La discollezione di Simona Faraone

01 - Faraone discollezione
Parte della collezione di dischi di Simona Faraone

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo lo acquistai nel 1979 ed era la stampa americana, su Casablanca, del 12″ di “No More Tears (Enough Is Enough)” di Barbra Streisand e Donna Summer recante la dicitura “this is a 12-inch single” prima del titolo, sulla copertina. Si trattava di un single sided, inciso solo sul lato a. All’epoca fu una vera hit in cui la Summer duettava con la Streisand, ed era la stessa versione estesa di ben 11:40 che compariva in “Greatest Hits – On The Radio Volumes 1 & 2” di Donna Summer e in “Wet” di Barbra Streisand ma in versione editata di 8:19. Ero una fan della Streisand che seguivo sia come cantante che come attrice, e con questo disco iniziai la mia prima piccola collezione, costituita soprattutto da LP del genere pop/musica leggera anche di artisti italiani (Loredana Bertè, Stadio, Matia Bazar, Mina) a cui si aggiungeva qualche album disco prodotto in Italia o negli Stati Uniti tipo “Kano” e “New York Cake” dei Kano, pubblicati su Full Time Records che acquistai praticamente appena usciti da Goody Music, il negozio del produttore discografico Claudio Donato. Quando iniziai a fare la speaker in una radio locale divenni una cliente fissa di Goody Music (di cui parliamo in Decadance Extra, nda). Ero completamente immersa nel funk, nel soul e nell’r&b dei primissimi anni Ottanta, generi di cui quel negozio era molto ben fornito. A seguire iniziai ad orientarmi verso rap ed hip hop che esplodevano in quegli anni e di cui Goody Music divenne un importante riferimento a Roma.

L’ultimo invece?
“Visitors From The Galaxy Revisited”, un doppio LP coi remix della bellissima colonna sonora di Tomislav Simović realizzata per il cult movie sci-fi del 1981 diretto dal regista yugoslavo Dušan Vukotić. In realtà il disco è uscito nel 2021 sulla Fox & His Friends ma io sono riuscita a recuperarlo solo due mesi fa nel negozio Oblique Strategies // Utopie Musicali di Roma che aveva ancora delle copie a disposizione. Lo considero un piccolo capolavoro di musica acid house, electro, techno, leftfield ed abstract, sonorità alle quali mi sono recentemente riavvicinata attraverso i miei DJ set. La componente sci-fi e l’ispirazione alla Galassia Arcana, tra le suggestioni del progetto 291outer Space pubblicato nel 2018 sulla mia label New Interplanetary Melodies, non potevano non attirare il mio interesse. La compilation, curata da Leri Ahel e Zeljko Luketic (intervistati qui, nda) include anche parti della soundtrack originale ancora inedite e rivisitate dai dieci artisti coinvolti tra i quali Drvg Cvltvre, Ali Renault, Repeated Viewing, Anatolian Weapons, Credit 00 e il capitolino Heinrich Dressel.

Quanti dischi raccoglie la tua collezione?
Non mi definisco una collezionista nel senso canonico del termine ma un’appassionata di musica e, come tutti i DJ che hanno iniziato negli anni Ottanta, ho negli scaffali dischi di vari generi. La mia non è una collezione imponente, ad oggi buona parte dei dischi trance, progressive e techno degli anni Novanta e di altri generi li ho messi in vendita su Discogs tramite il canale del mio compagno, più bravo di me a gestire queste cose. Ovviamente quelli a cui tengo di più sono ancora qui, ma è stato necessario fare spazio in casa dopo una serie di traslochi avvenuti negli ultimi anni, soprattutto da quando sono tornata a vivere a Firenze. Oltre alla mia raccolta infatti, ci sono pure i dischi del mio compagno, Marco Celeri di Roots Underground Records, anche lui DJ. Al momento avrò circa 4000 dischi. Nell’ultimo biennio ho rallentato un po’ con l’acquisto di nuovi prodotti dovendo scegliere su cosa investire. Essendo sempre più impegnata nella produzione discografica con la mia etichetta con cui sto cercando di sviluppare un catalogo di spessore con stampe anche piuttosto costose, i miei sforzi economici sono rivolti tutti in quella direzione. Il supporto alla musica indipendente rimane comunque costante, la piattaforma a cui faccio riferimento è Bandcamp dove acquisto le versioni digitali di tutto ciò che ritengo interessante. Quando posso, ovviamente, compro anche dischi in vinile. Il mio negozio di fiducia è il Music Box di Perugia a cui se ne aggiungono altri sparsi in Italia.

02 - Faraone discollezione
Un altro frammento della raccolta della Faraone sistemato in un modulo Kallax

Come è organizzata? Usi un metodo per indicizzarla?
Non c’è mai stato un criterio univoco che sono riuscita a mantenere nel tempo. All’inizio mi basavo sulla cronologia di acquisto ma poi fu necessario suddividerli per generi musicali e per etichette, soprattutto nel periodo in cui la mia attività da DJ divenne più intensa e buona parte di essi transitavano di continuo dagli scaffali ai flight case. Adesso, dopo i vari traslochi a cui facevo prima riferimento, li ho divisi a zone, distribuendoli in vari moduli Kallax da quattro e da otto e in una libreria, tutti dislocati in casa, tra corridoio, soggiorno e studio dove c’è la parte più consistente. Una sezione apposita è occupata invece dalle ristampe degli album di Sun Ra, con cofanetti ed edizioni speciali, ed è una raccolta in continuo aggiornamento. La mia collezione di musica comprende anche una discreta sezione in CD, soprattutto di genere jazz oltre che di elettronica. Tra gli altri, ho una bella selezione (su vinile e CD) della discografia della Irma Records e l’opera completa in CD de “La Grande Storia Del Jazz” edita da De Agostini coi relativi fascicoli allegati. Il compact disc è un supporto che non disdegno affatto, non sono radicale come altri seppur resti una profonda sostenitrice della musica incisa sui microsolchi del vinile. Quando devo acquistare un album che mi piace molto e c’è anche la versione in CD, non ci penso due volte a prenderlo. Possiedo anche diversi libri di musica e l’opera enciclopedica della UTET “Storia Della Musica”. Fino a poco tempo fa, accanto alla collezione di dischi e CD, c’era anche una poderosa raccolta di videocassette VHS e DVD, libri ed opere specializzate in cinema, essendo un’appassionata. Anche in questo caso, per fare spazio in casa, sono stata costretta a ridimensionarla limitandola ai pezzi più importanti.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ho sempre cercato di avere cura dei miei dischi ma non in modo maniacale. Alcuni si sono conservati meglio di altri. Le copertine plastificate le utilizzo solo per alcuni, principalmente gli album.

Hai mai subito il furto di un disco?
Ho due aneddoti a riguardo. Nell’autunno del 1990 ebbi una breve residenza al Luxuria (ex Le Stelle) di Roma, e siccome suonavo quasi tutte le sere, lasciavo il mio flight case sotto la consolle. L’errore fu non chiuderlo a chiave. Uno dei DJ della domenica pomeriggio pensò bene di dare un’occhiata alla mia valigetta e trafugò la copia di “Dance” di Earth People su Underworld Records, una bella produzione di Pal Joey che all’epoca infiammava i dancefloor. Me ne accorsi immediatamente il giorno successivo perché i dischi nella valigetta erano messi in un ordine ben preciso che verificavo ogni volta prima di iniziare la serata, non era una scaletta ma piuttosto una suddivisione in base ai generi musicali. Lo riferii alla direzione del locale e qualcuno, non ricordo esattamente chi, recuperò presto il disco mancante. Il giovane DJ che se ne era impossessato aveva pensato bene di oscurare anche il centrino con un adesivo che poi sono riuscita a rimuovere, fortunatamente senza troppi danni. Il secondo episodio avvenne durante il mese precedente nello stesso anno, il 1990, quando venni invitata al Coliseum di Mantova in occasione di una serata promozionale col produttore Albert One col quale avevo collaborato durante la stagione estiva al Country Club di Siziano, in provincia di Pavia, dove ero stata resident sotto la sua direzione artistica. Avevo acquistato dei dischi nuovi appositamente per la serata e prima di andare al locale passammo in albergo per lasciare i bagagli col mio fidanzato dell’epoca. Eravamo con la sua auto e purtroppo la serratura del bagagliaio, in cui avevo lasciato per l’appunto i miei flight case, era un po’ difettosa e non chiudeva perfettamente. Quando uscimmo dall’hotel trovammo il baule aperto: la busta dei dischi appena comprati era sparita. Per fortuna non rubarono le due valigette in metallo, probabilmente troppo pesanti ed ingombranti per la fuga.

03 - Faraone discollezione
Alcuni LP di Sun Ra della collezione di Simona Faraone

C’è un disco a cui tieni di più?
Non uno in particolare bensì artisti di cui amo seguire tutta la loro discografia: Sun Ra, Pharoah Sanders, Herbie Hancock, Donald Byrd, George Duke, Archie Shepp, Billy Cobham, Lonnie Liston Smith, Flora Purim, i Funkadelic di George Clinton e tutte le cose uscite sulla Black Fire partendo dagli Oneness Of Juju.

Quello che ti sei pentita di aver comprato?
Sono tanti i dischi che nel tempo non mi sono più piaciuti, soprattutto quelli che furono acquistati in funzione di una determinata serata e che poi non ho più proposto. Molti li ho già venduti o regalati, ma credo sia una cosa normale che capiti a tutti i DJ, soprattutto nei primi anni di attività. Io inoltre ho lavorato in due negozi di dischi a Roma, Goody Music e Discoland: tra le mani mi passava un mucchio di musica e la tentazione di acquistare tutto o quasi era davvero troppo forte.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposta a spendere una somma importante?
Ovviamente alcune stampe originali dei primi album di Sun Ra appartenenti al variegato catalogo della El Saturn Records. In particolare un album del 1985, “Children Of The Sun”, che ritengo uno dei più rappresentativi della filosofia cosmica di Sun Ra e di cui mi piace moltissimo anche la copertina sulla quale campeggia il disegno elementare di un sole composto dal suo nome e dal titolo dell’album stesso, come era nello stile dell’etichetta, tra l’altro ancora attualissimo. In “Children Of The Sun” in realtà figurano brani precedentemente pubblicati in un altro album del 1983, “Ra To The Rescue”, alcuni con titoli diversi. Attualmente su Discogs ci sono solo quattro copie disponibili di “Ra To The Rescue” di cui una di un seller italiano che la vende a poco meno di mille euro. Pure in questo caso la cover originale fu disegnata a mano dallo stesso Sun Ra. Di “Children Of The Sun” invece esiste una versione ancora più rara dal titolo “When Spaceships Appear” edita dalla Saturn Research, con la stessa tracklist ma con copertina e disegni completamente diversi. Nel momento in cui viene pubblicata questa intervista su Discogs non c’è nessuna copia in vendita.

Quello con la copertina più bella?
Nella mia collezione ce ne sono diverse ma dovendo scegliere ne cito due. La prima è quella di “Cosmic Vortex (Justice Divine)” di Weldon Irvine (1974) disegnata da Dennis Pohl, pittore ed artista visuale statunitense che negli anni Settanta realizzò diversi artwork per dischi rock e jazz. Di “Cosmic Vortex (Justice Divine)” mi piace lo stile visionario e carico di simboli che rimandano ad un certo tipo di cosmogonia dalla quale mi sento molto attratta. La seconda invece è quella di “Bitches Brew” di Miles Davis (1970) illustrata da Mati Klarwein, pittore mistico newyorkese di origini ebraico-tedesche scomparso nel 2002 e di cui sono una grande fan. Klarwein rappresentò perfettamente le intenzioni di questo album “totale” di Davis ovvero la riconciliazione tra la musica jazz e il funk, proprie della cultura afroamericana, e il rock riferito alla cultura dei bianchi. In ogni caso si tratta di un disco rivoluzionario sia nella musica che nella copertina. Lo stesso Klarwein esprimeva nelle sue opere la necessità di abbattere le barriere tra cultura ebraica e musulmana e modificò il suo nome in Abdul Mati Klarwein.

04 - Faraone discollezione
Un’altra sezione della discollezione di Simona Faraone

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato a praticare il DJing?
Come anticipato prima, il negozio in cui iniziai a sviluppare la mia attitudine al DJing fu Goody Music, storico riferimento per i DJ romani sin dalla fine degli anni Settanta e in cui lavorai come commessa nei primi anni Novanta. Ritengo che lavorare in un negozio di dischi sia un’esperienza molto formativa e sono contenta di averla fatta. In quel periodo a Roma c’erano diversi negozi specializzati in house e techno, come MixUp, ReMix e Trax, giusto per citare i più noti. Quando mi trasferii a Firenze, nel 1994, divenni subito cliente di un altro storico negozio, Disco Mastelloni di Roberto Bianchi, scomparso alcuni anni fa (ed intervistato nel libro Decadance Extra, nda) al quale, con alcuni DJ toscani, abbiamo dedicato alcuni eventi in tributo alla sua storia. Un altro riferimento per i miei acquisti negli anni Novanta fu il negozio di Piero Zeta a Faenza (Mixopiù, di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra, nda). Piero poi mi coinvolse in un progetto legato ad alcune etichette dell’American Records di Bob One (“DJ’s United Grooves”, di cui parliamo qui, nda). I negozi di dischi sono luoghi importanti per tenere viva la cultura della musica su supporto fisico (vinile, CD). Per i DJ ritrovarsi in quei posti, in quegli anni così emblematici per la nascita di generi musicali che hanno dato luogo ad una vera svolta nel mercato della musica dance in senso ampio, era decisamente fondamentale, faceva parte dell’attività stessa dei DJ. Oggi, tramite internet, abbiamo la possibilità di accedere all’acquisto di dischi che non sempre sono reperibili sul territorio in cui si vive, e questo è un bene ma nel contempo ha generato un certo distacco dal contatto fisico con gli scaffali dei negozi. Il digging fatto sul posto, insomma, non è la stessa cosa se fatto in Rete seppur alla fine la sostanza non cambia perché se riesci a trovare un bel disco sei felice comunque. Riconosco che la mia rimanga una visione un po’ romantica.

Quali erano gli artisti che seguivi maggiormente prima dell’avvento di house e techno?
Negli anni Ottanta i miei riferimenti erano nomi come Prince And The Revolution, Morris Day, Sheila E., Wendy & Lisa, The Time e tutta la scena del cosiddetto funk di Minneapolis che fondeva elementi funk e rock col synth pop e la new wave, tornati recentemente di grande attualità. Allo stesso tempo, soprattutto nel periodo in cui lavoravo come conduttrice radiofonica, ero immersa nel raffinato r&b di Alexander O’Neal, Luther Vandross, Kashif e James Ingram. A dare una svolta importante a quella scena fu il leggendario produttore Quincy Jones col suo album “The Dude” del 1981 e coi tre album prodotti per una superstar come Michael Jackson (“Off The Wall”, il mio preferito, “Thriller” e “Bad”). Ammetto di essere stata anche una grande fan di Madonna fin dai suoi esordi. Ho quasi tutto quello che ha pubblicato fino ai primi anni Duemila, incluso lo scandaloso libro “Sex” prodotto col fotografo Steven Meisel e l’art director Fabien Baron. Oggi non la seguo più ma all’epoca, come altre teenager della mia generazione, rimasi molto colpita dalla sua personalità e dal suo coraggio. L’album che preferisco del suo repertorio è l’eponimo “Madonna” del 1983, di cui possiedo anche la ristampa del 1985 quando venne reintitolato in “The First Album”. Mi piacevano tanto anche Cindy Lauper e Sheena Easton. Nel settore più “dance” apprezzavo moltissimo l’etichetta Prelude Records che ebbe il merito di dare una svolta alla disco music nei primi anni Ottanta con un suono peculiare (Sharon Redd, The Strikers, D-Train, Gayle Adams, Unlimited Touch) anzi, alcune produzioni potrebbero essere considerate quasi proto house. Possiedo diversi dischi di questa storica label che suono tuttora.

05 - Faraone discollezione
Altri dischi della raccolta della Faraone collocati in un modulo Kallax

La nascita di generi come house, techno e gli innumerevoli derivati ha spalancato le porte di un mercato discografico redditizio che, per un quindicennio circa, ha sostenuto un intero comparto, dal mainstream alle frange più settoriali con le debite proporzioni. Con l’arrivo del nuovo millennio però i numeri si sono progressivamente ridotti, provocando una moria generalizzata di etichette indipendenti. Che fine ha fatto l’esercito di acquirenti che un tempo supportava il cosiddetto “disco mix”? Possibile che quasi tutti si siano convertiti ai formati liquidi? O forse, ad un certo punto, è mancato il ricambio generazionale di chi comprava assiduamente musica elettronica (soprattutto quella da ballo) solcata su 12″?
In Italia paghiamo lo scotto del passaggio alle tecnologie digitali che, all’inizio degli anni Duemila, ha causato la notevole riduzione della stampa dei dischi in vinile. La clientela un tempo interessata ad acquistare dischi è progressivamente diminuita. Diversi negozi non ce l’hanno fatta a sopravvivere ed hanno chiuso i battenti, altri si sono reinventati seller su Discogs lavorando soprattutto col mercato dell’usato, altri ancora battono prevalentemente il terreno delle fiere. Forse l’Italia è il Paese che ha il numero minore di negozi di dischi rispetto ad altri Paesi europei come Germania, Regno Unito o Paesi Bassi dove sono ancora attivissimi ed alcuni dei quali dettano i trend del mercato. Il problema, tuttavia, è anche generazionale. Oggi i cosiddetti millennials sono più attratti da generi musicali di rapido consumo come la trap, che a suo modo è un filone interattivo, ma ormai anche la musica è finita in mano agli influencer che riescono a condizionare le scelte degli artisti da seguire. Le nuove generazioni sono fortemente condizionate dalla macchina di propaganda della Rete. Un esempio è offerto dai Måneskin che dovrebbero rappresentare le nuove frontiere del rock e le cui virtù (con pochi meriti in realtà, rispetto ad altre band meno note di loro coetanei) vengono gonfiate ad uso e consumo del “sistema” stesso che li indica come esempi da seguire per orientare scelte anche di altro tipo e che ridisegna questa generazione secondo un canone preciso. Proprio il contrario di quello che il rock degli albori aveva fatto. In relazione al vinile, in questi ultimi anni c’è stata una riscoperta da parte delle nuove generazioni ma si tratta comunque di una minoranza. Le major hanno ripreso a stampare dischi, monopolizzando le poche pressing plant rimaste in attività e rendendo la vita sempre più difficile alle piccole etichette indipendenti che invece investono realmente energie e denaro per promuovere gli artisti e le nuove scene musicali, senza speculazioni. Non so se tutto questo potrà avere un futuro sereno nei prossimi decenni.

In un’intervista che ti feci molti anni fa, confluita nel libro Decadance Appendix, dichiarasti che, «l’unico movimento musicale italiano davvero significativo, dopo l’afro-cosmic di fine anni Settanta/inizio Ottanta, fu quello progressive toscano dei primi anni Novanta, nato con la denominazione “The Sound Of Tirreno”. Quello che veniva proposto all’Imperiale da Miki, Farfa e Roby J era un vero viaggio ipnotico-sonoro attraverso le più svariate contaminazioni musicali influenzate soprattutto dalla scena elettronica francese (Jean-Michel Jarre, gli Space di Didier Marouani, Alec R. Costandinos -sebbene egiziano di nascita-, Charlie Mike Sierra, Arpadys, Black Devil) ma anche dalla psichedelia, dall’house ruvida di Chicago nelle sfumature acid, da reminiscenze italo disco (“The Visitors” di Gino Soccio, ad esempio, era un cult) e da continui rimandi alla synth disco di Moroder. A ciò, ovviamente, si sommavano le nuove sonorità europee che, attraverso memorabili etichette, stavano allineandosi ad un sound innovativo che non era più molto legato alla techno dei primi Novanta, ma più fluido e in continua progressione. Per questo si decise di identificarlo, in Italia, come progressive». Se ti chiedessi di riassumere, in cinque dischi, l’essenza del cosiddetto “The Sound Of Tirreno”, quali menzioneresti e perché?
1) Major Ipnotic Key Institute “The Sound Of Tirreno” (Major Ipnotic Key Institute, 1993)
Major Ipnotic Key Institute era il moniker artistico con cui il DJ Miki The Dolphin lanciò l’omonima etichetta fortemente identitaria. Miki è considerato l’autentico mentore del movimento progressive che nacque storicamente al Club Imperiale di Tirrenia dove era resident insieme a Francesco Farfa e Roby J coi quali aveva costituito una triade illuminata. I titoli delle due tracce incise su questo disco sono semplicemente emblematici, “The Sound Of Tirreno” e “Renaissance In Florence”;
2) Hysteria “Love Nature” (P&P, 1994)
La P&P era una sublabel della New Music International di Pippo Landro (intervistato qui, nda) e in questo EP aveva messo insieme alcuni dei protagonisti del cosiddetto “Sound Of Tirreno”, con quattro versioni della title track curate da Miki, Francesco Farfa, Joy Kitikonti, Riccardino, Jay, Simone Pancani e Vanni. In realtà Hysteria era un progetto del DJ/producer veneto Marco Cordi e “Love Nature” era stato già pubblicato con discreto successo nel 1991 proprio su etichetta New Music International ma fu coi quattro remix prima descritti che questo brano entrò nelle hit della progressive, in particolar modo con le versioni curate da Miki, Francesco Farfa e Joy Kitikonti. Una delle “tracce climax” nei leggendari set di Farfa era la Joy & Kaya Remix ed altrettanto memorabile la “Miki” P.O.V.;
3) DJ Miki “Templares” (Interactive Test, 1993)
Produzione di Miki affiancato da Franco Falsini (intervistato qui, nda), mente vulcanica e fondatore della pionieristica etichetta fiorentina Interactive Test senza la quale non sarebbe nato il movimento progressive per come lo abbiamo conosciuto. Due le tracce, “Children Inside” e “Templares”;
4) Open Spaces “Open Spaces” (Interactive Test, 1991)
Conobbi Franco Falsini nel 1991 quando partecipò al rave romano Stop The Racism, a cui partecipò anche Adamski (intervistato qui, nda). Falsini si esibiva con un progetto live dal nome piuttosto evocativo, Open Spaces per l’appunto, che aveva fondato con suo fratello Riccardo alias Rick 8 e in cui c’era una forte componente visuale curata da Elisabetta Brizzi, sua storica compagna. All’epoca non sapevo ancora nulla sulla sua precedente storia di musicista con la formazione prog rock Sensations’ Fix di cui poi ho acquistato alcuni album. Di questo 12″ segnalo la traccia che chiudeva il lato b, “WorldBit Generation”, forse un omaggio al famoso rave che si svolse a Cafaggiolo, nel Mugello, nel 1990, il World Beat Dance in cui Franco e Riccardo furono tra i protagonisti. Considero Interactive Test una label seminale per la scena progressive toscana e Falsini un autentico mito vivente. Le prime produzioni tra cui questo disco (recentemente ristampato da La Bella Di Notte, nda) per me rappresentano l’anello di congiungimento tra il primo periodo house-techno che vissi a Roma e il movimento toscano nel quale transitai dal 1993/1994 sino al 1998;
5) Farfability “Farf – Ability” (Interactive Test, 1992)
È il disco con cui conobbi Francesco Farfa (intervistato qui, nda) e lo considero emblematico dello stile unico dei suoi DJ set visionari, quel “Farfa Sound” che poi divenne il suo marchio distintivo. La produzione fu costruita insieme al partner di studio di quegli anni, Joy Kitikonti (intervistato qui, nda) e raccoglieva due tracce, “Don’t Mess With The Kids” e “The Narrator Device”, sintesi perfetta della sua tecnica di missaggio e del suo gusto musicale. Un disco che va suonato dal primo all’ultimo solco.

Non hai mai investito molte energie sul fronte della discografia personale perché, come spiegasti qui nel 2018, alla composizione hai anteposto la ricerca musicale e la selezione di dischi. In quell’occasione rimarcasti anche una verità legata alla consacrazione della figura del “DJ protagonista” degli anni Novanta che, per completare la propria dimensione artistica e professionale, ricorreva per l’appunto alla produzione di musica a proprio nome ma molto spesso senza alcuna capacità. «Tanti DJ si legarono a filo stretto con partner di studio che poi erano i veri esecutori materiali dei loro progetti discografici» dicesti. Oggi alcuni vantano corpose discografie di cui però rammentano poco e nulla perché, a detta di chi operava realmente negli studi di registrazione, erano capaci a malapena di accendere un computer o un sintetizzatore. Questo tipo di approccio alla musica ha forse “drogato” il mercato, mettendo sullo stesso piano chi aveva diritto ad essere annoverato tra i compositori e chi invece metteva il proprio nome sulla copertina solo in virtù della popolarità acquisita in discoteca o in radio?
Credo che un mercato sano debba rimanere tale e quindi alimentarsi con le produzioni di artisti di talento ed investimenti da parte di etichette consapevoli. Ogni forma di speculazione in una direzione o nell’altra non trova il mio appoggio. Purtroppo le regole del mercato non le faccio io o le persone che la pensano come me. Alla fine comunque paga la perseveranza e i giusti meriti vengono sempre riconosciuti.

06 - Faraone discollezione
Alcune uscite della New Interplanetary Melodies

Hai convogliato poche risorse nell’attività da compositrice ma ben diverso è il discorso relativo al ruolo di produttore esecutivo dietro l’etichetta New Interplanetary Melodies, fondata nel 2016 e di cui abbiamo parlato in più di qualche occasione. All’attivo ha diversi 12″, doppi mix abbinati anche a fumetti, un paio di CD e persino una cassetta racchiusa in un sacchetto di juta contenente semi (veri!) di basilico limone, «”arma” usata per inverdire aree dove la vegetazione è stata compromessa» come recita testualmente il messaggio stampato sull’allegato. Cosa significa oggi tenere in vita un’etichetta discografica come la tua? Quali sono le ragioni che ti persuadono a proseguire il cammino? Fin dove ti spingerai in futuro?
Quando ho dato vita alla New Interplanetary Melodies, il cui catalogo è disponibile in formato fisico e digitale su Bandcamp, avevo una visione ben precisa che, a distanza di alcuni anni, sono contenta mi venga riconosciuta. Le “edizioni fonografiche dal mondo di domani”, citando ed omaggiando Sun Ra, sono tasselli di un unico percorso al quale stanno contribuendo artisti italiani straordinari dei quali vado molto orgogliosa. Come anticipavo qualche riga sopra, sto investendo tutte le mie risorse in questa direzione. Le ultime uscite del 2022 sono state “Foto” di Ennio Colaci (secondo CD dell’etichetta, dopo “Ambient Loops” di Massimo Amato pubblicato nel 2021) e la musicassetta “The Great Walk” di Gifted Culture Collective, un progetto cosmico-esoterico con influenze baleariche e jazz, frutto di registrazioni di live session di alcuni anni fa nello studio di MarcoAntonio Spaventi ad Amsterdam e da cui sono stati estratti “cinque funghetti” così come li ha definiti Christian Zingales nella recensione sul numero di luglio/agosto della rivista Blow Up. Le prossime uscite previste per il 2022 sono l’EP “Sacrificio” di Feel Fly, già brillantemente recensito da Zingales (intervistato qui, nda), l’album “Radamanto” di Strata-Gemma, progetto jazz-psichedelico-elettronico di Niccolò Bruni aka Billy Bogus della Pizzico Records, e l’EP “Spiritual Safari” di Angelo Sindaco coi featuring di Abyssy (moniker di Mayo Soulomon, artista già apparso sulla label), Marcela Dias e Stromboli. Nel 2023 pubblicherò l’album “La Molecola Del Tempo” di MarcoAntonio Spaventi ed Eric Demuro, ideale colonna sonora di uno sci-fi movie il cui soggetto è stato scritto dallo stesso Demuro con Riccardo Agostini e che si inserisce perfettamente nella mission futuristica della label. Il pezzo forte arriverà nell’autunno 2023 con l’opera di tredici tracce in doppio vinile (LP + EP 12″) del citato Mayo Soulomon/Abyssy, a cui si sommeranno due bonus track in digitale. Soulomon tornerà dunque su New Interplanetary Melodies con un disco tutto suo, dopo averne avviato il catalogo nel 2016 con l’EP “Magnetic Archive” e l’EP “Two Scorpios” del 2017. Sarà un disco incredibile che metterà insieme i suoi lavori degli ultimi anni. A seguire ci sarà il ritorno degli 291outer Space capitanati da Luca “Presence” Carini ed Ivan Cibien con una parziale rinnovata formazione di musicisti che sveleranno il prequel della saga. La space-opera “Escape From The Arkana Galaxy” uscita nel 2018 è stata la vera hit della label, ad oggi sold out e stampata in cinquecento copie. C’è grande attesa quindi per il prequel. La saga si completerà in futuro con un terzo disco, il sequel, conclusivo della storia. Posso anticipare infine che in cantiere c’è pure un ambizioso progetto con la cantante NicoNote che ha partecipato al secondo volume di “Kimera Mendax” con “Orizzonti Perfetti”. Per la pubblicazione però bisognerà attendere il 2024.

Anni fa mi raccontarono di un DJ che, blindato dal ruolo primario ricoperto per un noto locale, indicava ai colleghi che lavoravano nella stessa discoteca, prima dell’inizio di ogni serata, i pezzi da non inserire nel proprio programma perché li avrebbe messi lui. A te è mai capitato di dover sottostare ad angherie di questo genere?
Non mi è mai capitato e sinceramente lo trovo poco simpatico ma so che, soprattutto in ambito mainstream, è una pratica piuttosto frequente. Denota poca sicurezza da parte di chi esercita questo genere di ingerenze oppure arroganza e monopolizzazione di un certo tipo di musica. Tante lineup vengono concepite con questa logica, specie nei festival o nelle programmazioni di alcuni superclub: certi brani devono essere suonati solo da certi DJ e tutto questo per rimanere nell’Olimpo dei top DJ. Alcuni disc jockey vengono automaticamente esclusi per non incorrere in tale rischio. Per fortuna oggi, nelle mie rare esibizioni in consolle, non devo tenere conto di certe dinamiche ma anche in passato, quando ero in auge nel periodo d’oro degli anni Novanta, ho sempre suonato quello che volevo, a modo mio e secondo la mia sensibilità. Nel contempo però non trovo giusto l’approccio di quei DJ che cercano di imitare palesemente il gusto e lo stile di altri particolarmente bravi e famosi, scopiazzando le playlist e mimandone persino le movenze in consolle.

Qual è il disco che hai usato più spesso per recuperare un momento d’impasse della pista?
Non ho mai avuto un disco riempipista ricorrente, ho sempre amato sfidare il dancefloor proponendo brani spesso difficili. Ottenere risultati in questo modo dà più soddisfazione. In altri casi non sono stata compresa ma va bene lo stesso.

Lo scorso 6 aprile, a Francoforte sul Meno, ha aperto i battenti il MOMEM – Museum Of Modern Electronic Music. Credi che in Italia possa mai nascere un progetto analogo capace di conferire autorevolezza e dignità culturale alla musica elettronica, visto con sospetti e pregiudizi mai sfatati da tempo immemore?
Questa domanda meriterebbe un lungo approfondimento. Tutto ciò che altrove, in Europa, risulta fattibile, qui in Italia diventa, al contrario, molto complicato e i fattori sono molteplici. Il periodo storico-politico che stiamo attraversando non è dei più semplici, il futuro dipenderà da come cambieranno le cose, se cambieranno. Ci sono alcuni lodevoli tentativi promossi da festival che si avvalgono di strutture importanti, ma bisogna ricominciare dalla base. Si tratta di un fattore culturale e, nonostante ci siano stati ottimi esempi in passato, c’è ancora molto da fare e su cui lavorare.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legata spiegandone le motivazioni.

Archie Shepp - A Sea Of FacesArchie Shepp – A Sea Of Faces
Album registrato negli studi milanesi della Phonogram nel 1975, “A Sea Of Faces” fu la seconda uscita di una coraggiosa etichetta italiana, la Black Saint fondata da Giacomo Pellicciotti e specializzata in avant-garde e free jazz. Adoro questo disco per il brano “Hipnosis”, che occupa per intero tutto il lato a per ventisei interminabili minuti, e per la bellissima “Song For Mozambique / Poem: A Sea Of Faces” che invece apre il lato b.

Sun Ra And His Arkestra Featuring Pharoah Sanders Featuring Black Harold - LiveSun Ra And His Arkestra Featuring Pharoah Sanders Featuring Black Harold – Live
Un raro episodio di featuring su un disco di Sun Ra e la sua Arkestra che possiamo eccezionalmente ascoltare in un’esibizione live alla Judson Hall risalente al 1964 con colui che, in seguito, divenne un altro mostro sacro del free e spiritual jazz, Pharoah Sanders, affiancato da Black Harold. Uscita unica nella discografia della El Saturn Records che lo pubblicò originariamente nel 1976, per i fan di Sun Ra, come me, è stato un vero colpo poter trovare questo disco in ristampa nel 2017, sulla Superior Viaduct di San Francisco. Lo acquistai in un negozio di Padova, alcuni anni fa, il giorno dopo aver partecipato come DJ ad una serata dedicata proprio a Sun Ra in cui suonai diversi pezzi della sua discografia. Diciamo quindi che il disco era lì ed aspettava che lo prendessi. All’interno della copertina c’è un inserto con note critiche e storiche a cura di John Corbett.

Herbie Hancock - MwandishiHerbie Hancock – Mwandishi
Dopo Sun Ra e Pharoah Sanders, Herbie Hancock è l’artista di cui colleziono più dischi. Questo LP del 1971, in particolare, è uno dei migliori esempi di free spiritual jazz e fusion che suona ancora molto attuale e che segna una svolta nella discografia di Hancock che, in seguito, ha sperimentato molte altre formidabili contaminazioni diventando, di fatto, uno dei musicisti più eclettici della scena jazz americana. Il brano che suono più spesso è “Ostinato (Suite For Angela)” che apre il lato a. “Mwandishi” è il nome swahili che Hancock si era dato in quel periodo e la scelta fu condivisa anche dal sestetto di musicisti che lo affiancò in studio ognuno dei quali, a sua volta, adottò altri nomi nella medesima lingua. Un disco fortemente identitario che ribadisce le origini africane dell’artista nella cosiddetta swahili coast.

Devadip Carlos Santana & Turiya Alice Coltrane - IlluminationsDevadip Carlos Santana & Turiya Alice Coltrane – Illuminations
Un album del 1974 parecchio mistico nato dalla collaborazione tra l’inedita coppia formata da Carlos Santana ed Alice Coltrane accompagnati dai loro nomi in sanscrito, rispettivamente Devadip e Turiya. Acquistai “Illuminations” ad una fiera del disco alcuni anni fa. Bellissima anche la copertina, illustrata da Michael Wood.

Mtume Umoja Ensemble - Alkebu-Lan - Land Of The Blacks (Live At The East)Mtume Umoja Ensemble – Alkebu-Lan – Land Of The Blacks (Live At The East)
Un LP risalente al 1972 abbastanza raro da reperire attraverso la stampa originale sulla Strata-East. Io presi una ristampa giunta sul mercato alcuni anni fa (ma pare non ufficiale, nda). Si tratta di un impressionante album-manifesto di speech/poetry della Mtume Umoja Ensemble rivolto ad una consapevole Black Nation.

The Pyramids - King Of KingsThe Pyramids – King Of Kings
“King Of Kings” uscì originariamente nel 1974 sulla Pyramid Records ma quella che possiedo io è la ristampa risalente al 2012 sulla tedesca Disko B, peraltro ben quotata su Discogs. Idris Ackamoor, che recentemente ha pubblicato tre ottimi album sulla britannica Strut, nel 1973 costituì un eccezionale ensemble, i Pyramids, che uscirono allo scoperto con tre LP sull’omonima label, “Lalibela”, “King Of Kings” e “Birth / Speed / Merging”. Un disco di grande potenza evocativa, un capolavoro di jazz spirituale. I Pyramids erano musicisti in stato di grazia, fortemente ispirati anche dal luogo in cui registrarono l’album, non distante da un sito di tumuli funerari di nativi americani.

Sun Ra - The Heliocentric Worlds Of Sun Ra 1-2Sun Ra – The Heliocentric Worlds Of Sun Ra, Vol. 1/2
Sun Ra spinge i musicisti della Solar Arkestra oltre le regole dell’esecuzione classica, verso il caos cosmico, e questi due volumi, usciti rispettivamente nel 1965 e nel 1966, sono il passaggio ad uno stile più radicale che caratterizzerà buona parte della sua produzione successiva, più orientata alla space age. Io ho le ristampe del 2009 su ESP Disk limitate alle mille copie.

Sun Ra - LanquiditySun Ra ‎- Lanquidity
Possedevo già l’album del 1978 ma quando lo scorso anno è stato pubblicato il cofanetto comprendente quattro dischi, il booklet illustrato e le versioni alternative di Bob Blank mai uscite prima, non potevo esimermi dal prenderlo. L’album è stato completamente rimasterizzato in alta qualità e tutti i brani sono stati solcati a 45 rpm per una resa migliore. La versione estesa di “That’s How I Feel” è la mia preferita. “Lanquidity” resta uno degli album più belli e sofisticati di Sun Ra.

Pharoah Sanders - PharoahPharoah Sanders ‎- Pharoah
Trattasi di un LP molto ben quotato e ricercato di Pharoah Sanders, pubblicato dalla India Navigation nel 1977. Io però ho la ristampa non ufficiale del 2008. Un disco meraviglioso e “Love Will Find A Way” è la più bella canzone d’amore di sempre.


(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

DWA, un faro per l’eurodance

Tra l’italo disco degli anni Ottanta e l’eurodance dei Novanta corre più di qualche analogia a partire dal formato canzone, passando per il modus operandi legato a turnisti e personaggi immagine, sino agli strabilianti risultati in termini di vendite. Uno di quelli che hanno creato un solido continuum tra le fogge stilistiche dei due decenni è Roberto Zanetti: nato a Massa, dopo aver militato tra le fila di alcune band come i Taxi (insieme a Zucchero) e i Santarosa, nel 1983 diventa un idolo dell’italo disco più romantica e malinconica nelle vesti di Savage realizzando ed interpretando successi internazionali, su tutti “Don’t Cry Tonight” con cui approda a Discoring dove viene annunciato come “una nuova firma della disco dance made in Italy”, ed “Only You”, ricamato su una placida delicatezza melodica da carillon.

Savage (198x)
Zanetti ai tempi in cui spopola come Savage

Spalleggiato da Severo Lombardoni della Discomagic, che dell’italo disco è stato uno dei principali traghettatori, Zanetti è un compositore a tutto tondo capace di scrivere, arrangiare ed interpretare i suoi brani, e questo lo differenzia da gran parte degli artisti che popolano l’italo disco (prima) e l’eurodance (poi), rivelatisi spesso un ibrido tra cantanti turnisti ben lontani dall’autonomia ed indipendenza compositiva e performer specializzati in lip-sync. Quando, alla fine degli anni Ottanta, l’house music fa scivolare ai margini della scena l’italo disco soppiantandola, un mondo si sgretola e il comparto dance nostrano, inizialmente disorientato, è da rifondare e ricostruire. Il musicista massese approccia al nuovo genere a partire dal 1988 attraverso vari dischi come “Me Gusta” e “Te Amo” di Raimunda Navarro, “Allalla” di Abel Kare e “The Party”, una cover-parodia dell’omonimo dei Kraze che firma Rubix, variante del Robyx in uso sin dal 1983 per siglare il lavoro da produttore. «In quel momento sentii l’esigenza di creare un mio sound ed ebbi la necessità di fondare un’etichetta personale per dare una precisa identità ai miei progetti» spiega in questo articolo del 2020. L’etichetta in questione è la DWA, acronimo di Dance World Attack, un ambizioso slogan che punta all’internazionalità ma senza tradire o rinnegare l’amor patrio che per alcuni invece, ai tempi, è quasi ingombrante perché apparente segno di provincialismo (il commercialmente ambito italian sounding sarebbe giunto solo molti anni più tardi). Il primo logo non lascia adito a dubbi, è inscritto nel tricolore nostrano, e lo spiccato senso di italianità si farà sentire presto anche attraverso la musica marchiata con tale sigla, foneticamente simile a quella della compagnia aerea statunitense TWA così come lo stesso Zanetti chiarisce nella videointervista del 21 marzo 2020 a cura de LoZio Peter.

Raimunda Navarro - No Lo Hago Por Dinero
Il 12″ d’esordio della DWA su cui si scorge il primo logo della label collocato nel tricolore nazionale

1989-1990, tempo di spaghetti house
A produrre il 12″ inaugurale della DWA nel cruciale 1989 è Zanetti sotto il citato pseudonimo Raimunda Navarro, coniato l’anno prima con “Me Gusta” destinato alla Out di Severo Lombardoni. “No Lo Hago Por Dinero” si sviluppa su una scansione ritmica simile a “Sueño Latino”, seppur qui manchi un sample indovinato come “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching, rimpiazzato dalla chitarra più latineggiante di Claudio Farina abbinata comunque ad una suadente voce femminile a ricordare quella di Carolina Damas. Uno dei remix giunti qualche mese più tardi fruga nel tipico campionario spaghetti house, tra pianate e sample carpiti a vecchie incisioni ed inchiodati ad un battente beat in 4/4. A firmarlo è Zanetti trincerato dietro Bob Howe («a quel tempo era di moda firmarsi con pseudonimi “internazionali” per apparire stranieri» rivela l’artista contattato per l’occasione). Titolo? The Paradise Remix, rimando più che chiaro al citato “Sueño Latino” trainato, per l’appunto, dall’estatica The Paradise Version lunga oltre dieci minuti.

Ice MC - Easy
“Easy” è il singolo di debutto di Ice MC

È sempre Zanetti nelle vesti di Howe a mettere le mani sui remix di “Easy”, singolo di debutto del ballerino/rapper britannico Ian Colin Campbell alias Ice MC che segue il filone del downbeat/hip hop con uno scampolo ritmico preso da “Paid In Full” di Eric B. & Rakim e ricami reggae sottolineati da un breve intervento vocale interpretato da Zanetti stesso. Sul lato b spazio a “Rock Your Body” tangente l’hip house. Il pezzo, pubblicato anche sulla lombardoniana Out e promosso da un videoclip, raccoglie un clamoroso successo in tutto il mondo a partire dalla Francia e conquista decine di licenze, inclusa quella sulla blasonata Cooltempo, ma passa inosservato in Italia. È il primo centro per la DWA che continua a scommettere sul filone dorato della house pianistica ma senza riuscire a sfondare come 49ers, FPI Project o Black Box. In rapida sequenza escono “House From The World” dei Meeting Place (Marco Bresciani e Davide Ruberto), “Face To Face” di Lovetrip, “Together” di Shade Of Love e “Polskie Beat” di Krymu, edificato sullo schema sampledelico di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. in una sorta di megamix/medley assemblato con lo strumento protagonista di quel periodo, il campionatore. L’ottima resa commerciale del downbeat in stile Milli Vanilli o Snap! adottato per Ice MC convince Zanetti a riprendere la cover di “Live Is Life” degli Opus a firma Stargo, già uscita nel 1985, per svilupparla in nuove versioni più adatte ai tempi. Al successo però torna con “Scream”, secondo singolo di Ice MC estratto dall’album “Cinema” che muove i passi su un’impalcatura melodica in stile “Profondo Rosso”. Le urla sono di una certa Vivianne (ossia Viviana Zanetti, sorella di Roberto che, come lui stesso dichiara, «lavora da sempre nell’ufficio della DWA ma è anche una brava cantante e la registravo spesso per voci o effetti»), gli inserti maschili di Zanetti mentre i cori di Alessia Aquilani alias Alexia Cooper, una giovane cantante della provincia di La Spezia destinata ad una rosea carriera. Giacomo De Simone gira un videoclip immerso in atmosfere tenebrose, a rimarcare l’impostazione sonora. “Cinema” è anche il titolo di un altro singolo estratto dall’LP in cui il rapper elenca, su una base filo house, una corposa lista di attori, da John Wayne ad Alain Delon, da Sean Penn a Robert De Niro passando per Charlie Chaplin, Chuck Norris, Charles Bronson, Sean Connery ed Arnold Schwarzenegger senza dimenticare diversi italiani come Marcello Mastroianni, Alberto Sordi e Sophia Loren. Questa volta il video, diretto ancora da De Simone, è ambientato (prevedibilmente) in una sala cinematografica.

L’album di Ice MC si muove bene soprattutto in Francia e in Polonia e produce “carburante” per mandare avanti l’attività. Zanetti è pronto a reinventarsi e rimettersi in gioco di volta in volta con nuovi nomi di fantasia come Pianonegro, pseudonimo con cui firma il brano omonimo, versione in slow motion della piano house virata downtempo che stuzzica parecchio il pubblico del Regno Unito. In coppia con Marco Bresciani poi realizza, in scia alla diffusione europea dell’hip house, “Typical” di Soul Boy a cui fa seguito un altro progetto one shot sempre condiviso con Bresciani, Soul Emotion, che col brano omonimo emula i bortolottiani 49ers. Da “Cinema” viene estratto un altro singolo, “Ok Corral!”, hip house in bolla country, mentre il pucciniano “Nessun Dorma” viene traslato da DFB Featuring Walter Barbaria su un reticolo che ammicca a “Sadeness Part I” degli Enigma di Michael Cretu. A leggere le note in copertina pare si trattasse di un disco registrato al Teatro Internazionale dalla Moscow Philharmonic Orchestra diretta da un certo Victor Bradley ma in realtà, come svela oggi Zanetti, tutti i nomi, l’orchestra e il teatro erano immaginari «a parte Barbaria che è un cantante lirico molto bravo». Ubicata tra reggae e downbeat è la cover di “No Woman No Cry” (in origine di Bob Marley & The Wailers) a firma Babyroots, ennesimo act messo su da Zanetti nel suo Casablanca Recording Studio col supporto vocale della turnista Aquilani. È sempre lui ad innestare canti africani su base house (“The Sound Of Afrika” di Humantronics), a campionare l’acapella di “Warehouse (Days Of Glory)” di New Deep Society per “Party Children” di Wareband che si muove ottimamente all’estero, e produrre “Freedom”, il singolo di debutto del congolese Bale Mondonga. Il brano, ripubblicato anche dalla Sugar ma senza particolari risultati, auspica un nuovo mondo con meno differenze sociali e più equità. A distanza di oltre un trentennio le speranze restano ancora le stesse.

Alexia Cooper - Boy
Una giovane Alessia Aquilani, poco più che ventenne, immortalata sulla copertina di “Boy” (Euroenergy, 1989)

1991-1992, alla ricerca di un’identità
Ice MC è già pronto col secondo album, “My World”, dedicato alla sorella Sandra e ceduto in licenza alla tedesca Polydor. La DWA pubblica una special limited edition con tre versioni remix (la 909 Heavy Mix, il Jump Swing Remix e il Work Remix) di un estratto, “Happy Weekend”. Aria di remix pure per la citata “Party Children” di Wareband e “Don’t Cry Tonight” del redivivo Savage, riarrangiata su base downbeat. Echi hip house si rincorrono in “Jumbo” di Tity B., scritta da Nathaniel Wright e prodotta da Leonardo Rosi alias Fairy Noise che a Zanetti affida, poco dopo, le cover di due classici della canzone italiana, “Senza Una Donna” (di Zucchero) ed “Albachiara” (di Vasco Rossi), entrambe a nome Stargo. È proprio Zanetti invece a produrre “Vocalize” di Scattt, pseudonimo derivato dal virtuosismo vocale, lo scat per l’appunto, adottato nel medesimo periodo in “You Too” di Nexy Lanton, prodotto da Gianni Vitale per la debuttante Line Music di Giacomo Maiolini. Bale Mondonga riappare, questa volta con lo pseudonimo Momo B. che lo accompagnerà sino ai tempi di Floorfilla, con la ridente “Be Happy”, e lo stesso avviene con la Aquilani che torna come artista a nome Alexia Cooper a due anni di distanza da “Boy”, una sorta di incrocio tra “Boys” della prorompente Sabrina Salerno e “La Notte Vola” di Lorella Cuccarini. Abbandonato il filone hi nrg destinato perlopiù al mercato nipponico, la cantante interpreta “Gotta Be Mine”, in linea con la dance europea del periodo. Sull’onda di “Party Children”, Wareband cerca il bis attraverso “A Better Day” ma non riuscendo completamente nell’impresa. Sulla rampa di lancio c’è un progetto nuovo di zecca, Data Drama, che debutta con “The Rain”. Insieme a Zanetti in studio ci sono Riccardo Bronzi ed un talentuoso cantante londinese, William Naraine.

Dal Casablanca Recording Studio arriva pure “The Wind” di Zero Phase, act one shot poco fortunato che cerca di ricalcare le orme di un successo proveniente dal Nord Europa, “James Brown Is Dead” degli olandesi L.A. Style, dichiaratamente preso a modello pure per “James Brown Has Sex”, l’ultimo firmato da Zanetti come Raimunda Navarro. In preda al boom commerciale dell’eurotechnodance, la DWA pubblica “S.l.e.e.p. Tonight” di 303 Trance Factor (una delle quattro versioni, la After-Hour Factor Frequency, in cui ben campeggia il vocal sample preso da “The Dominatrix Sleeps Tonight” di Dominatrix, è realizzata dal pugliese Michele Mausi – intervistato qui – ma senza che il suo nome venga riportato tra i crediti), “Pump The Rhythm” di Fletch Two, “Don’t Stop The Movie” di V.I.R.U.S. 666 e “De Puta Madre” dei Terra W.A.N., quest’ultimo preso in licenza dai Paesi Bassi e ripubblicato con dicitura DWA Underground. La strada maestra di Zanetti però non è quella della musica strumentale, i tentativi di raccogliere consensi con prodotti filo techno – compresi quelli di cui si parlerà poco più avanti – sono vani ed infatti torna presto a scommettere sulla vocalità, prima col follow-up di Scattt, “Scat And Bebop”, e poi con Naraine che, nascosto dietro il nomignolo Willy Morales, reinterpreta un classico degli Electric Light Orchestra, “Last Train To London”. La cover attecchisce nel mercato estero e fa da apripista ad un altro remake che segna indelebilmente uno degli zenit per la label massese, “Please Don’t Go”, originariamente dei KC & The Sunshine Band e già riproposto in chiave dance nel 1985 dai Digital Game prodotti da Alessandro Novaga con la voce di Romano Bais, come lo stesso Novaga afferma in questa intervista del 26 marzo 2009.

Double You - Please Don't Go
“Please Don’t Go” dei Double You, tra i bestseller del catalogo DWA

A realizzare la nuova versione è il team dei Double You formato dal musicista Franco Amato, dal DJ Andrea De Antoni e dal citato William Naraine che oltre a cantare ricopre anche ruolo di frontman. Registrato a dicembre del 1991, il brano viene pubblicato a gennaio del 1992 e, come si legge sul sito della stessa DWA, «divenne un successo immediato che garantì a Double You tournée in tutta Europa ed apparizioni in numerosi programmi televisivi. Con più di tre milioni di copie vendute, “Please Don’t Go” si aggiudica dischi d’oro e di platino spopolando in Paesi come Germania, Francia, Olanda, Spagna, Belgio, Svizzera, Austria, Grecia, Turchia, Europa dell’Est, tutta l’America Latina (nessuna nazione esclusa) e molti stati dell’Africa e dell’Asia. Il disco vende anche nell’America del Nord, entrando nella top 10 maxi sales, e nel Regno Unito dove si piazza secondo nella Cool Cuts Chart». Trainato da un videoclip diretto ancora da Giacomo De Simone in cui la scena è dominata da Naraine che su qualche rivista viene definito una sorta di “Nick Kamen prestato alla dance italiana”, “Please Don’t Go” gira su un organo hammond in stile “Gypsy Woman (She’s Homeless)” di Crystal Waters e “Ride Like The Wind” degli East Side Beat (cover dell’omonimo di Christopher Cross di cui parliamo qui), entrambi del 1991, e glorifica la “covermania” da noi andata avanti per quasi un biennio. In Italia diventa un tormentone, aiutato dalle ragazze di “Non È La Rai” che lo ballano quasi come un mantra e da Fiorello che lo ricanta in italiano in “Si O No”, ma anche all’estero, come già detto, le cose vanno alla grande e senza intoppi, almeno sino a quando si fa avanti un’etichetta britannica, la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker, intenzionata a pubblicarlo oltremanica. Poiché già ceduto ad un’altra compagnia discografica, alla Network Records cercano di trasformare l’imprevisto in un’opportunità per non perdere l’affare e trovano presto la soluzione: incidere una nuova versione. Non si tratta però di una cover dell’originale dei KC & The Sunshine Band bensì di una copia carbone del remake italiano realizzata dai K.W.S. (Chris King, Winston Williams e il vocalist Delroy St. Joseph), un banale tarocco insomma. Grazie pare ad una pratica sleale che blocca oltremanica il disco dei Double You, la “Please Don’t Go” dei K.W.S. ha via libera e riesce a conquistare il vertice delle classifiche britanniche (per ben sette settimane consecutive) e statunitensi, coadiuvata da un videoclip e dal supporto di un colosso come la Next Plateau Records di Eddie O’Loughlin. La reinterpretazione (o presunta tale) sbarca anche in Italia attraverso la Whole Records del gruppo Media Records. La questione desta scalpore e finisce prevedibilmente nell’aula di un tribunale. Informazioni dettagliate trapelano attraverso un articolo di Roger Pearson pubblicato su Billboard l’1 aprile del 1995: Steve Mason e Sean Sullivan, rispettivamente proprietario e co-direttore della Pinnacle che distribuisce il disco dei K.W.S., sono considerati colpevoli di aver condotto una campagna di pirateria internazionale che infrange il diritto d’autore col chiaro fine di trarre enormi vantaggi economici ai danni della ZYX a cui la DWA di Zanetti aveva precedentemente concesso in licenza il brano dei Double You. Una vicenda analoga toccherà, anni dopo, a “Jaguar” di The Aztec Mystic aka DJ Rolando, come descritto in Decadance Extra, e in un certo senso anche a “Belo Horizonti” dei nostri The Heartists, come racconta Claudio Coccoluto in questo articolo/intervista. Talvolta, è risaputo, il successo ha un prezzo da pagare e può risultare particolarmente alto.

Il 1992 si apre comunque sotto i migliori auspici: insieme ad Ice MC, Pianonegro e Wareband, la DWA adesso mette nel forziere dei successi anche i Double You con “Please Don’t Go”, quarantaseiesima pubblicazione di un catalogo che continua a crescere senza esitazioni ed oggi considerata alla stregua di un’istantanea della spensieratezza degli adolescenti di allora. Da “My World” viene estratto un secondo singolo, il malinconico “Rainy Days” che prova a rimettere al centro della scena Ice MC ma senza grandi consensi. La combo tra hip house e downbeat, tenuti insieme da un breve campionamento vocale preso ancora dal citato “Warehouse (Days Of Glory)” – lo stesso che anni dopo ricicleranno gli svedesi Antiloop per la hit del 1997 “In My Mind” – sembra non fare più grande presa sul pubblico della dance generalista. “Love For Love” dei C. Tronics (Alessandro Del Fabbro, Claudio Malatesta alias Claudio Mingardi – per cui Robyx produce “Star” già nel 1984, in seno al fermento dei medley come raccontato qui – e Stefano Marinari) punta ancora su derivazioni technodance in stile Cappella seppur non manchi una versione spassionatamente italo house, la Original ’70 Mix; la Aquilani veste i panni, per l’ultima volta, di Alexia Cooper con “Let You Go” trainato da un fraseggio jazz che strizza l’occhio a quello di “How-Gee” dei Black Machine di cui parliamo qui, e vagamente jazzy è pure la salsa di “Guitar” di Larry Spinosa, altro nome di fantasia dietro cui si cela Francesco Alberti «che oltre ad essere il fonico del Casablanca Recording Studio era anche un musicista» spiega Zanetti.

Delirio compilation
La compilation “Delirio” fotografa bene il mondo della “techno all’italiana” che si sviluppa tra 1991 e 1992

L’onda di quella che viene sommariamente definita “techno” cresce ed impatta fragorosamente in Italia dove si moltiplicano i tentativi di emulazione di replicare i numeri dei successi nordeuropei. La DWA non si esime dal seguire questa tendenza generalizzata, seppur appaia evidente che quello continui a non essere affatto il genere in cui riesca a dare il proprio meglio. Escono “Confusion” di Psycho, “Can You Hear Me” di Walt 93 e la compilation “Delirio” che rappresenta bene lo spaccato di quel mondo “techno all’italiana”, fatto di campionamenti troppo ovvi e semplificazioni che collocano il genere nato a Detroit «su binari semplici e riconoscibili […], oltre a spingerlo verso ritmi produttivi pari a quella dell’ormai consolidata piano house» come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, specificando che «il sound generale di quei dischi aveva veramente poco di techno nel senso più puro della parola. Si tratta infatti di produzioni realizzate perlopiù da musicisti che hanno un background musicale non adatto alle strutture minimali ed eclettiche del sound di Detroit, e al massimo assomigliano alle produzioni europee di label come R&S o Music Man ma senza averne l’impatto e le giuste sonorità». I Data Drama riappaiono, per l’ultima volta, con “Close Your Eyes”, ancora cantato da Naraine che però non compare nelle esibizioni pubbliche (come questa) perché impegnato coi Double You, Claudio Mingardi produce “L.O.V.E.” di 2 Fragile, ennesimo act one shot a cui si sommano Larry Liver Lip con “Challowa”, attraverso cui Zanetti ed Alberti (il Larry rimanda al sopramenzionato Larry Spinosa) rimaneggiano il ragamuffin coadiuvati dalla voce di Ian Campbell e parzialmente ispirati da “Informer” di Snow, “Razza” dei Razza Posse (promosso sullo sticker in copertina come “raggarappin”) e il “Contraddizione EP” dei Contraddizione Posse. Tutti finiscono in una compilation intitolata “Italiano Ragga” omonima di un pezzo di Ice MC racchiuso in “My World”, uscita dopo lo scandalo di Tangentopoli di cui si rinviene qualche riferimento sulla copertina e nella quale, tra gli altri, presenzia Frankie Hi-NRG MC con “Fight Da Faida”.

Double You - We All Need Love LP
Un primo piano di William Naraine finito sulla copertina del primo album dei Double You

Il vero banco di prova per l’etichetta è rappresentato dal follow-up di “Please Don’t Go” dei Double You ossia “We All Need Love”, registrato a giugno 1992 durante la tournée europea. Si tratta ancora di una cover, questa volta del pugliese trapiantato in Canada Domenic Troiano, capace di raggiungere in tempi brevi i vertici delle classifiche di vendita di tutto il mondo. Abbinato ad una base che ricorda, come vuole la ricetta del classico follow-up, quella di “Please Don’t Go”, “We All Need Love” è anche il titolo del primo album della band. Non manca il videoclip dominato ancora dalla figura del carismatico Naraine. A fare da contorno “Rock Me Baby” e “Gimme Some” di Babyroots, interpretate da Sandy Chambers e cover rispettivamente degli omonimi di Horace Andy e Jimmy “Bo” Horne scritti da Harry Casey e Richard Finch. A settembre è tempo di “Who’s Fooling Who”, terzo singolo dei Double You ancora estratto da “We All Need Love”, cover dell’omonimo dei One Way e per cui viene girato un videoclip. È una cover pure quella dei debuttanti Netzwerk, team composto dai produttori Marco Galeotti, Marco Genovesi e Maurizio Tognarelli, che per l’occasione ricostruiscono “Send Me An Angel” degli australiani Real Life avvalendosi della voce della citata Chambers che fa anche da frontwoman per le esibizioni nelle discoteche e in tv. Tra echi à la Snap! (“Rhythm Is A Dancer” è una delle hit dell’anno a cui si ispira più di qualcuno), la vena malinconica preservata dall’originale e il climax raggiunto dopo un effetto stop che introduce il ritornello e che diventa la tag identificativa della DWA, il brano conquista diverse licenze estere e circola parecchio nei primi mesi del 1993. Provengono d’oltralpe invece “Keep Our Love Away” di Sophie Hendrickx e “Use Your Voice” di Red Zone, entrambe prese in licenza dalla belga Rox Records di Roland De Greef.

Digilove - Let The Night Take The Blame
Digilove, uno dei tanti progetti a cui presta la voce Alessia Aquilani

1993, 1994, 1995: la consacrazione dell’eurodance
Ancora estratto da “We All Need Love”, “With Or Without You” è il nuovo singolo dei Double You, cover dell’omonimo degli U2. Posizionato nei binari timbrici di “Please Don’t Go”, il brano rivive attraverso molteplici versioni solcate su un doppio mix tra cui alcune ritmicamente più impetuose come la Mind 150 Mix. Claudio Mingardi torna con un progetto nuovo di zecca, Gray Neve, varato con l’onirica “I Need Your Love” scritta insieme ad Alessia Aquilani con qualche rimando che vola ad “Exterminate!” degli Snap!. L’assenza di una personalità definita e di un’idea sviluppata a dovere lasciano però il pezzo nell’anonimato. Decisamente più convincente e coinvolgente invece la cover di “Let The Night Take The Blame” di Lorraine McKane con cui debutta Digilove, act messo su dal team M.V.S. (il citato Mingardi, Gianluca Vivaldi e Riccardo Salani). Il brano valorizza il timbro prezioso e sensuale della Aquilani e conquista licenze in Germania, Francia e Spagna e lo spazio in numerose compilation che ai tempi possono rappresentare l’ago della bilancia di alcune produzioni discografiche soprattutto in ambito eurodance. Quest’ultimo si configura come un filone dalle caratteristiche ben precise rappresentate da uno spiccato apparato melodico ottenuto con riff di sintetizzatore in cui si incrociano vocalità maschili e femminili, spesso le prime in formato rap nella strofa, le seconde invece a scandire l’inciso, in uno schema apparso già nel 1989 con la profetica “I Can’t Stand It” di Twenty 4 Seven a cui abbiamo dedicato qui un articolo. Dal 1992, con l’esplosione di “Rhythm Is A Dancer”, questo modello diventa praticamente una matrice a cui un numero indefinito di produttori europei fa riferimento per comporre la propria musica. È il caso dello svizzero René Baumann alias DJ Bobo che entra nel mercato discografico nel 1990 con “I Love You”, distillato tra l’house balbettante di Chicago, le pianate italo e ganci hip hop, e che adesso cavalca in pieno il fermento eurodance con “Somebody Dance With Me”, pubblicata a novembre del ’92 ma esplosa in diversi Paesi europei ed extraeuropei (come Australia ed Israele) nel corso dell’anno seguente, quando arriva anche in Italia attraverso la DWA. Si narra che sia stato proprio il successo internazionale ad aver attirato l’attenzione della celebre Motown accortasi dell’evidente somiglianza tra il ritornello di “Somebody Dance With Me” e quello di “Somebody’s Watching Me” di Rockwell, interpretato da Michael Jackson. L’etichetta di Berry Gordy, padre dello stesso Rockwell, avrebbe intentato causa ai danni dello svizzero accusandolo di plagio. In occasione del loro ventennale d’attività, la DWA pubblica il megamix dei KC & The Sunshine Band intitolato ironicamente “The Official Bootleg”. Segue una tiratura su LP, “Oh Yeah!”, che in tracklist annovera una versione di “Please Don’t Go” registrata live in Versilia. Il chitarrista Francesco ‘Larry Spinosa’ Alberti offre un continuum al “Guitar”, “The Guitar E.P. Nº 2” che all’interno ospita due tracce (e due remix) di stampo house rigate da una vena papettiana, e un ritorno è pure quello degli olandesi Terra W.A.N. con “Caramba (Dance 2 Dis)”, traccia ai confini con l’hardcore incanalata nel brand DWA Interface.

È pop dance made in Italy invece “Baby I Need Your Loving” di Johnny Parker Feat. Robert Crawford, prodotto da Marco Mazzantini e Daniele Soriani (quelli che tempo dopo armeggiano dietro Gayà) e coi backing vocal di Alessia Aquilani. A sorpresa Zanetti riporta in vita il suo alter ego Savage, assente da circa un triennio, con “Something And Strangelove”: “Something” è un inedito che risente dell’influsso della dance mitteleuropea, “Strangelove” è la cover dell’omonimo dei Depeche Mode. Sull’etichetta centrale si legge DWA Infective, ennesima declinazione che il musicista utilizza per personalizzare l’iter artistico della sua label analogamente a DWA Italiana, usata per il remix di “Sesso O Amore” degli Stadio realizzato dal sopraccitato team degli M.V.S. (Mingardi, Vivaldi, Salani). I Double You tornano con “Missing You”, primo singolo estratto da “The Blue Album” che uscirà l’anno dopo: sganciata dalla formula del filone iniziato con “Please Don’t Go”, la band inforca una nuova strada contaminata da elementi rock. Sul lato b (e sul CD singolo) finiscono i remix house di Fulvio Perniola e Gianni Bini che proprio quell’anno debuttano su UMM come Fathers Of Sound. Roberto Calzolari e Massimo Traversoni invece, già dietro Dyva, si propongono con “You Make Me Feel” cantata da Gwen Aäntti, un brano in cui pare riascoltare un frammento (velocizzato) di “What Is Love” di Haddaway. Per l’occasione si firmano S.D.P., acronimo di Sweet Doctor Phybes. Il 1993 partorisce un numero abissale di cover dance di classici pop/rock, proprio come “You And I” di Zooo, remake del classico dei Delegation prodotto da Claudio Mingardi e Marco Mazzantini. I due si occupano anche di “Love Is The Key” di Simona Jackson, cantante americana più avanti nota come Simone Jay che inizia a collaborare con la struttura zanettiana mediante un brano di estrazione house. È il centesimo disco della DWA, che scommette ancora sulle potenzialità di DJ Bobo e della sua “Keep On Dancing!”, perfetto follow-up di “Somebody Dance With Me” costruito sui medesimi elementi ossia base che fonde pianate ai bassi sincopati in stile “Rhythm Is A Dancer” condita dal rap maschile e dal ritornello affidato ad una voce femminile. Il successo internazionale convince Zanetti a licenziare nel nostro Paese anche il primo album dell’artista svizzero, “Dance With Me”, pubblicandolo in formato CD.

Ice MC e la tedesca Jasmin ‘Jasmine’ Heinrich che lo affianca quando la DWA lo rilancia nell’eurodance

Assente da quasi due anni, Ice MC riappare sotto la dimensione narrativa dell’eurodance auspicando un ritorno ai fasti reso possibile da “Take Away The Colour” uscito ad ottobre, in cui Robyx assembla con maestria il rap di Campbell ad una trascinante base a cui aggiunge un ritornello a presa rapida. A cantarlo è la menzionata Simona Jackson che però non compare nel videoclip, rimpiazzata dalla tedesca Jasmin Heinrich alias Jasmine, scelta per affiancare Campbell nei live e nei servizi fotografici secondo una pratica comune sin dai tempi dell’italo disco così come descritto in questa inchiesta. È uno dei primi pezzi eurodance prodotti in casa DWA che, in virtù del significativo impatto sul mercato continentale con oltre 200.000 copie vendute, genera più di qualche epigono a partire da “Get-A-Way” dei tedeschi Maxx, così come scrive James Hamilton sulla rivista britannica Music Week il 18 marzo 1995. Insieme ad Ice MC ritornano anche i Netzwerk con un’altra cover, “Breakdown”, originariamente di Ray Cooper ed ora ricantata da Sandy Chambers. Nell’ultimo scorcio del ’93 l’etichetta mette sul mercato i remix di “Give It Up” di KC & The Sunshine Band, “Part-Time Lover” dei Double You (ancora estratto dall’imminente “The Blue Album”), “Give You Love” dei Digilove cantata dall’infaticabile Alessia Aquilani, “I Tammuri” di Andrea Surdi e Tullio De Piscopo e “Take Control” di DJ Bobo, ormai lanciatissimo nel firmamento eurodance internazionale ma con pochi responsi raccolti in Italia.

Corona - The Rhythm Of The Night
La copertina di “The Rhythm Of The Night” di Corona

Menzione a parte merita “The Rhythm Of The Night” di Corona, progetto ideato dal DJ Lee Marrow e registrato nel Pink Studio di Reggio Emilia di Theo Spagna, fratello di Ivana. A scrivere il testo è Annerley Gordon, la futura Ann Lee, a cantare (in incognito) il brano è invece la catanese Jenny B. mentre a portarlo in scena è la frontwoman brasiliana Olga De Souza, unica protagonista del videoclip diretto da Giacomo De Simone. Ottenuto incrociando abilmente parti inedite ad una porzione melodica di “Save Me” delle Say When! ed un riff di tastiera simile a quello di “Venus Rapsody” dei Rockets, “The Rhythm Of The Night”, uscito a novembre e racchiuso in una copertina che immortala lo skyline newyorkese notturno con le Torri Gemelle luccicanti come gioielli nell’oscurità, diventa presto un successo globale che vive tuttora attraverso remix, cover ed interpolazioni, su tutte “Of The Night” dei Bastille e “Ritmo (Bad Boys For Life)” dei Black Eyed Peas e J. Balvin. Innumerevoli anche i derivati, a partire da “The Summer Is Magic” di Playahitty prodotta da Emanuele Asti, uscita nel ’94 e curiosamente interpretata dalla stessa Jenny B. seppur nel video finisca una modella. Quello di Corona è il primo mix ad essere stampato col logo bianco su fondo blu, declinazione grafica più rappresentativa della DWA rimasta in uso sino alla fine del 1996.

Il 1994 inizia con “Number One – La Prima Compilation Dell’Anno”, una raccolta edita su CD e cassetta e mixata da Lee Marrow che raduna materiale prevalentemente dwaiano, alternato a successi del periodo come Silvia Coleman, Cappella ed Aladino. All’interno c’è anche un’anteprima, “Everybody Love” di TF 99, nuovo progetto del team M.V.S. solcato su 12″ a gennaio ed oggetto di discreti riscontri oltralpe. Arrivano dall’estero invece “Is It Love?” dei Superfly e “I Totally Miss You” di Mike L.G., entrambi prodotti da George Sinclair ed Eric Wilde ma passati inosservati da noi. Per i Double You è tempo del secondo LP, “The Blue Album”, dal quale viene prelevato “Heart Of Glass”, cover dell’omonimo dei Blondie. Il fenomeno dei remake è ormai sulla via del tramonto ma certamente non quello dei remix: la DWA rimette in circolazione la musica di Savage attraverso un greatest hits, “Don’t Cry”, abbinato a numerose versioni remix dell’evergreen “Don’t Cry Tonight” incise su due dischi. A firmarle, tra gli altri, Mr. Marvin, Stefano Secchi, Fathers Of Sound e Claudio Mingardi. Proprio quest’ultimo, insieme agli inseparabili Vivaldi e Salani e alla “solita” Aquilani, dà alle stampe “Under The Same Sun”, ignorata in Italia ma accolta bene in altri Paesi europei (Germania, Francia, Spagna). Il nome del progetto one shot è DUE, la medesima sigla (acronimo di Dance Universal Experiment) con cui il team M.V.S. lancia la propria etichetta l’anno dopo, la DUE per l’appunto. Passando per i poco noti “Space Party People” di Arcana, prodotto a Trieste da David Sion (intervistato qui) e Chris Stern, “I Wanna Be With You” dei Cybernetica (Mingardi e soci) e “Better Be Allright” di Space Tribe (una sorta di risposta a “Move Your Body” degli Anticappella realizzata dai componenti dei Double You), la DWA garantisce un po’ di longevità a “The Rhythm Of The Night” di Corona attraverso i (primi) remix tra cui quello di Mephisto (intervistato qui), e scommette sulle potenzialità di “It’s A Loving Thing” di CB Milton, eroe dell’eurodance in buona parte dell’Europa settentrionale prodotto dagli artefici dei 2 Unlimited, Phil Wilde e Jean-Paul De Coster. Il cantante olandese è tra i protagonisti dell’ondata di interpreti come Haddaway, Lane McCray dei La Bouche, Captain Hollywood, Ray Slijngaard dei 2 Unlimited, Dr. Alban, Jay Supreme dei Culture Beat, B.G. The Prince Of Rap o Turbo B. degli Snap! e Centory, accomunati non solo dal genere musicale ma anche dal colore (scuro) della pelle, come del resto vale per Ice MC.

Ice MC - Think About The Way
“Think About The Way” sancisce la completa affermazione di Ice MC in Italia

Il primo boom dell’anno è proprio il suo: “Think About The Way” esce alle porte della primavera ed è il brano con cui l’etichetta di Zanetti conferma il successo internazionale per Campbell. La scrittura si evolve entro canoni ben definiti e l’effetto cover inizia a dissolversi a favore di una personalizzazione dei suoni dalle tonalità calde e brillanti, equilibri attentamente studiati e ponderati tra parti strumentali e vocali nonché una meticolosa attenzione per le stesure accomunate dall’inciso con accento metrico in levare anticipato dall’effetto stop, laser, blip (o comunque un fx simile ad una scarica elettrica) adottato ripetutamente per circa un quadriennio. Questa volta ad affiancare il rapper è la Aquilani che però non compare nel video diretto da Giacomo De Simone e nemmeno sul palco del Festivalbar, nella clip per Superclassifica Show e tantomeno nei live come questo al pugliese Modonovo Beach, rimpiazzata da Jasmin Heinrich già incrociata nel video di “Take Away The Colour” e, un paio di anni dopo, entrata nella formazione degli E-Sensual. La spezzina tuttavia prende parte ad alcune esibizioni live, come questa all’evento francese Dance Machine, o questa in occasione del programma “Donna Sotto Le Stelle” trasmesso da Italia 1. Questa singolare situazione, non nuova negli ambiti dance specialmente nostrani, non la infastidisce almeno a giudicare da quanto dichiara a Riccardo Sada in un’intervista pubblicata ad aprile 1998 su Jocks Mag: «non sono stata vittima nel progetto Ice MC, io cantavo e sul palco ci andava una mulatta, ma mi è bastato. Adesso però sul palco ci vado io e mi diverto». In “Think About The Way” c’è ancora l’impronta rap ma senza riferimenti all’hip house. La produzione zanettiana ora vira verso la melodia più ariosa, e l’indovinato ritornello fa il resto insieme all’hook “bom digi digi digi bom digi bom”. Sebbene pubblicato a marzo, il brano di Ice MC, tempo dopo entrato nella colonna sonora del film “Trainspotting”, diventa un inno estivo dal successo ulteriormente prolungato da nuove versioni tipo la Noche De Luna Mix con una chitarra spagnoleggiante in stile Jam & Spoon. Come sottolinea Manuela Doriani in una recensione di agosto ’94, l’uscita di questo remix risulta decisamente provvidenziale «perché l’originale stava cominciando un po’ a stancare le masse discotecare».

Da “Dance With Me” viene estratto “Everybody” con cui DJ Bobo rallenta i bpm a favore di una canzone downtempo rigata di reggae, tentando di fare il verso ad “All That She Wants” degli Ace Of Base, Mingardi, Vivaldi e Salani clonano “Move On Baby” dei Cappella attraverso “Music Is My Life” di Galactica, Ice MC viene coinvolto in un nuovo remix di “The Rhythm Of The Night” (lo Space Remix), CB Milton riappare con “Hold On (If You Believe In Love)” e i Double You con “Run To Me”, montata sul riff identificativo di “Don’t Go” di Yazoo. Nel turbinio delle pubblicazioni rispunta anche Savage con l’inedito “Don’t You Want Me”, scritto insieme a Fred Ventura (intervistato qui) ed incastonato nella base di “Think About The Way” con qualche marginale variazione. Non è intenzione di Zanetti però rilanciarsi nella scena, è chiaro sin dall’inizio che il musicista non voglia usare la casa discografica per sponsorizzare la sua carriera da artista. La DWA invece veicola nel mondo il suo ruolo da produttore e questo spiega la ragione per cui l’alter ego principale di Zanetti occupi una posizione decisamente defilata rispetto ad altri progetti ed artisti, in primis Corona ed Ice MC, talmente forti da oscurare pure altre proposte dell’etichetta, come “Don’t U Feel The Beat” di Timeshift, importato dal Belgio, “Do You Know” di Black & White, prodotto da Massimo Traversoni e Roberto Calzolari scopiazzando palesemente “Think About The Way”, e “I Don’t Wanna Be” di Crystal B., un altro act one shot registrato presso il Crystal Studio di Francesco Alberti e noto perlopiù all’estero. Nel frattempo Corona arriva oltremanica con la WEA del gruppo Warner aggiudicandosi, come riportato sul sito DWA, un disco d’oro con oltre 400.000 copie vendute. Per l’occasione “The Rhythm Of The Night” viene remixata dai Rapino Brothers (italiani trapiantati nel Regno Unito) e dai fratelli Adrian e Mark LuvDup, anticipando lo sbarco oltreoceano. Alla fine dell’anno saranno più di quindici i dischi d’oro e di platino appesi alla parete. Davvero niente male per un pezzo che, come l’autore racconta qui, viene inizialmente rifiutato da un discografico della Dig It International convinto che non fosse affatto adatto ai tempi e che oggi, paradossalmente, è finito col diventare una specie di elemento mitologico di quell’epoca.

Ice MC + Netzwerk
“It’s A Rainy Day” e “Passion”, due grandi successi della DWA usciti nel secondo semestre ’94

Dopo un’estate vissuta da assoluto protagonista, Ice MC torna con “It’s A Rainy Day”, che davvero nulla divide col quasi omonimo “Rainy Days” di due anni prima. Scritto e prodotto da Zanetti mescolando gli stessi elementi di “Think About The Way” incluso un nuovo hook vocale (“eh eh”), il brano è issato da una suggestiva frase di organo sposata perfettamente con l’atmosfera malinconica tipica delle produzioni a nome Savage. La Aquilani è confermata come voce femminile e questa volta la si ritrova anche nel video ancora diretto da Giacomo De Simone. I tempi sono maturi per lanciare l’album dell’artista, il terzo della carriera, intitolato “Ice’ N’ Green” che gioca sull’assonanza fonetica col quartiere il cui Campbell è cresciuto, Hyson Green, a Nottingham. Quella della DWA ormai è una matrice costituita da suoni e stesure a cui un numero imprecisato di produttori eurodance si ispira, come Malatesti, Salani e Vivaldi che affidano a Zanetti “Don’t Leave Me”, il primo brano firmato Fourteen 14 riuscendo ad ottenere ottimi riscontri all’estero. Percorso inverso invece per CB Milton che dalla belga Byte Records si ritrova in Italia con un altro singolo estratto da “It’s My Loving Thing” ovvero “Open Your Heart”. Allineati al modulo Corona/Ice MC risultano anche i Netzwerk, orfani di Marco Genovesi rimpiazzato da Gianni Bini e Fulvio Perniola, che in autunno tornano con “Passion” lanciata su un ritmo ondulatorio e galoppante. La nuova formazione vede anche la defezione di Sandy Chambers sostituita da Simone Jackson, scelta che però, come lo stesso Bini spiega in questa intervista, «non fu legata a questioni artistiche ma, più banalmente, all’impossibilità della Chambers di cantare in quel periodo». La Jackson, nel 1994, interpreta anche “You’re The One”, prodotto da Francesco Racanati alias Frankie Marlowe, già attivo in progetti come E. L. Gang, Nine 2 Six e 2 B Blue, che però resta nel cassetto. «Dopo il grande successo di “The Rhythm Of The Night” di Corona pensai di realizzare un brano che potesse collocarsi su quel genere» svela oggi Racanati. «Scrissi il testo e mi rivolsi all’amico Alex Bertagnini che mi presentò Vito Ulivi. Lavorammo insieme al pezzo affidandolo vocalmente alla Jackson per l’appunto. Fabrizio Gatto della Dancework (intervistato qui, nda) era intenzionato a farlo uscire come singolo ma parallelamente lo feci ascoltare a Roberto Zanetti che conoscevo dai tempi dei Taxi e con mia sorpresa, sapendo quanto fosse esigente e selettivo, rimase colpito. “You’re The One” gli piaceva e mi consigliò di approfondire il discorso con Lee Marrow per inserirlo nel primo album di Corona che era in lavorazione. Purtroppo Alex e Vito non furono d’accordo, preferivano l’offerta di Gatto che puntava all’uscita come singolo. Tuttavia la Dancework alla fine pubblicò un altro brano in cui non ero coinvolto ossia “All I Need Is Love” di Indiana (di cui parliamo qui, nda), e nel contempo anche il “treno” con Zanetti era ormai passato e perso. “You’re The One”, a cui partecipò pure Marco Tonarelli, rimase quindi in archivio». A chiudere, sotto le feste natalizie, è il Christmas Re-Remix di “It’s A Rainy Day”. Sul 12″ c’è spazio anche per un altro pezzo tratto dall’album, “Dark Night Rider”, col riff di sintetizzatore che paga l’ispirazione a “Move On Baby” dei Cappella, un’altra mega hit italiana messa a segno nel 1994.

Il 1995 riprende dallo stesso nome con cui è terminato il 1994, Ice MC. Non si tratta proprio di un pezzo nuovo di zecca bensì di una rivisitazione di “Take Away The Colour” codificata in copertina come ’95 Reconstruction: ricantata dalla Aquilani che fa capolino anche nel videoclip, la traccia è “figlia” della velocizzazione impressa alla dance nostrana, accelerazione ritmica importata in primis dalla Germania dove quella che a posteriori viene ribattezzata hard dance garantisce un exploit commerciale anche a correnti parallele come l’happy hardcore. La “ricostruzione” di “Take Away The Colour” guarda proprio in quelle direzioni, occhieggiando alle melodie festaiole dei Sequential One del futuro ATB André Tanneberger, alla hit di Marusha (“Over The Rainbow”) e, con un assolo salmodiante a rinforzo del flusso lirico, un po’ anche a quella di Digital Boy (“The Mountain Of King”) che, da noi, fu tra le prime ad innescare quel vigoroso scossone ritmico. «In realtà della versione originale è rimasta solo una piccola parte» spiega Campbell in un’intervista pubblicata su Tutto Discoteca Dance a marzo. «Il pezzo è stato completamente rifatto a 160 bpm, e questo è un disco importante perché segna un’evoluzione del mio stile. La sonorità generale si è rinnovata diventando una via di mezzo tra la melodia, il suono tecnologico tedesco e la jungle britannica». Il brano, in cui si scorge pure qualche rimando vocale non troppo velato a “Think About The Way”, apre la tracklist del remix album dello stesso artista che DWA pubblica insieme alla Polydor del gruppo Polygram.

DWA al Midem
Una foto scattata al Midem di Cannes: a sinistra Steve Allen, A&R della WEA, al centro Roberto Zanetti affiancato da Lee Marrow

È tempo di remix anche per “Passion” dei Netzwerk, ugualmente dopato nella velocità che nella Essential Mix oltrepassa i 140 bpm, e qualche battuta in più la prende anche il nuovo di Corona, “Baby Baby”, rifacimento di “Babe Babe” pubblicato nel 1991 come Joy & Joyce. Ricantato per l’occasione da Sandy Chambers che ovviamente non compare nel video in cui il ruolo da protagonista è sempre di Olga De Souza, il brano, uscito a marzo, conta sul remix di Dancing Divaz utile per penetrare nel mercato britannico ed incluso nella tracklist dell’album uscito in contemporanea, “The Rhythm Of The Night”. La DWA, ancora insieme alla Polydor, lo pubblica solo in formato CD. In Europa è un tripudio. L’etichetta di Zanetti è tra le etichette premiate al Midem di Cannes in virtù di quasi una ventina di dischi d’oro e platino conquistati. La velocità di crociera della dance, nel corso del 1995, aumenta ancora e ciò solleva qualche interrogativo tra gli addetti ai lavori: è corretto parlare di eurobeat? A novembre del ’95 Federico Grilli, sulle pagine di Tutto Discoteca Dance, firma uno speciale in cui pone l’accento proprio sulla trasformazione che investe il filone, «più radicato in Germania e nel Nord Europa che in Italia dove le radio, in alcuni casi, fanno ancora il bello e il cattivo tempo di alcuni dischi». Tanti nomi noti oltralpe (Cartouche, T-Spoon, Maxx, Pandora, Cutoff, Magic Affair, E-Rotic, Imperio, Fun Factory, Intermission, Masterboy) da noi non riescono ad attecchire nonostante l’interesse mostrato per alcuni di essi dalle etichette nostrane, evidentemente incapaci di portare al successo in modo autonomo le scelte dei propri A&R. All’inchiesta prende parte anche Roberto Zanetti che parla dell’eurobeat come «un genere non certamente nuovo ma in vita da oltre un decennio, diretta evoluzione dell’hi NRG con cui Stock, Aitken & Waterman facevano esplodere artisti e band come Rick Astley, Mel & Kim, Dead Or Alive, Hazell Dean e Bananarama. In seguito la Germania, l’Italia e i Paesi limitrofi si sono uniformati ed hanno cominciato a produrre cose simili. Oggi per eurobeat si deve intendere tutto ciò che ha una forte melodia abbinata a suoni e ritmiche attuali, alla moda. In Italia, oltre alle mie produzioni, nella pop dance vedo con interesse dischi come Cappella o Whigfield che di sicuro hanno un sapore internazionale. In conclusione ritengo che l’eurobeat non morirà mai anzi, si andrà sempre più ad identificare con il pop e con tutto ciò che diventa commerciale».

Double You, Netzwerk, Corona (1995)
Double You, Netzwerk e Corona, il tridente d’attacco della DWA nell’estate 1995

L’eurobeat nostrana (o più propriamente eurodance in quanto, come sottolinea Grilli, il fenomeno interessa solamente l’Europa e non l’America) respira a pieni polmoni grazie alla DWA che, a primavera inoltrata, mette sul mercato due mix destinati a diventare in un battito di ciglia dei successi estivi, “Dancing With An Angel” dei Double You e “Memories” dei Netzwerk. Per questi ultimi, ancora affiancati da Simone Jackson che diventa l’immagine e voce nei live così come si vede in questa clip, è una conferma dopo l’exploit invernale ottenuto con “Passion”; per i Double You invece, per l’occasione abbinati al featuring della Chambers che interpreta il ritornello, è un clamoroso ritorno al successo dopo un 1994 vissuto un po’ in sordina. Entrambi testimoniano l’espressività stilistica diventata il trademark della DWA, composto da una pasta del suono limpida e cristallina, irradiata da un bagno di luce che non rompe mai il contatto con la tradizionale formula della song structure. L’inesauribile vena di Robyx porta ad uno stile compositivo ormai inconfondibile che per le radio e i DJ pop dance rappresenta una consolidata certezza in un oceano di produzioni. Quell’anno Corona e la band capitanata da Naraine partecipano alla trasmissione televisiva brasiliana Xuxa Hits che vanta centinaia di migliaia di spettatori: il Brasile è senza timore di smentita tra i Paesi in cui le produzioni DWA fanno maggiore presa. Insieme a loro c’è anche un altro progetto italiano, Andrew Sixty, emerito sconosciuto in patria ma popolarissimo nello Stato sudamericano come testimoniano diverse clip come questa, questa o questa. Nella line up, tra gli altri, figura Max Moroldo, che poco tempo dopo fonda la Do It Yourself e che abbiamo intervistato qui. In estate arrivano “I Want You” dei Po.Lo., prodotto da Mingardi, Vivaldi e Salani sulla falsariga di “Dancing With An Angel” con la voce di Marco Carmassi che ricorda parecchio quella di Naraine, e “Try Me Out” di Corona, rilettura dell’omonimo del ’93 di Lee Marrow cantato da Annerley Gordon ora sostituita da Sandy Chambers ed ispirato da “Toy” delle Teen Dream del 1987. Olga De Souza resta la primattrice del video. Il lato b del disco annovera due remix, quello degli Alex Party e quello di Marc ‘MK’ Kinchen, artefice del successo internazionale dei Nightcrawlers come descritto qui. Kinchen appronta pure una versione strumentale che finisce su un secondo mix codificato, per l’appunto, come Dub Mixes.

In autunno viene annunciato il “divorzio” tra Ice MC e la DWA: Tutto Discoteca Dance fa riferimento alla “stipula di un contratto mondiale tra il cantante di colore e la multinazionale tedesca Polydor” ma per anni le voci che si rincorrono sono discordanti ed alimentano parecchia confusione. Da un lato c’è chi parla dell’uso illegittimo che Campbell avrebbe fatto dello pseudonimo Ice MC – di proprietà della DWA – durante la militanza nella Polydor, dall’altro chi invece punta il dito contro Zanetti, reo di non aver pagato le royalties pattuite a cui il rapper reagisce con una denuncia. «In realtà» come lo stesso Zanetti spiega in un’intervista contenuta nel libro Decadance Appendix, «nessuna delle due versioni è propriamente corretta. Charlie Holmes, manager fino ad allora sconosciuto che viveva a Firenze vicino alla casa italiana di Ice MC, riuscì a convincere l’artista di non essere gestito bene dalla DWA. Ciò portò la rottura improvvisa e non giustificata del contratto e la firma con la Polydor, etichetta con cui, tra l’altro, la DWA già collaborava. A quel punto sorse una causa che venne risolta, amichevolmente, un paio di anni dopo. Holmes aveva un grande potere su Ice MC e lo portò a compiere molte scelte sbagliate che incrinarono la sua carriera. A mio avviso il più grosso errore fu quello di affidare il progetto discografico ai Masterboy che, pur copiando spudoratamente lo stile Robyx, non riuscirono a portare al grande successo brani come “Music For Money” e “Give Me The Light” contenuti nell’album “Dreadatour” uscito nel 1996».

Alexia + Sandy
Nell’autunno ’95 Zanetti lancia Alexia e Sandy come interpreti soliste dopo un numero indefinito di featuring spesso non palesati sulle copertine

L’allontanamento dell’artista su cui aveva scommesso sin dal 1989 e nel tempo diventato un pilastro della sua etichetta non ferma Zanetti che dimostra, immediatamente, di avere un asso nella manica. Nei negozi arriva “Me And You” con cui Alessia Aquilani, da anni turnista per la DWA, diventa Alexia. Ad affiancarla, per una breve parte vocale, è William Naraine dei Double You. Il successo è immediato, il brano conquista il vertice delle classifiche di vendita in Italia e in Spagna col conseguente avvio delle prime tournée da solista. In copertina finisce una foto di Fabio Gianardi che immortala il particolare look della cantante spezzina dalla chioma raccolta in treccioline. Ma le sorprese non sono finite: Zanetti affianca ad Alexia un’altra turnista che ha maturato numerosissime esperienze, Sandra Chambers, ora pronta a spiccare il volo da solista come Sandy. Il suo brano si chiama “Bad Boy” e macina decine di licenze, non solo in Europa, trainato da un refrain di tastiera simile a quello di “Tell Me The Way” dei Cappella, già oggetto di una sorta di ripescaggio nell’omonimo dei The Sensitives nato dalla partnership tra la Bliss Corporation e la Sintetico. A novembre esce “I Don’t Wanna Be A Star” che traghetta Corona nelle atmosfere della discomusic con qualche occhiata a “Can’t Fake The Feeling” di Geraldine Hunt. Il video omaggia la “Dolce Vita” romana ancora con la briosa Olga De Souza, bellezza sudamericana dalla capigliatura fluente e dalla risata peculiare ma un po’ sgraziata, seppur a cantare resti la Chambers. Per non scontentare i fan dell’eurodance viene approntata una versione apposita, la Eurobeat Mix, ma a colpire maggiormente gli addetti ai lavori è la 70’s Mix: in relazione ad essa Nello Simioli, in una recensione apparsa a dicembre su Tutto Discoteca Dance, ipotizza la nascita di un «nuovo filone che possa innalzare il livello qualitativo di un mercato stanco e disorientato». A tirare il sipario sono i Double You con “Because I’m Loving You”, impostato come “I Don’t Wanna Be A Star”: da un lato la versione eurodance pensata come follow-up di “Dancing With An Angel”, dall’altro la ’70 Mix, sincronizzata col video girato in teatro che invece capovolge tutto a favore di dimensioni disco, preservando la linea melodica principale che ammicca a “You Keep Me Hangin’ On” di Kim Wilde. L’idea c’è ma paragonato al predecessore il brano perde un po’ in potenza ed immediatezza. Rispetto alle annate precedenti, quella del 1995 è la prima in cui la frequenza delle pubblicazioni DWA scende a circa una ventina di uscite, riducendo quasi del tutto i progetti one shot e le compilation ed azzerando le licenze estere. Un preludio di ciò che avverrà negli anni a seguire.

1996-1997, un biennio in chiaroscuro
Dopo circa centottanta uscite, la DWA cambia in modo definitivo la numerazione del catalogo del vinile uniformandola a quella del CD: i primi due numeri identificano l’anno, i restanti il tradizionale ordine cronologico di uscita. Il primo è dunque il 96.01 che esce in primavera, “Summer Is Crazy” di Alexia, un pezzo che vuole imporsi come successo estivo sin dal titolo e per cui viene girato anche un video. La Aquilani conferma le proprie doti canore e Zanetti quelle da compositore e produttore. La dance italiana però attraversa una fase particolare, la popolarizzazione di formule strumentali trainata in primis dall’exploit mondiale di “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui) finisce col mettere all’angolo e in ombra il formato canzone sul quale la DWA ha edificato il proprio successo. I suoni della progressive e della dream fanno apparire vecchia e stantia l’eurodance, in tanti(ssimi) preferiscono voltare pagina e cercare fortuna scomodando suoni e stesure che con la dance delle classifiche avevano ben poco in comune.

Alexia - Summer Is Crazy
“Summer Is Crazy” di Alexia, un brano eurodance dai chiari riferimenti dream

In un certo senso lo fa anche Zanetti, come testimoniano i chiari rimandi pianistici a “Children” in “Summer Is Crazy”, portata al Festivalbar e pochi mesi più avanti ricostruita da DJ Dado (e Roberto Gallo Salsotto, intervistato qui) in una versione “pop-gressive”, la World Mix, ottenuta incrociando “Acid Phase” di Emmanuel Top ad “On The Road (From “Rain Man”)” degli Eta Beta J. a cui abbiamo dedicato un articolo qui. Per tentare di cavalcare la transitoria ondata progressive Zanetti riporta in vita, dopo sei anni di assenza, il progetto Pianonegro con “In Africa”, un brano edito anche in formato picture disc nato dalla distillazione della citata “Children”. Ancora una volta appare parecchio evidente che l’artista massese non sia tagliato per i generi strumentali, la sua cifra creativa emerge dalla scrittura di canzoni intarsiate ad efficaci melodie e non dalla ricerca di timbriche inedite che disorientano l’ascoltatore, nuove traiettorie ritmiche o calibrazione di layer davanti a muri di sintetizzatori modulari. «Prima di pensare ai suoni, voci ed arrangiamenti, partivo sempre da una bella canzone» dichiara in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. Con un’anima genuinamente canzonistica Zanetti è dunque un profondo conoscitore della melodia, elemento a cui ha sempre attribuito un ruolo prioritario nelle proprie opere.

A ridosso dell’estate esce il “Megamix” di Corona, composto dai suoi successi usciti tra ’93 e ’95. Quell’anno Olga De Souza è ancora sul palco del Festivalbar ma non come artista bensì come co-conduttrice insieme ad Amadeus ed Alessia Marcuzzi. Tra i cantanti che introduce, come si vede in questa clip, c’è anche Ice MC con la citata “Give Me The Light”, prodotta in Germania dai Masterboy scopiazzando palesemente il DWA style. Zanetti non molla ed appronta un nuovo pezzo per Alexia che esce a novembre, “Number One”, composto sulla falsariga di “Summer Is Crazy” e con l’inciso in comune con “(You’ll Always Be) The Love Of My Life” di Pandora uscito l’anno dopo («alcuni autori britannici mi mandarono un demo da cui presi le note del ritornello, ma tutto il resto fu scritto da me ed Alexia» spiega Zanetti, specificando che ci fosse un accordo a monte di questa scelta). Questa volta oltre al pianoforte childreniano figura pure qualche occhiata a “Seven Days And One Week” dei BBE. Immancabile il video che traina il brano soprattutto all’estero dove l’eurodance non viene intorpidita dalla fiammata progressive. Del pezzo escono svariate versioni remix tra cui la latineggiante Spanish Club Mix in spanglish e la Fun Fun Party Mix, piena di riferimenti agli Alex Party, del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano coadiuvato, tra gli altri, dagli esordienti Harley & Muscle.

E.Y.E. Feat. Alexia - Virtual Reality
“Virtual Reality” di E.Y.E. Feat. Alexia è l’ultimo tentativo della DWA di cavalcare l’onda progressive

Ad inizio ’97 il fenomeno progressive appare già sensibilmente depotenziato rispetto a dodici mesi prima, e nell’arco dell’anno la flessione sarà costante sino ad un calo completo a favore di un ritorno alla vocalità, ad atmosfere più festose e alle tradizionali stesure in formato canzone. Per la DWA, che dopo un triennio rinnova l’impianto grafico ora su fondo nero, l’ultima prova sotto il segno della progressive è rappresentato da “Virtual Reality” di E.Y.E. feat. Alexia, una traccia lontana dalle coordinate robyxiane che tenta di deviare verso stilemi “popgressive” rimaneggiando elementi di “Flash” dei B.B.E. e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. L’effetto finale è la sovrapposizione tra prevedibili bassi in levare e girotondi di “pizzicato style”, propaggine di un effimero trend commerciale sdoganato in Europa da pezzi come “Encore Une Fois” dei Sash!, “La Vache” dei Milk Inc. o “Bellissima” di DJ Quicksilver e probabilmente istigato dai Faithless con “Salva Mea (Save Me)” ed “Insomnia”, entrambi del ’95.

Un riavvicinamento alle sponde stilistiche per cui la DWA si è fatta conoscere nel mondo si registra con “Uh La La La” di Alexia, ma non è propriamente un ritorno all’eurodance: Zanetti vira verso il downtempo più scanzonato ai confini con le pop hit r&b, ma lo fa con cognizione di causa. Il brano, con cui la Aquilani partecipa al Festivalbar, diventa un successo estivo europeo, sorretto da un video registrato a Miami. Della ballad arrivano diversi remix realizzati dai Fathers Of Sound pressati su un doppio che ingolosisce i DJ devoti alla house/garage come Paolo Martini che, in una recensione apparsa a maggio su DiscoiD, spende parole più che positive sul progetto: «quando ho ascoltato il DAT sono quasi svenuto, Alexia ha una voce da panico e nel momento in cui sentirete queste versioni anche voi mi darete ragione. Purtroppo (per noi) ha un contratto in esclusiva con la DWA, cosa farei altrimenti con quella voce…». Nei negozi comunque arriva anche un remix espressamente destinato alle radio e ai locali generalisti firmato da Fargetta affiancato da Pieradis Rossini.

Alexia + Sunbrother
Con Alexia e Sunbrother la DWA ritrova la sua dimensione stilistica

“Uh La La La” è tratto da “Fan Club”, primo album di Alexia che la DWA pubblica insieme alla Polydor vendendone più di 600.000 copie e dal quale viene estratto pure “Hold On” con una versione affidata al brasiliano Memê probabilmente ispirato da “Keep On Jumpin'” di Todd Terry. In Italia però i risultati dell’LP non sono completamente soddisfacenti, a dirlo è la stessa cantante in un’intervista pubblicata ad aprile ’98 sulla rivista Jocks Mag in cui sostiene altresì che la sua presenza al Festivalbar «abbia infastidito qualcuno». Perniola, Bini, Galeotti e Tognarelli tornano sull’etichetta zanettiana ma nelle vesti di Sunbrother con “Tell Me What”, una specie di rilettura di “Stop That Train” di Clint Eastwood And General Saint, un vecchio brano reggae del 1983 reimpiantato per l’occasione su una base macareniana. Netzwerk invece “trasloca” sulla Volumex, etichetta della milanese Dancework, con “Dream”, pop tranceggiante interpretata da Sharon May Linn, completamente disallineato dai due precedenti successi e finito inesorabilmente nell’oblio. Un altro ritorno è quello dei Double You prossimi a firmare con la BMG che, orfani di Andrea De Antoni e reduci di un clamoroso successo in Brasile dove esce l’album “Forever” (ma non edito da DWA), si ripropongono con “Somebody”, brano vicino (forse troppo?) alla romantic dance di Blackwood e alla deviazione pop di DJ Dado. Come per Alexia, anche in questo caso ci pensano i Fathers Of Sound a rileggere il brano in numerose versioni house oriented incise su un doppio mix. Il numero risicato di pubblicazioni, una decina nel 1996 ed altrettante nel ’97, è un segnale che qualcosa sia mutato in modo radicale nella struttura discografica massese.

Gli ultimi anni Novanta
Come si è visto, il 1996 e il 1997 segnano un nuovo passo per l’etichetta di Zanetti. Sono ormai lontani i tempi delle pubblicazioni mensili multiple (l’apice è nel 1994 con circa una cinquantina di uscite annue), delle compilation, delle licenze dall’estero e delle scommesse su progetti one shot. I bilanci della discografia, in generale, cambiano bruscamente nell’arco di pochi anni: a Billboard, il 2 luglio ’94, Alvaro Ugolini della Energy Production dichiarava di aver incassato 1 miliardo e 200 milioni di lire nel ’92 e più del doppio nel ’93 mentre Luigi Di Prisco della Dig It International prevedeva di fatturare, per il ’94 ancora in corso, almeno 30 miliardi di lire. Gianfranco Bortolotti della Media Records invece, in un’intervista del giugno ’95 finita nel libro “Discoinferno” di Carlo Antonelli e Fabio De Luca, parla di 10 miliardi di lire in royalties, presumibilmente relativi all’anno precedente. Gli imprenditori del comparto iniziano a capire che sia necessario produrre meno ed alzare l’asticella qualitativa perché i tempi delle vacche grasse stanno repentinamente trasformandosi in ricordi e a testimonianza ci sono eclatanti chiusure, dalla Flying Records («a causa di un insostenibile carico di debiti» come si legge in un trafiletto di Mark Dezzani su Music & Media del 24 gennaio ’98) alla Zac Music, «in ritirata strategica da un mercato ormai depresso», passando per la Discomagic di Severo Lombardoni (distributore della DWA sino a fine ’96) a cui si aggiungerà, nel ’99, la citata Dig It International. Per DWA inoltre si è drasticamente assottigliata pure la scuderia artistica coi nomi statuari ormai defilati dalla scena o già finiti nel dimenticatoio ad eccezione di Alexia, sulla quale Robyx continua a credere ciecamente spinto e motivato anche da un accordo internazionale stretto nel ’97 con la divisione dance della Sony, la Dance Pool. Da quel momento in poi è la multinazionale ad occuparsi della promozione e della distribuzione della musica dell’artista spezzina in tutto il globo. Adesso la DWA, come Zanetti rimarca a Dezzani in uno special sulla scena delle etichette dance indipendenti nostrane pubblicato sul citato numero di Music & Media ad inizio ’98, «è più una casa di produzione che un’etichetta discografica, stiamo concentrando le nostre energie maggiormente su artisti che possano fare crossover tra la dance e il pop come Alexia, a cui vengono aggiunti remix più incisivi destinati alle discoteche. Ritengo che la strada da percorrere sia quella con meno progetti, in questo modo si possono seguire meglio le priorità. Concentrandosi sulla produzione e la gestione dell’artista, è possibile ottenere un prodotto di qualità, quello che attualmente chiedono i consumatori».

Grafico DWA anni 90
La quantità di pubblicazioni DWA nel decennio 1989-1999

Zanetti parla di questo “ridimensionamento progettuale” anche in un’intervista raccolta per il libro Decadance Appendix: «quando, nella seconda metà degli anni Novanta, i miei colleghi della Time, della Media Records e di altre strutture simili si ingrandivano diventando piccole industrie, io preferii rimanere ancorato a dimensioni ridotte per avere un controllo totale sui miei progetti. Basti pensare che nel momento di massimo successo in DWA lavoravano appena quattro persone, io, mia sorella alla contabilità, un ragazzo in studio come aiuto fonico ed una segretaria. Poi, visto che una volta raggiunta fama e popolarità i miei artisti diventavano intrattabili, decisi di lasciarli per dedicarmi a tempo pieno ad Alexia». È altrettanto importante sottolineare che, oltre ad una quantità minore di titoli immessi sul mercato, la DWA abbia sempre poggiato su un lavoro più indipendentista rispetto a quello delle citate Time o Media Records. Nel Casablanca Recording Studio opera il solo Zanetti affiancato da Francesco Alberti, non ci sono team di produzione che possano garantire una maggiore prolificità e tantomeno non si riscontra la presenza di nessuna sublabel, cosa atipica per i tempi quando ci si inventava marchi di ogni tipo e genere spesso con l’unico fine di evitare l’inflazione, tanta era la quantità di dischi immessi mensilmente sul mercato. Se altri portano avanti un’operosità quasi industriale, la DWA resta invece legata ad una sorta di piccolo artigianato.

Alexia LP
Gli album “The Party” ed “Happy” fanno di Alexia una cantante non più legata esclusivamente alla dance

A marzo del 1998 viene pubblicato “Gimme Love” di Alexia, scritto da Zanetti affiancato nel suo studio dall’inseparabile Francesco Alberti, che pare una specie di rivisitazione italica dei fortunati remix di Todd Terry per gli Everything But The Girl. Italia, Spagna e Finlandia sono tra i primi Paesi a “capitolare” ma qualcosa accade anche oltremanica dove Alexia, per sua stessa ammissione in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile per Jocks Mag, è ancora impopolare. La Dance Pool pubblica i remix (incluso quello degli Almighty) del precedente “Uh La La La” e il brano entra in classifica alla decima posizione, garantendo alla cantante la presenza ad importanti trasmissioni tv, incluso Top Of The Pops. Da noi è tempo del Festivalbar dove Alexia si esibisce prima con “Gimme Love” e poi con “The Music I Like”, secondo singolo estratto dall’album “The Party” uscito a maggio ed inserito in una posizione abilmente giocata tra pop e dance. Le oltre 500.000 copie vendute richiamano l’attenzione del mercato statunitense ed asiatico. La Aquilani figura pure in “Superboy” di Tuttifrutti, un brano bubblegum che Zanetti dedica al mondo del calcio, quell’anno animato dai Mondiali che si disputano in Francia. In autunno è ancora la volta di Alexia con “Keep On Movin'” dove prevale una vocazione maggiormente legata al pop, dimensione in cui la cantante entra definitivamente da lì a breve col terzo album uscito nel ’99, “Happy”, anticipato da “Goodbye” a cui partecipa il musicista Marco Canepa.

Per Alexia è l’LP della consacrazione e la sua musica, seppur ancora in lingua inglese, non è più relegata solo all’ambiente delle discoteche ma abbraccia un pubblico eterogeneo. Anche la sua immagine inizia a conoscere un rinnovamento: appare ancora vispa e sbarazzina, spesso abbigliata con colori fluo così come vuole la moda del periodo, ma senza più le lunghe treccioline. Dall’album viene estratto anche l’omonimo “Happy”, accompagnato da un video in cui l’interprete è proiettata negli anni Sessanta mediante una sorta di macchina del tempo chiamata Virtual Transfer. Nel 2000 tocca ad un inedito, “Ti Amo Ti Amo”, l’ultimo scritto da Zanetti e contenuto nella raccolta “The Hits” che riassume le tappe essenziali della carriera artistica della Aquilani. È l’ennesimo brano a confermare l’abilità del produttore toscano nel costruire canzoni semplici ed efficaci, montate su stesure immediate ed incisi facilmente memorizzabili e collocati in un contesto privo di qualsiasi dettaglio superfluo. Nonostante il considerevole successo, a questo punto qualcosa si incrina. Come riportato sul sito DWA, la cantante chiude un nuovo accordo con la Sony estromettendo Zanetti «costretto ad intentare un procedimento legale per inadempimento di contratto». Alexia ormai non è più la ragazzina dei turni in sala canto, all’orizzonte c’è il Festival di Sanremo a cui partecipa nel 2002 con “Dimmi Come… “ sfiorando la vetta conquistata l’anno successivo con “Per Dire Di No”. Eppure sino a pochi anni prima l’ipotesi di cantare in italiano non la sfiorava nemmeno da lontano: «la lingua inglese mi è molto affine e credo di esprimere con essa il meglio di me stessa» affermava in un’intervista di Barbara Calzolaio pubblicata ad aprile 1998 su Trend Discotec.

Ice MC con Time
I due singoli che nel 2004 segnano la ritrovata collaborazione tra Ice MC e Zanetti

Il ritorno dopo il buio, l’attività nel nuovo millennio
Dopo la rottura del sodalizio con Alexia, la DWA si ferma ma non il suo fondatore che non resta con le mani in mano. Tra le altre cose, Robyx scrive e produce “www.mipiacitu” dei romani Gazosa, hit dell’estate 2001 scelta per lo spot televisivo della Summer Card Omnitel con Megan Gale. La DWA riappare nel 2004 quando, nell’incredulità di molti, l’asse creativo tra Zanetti ed Ice MC viene ristabilito. Il primo risultato della ritrovata partnership è rappresentata dal brano “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” pubblicato in tandem con la Time di Giacomo Maiolini. Contrariamente a quanto si aspettano gli eurobeatiani più convinti e nostalgici, non contiene nulla delle hit nazionalpopolari del rapper britannico se non l’attitudine hip hop che lo accompagna sin dagli esordi spinta verso sponde reggae à la Shaggy o Sean Paul. Il pezzo, per cui viene girato anche un videoclip, è estratto dall’album “Cold Skool” che però passa completamente inosservato. Probabilmente il vero miracolo risiede nel fatto che i due si siano riavvicinati lasciandosi alle spalle i dissapori di metà anni Novanta. «Nel 2004 abbiamo tentato di dare un nuovo avvio alla carriera di Ice MC, prima con “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” e poi con “My World”» (ancora su Time e solo omonimo dello sfortunato album del ’91, nda) ma probabilmente non era il momento propizio per quel genere musicale» dichiara Zanetti in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. «Malgrado non abbiano raccolto ampio successo come negli anni Novanta, nutro grande rispetto per quei due singoli e credo rientrino a pieno merito tra i brani più belli di tutta la discografia di Ice MC» aggiunge. L’eurodance ormai appartiene ad un passato che inizia ad essere remoto, e i suoi protagonisti stanno per trasformarsi in materiale revivalistico. Nel 2005 Robyx si cimenta in un pezzo house, “Wonderful Life” di Creavibe, che affida alla Ocean Trax degli amici Gianni Bini e Paolo Martini. Sono anni piuttosto difficili per il mercato discografico, letteralmente sconvolto dalla “digital storm” che azzera gli introiti legati ai tradizionali formati (dischi, CD e cassette). Il mercato generalista, a differenza di quello settoriale, è il primo a non puntare più sui prodotti fisici. Inizia la corsa alla conversione digitale dei cataloghi nella speranza che ciò possa rappresentare un paracadute ed evitare lo schianto, ma le promesse dell’MP3 non verranno mai mantenute perché non c’è stata, oggettivamente, una generazione ad aver raccolto il testimone della precedente che anziché comprare dischi ha investito denaro in file, perlomeno non nei numeri auspicati.

Ural 13 Diktators - Total Destruction
In “Total Destruction” degli Ural 13 Diktators c’è un brano che riprende la melodia di “Only You” di Savage

Nel frattempo, sotto la spinta dei fermenti underground nati all’estero, in primis nei Paesi Bassi, si prospetta una seconda vita per l’italo disco. Dalla fine degli anni Novanta è un crescendo continuo e da genere bistrattato si trasforma in un trend battuto da alcuni DJ che vantano un nutrito seguito, da I-f ad Hell passando per Felix Da Housecat e Tiga. L’italo disco diventa, insieme ad altre correnti stilistiche come new wave, eurodisco e synth pop, materiale da riconvertire per una nuova generazione. Nasce quindi l’electroclash che fa incetta di un numero abissale di musica “retroelettronica”, svecchiata e pronta a risorgere con nuova energia perché, come scrive Simon Reynolds in “Retromania”, ora il plastic pop «viene spogliato dalle connotazioni negative (usa e getta, finto) e recupera il carattere utopico di materia prima del futuro». Nel radar finisce anche la tastiera di “Only You” di Savage, ricollocata in un inedito scenario dai finnici Ural 13 Diktators nella loro “Name Of The Game” (dall’album “Total Destruction”, Forte Records, 2000). Ancora più d’impatto la Vectron Mix dell’anno dopo messa a punto dal compianto Christian Morgenstern sotto le sembianze di The Bikini Machine, accompagnata da un video immerso nel mondo ad 8 bit dei vecchi videogiochi arcade. Ad innamorarsene è anche Gigi D’Agostino che la inserisce nel primo volume della compilation “Il Grande Viaggio Di Gigi D’Agostino”.

Savage - Twothousandnine
“Twothousandnine” riporta Savage all’istintività degli esordi

Così come accaduto ad Alexander Robotnick, Fred Ventura e ai N.O.I.A., di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui, anche Savage è destinato a tornare a splendere di luce propria in una specie di cortocircuito cronologico col presente sempre più intriso di passato e ciò avviene nel 2009 col brano “Twothousandnine”, dedicato alla figlia Matilde e solcato su 12″ dall’etichetta olandese I Venti d’Azzurro Records. In copertina c’è Zanetti bambino: “Twothousandnine” è fondamentalmente un ritorno alla giovinezza, alla spontaneità e all’istintività dei suoi primi lavori, sotto la campata dell’italo più romantica e malinconica. Il disco è già diventato un cimelio ambito per i collezionisti ed è sulla stessa strada il CD edito dalla DWA. Corrono ancora i tempi di MySpace, l’epoca dei social network è alle porte, il mondo sta cambiando velocemente pelle, quello della musica in modo radicale. La tecnologia mette nelle condizioni di poter approntare brani anche nelle camerette con strumenti dai costi più che abbordabili, tanti giovani provano a fare il salto. Tra quelli anche la venticinquenne Elisa Gaiotto alias Eliza G in cui Zanetti crede producendo “Summer Lie” in cui si ritrova parte del mood di “It’s A Rainy Day”. Passando per le cover di “The Rhythm Of The Night” e “Think About The Way” approntate dai britannici Frisco e quella di “Please Don’t Go” dell’italiano DJ Ross, la DWA mette in circolazione “Mad 90’s Megamix” di DJ Mad, un medley di classici (“Saturday Night”, “Please Don’t Go”, “The Rhythm Of The Night”, “Me And You”, “Think About The Way”) che alimenta la voglia di riavvolgere il nastro di una dance d’antan. Zanetti non perde di vista l’italo disco che continua a conquistare consensi sempre più ampi all’estero e, tra 2009 e 2010, ripubblica in digitale “To Miami” dei Taxi, “Magic Carillon” di Rose, “Buenas Noches” di Kamillo, e la tripletta “I’m Singing Again”, “Show Me” e “Sometimes” di Wilson Ferguson. Non mancano ovviamente i pezzi del repertorio savagiano, da “So Close” a “Good-Bye” (ricantata da Alexia nella versione dei Fourteen 14 uscita nel ’95), da “I Just Died In Your Arms” a “Don’t Leave Me”, da “Time” a “Radio”, da “Love Is Death” a “Celebrate” passando per gli evergreen, “Don’t Cry Tonight” ed “Only You”, sino ai primi tentativi di approcciare all’house music come “Volare” di Rosario E I Giaguari, piuttosto improbabile rivisitazione dell’eterna “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno.

Savage - Love And Rain
“Love And Rain”, l’album di Savage uscito nel 2020

La DWA dei giorni nostri, tra inediti e ristampe
Nell’attività recente e contemporanea della DWA si segnala l’uscita, nel 2020, di “Love And Rain”, nuovo album di Savage di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui. Dal disco vengono estratti diversi singoli come “I Love You”, “Where Is The Freedom”, “Italodisco” e “Lonely Night” dati in pasto ad una nutrita squadra di remixer tra cui il danese Flemming Dalum, intervistato qui. In parallelo viene sviluppato e portato a termine il progetto “Ritmo Sinfonico”, rilettura in chiave orchestrale delle hit dell’etichetta. La costante spinta al recupero di materiale del passato non si esaurisce: sono migliaia ormai le label sparse per il mondo a dedicarsi al reissue, pratica supportata anche dalle giovani generazioni che oggi possono scoprire musiche ed artisti dimenticati con estrema facilità ed immediatezza rispetto alle precedenti che invece non potevano contare su un mezzo potente come internet. Ad onor del vero, la DWA sonda il terreno già nel 1999, anno in cui pubblica circa una decina di dischi contrassegnati dalla sigla CL (ossia CL-assic): ci sono i primi Savage ma anche Stargo, Ice MC e Pianonegro. A distanza di poco più di un ventennio l’etichetta torna dunque ad investire sul proprio passato, mandando in (ri)stampa “Tonight” di Savage e gli album più rappresentativi del proprio repertorio (“Ice’ N’ Green” e “Cinema” di Ice MC, “The Rhythm Of The Night” di Corona, “We All Need Love” dei Double You, “Fan Club” di Alexia) che fanno felici gli irriducibili di un genere rimasto impresso a fuoco nella memoria di un’intera generazione, quello stesso genere a cui Zanetti ha dato credibilità sul fronte internazionale lasciando un’impronta indelebile con la sua inesauribile capacità di suggestionare e rapire l’attenzione di chi ascolta.

La testimonianza di Roberto Zanetti

Cosa o chi ti torna in mente pensando ai primi mesi di attività della DWA?
Senza dubbio Ice MC. Avevo voglia di creare una mia etichetta per essere immediatamente riconoscibile coi miei progetti e differenziarmi da Discomagic, il mio distributore che a quel tempo immetteva sul mercato troppi brani. Così realizzai “Easy” di Ice MC e fu immediatamente un successo incredibile in tutta Europa. Si piazzò ai primi tre posti delle classifiche ovunque ma tranne in Italia.

Perché inizialmente Ice MC venne ignorato nel nostro Paese?
Il primo album, “Cinema”, era più hip hop che dance e non partì dalle discoteche come invece capitava spesso ai miei progetti. Ho sempre realizzato canzoni maggiormente legate al pop che alla dance, ma secondo i DJ dei network nostrani erano troppo commerciali. Nel momento in cui riscuotevano successo in discoteca però entravano anche nelle programmazioni radiofoniche.

Fu la scarsa considerazione in patria a convincerti a non pubblicare su DWA “My World”, il secondo album di Ice MC?
No. Visto il successo del primo album, la Polydor tedesca volle acquisire la licenza del secondo per tutto il mondo.

Quanto costò realizzare i primi videoclip di Ice MC? Ai tempi girare il video di un pezzo dance poteva essere determinante per il successo?
In quel periodo girare un videoclip era molto costoso, mediamente la spesa andava dai cinque ai dieci milioni di lire. A volte riuscivo a contenerla grazie ai contributi delle case discografiche a cui licenziavo i brani. Nel caso di Ice MC, esistono due videoclip di “Easy”, uno realizzato a Parigi quando il pezzo era al numero uno della classifica francese, ed uno a New York fatto quando fu preso in licenza dall’americana Virgin. Ad onor del vero, credo che ai tempi il video servisse poco a lanciare il brano ma risultava comunque importante per far conoscere l’artista una volta che il pezzo era partito nelle radio.

Casablanca Recording Studio
Uno scorcio del Casablanca Recording Studio: in primo piano il mixer Trident Series 80B

La DWA gravitava intorno al suono approntato prevalentemente nel tuo Casablanca Recording Studio: come era equipaggiato e perché gli avevi dato questo nome?
Ho investito nell’allestimento dello studio di registrazione tutti i guadagni ottenuti col progetto Savage, la musica era la mia vita e volevo vivere di quello. Altri colleghi invece spesero tutto in bella vita, donne e champagne, io invece venivo da una famiglia umile ed ambivo a crearmi un lavoro per il futuro. Avevo capito che l’italo disco avrebbe avuto una scadenza e così investii le risorse economiche in uno studio. Affittai una villetta bianca in collina e per questo lo chiamai Casablanca. Ai tempi gli studi di registrazione costavano una fortuna: io spesi cento milioni di lire che nel 1985/1986 erano davvero tantissimi. Avevo un mixer Trident Series 80B, un registratore a 24 tracce Sony/MCI, i monitor Westlake e tante tastiere Roland, Moog e Korg.

declinazioni tag DWA
Le quattro branch della DWA

Nei primi anni di attività alcune pubblicazioni erano marchiate da particolari sigle, DWA Underground, DWA Italiana, DWA Interface e DWA Infective: come mai? C’era forse l’intenzione di creare delle branch in base al genere musicale affrontato?
Sì esattamente, volevo differenziare l’etichetta in base al tipo di progetto. Al tempo non esisteva un genere di dance ben preciso e pertanto procedevo di volta in volta in base ad esperimenti. Ad esempio avevo già creato, a fine anni Ottanta, il fenomeno della “house demenziale” (con dischi come “Volare” di Rosario E I Giaguari e “The Party” di Rubix, nda), non destinato alla DWA ma utile per pagare un po’ di debiti contratti per l’allestimento dello studio.

Esisteva una ragione anche dietro le varie declinazioni grafiche che si sono succedute nel corso del tempo come il centrino carioca, quello fiorato e quello su fondo blu che rimase in uso per un triennio?
No, nessun motivo in particolare. Erano semplicemente il marchio e i colori che si adeguavano ai tempi.

Nel primo lustro di attività la DWA è stata operativa anche sul fronte licenze: c’è qualche pezzo importato dall’estero che ha tradito le tue aspettative?
Non davo molta importanza alle licenze, preferivo piuttosto investire sui miei progetti ma talvolta i pezzi presi oltralpe facevano comodo per le compilation. Nel caso di DJ Bobo, ad esempio, ascoltai il demo al Midem di Cannes e lo presi per tutti i Paesi in cui era ancora libero ma purtroppo il nome stesso “Bobo” era un po’ penalizzante in alcuni mercati. Per CB Milton invece, feci un favore ad un partner straniero che pubblicava le mie cose e con cui ci scambiavamo i rispettivi progetti.

Il mancato supporto di Albertino, probabilmente all’apice della sua popolarità radiofonica tra ’93 e ’94, ha forse pregiudicato l’esito di licenze potenzialmente forti proprio come quelle di DJ Bobo e CB Milton?
Le radio dance erano molto importanti e potevano far decollare un progetto se lo spingevano. Alla fine degli anni Ottanta l’emittente più di tendenza era 105, poi arrivò Radio DeeJay con Albertino che però non ha mai supportato i miei brani sin dalla loro uscita, per lui erano troppo commerciali. Forse la colpa era anche di Dario Usuelli, ai tempi responsabile della programmazione in Via Massena. DJ Bobo era un successo in tutta Europa ed avrebbe potuto esserlo anche qui da noi ma forse, come dicevo prima, era il suo nome a remare contro. In Francia, ad esempio, “bobo” significa “stupido”.

Alexia e Ice MC (1994)
Alexia ed Ice MC in una foto del 1994

In quello stesso periodo Ice MC viene affiancato da una ballerina tedesca, Jasmine, nonostante a cantare nei brani fossero prima Simone Jackson e poi Alexia. Come mai decidesti di ricorrere ad un personaggio immagine, analogamente a quanto avvenne per Corona?
Era una consuetudine abbinare ai progetti da studio dei frontman/frontwoman che avessero una buona presenza scenica nelle apparizioni televisive e negli spettacoli in discoteca. Simone Jackson stava iniziando già la sua strada da solista mentre Alessia Aquilani era bravissima come cantante ma non aveva ancora maturato sufficiente esperienza nei live. Così iniziammo la promozione con Jasmine ma poi, quando esplose il successo di “Think About The Way”, chiamammo pure Alessia per alcune performance pubbliche. Devo ammettere che fu bravissima a crearsi un’immagine e ad imparare a ballare, tanto che poco tempo dopo decisi di produrla per un disco solista con cui divenne la Alexia che tutti conosciamo.

Ritieni che le “controfigure mute” che caratterizzarono prima l’italo disco e poi l’eurodance fossero strettamente necessarie? Secondo più di qualcuno fu proprio la pratica dei cosiddetti “ghost singer” (non solo italiana, si pensi all’eclatante caso dei Milli Vanilli prodotti dal tedesco Frank Farian) ad aver svilito l’immagine dei cantanti dance facendoli passare per personaggi artefatti e privi di ogni talento, insinuando e alimentando ulteriormente i pregiudizi nel grande pubblico.
All’inizio dell’italo disco c’erano ben pochi cantanti e quindi i produttori si ritrovarono costretti ad usare la stessa voce per un mucchio di progetti. Quando questi ultimi iniziavano a funzionare però, serviva un volto che andasse in tv e quindi tornava comodo assoldare fotomodelli e ballerine che impersonassero l’artista. C’erano cantanti, come ad esempio Silver Pozzoli, che prestavano la propria voce ad un sacco di progetti immessi sul mercato con vari nomi. In qualche caso alcuni contavano persino su più immagini simultanee: in Spagna, ad esempio si ricorreva al fotomodello tizio mentre in Germania appariva il ballerino caio. Lo riconosco, era una pratica un po’ spudorata. Gli artisti veri che cantavano realmente le proprie canzoni però erano davvero pochissimi e questo sicuramente non giocò a favore dell’italo disco, ma anche all’estero facevano la stessa cosa, proprio come i Milli Vanilli menzionati prima e peraltro ancora attivi, in playback naturalmente, nonostante uno dei due volti pubblici del gruppo, Rob Pilatus, sia deceduto nel 1998. Analogamente altre band come Bad Boys Blue, Joy o Boney M. hanno cambiato tutti o quasi i membri originali ma continuano a vivere attraverso live con performer nuovi e più giovani.

A partire dal 1995 hai ridotto sensibilmente il numero delle pubblicazioni ed azzerato del tutto le licenze. Rispetto a molti competitor in fase di netta espansione, avevi forse intuito con lungimiranza che per le etichette indipendenti preservare dimensioni aziendali più piccole, a distanza di qualche anno, si sarebbe rivelato un pro e non un contro?
Io sono sempre stato più “produttore” che “discografico”, volevo avere pieno controllo sui miei progetti e pertanto non mi sono volutamente ingrandito come hanno fatto altri anzi, quando mi era possibile stringevo accordi per delegare promozione e distribuzione così come avvenne con la Sony per Alexia. Alcuni miei colleghi si ritrovarono a dover pubblicare un sacco di pezzi per mantenere il fatturato e pagare gli stipendi delle decine di dipendenti che avevano assunto. Come ho già dichiarato in altre interviste (inclusa una finita in Decadance Appendix nel 2012, nda), mi rammarica il fatto che in Italia non siano state create strutture indipendenti importanti. Saremmo stati fortissimi se ci fossimo uniti in un’unica label ed avremmo sicuramente dominato il mondo.

In un paio di occasioni (prima tra ’91 e ’92, con l’esplosione dell’euro(techno)dance, poi tra ’96 e ’97 con la fiammata pop-gressive) ti sei ritrovato a puntare su generi strumentali che non appartengono alla tua verve creativa. Era solo un modo per seguire le tendenze in atto del mercato discografico nostrano?
Quando sei produttore, soprattutto nella dance, devi per forza seguire il mercato ed adeguarti alle sonorità del momento. Io ho sempre cercato di prendere spunti ma modificandoli per farli miei. A volte ho creato io stesso le mode, così come avvenne nel ’93 con “Take Away The Colour” di Ice MC con cui lanciai in Europa l’eurobeat misto al rap-ragga.

Fu l’invasione della cosiddetta dream progressive ad interrompere il successo (italiano) dell’eurodance che nel frangente mainstream pareva non temere rivali?
Sì, ma solo in Italia. Quando arriva un successo planetario come quello di Robert Miles è ovvio che tutto il mondo venga influenzato. Il fenomeno dream comunque è stato più italiano che internazionale, e forse da noi a determinare il successo del filone furono le miriadi di compilation commercializzate con quel nome.

In passato hai speso parole positive sulla Media Records ed anni fa Bortolotti indicò proprio te, in una mia intervista, come uno dei pochi produttori ed artisti in grado di generare successi e denaro con continuità. Sebbene sia stata proprio la Media Records a licenziare in Italia la “Please Don’t Go” dei K.W.S., hai mai pensato di trasformare questa vicendevole ammirazione e rispetto in una collaborazione, analogamente a quanto fatto nel 2004 con la Time di Giacomo Maiolini per rilanciare Ice MC?
In Italia non è facile collaborare perché i discografici citati, ma anche tutti gli altri, hanno un grosso ego ed ognuno vede le cose alla sua maniera. Tutti i miei successi sono nati perché io non davo ascolto a nessuno e facevo di istinto quello che mi veniva in mente, a volte sbagliando, altre creando le hit che conosciamo. Se avessi ascoltato i pareri degli altri non avrei fatto nulla. Sono sempre stato un “solitario” nei miei progetti. Nel ’98, ad esempio, un discografico della Jive mi fece ascoltare un demo di “…Baby One More Time” di Britney Spears chiedendomi se avessi voglia di collaborare con loro e con la Disney ma rifiutai perché stavo lavorando ai pezzi di Alexia che, nel contempo, stava crescendo e volevo dedicarmi solo a lei.

In un’intervista di oltre un decennio fa mi dicesti che una delle ragioni per cui l’Italia non è più sulla mappa della dance internazionale, tranne poche eccezioni, è la mancanza di umiltà. «Negli anni Novanta i francesi si facevano produrre i pezzi da noi, poi hanno imparato a farlo (copiandoci) ed oggi lo fanno meglio perché rispettano i ruoli: esiste il discografico, il produttore, il manager e l’autore, non come da noi che vogliamo fare tutto e male» affermasti, aggiungendo che «se ci fossimo organizzati come gli inglesi, gli svedesi e i francesi saremmo sicuramente i primi produttori al mondo perché abbiamo una creatività esagerata, invece siamo scarsamente considerati dalla grossa industria discografica mondiale e purtroppo oggi, senza multinazionali che investono in promozione, è molto difficile farsi notare ed emergere». Credi che negli ultimi dieci anni la situazione sia cambiata? Hanno ancora ragione di esistere le etichette indipendenti? E quanto conta fare scouting?
Gli italiani sono degli “arrangioni” nel senso che hanno sviluppato l’arte e la capacità di arrangiarsi. Quando hanno un briciolo di successo si mettono in proprio e si gestiscono da soli anche in quei campi dove non hanno alcuna esperienza o talento. Quando un cantante diventa famoso vuole decidere tutto da solo, vuole fare l’autore, il manager, il produttore… ed ecco che quindi perde la freschezza che lo aveva fatto emergere all’inizio. Cantanti popolari come Zucchero, Renato Zero o Ligabue fanno dischi carini ma non forti come all’inizio perché vogliono gestire tutto in autonomia. Se c’è di mezzo un produttore, desiderano che faccia solo ciò che decidono loro. Non esistono più produttori “con le palle”, capaci di prendere per mano l’artista ed aiutarlo a creare un progetto intorno. Forse negli ultimi anni è tutto peggiorato ulteriormente perché le case discografiche sono diventate distributori, non hanno più personale che possa aiutare a sviluppare la parte creativa della musica. Le etichette indipendenti potrebbero assumere un ruolo importante in tal senso e preparare l’artista al grande salto, ma purtroppo quelle storiche sono fin troppo orientate al business. In circolazione ci sono un sacco di artisti validi ma non trovano alcuno sbocco perché non esiste più un vero e proprio scouting. Pure le multinazionali oggi si affidano solo ai contest. Inoltre se adesso vuoi scritturare un artista sconosciuto, ti si avvicina un avvocato del settore pronto a presentarti un contratto pari a quello che un tempo avevano solo le star. Nessun produttore indipendente potrebbe accettare di sottoscriverlo. Questo fa capire come si sia praticamente estinto il concetto di gavetta. Una volta portavi un pezzo a Lombardoni della Discomagic e ti dava settecento lire a copia, poi aumentavano a mille, milledue e, man mano che cresceva il successo salivano le royalties e così guadagnavano tutti. Io forse non pagavo royalties altissime ai miei artisti ma investivo molti più soldi rispetto alle multinazionali. Ricordo, ad esempio, il video di “Uh La La La” di Alexia girato a Miami che costò cento milioni di lire, tutti interamente sborsati dalla DWA. Poi gli artisti mi ringraziavano perché diventavano famosi e guadagnavano tantissimo dai concerti.

Negli anni Novanta a decretare il successo di tanti dischi dance prodotti dalle etichette indipendenti erano le emittenti radiofoniche. Adesso invece? C’è ancora qualcosa o qualcuno che riesce a fare il bello e il cattivo tempo?
Come dicevo all’inizio, il successo poteva partire dalle radio ma anche dalle discoteche: talvolta i network arrivavano a certi pezzi solo quando erano già strasuonati dai DJ, e a me succedeva quasi sempre così, specialmente dopo le prime hit. I disc jockey compravano i nostri dischi a scatola chiusa perché certi di usarli per tenere la pista piena. Quando usciva un DWA c’era un fermento incredibile, talvolta stampavamo quindicimila/ventimila copie solo come prima tiratura. Oggi penso sia tutto casuale, ci sono i nuovi canali rappresentati dai social network a spingere un nome piuttosto che un altro, ma il grande successo parte ancora dal pubblico. Solo in un secondo momento arrivano la radio e la televisione. Resto dell’opinione che non sia possibile far decollare un pezzo solo in virtù di un ingente investimento economico promozionale. Esistono personaggi ricchissimi che producono musica spendendo fortune in pubblicità ma non riuscendo ad ottenere il successo che vorrebbero.

Col senno di poi, quali sono gli errori che non ricommetteresti?
Con la DWA non ci sono grandi errori di cui mi rammarico. Con questo non voglio dire di non aver fatto sbagli ma quelli fanno parte del gioco. Forse come artista, nelle vesti di Savage, avrei potuto gestirmi meglio ma ero molto inesperto e non avendo alcun produttore al seguito ho sbagliato alcune canzoni. Ad un certo punto volevo fare l’electro pop inglese ma il pubblico voleva da me ancora l’italo disco.

A distanza di oltre un ventennio la DWA è tornata a credere nelle ristampe solcando dischi, come gli album “The Rhythm Of The Night” di Corona e “Fan Club” di Alexia, che ai tempi dell’uscita originaria non commercializzò in formato vinile. Paradossalmente oggi ci sono più persone rispetto a ieri disposte ad acquistare certi titoli in un supporto ormai obsoleto per la musica pop? Si tratta forse di banale collezionismo che riduce il disco ad un gadget?
Oggi stampare un disco in vinile costa parecchio, parliamo quindi di un mercato molto di nicchia. Ho deciso di ristampare gli album originariamente apparsi solo in CD per accontentare soprattutto fan e collezionisti. Possedere un disco in vinile adesso dà una soddisfazione che non offre il file digitale. Se poi include canzoni che hanno segnato la tua adolescenza acquista ulteriore valore e rimane nel tempo.

Qual è stato il più alto fatturato della DWA?
Preferisco glissare sul discorso economico perché non potremmo utilizzare il dato per confrontarlo con altre realtà. La DWA realizzava poche compilation, veicolo primario di introiti, e il grosso del fatturato era rappresentato da licenze e royalties che arrivavano soprattutto dall’estero. La rivista Musica E Dischi stilava una classifica annuale delle etichette che avevano venduto più singoli e ricordo con orgoglio quando, tra 1993 e 1994, la DWA era prima davanti a tutte le major malgrado avesse pubblicato meno titoli rispetto ad esse. Quasi ogni disco mix che mettevamo in commercio vendeva infatti oltre trentamila/trentacinquemila copie.

Se l’italo disco non fosse collassata ed incalzata dalla house music negli ultimi anni Ottanta, la DWA sarebbe nata ugualmente?
Certo perché volevo essere autonomo nelle scelte artistiche e musicali ed avrei potuto fare ciò che volevo solo creando una mia etichetta.

E se invece la DWA fosse nata esattamente trent’anni dopo ossia nel 2019, quali artisti o brani ti sarebbe piaciuto produrre ed annoverare nel catalogo?
Sicuramente non avrei mai prodotto gli artisti che non sanno cantare ed usano l’autotune, è facile capire a chi mi riferisco. Mi piacciono tantissimo i Måneskin ma ritengo che avrebbero bisogno di canzoni più forti. Ho apprezzato anche i Melancholia provenienti dalla penultima edizione di X Factor. A livello internazionale comunque, al momento il più forte in assoluto per me resta The Weeknd.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di Max Nocco

01 - Max Nocco 1
Uno sguardo d’insieme su parte della collezione di dischi di Max Nocco

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo in assoluto è stato “Flick Of The Switch” degli AC/DC, comprato nel 1983. Avevo quasi tredici anni e il rock “pesante” era entrato da poco a gamba tesa nella mia testa. Non fu il loro disco migliore anzi, forse uno dei meno riusciti, ma la soddisfazione di averlo tra le mani fu immensa.

L’ultimo invece?
Tra le ultime cose che mi ha consegnato il corriere ci sono “Smooth Big Cat” di Dope Lemon, progetto del cantautore australiano Angus Stone, a metà strada tra leggero rock psichedelico ed umbratili ballate folk/rock, e “Metamorphosis”, gran bel disco ambient ad opera di Multicast Dynamics & Sid Hille, uscito lo scorso anno sull’interessantissima Astral Industries. Domani non so cosa arriverà.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Credo di aver ormai oltrepassato la soglia dei diecimila dischi ma da tempo ho perso il controllo. Continuo a comprare anche CD che ritorneranno ben presto, ne sono sicuro.

Dove è collocata e come è organizzata? Che metodo hai adottato per l’indicizzazione?
In casa ho dischi e libri ovunque: in camera, in cantina, sotto il letto, nel sottoscala. La collezione è organizzata (ahimè) in maniera anarchica, tipo una gang bang estrema di generi. Ho smesso di catalogare i titoli dopo i primi duemila pezzi, poi la pigrizia ha avuto il sopravvento. Non uso nessun metodo di ricerca, vado a memoria visiva e sensazione quando devo organizzare le selezioni per i miei DJ set. Nel momento in cui mi serve un titolo ben preciso e tarda ad uscire dagli scaffali allora è tempo di imprecazioni, e questo avviene spesso.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Pulisco accuratamente i dischi che utilizzo poco, quelli che escono all’improvviso o quelli rimasti fermi per troppo tempo. Cerco di rimuovere la polvere e le pietre di sole, poi li piazzo subito sul piatto. Ricorro alle copertine plastificate solo per i pezzi pregiati e per quelli da ascolti domestici, roba che difficilmente troverebbe spazio in una serata anche se, nella mia “Meditazione A 33 Giri”, oso alla grandissima.

02 - Max Nocco 2
Un altro scorcio della raccolta di Nocco

Ti hanno mai rubato un disco?
L’unico furto che ho subito risale al periodo in cui avevo un negozio di dischi, il Crash. Mi portarono via tutto e fu un momento drammatico. Era il 2001, dovetti ripartire da zero.

C’è un disco a cui tieni più degli altri?
Ci sono dischi che hanno segnato i miei ascolti e decretato le ore chiuso in camera in solitaria, durante la mia adolescenza. Un paio? “Ys” de Il Balletto Di Bronzo (1972) ed “Aktuala” del gruppo omonimo (1973). Sono entrambi molto ricercati, capolavori di un’Italia all’epoca assolutamente all’avanguardia.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Avviene raramente. Ascolto, riascolto e metto da parte. Male che vada, finisce giù in cantina, al fresco, per poi tornare a girare, spesso con piacere e sorpresa.

Quello che cerchi da tempo e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Ormai ho smesso da anni di fare follie e tra l’altro non mi sono mai considerato un collezionista fissato. Preferisco piuttosto far vivere i miei dischi, condividerli nelle serate con gli amici o coi curiosi. I Poison Idea cantavano “record collectors are pretentious assholes” (nel disco omonimo del 1984, nda) ed onestamente non avevano tutti i torti. In questi anni cifre importanti sono state spese per me dalle persone che mi amano per dischi come “1971 – 1974”, il box set dedicato ai tedeschi Faust.

03 - Isaac Hayes + Max
Max Nocco e la sua copia di “Black Moses” di Isaac Hayes con la copertina (pieghevole) cruciforme

Quello con la copertina più intrigante?
Adoro le copertine, le storie che rappresentano e la creatività di chi progetta visivamente un suono. Le cover art molto spesso sono delle opere d’arte, talvolta un po’ bruttine, in tante occasioni persino più eccitanti del disco stesso. Una di quelle a cui sono più affezionato è “Black Moses” di Isaac Hayes, imponente ed esagerata, magnifica nella sua strafottente ed arrogante mania di super grandezza. In fin dei conti parliamo di Isacco, colui che anticipò di almeno vent’anni l’immaginario visivo gangsta rap: date uno sguardo alla sua pelata, agli occhiali e all’oro che luccica in “Hot Buttered Soul” del 1969.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Qui in Salento i negozi di dischi sono sempre stati molto pochi. Da ragazzino spendevo la mia paghetta da Zara e Bello, a Maglie, poi da Sugar Blues e Pick Up a Lecce. Spesso, nei primissimi anni Novanta, prendevo al volo il treno per Bologna e lì spendevo tutto quello che guadagnavo coi miei lavoretti. Entravo da Underground e Disco D’Oro ed uscivo pieno di gioia ma senza più soldi. Ora i miei “pusher” in zona leccese sono Disconutshot di Sergio Chiari (produttore, tra l’altro, del mio “Rusty Trombone” sulla sua etichetta Killed By Disco Records) e Youm di Maurizio Macrì ed Alberto Santoro. Poi ci sono i mitici amici di Pisa del Sanantonio42 (Marco Dragoni e Matteo Chelini) e Marco Rufini col suo storico Music Box Records di Perugia. Il resto lo fa Discogs.

Nella seconda metà degli anni Ottanta hai militato come batterista in diversi gruppi hardcore/metal, dai Crollo Nervoso ai Frattura passando per i Run Patty Run, i Sesta Categoria e i Morte Del Sistema. La vostra musica era incisa in prevalenza su musicassette autoprodotte: frutto di una scelta intenzionale o dettata dall’impossibilità di convincere qualche etichetta a pubblicarla?
Il punk e l’hardcore hanno cambiato per sempre la mia vita, l’hanno salvata dalla merda che circolava nelle strade del mio paese negli anni Ottanta, quando l’eroina dilagava ovunque falcidiando la generazione precedente. Ci interessava poco l’aspetto prettamente musicale e sonoro, volevamo solo fare un gran casino, pogare ai concerti e sentirci vivi e liberi. Quindi zero etichette, si lavorava con gruppi di amici e con una rete fittissima di realtà locali e non. Le autoproduzioni erano all’ordine del giorno: scambi di dischi, file alla posta con pacchi pieni di materiale discografico, fanzine e quant’altro. Si collegavano gli strumenti ad un quattro piste, rec e via. Poi sono arrivati gli Hyoid e gli Shank, forse i miei due gruppi più amati, quelli che mi hanno reso un batterista più decente. Poi la fine.

04 - Max Nocco 4
Altri dischi della collezione di Nocco. Tra gli altri “Neu! ’75! dei Neu!”, “Incubo Sintetico” dei Crimea X, “Buio Omega” dei Goblin e “Docteur Faust” di Igor Wakhevitch

Come sei arrivato al DJing provenendo dal metal? In passato, ma probabilmente ancora adesso, gran parte della gente che popolava il mondo del rock nutriva una pessima opinione per ciò che gravitava intorno alla figura dei DJ e soprattutto alla house, alla techno e derivati, banalizzate e bollate come “musica autocomposta dai computer”.
Non mi sono mai considerato propriamente un DJ, per rispetto soprattutto di chi lo fa con estrema dedizione, tecnica e stile (e il Salento è pieno di grandi ed ottimi disc jockey). Ho sempre girato dischi, prima ancora di iniziare a picchiare la batteria. All’epoca ero l’unico della compagnia del mio paese ad avere un impianto hi-fi, quindi passavo intere giornate a registrare cassette a tutti i miei amici e conoscenti. Nel 1996, insieme a Marco Oliani ed Andrea Coccioli, mettemmo su il Neural, un luogo in aperta campagna tra Corigliano d’Otranto e Soleto che ha ospitato nell’arco di quasi due anni la bellezza di oltre cento performance di gruppi provenienti da ogni parte del mondo. Quasi sempre, quando si spegneva il live, io partivo con le mie selezioni strambe, in cui mischiavo l’elettronica con il rock, il metal con l’hardcore, la techno con la world music. Il concetto di crossover totale, per me, è sempre stato di primaria importanza, come la curiosità di approcciarmi ad altri generi lontani da quello che suonavo con i miei gruppi. Non sempre è stato facile, e non lo è neanche ora, ma è il mio modo di intendere e vivere la musica.

La globalizzazione rende difficilmente credibili problemi e difficoltà che esistevano sino a poco prima del nuovo millennio. Riuscire a trovare certi dischi, ad esempio, poteva essere davvero difficile, soprattutto per chi non aveva la fortuna di vivere nelle grandi città e quindi era lontano dai negozi specializzati. Che canali di approvvigionamento seguivi? Leggevi anche le riviste per tenerti aggiornato?
Sollevavo la cornetta, componevo il numero telefonico dei vari Sweet Music, Top Ten, Disco D’Oro, Jungle, Nannucci, Disfunzioni Musicali, Helter Skelter, Wide, Audioglobe, Banda Bonnot e tanti altri, ed ordinavo i titoli. Nel giro di un paio di settimane i dischi erano alla base, pronti per essere “seviziati”. In questo le riviste sono state fondamentali e continuano ad esserlo, nonostante la crisi della carta stampata.

05 - un particolare del Crash
Un particolare dell’interno del Crash: gli allestimenti sci-fi vengono realizzati interamente con materiale riciclato (pezzi di automobili, tubature metalliche, lamiere, vecchi televisori)

Ad agosto del 1996, così come abbiamo raccontato nel libro Decadance Extra, apri il tuo negozio di dischi a Corigliano d’Otranto, il Crash, rimasto in attività sino al marzo 2008 e specializzato in “musiche altre”. Quali sono i primi tre dischi che ti tornano in mente ripensando a quel luogo?
Per molti il Crash ha rappresentato una piccola isola felice. Davo la possibilità di trovare, a pochi chilometri da casa, titoli import che notoriamente venivano acquistati tramite mailorder. È stata una palestra musicale per un numero importante di artisti e musicisti che nel corso del tempo si sono poi affermati, non solo a livello underground. Riguardo i tre titoli, caspita, non saprei. Sono passati veramente molti anni e tantissimi dischi in quel negozio. Sicuramente i Boards Of Canada con “Music Has The Right To Children”, i Notwist con “Neon Golden” e i Korn con “Follow The Leader”, lavori che vendevo tantissimo e che col tempo sono diventati veri capisaldi.

In quell’intervento finito nel succitato libro hai puntato il dito contro internet per spiegare la ragione della chiusura del tuo negozio e di tantissimi altri sparsi per il mondo. «L’uso selvaggio degli MP3 ha creato una frattura insanabile. Non credo si tratti di dover aggiornare la propria attività, il problema fondamentale è che le persone non comprano più dischi» dicesti, aggiungendo disincantato che «la stragrande maggioranza degli italiani non se ne fa nulla della musica». Per il grande pubblico i dischi si sono trasformati in oggetti da modernariato, c’è chi ne acquista qualcuno pur non avendo un giradischi ma col fine di metterlo in bella mostra su una mensola, a casa. Anche per i DJ mainstream quello del vinile non è più un formato fruibile, gli unici a crederci ancora sono quelli specializzati seppur rappresentino una nicchia piuttosto ristretta, e a testimonianza ci sono tirature sempre più esigue. Credi che la visione romantica della musica abbia ormai i giorni contati? Da qui a dieci anni, come credi si possa evolvere il mercato (o ciò che resta di esso) legato alla plastica circolare?
Sono sempre più convinto che oggi la musica rappresenti per molti solo un semplice passatempo. Che importanza diamo ad essa nella vita di tutti i giorni? Io partirei proprio da questa semplicissima premessa. Stiamo vivendo un periodo culturale alquanto buio per le arti, iniziato già (forse) nei primi anni Duemila, ed onestamente non credo ci sia una via d’uscita imminente. Una decadenza assoluta di pensiero e ricerca. Di storia. Non sono mai stato un nostalgico, un talebano del supporto, ma credo sia necessario ritornare alle origini per comprendere il valore artistico di tutta questa faccenda. Acquisto dischi, riviste e libri da sempre, ma continuare ad avere una “visione romantica” non può più essere vista come una presa per il culo. Non voglio credere ad un futuro senza dischi fisici, non voglio pensare che l’immagine possa avere la meglio sui contenuti.

06 - Max Nocco 6
Un ultimo scatto sui dischi di Nocco: in basso, tra gli altri, si scorgono le copertine di “Origin Of Forms” dei Diasonics e del secondo volume di “Hamam House”

Un fenomeno in forte ascesa da ormai oltre un decennio è quello delle ristampe, dalle più banali legate ai repertori pop/rock di fama mondiale alle più laboriose legate ad artisti misconosciuti che rivelano un poderoso background a monte. Qual è il tuo rapporto con i reissue? Ne acquisti o preferisci gli originali, talvolta dal costo proibitivo?
Faccio incetta quotidianamente di ristampe e per questo evito di fare follie. Da anni seguo alcune label specializzate del settore, Black Sweat Records, Superior Viaduct, Glitterbeat, Aguirre, Wah Wah, WRWTFWW, Soave, giusto per fare dei nomi. Grazie al loro lavoro, molti “fissati” sono riusciti a mettere finalmente mano su musiche dimenticate nel tempo, gemme assolute che oggi risplendono di nuova vita. Certo, non tutte le ristampe escono col buco. Alcune suonano molto bene rispetto agli originali, abbellite da inserti, notizie e memorabilia varia, altre invece lasciano decisamente a desiderare.

Come anticipavi prima, nel 2018 la leccese Killed By Disco Records ha pubblicato il tuo “Rusty Trombone” che ha messo in evidenza la personalità stilistica obliqua che ti contraddistingue. Conti di dare un seguito all’esperienza nel prossimo futuro?
“Rusty Trombone” mi ha dato grandi soddisfazioni oltre a farmi vedere le mie tracce stampate sul formato che più amo. Devo ringraziare Sergio Chiari, una delle persone più competenti in musica che io conosca, da qualche anno proprietario del Disconutshot a Lecce e titolare di diverse label di gran valore, su tutte la White Zoo Records, legata a produzioni di taglio prettamente punk/rock. Ricordo ancora il giorno in cui gli feci sentire il promo di “Rusty Trombone”, così, per scherzo. Volevo solo avere un suo spassionato parere su suoni e arrangiamento, non pensavo mica di farci un disco, non era mia intenzione. Così, dopo aver “fatto la spesa” da lui, tiro fuori una chiavetta USB e gli chiedo: «Mi dici al volo come ti sembra?». Sergio alza il volume del monitor e, dopo appena venti secondi (!), mi risponde: «Ok, stampiamo!». Non ci volevo credere, pensavo mi stesse prendendo in giro, invece era fottutamente serio. Così è nato “Rusty Trombone”. Per me è stato un po’ un cerchio che si è chiuso anche perché Sergio, da ragazzino, veniva a comprare i dischi nel mio Crash. Tutto ha un senso. Poi, nel 2020, in piena pandemia, ho fatto uscire “de Nulla, Vol. 1”, un album da dieci tracce piazzato solo ed esclusivamente su Bandcamp. Si tratta di un lavoro più intimo ed oscuro, meno ritmico, in alcuni frangenti totalmente ambient, genere che amo alla follia da sempre. Probabilmente, sul finire dell’anno, farò uscire un 45 giri autoprodotto, già pronto. Vedremo.

07 - storiella bonsai 1 + 2
Nocco e i due volumi di “Storiella Bonsai”

Ad illustrare la copertina di “Rusty Trombone” è stato Massimo Pasca, lo stesso che nel 2019 ti ha affiancato nel libro “Storiella Bonsai” giunto proprio di recente al suo secondo volume che annovera, come indicato in copertina, “69 ritratti in musica”. Puoi spiegare la genesi della tua idea e il modo in cui sei riuscito a sviluppare con Pasca questa singolare jam session verbo-visuale?
Massimo Pasca è il fratello che ho sempre desiderato (ho tre sorelle ed io sono il più piccolo!). Un artista per me unico, un vero studioso della Storia dell’Arte, un “maestro de psichedelia” come amo definirlo, un visionario puro e curioso che crede ancora nella potenza dei segni e delle parole, e tra l’altro ha pubblicato un CD di dub poetry e spoken word strepitoso, il primo esempio in Italia di questo genere. Ci siamo conosciuti nel 2016 in un festival, io giravo dischi, lui illustrava il suo live painting. Da quel momento non ci siamo più lasciati. Dopo “Rusty Trombone” (ci tengo a ricordare che la copertina è stata inserita tra le cinquanta più belle per il Best Art Vinyl Italy 2018), ho iniziato ad immaginare “Storiella Bonsai”. Il libro è nato per scherzo, dal nulla, su un comodo divano, in pieno inverno mentre facevo zapping in tv. Ho iniziato a buttare giù dei brevissimi pensieri con protagonisti alcuni dei personaggi che hanno segnato per sempre, dall’adolescenza ad oggi, la mia vita. Nel tempo le loro note sono diventate la mia passione, il mio carburante, lo spirito di cui giornalmente ho bisogno. Proprio da qui è partito il mio omaggio a questi artisti (51 nel primo volume, uscito nel 2019 e ristampato nel 2020; 69 nel secondo appena pubblicato, sempre dalla leccese Edizioni Ergot), che sento miei assoluti “confidenti”, tanto da giocare ironicamente con loro, fantasticando surreali “amicizie” e grottesche situazioni. Un tributo personale che non ha assolutamente la pretesa romanziera del novello scrittore, non ne ho né la capacità culturale né tantomeno i mezzi tecnici, ma che può incuriosire e raccomandare a ripetuti ascolti chi non ha mai avuto a che fare con questi musicisti. Quindi, finite le storielle, contattare Massimo Pasca è stato il passo successivo, obbligatorio e indispensabile direi, vista la qualità impressionante del suo lavoro. Sono dei libri a quattro mani che consiglio vivamente a tutti voi.

Se un giorno incontrassi un extraterrestre, che disco gli faresti ascoltare per fargli capire che la popolazione umana è capace di fare cose bellissime nonostante il pianeta di oggi racconti il contrario?
Ce ne sono diversi ma voglio buttarmi su uno in particolare, una roba fatta proprio da un alieno travestito da essere umano: “Aspera” di Michele Mininni, seconda traccia che chiude il lato A dell’EP “Hyper Martino” (Le Temps Perdu, 2016). Un brano che riesco a “vedere” e che mi trasporta altrove, in un tempo dove l’angoscia orchestrale ed esistenzialista à la Klaus Schulze regna sovrana, avveniristica, libera. Mi piacerebbe fare questo regalo agli amici extraterrestri.

Estrai dalla tua collezione una serie di dischi a cui sei particolarmente legato.

Apparat - Arcadia (Telefon Tel Aviv Version)Apparat – Arcadia (Telefon Tel Aviv Version)
È una roba che mi fa volare, tesa allo spasimo, qui in un remix tra i miei preferiti di sempre. “Arcadia” è uno dei migliori pezzi della creatura di Sascha Ring, brano caratterizzato da una linea vocale melodica che deve tanto a Thom Yorke. Il duo americano Telefon Tel Aviv, rimasto poi orfano dello sfortunato Charles Cooper scomparso nel 2009 a soli trentuno anni, spara una bomba elettronica ad alto potenziale dancefloor alternativo, giocando a ping pong con la voce di Sascha ed imbastardendo il tutto con synth onirici ed acidi. Nella seconda parte del remix si è già altrove.

Röyksopp - Poor LenoRöyksopp – Poor Leno
Canzone con una melodia perfetta, una chitarra funk che entra nel cervello e un video che ogni volta… vabbè, ci siamo capiti. I due norvegesi qui al loro debutto assoluto, quel “Melody A.M.” (di cui esiste un’edizione limitata con copertina di Banksy venduta nel 2019 su Discogs per oltre 9000 euro, nda) che più di vent’anni fa aveva fatto gridare al miracolo grazie ad una sintesi tra elettronica, melodie synth-pop, breakbeat, trip hop e mood nordico. Freddo e caldo, macchine e cuore, digitale e analogico, questo è il mondo fatato dei Röyksopp.

Voivod - Astronomy DomineVoivod – Astronomy Domine
Il classico dei Pink Floyd barrettiani rivisitato alla grandissima dai canadesi Voivoid, la mia band metal del cuore. Sono e saranno sempre l’avanguardia del metallo, un gruppo che ha espresso totale libertà nei propri lavori. “Nothingface”, album del 1989 da cui è tratto il brano in questione, è feroce ed iconoclasta come il vento del futuro. È il disco della loro metamorfosi totale, un gelido vento che soffia sulle macerie di un genere troppo integralista, impoverito dai dogmi. Loro, ancora in attività dopo oltre quarant’anni a girare il globo intero, se ne sbattono. Proprio per questo sono amati ovunque.

William Basinski - The Disintegration Loops IVWilliam Basinski – The Disintegration Loops IV
Tempo fa mi è stato chiesto: «Max, come vorresti morire?» La mia risposta è stata la seguente, lapidaria: «In un letto, disteso, con cuffie e “The Disintegration Loops IV” di Basinski». Sì, perché lui arriva sempre con estrema calma, inafferrabile, anche quando non lo cerco. È un dentro vuoto, vuoto fuori: non riesco a farne a meno. È una certezza come l’ossigeno. Mi ritrovo come sempre a fare i conti con questi quaranta minuti, con uno spasmo notturno lungo una vita. Il tempo di chiudere gli occhi ed è subito giorno. Aspetto. Faccio le mie cose. Rappresenta la sinfonia del piacere perduto, dove nulla cambia e tutto si muove. Puro magnetismo cosmico, colonna sonora di un’apocalisse emotiva che sovrasta ogni cosa. Ogni pensiero. Evito di aspettare, mi concedo. (testo tratto da “Storiella Bonsai”)

Jon Hopkins - Open Eye SignalJon Hopkins ‎- Open Eye Signal
“Immunity”, da cui proviene “Open Eye Signal”, è un album che amo, un disco con una visione techno/leftfield da capogiro. Anche qui il video è assolutamente strepitoso e l’ambientazione è superba. Come scrivo in “Storiella Bonsai 2”, «è una fuga verso un altro mondo, dal giorno alla notte, col protagonista che si guarda intorno, scruta il paesaggio ricco e povero. Molto povero. Deserto. Vede nascere la luce con colori mai visti». Hopkins, mi dispiace dirlo, non ha più raggiunto questi livelli.

Deru - 1979Deru – 1979
Forse il disco ambient che ho ascoltato di più negli ultimi anni. Equilibrio tra sperimentazione, melodie, passato e futuro, per un lavoro che custodisco in uno speciale cassetto della mia mente. Il chicagoano Benjamin Wynn, nonostante abbia già una nutrita discografia all’attivo, è ancora oggi un artista poco conosciuto e menzionato, ed è un vero peccato. “1979” è un concept album molto particolare, nato grazie all’acquisto, in un mercatino delle pulci a Los Angeles, di una scatola/proiettore contenente dei ricordi e teorie che, a quanto pare, appartenevano al filosofo Jackson Sonnanfeld-Arden. La colonna sonora di una vita o di un sogno?

Slowdive - RuttiSlowdive – Rutti
Dura dieci minuti questo brano capolavoro che apre “Pygmalion”, terzo lavoro della band culto inglese a cui seguì il buio per oltre ventidue anni, amata da Brian Eno e idolatrata da chi si perde tra gli arazzi distorti e psichedelici del regno shoegaze. Il titolo è terribile ma il pezzo scorre via liquido e surreale, tra chitarre dream e post rock. Ogni volta, mentre lo ascolto, viaggio da fermo, accompagnato da un fantasma con cui faccio subito amicizia. Andata e ritorno in uno spazio sonoro dilatato dove mi perdo piacevolmente per ritrovarmi tra le linee di una copertina spoglia, tipo un labirinto di vinile. Nero.

Joanna Brouk - The Nymph Rising, Calling The SailorJoanna Brouk – The Nymph Rising, Calling The Sailor
Una gemma del 1981, inizialmente racchiusa in “Sounds Of The Sea” stampato solo su cassetta e nel 2016 riproposta in “Hearing Music”, la doppia compilation retrospettiva a cura della Numero Group. Una traccia che utilizzo spesso nelle mie sonorizzazioni a tema teatro (“L’Urlo, Veneri E Vinili”, “Letteratura Erotica Al Femminile In Musica”, “Meditazione A 33 Giri”). Si viaggia letteralmente, bisogna solo chiudere gli occhi e lasciarsi andare. Altri luoghi sono possibili con queste sonorità. Non abbiate paura.

Massive Attack - Paradise Circus (Gui Boratto Remix)Massive Attack – Paradise Circus (Gui Boratto Remix)
Ho comprato questo 12″ single sided quando uscì, nel 2010. Pochissime le copie stampate, unofficial, ora diventate una vera rarità sul mercato dell’usato. Il DJ/producer brasiliano Gui Boratto cavalca per otto minuti uno dei classici più recenti della band bristoliana donando sensualità deep, una chitarra western morriconiana e tanto sesso (il resto lo fa la voce di Hope Sandoval). Se ho voglia di far muovere il piedino a qualche signorina questo è sempre il pezzo adatto, non si smentisce mai.

XXXV Gold Fingers - GalegosXXXV Gold Fingers – Galegos
Marco Erroi è uno dei migliori producer del nostro Paese, oltre ad essere un DJ sopraffino con tanta cultura ed uno stile unico. Tantissimi i suoi progetti, da Common Series a Erroi, Par Le Roi e la serie cult dei re-edit speciali XXXV. “Galegos”, uscito nel 2016 per la What Ever Not di Dan Mela e Dodi Palese, è una lunga frustata deep/afro, con un synth che sballottola alla grandissima. Una vera giungla. Ma non finisce qui. Io e Marco stiamo tirando su una label. Il progetto debutterà nella primavera del 2023. Il primo titolo sarà una compilation su vinile con otto artisti salentini, interamente immersa in area elettronica. Nome dell’etichetta? Dischi Spranti.

Moontribe - TechnologyMoontribe – Technology
La bellezza e la curiosità di questo brano, incluso nell’album “Moontribe”, è pane per i miei denti. Dietro si nasconderebbe uno strano personaggio o un collettivo di cui non si sa nulla. Nel 2018 l’israeliana Fortuna Records ha pubblicato questo assurdo disco che mischia tamburi sciamanici, tastiere devianti, danze latine, Sun Ra, Moondog e Idris Ackamoor. Roba incendiaria, un afro/blues/r’n’r da rito voodoo.

The Nightcrawlers - Crystal Loop IIIThe Nightcrawlers – Crystal Loop III
The Nightcrawlers è stato un trio creato a Philadelphia nel 1980 da personaggi folli, innamorati della musica classica, del krautrock e dei corrieri cosmici. Prima di sciogliersi, nel 1991, incidono tre album e la bellezza di trentacinque cassette, selezionate in piccola parte nel 2018 dalla Anthology Recordings (sublabel della Mexican Summer) per il doppio intitolato “The Biophonic Boombox Recordings”. All’interno quattordici tracce, tra cui “Crystal Loop III”, di pura decadenza sonica in bassa fedeltà, quasi una soundtrack di cupo e paranoico orrore metropolitano, confezionate in una copertina apribile con stranissimi disegni dal gusto esoterico ed un booklet bio/fotografico di ventotto pagine. Da maneggiare con estrema cautela, oppure no.

Golden Bug - YamaGolden Bug – Yama
È uno strano mondo sonoro quello del signor Antoine Harispuru aka Golden Bug, produttore francese con residenza a Barcellona. “Cosmic Trigger”, uscito nel 2019 sulla canadese Multi Culti, fa parte di una serie infinita di EP che, dal 2007, fondono elettronica, acid house, techno e nu-disco a strani e fumanti miscugli dub/world. La psichedelica “Yama”, brano che chiude il lato A, è lenta quanto basta per far andare tutti a casa, dopo diverse ore dietro una consolle.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata