzone o un video virale, e dopo poco sparisce nell’oblio senza lasciare traccia. Libri e dischi, quindi, non esisteranno più».

Milani nel 2016

Edoardo Milani e parte della sua collezione di dischi (2016)

Servirà dunque organizzare biblioteche e discoteche per tenere traccia di un passato che potrebbe essere cancellato del tutto? In un articolo del 2012 proprio il triestino accenna l’idea di creare un’associazione culturale per la conservazione di vinili e CD. «Qualche traccia va tramandata» sostiene, «ed io credo fermamente che il patrimonio culturale musicale di fine secolo sia uno stimolo importante per le prossime generazioni, quindi il mio impegno va in quella direzione. Mi piacerebbe molto creare uno studio storico con apparecchiature degli anni Settanta ed un archivio discografico che, riunendo alcuni fondi, riuscirebbe a raggiungere facilmente la soglia delle centomila unità. Chiaramente occorrono finanziamenti che di questi tempi è difficile reperire per cui al momento resta solo un ambizioso progetto sulla carta. Recentemente ho prodotto alcuni videoclip musicali ed ho in mente la realizzazione di alcuni film. Vorrei raccontare la storia della Hi Tech Music che in pochi conoscono ma attualmente la didattica e l’attività come musicista classico mi allontanano un po’ da questi “sogni”» conclude Milani. (Giosuè Impellizzeri)

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Phenomania – Who Is Elvis? (No Respect Records)

Phenomania - Who Is ElvisI primi anni Novanta vedono la diffusione e popolarizzazione della techno in Europa. Gran parte dei produttori del Vecchio Continente però non proseguono sul modello dei creatori di Detroit ma ne forgiano un altro che attinge prevalentemente dalla new beat e che punta ad essere immediatamente riconoscibile per l’utilizzo di suoni artificiali (ossia non riconducibili a strumenti tradizionali) e ritmiche incalzanti, spesso contraddistinte da una cassa marcata. Questo mix, che in Italia degenera in un fiume di pubblicazioni messe sul mercato da case discografiche che si appropriano di tale “nomenclatura” con fini meramente speculativi e che quindi davvero poco e nulla spartiscono con la techno, diventa un filone battuto per un paio d’anni circa e da cui provengono diversi impressionanti successi.

È il caso di “Who Is Elvis?” realizzato dai tedeschi Ramon Zenker (dietro agli Hardfloor e a dozzine di altri act come Bellini, Fragma o Perplexer) e Jens Lissat che per l’occasione coniano il progetto Phenomania, uno dei tanti “brand” utilizzati per marchiare la loro attività produttiva in quel decennio. «Facevo il DJ già da molto tempo» racconta oggi Lissat. «Nel 1978 acquistai il mio primo 12″, “Chase” di Giorgio Moroder. Poi, durante l’estate del ’79, vidi un DJ mixare al Trinity, famosa discoteca della mia città natale, Amburgo: quella notte fu determinante per la mia vita! Dopo pochi giorni comprai due giradischi Technics SL-B3 e un mixer ed iniziai a prendere dimestichezza con la strumentazione, senza alcun aiuto esterno. Ai tempi non esistevano mica i tutorial. Ad ottobre di quell’anno sapevo già mixare in modo professionale ed avevo appena quindici anni».

Jens Lissat @ Trinity (Hamburg Germany 1981)

Un giovanissimo Jens Lissat in consolle al Trinity di Amburgo, nel 1981, la discoteca dove solo un paio di anni prima scocca la scintilla per il DJing

Lo step successivo è la composizione, nonostante ai tempi non sia affatto facile procurarsi il necessario per produrre musica visti i costi ancora proibitivi degli strumenti. «La mia prima esperienza professionale in studio di registrazione risale al 1984 quando realizzai il remix di “Dancing In The Dark” di Mike Mareen» ricorda ancora Lissat. «Lo feci allo Star Studio, ad Amburgo, lì dove vennero registrati anche alcuni brani dei Modern Talking. Negli anni precedenti però ero già considerato il “re tedesco dei bootleg”. Realizzavo quelli che venivano chiamati medley e successivamente mash-up (pratica a cui abbiamo dedicato un ampio reportage qui, nda), stampandoli e vendendoli con successo. Ero particolarmente noto in Germania per questo tipo di attività e in virtù delle mie capacità nel 1986 mi offrirono la possibilità di realizzare un megamix ufficiale per Phil Collins che venne pubblicato dalla WEA. Lo realizzai nel Try Harder, lo studio di Peter Harder con cui avrei collaborato a lungo negli anni a seguire. Fu lui ad insegnarmi ad usare l’Atari 1040ST e il programma Creator per produrre musica. Sottolineo però di non aver mai studiato alcuno strumento classico anche se so suonare il pianoforte».

Work The Housesound

La copertina di “Work The Housesound”, il brano che Lissat realizza con Peter Harder nel 1987 come chiara imitazione dei pezzi provenienti da Chicago

Proprio con Harder, nel 1987, Lissat incide “Work The Housesound”, uno dei primi brani house realizzati in Germania. La copertina contiene chiare citazioni grafiche di “The House Sound Of Chicago”, la celebre serie della D.J. International Records, mentre la traccia suona come una sorta di rework di “Love Can’t Turn Around” di Farley Jackmaster Funk & Jesse Saunders sequenzata sul disegno ritmico di “Blue Monday” dei New Order. Pure i nomi degli autori, J.M. Jay ed Hardy, ammiccano a quelli che ai tempi giungono dalla discografia house d’oltreoceano. «”Work The Housesound” fu una delle mie prime produzioni in assoluto» spiega a tal proposito l’artista tedesco. «Nel 1986, durante un viaggio a New York, comprai un mucchio di dischi di un nuovo genere che stava iniziando a prendere piede, la house music, e proposi quel sound al Voilà, discoteca di Amburgo dove ero resident. Poco tempo dopo conobbi Harder e gli dissi che avrei voluto incidere un pezzo simile a “Love Can’t Turn Around”. Non sapevo davvero nulla sulle Roland TR-808, TR-909 e TB-303 ma cercai ugualmente di fare del mio meglio. Il risultato fu “Work The Housesound”, il primo disco house prodotto in Germania. Per l’occasione decisi di darmi un nome simile a quello dei ragazzi di Chicago, J.M. Jay, acronimo di Jack Master Jens. Vendemmo circa diecimila copie, mica male per un disco di debutto».

La house da lì a breve esplode in Europa e pochi anni più tardi, come anticipato, tocca anche alla techno, riconcepita su nuove basi ideologiche, più schiettamente connesse al ballo. «In realtà la techno di Detroit era più vicina alla house» sostiene Lissat, «mentre la techno europea nata ad inizio degli anni Novanta attingeva dalla new beat belga e dalla EBM tedesca. Techno, per me, è una “cosa” europea, mentre house ed acid invece sono riconducibili agli Stati Uniti e Gran Bretagna». Nel 1991 quindi, sull’onda crescente della europeizzazione della techno, esce “Who Is Elvis?”, contraddistinto da una costruzione tipicamente ravey ed un sample vocale di Elvis Presley che chiarisce la ragione del titolo. «Ero in tour oltremanica col progetto Off-Shore (quello di “I Can’t Take The Power”, nda) che era entrato nella top ten, e a Londra acquistai un sintetizzatore Roland SH-101» ricorda Lissat. «Tornato a casa andai in studio, insieme a Ramon Zenker, per provare questa nuova macchina ed iniziai a strimpellare una linea di basso con due dita, scegliendo un saw bass. A quel punto creammo un loop ritmico ispirato da “The House Of God” di D.H.S. e una drum part con la TR-909. Nella prima versione approntata c’era la mia voce ma alla fine optammo per quella campionata di Presley. In appena quattro ore il pezzo, diventato uno dei più grandi inni della techno di prima generazione, era pronto».

Sempre nel 1991 “Who Is Elvis?” viene ripubblicata ma utilizzando il nome Interactive, progetto che Zenker e Lissat fondano l’anno prima col brano “The Techno Wave”. Una maggiore spinta promozionale è garantita dal video che ne favorisce la diffusione nel mainstream. «Vendemmo all’incirca 15.000 copie di Phenomania (preso in licenza per l’Italia dalla Flying Records dietro segnalazione e suggerimento di Mimmo Mennito che lavora come import buyer presso il polo distributivo partenopeo, nda) ma poi decidemmo di sospendere la stampa e cambiare nome optando per Interactive, un altro nostro progetto che aveva già raccolto particolari consensi» spiega Lissat. «Come Interactive infatti finimmo col raggiungere la soglia di circa 180.000 copie vendute, entrammo nella top 20 tedesca e le compilation in cui il brano fu inserito superarono persino il milione di copie. Rammento pure una cover prodotta in Italia firmata Feno-Mania (sulla fittizia Unrespect Records del gruppo Discomagic, che parodiava ironicamente l’originaria No Respect Records, nda), del tutto illegale e che ebbe ovviamente meno successo della nostra traccia».

Jens Lissat e Ramon Zenker @ Studio Bolkerstrasse Düsseldorf 1993

Ramon Zenker e Jens Lissat nello studio in Bolkerstraße, a Düsseldorf, nel 1993

“Who Is Elvis?” è il brano che taglia il nastro inaugurale della No Respect Records, fondata ad ottobre del 1991 da Zenker e Lissat, rimasta in attività sino al 2000 per poi essere rilanciata, nella dimensione digitale, nel 2008. Nel catalogo annovera artisti come DJ Hooligan (il futuro Da Hool), Jürgen Driessen alias Exit EEE e i Mega ‘Lo Mania di “Close Your Eyes”, coverizzata dal nostro Moka DJ nel 1996. «La No Respect Records nacque proprio con “Who Is Elvis?”» chiarisce Lissat. «Ai tempi collaboravamo con diverse etichette a cui però avevamo già dato altri progetti quindi proposi a Ramon di crearne una nostra per pubblicare Phenomania. Lui annuì e in breve propose il nome, contrariamente a quanto accadeva di solito visto che ero io a creare pseudonimi. Insomma, fu proprio l’uscita di “Who Is Elvis?” a sancire la nascita della No Respect Records con la quale abbiamo lanciato un sacco di nuovi artisti destinati a diventare grandi nomi della scena. Ai tempi gestire un’etichetta discografica era piuttosto complesso ed impegnativo, bisognava continuamente far arrivare le white label ai DJ e soprattutto poter contare su un distributore efficiente. Per fortuna il nostro (Discomania, nda) lavorava benissimo».

Tra 1992 e 1993 i Phenomania remixano vari brani tra cui “Poing!” dei Rotterdam Termination Source, che di quella invasione rave techno è un inno insieme ad altri come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Dominator” degli Human Resource, “Anasthasia” dei T99 e “Pullover” di Speedy J, ed incidono nuovi singoli come “Caramelle”, “Strings Of Love” (una sorta di mash-up tra “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim e “All You Need Is Love” dei Beatles), “He Chilled Out” ed “Amazonas”, ma il successo pop sembra ormai essere sfumato. Non a caso la storia dei Phenomania si interrompe, anche se a tal proposito Lissat dice che la ragione fu legata a ragioni private. La coppia di dioscuri teutonici prosegue comunque la collaborazione puntando su progetti paralleli, in primis il menzionato Interactive, che inanella una serie di hit europee, da “Dildo”, per cui viene girato un ironico videoclip ad “Elevator Up And Down”, da “Amok” a “Can You Hear Me Calling” passando per l’happy hardcore di “Forever Young”, cover dell’omonimo degli Alphaville, “Living Without Your Love”, “Tell Me When” e “Sun Always Shines On TV”, rilettura del classico degli a-ha trainata da un video in cui viene coinvolto, come modello/attore, un giovane Tobias Lützenkirchen, poco tempo dopo finito anche nella line up di Paffendorf, ennesimo act curato da Zenker.

Interactive (premiazione nel 1994)

Gli Interactive, nella loro lineup completa, premiati nel 1994 per le 500.000 copie vendute di “Forever Young”: da sinistra Marc Innocent, Ramon Zenker, Andreas Schneider e Jens Lissat

«Interactive fu una mia idea e Ramon divenne immediatamente partner nell’avventura» rammenta ancora Lissat. «Dietro il brano d’esordio, “The Techno Wave”, c’è una storia che mi riguarda in prima persona: facevo il DJ in un locale di Dortmund ma desideravo tornare nella discoteca in cui lavoravo prima, il Königsburg Krefeld, a Krefeld. Così chiesi al proprietario se potessi essere nuovamente il resident il sabato sera e per convincerlo gli offrii una produzione discografica, ovvero “The Techno Wave” con cui nacquero gli Interactive (sul retro della copertina, infatti, c’è uno speciale ringraziamento abbinato alle foto della discoteca dove peraltro viene girato un video, nda). Nel nostro repertorio vantiamo numerose hit ma nonostante ciò sono salito sul palco con la band davvero poche volte essendo un DJ e non un performer. A portare il progetto nella dimensione live furono invece Ramon e il cantante Marc Innocent. Il successo più clamoroso resta “Forever Young” che raggiunse la soglia delle circa 500.000 copie vendute. Erano gli anni in cui nasceva quella che mi piace definire “business techno” che però non rientra esattamente nei miei gusti. Cedemmo l’album “Touché” alla Blow Up del gruppo Intercord incassando un ottimo anticipo economico. Il mio preferito resta “Dildo”, del 1992».

Phenomania tour Italia 1992

Flyer del 1992: i Phenomania sono tra gli ospiti di rave romani

Molti singoli degli Interactive arrivano anche in Italia dove, inizialmente, il gruppo può contare sul supporto di Albertino che peraltro firma un remix, con Giorgio Prezioso, di “Dildo” (il Wighida Remix realizzato nello studio di David X, di cui abbiamo parlato qui). Lo stesso Prezioso si occupa di “Elevator Up And Down”. I tedeschi ripagano con la loro versione di “Je Le Fais Express (Satisfy)” dei Fishbone Beat, recensiti qui. Quasi contemporaneamente Lissat sbarca nel nostro Paese col brano “Energy Flow”, edito da R&S e preso in licenza dalla Time Records che nel 1993 lo convoglia su una delle sue sublabel, la Downtown. «L’Italia è stata fondamentale nella scena techno» dichiara Lissat, «ho tantissimi ricordi dei rave romani dei primi anni Novanta ma soprattutto del Cocoricò, la mia discoteca preferita in assoluto di quel periodo. Inoltre sono particolarmente legato ad “Energy Flow” perché fu il primo brano che firmai col mio nome anagrafico. Proprio l’anno scorso ho realizzato un remix con Ramon. Lo considero un pezzo senza tempo. Nel 2020 festeggio il quarantennale nel mondo dei club e non mi sono ancora stufato anzi, ho ancora tanta voglia di produrre buona musica» conclude il DJ tedesco. (Giosuè Impellizzeri)

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Virtual Reality – The Free Life (Heartbeat)

Virtual Reality - The Free LifeTra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta il DJing conosce una prima, decisiva, impennata in termini di popolarità. I tecnici un tempo confinati nelle poco illuminate cabine regia dei locali, pagati per soddisfare passivamente le esigenze del pubblico, si ritagliano una nuova dimensione, più artistica e meno allacciata al demotivante ruolo di jukebox umani. Alcuni di quelli che da tempo sono amanti viscerali della musica diventano personaggi idolatrati da immense folle di fan, proprio come accade a Luca Colombo. Colonna granitica della house music nostrana, il DJ lombardo oggi racconta: «Iniziai ad appassionarmi di musica e dischi tra il ’78 e il ’79, quando avevo circa tredici/quattordici anni, ascoltando Radio Milano International che era l’unica emittente a trasmettere un certo tipo di sound. Ero attratto dal funk, dal soul e dalla disco e cominciai a comprare dischi con la paghetta settimanale, ma scegliendoli sempre in base al mio gusto personale e mai per seguire le mode del momento. Dopo poco tempo iniziai a lavorare in una piccola emittente a Busto Arsizio, in provincia di Varese, e poi approdai in discoteca continuando ad acquistare dischi coi miei soldi, cosa ai tempi alquanto singolare giacché erano i titolari dei locali a stanziare il denaro necessario per comprarli. Ci fu chi mi rise dietro per tale scelta, considerando stupido quanto stessi facendo, ma a me non interessava mettere musica “alla moda”, intento che peraltro ho perseguito per tutta la mia carriera.

Kobra (1983)

Luca Colombo ai tempi in cui milita come bassista nella formazione punk dei Kobra (Leeds, durante un concerto, agosto 1983)

Poi però, nei primi anni Ottanta, le cose iniziarono a cambiare. La disco music e il funk statunitensi persero terreno a favore dell’hi NRG e dell’italodisco che a me non piacevano affatto. Così, tra 1982 e 1984, mi diedi al punk suonando come bassista nella band dei Kobra. Il vocalist invece era un personaggio che anni dopo avrei ritrovato nelle discoteche, Sandrino Contu, futuro art director del Red Zone di Perugia. Suonammo parecchio facendoci notare anche all’estero, in particolare nel Regno Unito dove facemmo da supporter a varie band tra cui i Disorder e i Motörhead. Terminato il tour oltremanica, gli altri del gruppo tornarono in Italia ma io decisi di restare a Londra per un annetto. In quel periodo fui rapito dall’electro/freestyle di artisti come Egyptian Lover, Cybotron ed Afrika Bambaataa, che gettarono le basi della techno di Detroit ma pressoché snobbati in Italia dove funzionava di più la cosiddetta “afro”, con tanti dischi vecchi (seppur ricercati) riproposti a velocità alterata. Poi nel 1985 scoprii l’house music e quando sentii per la prima volta i dischi che venivano da Chicago capii subito che si sarebbe innescata una vera rivoluzione. Iniziai a seguire appassionatamente quel fenomeno sotterraneo proponendolo all’Agorà dove mi sentirono degli art director che mi proposero di spostarmi a Milano. Da avere una sola serata a settimana, nell’arco di qualche mese passai ad averne almeno tre/quattro. Alla luce di quanto stesse accadendo, nel 1989 Leopardo, mio assoluto ispiratore, mi fece una dedica in radio su un pezzo che adoravo, “Elektric Dance” di Jungle Crew, parlando di me come una giovane promessa del DJing italiano, e questa cosa mi inorgoglì tantissimo. Proporre musica house in quegli anni, specialmente tra 1986 e 1987, significava essenzialmente essere un vero visionario in quanto la house music era ancora defilata dalla massificazione odierna e non fu subito compresa anzi, era un genere ignorato nei circuiti generalisti (stampa, radio). A tal proposito ricordo che quando lavoravo come commesso da Buzzi, un negozio a Busto Arsizio (nella seconda metà degli anni Ottanta, dopo il soggiorno londinese), ad acquistare 12″ di house music non erano affatto i DJ professionisti bensì gli appassionati. Tra quelli c’era anche Enrico Gasparini di Pescara, titolare del record store Vi-R-Us, che anni dopo mi rivelò di aver scoperto la house music nel 1987 proprio grazie a “quel” commesso di Buzzi. Allora in Italia erano pochissimi i DJ house, salvo ritrattazioni future quando la house divenne un fenomeno di importanti dimensioni. Io però non ebbi bisogno di attendere l’esplosione commerciale ed infatti già nel 1991 presso la discoteca Immaginazione, a Pantigliate, tenni il primo evento “remember” in occasione della one night Satanika: cinque ore per riassumere quanto fosse avvenuto nella house music sin dal 1986».

Knuckes @ Matmos

Il flyer del Matmos relativo alla prima serata italiana tenuta da Frankie Knuckles (ottobre 1991)

I primi anni Novanta sono decisivi per Colombo, specialmente quando viene ingaggiato dal compianto Marco Tini che lo vuole tra i resident di una memorabile one night milanese, il Matmos. «Marco era più di un amico, praticamente un fratello» prosegue. «In me ripose tanta fiducia e mi diede carta bianca già al Mabuse, nel 1990. Era un art director degno di questo nome, con cui strinsi una joint venture a dir poco perfetta. Possedeva una caratura artistica come pochi altri, paragonabile a quella di Gianluca Tantini dell’Echoes. Credeva, tutelava e promuoveva il proprio staff senza riserve e mai sminuendo i resident di fronte ad importanti guest provenienti dall’estero come ad esempio Frankie Knuckles o Tony Humphries, che ospitammo al Matmos nel 1991 al loro debutto in Italia».

Luke Acid C

La copertina di “Welcome To The Empire Of New Beat”, il disco che Luca Colombo realizza come Luke Acid C. nel 1989 per la Technology del gruppo Discomagic di Severo Lombardoni

Se da un lato Colombo si fa strada come DJ, dall’altro opera, seppur piuttosto nell’ombra, come produttore. Con l’arrivo sul mercato dei campionatori a prezzi più accessibili e della house music, tanti iniziano ad incidere brani pur non possedendo alcuna formazione accademica. «Cominciai a produrre musica nel 1988, nascosto dietro lo pseudonimo Luke Acid C., grazie al supporto di Severo Lombardoni della Discomagic che prima mi propose di fare alcuni remix, tra cui quello per “Work It To The Bone” di LNR, e poi mi offrì la possibilità di incidere dischi come “Welcome To The Empire Of New Beat” del 1989, che mi portò a suonare musica new beat in importanti locali milanesi. Il pezzo lo realizzai al Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano con cui trovai un’intesa perfetta sin da subito. Preciso però di non aver mai saputo usare le macchine, in studio mi sono sempre limitato a dare indicazioni in modo pignolo. I remix per la Discomagic invece li realizzai a casa in modo amatoriale, con un registratore a quattro piste Revox, un giradischi Technics ed un mixer Urei, indispensabile per ottenere un suono “sporco” simile a quello dei dischi americani. Ritengo che Lombardoni abbia coperto un ruolo molto importante per lo sviluppo italiano della house music. Pur non capendoci molto di quel genere, ci credette in pieno dando fiducia a chi, come me, non aveva altro che idee. Non a caso fu lui a comprarmi il Revox, la prima coppia di giradischi Technics SL-1200 che possiedo ancora (con cui rimpiazzai un vecchio Nakamichi!) e il citato mixer Urei. Era un vero personaggio con modi di fare unici».

Archiviato il periodo di “praticantato” in Discomagic, nel ’91 Colombo figura nel team iniziale della Heartbeat, selezionato da Alex Serafini e spalleggiato discograficamente da Gianfranco Bortolotti. L’etichetta della Media Records, come descritto in questa ampia monografia, farà palpitare il cuore degli appassionati di house music dimostrando di essere in grado di reggere il confronto con affermate realtà d’oltralpe. «All’inizio Heartbeat era ben più di una semplice etichetta» afferma il DJ. «Mettere insieme un gruppo di disc jockey che perseguivano un intento preciso, condividendo passione ed obiettivi, fu un’idea lodevole. La nostra era musica che veniva dal cuore e, non a caso, il logo disegnato da Ralf ritraeva proprio un cuore. La house finalmente si ritagliava più spazio dopo alcuni osteggiamenti iniziali da parte di coloro che pensavano fosse solo una moda temporanea, una delle tante in ambito musicale».

con Leo Mas (1990)

Luca Colombo e Leo Mas ad una serata del Matmos presso il Cafè Bleu nell’autunno del 1990. L’anno dopo entrambi figureranno nel team iniziale della Heartbeat

L’unico disco che Colombo realizza per Heartbeat è “The Free Life”, firmato come Virtual Reality e dedicato alla memoria del menzionato Marco Tini. Pubblicato nel 1992, viene composto nei T.O.T.T. Studios di Jackmaster Pez, a Novara, insieme a Ricky Soul Machine e Simon Master W dei 50% (di cui abbiamo parlato qui, nda) che si avvalgono del contributo della vocalist Roberta Jannone (nella Fast Night Mix) e del trombettista Gabriele Bolla (nella Club Life Mix). Stilisticamente si posiziona tra house e garage, con un suono finemente calibrato in trainanti meccanismi ritmici. «A presentarmi a Jackmaster Pez fu un amico comune, Tato Rizzoli, cofondatore dei party privati de La Clinica (a tal proposito si veda questo reportage, nda) e che veniva a comprare i dischi da Buzzi, in doppia copia ovviamente, una per lui ed una per Pezzetti» rammenta Colombo. «Jackmaster Pez poi mi affiancò, insieme a Bruno Bolla, come resident al Matmos dalla stagione 1992-1993 al Lizard, sino alla chiusura della one night. Tornando alla questione produzioni invece, come detto prima non sono mai stato capace di programmare gli strumenti in studio dove svolgevo ruolo di supervisore, ma conosco benissimo i suoni delle macchine (le mie preferite restano le Roland TR-909 e TR-808) pur non sapendole materialmente usare. La versione di “The Free Life” che mi rappresentava meglio era quella incisa sul lato b, la ruvida e graffiante Free Mind Mix, con la suggestiva sovrapposizione di arpeggi che creava un’atmosfera unica in pista. Non essendomi mai iscritto come autore in SIAE, non ho avuto accesso ai rendiconti ma ricordo che le vendite furono buone, il brano venne licenziato in Germania dalla Zyx (anche in formato CD, cosa piuttosto inusuale ai tempi, nda) e conquistò la vetta di una classifica nei Paesi Bassi. Tempo dopo un DJ mi confidò che la prima volta che ascoltò “The Free Life” pensò si trattasse di una produzione di Todd Terry, e questo mi rese particolarmente fiero del lavoro svolto. Al momento dell’uscita il nome affibbiato al progetto, Virtual Reality, sembrò non avere un significato preciso ma a ripensarci oggi credo che una ragione ci fosse eccome. Ad ispirarmi fu il vivere in una dimensione diversa rispetto alle classiche feste in discoteca di Jesolo o Riccione, i posti più blasonati di allora. A Milano la magia generata dalla house music era nettamente diversa e fu in quel momento che ebbi l’impressione di vivere in una “realtà parallela”, la Virtual Reality appunto».

@Disco Inn

Foto di gruppo scattata nel negozio Disco Inn di Modena, a febbraio 1993: da sinistra Luca Colombo, Fabietto Carniel, Roger Sanchez (per la prima volta in Italia) e Daniele Mad

L’esperienza con Heartbeat e Media Records volge presto al termine ma Luca Colombo prosegue l’attività da produttore, seppur a passi felpati e soprattutto senza l’ambizione di sfondare e renderla redditizia sotto il profilo economico. Nel ’93 remixa “I Need You” di Nu-Solution alias Roger Sanchez, edito in Italia da UMM, l’anno dopo invece tocca a “Wild Luv” dei Roach Motel (Terry Farley e Pete Heller) per l’antagonista UMD (gruppo Dig It International) che successivamente gli affida il quarto volume della compilation “Underground People”. «Mi sono sentito sempre più DJ che produttore, per questo motivo non ho mai puntato a trasformare la passione per le produzioni discografiche in qualcosa correlata a mire monetarie. Ciò che ho fatto è il frutto di spontaneo ed ardente trasporto per la house music, nient’altro. A propormi di remixare “I Need You”, ad esempio, fu Sanchez in persona, quando venne ospitato al Matmos. A fine serata mi regalò un mucchio di promo ed acetati e colsi l’occasione per dirgli quanto quel pezzo mi facesse impazzire. A quel punto mi invitò a realizzare una versione che purtroppo non riuscii a completare in tempo per essere inserita nel doppio su One Records. Però, in compenso, l’anno dopo finì nella compilation “The Sounds Of One” dove prese il nome di Ciao Bella Mix, scelto proprio da Sanchez. Il remix di “Wild Luv” invece mi fu commissionato da Stefano Silvestri che lavorava per la Dig It International. Fu sempre lui a chiedermi di mixare la “Underground People 4” che realizzai in presa diretta, senza alcun intervento in studio sui mixaggi, contrariamente agli altri DJ coinvolti nel progetto che invece preferirono ritoccare eventuali errori in digitale. Sempre per UMD nel ’95 remixai “There’s Only One Thing” di Laura O, insieme a Stefano Fontana, e nel 2000 invece fu la volta di “I Like It Like That” di Inner Life Feat. Jocelyn Brown, finito sulla leggendaria Salsoul Records e realizzato con Alessandro Viale. Con quest’ultimo, inoltre, misi su il progetto The Groove Robbers incidendo i singoli “Almost 100” e “Groove Machine” e il remix per “I Promise You” dei Deep Swing, sulla bresciana Oxyd, uno di quei lavori che trovo ben riusciti anche a distanza di quasi vent’anni. Negli ultimi mesi ho lavorato, insieme a Michael MC, ad un nuovo brano intitolato “Base Dimension”, oggetto di ottimi riscontri e suonato in anteprima sia nel programma radiofonico di Salvatore Lo Giudice, “Clubbing Zone”, sia in “Urban Lab” condotto da Francesco Lento. Uscirà presto sulla TR Records di Maurizio Clemente ed includerà vari remix tra cui quelli di Ricky Montanari, Flavio Vecchi, Bruno Bolla e Davide Scioli. Nel frattempo, sempre in collaborazione con Michael MC, sto ultimando il mixaggio della nuova produzione “Ohhh Yeah… Worxx It!!!”. Sul fronte DJing invece, attualmente prediligo situazioni in piccoli club o feste private in loft o ville. Inoltre sono regular guest al Basecrash che ha come art director Marcella Fizzotti e che quest’anno ha ospitato The Age Of Aquarius, la festa annuale nata nel 1992 e creata da Davide Scioli in cui la consolle è affidata a me e Ricky Montanari e, in diverse edizioni, anche a Flavio Vecchi, pure lui dell’Acquario».

con Ricky Montanari (Age Of Aquarius)

Ricky Montanari e Luca Colombo in un recente scatto in occasione della festa “The Age Of Aquarius”

Da quando Luca Colombo diventa uno dei protagonisti del clubbing house italiano sono trascorsi poco meno di trent’anni, arco di tempo in cui il DJing è radicalmente mutato. Inizialmente considerata alla stregua di un hobby o poco più ed oggi elevata alla massima potenza industriale, questa professione è oggetto di una indiscutibile sovraesposizione che ha finito col generare anche evidenti storture. «I DJ sono diventati come le pop band degli anni Ottanta e Novanta» dice senza peli sulla lingua. «Personaggi creati a tavolino, seguiti da folle immense ma per un periodo limitato di tempo, che percepiscono cachet da rock band e tengono spettacoli di fronte ad un pubblico fermo o al massimo interessato a scattare foto e girare video con lo smartphone. Tutto questo non fa affatto bene al clubbing, anzi, lo uccide. Anche la house music è cambiata moltissimo. Io la distinguo in tre fasi, quella originaria, dal 1986 al 1990, quella che inaugurò nuove dinamiche sonore, dal 1991 al 1993, e a seguire tutta la svolta commerciale trainata da inserti più “assimilabili”. Col passare del tempo la house è diventata più corporea e meno mentale, e in questa direzione mi sono ritrovato ben poco perché aveva perso i suoi caratteri di partenza semplificandosi e diventando accessibile alle grandi masse. Ricordo anche quando iniziò a diffondersi uno strano modo di pensare che settorializzava i DJ in base ad un criterio per me discutibile, ossia quello delle selezioni “solo strumentali” o “solo cantate”. Io ho sempre considerato la voce uno strumento come altri, non riuscivo neanche ad immaginare un set monotematico, solo strumentale o solo con brani cantati. Non ho invece alcuna riserva per le innovazioni tecnologiche. Il mio giudizio prescinde dai formati. Ormai adopero abitualmente Serato, utilizzando file digitali ottenuti dalla registrazione dei dischi della mia collezione ma senza alcuna compressione che ne falserebbe l’effetto. L’unica cosa che non riesco a tollerare è l’uso del sync, funzionalità che non dovrebbe proprio appartenere al mondo del DJ». (Giosuè Impellizzeri)

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1987-1988: la house music arriva in Italia

1987: uno sguardo d’insieme
La musica che i DJ propongono nella maggior parte delle discoteche italiane nel 1987 è legata prevalentemente all’italodisco e al synth pop per i locali di stampo più commerciale, alla new wave, EBM ed industrial per quelli rivolti invece ad un pubblico più settoriale ed incline al rock alternativo. Sull’onda della cosiddetta “afro” lanciata molti anni prima in locali-culto come Baia Degli Angeli, Cosmic, Typhoon, Melody Mecca e Ciak, giusto per citare alcuni dei più noti, non mancano quelli che continuano a selezionare funk, soul e disco ma il panorama appare piuttosto stagnante perché improntato in sostanza sul recupero di materiale datato. Sul fronte rock/pop c’è chi, come Lorenzo Zacchetti in questo articolo, parla del 1987 come «un anno straordinariamente fertile sia sul piano della qualità che su quello della quantità, con le uscite di tutti i più grandi artisti del periodo, di figure emergenti e di diverse meteore». Il singolo più venduto dell’anno, secondo le statistiche di Hit Parade Italia è “La Bamba” dei Los Lobos. Undicesima si piazza Spagna con “Call Me”, prodotta da Larry Pignagnoli, ventiduesimi i tedeschi Off (i futuri Snap! ed un giovane Sven Väth che canta e presta l’immagine pubblica) con “Electrica Salsa (Baba Baba)” seguiti dalla prorompente Sabrina Salerno con “Boys”. Poco più giù “Respectable” di Mel & Kim, col tocco della premiata ditta Stock, Aitken & Waterman, e “Take Me Back” di un’altra bellezza della scuderia cecchettiana, Tracy Spencer. In ordine sparso poi Madonna, Nick Kamen, Rick Astley, Samantha Fox, Pet Shop Boys, Boy George, Level 42, Eighth Wonder, Depeche Mode, Duran Duran e Spandau Ballet. Solo settantaduesimo Den Harrow con “Don’t Break My Heart”, ennesimo singolo messo a segno dalla coppia Miki Chieregato – Roberto Turatti che quell’anno sforna anche “Meet My Friend” ed “Up & Down” di Eddy Huntington. L’italodisco nostrana pare essere giunta però al capolinea, il periodo più ricco di intuizioni, quello che va dal 1983 al 1985 circa, è ormai lontano e la formula di quel filone, ripetuta migliaia di volte e sdoganata in infinite salse, inizia a rivelarsi stantia. Sbirciare in altre classifiche di riferimento dei tempi non rivela grandi differenze: a giugno 1987 i posti più alti della “Superclassifica Show” condotta da Maurizio Seymandi (e dal virtuale DJ Super X) vede artisti come U2, Edoardo Bennato, Vasco Rossi, Zucchero e Whitney Houston. Tra le chart più consultate ai tempi c’è anche quella di TV Sorrisi E Canzoni diretto dal compianto Gigi Vesigna che, proprio nel 1987, tocca la tiratura record di oltre tre milioni di copie settimanali, ma anche lì non si rinviene nulla che riconduca alla “nuova dance music” che pulsa, da circa un biennio, in alcune discoteche statunitensi. Nella DeeJay Parade di Radio DeeJay invece, “Pump Up The Volume”, considerata alla stregua di una traccia spartiacque, entra il 24 ottobre e raggiunge la vetta il 7 novembre per rimanerci un mese.

DJ Parade 7 novembre 1987 (courtesy Maurizio Santi)

La DeeJay Parade del 7 novembre 1987 vede in vetta “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., considerato uno dei primi brani house prodotti in Europa. Foto su gentile concessione di Maurizio Santi

Per buona parte del 1987 quello della house music è un mondo ancora profondamente sotterraneo per gli stessi disc jockey, fatta eccezione per coloro che si tengono aggiornati leggendo riviste estere. Il fatto che ad inizio febbraio “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley conquisti la vetta della chart britannica dei 45 giri (giunta da noi attraverso le pagine del Radiocorriere Tv) non significa molto, neanche nello stesso Regno Unito dove a Top Of The Pops giungono, già l’anno prima, Farley “Jackmaster” Funk e il compianto Darryl Pandy con “Love Can’t Turn Around”, ripubblicata oltremanica dalla London Records. In appena un paio di anni però in Europa cambia tutto, a partire proprio dalla Gran Bretagna dove i M.A.R.R.S., incrociano la sampledelia dell’hip hop coi beat in 4/4 della house e danno la spinta necessaria con “Pump Up The Volume” (a tal proposito si veda questo approfondimento). La house, che all’inizio viene scambiata per una moda passeggera, arriverà a conquistare milioni di giovani e non solo. Cederanno persino gli Style Council di Paul Weller che a febbraio del 1989 portano sul palco di Top Of The Pops “Promised Land”, cover dell’omonimo di Joe Smooth edito nel 1987 dalla D.J. International Records di Rocky Jones, tra i primi brani house prodotti a Chicago a fare fortuna nel Vecchio Continente.

Radiocorriere, classifica 1 ed 8 febbraio 1987

Le classifiche dei 45 giri giunte in Italia attraverso il Radiocorriere (1 ed 8 febbraio 1987): In prima posizione, nel Regno Unito, c’è “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley

La “disco nera degli anni Ottanta” sbarca in Italia
È molto complesso stabilire chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese. La scarsissima reperibilità di fonti impedisce di collocare nomi e date in un contesto preciso e le informazioni tramandate per via orale purtroppo non sempre rispettano e rispecchiano la reale cronologia degli eventi. Comunque, per sommi capi, si può asserire quasi con tranquillità che nella prima metà del 1987 i mass media generalisti (televisioni, radio e giornali) non si siano ancora accorti di quella grande rivoluzione in arrivo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Sarà “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., uscito ad agosto, a cambiare lo status quo e a spalancare nuove prospettive, introducendo anche in Italia per il grande pubblico il termine house music, genere che però, come si vedrà più avanti, necessiterà di circa due anni per assumere una personalità più definita. Inizialmente la house è considerata, come scrive Michele Monti in un articolo apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno ’87 (presumibilmente a novembre) «l’ultima moda che soppianta il rap, l’electro funk e il go-go, cioè tutti i ritmi esotici approdati sulla pista da ballo negli ultimi tempi. A colpi di mezz’ora o di serate intere, la house music sta impazzando in ogni locale che si rispetti e non c’é DJ che non abbia in scaletta i suoi bei dieci minuti di house». Intesa come una sorta di diversivo, la house music è ancora ad uso e consumo di una ristrettissima fascia di DJ che peraltro fatica non poco a reperirla perché gli unici dischi disponibili sono quelli d’importazione, prevalentemente statunitense. Dislocati a macchia di leopardo lungo la penisola ci sono però gruppi di appassionati, DJ e ricercatori di nuove tendenze musicali, che intercettano il movimento house con abbondante anticipo rispetto all’affermazione commerciale e lo supportano in locali o eventi dedicati espressamente. È il caso del Devotion, che prende il nome dal brano omonimo dei Ten City, e de I Ragazzi Terribili a Roma, di cui si parla approfonditamente in questo articolo a cura di Luca Lo Pinto e Valerio Mannucci, dell’Ethos Mama a Gabicce, dove Flavio Vecchi, che allora si fa chiamare Double J. Flash, e Wayne Brown alternano la house all’hip hop e all’r&b come testimonia questo documento audio, o del Macrillo, locale ubicato sull’altopiano di Asiago e diretto dal compianto Vasco Rigoni, dove Leo Mas ed Alfredo Fiorito, reduci di una esaltante stagione estiva all’Amnesia di Ibiza – di cui si parla anche in Decadance Extra -, propongono house per un pubblico che accorre da tutta la penisola. Mas avrebbe poi continuato al Movida di Jesolo, diretto da Enzo Bellinato, fiancheggiato da Fabrice ed Andrea Gemolotto con cui dà avvio a “La Magica Triade”. Un certo interesse è mostrato pure dalle riviste di settore, come Fare Musica, dove appare un’intervista a Larry Levan, o Rockstar, dove invece trova spazio una rubrica di Luca De Gennaro, come scrive Andrea Benedetti nel suo libro “Mondo Techno”. Paolo Di Nola del citato Devotion ricorda altresì un articolo sul Messaggero e una breve intervista mandata in onda la domenica su Rai 3.

Deejay Show (presumibilmente novembre 1987) courtesy of Maurizio Santi

L’articolo di Michele Monti apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno del 1987 (presumibilmente a novembre), tra i primi dedicati alla house music apparsi in Italia. Su gentile concessione di Maurizio Santi

Il successo spiazzante dei M.A.R.R.S. nell’autunno ’87 però, se da un lato aiuta la diffusione nazionale di questo nuovo genere, dall’altro finisce col falsare e compromettere la percezione che il pubblico italiano ha per l’house music che a quel punto viene spacciata come prodotto nato esclusivamente dal campionamento di pezzi altrui. Secondo i detrattori più accaniti, campionare equivale a rubare e la house diventa conseguentemente simile ad un riassemblaggio raffazzonato ad opera di non musicisti messi in condizione, dalla tecnologia, di poter fare musica anche a casa. Emerge così pure il parallelismo tra “house” e “casa” che secondo alcuni si presterebbe in modo inequivocabile a chiarire le origini di quel nuovo genere. A tal proposito, in quelle due pagine apparse su DeeJay Show, il citato Monti si riallaccia a quanto scritto dalla rivista anglosassone Mixmag spiegando che «dietro ogni pezzo house, più o meno famoso, si nascondono i ritmi e le melodie di brani di vecchia disco o di recente dance», elencando pure diversi esempi: «“Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders non è altro che un remix di “I Can’t Turn Around” di Isaac Hayes, “Dum-Dum” dei Fresh “rubacchia” frammenti di “One Nation Under A Groove” dei Funkadelic e di “The Glamorous Life” di Sheila E., “Move” dei Farm Boy ricorda molto “Slave To The Rhythm” di Grace Jones, “Like This” di Chip E. è la copia carbone di “Moody” degli ESG». Poi prosegue dicendo che «le canzoni più saccheggiate in assoluto dalla house music sono “Love Is The Message” degli MFSB, “Let No Man Put Asunder” dei First Choice, “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Moskow Diskow” dei Telex e, incredibilmente, “Happy Children” dell’italianissimo P. Lion». Il ruolo ricoperto specificamente dall’italodisco comunque è fondamentale tanto nella house di Chicago quanto nella techno di Detroit, per ammissione degli stessi artefici e probabilmente ad insaputa della maggior parte dei produttori (e giornalisti) italiani di allora, ma ridurre la house music a qualcosa di passivamente ed ingenerosamente derivativo, così come viene descritto ai tempi, è ingiusto, non solo sotto il profilo creativo ma pure sotto quello tecnico. “Rubacchiare” a destra e a manca e ricollocare con estrema semplicità su telai ritmici programmati da drum machine ree di aver svilito il ruolo dei batteristi in carne ed ossa è solamente una verità apparente, istigata inconsapevolmente dal collage dei M.A.R.R.S. a cui, comunque, va riconosciuto il merito di essere riusciti a creare un brano-patchwork talmente dirompente da diventare una pietra miliare in un particolare momento storico che offre nuove opportunità. Monti include una dichiarazione di Chip E. particolarmente significativa a tal riguardo: «prendere idee da altri dischi non è considerato furto, dopotutto il lavoro del DJ è sempre stato questo, usare pezzi vecchi per creare un sound nuovo e personale». È interessante constatare, ad esempio, che non sia emersa altrettanta indignazione da parte di critici e stampa quando nel 1980 i Queen pubblicano “Another One Bites The Dust” che gira su un basso davvero simile a quello di “Christmas Rappin'” di Kurtis Blow uscito l’anno prima, o quando negli anni Sessanta proliferano decine di cover in italiano di brani angloamericani. Si può forse parlare di rifacimenti di serie A e di serie B, in virtù della funzione da essi esercitata? Le musiche destinate in modo specifico ai locali da ballo sono implicitamente meno valide di altre per il loro uso ludico? L’impressione, quindi, è che si usino due pesi e due misure, così come avviene per gli eccessi del rock/pop, tollerati ed assai meno demonizzati rispetto a quelli di altre culture musicali. A pagina 289 dei libro “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton, la house viene definita come «disco music realizzata da dilettanti. Era l’essenza della disco (ritmi, giri di basso, spirito) ricreata su macchine che erano una via di mezzo tra giocattoli e strumenti musicali da ragazzi, più clubber che musicisti. I DJ, che aspiravano a preservare una musica dichiarata morta, ne avevano creata un’altra dalle sue ceneri». Tale descrizione risulta senza dubbio più appropriata rispetto a tante altre emerse ai tempi, probabilmente indotte anche da un forte e radicato scetticismo nei confronti della novità.

La house nei club dello Stivale: le testimonianze

Lazio
Il grande pubblico scopre la house coi M.A.R.R.S. ma in Italia esistono luoghi in cui quel tipo di musica viene proposta già da qualche tempo, seppur senza particolar clamore. Il più delle volte l’unico modo con cui scoprire tali “raduni” è il semplice passaparola. Roma, ricordata più frequentemente per il suo ruolo primario nella fase rave giunta qualche anno dopo con l’esplosione della techno, ha ricoperto una posizione altrettanto importante per la house specialmente in riferimento al Devotion, nato come associazione culturale su iniziativa di un gruppo di amici tra cui Alessandro Gilardini, oggi giornalista per il TG5, e Paolo Di Nola, DJ, che racconta: «L’house entrò molto presto nel mio mondo, direi anche prima che ci fosse un termine per definirla in Italia, considerando l’ascolto di dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Hypnotic Tango” di My Mine o “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, tutti incorporati nelle scalette dei DJ che sono passati alla storia dell’house music. Nell’inverno del 1981 trascorsi un periodo dell’ultimo anno di liceo a New York, nel quartiere di Canarsie a Brooklyn per l’esattezza, prevalentemente popolato dalla comunità italoamericana e dove risiedeva parte della mia famiglia paterna che ebbe la possibilità di ospitarmi. Furono i miei compagni di scuola, quelli più intraprendenti che passavano le notti dei weekend in città facendo breakdance, ad introdurmi ai dancefloor dei club di New York dove si potevano già ascoltare esempi di proto house e musica dance prodotta prevalentemente mediante strumenti elettronici, ma con una radice più soul e disco rispetto alla new wave europea. I primi dischi house li acquistai a New York negli anni successivi in negozi come Vinylmania e Rock And Soul, veri e propri templi del vinile dove lo staff era incredibilmente ferrato musicalmente ed addirittura in grado di riconoscere pezzi da me fischiati o a malapena canticchiati nel tentativo di riprodurli, non conoscendone i titoli. Le prime tracce house da me collezionate furono gli ormai diventati classici della Trax Records come “Washing Machine” di Mr. Fingers, “Acid Tracks” dei Phuture e “Baby Wants To Ride” di Frankie Knuckles a cui si aggiunsero le prime cose su Easy Street Records come “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe nonché i dischi su State Street Records tra cui “Face It” di Master C & J e “Can’t Get Enough” di Liz Torres. Oltre a tantissima disco, tipo “Is It All Over My Face” dei Loose Joints ed altre stampe su West End Records, Salsoul Records e Prelude Records. L’impatto e la successiva infinita storia d’amore con quella che per definizione viene chiamata house music si consumò nei club gay di New York come Paradise Garage, The Choice, Tracks, Roxy, The Loft, Sound Factory ed anche in locali londinesi come l’Heaven. I primi DJ da me seguiti, propugnatori dell’house music, furono black, latino, gay e lesbian, ma gli stessi club erano spesso gestiti da personale LGBTQ e il dancefloor era quello che oggi viene definito “safe space” ovvero uno spazio in cui poter esistere liberi da ogni discriminazione. Tutti questi elementi, per me, sono inscindibilmente legati alla radice della house music. Questa è stata la scena che mi ha forgiato e a cui tuttora porto massimo rispetto e dedizione.

il pubblico del Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Il pubblico del Devotion (Roma, 1987) in una foto scattata da Federico Del Prete, gentilmente concessa da Paolo Di Nola. A sinistra c’è Vincenzo Viceversa

Per quanto riguarda l’Italia, nel 1987 c’era sicuramente l’intero pubblico del Devotion ad apprezzare quelle sonorità tra cui moltissimi DJ noti della scena romana che venivano a ballare. Noi, col nostro club, fummo i primi a proporre quel tipo di programmazione after hour nella capitale e nell’intera regione, con un’intera scaletta fatta esclusivamente di house music e disco, nonché ad introdurre un certo tipo di “attitude” nella vita notturna, slegata dal solito modello delle VIP room, tavoli riservati e bottiglie di alcolici in vendita per centinaia di migliaia di lire. La nostra fu una scelta talmente radicale per quegli anni che l’unico club che ci aprì le porte fu il Life 85, la cui capienza raggiungeva le appena duecento persone ed era fuori da ogni circuito. Nell’arco di un paio di settimane appena il successo della serata fu talmente eclatante che per la seconda stagione ci spostammo al Parco del Turismo in una mega tenda geodetica che, puntualmente ogni weekend, si riempiva di gente fino all’orlo. Io e i miei colleghi DJ, Marco Militello ed Alessandro Gilardini, viaggiavamo a turno per comprare i dischi direttamente a New York, assicurandoci così musica non ancora uscita in Europa, cosa che ci permetteva di mantenere uno standard alto nell’esclusività musicale. Poi molti DJ seguirono le nostre orme, alcuni con enorme successo, ma credo che Marco Moreggia con I Ragazzi Terribili sia quello che abbia preservato meglio la purezza e lo spirito di ciò che intendevamo fare noi.

la tessera del Devotion (courtesy Paolo Di Nola)

La tessera del Devotion (1987). Su gentile concessione di Paolo Di Nola

Al di fuori del Lazio, l’unico altro posto in cui sentii suonare per intero un set di house music ad inizio ’87 fu Napoli, dove c’erano alcuni ragazzi di colore che svolgevano il servizio militare nelle basi NATO limitrofe e si dilettavano a fare i DJ. Sfortunatamente non ho mai avuto il piacere di incontrarli, li avrei ringraziati personalmente per gli splendidi set. Ricordo con affetto anche il contingente umbro, con Vincenzo Viceversa e Ralf che, sulle orme del Devotion, lanciarono serate house a Perugia e dintorni. Io stesso fui ospite in un’occasione allo storico locale Norman durante una serata chiamata “Big Party”. Come raccontavo prima, in quel periodo compravo la maggior parte dei dischi a New York e Londra. Mi recavo lì solo per comprare vinile, partivo con valigie vuote che tornavano strapiene. Il mio budget però era talmente scarso che passavo intere settimane mangiando solo barrette di cioccolata o al massimo un trancio di pizza una volta al giorno, pur di risparmiare soldi per comprare dischi. Credo fossi uno dei DJ più magri al mondo ma in realtà la cosa funzionava a mio vantaggio perché in quegli anni per fare clubbing ci si vestiva in spandex e lycra come i ciclisti. Quando poi arrivarono dischi house a Roma cominciai a comprare pure nei negozi specializzati per DJ nella capitale. Spesso però la disponibilità era legata a poche copie e puntualmente con un paio di settimane di ritardo rispetto al resto d’Europa, per cui bisognava darsi da fare velocemente per trovare i pezzi nuovi ed era fondamentale fare amicizia coi negozianti altrimenti si restava a mani vuote. Eravamo abbastanza competitivi e quando alcuni dei titoli che suonavamo al Devotion divennero reperibili, li compravamo in blocco. Credo di avere ancora copie sigillate di “Devotion” dei Ten City nella mia collezione, alcune le ho regalate durante qualche serata nel corso degli anni.

Il Devotion mi diede la possibilità di fare il salto da “bedroom DJ” a “professional DJ”, fu la piattaforma e il momento ideale per proporre quel tipo di suono. Il nostro pubblico era estremamente eterogeneo ma il nucleo di chi ci seguiva religiosamente era un gruppo di persone, prevalentemente LGBTQ, provenienti dal mondo dell’arte e della moda, e questo facilitò l’introduzione del nostro concetto essendo loro già esposti a quel tipo di sonorità e modo di fare clubbing più internazionale. Dal primo istante in cui poggiai la puntina sul disco capii che questo suono avrebbe conquistato la mia città, la reazione fu a dir poco euforica, come se tutti finalmente avessero trovato il groove ideale per esprimersi liberamente. I pochi increduli cambiarono velocemente opinione e finirono anche loro sul nostro dancefloor. Nel 1987 il termine “house” era comunque un’assoluta novità, i mass media a copertura nazionale solitamente aspettavano (ed aspettano) lunghi periodi prima di convalidare un nuovo fenomeno. Dare spazio a linguaggi diversi comporta dei cambiamenti e in Italia l’introduzione di nuove idee non è necessariamente premiata. Forse ora le cose sono cambiate, non saprei dirlo con certezza perché ho lasciato l’Italia oltre venti anni fa, ma in quel momento l’insieme dei mezzi di comunicazione di massa era un circolo chiuso. La stampa musicale italiana in quegli anni era ancora prevalentemente interessata al rock e la maggioranza delle radio passava dischi da classifica, in molti casi ancora italodisco ed eurodisco. Solo in seguito al grande successo commerciale l’house suscitò attenzione nel nostro Paese, altrimenti sarebbe restata un fenomeno marginale. Io ascoltavo Radio Città Futura che trasmetteva a Roma e nel Lazio, e fu proprio così che conobbi Marco Militello, mio collega DJ e cofondatore del Devotion insieme ad Alessandro Gilardini che conduceva una trasmissione insieme a Marco Boccitto in cui proponevano un repertorio disco, soul, afrobeat e, occasionalmente, proto house. La maggior parte del pubblico comunque è arrivata alla house music tramite “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. o “Ride On Time” dei Black Box, pezzi che personalmente ho trovato banali ma che hanno formato l’orecchio dozzinale della grande maggioranza della gente.

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (Roma, 1987) in uno scatto di Federico Del Prete

Comunque è risaputo che le masse non siano depositarie di gusti sofisticati, e questo avviene non solo in Italia. La prima house, per definizione, venne coniata a Chicago, ed è quella a rappresentare la matrice originale del genere musicale. Racchiude in sé lo zeitgeist della propria generazione e il linguaggio del tessuto sociale da cui proveniva. Nella composizione dei primi brani non erano presenti molti campionamenti perché in quegli anni avere un campionatore a disposizione in un home studio non era così comune. Le tracce erano scarne ma era proprio questa l’innovazione e la forza sonora dell’estetica house, l’impatto di quel suono minimale ad alto volume era molto più diretto ed efficace rispetto alla dance prodotta precedentemente. La musica concepita dai DJ, inoltre, deriva spesso dalla sovrapposizione di suoni, ritmi e melodie, che poi è quanto accade in fase di mixaggio. L’uso del campionamento non è altro che il “riadattamento” della stessa tecnica in studio di registrazione. L’importante è la creatività applicata al metodo e Steve Reich ha cambiato il concetto di musica proprio tramite questo procedimento. Ora come ora, con l’uso del computer, ci sono intere generazioni di musicisti che usano solo manipolazioni audio con risultati eccellenti, l’importante è mantenere sempre una mente aperta rispetto all’innovazione, credo sia proprio ciò ad aver alimentato e mantenuto vivo lo spirito della house nella miriade di mutazioni a cui è andata incontro. Da non dimenticare un altro fattore: la house fu un fenomeno importato nel nostro Paese e come spesso accade in queste situazioni, gran parte della radice culturale viene persa durante l’assimilazione o reinterpretata non sempre nella maniera più corretta. Fu difficile replicarne fedelmente l’essenza perché la house non era solo una tipologia di musica ma un universo e stile di vita per intere comunità di persone. Inoltre, come in tutti i casi in cui si manifesta un grande ed immediato successo economico, entrarono in gioco gli imitatori nel tentativo di replicarne la formula magica. Poi c’era anche il problema degli studi: fare musica non era accessibile come oggi, bisognava avere un equipaggiamento tecnico difficile da reperire, costoso, si doveva conoscere il linguaggio MIDI e bisognava fare i conti con ingegneri del suono che raramente lasciavano carta bianca agli artisti. L’onda creativa avvenne dopo l’impatto commerciale, quando i DJ house italiani si dedicarono a suoni più deep, parallelamente all’avvento della techno, e ciò spinse l’house verso territori più underground e più melodici. Fu proprio tramite il vocabolario più familiare della melodia che gli italiani riuscirono spesso a distinguersi, trovando il giusto terreno per reinterpretare e fare proprio questo stile di musica».

Tra i DJ del Devotion, insieme a Paolo Di Nola, c’è anche il citato Marco Moreggia, uno dei fondatori de I Ragazzi Terribili, un gruppo di giovani attivisti che crea eventi a base di musica dance alternativa: «Iniziai ad organizzare serate nel 1985 ma frequentavo i locali sin dal 1978 e credo di aver vissuto la parte migliore della dance» racconta oggi. «La nuova “ventata musicale” per me giunse alla fine del 1986 e brani come “Move Your Body” di Marshall Jefferson o “Work It To The Bone” dei LNR mi fecero scorgere un mondo del tutto inedito. L’unico posto dove ebbi occasione di ascoltare un intero set di quel nuovo sound fu al Life 85, durante una serata del Devotion. In quel posto riecheggiavano pezzi come “Bring Down The Walls” di Robert Owens, “Taste My Love” di House To House, “I’m A Lover” di Kym Mazelle, “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, “In The City” di Master C & J, “Someday” di Ce Ce Rogers, “Mystery Of Love” di Mr. Fingers, “If You Should Need A Friend” dei Blaze e “Devotion” dei Ten City, giusto per citarne alcuni. Parallelamente al Devotion, nell’estate del 1987, con I Ragazzi Terribili allestimmo il parcheggio del Castello di Maccarese trasformandolo in un club house all’aperto, tutti i sabato. Con orgoglio posso affermare che le prime serate a base di house music, unite all’esigenza di trovare nuovi spazi che non fossero le classiche discoteche, partirono da Roma. Nonostante sia durato per solo due stagioni, il Devotion ha lasciato un segno molto forte. Al citato Life 85 facevano una selezione assai ferrea, la gente che voleva entrare era tantissima e quindi l’organizzazione si spostò presto all’Euritmia, una location dalla capienza maggiore e il primo spazio a prendere le distanze dai soliti club del centro della città, con particolare cura dell’impianto, delle luci, del bar e di tutto il resto, al punto da spronare le persone a macinare un bel po’ di chilometri per raggiungere il posto (in un periodo in cui spostarsi era tutt’altro che usuale) e vivere la serata in modo diverso. Poi, purtroppo, la situazione sfuggì di mano.

line up (I Ragazzi Terribili)

Documento di una delle serate organizzate da I Ragazzi Terribili

Noi, come I Ragazzi Terribili, prendemmo un vecchio dancing creando un pre-serata, altra cosa del tutto nuova perché in quel periodo se non erano minimo le 2:00 non si andava da nessuna parte. Il periodo della Riviera nacque pochi anni dopo ed affini al nostro stile c’erano DJ come Ralf e Flavio Vecchi coi quali ho poi instaurato un lungo rapporto sia d’amicizia che professionale. Personalmente ho cominciato a fare il DJ nel 1988 al Dream nato dalle ceneri del Saint James, primo locale gay in Italia, gestito poi da I Ragazzi Terribili. Mi considero un privilegiato perché entrai in quel mondo da una porta prioritaria, essendo una serata che curavo insieme al mio team. Il pubblico mi conosceva come organizzatore ma non era scontato che mi accettasse, come poi fortunatamente è successo, nel ruolo di DJ che in quel periodo era una figura molto territoriale. Il Dream era un piccolo club ma nonostante ciò lanciò i “fuori orario”, detti anche after hour, perché apriva alle 23:00 e chiudeva alle 11:00 (e a volte persino alle 12:00!) del mattino seguente. Ogni sabato, quindi, mettevo musica per circa dodici ore consecutive. Allora compravo i dischi a New York, da Vinylmania, Dance Tracks ed altri negozi nel Village dove mi recavo regolarmente diverse volte l’anno. A Roma arrivava poco e niente, solo i titoli più commerciali, quindi se volevi un certo suono te lo dovevi letteralmente andare a prendere, investendo parecchi soldi. A New York andavo per comprare i dischi e per farmi avvolgere da quella energia che solo lì potevi cogliere andando nei club a sentire dal vivo quei DJ che poi erano i produttori dei dischi stessi che mettevo alle mie serate. Ebbi la fortuna di assistere all’ultima performance di Larry Levan al The Choice insieme ad altre cinquanta persone, fu una serata memorabile. Nel biennio ’87-’88 gran parte della stampa italiana cominciò ad interessarsi all’house music, ma per molti giornalisti fu solo un modo per parlare di ecstasy e non di musica e della rivoluzione che quella stava portando nel mercato discografico. Da un certo punto in poi, quindi, ho proibito l’ingresso con macchine fotografiche e videocamere alle mie feste, per evitare che gli ospiti si ritrovassero coinvolti in articoli compromettenti. È giusto ricordare però che non tutti i giornalisti volevano fare notizia sbandierando l’uso di droghe. A tal proposito feci una lunga intervista con Enrico Lucherini che rappresentava in modo eccelso l’ufficio stampa del cinema sulle pagine de Il Messaggero. A seguire una rubrica sulla stessa testata di Pietro D’Ottavi ed un’altra, neonata, sul Trovaroma curata da Stefano Cillis, i quali seguivano tutto con molto interesse e professionalità. Le radio invece arrivarono dopo.

Marco Moreggia al Coliseum (1990)

Marco Moreggia in consolle al Coliseum (1990)

A cavallo degli stessi anni a Chicago nacque l’acid house che prese presto piede a Londra ma anche noi a Roma, con I Ragazzi Terribili, la proponemmo con molto successo. Nel 1988 Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito, bandì dalle radio la programmazione di brani acid house ed era persino proibito indossare indumenti che avessero il simbolo dello smile perché rievocava l’uso di ecstasy e degli acidi. Proprio quell’anno tornai a Londra (dove avevo vissuto sino al 1985, quando la musica era focalizzata sul dark, new wave e new romantic) e all’uscita di un locale vidi un gruppetto di amici. Gli andai incontro per salutarli e da lontano mi fecero gesti per bloccare il mio entusiasmo perché nelle immediate vicinanze c’era una camionetta della polizia. I poliziotti erano lì per controllare se qualcuno rivelasse, col proprio atteggiamento, di aver assunto sostanze stupefacenti. In tal caso lo avrebbero portato in caserma. Da lì a breve, come reazione a questo clima di repressione, nacquero i rave. Inizialmente l’house non venne presa sul serio da molti e solo una ristretta nicchia di persone capì il grande potenziale di quel nuovo genere. I giudizi ricorrenti erano sempre gli stessi, come “ma che musica è questa?” o “sembra tutta uguale!”, e l’attenzione di molti si limitò giusto ai brani più commerciali. Mancava insomma il voler approfondire la vastità delle produzioni, la ricerca del suono e la presenza di grandi voci emerse in quel momento storico. Purtroppo lo snobismo musicale che prima toccò altri generi fu riservato anche alla house, c’era addirittura chi ne decretò la morte già nel 1990, facendoci subito dopo la propria fortuna. Ci volle qualche anno prima che i produttori nostrani iniziassero a produrla, io stesso necessitai di tempo per assimilarla. Mi sentii pronto per fare il primo passo in discografia solo nel 1991, quando uscì “I Know Love’s On Earth” del mio progetto Three-Bu. Tra i maggiori impedimenti senza dubbio quello dell’assenza cronica di cantanti, tuttavia sono convinto che quella italiana resti una grande scuola di DJing che ha mantenuto una forte dignità artistica e che non è seconda a nessuno».

Emilia-Romagna
La house music viene irradiata con tempismo anche in Emilia-Romagna, una delle regioni cardine del clubbing italiano. Autorevole testimonianza giunge da uno dei DJ capostipiti, Flavio Vecchi: «Non rammento esattamente il momento preciso in cui entrai in contatto con la house music, ricordo che correva il 1986 e suonavo al Kinki di Bologna. Conobbi quel nuovo genere attraverso delle musicassette che un amico mi spediva da New York. Erano registrazioni di un programma radiofonico, credo su Kiss FM, che si collegava in diretta col club Zanzibar a Newark, in New Jersey, dove suonava Tony Humphries. Insieme ad un ristretto gruppo di amici, iniziai quindi ad ascoltare house music e da lì a breve cominciò la caccia ai titoli. Il primo disco house che comprai fu “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe, a seguire quelli della Trax Records come “Move Your Body” di Marshall Jefferson, “Let’s Let’s Let’s Dance” di Keynotes, “Tell Me (That You Want Me)” di West Phillips, “House Ain’t Givin Up” di BnC e “Go Bang” di Dinosaur L. Nel negozio che frequentavo, il Disco D’Oro di Bologna, arrivava un magazine quindicinale chiamato Echoes sul quale venivano pubblicate le prime underground house chart: consultavo con attenzione quelle classifiche insieme ad Achille ‘Aki Tune’ Franceschi (che lavora ancora lì!) il quale ordinava tre o quattro copie di quei titoli che ci parevano i più interessanti. Poi aspettavamo con ansia che arrivassero per poterli proporre durante le serate. I miei primi dischi house li comprai proprio al Disco D’Oro ma quando, nell’estate del 1986, iniziai a suonare in riviera cominciai ad andare pure al Disco Più di Rimini. Non mancavano viaggi a Londra, da dove tornavo con dischi non ancora reperibili in Italia. Non ero certamente l’unico DJ in Emilia-Romagna ad interessarsi di house music ai tempi, ma come dicevo prima il gruppo era veramente circoscritto a cinque o sei persone. Non conoscevo la realtà al di fuori della mia regione perché la mia attività da DJ non mi consentiva ancora di viaggiare per l’Italia, ma quando aprimmo le porte dell’Ethos Mama di Gabicce, nel 1987, mi resi conto di essere assolutamente un pioniere di quella nuova musica, come del resto lo era l’Emilia-Romagna. Lo capii perché nell’arco di breve tempo all’Ethos Mama veniva a ballare gente proveniente da tutto il Paese.

Ethos Mama Club

L’ingresso dell’Ethos Mama Club

Iniziai a suonare i primi dischi house nel 1986 al Kinki di Bologna e qualcosa alla Villa Delle Rose di Riccione, durante l’estate dello stesso anno, dove proponevo anche soul, r&b ed hip hop visto che in circolazione non c’era ancora molta house che mi piaceva. Ricordo reazioni positive da parte del pubblico e a tal proposito rammento un pensiero che feci: una volta che il pubblico “assaggiò” il nuovo tipo di cassa, dimostrando di gradirla, non sarebbe più stato possibile non offrirgliela più. Era una specie di punto di non ritorno e in effetti è stato proprio così visto che dopo pochi anni anche artisti pop iniziarono a pubblicare remix realizzati da DJ e produttori provenienti dal mondo house. Tra 1987 e 1988 comunque le uniche informazioni sulla house underground le reperivo sempre e solo al Disco D’Oro dove Achille riusciva a far arrivare con regolarità diverse riviste musicali inglesi ed americane dove venivano riportati nuovi titoli e nomi di produttori e DJ da tenere d’occhio. L’Italia ci mise un po’ per capire cosa fosse l’house music, semplicemente perché si trattava di un genere non nato entro i nostri confini. La mia prima collaborazione in una produzione house risale al 1990 (“House Of Calypso” di Key Tronics Ensemble Featuring Double J. Flash, nda) a cui seguirono parecchi dischi tra ’91 e ’92 alcuni dei quali sono ora considerati dei classici (cito fra tutti il Vol.1 e il Vol. 2 di Riviera Traxx, prodotti e composti insieme a Ricky Montanari e Kid Batchelor). Conservo ancora trafiletti di riviste britanniche e statunitensi in cui vennero citate le nostre produzioni, e recentemente alcuni nostri brani sono stati ristampati o inseriti in nuove compilation, a testimonianza che noi italiani imparammo presto e bene a comporre house music di buon livello».

Il citato Achille Franceschi (meglio noto come Aki Trax o Aki Tune) è un altro dei primi DJ, in Emilia-Romagna, a proporre house music. «La scoprii per caso. L’assoluta scarsità di informazioni in merito non permetteva infatti di capire esattamente cosa fosse» racconta oggi Franceschi. «Nella tarda primavera del 1986 iniziai a comprare dischi da Groove Records, a Londra, e la maggior parte riportava la scritta “house of Chicago” in copertina. La cosa mi incuriosì e da lì a poco mi resi conto che stessi suonando, inconsapevolmente, house music. Nell’arco di pochi mesi acquistai decine di quei mix, quasi tutti provenienti da Chicago. I miei preferiti? “Mystery Of Love” di Fingers Inc., “Your Love” di Frankie Knuckles, “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Free Yourself” di Virgo. Iniziai a proporli al Lilì Marleen di Misano Adriatico (poi trasformato in Vae Victis ed Echoes) e al Graffio di Modena, supportato dall’entusiasmo del pubblico. In Emilia-Romagna c’erano anche altri DJ interessati come me a quel fenomeno musicale, Maurizio Tangerini, Flavio Vecchi, Pier Del Vega e Renzo Master Funk. In quel periodo la house era un fermento totalmente sotterraneo. Il successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. poi aprì la strada a produzioni più commerciali che nel giro di un paio di anni, a mio parere, snaturarono del tutto l’essenza della stessa house music».

Concerto di Afrika Bambaataa, foto di Marinella Mattioli

Il biglietto del concerto di Afrika Bambaataa organizzato da Il Graffio (dall’archivio personale di Marinella Mattioli)

Un paio di anni prima che la house music giungesse in Italia, a Modena apre un locale “di educazione all’intrattenimento”, così come lo descrive uno dei fondatori, Alessandro “Jumbo” Manfredini, in questo breve articolo di Laura Solieri del 3 settembre 2012. Appartenente al circolo Arci, il Graffio diventa in breve un ritrovo giovanile dove sperimentare allestimenti, proiettare film e proporre musiche alternative come hip hop ed house. «”Devotion” dei Ten City era uno dei pezzi che riempiva di più la pista del Graffio» ricorda oggi Manfredini, che in quel periodo milita nella band dei Ciao Fellini. «Fu la mia palestra coi maestri Maurizio Tangerini ed Achille Franceschi alias Aki Trax, un posto per anime libere e scevre da ogni preconcetto nei confronti di nuovi sound, che rappresentava una situazione abbastanza anomala almeno in Emilia, visto che in riviera alcuni DJ, come Renzo Master Funk, avevano già dato il loro contributo alla causa house. Ai tempi attivammo i contatti anche con altre realtà attraverso la sigla O.N.U. (acronimo di One Nation Underground) creando un circuito di locali “alternativi” dove poter trovare un’offerta musicale diversa dal mainstream. La house però era ancora per pochi, e dischi di quel genere ne arrivavano in quantità ridotta. I miei punti di riferimento erano l’American Records di Roberto Attarantato e il Disco Inn di Fabietto Carniel. Nel 1987 l’uscita di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. aprì sicuramente gli orizzonti a molte persone seppur la culla della house fosse Chicago e non Londra, ma all’inizio in pochi capirono l’importanza di questo genere nato in America. Probabilmente vi era un’incapacità diffusa di interpretare la portata e la potenza culturale che poi quella musica avrebbe avuto. Non a caso per prendere dimestichezza con la house, i produttori italiani impiegarono del tempo perché non era in linea col percorso, sia creativo che di business, dell’italodisco che in quel momento imperava ancora».

Il Graffio (1986), allestimento dedicato al surrealismo, foto di Ernesto Tuliozi

L’allestimento dedicato al surrealismo allestito al Graffio nel 1986. Foto di Ernesto Tuliozi, gentilmente concessa da Alessandro Manfredini

Originario dell’Emilia-Romagna, seppur trapiantato da anni nel Lazio, è pure Maurizio Clemente, produttore del documentario “Italo House Story” (di cui si è fatto cenno qui) che mette ordine, in tempi non sospetti, nella storia della cosiddetta spaghetti house nostrana. «Conobbi la musica house nel 1987 circa, grazie agli amici DJ Ricky Montanari e Cirillo e alle registrazioni in cassetta di vari radio show newyorkesi, come quello di Tony Humphries allo Zanzibar. Un paio di anni più tardi approcciai anche alla discografia grazie all’amicizia con Kid Batchelor e Giorgio Canepa alias MBG. Lavorare nel campo della musica è sempre stato il mio sogno quindi fui coinvolto praticamente all’istante sia grazie a Batchelor, col quale andai negli studi londinesi della Warriors Dance (dove, tra l’altro, i Soul II Soul incisero la loro hit “Keep On Movin”), sia grazie ad MBG che aveva un piccolo studio di registrazione, pilotato dal Commodore 64, con cui alimentava una label distribuita da Severo Lombardoni, la MBG International Records. Su quella label nel ’90 uscì “The Chance” di Optik, un disco realizzato a quattro mani dallo stesso MBG e Montanari a cui collaborai pure io, in un secondo momento, come business manager. Conclusi una licenza esclusiva in Belgio con la Dancyclopaedia negoziandola con Rudy De Waele, oggi autorevole figura della cultura digitale.

Cirillo e Ricky Montanari (1989) courtesy Maurizio Clemente

Cirillo e Ricky Montanari nel 1984 a Berlino, durante un viaggio all’estero per comprare dischi (foto gentilmente concessa da Maurizio Clemente)

Col tempo la mia attività si irrobustì: nel ’92 fondai la Causa Effetto Italia e le etichette Zippy Records e Rena Records a cui fece seguito, nel 1994, la Nite Stuff, col supporto della Flying Records di Napoli. La società campana poi mi affidò pure il ruolo di A&R della UMM, affiancando Angelo Tardio e Giuseppe Manda. Facendo un passo indietro rispetto a tutto ciò però, ritengo che il citato Lombardoni della Discomagic sia stato un personaggio chiave per la house made in Italy di quegli anni. Senza di lui non ci sarebbe stata la diffusione della piano house in Europa e nel mondo intero. In Emilia-Romagna la prima House Convention venne organizzata al Tino di Massa Lombarda nel 1987, poi ripetuta all’Ethos Mama di Gabicce Mare. I primi underground house party, che non erano neanche organizzati in discoteca, però risalgono al periodo 1989-1990.

House Sound Convention II (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer della seconda House Convention svoltasi al Tino di Massa Lombarda (provincia di Ravenna) l’11 novembre 1987 (su gentile concessione di Maurizio Clemente)

A Rimini c’erano diversi giovani DJ che cercavano di emergere da quel sottobosco perché non trovavano spazio nei generi musicali in auge allora promossi dalle radio. Nel movimento underground era in voga anche la “afro” del Cosmic di Verona (oggi associato erroneamente all’italodisco) e de La Mecca. I DJ di riferimento erano Peri, T.B.C. (Claudio Tosi Brandi), Daniele Baldelli, Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli, Rubens, L’Ebreo e Spranga. I primi party in assoluto che organizzammo con la house però erano vuoti, ma la gente cominciò presto a capire questa musica e ad apprezzarla fino a riempire anche i club della collina di Riccione che all’inizio erano piuttosto riluttanti. Dopo le difficoltà iniziali noi appassionati e promotori cavalcammo questo genere musicale come un cavallo di Troia per entrare nel mercato dei club mediante i DJ resident dei locali più famosi di Rimini, visto che la house iniziò ad essere richiesta dal pubblico in tutte le discoteche e non più solo in quelle specializzate. I primi DJ che ho fatto ingaggiare a Londra, ad esempio, suonavano all’Echoes di Gabicce. Ai tempi non era facile seguire i trend di tutto il mondo e per questo ero spesso in viaggio per conto dei proprietari ed art director delle discoteche con cui collaboravo (Gianluca Tantini dell’Ethos, Gianni Nistico del Peter Pan, Gianni Fabbri e Renato Ricci del Paradiso, Pascià e Pineta, Luca Carrieri del Cellophane) proprio per intercettare nuove tendenze musicali. Allora non c’era internet, le uniche fonti di informazione erano il telefono e la stampa di settore, principalmente straniera. Sapevamo che a Roma ci fosse un movimento house intorno al Devotion di cui si parlava tanto anche perché gli organizzatori invitavano artisti come guest dagli Stati Uniti. Noi li seguivamo sperando di poter replicare, un giorno, quelle proposte artistiche internazionali anche in provincia, magari organizzando un unico tour nazionale ed agganciandoci a Roma per dividere le spese, visti soprattutto gli alti costi dei biglietti aerei. A dare spazio alla house music prima dell’esplosione commerciale furono diverse emittenti radiofoniche locali che riuscivano ad avere ospiti in esclusiva come ad esempio i Ten City che io stesso portai in una piccola radio di Riccione di cui non ricordo più il nome.

House Sound Convention III (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer (gentilmente concesso da Maurizio Clemente) della terza House Convention svoltasi presso l’Ethos Mama Club il 24 dicembre 1987. In evidenza, al centro, un motivo grafico già apparso sul precedente che rimanda alla serie “The House Sound Of Chicago” varata dalla D.J. International Records nel 1986

Uno dei brani che fece uscire la house dal territorio prettamente underground fu “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S.: pur non essendo ancora musica da classifica radiofonica, quel genere iniziò a riempire le mega discoteche di allora e ritengo fu molto positivo. Non mancò ovviamente chi accusò la house di essere “falsa” perché fondata sull’uso di campionamenti, ma credo che ciò dipenda dall’annosa questione legata all’utilizzo del computer per produrre musica. A tal proposito ricordo di cantanti, più o meno famosi, che interpretarono dei pezzi house e che si arrabbiarono molto quando si resero conto di essere stati rimpiazzati negli eventi live dai DJ. Dal punto di vista della produzione invece i musicisti venivano ingaggiati perlopiù come turnisti, a volte senza neanche nessun riconoscimento tra i credit (a tal proposito si rimanda a questo approfondimento, nda). Il computer e la house music fecero in modo che un brano fosse interamente prodotto da una sola persona, il DJ, e questo ribaltò gli equilibri già allora in bilico e che oggi, con internet, sono sconvolti ancora di più. Noi italiani comunque fummo secondi solo rispetto all’Inghilterra nella produzione di musica house, in quanto avevamo alle spalle una storia di disco ed italodisco che aprì le porte all’import-export, e questo ne facilitò la divulgazione. Per tale ragione l’italo house fu importante per la scena internazionale, così come lo furono i club italiani che per primi iniziarono ad ingaggiare DJ guest internazionali dando maggiore visibilità alla nostra nazione e al settore dell’intrattenimento di allora».

Umbria
Anche il “cuore verde” dello Stivale, l’Umbria, ricopre un ruolo importante nella diffusione della house. La vicinanza con il Lazio ha generato una specie di ping pong tra alcune realtà da diventare determinante per futuri sviluppi. Nome statuario è quello di Antonio Ferrari noto come Ralf, nato a Bastìa Umbra, in provincia di Perugia, che racconta: «Sono curioso ed attento di natura ma nei primi anni Ottanta non frequentavo le discoteche, erano posti in cui passava musica a mio avviso indigesta. Preferivo di gran lunga i club del rock alternativo, dove peraltro iniziai a lavorare selezionando cose molto eterogenee, da Stevie Wonder a Barry White e i Clash passando per roba ska, punk, funk e il primo hip hop. Ci fu un periodo in cui feci incetta del repertorio funk/soul specialmente statunitense e britannico, con titoli per me completamente sconosciuti. Alla house invece arrivai attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders: era il 1986 e per me fu una vera e propria illuminazione. Ad aprirmi quel mondo nuovo furono le riviste estere che acquistavo regolarmente, New Musical Express, The Face, Melody Maker e i-D, sempre molto attente alle nuove tendenze. Parallelamente a mostrare interesse per la house fu l’amico Vincenzo Viceversa che veniva da un background di musica parecchio dura come industrial, EBM e punk. Non ricordo altri in Umbria. Al di fuori dei confini regionali invece c’erano i ragazzi del Devotion, a Roma, ed anche alcuni DJ in Emilia-Romagna come Aki Trax, Renzo Master Funk, Flavio Vecchi, Ricky Montanari e Wayne Brown. All’inizio però era dura. Iniziai in un piccolo locale a Lacugnano, lì dove facevo coppia con Viceversa, ma le reazioni del pubblico furono negative. Scommisi tutto sulla house facendo incetta di dischi e realizzando set interamente basati su quel genere ma nell’arco di poche settimane mi ritrovai senza stipendio, la gente non apprezzava affatto. Le cose cambiarono quando approdai all’Ultra Violet, un posto che mi garantì un bel successo. In seguito sarei approdato al Matmos di Milano, al Plegine di Firenze, all’Ethos Mama di Gabicce e al Matis di Bologna, praticamente i templi house italiani. I primi dischi house li comprai da Musica Musica, un negozio di Ponte San Giovanni. A seguire da Mipatrini e da DJ News. Erano tutti abbastanza forniti e con le mie continue richieste credo di aver stimolato, in qualche modo, anche i negozianti a richiedere quel tipo di musica. Nel momento in cui cominciai a lavorare al di fuori dei confini regionali, iniziai a frequentare il Disco Più di Rimini e il Disco Inn di Modena, i due negozi più forniti d’Italia. Non mancavano però viaggi a Londra, dove mi fiondavo da Catch A Groove e Black Market Records, e a New York, dove invece andavo da Hard To Get e Vinylmania, dove si potevano incrociare tantissimi DJ della Grande Mela. Ricordo però che una volta da Vinylmania (la cui storia si può leggere qui, nda) accadde una cosa singolare: chiesi dischi di musica house ma non comprendevano affatto cosa volessi. Per loro quella era semplicemente “dance music”, analogamente a quanto avveniva in Italia, sin dai tempi dell’italodisco. Non c’era ancora una grande consapevolezza di ciò che stesse avvenendo, e prima del successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., ad esempio, da noi praticamente nessuno mostrò interesse per la house, sia a livello locale che nazionale, se non qualche sparuta realtà. Quando emerse il fenomeno del sampling il campionatore divenne lo strumento principe della house e molti la sposarono per moda ed interesse economico. Seppur nata negli States però, il fenomeno venne pilotato dalla Gran Bretagna, autentico volano del movimento house come fu la Germania per la techno. Noi italiani, comunque, non siamo stati da meno e ci facemmo ben notare, con neanche tanto ritardo rispetto ad altre nazioni. Non a caso oggi si parla di italo house come filone identificativo e rispettato anche oltre i confini».

Un altro nome preponderante della scena umbra è quello di Vincenzo Viceversa, già citato da Ralf poche righe fa ed intervistato qui qualche anno addietro. Ricontattato oggi, il DJ rammenta il suo primo contatto con la house music che avvenne «tra il 1986, anno di chiusura del Svbvrbia, e il 1987, attraverso riviste internazionali come The Face, i-D e New Musical Express, di cui ero assiduo lettore, che segnalavano questo nuovo “trend” con recensioni ed articoli di costume. I primi dischi house che mi folgorarono realmente e mi fecero sposare la causa furono “House Nation” di The Housemaster Boyz & The Rude Boy Of House, “Let’s Get Brutal” di Nitro Deluxe e “The Morning After” dei Fallout (ma anche il remix di “Behind The Wheel” dei Depeche Mode realizzato da Shep Pettibone, con un lungo intro simil-acid), in qualche modo mi ricordavano “Metal On Metal” dei Kraftwerk, “Planet Rock” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force, alcuni remix dei Front 242 ed altre cose electro dell’epoca come “Egypt, Egypt” di Egyptian Lover, “Breaker’s Revenge” di Arthur Baker o capolavori visionari come “Metal Dance” degli SPK e varie cose dei Cabaret Voltaire e di Chris & Cosey, tutti pezzi di matrice elettronica che già proponevo al menzionato Svbvrbia. Per me avvicinarmi a quel genere, nuovo e nero che si stava creando oltreoceano, fu una naturale evoluzione. Tracce elettroniche realizzate interamente con macchine e cantate esistevano già ed erano prodotte principalmente in Europa, ma quando le periferie americane dissero la loro cambiò tutto. Condivisi l’attrazione per la house inizialmente con Ralf, col quale ero in stretto contatto in quanto collaboratore degli stessi locali in cui lavorava come il Norman a Lacugnano, dove organizzammo i primi venerdì house underground della regione. In seguito si aggiunse Sauro Cosimetti. Ralf si avvicinò alla house perché appassionato di musica nera, io in virtù dell’amore per l’elettronica e la sperimentazione, Sauro invece per la via “afro”. Gettando uno sguardo al di fuori dei confini regionali, credo che tutto nacque a Roma col Devotion che adottò un concept praticamente contemporaneo con una location alternativa, un sound system potente, proiezioni visual (attraverso l’uso di diapositive) e musica house pura al 100% dato che i vari Militello, Di Nola e Gilardini in quel periodo vissero o frequentarono New York e locali come il Paradise Garage, oltre ad avere rapporti diretti con David Piccioni del Black Market di Londra. Le preziosissime copie dei primi dischi house americani arrivarono a Perugia proprio grazie a loro. Gilardini inoltre scriveva per il giornale Fare Musica e ricordo una sua intervista a Larry Levan. Attraverso la sua intercessione, realizzai pure io alcuni articoli per la stessa testata, tra cui uno sull’evoluzione EBM/new beat, ed uno su Fela Kuti per cui feci il DJ in after show nel 1988 al Quasar. Così come Ralf, anche io andavo da Musica Musica ma per fare vero shopping discografico era necessario volare a Londra. Ricordo, ad esempio, che di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. ne arrivò solo una copia a Perugia. La comprai ma attratto dall brano inciso sull’altro lato, “Anitina (The First Time I See She Dance)”. Solo in seguito la band esplose per “Pump Up The Volume”, un pezzo fatto per gioco in una notte con l’intento di riempire la facciata del disco, testando il nuovo campionatore acquistato dallo studio di registrazione della 4AD usufruendo dei dischi a portata di mano. I M.A.R.R.S. furono fondamentali per la diffusione europea della house, ma senza dimenticare il successo mondiale di “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e di “Respectable” di Mel & Kim. Il campionatore divenne uno strumento a tutti gli effetti e venne aggiunto all’equipment in uso negli studi di incisione. In Italia la house fu di fatto una evoluzione dell’italodisco che, a sua volta, si rivelò fonte d’ispirazione per la scena americana, basti pensare a “Dirty Talk” di Klein & MBO o a “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick. Quando Di Nola mi disse che “Problèmes D’Amour” era un cult nel circuito di New York e Chicago, mi venne l’idea di fare un remix e mi recai alla sede della Materiali Sonori, a San Giovanni Valdarno, ma lì mi dissero che non avevano né DAT, né nastri e tantomeno una copia del 12″. Credo che i fratelli Bigazzi allora ignorassero quanto quel disco fosse speciale, per loro era solo un vecchio pezzo che non aveva venduto molto. Le mie prime serate house le feci al citato Norman, ma all’inizio il pubblico in Umbria era schifato da quella musica, solo pochi eletti si rivelarono estaticamente entusiasti. Roma invece era al top grazie al Devotion».

Lombardia / Veneto
Una parte del cuore del settentrione nostrano inizia a battere presto per la house music. Operativo tra Lombardia e Veneto, seppur le sue prime incursioni house, come si vedrà tra poco, avvengano prevalentemente ad Ibiza, è il citato Leo Mas che racconta: «Scoprii la house nel 1985 attraverso dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Music Is The Key” di J.M. Silk, “Jam Tracks” di Kenny “Jammin” Jason e “Funkin With The Drums” di Farley “Jackmaster” Funk. Non ricordo in che modo giunsi ad essi, forse dopo aver letto qualche articolo relativo alla scena di Chicago sulla rivista The Face, la mia fonte d’informazione per tutti gli anni Ottanta. I primi dischi li trovai da Non Stop, il più grosso importatore d’Italia, in Via Quintiliano, a Milano, dove comunque erano disponibili poche copie ed ovviamente non di tutte le uscite. In quel momento il genere non era ancora definito, conosciuto ed etichettato, e quel tipo di produzioni, ai meno attenti, potevano sembrare frutto e parte del mondo electro o, nel caso di Colonel Abrams, persino del pop. Il fenomeno house iniziò a raccogliere una certa importanza solo nel 1986, tra Gran Bretagna ed Ibiza. Iniziarono a circolare più produzioni di quel nuovo sound e la compilation “The House Sound Of Chicago”, edita dalla D.J. International Records, a mio avviso fotografò perfettamente il genere con una tracklist di future mega hit (da “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley a “Mystery Of Love” di Fingers Inc. passando per “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Move Your Body (The House Music Anthem)” di Marshall Jefferson, nda), senza dimenticare le pubblicazioni della Trax Records e di altre svariate etichette nate proprio quell’anno. Fino all’estate del 1987 i centri di irradiamento, come dicevo prima, furono Ibiza e Regno Unito, poi la diffusione del genere iniziò ad allargarsi al mondo intero. Per lungo tempo le mie fonti restarono sempre e solo le riviste musicali britanniche, oltre al menzionato The Face anche i-D, New Musical Express e Record Mirror. Che io sappia, nessuna testata giornalistica nostrana affrontò l’argomento house music prima del successo internazionale di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., che fu determinante per far conoscere il genere al grande pubblico seppur fosse una produzione inglese che non rispecchiava affatto quella che invece era la house di Chicago, pur possedendo alcuni elementi di quel filone, come i campionamenti. A “Pump Up The Volume” peraltro è legato un divertente aneddoto: poco prima dell’uscita del disco dei M.A.R.R.S., scelsi come nome d’arte Leo Mars, variazione del mio cognome anagrafico, Marras, a cui tolsi le lettere doppie. Da amante della conquista dello spazio e di tutto ciò che riguarda la space age, Leo Mars mi parve davvero perfetto, ma dopo l’uscita di “Pump Up The Volume” chiunque avrebbe potuto pensare che avessi copiato Mars dai M.A.R.R.S., e quindi a quel punto decisi di eliminare anche la R e diventai Leo Mas.

La prima volta che ho proposto house music fu nell’estate del 1985, all’Amnesia di Ibiza, con Alfredo. La alternavo a pezzi come “(I Like To Do It In) Fast Cars” di Z Factor, “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, “Al-Naafiysh (The Soul)” di Hashim, “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Clear” di Cybotron, tutti del 1983, che comprai quando non facevo ancora il DJ. Replicai nello stesso posto l’estate successiva, contando su più dischi a disposizione, anche se alla fine restavano insufficienti per reggere l’intera serata giacché mettevamo musica per ben nove ore quotidiane, da mezzanotte alle nove del mattino seguente, senza ospiti, che invece iniziarono a giungere solo nel 1990, per appena uno o due party stagionali (e a tal proposito ricordo il compianto Paul “Trouble” Anderson e Pete Heller). Quei brani quindi finivano irrimediabilmente nel mezzo del programma musicale. Poi di comune accordo con Alfredo, nell’estate ’87, quando la quantità delle produzioni aumentò sensibilmente, suonammo musica house da 116 a 127/130 bpm per ben tre ore consecutive, in cui la tensione sonora raggiungeva l’apice, e fummo i primi a farlo in Europa. Consumato quello sprint di energie, il ritmo tornava a calare per raggiungere i 110 (ed anche meno) bpm, e pure quel momento era assai speciale ed emotivamente coinvolgente, complice la struttura stessa del locale. L’Amnesia infatti era un club open air, fino al 1990 anno in cui venne chiuso (analogamente al Ku) perché non fu più permessa l’attività di discoteche all’aperto sull’isola. Nell’estate del 1987 arrivarono i DJ britannici come Paul Oakenfold, Danny Rampling, Nicky Holloway e Johnny Walker che portarono oltremanica praticamente tutto quello che noi suonammo in quei mesti estivi. Da ricordare anche Nancy Noise, nostra cliente già dall’estate ’86, poi al fianco di Oakenfold al Future, uno dei primi club house/balearic londinesi insieme allo Shoom di Rampling. Poiché Londra rappresentava un “faro” per tutto il mondo, specialmente nell’ambito delle tendenze musicali, da quel momento l’house music cambiò le dancefloor e il modo di vivere la notte a livello planetario, innescando di fatto un’autentica rivoluzione senza precedenti. Ci terrei anche a ricordare che nel genere house, fino all’uscita sulla 10 Records, sublabel della Virgin, della compilation “Techno! The New Dance Sound Of Detroit”, rientravano anche le produzioni made in Detroit, su Transmat, Metroplex, KMS ed altre etichette indipendenti della motor city. Si trattava insomma di un genere unico, non esisteva alcuna distinzione tra i dischi di Chicago e quelli di Detroit. Solo dopo l’uscita di quella compilation, a metà estate del 1988, la seconda “Summer Of Love”, la musica che proveniva da Detroit sarebbe stata etichettata come techno.

Leo Mas e Vasco Rigoni del Macrillo

Leo Mas e Vasco Rigoni, art director del Macrillo

Provai una grande emozione quando all’Amnesia, nel 1987, suonavamo “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, vidi l’intera dancefloor con le mani in alto e in quell’istante percepii che stesse accadendo qualcosa di grande ed epocale. L’entusiasmo del pubblico fu sempre in crescendo, tra 1985 e 1986, ma nel 1987 divenne davvero devastante. Quell’anno iniziai a fare il DJ anche in Italia (dopo precedenti occasionali esperienze in qualche club in Emilia-Romagna) ed approdai al Macrillo di Asiago, diretto da Vasco Rigoni. A suggerirgli il mio nome e quello di Alfredo fu Mauro Bondi che organizzava le feste ibizenche al Pineta di Milano Marittima dopo la stagione estiva sull’Isla Blanca, e che poi aprì il Pascià a Riccione. Rigoni coinvolse anche gran parte dell’animazione del Pacha e del Ku. Molti clienti del Macrillo quindi conoscevano già il nostro sound perché frequentavano Ibiza, e mostrarono fortissimo entusiasmo quando si resero conto che non serviva più né attendere l’estate per ballare quella musica, né tantomeno volare nell’isola balearica. Era una situazione eccitante ma soprattutto unica perché, sino al 1987 circa, nelle discoteche italiane i DJ raramente superavano i 116/118 bpm. Come tutti i generi musicali che hanno innescato delle rivoluzioni, anche la house music era legata ad una sostanza stupefacente, l’MDMA, giunta ad Ibiza a fine ’86 da New York e poi prodotta in Olanda dal 1987, anno in cui il consumo aumentò esponenzialmente nell’isola proprio con l’avvento della rivoluzione house in atto (mentre in Italia non si sapeva ancora nulla, l’MDMA entrò nella tabella delle droghe solo nel 1989 dopo un mega arresto avvenuto al Movida di Jesolo). La combinazione house-droga amplificò ulteriormente l’esplosione del genere nei club. Per quanto riguarda le produzioni, noi italiani abbiamo dato presto la nostra interpretazione riuscendo a creare una “nostra house”, amata e riconosciuta ancora oggi da svariati DJ internazionali».

Piemonte
Dopo l’esperienza discografica nei Talk Of The Town di cui abbiamo già parlato qui, Roberto Pezzetti, da Novara, scopre la house music e si trasforma in Jackmaster Pez, cavalcando da protagonista buona parte degli anni Novanta. «Sino a poco tempo prima ascoltavo prevalentemente rock psichedelico e le cose appartenenti alla coda finale della new wave, inclusi brani di gruppi come A.R. Kane e Colourbox, dalla cui collaborazione poi nacquero i M.A.R.R.S.» racconta oggi. «Tolti Michael Jackson, Madonna e Prince, nel 1987 in Italia imperava ancora l’italodisco a cui mi ero avvicinato attraverso il progetto Talk Of The Town prodotto nel Logic Studio dei fratelli La Bionda. Alla house giunsi attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk (dal quale “presi in prestito” un pezzo del mio pseudonimo), uscito nel 1986. Da lì iniziò l’invasione della house di Chicago (D.J. International Records, Trax Records), poi Detroit rispose con la techno, senza dimenticare i paralleli fenomeni acid e garage, ma all’inizio tutti questi generi trovarono parecchia resistenza, almeno nella mia regione, il Piemonte. I primi confronti coi colleghi di studio, coi discografici e con gli altri membri dei Talk Of The Town furono decisamente deludenti. Nessuno di loro provava lo stesso feeling emozionale che percepivo io ascoltando quelle tracce, e mi gelarono con commenti tranchant tipo “ma questa non è musica, è solo una combinazione elementare tra drum machine e synth!”. La svolta, per me del tutto inaspettata, avvenne nel 1988, precisamente ad agosto quando mi trovavo all’Isola d’Elba, durante una pausa del tour dei Talk Of The Town. Andai in una discoteca dove si ballava house music, programmata e mixata dall’amico Miki The Dolphin, e quella serata accese in me la miccia. Tornato a Milano, conobbi Leo Mas che suonava al Macrillo di Asiago, in una “dodici ore non stop” organizzata dall’indimenticabile Vasco Rigoni. Lì, insieme a lui, anche i primi DJ guest ibizenchi. Da quel momento per me sarebbe stato un costante crescendo. A settembre ’88 iniziai a comprare dischi house con regolarità, prima dai distributori e da negozi occasionali, poi dal Disco Più di Rimini che mi spediva settimanalmente delle cassette coi demo delle nuove uscite per facilitare gli ordini a distanza. In seguito il mio fornitore divenne, per almeno un decennio, Fabietto Carniel del Disco Inn di Modena. Ai primi dischi house è legato un ricordo indelebile: dopo una serata trascorsa al Macrillo con l’amico Johnson Righeira, acquistai in un piccolo negozio di dischi “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim (Derrick May), e rimanemmo entrambi folgorati. Ancora oggi, dopo oltre trent’anni, quel disco lo ho ancora nel flight case. Giusto pochi giorni fa proprio Johnson mi ha fatto scoprire l’opening del Weather Festival a Parigi, con la versione orchestrale di “Strings Of Life” di Francesco Tristano (ex Aufgang) eseguita dalla Philharmonic Orchestra Lamoureux diretta da Dzijan Emin. Mi sono venute le lacrime agli occhi per l’emozione, consiglio davvero di guardare la clip.

flyer Clinica (1988)

Flyer de La Clinica (1988) su gentile concessione di Jackmaster Pez

Nell’autunno del 1988, sull’onda dell’entusiasmo, iniziai ad organizzare piccoli house party a casa mia. Così nacque la Clinica che, in teoria, era riservata a pochi intimi amici conosciuti all’Elba invece ci ritrovammo in cinquecento provenienti da Roma, Firenze, Genova, Milano, Torino … Tutto crebbe in modo spontaneo e col passaparola (in un periodo in cui internet non era neanche ipotizzabile) generando una tribù di seguaci molto ricettivi per quel nuovo fenomeno musicale all’interno di una cornice radicalmente inedita e meravigliosamente magica. Ricky Pannuto, mio partner ai tempi dei Talk Of The Town all’inizio fortemente scettico nei confronti della house, cambiò idea ed insieme producemmo, nel 1990, “Life Is An Illusion” di Sound Of Clinica, in puro genere “paradise”. In Italia però giornali, televisioni ed emittenti radiofoniche giunsero alla house solo dopo “Pump Up The Volume”, peraltro prestando più attenzione ai primi acid house party londinesi che altro. La house era musica di nicchia e vista di traverso perché legata all’uso dell’ecstasy. Inoltre sia discografia che distribuzione nostrana non erano ancora pronte a voltare pagina, perché inizialmente le soglie di vendita della house erano talmente esigue da non creare alcun interesse per i manager discografici che continuavano a vendere milioni di copie con altri generi. Non a caso la house music si è diffusa attraverso piccole etichette indipendenti, quelle che avevano meno paura di osare. Non dimenticherò mai l’espressione di un discografico dopo aver ascoltato un mio demo house. Aspettava che succedesse qualcosa e alla fine mi guardò stranito dicendomi “mah, mi sembra un jingle per uno spot pubblicitario”».

I primi dischi house made in Italy
Se è arduo indicare chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese è altrettanto problematico stabilire con esattezza chi abbia prodotto il primo pezzo house in Italia. Quel che pare certo è che a dedicarsi discograficamente a questo nuovo sound è, in principio, solo chi ha già carriere pregresse alle spalle in ambito italodisco e con una certa dimestichezza sia in processi tecnici che trafile burocratiche e, non meno importante, con uno studio di registrazione a disposizione, allora requisito essenziale per incidere dischi. Si ha inoltre l’impressione che la maggior parte dei primi italiani a buttarsi nella produzione di musica house sia allettata in primis da possibili introiti economici più che dallo stile in sé, ed infatti sul mercato giungono diverse riproposizioni, piuttosto pedestri, della formula portata al successo dai M.A.R.R.S. con “Pump Up The Volume”, a dimostrazione che inizialmente la house venga considerata più come mezzo per lucrare velocemente che esprimere la propria vocazione artistica e creativa. Il campionatore viene adoperato per generare frullati citazionistici ma attingendo da fonti prevalentemente riconoscibili anche dal pubblico generalista. Non c’è ancora traccia del minuzioso lavoro dei cosiddetti “crate digger” che passano al setaccio materiale oscuro facendo leva sulla propria sensibilità per individuare i giusti frammenti da trasformare in cose nuove. A differenza di quanto avviene oltremanica inoltre, da noi inizialmente mancano produttori che prendono le mosse da Chicago, e i pochi DJ a volerlo fare non hanno la forza economica sufficiente per approntare prodotti adatti alla stampa, se non qualche demo registrato alla meno peggio. Negli studi che si usa prendere a nolo invece non c’è ancora personale specializzato in house music e a dirla tutta i turnisti mostrano più di qualche riserva nel prendere parte a progetti in cui la musica viene composta in modo del tutto diverso rispetto a quanto fosse avvenuto sino a quel momento. Non mancano neppure produttori infastiditi dal fatto che i DJ inizino a conquistare indipendenza emancipandosi dai musicisti qualificati per realizzare i propri brani. Inoltre non esistono case discografiche, tranne piccole e piccolissime indipendenti, disposte a pubblicare senza riserve pezzi di quel tipo, preferendo puntare ancora sull’italodisco che, nel frattempo, raggiunge la fase creativa più deludente. Si delinea pertanto un quadro in cui i DJ italiani che amano sperimentare nuove fogge stilistiche sono costretti a ripiegare esclusivamente su materiale discografico proveniente dall’estero perché non esiste ancora un equivalente prodotto in patria. Qui di seguito una carrellata (in ordine alfabetico) di produzioni italiane edite nel 1987, candidate ad essere considerate tra le prime prove “friendly house” nostrane. La gallery non ha però la pretesa di essere completa ed esaustiva, pertanto in futuro potrebbe essere oggetto di aggiornamenti.

Alexander Robotnick - C'est La VieAlexander Robotnick – C’est La Vie (Fuzz Dance)
“C’est La Vie” è il brano con cui Maurizio Dami torna a vestire i panni di Alexander Robotnick, personaggio franco-sovietico scaturito dalla sua fantasia e materializzatosi per la prima volta nel 1983 con la seminale “Problèmes D’Amour” a cui abbiamo dedicato un ampio articolo qui. Il pezzo, per cui viene realizzato anche un videoclip, non è esattamente house almeno nella versione principale. Cantata ancora in lingua francese e con gli inserimenti di sax ad opera di Stefano Cantini che giusto l’anno prima partecipa a “Love Supreme” dei Giovanotti Mondani Meccanici, team in cui figura lo stesso Dami, “C’est La Vie” è destinata al pubblico mainstream e alle radio. Più filo house risulta essere però la versione incisa sul lato b intitolata, piuttosto banalmente, Another Version, privata di quasi tutte le parti vocali e contraddistinta da un telaio percussivo più rigido. Nonostante venga licenziato in Francia dalla Sire, il pezzo non raccoglie il successo sperato e spinge l’autore toscano ad “ibernare” il suo alter ego sino al 1991, anno in cui ci riprova ancora con la house attraverso “Les Vacances” edito da Los Cuarenta/Expanded Music ed arrangiato da Claudio Collino ed Elvio Moratto. La nuova delusione sembra tale da infliggere a Robotnick il colpo di grazia. Le cose cambiano però nei primi anni Duemila, quando scoppia l’electroclash e il revivalismo connesso alla “80s dance”: influenti personaggi esteri riconoscono a Maurizio Dami il merito di aver gettato con “Problèmes D’Amour” (ma pure con altri brani meno noti del suo repertorio come “Dance Boy Dance”), i semi della proto house specialmente a Chicago, lì dove il suo primo singolo è considerato un’autentica pietra miliare.

Cappella - BauhausCappella – Bauhaus (Media Record)
Con le mani in pasta nella discografia sin dal 1983, Gianfranco Bortolotti conia il progetto Cappella nell’autunno del 1987 per questo brano-emulo di “Pump Up The Volume” realizzato da Francesco Bontempi, affermatosi in epoca italodisco come Lee Marrow e futuro produttore delle hit di Corona di cui abbiamo parlato qui. «Ero in vacanza negli States ed ascoltai il pezzo dei M.A.R.R.S. che mi colpì al punto da voler creare qualcosa di simile» spiega l’imprenditore bresciano in questa intervista. La vicenda ricorda quanto avvenuto esattamente un anno prima a Ian Levine che tornato a Londra da New York replica “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders attraverso “On The House” di Midnight Sunrise (per tutti i dettagli si rimanda a questo approfondimento). Autentico spirito di emulazione transcontinentale insomma. «“Bauhaus” fu realizzato con tecnologia primitiva» prosegue Bortolotti, «avevamo cinque o sei campionatori Akai tra cui l’S612, ma non disponendo del MIDI tre persone erano costrette a spingere un pulsantino nello stesso istante. Registravamo su nastro a 24 piste per poi editare con la taglierina ed attaccare con lo scotch. Le tastiere erano al 99% analogiche come del resto l’effettistica della Lexicon che costò un occhio della testa. Tra le poche macchine digitali di cui disponevamo c’era la Yamaha DX7. Il pezzo venne realizzato in una cantina dove era allestito lo studio (il 24th Street Studio in Via Sant’Emiliano, a Brescia, nda) di cui sarei diventato socio e che poi avrei spostato in Via Martiri Della Libertà». “Bauhaus” macina licenze sparse in tutto il mondo, Svezia, Paesi Bassi, Germania, Francia, Spagna, Grecia e persino Australia. In Canada e Regno Unito viene pubblicato con un titolo diverso, “Push The Beat” perché, come rivela Bortolotti contattato per l’occasione, «chi rilevò la licenza tentò di fregarci il 50% dei diritti di master e d’autore, cercando di far passare il pezzo per un medley con “Push The Beat”, un campione che figura solo sulle prime copie britanniche. Ovviamente sistemammo la questione». La scarsità sul mercato di materiale di quel tipo, dovuta alla difficoltà tecnica nel replicare il risultato considerati gli esorbitanti costi per allestire uno studio, determina la fortuna di “Bauhaus”, sostanzialmente la risposta italiana a “Pump Up The Volume”, e a tal proposito Bortolotti dice, sempre in quell’intervista del 2015, che «fu la chiave di volta nella mia carriera da produttore, il successo continentale da cui germogliò l’elemento determinante per la nascita della Media Records e che iniziò a lanciare lo stile italiano in Europa». Oggi aggiunge: «Credo che “Bauhaus” abbia venduto circa un milione di copie e pensarci mi riporta alla memoria qualche aneddoto: quando lo pubblicai in Italia ormai l’italodisco era agli sgoccioli e i titoli vendevano mediamente duecento/trecento copie, lasciando emergere un malessere generale nella discografia. Le richieste del pezzo però furono straordinarie, così alte da non poter sostenere da solo i costi della stamperia. Quando ordinai la prima tiratura di oltre trentamila copie il buon Antonio Cagnola della Microwatt, che ormai ci ha lasciati, si spaventò e mi disse che era necessario versare almeno il 50% in anticipo. Fui costretto a farmi prestare il denaro da Diego Leoni, in cambio di quote della Media Records. Alla fine ne stampai quasi centomila, e così fu per tutte le nostre hit sino al 2004, quando lasciai. Sia la Microwatt che la Ariston di Alfredo Rossi, per quindici anni, mi inviavano puntualmente ogni Natale mazzi giganteschi di fiori (rose o gardenie) e champagne per ringraziarmi del lavoro che gli passavamo. Rossi inoltre mi mandò suo figlio a “scuola”, a Roncadelle, per due o tre anni, chiedendomi di crescerlo adeguatamente». “Bauhaus” esce su Media Record (senza s finale), brand che il produttore bresciano crea nel 1986 in seno all’italodisco e quando è ancora affiliato alla Discomagic di Severo Lombardoni. Ci vorrà ancora del tempo prima di giungere alla Media Records (il primo ad uscire col nuovo marchio è “Shadows” di 49ers, 1989). Nel frattempo Cappella continua ad essere il nome con cui Bortolotti scommette sulla house filobritannica, a partire dal fortunato “Helyom Halib” del 1988 (con un campionamento di “Work It To The Bone” degli LNR), “Get Out Of My Case” ed “House Energy Revenge”, entrambi del 1989, sino a “Be Master In One’s Own House” del 1990. Nel 1991, sull’onda della compenetrazione tra suoni techno e ritmiche house in stile Bizarre Inc (“Such A Feeling”, “Playing With Knives”), escono “Everybody” e “Take Me Away”, prima della svolta eurodance con hit milionarie (“U Got 2 Know”, “U Got 2 Let The Music”, “Move On Baby”, “U & Me”, “Move It Up”, “Tell Me The Way”, “I Need Your Love”) che legheranno Cappella sia ad un nuovo volto sonoro che fisico visto che il ballerino/body builder Ettore Foresti, già coinvolto in Superbowl tra ’85 e ’87, lascia spazio a Rodney Bishop, Kelly Overett ed Alison Jordan che contribuiscono a mantenere alte le quotazioni del progetto per diversi anni.

DJ Lelewel - House MachineDJ Lelewel – House Machine (Renata Edizioni Musicali)
Trainato da sezioni di pianoforte sincronizzate su una base in 4/4, “House Machine” è il brano di Daniele Davoli alias DJ Lelewel, disc jockey di Reggio Emilia e tra i primi ad incidere musica house nel nostro Paese. «Ai tempi c’erano già dei sentori di house music, spesso mischiata a rimasugli dell’electro usata per la breakdance come ad esempio “19” di Paul Hardcastle, del 1985, che conteneva qualche elemento che si sarebbe poi ritrovato nella house» spiega oggi Davoli. «Allora lavoravo al Marabù di Reggio Emilia e in particolare ricordo la serata del giovedì dedicata agli studenti, in cui proponevo la cosiddetta “afro”, quella che per intenderci passavano DJ come Daniele Baldelli, Moz-Art, L’Ebreo, Spranga, emittenti come la bresciana Radio Azzurra e locali come il Chicago di Baricella di Bologna. Era un filone intorno al quale c’era un forte interesse specialmente nella zona del lago di Garda, a Lazise e a Verona. Le prime influenze che emersero quando divenni un produttore infatti richiamavano più l’afro che altro. Comunque il pezzo che mi fece capire quanto fosse forte la house fu “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders, del 1986. L’anno dopo giunse “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. con cui tutti capirono che la house era arrivata e sarebbe rimasta. Ricordo però che ad avere la meglio da noi era ancora la dance hi NRG in stile Stock, Aitken & Waterman, specialmente nei locali di provincia come il citato Marabù. Seppur fosse gestito molto bene e meta di un corposo pubblico, non era il luogo più adatto per sperimentare nuovi stili tranne il giovedì, quando non scendevo a nessun compromesso con le hit da classifica e facevo un programma afro che, verso la fine, includeva qualche pezzo house. Partivo molto lento, intorno agli 85 bpm, tirando dentro un mucchio di cose eterogenee, da James Brown alla new age». A produrre “House Machine” è il compianto Stefano Cundari, co-fondatore della Memory Records che ai tempi inizia a prendere le misure di un nuovo segmento di mercato, quello della house per l’appunto. «Il grande Cundari, espertissimo in tecnologia, mi insegnò tanto, fu lui a spiegarmi come realizzare i remix col Revox ad 1/4 di pollice, a tagliare, duplicare ed incollare il nastro» prosegue Davoli. «Prima di diventare un produttore di fama internazionale inoltre, Cundari era un DJ e per questo capiva benissimo la mentalità di noi disc jockey, anche se quando ci conoscemmo aveva smesso già da tempo di mettere i dischi nei locali preferendo dedicarsi esclusivamente alla produzione discografica. Aveva una struttura avviatissima, un’etichetta di successo e due studi di registrazione che erano ad appena cinquecento metri da casa mia. Grazie a questa vicinanza potevo andare a trovarlo spesso perché condividevamo la passione per le auto d’epoca. Paradossalmente parlavamo poco di musica perché a me non piaceva molto il genere con cui lui fece fortuna, l’italodisco, che cercavo di evitare nelle mie serate fatta eccezione per le hit da classifica che non potevo proprio esimermi dal passare. Un giorno, durante uno dei nostri incontri, gli dissi che la house music stava prendendo piede in Europa e lui annuì sostenendo che anche altri gli avessero riferito la stessa cosa. A quel punto mi propose di provare a fare un brano, non con l’intento di incidere una hit ma giusto per tenere un piede nel futuro. La musica che gli dava da mangiare era ancora l’italodisco ma Cundari mostrò la curiosità e la volontà di sondare le potenzialità di quel nuovo genere e per farlo avremmo potuto usare gli strumenti in suo possesso come il campionatore Akai S900 e vari sintetizzatori (Prophet-5, Minimoog, PPG). Per “House Machine”, nello specifico, adoperammo un sequencer Roland programmato da Stefano perché ai tempi non ci capivo davvero niente, l’Akai S900 (o forse due), un Korg M1 con cui eseguimmo la parte di pianoforte, e un PPG Wave 2.3 per il basso. La batteria invece era un misto tra campioni e percussioni prese dalla mitica Linn LM-1. Per finalizzare il tutto impiegammo un paio di settimane circa ma lavorando quattro/cinque ore per volta in qualche serata. Durante il giorno infatti Stefano si occupava degli artisti del suo catalogo, si dedicava a me solo dopo le 18, rimanendo in studio sino alle 21/22. Il brano non fu un successo, vendette 1500 copie che poi, probabilmente, furono destinate quasi tutte all’export, ma fece anche una manciata di licenze, in Olanda e in Germania, seppur non vidi mai i rendiconti (il socio di Stefano, Alessandro Zanni, non era tra i più solerti nel mandarli). Le perplessità di Cundari sorsero nel 1988 quando avremmo dovuto preparare il follow-up. Nonostante non fosse un fiasco, “House Machine” non raggiunse i risultati che si aspettava o sperava. Siccome vendeva ancora molte copie di italodisco, fu titubante a dedicarmi del tempo per un disco house. Mi chiese innanzitutto di pensare ad un pezzo con più musica, a suo avviso per ottenere buoni risultati non bastava incidere una traccia adatta solo ai disc jockey, il rischio era di vendere di nuovo troppo poco. Né io, né Stefano però eravamo musicisti, capivamo la musica ma mettersi davanti ad un pianoforte e suonarlo è un altro paio di maniche. Avevamo bisogno di coinvolgere un musicista e Stefano interpellò Mirko Limoni che, di tanto in tanto, collaborava con lui a cottimo. In mente avevo una vaga idea di ciò che avrei voluto realizzare ma dopo appena un paio di pomeriggi Cundari si demoralizzò e ci disse che era costretto a mettere il progetto “in freezer” per dedicarsi ad altro. Aggiunse che lo avremmo potuto riprendere più avanti, qualora la voglia non fosse scemata del tutto. Delusi per quella decisione, uscimmo affranti dallo studio ma Mirko si mostrò subito dubbioso. Secondo lui le idee buttate giù erano buone e mi propose di raggiungerlo nello studiolo che aveva allestito con alcuni amici tra cui Valerio Semplici. Lì potevamo dedicarci senza limiti di tempo perché lui usciva dal lavoro a mezzogiorno ed avremmo avuto tutto il pomeriggio e parte della sera per strimpellare e fare quello che ci pareva, senza alcuna costrizione. Nove/dieci mesi dopo il pezzo era pronto, si trattava di “Numero Uno” che pubblicammo come Starlight, omonimo del locale estivo in cui lavoravo. I direttori della discoteca si offrirono di pagare le spese della copertina stanziando un milione di lire per il grafico. In cambio noi avremmo dovuto inserire il nome del locale da qualche parte. Nessuno avrebbe potuto immaginare che “Numero Uno” (con un sample preso da “Beyond The Clouds” dei Quartz, pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni ed oggetto di una ricchissima serie di licenze in tutto il mondo, nda) fosse il follow-up di “House Machine”. A sua volta Starlight fu il predecessore di “Ride On Time” dei Black Box. Alla luce di tutto ciò quindi posso affermare che “House Machine” mi incoraggiò ad intraprendere l’attività di produttore discografico oltre a fornirmi aiuto per farmi conoscere nell’ambiente. Da lì a breve infatti cominciarono a giungere le prime richieste di remix come quello di “Happy Children” di P. Lion che mi commissionò Lombardoni. Cose italiote, senza dubbio, ma che mi garantirono comunque una certa esposizione. Allora non riuscivo neanche ad immaginare di poter conquistare le classifiche straniere, soprattutto quelle inglesi, esisteva solo una flebile speranza contrapposta alla consapevolezza di non poter riuscire in quella impresa. “House Machine” mi fece capire come e cosa fare per creare l’arrangiamento di un disco, mi fece conoscere prima Mirko e poi Valerio, insomma proprio con quel pezzo si aprì la porta della mia carriera da produttore». Nel 1989 Davoli darà vita ad uno dei capisaldi della italo house, “Ride On Time” di Black Box, che sommato al menzionato “Numero Uno” di Starlight, “Do-Do-Don’t Stop” di Rosso Barocco, “Airport 89” di Wood Allen e “Grand Piano” di The Mixmaster costituisce l’ossatura dell’affiatato team della Groove Groove Melody creato insieme a Mirko Limoni e Valerio Semplici.

DJ System - Animal HouseDJ System – Animal House (Discomagic Records)
DJ System è il team project messo su da Stefano Secchi, Maurizio Pavesi e Marcello Catalano con l’intento di cavalcare l’esplosione della house music dopo il successo di “Pump Up The Volume”. La loro “Animal House” è annodata in modo inequivocabile al disegno creativo dalla hit dei britannici, con sample piazzati qua e là, alcuni dei quali ben noti come quello di “Thriller” di Michael Jackson, e qualche immancabile scratch. Il titolo è ispirato dal latrato di un cane incastrato nelle pieghe ritmiche insieme al nome del progetto fatto balbettare così come si usa fare a Chicago. Nel 1989 Secchi e Pavesi ci riprovano con la poco nota “Party Time” su Rolls Record, ma si rifaranno entrambi con gli interessi negli anni a seguire. La Discomagic Records di Severo Lombardoni riprende invece il brand DJ System nel 1992 per “Yeah!” prodotto da Maurizio Braccagni quando la tendenza commerciale in Italia si è spostata sui suoni derivati dalla techno dei rave britannici, tedeschi ed olandesi.

Fun Fun - Gimme Some Loving (House Mix)Fun Fun – Gimme Some Loving (House Mix) (X-Energy Records)
Le Fun Fun spopolano tra 1983 e 1984 coi singoli “Happy Station” e “Color My Love”, ispirati entrambi dalla disco hi NRG di Bobby Orlando. Nel corso degli anni vengono ingaggiate diverse vocalist, tra cui Ivana Spagna, ed altrettante frontwomen a rappresentare l’immagine pubblica del duo secondo una modalità lavorativa ampiamente rodata nell’ambiente dell’italodisco nostrana (a tal proposito si rimanda a questo reportage). “Gimme Some Loving” è la cover, arrangiata da Paolo Gianolio, dell’omonimo di Spencer Davis Group, ma l’uso del termine House Mix è decisamente fuorviante. È vero che c’è un beat costruito con la TR-909 e qualche inserto pianistico ma, contrariamente a quanto forse pensano i produttori allora, ciò non è sufficiente a farne un brano house, e basta un veloce ascolto per sfatare ogni dubbio. Una “House Mix” realizzata dall’olandese Ben Liebrand figura pure nel successivo “Could This Be Love”, ma di house se ne sente davvero poca pure in questo caso, a testimonianza di quanta confusione ed approssimazione ci fosse intorno al termine “house” nel 1987.

Glance - Turas Open LegsGlance – Turas / Open Legs (Les Folies Records)
Ad orchestrare il lavoro dietro lo sconosciuto progetto Glance è Tony Carrasco, DJ americano di origini italiane che alle spalle ha un successo di proporzioni epocali, “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., uscito nel 1982 e considerato una specie di proto house. Ad affiancare Carrasco sono Sergio Pisano, i fratelli Nicolosi (Giuseppe, Lino e Rossana) e la vocalist Dora Carofiglio, altri nomi ben noti nella discografia nostrana (Novecento, Valerie Dore). Delle varie versioni incise sul 12″ spicca meglio la Sexy Piano che, come promette il titolo, sfoggia un assolo di pianoforte incastrato a dovere in un basso slappato di matrice funk derivato dall’omonimo brano originale, edito dalla Proto Records nel 1983 e firmato Amnésie. Il tutto su un beat “dritto” a garantire una sorta di “effetto Paradise Garage”. Il disco viene pubblicato sulla Les Folies Records che all’attivo ha solamente un’altra uscita, “Limit” di True Colors, prodotta da Pisano nel 1984 ed oggi ben quotata sul mercato dell’usato.

L.A.N.D.R.O. & Co. - Get Up, Get On UpL.A.N.D.R.O. & Co. – Get Up, Get On Up (New Music International)
Prodotto da Pippo Landro, ex membro dei Gens e titolare di uno dei negozi di dischi più noti di Milano, il Bazaar Di Pippo, Maurizio Macchioni e il sopraccitato Sergio Pisano presso il Les Folies Studio, “Get Up, Get On Up” è uno dei primi 12″ del catalogo New Music International, etichetta che lo stesso Landro fonda nel 1987. Il brano è costruito in maniera semplice, con assoli di tastiera jazzati, un breve messaggio vocale, una parte pseudo rap, un sample preso da “Kiss” di Prince e la chiusura con un virtuosismo di tromba. Dal 1988 L.A.N.D.R.O. & Co. ospita nuovi autori: a “Belo E Sambar” mettono mano Massimino Lippoli ed Angelino Albanese mentre “Hey Mr. D.J.” viene prodotto da Fabrizio Rizzolo, Franco Diaferia e Marco Martina. Con “I’ve Got Your Love”, “Un Otro” e “Zodiac Lady” l’attenzione si sposta progressivamente verso il downtempo.

MBO - M.B.O. Liverpool ThemeMBO – M.B.O. Liverpool Theme (Limited Edition Records)
Il successo internazionale raccolto con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O. (nato da un’idea di Davide Piatto dei N.O.I.A. seppur il suo nome non figuri tra i credit – si legga questo reportage per tutti i dettagli) galvanizza il compianto Mario Boncaldo che nel 1987 avvia il progetto MBO lasciandosi affiancare da Elio Crociani. “M.B.O. Liverpool Theme” ricalca lo schema di “Dirty Talk” sfruttando più incisivamente la rhythm section di una Roland TR-808, elemento che stuzzica l’attenzione oltreoceano negli anni immediatamente precedenti alla nascita della house. In “M.B.O. Liverpool Theme”, ad onor del vero, di house non c’è granché, fatta eccezione proprio per il telaio della batteria analogamente a “Don’t Stop The Music” di Lee Marrow, ma Boncaldo era convinto che la house fosse una sua invenzione. A tal proposito qualche anno fa scrive sul suo sito: «Nel 1985 Rocky Jones, patron della celebre etichetta D.J. International Records, prese spunto da “Dirty Talk” e continuò il trend chiamandolo impropriamente The House Of Chicago. “La Casa di Forlì” sarebbe andata certamente poco lontano! Rifiutai, diverse volte, proposte accorate e suppliche di Rocky che mi voleva con lui a Chicago. Non sempre nella vita si fanno le cose giuste e purtroppo lo si capisce col senno di poi». Intervistato dallo scrivente nel 2011, Rocky Jones dichiara però di non aver mai sentito parlare di Boncaldo a Chicago, e che in realtà fu l’amico Benji Espinoza, commesso presso il negozio di dischi DJ Records, a segnalargli quel pezzo. «Incontrai Boncaldo tempo dopo in Francia, dove era insieme a Tony Carrasco» spiega, «mi sarebbe piaciuto lavorare con loro per traghettarli in una dimensione più vicina alla house che alla disco. “Dirty Talk” resta un gran pezzo, avanguardista nell’uso della batteria ed ispiratore per chi in seguito si è dedicato alla house, ma il mondo intero sa che la genesi della house spetta ai creativi di Chicago. La disco e la house non vanno assolutamente confuse perché non sono la stessa cosa, e il pezzo di Boncaldo appartiene più alla disco visto che fu prodotto nel 1982 quando la house, di fatto, non esisteva ancora». Da abile uomo d’affari, Boncaldo cerca comunque di tirare acqua al suo mulino facendo scrivere sul centrino del disco “the original house sound of M.B.O.” parodiando, anche graficamente, il “the house sound of Chicago” che si ritrova sull’omonima compilation della D.J. International Records uscita nel 1986. Un secondo 12″ marchiato con la sigla MBO viene commercializzato, pure in formato picture disc, attraverso la lombardoniana Technology su cui, sempre nel 1987, esce “War… No More” assemblato insieme a David Sabiu. Analogamente a “M.B.O. Liverpool Theme”, la title track incrocia stilemi house a impostazioni eurobeat, “Theme For Peace” è un restyling piuttosto raffazzonato di “Dirty Talk” mentre “House Nation” suona come la versione tarocca dell’omonimo di The House Master Boyz And The Rude Boy Of House, un classico di Farley Jackmaster Funk pubblicato l’anno prima dalla Dance Mania di Chicago.

Midas - One O OneMidas – One O One (DFC)
Dietro il nomignolo Midas si celano Riccardo Persi, Davide Sabadin, Claudio Collino ed Andrea Gemolotto che ritroveremo più avanti in altri progetti. “One O One” sintetizza certe sfumature della house sampledelica britannica con suoni e costruzioni che risentono ancora dell’influsso italodisco specialmente nella Extended Dance Mix. Più filo-house risulta la Reaction Drums Mix, in cui presenzia ancora il sample dell’arcinota “Long Train Running” dei Doobie Brothers ma combinato insieme al suono di quello che pare un organo hammond. Persi & co. incideranno ancora come Midas pubblicando “Nummer Een” nel 1988 e il meglio riuscito “You Make Me Feel So Good” nel 1989, quando la house italiana acquista più personalità e carattere.

PPG - Jack The BeatP/P/G – Jack The Beat (DFC)
P/P/G sta per Persi Previsti Gemolotto, i tre che uniscono le forze per creare il disco in questione. Intervistato anni fa in Decadance Extra, Riccardo Persi racconta il modo in cui giunge alla house, lasciandosi alle spalle l’esperienza coi Krisma e con l’italodisco. «Le major erano ancora legate al concetto di album, io puntavo invece ad incidere dischi mix con etichette indipendenti che velocizzavano molto l’iter, bypassando burocrazia ed attese interminabili dovute al passaggio del pezzo di scrivania in scrivania. Dopo aver creato i Premio Nobel con Claudio Collino e Davide Sabadin, decidemmo di prendere le distanze da quello che era l’andazzo generale della dance italiana. Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, ammiccando pure alla sigla simile DMC. Non a caso proprio in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Il catalogo della DFC è inaugurato da “Jack The Beat”, prodotto nello studio di Gemolotto ad Udine e a cui partecipa Fulvio Zafret come tecnico del suono. Il pezzo segna la fusione tra house ed italodisco: da una parte la classica costruzione ritmica con kick/hihat in levare, snare e qualche vocione a declamare il titolo ammiccando al jack di estrazione chicagoana e ai successi dei J.M Silk, dall’altra un bassline che pare citare quello di “Moskow Diskow” dei Telex, pianate jeffersoniane e qualche scorcio melodico classicamente disco/funk a richiamare “Dancer” di Gino Soccio. Tra ’88 e ’89 il brano viene pubblicato anche all’estero ma il follow-up, “Funky Domanuva”, rimane nell’anonimato. Persi e Gemolotto si rifaranno a partire dal 1989, quando realizzano “Sueño Latino” del progetto omonimo a cui seguiranno svariate altre hit (Atahualpa, Glam, Ramirez) che renderanno la DFC uno dei capisaldi della dance made in Italy negli anni Novanta.

The Jam Machine - Funky (Let's Go)The Jam Machine – Funky (Let’s Go) (X-Energy Records)
Prodotto da Dario Raimondi ed Alvaro Ugolini per la loro X-Energy Records, “Funky (Let’s Go)” mette insieme alcune delle caratteristiche primarie della house diffusasi ai tempi in Europa, un beat in 4/4, un basso avvolgente, qualche breve sample vocale giocato col campionatore ed un paio di elementi melodici. Ad arrangiarlo è Paolo Gianolio, che ha già maturato esperienze in ambito dance collaborando con musicisti di prim’ordine come Celso Valli, Claudio Simonetti (nell’album dei Crazy Gang) e Mauro Malavasi. «Conobbi Dario Raimondi qualche anno prima in uno studio di Cremona dove ci incrociammo in occasione di un lavoro che poi portammo avanti insieme, credo fossero alcuni brani per le Fun Fun» ricorda oggi Gianolio. «Da lì nacque la collaborazione che andò avanti per un bel periodo in cui producemmo diversi progetti, proprio come The Jam Machine, uno di quelli nati davvero per caso. La costruzione di “Funky (Let’s Go)” era basata sul puro divertimento e su idee da cui ne sbocciavano altre. Andavamo avanti a ruota libera, senza alcuna tensione o ansia per il risultato. In quegli anni la tecnologia aiutava fino ad un certo punto, a seconda delle necessità ed esigenze ricorrevamo a trucchi ed artifici. Erano tempi in cui ci si poteva esprimere attraverso varie tipologie di dance ma l’influenza della house mi attrasse per i suoi contenuti. Nonostante le drum machine e i sequencer fossero già molto usati, la house manteneva di fondo una cosa fondamentale, lo swing e il “nervo” musicale che faceva ballare anche le sedie». Non è mistero che in quel periodo più di qualche musicista riserva alla house giudizi tutt’altro che lusinghieri in virtù del fatto che fosse una musica realizzabile anche da chi non in grado di leggere lo spartito. A tal proposito Gianolio sostiene che «leggere lo spartito non significa saper costruire un brano musicale. La dance si è creata il proprio pubblico indirizzando il ritmo sulla semplicità scelta anche da chi, pur non avendo preparazione musicale, ha saputo inventare melodie ripetitive ma accattivanti su ritmi al servizio del ballo. Le buone idee non tengono conto da dove vengono». Nel passato di Gianolio c’è anche la collaborazione con la Goody Music di Jacques Fred Petrus (assassinato proprio nel 1987) in progetti come Change, Silence e The Brooklyn, Bronx & Queens Band – meglio noti come B. B. & Q. Band. Probabilmente una prova più che utile per ciò che avviene in seguito con la X-Energy Records. «L’esperienza che un musicista acquisisce nel suo cammino gli servirà sempre da base per sviluppare il proprio gusto secondo il proprio carattere. Silence ad esempio, che mi portò a collaborare con Celso Valli, mi aprì il mondo della melodia e dell’armonia applicate alle canzoni. Change invece mi ha fatto capire, grazie a grandi musicisti come Davide Romani e Mauro Malavasi, come avvicinarsi alla musica in modo che la musica stessa ti si avvicinasse. La mia vita è trainata dalla musica, l’importante è viverla come mezzo per esprimerla. L’anima è, con o senza sapere, il tramite, il ponte che permette di esprimere al mondo la sensibilità di ognuno di noi» conclude Gianolio. “Funky (Let’s Go)” viene registrato presso il Pick-Up Studio di Reggio Emilia e licenziato all’estero (Canada, Stati Uniti, Spagna, Paesi Bassi) conquistando la presenza in diverse compilation. Dal 1988 il progetto The Jam Machine ospiterà autori a rotazione: a “Graffiti House” lavorano Julio Ferrarin e Gino Woody Bianchi, in “Everyday”, del 1989, figurano invece Corrado Rizza e i cugini Frank e Max Minoia. L’ultimo è “Move On Up” del ’93, cover dell’omonimo di Curtis Mayfield, prodotto dal team della Lemon Records (di cui abbiamo parlato qui) col supporto vocale di Orlando Johnson e Karen Jones.

Yagmur - Ali BabaYagmur – Ali Baba (DFC)
A poca distanza da “Jack The Beat” di P/P/G di cui si è parlato più sopra, Persi, Collino e Sabadin incidono un pezzo contraddistinto da linee melodiche orientaleggianti. All’interno un sample vocale tratto da “Electrica Salsa (Baba Baba)” dei tedeschi Off ed assoli di scratch, “tag” sonora di Gemolotto che allora bazzica il mondo del mixing acrobatico del DMC. L’Extended Dance Mix è più connessa alla new beat che alla house, la Percussion Mix invece lavora meglio il ritmo, anticipando la formula che gli Yagmur presentano in “Woo-Alli-Alli” del 1988, battendo ancora itinerari esotici ed adoperando un sample vocale che si ritroverà più avanti in “We Are Going On Down” dei Deadly Sins.

1988, un anno spartiacque
Dal 1988 in poi la produzione va intensificandosi ma l’impressione è che la house, in Italia, continui ad essere ancora discograficamente battuta con scarsa o inesistente cognizione di causa a supporto di parodie, cloni di successi esteri e brani ironico-demenziali come “C’è Da Spostare Una Macchina” di Francesco Salvi che ricicla la base di “The Party” di Kraze, “Checca Dance” di Gay Forse Featuring D.J. Roby, che canzona Claudio Cecchetto in un quadro di continui riferimenti all’omosessualità, ed “Inno Del Corpo Sciolto” di Toilet Paper, che campiona l’omonimo di Roberto Benigni e semina citazioni per “È Qui La Festa?” di Jovanotti. Per diversi discografici nostrani la house pare una parentesi stilistica più che un ceppo culturale, qualcosa a cui approdare adoperando certi suoni ma ignorandone le origini. Ed ecco sfilare le presunte house version di “Just An Illusion” degli Imagination a firma Marco Martina (arrangiata da Franco Diaferia) e quella di “Jesahel” dei Delirium. Persino la blasonata Irma Records ha, come racconta Vittorio “Vikk” Papa su Orrore A 33 Giri uno scheletro nell’armadio: “Tombao Meravigliao”, brano che ironizza sullo sciatore Alberto Tomba in una delle sue stagioni più fortunate, facendo il verso al “Cacao Meravigliao” di Renzo Arbore (dal programma tv “Indietro tutta!”). Nulla di house al suo interno ma vale la pena soffermarsi su uno degli autori, Cesare Collina, un paio di anni dopo all’opera con Kekko Montefiori e Flavio Vecchi su Key Tronics Ensemble, diventato uno dei vessilli della italo house. Il 1988 è anche l’anno in cui Lorenzo Cherubini conduce, su Italia 1, il programma “1, 2, 3 Jovanotti”, imponendosi al pubblico dei giovanissimi grazie al primo album, “Jovanotti For President”, un mix tra hip hop all’italiana, pop e qualche riferimento house. Il mercato però necessita ancora di tempo, e a testimonianza di ciò è utile ricordare che uno dei top seller italiani del 1988 è “Faccia Da Pirla” di Carlo Marchino alias Charlie. Segue l’analisi di produzioni nostrane targate 1988, a cui se ne potrebbero aggiungere altre in futuro.

49ers - Die Walküre49ers – Die Walküre (Media Record)
Sulle ali dell’entusiasmo per il successo internazionale raccolto con “Bauhaus” di Cappella, Gianfranco Bortolotti lancia un altro progetto che farà la fortuna della sua casa discografica. Col nome ispirato dalla squadra di football americano, i San Francisco 49ers, crea i 49ers che traghettano nuovamente la Media Record, prossima a trasformarsi nella definitiva Media Records, all’attenzione generale. A livello di concept, 49ers potrebbe essere considerata l’evoluzione di un altro progetto bortolottiano di qualche anno prima, Superbowl, anch’esso intrecciato al mondo del football. Indizi evidenti si palesano sulla copertina del singolo “Oé – Ooh” del 1985, dove il nome 49ers appare su uno dei due elmetti, insieme alla ristilizzazione del logo della squadra stessa con le iniziali del produttore bresciano. «Effettivamente tra Superbowl e 49ers c’era una certa continuità dettata dalla mia passione per il football americano» rivela oggi Bortolotti. «Dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti dell’Ovest, tornai talmente entusiasta per le prodezze di Joe Montana, quarterback dei San Francisco 49ers originario di Brescia e coi parenti che vivevano poco distanti dalla casa dei miei genitori, da dedicare un disco al Super Bowl. La mia passione per il football americano non si spense in tempi brevi, continuai a seguire per anni le avventure dei San Francisco 49ers e quando possibile, durante i miei viaggi negli States, cercavo di non mancare mai alle loro partite. Quando scoprii l’origine del nome della squadra, che rimandava ai cercatori d’oro del ’49 del secolo precedente, pensai di adottarlo per un nuovo progetto. Immaginando che una grande hit discografica fosse la mia miniera d’oro, ne auspicai lo stesso vantaggio». “Die Walküre”, assemblato insieme a Pierre Feroldi, mescola parecchi sample presi da brani più o meno noti, come “I.O.U.” dei Freeez e “Papa’s Got A Brand New Pigbag” dei Pigbag, e viene pubblicato in numerosi Paesi, anche extraeuropei. Tra i risultati più esaltanti l’ingresso nella top 20 dei singoli in Francia. «Effettivamente lì funzionò particolarmente bene ma lo licenziammo, più o meno, in tutto il mondo. L’house music stava esplodendo. Da sempre feroce ascoltatore di musica classica ed opera, presi in prestito il titolo in lingua tedesca da uno dei quattro drammi di Richard Wagner di cui ammiravo lo stile innovativo, sempre orientato al nuovo e all’eccezione. Sentendomi in qualche modo (ovviamente con le super dovute distanze e rispetto!) come Wagner, per l’innovazione che sostenevo con la house music, “Die Walküre” mi sembrò il titolo più adatto allo scopo». A supporto del brano viene girato un videoclip in cui l’immagine del gruppo è rappresentata da Josy Gil Persia, che però non copre alcun ruolo all’interno del progetto. «All’inizio dell’avventura eravamo ancora impreparati nella ricerca del talento e, come avveniva solitamente negli anni Ottanta, “usammo” anche noi una artista col solo scopo di sostenere la canzone in un video. Qualche anno dopo iniziai a scommettere sui DJ con la Heartbeat, strategia per supplire alla mancanza di rockstar nel territorio della musica da discoteca» conclude Bortolotti. La storia dei 49ers prosegue l’anno seguente con “Shadows” e soprattutto “Touch Me”, dove elementi dell’omonimo di Alisha Warren ne incrociano altri presi da “Rock-A-Lott” di Aretha Franklin e contribuiscono a rendere l’italo house un fenomeno d’esportazione, insieme a gruppi come Black Box, FPI Project, Double Dee e Sueño Latino. Sarà la britannica Ann-Marie Smith, che sostituisce la temporanea presenza di Dawn Mitchell, a dare voce al resto della discografia e a rappresentare l’immagine del gruppo negli anni a venire, quando il successo sarà altalenante ma arricchito da un ricco parterre di blasonati remixer house tra cui Masters At Work, E-Smoove e Maurice Joshua.

Abel Kare - AllallaAbel Kare – Allalla (Out)
Roberto Zanetti, che brilla nel ruolo di interprete nel firmamento italodisco come Savage, è il Robyx che produce il pezzo in questione per la Out di Severo Lombardoni. La versione principale è la Afro-Acid Version che è una summa di influenze new beat ed house. All’interno l’artista sovrappone ritagli vocali e ritmici assemblandoli con la metodologia sdoganata dai britannici. In mezzo a varie citazioni (l’urlo di “Jesus Loves The Acid” di Ecstasy Club, un bassline che ricorda il riff di “It’s More Fun To Compute” dei Kraftwerk) piazza anche una pianata che strizza l’occhio a quella di “The Party” dei newyorkesi Kraze, brano che Zanetti coverizza proprio nello stesso anno per un’altra etichetta della Discomagic di Lombardoni, la Technology, firmandola Rubix. In parallelo incide “Me Gusta” nelle vesti di Raimunda Navarro, lasciandosi affiancare dalla cantante Paola Bonini (la Paula Evans di “Ciao”, 1989). Il tutto prodotto nel Casablanca Recording Studio a Massa Carrara, lì dove nasceranno le molteplici hit milionarie della sua DWA.

Amadhouse - Shock Me AmadhouseAmadhouse – Shock Me Amadhouse (Memory Records)
Affiancato da Alessandro Cardini, Damiano Prosperi realizza questo brano per la Memory Records di Parma che riesce a licenziarlo in Svezia, Germania e Grecia. “Shock Me Amadhouse” è fondato su ingenui strimpellamenti sampledelici sequenziati su una linea di basso ispirata da “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders. Il titolo e l’alias sono un gioco fonetico che rimanda ad una delle più note sonate di Wolfgang Amadeus Mozart, il rondò “alla turca”, risuonato all’interno della traccia in uno smaccato “Bontempi style”.

B.C. - HousebadB.C. – Housebad (Soundtrack Record)
“Housebad” è una traccia che nella sua essenzialità rammenta molto la schematizzazione della house prima maniera di Chicago, con quell’asciutto minimalismo tra ritmi programmati con drum machine ed il virtuoso basso funzionale nei club. Un altro rimando alla house d’oltreoceano pare rimarcato pure dal titolo di una delle due versioni, Bam Bam, omonima del Bam Bam (Chris Westbrook) della Westbrook Records. Non mancano ovviamente dei sample tra cui quelli di “Bad Girls” di Donna Summer e “Le Freak” degli Chic. Ad assemblare il tutto sono Andrea Baratella ed Orlando Bragante che per la loro prima esperienza discografica decidono, come si è soliti fare allora, di inglesizzare i loro nomi in Andrew Bratley e Roland Brant. «Tradurre in inglese i nostri riferimenti anagrafici servì sia a dare una parvenza estera al prodotto, sia ad evitare di “bollinare” tutti i dischi col marchio SIAE, giacché ai tempi i vinili provenienti dall’estero erano esenti da tale procedura» rivela oggi Bragante. «La Soundtrack Record, di mia esclusiva proprietà, fu la prima etichetta che creai, nata esclusivamente per la produzione di musica dance appartenente al cosiddetto circuito di “tendenza”. La utilizzai per una decina di produzioni e rimase attiva per soli tre anni. Registrammo “Housebad” con un otto piste della Fostex e lo masterizzammo sul classico Revox a due piste. I suoni provenivano da un Roland JX-8P, un Ensoniq Mirage (il primo campionatore disponibile sul mercato ad un prezzo abbordabile) ed una Yamaha DX7. A questi si aggiunsero due drum machine, una Roland TR-909 ed una Yamaha RX7. Il tutto pilotato da un sequencer Roland MSQ-700 fatta eccezione per la parte della RX7, non quantizzata ma suonata live tramite i pad e registrata su due tracce separate del Fostex per dare una maggiore sensazione di batteria reale. Il brano piacque molto ai DJ e venne suonato parecchio nei club ma ai tempi la house era un genere ancora di nicchia quindi non vendette molto, dalle duemila alle tremila copie circa. Poiché non riscosse il successo desiderato, decisi di abbandonare il progetto B.C. e dedicarmi ad altro: avevo già intrapreso il viaggio verso nuove “frontiere” nell’ambito dell’allora nascente techno». Bragante infatti si ritaglierà spazio nel corso degli anni Novanta con la musica dream/progressive, filone di cui diventa uno dei principali portabandiera.

Beat Kick - Claro Que SiBeat Kick – Claro Que Si (Sunset)
Con un piglio aggressivo quasi new beat, Luca Marci realizza “Claro Que Si” per la Sunset, etichetta affiliata alla Renata Edizioni Musicali di Parma di cui si è già parlato più sopra. Gli elementi che si rincorrono sono gli stessi che compaiono in praticamente tutte le produzioni house del periodo, beat in 4/4 usati come traino per un carico di sample carpiti, senza un filo conduttore ben preciso, da vari dischi noti (come “Situation” di Yazoo) e non, con l’aggiunta di melodie pianistiche appena abbozzate. La formula, chiaramente, non può garantire successo a tutti ma in tanti si buttano nella mischia tentando il grande salto.

Co-Mix Featuring Y-10 - RelaxCo-Mix Featuring Y-10 – Relax (X-Energy Records)
A metà strada tra eurodisco e il tipico “fare house” dei tempi, “Relax”, prodotta dai fratelli Paolo e Pietro Micioni, è la cover dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood del 1983. Con la velocità aumentata rispetto all’originale e con l’aggiunta di una parte rappata realizzata dall’enigmatica Y-10 (un possibile rimando all’omonima automobile della Autobianchi, assai popolare in quel periodo?), il brano gira sulla linea del basso moroderiano carpito ad “I Feel Love” di Donna Summer a cui i fratelli romani intersecano una pianata e qualche velato rimando ad “High Energy” di Evelyn Thomas. A curare l’editing è Gino “Woody” Bianchi che oggi racconta: «In quel periodo lavoravo molto con la X-Energy Records, il mio ruolo principale era fare gli edit in post produzione nel piccolo studio che avevo allestito a casa, con un registratore Revox B77 ad alta velocità ed un paio di multieffetto. In pratica mi portavano i nastri con le registrazioni del pezzo ed io sceglievo le parti “ristesurando” e tagliando il nastro, creando in editing sezioni inesistenti sia su ritmiche che su bassi (un esempio di ciò che facevo lo si può sentire nella compilation “Garage Classics Volume 1”, uscita nel 1989 sempre su X-Energy Records e di cui è disponibile un estratto qui). Anche su Co-Mix il mio intervento avvenne in post production. L’inciso fu campionato paro paro mentre il rap venne registrato lento per poi essere ricampionato, velocizzato ed armonizzato con un effetto. A produrre il tutto furono i fratelli Micioni e il DJ Angelino. Il disco andò abbastanza bene, dai rendiconti appresi che vendette tremila copie, non male per una cover. Nel 1988 uscì pure “Graffiti House” di The Jam Machine (progetto nato l’anno prima e di cui abbiamo parlato più sopra, nda), un pezzo partorito da una mia idea mentre collaboravo con Giulio Ferrarin. Era uscito da poco “The Opera House” di Jack E Makossa e, da amante del sound di Arthur Baker, pensai di rifarmi a quello “schema” con altri sample stile anni Sessanta. Grazie alla bravura di Ferrarin realizzammo il brano in una notte appena. Poi dedicai un’altra giornata al mix e all’editing. Nel mondo discografico stava cambiando tutto radicalmente e velocemente. A tal proposito, un anno particolarmente importante fu il 1987: le ritmiche della LinnDrum e della Alesis HR-16 iniziarono a dare spazio a quelle della Roland e dei campionatori Akai ed E-mu Emulator, mentre i bassi divennero ripetitivi e molto gommosi. Si sviluppò forte interesse intorno ad etichette americane come D.J. International e Trax Records ma un ruolo decisivo lo svolse pure la prima house britannica tipo Yazz, Bomb The Bass e soprattutto la serie di campionamenti su S’Express. Da lì partirono le idee e si sperimentò inserendo il piano ispirato a “Going Back To My Roots” di Lamont Dozier che diede origine alla prima italo house. “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., poi, fu un’assoluta genialata, credo sia stato il brano ad aver aperto la strada ad un sound europeo oltre a sdoganare un modo diverso di utilizzare le macchine (sample e drum machine). Ai tempi la house americana risultava troppo underground per le radio ma i britannici sfruttarono abilmente il concetto di “canzone” inserendolo nel sound house. Forse senza il movimento europeo (Gran Bretagna, Olanda, Italia) l’house music non avrebbe mai preso corpo in maniera consistente ed importante come è effettivamente avvenuto».

Cutmaster-G & The Plastic Beats - Rock On!Cutmaster-G & The Plastic Beats – Rock On! (DFC)
“Rock On!” è l’unico brano (remix a parte) che Andrea Gemolotto firma come Cutmaster-G, nickname con cui ai tempi si fa largo ai campionati DMC. Autentico mosaico di scratch e campionamenti (tra cui l’assolo di chitarra rallentato di “Ain’t Talkin’ ‘Bout Love” dei Van Halen, ripreso tempo dopo dagli Apollo 440 in “Ain’t Talkin’ ‘Bout Dub”), il pezzo pare girare sulla base di “Beat Dis” di Bomb The Bass ed attinge il main vocal da “Rock Party/Smoke On The Water” dei Da Rock, un brano che circola parecchio negli ambienti del turntablism e che a sua volta seziona “Smoke On The Water” dei Deep Purple e dal quale qualche anno dopo il britannico Tinman estrarrà uno dei sample per la sua hit “Eighteen Strings”.

Dalu - Do You Like HouseDalu – Do You Like House? (Memory Records)
La parmense Memory Records di Alessandro Zanni e del compianto Stefano Cundari continua a sondare il terreno della house con questo “Do You Like House?” prodotto dal citato Damiano Prosperi sul modello marrsiano, assemblando un alto numero di sample di estrazione eterogenea (incluso un frammento di “Don’t Let Me Be Misunderstood” dei Santa Esmeralda) sonori e vocali, farcendo il tutto con immancabili tastierate di pianoforte.

DJ Atkins & Sharada House Gang - Let's Down The HouseDJ Atkins & Sharada House Gang – Let’s Down The House (Media Record)
Con “Let’s Down The House” Gianfranco Bortolotti rinnova la direzione stilistica di un progetto partito nel 1984 in seno all’italodisco, Paul Sharada. Al personaggio che presta voce ed immagine ai tempi di “Florida (Move Your Feet)”, “Dancing All The Night” o “Boxers”, Lamott Eugene Atkins (nel 1985 finito nel cast del film “Lui È Peggio Di Me” con Adriano Celentano e Renato Pozzetto) viene ora attribuito il ruolo di DJ. Il lavoro in studio è di Pieradis Rossini e Pierre Feroldi che realizzano due versioni, House Side ed Acid Side, nelle quali montano vari sample (tra cui quello di “Reach Up” di Toney Lee e quello di “Last Night A D.J. Saved My Life” degli Indeep) ed un basso di moroderiana memoria. Nonostante sia l’ennesimo dei pezzi col sampling in stile M.A.R.R.S., Bortolotti lo piazza comunque in tutta Europa, tra Paesi Bassi, Francia, Spagna, Germania, Portogallo e persino nel lontano Giappone. La storia di Sharada House Gang continuerà per i dieci anni successivi con successo alterno. Tra i vari singoli si ricordano “House Legend”, in stile Technotronic, “Life Is Life”, una sorta di cover di “Mary Had A Little Boy” degli Snap!, “It’s Gonna Be Alright”, cantata da Valerie Etienne dei Galliano, “Dancing Through The Night”, col featuring di Ann-Marie Smith dei 49ers, “Keep It Up”, con la voce di Zeitia Massiah, e “Gipsy Boy” a cui abbiamo dedicato un articolo qui.

Don Pablo's Animals - IbizaDon Pablo’s Animals – Ibiza (Meal Power)
Ideato e sviluppato da Christian Hornbostel, “Ibiza” è il primo singolo del progetto Don Pablo’s Animals in cui l’autore mescola e sovrappone tutti gli elementi che in quel periodo portano ad incanalare automaticamente un brano nel calderone della house. Scratch, sample raccattati a mani basse da fonti di varia estrazione (tra cui Chic, James Brown, LNR e Run-DMC) senza ovviamente dimenticare inevitabili pianate. «Appena tornato da Ibiza, totalmente devastato per tutto quello che vidi e vissi – qualcosa di assolutamente rivoluzionario ed avanguardistico per l’epoca, sia dal punto di vista musicale che da quello della moda e del modo stesso di vivere -, pensai di dedicare all’Isla Blanca il disco» racconta oggi Hornbostel. «Lo realizzai al 90% con un campionatore Akai S1000 rubando, saccheggiando ed editando materiale musicale ben oltre il limite della legalità. Se ben ricordo, vendette diecimila copie, un risultato più che ottimo ai tempi per quel tipo di produzioni». “Ibiza” è il preludio di un successo ancora più grande, quello raccolto con “Venus” del 1989 con cui il terzetto della BHF Production (Paul Bisiach, Christian Hornbostel e Mauro Ferrucci) riprende l’omonimo degli Shocking Blue, rinverdito tre anni prima dalle Bananarama, e raggiunge l’ambito palco di Top Of The Pops, lì dove peraltro viene accolto a braccia aperte anche per “Moments In Soul” di J.T. And The Big Family a cui segue, qualche tempo dopo, “I Need You” di Nikita Warren che abbiamo analizzato qui nel dettaglio. «Credo sia necessario puntualizzare un aspetto cronologico importante riguardante i brand Don Pablo’s Animals e J.T. And The Big Family» dice Hornbostel. «Entrambi furono creati da me prima della nascita del team BHF ed inglobati in esso solo successivamente. L’ispirazione per i nomi venne da un famoso negozio padovano di dischi, al tempo di proprietà di Paolo ‘Don Pablo’ Turiaco e del figlio Giovanni. Da qui l’iniziale inglesizzata nella prima lettera, J.T., che stava appunto per il suo nome e cognome. Quasi tutti i DJ dell’epoca fissarono come punto di riferimento il Dischi Arcella, formando quella che loro stessi definirono una “grande famiglia” (Big Family appunto). Qualche anno più tardi, quando fondai la Shadow Productions con Mr. Marvin (di cui abbiamo parlato qui, nda), Giovanni Turiaco tornerà a collaborare con me nei progetti Hortuma (“The Fantastic Bongo Dream”, 1994) e Sacro Cosmico (“Yattosan”, 1995)». A supportare discograficamente “Ibiza” è la Meal Power del gruppo veronese S.A.I.F.A.M. che continua a sfruttare commercialmente il nome quando si trasforma in New Meal Power affidando svariati nuovi singoli di Don Pablo’s Animals (“Birmania”, “Dreadlock Holiday”, “Ganja Party”, “Walking In The Rain”, giusto per citarne alcuni) a produttori differenti. «Se da un lato c’era un’ingenuità positiva che rese possibili azioni folli e coraggiose nell’editing e nel campionamento, cosa comunque di moda ovunque in quel periodo, dall’altro quella stessa ingenuità generò una pessima gestione dei diritti dei cosiddetti “marchi di servizio”, e ciò avvenne da parte della maggioranza dei produttori di allora. È altresì vero che la Meal Power fece semplicemente e legittimamente il proprio interesse, anche perché non mostrammo più intenzione di produrre ancora musica con quel marchio o in quella direzione. Qualche mese più tardi infatti sarebbe partita l’avventura Interdance, sempre con Ferrucci e Bisiach e il contributo di altri produttori come Marco “Lys” Lisei e i fratelli Visnadi» conclude Hornbostel.

El Chico - D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.El Chico – D.I.N.D.O.N.D.E.R.O. (Out)
“D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.” è il primo disco che Marco Bresciani firma come El Chico. Supportato dalla Out di Severo Lombardoni, il noto DJ toscano realizza un autentico potpourri di sample in stile “Pump Up The Volume”, talmente serrato da sembrare più un megamix che un brano vero e proprio. Con la stesso piglio pochi mesi più tardi incide “House Party” a cui segue, nel 1989, “House Music Lovers”, in cui emerge chiaramente l’influenza di altri act italiani che raccolgono successo internazionale (49ers, Black Box, FPI Project). Bresciani, già coinvolto nel progetto italodisco Radiorama, torna a vestire i panni di El Chico per “Brisa Latina” del ’90, sui binari di una house ormai virata euro.

Gino Latino - comboGino Latino – Welcome (Yo Productions) / Gino Latino – È L’ Amore (Time Records)
A cimentarsi in una manciata di pezzi ammiccanti alla house post M.A.R.R.S. è pure un giovane Lorenzo Cherubini, prodotto da Claudio Cecchetto sulla sua Yo Productions: “Welcome” prima e “Yo” poi bazzicano suoni e ritmi che allora segnano una cesura dalla più classica italodisco, portando avanti un collage tra hip hop, funk, new beat ed hip house. Entrambi vengono licenziati all’estero (Gran Bretagna e Stati Uniti compresi, rispettivamente dalla blasonata FFRR e dalla Harbor Light Records) e sono firmati come Gino Latino, pseudonimo usato contemporaneamente da un artista “house friendly” di una casa discografica diversa, la Time Records di Giacomo Maiolini (per tutti i dettagli in merito si veda qui).

Horn & Art - Action! (The Cock)Horn & Art – Action! (The Cock) (Meal Power)
Lasciata alle spalle l’esperienza nell’italodisco/rock dei Fard (“Chiamami Da Tokyo”, 1984, “Flash, Running Into The Night”, 1986, entrambi editi dalla EMI) , Christian Hornbostel approda alla house che, tra 1987 e 1988, inizia a scardinare le certezze che le compagnie discografiche ripongono ancora nella canonica “disco dance all’italiana”. «Per me il passaggio dall’italodisco alla house avvenne in modo molto naturale, conseguentemente allo sviluppo della musica da discoteca e alla mia attività da DJ» ricorda oggi Hornbostel. «Le prime “club edit” presenti sui dischi furono uno stimolo ed un’ispirazione molto forte per iniziare ad interpretare la produzione musicale in un modo inedito, con suoni ed arrangiamenti orientati verso il genere house, allora del tutto nuovo». “Action! (The Cock)”, prodotto insieme a Max Artusi (artefice, qualche anno più tardi, di “What’s Up” di DJ Miko), è una traccia-collage con cui i due si cimentano nel sampling assemblando funk e disco a matrici house, usando come collante sia un campione vocale di “Get Up Action!” degli olandesi Digital Emotion, sia il canto di un gallo, cinque anni prima rispetto ad “El Gallinero” di Ramirez. Ecco spiegata quindi la ragione del titolo. «A quel tempo ero spesso in studio da Artusi col quale lavoravo in una radio regionale. Lui era un esperto di campionatori (parliamo dell’era dell’Akai S1000) e un giorno mi fece sentire delle cose divertenti ed interessanti che stimolarono la mia curiosità goliardica in modo così determinante da mettermi subito a cercare qualcosa di sorprendente, un suono che potesse colpire con violenza l’attenzione dell’ascoltatore. Optai per il chicchirichì del gallo, ovviamente circondato con suoni house». Il 12″ esce sulla veronese Meal Power, la stessa che pubblica altri dischi di Hornbostel e dei suoi soci della BHF Production come “Ibiza” di Don Pablo’s Animals di cui si è parlato poche righe fa.

House Force - Pig HouseHouse Force – Pig House (S.P.Q.R.)
Sebbene Discogs riporti il 1986 come data di pubblicazione, il disco in questione esce due anni più tardi su una delle tante etichette affiliate alla Best Record di Claudio Casalini. Lo stile anticipa gli stilemi che diventeranno classici dell’italo house, con assoli di piano in evidenza corredati da sample vocali. Autore è Giovanni Cinaglia, meglio noto come Cinols, che oggi racconta: «Cominciai a mettere i dischi nelle radio locali nel 1977. Il periodo storico era meraviglioso per funk e disco ma con l’avvento dell’elettronica, ad inizio degli anni Ottanta, la qualità e soprattutto la carica emozionale della dance cominciò a perdere colpi. Evidentemente questa sensazione si diffuse anche e soprattutto negli States tant’è che, già nel 1985, in alcune discoteche i DJ iniziarono a suonare musica “fatta in casa” con le drum machine della Roland. Il fenomeno prese piede velocemente e l’anno successivo uscirono tantissimi dischi house che fortunatamente arrivarono anche in Italia. Per me fu la svolta ma era ancora presto per proporre al pubblico un’intera serata di house music che vedrà la sua totale affermazione nel nostro Paese durante il 1987. Ad attrarre la mia attenzione furono specialmente DJ/produttori americani come Todd Terry, Ralphi Rosario, Marshall Jefferson, Farley Jackmaster Funk, Steve ‘Silk’ Hurley ma pure alcuni britannici come Coldcut e Simon Harris. In quel periodo diversi DJ nostrani si misero in gioco per produrre un disco. Nel 1988 volli provare pure io e così realizzai “Pig House”. Ai tempi non possedevo campionatori, sequencer e tastiere, avevo solamente una batteria elettronica Roland TR-909, quindi fui costretto ad affidarmi ad uno studio di registrazione esponendo le mie idee al tecnico di turno che fino al nostro incontro non aveva mai sentito parlare di house music. Non fu facile entrare in sintonia con lui. Insieme alla mia TR-909, ruolo di protagonista lo giocò l’Akai MPC60: oltre ad essere utilizzato come sequencer, ebbe la funzione di campionatore con cui elaborammo sample di batterie elettroniche, bassi e voci. Quelle femminili le registrammo in studio ma non rammento da dove fu estrapolato l’eins zwei drei vier. Per i suoni usammo un Roland D-50 e un paio di expander tra cui il Roland D-550. Era presente anche un bel Lexicon 480L, appena giunto sul mercato, destinato alla riverberazione. Il mixer invece era un Soundcraft di cui non ricordo più il modello. Per completare il pezzo impiegammo circa quindici giorni. Non so esattamente quante copie abbia venduto ma ricordo che riuscii ad andare quasi in pari con le spese sostenute per la sua realizzazione. Adottai come nome House Force per dare subito l’idea di cosa si trattasse ma da lì a breve, visto l’uso esasperato che si fece della parola “house”, decisi di abbandonarlo. Tutte le produzioni che seguirono a “Pig House” furono interamente prodotte presso lo studio che ho allestito alla fine del 1988 e che nel corso degli anni ha subito regolarmente cambiamenti ed aggiornamenti». Dal 1991 Cinols inizia a collaborare con la Media Records per cui produce diversi dischi tra cui “Divin’ In The Beat” degli East Side Beat, “Congo Bongo” di The African Juice, “The Only One” di Base Of Dreams e “Rock House Party” di Theorema.

J.M.B.I. - Snoopy's Count HouseJ.M.B.I. – Snoopy’s Count House (American Records)
Dedicato alla nota discoteca modenese Snoopy Countdown a cui allude chiaramente il titolo e dove, pare, nei primi anni Settanta fece il suo debutto come DJ Vasco Rossi, il brano è l’ennesimo dei “figli” di “Pump Up The Volume”. Ad occuparsi degli arrangiamenti e degli scratch sono i disc jockey Max Gavioli ed Ivan Delisi mentre la produzione è affidata a Roberto Attarantato che pubblica il 12″ sulla sua American Records a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Il tutto registrato presso il B.M.S. Recording Studio di Modena. Sembra che l’idea di partenza sia venuta a Filiberto Degani, ai tempi titolare del locale ed anni dopo coinvolto in guai giudiziari per il fallimento dello stesso come si può leggere qui. In circolazione ci sono almeno tre tirature con altrettante copertine, tutte dedicate all’indimenticata discoteca di Piazza Cittadella di cui si possono scorgere interessanti dettagli tra cui la consolle e parte degli esterni. Nonostante non sia diventato una hit, il brano viene licenziato in diversi Paesi esteri (Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Francia, Canada) e ciò alimenta l’entusiasmo degli autori che, facendo leva sui medesimi elementi, approntano altri due singoli, “Rat In The Movie’s House” e “Snoopy’s Makes 3° (Bloody Hell?)”.

Kekkotronix - It's Time To ReliveKekkotronix – It’s Time To Relive (Top Line Productions)
Edito dalla milanese Top Line Productions, “It’s Time To Relive” è un brano non propriamente ascrivibile alla house in senso stretto, seppur contenga alcuni elementi che ai tempi lo rendono appetibile per coloro che prediligono programmazioni inclini alla house con dilatazioni afro/baleariche. Le tre versioni sul 12″ derivano pressoché dallo stesso materiale ma è la Dangerous Version a rendere meglio l’idea del disegno stilistico effettuato da Kekkotronix ossia Francesco Montefiori, pare coadiuvato in studio da Claudio “Moz-Art” Rispoli. Entrambi vivranno da protagonisti la fase successiva della italo house, quando navigheranno a bordo di una moltitudine di progetti (Omniverse, Outphase, Soft House Company, Key Tronics Ensemble, Soft & Loud Music Enterprise, TFM, Jestofunk, Double Dee) supportati dalla bolognese Irma Records. La stessa etichetta pubblica un’altra manciata di dischi che Montefiori firma come Kekkotronics (e non più Kekkotronix) in coppia con Luca ‘LTJ’ Trevisi, “First Job” e “Gimme The Funk”.

Koxo' Club Band - ParadhouseKoxo’ Club Band – Paradhouse (Di-Gei Music)
Registrato presso il B.M.S. Recording Studio e dedicato ad un altro storico locale del capoluogo emiliano, il Koxo’, “Paradhouse” è frutto del lavoro di un team di produzione in cui spiccano due nomi che si faranno ben notare negli anni Novanta, quelli di Lino Lodi e Stefano Mango (Face The Bass, Masoko, Pan Position, Express Of Sound etc). Gli elementi sono i soliti: pianate, bassline meccanico, campionamenti ed ovviamente un trascinante beat che però si ferma ai 110 BPM. Il brano è oggetto di diverse licenze in Germania, Spagna e Regno Unito, aiutato dal remix di Roberto ‘Bob One’ Attarantato che nel 1989 lo ristampa sulla sua American Records. Il singolo successivo, “Makes You Blind”, uscirà proprio sulla American Records. Il sample è tratto dall’omonimo della Glitter Band alternato a frammenti di celebri artisti e compositori (Michael Jackson, Mike Leander, Mory Kanté). Sul lato b trova spazio la pianistica “Drive House” coi sample vocali del paninaro di Drive In, Enzo Braschi.

Ocean In Red - Relax In HouseOcean In Red – Relax In House (Many Records)
Arrangiato da Pasquale Scarfì che matura diverse esperienze discografiche sin dai primi anni Ottanta, “Relax In House” è il brano con cui due DJ dall’identità sconosciuta svuotano un calderone di campionamenti eterogenei su una base di house semplificata e ridotta a pochissimi elementi. Con squarci aperti verso classici pop/rock come “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Another One Bites The Dust” dei Queen ed “(I Can’t Get No) Satisfaction” dei Rolling Stones, la Many Records di Stefano Scalera inizia quindi ad esplorare la house music, prendendo parallelamente in licenza brani come “The Party” di Kraze e “Night Moves” di Rickster.

Piero Fidelfatti - Baila Chico (Acid Version)Piero Fidelfatti – Baila Chico (Acid Version) (Out)
DJ di lungo corso, Fidelfatti incide un megamix bootleg intitolato “Baila Chico Mix” sulla fittizia Easy Dance ideata per parodiare la newyorkese Easy Street. All’interno, tra gli altri, anche Mantronix, M.A.R.R.S. e J.M. Silk. L’ottimo riscontro lo spinge a realizzare anche un singolo, questa volta a suo nome, in scia a “Pump Up The Volume”. Il brano viene assemblato nel Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto, ad Udine, e pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni. Due le versioni, arrangiate col musicista/illustratore Franco Storchi e l’ingegnere del suono Fulvio Zafret: la Acid Version, che a dispetto del nome di acid non ha davvero nulla, allineata ai suoni di “The Party” di Kraze e “Jack To The Sound Of The Underground” del compianto Hithouse, e la Piano Version che prevedibilmente mette in evidenza assoli pianistici. Fidelfatti raccoglierà successo internazionale l’anno seguente con “Just Wanna Touch Me” di cui abbiamo parlato nel dettaglio qui.

Raff Todesco - I Got My MindRaff Todesco – I Got My Mind (RA – RE Productions)
Produttore sin dalla fine degli anni Settanta, Raff Todesco vive in pieno sia l’exploit dell’italodisco, sia quello della house e dell’eurodance. “I Got My Mind”, edito sulla sua RA – RE Productions, è un omaggio/tributo al quasi omonimo degli Instant Funk, “I Got My Mind Made Up” del 1978, di cui vi è un sample all’interno insieme ad un frammento preso da “Hit It Run” dei Run-DMC, del 1986. Il resto è un susseguirsi ritmico affine a quel nuovo genere musicale che arriva dagli States e dalla Gran Bretagna, ben rimarcato dal nome di una delle tre versioni presenti sul 12″, Hause-Hause Version, oltre ad immancabili assoli di piano. «Verso la fine del 1987 le vendite delle produzioni italodisco cominciarono a non essere più soddisfacenti per chi, come me, frequentava il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian, a Gambellara, in provincia di Vicenza» racconta oggi Todesco. «Anche per coloro che avevano la fortuna di produrre in continuazione, lo storico studio della dance col mixer MCI 600 a 32 piste e con strumentazioni d’avanguardia iniziò a pesare non poco per gli elevati costi. Tuttavia a settembre del 1987 decisi di avviare lì un progetto musicalmente innovativo, sull’onda di ascolti maturati attraverso produzioni alternative rispetto alle cose che ero abituato a fare, come “Your Love” di Frankie Knuckles e le pubblicazioni sulla Trax Records. Non avevo ancora le idee chiare sulla strada da seguire musicalmente ma sentivo la necessità di abbandonare sia l’italodisco che l’eurodisco, fino ad allora i capisaldi del mio autorato, e cominciare una nuova avventura musicale e produttiva. Il primo risultato di quella svolta fu proprio “I Got My Mind”, realizzata col vecchio sistema analogico e senza ausilio del computer. Il progetto si fondava sul disegno strumentale creato con la tastiera su cui vennero inseriti vari campionamenti, “suonati” come se fossero uno strumento, attraverso la Korg DSS-1 grazie all’aiuto di Michele Paciulli, ai tempi dimostratore della stessa azienda. Il tema principale del piano invece, che doveva rappresentare un ideale volo nello spazio, fu eseguito con una Korg DW-8000 polifonica. Fu l’unico disco a portare il mio nome come artista sulla copertina e il mio ultimo lavoro ad essere registrato nello studio di Sandy Dian, tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1987. Lo avrei terminato e mixato in autunno inoltrato presso il Summit Studio. Per continuare l’attività da produttore infatti mi trasferii a Milano e in un nuovo studio, il citato Summit Studio di Antonio Summa, a Villa d’Almè, in provincia di Bergamo, i cui costi erano notevolmente inferiori rispetto a quello di Dian. Oltre a Summa, tecnico e bassista, lì conobbi anche il tastierista Sergio Bonzanni col quale avrei collaborato negli anni a seguire. Il Summit Studio era uno studio tradizionale che si poggiava ancora su tecnologia analogica ma in Italia praticamente nessuno, ai tempi, registrava in digitale. All’inizio del 1988 feci veramente una pazzia: tentai di sostituirmi al lavoro del DJ e costruii una song basata su soli campionamenti legati tra loro da una brevissima melodia strumentale. Si trattava di “Magnetic Dance” di T.V.M. (acronimo di Todesco Vaccari Maini), pubblicato dalla On The Road, etichetta che avevo creato qualche tempo prima proprio con Francesco Vaccari e Gigi Maini. Il brano si fondava su una ventina di campionamenti, i più rilevanti erano tratti dal film “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick e da un brano dei Jackson 5, che emergevano più volte durante la stesura. Nonostante le buone vendite, per fortuna non avemmo conseguenze legali. A posteriori la considero una vera follia aver inciso un disco con sample di quel tipo senza regolari autorizzazioni! Nel 1988 uscirono anche “Foot Stompin’ Music / Funnyhouse”, ancora insieme a Vaccari e Maini, ed “I Am” dei Time, un nome risorto dai periodi più rosei della italodisco (quelli di “Can’t You Feel It”, di cui abbiamo parlato qui, nda). In quel caso presi a modello “No UFO’s” di Model 500: usai la Roland TR-808 per la drum e Summa incise il basso col suo Fender Precision. La voce invece era di Eleonor, una cantante di un gruppo rock, e non mancavano vari campionamenti, scratch e clap così come voleva la tipologia house di allora. La melodia però era tipica del modello disco, imprinting della nostra italica memoria musicale. Soltanto alla fine del 1989 incominciai, nel nuovo studio allestito da Sergio Bonzanni, le produzioni digitali con la tecnologia computeristica».

Rhythm Station - Let's Clean Up The GhettoRhythm Station – Let’s Clean Up The Ghetto (Technology)
Cover dell’omonimo dei Philadelphia International All Stars, il brano in questione viene approntato nel Lumiere Studio di Milano dai componenti della Big Business Orchestra (tra cui si cela il poliedrico Fred Ventura) che nello stesso anno incidono “Big Business”. Nel 1990 nei negozi arriva il secondo singolo, “Don’t Stop”, registrato presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. Il tutto supportato da Severo Lombardoni.

Risen From The Rank - Sampler '83Risen From The Rank – Sampler ’83 (Media Record)
Nato nel 1985 con “AIDS” (la cui base viene riadattata per “America” due anni dopo), Risen From The Rank è uno dei tanti progetti scaturiti dalla fervida immaginazione di Gianfranco Bortolotti. Sull’onda di “Bauhaus” di Cappella e “Die Walküre” dei 49ers, di cui si è già detto più sopra, l’imprenditore bresciano pubblica “Sampler ’83”, altro collage di sample in stile “Pump Up The Volume”, in cui spiccano frammenti di “Last Night A DJ Saved My Life” degli Indeep, ma con meno potenzialità commerciali. «Era uno dei brani che facevano parte, insieme ai menzionati Cappella e 49ers, alle prime esperienze della house music, del campionamento, dell’organizzazione di una nuova metodologia di lavoro nei nuovi home studio che mi inventai e che poi furono perfezionati e copiati in tutto il mondo. Un gradino che ci avrebbe portato in cielo, proiettati verso il successo mondiale» dice oggi Bortolotti. «Seppur molto simile a “Bauhaus”, le vendite furono inferiori ma lo scopo non era eguagliare i risultati economici bensì testare nelle discoteche prodotti di quel tipo e cercare la formula giusta per il nuovo Cappella». Sempre nel 1988 esce “Ecstasy”, prodotto da Pieradis Rossini e Pierre Feroldi, poi diventato “Fantasy” per il mercato estero. «Non volevamo correre il rischio di farlo passare per un’incitazione all’uso della nota droga sintetica. Per noi era un semplice sample e chi mi conosce sa che non ho mai fatto uso di droghe e questo posso giurarlo» conclude Bortolotti. Dal 1990 Risen From The Rank riapparirà solo con l’acronimo R.F.T.R. attraverso vari singoli in bilico tra suoni techno ed house, tra cui “I Need A Fix” (col featuring di Simone Baldo, pochi anni dopo coinvolto nel progetto televisivo TSD) e “Rock Oops”, entrambi prodotti a Padova negli studi della Prisma Records da Valter Cremonini e dal team che da lì a breve crea gli U.S.U.R.A. di “Open Your Mind”. Meritevole di citazione anche il più fortunato “Extrasyn”, arrangiato da Max Persona con la consulenza artistica di Francesco Zappalà.

Rusty - Rusty AcidRusty – Rusty Acid (Dance And Waves)
Mentre esplodono in Giappone come Green Olives con “Jive Into The Night” agganciato agli stereotipi stilistici eurodisco/hi NRG, David Sion, Fulvio Zafret e Sergio Portaluri iniziano a tastare il terreno della house sia come Big House e il poco noto “Don’t Stop The Party”, sia come Rusty, pseudonimo con cui firmano “Rusty Acid”. Il brano raccoglie gli input dei tipici collage sampledelici, con brevi passaggi vocali alternati a qualche melodia bleepy e ai graffi degli scratch, vero leimotiv del DJismo di quel periodo. A pubblicarlo è la Dance And Waves del gruppo bolognese Expanded Music. Più fortunato risulta il singolo seguente, “Everything’s Gonna Change”, edito dalla DFC nel 1989 e licenziato oltremanica dalla Stress Records di Dave Seaman che affida il remix ad una figura chiave della progressive house britannica degli anni Novanta, Sasha. Da lì a poco Sion, Zafret e Portaluri creano il team di produzione De Point con cui mettono a segno diversi successi come “Your Love Is Crazy” di Albertino (a cui abbiamo dedicato un articolo qui) ma soprattutto i brani con cui Afrika Bambaataa aderisce, inaspettatamente e per molti inspiegabilmente, all’italodance, “Just Get Up And Dance”, “Feeling Irie”, “Pupunanny” e “Feel The Vibe”.

Surprise - 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle)Surprise – 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle) (X-Energy Records)
A metà strada tra l’italodisco virata pop/hi NRG e scorci house, il disco riporta in vita l’omonimo dei Gary Toms Empire del 1975. Artefice è Giulio Ferrarin, che qualche anno più tardi fonda la MKS Records, affiancato da Gino “Woody” Bianchi. Maggiormente aderente all’universo house è la traccia incisa sul lato b, “Don’t Stop The Music”. A chiarirlo è il nome stesso della versione, Acid House Mix. «A proporci di coverizzare il brano dei Gary Toms Empire (già rifatto con successo dai Rimshots) fu Alvaro Ugolini, uno dei proprietari della X-Energy Records, e devo ammettere che ci divertimmo molto a realizzarlo. Utilizzammo un piano della Roland ma per poter guadagnare sui diritti d’autore dovevamo produrre una traccia inedita e quindi pensammo di aggiungere qualcosa in stile Trax Records. Prendendo spunto da “Are You Ready” di Rich Martinez e “Don’t Stop The Music” dei Bay City Rollers, un classico per il pubblico della Baia Degli Angeli, il gioco era fatto. Dopo un paio di whisky il chitarrista Marco Scainetti si lanciò a cantare il brano e in appena due giorni completammo il tutto. La X-Energy Records investì molto nei progetti italo house e dopo poco tempo mi avrebbe affidato il remix/rework di “Notice Me” di Sandee. Da lì a breve, inoltre, fui invitato in studio dai cugini Minoia e da Corrado Rizza (mio futuro socio nella Lemon Records/Wax Production) per remixare “Satisfy Your Dream” di Paradise Orchestra ed “Everyday” di The Jam Machine, usciti entrambi nel 1989 e che, a mio avviso, hanno scritto la storia della italo house».

The Hardsonic Bottoms 3 - Do It Anyway You WannaThe Hardsonic Bottoms 3 – Do It Anyway You Wanna (BBAT)
Nati da una costola dei Pankow, gruppo fiorentino che aderisce al movimento industrial, gli Hardsonic Bottoms 3 debuttano col singolo “Do It Anyway You Wanna” che, è bene chiarirlo, non è propriamente house bensì un mix tra EBM e new beat, generi che in quel periodo iniziano però ad essere riadattati dai produttori house europei vista la loro spiccata ballabilità. Tra ’89 e ’90 escono altri due 12″, “Disco Inferno” e la doppia a-side “Jailhouse Shock / Stompxnxtorr” che chiude la breve parentesi danzereccia di Maurizio Fasolo, Enzo Regi e Sergio Pani, supportata discograficamente dalla BBAT, sublabel della Contempo Records.

Considerazioni finali
Sono ormai trascorsi più di trent’anni da quando la house music ha messo piede in Italia. Quello che era un foglio bianco, tutto da scrivere, adesso è diventato un libro, con molteplici capitoli ricchissimi di avvenimenti, nomi, passioni, vite e, purtroppo, anche morti. La house è diventata la colonna sonora di intere generazioni dando vita ad una visione “house-centrica” della musica da ballo. L’housecentrismo come nucleo da cui irradiare idee, soluzioni, intuizioni, emozioni. Per alcuni i primi dischi house prodotti in Italia svilirono pesantemente la sacralità della stessa house music, profanandola e minandone la credibilità con un approccio tipicamente consumistico tanto da restare ai margini della conoscenza collettiva e scarsamente considerati. Per altri invece quelle produzioni, molto spesso dai caratteri oggettivamente naïf, servirono eccome perché gettarono le basi per lo sviluppo della personalizzazione del genere, giunta nel 1989 quando si delineano i caratteri somatici intrinsechi dell’italo house che emerge con forza facendosi notare pure in quei mercati sino a poco prima apparentemente inavvicinabili, come il britannico e lo statunitense. L’Italia avrebbe mostrato i muscoli dimostrando al mondo intero di avere voce in capitolo. Ma questa è un’altra storia.

Giosuè Impellizzeri

* le testimonianze esclusive di questo reportage sono state raccolte tra novembre 2018 ed aprile 2019.

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Marvin Gardens – My Body And Soul (Ninja Records)

Marvin Gardens - My Body And SoulAd elencare le cover o i remix diventati più noti degli originali si potrebbe riempire un libro intero. Alla lista infinita va doverosamente aggiunto “My Body And Soul” di Marvin Gardens, progetto tedesco che nel 1992 si impone anche in Italia. Così come vuole la moda dei tempi, la pop dance si appropria di brani del passato traducendoli in chiave moderna per offrirli ad una generazione che non conosce le versioni originali per semplici motivi anagrafici. I Marvin Gardens ripescano quindi “My Body And Soul” degli americani Delicious, pubblicato nel 1986 ma non particolarmente fortunato dal punto di vista commerciale.

Per Rainer Streubel, il “regista” che dirige i lavori dietro le quinte di Marvin Gardens, è stato pressoché naturale attingere dalla musica del decennio precedente, periodo in cui muove i primi passi nell’ambito discografico. «Nel 1984 iniziai a lavorare come rappresentante per la Bellaphon Records, azienda col quartier generale a Francoforte sul Meno, partecipando ogni lunedì sera alle riunioni relative ai prodotti da commercializzare» racconta oggi il tedesco. «Mi occupavo prevalentemente di musica dance come funk (importata dalla Motown di Detroit), electro e la cosiddetta techno pop e i miei suggerimenti erano spesso apprezzati dai manager. Ero un giovanotto che amava viaggiare ed infatti mi recavo regolarmente in discoteche come l’Area e lo Studio 54 a New York, al Ku (oggi Privilege) e al Pacha di Ibiza e al Dorian Gray di Francoforte. In questo modo acquisii grandi competenze e conoscenze nell’ambito della musica elettronica. Vendere musica e suonare la chitarra sono praticamente le due cose che ho imparato a fare meglio nella mia vita. Sin dall’infanzia mostrai doti creative: ero soltanto un ragazzino quando creai un suono speciale abbastanza psichedelico, ispirato dai Pink Floyd, suonando la chitarra elettrica poggiata sul pavimento e connettendola ad un distorsore a pedale Big Muff. Ma ero solo un autodidatta!».

CCCP

La copertina di “American-Soviets”, primo singolo dei C.C.C.P. pubblicato nel 1986 e prodotto da Rainer Streubel sulla sua Clockwork Records. La grafica ammicca alla cosiddetta “linea rossa” tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, rappresentati rispettivamente da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov ironicamente fumettizzati da Fred Schomberg.

Nella seconda metà degli anni Ottanta Streubel inizia la carriera da produttore con la band dei C.C.C.P., in scia alle vicende politiche della Guerra Fredda quasi al termine, ma anche con altri progetti come Beat-A-Max, R.L.F. ed Area (un probabile rimando alla citata discoteca newyorkese). È il periodo della new beat e dell’invasione europea di house e techno. «Il mio primo approccio all’EBM, industrial e a quella che veniva chiamata in gergo techno pop avvenne nel 1986 quando produssi “American-Soviets” dei C.C.C.P., ispirato da un brano dell’anno prima, “Generator 7/8” dei Moskwa TV (progetto in cui figura un giovane Andreas Tomalla, successivamente noto come Talla 2XLC, nda), dal film “Rocky 3”, dalla mia propensione per la musica araba e per quel genere musicale di tendenza che ai tempi si poteva ascoltare e ballare in posti come il Dorian Gray, una discoteca situata nell’aeroporto di Francoforte. Lì dentro i DJ passavano molti brani di band come Front 242, Nitzer Ebb e Laibach, oltre naturalmente alle primissime tracce house che giungevano dagli States».

Pochi anni più tardi nasce Marvin Gardens che si pone sul crocevia tra due decenni fondamentali per la musica dance, probabilmente impareggiabili per intuizioni. Un remake che, come detto prima, diventa più popolare della canzone originale. «Nel 1986 licenziai in Germania il pezzo dei Delicious (ovvero Teddy Riley, anni dopo nei Blackstreet e tra i collaboratori di Michael Jackson, e Gregory Marius) attraverso la mia etichetta, la Clockwork Records, diventando anche il loro editore europeo. L’idea di farne un remix mi venne nel 1991 insieme ad Armin Kupfer alias A-Ninja, un DJ molto bravo che raccoglieva successo qui in Germania ma solo a livello locale. Ad interpretare vocalmente il brano fu una cantante che scovai io stesso, Andrea Zanaboni meglio nota come Anna Boni, che mi colpì subito per la sua voce particolarmente sensuale. Il giorno in cui venne per la prima volta nel mio ufficio a Francoforte era in compagnia di un’altra cantante che aveva precedentemente firmato un contratto con la CBS e in virtù di ciò era convinta di essere migliore, ma io preferii ugualmente l’esordiente Anna. Ai tempi non sapevo granché sui computer (ad eccezione del Commodore 64!), quindi non ero tecnicamente in grado di lavorare con Hybrid Arts (un software che girava su computer Atari, nda) o con altri programmi in uso negli studi di registrazione. Mi limitavo alla scelta dei suoni da adoperare e a svolgere ruolo di produttore esecutivo. A curare gli arrangiamenti in “My Body And Soul” fu un musicista che mi presentò un caro amico, Achim Szepanski, fondatore della Force Inc. Music Works e Mille Plateaux, affiancato da Georgious Poulkaris, già nel team della Clockwork Records e della CMV Records, dai Noizmakers (Ralph Diehl e Ric Damm) e Data Soul. Impiegammo una settimana per completare il lavoro in studio ma ci vollero circa tre mesi prima che il disco arrivasse nei negozi.

Poi purtroppo avvenne qualcosa di spiacevole. Sul mercato giunse una seconda cover del brano dei Delicious pubblicata dalla MCI di Frank Farian, prodotta per giunta dagli stessi Noizmakers con i medesimi sample ma interpretata da Lori Glori. Una nuova versione seguì nel 1994 su BMG col titolo “Body-N-Soul”. Decisi di denunciare Farian ma alla fine dieci bugiardi ebbero la meglio su cinque onesti. Tuttavia non mi importò più di tanto perché, in qualità di editore europeo, avrebbero dovuto comunque corrispondere delle quote anche a me per entrambi i prodotti. La nostra versione vendette dalle 4700 alle 5300 copie. La Ninja Records era una piccola label indipendente che creai con Armin Kupfer, e persino la distribuzione avvenne in modo autonomo attraverso la CMV Cooperation Medien Vertrieb. Dopo le beghe legali sorte coi Noizmakers e Frank Farian però decidemmo di non produrre più nulla su Ninja Records».

Il brano dei Marvin Gardens circola anche attraverso un videoclip in cui la scena è dominata interamente dalla cantante. «La protagonista era Anna Boni, voce ufficiale dei Marvin Gardens e di molte altre canzoni di quel periodo. Alle sue spalle c’era Berry, un ballerino professionista che entrò a far parte del team. A realizzare la clip fu un certo Lekkebusch, un regista/videomaker che aveva anche uno studio. Credo che quel lavoro costò circa 10.000 euro pagati però dalla BMG di Monaco».

Marvin Gardens fakes

Alcuni dei remake pubblicati dopo il successo di Marvin Gardens. Il mercato discografico era talmente grande da assimilare cover delle cover uscite anche a distanza di poche settimane.

“My Body And Soul” diventa un successo estivo in Italia dove viene licenziato dalla G.P. Records del gruppo Dancework che commissiona alcuni remix a Fabio Cozzi, El Zigeuner, Gianni Bini & Stefano D’Andrea e ai Korda (Alex Neri e Marco Baroni). Nel contempo la Discomagic di Severo Lombardoni pubblica, come è solita fare allora, la cover firmata con un nomignolo ironico che assomiglia foneticamente a Marvin Gardens, Martin Gardner, pare ricantata da Maria Capri. Pochi anni dopo, nel 1997, il brano viene rispolverato ancora attraverso nuove versioni (tra cui quella progressive di Space Frog) giunte da noi mediante l’Italian Style Production della Time Records di Giacomo Maiolini. L’ennesimo remake esce nel 2008 (quello dei The Soundlovers) e giusto recentemente un altro a firma Gianluca Motta ed Antonio Viceversa. «L’Italia ha ricoperto un grande ruolo nella scena musicale e nel business discografico di quel periodo. Ennio Morricone resta uno dei miei compositori preferiti in assoluto. La prima volta che ebbi contatti con l’Italia fu nel 1991, giravano un mucchio di licenze ed accordi con aziende bresciane come ad esempio la Time Records a cui mi interfacciavo attraverso Monica Paganini. L’Italia rappresentava un mercato fantastico ed era particolarmente rapida nell’acquisire le licenze estere. Claudio Ridolfi della Dancework è stato uno dei referenti italiani che ho incontrato personalmente quando feci affari col produttore Siro Gallotti. Ricordo pure che Marvin Gardens venne ospitato da una tv milanese nel 1992: Anna era lì da sola, anche perché rappresentava l’immagine della band, e purtroppo non ho mai avuto modo di vedere la registrazione di quello spettacolo. Incontrai invece Raffaela Travisano a Colonia, durante una delle edizioni del Popkomm, e tempo dopo avemmo modo di collaborare. Ritengo che l’Italia, insieme alla Spagna, ai Paesi Bassi e agli Stati Uniti, abbia rappresentato uno dei più grossi epicentri per la scena dance tra gli anni Ottanta e Novanta. Col passare del tempo altre nazioni hanno visto crescere la propria presenza in quel segmento di mercato, come la Francia, la Germania, i Paesi dell’Europa dell’Est e molti altri ancora. Tante cose sono cambiate e credo sia un bene. Ormai ci sono musicisti praticamente in ogni nazione del mondo. La musica, insieme allo sport, è una delle due forme di comunicazione che possono essere capite da chiunque a prescindere dal colore della pelle, dalla religione o dagli schieramenti politici».  Nel 1997, quando escono i citati remix di “My Body And Soul”, alcune case discografiche, tra cui la Dance Pool, mettono in circolazione 12″ e CD con un nome marginalmente variato in Marvine G., ma Streubel pare essere all’oscuro di ciò: «Non abbiamo mai cambiato nome e non ho la più pallida idea per cui su quei supporti sia apparso Marvine G. anziché Marvin Gardens, ma non mi stupirei se fosse l’ennesimo dei tiri mancini giocato da Ralph Diehl, Ric Damm e Data Soul».

Peripezie legali a parte, i Marvin Gardens tornano nel 1993 con “Take Time”, pubblicato in un’edizione limitata simile ad una white label priva di indicazioni, a cui segue nello stesso anno “Got (God !?) Expressed” ma entrambi non riescono a raccogliere il successo di “My Body And Soul”. «Purtroppo non funzionarono ed io, a causa dello stress accumulato in quel periodo, decisi di prendermi una pausa di riflessione. Mi dedicai quasi esclusivamente al lavoro di editore rivoluzionando la mia vita al punto da trasferirmi in Catalogna, in Spagna, dove nel 2003 scrissi la canzone “Yolanda” di Sebastian Gomez. Nel corso degli anni ho prodotto altre cose come ad esempio “Summernation” di N 678 nel 1995 e “3rd Millennium” dei C.C.C.P. nel 1999. Poi con Achim Szepanski ho fondato la Mille Plateaux Media e lanciato la Supralinear con Nicole Neumann. Nel 2008 fu la volta della Rhizomatique, ancora condivisa con l’amico Szepanski. Nel 2014 pensai di riportare in vita Marvin Gardens producendo l’album “Body & Rhythm” con un nuovo team ma avvalendomi ancora della voce di Anna Boni. Avendo ceduto nel 2009 la mia Clockwork Records insieme allo studio e a tutto il resto, mi misi alla ricerca di un’etichetta interessata ma senza risultato. Dal 2010 al 2013 ho fatto il manager per alcune band nu metal (visto che nel 1988 collaborai con la ZYX Metallic), e nel 2017 ho trovato la A45 Music, diretta da Reinhard Piel (ex manager della Zyx) che ha pubblicato un best of della mia discografia e il nuovo singolo di Marvin Gardens, “Walking On The Street”.

Cosa dire sul music business contemporaneo? Una piccola percentuale proviene dallo streaming, per i compositori è davvero dura. Molti si sono dedicati alle colonne sonore perché fare dischi ormai è ben poco remunerativo. Non credo all’hype sul ritorno del vinile, forse è più redditizio il mercato dell’usato perché il nuovo è ridotto a quantità assai limitate e i puristi del suono continuano a comprare solo ristampe di classici in 180 grammi. A fare la differenza spesso sono i PR o l’intelligenza artificiale delle app, visto che per raggiungere le grandi masse oggi è necessario affidarsi al marketing online. Ho preferito chiudere la mia Streubel Entertainment alla fine del 2014. Dal 2009 il nuovo proprietario è mio figlio Norman che probabilmente è intenzionato a vendere alcune parti o l’intera azienda. Oltre al citato album di Marvin Gardens, tra 2014 e 2016 ho prodotto anche “Decadance Club” dei C.C.C.P. che è stato il mio ultimo lavoro. Non riceverò alcuna royalties da queste uscite però, eventuali guadagni verranno devoluti a giovani artisti. Con questo ho chiuso in modo definitivo la mia carriera professionale nel music business dopo 33 anni e quella da musicista dopo ben 45». (Giosuè Impellizzeri)

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