Michele Mausi, una passione per la musica che attraversa il tempo

I più giovani hanno conosciuto la sua musica recentemente ma in realtà il nome di Michele Mausi circola nel settore da oltre trent’anni. Schivo e riservato, è rimasto sempre dietro le quinte e probabilmente questa è la prima volta che sviscera la sua storia in lungo e in largo, parlando dei lontani esordi come DJ radiofonico, della passione per il rock, il metal e i Depeche Mode, della prima esperienza nello studio di Roberto Zanetti alias Savage, delle esigue produzioni discografiche uscite nel corso dei Novanta (tra cui una manciata sulla lombardoniana Subway Records) e dei tanti limiti coi quali la sua regione, la Puglia, ha dovuto fare i conti prima dell’avvento di internet. Non mancano riferimenti al programma radiofonico che conduceva su Radio Company, The Groove Night, alle serate che lo hanno visto protagonista in locali come il Metropolis, il Fabula e il Guendalina e ricordi di quelle in trasferta all’Insomnia di Ponsacco. Archiviato il passato, Mausi riavvia l’attività produttiva dopo quasi venti anni di silenzio mettendo a punto la sua idea di techno che manipola il minimalismo ritmico innestando frenesie hardgroove, a tratti schranz, ed elementi dub e dark ambient. Per propagarla ha creato poi la propria etichetta, la [R]3volution Records, sulla quale ospita anche artisti navigati come Steve Bicknell, Alexander Kowalski, Stanislav Tolkachev, Arnaud Le Texier, Jonas Kopp e Ritzi Lee.

Che tipo di ascolti hanno contraddistinto la tua adolescenza?
Sono sempre stato un divoratore di musica fin dall’età di dodici/tredici anni. Correva la metà degli anni Ottanta e alternavo l’ascolto della dance/elettronica dell’epoca alla nascente house music con l’apprendimento dei rudimenti del DJing stazionando nelle consolle delle discoteche e osservando con attenzione l’operato di chi metteva i dischi. Contestualmente iniziai a scoprire la grande passione per la musica rock, prog, hard rock e metal, e non disdegnavo l’hip hop. Partendo dai Led Zeppelin, Deep Purple, Pink Floyd e Doors, passando per Sex Pistols, Clash, U2, Depeche Mode fino ad arrivare ai Metallica, Nirvana, Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers, Anathema, System Of A Down, Korn, Rage Against The Machine, Green Day, Public Enemy, De La Soul, Beastie Boys, Eric B. & Rakim, e potrei continuare con un elenco pressoché infinito.

Hai mai frequentato il conservatorio o imparato a suonare qualche strumento?
Purtroppo no, e questo è uno dei miei più grandi rimpianti perché avrei tanto voluto imparare a suonare la batteria o la chitarra.

Ritieni che saper leggere lo spartito sia un aiuto o un limite per chi produce musica elettronica?
Saper leggere uno spartito non è mai un limite, a prescindere dal genere che si compone. Tuttavia non lo ritengo fondamentale per un produttore di musica come quella che faccio io, una delle tante variazioni afferenti la techno.

Ci fu qualcuno a spiegarti i rudimenti del mestiere e a farti appassionare al DJing?
Nasco come DJ radiofonico nel 1987 in piccolissime emittenti locali in Puglia, avendo da subito le idee chiare su quello che volevo realizzare. Con amici e colleghi, sull’onda dell’eclatante successo dell’italo house, mi divertivo a realizzare, seppur con approssimazione e strumentazioni rudimentali, bootleg di canzoni pop dance dei tempi. In parallelo, presso alcuni piccoli locali delle province toscane di Siena e Arezzo, dove ogni anno trascorrevo le vacanze estive, iniziai a muovere i primi passi come DJ in discoteca, cimentandomi nelle aperture o chiusure delle serate. Nel 1988 feci un provino e venni assunto da una radio pugliese, Centro Radio, che poi cambiò nome in Radio Company, dove ho lavorato sino al 2005 come direttore artistico della programmazione notturna. Il programma che conducevo, The Groove Night, ha fatto un po’ la storia della radiofonia del sud Italia, con particolare riferimento al fenomeno del DJing, della musica house, progressive, tech house e techno. Dal 1991 al 1994, inoltre, ho preso parte al progetto radiofonico notturno Mix FM gestito da Faber Cucchetti all’interno del palinsesto di una radio romana: conoscere tanti DJ che gravitavano nel mondo della notte della Capitale mi diede la possibilità di lavorare in vari locali della città e, più in generale, del centro Italia. Proprio quell’esperienza, unita a qualche buon consiglio di Faber, mi fornirono l’ispirazione per realizzare il citato programma The Groove Night.

Perché, col passare del tempo, l’FM ha ridotto drasticamente lo spazio per offerte musicali diverse da quelle del mainstream generalista?
Sicuramente ci sono persone più titolate di me che potrebbero fornire un’opinione maggiormente obiettiva. Non sono un editore radiofonico ma credo che ormai la radio sia incatenata a logiche di ascolti e di stream con la sola e unica finalità di attirare investimenti pubblicitari. Del resto quasi la totalità delle emittenti nazionali o multiregionali in Italia è in mano a tre/quattro gruppi editoriali. In tutta franchezza vedo poco spazio sull’FM per offerte musicali differenti da quelle attuali o alternative. D’altro canto però ci sono ottime opportunità per il web: oggi chi vuole fruire di determinati contenuti sa dove andarseli a cercare. La funzione della radio intesa come mezzo di diffusione di musica alternativa ormai è venuta meno.

303 Trance Factor
Il disco di 303 Trance Factor, con un sample di “The Dominatrix Sleeps Tonight” di Dominatrix, è il primo a cui Mausi partecipa, nel 1991

Sul fronte produzioni discografiche invece, come inizi?
Tutto cominciò tra 1990 e 1991 in Toscana: grazie alla grande amicizia con Alessandro Terzi alias Alex T. iniziai a frequentare gli studi di registrazione dove lui realizzava le sue produzioni destinate alle grandi etichette milanesi dell’epoca, da Discomagic a Dig It International. Fu così che conobbi Roberto Zanetti alias Savage, che mi diede la possibilità di mettere piede nel suo Casablanca Recording Studio a Massa per realizzare una versione di “S.l.e.e.p. Tonight” di 303 Trance Factor: si chiamava After-Hour Factor Frequency e chiudeva il lato b. Nei crediti stampati sulla copertina il mio nome non c’era ma quella, di fatto, fu la mia prima produzione discografica. A pubblicarla la DWA (a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda), etichetta destinata a un più che roseo futuro con artisti simbolo dell’eurodance come Corona, Alexia, Ice MC e Double You.

Quindi non disponevi di un tuo studio?
Qui tocchiamo un tasto dolente: sino al 2014 non ho mai posseduto uno studio di registrazione o una strumentazione di mia proprietà, e questo ha rappresentato a lungo un limite. La mia vita artistica dell’epoca era caratterizzata da molte idee ma pochi mezzi a disposizione per trasformarle in qualcosa di tangibile. Per realizzare i miei dischi quindi sono sempre stato costretto ad appoggiarmi a studi altrui, ovviamente a pagamento e investendo parecchie risorse economiche.

Rain Danza
Con “Rain Danza” Mausi approda alla Subway Records del gruppo Discomagic

Il primo disco pubblicato a tuo nome è stato “Rain Danza”, edito nel 1994 dalla Subway Records. Come arrivasti all’etichetta milanese nata sotto l’ombrello della lombardoniana Discomagic?
A invitarmi a Milano fu Emilio Lanotte che lavorava per il gruppo discografico di Severo Lombardoni. Arrivai alla sede della Discomagic, in Via Mecenate, di buon mattino dopo aver viaggiato in auto tutta la notte. Emilio mi presentò Claudio Diva e Nando Vannelli, che ai tempi dirigevano artisticamente la Subway Records, ai quali feci ascoltare un DAT che conteneva quattro tracce, “Rain Danza”, “After The Storm Has Gone” e due versioni di “Death’s Angel” (una delle quali finirà nella tracklist della compilation “Elettronico Tribale” di Marco Dionigi, intervistato qui, nda). Quella sera stessa ero già sulla via del ritorno col mio primo contratto discografico firmato, un assegno da un milione e duecentomila lire in tasca e la macchina piena di dischi della Subway Records e di altre etichette techno e progressive, anche estere, distribuite da Discomagic. I quattro brani vennero suddivisi e stampati su due dischi e per soddisfare la richiesta di Claudio e Nando, che volevano aggiungere al mio nome un acronimo o qualcosa del genere, lì, su due piedi, mi venne in mente J. & M. Project.

Con quali strumenti realizzasti quei brani?
Incisi le tracce in uno studio di registrazione che noleggiavo, pagando un tot per ciascun pezzo, dall’idea iniziale all’incisione su DAT. Sono trascorsi quasi trent’anni ma ricordo, come se fosse un sogno, che usavamo una batteria elettronica Roland TR-909, un sintetizzatore Roland Juno-106 e il Cubase come sequencer. La realizzazione dei brani richiese circa quattro mesi di lavoro e a Milano non mi chiesero di apportare modifiche forse perché rispecchiavano in pieno le caratteristiche stilistiche della label di quel momento. A pensarci bene, oggi, forse li avrei accorciati un po’. Nonostante fossero due uscite distinte, con altrettanti numeri di catalogo attigui, furono commercializzate nello stesso momento e in virtù di ciò mi piace ripensare a esse come un’uscita unica o come un doppio. Sebbene la Subway Records mi fece un contratto che prevedeva la cessione in toto di tutti i diritti, so che i due mix vendettero circa 3500 copie, tra Italia e Spagna. Numeri da capogiro se si pensa che attualmente, con la techno, si fatica a vendere 300 copie in tutto il mondo. Quella doppietta su Subway Records rappresentò al meglio il genere tribal progressive che proponevo tra 1994 e 1995. Qualche aneddoto? Analogamente alla maggior parte dei brani composti ai tempi, anche i miei includevano sample presi da altre produzioni: il vocal di “Rain Danza”, ad esempio, arrivava da “They Say It’s Gonna Rain” di Hazell Dean, del 1985, mentre “Death’s Angel” era un agglomerato di citazioni. I titoli delle versioni, Take A Look e Just Before, pagavano il tributo a “For Whom The Bell Tolls” dei Metallica del 1984 nel cui testo figurava per l’appunto “take a look to the sky/just before you die”, poi c’era un passaggio recitato con la mia voce di “To Live Is To Die” del 1988, sempre dei Metallica, e infine i cori erano prelevati da “Pimpf” dei Depeche Mode, del 1987, ma fatti girare al contrario.

In “Astral Grooves Vol. 1”, pubblicato dalla Marcon Music nel 1995, c’era “Strange Love”, cover di “Strangelove” dei Depeche Mode. Nutri(vi) quindi un debole per la band di Basildon?
Certo. I Depeche Mode sono sempre stati un punto fermo sin dalla mia preadolescenza e hanno influenzato tutte le mie produzioni degli anni Novanta. Secondo me non puoi parlare di musica elettronica se non conosci a memoria almeno le loro pietre miliari. Del resto i Depeche Mode sono sempre stati oggetto di remix da parte di produttori techno (e non solo), da Josh Wink a Speedy J, da Underground Resistance a Ricardo Villalobos passando per Timo Maas, Danny Tenaglia, Underworld e Dave Clarke, giusto per citarne alcuni. Sin dagli esordi in consolle la Hands And Feet Mix di “Enjoy The Silence” realizzata da François Kevorkian era un must nei miei set, specie in apertura di serata, e non c’è stata una sola volta che non abbia riempito la pista. L’EP “Astral Grooves Vol. 1” da te citato conteneva pure l’Optical Spectrum Remix di “After The Storm Has Gone”, uscita l’anno prima su Subway Records, che ai tempi fu la traccia di quel disco più suonata dai DJ, su tutti Francesco Farfa (intervistato qui, nda) e Gianni Parrini.

Astral Grooves 1
Il primo (e unico) volume di “Astral Grooves” edito da Marcon Music nel 1995

Come mai mollasti la Subway Records in favore della pugliese Marcon Music con sede a Spinazzola?
Non ricordo molto bene come andarono le cose, sono passati troppi anni. Forse rimasi deluso dall’accordo che mi fu prospettato dalla Subway Records per le produzioni successive e fui invece allettato dall’opportunità di avere una casa discografica a pochi chilometri da casa. Non sarebbe più stato necessario recarmi a Milano per far ascoltare le mie nuove produzioni visto che all’epoca, per varie ragioni, era preferibile presentarsi nell’ufficio degli A&R di persona coi propri DAT. In quel periodo molti artisti, non solo pugliesi, si avvicinarono alla Marcon Music. Grazie anche ad alcuni amici, che col senno di poi definirei “cattivi consiglieri”, la label di Spinazzola mi fece una proposta economicamente più intrigante rispetto a quella della milanese ma gli esiti purtroppo furono assolutamente deludenti.

Nonostante su quel disco fosse scritto “Vol. 1”, non è mai uscito un seguito di “Astral Grooves”, perché?
È facile spiegare la ragione: da lì a poco la Marcon Music chiuse i battenti e anche in malo modo. Tempo dopo, con un po’ di consapevolezza in più, scoprii che l’etichetta viveva già una forte crisi nel momento stesso in cui firmai l’accordo, difatti non ci fu nemmeno il tempo per fare una buona promozione del disco.

Dopo qualche anno di assenza riappari sulla Richter Records di Daniele Costantini alias Lele Kroover: come si sviluppò quella collaborazione?
La sinergia risale al periodo in cui lavoravo insieme a Sabino Cannone, dal 1996 al 1998. Conobbi Lele in occasione di alcune serate a Foggia e mi chiese di collaborare con la sua etichetta. Tra i risultati ci fu “Excess”, inclusa in “I.U.D (Intrauterine Device)”, per la quale io e Sabino ci firmammo The Blackmen, uno dei vari pseudonimi con cui celavamo i nostri veri nomi.

Analogamente alla Marcon Music però, anche la Richter Records si arena dopo poche uscite.
Quello di Richter Records non lo considero un progetto determinante o un momento topico della mia carriera di produttore. Anche in quel caso si trattò di un’iniziativa promettente solo sulla carta ma che, in sostanza, si rivelò ben poca cosa e infatti credo che Richter Records abbia pubblicato appena cinque/sei dischi. Purtroppo il mondo della musica techno (e non solo) è stato costellato di personaggi pieni di buoni propositi ma che, chiamati alla prova dei fatti, hanno lasciato molto a desiderare.

Audionauts
Il disco degli Audionauts finisce nel catalogo Headquarter, una delle etichette della bolognese Expanded Music

Per un paio d’anni quindi collabori con Sabino Cannone con cui realizzi un 12″ per la bolognese Headquarter del gruppo Expanded nelle vesti di Audionauts, pure quello siglato come Pt.1 ma a cui non segue nient’altro. Perché non continuaste?
Ricordo con molto piacere quella partnership. Ai tempi il nostro set-up era parecchio ricco: sintetizzatori Roland (JX-8P, Juno 106, D-550), Korg (M1), Yamaha (DX7 II), expander (Roland U-220), batterie elettroniche Roland (R-8, TR-909, TR-808, TR-727), poi l’immancabile BassLine Roland TB-303, altre macchine Ensoniq, Doepfer e Buchla e un campionatore Akai S1000. La maggior parte dei sample era realizzata da Sabino che era solito creare ampi layer di suoni (straprocessandoli) per poi campionarli e usarli assieme alla stregua di strumenti “nuovi”. Poi mixavamo il tutto in un banco Soundcraft Spirit (prima) e Behringer 8 Bus (poi). Per quanto concerne l’effettistica, utilizzavano due Lexicon LXP-15 e un modulo Yamaha. Contavamo pure sull’apporto di alcuni compressori e stereo enhancer usati sul master. A livello di DAW invece, iniziammo con Cubase 2.0 e poi passammo a Cubase VST. Insieme all’attuale, fu uno dei momenti più importanti e prolifici della mia carriera, sebbene agli atti risulti appena una sola produzione, quella di Audionauts apparsa per l’appunto sulla Headquarter gestita da Fabrice. In realtà era soltanto la punta dell’iceberg in quanto proprio in quel periodo, ancora una volta con grandi e buoni propositi, io e Sabino producemmo una vasta quantità di materiale destinata però a rimanere in archivio. Possiedo ancora un’audiocassetta con tante tracce finite e altre solo abbozzate. Proprio da una di quelle proviene il riff principale di una delle mie prime produzioni su [R]3volution Records ovvero “Old School Never Dies”. Audionauts purtroppo non andò avanti perché Sabino Cannone, artefice al 50% nonché proprietario dello studio, si trasferì a Milano per motivi di lavoro e preferì seguire progetti musicali di altro genere.

Il repertorio discografico è stato determinante per la carriera di molti DJ. A posteriori, avresti investito più risorse nell’attività produttiva durante gli anni Novanta?
Sì assolutamente, se avessi avuto la possibilità. In estrema franchezza, la localizzazione geografica non aiutava molto. La scena techno barese, a parte la Minus Habens Records di Ivan Iusco (di cui parliamo qui, nda) che peraltro seguiva un genere diverso dal mio, non offriva granché sul fronte produzioni discografiche. Non c’era, per intenderci, tutto quello che potevi trovare in altre città come un substrato composto da distributori, etichette e importatori. Rimanendo al sud, mi viene subito in mente Napoli, dove in quegli anni muovevano i primi passi artisti destinati a fare la storia della techno underground internazionale come Gaetano Parisio alias Gaetek (intervistato qui, nda) e Marco Carola.

Su quali etichette ti sarebbe piaciuto vedere incisa la tua musica?
Senza subbio sulla berlinese Tresor, sulla prima Drumcode (che non ha nulla da spartire con quella attuale), ma pure sulla Soma e R&S, solo per citare alcune di quelle che seguivo con più interesse. Agganciare certe realtà comportava però un trasferimento a Londra o in Germania ma all’epoca feci scelte differenti.

Michele Mausi in studio (2023)
Un recente scatto che immortala Michele Mausi nel suo studio di registrazione

Da qualche anno a questa parte le tue energie profuse nella composizione sono di gran lunga superiori rispetto al passato. Cosa o chi ti ha fatto tornare la voglia di creare musica?
Dopo il biennio di collaborazione con Sabino Cannone ho cercato costantemente di ricostruire l’equilibrio perfetto e l’alchimia con qualcosa di più concreto alla base, come uno studio di registrazione. Nel 2012 iniziai a ripensare a quel periodo e tornò forte la voglia di riprendere a produrre musica. In tal senso è risultato fondamentale l’incontro e il sodalizio con Daniele Petronelli col quale ho messo a fattor comune la mia esperienza e conoscenza di una certa tipologia di techno e lui l’abilità da produttore discografico. Senza il suo contributo [R]3volution Records non sarebbe mai esistita. Rispetto agli anni Novanta, oggi è infinitamente più semplice produrre musica, in teoria basterebbe un personal computer. Nonostante questo credo però sia ancora fondamentale disporre di uno studio di registrazione come luogo fisico in cui finalizzare i propri progetti. Nel contempo trovo indispensabile l’utilizzo di strumenti “veri” per realizzare la mia musica, tenendo sempre Ableton Live come riferimento per la post-produzione. Attualmente dispongo di un set up composto da Roland SH-101, Roland TR-8, Roland TB-3, Moog Minitaur, Clavia Nord Lead 2x, Behringer Neutron, Korg Triton, Arturia Analog Lab, Arturia Modular V3, Arturia ARP 2600 V, Arturia Mini, Roland Jupiter-8, Roland System-1, Softube Model 72, Akai APC 40 MKII e una scheda audio Apollo Twin. A parte alcuni sistemi semi-modulari sopra indicati, sto approcciando gradualmente a sistemi completamente modulari che offrono una totale libertà di creazione ed elaborazione suoni, cosa di fondamentale importanza per essere individuati e riconosciuti nel genere che seguo.

Con quali obiettivi nasce la tua etichetta, la citata [R]3volution Records?
[R]3volution Records è da sempre il mio sogno, un progetto pensato a lungo partito con investimenti importanti che oggi iniziano gradualmente a rientrare. Nasce nel 2016 con l’obiettivo di pubblicare solo la mia musica con l’inserimento di remix firmati da artisti di riferimento della scena, cosa effettivamente avvenuta nelle prime pubblicazioni. Determinante è stato l’accordo stretto con l’attuale distributore, la Triple Vision di Rotterdam subentrata ad altri partner/distributori poco affidabili e scarsamente performanti, che ci ha fornito visibilità e soprattutto credibilità nella scena techno a livello mondiale. Abbiamo iniziato a ricevere tantissime demo provenienti da artisti di tutto il globo e questo mi ha convinto ad allargare gli orizzonti e pubblicare una serie di trilogie ed EP solisti arricchiti da remix. Nel 2021 ho creato un secondo catalogo attraverso [R]3volution Uncod3d, sublabel destinata a dare voce ai tanti talenti emergenti che quotidianamente ci inviano le proprie demo. Con questa ulteriore ramificazione stiamo gradualmente portando sull’etichetta principale solo gli artisti più affermati.

The Black Hole EP
Con “The Black Hole EP” la [R]3volution Records debutta sul mercato discografico

Come conti di procedere nel prossimo futuro?
L’obiettivo rimarrà produrre techno di qualità e senza compromessi. In tutta onestà, oggi fare ciò significa poter puntare al pareggio dei costi nella più rosea delle aspettative. Stiamo ripensando al numero di uscite da pubblicare su vinile visto che i tempi di stampa sono arrivati a toccare l’inverosimile, ventotto settimane dopo l’approvazione del test pressing: ciò vale a dire che, salvo rare eccezioni, nei negozi arriva musica prodotta almeno otto/dieci mesi prima. Dal punto di vista artistico penso di continuare su questa linea, ponendo l’attenzione su raccolte in vinile di vari artisti affiancate a pubblicazioni solo digitali mantenendo in essere i due cataloghi.

Su [R]3volution Records sono apparsi anche artisti navigati come Steve Bicknell, Alexander Kowalski, Stanislav Tolkachev, Arnaud Le Texier, Jonas Kopp e Ritzi Lee. Quali sono altri che ti piacerebbe ospitare?
Senza dubbio i miei preferiti di sempre, Jeff Mills, Luke Slater, Surgeon, Regis, Oscar Mulero, James Ruskin, The Advent, Tensal…

Le tue vecchie chart apparse su DiscoiD nel 1995 rivelano l’interesse per un bacino stilistico fatto essenzialmente da techno, trance ed acid con dischi su Harthouse, Psy-Harmonics, R&S, 909 Pervertions, Platipus, Bonzai, M-Track, Urban Sound Of Amsterdam e Jus’ Trax, per citarne alcune, ma una particolare attenzione la rivolgevi pure ad artisti come Cari Lekebusch, Surgeon, James Ruskin e Steve Stoll. Dove trovavi questo materiale? Ti recavi anche all’estero per reperire con più facilità musica non capillarmente distribuita nel nostro Paese?
In effetti all’epoca, per poter fare la differenza, era indispensabile avere accesso a fonti di approvvigionamento privilegiate. Non avevo la possibilità di recarmi all’estero, un problema comune a tutti quelli che, come me, si trovavano nel meridione, tuttavia avevo rapporti continuativi con negozi di dischi in Italia che effettuavano importazioni dirette come Disco Più di Rimini, Zero Gravity di Udine (di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra, nda) e Remix di Roma. Ai tempi il mio nome si trovava anche nella promo list di alcuni distributori e importatori come Flying Records o Discomagic, e allora erano davvero pochissimi i DJ del sud Italia a ricevere promo.

Michele Mausi, DiscoiD 1995
Una vecchia foto di Mausi tratta dal magazine DiscoiD (1995)

La consultazione di quelle classifiche fa riaffiorare anche i nomi di alcuni locali pugliesi in cui lavoravi come il Camelot, il Renoir e il Domus Area. A quali club sono legati i tuoi ricordi più emozionanti di quegli anni?
Quelli citati erano locali in cui ho suonato come ospite per delle one night. I club ai quali sono maggiormente legato erano quelli che ospitavano, in modo più o meno frequente, serate destinate a un pubblico più underground come il Guendalina dei primi anni, il Madà, il Fabula, il Metropolis, il Remake, il Jubilee e ovviamente il Divinae Follie. Alla lista aggiungerei poi l’Insomnia in Toscana e il Cellophane, l’Ecu e il Gheodrome in Romagna. Non posso esimermi dal citare infine l’after hour itinerante che io stesso organizzavo in collaborazione con le principali organizzazioni e PR di allora, l’Evolution Fuori Orario.

Sei stato tra i pochissimi in Puglia a proporre un certo tipo di techno, legata prevalentemente al minimalismo di Jeff Mills o a quello berlinese in stile Basic Channel, in un momento storico in cui questa tipologia sonora aveva ben poca presa commerciale e la techno, per il grande pubblico, era davvero tutt’altro. Tale scelta ha pregiudicato in qualche modo la tua carriera rispetto a quella di coloro che invece preferivano proporre un suono facilmente “decodificabile” e assimilabile?
Non sono mai stato capace di assecondare le masse e seguire l’onda delle mode del momento come molti facevano ai tempi e continuano a fare ancora adesso. Da una certa prospettiva, questo potrebbe essere considerato un limite ma anche un punto di forza. Nella musica, così come nella vita, ho sempre fatto ciò che sentivo e quasi mai ciò che avrei dovuto fare, a prescindere dalla convenienza o dal tornaconto personale. Tanti artisti sono finiti nell’oblio, altri invece hanno deciso di sfruttare il DJing per qualcosa di lucrativo (scelta che non condivido ma che rispetto) facendo passare per techno ciò che assolutamente non lo è. Non diventerò mai ricco producendo musica ma mi resta almeno la certezza di non dover scendere a compromessi per fare ciò che amo di più.

C’è un pezzo che usavi come “arma segreta” per dare una scossa al tuo pubblico e che avresti voluto produrre?
Mi metti un po’ in difficoltà visto che sono tantissimi i brani che avrei voluto produrre e che usavo come “armi letali”. I primi che mi vengono in mente sono titoli accomunati dall’uso della TB-303 e diventati un po’ commerciali, ossia gli Attack Records di Emmanuel Top (in particolare “Tone”, “Stress” e “Turkich Bazar” a cui aggiungo “Rubycon” finito su Le Petit Prince), poi le prime produzioni di Plastikman e il First Remix di “Pullover” di Speedy J.

Al netto della nostalgia, ritieni che esista ancora la club culture? C’è stato un ricambio generazionale tra coloro che frequentavano le discoteche in primis per la musica proposta?
Parlando di club culture autentica, in Italia direi proprio di no, a parte pochi festival. All’estero, da quello che so, esistono luoghi dove (r)esiste ancora, come a Berlino, nel Sud America o in Spagna. Purtroppo in un mondo dove tutto si è appiattito e massificato, musica compresa, parlare di club in riferimento al genere proposto è complicato e assistere a quello che fanno le nuove generazioni non fa certamente sperare in meglio.

È vero che internet ha ucciso l’underground?
Da un certo punto di vista sì, ma guardando le cose da un’altra prospettiva, forse internet potrebbe in qualche modo alimentare l’underground stesso.

Per chi è stato un affare trasformare i disc jockey in rock star?
Sostanzialmente per le aziende che producono e vendono equipment, ma anche per i social media.

Se potessi rivivere un giorno (o un anno) del mondo che abbiamo raccontato in questa intervista, quale sceglieresti e perché?
Il passato è passato ma rivivrei volentieri tutto il 1997 che per me rappresentò l’apice. Tuttavia sono ottimista e guardo al futuro quindi direi che l’anno migliore deve ancora arrivare.

(Giosuè Impellizzeri)

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