Art Déco, l’anello di congiunzione tra new romantic e italo disco

01) Art Deco (1983)
Gli Art Déco immortalati durante una serata al New Life di Venezia nel 1983: da sinistra Stefano Montefusco, Marco Todesco e Claudio Valente

I primi anni Ottanta rappresentano un momento storico fondamentale per la musica, specialmente quella elettronica. La diffusione di sintetizzatori, drum machine e sequencer ispirano intere generazioni di giovani musicisti che riescono a comporre anche senza ricorrere a studi di incisione multimilionari, necessari sino a poco tempo prima. Il proliferare di piccole etichette indipendenti, d’altro canto, alimenta la creatività e rende fattibili anche imprevedibili collisioni stilistiche, rivelatesi seminali per generi futuri. In Italia lo sdoganamento dei sintetizzatori viene intercettato sia da coloro che armeggiano con la discomusic e si ritrovano, inconsapevolmente, a gettare le basi dell’italo disco, sia dai fedeli del rock e del punk che si buttano a capofitto nella new wave sul modello britannico e nordeuropeo, come i veneti Art Déco.

«Ci formammo nell’autunno del 1982 da un’idea mia, che mi occupavo di voce, testi e musiche, e il tastierista Marco Todesco» spiega Claudio Valente. «A noi si unirono presto Stefano Montefusco alla batteria e Gianpaolo Diacci al basso. Avevo iniziato da poco a scrivere ed esibirmi con una band punk wave mentre Todesco e Montefusco venivano da esperienze prog. Tutti ci sentivamo attratti dalla nuova scena new romantic compreso Diacci che arrivò rispondendo a un classico annuncio affisso sulla bacheca dei negozi di dischi di Mestre. Oltre a David Bowie e i Roxy Music, i nostri riferimenti erano rappresentati sia dai gruppi synth pop d’oltremanica come Ultravox, Japan, Visage, Human League, Tears For Fears e Depeche Mode, sia dalla new wave più “buia” dei Joy Division, New Order e Cure. L’idea di proporre un sound sperimentale e raffinato che riproducesse le atmosfere mitteleuropee ma nel contempo fosse anche ballabile ci portò a scegliere come moniker il nome del movimento artistico sbocciato nei primi del Novecento, a cavallo tra avanguardia e modernismo, tra sperimentazione e mercato, che in qualche modo potesse evocare pure l’estetica new dandy che tra l’altro portavamo sul palco con l’adozione di un look assai ricercato. Nacquero così gli Art Déco, la prima band new romantic d’Italia in assoluto, non solo per genere musicale ma anche per l’abbigliamento che ci faceva apparire come giovani adolescenti appena usciti da un party del Blitz di Londra, mecca del movimento new romantic».

02) Art Deco (1984) A
Un live degli Art Déco al Charisma Club di Mogliano Veneto nel 1984: nella foto di Carlo Chiapponi ci sono Marco Todesco alla tastiera e Stefano Montefusco alla batteria

Sebbene la loro musica risulti avere più rapporti e connessioni con new romantic e new wave, in Italia gli Art Déco finiscono nel calderone eterogeneo e multiverso dell’italo disco che a detta di molti, a partire dal 1985 in avanti ingloba progressivamente musiche e interpreti alquanto discutibili. Ai tempi però la classificazione dei generi è assai sommaria e talvolta gli ibridi restano privi di una collocazione precisa, in una sorta di limbo. «Senza ombra di dubbio gli Art Déco erano in linea con lo zeitgeist new romantic, forse in maniera ancora più preponderante rispetto alla new wave, e questo finì col portarci in un’area mainstream» prosegue Valente. «L’esplosione dell’italo disco ci permise di ottenere il primo contratto discografico in quanto i produttori indipendenti stavano investendo sempre di più su quel genere e aziende come Il Discotto e Discomagic supportavano con distribuzione e promozione quei prodotti senza fare troppi distinguo, tanto che ancora adesso i nostri EP sono catalogati, sul mercato del collezionismo, come italo disco. All’epoca vivevamo con fierezza la nostra diversità di discendenza all’interno di quell’enorme macro genere considerandoci, con un po’ di sana arroganza giovanile e dandy, molto più cool dei colleghi smaccatamente dance, ma nel contempo scontavamo la differenza occupando un mercato più di nicchia e meno nazionalpopolare. Anche rispetto alla scena new wave nostrana, decisamente più spostata sul gothic e dark e ossessionata dal cantare in lingua italiana, gli Art Déco partivano come outsider perché considerati troppo mainstream ma questa era una cosa che vivevamo con spensierato divertimento e sentendoci più “avanti” degli altri».

Dopo qualche anno per la band mestrina giunge l’ora di incidere un disco. «Vista l’enorme disponibilità di tempo libero (io e Diacci eravamo ancora studenti, gli altri appena diplomati ma senza lavoro), trascorremmo un anno in classiche e interminabili session pomeridiane e notturne» continua Valente. «Utilizzavamo mezzi semplici come registratori a cassetta per poi approdare a un classico Fostex a quattro piste. Stavamo cercando di capire come proporci a eventuali etichette quando sentimmo parlare dei Nite Lite, band di Mestre in cui cantava Massimo Filippi che aveva scelto di impegnarsi come produttore indipendente aprendo la sua label, la Art Retro Ideas, sulla quale era già uscita la seminale compilation di new wave veneziana intitolata “Samples Only”. Conoscemmo Filippi quasi per caso una sera, all’esterno di una sala prove in centro a Mestre, alla fine di una session dei Nite Lite. Stavano trasportando in auto un sintetizzatore, un Yamaha DX9, e incuriosito mi fermai, insieme a Marco Todesco, per entrare in contatto con altri musicisti che come noi usavano macchine elettroniche per comporre. Facemmo amicizia e a quel punto Filippi ci disse che era in cerca di nuove band per la sua neonata etichetta. Decidemmo così di proporgli una demo di alcuni nostri brani di cui ricordo ancora i titoli, seppur poi furono scartati: “Danceway” e “Dreamless Nights” che ho riproposto di recente in un mio lavoro intitolato “Il Blu Di Ieri” ma in una versione italiana intitolata “Notti Senza Sogni”. Si tratta di un pezzo che rievoca nel testo e nell’atmosfera proprio quella sensazionale stagione musicale».

03) Because The Movie Is On
La copertina di “Because The Movie Is On”, brano d’esordio degli Art Déco (1985)

Per gli Art Déco giunge quindi il momento di debuttare sul mercato discografico. Il 12″ che la Art Retro Ideas pubblica nel 1985 si intitola “Because The Movie Is On” e è un sunto tra new romantic, synth pop e italo disco. «Registrammo due versioni del pezzo ma Filippi scelse di pubblicare solo la seconda, più elettronica e con un nuovo ritornello, con una melodia completamente diversa che modificai in corso d’opera» chiarisce Claudio Valente. «La batteria era una Oberheim DMX perché nel frattempo Stefano Montefusco, purtroppo, partì per prestare il servizio militare in Libano. Tuttavia l’utilizzo di una drum machine fu un ingrediente che ci caratterizzò, almeno nelle incisioni in studio. Tra le tastiere invece una Roland Jupiter-8 e una Elka Synthex. Intanto all’orizzonte comparvero Alessandro Spanio, il bassista che sostituì Gianpaolo Diacci per problemi di salute, il chitarrista Paolo Sisto e Marco Paties che suonava un po’ tutto. Nel contempo David Mora dei Nite Lite, chitarrista, tastierista e programmatore di sequenze, ci aiutava collaborando dietro le quinte.

Registrammo “Because The Movie Is On” al mitico Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian (intervistato qui, nda), a Gambellara, uno studio simbolo per chi produceva italo disco in quegli anni e da dove sono transitati davvero tantissimi artisti. Dian resta uno dei musicisti e tecnici di studio più competenti che abbia mai conosciuto, oltre a essere il più paziente per noi adolescenti alle prime armi e piuttosto presuntuosi. Non ho mai visto nessuno fare con la sua stessa precisione i tagli sul nastro analogico con lametta e nastro adesivo e incollare al punto esatto i due pezzi della bobina. Per quanto concerne invece l’aspetto più commerciale, il disco vendette circa cinquemila copie e avrebbe potuto raggiungere soglie ancora più ragguardevoli dato che lo passavano tante radio e club del nord est ma Il Discotto non lo distribuì bene, molti cercavano il mix nei negozi senza trovarlo. La promozione invece fu lasciata alla Art Retro Ideas che però, essendo una piccola etichetta indipendente, arrivava fin dove era possibile. Anche il profilo artistico era curato dalla label di Filippi, incluse le grafiche, gli shooting fotografici, gli showcase… un sacco di lavoro insomma. A tal proposito mi tornano in mente alcune serate promozionali che ci dividemmo con Valerie Dore e altri artisti del panorama italo, soprattutto in club e discoteche del nord est, la nostra zona d’origine».

04) European Crime
L’artwork di “European Crime”, sviluppato da un fotogramma del film “Blade Runner”

Il follow-up di “Because The Movie Is On” è “European Crime” in cui gli Art Déco continuano a rimarcare la chiara adesione alla new wave, presente anche nel brano inciso sul lato b, “The Fake Of Lovin'”. «”European Crime” è il disco del nostro repertorio che preferisco ed è tuttora un fiore all’occhiello perché rappresenta perfettamente ciò che erano e volevano essere gli Art Déco nel loro momento migliore» afferma candidamente Valente. «Si trattava di new wave romantica dal sound suggestivo ma nel contempo ballabile nei club, del resto come New Order, Human League o Simple Minds. Eravamo in linea con la scena internazionale e questo lo dico con grande orgoglio. Registrammo il disco sempre al Sandy’s Recording Studio con le stesse modalità del precedente ma in quell’occasione Il Discotto mandò Maurizio Chiesura, un suo A&R, ad ascoltare e divertirsi nel realizzare una versione alternativa e creativa (sic!) insieme a Massimo Filippi e Sandy Dian, inserita come bonus sul lato b.

Tra gli strumenti utilizzati una batteria elettronica Linn 9000, un sintetizzatore Oberheim OB-8 e una Yamaha DX7. Per il sequencer invece adoperammo, analogamente a quanto fatto in “Because The Movie Is On”, uno Yamaha monofonico. Il basso elettronico del brano, infine, fu doppiato da uno vero suonato da Alessandro Spanio. Pure quella volta cambiai il ritornello poco prima di incidere la parte ma conservo gelosamente la demo originale insieme a quella di “Because The Movie Is On”. Per il resto, mi spiace dirlo, ma il team de Il Discotto riuscì a fare peggio di quanto avesse già fatto, investendo pochissimo in promozione, forse perché rapito da altri progetti senz’altro più commerciali del nostro che, in quell’occasione, mostrò un volto molto poco italo disco. Tuttavia l’accordo prevedeva che fossero loro a distribuirlo quindi non potemmo fare granché se non constatare i problemi. Dopo il fallimento il catalogo fu venduto alla tedesca ZYX che ancora oggi utilizza i nostri brani per le loro compilation… italo disco».

Oltre all’ispirazione tipicamente nordeuropea, ad accomunare i primi due dischi degli Art Déco è l’apparato grafico delle copertine curate da Luigi Gardenal, immerse tra futurismo e surrealismo. «Per noi la grafica era importante quanto la musica» afferma a tal proposito Claudio Valente. «Gardenal seppe interpretare magnificamente l’atmosfera di “European Crime” con quel fotogramma tratto da “Blade Runner” (un film mito per noi!) rielaborandolo pittoricamente. Consideravamo fondamentale evocare suggestioni artistiche anche attraverso le copertine dei nostri dischi e sia futurismo che surrealismo erano senz’altro movimenti che ci affascinavano e sentivamo vicini. Sull’artwork di “Because The Movie Is On” invece Gardenal inserì una fotografia di Stefano Padovan, fotografo che ha raccolto grosso successo internazionale nel campo della musica e della moda».

05) Secret Divine
“Secret Divine” è il disco conclusivo per gli Art Déco

Nel 1986 arriva il terzo e ultimo disco degli Art Déco, “Secret Divine”, in cui la componente new wave è ridotta rispetto ai due precedenti. Prodotto ancora da Massimo Filippi e mixato al Nova Studio di Vicenza, esce su Modern Music Productions, una delle centinaia di etichette distribuite dalla lombardoniana Discomagic. Spiccatamente art déco la copertina, in stile Tamara de Lempicka. «”Secret Divine” fu il nostro ultimo mix e quello più italo della triade» spiega Valente. «Lo registrammo al Simple Studio di Reggio Emilia con Ivana Spagna, collaboratrice del fonico, che si occupò dei cori. In quell’occasione ci fece sentire in anteprima “Easy Lady” e la sera venne a cena da noi speranzosa che una volta uscito andasse bene. Due mesi dopo era prima in classifica! Ivana era bravissima sin da allora, oltre a essere molto simpatica e alla mano. Anche in “Secret Divine” ci fu il “tradizionale” cambio del ritornello all’ultimo momento. In archivio conservo la demo originale, a questo punto potremmo pensare a una pubblicazione delle versioni mai uscite! A pubblicare il disco fu la Modern Music Productions, una nuova etichetta fondata da Filippi distribuita dalla Discomagic di Severo Lombardoni. Per quanto concerne le vendite, “Secret Divine” si attestò intorno alle tremila copie ma è un dato non ufficiale perché non eravamo così attenti ai conteggi. Però ci tengo a dire che Massimo Filippi è sempre stato un produttore generoso, trasparente e onesto, infatti dopo quarant’anni siamo ancora amici e ci frequentiamo con regolarità. A realizzare la copertina del mix fu l’ufficio grafico della Discomagic, quel cambio di direzione estetica ben rappresentava il contenuto musicale del disco. Credo fosse una potenziale hit per i canoni italo disco ma non fu spinta abbastanza per diventarlo».

06) Garland - Heartbeat
“Heartbeat” di Garland, progetto solista one shot di Valente

Nel 1986, sempre su Modern Music Productions e con la produzione del fido Filippi, Claudio Valente scrive e interpreta “Heartbeat” di Garland, un pezzo arrangiato dal compianto Claudio Corradini che flirta con l’hi NRG e mostra qualche evidente rimando melodico a “Smalltown Boy” dei Bronski Beat. «Garland era il nome che scelsi per un mio one shot solista dichiaratamente italo disco e quindi intenzionalmente coperto con uno pseudonimo visto che volevo continuare a fare le mie cose rock e new wave» chiarisce l’autore. «La song, arrangiata e scritta insieme al caro amico Corradini, a Filippi e a Marco Todesco alle tastiere, mi aveva intrigato proprio per quel legame con l’hi NRG. Sono sempre stato attratto da certa “motorik disco”, da Moroder in giù diciamo. Il tizio in copertina, con giacca e capelli lunghi, sono io. Registrato al Sandy’s Recording Studio, “Heartbeat” ha conquistato considerevole valore sul mercato del collezionismo, è stato inserito in diverse compilation e perfino rielaborato da qualche DJ all’estero. Un brano che nel mondo italo ha avuto i suoi consensi e che a distanza di oltre trentacinque anni continua a vantare un suono potente frutto di macchine elettroniche analogiche e una eccelsa registrazione su nastro».

07) Art Deco (1984) B
Un altro scatto di Chiapponi agli Art Déco nel 1984, con Paolo Sisto e Alessandro Spanio che suonano sintetizzatori Yamaha DX7 e DX9

La musica degli Art Déco è stata riesumata dal danese Flemming Dalum (intervistato qui) in “Boogie Down Box-Set” del 2009 e più recentemente dalla Fonogrammi Particolari diretta da Fred Ventura (intervistato qui) e Davide Persichella (che ristampa “European Crime” nel 2017) e dalla Spittle Records che la colloca in diverse raccolte antologiche come “The Other Side Of Italy” e la citata “Samples Only” con l’aggiunta di “European Crime” e “The Fake Of Loving”, non ancora incisi ai tempi dell’uscita originaria, nel 1981.

L’invasione dei reissue iniziata poco più di un decennio fa, di pezzi noti e non ma pure di inediti, pare stia avendo la meglio sulle uscite contemporanee. Per uno strano paradosso storico, la musica di ieri risulta essere più attrattiva rispetto a quella di oggi. «Credo ci sia una grande fame di passato, specie in riferimento a musiche di quell’epoca» sostiene Valente. «Sono stati anni in cui è iniziato tutto e con gli strumenti più giusti, in primis i sintetizzatori analogici e i computer, considerate macchine creative. Con tanta musica derivativa in circolazione trovo normale che i giovani di oggi sognino quel passato e vogliano saperne di più, magari solo per cercare ispirazione, ma ritengo che la musica odierna conservi ancora una certa attrattività, ogni stagione ha sempre i suoi frutti. Il potere d’acquisto delle tantissime edizioni limitate piombate sul mercato invece credo resti nelle mani di una generazione più adulta che ha vissuto quegli anni e che ama ancora il disco in vinile e non si è lasciata conquistare dal download o dallo streaming».

08) Valente live 1984
Claudio Valente canta al King Club Tessera di Venezia nel 1984 (foto di Carlo Chiapponi)

Con “Secret Divine”, dunque, cala il sipario sugli Art Déco che restano immobilizzati nel decennio accusato a lungo di aver generato quintali di musica di plastica. Una plastica che a posteriori però si è rivelata perennemente riciclabile, a giudicare dagli infiniti ripescaggi e campionamenti. Non sarebbero certamente i primi ad annunciare una reunion ai tempi dell’algocrazia, magari proponendo un album di inediti registrati allora ma mai dati alle stampe. «Effettivamente qualche volta ci siamo baloccati con questa idea ma le reunion sono difficili da attuare e, in tutta onestà, nel nostro caso la vedrei possibile solo come duo formato da me e Todesco» dice Valente. «Non credo però che pubblicheremmo pezzi vecchi, qualora si concretizzasse davvero l’idea scriveremmo brani ex novo. Il primo a considerare chiusa l’avventura del gruppo, seppur con grande dolore, fui proprio io, che nel frattempo cominciai a scrivere in italiano e avevo voglia di rock and roll. Comunque il mio prossimo album, la cui uscita è prevista nel 2023, mi vedrà tornare alla lingua inglese e con più di un collegamento con quel sound».

Oltre a collaborazioni strette coi Circle, gli Unfolk, gli Holiday Futurisme e i Telegram, Claudio Valente incide quattro LP da solista, “Un Pò(p) Più Adulto” del 2008, “Maschere Nude” del 2011, “Cambiamori” del 2016 e “Il Blu Di Ieri” del 2018 a cui si è aggiunto, più recentemente, “Controllo”, un EP che tra le altre cose contiene la cover di “The Man Who Sold The World” di David Bowie. «Oggi fare musica sganciata dal mainstream significa essenzialmente agire in modalità do it yourself più che mai, investire le proprie risorse e lavorare molto sul web» chiosa il musicista. «Fortunatamente sono supportato da una label veneta indipendente, la Dischi Soviet Studio, e da un nuovo team di lavoro di professionisti molto competenti e ciò mi consente di continuare imperterrito a dare vita ai miei sogni musicali. Attualmente la discografia delle major vive di talent e di prodotti super commerciali, vedo poca voglia di rischiare, di investire in progetti particolari o di scommettere sulla crescita di un artista, concedendogli il tempo necessario, supportandolo economicamente e consentendogli la naturale maturazione ed evoluzione così come si faceva un tempo. Purtroppo manca anche un sostegno statale a quei progetti musicali non tradizionali e, più in generale, alla voglia di avventure artistiche» conclude Valente con mestizia. (Giosuè Impellizzeri)

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DWA, un faro per l’eurodance

Tra l’italo disco degli anni Ottanta e l’eurodance dei Novanta corre più di qualche analogia a partire dal formato canzone, passando per il modus operandi legato a turnisti e personaggi immagine, sino agli strabilianti risultati in termini di vendite. Uno di quelli che hanno creato un solido continuum tra le fogge stilistiche dei due decenni è Roberto Zanetti: nato a Massa, dopo aver militato tra le fila di alcune band come i Taxi (insieme a Zucchero) e i Santarosa, nel 1983 diventa un idolo dell’italo disco più romantica e malinconica nelle vesti di Savage realizzando ed interpretando successi internazionali, su tutti “Don’t Cry Tonight” con cui approda a Discoring dove viene annunciato come “una nuova firma della disco dance made in Italy”, ed “Only You”, ricamato su una placida delicatezza melodica da carillon.

Savage (198x)
Zanetti ai tempi in cui spopola come Savage

Spalleggiato da Severo Lombardoni della Discomagic, che dell’italo disco è stato uno dei principali traghettatori, Zanetti è un compositore a tutto tondo capace di scrivere, arrangiare ed interpretare i suoi brani, e questo lo differenzia da gran parte degli artisti che popolano l’italo disco (prima) e l’eurodance (poi), rivelatisi spesso un ibrido tra cantanti turnisti ben lontani dall’autonomia ed indipendenza compositiva e performer specializzati in lip-sync. Quando, alla fine degli anni Ottanta, l’house music fa scivolare ai margini della scena l’italo disco soppiantandola, un mondo si sgretola e il comparto dance nostrano, inizialmente disorientato, è da rifondare e ricostruire. Il musicista massese approccia al nuovo genere a partire dal 1988 attraverso vari dischi come “Me Gusta” e “Te Amo” di Raimunda Navarro, “Allalla” di Abel Kare e “The Party”, una cover-parodia dell’omonimo dei Kraze che firma Rubix, variante del Robyx in uso sin dal 1983 per siglare il lavoro da produttore. «In quel momento sentii l’esigenza di creare un mio sound ed ebbi la necessità di fondare un’etichetta personale per dare una precisa identità ai miei progetti» spiega in questo articolo del 2020. L’etichetta in questione è la DWA, acronimo di Dance World Attack, un ambizioso slogan che punta all’internazionalità ma senza tradire o rinnegare l’amor patrio che per alcuni invece, ai tempi, è quasi ingombrante perché apparente segno di provincialismo (il commercialmente ambito italian sounding sarebbe giunto solo molti anni più tardi). Il primo logo non lascia adito a dubbi, è inscritto nel tricolore nostrano, e lo spiccato senso di italianità si farà sentire presto anche attraverso la musica marchiata con tale sigla, foneticamente simile a quella della compagnia aerea statunitense TWA così come lo stesso Zanetti chiarisce nella videointervista del 21 marzo 2020 a cura de LoZio Peter.

Raimunda Navarro - No Lo Hago Por Dinero
Il 12″ d’esordio della DWA su cui si scorge il primo logo della label collocato nel tricolore nazionale

1989-1990, tempo di spaghetti house
A produrre il 12″ inaugurale della DWA nel cruciale 1989 è Zanetti sotto il citato pseudonimo Raimunda Navarro, coniato l’anno prima con “Me Gusta” destinato alla Out di Severo Lombardoni. “No Lo Hago Por Dinero” si sviluppa su una scansione ritmica simile a “Sueño Latino”, seppur qui manchi un sample indovinato come “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching, rimpiazzato dalla chitarra più latineggiante di Claudio Farina abbinata comunque ad una suadente voce femminile a ricordare quella di Carolina Damas. Uno dei remix giunti qualche mese più tardi fruga nel tipico campionario spaghetti house, tra pianate e sample carpiti a vecchie incisioni ed inchiodati ad un battente beat in 4/4. A firmarlo è Zanetti trincerato dietro Bob Howe («a quel tempo era di moda firmarsi con pseudonimi “internazionali” per apparire stranieri» rivela l’artista contattato per l’occasione). Titolo? The Paradise Remix, rimando più che chiaro al citato “Sueño Latino” trainato, per l’appunto, dall’estatica The Paradise Version lunga oltre dieci minuti.

Ice MC - Easy
“Easy” è il singolo di debutto di Ice MC

È sempre Zanetti nelle vesti di Howe a mettere le mani sui remix di “Easy”, singolo di debutto del ballerino/rapper britannico Ian Colin Campbell alias Ice MC che segue il filone del downbeat/hip hop con uno scampolo ritmico preso da “Paid In Full” di Eric B. & Rakim e ricami reggae sottolineati da un breve intervento vocale interpretato da Zanetti stesso. Sul lato b spazio a “Rock Your Body” tangente l’hip house. Il pezzo, pubblicato anche sulla lombardoniana Out e promosso da un videoclip, raccoglie un clamoroso successo in tutto il mondo a partire dalla Francia e conquista decine di licenze, inclusa quella sulla blasonata Cooltempo, ma passa inosservato in Italia. È il primo centro per la DWA che continua a scommettere sul filone dorato della house pianistica ma senza riuscire a sfondare come 49ers, FPI Project o Black Box. In rapida sequenza escono “House From The World” dei Meeting Place (Marco Bresciani e Davide Ruberto), “Face To Face” di Lovetrip, “Together” di Shade Of Love e “Polskie Beat” di Krymu, edificato sullo schema sampledelico di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. in una sorta di megamix/medley assemblato con lo strumento protagonista di quel periodo, il campionatore. L’ottima resa commerciale del downbeat in stile Milli Vanilli o Snap! adottato per Ice MC convince Zanetti a riprendere la cover di “Live Is Life” degli Opus a firma Stargo, già uscita nel 1985, per svilupparla in nuove versioni più adatte ai tempi. Al successo però torna con “Scream”, secondo singolo di Ice MC estratto dall’album “Cinema” che muove i passi su un’impalcatura melodica in stile “Profondo Rosso”. Le urla sono di una certa Vivianne (ossia Viviana Zanetti, sorella di Roberto che, come lui stesso dichiara, «lavora da sempre nell’ufficio della DWA ma è anche una brava cantante e la registravo spesso per voci o effetti»), gli inserti maschili di Zanetti mentre i cori di Alessia Aquilani alias Alexia Cooper, una giovane cantante della provincia di La Spezia destinata ad una rosea carriera. Giacomo De Simone gira un videoclip immerso in atmosfere tenebrose, a rimarcare l’impostazione sonora. “Cinema” è anche il titolo di un altro singolo estratto dall’LP in cui il rapper elenca, su una base filo house, una corposa lista di attori, da John Wayne ad Alain Delon, da Sean Penn a Robert De Niro passando per Charlie Chaplin, Chuck Norris, Charles Bronson, Sean Connery ed Arnold Schwarzenegger senza dimenticare diversi italiani come Marcello Mastroianni, Alberto Sordi e Sophia Loren. Questa volta il video, diretto ancora da De Simone, è ambientato (prevedibilmente) in una sala cinematografica.

L’album di Ice MC si muove bene soprattutto in Francia e in Polonia e produce “carburante” per mandare avanti l’attività. Zanetti è pronto a reinventarsi e rimettersi in gioco di volta in volta con nuovi nomi di fantasia come Pianonegro, pseudonimo con cui firma il brano omonimo, versione in slow motion della piano house virata downtempo che stuzzica parecchio il pubblico del Regno Unito. In coppia con Marco Bresciani poi realizza, in scia alla diffusione europea dell’hip house, “Typical” di Soul Boy a cui fa seguito un altro progetto one shot sempre condiviso con Bresciani, Soul Emotion, che col brano omonimo emula i bortolottiani 49ers. Da “Cinema” viene estratto un altro singolo, “Ok Corral!”, hip house in bolla country, mentre il pucciniano “Nessun Dorma” viene traslato da DFB Featuring Walter Barbaria su un reticolo che ammicca a “Sadeness Part I” degli Enigma di Michael Cretu. A leggere le note in copertina pare si trattasse di un disco registrato al Teatro Internazionale dalla Moscow Philharmonic Orchestra diretta da un certo Victor Bradley ma in realtà, come svela oggi Zanetti, tutti i nomi, l’orchestra e il teatro erano immaginari «a parte Barbaria che è un cantante lirico molto bravo». Ubicata tra reggae e downbeat è la cover di “No Woman No Cry” (in origine di Bob Marley & The Wailers) a firma Babyroots, ennesimo act messo su da Zanetti nel suo Casablanca Recording Studio col supporto vocale della turnista Aquilani. È sempre lui ad innestare canti africani su base house (“The Sound Of Afrika” di Humantronics), a campionare l’acapella di “Warehouse (Days Of Glory)” di New Deep Society per “Party Children” di Wareband che si muove ottimamente all’estero, e produrre “Freedom”, il singolo di debutto del congolese Bale Mondonga. Il brano, ripubblicato anche dalla Sugar ma senza particolari risultati, auspica un nuovo mondo con meno differenze sociali e più equità. A distanza di oltre un trentennio le speranze restano ancora le stesse.

Alexia Cooper - Boy
Una giovane Alessia Aquilani, poco più che ventenne, immortalata sulla copertina di “Boy” (Euroenergy, 1989)

1991-1992, alla ricerca di un’identità
Ice MC è già pronto col secondo album, “My World”, dedicato alla sorella Sandra e ceduto in licenza alla tedesca Polydor. La DWA pubblica una special limited edition con tre versioni remix (la 909 Heavy Mix, il Jump Swing Remix e il Work Remix) di un estratto, “Happy Weekend”. Aria di remix pure per la citata “Party Children” di Wareband e “Don’t Cry Tonight” del redivivo Savage, riarrangiata su base downbeat. Echi hip house si rincorrono in “Jumbo” di Tity B., scritta da Nathaniel Wright e prodotta da Leonardo Rosi alias Fairy Noise che a Zanetti affida, poco dopo, le cover di due classici della canzone italiana, “Senza Una Donna” (di Zucchero) ed “Albachiara” (di Vasco Rossi), entrambe a nome Stargo. È proprio Zanetti invece a produrre “Vocalize” di Scattt, pseudonimo derivato dal virtuosismo vocale, lo scat per l’appunto, adottato nel medesimo periodo in “You Too” di Nexy Lanton, prodotto da Gianni Vitale per la debuttante Line Music di Giacomo Maiolini. Bale Mondonga riappare, questa volta con lo pseudonimo Momo B. che lo accompagnerà sino ai tempi di Floorfilla, con la ridente “Be Happy”, e lo stesso avviene con la Aquilani che torna come artista a nome Alexia Cooper a due anni di distanza da “Boy”, una sorta di incrocio tra “Boys” della prorompente Sabrina Salerno e “La Notte Vola” di Lorella Cuccarini. Abbandonato il filone hi nrg destinato perlopiù al mercato nipponico, la cantante interpreta “Gotta Be Mine”, in linea con la dance europea del periodo. Sull’onda di “Party Children”, Wareband cerca il bis attraverso “A Better Day” ma non riuscendo completamente nell’impresa. Sulla rampa di lancio c’è un progetto nuovo di zecca, Data Drama, che debutta con “The Rain”. Insieme a Zanetti in studio ci sono Riccardo Bronzi ed un talentuoso cantante londinese, William Naraine.

Dal Casablanca Recording Studio arriva pure “The Wind” di Zero Phase, act one shot poco fortunato che cerca di ricalcare le orme di un successo proveniente dal Nord Europa, “James Brown Is Dead” degli olandesi L.A. Style, dichiaratamente preso a modello pure per “James Brown Has Sex”, l’ultimo firmato da Zanetti come Raimunda Navarro. In preda al boom commerciale dell’eurotechnodance, la DWA pubblica “S.l.e.e.p. Tonight” di 303 Trance Factor (una delle quattro versioni, la After-Hour Factor Frequency, in cui ben campeggia il vocal sample preso da “The Dominatrix Sleeps Tonight” di Dominatrix, è realizzata dal pugliese Michele Mausi – intervistato qui – ma senza che il suo nome venga riportato tra i crediti), “Pump The Rhythm” di Fletch Two, “Don’t Stop The Movie” di V.I.R.U.S. 666 e “De Puta Madre” dei Terra W.A.N., quest’ultimo preso in licenza dai Paesi Bassi e ripubblicato con dicitura DWA Underground. La strada maestra di Zanetti però non è quella della musica strumentale, i tentativi di raccogliere consensi con prodotti filo techno – compresi quelli di cui si parlerà poco più avanti – sono vani ed infatti torna presto a scommettere sulla vocalità, prima col follow-up di Scattt, “Scat And Bebop”, e poi con Naraine che, nascosto dietro il nomignolo Willy Morales, reinterpreta un classico degli Electric Light Orchestra, “Last Train To London”. La cover attecchisce nel mercato estero e fa da apripista ad un altro remake che segna indelebilmente uno degli zenit per la label massese, “Please Don’t Go”, originariamente dei KC & The Sunshine Band e già riproposto in chiave dance nel 1985 dai Digital Game prodotti da Alessandro Novaga con la voce di Romano Bais, come lo stesso Novaga afferma in questa intervista del 26 marzo 2009.

Double You - Please Don't Go
“Please Don’t Go” dei Double You, tra i bestseller del catalogo DWA

A realizzare la nuova versione è il team dei Double You formato dal musicista Franco Amato, dal DJ Andrea De Antoni e dal citato William Naraine che oltre a cantare ricopre anche ruolo di frontman. Registrato a dicembre del 1991, il brano viene pubblicato a gennaio del 1992 e, come si legge sul sito della stessa DWA, «divenne un successo immediato che garantì a Double You tournée in tutta Europa ed apparizioni in numerosi programmi televisivi. Con più di tre milioni di copie vendute, “Please Don’t Go” si aggiudica dischi d’oro e di platino spopolando in Paesi come Germania, Francia, Olanda, Spagna, Belgio, Svizzera, Austria, Grecia, Turchia, Europa dell’Est, tutta l’America Latina (nessuna nazione esclusa) e molti stati dell’Africa e dell’Asia. Il disco vende anche nell’America del Nord, entrando nella top 10 maxi sales, e nel Regno Unito dove si piazza secondo nella Cool Cuts Chart». Trainato da un videoclip diretto ancora da Giacomo De Simone in cui la scena è dominata da Naraine che su qualche rivista viene definito una sorta di “Nick Kamen prestato alla dance italiana”, “Please Don’t Go” gira su un organo hammond in stile “Gypsy Woman (She’s Homeless)” di Crystal Waters e “Ride Like The Wind” degli East Side Beat (cover dell’omonimo di Christopher Cross di cui parliamo qui), entrambi del 1991, e glorifica la “covermania” da noi andata avanti per quasi un biennio. In Italia diventa un tormentone, aiutato dalle ragazze di “Non È La Rai” che lo ballano quasi come un mantra e da Fiorello che lo ricanta in italiano in “Si O No”, ma anche all’estero, come già detto, le cose vanno alla grande e senza intoppi, almeno sino a quando si fa avanti un’etichetta britannica, la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker, intenzionata a pubblicarlo oltremanica. Poiché già ceduto ad un’altra compagnia discografica, alla Network Records cercano di trasformare l’imprevisto in un’opportunità per non perdere l’affare e trovano presto la soluzione: incidere una nuova versione. Non si tratta però di una cover dell’originale dei KC & The Sunshine Band bensì di una copia carbone del remake italiano realizzata dai K.W.S. (Chris King, Winston Williams e il vocalist Delroy St. Joseph), un banale tarocco insomma. Grazie pare ad una pratica sleale che blocca oltremanica il disco dei Double You, la “Please Don’t Go” dei K.W.S. ha via libera e riesce a conquistare il vertice delle classifiche britanniche (per ben sette settimane consecutive) e statunitensi, coadiuvata da un videoclip e dal supporto di un colosso come la Next Plateau Records di Eddie O’Loughlin. La reinterpretazione (o presunta tale) sbarca anche in Italia attraverso la Whole Records del gruppo Media Records. La questione desta scalpore e finisce prevedibilmente nell’aula di un tribunale. Informazioni dettagliate trapelano attraverso un articolo di Roger Pearson pubblicato su Billboard l’1 aprile del 1995: Steve Mason e Sean Sullivan, rispettivamente proprietario e co-direttore della Pinnacle che distribuisce il disco dei K.W.S., sono considerati colpevoli di aver condotto una campagna di pirateria internazionale che infrange il diritto d’autore col chiaro fine di trarre enormi vantaggi economici ai danni della ZYX a cui la DWA di Zanetti aveva precedentemente concesso in licenza il brano dei Double You. Una vicenda analoga toccherà, anni dopo, a “Jaguar” di The Aztec Mystic aka DJ Rolando, come descritto in Decadance Extra, e in un certo senso anche a “Belo Horizonti” dei nostri The Heartists, come racconta Claudio Coccoluto in questo articolo/intervista. Talvolta, è risaputo, il successo ha un prezzo da pagare e può risultare particolarmente alto.

Il 1992 si apre comunque sotto i migliori auspici: insieme ad Ice MC, Pianonegro e Wareband, la DWA adesso mette nel forziere dei successi anche i Double You con “Please Don’t Go”, quarantaseiesima pubblicazione di un catalogo che continua a crescere senza esitazioni ed oggi considerata alla stregua di un’istantanea della spensieratezza degli adolescenti di allora. Da “My World” viene estratto un secondo singolo, il malinconico “Rainy Days” che prova a rimettere al centro della scena Ice MC ma senza grandi consensi. La combo tra hip house e downbeat, tenuti insieme da un breve campionamento vocale preso ancora dal citato “Warehouse (Days Of Glory)” – lo stesso che anni dopo ricicleranno gli svedesi Antiloop per la hit del 1997 “In My Mind” – sembra non fare più grande presa sul pubblico della dance generalista. “Love For Love” dei C. Tronics (Alessandro Del Fabbro, Claudio Malatesta alias Claudio Mingardi – per cui Robyx produce “Star” già nel 1984, in seno al fermento dei medley come raccontato qui – e Stefano Marinari) punta ancora su derivazioni technodance in stile Cappella seppur non manchi una versione spassionatamente italo house, la Original ’70 Mix; la Aquilani veste i panni, per l’ultima volta, di Alexia Cooper con “Let You Go” trainato da un fraseggio jazz che strizza l’occhio a quello di “How-Gee” dei Black Machine di cui parliamo qui, e vagamente jazzy è pure la salsa di “Guitar” di Larry Spinosa, altro nome di fantasia dietro cui si cela Francesco Alberti «che oltre ad essere il fonico del Casablanca Recording Studio era anche un musicista» spiega Zanetti.

Delirio compilation
La compilation “Delirio” fotografa bene il mondo della “techno all’italiana” che si sviluppa tra 1991 e 1992

L’onda di quella che viene sommariamente definita “techno” cresce ed impatta fragorosamente in Italia dove si moltiplicano i tentativi di emulazione di replicare i numeri dei successi nordeuropei. La DWA non si esime dal seguire questa tendenza generalizzata, seppur appaia evidente che quello continui a non essere affatto il genere in cui riesca a dare il proprio meglio. Escono “Confusion” di Psycho, “Can You Hear Me” di Walt 93 e la compilation “Delirio” che rappresenta bene lo spaccato di quel mondo “techno all’italiana”, fatto di campionamenti troppo ovvi e semplificazioni che collocano il genere nato a Detroit «su binari semplici e riconoscibili […], oltre a spingerlo verso ritmi produttivi pari a quella dell’ormai consolidata piano house» come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, specificando che «il sound generale di quei dischi aveva veramente poco di techno nel senso più puro della parola. Si tratta infatti di produzioni realizzate perlopiù da musicisti che hanno un background musicale non adatto alle strutture minimali ed eclettiche del sound di Detroit, e al massimo assomigliano alle produzioni europee di label come R&S o Music Man ma senza averne l’impatto e le giuste sonorità». I Data Drama riappaiono, per l’ultima volta, con “Close Your Eyes”, ancora cantato da Naraine che però non compare nelle esibizioni pubbliche (come questa) perché impegnato coi Double You, Claudio Mingardi produce “L.O.V.E.” di 2 Fragile, ennesimo act one shot a cui si sommano Larry Liver Lip con “Challowa”, attraverso cui Zanetti ed Alberti (il Larry rimanda al sopramenzionato Larry Spinosa) rimaneggiano il ragamuffin coadiuvati dalla voce di Ian Campbell e parzialmente ispirati da “Informer” di Snow, “Razza” dei Razza Posse (promosso sullo sticker in copertina come “raggarappin”) e il “Contraddizione EP” dei Contraddizione Posse. Tutti finiscono in una compilation intitolata “Italiano Ragga” omonima di un pezzo di Ice MC racchiuso in “My World”, uscita dopo lo scandalo di Tangentopoli di cui si rinviene qualche riferimento sulla copertina e nella quale, tra gli altri, presenzia Frankie Hi-NRG MC con “Fight Da Faida”.

Double You - We All Need Love LP
Un primo piano di William Naraine finito sulla copertina del primo album dei Double You

Il vero banco di prova per l’etichetta è rappresentato dal follow-up di “Please Don’t Go” dei Double You ossia “We All Need Love”, registrato a giugno 1992 durante la tournée europea. Si tratta ancora di una cover, questa volta del pugliese trapiantato in Canada Domenic Troiano, capace di raggiungere in tempi brevi i vertici delle classifiche di vendita di tutto il mondo. Abbinato ad una base che ricorda, come vuole la ricetta del classico follow-up, quella di “Please Don’t Go”, “We All Need Love” è anche il titolo del primo album della band. Non manca il videoclip dominato ancora dalla figura del carismatico Naraine. A fare da contorno “Rock Me Baby” e “Gimme Some” di Babyroots, interpretate da Sandy Chambers e cover rispettivamente degli omonimi di Horace Andy e Jimmy “Bo” Horne scritti da Harry Casey e Richard Finch. A settembre è tempo di “Who’s Fooling Who”, terzo singolo dei Double You ancora estratto da “We All Need Love”, cover dell’omonimo dei One Way e per cui viene girato un videoclip. È una cover pure quella dei debuttanti Netzwerk, team composto dai produttori Marco Galeotti, Marco Genovesi e Maurizio Tognarelli, che per l’occasione ricostruiscono “Send Me An Angel” degli australiani Real Life avvalendosi della voce della citata Chambers che fa anche da frontwoman per le esibizioni nelle discoteche e in tv. Tra echi à la Snap! (“Rhythm Is A Dancer” è una delle hit dell’anno a cui si ispira più di qualcuno), la vena malinconica preservata dall’originale e il climax raggiunto dopo un effetto stop che introduce il ritornello e che diventa la tag identificativa della DWA, il brano conquista diverse licenze estere e circola parecchio nei primi mesi del 1993. Provengono d’oltralpe invece “Keep Our Love Away” di Sophie Hendrickx e “Use Your Voice” di Red Zone, entrambe prese in licenza dalla belga Rox Records di Roland De Greef.

Digilove - Let The Night Take The Blame
Digilove, uno dei tanti progetti a cui presta la voce Alessia Aquilani

1993, 1994, 1995: la consacrazione dell’eurodance
Ancora estratto da “We All Need Love”, “With Or Without You” è il nuovo singolo dei Double You, cover dell’omonimo degli U2. Posizionato nei binari timbrici di “Please Don’t Go”, il brano rivive attraverso molteplici versioni solcate su un doppio mix tra cui alcune ritmicamente più impetuose come la Mind 150 Mix. Claudio Mingardi torna con un progetto nuovo di zecca, Gray Neve, varato con l’onirica “I Need Your Love” scritta insieme ad Alessia Aquilani con qualche rimando che vola ad “Exterminate!” degli Snap!. L’assenza di una personalità definita e di un’idea sviluppata a dovere lasciano però il pezzo nell’anonimato. Decisamente più convincente e coinvolgente invece la cover di “Let The Night Take The Blame” di Lorraine McKane con cui debutta Digilove, act messo su dal team M.V.S. (il citato Mingardi, Gianluca Vivaldi e Riccardo Salani). Il brano valorizza il timbro prezioso e sensuale della Aquilani e conquista licenze in Germania, Francia e Spagna e lo spazio in numerose compilation che ai tempi possono rappresentare l’ago della bilancia di alcune produzioni discografiche soprattutto in ambito eurodance. Quest’ultimo si configura come un filone dalle caratteristiche ben precise rappresentate da uno spiccato apparato melodico ottenuto con riff di sintetizzatore in cui si incrociano vocalità maschili e femminili, spesso le prime in formato rap nella strofa, le seconde invece a scandire l’inciso, in uno schema apparso già nel 1989 con la profetica “I Can’t Stand It” di Twenty 4 Seven a cui abbiamo dedicato qui un articolo. Dal 1992, con l’esplosione di “Rhythm Is A Dancer”, questo modello diventa praticamente una matrice a cui un numero indefinito di produttori europei fa riferimento per comporre la propria musica. È il caso dello svizzero René Baumann alias DJ Bobo che entra nel mercato discografico nel 1990 con “I Love You”, distillato tra l’house balbettante di Chicago, le pianate italo e ganci hip hop, e che adesso cavalca in pieno il fermento eurodance con “Somebody Dance With Me”, pubblicata a novembre del ’92 ma esplosa in diversi Paesi europei ed extraeuropei (come Australia ed Israele) nel corso dell’anno seguente, quando arriva anche in Italia attraverso la DWA. Si narra che sia stato proprio il successo internazionale ad aver attirato l’attenzione della celebre Motown accortasi dell’evidente somiglianza tra il ritornello di “Somebody Dance With Me” e quello di “Somebody’s Watching Me” di Rockwell, interpretato da Michael Jackson. L’etichetta di Berry Gordy, padre dello stesso Rockwell, avrebbe intentato causa ai danni dello svizzero accusandolo di plagio. In occasione del loro ventennale d’attività, la DWA pubblica il megamix dei KC & The Sunshine Band intitolato ironicamente “The Official Bootleg”. Segue una tiratura su LP, “Oh Yeah!”, che in tracklist annovera una versione di “Please Don’t Go” registrata live in Versilia. Il chitarrista Francesco ‘Larry Spinosa’ Alberti offre un continuum al “Guitar”, “The Guitar E.P. Nº 2” che all’interno ospita due tracce (e due remix) di stampo house rigate da una vena papettiana, e un ritorno è pure quello degli olandesi Terra W.A.N. con “Caramba (Dance 2 Dis)”, traccia ai confini con l’hardcore incanalata nel brand DWA Interface.

È pop dance made in Italy invece “Baby I Need Your Loving” di Johnny Parker Feat. Robert Crawford, prodotto da Marco Mazzantini e Daniele Soriani (quelli che tempo dopo armeggiano dietro Gayà) e coi backing vocal di Alessia Aquilani. A sorpresa Zanetti riporta in vita il suo alter ego Savage, assente da circa un triennio, con “Something And Strangelove”: “Something” è un inedito che risente dell’influsso della dance mitteleuropea, “Strangelove” è la cover dell’omonimo dei Depeche Mode. Sull’etichetta centrale si legge DWA Infective, ennesima declinazione che il musicista utilizza per personalizzare l’iter artistico della sua label analogamente a DWA Italiana, usata per il remix di “Sesso O Amore” degli Stadio realizzato dal sopraccitato team degli M.V.S. (Mingardi, Vivaldi, Salani). I Double You tornano con “Missing You”, primo singolo estratto da “The Blue Album” che uscirà l’anno dopo: sganciata dalla formula del filone iniziato con “Please Don’t Go”, la band inforca una nuova strada contaminata da elementi rock. Sul lato b (e sul CD singolo) finiscono i remix house di Fulvio Perniola e Gianni Bini che proprio quell’anno debuttano su UMM come Fathers Of Sound. Roberto Calzolari e Massimo Traversoni invece, già dietro Dyva, si propongono con “You Make Me Feel” cantata da Gwen Aäntti, un brano in cui pare riascoltare un frammento (velocizzato) di “What Is Love” di Haddaway. Per l’occasione si firmano S.D.P., acronimo di Sweet Doctor Phybes. Il 1993 partorisce un numero abissale di cover dance di classici pop/rock, proprio come “You And I” di Zooo, remake del classico dei Delegation prodotto da Claudio Mingardi e Marco Mazzantini. I due si occupano anche di “Love Is The Key” di Simona Jackson, cantante americana più avanti nota come Simone Jay che inizia a collaborare con la struttura zanettiana mediante un brano di estrazione house. È il centesimo disco della DWA, che scommette ancora sulle potenzialità di DJ Bobo e della sua “Keep On Dancing!”, perfetto follow-up di “Somebody Dance With Me” costruito sui medesimi elementi ossia base che fonde pianate ai bassi sincopati in stile “Rhythm Is A Dancer” condita dal rap maschile e dal ritornello affidato ad una voce femminile. Il successo internazionale convince Zanetti a licenziare nel nostro Paese anche il primo album dell’artista svizzero, “Dance With Me”, pubblicandolo in formato CD.

Ice MC e la tedesca Jasmin ‘Jasmine’ Heinrich che lo affianca quando la DWA lo rilancia nell’eurodance

Assente da quasi due anni, Ice MC riappare sotto la dimensione narrativa dell’eurodance auspicando un ritorno ai fasti reso possibile da “Take Away The Colour” uscito ad ottobre, in cui Robyx assembla con maestria il rap di Campbell ad una trascinante base a cui aggiunge un ritornello a presa rapida. A cantarlo è la menzionata Simona Jackson che però non compare nel videoclip, rimpiazzata dalla tedesca Jasmin Heinrich alias Jasmine, scelta per affiancare Campbell nei live e nei servizi fotografici secondo una pratica comune sin dai tempi dell’italo disco così come descritto in questa inchiesta. È uno dei primi pezzi eurodance prodotti in casa DWA che, in virtù del significativo impatto sul mercato continentale con oltre 200.000 copie vendute, genera più di qualche epigono a partire da “Get-A-Way” dei tedeschi Maxx, così come scrive James Hamilton sulla rivista britannica Music Week il 18 marzo 1995. Insieme ad Ice MC ritornano anche i Netzwerk con un’altra cover, “Breakdown”, originariamente di Ray Cooper ed ora ricantata da Sandy Chambers. Nell’ultimo scorcio del ’93 l’etichetta mette sul mercato i remix di “Give It Up” di KC & The Sunshine Band, “Part-Time Lover” dei Double You (ancora estratto dall’imminente “The Blue Album”), “Give You Love” dei Digilove cantata dall’infaticabile Alessia Aquilani, “I Tammuri” di Andrea Surdi e Tullio De Piscopo e “Take Control” di DJ Bobo, ormai lanciatissimo nel firmamento eurodance internazionale ma con pochi responsi raccolti in Italia.

Corona - The Rhythm Of The Night
La copertina di “The Rhythm Of The Night” di Corona

Menzione a parte merita “The Rhythm Of The Night” di Corona, progetto ideato dal DJ Lee Marrow e registrato nel Pink Studio di Reggio Emilia di Theo Spagna, fratello di Ivana. A scrivere il testo è Annerley Gordon, la futura Ann Lee, a cantare (in incognito) il brano è invece la catanese Jenny B. mentre a portarlo in scena è la frontwoman brasiliana Olga De Souza, unica protagonista del videoclip diretto da Giacomo De Simone. Ottenuto incrociando abilmente parti inedite ad una porzione melodica di “Save Me” delle Say When! ed un riff di tastiera simile a quello di “Venus Rapsody” dei Rockets, “The Rhythm Of The Night”, uscito a novembre e racchiuso in una copertina che immortala lo skyline newyorkese notturno con le Torri Gemelle luccicanti come gioielli nell’oscurità, diventa presto un successo globale che vive tuttora attraverso remix, cover ed interpolazioni, su tutte “Of The Night” dei Bastille e “Ritmo (Bad Boys For Life)” dei Black Eyed Peas e J. Balvin. Innumerevoli anche i derivati, a partire da “The Summer Is Magic” di Playahitty prodotta da Emanuele Asti, uscita nel ’94 e curiosamente interpretata dalla stessa Jenny B. seppur nel video finisca una modella. Quello di Corona è il primo mix ad essere stampato col logo bianco su fondo blu, declinazione grafica più rappresentativa della DWA rimasta in uso sino alla fine del 1996.

Il 1994 inizia con “Number One – La Prima Compilation Dell’Anno”, una raccolta edita su CD e cassetta e mixata da Lee Marrow che raduna materiale prevalentemente dwaiano, alternato a successi del periodo come Silvia Coleman, Cappella ed Aladino. All’interno c’è anche un’anteprima, “Everybody Love” di TF 99, nuovo progetto del team M.V.S. solcato su 12″ a gennaio ed oggetto di discreti riscontri oltralpe. Arrivano dall’estero invece “Is It Love?” dei Superfly e “I Totally Miss You” di Mike L.G., entrambi prodotti da George Sinclair ed Eric Wilde ma passati inosservati da noi. Per i Double You è tempo del secondo LP, “The Blue Album”, dal quale viene prelevato “Heart Of Glass”, cover dell’omonimo dei Blondie. Il fenomeno dei remake è ormai sulla via del tramonto ma certamente non quello dei remix: la DWA rimette in circolazione la musica di Savage attraverso un greatest hits, “Don’t Cry”, abbinato a numerose versioni remix dell’evergreen “Don’t Cry Tonight” incise su due dischi. A firmarle, tra gli altri, Mr. Marvin, Stefano Secchi, Fathers Of Sound e Claudio Mingardi. Proprio quest’ultimo, insieme agli inseparabili Vivaldi e Salani e alla “solita” Aquilani, dà alle stampe “Under The Same Sun”, ignorata in Italia ma accolta bene in altri Paesi europei (Germania, Francia, Spagna). Il nome del progetto one shot è DUE, la medesima sigla (acronimo di Dance Universal Experiment) con cui il team M.V.S. lancia la propria etichetta l’anno dopo, la DUE per l’appunto. Passando per i poco noti “Space Party People” di Arcana, prodotto a Trieste da David Sion (intervistato qui) e Chris Stern, “I Wanna Be With You” dei Cybernetica (Mingardi e soci) e “Better Be Allright” di Space Tribe (una sorta di risposta a “Move Your Body” degli Anticappella realizzata dai componenti dei Double You), la DWA garantisce un po’ di longevità a “The Rhythm Of The Night” di Corona attraverso i (primi) remix tra cui quello di Mephisto (intervistato qui), e scommette sulle potenzialità di “It’s A Loving Thing” di CB Milton, eroe dell’eurodance in buona parte dell’Europa settentrionale prodotto dagli artefici dei 2 Unlimited, Phil Wilde e Jean-Paul De Coster. Il cantante olandese è tra i protagonisti dell’ondata di interpreti come Haddaway, Lane McCray dei La Bouche, Captain Hollywood, Ray Slijngaard dei 2 Unlimited, Dr. Alban, Jay Supreme dei Culture Beat, B.G. The Prince Of Rap o Turbo B. degli Snap! e Centory, accomunati non solo dal genere musicale ma anche dal colore (scuro) della pelle, come del resto vale per Ice MC.

Ice MC - Think About The Way
“Think About The Way” sancisce la completa affermazione di Ice MC in Italia

Il primo boom dell’anno è proprio il suo: “Think About The Way” esce alle porte della primavera ed è il brano con cui l’etichetta di Zanetti conferma il successo internazionale per Campbell. La scrittura si evolve entro canoni ben definiti e l’effetto cover inizia a dissolversi a favore di una personalizzazione dei suoni dalle tonalità calde e brillanti, equilibri attentamente studiati e ponderati tra parti strumentali e vocali nonché una meticolosa attenzione per le stesure accomunate dall’inciso con accento metrico in levare anticipato dall’effetto stop, laser, blip (o comunque un fx simile ad una scarica elettrica) adottato ripetutamente per circa un quadriennio. Questa volta ad affiancare il rapper è la Aquilani che però non compare nel video diretto da Giacomo De Simone e nemmeno sul palco del Festivalbar, nella clip per Superclassifica Show e tantomeno nei live come questo al pugliese Modonovo Beach, rimpiazzata da Jasmin Heinrich già incrociata nel video di “Take Away The Colour” e, un paio di anni dopo, entrata nella formazione degli E-Sensual. La spezzina tuttavia prende parte ad alcune esibizioni live, come questa all’evento francese Dance Machine, o questa in occasione del programma “Donna Sotto Le Stelle” trasmesso da Italia 1. Questa singolare situazione, non nuova negli ambiti dance specialmente nostrani, non la infastidisce almeno a giudicare da quanto dichiara a Riccardo Sada in un’intervista pubblicata ad aprile 1998 su Jocks Mag: «non sono stata vittima nel progetto Ice MC, io cantavo e sul palco ci andava una mulatta, ma mi è bastato. Adesso però sul palco ci vado io e mi diverto». In “Think About The Way” c’è ancora l’impronta rap ma senza riferimenti all’hip house. La produzione zanettiana ora vira verso la melodia più ariosa, e l’indovinato ritornello fa il resto insieme all’hook “bom digi digi digi bom digi bom”. Sebbene pubblicato a marzo, il brano di Ice MC, tempo dopo entrato nella colonna sonora del film “Trainspotting”, diventa un inno estivo dal successo ulteriormente prolungato da nuove versioni tipo la Noche De Luna Mix con una chitarra spagnoleggiante in stile Jam & Spoon. Come sottolinea Manuela Doriani in una recensione di agosto ’94, l’uscita di questo remix risulta decisamente provvidenziale «perché l’originale stava cominciando un po’ a stancare le masse discotecare».

Da “Dance With Me” viene estratto “Everybody” con cui DJ Bobo rallenta i bpm a favore di una canzone downtempo rigata di reggae, tentando di fare il verso ad “All That She Wants” degli Ace Of Base, Mingardi, Vivaldi e Salani clonano “Move On Baby” dei Cappella attraverso “Music Is My Life” di Galactica, Ice MC viene coinvolto in un nuovo remix di “The Rhythm Of The Night” (lo Space Remix), CB Milton riappare con “Hold On (If You Believe In Love)” e i Double You con “Run To Me”, montata sul riff identificativo di “Don’t Go” di Yazoo. Nel turbinio delle pubblicazioni rispunta anche Savage con l’inedito “Don’t You Want Me”, scritto insieme a Fred Ventura (intervistato qui) ed incastonato nella base di “Think About The Way” con qualche marginale variazione. Non è intenzione di Zanetti però rilanciarsi nella scena, è chiaro sin dall’inizio che il musicista non voglia usare la casa discografica per sponsorizzare la sua carriera da artista. La DWA invece veicola nel mondo il suo ruolo da produttore e questo spiega la ragione per cui l’alter ego principale di Zanetti occupi una posizione decisamente defilata rispetto ad altri progetti ed artisti, in primis Corona ed Ice MC, talmente forti da oscurare pure altre proposte dell’etichetta, come “Don’t U Feel The Beat” di Timeshift, importato dal Belgio, “Do You Know” di Black & White, prodotto da Massimo Traversoni e Roberto Calzolari scopiazzando palesemente “Think About The Way”, e “I Don’t Wanna Be” di Crystal B., un altro act one shot registrato presso il Crystal Studio di Francesco Alberti e noto perlopiù all’estero. Nel frattempo Corona arriva oltremanica con la WEA del gruppo Warner aggiudicandosi, come riportato sul sito DWA, un disco d’oro con oltre 400.000 copie vendute. Per l’occasione “The Rhythm Of The Night” viene remixata dai Rapino Brothers (italiani trapiantati nel Regno Unito) e dai fratelli Adrian e Mark LuvDup, anticipando lo sbarco oltreoceano. Alla fine dell’anno saranno più di quindici i dischi d’oro e di platino appesi alla parete. Davvero niente male per un pezzo che, come l’autore racconta qui, viene inizialmente rifiutato da un discografico della Dig It International convinto che non fosse affatto adatto ai tempi e che oggi, paradossalmente, è finito col diventare una specie di elemento mitologico di quell’epoca.

Ice MC + Netzwerk
“It’s A Rainy Day” e “Passion”, due grandi successi della DWA usciti nel secondo semestre ’94

Dopo un’estate vissuta da assoluto protagonista, Ice MC torna con “It’s A Rainy Day”, che davvero nulla divide col quasi omonimo “Rainy Days” di due anni prima. Scritto e prodotto da Zanetti mescolando gli stessi elementi di “Think About The Way” incluso un nuovo hook vocale (“eh eh”), il brano è issato da una suggestiva frase di organo sposata perfettamente con l’atmosfera malinconica tipica delle produzioni a nome Savage. La Aquilani è confermata come voce femminile e questa volta la si ritrova anche nel video ancora diretto da Giacomo De Simone. I tempi sono maturi per lanciare l’album dell’artista, il terzo della carriera, intitolato “Ice’ N’ Green” che gioca sull’assonanza fonetica col quartiere il cui Campbell è cresciuto, Hyson Green, a Nottingham. Quella della DWA ormai è una matrice costituita da suoni e stesure a cui un numero imprecisato di produttori eurodance si ispira, come Malatesti, Salani e Vivaldi che affidano a Zanetti “Don’t Leave Me”, il primo brano firmato Fourteen 14 riuscendo ad ottenere ottimi riscontri all’estero. Percorso inverso invece per CB Milton che dalla belga Byte Records si ritrova in Italia con un altro singolo estratto da “It’s My Loving Thing” ovvero “Open Your Heart”. Allineati al modulo Corona/Ice MC risultano anche i Netzwerk, orfani di Marco Genovesi rimpiazzato da Gianni Bini e Fulvio Perniola, che in autunno tornano con “Passion” lanciata su un ritmo ondulatorio e galoppante. La nuova formazione vede anche la defezione di Sandy Chambers sostituita da Simone Jackson, scelta che però, come lo stesso Bini spiega in questa intervista, «non fu legata a questioni artistiche ma, più banalmente, all’impossibilità della Chambers di cantare in quel periodo». La Jackson, nel 1994, interpreta anche “You’re The One”, prodotto da Francesco Racanati alias Frankie Marlowe, già attivo in progetti come E. L. Gang, Nine 2 Six e 2 B Blue, che però resta nel cassetto. «Dopo il grande successo di “The Rhythm Of The Night” di Corona pensai di realizzare un brano che potesse collocarsi su quel genere» svela oggi Racanati. «Scrissi il testo e mi rivolsi all’amico Alex Bertagnini che mi presentò Vito Ulivi. Lavorammo insieme al pezzo affidandolo vocalmente alla Jackson per l’appunto. Fabrizio Gatto della Dancework (intervistato qui, nda) era intenzionato a farlo uscire come singolo ma parallelamente lo feci ascoltare a Roberto Zanetti che conoscevo dai tempi dei Taxi e con mia sorpresa, sapendo quanto fosse esigente e selettivo, rimase colpito. “You’re The One” gli piaceva e mi consigliò di approfondire il discorso con Lee Marrow per inserirlo nel primo album di Corona che era in lavorazione. Purtroppo Alex e Vito non furono d’accordo, preferivano l’offerta di Gatto che puntava all’uscita come singolo. Tuttavia la Dancework alla fine pubblicò un altro brano in cui non ero coinvolto ossia “All I Need Is Love” di Indiana (di cui parliamo qui, nda), e nel contempo anche il “treno” con Zanetti era ormai passato e perso. “You’re The One”, a cui partecipò pure Marco Tonarelli, rimase quindi in archivio». A chiudere, sotto le feste natalizie, è il Christmas Re-Remix di “It’s A Rainy Day”. Sul 12″ c’è spazio anche per un altro pezzo tratto dall’album, “Dark Night Rider”, col riff di sintetizzatore che paga l’ispirazione a “Move On Baby” dei Cappella, un’altra mega hit italiana messa a segno nel 1994.

Il 1995 riprende dallo stesso nome con cui è terminato il 1994, Ice MC. Non si tratta proprio di un pezzo nuovo di zecca bensì di una rivisitazione di “Take Away The Colour” codificata in copertina come ’95 Reconstruction: ricantata dalla Aquilani che fa capolino anche nel videoclip, la traccia è “figlia” della velocizzazione impressa alla dance nostrana, accelerazione ritmica importata in primis dalla Germania dove quella che a posteriori viene ribattezzata hard dance garantisce un exploit commerciale anche a correnti parallele come l’happy hardcore. La “ricostruzione” di “Take Away The Colour” guarda proprio in quelle direzioni, occhieggiando alle melodie festaiole dei Sequential One del futuro ATB André Tanneberger, alla hit di Marusha (“Over The Rainbow”) e, con un assolo salmodiante a rinforzo del flusso lirico, un po’ anche a quella di Digital Boy (“The Mountain Of King”) che, da noi, fu tra le prime ad innescare quel vigoroso scossone ritmico. «In realtà della versione originale è rimasta solo una piccola parte» spiega Campbell in un’intervista pubblicata su Tutto Discoteca Dance a marzo. «Il pezzo è stato completamente rifatto a 160 bpm, e questo è un disco importante perché segna un’evoluzione del mio stile. La sonorità generale si è rinnovata diventando una via di mezzo tra la melodia, il suono tecnologico tedesco e la jungle britannica». Il brano, in cui si scorge pure qualche rimando vocale non troppo velato a “Think About The Way”, apre la tracklist del remix album dello stesso artista che DWA pubblica insieme alla Polydor del gruppo Polygram.

DWA al Midem
Una foto scattata al Midem di Cannes: a sinistra Steve Allen, A&R della WEA, al centro Roberto Zanetti affiancato da Lee Marrow

È tempo di remix anche per “Passion” dei Netzwerk, ugualmente dopato nella velocità che nella Essential Mix oltrepassa i 140 bpm, e qualche battuta in più la prende anche il nuovo di Corona, “Baby Baby”, rifacimento di “Babe Babe” pubblicato nel 1991 come Joy & Joyce. Ricantato per l’occasione da Sandy Chambers che ovviamente non compare nel video in cui il ruolo da protagonista è sempre di Olga De Souza, il brano, uscito a marzo, conta sul remix di Dancing Divaz utile per penetrare nel mercato britannico ed incluso nella tracklist dell’album uscito in contemporanea, “The Rhythm Of The Night”. La DWA, ancora insieme alla Polydor, lo pubblica solo in formato CD. In Europa è un tripudio. L’etichetta di Zanetti è tra le etichette premiate al Midem di Cannes in virtù di quasi una ventina di dischi d’oro e platino conquistati. La velocità di crociera della dance, nel corso del 1995, aumenta ancora e ciò solleva qualche interrogativo tra gli addetti ai lavori: è corretto parlare di eurobeat? A novembre del ’95 Federico Grilli, sulle pagine di Tutto Discoteca Dance, firma uno speciale in cui pone l’accento proprio sulla trasformazione che investe il filone, «più radicato in Germania e nel Nord Europa che in Italia dove le radio, in alcuni casi, fanno ancora il bello e il cattivo tempo di alcuni dischi». Tanti nomi noti oltralpe (Cartouche, T-Spoon, Maxx, Pandora, Cutoff, Magic Affair, E-Rotic, Imperio, Fun Factory, Intermission, Masterboy) da noi non riescono ad attecchire nonostante l’interesse mostrato per alcuni di essi dalle etichette nostrane, evidentemente incapaci di portare al successo in modo autonomo le scelte dei propri A&R. All’inchiesta prende parte anche Roberto Zanetti che parla dell’eurobeat come «un genere non certamente nuovo ma in vita da oltre un decennio, diretta evoluzione dell’hi NRG con cui Stock, Aitken & Waterman facevano esplodere artisti e band come Rick Astley, Mel & Kim, Dead Or Alive, Hazell Dean e Bananarama. In seguito la Germania, l’Italia e i Paesi limitrofi si sono uniformati ed hanno cominciato a produrre cose simili. Oggi per eurobeat si deve intendere tutto ciò che ha una forte melodia abbinata a suoni e ritmiche attuali, alla moda. In Italia, oltre alle mie produzioni, nella pop dance vedo con interesse dischi come Cappella o Whigfield che di sicuro hanno un sapore internazionale. In conclusione ritengo che l’eurobeat non morirà mai anzi, si andrà sempre più ad identificare con il pop e con tutto ciò che diventa commerciale».

Double You, Netzwerk, Corona (1995)
Double You, Netzwerk e Corona, il tridente d’attacco della DWA nell’estate 1995

L’eurobeat nostrana (o più propriamente eurodance in quanto, come sottolinea Grilli, il fenomeno interessa solamente l’Europa e non l’America) respira a pieni polmoni grazie alla DWA che, a primavera inoltrata, mette sul mercato due mix destinati a diventare in un battito di ciglia dei successi estivi, “Dancing With An Angel” dei Double You e “Memories” dei Netzwerk. Per questi ultimi, ancora affiancati da Simone Jackson che diventa l’immagine e voce nei live così come si vede in questa clip, è una conferma dopo l’exploit invernale ottenuto con “Passion”; per i Double You invece, per l’occasione abbinati al featuring della Chambers che interpreta il ritornello, è un clamoroso ritorno al successo dopo un 1994 vissuto un po’ in sordina. Entrambi testimoniano l’espressività stilistica diventata il trademark della DWA, composto da una pasta del suono limpida e cristallina, irradiata da un bagno di luce che non rompe mai il contatto con la tradizionale formula della song structure. L’inesauribile vena di Robyx porta ad uno stile compositivo ormai inconfondibile che per le radio e i DJ pop dance rappresenta una consolidata certezza in un oceano di produzioni. Quell’anno Corona e la band capitanata da Naraine partecipano alla trasmissione televisiva brasiliana Xuxa Hits che vanta centinaia di migliaia di spettatori: il Brasile è senza timore di smentita tra i Paesi in cui le produzioni DWA fanno maggiore presa. Insieme a loro c’è anche un altro progetto italiano, Andrew Sixty, emerito sconosciuto in patria ma popolarissimo nello Stato sudamericano come testimoniano diverse clip come questa, questa o questa. Nella line up, tra gli altri, figura Max Moroldo, che poco tempo dopo fonda la Do It Yourself e che abbiamo intervistato qui. In estate arrivano “I Want You” dei Po.Lo., prodotto da Mingardi, Vivaldi e Salani sulla falsariga di “Dancing With An Angel” con la voce di Marco Carmassi che ricorda parecchio quella di Naraine, e “Try Me Out” di Corona, rilettura dell’omonimo del ’93 di Lee Marrow cantato da Annerley Gordon ora sostituita da Sandy Chambers ed ispirato da “Toy” delle Teen Dream del 1987. Olga De Souza resta la primattrice del video. Il lato b del disco annovera due remix, quello degli Alex Party e quello di Marc ‘MK’ Kinchen, artefice del successo internazionale dei Nightcrawlers come descritto qui. Kinchen appronta pure una versione strumentale che finisce su un secondo mix codificato, per l’appunto, come Dub Mixes.

In autunno viene annunciato il “divorzio” tra Ice MC e la DWA: Tutto Discoteca Dance fa riferimento alla “stipula di un contratto mondiale tra il cantante di colore e la multinazionale tedesca Polydor” ma per anni le voci che si rincorrono sono discordanti ed alimentano parecchia confusione. Da un lato c’è chi parla dell’uso illegittimo che Campbell avrebbe fatto dello pseudonimo Ice MC – di proprietà della DWA – durante la militanza nella Polydor, dall’altro chi invece punta il dito contro Zanetti, reo di non aver pagato le royalties pattuite a cui il rapper reagisce con una denuncia. «In realtà» come lo stesso Zanetti spiega in un’intervista contenuta nel libro Decadance Appendix, «nessuna delle due versioni è propriamente corretta. Charlie Holmes, manager fino ad allora sconosciuto che viveva a Firenze vicino alla casa italiana di Ice MC, riuscì a convincere l’artista di non essere gestito bene dalla DWA. Ciò portò la rottura improvvisa e non giustificata del contratto e la firma con la Polydor, etichetta con cui, tra l’altro, la DWA già collaborava. A quel punto sorse una causa che venne risolta, amichevolmente, un paio di anni dopo. Holmes aveva un grande potere su Ice MC e lo portò a compiere molte scelte sbagliate che incrinarono la sua carriera. A mio avviso il più grosso errore fu quello di affidare il progetto discografico ai Masterboy che, pur copiando spudoratamente lo stile Robyx, non riuscirono a portare al grande successo brani come “Music For Money” e “Give Me The Light” contenuti nell’album “Dreadatour” uscito nel 1996».

Alexia + Sandy
Nell’autunno ’95 Zanetti lancia Alexia e Sandy come interpreti soliste dopo un numero indefinito di featuring spesso non palesati sulle copertine

L’allontanamento dell’artista su cui aveva scommesso sin dal 1989 e nel tempo diventato un pilastro della sua etichetta non ferma Zanetti che dimostra, immediatamente, di avere un asso nella manica. Nei negozi arriva “Me And You” con cui Alessia Aquilani, da anni turnista per la DWA, diventa Alexia. Ad affiancarla, per una breve parte vocale, è William Naraine dei Double You. Il successo è immediato, il brano conquista il vertice delle classifiche di vendita in Italia e in Spagna col conseguente avvio delle prime tournée da solista. In copertina finisce una foto di Fabio Gianardi che immortala il particolare look della cantante spezzina dalla chioma raccolta in treccioline. Ma le sorprese non sono finite: Zanetti affianca ad Alexia un’altra turnista che ha maturato numerosissime esperienze, Sandra Chambers, ora pronta a spiccare il volo da solista come Sandy. Il suo brano si chiama “Bad Boy” e macina decine di licenze, non solo in Europa, trainato da un refrain di tastiera simile a quello di “Tell Me The Way” dei Cappella, già oggetto di una sorta di ripescaggio nell’omonimo dei The Sensitives nato dalla partnership tra la Bliss Corporation e la Sintetico. A novembre esce “I Don’t Wanna Be A Star” che traghetta Corona nelle atmosfere della discomusic con qualche occhiata a “Can’t Fake The Feeling” di Geraldine Hunt. Il video omaggia la “Dolce Vita” romana ancora con la briosa Olga De Souza, bellezza sudamericana dalla capigliatura fluente e dalla risata peculiare ma un po’ sgraziata, seppur a cantare resti la Chambers. Per non scontentare i fan dell’eurodance viene approntata una versione apposita, la Eurobeat Mix, ma a colpire maggiormente gli addetti ai lavori è la 70’s Mix: in relazione ad essa Nello Simioli, in una recensione apparsa a dicembre su Tutto Discoteca Dance, ipotizza la nascita di un «nuovo filone che possa innalzare il livello qualitativo di un mercato stanco e disorientato». A tirare il sipario sono i Double You con “Because I’m Loving You”, impostato come “I Don’t Wanna Be A Star”: da un lato la versione eurodance pensata come follow-up di “Dancing With An Angel”, dall’altro la ’70 Mix, sincronizzata col video girato in teatro che invece capovolge tutto a favore di dimensioni disco, preservando la linea melodica principale che ammicca a “You Keep Me Hangin’ On” di Kim Wilde. L’idea c’è ma paragonato al predecessore il brano perde un po’ in potenza ed immediatezza. Rispetto alle annate precedenti, quella del 1995 è la prima in cui la frequenza delle pubblicazioni DWA scende a circa una ventina di uscite, riducendo quasi del tutto i progetti one shot e le compilation ed azzerando le licenze estere. Un preludio di ciò che avverrà negli anni a seguire.

1996-1997, un biennio in chiaroscuro
Dopo circa centottanta uscite, la DWA cambia in modo definitivo la numerazione del catalogo del vinile uniformandola a quella del CD: i primi due numeri identificano l’anno, i restanti il tradizionale ordine cronologico di uscita. Il primo è dunque il 96.01 che esce in primavera, “Summer Is Crazy” di Alexia, un pezzo che vuole imporsi come successo estivo sin dal titolo e per cui viene girato anche un video. La Aquilani conferma le proprie doti canore e Zanetti quelle da compositore e produttore. La dance italiana però attraversa una fase particolare, la popolarizzazione di formule strumentali trainata in primis dall’exploit mondiale di “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui) finisce col mettere all’angolo e in ombra il formato canzone sul quale la DWA ha edificato il proprio successo. I suoni della progressive e della dream fanno apparire vecchia e stantia l’eurodance, in tanti(ssimi) preferiscono voltare pagina e cercare fortuna scomodando suoni e stesure che con la dance delle classifiche avevano ben poco in comune.

Alexia - Summer Is Crazy
“Summer Is Crazy” di Alexia, un brano eurodance dai chiari riferimenti dream

In un certo senso lo fa anche Zanetti, come testimoniano i chiari rimandi pianistici a “Children” in “Summer Is Crazy”, portata al Festivalbar e pochi mesi più avanti ricostruita da DJ Dado (e Roberto Gallo Salsotto, intervistato qui) in una versione “pop-gressive”, la World Mix, ottenuta incrociando “Acid Phase” di Emmanuel Top ad “On The Road (From “Rain Man”)” degli Eta Beta J. a cui abbiamo dedicato un articolo qui. Per tentare di cavalcare la transitoria ondata progressive Zanetti riporta in vita, dopo sei anni di assenza, il progetto Pianonegro con “In Africa”, un brano edito anche in formato picture disc nato dalla distillazione della citata “Children”. Ancora una volta appare parecchio evidente che l’artista massese non sia tagliato per i generi strumentali, la sua cifra creativa emerge dalla scrittura di canzoni intarsiate ad efficaci melodie e non dalla ricerca di timbriche inedite che disorientano l’ascoltatore, nuove traiettorie ritmiche o calibrazione di layer davanti a muri di sintetizzatori modulari. «Prima di pensare ai suoni, voci ed arrangiamenti, partivo sempre da una bella canzone» dichiara in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. Con un’anima genuinamente canzonistica Zanetti è dunque un profondo conoscitore della melodia, elemento a cui ha sempre attribuito un ruolo prioritario nelle proprie opere.

A ridosso dell’estate esce il “Megamix” di Corona, composto dai suoi successi usciti tra ’93 e ’95. Quell’anno Olga De Souza è ancora sul palco del Festivalbar ma non come artista bensì come co-conduttrice insieme ad Amadeus ed Alessia Marcuzzi. Tra i cantanti che introduce, come si vede in questa clip, c’è anche Ice MC con la citata “Give Me The Light”, prodotta in Germania dai Masterboy scopiazzando palesemente il DWA style. Zanetti non molla ed appronta un nuovo pezzo per Alexia che esce a novembre, “Number One”, composto sulla falsariga di “Summer Is Crazy” e con l’inciso in comune con “(You’ll Always Be) The Love Of My Life” di Pandora uscito l’anno dopo («alcuni autori britannici mi mandarono un demo da cui presi le note del ritornello, ma tutto il resto fu scritto da me ed Alexia» spiega Zanetti, specificando che ci fosse un accordo a monte di questa scelta). Questa volta oltre al pianoforte childreniano figura pure qualche occhiata a “Seven Days And One Week” dei BBE. Immancabile il video che traina il brano soprattutto all’estero dove l’eurodance non viene intorpidita dalla fiammata progressive. Del pezzo escono svariate versioni remix tra cui la latineggiante Spanish Club Mix in spanglish e la Fun Fun Party Mix, piena di riferimenti agli Alex Party, del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano coadiuvato, tra gli altri, dagli esordienti Harley & Muscle.

E.Y.E. Feat. Alexia - Virtual Reality
“Virtual Reality” di E.Y.E. Feat. Alexia è l’ultimo tentativo della DWA di cavalcare l’onda progressive

Ad inizio ’97 il fenomeno progressive appare già sensibilmente depotenziato rispetto a dodici mesi prima, e nell’arco dell’anno la flessione sarà costante sino ad un calo completo a favore di un ritorno alla vocalità, ad atmosfere più festose e alle tradizionali stesure in formato canzone. Per la DWA, che dopo un triennio rinnova l’impianto grafico ora su fondo nero, l’ultima prova sotto il segno della progressive è rappresentato da “Virtual Reality” di E.Y.E. feat. Alexia, una traccia lontana dalle coordinate robyxiane che tenta di deviare verso stilemi “popgressive” rimaneggiando elementi di “Flash” dei B.B.E. e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. L’effetto finale è la sovrapposizione tra prevedibili bassi in levare e girotondi di “pizzicato style”, propaggine di un effimero trend commerciale sdoganato in Europa da pezzi come “Encore Une Fois” dei Sash!, “La Vache” dei Milk Inc. o “Bellissima” di DJ Quicksilver e probabilmente istigato dai Faithless con “Salva Mea (Save Me)” ed “Insomnia”, entrambi del ’95.

Un riavvicinamento alle sponde stilistiche per cui la DWA si è fatta conoscere nel mondo si registra con “Uh La La La” di Alexia, ma non è propriamente un ritorno all’eurodance: Zanetti vira verso il downtempo più scanzonato ai confini con le pop hit r&b, ma lo fa con cognizione di causa. Il brano, con cui la Aquilani partecipa al Festivalbar, diventa un successo estivo europeo, sorretto da un video registrato a Miami. Della ballad arrivano diversi remix realizzati dai Fathers Of Sound pressati su un doppio che ingolosisce i DJ devoti alla house/garage come Paolo Martini che, in una recensione apparsa a maggio su DiscoiD, spende parole più che positive sul progetto: «quando ho ascoltato il DAT sono quasi svenuto, Alexia ha una voce da panico e nel momento in cui sentirete queste versioni anche voi mi darete ragione. Purtroppo (per noi) ha un contratto in esclusiva con la DWA, cosa farei altrimenti con quella voce…». Nei negozi comunque arriva anche un remix espressamente destinato alle radio e ai locali generalisti firmato da Fargetta affiancato da Pieradis Rossini.

Alexia + Sunbrother
Con Alexia e Sunbrother la DWA ritrova la sua dimensione stilistica

“Uh La La La” è tratto da “Fan Club”, primo album di Alexia che la DWA pubblica insieme alla Polydor vendendone più di 600.000 copie e dal quale viene estratto pure “Hold On” con una versione affidata al brasiliano Memê probabilmente ispirato da “Keep On Jumpin'” di Todd Terry. In Italia però i risultati dell’LP non sono completamente soddisfacenti, a dirlo è la stessa cantante in un’intervista pubblicata ad aprile ’98 sulla rivista Jocks Mag in cui sostiene altresì che la sua presenza al Festivalbar «abbia infastidito qualcuno». Perniola, Bini, Galeotti e Tognarelli tornano sull’etichetta zanettiana ma nelle vesti di Sunbrother con “Tell Me What”, una specie di rilettura di “Stop That Train” di Clint Eastwood And General Saint, un vecchio brano reggae del 1983 reimpiantato per l’occasione su una base macareniana. Netzwerk invece “trasloca” sulla Volumex, etichetta della milanese Dancework, con “Dream”, pop tranceggiante interpretata da Sharon May Linn, completamente disallineato dai due precedenti successi e finito inesorabilmente nell’oblio. Un altro ritorno è quello dei Double You prossimi a firmare con la BMG che, orfani di Andrea De Antoni e reduci di un clamoroso successo in Brasile dove esce l’album “Forever” (ma non edito da DWA), si ripropongono con “Somebody”, brano vicino (forse troppo?) alla romantic dance di Blackwood e alla deviazione pop di DJ Dado. Come per Alexia, anche in questo caso ci pensano i Fathers Of Sound a rileggere il brano in numerose versioni house oriented incise su un doppio mix. Il numero risicato di pubblicazioni, una decina nel 1996 ed altrettante nel ’97, è un segnale che qualcosa sia mutato in modo radicale nella struttura discografica massese.

Gli ultimi anni Novanta
Come si è visto, il 1996 e il 1997 segnano un nuovo passo per l’etichetta di Zanetti. Sono ormai lontani i tempi delle pubblicazioni mensili multiple (l’apice è nel 1994 con circa una cinquantina di uscite annue), delle compilation, delle licenze dall’estero e delle scommesse su progetti one shot. I bilanci della discografia, in generale, cambiano bruscamente nell’arco di pochi anni: a Billboard, il 2 luglio ’94, Alvaro Ugolini della Energy Production dichiarava di aver incassato 1 miliardo e 200 milioni di lire nel ’92 e più del doppio nel ’93 mentre Luigi Di Prisco della Dig It International prevedeva di fatturare, per il ’94 ancora in corso, almeno 30 miliardi di lire. Gianfranco Bortolotti della Media Records invece, in un’intervista del giugno ’95 finita nel libro “Discoinferno” di Carlo Antonelli e Fabio De Luca, parla di 10 miliardi di lire in royalties, presumibilmente relativi all’anno precedente. Gli imprenditori del comparto iniziano a capire che sia necessario produrre meno ed alzare l’asticella qualitativa perché i tempi delle vacche grasse stanno repentinamente trasformandosi in ricordi e a testimonianza ci sono eclatanti chiusure, dalla Flying Records («a causa di un insostenibile carico di debiti» come si legge in un trafiletto di Mark Dezzani su Music & Media del 24 gennaio ’98) alla Zac Music, «in ritirata strategica da un mercato ormai depresso», passando per la Discomagic di Severo Lombardoni (distributore della DWA sino a fine ’96) a cui si aggiungerà, nel ’99, la citata Dig It International. Per DWA inoltre si è drasticamente assottigliata pure la scuderia artistica coi nomi statuari ormai defilati dalla scena o già finiti nel dimenticatoio ad eccezione di Alexia, sulla quale Robyx continua a credere ciecamente spinto e motivato anche da un accordo internazionale stretto nel ’97 con la divisione dance della Sony, la Dance Pool. Da quel momento in poi è la multinazionale ad occuparsi della promozione e della distribuzione della musica dell’artista spezzina in tutto il globo. Adesso la DWA, come Zanetti rimarca a Dezzani in uno special sulla scena delle etichette dance indipendenti nostrane pubblicato sul citato numero di Music & Media ad inizio ’98, «è più una casa di produzione che un’etichetta discografica, stiamo concentrando le nostre energie maggiormente su artisti che possano fare crossover tra la dance e il pop come Alexia, a cui vengono aggiunti remix più incisivi destinati alle discoteche. Ritengo che la strada da percorrere sia quella con meno progetti, in questo modo si possono seguire meglio le priorità. Concentrandosi sulla produzione e la gestione dell’artista, è possibile ottenere un prodotto di qualità, quello che attualmente chiedono i consumatori».

Grafico DWA anni 90
La quantità di pubblicazioni DWA nel decennio 1989-1999

Zanetti parla di questo “ridimensionamento progettuale” anche in un’intervista raccolta per il libro Decadance Appendix: «quando, nella seconda metà degli anni Novanta, i miei colleghi della Time, della Media Records e di altre strutture simili si ingrandivano diventando piccole industrie, io preferii rimanere ancorato a dimensioni ridotte per avere un controllo totale sui miei progetti. Basti pensare che nel momento di massimo successo in DWA lavoravano appena quattro persone, io, mia sorella alla contabilità, un ragazzo in studio come aiuto fonico ed una segretaria. Poi, visto che una volta raggiunta fama e popolarità i miei artisti diventavano intrattabili, decisi di lasciarli per dedicarmi a tempo pieno ad Alexia». È altrettanto importante sottolineare che, oltre ad una quantità minore di titoli immessi sul mercato, la DWA abbia sempre poggiato su un lavoro più indipendentista rispetto a quello delle citate Time o Media Records. Nel Casablanca Recording Studio opera il solo Zanetti affiancato da Francesco Alberti, non ci sono team di produzione che possano garantire una maggiore prolificità e tantomeno non si riscontra la presenza di nessuna sublabel, cosa atipica per i tempi quando ci si inventava marchi di ogni tipo e genere spesso con l’unico fine di evitare l’inflazione, tanta era la quantità di dischi immessi mensilmente sul mercato. Se altri portano avanti un’operosità quasi industriale, la DWA resta invece legata ad una sorta di piccolo artigianato.

Alexia LP
Gli album “The Party” ed “Happy” fanno di Alexia una cantante non più legata esclusivamente alla dance

A marzo del 1998 viene pubblicato “Gimme Love” di Alexia, scritto da Zanetti affiancato nel suo studio dall’inseparabile Francesco Alberti, che pare una specie di rivisitazione italica dei fortunati remix di Todd Terry per gli Everything But The Girl. Italia, Spagna e Finlandia sono tra i primi Paesi a “capitolare” ma qualcosa accade anche oltremanica dove Alexia, per sua stessa ammissione in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile per Jocks Mag, è ancora impopolare. La Dance Pool pubblica i remix (incluso quello degli Almighty) del precedente “Uh La La La” e il brano entra in classifica alla decima posizione, garantendo alla cantante la presenza ad importanti trasmissioni tv, incluso Top Of The Pops. Da noi è tempo del Festivalbar dove Alexia si esibisce prima con “Gimme Love” e poi con “The Music I Like”, secondo singolo estratto dall’album “The Party” uscito a maggio ed inserito in una posizione abilmente giocata tra pop e dance. Le oltre 500.000 copie vendute richiamano l’attenzione del mercato statunitense ed asiatico. La Aquilani figura pure in “Superboy” di Tuttifrutti, un brano bubblegum che Zanetti dedica al mondo del calcio, quell’anno animato dai Mondiali che si disputano in Francia. In autunno è ancora la volta di Alexia con “Keep On Movin'” dove prevale una vocazione maggiormente legata al pop, dimensione in cui la cantante entra definitivamente da lì a breve col terzo album uscito nel ’99, “Happy”, anticipato da “Goodbye” a cui partecipa il musicista Marco Canepa.

Per Alexia è l’LP della consacrazione e la sua musica, seppur ancora in lingua inglese, non è più relegata solo all’ambiente delle discoteche ma abbraccia un pubblico eterogeneo. Anche la sua immagine inizia a conoscere un rinnovamento: appare ancora vispa e sbarazzina, spesso abbigliata con colori fluo così come vuole la moda del periodo, ma senza più le lunghe treccioline. Dall’album viene estratto anche l’omonimo “Happy”, accompagnato da un video in cui l’interprete è proiettata negli anni Sessanta mediante una sorta di macchina del tempo chiamata Virtual Transfer. Nel 2000 tocca ad un inedito, “Ti Amo Ti Amo”, l’ultimo scritto da Zanetti e contenuto nella raccolta “The Hits” che riassume le tappe essenziali della carriera artistica della Aquilani. È l’ennesimo brano a confermare l’abilità del produttore toscano nel costruire canzoni semplici ed efficaci, montate su stesure immediate ed incisi facilmente memorizzabili e collocati in un contesto privo di qualsiasi dettaglio superfluo. Nonostante il considerevole successo, a questo punto qualcosa si incrina. Come riportato sul sito DWA, la cantante chiude un nuovo accordo con la Sony estromettendo Zanetti «costretto ad intentare un procedimento legale per inadempimento di contratto». Alexia ormai non è più la ragazzina dei turni in sala canto, all’orizzonte c’è il Festival di Sanremo a cui partecipa nel 2002 con “Dimmi Come… “ sfiorando la vetta conquistata l’anno successivo con “Per Dire Di No”. Eppure sino a pochi anni prima l’ipotesi di cantare in italiano non la sfiorava nemmeno da lontano: «la lingua inglese mi è molto affine e credo di esprimere con essa il meglio di me stessa» affermava in un’intervista di Barbara Calzolaio pubblicata ad aprile 1998 su Trend Discotec.

Ice MC con Time
I due singoli che nel 2004 segnano la ritrovata collaborazione tra Ice MC e Zanetti

Il ritorno dopo il buio, l’attività nel nuovo millennio
Dopo la rottura del sodalizio con Alexia, la DWA si ferma ma non il suo fondatore che non resta con le mani in mano. Tra le altre cose, Robyx scrive e produce “www.mipiacitu” dei romani Gazosa, hit dell’estate 2001 scelta per lo spot televisivo della Summer Card Omnitel con Megan Gale. La DWA riappare nel 2004 quando, nell’incredulità di molti, l’asse creativo tra Zanetti ed Ice MC viene ristabilito. Il primo risultato della ritrovata partnership è rappresentata dal brano “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” pubblicato in tandem con la Time di Giacomo Maiolini. Contrariamente a quanto si aspettano gli eurobeatiani più convinti e nostalgici, non contiene nulla delle hit nazionalpopolari del rapper britannico se non l’attitudine hip hop che lo accompagna sin dagli esordi spinta verso sponde reggae à la Shaggy o Sean Paul. Il pezzo, per cui viene girato anche un videoclip, è estratto dall’album “Cold Skool” che però passa completamente inosservato. Probabilmente il vero miracolo risiede nel fatto che i due si siano riavvicinati lasciandosi alle spalle i dissapori di metà anni Novanta. «Nel 2004 abbiamo tentato di dare un nuovo avvio alla carriera di Ice MC, prima con “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” e poi con “My World”» (ancora su Time e solo omonimo dello sfortunato album del ’91, nda) ma probabilmente non era il momento propizio per quel genere musicale» dichiara Zanetti in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. «Malgrado non abbiano raccolto ampio successo come negli anni Novanta, nutro grande rispetto per quei due singoli e credo rientrino a pieno merito tra i brani più belli di tutta la discografia di Ice MC» aggiunge. L’eurodance ormai appartiene ad un passato che inizia ad essere remoto, e i suoi protagonisti stanno per trasformarsi in materiale revivalistico. Nel 2005 Robyx si cimenta in un pezzo house, “Wonderful Life” di Creavibe, che affida alla Ocean Trax degli amici Gianni Bini e Paolo Martini. Sono anni piuttosto difficili per il mercato discografico, letteralmente sconvolto dalla “digital storm” che azzera gli introiti legati ai tradizionali formati (dischi, CD e cassette). Il mercato generalista, a differenza di quello settoriale, è il primo a non puntare più sui prodotti fisici. Inizia la corsa alla conversione digitale dei cataloghi nella speranza che ciò possa rappresentare un paracadute ed evitare lo schianto, ma le promesse dell’MP3 non verranno mai mantenute perché non c’è stata, oggettivamente, una generazione ad aver raccolto il testimone della precedente che anziché comprare dischi ha investito denaro in file, perlomeno non nei numeri auspicati.

Ural 13 Diktators - Total Destruction
In “Total Destruction” degli Ural 13 Diktators c’è un brano che riprende la melodia di “Only You” di Savage

Nel frattempo, sotto la spinta dei fermenti underground nati all’estero, in primis nei Paesi Bassi, si prospetta una seconda vita per l’italo disco. Dalla fine degli anni Novanta è un crescendo continuo e da genere bistrattato si trasforma in un trend battuto da alcuni DJ che vantano un nutrito seguito, da I-f ad Hell passando per Felix Da Housecat e Tiga. L’italo disco diventa, insieme ad altre correnti stilistiche come new wave, eurodisco e synth pop, materiale da riconvertire per una nuova generazione. Nasce quindi l’electroclash che fa incetta di un numero abissale di musica “retroelettronica”, svecchiata e pronta a risorgere con nuova energia perché, come scrive Simon Reynolds in “Retromania”, ora il plastic pop «viene spogliato dalle connotazioni negative (usa e getta, finto) e recupera il carattere utopico di materia prima del futuro». Nel radar finisce anche la tastiera di “Only You” di Savage, ricollocata in un inedito scenario dai finnici Ural 13 Diktators nella loro “Name Of The Game” (dall’album “Total Destruction”, Forte Records, 2000). Ancora più d’impatto la Vectron Mix dell’anno dopo messa a punto dal compianto Christian Morgenstern sotto le sembianze di The Bikini Machine, accompagnata da un video immerso nel mondo ad 8 bit dei vecchi videogiochi arcade. Ad innamorarsene è anche Gigi D’Agostino che la inserisce nel primo volume della compilation “Il Grande Viaggio Di Gigi D’Agostino”.

Savage - Twothousandnine
“Twothousandnine” riporta Savage all’istintività degli esordi

Così come accaduto ad Alexander Robotnick, Fred Ventura e ai N.O.I.A., di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui, anche Savage è destinato a tornare a splendere di luce propria in una specie di cortocircuito cronologico col presente sempre più intriso di passato e ciò avviene nel 2009 col brano “Twothousandnine”, dedicato alla figlia Matilde e solcato su 12″ dall’etichetta olandese I Venti d’Azzurro Records. In copertina c’è Zanetti bambino: “Twothousandnine” è fondamentalmente un ritorno alla giovinezza, alla spontaneità e all’istintività dei suoi primi lavori, sotto la campata dell’italo più romantica e malinconica. Il disco è già diventato un cimelio ambito per i collezionisti ed è sulla stessa strada il CD edito dalla DWA. Corrono ancora i tempi di MySpace, l’epoca dei social network è alle porte, il mondo sta cambiando velocemente pelle, quello della musica in modo radicale. La tecnologia mette nelle condizioni di poter approntare brani anche nelle camerette con strumenti dai costi più che abbordabili, tanti giovani provano a fare il salto. Tra quelli anche la venticinquenne Elisa Gaiotto alias Eliza G in cui Zanetti crede producendo “Summer Lie” in cui si ritrova parte del mood di “It’s A Rainy Day”. Passando per le cover di “The Rhythm Of The Night” e “Think About The Way” approntate dai britannici Frisco e quella di “Please Don’t Go” dell’italiano DJ Ross, la DWA mette in circolazione “Mad 90’s Megamix” di DJ Mad, un medley di classici (“Saturday Night”, “Please Don’t Go”, “The Rhythm Of The Night”, “Me And You”, “Think About The Way”) che alimenta la voglia di riavvolgere il nastro di una dance d’antan. Zanetti non perde di vista l’italo disco che continua a conquistare consensi sempre più ampi all’estero e, tra 2009 e 2010, ripubblica in digitale “To Miami” dei Taxi, “Magic Carillon” di Rose, “Buenas Noches” di Kamillo, e la tripletta “I’m Singing Again”, “Show Me” e “Sometimes” di Wilson Ferguson. Non mancano ovviamente i pezzi del repertorio savagiano, da “So Close” a “Good-Bye” (ricantata da Alexia nella versione dei Fourteen 14 uscita nel ’95), da “I Just Died In Your Arms” a “Don’t Leave Me”, da “Time” a “Radio”, da “Love Is Death” a “Celebrate” passando per gli evergreen, “Don’t Cry Tonight” ed “Only You”, sino ai primi tentativi di approcciare all’house music come “Volare” di Rosario E I Giaguari, piuttosto improbabile rivisitazione dell’eterna “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno.

Savage - Love And Rain
“Love And Rain”, l’album di Savage uscito nel 2020

La DWA dei giorni nostri, tra inediti e ristampe
Nell’attività recente e contemporanea della DWA si segnala l’uscita, nel 2020, di “Love And Rain”, nuovo album di Savage di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui. Dal disco vengono estratti diversi singoli come “I Love You”, “Where Is The Freedom”, “Italodisco” e “Lonely Night” dati in pasto ad una nutrita squadra di remixer tra cui il danese Flemming Dalum, intervistato qui. In parallelo viene sviluppato e portato a termine il progetto “Ritmo Sinfonico”, rilettura in chiave orchestrale delle hit dell’etichetta. La costante spinta al recupero di materiale del passato non si esaurisce: sono migliaia ormai le label sparse per il mondo a dedicarsi al reissue, pratica supportata anche dalle giovani generazioni che oggi possono scoprire musiche ed artisti dimenticati con estrema facilità ed immediatezza rispetto alle precedenti che invece non potevano contare su un mezzo potente come internet. Ad onor del vero, la DWA sonda il terreno già nel 1999, anno in cui pubblica circa una decina di dischi contrassegnati dalla sigla CL (ossia CL-assic): ci sono i primi Savage ma anche Stargo, Ice MC e Pianonegro. A distanza di poco più di un ventennio l’etichetta torna dunque ad investire sul proprio passato, mandando in (ri)stampa “Tonight” di Savage e gli album più rappresentativi del proprio repertorio (“Ice’ N’ Green” e “Cinema” di Ice MC, “The Rhythm Of The Night” di Corona, “We All Need Love” dei Double You, “Fan Club” di Alexia) che fanno felici gli irriducibili di un genere rimasto impresso a fuoco nella memoria di un’intera generazione, quello stesso genere a cui Zanetti ha dato credibilità sul fronte internazionale lasciando un’impronta indelebile con la sua inesauribile capacità di suggestionare e rapire l’attenzione di chi ascolta.

La testimonianza di Roberto Zanetti

Cosa o chi ti torna in mente pensando ai primi mesi di attività della DWA?
Senza dubbio Ice MC. Avevo voglia di creare una mia etichetta per essere immediatamente riconoscibile coi miei progetti e differenziarmi da Discomagic, il mio distributore che a quel tempo immetteva sul mercato troppi brani. Così realizzai “Easy” di Ice MC e fu immediatamente un successo incredibile in tutta Europa. Si piazzò ai primi tre posti delle classifiche ovunque ma tranne in Italia.

Perché inizialmente Ice MC venne ignorato nel nostro Paese?
Il primo album, “Cinema”, era più hip hop che dance e non partì dalle discoteche come invece capitava spesso ai miei progetti. Ho sempre realizzato canzoni maggiormente legate al pop che alla dance, ma secondo i DJ dei network nostrani erano troppo commerciali. Nel momento in cui riscuotevano successo in discoteca però entravano anche nelle programmazioni radiofoniche.

Fu la scarsa considerazione in patria a convincerti a non pubblicare su DWA “My World”, il secondo album di Ice MC?
No. Visto il successo del primo album, la Polydor tedesca volle acquisire la licenza del secondo per tutto il mondo.

Quanto costò realizzare i primi videoclip di Ice MC? Ai tempi girare il video di un pezzo dance poteva essere determinante per il successo?
In quel periodo girare un videoclip era molto costoso, mediamente la spesa andava dai cinque ai dieci milioni di lire. A volte riuscivo a contenerla grazie ai contributi delle case discografiche a cui licenziavo i brani. Nel caso di Ice MC, esistono due videoclip di “Easy”, uno realizzato a Parigi quando il pezzo era al numero uno della classifica francese, ed uno a New York fatto quando fu preso in licenza dall’americana Virgin. Ad onor del vero, credo che ai tempi il video servisse poco a lanciare il brano ma risultava comunque importante per far conoscere l’artista una volta che il pezzo era partito nelle radio.

Casablanca Recording Studio
Uno scorcio del Casablanca Recording Studio: in primo piano il mixer Trident Series 80B

La DWA gravitava intorno al suono approntato prevalentemente nel tuo Casablanca Recording Studio: come era equipaggiato e perché gli avevi dato questo nome?
Ho investito nell’allestimento dello studio di registrazione tutti i guadagni ottenuti col progetto Savage, la musica era la mia vita e volevo vivere di quello. Altri colleghi invece spesero tutto in bella vita, donne e champagne, io invece venivo da una famiglia umile ed ambivo a crearmi un lavoro per il futuro. Avevo capito che l’italo disco avrebbe avuto una scadenza e così investii le risorse economiche in uno studio. Affittai una villetta bianca in collina e per questo lo chiamai Casablanca. Ai tempi gli studi di registrazione costavano una fortuna: io spesi cento milioni di lire che nel 1985/1986 erano davvero tantissimi. Avevo un mixer Trident Series 80B, un registratore a 24 tracce Sony/MCI, i monitor Westlake e tante tastiere Roland, Moog e Korg.

declinazioni tag DWA
Le quattro branch della DWA

Nei primi anni di attività alcune pubblicazioni erano marchiate da particolari sigle, DWA Underground, DWA Italiana, DWA Interface e DWA Infective: come mai? C’era forse l’intenzione di creare delle branch in base al genere musicale affrontato?
Sì esattamente, volevo differenziare l’etichetta in base al tipo di progetto. Al tempo non esisteva un genere di dance ben preciso e pertanto procedevo di volta in volta in base ad esperimenti. Ad esempio avevo già creato, a fine anni Ottanta, il fenomeno della “house demenziale” (con dischi come “Volare” di Rosario E I Giaguari e “The Party” di Rubix, nda), non destinato alla DWA ma utile per pagare un po’ di debiti contratti per l’allestimento dello studio.

Esisteva una ragione anche dietro le varie declinazioni grafiche che si sono succedute nel corso del tempo come il centrino carioca, quello fiorato e quello su fondo blu che rimase in uso per un triennio?
No, nessun motivo in particolare. Erano semplicemente il marchio e i colori che si adeguavano ai tempi.

Nel primo lustro di attività la DWA è stata operativa anche sul fronte licenze: c’è qualche pezzo importato dall’estero che ha tradito le tue aspettative?
Non davo molta importanza alle licenze, preferivo piuttosto investire sui miei progetti ma talvolta i pezzi presi oltralpe facevano comodo per le compilation. Nel caso di DJ Bobo, ad esempio, ascoltai il demo al Midem di Cannes e lo presi per tutti i Paesi in cui era ancora libero ma purtroppo il nome stesso “Bobo” era un po’ penalizzante in alcuni mercati. Per CB Milton invece, feci un favore ad un partner straniero che pubblicava le mie cose e con cui ci scambiavamo i rispettivi progetti.

Il mancato supporto di Albertino, probabilmente all’apice della sua popolarità radiofonica tra ’93 e ’94, ha forse pregiudicato l’esito di licenze potenzialmente forti proprio come quelle di DJ Bobo e CB Milton?
Le radio dance erano molto importanti e potevano far decollare un progetto se lo spingevano. Alla fine degli anni Ottanta l’emittente più di tendenza era 105, poi arrivò Radio DeeJay con Albertino che però non ha mai supportato i miei brani sin dalla loro uscita, per lui erano troppo commerciali. Forse la colpa era anche di Dario Usuelli, ai tempi responsabile della programmazione in Via Massena. DJ Bobo era un successo in tutta Europa ed avrebbe potuto esserlo anche qui da noi ma forse, come dicevo prima, era il suo nome a remare contro. In Francia, ad esempio, “bobo” significa “stupido”.

Alexia e Ice MC (1994)
Alexia ed Ice MC in una foto del 1994

In quello stesso periodo Ice MC viene affiancato da una ballerina tedesca, Jasmine, nonostante a cantare nei brani fossero prima Simone Jackson e poi Alexia. Come mai decidesti di ricorrere ad un personaggio immagine, analogamente a quanto avvenne per Corona?
Era una consuetudine abbinare ai progetti da studio dei frontman/frontwoman che avessero una buona presenza scenica nelle apparizioni televisive e negli spettacoli in discoteca. Simone Jackson stava iniziando già la sua strada da solista mentre Alessia Aquilani era bravissima come cantante ma non aveva ancora maturato sufficiente esperienza nei live. Così iniziammo la promozione con Jasmine ma poi, quando esplose il successo di “Think About The Way”, chiamammo pure Alessia per alcune performance pubbliche. Devo ammettere che fu bravissima a crearsi un’immagine e ad imparare a ballare, tanto che poco tempo dopo decisi di produrla per un disco solista con cui divenne la Alexia che tutti conosciamo.

Ritieni che le “controfigure mute” che caratterizzarono prima l’italo disco e poi l’eurodance fossero strettamente necessarie? Secondo più di qualcuno fu proprio la pratica dei cosiddetti “ghost singer” (non solo italiana, si pensi all’eclatante caso dei Milli Vanilli prodotti dal tedesco Frank Farian) ad aver svilito l’immagine dei cantanti dance facendoli passare per personaggi artefatti e privi di ogni talento, insinuando e alimentando ulteriormente i pregiudizi nel grande pubblico.
All’inizio dell’italo disco c’erano ben pochi cantanti e quindi i produttori si ritrovarono costretti ad usare la stessa voce per un mucchio di progetti. Quando questi ultimi iniziavano a funzionare però, serviva un volto che andasse in tv e quindi tornava comodo assoldare fotomodelli e ballerine che impersonassero l’artista. C’erano cantanti, come ad esempio Silver Pozzoli, che prestavano la propria voce ad un sacco di progetti immessi sul mercato con vari nomi. In qualche caso alcuni contavano persino su più immagini simultanee: in Spagna, ad esempio si ricorreva al fotomodello tizio mentre in Germania appariva il ballerino caio. Lo riconosco, era una pratica un po’ spudorata. Gli artisti veri che cantavano realmente le proprie canzoni però erano davvero pochissimi e questo sicuramente non giocò a favore dell’italo disco, ma anche all’estero facevano la stessa cosa, proprio come i Milli Vanilli menzionati prima e peraltro ancora attivi, in playback naturalmente, nonostante uno dei due volti pubblici del gruppo, Rob Pilatus, sia deceduto nel 1998. Analogamente altre band come Bad Boys Blue, Joy o Boney M. hanno cambiato tutti o quasi i membri originali ma continuano a vivere attraverso live con performer nuovi e più giovani.

A partire dal 1995 hai ridotto sensibilmente il numero delle pubblicazioni ed azzerato del tutto le licenze. Rispetto a molti competitor in fase di netta espansione, avevi forse intuito con lungimiranza che per le etichette indipendenti preservare dimensioni aziendali più piccole, a distanza di qualche anno, si sarebbe rivelato un pro e non un contro?
Io sono sempre stato più “produttore” che “discografico”, volevo avere pieno controllo sui miei progetti e pertanto non mi sono volutamente ingrandito come hanno fatto altri anzi, quando mi era possibile stringevo accordi per delegare promozione e distribuzione così come avvenne con la Sony per Alexia. Alcuni miei colleghi si ritrovarono a dover pubblicare un sacco di pezzi per mantenere il fatturato e pagare gli stipendi delle decine di dipendenti che avevano assunto. Come ho già dichiarato in altre interviste (inclusa una finita in Decadance Appendix nel 2012, nda), mi rammarica il fatto che in Italia non siano state create strutture indipendenti importanti. Saremmo stati fortissimi se ci fossimo uniti in un’unica label ed avremmo sicuramente dominato il mondo.

In un paio di occasioni (prima tra ’91 e ’92, con l’esplosione dell’euro(techno)dance, poi tra ’96 e ’97 con la fiammata pop-gressive) ti sei ritrovato a puntare su generi strumentali che non appartengono alla tua verve creativa. Era solo un modo per seguire le tendenze in atto del mercato discografico nostrano?
Quando sei produttore, soprattutto nella dance, devi per forza seguire il mercato ed adeguarti alle sonorità del momento. Io ho sempre cercato di prendere spunti ma modificandoli per farli miei. A volte ho creato io stesso le mode, così come avvenne nel ’93 con “Take Away The Colour” di Ice MC con cui lanciai in Europa l’eurobeat misto al rap-ragga.

Fu l’invasione della cosiddetta dream progressive ad interrompere il successo (italiano) dell’eurodance che nel frangente mainstream pareva non temere rivali?
Sì, ma solo in Italia. Quando arriva un successo planetario come quello di Robert Miles è ovvio che tutto il mondo venga influenzato. Il fenomeno dream comunque è stato più italiano che internazionale, e forse da noi a determinare il successo del filone furono le miriadi di compilation commercializzate con quel nome.

In passato hai speso parole positive sulla Media Records ed anni fa Bortolotti indicò proprio te, in una mia intervista, come uno dei pochi produttori ed artisti in grado di generare successi e denaro con continuità. Sebbene sia stata proprio la Media Records a licenziare in Italia la “Please Don’t Go” dei K.W.S., hai mai pensato di trasformare questa vicendevole ammirazione e rispetto in una collaborazione, analogamente a quanto fatto nel 2004 con la Time di Giacomo Maiolini per rilanciare Ice MC?
In Italia non è facile collaborare perché i discografici citati, ma anche tutti gli altri, hanno un grosso ego ed ognuno vede le cose alla sua maniera. Tutti i miei successi sono nati perché io non davo ascolto a nessuno e facevo di istinto quello che mi veniva in mente, a volte sbagliando, altre creando le hit che conosciamo. Se avessi ascoltato i pareri degli altri non avrei fatto nulla. Sono sempre stato un “solitario” nei miei progetti. Nel ’98, ad esempio, un discografico della Jive mi fece ascoltare un demo di “…Baby One More Time” di Britney Spears chiedendomi se avessi voglia di collaborare con loro e con la Disney ma rifiutai perché stavo lavorando ai pezzi di Alexia che, nel contempo, stava crescendo e volevo dedicarmi solo a lei.

In un’intervista di oltre un decennio fa mi dicesti che una delle ragioni per cui l’Italia non è più sulla mappa della dance internazionale, tranne poche eccezioni, è la mancanza di umiltà. «Negli anni Novanta i francesi si facevano produrre i pezzi da noi, poi hanno imparato a farlo (copiandoci) ed oggi lo fanno meglio perché rispettano i ruoli: esiste il discografico, il produttore, il manager e l’autore, non come da noi che vogliamo fare tutto e male» affermasti, aggiungendo che «se ci fossimo organizzati come gli inglesi, gli svedesi e i francesi saremmo sicuramente i primi produttori al mondo perché abbiamo una creatività esagerata, invece siamo scarsamente considerati dalla grossa industria discografica mondiale e purtroppo oggi, senza multinazionali che investono in promozione, è molto difficile farsi notare ed emergere». Credi che negli ultimi dieci anni la situazione sia cambiata? Hanno ancora ragione di esistere le etichette indipendenti? E quanto conta fare scouting?
Gli italiani sono degli “arrangioni” nel senso che hanno sviluppato l’arte e la capacità di arrangiarsi. Quando hanno un briciolo di successo si mettono in proprio e si gestiscono da soli anche in quei campi dove non hanno alcuna esperienza o talento. Quando un cantante diventa famoso vuole decidere tutto da solo, vuole fare l’autore, il manager, il produttore… ed ecco che quindi perde la freschezza che lo aveva fatto emergere all’inizio. Cantanti popolari come Zucchero, Renato Zero o Ligabue fanno dischi carini ma non forti come all’inizio perché vogliono gestire tutto in autonomia. Se c’è di mezzo un produttore, desiderano che faccia solo ciò che decidono loro. Non esistono più produttori “con le palle”, capaci di prendere per mano l’artista ed aiutarlo a creare un progetto intorno. Forse negli ultimi anni è tutto peggiorato ulteriormente perché le case discografiche sono diventate distributori, non hanno più personale che possa aiutare a sviluppare la parte creativa della musica. Le etichette indipendenti potrebbero assumere un ruolo importante in tal senso e preparare l’artista al grande salto, ma purtroppo quelle storiche sono fin troppo orientate al business. In circolazione ci sono un sacco di artisti validi ma non trovano alcuno sbocco perché non esiste più un vero e proprio scouting. Pure le multinazionali oggi si affidano solo ai contest. Inoltre se adesso vuoi scritturare un artista sconosciuto, ti si avvicina un avvocato del settore pronto a presentarti un contratto pari a quello che un tempo avevano solo le star. Nessun produttore indipendente potrebbe accettare di sottoscriverlo. Questo fa capire come si sia praticamente estinto il concetto di gavetta. Una volta portavi un pezzo a Lombardoni della Discomagic e ti dava settecento lire a copia, poi aumentavano a mille, milledue e, man mano che cresceva il successo salivano le royalties e così guadagnavano tutti. Io forse non pagavo royalties altissime ai miei artisti ma investivo molti più soldi rispetto alle multinazionali. Ricordo, ad esempio, il video di “Uh La La La” di Alexia girato a Miami che costò cento milioni di lire, tutti interamente sborsati dalla DWA. Poi gli artisti mi ringraziavano perché diventavano famosi e guadagnavano tantissimo dai concerti.

Negli anni Novanta a decretare il successo di tanti dischi dance prodotti dalle etichette indipendenti erano le emittenti radiofoniche. Adesso invece? C’è ancora qualcosa o qualcuno che riesce a fare il bello e il cattivo tempo?
Come dicevo all’inizio, il successo poteva partire dalle radio ma anche dalle discoteche: talvolta i network arrivavano a certi pezzi solo quando erano già strasuonati dai DJ, e a me succedeva quasi sempre così, specialmente dopo le prime hit. I disc jockey compravano i nostri dischi a scatola chiusa perché certi di usarli per tenere la pista piena. Quando usciva un DWA c’era un fermento incredibile, talvolta stampavamo quindicimila/ventimila copie solo come prima tiratura. Oggi penso sia tutto casuale, ci sono i nuovi canali rappresentati dai social network a spingere un nome piuttosto che un altro, ma il grande successo parte ancora dal pubblico. Solo in un secondo momento arrivano la radio e la televisione. Resto dell’opinione che non sia possibile far decollare un pezzo solo in virtù di un ingente investimento economico promozionale. Esistono personaggi ricchissimi che producono musica spendendo fortune in pubblicità ma non riuscendo ad ottenere il successo che vorrebbero.

Col senno di poi, quali sono gli errori che non ricommetteresti?
Con la DWA non ci sono grandi errori di cui mi rammarico. Con questo non voglio dire di non aver fatto sbagli ma quelli fanno parte del gioco. Forse come artista, nelle vesti di Savage, avrei potuto gestirmi meglio ma ero molto inesperto e non avendo alcun produttore al seguito ho sbagliato alcune canzoni. Ad un certo punto volevo fare l’electro pop inglese ma il pubblico voleva da me ancora l’italo disco.

A distanza di oltre un ventennio la DWA è tornata a credere nelle ristampe solcando dischi, come gli album “The Rhythm Of The Night” di Corona e “Fan Club” di Alexia, che ai tempi dell’uscita originaria non commercializzò in formato vinile. Paradossalmente oggi ci sono più persone rispetto a ieri disposte ad acquistare certi titoli in un supporto ormai obsoleto per la musica pop? Si tratta forse di banale collezionismo che riduce il disco ad un gadget?
Oggi stampare un disco in vinile costa parecchio, parliamo quindi di un mercato molto di nicchia. Ho deciso di ristampare gli album originariamente apparsi solo in CD per accontentare soprattutto fan e collezionisti. Possedere un disco in vinile adesso dà una soddisfazione che non offre il file digitale. Se poi include canzoni che hanno segnato la tua adolescenza acquista ulteriore valore e rimane nel tempo.

Qual è stato il più alto fatturato della DWA?
Preferisco glissare sul discorso economico perché non potremmo utilizzare il dato per confrontarlo con altre realtà. La DWA realizzava poche compilation, veicolo primario di introiti, e il grosso del fatturato era rappresentato da licenze e royalties che arrivavano soprattutto dall’estero. La rivista Musica E Dischi stilava una classifica annuale delle etichette che avevano venduto più singoli e ricordo con orgoglio quando, tra 1993 e 1994, la DWA era prima davanti a tutte le major malgrado avesse pubblicato meno titoli rispetto ad esse. Quasi ogni disco mix che mettevamo in commercio vendeva infatti oltre trentamila/trentacinquemila copie.

Se l’italo disco non fosse collassata ed incalzata dalla house music negli ultimi anni Ottanta, la DWA sarebbe nata ugualmente?
Certo perché volevo essere autonomo nelle scelte artistiche e musicali ed avrei potuto fare ciò che volevo solo creando una mia etichetta.

E se invece la DWA fosse nata esattamente trent’anni dopo ossia nel 2019, quali artisti o brani ti sarebbe piaciuto produrre ed annoverare nel catalogo?
Sicuramente non avrei mai prodotto gli artisti che non sanno cantare ed usano l’autotune, è facile capire a chi mi riferisco. Mi piacciono tantissimo i Måneskin ma ritengo che avrebbero bisogno di canzoni più forti. Ho apprezzato anche i Melancholia provenienti dalla penultima edizione di X Factor. A livello internazionale comunque, al momento il più forte in assoluto per me resta The Weeknd.

(Giosuè Impellizzeri)

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Lost Tribe – Gimme A Smile For The Future (Next Records)

Lost Tribe - Gimme A Smile For The Future

In passato la dance viene realizzata prevalentemente da team in cui ognuno mette a disposizione le proprie competenze. Non tutti i componenti finiscono sotto le luci dei riflettori perché esistono ruoli ben precisi e l’individualismo, complici le caratteristiche di un mondo profondamente diverso rispetto a quello odierno, è ben poco radicato o quasi del tutto inesistente, soprattutto nel settore musicale. Per districarsi da quel labirintico puzzle di nomi, talvolta celati da pseudonimi che ne complicano ulteriormente l’identificazione, oggi viene in soccorso Discogs, ma non basta. Per aggiungere nuovi tasselli a storie magari filtrate parzialmente attraverso i mass media dei tempi, è necessario solleticare la memoria di chi vive gli eventi in prima persona pur rimanendo dietro le quinte. È il caso di Alberto Lapris che, come la maggior parte dei coetanei, si avvicina alla musica attraverso la radio: «Sono cresciuto ascoltando le primissime emittenti libere ma pure alcuni programmi di mamma Rai, in particolare Alto Gradimento» racconta oggi. «Pian piano cominciai a seguire realtà più grandi come Radio Milano International con Leopardo, un nome su tutti e per sempre, e Radio Music 100, l’antesignana di Radio DeeJay. A ciò si aggiunse la possibilità di aiutare Lorenzo Gallini nel suo storico negozio di dischi, il 747, a Crema, la mia città natale. Il mio background affonda le radici nel punk, nell’heavy metal e nella new wave di metà anni Settanta/inizi Ottanta, e proprio con quel bagaglio cominciai l’avventura nel mondo della musica partecipando a decine di concerti, acquistando migliaia di dischi e ricercando e frequentando costantemente locali alternativi come il Plastic, il Punto Rosso, il Leoncavallo e il Virus, tutti a Milano, ma pure altri club della mia zona dove era possibile ascoltare diversi tipi di musica senza pregiudizi e preclusioni. Con quell’approccio approdai, nel 1987, alla Discomagic. Lì, per necessità, dovetti ampliare le conoscenze al mondo della dance che all’epoca era il mio lato meno sviluppato. L’arrivo all’azienda di Severo Lombardoni rappresentò inoltre il trampolino di lancio nel mondo delle produzioni discografiche. Da perfetto “analfabeta musicale” contattai Mario Riboldi, conosciuto e stimato musicista cremasco nonché amico di vecchia data, proponendogli una collaborazione. Con le mie idee unite alle sue capacità e qualità compositive avremmo provato ad entrare nel mondo della dance, contando peraltro su un canale più diretto rappresentato per l’appunto dal mio impiego presso la Discomagic. Avuto il suo assenso, cominciammo a scambiarci idee ed opinioni per collaborare in modo fattivo allo sviluppo di tracce destinate al pubblico prettamente dance, trovando la quadra coi progetti Lost Tribe e Maximum Respect. In quella nuova avventura ero The Indian, un nickname affibbiatomi da Daniele ‘Mad’ Boagno, ai tempi commesso del Disco Inn di Modena di Fabietto Carniel, per via della mia capigliatura (una chioma molto lunga abitualmente raccolta in una treccia) e della mia carnagione olivastra post abbronzatura che, a sua opinione, mi faceva assomigliare ad un indiano pellerossa».

1 - Discomagic
A sinistra uno scorcio della Discomagic tra 1992 e 1994, a destra parte dello staff immortalato in una foto scattata tra 1994 e 1998

Per Lapris quindi, il lavoro in Discomagic è decisivo nel momento in cui sceglie di avventurarsi sul sentiero della dance. «Avrei bisogno di giorni, o forse settimane, per raccontare dettagliatamente la mia esperienza in Discomagic» ammette, «e comunque non sarebbero sufficienti per descrivere cosa è stato Severo Lombardoni per me e per tutta la discografia italiana e mondiale, con tutti i pro e i contro associabili alla sua figura. Arrivai da lui come semplice magazziniere, masticare un po’ di inglese mi aiutò ad entrare nelle dinamiche aziendali dell’epoca, quando tutto il lavoro di import si basava sugli ordinativi fatti ascoltando in anteprima, via telefono, le tracce in uscita e facendo da tramite e traduttore a Vittorio Lombardoni, fratello di Severo e responsabile del settore. Così mi guadagnai una prima e parziale stima da parte loro, per l’impegno e la disponibilità. Ad un certo punto mollai Discomagic per andare a prestare l’attività presso Non Stop, il primo magazzino italiano per quantità e qualità: lì mi affidarono la completa gestione dell’import e lavorai in totale autonomia ma sempre con l’incommensurabile apporto dei colleghi venditori. Quando tornai in Discomagic, dopo quella fantasmagorica esperienza, ebbi la fortuna di vedere riconosciuta la mia professionalità da chi questo lavoro l’aveva letteralmente inventato e di essere messo in condizioni di poter gestire al meglio le dinamiche dell’azienda con l’assoluto rispetto delle mie capacità. Avere Severo come supervisore gestionale mi ha aiutato anche ad approfondire le conoscenze di cui necessitavo per operare in un ambiente a me completamente sconosciuto giacché venivo da un’esperienza tragica come operaio su una linea di montaggio, oltre ad affinare quanto avessi imparato nella breve seppur intensa frequentazione universitaria alla Bocconi. Una delle sue doti che più ho apprezzato e che mi ha aiutato maggiormente anche fuori dal mondo del lavoro, è stata la capacità di riconoscere l’operato e di esprimerlo con parole semplici ma d’effetto, la tanto sbandierata “meritocrazia” di cui tanti si riempiono la bocca ma che pochi(ssimi) sanno mettere in pratica, alternata a possenti e giustificate sclerate se non si seguivano i suoi suggerimenti».

Tra i primi progetti messi in piedi da Lapris, oltre a Maximum Respect, Multi Timbral e Cool Thing, c’è Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley, ammantato di mistero per via di scarsissime informazioni diffuse e contraddistinto da un nome che nel corso degli anni subisce qualche variazione (The Lost Tribe Of The Lost Minds o il più sintetico Lost Tribe). Il debutto nel 1992 con “Que Viva Mexico”, su Discomagic, seguito da “Mu-Sika” sulla Next Records del gruppo Energy Production, forgiato su un fraseggio country e che tra gli autori vede la presenza di Albertino. «In realtà il nome artistico è sempre stato Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley ma per comodità tecniche ed esigenze radiofoniche venne abbreviato in Lost Tribe, seppur nel 1993 apparve un gruppo jazz/rock omonimo» spiega in merito Lapris. «Quel nome si ispirava a gruppi come KLF ed Orb e più precisamente ai titoli piuttosto psichedelici che affibbiavano ai remix o a versioni dei loro brani. All’epoca frequentavo spesso Radio DeeJay incontrando Albertino e i responsabili della programmazione Dario Usuelli e Pierpaolo Peroni ai quali proponevo le novità in arrivo, tra dischi d’importazione e produzioni nostrane. Ciò mi consentiva di avere un feedback immediato e portare avanti il lavoro in Discomagic. Il rapporto con Albertino era di amichevole e reciproca stima, le sue conoscenze hanno permesso lo sviluppo, in sintonia con le visioni, di tutte le tracce da lui firmate affinché si potessero incrociare con le esigenze di programmi come il DeeJay Time e la DeeJay Parade. Per tale motivo le seguì passo dopo passo, dalla prima stesura alla versione finale». Ad eccezione di “Que Viva Mexico”, i restanti 12″ dei Lost Tribe vengono pubblicati dalla Next Records, una delle etichette più prolifiche del gruppo discografico di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi che tra il 1992 e il 1994 si fa ben notare con Face The Bass, Fishbone Beat (di cui parliamo qui), Z100, Pan Position e Daydream, oltre a mettere a segno diverse licenze estere, General Base su tutte. «La collaborazione con la Next Records nacque dall’incontro del tutto casuale al Midem di Cannes con Raimondi Cominesi» rammenta Lapris a tal proposito. «Dario aveva raccolto informazioni su di me che lo intrigavano sotto l’aspetto creativo ed artistico, seppur non ci fossimo mai conosciuti personalmente. Dopo aver messo al corrente Lombardoni ed aver avuto il suo nulla osta, io e Mario Riboldi destinammo quindi all’etichetta romana una serie di pezzi marchiati Lost Tribe».

Tra quelli c’è “Gimme A Smile For The Future” che Lapris produce insieme a Franco Moiraghi e al fido Riboldi, trincerato dietro il nomignolo Lupin III. Al pezzo partecipa ancora Albertino ma in incognito con lo pseudonimo Cencito coniato, così come lui stesso spiega nell’intervista finita in Decadance Extra, col fine di non far sapere ai DJ delle radio concorrenti che dietro quei pezzi ci fosse lui ed evitare quindi una possibile esclusione pregiudizievole a priori. Costruito su un sample di chitarra dal retrogusto funkeggiante tratto da “Purple Love Balloon” dei britannici Cud, “Gimme A Smile For The Future” riesce ad oltrepassare i confini patri conquistando una licenza da parte della Stress Records di Dave Seaman sulla quale pochi anni prima escono “Let Me Hear You (Say Yeah)” di PKA e “Last Rhythm” dell’omonimo progetto italiano. È la stessa label d’oltremanica inoltre a commissionare vari remix tra cui spicca quello di Dharma Bums Vs The Delorme. «Tutto iniziò con un campione che girava in studio e che meritava di essere utilizzato al meglio» spiega Lapris. «Così, di comune accordo con Riboldi, contattai Franco Moiraghi al quale ero (e sono ancora) legato da un rapporto speciale di amicizia chiedendogli se fosse disposto a metterci a disposizione la sua maestria nell’elaborazione di una traccia. Stendemmo insieme la bozza nello studio di Mario per poi andare in un altro provvisto di strumentazioni migliori e svilupparla a dovere. Penso che “Gimme A Smile For The Future” sia stato il brano dei Lost Tribe ad averci tenuti impegnati più a lungo, forse tre mesi. Man mano che completavamo le parti prendevamo coscienza delle potenzialità. Per quanto riguarda invece l’interesse della britannica Stress, i meriti vanno riconosciuti alla Next ed al suo license department per il grande lavoro svolto e per essere riuscito a coinvolgere un produttore del calibro di Dave Seaman in un progetto italiano portato avanti con nottate infinite in studio fatte da continui ritocchi, anche nei più profondi e minimi particolari, alla ricerca di sonorità che potessero dare già al primo ascolto una “patente” di internazionalità. Questo avvenne anche grazie ai continui interscambi di opinioni tra tutti i soggetti coinvolti, desiderosi di ottenere il massimo risultato possibile da subito».

2 - altri singoli Lost Tribe
Le copertine di “My Vision, One Nation, One Tribe” e “Dogo”, pubblicati nel 1994 dalla Next Records

A campeggiare sulla copertina di “Gimme A Smile For The Future” (e pure su quelle dei seguenti due, “My Vision, One Nation, One Tribe” e “Dogo”) è un particolare logo composto da un uccello ad ali spiegate sotto il quale trova spazio il simbolo della pace ideato da Gerald Holtom. «L’idea mi balenò riflettendo sul titolo della traccia» rivela Lapris, «ma non avendo le capacità di utilizzare i primi software di grafica, chiesi aiuto al carissimo amico Roberto Rossini, oggi docente presso lo IED di Milano. Con lui sviluppai il logo e la stessa copertina, ispirata dalle grafiche dei gruppi psichedelici attivi negli anni Settanta. Il messaggio di quel disegno, implicito e sempre valido, è affrontare le sempre più opprimenti ed abominevoli situazioni che intersecano la vita». Nel 1994 è tempo quindi dei citati “My Vision, One Nation, One Tribe” (un vago rimando al celebre slogan di Radio DeeJay?) e “Dogo”, col featuring del misterioso The Stammerin’ Chatterbox, entrambi scritti ancora con Albertino ed intrecciati al filone della prima ondata italodance che tra 1993 e 1995 tiene banco senza temere rivali. «Anche in quei due tutto partì da campionamenti che giravano in studio, ma il riferimento al claim di Radio DeeJay è del tutto casuale, quel sample vocale preso da “Move Any Mountain degli Shamen fu utilizzato solo in funzione della base musicale» risponde Lapris. «Il fatto che non sia mai stato usato dall’emittente di Via Massena per dei jingle promozionali, così come si faceva allora, credo possa confermare l’assoluta buona fede. Discorso analogo spetta a “Dogo”, con un campionamento vocale di origine ragamuffin che ci spinse a creare la figura di un ipotetico MC, il fantomatico The Stammerin’ Chatterbox. Il riscontro delle vendite si attestò su un buon livello ma inferiori a “Mu-Sika” che invece ebbe un impatto “innovativo” sul mercato, poiché creò dal nulla il fenomeno della cosiddetta “demential techno”, così come la ribattezzarono alcune riviste, che poi portò alla ribalta altri gruppi che inseguivano un suono simile, uno su tutti gli svedesi Rednex».

Nel 1994 la corsa dei Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley termina. Mentre si tira il sipario sul progetto cresciuto sulla Next Records però, ne viene inaugurato un altro destinato ad una delle etichette più attive del gruppo Time Records, Italian Style Production a cui abbiamo dedicato qui una monografia. Insieme a Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto, Alberto Lapris crea i Marvellous Melodicos, oltre ad aggiungere un tassello alla storia dei Phase Generator attraverso “Nevermind”. «Lost Tribe si fermò principalmente per problemi legati sia alla collaborazione artistica con la Time Records, sia alla nascita di mia figlia Valentina che assorbì gran parte dei tempi extralavorativi, non permettendomi più continui spostamenti negli studi di registrazione» chiarisce lo stesso Lapris. «La collaborazione con l’etichetta bresciana fu il risultato del costante corteggiamento professionale di Giacomo Maiolini e del maggiore sviluppo delle mie conoscenze musicali maturate col passare degli anni. Dovendo affrontare un mercato in continua evoluzione come quello della dance ed avendo spostato i gusti personali verso sonorità più house e tendenzialmente meno vicine a quello che allora veniva considerato techno, accettai la proposta di Maiolini e provai a mettermi in gioco in un ambito più ampio e meno specifico offerto dalla Time Records. La condivisione di idee ed opinioni in maniera più continuativa coi musicisti dello staff (in primis il team de “Le Ginestre”, così come erano conosciuti Trivellato e Sacchetto) aiutò a sviluppare la mia creatività ed incrementò l’ispirazione. A ciò si aggiunse la costante ricerca di nuovi suoni e campionamenti da riversare in tracce più melodiche ed orecchiabili. Tra i vantaggi di quella collaborazione ci fu la possibilità di muovermi meno spesso da Milano: bastava infatti andare un paio di giorni a Brescia per spiegare a Giordano e Giuliano quali fossero i miei punti di vista e poi aspettare la cassetta (allora unico mezzo per ascoltare fino allo sfinimento l’evoluzione di un pezzo) che Giacomo mi faceva prontamente recapitare in Discomagic al fine di apportare correzioni e migliorie in corso d’opera. Lavorare in Discomagic, distributore della Time Records, mi permise inoltre di seguire più che bene l’andamento delle vendite oltre a darmi la soddisfazione di toccare, letteralmente con mano, le imponenti quantità di supporti che partivano per i negozi di dischi, sia in Italia che all’estero».

3 - Time e Marvellous Melodicos
Sopra la foto del team della Time Records scattata in occasione del decennale di attività (1994): Lapris è il terzo uomo da sinistra, dopo Trivellato e Sacchetto; sotto le copertine del trittico di Marvellous Melodicos, edito tra 1994 e 1995 dall’Italian Style Production

Dopo tre 12″ usciti tra 1994 e 1995, “Sing, Oh!”, “The Sun And The Moon” ed “Over The Rainbow”, anche i Marvellous Melodicos spariscono nel nulla come del resto avviene alla maggior parte degli studio project di quegli anni. A sorpresa però, nel 2020, il marchio riappare con “Say It Ain’t So” e “Time (To Move On)”, entrambi pubblicati dalla J.K.R. Records di Bruno Le Kard, coautore di un altro successo messo a segno dall’Italian Style Production ad inizio anni Novanta, “Do You Know My Name” di Humanize di cui parliamo qui nel dettaglio. La stessa J.K.R. Records sancisce pure la resurrezione di Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley col brano “R.T.T.J.”. «Il ritorno di tanti nomi artistici dell’epoca e la mai sopita vena creativa insita nella mia indole mi hanno spinto a rispolverare Marvellous Melodicos e Lost Tribe Of The Lost Minds Of The Lost Valley a circa cinque lustri dall’ultima apparizione, senza dimenticare ovviamente l’opportunità di collaborare ancora con Mario Riboldi» spiega Lapris. «Aver avuto la possibilità di utilizzare i brand che mi hanno accompagnato in quegli anni, grazie alle gentili concessioni da parte di Giacomo Maiolini e Barbara Ugolini, ed avere più tempo a disposizione da pre-pensionato, hanno fatto il resto. Trovo che creare musica sia un ottimo strumento per tenere allenata la mente e mantenere la freschezza delle proprie idee».

4 - Alberto Lapris in consolle
Un recente scatto di Lapris impegnato in consolle

In questa intervista realizzata da Stefano Mauri e pubblicata il 20 maggio 2020, Lapris dice che gli piacerebbe assistere, dopo l’attesa ed auspicata fine della pandemia, al ritorno delle discoteche nella più classica accezione del termine: «locali esclusivamente dedicati al ballo con zone ben definite, pista, corridoi perimetrali, bar, posti a sedere e, soprattutto, DJ professionisti che sanno come intrattenere il pubblico». Ed aggiunge che «sarebbe il momento di non vedere più all’opera pletore di sedicenti “diggei” chiamati da altrettanto sedicenti “impresari” in nome del “quanta gente mi porti?” Figure queste che hanno mortificato e depauperato il mondo della club culture, portandolo ad essere un divertimentificio di plastica, finto, senza un’anima, più apparenza che sostanza». Il covid-19 quindi ha solo dato il colpo di grazia ad un settore che aveva perso la sua cifra identitaria da tempo? «Penso che il coronavirus sia un incidente di percorso, grave e da non sottovalutare, che si è sommato all’ormai cronico decadimento del mondo della dance per come era vissuto e visto all’interno del movimento» afferma. «Da anni assisto all’appiattimento dell’offerta che ciclicamente ripropone la stessa apocrifa ed amorfa sbobba non più destinata ad un pubblico partecipe bensì ad una massa di padiglioni auricolari insipienti. Non è un caso che le produzioni di alto livello siano destinate a persone con un certo background musicale. Chi invece ha ripudiato le proprie radici svendendosi a ben più facili e remunerative “alternative” fatte di copia/incolla ha gradualmente impoverito la scena della dance mondiale. Leggo di importanti festival organizzati appositamente per menti acritiche ed ormai assuefatte al nulla cosmico, che per non inficiare il proprio status di evento hanno preferito “autosospendersi” in attesa di “ritornare”. Parallelamente però, per fortuna, sento parlare di altri festival che non necessitano di grandi arene o di palcoscenici da film disneyani, e che si accontentano di spazi relativamente piccoli proponendo DJ di altissimo profilo artistico per serate di altrettanto sommo carattere. Negli ultimi tempi ho assistito a DJ set virtuali svolti nelle consuete location senza pubblico ma con ballerini, scenografie e proposte musicali di classe superiore, della durata anche di otto ore. Gli utenti coinvolti sono stati così tanti da mandare in crash i server per eccesso di connessioni. C’è chi spera che in un prossimo futuro le cose possano cambiare positivamente ma, in tutta onestà, non penso possa avvenire, se chi vorrebbe far ripartire il mondo della notte è proprio lo stesso che propina ciò che gira adesso spacciandolo per “dance”. Così come diceva Edoardo Bennato, “sono solo canzonette” che, se traslate su un dancefloor, porterebbero a reazioni uguali al famoso meme di John Travolta che si guarda intorno confuso» conclude il lombardo. (Giosuè Impellizzeri)

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Simon Dunmore – DJ chart dicembre 1995

Simon Dunmore, DiscoiD, dicembre 1995


DJ: Simon Dunmore
Fonte: DiscoiD
Data: dicembre 1995

1) Future Force – What You Want
È il brano con cui il DJ di Chicago Mark Picchiotti inaugura l’alter ego Future Force. La sua versione, la Mark!’s Massive Vocal, rilegge la formula garage attraverso suoni più compatti e di derivazione elettronica, su tutti quelli che a metà stesura circa creano una pozza quasi acida. Diversi i remixer coinvolti, da Richie Jones dei Degrees Of Motion, che opta per una visione più solare con grandi estensioni pianistiche in evidenza, ai Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza) che non si allontanano dai lidi deep/garage newyorkesi, sino agli italiani Kamasutra (Alex Neri e Marco Baroni) che con la loro Funky Express donano al tutto un gusto più deliziosamente funky. A pubblicare il disco è la AM:PM, nata dalle ceneri della A&M PM e guidata proprio da Simon Dunmore.

2) Kathy Brown – I Appreciate
Pare che il brano originale sia stato cantato dalla compianta Ceybil Jefferies per un album ma all’Atlantic non sono del tutto convinti e preferiscono accantonarlo. Qualche tempo dopo il produttore David Shaw decide di riesumarlo per ricavarne una nuova versione interpretata da Kathy Brown e remixata da un Benji Candelario in smagliante forma. A venirne fuori è un anthem garage a cui i fratelli Aldo ed Amado Marin non resistono e pubblicano sulla loro Cutting Records che nei primi anni Novanta vive una seconda giovinezza dopo i gloriosi trascorsi in epoca electrofunk con Hashim, Imperial Brothers e Nitro Deluxe.

3) Alcatraz – Giv Me Luv
Il brano, l’unico che Jean-Phillippe Aviance e Victor Imbres realizzano come Alcatraz, esce sulla Yoshitoshi Recordings dei Deep Dish ed è un trascinante tool sapientemente costruito sul loop ed almeno un paio di campionamenti (“Dancing In The Dark” di Mike Mareen e “The Bomb! (These Sounds Fall Into My Mind)” di Bucketheads). Trainato da un videoclip promozionale, nell’arco di pochi mesi diventa un must tra i DJ specializzati e riappare attraverso diversi remix contando su una distribuzione mondiale più capillare resa possibile dall’intervento di diverse etichette licenziatarie tra cui la AM:PM. Ad aggiudicarsi i diritti per la ripubblicazione in Italia invece è la Impulse del gruppo Media Records.

4) DJ Disciple – 10 Steps To Heaven
Reduce dal successo ottenuto l’anno prima con “On The Dancefloor”, il newyorkese David Banks noto come DJ Disciple incide questo disco per la Narcotic dell’amico Roger Sanchez e Marts Andrups, quest’ultimo prematuramente scomparso nel 1995. La title track marcia verso il paradiso su una scalinata di pronunciati rullanti, un sinuoso bassline ed una cortina di suoni ambientali, “Give Me The Love” e “Stay Together” virano verso la vocalità e “So Deep In His Hands” chiude un po’ come l’ascesa era cominciata, con l’intreccio tra percussioni ed un basso tondeggiante sullo sfondo di panorami edenici.

5) DJ Sneak – In Da Clouds
Il pezzo scelto da Dunmore è contenuto nel primo volume di “Sneak Essentials” pubblicato dalla Strictly Rhythm. L’idea nasce dal campionamento di “Clouds” di Chaka Khan, un brano risalente al 1980 scritto da Nickolas Ashford e Valerie Simpson. Con l’indiscussa maestria che da sempre lo contraddistingue, Sneak isola il sample ricostruendo intorno ad esso uno scenario completamente diverso da quello di partenza, fatto da tessere house e funk/disco sbilenche giocate abilmente in un metti e togli che non lascia un attimo di tregua. Tre le versioni, simili per impostazione, dalle quali svetta la Da New And Improved Mix. Un altro di quei pezzi da far ascoltare a chi attribuisce ancora la paternità della disco house ai soli francesi che emersero a fine decennio col cosiddetto French Touch.

6) Luther Vandross And Janet Jackson – The Best Things In Life Are Free
A produrre il brano, uscito nel 1992 e scelto per la colonna sonora del film “Mo’ Money”, sono Jimmy Jam e Terry Lewis, ma è legittimo ipotizzare che Dunmore, seppur non esplicitato nella chart, facesse riferimento ai remix pubblicati nel ’95 su AM:PM e firmati da K-Klass, MK, CJ Mackintosh e Roger Sanchez. Quest’ultimo realizza diverse versioni, tra cui l’indovinata Nasty Dub, che finiscono su un doppio promo particolarmente ambito ai tempi.

7) Daphne – I Found It
Ex cantante dei Pajama Party, corista per David Bowie, Jazzy Jeff & The Fresh Prince e Marcus Miller e particolarmente nota nell’ambiente dei musical di Broadway (è lei ad interpretare Mimi Márquez in “Rent”), Daphne Rubin-Vega si è distinta, per un breve periodo, anche nel circuito della house music. A supportarla nell’avventura è la Maxi Records, etichetta newyorkese di Claudia Cuseta che, è bene ricordarlo, nei primi anni di attività pubblica “Angels Of Love” di Cocodance (Claudio Coccoluto e Vincenzo Rispo). “I Found It”, prodotto da David Anthony, è un pezzo garage che mette in risalto la voce dell’attrice/cantante/ballerina di origini panamensi, opportunamente collocata in numerose versioni approntate per il doppio mix e il CD singolo tra cui anche una manciata di remix ritmicamente più aggressivi di Jean-Phillippe Aviance alias XS. “I Found It” chiude la trilogia di Daphne dopo “When You Love Someone” del ’93, prodotto da Danny Tenaglia e recentemente ristampato dall’italiana Groovin Recordings, e “Change” del ’94, curato ancora da Tenaglia e rimasto il più fortunato anche grazie al supporto nel vecchio continente dove, peraltro, viene remixato da Brothers In Rhythm, Jimmy Gomez (uno dei futuri Freemasons) e dai nostri Gianni Bini e Fulvio Perniola alias Fathers Of Sound.

8) Brooklyn Friends – Philadelphia
Un disco che shakera, come in un cocktail, venature jazzy e vibe tribaleggianti: si può sinteticamente descrivere così “Philadelphia”, una discreta club hit edita dalla Nite Grooves di New York guidata da Hisa Ishioka. Satoshi Tomiie, Terry Burrus e Peter Daou si occupano delle tastiere, il flauto e il sassofono sono di Paul Shapiro mentre le percussioni di Steve Thornton. A dirigere la jam session un direttore d’orchestra d’eccezione, David Morales, che dà il meglio di sé negli oltre tredici minuti afrodisiaci della D. M. Experience. A pubblicarlo da noi è la Reform del gruppo Discomagic di Severo Lombardoni.

9) Love Tribe – Stand Up
Nata sul campionamento di “There But For The Grace Of God Go I” dei Machine, già ripreso nel ’92 in “Hear The Music” che Todd Terry firma Gypsymen, “Stand Up” è un’altra hit messa a segno negli anni Novanta dalla AM:PM. Artefice del brano, un fibrillante distillato tra disco, house e funk, è Dewey Bullock, meglio noto come Dewey B. e cugino di E-Smoove, ma determinanti risultano i remix di Wildchild e Roger Sanchez (la Narcotic Mix di quest’ultimo è la più convincente) a cui se ne aggiungono progressivamente altri come quello dei sopraccitati Alcatraz, degli Sharp, dei R.I.P. e di Bobby D’Ambrosio. “Stand Up” verrà riconfezionato nel 2001 dai canadesi Thunderpuss in una nuova versione, l’ennesima, cantata da Latanza Waters, moglie di E-Smoove.

10) Wall Of Sound – Run To Me
Estratto dall’album “Storybook”, l’unico che John Ciafone e Lem Springsteen firmano con lo pseudonimo Wall Of Sound, “Run To Me” è un piacevole pezzo ai confini col soul e l’r&b da cui si leva l’intensa voce di Gerald Latham. A caratterizzare il singolo sono però le due versioni di Maurice Joshua: la Club Vibe Mix è stilosa garage nel suo essere più puro mentre la Hard Wildrun Mix contrae i blocchi ritmici e spinge verso costrutti dub. Oltre alla Album Version, sul 12″ c’è spazio pure per un terzo remix a cura UBQ Project, una sorta di summa tra l’original e il lavoro di Joshua con l’aggiunta di una buona dose di lead a completamento. Pubblicato dalla Eightball Records, “Run To Me” è l’ultimo brano che Ciafone e Springsteen destinano al progetto Wall Of Sound, preferendo poi convogliare le energie nel loro act principale, Mood II Swing.

(Giosuè Impellizzeri)

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R.O.D. – Heaven Or Hell (Muzic Without Control Records)

C’è stato un periodo, indicativamente tra l’autunno del 1994 e il primo semestre del 1996, in cui un’ampia frangia della dance music nostrana vive una netta accelerazione ritmica. Probabilmente innescata dalle produzioni tedesche tipo Marusha, Dune, Bass Bumpers, Perplexer, Mark ‘Oh, General Base, Scooter o Jam & Spoon che vendono centinaia di migliaia di copie e finiscono in compilation altrettanto fortunate supportate pure dalle multinazionali (come “Dance Nation”), quella che sembra una parentesi momentanea finisce col diventare una tendenza piuttosto consolidata. Tra i primi ad aderire a questo fenomeno c’è Digital Boy con “The Mountain Of King” il cui successo forse convince altri connazionali a cimentarsi in un nuovo tipo di eurodance dopata, steroidizzata e lanciata a velocità folli. Da Z100 ai Club House, da Exit Way a Molella, da Moratto a Giorgio Prezioso passando per Da Blitz, Ramirez, Bliss Team, Kina, Mato Grosso, JT Company ed altri ancora. Insomma, il gotha dell’italodance di allora si butta a capofitto in un’autentica scorribanda di bpm farcita da elementi desunti dalla hard trance mitteleuropea ai confini con la happy hardcore di paternità olandese. In questo contesto si inserisce perfettamente R.O.D. che debutta nei primi mesi del 1995 con “Heaven Or Hell”.

Dietro le quinte del progetto opera un team di giovani produttori lombardi tra cui Fabio Giraldo che, contattato per l’occasione, racconta: «In quel periodo ascoltavo parecchia hard trance tedesca e, in compagnia dell’amico Max Cassan, iniziai a buttare giù una traccia in quello stile che poi divenne “Heaven Or Hell”. Realizzammo il demo nella sala b del JTC Recording Studio, praticamente un corridoio vista la sua forma stretta e lunga. La voce era di Rodney Freake, giunto in studio grazie al compianto Greg Girigorie, ai tempi vocalist di JT Company, che propose a Vannelli di produrlo». A pubblicare il disco è proprio Joe T. Vannelli che lo convoglia su una delle sublabel del suo gruppo discografico, la Muzic Without Control Records. La versione più nota, la Heaven Mix, attinge spunti dalla hard trance e dalla happy hardcore analogamente alla Hot & Wet mentre la Hell Mix spinge in direzione makina. C’è pure una quarta interpretazione, la Jungle R.O.D. che, come anticipa il titolo stesso, prende le mosse dalle sincopi della jungle. «A noi piaceva parecchio sperimentare per non stazionare banalmente su una formula e a testimonianza di ciò ci sono le versioni così diverse tra loro» prosegue Giraldo. «La Jungle R.O.D., ad esempio, derivava dalla curiosità per il mondo della jungle che in quel periodo stava partendo dalla Gran Bretagna contagiando pure l’Italia. “Heaven Or Hell” fu realizzato con un mixer Mackie 8 Bus a 24 piste, un computer Atari 1040 ST abbinato al sequencer Notator Logic, campionatori Roland S-750 ed S-770, sintetizzatori Roland Juno-106, Roland JX-3P, Yamaha TX81Z, un multieffetto Alesis Midiverb III, drum machine Alesis D4, monitor Yamaha NS10 ed Electro Voice Sentry 500, un (immancabile) giradischi Technics SL-1210 e, per finire, un registratore DAT Tascam DA-P1. Completammo tutte le versioni in una quindicina di giorni circa. In studio ci eravamo divisi i ruoli: Max Cassan era il musicista e curava arrangiamenti e composizione, Fausto Intrieri era il fonico mentre io mi occupavo della direzione musicale e delle sonorità da seguire. Ovviamente tutti potevano dare suggerimenti ed opinioni anche nei campi di competenza altrui in modo da avere uno scambio completo. Non seguivamo però un modus operandi preciso nella fase compositiva, tante cose germogliavano dall’improvvisazione e da ispirazioni estemporanee. Ad “Heaven Or Hell” è legato un aneddoto tecnico che oggi ricordo col sorriso: per passare la traccia sul DAT dovemmo fare più tentativi perché il MIDI saltava, il bus dell’Atari era sovraccarico».

Le copertine dei successivi 12″ di R.O.D. usciti tra 1995 e 1996

In Italia il pezzo si muove piuttosto bene, complice il supporto di Albertino che lo spinge nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade (dove rimane per circa due mesi, dal 25 febbraio al 15 aprile) e lo sceglie per la compilation “Alba Volume 1”. «R.O.D. entrò nella “Alba Volume 1” proprio all’ultimo momento» rammenta ancora Giraldo. «La traccia non era ancora finita ma Vannelli andò in radio con una cassetta con su inciso il rough mix ottenendo subito l’approvazione da Albertino. A quel punto Joe tornò in studio comunicandoci che “Heaven Or Hell” sarebbe stato inserito in quella compilation. Rimanemmo piacevolmente sorpresi e felici e ci demmo subito da fare per finalizzare la traccia. Credo che in Italia il disco abbia venduto circa ventimila copie ma fu pubblicato anche in Germania dalla Urban, ai tempi etichetta del gruppo Motor Music GmbH, e quella per noi fu decisamente una bella soddisfazione». Il follow-up, “Free Your Soul”, esce a ridosso dell’estate ma rispetto al primo punta sul formato canzone con un falsetto in stile “Smalltown Boy”. Nel ’96 invece “Flight 777” riprende il discorso lasciato in sospeso da “Heaven Or Hell”, con forti attinenze hard trance corroborate da svirgolate acid, ma i tempi dell’eurodance velocizzata ormai sono quasi al capolinea e a posteriori quella particolarità ritmica così evidente giocherà persino a svantaggio. Il movimento revivalista infatti fatica non poco a riproporre il filone “speedy”, oggi poco adatto sia alle discoteche che alle selezioni radiofoniche. «Se non ricordo male, puntammo su un follow-up completamente diverso da “Heaven Or Hell” su espressa richiesta di Rodney Freake, desideroso di interfacciarsi con un brano con dosi maggiori di cantato» dichiara Giraldo. «Lo accontentammo ma purtroppo senza riscuotere gli stessi risultati. “Flight 777” invece, nettamente più vicino allo stile di “Heaven Or Hell”, lo realizzammo nell’Underfloor Studio a Misinto, in Brianza, di proprietà di Carlo Fath (il futuro Io, Carlo di “L’Ego” e “Figlio Dei Manga”, nda) che collaborò con noi coproducendolo. Di quel brano ricordo l’errore ortografico in copertina: “flight” fu erroneamente riportato come “flyght”». Proprio con “Flight 777” si chiude la trilogia di R.O.D., seppur Freake incida l’houseggiante “Rise Up” per la Dream Beat sotto la produzione vannelliana. «”Rise Up” nacque come primo singolo solista di Rodney Freake e venne realizzato da Joe T. Vannelli e Max Cassan» chiarisce Giraldo. «La mia collaborazione con Vannelli invece si interruppe nel 1996, anno in cui iniziai un percorso musicale da indipendente».

Polyphonic e Byte Beaters, altri dischi a cui partecipa Giraldo nel 1996

Per Giraldo il periodo è particolarmente ricco di produzioni più e meno note legate al movimento makina/happy hardcore e progressive trance: da “Always On My Mind” di Pink Noize, cover dell’omonimo dei Pet Shop Boys, ad “Ivory” di Romantics, da “The Hammer” di Hammerhead a “Try” di Glissando, da “Optical EP” di Identification Two ad “I Wait For You (Movin’ On Baby)” di Screen passando per “Mamy” di Polyphonic e il remix di “A Song To Be Sung” dei Byte Beaters, queste ultime due promosse Disco Makina da Molella nella stagione più fortunata del suo Molly 4 DeeJay di cui parliamo nel dettaglio qui. «Innegabilmente furono annate piene di idee» afferma l’artista. «Ricordo con piacere la voglia di fare di tutte le persone coinvolte nei vari di team di produzione, le notti trascorse in studio da dove uscivamo per andare a fare colazione prima di recuperare le ore di sonno perse, o quando ci trattenevamo sino a tardi ed andavamo a cena, sempre tutti insieme. Un simpatico aneddoto di quel periodo riguarda “Always On My Mind” di Pink Noize, cantato da Max Cassan con la voce pitchata (analogamente a quanto fanno i Sensoria in “Dream Of You” di Venusia, come raccontato qui, nda). Dovevamo consegnare il master per la stampa ma riascoltandolo ci accorgemmo che la seconda strofa aveva lo stesso testo della precedente. In soccorso venne il sistema Atari Falcon030 che permetteva la gestione di due o quattro canali audio e in quella maniera riuscimmo a posizionare la seconda strofa col testo corretto a tempo di record. Per l’occasione però prosciugammo la grande scorta di lattine di aranciata che Carlo Fath aveva nel suo frigorifero.

Ripensare al passato mi fa tornare in mente pure la mia prima produzione in assoluto, “Extroscopic” di D.A.T.A., pubblicata nel 1993 dalla Out di Severo Lombardoni. La realizzai insieme a Max Cassan e Leo Mazza partendo da un’idea di Maurizio Guglielmelli che aveva un piccolo studio vicino casa mia. Gli strumenti a nostra disposizione erano pochissimi: un campionatore Ensoniq EPS-16+ con pochissima RAM (credo appena 2 MB!), un computer Atari 1040 ST, un mixer Yamaha MC 1202, una drum machine Roland R-8, un multieffetto Alesis Midiverb III, un Roland Juno-60, un Roland JD-800 ed una coppia di monitor Yamaha NS10. Ai tempi per costruire un brano si partiva da un’idea rappresentata solitamente da un giro armonico o da un sample carpito da qualche disco. Per arrivare alla pubblicazione le strade percorribili erano due: o conoscevi qualcuno nel settore discografico indipendente disposto a darti retta oppure dovevi recarti personalmente nella sede di qualche etichetta, previo appuntamento telefonico, per far ascoltare i brani all’A&R di turno. Nel nostro caso ci interfacciammo con Nando Vannelli, uno degli A&R della Discomagic. Fu lui a decidere di pubblicare il brano e francamente non so neanche se Severo Lombardoni lo abbia mai ascoltato. Poi nell’autunno del ’93 sapemmo, grazie ad una dritta di Filippo Carmeni alias Phil Jay/Z100, che Joe T. Vannelli era in cerca di produttori. Realizzai subito, con Max Cassan, alcuni demo che un sabato pomeriggio portammo personalmente nel suo studio. Quando entrammo stava lavorando al remix di “All About Love” di Analogue City e rimanemmo impressionati da ciò che si presentò ai nostri occhi, in particolare un bellissimo mixer Amek 2500 che avrebbe lasciato estasiato chiunque operava in quel settore ma in modo particolare chi, come noi, era abituato a lavorare con pochissimi strumenti e di un’altra categoria. Dopo aver ascoltato i demo, Joe ci disse che a partire dal 3 gennaio 1994 avremmo iniziato a lavorare nei suoi studi e da lì a breve, infatti, sulla neonata DBX uscirono “Give It Alone” di X Tracks e “Choir Boys” di Black Bulldog. Con Max e Fausto c’era una forte intesa e l’unico rimpianto che mi porto dietro è non aver continuato a lavorare con quel team composto da persone eccezionali con cui, comunque, mi sento ancora regolarmente. In studio c’era un’atmosfera magica e sono certo che avremmo potuto realizzare molto di più di quello che abbiamo fatto» conclude Giraldo. (Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Massimo Berardi

Una panoramica su parte della collezione di dischi di Massimo Berardi. La foto è di Ivan Vonchesterfield, autore anche delle seguenti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo un 45 giri di Lucio Battisti. La mia prima passione, negli anni adolescenziali, è stata la musica italiana e le canzoni d’amore, complici il mangiadischi, le festicciole tra gli amici e i balli lenti. Spesso il sabato pomeriggio ci riunivamo nel garage della nostra amica del cuore, Daniela, visto che il suo papà lavorava nel mondo del cinema e portava a casa una marea di 45 giri tra cui c’era di tutto, dal pop al rock passando per la disco, il funky e la musica italiana. Ne ricordo uno in particolare che ben fotografa quel periodo spensierato, “Rock The Boat” di The Hues Corporation, uno dei primi 7″ disco che mi sia passato tra le mani. Ad attirarmi, oltre alla musica leggera, erano le colonne sonore dei film, in particolar modo quelle delle serie di fantascienza tipo “A Come Andromeda” di Mario Migliardi, “UFO” e “Spazio 1999” di Gerry Anderson, “Gamma” del Maestro Enrico Simonetti e tanti altri capolavori di cui si riesce a capirne il valore solo oggi. Il primo album che ho comprato invece è stato “Foxtrot” dei Genesis, uno dei gruppi che ho apprezzato di più insieme ai Pink Floyd. Il mio preferito però resta “Selling England By The Pound” che ascoltavo sul mio primo fantasmagorico giradischi, uno Stereorama 2000 De Luxe della Reader’s Digest, un modello compatto degli anni Settanta particolarmente di moda in quel periodo. Ho seguito molto anche i gruppi italiani come la Premiata Forneria Marconi o Il Banco del Mutuo Soccorso che a mio parere non avevano davvero nulla da invidiare a quelli esteri, anzi. Ho sempre pensato che la mia generazione sia stata davvero fortunata a vivere un periodo musicalmente tanto ricco.

L’ultimo invece?
Uno degli ultimi acquisti, sul fronte dell’usato, è stato “Just Can’t Help Myself (I Really Love You)” di Common Sense, un 12″ del 1980 discretamente quotato ed edito dalla BC Records di Began Cekic, fondatore dei Brooklyn Express. Continuo ovviamente a comprare anche molti dischi nuovi.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Dopo un calcolo approssimativo, credo fra i 7000 e gli 8000, tra LP e 12″. Ho anche 500/600 CD, un supporto che continua a piacermi molto specialmente per le compilation rare grooves in cui a volte ci si può imbattere in versioni differenti da quelle incise su vinile. Possiedo inoltre una discreta quantità di 7″, circa 400, supporto che adoro. Da qualche anno a questa parte ho cominciato a vendere tutti quei dischi di cui sento di poter fare a meno, le doppie copie (tantissime) e quelli degli anni a cui sono musicalmente meno legato. Sinora penso di aver venduto dai 3000 ai 4000 dischi.

Riusciresti a quantificare il denaro speso?
No, ma non ho alcun rimpianto e rifarei davvero tutto.

Una foto che testimonia l’ordine nella collezione di Berardi

Come è organizzata?
Pur non essendo particolarmente fiscale, l’ordine mi piace ma pulire, catalogare e sistemare i dischi, quando sono tanti, diventa un vero e proprio lavoro. Per quanto riguarda i mix funky e disco, ho optato per un ordine in base alle etichette storiche (T.K. Disco, Prelude Records, Salsoul Records etc). Le label minori invece sono organizzate per generi ed annate. House e techno infine sono incasellate per anni mentre gli album per genere.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Utilizzo le classiche foderine plastificate per proteggere le copertine dall’usura. Man mano che catalogo i dischi, li pulisco con un panno morbido ed un liquido apposito. Quelli più sporchi invece li porto da un amico che possiede la macchina lavadischi e li fa tornare come nuovi.

Ti hanno mai rubato un disco?
Sì, una volta hanno trafugato un’intera valigia dal bagagliaio della macchina. Fortunatamente non erano dischi particolarmente difficili da ritrovare ma non fu possibile placare la rabbia nel momento in cui me ne accorsi.

“Woman” di John Forde, tra i dischi a cui Berardi è più affezionato

Qual è il disco a cui tieni di più?
Tutti hanno lo stesso valore e fanno parte del percorso di vita. Alcuni rappresentano istantanee che mi ricordano momenti più o meno belli, altri invece compagnie, luoghi, discoteche… Forse quelli che mi emozionano di più sono i pezzi che ascoltavo nelle cassette registrate nella Baia Degli Angeli, un luogo di culto per i DJ della mia età e di cui ero letteralmente affascinato quando non ero ancora un professionista. Uno su tutti “Don’t You Know Who Did It” di John Forde, che continua a darmi le stesse emozioni di quando lo ascoltai per la prima volta, e a seguire “Africano” di Timmy Thomas, “Love For The Sake Of Love” di Claudja Barry, “Moon-Boots” degli O.R.S. e “Sneakers (Fifty-Four)” dei Sea Level, insomma, tutto quel filone che mi ha introdotto ad una ricerca più scrupolosa dei dischi da proporre nelle mie serate.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessuno, perché dietro ogni disco acquistato c’è sempre un motivo ben preciso. Sicuramente non è mancato quello che ha disatteso le mie aspettative ma lo avrò già venduto.

Quello che cerchi da anni e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Non sono un collezionista e quindi non ho mai investito grosse somme per accaparrarmi un disco e poi riporlo sullo scaffale (sarebbe rischioso portarsi un cimelio nei locali). Cerco piuttosto di comprarne ad un prezzo ragionevole, scegliendo quelli che diano ancora modo di emozionare il mio pubblico.

Berardi e la sua copia di “Animals”

Quello con la copertina più bella?
“Animals” dei Pink Floyd, immersa in un’atmosfera industriale. In quelle foto c’è tutta la storia dei brani incisi sul disco, guardarle mentre la puntina legge i solchi aiuta a comprendere meglio ciò che intendo. Poi, se si ha la possibilità di andare a Londra e passare davanti alla Battersea Power Station, l’immaginazione diventa realtà. L’energia che scaturisce da questo LP del 1977 è pari a quella che sviluppava l’ex centrale termoelettrica sulla rive del Tamigi. Provo sentimenti profondi ogni volta che lo riascolto, un disco essenziale per la mia crescita musicale nonché compagno di vita.

Che negozi di dischi frequentavi in passato?
Ho comprato i primi dischi nel negozio di elettrodomestici del mio quartiere che aveva un angolo dedicato agli album e ai 45 giri. Dopo qualche anno passai ai negozi specializzati, il primo fu Sound City, sulla via Tuscolana, credo tra il 1974 e il 1975. Erano i tempi di “The Sound Of Philadelphia” di MFSB, le radio private spuntavano come funghi e il sabato pomeriggio si organizzavano sempre feste a casa di qualcuno. La musica era una forma di aggregazione nel vero senso della parola. Allora ebbi la fortuna di conoscere, casualmente, il proprietario di una piccola emittente di quartiere, proprio nel negozio di dischi di cui parlavo prima. All’inizio la potenza era assai flebile, bastava spostarsi di un solo isolato per perdere il segnale ma col tempo fu potenziato sino ad essere venduto ad un network. Gli studi erano allestiti all’ultimo piano di un palazzo e, pur essendo molto piccola, disponeva di tutto quello di cui c’era bisogno. Il mondo della radio mi affascinava tantissimo e l’unico modo per imparare a “far girare i dischi” era guardare per ore ed ore i professionisti e rubare con gli occhi. Il proprietario mi diede l’opportunità di stare lì mentre mandava avanti il suo programma pomeridiano e così appresi tantissime cose. Dopo un po’ di tempo fui “promosso” ed iniziai a selezionare musica per quella piccola radio. Un altro negozio che ricordo con piacere è Magic Sound, a Piazza dei Re di Roma, dove le mie cassette mixate andavano a ruba. Lì ebbi la fortuna di arricchirmi musicalmente con Roberto che curava il reparto soul, jazz e fusion. Un posto altrettanto fornito era Discoteca Laziale, luogo tranquillo e silenzioso, perfetto per i veri audiofili, dove ho acquistato tantissimo materiale, specialmente album di musica elettronica come Alan Parsons Project, Kraftwerk e Jean-Michel Jarre che adoro. Poi naturalmente andavo nei negozi per DJ, quello in cui trascorrevo più tempo era Best Record in via Vodice: il proprietario, Claudio Casalini, solitamente lavorava nell’ufficio al piano superiore mentre Peter, con la sua calma anglosassone, era sempre disponibile a far ascoltare tutte le novità. Atmosfera leggermente più chic si respirava invece in Città 2000, in viale Parioli. Era il negozio di Peppe Farnetti, il primo DJ del Piper già nel 1965, e fu un autentico punto di riferimento dei più importanti DJ della capitale e non solo. L’ultimo baluardo rimasto è il mitico Goody Music che è stato, a quanto ricordo, il primo a far ascoltare dischi attraverso due casse poste agli angoli e piazzate su due colonne che ti “spettinavano”. Tutti i pezzi sembravano belli! Aveva una selezione di dischi d’importazione veramente notevole. In tutti questi negozi si respirava un’aria di sana competizione tra i DJ più o meno famosi, nella continua lotta per riuscire ad accaparrarsi un disco in più rispetto agli altri. Negli anni Ottanta, è bene ricordarlo, erano i proprietari delle discoteche a stanziare il denaro per comprare i dischi pertanto più era alto il budget e più c’era la possibilità di avere un buon repertorio di novità da parte. E lì entrava in moto anche il meccanismo della doppia copia personale.

Il crate digging online è differente rispetto a quello che un tempo si praticava nei negozi?
Direi proprio di sì, non c’è paragone e, un po’ come tutte le cose che si acquistano su internet, non sai mai cosa ti aspetta veramente seppur la scelta non manchi vista l’esistenza di tante piattaforme specializzate. A trarne beneficio è stata senza dubbio la conoscenza, basti pensare che chi si affaccia oggi al mondo del DJing può comprare, oltre al nuovo, una miriade di ristampe e, possibilità economiche permettendo, addirittura gli originali di cui magari si ignorava l’esistenza. Negli anni Settanta ed Ottanta i mezzi erano pochi per approvvigionarsi di dischi “differenti”, era necessario spostarsi in altre città e nel mio caso cito il Disco Più e la Dimar a Rimini, dove riuscivo a trovare cose fuori dai canoni disco.

Ritieni che la digitalizzazione abbia intaccato irrimediabilmente il valore attribuito alla musica?
Paradossalmente la tecnologia, pur rappresentando le fondamenta della musica contemporanea, ha generato un effetto boomerang. Aver reso tutto facilmente accessibile, troppo direi, ha finito col provocare un appiattimento dei gusti e delle conoscenze, e non solo nell’ambiente musicale. Ormai non si fatica più per scoprire qualcosa, a prescindere dall’area di interesse, e in alcuni casi l’uso del vinile, considerato come oggetto di resistenza alla digitalizzazione stessa, si è trasformato in un modo per apparire e darsi un tono. Comunque, al di là di ogni congettura, credo sia ormai sotto gli occhi di tutti che l’avvento del CD (prima) e del download (poi) abbia ucciso definitivamente la discografia, impoverendo le produzioni come non mai. Ormai un brano non dura più di una settimana sulle piattaforme, al massimo due se alle spalle c’è una grossa etichetta, poi solo il dimenticatoio. Prima dell’avvento del web si investiva sulla musica in maniera diversa, dalla grafica per la copertina alla scelta degli studi di registrazione passando per i musicisti e i cantanti. Adesso, con la tecnologia a basso costo ormai diffusa capillarmente in ogni angolo del globo o quasi, si può produrre un disco dalla a alla z con pochi mezzi e in casa. Tuttavia, secondo me, il disco in vinile continuerà a rappresentare meglio questo mondo rispetto ad altri supporti, e ci sarà sempre chi lo supporterà per l’amore di ascoltare o proporre ad altri quelle musiche. Il disco ha bisogno di uno spazio fisico che si materializza tra gli scaffali e questa è una delle ragioni che terrà in vita il valore della musica.

Il retro della copertina di “Walking In The Street” con le foto del Penny Club

Una delle prime produzioni su cui appare il tuo nome è stata “Walking In The Street” di Gold Rush And The Sun-Shine-Sisters, edita dalla Best Record di Claudio Casalini nel 1985. Come ricordi le tue primissime esperienze in studio di registrazione? Quali motivi spingevano allora i DJ come te a cimentarsi nella composizione?
Era il periodo in cui le discoteche sponsorizzavano i 12″ per farsi pubblicità, basti pensare allo Xenon di Firenze o a L’Altro Mondo Studios di Rimini. Per me era l’occasione giusta per oltrepassare la linea di confine tra DJ e produttore così avanzai la proposta a Carlo Bernaschi, proprietario del Penny Club, una splendida mega discoteca a Frascati, zona Castelli Romani, allestita in un palazzo dell’Ottocento e in cui ho lavorato come resident per parecchi anni. Accettò ed infatti sul retro della copertina vennero piazzate fotografie e logo del locale. Dal punto di vista musicale invece, Casalini, dopo aver ascoltato le mie idee, mi suggerì di svilupparle e registrare il tutto nello studio di Stefano Galante, compositore ed arrangiatore che insieme al bassista Paolo Del Prete aveva realizzato già diverse produzioni come “Sweepin’ Off” di High Resolution e “Do It Again” di Asso. La voce invece era di Orlando Johnson, presenza consolidata nelle produzioni italiane di quegli anni. Nello studio di Galante rimasi totalmente affascinato dalla strumentazione: il multitraccia, le batterie elettroniche, i campionatori, i sintetizzatori, ma a restare più impresso nella mia mente fu il processo di costruzione e stesura del brano, insomma, la creazione del pezzo musicale partendo dal nulla. Un anno dopo l’uscita di “Walking In The Street” fu la volta del mio primo remix, quello di “I Feel Good” di Herbie Goins pubblicato dalla Jumbo Records, una delle tantissime label raccolte sotto l’ombrello della Best Record di Casalini. Per l’occasione registrai, sempre su consiglio di Casalini, nel mega studio di Mario Zannini Quirini, oggi direttore d’orchestra. Dopo quelle due esperienze decisi che il mio futuro non sarebbe più stato solo nella consolle di una discoteca ma pure dietro il mixer di uno studio di registrazione. Cominciai gradualmente a comprare la strumentazione necessaria e alla fine degli anni Ottanta trovai un socio per aprire il primo studio. Da quel momento non avrei più trascorso i pomeriggi esclusivamente nei negozi di dischi ma anche nei punti vendita di strumenti come Musicarte e Cherubini. A spingere i DJ verso la creazione di musica in quegli anni ritengo sia stato il desiderio di sperimentare, alimentato fortemente da quelle “macchine infernali” che sprigionavano suoni mai sentiti prima, almeno per me fu così e credo che lo stesso valga per la maggior parte di coloro che gravitavano intorno a quel mondo. La voglia di spingersi sempre oltre era testimoniata anche dai dischi stessi, specialmente quelli provenienti dal Regno Unito che offrivano suoni in continua evoluzione. Il fermento era notevole quanto la condivisione: a tal proposito ricordo quando nell’ambiente romano si sparse voce dell’ottimo utilizzo che facevo del campionatore a tastiera Casio FZ-1 dal costo più accessibile rispetto ad altre macchine dai nomi maggiormente blasonati. Nel mio studio ci fu un bel via vai di amici armati di block notes per prendere appunti. Tra gli altri Michele Prestipino ed Eugenio Passalacqua del team Full Beat di Faber Cucchetti, e Claudio Coccoluto che mi chiese ragguagli sul tempo di campionamento e funzioni varie, seppur alla fine optò per un E-mu Emulator. Oggi le cose sono nettamente diverse, più produci e più ti metti in mostra cercando di ottenere ingaggi per le serate, rimasta praticamente l’unica maniera per guadagnare denaro. Prima gli introiti invece arrivavano principalmente dalle produzioni discografiche. I limiti erano rappresentati dal costo proibitivo delle strumentazioni. La mia prima produzione in assoluto, “The Story Is True” di Cut & Sew And The Partyrock, la feci con un mixer Tascam M-35, il campionatore Casio FZ-1 di cui parlavo prima, un expander Yamaha TX81Z, un multieffetto Lexicon ed una drum machine Yamaha RX5, oltre ad un Technics SL-1200 ed un registratore Revox B77. Fu un vero e proprio taglia e cuci autoprodotto, a cui parteciparono per l’editing Luca Cucchetti e Mauro Convertito, rispettivamente nascosti dietro gli alias L.L. Full C. e Moor Funk’s. Gli scratch invece erano di Ice One ma non ne sono proprio sicuro, sono passati così tanti anni.

Uno scatto che immortala alcune produzioni discografiche di Berardi, diversi flight case e il vecchio setup utilizzato. In particolare, a sinistra dall’alto in basso, si vedono Roland R-8, Casio FZ-10M, Oberheim Matrix 1000, E-mu Morpheus, E-mu Vintage Keys, E-mu Orbit 9090, Akai S3000 ed Akai S2000, accanto invece Casio FZ 1 e Roland JX-10 (Super JX)

Venivi da un passato fatto di rock, funk e disco. Come approcciasti alle “musiche nuove” come hip hop, house e techno?
Il mio approccio con la musica avvenne prima dell’avvento dell’elettronica da ballo, intorno agli undici/dodici anni, quando prendevo lezioni private di pianoforte e chiesi ai miei di regalarmi una batteria acustica (semiprofessionale ovviamente!) ed una pianola della Elka. Al DJing giunsi in seguito, verso i quattordici/quindici anni. Il primo locale in cui misi i dischi era un piccolo club di quartiere chiamato Marilyn. Passare dal funk/disco all’hip hop fu quasi naturale. Chi, come me, aveva seguito personaggi come DJ Kool Herc, Grandmaster Flash & The Furious Five, Marley Marl, Afrika Bambaataa, Whodini, Kurtis Blow, Spoonie Gee, Sugarhill Gang ed altri ancora non faticò certamente ad apprezzare la nuova ondata innescata dai Run-DMC, LL Cool J, Public Enemy o Eric B. & Rakim. La transizione dall’hip hop alla (hip) house invece fu stuzzicata dai campionatori e da pezzi come “Beat Dis” di Bomb The Bass o “Theme From S-Express” di S’Express che cambiarono l’utilizzo del sample rispetto a quello in uso sino a quel momento nell’hip hop. Il resto avvenne grazie alla continua evoluzione e sperimentazione di suoni, d’altronde l’avvicendarsi dei generi musicali è andato di pari passo con le innovazioni tecnologiche.

Un flight case di Berardi decorato da Ice One nel 1988

A partire dal 1989 la tua attività in ambito discografico subisce una netta intensificazione. Col supporto della Energy Production di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi metti su la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti e Sebastiano ‘Ice One’ Ruocco e poi produci musica (come il fortunato “You Don’t Get Stop”) con la sigla M.B., acronimo che ti accompagna tuttora. Potresti raccontare quella particolare fase creativa della tua carriera?
A fine anni Ottanta la musica hip hop imperversava nella capitale dove nascevano di continuo nuovi gruppi rap, grazie anche alla spinta dei film usciti qualche anno prima sulla break dance, uno su tutti “Beat Street”. In quel contesto nacque la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti, fresco di consolle condivisa con Jovanotti e del remix del suo “Walking”, ed Ice One, giovanissimo rapper e talentuoso writer (mentre eravamo in studio lui disegnava su qualsiasi superficie gli capitasse a tiro, conservo ancora qualche flight case coi suoi graffiti e il primo logo di M.B. è proprio opera sua!). Nel progetto Mad DJ’s Band coprivamo ruoli precisi: io mi occupavo dei sample, della parte ritmica, della struttura e del mixaggio, i testi e gli scratch erano di Sebastiano mentre gli editing di Luca. Poi, a seconda delle esigenze, interpellavamo amici come Elvio Moratto, che suonò le tastiere nel singolo d’esordio, “Get Mad”, o il giovane talento Stefano Di Carlo che si occupò delle linee melodiche dei brani pubblicati in seguito. Gli scratch addizionali invece erano degli italiani usciti vittoriosi dalle gare del DMC come Francesco Zappalà, Giorgio Prezioso e Andrea Piangerelli. Realizzammo tre singoli ed un doppio album a cui si aggiunse pure un 12″ con su incise basi ed effetti vari, “Mad DJ’s Grooves Volume 1”. M.B. invece nacque come avventura solista per poter identificare il mio lavoro in studio. Qualche viaggio oltremanica e le uscite che arrivavano dagli Stati Uniti mi spinsero a cimentarmi in altri generi. La X-Energy Records mi chiese di dare un taglio hi NRG alle nuove produzioni e in tal senso credo di aver campionato davvero tutto il campionabile. Avevo scatole piene di floppy disk con sample di bassline e sequencer in stile Giorgio Moroder, Patrick Cowley e Bobby Orlando. Per “Fast And Slow” del 1989, ad esempio, usai un frammento di “Hills Of Katmandu” di Tantra, prodotto da Celso Valli esattamente dieci anni prima. La grafica in copertina in stile murales era di Ice One. Per i dischi a seguire invece cambiai marcia anche grazie all’apporto di Stefano Di Carlo che suonava le tastiere. “The Beat”, del 1990, è quello a cui sono più legato e penso mi identifichi meglio, ma quell’anno uscì pure “You Don’t Get Stop” che riscosse un discreto successo e venne licenziato in Germania dalla Logic Records degli Snap! e in Spagna dalla Boy Records. I due singoli successivi, “Feel The Heat” e “Make It Right”, erano contraddistinti da un suono più duro influenzato dai rave di allora che riuscivano a raccogliere folle immense di pubblico anche di 5000 persone. All’Ombrellaro del 4 aprile 1992, a cui partecipò pure un giovanissimo Aphex Twin, eseguii dal vivo “Make It Right” così come si può vedere in questo documentario, e quella fu l’ultima uscita su X-Energy Records che per me chiuse il filone della rave techno.

Underground Nation Undertour Sensation (sopra) e Cosmic Underground (sotto), due produzioni particolarmente ricercate del repertorio di Berardi

Tra 1992 e 1993 col citato Cucchetti realizzi “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation e “Trance Me EP” di Cosmic Underground, editi rispettivamente da Mystic Records ed R. Records, due tra le numerose etichette patrocinate dal negozio Re-Mix di Sandro Nasonte. Ai tempi i negozi di dischi potevano rappresentare punti di ritrovo e confronto tra addetti ai lavori e semplici appassionati. Alcuni si trasformarono in veri e propri quartier generali di etichette o freemag, come il Disco Inn di Modena e il Disco Più di Rimini o, all’estero, il Disco King di Mouscron e il Blitz da cui nacquero la DiKi Records e la Bonzai come raccontiamo qui e qui. Ritieni che il web abbia sostituito egregiamente quelle iniziative oggi rimaste tra le espressioni di un mondo che non esiste più? In caso contrario invece, cosa si stanno perdendo le nuove generazioni rispetto alle vecchie?
Tra ’91 e ’92 ci fu un cambiamento quasi radicale. La house continuava ad evolversi, specialmente nel genere deep che iniziò ad allargarsi a macchia d’olio in Italia dove nacquero tantissime accreditate realtà guidate da personaggi come MBG (che per me resta il maggior esponente italiano di quella scuola), Alex Neri ed Andrea Torre, il “pifferaio magico”. Per quanto mi riguarda, quel cambiamento fu espresso pienamente da “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation, prodotto ancora con l’amico Luca Cucchetti (fu sua l’intuizione di unire le forze con Torre) che curò il mixing finale e Stefano Di Carlo alle tastiere. La versione più emblematica è la Noneta del citato Andrea Torre. Il progetto sembrava fatto su misura per il movimento che gravitava intorno al suo seguitissimo programma radiofonico e le serate “tappetose” al Uonna Club, uno storico locale romano in cui si celebrava proprio questo genere. La prima volta che portai il provino a Torre fu subito amore, ricordo ancora i momenti della costruzione di quella versione. L’idea (geniale) di aggiungere la voce di una signora anziana che raccontava la poesia “Le Nuvole” di Fabrizio De Andrè fu di Peter, il commesso di Best Record menzionato prima, e non a caso “nuvolosità variabile” era uno slogan creato ad arte da Andrea per il suo programma mentre il nome del progetto prendeva spunto da Underground Nation, la classifica deep in onda su Radio Centro Suono, un’emittente romana che in quegli anni rappresentò l’epicentro di un vero e proprio movimento. Dulcis in fundo, l’uscita del disco coincise con la nascita di mio figlio Andrea menzionato tra i ringraziamenti sul centrino, e il sample del bambino nella versione Hardcore di Paolo ‘Zerla’ Zerletti non fu casuale. Il “Trance Me EP” di Cosmic Underground invece nacque un anno dopo e l’idea di partenza era realizzare un remix di “Save Me” ma con un arrangiamento più trance. A quella versione aggiungemmo due inediti, “Minimal Dream” ed “House Evolution”. A differenza di quando uscì, oggi è diventato un disco piuttosto ricercato e con un discreto valore per gli appassionati e ciò non può che rendermi felice. Ho già ricevuto diverse richieste di ristampa. Per quanto riguarda i negozi, credo che negli anni Novanta Re-Mix sia stato un vero e proprio quartier generale, un punto di riferimento per la quasi totalità dei DJ e produttori di quel sound ma anche per coloro che ascoltavano la radio e partecipavano agli eventi. Una tappa obbligata per gli addetti ai lavori che bazzicavano la club culture capitolina, per non parlare poi delle produzioni annesse. Basterebbe citare la Sounds Never Seen, la Plasmek, la Synthetic, la Nature Records o la Killer Clown Records che hanno visto come protagonisti Lory D, Andrea Benedetti, Mauro Tannino, Stefano Di Carlo, Marco Passarani, Cristiano Balducci e molti altri ancora, tutte realtà che hanno contribuito alla nascita di una scena riconosciuta anche all’estero. I giovani adesso sono abituati a comprare online, chi è passato da lavorare dietro il bancone di un negozio agli store virtuali ha fatto comunque un lavoro enorme. Noto con piacere il fiorire e il proliferare di realtà che combinano etichetta, produzione, mastering e distribuzione con intenzione di dare spazio sia a nuove proposte che a ristampe di classici o rarità del passato.

Nel 1994 il progetto Cosmic Underground si trasforma in Cosmic Galaxy ed apre il catalogo della Virtual World, etichetta distribuita dalla milanese Discomagic a cui, nello stesso anno, tu e Cucchetti destinate “Pussy” di The Fair Sex, altrettanto ambito per i collezionisti. Come arrivaste a Lombardoni?
Cosmic Galaxy è stata croce e delizia. Per me ha rappresentato uno dei momenti peggiori a livello personale e, di conseguenza, una fase di stanchezza mentale. Avevo un cassetto pieno di idee e progetti lasciati a metà, così provammo a mettere in ordine qualcosa e finalizzare le tracce incomplete. Ricavammo tre DAT ma non ricordo quanti pezzi fossero incisi sopra. Ad occuparsi di chiudere i contratti con le etichette è sempre stato Luca e quella volta partì alla volta di Milano. Negli uffici della Discomagic incontrò Emilio La Notte che ascoltò i brani e creò appositamente la Virtual World per prodotti di quel tipo, diciamo un misto tra techno, minimal e deep house. Furono stampate 500 copie di “Dream Girl” di Cosmic Galaxy ed altrettante di “Pussy” di The Fair Sex. A seguire arrivarono “Change Position” di A Girl Called Bitch su Subway Records e “You Don’t Get Stop” di Morena su Out. Era ciò che restava di quei DAT ma francamente non ho memorie in merito. “Dream Girl” è stato ristampato nel 2019 dalla Obscure World mentre il brano “Walkin’ On The Moon” è finito sull’olandese Safe Trip per il terzo volume della fortunatissima compilation “Welcome To Paradise”. Per maggio è atteso un EP su KMA60, la label di Jamie Fry e Dana Ruh, che su un lato conterrà “Save Me” ed “House Evolution” di Cosmic Underground e sull’altro “Cosmic” e “Virtual Transpose” di The Fair Sex. Mi rende felice sapere che a distanza di tanti anni questi brani facciano parte di una cultura musicale ben definita e che le nuove etichette ne siano consapevoli.

Gli Harlem Hustlers in una foto del 2001

Negli anni Novanta chi, come te, produceva tanta musica ricorreva all’uso intensivo di molteplici nomi di fantasia a differenza di oggi, con la scena contraddistinta da un individualismo assai più pronunciato. Alito, Base On Space, The Night Fever, Critical Release, Players Inc., Star Funk e The Hammer sono solo alcuni di quelli che ti riguardano, ma menzione speciale merita Harlem Hustlers, condiviso con Roberto Masutti sin dal 1996, con cui realizzi vari brani ma soprattutto remixi un numero abissale di artisti. C’era (e c’è) un preciso modus operandi nel vostro lavoro in studio?
Usare più pseudonimi contemporaneamente era nella norma. Avere almeno due produzioni nuove ogni mese, che il più delle volte diventavano tre o quattro, obbligava ad una scelta simile per non inflazionare il nome su cui si puntava di più. Poi entravano in gioco ragioni di direzione musicale o di esclusive strette con alcune etichette. Come Base On Space, ad esempio, ho prodotto per la Lemon Records (di cui parliamo qui, nda), per la Big Big Trax di Victor Simonelli e per la D:Vision, Star Funk era destinato alla milanese Hitland, Cyclone alla Propaganda… Harlem Hustlers invece nacque per pura casualità con la voglia di provare a cambiare lo status quo della house nella seconda metà degli anni Novanta. Conobbi Roberto Masutti tramite un amico in comune. Ad oggi abbiamo realizzato, tra remix e produzioni, quasi duecento brani. Lui è un vero esperto dell’hardware e software, sempre aggiornatissimo sulle novità e con una specialità per l’effettistica. È dieci anni più giovane di me ed ha un gusto musicale molto raffinato. Dopo i primi lavori portati a termine in studi diversi, decidemmo di metterne su uno tutto nostro, il Penthouse Studio, ancora esistente, situato all’ultimo piano di un edificio. Scelsi il nome Penthouse anche in virtù di un apprezzato programma radiofonico su Radio Centro Suono. Il nostro rapporto è andato oltre la semplice collaborazione lavorativa. A tenerci uniti, oltre ad una solida amicizia, è sempre stato un grande rispetto reciproco. Modus operandi? Ascoltiamo il brano da remixare, decidiamo la direzione da prendere ed una volta trovato il sample giusto da accostare, ci dedichiamo alla linea di basso, alla drum e all’arrangiamento. A seguire stesura e missaggio finale, da riascoltare dopo un paio di giorni di pausa. Ricordo ancora molto bene l’emozione che provammo quando, grazie alla D:Vision, ascoltammo il 24 piste originale di “Guilty” delle First Choice, in cui le cantanti ridevano, scherzavano e provavano gli strumenti. Prima di quel momento per noi era una cosa impensabile poter lavorare sui brani della Philly Groove Records. Poi avremmo messo le mani pure su “Put Yourself In My Place” di TJM, in origine su Casablanca, su “Lovin’ You Is Killing Me” dei Moment Of Truth, dal catalogo Salsoul, e su “Don’t Put Me Down” di Finishing Touch: la nostra Soul Reconstruction Mix era tanto cara a Frankie Knuckles. Qualche tempo fa Domenico Scuteri della Lemon Records, a mio parere tra i migliori musicisti, compositori e sound engineer italiani, definì gli Harlem Hustlers gli artefici del “cut off sampling”. Non so se effettivamente siamo stati i primi ma quando sento un disco nuovo che lavora col filtro passa basso e l’automazione non posso non ricordare che noi lo facevamo già venti (e passa) anni fa. Anche con gli A&R delle varie etichette con cui abbiamo lavorato e collaborato c’è sempre stato un profondo rispetto. In qualche caso, come con la Strictly Rhythm o la Azuli Records, le richieste riguardavano perlopiù piccole correzioni ma mai stravolgimenti. Con la X-Energy c’era un rapporto praticamente quotidiano e il confronto con Alvaro Ugolini portava tanti buoni consigli. Una volta Bob Sinclar ci chiese le parti del remix che realizzammo per la sua hit del 2006, “World, Hold On (Children Of The Sky)”: volle fare un editing della nostra versione migliorandola con un paio di correzioni sulla stesura. Il risultato su la Bob Sinclar Vs. Harlem Hustlers Remix. Con Sinclar, peraltro, ci furono precedenti molto lusinghieri. Già nel 2004 infatti remixammo “Sexy Dancer” e la nostra versione venne pubblicata pure sulla sua Yellow Productions, e grande soddisfazione giunse anche quando il remix che facemmo per “Give A Lil’ Love” venne scelto dalla Tim come sigla del campionato di serie A 2006-2007.

Con alcuni musicisti capitolini ti sei affacciato anche alla musica lounge con Joker Juice.
Esattamente. Joker Juice nasce come progetto commissionato dalla Energy Production a cui hanno preso parte diversi musicisti una quindicina di anni fa circa. La considero una meteora quasi sperimentale in un periodo in cui imperversava la musica lounge con le mitologiche compilation in stile “Buddha Bar”. Alcuni brani dell’album “Contrast” sono stati selezionati per numerose compilation specializzate nel settore.

Continui tuttora a rieditare pezzi per la Full Time Records: cosa pensi del re-edit “selvaggio” praticato da quelle etichette, fisiche e digitali, che sfruttano la musica di altri ma senza alcuna autorizzazione da parte di autori ed editori depositari dei diritti? È un fenomeno arginabile in qualche modo?
Il re-edit che definisci “selvaggio” è un problema culturale, praticato perlopiù da chi vuole solo cavalcare l’onda di un genere senza farsi troppi scrupoli e non conosce a fondo la materia o non gliene importa nulla di approfondire sulle radici del brano che sta utilizzando. Un ventenne alle prese con un pezzo anni Settanta/Ottanta non si pone troppi problemi e preferisce fare ciò che meglio crede, aiutato dai software che facilitano la manipolazione. Però per fare cose buone non basta mettere una cassa dritta su un sample. Il re-edit dovrebbe limitarsi ad isolare le parti migliori di un brano e sistemarle in modo da non avere quelle interruzioni o classiche pause dei pezzi disco/funk. In questa disciplina uno dei migliori per me resta Danny Krivit. Leggere il suo nome sui dischi mi fa subito pensare ad un prodotto concepito col massimo rispetto per l’artista. Per quanto mi riguarda, cerco di essere sempre molto attento a non oltrepassare il limite. Provo un rispetto profondo per l’artista su cui lavoro e d’altronde vengo dalla scuola in cui si potevano campionare dalle due alle quattro battute. In passato c’era più rigidità nel controllo dei sample, adesso se il brano funziona, che sia un edit o un remix, si trova un accordo tra l’etichetta/editore e il producer creando una buona opportunità di lavoro per entrambe le parti. Tornando alla domanda, non credo che la pseudo cultura di saccheggiare materiale altrui sia arginabile. Ci dovrebbe essere un’educazione musicale, una sorta di bon ton che indichi dove fermarsi prima di essere risucchiati nel mercato ormai troppo inflazionato del disco re-edit. Speriamo in un cambio di direzione e che si ritorni a scrivere qualche nota in più in onore della nostra amata house music. Collaborare con la Full Time per me è una gran bella soddisfazione. Avere la possibilità di lavorare su brani inavvicinabili quando iniziai la mia carriera è qualcosa di magico. Adesso, con tutto il rispetto possibile, cerco di renderli più attuali e fornire ad essi una marcia in più ma senza offendere le versioni originali.

La pandemia da coronavirus ha “congelato” il mondo delle discoteche da ormai un anno a questa parte. In Rete si sentono e leggono tanti buoni propositi legati all’agognata ripartenza di cui però al momento nessuno è in grado di prevedere l’inizio. Credi sia possibile ristabilire priorità, scala valori e meritocrazia in un settore come quello del nightclubbing che nell’arco di un trentennio circa ha remato costantemente verso la mercificazione dell’arte e della passione?
Secondo me la pandemia ha solo dato lo schiaffo finale ad un mondo che ormai non funzionava più da un pezzo. Ci vorrà tempo e un cambio generazionale non indifferente per tornare ai fasti di una volta, bisognerebbe creare qualcosa di autenticamente nuovo per dare un seguito a ciò che fu fatto di buono in passato. Spero che l’incubo del covid-19 possa finire al più presto, abbiamo bisogno psicologicamente dei nostri punti di riferimento ma soprattutto di musica.

Due ultimi scatti relativi ad altre parti della collezione di Massimo Berardi

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato aggiungendo per ognuno di essi un’accurata descrizione.

Pink Floyd – The Dark Side Of The Moon
Da ragazzo rimanevo affascinato da tutto ciò che era futuristico e fantasticavo sul fatto che nel 2000 le astronavi avrebbero sostituito le utilitarie. “The Dark Side Of The Moon”, uscito nel 1973, è in assoluto l’LP che mi ha accompagnato più di tutti in quel viaggio immaginario. Sperimentazione allo stato puro, sia per l’uso dei sintetizzatori che per i rumori d’ambiente utilizzati come mai nessuno aveva saputo fare prima. Per tutti quelli della mia età fu un’introduzione a sonorità da viaggio mentale, un vero e proprio apriscatole delle emozioni.

Cerrone – Love In C Minor
La storia della disco music è piena zeppa di nomi importanti che hanno dato vita ad essa e Cerrone è sicuramente uno di questi. La prima volta che lo ascoltai avevo circa quattordici/quindici anni, i gemiti femminili abbinati alla cassa dritta mi fecero andare letteralmente in estasi. Potrebbe essere definito quasi un pezzo proto house. Da metà in poi, con l’esplosione di accordi e i fraseggi, era come fare sesso con le note musicali. Sono particolarmente legato a questo disco perché mi ricorda un caro amico che non c’è più con cui trascorrevo i pomeriggi a selezionare ed ascoltare musica sul suo mega impianto.

Jean-Michel Jarre – Oxygene
Dire che questo disco mi abbia influenzato è poco, e per capirlo basta ascoltare “Dream Girl” di Cosmic Galaxy. Lo comprai quando ero molto giovane ma nonostante ciò diedi ad esso il giusto valore tanto da ascoltarlo ininterrottamente in cuffia quasi a stancarmene. Lo “incrociai” nuovamente qualche anno dopo cercando di scoprire qualcosa in più sull’autore e sull’utilizzo che fece degli “strumenti infernali” tra cui il primo modello del VCS3 della EMS di Peter Zinovieff, l’organo elettrico Eminent 310 Unique ed una drum machine Korg Mini Pops. Semplicemente spettacolare.

Rose Royce – In Full Bloom
Cercai questo album del 1977 per un brano in particolare, “Do Your Dance”, uno di quelli che si sentivano nella Baia Degli Angeli, il tempio che ha spinto tanti ad intraprendere l’avventura da DJ. Nella sua interezza, “In Full Bloom” è uno di quei dischi che si apprezzano col passare del tempo. Puoi ascoltarlo in qualsiasi momento della tua vita e ti sembrerà sempre di averlo appena comprato. A produrlo fu Norman Whitfield, uno dei creatori del cosiddetto Motown Sound. Tra gli altri brani contenuti segnalo “Wishing On A Star” scritto da Billie Calvin e riproposto nel 1998 da Jay-Z in una fortunata cover.

Herbie Hancock – Future Shock
Hancock è uno dei tanti leggendari musicisti che hanno suonato per la band di Miles Davis. “Future Shock”, uscito nel 1983, probabilmente non è il lavoro migliore del suo repertorio ma il più vicino ai poveri mortali amanti della disco/funk, come me. Un artista un po’ nomade a cui è sempre piaciuto passare da un genere all’altro e che per l’occasione si avvicinò sensibilmente all’elettronica sperimentandone le potenzialità insieme al grande bassista Bill Laswell. A venirne fuori fu un fantastico album electro funk trainato dalla hit “Rockit”, devastante in pista.

Gaznevada – I.C. Love Affair
Nei primi anni Ottanta le domeniche pomeriggio in discoteca erano musicalmente assai diverse rispetto al venerdì o al sabato, quando la selezione era più certosina ed elegante. L’età media del pubblico che frequentava i locali la domenica pomeriggio era più bassa e quindi c’era grande possibilità di sperimentare cose nuove. A me piaceva molto proporre le novità di matrice elettronica, specie il filone italo disco, ma senza abbassare troppo la qualità, e i Gaznevada, come i N.O.I.A. o gli International Music System (di cui parliamo qui e qui, nda), si prestavano perfettamente a tale scopo. “I.C. Love Affair”, pubblicato dalla bolognese Italian Records (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), è uno dei pezzi con cui ho rischiato quasi di svuotare la pista la prima volta che lo misi ma poi, armandomi di costanza e tenacia, sono riuscito a farlo diventare un inno. Agli amanti del genere consiglio i remix pubblicati nel 2015 raccolti nella Exclusive Edition.

Adonis – No Way Back
È doveroso per me ricordare la Trax Records, iconica etichetta di Chicago che ha sconvolto il mercato dance nella seconda metà degli anni Ottanta con una miriade di produzioni passate alla storia. La scelta è difficile ma è caduta su questo brano di Adonis del 1986 che mi ricorda il primo viaggio a Londra. Entrai in uno dei tanti negozietti di dischi sparsi per la città e c’era questo brano sparato da un mega impianto. Rimasi folgorato dai club e dal modo in cui lì si viveva la musica, passando dai negozi di abbigliamento in stile acid house ed ovviamente quelli di dischi. Un autentico percorso di vita.

University Of Love Featuring MBG – Vostok 3
Un vero colpo al cuore, “Vostok 3”, uscito nel 1992, ha fatto il bello e il cattivo tempo dei miei sentimenti, un quadro da appendere in un punto quasi nascosto della casa in modo da soffermarti a guardarlo ogni volta che ci passi davanti. Inneggia a momenti memorabili di un periodo glorioso della musica dance e del clubbing italiano, un’opera d’arte per me come tutto quel filone nostrano deep house che ancora oggi, a distanza di ormai un trentennio, continua ad avere un ottimo mercato.

Raymond Castoldi – Biosphere 2
Se un giorno qualcuno mi domandasse quale disco avrei voluto realizzare indicherei senza ombra di dubbio questo, pubblicato dalla statunitense X-Ray Records nel 1993. Sino a qualche tempo fa ne possedevo tre copie, una l’ho venduta ad un carissimo collega, una continuo ad usarla senza sosta, l’ultima invece la ho riposta con cura sullo scaffale. Un disco pieno di tutto ciò che un DJ ha bisogno, suoni acidi, melodia, una bassline dal suono retrò e tanto amore.

Danny Tenaglia – Tourism
Penso sia uno degli album house più completi mai incisi in assoluto. Pubblicato nel 1998, gira su suoni techno, tribal e progressive incorniciati da splendide melodie. Un quadruplo pieno di pezzi (tra cui l’arcinoto “Music Is The Answer (Dancin’ And Prancin’)”, nda) che fanno la differenza ancora oggi. Il mio preferito resta “Do You Remember” col featuring di Liz Torres. Al Penthouse Studio non passò inosservato, io e Roberto Masutti ne comprammo una copia a testa.

(Giosuè Impellizzeri)

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Wild! Entertainment, quando l’eurotrance arriva in Italia

Nella seconda metà degli anni Novanta la musica trance conosce una sensibile impennata di popolarità in Europa. Da un lato eventi come Love Parade ed Energy diventano centri propulsori che irradiano quel sound ad un’audience sempre più vasta, dall’altro svariate produzioni discografiche riescono a penetrare con sistematicità nelle classifiche di vendita, generando incassi impronosticabili sino a pochi anni prima. Non manca ovviamente chi vede di traverso tutto ciò. In “Energy Flash” Simon Reynolds lo descrive come «un sottogenere pieno di tutti quegli elementi dozzinali disprezzati dai “progressisti” tipo Sasha: ritornelli da inno, crescendo, rulli di tamburi, elaborate costruzioni e crolli improvvisi, melodie naïf che fanno vibrare le corde del sentimento. La sensazione che provoca questa musica è come la fibrillazione incantata di un Philip Glass lobotomizzato o in vena di cosmiche smancerie sotto l’effetto di droghe psichedeliche assunte insieme ai Teletubbies». Il noto critico britannico rincara ulteriormente la dose quando afferma che «ascoltando la “trance” di fine anni Novanta ti prende un colpo se ti metti a pensare alla prima ondata trance partita da Berlino e Francoforte nel 1993, molto più dura e fredda. Quel tipo di trance dominò i rave e i club di tutto il mondo per un paio d’anni ma fu ben presto eclissata, se non altro in termini di moda e di copertura dei media, dal drum n bass».

ADV More Music Italy 1998-1999
Una serie di pagine pubblicitarie della More Music Italy tratte dal magazine DiscoiD: le tre in alto risalgono al 1998, quelle in basso al 1999

La trance di fine decennio, a conti fatti, risulta più accessibile, melodiosa ed euforica rispetto a quella di qualche anno prima, e di esempi esplicativi se ne potrebbero fare a iosa. Da “Protect Your Mind” di Sakin & Friends e “Storm” degli Storm, di cui parliamo rispettivamente qui e qui, ad “On The Beach” di York, da “1998” dei Binary Finary a “Seven Days And One Week” dei B.B.E., da “Ayla” di Ayla ad “Afflitto” di Fiocco passando per “Dream Universe” di C.M., “Out Of The Blue” di System F, “Secret” degli Absolom, “For An Angel ’98” di Paul van Dyk e “9 PM (Till I Come)” di ATB. Questi ultimi due, in particolare, arrivano nel nostro Paese attraverso la Milk’n Honey, tra le etichette della filiale italiana della More Music, importante compagnia discografica tedesca. Accanto a Milk’n Honey operano altre quattro label: la Blue Orange inaugurata con “Feeling Good” di Huff & Herb, cover dell’omonimo di Nina Simone diventata una hit europea, la Priveé che sbanca con “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” di Run From Run-DMC Feat. Justine Simmons, la Weltraum alimentata con una manciata di uscite techno/progressive (Remon Petrick e Timo Maas Feat. Digital City), e la Trancestar – “sorella” della Clubstar attiva nel frangente house solo in territorio tedesco – su cui esce “After Love” di Blank & Jones impreziosito dalla versione di Mauro Picotto, l’unico remix che in quel periodo il DJ torinese destina ad un’etichetta italiana (fatta eccezione per la Media Records) pare per una precisa strategia discografica. A coordinare il lavoro di tutto ciò che riguarda More Music Italy è Raffaela Travisano. Nata in Germania da genitori italiani, inizia a lavorare nel settore musicale nel 1992 con la CBS del gruppo Sony. Poi entra nell’organico di uno dei più importanti distributori tedeschi di musica DJ oriented, la Discomania. Nel corso degli anni si costruisce una solida reputazione ed accumula esperienza che mette concretamente a frutto nel periodo in cui si occupa della More Music Italy. Nel catalogo Milk’n Honey, inaugurato alla fine del 1997 con “Wet Like The Rain” di The Bronx, finisce molta trance mitteleuropea, più e meno nota. Ai già citati Paul van Dyk ed ATB se ne aggiungono altri come “Your Love Makes Me Up” di Alta-Vista, i remix di “Love Stimulation” di Humate, “Diving Faces” di Liquid Child e “Can You Feel…” di SQ1. L’ambizione e la cultura musicale («invidiabile da molti» come si legge sul magazine Jay Culture in una delle sue prime interviste italiane a gennaio 1998), mista alla giusta rete di contatti e le crescenti potenzialità di quel genere, convincono la Travisano a fare un ulteriore passo in avanti, fondare la propria etichetta, la Wild! Entertainment.

Il catalogo della Wild! Entertainment

WILD 000 - Paul van Dyk Feat. Saint Etienne - Tell Me Why (The Riddle)Paul van Dyk Feat. Saint Etienne – Tell Me Why (The Riddle)
Corre la primavera del 2000 quando nei negozi arriva il primo disco della neonata Wild! Entertainment. A firmarlo è uno degli eroi della trance europea, Paul van Dyk, già entrato nell’olimpo dei top name continentali sia come DJ che produttore attraverso un corposo repertorio di cui si ricordano diversi brani incisi per la MFS come “Forbidden Fruit” e “Beautiful Place” oltre a “Perfect Day” ed “How Much Can You Take?” che realizza nei primi anni di carriera con Harald ‘Cosmic Baby’ Blüchel come The Visions Of Shiva. Contrassegnato dal numero di catalogo 000, “Tell Me Why (The Riddle)” è uno dei singoli estratti dal suo terzo album, “Out There And Back”, uscito sulla propria etichetta, la Vandit, e licenziato in Italia sempre da Wild! Entertainment come si vedrà più avanti. Scritto insieme alla band britannica dei Saint Etienne, il brano riprende lo stile del fortunato remix targato 1998 di “For An Angel” che lo consacra nel mainstream (l’originale risale a quattro anni prima, inserito nel primo album “45 RPM”) abbinato ad una sezione cantata da Sarah Cracknell che stuzzica più intensamente l’interesse delle radio.

WILD 001 - Blank & Jones - The NightflyBlank & Jones – The Nightfly
Formato da Jan Pieter Blank e René ‘Jaspa Jones’ Runge, il duo tedesco si fa notare con “Flying To The Moon” e “Cream”, quest’ultimo pubblicato anche in Italia dalla Trancestar del gruppo More Music Italy capeggiato dalla Travisano. Ad affiancarli in studio in quel periodo è Andy Kaufhold con cui realizzano, tra le altre cose, il remix di “Iguana” di Mauro Picotto. Blank & Jones forgiano un sound accessibile, ricco di melodie arpeggiate ed atmosfere sognanti. Incrociando questi elementi ottengono “The Nightfly”, brano che rispetta i tradizionali canoni della trance di inizio millennio con brevi inserti vocali femminili e quello che parrebbe un frammento citazionista di “You’re Not Alone” degli Olive. A trainarlo sul piccolo schermo è un videoclip. “The Nightfly” è il primo singolo estratto dall’album “DJ Culture” di cui si parlerà poco più avanti. Dei tanti remix realizzati solo uno però finisce sulla stampa italiana, quello dei Sunbeam, ricordati in primis per “Outside World” del ’94 e quasi agli sgoccioli del loro percorso artistico che gli regala ancora qualche soddisfazione come “Versus”, in tandem con Tomcraft, e “One Minute In Heaven”.

WILD 002 - Blank & Jones - DJ CultureBlank & Jones – DJ Culture
Preso in licenza dalla Kontor Records, “DJ Culture” lancia il duo tedesco nel firmamento dei grandi nomi della trance europea. I dieci brani racchiusi al suo interno, tutti realizzati presso gli Spacedust Studios a Düsseldorf, si muovono a grandi linee sulle stesse coordinate prima descritte con una concessione al breakbeat, come attesta il reprise di “The Nightfly”, ed una parentesi ambient, “A New Culture Is Born”, col testo scritto ed interpretato dall’elvetico Dieter Meier degli Yello. Per il resto i due tedeschi, ancora coadiuvati da Andy Kaufhold ironicamente ribattezzato “il terzo del duo” analogamente a quanto avviene in parallelo ai fratelli Ali e Basti Schwarz alias Tiefschwarz prima con Peter Hoff e poi con Jochen Schmalbach, assemblano ritmi incalzanti ed oniriche melodie (“La Luna”, “The Blue Sky”, “Sundowner”, “Mindcrasher”, “Waste Your Youth”). Saranno altri due i brani estratti come singoli dopo “The Nightfly”, la title track “DJ Culture” e “Sound Of Machines”. Sul doppio mix in edizione limitata che Wild! Entertainment pubblica in formato gatefold finisce pure una manciata di remix usati a mo’ di bonus track, quelli di “After Love” e “Cream” realizzati rispettivamente dai Quake e Paul van Dyk.

WILD 003 - ATB - The SummerATB – The Summer
Grazie a “9 PM (Till I Come)” con cui inizia un nuovo corso artistico con l’acronimo ATB, la vita del tedesco André Tanneberger cambia radicalmente. Alle spalle lascia l’esperienza nei Sequential One che ottengono buoni riscontri con un mix tra eurodance ed happy hardcore, ma quello che avviene dal 1998 in poi è strepitoso. Galvanizzato dal successo di “9 PM (Till I Come)” che, secondo alcune stime, vende oltre un milione di copie, Tanneberger tira fuori nuove hit con cui si impone tra i DJ più importanti e richiesti al mondo. Una di queste è proprio “The Summer” estratta dall’album “Two Worlds”, con evidenti rimandi allo stile del suo primo successo che, come sostiene qui Torsten Stenzel, fu ispirato da “The Awakening” di York.

WILD 004 - The Driver Project Vs. Mike Litt - Eternal SummerThe Driver Project Vs. Mike Litt – Eternal Summer
Pubblicata originariamente dalla Highball Music di Amburgo, “Eternal Summer” riporta in attività il team The Driver Project formato da Christian Schnettelker, Marco Wolters e Tobias Dannappel a cui per l’occasione si aggiunge il DJ Mike Litt. Il brano non è pretenzioso e batte lo schema eurotrance da cui sempre più artisti attingono e si ispirano (Alice Deejay, Gitta, Fragma, Nagano All Stars, Angelic, Ian Van Dahl, Deal – gli italiani Daniele Tignino dei Ti.Pi.Cal. e Pat Legato – , Darude, Barthezz, giusto per citarne alcuni). La traccia gira su una breve melodia al pianoforte che per più di qualcuno pagherebbe il tributo al nostro Robert Miles ed una parte cantata, forse non sufficientemente cheesy per catalizzare l’attenzione del grande pubblico. Sul lato b finisce il remix dei Central Seven, ritmicamente più incisivo. A credere in “Eternal Summer” è Radio Italia Network che lo promuove come disco hacker nelle prime settimane della nuova stagione radiofonica, la prima vissuta come RIN, a settembre del 2000. A giudicare dal titolo, il periodo appare decisamente propizio.

WILD 005 - Blank & Jones - Sound Of Machines - DJ CultureBlank & Jones – Sound Of Machines / DJ Culture
Come già anticipato, “Sound Of Machines” e “DJ Culture” provengono dall’album con cui Blank & Jones si impongono nella scena trance planetaria, reduci di importanti esibizioni alla Love Parade nel 1999 e nel 2000. In “DJ Culture”, per cui viene girato anche un videoclip, riecheggiano esuberanti melodie mentre “Sound Of Machines” fa il verso, in modo piuttosto palese, al celebre remix di “Kernkraft 400” di Zombie Nation realizzato in Italia da DJ Gius, facendo leva su elementi praticamente uguali (inserti electro beat, basso in ottava, un breve hook vocale ed un riff da stadio). A spingere da noi “Sound Of Machines” è Tony H che lo inserisce nel suo programma Vitamina H in onda su RIN – Radio Italia Network, nato dopo l’abbandono di Radio DeeJay. Come si vedrà più avanti, il nome di Tony H entrerà nell’orbita della Wild! Entertainment in più di qualche occasione.

WILD 006 - Nino Lopez Project - E-XperienceNino Lopez Project – E-Xperience
Gianluigi Tarnassi e Gioacchino Piazzolla, da Milano, sono gli artefici di Nino Lopez Project che ai tempi può essere erroneamente confuso col Mario Lopez di “The Sound Of Nature”. Si tratta solo di parziale omonimia, seppur i contatti stilistici non manchino affatto. “E-Xperience” attinge energie dal campionario trance / hard trance teutonico con ben poche variazioni sul tema, inclusa la parentesi pseudo acida aperta sul finale. Sul 12″ figura una Album Version che lascia ipotizzare l’arrivo di un LP che però non uscirà mai, seppur il pezzo riesca a guadagnarsi qualche licenza all’estero, tra Germania e Paesi Bassi, e soprattutto un remix a firma ATB.

WILD 007 - Paul van Dyk - We Are AlivePaul van Dyk – We Are Alive
Tratta da “Out There And Back” con cui van Dyk apre la fase della sua carriera più mainstream oriented, “We Are Alive” è la cover di “Alive”, pezzo pop della svedese Jennifer Brown uscito nel 1998 e già traslato in chiave ballabile nel ’99 dai britannici Bleachin’. Il DJ tedesco fonde la song structure nei suoni che lo hanno reso popolare per il pubblico generalista e con tale binomio fa breccia nelle classifiche di vendita in tutto il mondo. Evolvendo ulteriormente tale formula, scolpirà successi futuri e l’album “Reflections” del 2003 che gli procurerà la nomination ai Grammy Award nella categoria dance and electronic. Viste le potenzialità, Wild! Entertainment pubblica “We Are Alive” anche in formato CD sul quale finisce la breakkata Arctic Bass Mix di DJ Icey esclusa invece dal 12″. La foto in copertina di Andrew October immortala una performance del DJ nativo di Eisenhüttenstadt di fronte ad un pubblico oceanico, a testimonianza della sua più che solida fanbase.

WILD 008 - DJ Tomcraft - SilenceDJ Tomcraft – Silence
Proveniente dal catalogo Kosmo Records, “Silence” seduce l’ascoltatore col lirismo vocale di Vivian e con un crescendo di atmosfere sapientemente fuse in ritmi ballabili. Insieme a Tomcraft, in studio, c’è Robert Borrmann meglio noto come Eniac, che alle spalle vanta una hit, “Superstar”, realizzata a quattro mani con Tom Novy sempre per la Kosmo Records. Pur non essendo uno dei pezzi più noti del DJ tedesco, “Silence” riesce ad entrare in diverse compilation e ad essere licenziato negli Stati Uniti attraverso la Radikal Records, oltre ad essere supportato e promosso da un videoclip.

WILD 009 - Tukan - Light A RainbowTukan – Light A Rainbow
Dietro Tukan ci sono i danesi Lars Frederiksen e Søren Weile, già noti come Zekt in ambito hardcore. Come dichiarano ai tempi, decidono di darsi alla trance ispirati dalla musica selezionata da Pete Tong sulle frequenze di BBC Radio 1. Il loro è un debutto col botto: “Light A Rainbow” colleziona decine di licenze in tutto il mondo e riconoscimenti in due Paesi-chiave, Germania e Regno Unito. Un risultato esaltante, sia per loro che per l’etichetta che li mette sotto contratto, la tedesca Drizzly per cui la Travisano lavora nel corso degli Novanta. Edificata su melodie sognanti intersecate da un cantato di Kaya Brüel, la traccia finisce pure nelle programmazioni delle tv musicali grazie ad un videoclip. Il resto lo fanno i numerosi remix come quelli di ATB, CJ Stone, Wippenberg, DJ Worris e Green Court, quest’ultimo l’unico presente sul 12″ della Wild! Entertainment.

WILD 010 - Aquagen - LovemachineAquagen – Lovemachine
Nato da un’idea di Olaf Dieckmann e Gino Montesano e supportato dalla Dos Or Die Recordings, il progetto Aquagen esordisce nel ’99 con “Ihr Seid So Leise!”, una hit che solo in patria vende più di 250.000 copie, scandita imperiosamente dal testo in tedesco, suoni hard trance ed un sample tratto da “La Musika Tremenda” di Ramirez. Ad “Ihr Seid So Leise!”, considerabile una sorta di prologo della hard dance made in Germany che prende il volo da lì a breve, segue “Tanz Für Mich” con cui il duo si fa affiancare dal comico Ingo Appelt e che riprende la melodia di un altro classico nostrano, “Stay With Me” dei Da Blitz. Entrambi figurano nell’album “Abgehfaktor” da cui proviene pure “Lovemachine”, un altro successo ascrivibile alla cheesy trance / hands up tedesca trainata da artisti come Scooter, Brooklyn Bounce, 4 Clubbers, DJs @ Work, Pulsedriver, Rocco e Warp Brothers, coi quali peraltro gli Aquagen collaborano poco tempo dopo. Come da copione, “Lovemachine” è accompagnato da relativo videoclip finito sulle principali tv musicali europee. Sul 12″ edito da Wild! Entertainment presenzia anche il remix a firma Cosmic Gate che in quel periodo spopolano con “Somewhere Over The Rainbow”, “Fire Wire” ed “Exploration Of Space”, ed un secondo pezzo della tracklist dell’album ovvero “3, 2, 1 – Feiern!”, ulteriore vampata hard dance a base di basso in levare, cassa marcata, graffiate acide ed un riff stridulo. Nei primi mesi del 2001 viene annunciata l’uscita in Italia di “Abgehfaktor” su Wild! Entertainment ma l’operazione non va in porto.

WILD 011 - Warp Brothers Vs. Aquagen - Phatt Bass - We Will SurviveWarp Brothers Vs. Aquagen – Phatt Bass / We Will Survive
Sull’onda dei risultati ottenuti con “Lovemachine”, Wild! Entertainment scommette ancora sulla musica degli Aquagen, questa volta insieme ad un altro duo tedesco, i Warp Brothers, formato da Jürgen Dohr ed Oliver Goedicke. Due pure i brani, entrambi presi in licenza dalla Dos Or Die Recordings fondata da Uwe Papenroth ed Andreas Schneider: sul lato a “Phatt Bass”, esaltazione festaiola, come ben rimarca anche il videoclip, di una hard trance intrecciata alle grinze della TB-303, prototipo di quello che faranno esattamente dieci anni più tardi gli americani LMFAO in “Sexy And I Know It”, sul lato b “We Will Survive”, dove si ripesca a piene mani un classico acid di Josh Wink, “Higher State Of Consciousness”, rileggendolo con l’intento di semplificarne la formula e renderlo appetibile anche alle folle dei luna park con l’aggiunta di una voce in stile “Ihr Seid So Leise!”. Immancabile il video.

WILD 012 - Airheadz - Stanley (Here I Am)Airheadz – Stanley (Here I Am)
Nato come bootleg pubblicato solo su white label, “Stanley” campiona “Thank You” di Dido, già ripresa con eclatante successo da Eminem in “Stan”. Nonostante la non ufficialità, il brano conquista il favore di influenti DJ britannici che lo programmano sia in radio che nelle discoteche. Analogamente a quanto avviene nel 1994 ad “Eighteen Strings” di Tinman di cui parliamo qui, a causa di un clearance mai ottenuto gli autori, Andrew Peach e Leigh Guest, si vedono costretti a sostituire la parte vocale affidando la nuova alla cantante Caroline De Batselier che rappresenterà il progetto anche nella dimensione live. Sebbene il risultato finale non sia uguale a quello del bootleg, la AM:PM lo pubblica con reazioni entusiastiche del mercato. Diversi i remix approntati tra cui quelli di Wippenberg, Lost Witness e Kosmonova ma sul 12″ edito in Italia dalla Wild! Entertainment presenziano solo quelli dei Warp Brothers e di Nino Lopez Project, quest’ultimo esclusivo. Il successo mondiale non basta a persuadere Peach e Guest ad incidere un follow-up.

WILD 013 - DJ Tomcraft - ProsacDJ Tomcraft – Prosac
Uscito nel 1997 senza incontrare particolari riscontri, “Prosac” vive una seconda giovinezza a quattro anni di distanza quando la Kosmo Records pubblica due nuove versioni, la New Clubmix e la TC-THC Mix, a cui si somma un videoclip. La Wild! Entertainment decide però di mandare in stampa due remix ex novo commissionati a Tony H e Karin De Ponti. La versione del primo, la Yeah Mix, preserva le atmosfere originali reinnestandole su una base hard trance tranciata in più punti dalle sincopi ispirate (o campionate?) dal remix di “Dooms Night” di Azzido Da Bass realizzato da Timo Maas, lo stesso da cui viene tratto il caratteristico “womp womp” di cui lo stesso Maas parla qui; Karin De Ponti invece si avvicina di più al mondo (hard) house a velocità sostenuta e col phaser che filtra il groove.

WILD 014 - Paul van Dyk - Columbia EPPaul van Dyk – Columbia EP
In Germania la Vandit pubblica questo EP in doppio mix. In Italia invece la Wild! Entertainment opta per un singolo, distribuito dalla campana Global Net, col remix di “Columbia”, “Out There” e “A Different Journey To Vega” sacrificando “Movement” e la versione di “Vega” firmata degli Starecase. La title track ripesca un sample di “Land Of Oz” degli Spooky, “Out There” incalza tirando fuori il lato più rude ed aggressivo del DJ tedesco qui sbilanciato in modo netto verso soluzioni techno, smussate ed accarezzate da pad più canonicamente trance in “A Different Journey To Vega” che a conti fatti si configura come una rilettura trancey della precedente. “Columbia EP” sancisce l’alleanza tra l’etichetta di Raffaela Travisano e la modenese Molto Recordings di Roberto Luppi e Giovanna Bagni. Come si legge in un articolo apparso ai tempi dell’uscita, «Wild! Entertainment non esclude altri tipi di collaborazione con la struttura emiliana, forte all’estero per Flickman», cosa che effettivamente avviene nei tre dischi successivi.

WILD 015 - Members Of Mayday - 10 In 01Members Of Mayday – 10 In 01
“10 In 01” celebra i dieci anni di uno dei festival musicali più popolari d’Europa, il Mayday. A realizzare il pezzo, come di consueto, sono i Members Of Mayday, duo formato da WestBam e Klaus Jankuhn, autentici veterani della scena dance tedesca, qui intenzionati a replicare il successo di “Sonic Empire” del 1997. La traccia, finita nell’airplay di MTV e VIVA col relativo videoclip, riprende certe accortezze formali della hit di quattro anni prima ma senza replicare banalmente i contenuti come in un classico follow-up. Gli autori dimostrano ancora di poter interfacciare trance ed electro ottenendo un risultato efficace e di impatto sul grande pubblico. All’Original si somma il Members Only Mix di Paul van Dyk, calibrato su sincopi ritmiche, virtuosismi acidi e la voce di Afrika Islam, presa da “Global Players (My Name Is Techno)” di Mr. X & Mr. Y, un altro successo messo a segno da WestBam nel 2000. Esclusivo per la Wild! Entertainment è il Poptech Remix di Tony H, realizzato nel suo Taf-A-Taf Studio di Milano con Luigi Speciale. A distribuire il disco è la Hitland.

WILD 016 - Tomcraft - OverdoseTomcraft – Overdose
Terza apparizione su Wild! Entertainment per Tomcraft, dopo “Silence” e “Prosac”. Con un suono che pochi anni dopo verrà identificato electro house e trainato da un videoclip dai contenuti censurabili, “Overdose” (distribuito in Italia da Global Net) è un discreto successo messo a segno dalla Kosmo Records. Alla Killa Club Mix, dove gli elementi della trance più tradizionale spariscono quasi del tutto rimpiazzati da atmosfere più terrene e meno sognanti, l’etichetta milanese aggiunge un remix commissionato ancora a Tony H. Analogamente a quello realizzato per “10 In 01” dei Members Of Mayday, il Poptech Remix semplifica gli elementi originali fondendoli in una stesura a presa rapida, con break e ripartenze annunciate da rullate, schema a cui sono particolarmente affezionati gli ascoltatori di Vitamina H, il programma pomeridiano di Tony H e Lady Helena in onda su RIN – Radio Italia Network.

WILD 017 - Bra.Sa - Bon-Go-TronikBra.Sa – Bon-Go-Tronik
In un trafiletto della rubrica “Vinyl Approved” a cura di Riccardo Sada apparso sulla rivista Jocks Mag a gennaio 2002, si legge che «i Bra.Sa realizzano una sorta di vortice etnico che investe su un sound molto euro. Aperture trance di facile impatto che viaggiano a 138 bpm e collasso totale con rallentamento sotto i 90 quando il sample, utilizzato anche per lo spot di una famosa bevanda isotonica, entra per fare la differenza». Descritti come una sorta di Safri Duo all’italiana, i Bra.Sa (Gianni Bragante e lo stesso Sada, entrambi giornalisti musicali ma nel contempo produttori discografici), tirano il sipario sull’attività di Wild! Entertainment. “Bon-Go-Tronik”, infatti, è l’ultimo 12″ ad essere pubblicato, distribuito ancora dalla Global Net di Pozzuoli.

Gli album su CD

WILD CD 001 Paul van Dyk - Out There And BackPaul van Dyk – Out There And Back
Con “Out There And Back”, terzo album dopo “45 RPM” del 1994 e “Seven Ways” del 1996, entrambi usciti sulla MFS di Mark Reeder, il tedesco si emancipa dal mercato destinato ai soli appassionati e DJ specializzati. Non sussiste una profonda cesura da ciò che avviene negli anni Novanta, il suo cuore continua a palpitare per la trance (“Another Way”, “Travelling”, “Avenue”, “The Love From Above”, “Columbia”, “Out There And Back”) con spinte in anfratti progressive house (“Pikes”, “Face To Face”), e lanci su pareti ambientali sino a deviazioni breakkate (“Together We Will Conquer”, con la voce di Natascha van Dyk, ai tempi sua moglie) e downtempo (“Vega”). La sostanziale novità risiede nelle decise aperture al pop offerte da “Tell Me Why (The Riddle)” e “We Are Alive”, strategicamente estratti come singoli-grimaldello per entrare nelle classifiche di vendita e nelle programmazioni radiofoniche. Sulla copertina frontale la Wild! Entertainment appone il logo di RIN – Radio Italia Network, emittente che supporta i brani di van Dyk e gran parte della trance di quel periodo.

WILD CD 002 - Paul van Dyk - The Politics Of DancingPaul van Dyk – The Politics Of Dancing
Non è un album bensì una compilation mixata, pubblicata originariamente dalla Ministry Of Sound, licenziata in Italia da Wild! Entertainment e distribuita dalla Venus. Il doppio CD, accompagnato da un piccolo booklet, raccoglie poco più di una trentina di brani mixati da van Dyk tra cui “Rapture” di iiO, “Killin’ Me” di Timo Maas, “Activity” di Way Out West, “Into The Night” di 4 Strings, “Shout, C’Mon” di Sagitaire e “Dreamland” dei romani Nu NRG. Spazio anche ad un suo inedito, “Autumn”, oltre al remix realizzato per “Elevation” degli U2. L’uscita di “The Politics Of Dancing” corona un periodo irripetibile per Paul van Dyk, quell’anno eletto come uno dei migliori DJ del mondo dalla rivista DJ Mag: si piazza quarto, nella Top 100 DJs, preceduto solo da Danny Tenaglia, Sasha e John Digweed.

Blue Velvet e Morning LightBlue Velvet e Morning Light, le sublabel della Wild! Entertainment
Nata per coprire il segmento house, la Blue Velvet, ideale prosecuzione della Blue Orange, viene inaugurata da “That Melody” di George Morel. Il catalogo conta una decina di pubblicazioni tra cui val la pena ricordare “Takin’ Me Higher” dei Deep Swing remixata da Bini & Martini, “Crack City” di Chevallier col remix di Vincenzo, “Touch Me” di Sharon Phillips e “Music Is Wonderful” di Tom Novy, queste ultime due prese in licenza rispettivamente dalla Brickhouse e dalla Kosmo.
La Morning Light invece è la piattaforma più pop e dichiaratamente commerciale del gruppo ideato dalla Travisano sulla quale appaiono, tra gli altri, “Anywhere” di Peach, avvalorato dalla versione degli Eiffel 65, “At The Club” degli SM-Trax, quelli che si fanno notare tra 1998 e 1999 con “Got The Groove”, e “Do You Wanna” di Shah, remixato proprio dagli SM-Trax e Karin De Ponti. Annunciato su Morning Light è pure “Check Out The Floor (Summer Breeze)” di Justine Simmons Featuring Run From Run-DMC, follow-up di “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)”, realizzato dagli artefici della fortunatissima versione remix, i Mach 3 (Alex Zullo, Andrea Monta e Luca Neuburg). Alla fine però a pubblicarlo, su licenza di Wild! Entertainment, è la 909 Records.

Extra Wild!La “resurrezione” di Wild! Entertainment, Extra Wild!
“Bon-Go-Tronik” dei Bra.Sa chiude l’attività di Wild! Entertainment ad inizio 2002. Alla fine di marzo di quell’anno però Raffaela Travisano gira tra gli stand del SIB di Rimini, allestiti nel nuovo complesso fieristico, consegnando agli addetti ai lavori le copie promozionali di un disco che inaugura la sua nuova etichetta nata dalle ceneri della precedente, la Extra Wild!. Distribuita da Hitland, Extra Wild! muove il primo passo con “O” di DJ Scot Project, licenziato dalla Overdose e per l’occasione remixato da Paola Peroni alias Miss Groovy. Segue “The Moon Loves The Sun EP” di The Moon Feat. Nu NRG, oggi ricercato dai fan della musica di Andrea Ribeca e Giuseppe Ottaviani. Con una vocazione saldamente ancorata alla trance, Extra Wild! pubblica “Marinero” di Angelic Touchdown, trainato dalla versione dei citati Nu NRG. Poi tocca a “Believe” dei Sunblind, team in cui armeggiano gli stessi membri dei Driver Project. Nel 2003 è tempo dell’hardstyle di “Gamera” degli ARA (acronimo dei nomi degli autori, Alberto Remondini, Roberto Pagliarini ed Andrea Guccini), di “Superbitch” di Miss Loony, del “Wild Rockaz EP” dei Wild Rockaz con un remix dei Junk Project, di “Faith” di Marc Mally e “Deep Space” di Deep Space Project, un act diretto dal prolifico Andreas Krämer. Nel 2004, sui titoli di coda, esce “U Know Y” di Moguai a cui fa seguito la re-release di “Marinero” di Angelic Touchdown: a mettere le mani su entrambi sono i romani Bismark e Stefano Di Carlo.

La testimonianza di Raffaela Travisano

Raffaela Travisano, ancora bambina, balla col papà ad un matrimonio

Quali artisti e musiche hanno segnato la tua infanzia ed adolescenza? C’è stato un momento preciso in cui scopristi la dance?
La musica è da sempre una componente fondamentale della mia vita. A casa ad Homberg (Ohm), in Germania, ne ascoltavamo tantissima, soprattutto quella italiana di Gigliola Cinquetti e Lucio Battisti oltre a tutti i cantanti dello Schlager come Caterina Valente. Quando avevo cinque anni mio padre mi portò ad un matrimonio dove ballai sino alle due di notte: fu il mio primo “rave”! Poi, all’età di nove anni, ci trasferimmo a Bad Nauheim, vicino Friedberg, dove Elvis Presley prestò il servizio militare. Lì scoprii la radio, Radio AFN per la precisione, che trasmetteva solo musica americana per gli statunitensi che vivevano in Germania. Fu amore a primo ascolto. In seguito conobbi un ragazzo che faceva il DJ. Grazie ai suoi amici americani, riusciva ad avere tantissimi dischi importati direttamente dagli States che poi metteva nei club. Così scoprii pezzi come “Just Be Good To Me” della S.O.S. Band ed “Everybody” di Madonna, quando davvero in pochi sapevano chi fosse. Quei due brani rappresentarono l’inizio del mio rapporto con la dance. A tal proposito però vorrei raccontare un altro episodio accaduto durante la gioventù. La mia famiglia gestiva un ristorante e un giorno una cliente avanzò la proposta di produrre un disco per me. Mi fece registrare una cassetta destinata a Frank Farian, notissimo perché dietro progetti come Boney M. e Milli Vanilli e che aveva lo studio ad appena dieci chilometri da casa mia. Avevo solo sedici anni, ero piuttosto carina ed anche intonata. Dopo aver ascoltato il demo, Farian era intenzionato a produrre un mio disco. Tuttavia avrei dovuto partecipare prima a dei contest presso gli hotel della catena Steigenberger ma fui subito rassicurata, il team sosteneva che avrei vinto di sicuro. Tutto questo però non piacque a mio padre e fui costretta ad abbandonare l’idea di intraprendere la carriera da artista. Ma la mia storia con la musica non sarebbe finita lì.

Nel 1992 inizi a lavorare per la CBS del gruppo Sony. In che modo cominciò la collaborazione con quell’azienda?
Fu un passo veramente importante nella mia vita. Finita la scuola, trascorsi un anno in Gran Bretagna e poi tornai in Germania dedicandomi al 100% alla vita notturna. Andavo a ballare tutti i giorni della settimana frequentando locali come il Vogue di Francoforte, dove suonavano Sven Väth e il mio caro amico Pascal F.E.O.S. recentemente scomparso, ma anche l’Omen, il Dorian Gray, l’XS Club o il Plastik. Entravo ovunque gratis ed avevo amici in consolle e al bar. Il periodo sabbatico era però giunto alla fine e i miei genitori iniziarono a pressarmi affinché trovassi un lavoro. Fui assunta come segretaria bilingue presso un’agenzia. Quell’occupazione mi portò alla CBS dove mi ingaggiarono per sei mesi. Mi innamorai totalmente di quell’ambiente occupandomi di assistenza nel settore della distribuzione.

Raffaela Travisano e Faris Al-Hassoni, co-fondatore della Drizzly, immortalati presso lo stand allestito in occasione del Midem di Cannes (199x)

A seguire entri a far parte di una delle distribuzioni tedesche più importanti, la Discomania, curando nello specifico la Drizzly Records. Come e cosa ricordi di quel periodo?
Discomania fu il mio grande amore. Lì incontrai i grandi Christian Fehlau ed Uwe Kohlwes, i fondatori nonché i miei due capi. Fehlau, in particolare, mi prese a cuore e divenne presto il mio mentore. Discomania mi diede la possibilità di entrare in contatto con tantissimi DJ e produttori, nazionali ed internazionali. Tra quelli c’erano Tom Novy, che veniva lì a prendere il materiale per rifornire il negozio di dischi che gestiva a Monaco, e Steffen Charles, anche lui titolare di negozi di dischi e poi creatore del Time Warp. Ma ne potrei menzionare davvero tanti altri, come il compianto William Röttger del Mayday e Love Parade, John Acquaviva e Kerri Chandler. Molti di quei personaggi poi venivano a mangiare nel ristorante della mia famiglia. Una volta Chandler, dopo cena, si ubriacò con un liquore al sambuco al punto da non riuscire a svolgere la serata in una discoteca a Francoforte! Dopo tre anni cominciai ad occuparmi della Drizzly Records, una delle tantissime etichette distribuite da Discomania. Faris Al-Hassoni e Volker Diehl, i fondatori, mi vollero come label manager. Da lì a breve avrei stretto amicizia con Timo Maas e tanti altri che insieme alle demo incise su cassetta mi mandavano pure “sigarette speciali” in regalo.

Come vedevi la scena italiana vivendo in Germania? C’erano professionisti, tra manager discografici, produttori o artisti, che stimavi in particolar modo?
Lavorando con Discomania, ai tempi il distributore di musica dance più importante in Germania, entrai inevitabilmente in contatto col mondo italiano. Ogni settimana arrivavano scatoloni da grossisti come Discomagic, Dig It International e Flying Records, e in occasione di eventi come il Midem a Cannes o il Popkomm a Colonia, conobbi tanti bravi discografici italiani. Erano anni davvero magici. Nel 1996 Jens Thele, fondatore della Kontor e all’epoca A&R della Motor, mi chiese quale sarebbe stato, a mio parere, il Paese-chiave per la dance di quell’anno. Gli risposi, senza tergiversare, «l’Italia caro, l’Italia!». Lui aveva incontrato da poco Joe T. Vannelli e tornò in Germania con “Children” di Robert Miles.

Dal 1997 al 2000 sei al timone della More Music Italy sotto il cui ombrello operano quattro label che si affermano con varie hit (su tutte quelle di Paul van Dyk, ATB, Run From Run-DMC Feat. Justine Simmons, Huff & Herb, e Blank & Jones) ma non mancano pezzi destinati ai club specializzati come “Driving In My Soul” di Harley & Muscle Featuring Jimi Polo, “Feel It” di DJ Pippi, “Sunshine Hotel” di Jamie Lewis & Nick Morris, “Moonflight” di Green Court e “Welcome To The Dance” di Des Mitchell. Come fu quel triennio?
Nel 1996, lavorando ancora per la Drizzly, venni in Italia in occasione di un evento chiamato Nightwave che si svolgeva negli stessi giorni del SIB. C’erano tanti addetti ai lavori tedeschi tra cui Boris Dlugosch, e ci ritrovammo tutti al Grand Hotel di Riccione. Tornai col cuore pieno di amore per l’Italia ma pure con le tasche colme di cassette di musica inedita realizzata da Alex Picciafuochi e dalla coppia Harley & Muscle che mi fu segnalata da Costantino ‘Mixmaster’ Padovano. Pubblicai presto su Drizzly l’EP di Picciafuochi, che ai tempi si firmava Rainbox, (il “Wise Advise EP”, nda) e fu un bel colpo perché da lì a breve lo licenziai alla Massive Drive Recordings del gruppo olandese Mid-Town Records. Harley & Muscle invece finirono sulla Real Groove, etichetta house della Drizzly. Le cose però in Germania stavano iniziando a cambiare. Dopo ben trentotto anni i miei genitori decisero di tornare in Italia lasciandomi sola così, complice una stagione estiva non andata per il verso giusto, ripresi in considerazione una proposta di lavoro che avevo precedentemente scartato. Il primo settembre del ’97 ero al 24 di Viale Regina Giovanna, a Milano, per inaugurare ufficialmente la More Music Italy. Credo di essere stata la prima donna ad aver ricoperto tale ruolo in Italia, perlomeno nella dance. Importai inoltre quello che oggi è detto smart working visto che lavoravo da casa. Durante quei tre anni crebbi professionalmente imparando tante lezioni e conoscendo meglio la mentalità italiana. Credo che il flusso della mia creatività abbia portato un piacevole vento fresco nell’ambiente discografico dello Stivale. C’era un’altra faccia della medaglia però, fatta di tradimenti e slealtà.

Uno dei primi advertising della Wild! Entertainment (settembre 2000)

Quali ragioni ti spinsero, nel 2000, a lasciare la More Music Italy, da quel momento affidata a Susanna Scrocchia, per fondare la Wild! Entertainment?
Le motivazioni erano quelle a cui facevo riferimento poco fa e che ormai non fanno più parte del mio vocabolario. Diciamo che i miei soci, Elmar ed Ufuk, non furono particolarmente trasparenti nella gestione dell’azienda e alla fine i conti non tornavano. A ciò si aggiunse pure una serie di situazioni spiacevoli che mi convinsero a mollare e proseguire da sola, mettendo in guardia la cara Susanna. Alla fine comunque la scatola si rivelò vuota senza di me, anche perché mi seguirono tutti gli artisti senza pensarci due volte, tranne alcuni italiani. Con Elmar ed Ufuk chiarimmo anni dopo e su quell’avventura ho messo una bella croce imparando però tantissimo, sia in merito alla sfera privata che quella lavorativa. Non fui l’unica ad aver avuto problemi: Willy Ehmann, importante discografico tedesco che lavorava per Sony, aprì la V2 a Milano e mi confidò che gli anni vissuti nel capoluogo lombardo restano i più difficili della sua vita. Comunque rammento anche bei momenti come quelli vissuti in Self quando creammo una bella “famiglia allargata”.

In questa intervista pubblicata su Future Style nel 2000, Alexandra Shank ti chiese quali siano state le difficoltà incontrate in quanto donna. La tua risposta lasciò intendere che un certo maschilismo nel settore discografico italiano c’era. Rimarcasti il concetto l’anno seguente in quest’altra intervista a cura di Gianni Bragante edita dal medesimo magazine. A venti anni di distanza, ritieni che le cose siano mutate? Cosa voleva dire occuparsi di discografia dance negli anni Novanta per una donna?
Grazie a Dio non mi sono mai capitate cose gravi come purtroppo avvenuto ad altre donne. Sono stata sempre abbastanza coraggiosa e fiduciosa delle mie capacità, nel lavoro sapevo cosa e come fare giocando pure col mio sex appeal, ma non nascondo di aver ricevuto tantissimi commenti sessisti e manomorte da cui mi sono sempre difesa. Oggi certi “uomini” presterebbero molta più attenzione. Se allora fosse esistito un movimento come #MeToo non si sarebbero mai permessi di palpeggiarmi il fondoschiena o il seno. Non ho dimenticato ciò che un tizio disse dopo che un brano di ATB venne promosso Disc’ O Clock su Radio DeeJay: a suo dire, quel risultato lo raggiunsi accattivandomi sessualmente le simpatie di Albertino. Adesso esistono tante associazioni per difendere le donne ma all’epoca era una vera sfida. Nel 2017 sono stata scelta tra sessanta donne di sei Paesi per prendere parte al programma Keychange e partecipare a vari convegni internazionali. Inoltre faccio parte di Shesaid.so (che esiste pure in Italia dal 2018), piattaforma che si batte per l’equità e contro le discriminazioni sessuali nel music business.

La nascita di Wild! Entertainment, come si legge in un articolo di Riccardo Sada pubblicato dalla rivista Jocks Mag a giugno 2000, viene solennizzata il primo maggio di quell’anno, al 6 di Via Lepanto, a Milano. C’era una ragione dietro la scelta del nome?
Quando mi accorsi che il mondo della discografia fosse veramente selvaggio, Wild mi sembrò il nome più appropriato da usare. Il termine Entertainment invece lo aggiunsi proprio su suggerimento dell’amico giornalista Riccardo Sada.

Raffaela Travisano insieme a Paul van Dyk e Daniele ‘Dany T’ Tramontano della Global Net in una foto scattata presumibilmente nel 2001

Wild! Entertainment parte col piede giusto contando su nomi granitici della scena trance tedesca come Paul van Dyk, Blank & Jones ed ATB, ma non trascurando i nuovi talenti come Nino Lopez Project. Sul 12″ di “E-Xperience” è incisa una Album Version che lascia ipotizzare l’uscita di un LP, cosa che però non avvenne. Come mai?
È difficile ricordarlo a distanza di così tanto tempo. Forse ero già nel pieno del mio stress lavorativo che mi mise per quattro anni fuori strada? Oggi si parla tantissimo di salute mentale ma ai tempi in pochi avevano il coraggio di pronunciare la parola “depressione”. Io sono riuscita ad uscirne dopo ben quattro anni, anche grazie all’amore dei miei genitori, ma tanti altri che hanno vissuto il mio stesso dramma, come Avicii ad esempio, non sono stati abbastanza forti.

Dal 2000 stringi una collaborazione con Tony H e RIN – Radio Italia Network, a detta di molti l’ultimo baluardo radiofonico italiano a supportare la musica della club culture. La radio, ai tempi, può ancora influenzare sensibilmente i gusti dei giovani con risultati apprezzabili anche in discografia. Oggi invece? La radio ha perso definitivamente quel ruolo diventando schiava del web?
Avevo avuto modo di collaborare con Italia Network già nel 1994, quando conobbi Andrea Pellizzari e Christian Hornbostel. Quest’ultimo, un paio di anni dopo, mi presentò il direttore dell’emittente, Michele Menegon (intervistato qui, nda). Tony H era un grande e con Vitamina H provò a fare cose nuove per la dance ma poi, come tanti altri, fu costretto ad adattarsi alle regole dettate dall’alto. La radio non è morta e credo che oggi sia ancora fondamentale per la commercializzazione della musica, ma solo se combinata con app tipo Shazam. I passaggi in tv o in radio, che siano regionali o nazionali, fanno ancora “vendere” in qualche modo.

Perché Wild! Entertainment si ferma dopo circa venti pubblicazioni?
Il colpo di grazia giunse quando firmai l’accordo per “The Politics Of Dancing” di Paul van Dyk ed investii gli ultimi venticinque milioni di lire in un pacchetto promozionale con la radio. Purtroppo i risultati di quell’uscita furono disastrosi anche a causa dei distributori che preferirono comprare la versione import, su Ministry Of Sound. Ero totalmente schifata e nauseata ed iniziai a non reggere più lo stress.

Nella primavera del 2002 però dalle ceneri di Wild! Entertainment nasce Extra Wild!, spalleggiata da un nuovo distributore, la Hitland con cui peraltro avevi già collaborato, ma ormai privata di quei nomi stellari con cui avevi fatto breccia sin dai tempi della More Music Italy. Con quali intenti lanciasti la nuova etichetta, connessa alla prima dal nome?
Cercai in qualche modo di andare avanti anche perché tantissimi produttori continuavano a mandarmi la loro musica. Ricominciai quindi con Matteo Lombardoni della Hitland, affiancato dal papà Severo a cui volevo un sacco di bene. Proprio Severo mi mise in guardia, quando lavoravo ancora in Discomania, dicendomi che non avevo idea di cosa fossero capaci di fare gli addetti ai lavori. Aveva ragione.

Perché la trance non è mai riuscita ad attecchire del tutto in Italia?
Credo che i risultati raccolti siano stati già fin troppo notevoli. Quando mi presentai in Self con “9 PM (Till I Come)” di ATB ne volevano stampare solo cinquecento copie. «Lo facciamo perché ci stai simpatica» dissero.

La parabola operativa di Extra Wild! si conclude nel 2004, anno in cui la digitalizzazione inizia a far sentire pesantemente la propria presenza. Fu quella la ragione per cui non andasti più avanti?
Come ho accennato prima, ormai soffrivo da tempo di una forte depressione che mi teneva a letto anche per mesi interi. Ogni volta che ritrovavo le energie la musica mi chiamava ma le cose non andavano bene ed arrivai persino a litigare con Paul van Dyk. Non avevo più una vita sociale e non trovavo un senso a ciò che mi stesse accadendo. Furono seri motivi di salute quindi a farmi allontanare dal settore.

Dopo qualche tempo entri nell’organico di Deeep, azienda specializzata in servizi e distribuzione di prodotti digitali. Chi e cosa ti fece tornare la voglia di occuparti di musica?
In radio passavano canzoni lanciate da me, alcune pubblicità in televisione erano sincronizzate su brani del mio catalogo (ma con accordi chiusi da altri), in alcune foto scattate in consolle vidi gli slipmate della Blue Orange che avevo creato io qualche anno prima: era tempo di tornare alla vita normale e a fare quello che più mi piaceva. Il 4 luglio del 2005 così si aprì una nuova fase della mia vita. Telefonai ad Errol Rennalls della Peppermint Jam per chiedere aiuto e dopo un periodo trascorso in Germania, tornai in Italia come country manager della Deeep, lavorando in un bellissimo ufficio a Riccione nel 2008. Poi dal 2009 al 2013 ho lavorato come A&R director per Believe.

Raffaela Travisano coi Milky Chance

Nel 2013 fondi Surya Musica che si fa presto notare con un paio di hit, “I See You” dei Jutty Ranx e “Stolen Dance” dei Milky Chance. I successi degli anni che viviamo riescono a generare, economicamente ma soprattutto emotivamente, gli stessi risultati di quelli di due o tre decenni fa?
Aprire Surya Musica per me è stato molto di più di inaugurare una semplice etichetta discografica. Rappresentava il mio riscatto, dopo la fine della Wild! Entertainment che mi portò tanta ansia ed innumerevoli notti insonni, oltre a simboleggiare la mia trasformazione come persona e, nel contempo, il mutamento della vendita di musica. Guardandomi indietro mi sono resa conto però di essere entrata in contatto col digitale già parecchio tempo fa, ad un Amsterdam Dance Event, nei primissimi anni Duemila, quando venne presentato Beatport. Ci diedero due fogli con codici FTP per accedere a caselle dove figurava il primo cliente, la Kontor. Dissero che quello sarebbe stato il nuovo modo di vendere la musica ma c’era ancora un forte scetticismo. Come si potevano fare i rendiconti? E come si capiva cosa era stato venduto, e dove? Di incognite ne esistevano davvero tante ma non avevo timore del nuovo. Del resto in Italia ero iscritta a Vitaminic. Lavorando nel campo del digitale dal 2005, sono stata in contatto con veri esperti del settore. Helge, il mio ex capo, era ferratissimo nel campo e Denis, responsabile di Believe, lo considero un pioniere dell’era digitale. Ho seguito tantissime conferenze e resto dell’opinione che la musica sarà sempre più ridotta ad una sorta di accessorio per accedere a pubblicità e sincronizzazioni di vario genere. La musica fornisce ancora emozioni con cui le cose possono essere vendute meglio. Gli introiti più sostanziosi vengono dagli spettacoli dal vivo, adesso sospesi purtroppo a causa del coronavirus, ma è bene essere chiari: oggi puoi vivere di musica solo se sei un artista ad un certo livello.

Ritieni che Spotify stia remando a favore o contro gli artisti?
Spotify è uno dei player con cui gli artisti oggi si fanno promozione. Chi ci guadagna in primis, però, è Spotify. iTunes invece è morto, ma a dirla tutta pure durante i suoi anni migliori non ha mai rappresentato una fonte di guadagno. Se c’è una hit gli incassi ci sono ma derivano dalle fonti “tecniche” come la licenza SCF, pubblicità, SIAE e diritti connessi.

È opinione ormai comune sostenere che la creatività nella dance (in tutte le sue salse) si sia progressivamente smorzata, alimentando una lista infinita di materiale derivativo. Sei dello stesso avviso?
Per me la dance ormai è giunta al livello massimo di saturazione. Ricordo di essermi imbattuta in una statistica in merito all’esaurimento di tutte le possibili combinazioni armoniche e melodiche avvenuta nel 1999. Quindi, se quello studio fosse vero ed attendibile, come credo sia, da oltre vent’anni ascoltiamo solo ripetizioni. Forse per questa ragione Prince scrisse “1999” già nel 1982?

Raffaela Travisano e Jan Blomqvist in una foto scattata a Bari nel 2014

Di cosa ti occupi al momento?
Gestisco il management di due ragazze molto in gamba, Laurence Matte e Duchess, e curo la promozione in Italia di “Drivin Thru The Night” di Petit Biscuit, un pezzo che ha già ottenuto passaggi su Radio DeeJay, RTL 102.5 e Radio Monte Carlo. Nel contempo proseguo la collaborazione con Billboard Italia e con Jan Blomqvist che a mio avviso è davvero bravo e talentuoso.

Sei rimasta in contatto con gli artisti del roster della Wild! Entertainment?
Sono rimasta in contatto con tutti coloro che ne avevano voglia. L’anno scorso, in occasione dei DJ Awards ad Ibiza, ho rivisto Paul van Dyk: ci siamo riabbracciati dopo ben diciassette anni. Anche per lui, del resto, è stato un periodo difficile, e il nostro riavvicinamento ha chiuso finalmente il cerchio.

A sinistra la Travisano festeggia il suo compleanno con Timo Maas al Pikes di Ibiza nel 2019, a destra invece è in compagnia di John ‘Jellybean’ Benitez, Tuccillo ed Arthur Baker in una foto scattata presso l’Heart Club, sempre a Ibiza, nel 2018

Cosa pensi della trance odierna?
Ormai è diventata EDM! (risate, nda)

Ti porti dietro qualche rimpianto?
No, perché non si vive di rimpianti.

Quali errori non commetteresti più?
Non ci sono errori ma solo lezioni che impari vivendo.

(Giosuè Impellizzeri)

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Two Cowboys – Everybody Gonfi-Gon (Welcome)

Two Cowboys - Everybody Gonfi-GonCome raccontato in plurime occasioni nei libri della trilogia di Decadance ed anche su queste pagine virtuali, tanti artisti che si sono distinti negli anni Novanta cominciano la loro avventura già nel decennio precedente. È il caso di Roberto Gallo Salsotto che debutta nel mondo discografico nel 1986 quando incide, per l’Ibiza Records di Claudio Cecchetto, “Different Generation” di Toyboys, un progetto condiviso col fratello Enzo nato sulle coordinate più pop dell’italo disco e per cui viene girato anche un videoclip. «Intorno alla metà del dicembre 1985 ci presentammo a Radio DeeJay con una cassetta con su inciso il provino (in realtà una versione quasi definitiva) di “Different Generation”» racconta oggi il compositore. «Parlammo con l’allora direttore artistico, Massimo Carpani, che pur trovando il brano interessante ci congedò con un classico “vi faremo sapere”. Tre giorni dopo fummo convocati da Cecchetto nel suo studio: entusiasta del pezzo, aveva già deciso nome del progetto, copertina del disco e look. A metà gennaio ’86 entrammo nel Rimini Studio per rifare il master ed arricchire la produzione con l’ausilio di un arrangiatore, Marco Sabiu. A maggio venne pubblicato il singolo che, contemporaneamente, fu utilizzato come sigla estiva del famoso programma televisivo trasmesso da Italia 1, DeeJay Television. Arrivammo a Cecchetto senza alcun background, fu quella la nostra prima esperienza discografica. Fortunatamente lui badava al sodo e non a chi eri o da dove venivi. Successivamente ci fu chiesto di lavorare ad un album. Cominciammo a scrivere alcuni pezzi ma qualche mese dopo, purtroppo, Cecchetto decise di “vendere” i contratti di tutti i suoi artisti (Sandy Marton, Tracy Spencer, Taffy, Via Verdi, Tipinifini etc) a varie major, si dice per problemi di tipo finanziario. A noi toccò la CGD, nota etichetta specializzata in musica italiana che però aveva ben poco a che fare col nostro genere. Per tale ragione rescindemmo il contratto nel 1987 e quella bella avventura finì».

Toyboys, Kris Tallow
Le prime produzioni dei fratelli Gallo Salsotto: in alto “Different Generation” di Toyboys, in basso “Emotions Game” di Kris Tallow

I fratelli Gallo Salsotto non demordono. Proprio nel 1987, per la Rolls Record, realizzano “Emotion’s Game” di Kris Tallow (ironica inglesizzazione in scia a Den Harrow, Joe Yellow o Jock Hattle) oggi diventata una rarità sul mercato del collezionismo. L’italo disco però è ormai quasi al capolinea. Il brano, realizzato presso lo studio di Bruno Palumbo, raccoglie un discreto successo in Francia, ma è l’ultimo che i fratelli incidono insieme, sospendendo la collaborazione per circa un decennio. Roberto insiste con la musica dance e negli anni Novanta produce brani filo house (“Inside My Brain” di Colored, “Read My Lips” di People In Town e “Burn In His Hands” di P. Lion). Poi, con l’arrivo della prima ondata italodance, sforna insieme a Max Boscolo, Gianni Drigo e Maurizio Braccagni, i tre singoli di Dynamic Base, “Africa”, con una citazione di “New Year’s Day” degli U2, “Make Me Wonder”, con le chitarre di “Ghostdancing” dei Simple Minds, ed “All Of My Life”. In Italia sta per esplodere il fenomeno dance insieme ad un non trascurabile indotto legato alle radio, alle performance in discoteca e alle migliaia di compilation immesse settimanalmente sul mercato. «Dopo l’uscita di Kris Tallow passò qualche anno prima che tornassi a pubblicare musica perché dovetti imparare a produrre da solo visto che era molto difficile trovare etichette disposte ad investire sulla realizzazione di progetti. Era consuetudine delle label infatti acquisire brani già finiti e pronti per la stampa» prosegue Salsotto. «Nel periodo che va dal ’91 al ’93 le tendenze cambiavano di continuo, era essenziale produrre velocemente, prima che quei suoni passassero di moda. L’indotto prima citato, molto importante, era però riservato ai brani dei pochi “eletti” che passavano in radio, una su tutte Radio DeeJay e in particolare nel DeeJay Time di Albertino che, di fatto, condizionò pesantemente l’intero mercato discografico italiano. I dischi si vendevano ancora quindi se eri in grado di lavorare bene, qualcosa riuscivi sempre a portarla a casa».

Nel 1994 Roberto Gallo Salsotto stringe una partnership col citato Maurizio Braccagni che si rivela proficua e genera un vero fiume di pubblicazioni, più e meno note. «A presentarci furono i titolari della Dancework, Fabrizio Gatto e Claudio Ridolfi, etichetta con cui lavoravo già da diverso tempo» spiega a tal proposito il compositore. «Braccagni cercava qualcuno che avesse uno studio di registrazione per realizzare vari progetti. Durante i primi tempi lavoravamo insieme nel mio studio ma mi accorsi che in lui crescesse la voglia di indipendenza. Avevamo stili differenti e spesso le mie scelte, seppur da lui avallate, non lo rappresentavano pienamente. Poco tempo dopo infatti aprì un suo studio e cominciammo a lavorare separatamente su progetti condivisi. Ognuno, insomma, elaborava le proprie versioni e da quando adottammo questo metodo le differenze stilistiche a cui facevo riferimento divennero piuttosto evidenti». Tra le produzioni più fortunate nate sull’asse Braccagni/Salsotto c’è “Everybody Gonfi Gon” di Two Cowboys, apparsa nel 1994 sulla Welcome del gruppo Dancework. Registrato presso lo Stockhouse Studio di Salsotto, a Muggiò, a pochi chilometri da Monza, il brano gira su festose atmosfere country, rimarcate dalla grafica in copertina, che pochi mesi dopo vengono traghettate nuovamente nella dance dagli svedesi Rednex nella fortunata “Cotton Eye Joe”, dai britannici Grid dell’ex Soft Cell Dave Ball in “Swamp Thing” (preceduto da “Texas Cowboys” del ’93 già parzialmente immerso in quella salsa) e dal team bresciano DJ Creator nella meno nota “Talk About”. A dirla tutta, quell’accoppiata stilistica è già stata testata nelle discoteche nel 1992, ma senza particolari riscontri, attraverso “Mu-Sika” di Lost Tribe, un progetto in cui c’è lo zampino di Albertino. «”Everybody Gonfi Gon” fu il primo disco con cui io e Braccagni riuscimmo nell’impresa di arrivare alla quinta posizione della classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito» rammenta con comprensibile orgoglio Salsotto. «Partecipammo in prima persona, nelle vesti di artisti, ad importanti manifestazioni d’oltremanica, su tutte quella ad Hyde Park, a Londra, dove si tenne un evento paragonabile al nostro Festivalbar, e Top Of The Pops, in televisione. Finalmente anche per noi si prospettò la possibilità di entrare tra gli “eletti” a cui accennavo prima. Non avremmo potuto sognare un esordio migliore di quello. Realizzammo il pezzo di getto in appena ventiquattro ore (l’indomani curammo solo le rifiniture). Maurizio mi portò un disco promozionale spagnolo sconosciuto che conteneva un giro di violino in chiave western. Lui sosteneva che fosse fortissimo e che avremmo dovuto rifarlo con una base più “tamarra”. Una volta accesi gli strumenti fu facile perché, in effetti, quel giro di violino richiamò da solo i giusti arrangiamenti. Braccagni aveva proprio ragione sulle sensazioni provate sentendo quel violino. Il resto è storia. Gli strumenti che utilizzammo all’epoca erano due campionatori Akai S1000, sintetizzatori Roland JV-1080, Oberheim Matrix 1000, Korg 03R/W e qualche expander di minor importanza, oltre ad un registratore digitale a quattro tracce per i master, un Akai DR4. Il tutto pilotato dal noto Atari ST Mega 4 e il software Cubase che utilizzo ancora oggi».

“Everybody Gonfi Gon” diventa un successo internazionale, trainato da un videoclip e licenziato in buona parte d’Europa ma pure in Messico, Giappone ed Australia. Il clima euforico però, come accennato proprio da Gallo Salsotto nell’intervista finita in Decadance Appendix, viene rovinato da una battaglia legale andata avanti per quasi un decennio, mossa dall’etichetta iberica Clik, detentrice dei diritti del poco noto “Western (Everybody Go See Go)” di Falkon Krest, a cui i due italiani si ispirano campionando il giro di violino e il breve hook vocale da cui deriva il titolo foneticamente simile. «A gestire internazionalmente il disco fu la major britannica London Records» spiega Salsotto. «Arrivare così in alto nella UK sales chart fece da volano al lancio in molti altri Paesi. Vendette davvero tanto ma non sono in grado di fornire numeri ufficiali perché, nonostante la valanga di 12″ e compilation sparse per il mondo, non abbiamo mai avuto accesso ai rendiconti per motivi di carattere legale. Citati in giudizio per plagio per quel giro di violino che, ahimè, non ci apparteneva, non potemmo beneficiare dei proventi generati dal successo di “Everybody Gonfi Gon”. Perdemmo clamorosamente la causa civile, durata ben otto anni, e gli incassi andarono agli autori originali. Provammo a trovare un accordo con la controparte ma non ci riuscimmo. Comunque, nonostante ciò, per noi “Everybody Gonfi-Gon” rappresentò un importante trampolino di lancio per lavorare ad alti livelli. Realizzammo un secondo singolo di Two Cowboys, sfruttando un nuovo giro di violino questa volta originale, ma non vide mai luce a causa del parere negativo espresso della London Records, contraria ad usare ancora quello strumento. La previsione si rivelò sbagliata visto che poco tempo dopo arrivarono i Rednex con “Cotton Eye Joe”. Sfruttando la nostra idea, gli svedesi ricavarono un successo mondiale ben superiore a quello dei Two Cowboys.

New Atlantic - The Sunshine After The Rain
Il nome Two Cowboys torna per un fortunatissimo remix che trasforma “The Sunshine After The Rain” dei New Atlantic in una hit europea

Non riuscendo a bissare il risultato, decidemmo di non utilizzare più quel nome riprendendolo solo su espressa volontà della 3 Beat Records di Liverpool per “marchiare” la realizzazione del remix del brano “The Sunshine After The Rain” di New Atlantic Feat. Berri. Quella versione (costruita su un basso di moroderiana memoria ed usata anche per il videoclip, nda) la produssi da solo ma poiché il nome Two Cowboys era di proprietà congiunta con Maurizio, lui venne coinvolto comunque nei crediti. Il risultato fu clamoroso e il pezzo finì nella top ten britannica. Ricevetti dalla 3 Beat pure una targa che certificava il raggiungimento di 120.000 copie vendute solo oltremanica, targa che ho appeso orgogliosamente nel mio studio. Di Two Cowboys restano altri remix (“All I Need Is Love” di Indiana, di cui parliamo qui, “Dance The Night Away” di Nina, nda) prodotti quando lanciammo il duo di produzione MBRG (acronimo delle nostre iniziali) lavorando a svariati progetti di seconda fascia pubblicati da Discomagic e moltissimi remix per la Energy Production per artisti come J.K. e Whigfield».

DJ Dado - X-Files
“X-Files” di DJ Dado, pubblicato dalla Subway nel 1996, è il primo brano di DJ Dado a raccogliere successo dopo vari singoli passati inosservati

Ancor prima di creare Two Cowboys, di cui viene annunciato un nuovo singolo, mai uscito, a dicembre ’95, Salsotto avvia un’altra collaborazione destinata a lasciare il segno nella pop dance degli anni Novanta, quella con DJ Dado che affianca sin dal disco d’esordio, “Peace & Unity” del 1993. Inizialmente l’Italia pare non essere particolarmente interessata (pezzi come “The Same” e “Face It” passano del tutto inosservati) ma con “X-Files”, cover dell’omonimo di Mark Snow composto per la celebre serie televisiva, cambia tutto. Da quel momento per DJ Dado si apre una stagione più che fortunata costellata di successi come “Metropolis (The Legend Of Babel)” (remake dell’omonimo di Giorgio Moroder scritto per la versione del 1984 del film “Metropolis” di Fritz Lang), “Revenge” o la reinterpretazione di “Shine On You Crazy Diamond” dei Pink Floyd che confluisce nella sigla DD Pink. Senza omettere sia la lunghissima lista di remix (da Molella ad Alexia, da Bibi Schön a Datura passando per Jean-Michel Jarre, Vasco Rossi e Boy George che, con “When Will You Learn” si aggiudica la nomination ai Grammy Awards per la miglior registrazione di musica dance), sia la deviazione pop partita nel 1997 con “Coming Back” e proseguita con “Give Me Love” e “Forever”, cantati da Michelle Weeks, e “Ready Or Not” in coppia con Simone Jay. «Nei primi anni Novanta ero particolarmente attivo, nonostante dividessi il tempo tra un lavoro full time in un negozio di hi-fi/video (lasciato nel ’94 per dedicarmi esclusivamente alla produzione discografica) e l’attività in studio effettuata solo durante le ore notturne» racconta ancora Salsotto. «Realizzavo, prevalentemente da solo, molte produzioni e tra quelle ne destinai alcune ad un progetto che un mio caro amico voleva proporre al titolare di un negozio di dischi di Viale Monza, a Milano, un tal Flavio D’Addato. Ai tempi D’Addato cercava qualcuno che gli realizzasse dei dischi su cui potesse apporre il proprio nome in copertina. Fu così che nacque il percorso artistico di DJ Dado. Ci volle qualche anno prima che arrivasse al successo che tutti conoscono, partendo da “Rhythm Of Pleasure” che firmò come Flavio Dado nel ’93. Solo nel 1996 la dea bendata bussò alla porta di questo progetto che, nonostante non avesse beneficiato della “spinta” di Albertino (che ad “X-Files” preferisce “The Truth” di Trinity, prodotta dal britannico Ian Anthony Stephens, nda) riuscì ad imporsi pesantemente in Italia e all’estero. Così, per il terzo anno di fila, fui capace di piazzare un singolo nella top ten del Regno Unito, dopo Two Cowboys del 1994 e New Atlantic del 1995, impresa quasi impossibile per un italiano. “X-Files” resta il disco che, a livello internazionale, ha dato maggiori soddisfazioni, almeno in termini numerici. In studio lavoravo sempre da solo, sia sulle produzioni che su tutti gli innumerevoli remix marchiati DJ Dado, eccezion fatta per i brani prodotti dal 1997 in poi che videro l’inserimento nel team di Charlie Aiello e Miki Giorgi, noti come Antiqua, che portarono a quel cambiamento di sonorità, più pop, sostenuto dalle voci di Michelle Weeks e Simone Jay. In merito alla gestione dei ruoli, io ho sempre curato interamente la parte musicale, D’Addato invece si occupava esclusivamente della parte gestionale del “brand”, oltre alla sua attività da DJ decollata ovviamente grazie al successo discografico. Senza voler urtare la sensibilità dei numerosi fan di DJ Dado che ora si chiederanno cosa facesse concretamente per “meritarsi” il successo ottenuto, ricordo che nel mondo della dance è stata una consuetudine produrre musica a cui dare successivamente un volto rappresentativo, quasi sempre diverso da chi realmente partecipava alla creazione della stessa. Mi vengono in mente Den Harrow negli anni Ottanta, Corona nei Novanta e Billy More nei Duemila, ma ne esistevano davvero tantissimi altri (e a tal proposito si rimanda a questo ampio reportage, nda). Nel 1999 decisi di interrompere la collaborazione con Flavio D’Addato per problemi interpersonali. Nonostante la notorietà raggiunta, volli ricominciare con altri progetti e nuove collaborazioni che, fortunatamente, non tardarono ad arrivare».

Fabrica, D.E.A.R.
Due produzioni che Gallo Salsotto realizza per la Dance Pool del gruppo Sony, Fabrica e D.E.A.R.

Un altro successo di Salsotto risalente agli anni Novanta è “I’m Missing You” di Fabrica, che strizza l’occhio ad “Offshore” di Chicane (ma una delle versioni, la Nothin’ But Mix, ammicca anche agli Everything But The Girl remixati da Todd Terry che quell’anno, il 1997, ispira pure Kortezman e Marascia per “Obsession” di Obsession, poi diventato ufficialmente un singolo di Chase). A pubblicare Fabrica è la Dance Pool del gruppo Sony, la stessa che l’anno dopo manda in stampa il follow-up “I Believe” e nel 1999 “Talk To Me” di D.E.A.R., interpretato da Melody Castellari. «Il progetto Fabrica sancì il ritorno alla collaborazione con mio fratello dopo oltre un decennio» spiega Salsotto. «”I’m Missing You” segnò anche la sinergia con una major che, assicuro, non era impresa facile. Nonostante avessi la fortuna di essere amico dell’A&R della Dance Pool, Mauro Bonasio, che certamente creò un vantaggio nell’approccio, arrivare a pubblicare un disco con Sony fu del tutto inaspettato e sorprendente. Ad un’etichetta indipendente ci si presentava col master confrontandosi direttamente con chi decideva mentre in una multinazionale c’era tutta una scala gerarchica da risalire, con visioni di mercato e metodologie di lavoro molto più complesse che purtroppo, nella maggior parte dei casi, non portavano a nulla di concreto. Alla luce di ciò, era più piacevole lavorare con le indipendenti seppur le major abbiano sempre rappresentato un punto di arrivo maggiormente prestigioso. Fortunatamente nella mia carriera ho lavorato sia con major che indipendenti».

Sals8 - Downtown
Con “Downtown” nel 2000 Roberto Gallo Salsotto esce allo scoperto nella veste di artista firmandosi Sals8

Il 2000 vede Salsotto ancora protagonista con Sally Can Dance (insieme ad Alessandro Viale, Davide Scarpulla ed Emanuele Cozzi alias Paps N Skar, con cui peraltro collabora a singoli di successo come “Turn Around”, “You Want My Love (Din Don Da Da)”, “Get It On” e “Loving You”), Dema-J, superEva, Billy More, 5 Elements e Souvenir D’Italie, giusto per citarne alcuni. Sono pure gli anni in cui decide, insieme al fratello, di uscire allo scoperto col cognome anagrafico dopo decine di fantasiosi pseudonimi, incidendo brani come “Downtown”, “No Time For Lies”, “No Control” e “Remains The Same”, in cui si registra la presenza di un’impronta eurotrance à la Alice Deejay. Fu un periodo di radicale trasformazione, non solo a livello stilistico ma anche (e soprattutto) tecnologico. In ambito musicale è rimesso praticamente tutto in discussione e l’Italia, a detta di tanti, pare si sia lasciata cogliere piuttosto impreparata. Svariate etichette e quasi tutti i distributori chiudono battenti, persino storiche emittenti cessano di esistere (su tutte Radio Italia Network) o prendono le distanze da quello che per anni era sembrato un filone aurifero inesauribile. Mentre le possibilità di rilancio si azzerano, la dance nostrana finisce col perdere appeal sul fronte internazionale e la seconda ondata italodance, specialmente quella che abbraccia i primi anni Duemila, non riesce a raccogliere gli stessi risultati di circa dieci anni prima quando detona l’italo house. Si era semplicemente chiuso un ciclo?

Salsotto oggi
Un recente scatto di Roberto Gallo Salsotto nel suo studio di registrazione

«Le difficoltà che la discografia mondiale stava per affrontare da lì a poco derivarono principalmente dalla carenza di nuove mode e sonorità, oltre che dalla trasformazione tecnologica in atto» sostiene Salsotto. «Alle nuove leve di produttori mancò l’educazione musicale che i precedenti decenni avevano dato invece a quelli della mia generazione. Scherzosamente amo definire i nati negli anni Ottanta come “vittime di Gigi D’Agostino”, artista talmente geniale ed unico da togliere spazio ed ispirazione ai ragazzi di quel periodo. Analizzando il sound pop dance italiano dal 2000 in poi, ci si imbatte in un genere nato dalla fusione dell’hands up tedesca, il basso in levare di D’Agostino ed una tarantella napoletana, il tutto sapientemente frullato dall’estro di personaggi come Gabry Ponte e i suoi “seguaci” che hanno dato vita all’italodance che per qualche tempo ha monopolizzato il mercato italiano (fortunatamente solo quello!). Unica e doverosa menzione spetta al grande Benny Benassi che riuscì ad esportare nel mondo un sound che nulla divideva con le “tarantelle”, filone di cui non sono mai stato un estimatore. In Europa, nel frattempo, i generi cambiavano, si spaziava dalla trance alla nuova eurodance (che ha anticipato l’EDM in stile Avicii) e alla techno commerciale dei dischi della Kontor, tutti splendidi prodotti che, salvo poche eccezioni di chi decise di importarli, da noi non trovarono spazio. Dopo la fine del sodalizio con DJ Dado, cominciai la stretta collaborazione con Alessandro Viale che a sua volta mi diede la possibilità di incrociare i destini di altri importanti compositori coi quali ho realizzato parecchie produzioni come Roby Santini (Billy More e Souvenir D’Italie), Davide Scarpulla ed Emanuele Cozzi (Paps N Skar, Sally Can Dance, D.E.A.R.). Con loro i risultati sono stati notevoli nonostante il periodo davvero irto di problemi. Parallelamente provai a fare musica con un taglio più internazionale con un progetto che per la prima volta portava il mio cognome in copertina, Sals8, ottenendo ottimi risultati in giro per il mondo tranne che in Italia. “Downtown”, ad esempio, fu particolarmente apprezzato in Francia e in Sud America. A quel punto tentai di internazionalizzare il sound di alcuni dischi, e a testimonianza ci sono le versioni che realizzai per “Love Is Love” e “Che Vuoto Che C’è” di Paps N Skar o il remix di “Looking 4 A Good Time” di Hotel Saint George intitolato Doccia Energizzante Tonificante. Il tentativo, seppur apprezzato, non sortì alcun effetto.

A questa penuria di offerta stilistica si aggiunse la vera mazzata portata da internet che in breve tempo cambiò la fruizione della musica in tutto il mondo. Con l’avvento delle linee ADSL, la diffusione del formato MP3, di Napster e di altri sistemi di file sharing che seguirono il medesimo modello dello scambio gratuito di musica tra soggetti privati, i prezzi più accessibili dei masterizzatori CD nonché la totale assenza di legislazioni atte a tutelare il comparto musicale, assistemmo in brevissimo tempo alla morte del supporto fisico (CD e soprattutto vinile), allo sgretolamento dei fatturati, al conseguente impoverimento dei budget stanziati per nuove produzioni, alla chiusura di molte etichette indipendenti e non, la fine di tanti negozi di dischi e, conseguentemente, dei distributori. Importanti programmi radiofonici, come il DeeJay Time e la DeeJay Parade, vennero sospesi ed alcune emittenti, come Italia Network e Discoradio, furono persino smantellate. Insomma, abbiamo assistito alla capitolazione di tutti coloro che facevano parte di questo comparto da cui è nata una spirale negativa che ancora oggi non si è interrotta. Penso che le responsabilità che hanno portato il music business a questo punto siano molteplici. Forse la scintilla che ha dato inizio al cambiamento la si deve ricercare nella nascita delle radio libere, nella seconda metà degli anni Settanta, e al loro esponenziale moltiplicarsi negli anni a venire. Prima, se volevi ascoltare il pezzo di un artista, dovevi comprare il suo disco alimentando il meccanismo. Con le radio invece non era più obbligatorio acquistare nulla se non un dispositivo hi-fi casalingo o portatile (su tutti il Walkman della Sony). Quello, a mio avviso, doveva essere considerato il primo campanello d’allarme su ciò che il futuro ci avrebbe riservato ossia un’offerta musicale che supera di gran lunga la domanda. In passato eravamo noi a cercare la musica, ora è lei che cerca noi, e le conseguenze le stiamo vivendo ormai da tempo».

In un quadro simile si fatica parecchio a trovare novità autentiche dal punto di vista creativo. Si ritiene ormai consolidato credere che di musica che si riascolterà volentieri tra qualche decennio ne esista sempre meno. «In ambito dance direi che nessuno stia facendo nulla di memorabile» afferma senza tergiversare Salsotto. «In tempi recenti, l’ultimo “fenomeno” in grado di lasciare un segno indelebile degno di entrare a far parte dei libri di storia è stato Avicii che, pur non avendo inventato nulla di nuovo, ha saputo modernizzare e plasmare a suo gusto uno stile riconoscibile e, visto il consenso mondiale ottenuto, direi unico. A causa di tutto quello che è avvenuto in questo settore, dal 2012 ho abbandonato la produzione discografica dance dedicandomi al pop/rock e siglando un ritorno alle mie origini musicali giovanili. Da un paio di anni a questa parte però curo corsi personalizzati per tutti coloro che vogliono apprendere nel minor tempo possibile l’arte della produzione di musica dance/elettronica, mettendo a disposizione i trucchi del mestiere appresi in tantissimi anni di fortunata carriera. Con questo impegno didattico consento agli allievi di saltare il superfluo ed andare dritti al sodo, risparmiando tempo ed energie» conclude il compositore. (Giosuè Impellizzeri)

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George Hysteric, il culto per l’italo disco in Australia

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George Hysteric, autentico patito dell’italo disco

Può esistere una connessione tra l’italo disco, genere ballabile nato in Italia circa quarant’anni fa che si è riscattato dall’oblio diventando un nuovo punto di riferimento anche per le nuove generazioni, e il continente dei canguri? Sì, a giudicare dall’operato di George Hysteric, profondo conoscitore della dance nostrana d’antan. Da autentico appassionato, setaccia in lungo e in largo lo sconfinato repertorio discografico lasciato dalle etichette un tempo operative nel nostro Paese scoprendo gemme dimenticate e riproponendole ad un pubblico eterogeneo anche attraverso una vivace attività creativa basata sul re-edit. L’obiettivo di personaggi come Hysteric non è attrarre folle di nostalgici con le hit nazionalpopolari bensì solleticare la curiosità mediante piccoli tesori sepolti, magari ritenuti kitsch ai tempi della pubblicazione ed oggi diventati trendy. Attraverso la sua Mothball Record, inoltre, fa incetta di artisti e dischi ignoti ed anonimi, riabilitandone la memoria e consegnando ai più giovani musiche che sarebbero inesorabilmente finite nel dimenticatoio.

Quando hai scoperto la musica elettronica?
Da bambino ascoltavo principalmente gli album dei Beatles e dischi rock n roll degli anni Cinquanta. A me e mio fratello era concesso acquistare dischi ad una bancarella presso la chiesa, dove costavano pochi centesimi l’uno. In mezzo a tanto materiale trovammo “Space Invaders” di Player [1] e credo che fu quello il primo brano di musica elettronica che ascoltai attraverso un disco in vinile, oltre ad alcune sigle di cartoni animati come “Astro Boy” e “Battle Of The Planets”. I dischi che non ci piacevano, come quelli di Enya ad esempio, li riutilizzavamo come frisbee.

L’Australia è parecchio lontana dall’Italia. Nel nostro immaginario collettivo è considerato un luogo esotico, sconosciuto e perlopiù legato ai soliti luoghi comuni (canguri, il Natale al mare in piena estate, squali, serpenti, coccodrilli, didgeridoo, Ayers Rock, giusto per citarne alcuni). Sotto il profilo musicale invece, appare un Paese decentralizzato rispetto ai punti focali a cui si riconduce la produzione di musica e in particolar modo quella elettronica, seppur non manchino certamente DJ e produttori degni di nota. Che tipo di scena musicale esiste oggi in Australia?
Probabilmente non sono la persona più adatta per descriverla perché piuttosto distante da essa. Adoro i primi dischi di DJ HMC (Carmelo Bianchetti, di origini italiane) che tra l’altro suono ancora spesso nei miei set in discoteca. Il mio preferito resta il “Southern Cross EP” del 1995. Ciò che realizza ora come Late Nite Tuff Guy però non fa proprio al caso mio ma sono felice che sia riuscito a reinventarsi con successo godendosi una seconda carriera. La musica australiana a cui mi ispiro invece è più vicina al post punk e al minimal synth, oltre a talune pop band degli anni Ottanta. Qualche esempio? Informatics, The Reels, Machinations, Peter Westheimer, Severed Heads, The Metronomes, David Chesworth e pochi altri. In questo mix ho raccolto esclusivamente musica australiana ed una manciata di titoli neozelandesi. Ascoltarlo può aiutare meglio a capire a cosa faccio riferimento.

Cybotron - Cybotron
La copertina di “Cybotron” pubblicato nel 1976

Pensando alla scena australiana del passato, uno dei primi nomi che mi vengono in mente è quello di Steven Maxwell von Braund, fondatore dei Cybotron. Ti piacciono?
Sono piuttosto noti ma solo ad un certo tipo di pubblico, mi sembra che il mainstream continui ad ignorare del tutto la loro musica. Ciò però non deve stupire, l’Australia è un Paese costruito sul modello del classico pub rock. Ho comprato un mucchio di dischi dei Cybotron, quando era ancora possibile farlo a prezzi accessibili. Confesso di non ascoltarli da anni ma questa tua domanda mi ha spinto a riprendere alcuni LP dall’archivio e devo ammettere che il loro album omonimo del ’76 è incredibile.

Tenebre
George Hysteric indica la colonna sonora di “Tenebre” di Dario Argento come il suo primo punto di contatto con l’italo disco

Come hai scoperto la dance elettronica prodotta in Italia negli anni Ottanta?
Ad alimentare le mie conoscenze è stata l’ossessione, quasi folle oserei dire, di scoprire cose sconosciute legate alla musica, dai dischi più difficili da trovare a quelli più costosi. Nella mia vita ho provato la stessa ossessione anche per altri generi musicali ma l’italo disco è quello che mi ha rapito più di tutti in assoluto. Sono grande abbastanza per aver sentito “Boys” di Sabrina Salerno e “Boom Boom (Let’s Go Back To My Room)” di Paul Lekakis quando uscirono per la prima volta, ma credo che il mio primo punto di contatto con l’italo disco coincida con la colonna sonora di “Tenebre”, il film di Dario Argento del 1982. Da ragazzino guardavo tanti film horror su VHS insieme al mio migliore amico e tra quelli c’era proprio “Tenebre”. Scambiato spesso per un disco dei Goblin, in realtà venne firmato da Claudio Simonetti, Fabio Pignatelli e Massimo Morante. Qualcuno potrebbe avere qualcosa da ridire sul fatto che sia davvero un pezzo italo disco, ma secondo me sia “Tenebre” che “Flashing”, le due tracce stampate pure in Extended Version, sono al 100% italo. Ho sempre amato le colonne sonore dei film, specialmente quelli horror e di fantascienza. Ogni volta che ne sentivo una che mi piaceva, cercavo immediatamente di trovare il disco ma non era molto facile in quegli anni e spesso ero costretto a chiedere aiuto a negozi specializzati in goth e metal. Credo che l’italo disco abbia ricoperto un ruolo significativo nella musica da club, influenzandola in modo determinante. L’attenzione per questo genere ora è più viva che mai, specialmente perché molti sono stufi della monotonia house o techno e cercano alternative, qualcosa più vicino alla melodia o comunque un suono con più sentimento. D’altro canto però mi capita anche di ascoltare molti nuovi pezzi spacciati per italo disco ma che in realtà non sono affatto italo. Pur essendo realizzati con sintetizzatori vintage e dividendo qualche somiglianza nell’apparato melodico, pagano l’assenza di quel quid che fa di un pezzo italo disco, qualcosa di indefinibile e misterioso.

Chi sono, a tuo avviso, i produttori che hanno conferito un’identità più spiccata all’italo disco?
Per me la golden age dell’italo va rintracciata nel periodo 1983-1987. Tra i migliori citerei Sandro Oliva, Raff Todesco (intervistato qui, nda), Raffaele Fiume, Silvio Puzzolu, Riccardo Cioni, Franco Rago & Gigi Farina, Roberto Zanetti alias Savage (di cui parliamo qui, nda), Lino e Giuseppe Nicolosi, Maurizio Dami (intervistato qui, nda), Claudio Simonetti, Ennio Tricomi, Pierluigi Giombini, Bruno Tavernese, Massimo Noè, Miki Chieregato, Franco Scopinich (intervistato qui, nda) ed Oderso Rubini, ma pure tanti altri che ora sto distrattamente dimenticando.

Hysteric tattoo
La devozione provata da George Hysteric nei confronti della Discomagic è tale da farsi tatuare il logo sul proprio corpo

Quali invece le cinque etichette top del genere?
Al primo posto senza ombra di dubbio la Discomagic, mi sono fatto persino tatuare il logo col mago sul braccio! Per me l’etichetta di Severo Lombardoni rappresenta il classico suono italo disco, semplicemente perfetto per rappresentare il cliché degli anni Ottanta. Non riesco proprio ad immaginare di suonare un set italo disco senza avere almeno un mix Discomagic nella borsa. Varrebbe la pena menzionare anche la Out Records, sublabel che rappresentava il lato più bizzarro e low budget della Discomagic. È davvero arduo scegliere una delle due. Tra i pezzi dell’immenso catalogo Discomagic che amo di più ci sono “Rose Of Tokyo” di City-O’, “It Isn’t Changed” di Michael Maltese, “Music & War” di D.J.F.T. Band, “Never Mind” di Colors, “Pinball Dance On” di Instant, “Miss You” di Stylóo (di cui parliamo qui, nda) e davvero moltissimi altri. Al secondo posto metto la Bootlegs: gli incredibili pezzi di Bagarre e Nemesy sono un motivo più che sufficiente per includerla in questa lista. Amo pure l’unica uscita di Maracaibo Sliders intitolata “The Last Butterfly / Holiday To Hell”. Quello della Bootlegs non è un catalogo vasto e a dirla tutta include pure qualche mediocrità ma ben compensata da gemme come quelle menzionate. Sul terzo gradino del podio piazzo invece la Sensation Records che ha pubblicato pezzi terribili ma anche alcune delle tracce più belle ed ormai rare. Tra le mie preferite ci sono “Another Love” di Marylin Love, “China Time” di Sunshine e “Caballeros” di Venus. La Sensation Records è annoverata tra le etichette per cui i collezionisti più incalliti sono disposti a spendere centinaia e centinaia di euro per un solo 12″, ma devo ammettere che nel catalogo ci sono pezzi grandiosi. Alla quarta posizione inserisco la Disco In, la cui scoperta in tempi recenti mi ha veramente sconvolto e credo di non essere stato l’unico a provare una sensazione simile. Su questa etichetta è possibile trovare alcune ballate pop/romantic, LP di library music ed alcuni incredibili 7″ italo disco. La qualità del suono è piuttosto bassa e tutto sembra provenire dallo stesso studio, probabilmente ad opera di Luigi Mosello e Beppe Aleo. In più di un’occasione sembra che i cantanti abbiano registrato le parti dopo aver alzato il gomito al bar. Anche i dischi pop sono permeati di una strana atmosfera. Le pubblicazioni italo disco della Disco In purtroppo sono impossibili da trovare, io ne ho giusto un paio nella mia collezione. Lo stile delle copertine di gran parte delle uscite è stato di grande ispirazione per me. Alcuni dei pezzi che preferisco? “If You Want” di Laura Angel, “Don’t Set Me Free” di Riccelli, “Impero Di Sensi” di The Style ed ovviamente “Walking In The Night” di Giusy Dej che ho ripubblicato su Mothball. Infine, in quinta piazza, la Cruisin’ Records, che mi ha influenzato sensibilmente col suo sound divertente ed accattivante, e non nascondo di aver editato alcune tracce del catalogo inclusa “My Man” dei Cruisin’ Gang. Credo abbiano tratto alcune influenze dal rock n roll degli anni Cinquanta e ciò deve aver alimentato la mia attenzione visto che, come spiegavo all’inizio, sono cresciuto con quella musica. Non mancano uscite di media caratura o proprio deludenti ma di tanto in tanto esploro il catalogo attraverso Discogs trovando sempre qualcosa di interessante che mi era sfuggita. Alcuni dei miei preferiti sono “One Hit Parade” di Ennio Manuel And The Cruisin’ Gang, “Save The Fire” di Giusy Ravizza e “Don’t Believe In Love” di Tabù D’Apache. La lista delle etichette italo disco che potrei stilare però potrebbe essere ben più lunga e a tal proposito menzionerei la Full Time Records, la Fuzz Dance, la Eyes, l’Italian Records, Il Discotto, la Superradio Records e la City Record (di quest’ultima parliamo qui, nda).

CBS, 20 novembre 2003
Uno screenshot, risalente al 20 novembre 2003, del sito della web radio Cybernetic Broadcasting System, vera mecca degli appassionati di italo disco di tutto il mondo

Intorno agli ultimi anni Ottanta l’italo disco viene completamente chiusa nel dimenticatoio, non solo in Italia. Nessuno vuole più ascoltare quel sound nel momento in cui si prospettano intriganti novità come la new beat ma soprattutto la house e la techno. Dieci anni più tardi però cambia tutto. Attraverso l’azione congiunta di personaggi sparsi tra Paesi Bassi e Germania, come I-f, Alden Tyrell o DJ Hell, l’italo disco risorge dalle sue ceneri ma non come un trend temporaneo mosso da ascoltatori attempati come spesso accade nella musica, e il fatto che se ne parli e produca ancora adesso lo testimonia. Cosa pensi sulla resurrezione dell’italo disco, ora diventata un punto di riferimento persino per le giovani generazioni?
Per me i responsabili del ritorno di fiamma dell’italo disco sono stati I-f e i personaggi della sua radio CBS – Cybernetic Broadcasting System (oggi Intergalactic FM), artisti come Legowelt e DJ TLR, i frequentatori del forum Global Darkness e in parte Hell e la sua International DeeJay Gigolo. In quegli anni frequentavo la scuola d’arte ed utilizzavo la linea internet ad alta velocità dell’istituto per scaricare più facilmente i set mixati di CBS. Fu un momento particolarmente emozionante che vide un’esposizione improvvisa di musica “nuova” di cui mi innamorai immediatamente. Ho trascorso tanto tempo nel forum CBS, lì ho imparato moltissimo sul mondo del collezionismo italo. Fu proprio Cybernetic Broadcasting System a farmi conoscere Flemming Dalum (intervistato qui, nda) ed altri amici che mi avrebbero aiutato ed influenzato sensibilmente negli anni a seguire. L’italo disco gode di una rinnovata popolarità almeno da quindici anni a questa parte ma non credo possa accadere qualcosa di diverso rispetto a quanto sia capitato ad inizio Duemila. Ormai è stato sviscerato quasi tutto dagli archivi e non voglio sentire “Hypnotic Tango” di My Mine, “Take A Chance” di Mr. Flagio o “Spacer Woman” di Charlie almeno sino al 2030! (per approfondire sugli ultimi due si rimanda qui e qui, nda)

Quali sono le etichette che operano nel cosiddetto frangente “new italo” che a tuo parere stanno seminando bene?
Ne esistono davvero tantissime ma tra le più ammirevoli cito Bordello A Parigi, Freak Out Disko, I Venti d’Azzurro Records (e la sublabel I.D. Limited), Around My Dream Records, Flashback Records (e la sublabel Rebirth Records), Fresh Colour e la Disco Segreta.

I tuoi primi remix/edit appaiono sulla M Division Recordings intorno al 2008 tra cui “Iceman” de I Signori Della Galassia, band di cui parliamo qui, ed altri di pezzi italiani poco noti come quelli degli Strada e Chris Keane. In che modo hai scoperto simili rarità?
In quegli anni ero disoccupato e trascorrevo le mie giornate su internet alla ricerca spasmodica di italo disco oscura e scarsamente reperibile, provando a recuperare almeno i file MP3 (curiosamente adesso, a causa del coronavirus, mi ritrovo nuovamente senza lavoro e per impegnare il tempo ho ripreso proprio quel tipo di ricerche). Prima che YouTube fosse invaso da milioni di video di qualsiasi cosa, esistevano molti forum in cui chiedevi informazioni su un pezzo e qualche utente ti aiutava uploadando i relativi file. Conobbi quei pezzi in tale maniera. Rammento ancora l’eccitazione mentre effettuavo il download. Da lì a breve avrei ascoltato musica mai sentita prima, contrassegnata da nomi strani quanto esotici. Provavo una sensazione incredibile che oggi mi manca tantissimo.

Nel 2011 dai avvio alla carriera di produttore discografico come George Hysteric. Buona parte delle tue pubblicazioni, edita da etichette europee, è diventata materiale prezioso ed ambito per i collezionisti ma è basata su re-edit di vecchi brani, una pratica ormai diffusissima. Pensi sia legittimo appropriarsi di musica altrui, privandola peraltro dei crediti degli autori originali, spacciandola per propria?
Inizio col dire che non mi considero affatto un produttore, al massimo un artista del collage o qualcosa di simile. Quello dei re-edit è indubbiamente un campo minato. Nel mio caso, sono tutte cose che ho fatto per me, per i miei amici, per i miei set o semplicemente per divertimento. Non ho mai pensato di mettermi a fare re-edit con l’intenzione di incidere una hit e i risultati di alcuni mi hanno colto davvero di sorpresa, come ad esempio quello di “Amoureuse” di Anita (incluso in “Amour” su Violette Szabo, 2016, nda). Negli ultimi tempi ho inciso meno vinili preferendo rendere disponibile più roba su Soundcloud o Bandcamp, gratuitamente. Credo sia un approccio migliore. La cosa positiva di tutte queste pubblicazioni di re-edit comunque è che ora sono riuscito a mettermi al lavoro su una ristampa ufficiale della musica che più amo. Il disco inedito di cui vado maggiormente fiero è invece “Temple / Tranquil”, un 7″ edito da Magic Lantern nel 2018 in cui si può sentire il mio tocco personale.

Hot Girls Of Italo
“Hot Girls Of Italo Disco”, prima pubblicazione su 12″ della Mothball Record, raccoglie i brani di Patrizia Pellegrino e Daniela Poggi. La prima tiratura di colore rosa, risalente al 2013, è particolarmente ricercata dai collezionisti

Il 2011 è stato l’anno che ha visto pure nascere la tua etichetta, la Mothball Record (è un caso che inizi anch’essa per M o c’è forse una connessione con la M Division Recordings?). Il catalogo è pieno di gemme, dai mix di Flemming Dalum a ristampe di pezzi di artisti italiani come Manuel, Katia, Giusy Dej, Quinn Martin ma pure Deca, Raffaele Fiume, Ruins e R°A, senza dimenticare Patrizia Pellegrino e Daniela Poggi che qui sono più note per la loro carriera televisiva rispetto a quella musicale. Insomma, ci sono tutti gli estremi per considerare la Mothball Record una “etichetta di salvataggio”. La hai creata proprio con questa finalità?
La M Division Recordings di Melbourne, per cui ho realizzato solo qualche edit in formato digitale, è stata fondata dall’amico Jan M e non divide nulla quindi con la mia Mothball Record, nonostante la stessa iniziale che potrebbe far sorgere il dubbio. Ho scelto il nome Mothball (naftalina, nda) pensando a vecchi dischi chiusi nell’armadio per molti anni che finiscono con l’emanare lo stesso odore di datati vestiti stipati insieme alle palline bianche usate per tenere lontane tarme ed insetti. Nel 2011, quando realizzai il CD mixato “Italo City”, non pensavo a Mothball Record come un’etichetta vera e propria ma semplicemente come un progetto divertente seppur curato nei minimi dettagli. Con l’aiuto di Flemming Dalum ho fatto altri CD (“Italo Gemms”, “Lost Treasures Of Italo-Disco”, “Italo Estate”) per poi finalmente stampare, nel 2013, il primo disco su vinile rosa con un doppio poster incluso, “Hot Girls Of Italo Disco”, coi brani di Patrizia Pellegrino e Daniela Poggi. Per certi versi è stato un grande successo ma nel contempo un disastro economico poiché molte copie sono state distrutte dal sole in seguito ad un imprevisto. Tuttavia è stato più che utile mettere in circolazione un disco di debutto in grado di attrarre così tanta attenzione. Ho diverse nuove uscite pronte per essere stampate ma sto attendendo che le cose tornino alla normalità dopo l’emergenza sanitaria che ha letteralmente scombussolato i piani.

Hysteric 1
George Hysteric e parte della sua collezione di dischi

Sei anche un collezionista: quanti dischi possiedi? In che modo ti procuri vecchi 12″ e 7″ italiani? Discogs, eBay o mercatini dell’usato?
Ho cominciato a raccogliere dischi nei primi anni dell’adolescenza. Non era proprio un’attività collezionistica a tutti gli effetti ma trascorrevo i fine settimana nei negozi rapito dalle copertine. Credo di essere giunto ormai alla soglia dei diecimila dischi ma non mi sono mai preso la briga di contarli. In passato ho speso cifre folli ma ora non più, preferisco materiale economico ma intrigante e che soddisfi ugualmente i miei gusti. Gran parte degli acquisti la ho fatta attraverso Discogs. Su eBay è più facile imbattersi in prezzi più bassi ma nel contempo faccio fatica ad ammortizzare i costi di spedizione. È possibile trovare vinili italo disco in Australia ma nella maggior parte dei casi si tratta di materiale ordinato oltreoceano da collezionisti che ora intendono vendere a prezzi piuttosto alti.

Su Discogs sei particolarmente attivo anche come recensore: come si può vedere qui, hai scritto oltre quattrocento commenti. Pensi che la piattaforma ideata da Kevin Lewandowski sia la migliore per connettere gli appassionati di musica di tutto il mondo?
Senza ombra di dubbio Discogs rappresenta il posto ideale per scoprire musica ma forse non per mettere in comunicazione gli utenti. Sotto questo aspetto credo che Facebook sia più indicato. Trovo che l’approccio a Discogs di alcune persone sia piuttosto negativo. Ho il compito di moderare il gruppo Italo-Disco e a volte è davvero difficile. Bisognerebbe ricordarsi che questo è un hobby e che lo facciamo tutti per divertirci. Su Discogs, inoltre, non mancano gli “squali” che alzano sensibilmente il prezzo del disco, anche di cinque volte quando si accorgono che c’è gente interessata. Questo però non avviene solo nell’ambito dell’italo disco. Da un lato c’è chi vende i propri dischi ricavandone sino all’ultimo centesimo del loro valore, dall’altro collezionisti con copie immacolate ed ancora incellofanate riposte sugli scaffali. Rispetto ad essi mi vedo in una posizione mediana. Sento una sorta di responsabilità nel preservare certa musica ma nel contempo amo suonarla dai dischi.

Occasionalmente lavori come DJ. Hai mai suonato in una discoteca italiana?
Sono stato in Italia in più di un’occasione, amo l’arte, il cibo, la gente e la cultura del posto, oltre alla musica ovviamente. Ho visitato Roma, Firenze e Venezia. Purtroppo ho avuto modo di suonare solo una volta, con Otto Kraanen di Bordello A Parigi. Fu un party bellissimo in un club sulla spiaggia di Pescara. Spero di poter tornare a suonare nuovamente in Italia in un futuro non lontano.

Qual è la tua top five?
È davvero difficile rispondere. Le cinque tracce che seguono rappresentano solo la punta di un iceberg composto da almeno duecentocinquanta pezzi italo che considero essenziali.

Bagarre - LemonsweetBagarre – Lemonsweet (VIP, 1982)
Uno dei primi dischi italo il cui possesso mi ha praticamente ossessionato. Ero arrivato a sognare di trovarlo in strani ed inesistenti negozi di antiquariato. Alla fine uscii di casa per un appuntamento e trovai una scusa per andarmene in un net cafè da dove feci un’offerta ad un’asta in corso su eBay. “Lemonsweet” è una traccia pazzesca dalle tinte psichedeliche che non mi stancherò mai di sentire. Consiglio di ascoltare anche gli altri pezzi del repertorio dei Bagarre.

Camomilla - Queen Of The NightCamomilla – Queen Of The Night (Magnum, 1985)
Quando ho iniziato a fare il DJ collezionavo soprattutto dischi techno di etichette come R&S, Drumcode, Tresor ed Axis. Circa sette anni fa ebbi la possibilità di vendere molti di quei dischi per un dollaro l’uno e poiché avevo necessità di spazio, non ho esitato. Il giorno dopo ho speso tutto quello che avevo guadagnato per accaparrarmi una copia di “Queen Of The Night”. Non nascondo di avere qualche rimpianto perché alcuni di quei dischi techno adesso valgono molto denaro ma se potessi tornare indietro probabilmente rifarei tutto.

City-O' - Rose Of TokyoCity-O’ – Rose Of Tokyo (Discomagic Records, 1984)
Uno dei primi dischi appartenenti al “santo graal” dell’italo che ho acquistato attraverso il vecchio ed indimenticato forum di Cybernatic Broadcasting System. La TR-808 suona potentissima e ci sono momenti in cui sembra prendere il sopravvento sull’intero pezzo. Mi piace anche perché il testo gira su un significato profondo e non sulle solite amenità legate alla vita notturna e al banale romanticismo: si parla infatti di Tokyo Rose, nome con cui le truppe alleate indicarono, durante la Seconda Guerra Mondiale, le presentatrici radiofoniche capitanate dalla ormai compianta Iva Toguri D’Aquino che propagandavano il disfattismo attraverso Radio Tokyo. Il pezzo ha acceso il mio interesse per i temi asiatici affrontati nell’italo disco a cui ho dedicato una lista su Discogs consultabile qui.

Daniela Poggi - Cielo Break-UpDaniela Poggi – Cielo / Break-Up (Polydor, 1985)
Un disco che reputo importante per varie ragioni. Innanzitutto credo abbia segnato una sorta di punto di congiunzione tra la prima ondata italo (“Penguins’ Invasion” degli Scotch, “Catch” di Sun-La-Shan e “Robot Is Systematic” di ‘Lectric Workers, giusto per citarne alcune) e la seconda, contraddistinta da pezzi diventati più noti. “Cielo” e la versione in inglese chiamata “Break Up”, inoltre, ha dato una forte spinta a DJ e collezionisti a rovistare nel materiale ormai dimenticato (primariamente 7″ e compilation) col fine di trovare tracce nuove ed intriganti. Daniela Poggi (intervistata qui, nda) è conosciuta primariamente come modella ed attrice ma non per la breve carriera musicale, pertanto i suoi dischi sono piuttosto sconosciuti dal grande pubblico. A “Break-Up”, infine, sono particolarmente legato perché ha rappresentato la prima uscita su vinile di Mothball che peraltro includeva un mio edit.

Mya & The Mirror - HesitationMya & The Mirror – Hesitation (Fuzz Dance, 1984)
È il primo disco che ho ordinato attraverso Discogs, oltre undici anni fa. Ai tempi mi sembrò un sogno poterlo comprare e stringerlo tra le mani dopo tre settimane, fui completamente rapito dall’emozione. Si tratta di uno dei tanti favolosi pezzi prodotti da Maurizio Dami alias Alexander Robotnick e pubblicati dalla Fuzz Dance. Adoro la combinazione perfetta tra la new wave e l’italo disco scaturita da “Hesitation”. C’è chi odia i sassofoni nell’italo ma credo che qui siano perfetti. Ascoltare questo pezzo mi fa tornare immediatamente alla memoria un fantastico film newyorkese, “Liquid Sky”.

Come vorresti che fosse l’italo disco delle prossime decadi?
Giunti a questo punto è diventato piuttosto difficile prevedere quale sarà l’impatto finale del Covid-19 sulle discoteche e, di conseguenza, sulla musica dance. Da ciò dipenderà anche quanto la gente sarà disposta a spendere per serate nei club e per dischi. A differenza della techno però, la scena italo non è particolarmente legata alle attività sociali anzi, in alcuni casi offre una prospettiva esattamente opposta. Personalmente sento l’assenza di un lato più strano, “nerdy” oserei dire in mancanza di un termine migliore, che riesca a dare una personalità più viva all’italo disco. Intendo tracce più stravaganti, meno prevedibili, create con un’estetica fai da te ed altro ancora che possa elevare e differenziare il prodotto dalla serialità degli ormai tantissimi in circolazione. Su Instagram tutto ciò che è taggato come #italodisco rivela come e quanto il termine venga applicato a sproposito. C’è davvero un mucchio di lavoro da fare per educare il pubblico su questo incredibile genere, purtroppo elaborato in modo assai approssimativo dal mainstream.

C’è qualcosa che vorresti aggiungere per concludere?
Ringrazio tutti gli amici che mi hanno aiutato durante questi anni, per le serate, per l’etichetta e per tutto ciò di cui mi occupo e che mi piace fare. Non faccio i nomi solo perché sarebbero troppi e non vorrei dimenticarne qualcuno.

(Giosuè Impellizzeri)

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Raff Todesco scrive un libro sull’italo disco

Raff Todesco - Italo DiscoViviamo ondate di incessante revivalismo. Tendenze cicliche si ripetono ad intervalli sempre più brevi e ravvicinati allungando cronologicamente il passato sino a renderlo costantemente presente. È il caso dell’italo disco, corrente musicale che ha imperversato e dominato incontrastata per buona parte degli anni Ottanta e che dopo un’eclissi totale di circa un decennio (nei Novanta, quando la spinta in avanti non conosce esitazioni) è tornata a pulsare di rinnovata vita. Non si tratta semplicemente di una vampata nostalgica o una banale foggia passeggera però, e a testimoniarlo è oltre un ventennio di ripescaggi, ristampe, rielaborazioni e riformulazioni alimentate anche da una nuova generazione che per quel genere mostra un autentico legame affettivo malgrado non l’abbia vissuto per ragioni anagrafiche. Ormai l’italo disco si è emancipata dalla provenienza geografica di mikulskiana memoria diventando a tutti gli effetti un filone stilistico cosmopolita e, come afferma Flemming Dalum in questa intervista, «è tornata per restare».

Il fermento, partito all’estero in sordina alla fine degli anni Novanta, ha generato una crescita esponenziale di etichette ed artisti devoti a tale estetica sonora, ed anche più di qualche elaborato di ricerca finalizzato a raccontare ciò che è stato il mondo celato dietro quelle musiche. Da poche settimane al corpus bibliografico e documentaristico in costante ampliamento si è aggiunto il libro di Raff Todesco intitolato “Italo Disco – Storia Della Dance In Italia Dal 1975/88”. Todesco non è un giornalista o uno scrittore ma un musicista e compositore, proprio tra i primi in Italia, poco meno di quarant’anni fa, a mettere a servizio della dance la propria esperienza sino a quel momento maturata nell’ambito della musica italiana. Il debutto è legato a “Can’t You Feel It” dei Time, brano del 1982 di cui abbiamo già parlato dettagliatamente qui e che ha creato una querelle per assonanze con “Radio Gaga” dei Queen uscita due anni più tardi, ma l’obiettivo di Todesco non è smascherare l’eventuale plagio bensì (ri)mettersi a disposizione della dance, questa volta con fini narrativi, e rendere il giusto merito ad un genere a lungo bistrattato.

Nella prima parte dell’opera, intitolata “La musica vista da fuori”, l’autore analizza i tratti caratterizzanti del movimento pre-italo fatto perlopiù di riferimenti funk/soul, ed evidenzia l’assenza di progettualità a lungo termine e il navigare a vista della maggior parte delle case discografiche: «La musica dance italiana era legata a situazioni momentanee, a sigle tv che duravano un anno o poco più […], mancava la vocazione e l’impegno per costruirsi una carriera» (pag. 39). La descrizione storica abbinata ad una visione critica accompagna il volume nella sua interezza, e questo è decisamente positivo perché consegna un quadro ben dettagliato sul mondo della dance nostrana di altri tempi, lontano dalla verificabilità internettiana. Già, perché oggi è davvero arduo rendere l’idea di cosa sia stata l’italo disco nel suo periodo di maggior successo. Non ci sono video o pagine social che attestino fedelmente il coinvolgimento delle masse, l’engagement insomma, anzi, il paragone coi successi attuali effettuato su parametri un tempo inesistenti, come le visualizzazioni di YouTube o i follower di Facebook o Instagram, potrebbe restituire un’immagine del tutto falsata rispetto a ciò che quel cosmo stilistico ha invece rappresentato su scala nazionale ed internazionale. «L’italo disco fu una rivoluzione, strutturale e compositiva» scrive Todesco, «e cancellò quasi del tutto la maniera precedente di fare dance» (pag. 96). Oculatamente l’autore spiega poi l’enorme divario tra l’italian disco, portata ad alti livelli da Jacques Fred Petrus, Mauro Malavasi e il pregevole team di musicisti della Goody Music di cui abbiamo parlato dettagliatamente in Decadance Extra, e la più iconoclastica italo disco, ricorrendo a tutta una serie di utili considerazioni di tipo tecnico che aiutano ad inquadrare il fenomeno e circoscriverlo con quanta più precisione possibile dal punto di vista temporale.

Nonostante il fortissimo appeal intriso tanto di prospettive pop quanto di fascinazione futuristica, l’italo disco è però costretta a misurarsi con una scarsa, se non nulla, considerazione delle grosse etichette nostrane e pure delle radio, poco propense, specialmente nella fase iniziale, a supportare un genere nato per far ballare quindi destinato ai DJ e alle discoteche. Liquidata sommariamente come “musica del disimpegno” di dubbio gusto, utile per incassare denaro ma senza garantire un “vero” futuro ai suoi interpreti, l’italo disco si ritrova ad essere considerata alla stregua di un “grimaldello” per forzare la porta del music business ed accompagnare solo la fase avviativa o succedanea nella carriera di un artista. Una manciata di casi menzionati da Todesco nella prefazione del libro (Raf e Spagna, a cui si potrebbero aggiungere Jovanotti ed Alexia, seppur legati ad epoche successive ma piene di analogie) aiutano a capire ciò in modo più profondo. Per l’affermazione in patria, la musica da ballo è irrilevante o persino disincentivante quanto deleteria, e certi ambienti, soprattutto quelli legati al cantautorato, non perdono occasione di denigrare l’italo disco minimizzando i meriti degli artefici. A fomentare l’osteggiamento sono anche alcune caratteristiche a cui l’italo disco si poggia, su tutte l’utilizzo, in taluni casi, di personaggi immagine in sostituzione dei cantanti per le esibizioni pubbliche. Todesco tratta lo spinoso e dibattuto argomento relativo alla separazione tra cantante ed artista, un espediente di marketing rivelatosi destabilizzante e forse neanche ideato in Italia, che mirava a soddisfare nel contempo dettagli intrinseci ed estrinseci ma il cui utilizzo però, è bene rammentarlo, non è circoscritto alla sola italo disco (per approfondire si rimanda a questo ampio reportage).

Minni E La Voce Magica, 1991

Una vignetta particolarmente esplicativa sull’argomento delle “ghost voices” tratta dalla storia “Minni E La Voce Magica”, edita su Topolino n. 1854 del 9 giugno 1991

Il caso delle “ghost voices” sconfina persino nel mondo dei fumetti disneyani, nel 1991, in una storia illustrata da Sandro Dossi che, pur collocata in un ambito complementare alla discografia ovvero quello radiofonico, rende ottimamente l’idea dello strano disallineamento tra performer e cantante che oggi anima ancora tante discussioni intavolate sul web e non solo (come avviene nella puntata dell’1 luglio 2020 di “Detto Fatto” con Bianca Guaccero, su Rai 2, in cui si parla delle turniste del progetto Corona). Nonostante tutti questi problemi comunque, in un paio d’anni circa l’italo disco riesce a dare filo da torcere alle multinazionali accumulando un vantaggio competitivo non indifferente. Diventa un universo transregionale contraddistinto da un reticolo di ironiche inglesizzazioni e frequenti calembour che, ai tempi in cui internet è ancora lontano, intrigano e creano un autentico immaginario collettivo. Mentre oltreoceano la Coca-Cola e la Pepsi si fronteggiano sfidandosi in una dura battaglia pubblicitaria, da noi la Discomagic di Severo Lombardoni e Il Discotto di Roberto Fusar-Poli si contendono il mercato della musica da ballo quasi somigliando, ovviamente con le dovute proporzioni, ai colossi statunitensi del soft drink.

Ne “La musica vista da dentro” Todesco narra la “sua” storia, intrecciandola a quella della dance made in Italy che prende il volo, si afferma anche oltralpe e muove ingenti somme di denaro. In tal senso i passaggi relativi al citato Lombardoni smontano e smitizzano un po’ tutta l’aura romantica della musica e del fare artistico evidenziandone invece gli aspetti economici. Come tutte le cose belle però, anche l’italo disco finisce. «Nel 1986 aveva perso molta della forza propulsiva iniziale» afferma Todesco. «Era evidentissimo l’appiattimento delle forme ritmiche tutte uguali, ed anche la melodie ricalcavano quelle pubblicate negli anni precedenti. Inoltre la quantità delle produzioni cominciava ad essere eccessiva per il mercato e di conseguenza questo significava meno introiti per i produttori» (pag. 129). Quel fermento all’apparenza irrefrenabile ed interminabile inizia a perdere colpi, mentre arrivano la house music dagli States (ma pure dalla Gran Bretagna, ibridata con l’hip hop) e la new beat dal nordeuropa. Contestualmente muta pure l’atmosfera nelle discoteche e il ruolo dei disc jockey: «I gruppi musicali vengono sostituiti dai DJ perché i frequentatori dei locali volevano ascoltare sempre più la musica perfetta che proponevano le radio libere, senza alcuna interruzione tra un brano e l’altro. I DJ radiofonici diventati star trasmettevano i loro mixati e la discoteca era pian piano diventata luogo di esibizione tecnica come uno show, tra speaker che incentivavano al ballo. Il DJ di nome mixava tra più piatti contemporaneamente, saltando da un brano all’altro più velocemente possibile, e c’era chi rompeva il vinile lanciando i resti tra il pubblico a mo’ degli Who con le chitarre» (pag. 146). A quel punto per l’italo disco non c’è più spazio e sprofonda, insieme ai suoi artisti, nelle tenebre e nell’indifferenza generale per circa dieci anni. Poi una serie di circostanze ne determina la resurrezione ma questa è un’altra storia.

Il libro, acquistabile qui ma anche su varie piattaforme e librerie online come Amazon, IBS o Feltrinelli, restituisce un’immagine definita sull’argomento e scevra da autoreferenzialità ed è molto scorrevole alla lettura, corredato da una serie di immagini e fotografie a colori. Come appendice figura una sostanziosa lista di produzioni, molto utile per chi non abbia ben chiare le dimensioni e l’operatività degli italiani in quegli anni. Un’opera che arriva proprio nel periodo in cui in tv gira lo spot della Mercedes GLA sincronizzato sulle note della “Dolce Vita” di Ryan Paris, uno di quei successi che hanno eternato a livello planetario l’italo disco e la sua rispettabilità creativa a dispetto dei tanti detrattori. (Giosuè Impellizzeri)

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