Mato Grosso – Thunder (Dance And Waves)

Mato Grosso - Thunder“Thunder” è il pezzo con cui nel 1991 il compianto Graziano ‘Tano’ Pegoraro, Marco Biondi e Claudio Tarantola modificano il nome del progetto Neverland, nato l’anno prima col brano “Mato Grosso” e remixato a New York da Musto & Bones. Motivo? Molti addetti ai lavori e il pubblico sono erroneamente convinti che titolo ed autore fossero invertiti. Così, archiviato Neverland, si riparte con Mato Grosso e con la voglia di avvicinarsi stilisticamente al mercato britannico mediante una miscellanea tra techno ed house che fa il verso a Shamen (peraltro citati nel remix di “Thunder” attraverso un sample preso da “Move Any Mountain”), KLF, Beatmasters e Bizarre Inc.

Racconta Claudio Tarantola: «Non c’è stato un gruppo o un brano specifico che abbia ispirato “Thunder” e gli altri pezzi dei Mato Grosso. Fondamentalmente c’erano un po’ tutti gli artisti del momento (e del “movimento”) che noi tre con ingordigia ascoltavamo. All’epoca avevo praticamente tutto degli Shamen (li adoravo mentre i KLF piacevano più a Tano), ma anche degli 808 State, Future Sound Of London, Orb, LFO, Massive Attack, Orbital, Steve Hillage ed altri. La cosa bella del nostro “trio” (finché ha funzionato l’alchimia) era proprio l’estrazione e le esperienze personali molto diverse. Tutti amanti (e divoratori) di buona musica ma con caratteristiche differenti e ben definite: Tano era un vero “animale da studio”, sempre con le mani sul mixer, alla ricerca del suono, dell’effetto, alla scoperta di qualcosa di (possibilmente) nuovo, ma anche con un grande gusto per la melodia ed una grossa esperienza nella produzione, avendo già firmato e realizzato molti successi della dance italiana degli anni Ottanta (Miko Mission, Silver Pozzoli, Taffy e Tracy Spencer, giusto per citarne alcuni, nda); Marco era il “necessario” disc jockey che portava la sua esperienza radiofonica e la conoscenza di migliaia di dischi e di generi ma anche la loro potenzialità, la fruibilità e, perché no, la commerciabilità. Io in questi campi avevo tutto da imparare, però portavo le mie conoscenze tecniche sugli strumenti, il conservatorio, gli studi classici, le serate con le band, i live, le tournée, insomma, il “mettere le mani” sugli strumenti, oltre al mio amore per il progressive rock. La prima cosa che ci ha accomunato è che tutti e tre adoravamo Genesis, Pink Floyd, Yes, Banco Del Mutuo Soccorso e Premiata Forneria Marconi. Sembrerà assurdo ma pur facendo house, dance et similia, forse ci siamo ispirati più ai grandi gruppi degli anni Settanta (molto immodestamente) che ad altri. In qualche brano siamo arrivati al punto di inserire campionamenti ben poco prevedibili, presi da brani storici dell’epoca progressive rock invece che del più consueto utilizzo di spezzoni funky, soul, r’n’b ecc.».

Mato Grosso

I Mato Grosso (da sinistra: Claudio Tarantola, Marco Biondi e Graziano Pegoraro) in una foto scattata presumibilmente tra 1991 e 1992 (su gentile concessione di Marco Biondi)

Sono quattro le versioni di “Thunder”, contrassegnate dai numeri romani: la I è senza dubbio la più immediata, tra un metti e togli di un paio di parti vocali, un riff di memoria new wave/synth pop, un arpeggio ed una serie di accordi, la III che lima le parti melodiche lasciando più spazio al ritmo e la IV che la prosegue nello stesso solco con qualche riverberazione di quegli elementi new wave/synth pop di cui si diceva prima, oltre a virtuosismi che rimandano a Sueño Latino (e quindi a Manuel Göttsching). Sono i 3 minuti e 15 secondi in modalità beatless della II però a rendere tutto più speciale, con un susseguirsi di linee di sintetizzatore tagliate da lead d’ispirazione ambient.

Prosegue Tarantola: «in tutte le nostre produzioni dell’epoca c’erano campionamenti, era quasi “obbligatorio” usarli ma più che altro era molto divertente. Il gioco era sovrapporre più sample teoricamente incompatibili o cercare di accoppiare quelli che, sulla carta, sembrava assurdo combinare, a volte con risultati sorprendenti. Molti non lo ammetteranno mai ma assicuro che anche la casualità, in studio, ha il suo peso, e non ci trovo nulla di male. A me è capitato, per esempio, di far suonare erroneamente una traccia che era stata scritta per un set di percussioni su un canale midi differente, sbagliato, e di ascoltare, con mia grande sorpresa, una sequenza armonico-melodica bellissima, che mai avrei scritto volutamente. Ed è successo in modo del tutto casuale! Nel mix di “Thunder” figuravano comunque pochi sample. La prima drum che appare era un campione di un brano degli U2, non tratto della discografia ufficiale ma che scovai nella colonna sonora di un film di Wim Wenders, “Until The End Of The World”. Poi ne sovrapponemmo un altro paio, ma di quelle non ricordo proprio la provenienza. La maggior parte dei sample, infatti, ci veniva suggerita (e procurata) da Marco, lui sicuramente saprebbe illustrare meglio. Ricordo che i vocal presenti in tutte le versioni del mix furono un lavoro di taglio e ricomposizione di frammenti provenienti da “Motherland” di Tribal House. Per il resto, gran lavoro di synth e di sequenze, e proprio di “Thunder” vado particolarmente orgoglioso (scusate l’immodestia) perché sviluppato su tante sequenze mie, a partire dal tema principale. Diverso è il discorso del remix, dove c’erano più sample a partire dal famoso “bang to the beat of the drum”, forse uno dei più usati (non solo da noi) in tutti gli anni Novanta, oltre ad una frase ritmica fatta da voci maschili che però non ricordo da dove arrivasse. Nel remix c’era anche il mio Tarantola Mix, fatto per gioco, una versione fintamente “classica”, come se fosse un brano sinfonico, anni dopo utilizzata per un po’ di tempo come sigla del TG Notte di Rai 1.

Claudio Tarantola

Claudio Tarantola nel B4 Studio, tra 1991 e 1992 (su gentile concessione di Marco Biondi)

Con “Thunder” iniziò a profilarsi l’impronta che avremmo mantenuto in tante altre nostre produzioni, cioè il massiccio uso di synth “grassi”, di “synthoni” come all’epoca li chiamavano in molti, e che è rimasto il nostro marchio d’identità. Negli anni abbiamo avuto, usato, preso, comprato, venduto, provato (e tanti altri verbi che possono venire in mente) praticamente di tutto. Avevamo strumenti “residenti” in studio ma poi si aggiungevano i nostri personali (soprattutto i miei) quando necessario, ma anche quando non lo era, magari solo per sperimentare. Eravamo nel ’91, come campionatori avevamo degli Akai, sia il vecchio S900 che i più recenti S3200, poi expander a profusione, dal Roland D-50 al Korg M1, dall’Oberheim Matrix 12 al Vintage Keys. Poi come tastiere, delle Kurzweil (io avevo una K1000, più avanti anche la K2000), il vecchio ma sempre “strong” Yamaha CS-15D (questo ce l’ho ancora!) e poi la bestia, il mio Elka Synthex, lo strumento più bello che abbia mai avuto e che ora (sigh!) purtroppo non possiedo più. Il synth coi suoni più belli, rotondi, pieni e “grassi” della storia.

Non saprei quantificare il tempo di realizzazione delle produzioni, perché non si lavorava su un progetto solo ma su più cose contemporaneamente, e devo dire che questo sistema era di grande stimolo e non di confusione come si potrebbe invece pensare. Spesso ci siamo accorti, a lavoro finito e a disco pubblicato, di aver utilizzato idee, schemi, cellule ritmiche o frasi in altri pezzi invece che in quelli per i quali erano stati pensati in origine. A tal proposito, andando a risentire un po’ dei nostri progetti dell’epoca per rinfrescarmi l’ascolto, ho trovato molte cose “incrociate” nei vari progetti paralleli che abbiamo realizzato, come Psycho Team e Price 2 Pounds ad esempio. Rispetto alla media, comunque, eravamo decisamente veloci. Quando una cosa ci piaceva era fatta, non ci arenavamo in dubbi e perplessità. La storia insegna che è inutile spaccarsi la testa per cercare di ottenere chissà che, non ci sono metodi, programmi o sistemi per ottenere risultati sicuri o successi. Non saprei dire però quante copie vendemmo, per avere notizie realistiche e credibili bisognerebbe interpellare il nostro discografico dell’epoca, Giovanni Natale. A memoria, credo che tra mix e remix raggiungemmo le 20.000 copie circa, che oggi farebbero rimanere primi in classifica per settimane ma ai tempi erano un buon risultato ma certamente non da guinness. Numeri a parte, siamo sempre stati molto soddisfatti ed orgogliosi di pubblicare anche un album a nome Mato Grosso, perché era abbastanza raro, per team specializzati in mix dance, house, techno, giungere a questo risultato. Insomma, non eravamo mica gli Shamen!»

Tano Pegoraro

Graziano Pegoraro all’opera nel suo B4 Studio a Gaggiano, presumibilmente tra 1991 e 1992 (foto gentilmente concessa da Marco Biondi)

“Thunder” è l’ultimo ad essere pubblicato sulla Dance And Waves: i Mato Grosso infatti da lì a breve peregrineranno sulla B4, sempre appartenente al gruppo bolognese Expanded Music ed omonima del gruppo messo su dagli stessi Pegoraro, Biondi e Tarantola per il brano “What I’m Feeling” del 1990. In seguito però la formazione si riduce ai soli Pegoraro e Biondi: «Non ci fu un motivo vero e proprio o una causa scatenante del mio abbandono. Purtroppo anche le cose più belle ed intriganti, dopo un po’, iniziano ad annoiarmi, avverto il bisogno costante di stimoli nuovi e quindi di cambiare. Nello stesso tempo io e Marco, pur senza litigare, avevamo sempre più frequentemente discussioni, soprattutto perché lui e Tano stavano un po’ cambiando direzione nel modo di gestire i progetti, e non condividevo del tutto queste scelte. Cominciavo a non crederci più fino in fondo tanto che nel mio archivio ho alcuni dischi che abbiamo realizzato insieme nei quali però non appaio perché non ho voluto firmarli. Non ero né convinto né soddisfatto. Iniziò quindi a diventare un problema riuscire a trovare punti d’incontro comuni, la conseguenza logica fu quella di lasciare il team, ma non abbiamo mai rotto completamente, infatti in seguito collaborammo ancora.

Marco Biondi e Graziano Pegoraro

Marco Biondi e Graziano Pegoraro nel B4 Studio, presumibilmente tra 1991 e 1992. Al muro alcuni dei successi di Pegoraro risalenti al decennio precedente (Taffy, Silver Pozzoli, Miko Mission). Foto gentilmente concessa da Marco Biondi

Un aneddoto che mi torna in mente risale al 1994, alla fine dei lavori di “Stonehenge”, realizzato insieme a Danilo Di Lorenzo (arrivato subito dopo di me). Tano aveva l’abitudine di chiamarmi per sentire il mio parere o per regalarmi qualche copia del disco. Quel brano mi piacque davvero e così, per gioco, feci una versione che ovviamente poi gli feci ascoltare. La chiamai Useless Mix, per ridere e sottolineare che fu fatta solo per divertimento. Lui rimase impressionato, confidandomi che se fosse arrivata un po’ prima l’avrebbe sicuramente inserita nel CD. Avevamo un rapporto speciale. Iniziai a lavorare con Tano nel 1988, quando non vivevo ancora a Milano ma in provincia di Pavia, dove sono nato. Cominciammo subito a pieno ritmo: tutte le mattine, domenica esclusa, alle dieci in punto eravamo pronti, appiccicati a mixer, monitor, computer e strumenti, fino alle sette/otto di sera, orario continuato, niente soste. Panini, caffè, sigarette, tutto sempre lì. Poi me ne tornavo a casa (la sua abitazione/studio era a Gaggiano) e il mattino dopo si ricominciava. All’inizio è stato un po’ un trauma, per chi è abituato a locali, serate, orari assurdi e molto elastici, è stato come piombare in una catena di montaggio, ma non considero buttata una sola ora di quel periodo perché ho imparato tutto quello che non sapevo sulla discografia, in tutti i sensi, da imbastire una sequenza a realizzare un disco intero, dai problemi prettamente amministrativi e gestionali fino alla stampa dei vinili (che bello quando andavamo a farceli pressare di persona!). Nel 1989 iniziammo a lavorare con Fabio Cozzi, un DJ di Legnano col quale cominciammo molti progetti che poi hanno avuto vite anche piuttosto lunghe. Non a caso, Neverland fu firmato pure da Fabio e da Marco (Biondi). Quando ampliammo il team il ritmo produttivo non cambiò, anzi subì un incremento. Ricordo settimane intere senza dormire (letteralmente) perché oltre a tutto questo io facevo serate, tournée e quant’altro. Mi ha fatto piacere ma nello stesso tempo mi ha molto emozionato riparlare di quel periodo, soprattutto ora che Tano non c’è più. Anche quando smettemmo di lavorare a stretto contatto e quotidianamente, mantenemmo un rapporto molto speciale, per me era una sorta di fratello maggiore, e pure quando passava molto tempo senza che ci vedessimo o sentissimo, al primo squillo di telefono sembrava fossero trascorsi appena cinque minuti dall’ultima chiacchierata. Tano è stato importantissimo per la mia esperienza, sia personale che professionale, ed ora ne sento molto la mancanza».

Su B4 i Mato Grosso pubblicano l’album (“2016”, che contiene anche “Jungle”, scandito da un vocal sample preso da “Get Hip To This!” di M-D-Emm Featuring Nasih) e tutti i successivi singoli, conoscendo la massima notorietà tra 1994 e 1995 con “Pyramid”, “Moai” e il citato “Stonehenge” anticipati da “Mistery”, il cui titolo preannunciava la tematica dedicata ai misteri architettonici del mondo. (Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata