BXR, una squadra di DJ alla conquista del mondo

Negli anni Novanta la musica destinata alle discoteche, composta da DJ e team di musicisti ed arrangiatori, è in prevalenza marchiata con pseudonimi. Ciò avviene per moda, per questioni legate ad esclusive discografiche ma anche per differenziare le inclinazioni stilistiche del proprio repertorio. «L’effetto fondamentale è il distanziamento, una rottura col tradizionale impulso pop di associare la musica ad un essere umano in carne ed ossa» scrive Simon Reynolds in “Futuromania”. «L’anonimato ha l’effetto di scardinare i meccanismi della fedeltà al gruppo o al marchio, l’abitudine di seguire la carriera degli artisti tipica del pubblico rock». In egual modo le etichette indipendenti diffondono i propri prodotti attraverso un fiume di sublabel, marchi creati ad hoc per diversificare l’offerta e nel contempo evitare l’inflazione vista l’alta prolificità. La bresciana Media Records di Gianfranco Bortolotti, attiva sin dalla fine del 1987, è tra quelle che nel corso del tempo collezionano più sottoetichette. Ad inizio decennio già vanta la Baia Degli Angeli, la GFB, l’Inside, la Pirate Records, la Signal (contraddistinta da una singolare numerazione del catalogo), l’Underground, la Heartbeat (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) e la Whole Records. A queste, nel 1992, se ne aggiunge un’altra, la BXR, il cui nome deriverebbe dall’antica denominazione della città di Brescia, Brixia, opportunamente modificata in una sorta di sigla a fare il paio con la citata GFB, acronimo di GianFranco Bortolotti. A sottolineare la connessione con le fasi storiche del comune lombardo è pure il logo, la testa di una leonessa, citando Giosuè Carducci che ne “Le Odi Barbare” parla di Brescia come “leonessa d’Italia”. Il payoff invece è il medesimo dell’etichetta-madre, “The Sound Of The Future”.

BXR 001 + logo
Sopra il disco di debutto della BXR (1992), sotto il primo logo dell’etichetta

1992-1994, un avvio nell’ombra
Il primo brano pubblicato su etichetta BXR, nel 1992, è “Space (The Final Frontier)” di DJ Spy. Ispirato al suono nordeuropeo che scavalca la palizzata dei rave e fa ingresso nelle classifiche di vendita (il 1991 ha visto consacrare dal grande pubblico tracce come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Activ 8 (Come With Me)” degli Altern8, “Dominator” degli Human Resource, “Inssomniak” di DJPC, “Mentasm” di Second Phase, “Ambulance” di Robert Armani, “Adrenalin” degli N-Joi, “Who Is Elvis?” dei Phenomania – di cui parliamo qui, “Charly” ed “Everybody In The Place” dei Prodigy, “Pullover” di Speedy J ed “Anasthasia” dei T99, quasi tutte provenienti dall’area anglo-germanica-olandese), il pezzo è un veloce riassunto del modello edificato su amen break e stab. Prodotto da Max Persona e Pagany, che insieme ad Antonio Puntillo e Roby Arduini formano il team veronese ai tempi al lavoro in pianta stabile presso la struttura di Bortolotti, quello del fittizio DJ Spy è un veloce, ingenuo e non troppo ragionato assemblaggio di frammenti tratti da altri brani più fortunati del catalogo Media Records di quel periodo, come “What I Gotta Do” di Antico, “The Music Is Movin'” di Fargetta (di cui parliamo qui nel dettaglio), “Take Me Away” di Cappella, “Mig 29” di Mig 29, “We Gonna Get…” di R.A.F. e “2√231” di Anticappella, giusto per citarne alcuni dietro cui, peraltro, armeggiano gli stessi autori. Il sample vocale principale è tratto dal monologo di Star Trek e ciò spiega la ragione del titolo. L’assenza di un’idea compiuta e definita rende però “Space (The Final Frontier)” solo una delle centinaia di cloni generati dal filone rave, che attrae pletore di produttori sparsi in tutto il continente ambiziosi di replicare i risultati economici delle hit ma talvolta senza particolari slanci creativi.

Calamitate dagli elementi caratteristici che segnano il boom commerciale della (euro)techno tra 1991 e 1992 sarebbero state pure Marina Motta e Donatella Valgonio, le due ragazze che avrebbero operato dietro le quinte di Davida. La loro “I Know More”, secondo disco edito da BXR, rappresenta perfettamente la declinazione italiana della techno nordeuropea, ottenuta con la fusione di pochi elementi presi a modello e semplificati il più possibile per essere “digeriti” da un vasto pubblico. In realtà la Valgonio, conduttrice e speaker radiofonica contattata per l’occasione, rivela di non aver mai partecipato al progetto Davida. «Conobbi Gianfranco Bortolotti quando iniziò a muovere i primi passi nel mondo della musica» spiega, «e in quel periodo era Mario Albanese, all’epoca mio marito, ad occuparsi dei contatti con musicisti e discografici. Io, semplicemente, cantavo, così come feci prima con “Baby, Don’t You Break (My Heart)” di Argentina, l’unico pubblicato dalla Media Records nel 1986 (quando si chiama ancora Media Record, nda) e poi con “Summer Time”, sempre di Argentina ma finito sulla Memory Records a mia insaputa, ai tempi mi dissero che sarebbe stato ricantato da un’altra cantante. Non ho più avuto la possibilità e la fortuna di collaborare con la Media Records che nel frattempo divenne un colosso della discografia. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita artistica se avessi collaborato con Bortolotti. Tengo a precisare comunque che Mario Albanese non ha alcuna colpa perché la prima a non crederci fino in fondo ero proprio io che continuavo a sentirmi come un pesce fuor d’acqua nonostante i suoi ripetuti incoraggiamenti». È plausibile dunque ipotizzare che i nomi della Valgonio e della Motta siano stati usati a mo’ di pseudonimi, così come avviene per “I’m The Creator” di DJ Creator finito nel catalogo di un’altra etichetta della Media Records, la Pirate Records. I risultati di vendita non esaltanti delle prime due uscite, uniti alla progressiva attenuazione della popolarità della rave techno palesatasi nel corso del ’92, probabilmente convince Bortolotti a non insistere su quella formula. Il terzo 12″ su BXR, difatti, guarda nella direzione della garage house, quella che arriva da Londra e da New York. Enrico Serra, Gianluca Brachini e Gianluigi Gallina realizzano, presso l’H.O.G.I.C.A. Studio, “Here With Me” di Miss Mary, pezzo da cui emerge il calore del funk e dell’r&b e che riporta in vita certe atmosfere tipiche della prima house pianistica nostrana con cui qualche anno prima proprio la Media Records si impone all’attenzione internazionale. Nonostante i buoni spunti, Miss Mary non lascia il segno e si rivela incapace di far decollare il marchio BXR temporaneamente messo in stand by. Riappare nel 1994 con “Day By Day” di Laura Becker, che Alex Pagnucco e Davide Ageno realizzano mescolando i classici elementi dell’eurodance ottenendo una sorta di ibrido tra Le Click, Intermission e Corona ma con meno appeal per l’assenza di un efficace ritornello. La prevedibilità e la scontatezza dei suoni e della stesura fanno il resto lasciando il progetto nel quasi totale anonimato, quello stesso anonimato che una manciata di decenni più avanti lo trasforma in un cimelio per i collezionisti disposti a spendere cifre consistenti per entrare in possesso delle pochissime copie in circolazione. È l’ultimo tentativo di riscatto per la BXR, un’iniziativa che, a dirla tutta, in questa prima fase non conta su particolari energie e risorse. Basti pensare all’esigua quantità delle pubblicazioni (appena quattro in un biennio circa, decisamente un’inezia per i tempi) ma anche alla quasi inesistente promozione. Se a ciò si somma la scarsa identità, dovuta ad un mancato focus stilistico, è facile comprendere le ragioni per cui il tutto appaia soltanto un progetto embrionale dal basso potenziale, un’idea non sviluppata a dovere, col fiato corto ed incapace di farsi largo in mezzo ad una giungla di realtà discografiche indipendenti. Ma è solo questione di tempo, la BXR si riprenderà tutto e con gli interessi.

La rinascita sotto una nuova stella
Il 1995 imprime bruschi cambiamenti al mainstream dance italiano a partire dalla velocità di crociera che, complice l’influenza mutuata dalla scena tedesca, aumenta sino a toccare soglie inimmaginabili sino a poco tempo prima. Il fenomeno, iniziato negli ultimi mesi del ’94, si consolida e trascina gran parte dei principali esponenti dell’ambiente danzereccio nostrano, dai Bliss Team a Molella, dai Mato Grosso ai Club House, da Ramirez a Z100 passando per Cerla & Moratto, Double You, Da Blitz, JT Company e Digital Boy che è tra i primi a dare il la a questa adrenalinizzazione ritmica arrivata a sfondare la soglia dei 160 bpm. Nella seconda metà dell’anno, insieme alla velocizzazione e all’avvicinamento a filoni come makina ed happy hardcore, si registra un secondo sostanziale mutamento rappresentato dalla popolarizzazione di formule sino a quel momento adottate in prevalenza nelle discoteche specializzate. La cosiddetta progressive fa breccia in un numero sempre più consistente di ascoltatori sino a prevalere sulla eurodance tradizionale costruita su strofa, ponte e ritornello. La spallata decisiva giunge grazie a Robert Miles che con la Dream Version della sua “Children” (di cui parliamo qui) di fatto inaugura una stagione inedita che vede la supremazia quasi assoluta di brani strumentali. È una sorta di nuovo 1991-1992 insomma, ma questa volta non è una tendenza importata dall’estero bensì germogliata e svezzata entro i nostri confini.

secondo logo BXR
Il secondo logo con cui la BXR torna sul mercato nel 1996

Tale nuova fase risulterà decisiva per la BXR che rinasce proprio sotto la stella della progressive, forma ammorbidita della techno/trance d’impostazione mitteleuropea segnata da evidenti presenze melodiche che attingono dall’ambient, dalle colonne sonore cinematografiche, dal funky, dall’afro e dalla new beat. Così l’etichetta riappare dopo circa due anni di silenzio con più vigore e consapevolezza, accompagnata da una nuova numerazione col prefisso 10 e soprattutto un nuovo logotipo meno anonimo del primo, forgiato su caratteri di bladerunneriana memoria (la B è simile ad un 3 ed infatti inizialmente c’è chi crede che il nome sia 3XR) ed immerso in una dimensione spaziale che rispecchia la vocazione più internazionale, in contrasto con quella di partenza fin troppo legata alla realtà autoctona bresciana. Al nome viene altresì aggiunto un suffisso, Noise Maker, usato a mo’ di payoff, derivato da quello dell’etichetta sulla quale tra 1994 e 1995 Gigi D’Agostino, artista che tiene a battesimo la BXR, pubblica alcuni brani determinanti per la nascita della (mediterranean) progressive, la Noise Maker per l’appunto, gestita dalla Discomagic di Severo Lombardoni.

Homepage del primo sito Media (1996)
L’homepage del primo sito della Media Records (1996)

La nuova immagine della BXR proiettata nel futuro coincide anche col lancio del primo sito internet della Media Records che, tra le altre cose, permette di fare un tour virtuale nella sede a Roncadelle, accedere al cyber shop in cui acquistare il merchandising nonché immergersi nel suono di un juke-box virtuale, una specie di Spotify ante litteram fruibile attraverso il lettore multimediale RealPlayer. A guidare artisticamente la BXR è Mauro Picotto che, come racconta nel suo libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” (recensito qui), voleva radunare dei disc jockey che suonavano nei club, «veri, non quelli usati come immagine dalle grandi case discografiche». Ed aggiunge: «Parlai a Bortolotti del mio progetto e l’idea gli piacque subito visto che aveva già tentato una sortita simile con la Heartbeat. Il primo DJ che contattai ed invitai ad unirsi fu Gigi D’Agostino, uno degli ideatori del party torinese Le Voyage. Ricordo ancora il suo arrivo all’Hotel Continental di Roncadelle (ubicato nello stesso stabile della Media Records, nda) con una vecchia Chrysler Voyager da sette posti, era già un personaggio. […] Gigi però uscì quasi subito dal progetto, evidentemente soffriva qualcosa o qualcuno del mondo BXR, non mi è mai stato chiaro. Comunque gli offrimmo l’opportunità di creare una sua label esclusiva, la NoiseMaker, per continuare ad esprimersi secondo la sua stessa direzione artistica».

Mediterranean progressive, una parentesi su genesi, evoluzione e dissolvimento
Come raccontato nel 2015 da Gianfranco Bortolotti in questa intervista, il termine “mediterranean progressive” fu da lui approvato su suggerimento di Mauro Picotto o di Riccardo Sada (giornalista ai tempi in forze alla Media Records) dopo aver letto una recensione di Pete Tong che parlava, per l’appunto, di mediterranean progressive in riferimento a quei dischi provenienti dall’Italia (come “Sound Of Venus” di Lello B., Subway Records, “Atmosphere” di Voice Of The Paradise, Area Records, o “Advice” di Nuke State, Metrotraxx) che finivano in un’area grigia non essendo facilmente incasellabili nella techno, nella house e tantomeno nella progressive d’oltremanica in stile Sasha e John Digweed. Un filone che da noi pulsava già da qualche anno, irradiato da etichette indipendenti localizzate prevalentemente tra Lombardia, Toscana e Piemonte, ma senza ottenere riscontri commerciali importanti ed infatti Roland Brant lamenterà, in un’intervista, di essere stato ignorato dal grande pubblico nonostante seguisse questo genere da diverso tempo.

RAF by Picotto e compilation Diva
Sopra “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto (GFB, 1995), pare il primo disco a raggiungere il mercato con la dicitura “mediterranean progressive”, usata nello specifico come titolo della versione principale; sotto le copertine di due compilation curate da Claudio Diva uscite nel 1996

Alla Media Records intercettano la tendenza che vede salire le quotazioni commerciali della progressive e pianificano strategicamente di adottare tale dicitura in occasione del (ri)lancio della BXR, nei primi giorni del 1996. Sulle riviste, allora primarie fonti di informazione, la BXR viene presentata come l’etichetta che seguirà un nuovo genere, la mediterranean progressive, catalizzando l’attenzione del grande pubblico. «Il fine era distinguerci da ciò che altri facevano nel Nord Europa» spiega Bortolotti nell’intervista sopraccitata. «Per un fatto oggettivo l’Italia era (ed è) un Paese mediterraneo, quindi da lì nacque la fusione». È bene rammentare però che la tag “mediterranean progressive” aveva già timidamente fatto capolino nel mercato discografico attraverso “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto, pubblicata su un’altra etichetta della Media Records, la GFB, nell’autunno inoltrato del 1995, seppur il successo giunga a distanza di qualche mese, quando per l’appunto esplode il fenomeno progressive in tutta Italia e nei negozi arrivano un paio di compilation intitolate proprio “Mediterranean Progressive” edite dalla Discomagic e compilate da Claudio Diva, alla guida della Subway Records considerata tra le antesignane dei filoni dream e della stessa mediterranean progressive.

Il 1996, per il mainstream nostrano, è quindi l’anno della progressive, glorificata anche sull’etere da un numero imprecisato di programmi, incluso il Molly 4 DeeJay di Molella su Radio DeeJay di cui parliamo dettagliatamente qui. Produttori e promoter puntano tutto su questo genere, investendo denaro ed ambendo a sostanziosi ritorni. La Media Records, ad esempio, riporta in vita sotto il segno della progressive Antico, uno dei marchi che aveva contraddistinto la prima ondata “italo techno” ed ormai assente dal mercato da un quadriennio, ma anche un paio di etichette ibernate come la Pirate Records e la Underground (il nuovo corso di quest’ultima comincia con “The Test” di Mauro Picotto analizzato qui), oltre a contagiare la GFB, sulla quale appaiono i brani di R.A.F. By Picotto, e la Whole Records. Prevedibilmente la progressive diventa il nuovo pop e ciò attrae come una calamita parecchie critiche di chi è convinto che si tratti solo di un’indebita appropriazione di suoni, così come avvenuto qualche tempo prima con la techno. In un’intervista di Paolo Vites pubblicata ad ottobre del 1996, Killer Faber parla di grossa speculazione: «si incidono dischi copiati spudoratamente da altri, si creano mode musicali inesistenti, si immettono sul mercato centinaia di compilation tutte uguali saturando il mercato. Bisognerebbe rischiare e lanciare pochi ma veri artisti dance». A gennaio ’97 Massimo Cominotto raccoglie altre testimonianze in un’inchiesta intitolata “Prog E Contro”, come quella di Paolo Kighine: «Ultimamente la progressive ha preso i connotati da fenomeno di massa e per questo viene additata come commerciale. Questo, secondo me, dovrebbe essere un motivo in più per stimolare i miei colleghi ad offrire un prodotto di qualità elevata […]. L’etichetta “progressive” comunque lascia molto spazio all’immaginazione, puoi scartabellare tra vecchi pezzi acid house per curvare sugli Orb o KLF e magari finire sul made in Italy, l’importante è far stare bene il proprio pubblico». Più disilluso e diretto appare invece Christian Hornbostel: «Il termine “progressive” è già sprofondato nel caos, così come era avvenuto a suo tempo per l’omologo “underground”, diventando la risposta più inflazionata alla fatidica domanda “che genere suoni?”. Migliaia di DJ affermano di proporre progressive ed alcuni di loro si fanno addirittura la guerra per dimostrare al popolo italico di esserne gli assoluti inventori. Sono passati più di quattro anni da quando il vero fenomeno progressive (tutt’altra musica!) faceva la sua comparsa nel Regno Unito ma ecco che in Italia qualcuno ha pensato che il solo utilizzo del bassline 303 bastasse a giustificare la creazione di una nuova corrente musicale chiamandola “progressive”. Nessuno pertanto all’estero capisce l’italianissimo modo di definire progressive tracce che godono di ben altre definizioni. Non parliamo poi della confusione creata dalle compilation che di progressive hanno solo il nome. Dobbiamo dunque accettare a denti stretti che il significato di progressive sia un’amorfa terminologia creata per vendere incoerenti compilation in un mercato discografico già agonizzante, per dar lustro a DJ che si vantano di suonarla (mixando Alexia con DJ Dado ed una traccia su Attack) e per far contenti alcuni proprietari di locali che nella stessa serata propongono, con innocente orgoglio, revival, underground, liscio, latinoamericano e… progressive».

Gg e Picotto 1996
Gigi D’Agostino e Mauro Picotto in due foto del 1996, quando vengono lanciati dalla Media Records come alfieri della mediterranean progressive

Ma cosa è la progressive che si impone tra 1995 e 1997 al grande pubblico nostrano? «Forse è la sorellina della techno» sostiene Mauro Picotto in un’intervista raccolta da Riccardo Sada a novembre 1996. «È sicuramente nata grazie ai DJ della Toscana sotto altri nomi come “virtual music” per colmare un vuoto perché con un certo tipo di techno eravamo arrivati all’apice e c’era voglia di ripartire da zero, svuotando i brani di tanti suonini e suonacci superflui […]. Le produzioni progressive italiane si discostano da quelle estere perché hanno molta melodia, ormai l’Italia ha il suo imprinting». È la melodia, dunque, il punto focale di questo filone, e a tal proposito DJ Panda, ancora intervistato da Sada e quell’anno nelle classifiche con “My Dimension” di cui parliamo nello specifico qui, afferma che «a noi italiani la melodia viene fuori d’istinto perché abbiamo un animo mediterraneo. L’unico rischio è che questa progressive diventi troppo pop». I timori dell’artista si rivelano fondati ed infatti la sbornia progressive (o meglio, popgressive) del 1996 renderà sterile il filone, sino ad inflazionarlo ed obbligarlo ad una costante e netta flessione nel corso del 1997.

D'Agostino Planet 1
“Fly” di D’Agostino Planet riapre il catalogo della BXR dopo circa due anni di silenzio

1996-1997, il biennio della mediterranean progressive
Corrono i primi giorni del 1996 quando la napoletana Flying Records distribuisce “Fly” i cui promo girano tra gli addetti ai lavori già da qualche settimana. Autore è Gigi D’Agostino dietro il moniker D’Agostino Planet, nome perfetto per la nuova dimensione spaziale della BXR anzi, a dirla tutta qualcuno ritiene che l’etichetta possa gravitare esclusivamente intorno alla sua musica e che il pianeta immortalato sulla logo side del disco sia proprio il suo. Tale teoria sembrerebbe trovare riscontro in questa intervista a cura di Leonardo Filomeno e pubblicata da Libero il 14 settembre 2014, in cui D’Agostino afferma: «Nell’autunno del ’95 chiesi di poter fondare un’etichetta con dei principi precisi, libertà dei suoni, dei ritmi, dei tempi. In Media Records mi dissero che avevano una label sulla quale, in passato, avevano pubblicato dei brani e che in quel momento non era in uso, la BXR. Ricordo il primissimo 1001, il 1002, il 1003 e ricordo benissimo le ragioni del blocco della pubblicazione del 1004. Il resto ho preferito rimuoverlo». Il DJ torinese di origini salernitane, noto nelle discoteche piemontesi tipo il Due di Cigliano o L’Ultimo Impero di Airasca, ha già maturato diverse esperienze discografiche, come “Creative Nature” o “Hypnotribe” di cui parliamo rispettivamente qui e qui, ma rimaste sostanzialmente confinate alla platea dei soli appassionati. Con l’arrivo in Media Records le cose cambiano e “Fly”, primo tassello della rinnovata BXR, diventa anche il trampolino di lancio dell’ormai ufficializzata mediterranean progressive. Riadattamento ballabile del tema “Il Tempo Passa” composto da Giancarlo Bigazzi per il film “Mediterraneo” diretto da Gabriele Salvatores, “Fly” plana su struggenti melodie e lunghi accordi che si tuffano tra le onde di un sequencer ipnotico e rotolante che sembra autoalimentarsi per inerzia, senza mai perdere vigore per quasi tutti i nove minuti di durata.

Seguono altri tre brani sul 1002, “Melody Voyager”, “Marimba” ed “Acidismo”, che esaltano lo stile d’agostiniano di allora, stratificato, ritmicamente minimale ed asciutto, adornato da melodie intrecciate ad armonie tra il romantico e il malinconico con frequenti cambi tonali che giocano sui contrasti e fluttuano su nuvole cangianti. In un’intervista rilasciata a Federico Grilli per il magazine Tutto Discoteca Dance a marzo 1996, D’Agostino parla della progressive come «un suono emozionale, energetico e molto convincente» ma ammette di essere conscio che si stia entrando nella fase della commercializzazione: «se prima era un genere destinato a fare tendenza, ora è rivolto alla grande massa che ne fruirà in maniera positiva, come spesso accade in fenomeni simili. Il pubblico reagisce bene e sicuramente ora la risposta è amplificata dato che il fenomeno sta cambiando, prima era ristretto ad alcune realtà locali». Pochi mesi più tardi, ad agosto, l’artista affiderà alla stessa testata un’altra affermazione che conferma la fase ascendente e il desiderio di sfondare i confini alpini: «Credo che la progressive nostrana abbia buone possibilità per imporsi nel mercato europeo e quindi cercheremo di spingerla in ogni occasione, come ho fatto lo scorso 5 luglio al Ministry Of Sound di Londra», ed aggiunge: «la mediterranean progressive è nata dalla personalizzazione da me apportata alla progressive, con suoni minimali e melodie orecchiabili, un po’ spagnole, forse latine, no ecco, proprio mediterranee».

A trainare BXR e Gigi D’Agostino è la compilation “Le Voyage ’96” che Media Records realizza insieme alla Virgin. Gran parte della tracklist è occupata dai suoi brani e remix ma non mancano le già citate “Children” e “Bakerloo Symphony”, “Goblin” della coppia Tannino-Di Carlo ed un paio di titoli d’importazione, “Hit The Bang” di Groove Park (dal catalogo Bonzai, l’etichetta di Fly intervistato qui) e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. Le 80.000 copie vendute de “Le Voyage ’96” e le 60.000 dell’album “Gigi D’Agostino”, in tandem questa volta tra BXR e RTI Music, testimoniano che l’intuizione di scommettere sulla musica strumentale sia giusta e fanno da volano per nuove produzioni dello stesso D’Agostino come “Gigi’s Violin”, dove troneggia un violino talmente ammaliante da far ricordare i Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi, ed “Elektro Message”, versione vitaminizzata di “Live Line” dei tedeschi You. Nel frattempo BXR mette a segno la prima licenza, “Electronic Pleasure” degli N-Trance, ma optando per le versioni trance (quella che si sente in radio finisce invece nel catalogo Signal).

Mauro Picotto - My House
“My House” di Mauro Picotto viene ritirato dal mercato per ragioni ignote

Mauro Picotto si prende il 1004 con la sua “My House”, naturale seguito a “Bakerloo Symphony” che viene per l’appunto remixata sul lato b in due versioni a creare una sorta di tessuto connettivo. Per ragioni mai chiarite del tutto, il disco verrà ritirato dal commercio pochi giorni dopo essere stato distribuito nei negozi. “My House” riappare, insieme ad “Halleluja”, su Pirate Records nel “Progressive Trip”, l’unico che l’artista firma MP8, accorciamento dell’anglofonizzazione M-Peak-8 usata per la poco nota “I Can’t Bear” l’anno precedente. Considerati gli alfieri del movimento mediterranean progressive dell’etichetta bresciana, Picotto e D’Agostino realizzano a quattro mani “Angels’ Symphony” da cui emergono distintamente tutti gli elementi salienti del filone, forse già all’apice del successo. Sul mercato giunge una tiratura che parrebbe frutto di un errore o di un ripensamento, contenente due versioni (Plastic Mix e Tranxacid Mix) che spariscono dal 12″ distribuito con lo stesso numero di catalogo, 1006. I buoni riscontri procurano ad entrambi alcuni ingaggi come remixer, Picotto rilegge “Mantra” dei Datura, D’Agostino invece “The Flame” dei redivivi Fine Young Cannibals, oltre a spartirsi rispettivamente “Turn It Up And Down” e “U Got 2 Know” dei Cappella, un marchio ormai quasi sulla via del tramonto. Alla Media Records poi arrivano nuovi DJ ad infoltire le fila della BXR: il toscano Mario Più, prima con l’estivo “Mas Experience”, una romanza elettronica agghindata da virtuosi sentimentalismi sintetici utilizzata per lo spot dell’Aquafan di Riccione, e poi con l’autunnale “Dedicated”, dedicato alla futura moglie Stefania alias More ed aperto da una citazione straussiana del poema sinfonico “Così Parlò Zarathustra”, il veneto Saccoman con “Pyramid Soundwave” (di cui parliamo nel dettaglio qui), una sorta di rilettura trancey del classico dei Korgis, “Everybody’s Got To Learn Sometime”, e il laziale Bismark, invitato dall’amico Gigi D’Agostino, che con “Double Pleasure” mette a punto un suono bifase lanciato su tensioni alternate che ha già sperimentato in pezzi usciti precedentemente come “Brain Sequences” o “Chrome”.

D'Agostino-RondoVeneziano
Similitudini grafiche tra le copertine dell’album “Gigi D’Agostino” e de “La Serenissima” dei Rondò Veneziano: androidi argentei che suonano strumenti a corda con città futuristiche sullo sfondo

Gigi D’Agostino torna con “New Year’s Day”, rivisitazione strumentale dell’omonimo degli U2. Sul lato b la lunga “Purezza”, quasi dieci minuti di un ribollire celestiale che i fan hanno già conosciuto grazie al citato album “Gigi D’Agostino”, quello col robot violinista e lo skyline di una città del futuro in copertina che sembra rimandare (intenzionalmente o involontariamente?) alle androidizzazioni a cui talvolta vengono sottoposti i menzionati Rondò Veneziano – si veda l’artwork de “La Serenissima”, 1981. Ma in fondo la mediterranean progressive della BXR per certi versi potrebbe essere considerata una proiezione modernista dell’ensemble diretto da Reverberi, coi suoi barocchismi e contrappunti ricamati su arie melodiche zuccherose innestate su arrangiamenti melliflui. L’eurodance delle annate 1992-1994 adesso sembra davvero lontanissima e simbolo di un’età conclusa, rimpiazzata da un suono nuovo proiettato verso il futuro che avanza. «Fatta eccezione per i Cappella, che riscuotono ancora successo in Francia, stiamo invadendo l’Europa con la progressive» afferma con decisione Gianfranco Bortolotti in un articolo di Billboard risalente al 22 giugno 1996. «Il nostro slogan è “The Sound Of The Future” e credo che il più grande vantaggio della dance indipendente sia quello di potersi trasformare rapidamente abbracciando le nuove tendenze. Dalla nostra parte abbiamo quattro dei migliori rappresentanti della scena mediterranean progressive incluso il fondatore, Gigi D’Agostino». Per l’occasione il manager bresciano si conferma come un sostenitore convinto delle nuove tecnologie ed avanza un’ipotesi profetica: «Grazie alla collaborazione con Zero City, provider milanese che offre l’accesso gratuito ad internet, stiamo entrando in un progetto che ci permetterà di avere una visione chiara sul futuro dell’industria musicale. Prima di quanto previsto, la musica verrà venduta attraverso il web, coi clienti che pagheranno uno o due dollari ogni volta che scaricheranno le nostre ultime uscite». A fine ’96 arriva un altro DJ a dare manforte alla squadra della BXR, Riccardo Cenderello, da Sarzana (La Spezia), acclamato in discoteca come l’angelo biondo. Inizialmente noto come Ricky, si trasforma in Ricky Le Roy dopo aver prestato l’immagine ad un progetto di Alex Neri, DJ Le Roy per l’appunto, destinato alla Palmares Records. “First Mission” è, dunque, la sua prima missione discografica ufficiale, uno slancio nel cielo più terso a bordo di un tappeto volante che si ritaglia, grazie all’edenica vena melodica, un posto nell’airplay radiofonico nostrano.

Il 1997 si apre attraverso “My World” di Bismark con cui il DJ romano intinge i pennelli in una mistura agrodolce per realizzare un quadro dalle tinte cromatiche giustapposte. Alla luminosità degli archi corrispondono vortici acidi, binomio che viene ulteriormente sviluppato nei due remix approntati in Belgio da Jan Vervloet, in quel momento all’apice del successo col progetto Fiocco, che la BXR pubblica su un 10″ colorato. A realizzare una versione di “My World” è anche Pablo Gargano, italiano trapiantato nel Regno Unito intervistato qui, seppur questa non finisca nel catalogo dell’etichetta bresciana. Aria di remix pure per “Dedicated” di Mario Più, analogamente solcato su un 10″ splatter blu/nero. Nel contempo il DJ toscano rilegge “I Just Can’t Get Enough” dell’elvetico DJ Energy per la GFB, campionando “Conflictation” di Cherry Moon Trax. Il successo primaverile è comunque “No Name” di Mario Più & Mauro Picotto, una sorta di summa tra “Mystic Force” dell’omonimo artista australiano e “Landslide” dei britannici Harmonix condita con una melodia ricavata da “Close To Me” dei Cure e frammenti ambientali presi dalla pellicola spielbergiana “Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo”. Le potenzialità sono tante al punto che la Media Records lo pubblica anche in formato CD singolo. Si rifanno sentire Saccoman con “Open Your Heart”, trance di facile impatto issata da una melodia triggerata, e Ricky Le Roy col cupo “Tunnel”, più cavernoso e vitreo rispetto al precedente e per questo chiuso in un contesto che riduce al minimo la possibilità di raggiungere l’airplay radiofonico.

Con “Music (An Echo Deep Inside” D’Agostino cerca nuove dimensioni stilistiche. È il primo BXR ad includere l’inserto cartaceo su cui si rinvengono titoli e crediti

Discorso a parte per “Music (An Echo Deep Inside)” di Gigi D’Agostino, brano con cui il DJ torinese inizia ad allontanarsi dalla dimensione iniziale del suo sound, in primis con l’inserimento di una parte cantata incorniciata da una serie di frasi zigzaganti di violino ed un sibilo filmico morriconiano. Nella parte centrale il lirismo vocale è accentuato ed un po’ rammenta quanto sperimentato pochi mesi prima da Marco Grasso in “Melodream” di Bakesky (sulla milanese Diamond Pears diretta da Nando Vannelli) che sovrappone non memorabili stilemi progressive all’italiana agli elementi di un’orchestra (violini, viole, violoncelli, contrabassi, oboe, fagotto ed altro ancora). Anche a livello grafico c’è qualcosa di nuovo: la label copy è occupata, su entrambi i lati, da una foto dell’artista pertanto titoli e crediti finiscono su un inserto di carta infilato all’interno della copertina. La presenza di tale inserto diventa fissa quando l’etichetta rinnova la brand identity (con “Lizard”, 1998), e nel corso del tempo sarà oggetto di variazioni nelle dimensioni. Con “Music (An Echo Deep Inside)” D’Agostino prende le misure di una nuova dimensione artistica in cui immergersi, ma prima di avventurarsi sul percorso che lo trasformerà in uno degli idoli della seconda ondata italodance, si cimenta in una serie di tracce da cui affiora sia la passione per la sampledelia, sia il desiderio di creare qualcosa ex novo, che non assomigli al suo più recente passato forse perché si è già reso conto che l’epoca della mediterranean progressive sia ormai agli sgoccioli e il mercato si è stancato di brani strumentali. La cesura, tuttavia, non è netta ed immediata, “My Dimension”, “Psicadelica” (una specie di nuova “Fly” con ridotti varchi melodici), “Living In Freedom” e “Wondering Soul” (rilettura di “No Time” dei Guya Reg, edita dalla DBX Records di Joe T. Vannelli) contengono ancora chiari retaggi dell’epoca progressive ma in “Bam”, “Tuttobene” e “Locomotive” (rivisitazione di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, già riadattata con successo dagli U.S.U.R.A. in “Open Your Mind” nel ’92) l’artista dimostra la chiara volontà di andare oltre e rimettersi in discussione, anche a rischio di scontentare parte dei fan. Nella vivace “Rumore Di Fondo” rispolvera reticoli ritmici breakbeat, in “All In One Night” trova rifugio in una specie di trance epica trainata da un basso lanciato al galoppo, in “Gin Tonic” rallenta atipicamente i bpm. Non c’è un filo conduttore, sono tracce discontinue che abbracciano un’ampia gamma di sfumature sulla base di impeti creativi nuovi ed un pizzico eccentrici, ad attestare la voglia dell’artista di sperimentare mettendo in comunicazione e in relazione passato e presente, così come avviene in “Gin Lemon”, a posteriori configuratosi come un ibrido tra i cut-up meccanici di “Bla Bla Bla” o “Cuba Libre” e la vocalità umana di “Elisir”. Il pezzo è sequenziato su un sample celebre quanto simbolico per la house music continentale, il “pump up the volume” preso da “I Know You Got Soul” di Eric B. & Rakim ed eternato dai M.A.R.R.S. in “Pump Up The Volume” per l’appunto, di cui parliamo qui. Tutto questo avviene nel “Gin Lemon EP”, un avventuroso, eterogeneo e bizzarro triplo mix disponibile anche in versione colorata (verde, giallo, rosso) diventato ambito per i collezionisti. Altrettanto ricercata l’edizione su CD decorata dall’artwork di Tiberio Faedi intervistato in Decadance Extra, per cui sono stati già sborsati 450 €. Dall’extended play vengono estratti vari brani incisi su un 12″ contenente anche il remix di “Music (An Echo Deep Inside)” a firma Mario Scalambrin, vicino al modello utilizzato per la sua Van S Hard Mix di “Baby, I’m Yours” dei 49ers di cui parliamo qui. Nel contempo anche “Gin Lemon”, l’unico a colpire nel segno e finire nelle rotazioni radiofoniche, viene riversato su un singolo sul quale, tra le varie versioni, c’è pure una R.A.F. Zone Mix di Picotto in bilico tra hard house d’oltremanica e pizzicato style teutonico.

Mario Più (1997)
Mario Più in una foto del 1997

Progetto-miscellanea è anche quello di Bismark che incide un doppio mix intitolato “Project 696”, omonimo del programma radiofonico in onda su Power Station ai tempi condotto con Luca Cucchetti così come lui stesso racconta qui. All’interno sei tracce sviluppate intorno alla trance ma con ampie divagazioni che toccano solarità (“Female Vox”, “Trance Sensation”) e stratificazioni più scure (“Synthesis”) passando per echi mediterranean progressive (“Shadow”), rimbalzi à la “Chrome” (“Space Is The Place”) ed impervie modulazioni drum n bass miste a pulsioni speed garage (“Give Yourself 2 Me”). “Project 696” avrebbe dovuto anticipare l’uscita dell’album, così come annuncia lo stesso Bismark in un’intervista rilasciata a Barbara Calzolaio a novembre 1997, ma il progetto non andrà mai in porto. Sempre in autunno la BXR tira fuori un’altra hit destinata alle radio e al circuito più commerciale, “All I Need” di Mario Più Feat. More, un brano costruito sulla falsariga dei successi dei tedeschi Sash! che conquista licenze sparse per il mondo, Regno Unito e Stati Uniti inclusi con l’interesse mostrato dalla MCA. Una delle versioni remix, la Love Mix, uscita un paio di mesi più tardi, ricalca invece i suoni di “Come Into My Life” di Gala. Parallelamente Mario Più incide la strumentale “Your Love”, con l’aiuto e il supporto di Mauro Picotto e Francesco Farfa, destinata alle discoteche e per questo siglata con l’appellativo Club aggiunto al suo nome.

1998, un anno di transizione
Il primo BXR del 1998 è “All 4 One”, un EP contenente quattro tracce di altrettanti artisti. Da un lato Mario Più e Gigi D’Agostino, rispettivamente con una versione semistrumentale di “All I Need” (un possibile edit della Massive Mix?) e con la citata “All In One Night” presa dal descritto “Gin Lemon EP”, dall’altro Mauro Picotto e Ricky Le Roy, il primo con “Jump”, rivisitazione del marziale “Mig 29” di Mig 29, un classico hooveristico del 1991 tratto dal catalogo Pirate Records realizzato da Mauro ‘Pagany’ Aventino e Francesco Scandolari, il secondo con “Bridge”, riapparso poco tempo dopo col titolo “Speed” e modellato sulla falsariga dei successi dei B.B.E., “Seven Days And One Week” e “Flash”. Ai più attenti non passa inosservato il salto di parecchi numeri di catalogo, quasi una ventina (dal 25 al 43): ai tempi la Media Records spiega che la serie compresa tra il 1026 e il 1042 è destinata ad uso interno e non per dischi commercializzati ma in seguito emergerà una ragione più plausibile legata al fallimento del distributore, la Flying Records, a cui subentra temporaneamente la milanese Self. Sembra che il disallineamento del catalogo possa essere stato causato da quel passaggio ma non è dato sapere se ai diciassette numeri mancanti furono effettivamente attribuiti dei brani rimasti in archivio. Nei primi mesi dell’anno nei negozi arriva anche il nuovo di Saccoman, “Magic Moments”, ascritto a quel tipo di trance che il DJ programma come resident al Cocoricò di Riccione. A ruota segue Ricky Le Roy con “Speed”: se la Blond Angel Mix ha il tiro della hard house britannica sul modello di “Keep On Dancing” dei Perpetual Motion, la Sara Song Mix (già in circolazione col titolo “Bridge”, come annunciato poche righe sopra) batte più sul filone franco-teutonico con svirgolate acide e pause melodiche. Due i remix: quello techno di Francesco Farfa nascosto dietro Mr. Message, pseudonimo utilizzato poco tempo prima per lanciare la Audio Esperanto, e quello di Tony H chiamato Strobo Mix, presentato in anteprima nel suo programma del sabato notte su Radio DeeJay, “From Disco To Disco”, e costruito sullo stampo di “Black Alienation” che il compianto Zenith destina alla IST Records di Lenny Dee.

Mauro Picotto - Lizard
“Lizard”, il disco della svolta internazionale per Picotto e per la stessa BXR

La BXR naviga in una sorta di limbo: ormai la mediterranean progressive è un ricordo, per alcuni persino scomodo, ed urge scovare un nuovo filone da battere per tenere alto l’interesse. La svolta è dietro l’angolo ma nessuno lo sa ancora, incluso l’autore del brano che sancirà il “next step”, Mauro Picotto. L’accoglienza riservata alla sua “Lizard”, nella primavera del 1998, è piuttosto tiepida. Le quattro versioni racchiuse sul mix sono radicalmente diverse l’una dall’altra, ma una di esse risulterà determinante per gli sviluppi futuri, la Tea Mix, contraddistinta da un particolare disegno di basso (simile a quello della Explorer Version di “Dune” di Valez, Subway Records, 1994) la cui genesi viene raccontata dall’artista nel suo libro, “Vita Da DJ – From Heart To Techno” e che noi già svelammo, attraverso l’intervista al musicista Andrea Remondini, in Decadance Appendix nel 2012. L’effetto Larsen avvenuto al Joy’s di Mondovì genera una reazione euforica del pubblico e così Picotto, con l’aiuto del citato Remondini, cerca di riprodurlo in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando, un paio di mesi più tardi, arrivano i remix. In particolare, come raccontato qui, è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale e una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary e, forse, dal riff di “Prophecy” dei WW 3 (l’assonanza è particolarmente evidente nella Marathon Mix). Corre voce che a dare la spinta decisiva al brano sia stato Junior Vasquez dopo aver convinto John Creamer, l’A&R della Empire State Records (division della nota Eightball Records), a licenziarlo negli States. A ruota seguono Judge Jules, Graham Gold e soprattutto Pete Tong che lo inserisce in Essential Mix su BBC Radio 1 e che, poco tempo dopo, ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”. Il pezzo farà il giro del mondo aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per il DJ piemontese. “Lizard” è anche il primo disco che BXR pubblica con un rebranding grafico, contraddistinto ancora dall’immagine del pianeta ma avvolto in una sorta di spirale ciclonica e che per qualche tempo viene utilizzato (in ordine randomico?) insieme al primo, in uso dal 1996. Titoli e crediti, come preannunciato nel precedente paragrafo, finiscono su un inserto cartaceo allegato.

Gigi D'Agostino - Elisir
“Elisir” di Gigi D’Agostino, un successo dell’estate 1998 che però “disarciona” la BXR dalla posizione legata a generi come progressive e trance

Con l’arrivo dell’estate escono due dischi dichiaratamente pop che seguono la strada aperta da “All I Need”, “Sexy Rhythm” di Mario Più, ispirata da “Your Love” dei canadesi Lime, ed “Elisir” di Gigi D’Agostino, interpretata in incognito da David Michael Johnson che per la Media Records ha già inciso alcuni brani tempo prima tra cui la cover di “I Say A Little Prayer”. Come emerso dai contenuti del “Gin Lemon EP” uscito negli ultimi mesi del 1997, D’Agostino è in cerca di un’evoluzione e la trova, come lui stesso afferma in un’intervista del settembre ’98, in una via di mezzo tra house e progressive, «sempre con sonorità energetiche ma senza ritmi troppo ossessivi. I tempi cambiano, le ore corrono e si è già arrivati al nuovo capitolo». A dirla tutta di progressive in “Elisir” resta poco e niente, in prima linea c’è la marcetta che prende le mosse dalla verve sampledelica di “Gin Lemon” e la parte vocale (con qualche similitudine che vola a “Closer” di Liquid) esplosa nel ritornello sorretto dal pianoforte, ma questo non è il piano imperante in stile “Children” di Robert Miles, è piuttosto un elemento coadiuvante che l’autore adopera, con la complicità del musicista Paolo Sandrini, per creare un nuovo standard della dance. La posizione da DJ attivo solo in club di settore forse inizia a stare stretta a D’Agostino, vuole una nuova collocazione nella scena ma soprattutto nel mercato discografico, e questo lo si intuisce sin dai tempi di “Music (An Echo Deep Inside)” che intende andare oltre l’inflazionata mediterranean progressive. Ora riesce a trovare la quadra con una formula alchemica inaspettata per i suoi fan più incalliti e destinata a gettare i semi della seconda ondata italodance, attesa dalle grandi platee generaliste dopo la parentesi del biennio ’96-’97. “Elisir”, licenziato in parecchi Paesi europei ma anche negli States dove la Tommy Boy lo pubblica col titolo “Your Love”, viene salutato con tripudio dalle radio ed anche dalle tv. Memorabile l’apparizione ad “Italia Unz” su Italia 1, in cui D’Agostino sceglie di starsene comodamente sdraiato su un materassino gonfiabile piuttosto che mimare imbarazzanti performance in playback, lasciando invece il compito a David Michael Johnson di occuparsi del (pare necessario) lip-sync. Quella di “Sexy Rhythm” ed “Elisir” è una doppietta, disponibile anche in formato CD, che garantisce ottimi risultati alla Media Records, specialmente in riferimento ad “Elisir”, ma che nel contempo lascia spiazzato chi pensa alla BXR come etichetta legata a soluzioni meno commerciali e più vicine alla progressive (prima) e trance (poi). Che fine hanno fatto gli intenti di sfondare la barriera del prevedibile formato canzone? C’è forse la necessità di tornare a formule più canoniche e tradizionali per mantenere viva l’attenzione del pubblico?

Una foto dell’autunno 1998 in cui si scorge l’ideogramma che Picotto si “tatua” sui capelli: da lì a breve il simbolo diventa un elemento identificativo della sua immagine

A diversificare l’offerta, tenendo un piede nella dimensione più appetibile ai club e al frangente internazionale, sono comunque Tony H con “Zoo Future” (la versione destinata alle radio, la Lion Mix, ricicla il riff di “Get The Balance Right!” dei Depeche Mode) e Bismark con “Street Festival”, pensato come colonna sonora dell’omonimo evento che si tiene a Roma domenica 21 giugno e il nome delle quattro versioni (Colosseum Mix, Fori Imperiali Mix, Piazza Venezia Mix, Circo Massimo Mix) non lascia adito a dubbi sul legame con la Città Eterna. Alla manifestazione, organizzata sul modello della berlinese Love Parade ideata quasi dieci anni prima da Dr. Motte e Danielle de Picciotto intervistata qui, partecipano decine di DJ che si alternano su consolle allestite su camion. La Media Records ha un proprio carro sul quale si esibiscono praticamente tutti gli artisti della scuderia. Quell’estate al debutto su BXR ci sono anche i fratelli Giorgio ed Andrea Prezioso ed Alessandro ‘Marvin’ Moschini con “I Wanna Rock”, un divertente cut-up pubblicato pure su CD (con la copertina curata da Tiberio Faedi) ottenuto incrociando su una trascinante base hard house le chitarre di “Should I Stay Or Should I Go?” dei Clash ed un frammento vocale di “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock. L’idea però non raccoglie consensi analogamente a “Burning Like Fire / The Pinzel” che i tre firmano Stop Talking su GFB poche settimane prima. La rivincita, come si vedrà avanti, arriva circa dodici mesi più tardi. Ad anticiparla è “Hardcat” che Giorgio Prezioso realizza con Picotto come Tom Cat ma su Underground. La tornata autunnale continua ad alternare pezzi di estrazione trance/hard trance ad altri crossover: si passa così da “Distant Planet” di Saccoman, adorato da Talla 2XLC, a “Unicorn” di Mario Più, da “Under The Sea” di Ricky Le Roy ai remix di “Zoo Future” di Tony H (tra cui quello dei tedeschi DuMonde prossimi all’affermazione mondiale), da “Honey” di Mauro Picotto, ricamato sul giro di “Two Tribes” dei Frankie Goes To Hollywood ed affiancato sul lato b dalla coriacea “Smile” con una risata beffarda, a “Cuba Libre” di Gigi D’Agostino, un’ossessiva marcetta (licenziata negli States dalla Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez ma col nome Noise Maker) sincronizzata sui vocal di “Caught, Can We Get A Witness?” dei Public Enemy, già rispolverati con successo tempo prima dai Natural Born Chillers in “Rock The Funky Beat” in chiave drum n bass. A fine anno giunge “Spectra”, il primo col centrino su fondo verde e il pianeta irriconoscibile per la gradazione cromatica, con cui Mario Più e Mauro Picotto rinnovano il sodalizio e campionano la sezione ritmica di “Spastik” di Plastikman per innestare all’interno l’essenza del nuovo “BXR sound” che marchierà l’annata seguente.

Gigi D'Agostino - Bla Bla Bla
“Bla Bla Bla”, il primo successo messo a segno dalla BXR nel 1999

1999, verso ambiziosi obiettivi con hit internazionali e un nuovo logo
Per BXR il 1999 si apre all’insegna della neo eurodance di Mario Più Feat. More con “Run Away”: il DJ toscano continua ad alternare produzioni trance/hard trance ad altre di stampo prettamente pop come questa in cui, col tocco di Paolo Sandrini come arrangiatore, cerca di riagguantare l’essenza che ha fatto la fortuna dell’eurodance/italodance nostrana tra 1993 e 1994 con ovvi update del banco suoni e con l’esclusione del rap maschile a vantaggio di un’unica voce, quella femminile. Sul 12″ e sul CD singolo figura anche una versione di estrazione filo drum n bass, la Free Style Mix, forse pensata per il territorio britannico dove alcuni esperimenti simili, tipo quello di “Before Today” degli Everything But The Girl, destano particolare interesse. Il primo centro dell’anno, seppur in circolazione da diversi mesi (a dicembre ’98, quando è ancora privo di titolo, Picotto lo recensisce sulle pagine di DiscoiD definendolo «un pezzo che ha dell’incredibile»), è rappresentato da “Bla Bla Bla” di Gigi D’Agostino: edificato su una base simile a quella di “Elisir” e di “Cuba Libre”, la traccia diventa presto un autentico tormentone grazie al fulminante e ribaltante uso di un campionamento vocale tratto da “Why Did You Do It” degli Stretch, tagliato e montato a mo’ di filastrocca nonsense («l’ho realizzato pensando a tutta quella gente che parla tanto senza dir niente» dichiarerà poco tempo dopo l’autore, che in copertina vuole una massima del filosofo Voltaire). Il lato b è occupato per intero dalla Africanismo Mix di “Voyage”, poco più di quindici minuti trasognati e vissuti all’interno di uno shaker che frulla una particolare scansione ritmica che travalica i generi, a riprova della volontà di D’Agostino di dare costantemente una spinta in avanti alla sua musica. “Bla Bla Bla”, per cui viene realizzato un video-parodia de La Linea di Osvaldo Cavandoli, entra in dozzine di compilation e conquista il vertice di un numero imprecisato di classifiche. È il primo disco che BXR affida ad un nuovo distributore, la campana Global Net, lì dove lavora Daniele ‘Dany T’ Tramontano che a tal proposito rammenta: «Un mattino arrivarono in prima battuta diecimila copie di quel BXR e la sera ne erano rimaste forse appena cinquecento».

label variation
Due variazioni grafiche utilizzate dalla BXR tra 1998 e 1999

In primavera si ripresenta Mauro Picotto con “Pulsar”, un pezzo trance dedicato alla figlia primogenita Alessia che ricalca prevedibilmente lo schema di “Lizard” con l’aggiunta di un hook vocale che fa lo spelling del nome dello stesso artista. Tante le versioni approntate, due delle quali finite su un secondo 12″ codificato come Deeper Mixes. Nella stagione dei fiori si fanno risentire anche Bismark con gli affreschi melodici di “Parapapa”, e Tony H con “Sicilia…You Got It!”, che passa dalla tempestosa hard trance con tagli lavici acid della Etna Vulcan Mix alla ridente Taormina Mix, una specie di risposta a “Bla Bla Bla” che usa il campione vocale di “Ride The Pony” dei Peplab abbinato ad una linea melodica in stile “Profondo Rosso”. Curiosità: la Stromboli Mix viene pubblicata quasi contemporaneamente su Pirate Records ma con titolo ed autore differenti, “Mutation” di Pivot. Poco tempo dopo per la medesima etichetta Tony H realizza, con Picotto, “Venezia” di Venice, scandito da un fraseggio di violini che rilancia le atmosfere mediterranee di qualche anno prima. Riappare pure Saccoman con “The Bounce”: le due versioni sulla logo side, la Jumpin’ e la Pumpin’, girano sul classico disegno trance che il DJ veneto spinge in discoteca, mentre sulla info side trovano spazio la Surfin’, con una stesura ed evoluzione progressive che ricorda un classico di quattro anni prima, “Pleasure Voyage” di X-Form al quale abbiamo dedicato qui un articolo, e la Teain’ a firma Picotto, un incrocio tra la sua “Lizard”, un frammento di “Communication” di Mario Più di cui si parla più avanti, e le percussioni di “20Hz” di Capricorn. A ridosso dell’estate BXR prende in licenza per l’Italia “The Launch” dell’olandese DJ Jean, rivisitazione di “The Horn Song” di The Don del 1998 che funziona nei Paesi del Nord Europa ma che da noi fatica a spopolare seppur finisca in diverse compilation tra cui quella dedicata all’Energy mixata da Molella, e “Dream A Dream” dei Captain Jack, act hard dance di Colonia prodotto da Eric Sneo e remixato dai DuMonde. È tempo pure di una tripletta di remix, “Unicorn” di Mario Più, “Tunnel” di Ricky Le Roy e “Lizard” di Mauro Picotto che sbarca ufficialmente oltremanica attraverso la VC Recordings del gruppo Virgin. Proprio su “Lizard” mettono le mani il britannico Tall Paul, reduce dal successo di “Let Me Show You” di Camisra, e Gigi D’Agostino che disfa e ricostruisce il puzzle riciclando un frammento ritmico della sua “Elisir”. Proprio Picotto riporta in vita, per l’ultima volta, l’alter ego R.A.F. By Picotto per “America”, ennesimo derivato di “Lizard”. Sul lato b il remix di “Tuttincoro”, pubblicato a fine ’98 sulla Pirate Records e germogliato su “Leave In Silence” dei Depeche Mode.

Prezioso e Mario Più
Altre due hit annuali della BXR, “Tell Me Why” di Prezioso Feat. Marvin e “Communication” di Mario Più

Dopo il poco fortunato “I Wanna Rock”, i fratelli Prezioso si prendono la rivincita: accompagnati dalla voce di Marvin e con la collaborazione di Paolo Sandrini, incidono “Tell Me Why”, una hit dell’estate ’99 per cui viene girato un videoclip e che finisce al Festivalbar quell’anno presentato da Fiorello ed Alessia Marcuzzi. Nel pezzo i più attenti riconoscono due principali ispirazioni, la tastiera di “Talking In Your Sleep” dei Romantics e la strofa di “Family Man” di Mike Oldfield, ma quello dei Prezioso Feat. Marvin non è un collage figlio della sampledelia più macchinosa, sullo stile dei programmi radiofonici “blobbistici” di Giorgio, ma una canzone solare e perfetta per le platee delle megadiscoteche, non solo italiane a giudicare dal numero di licenze macinate in diversi Paesi del mondo. Va particolarmente bene in Svizzera, in Danimarca ma soprattutto in Austria e in Germania, piazzato rispettivamente in seconda e decima posizione della classifica di vendita. Proprio nella terra dei crauti i tre tengono parecchie serate ed apparizioni televisive come questa su RTL. Un’altra mina lasciata deflagrare dalla BXR nell’estate ’99 è “Communication” di Mario Più: colorita dal suono dell’interferenza del telefono cellulare, parallelamente usato dai Dual Band (Paolo Kighine e Francesco Zappalà) in “GSM” sulla modenese Stik, la traccia attinge (ancora) le forze dallo schema di “Lizard”, mietendo consensi grazie ad una potente dinamica del suono e rumorose rullate che fanno impazzire gli amanti dell’hard trance. Sul lato b figura “Hertz”, cover di un brano che Mario Più suona spesso nelle sue serate, “Pleasure” dei belgi The Squeakers pubblicato nel ’98 su etichetta Hertz. Il grande successo di “Communication” viene garantito però da un remix che giunge a distanza di qualche mese, quello realizzato oltremanica da Yomanda, scelto per sincronizzare il videoclip e sviluppato sulla base della More Mix. Il brano conquista il vertice della Top 40 Club Chart UK con circa 200.000 copie vendute, e l’autore viene ribattezzato “il Fatboy Slim italiano”. In autunno è tempo di una versione di Picotto firmata come Lizard Man. Parallelamente esce “Serendipity” con cui Mario Più rispolvera la melodia di “Showroom Dummies” dei Kraftwerk ed ufficializza la paternità del progetto DJ Arabesque, partito nel ’97 su etichetta Underground. Dopo i vari featuring per Mario Più, More (ex frontwoman dei T-Move Experience inizialmente nota come Jody Moore) incide il primo singolo da solista, “4 Ever With Me”. Il pezzo si inserisce in quella rosa di dance made in Italy al femminile interpretata da cantanti come Kim Lukas, Ann Lee o Neja. A fronte di ciò, il progetto traslocherà presto sulla division pop della BXR, la W/BXR, di cui si parla più avanti.

Mauro Picotto - Iguana
“Iguana”, il follow-up di “Lizard”, è una conferma per la carriera internazionale di Mauro Picotto

Se sino al 1998 il successo dell’etichetta è stato episodico ed occasionale, dal 1999 i trionfi diventano quasi sistematici. È il momento in cui la BXR catalizza l’attenzione della stampa internazionale che ne parla come squadra composta esclusivamente da DJ attivi nelle discoteche di settore e per questo particolarmente abili nell’intercettare i gusti del pubblico. «Abbiamo messo sotto contratto i più importanti disc jockey provenienti da differenti regioni italiane offrendo loro facoltà di produrre la musica che amano proporre durante le proprie serate» spiega Picotto in un articolo di Mark Dezzani pubblicato su Billboard il 12 giugno 1999. «Ci siamo accorti che esiste un grande mercato per la musica progressive/techno seppur le emittenti radiofoniche italiane, fatta eccezione per quelle specializzate, continuino a preferire house e pop dance» prosegue Bortolotti. «Abbiamo dunque deciso di alimentare e sviluppare ulteriormente questi generi più sperimentali e sfruttare internet per promuoverli anche se i software per scaricare illegalmente dalla Rete brani in formato MP3 metteranno presto in ginocchio il mondo della musica. Piuttosto che ignorare questa nuova realtà, però, useremo la tecnologia per portare online il nostro catalogo». Due le importanti novità autunnali: la prima riguarda il cambiamento di logo, con la X rossa in evidenza che manda definitivamente in soffitta le declinazioni grafiche precedenti, la seconda l’avvio di tre serie, Claxixx, Club e Superclub, rispettivamente contraddistinte dai colori bianco, nero ed argento e nate col fine di categorizzare in modo più accurato le pubblicazioni in base ai suoni e il pubblico di riferimento. Questa gradazione cromatica abbraccia inoltre le copertine generiche, sino a questo momento stampate in cinque colorazioni (rosso, nero, blu, giallo, celeste). Il primo ad essere interessato dal nuovo ordine/raggruppamento è “Iguana” di Mauro Picotto, follow-up di “Lizard” in cui l’autore torna ad utilizzare un sample vocale (preso da un live dei Kiss in cui la band esegue “Hotter Than Hell”) che ha già inserito nella sua prima produzione destinata alla Media Records, “We Gonna Get…” del 1991, ai tempi “ritagliato” da “Adrenalin” degli N-Joi. Sono svariate le versioni approntate tanto che nel complesso “Iguana” occupa tutte le serie, la Claxixx, la Club e la Superclub. Nel pacchetto è incluso anche un remix a firma Blank & Jones con cui i tedeschi ripagano la versione che Picotto realizza per la loro “After Love” uscita quasi in contemporanea. Il successo di “Iguana” tocca tutta l’Europa, in particolare la Germania dove resta per settimane al vertice delle classifiche di vendita. Viene prevedibilmente girato un videoclip diretto da Oliver Sommer e finito in high rotation su MTV, VIVA e tutte le principali tv musicali.

BXR Superclub apertura
Uno degli advertising con cui viene annunciata l’apertura del BXR Superclub, il 9 ottobre 1999

A consolidare ulteriormente la posizione, la promozione e la comunicazione di BXR, sono due progetti collaterali: uno su Italia Network, prossima a trasformarsi in RIN, chiamato Maximal, che porta in scena i DJ dell’etichetta con selezioni musicali in cui vengono palesate le coordinate dei brani selezionati, l’altro sul fronte discoteca con l’apertura, sabato 9 ottobre presso lo Shibuya di Rezzato, del BXR Superclub, il miglior palcoscenico che i DJ della Media Records potessero avere in quel momento, seppur rimanga in attività per appena una stagione (la serata di chiusura è del 20 maggio 2000). Maximal e il BXR Superclub veicolano in modo ferreo il suono del pianeta BXR, non più quello celeste del periodo mediterranean progressive bensì uno fiammeggiante rosso fuoco ben visibile sulla copertina del primo volume della “BXR Superclub Compilation”. Entrambe si rivelano presto come due straordinarie vetrine pubblicitarie in un periodo in cui il pubblico, o perlomeno quella parte di esso rappresentata dai fan più sfegatati, si emoziona e si sente fortunata ad ascoltare in anteprima i nuovi brani dei propri beniamini della consolle. Scommettendo su nomi nuovi anche a rischio di non centrare perfettamente l’obiettivo, la BXR mette a segno altre tre licenze, “Gouryella” dei Gouryella alias Tiësto e Ferry Corsten (dal catalogo Tsunami), il remix di “Madagascar” degli Art Of Trance (dal catalogo Platipus), e “The Day” di Lunatic House Sounds (dal catalogo DiKi Records, quella di Age Of Love di cui parliamo approfonditamente qui). Spazio anche agli artisti interni come Bismark con “Reactivate”, Massimo Cominotto con “Minimalistix” (il primo inciso per la BXR dopo un biennio vissuto su Underground), e Tony H con “Tagadà / www.tonyh.com”. «Il tagadà è una giostra techno con un movimento tipo centrifuga, e questo movimento mi fa pensare ad una rullata devastante con effetto energizzante sul corpo, lo stesso che il mio disco vuole ricreare» spiega l’autore ai tempi. «A “Tagadà” si aggiunge “www.tonyh.com”, proprio come il mio nuovo sito internet» conclude. Poi tocca a “Slave To The Rhythm”, cover dell’omonimo di Grace Jones realizzata dai PPK, progetto one shot nato sull’asse italo-britannico formato da Pete Pritchard, Mauro Picotto e Ben Keen alias BK (PPK è l’acronimo dei loro cognomi). Negli ultimi giorni dell’anno arriva infine “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, trance dolcemente immersa in atmosfere orientaleggianti rimarcate dalla grafica in copertina da cui affiorano i loghi degli autori.

Gigi D'Agostino - Tanzen
La copertina di “Tanzen” che nel ’99 apre il catalogo di W/BXR

Canalizzazioni tematiche per fare ordine
Il catalogo della BXR inizia a essere troppo eterogeneo: a produzioni di stampo progressive e trance se ne aggiungono altre prettamente pop ma tale sovrapposizione di mondi musicali, oltre a risultare dispersiva, disorienta i seguaci. Al fine di convogliare tutti quei pezzi dichiaratamente mainstream quindi, nel 1999 viene creata una “filiale” apposita, la W/BXR, partita col triplo “Tanzen” di Gigi D’Agostino che al suo interno raccoglie futuri successi (“The Riddle”, la strumentale “Passion” poi diventata “La Passion”, “Another Way”), nuove marcette ipnotiche à la “Cuba Libre” (“Acid”, “Movimento”, pubblicata l’anno prima su Underground e firmata come Noise Maker, “Coca & Havana”), rimembranze tranceoidi rilette a suo modo (“One Day”), una nuova versione di “Bla Bla Bla” intitolata Dark Mix, una sorta di remix della stessa, “A. A. A.”, realizzato da Mario Più e Ricky Effe, ed anche una hit mancata, “Star”. Per un anno circa la W/BXR raduna le ramificazioni della BXR destinate alle grandi masse generaliste, da “Let Me Stay” dei Prezioso Feat. Marvin ad “Around The World” di More passando per “Ritual Tibetan” dei Kaliya e le versioni vocali di “Techno Harmony” di Mario Più e di “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, quest’ultima interpretata dalla cantante algerina Amel Whaby. Dopo diciassette uscite, il progetto viene assorbito dalla ex Noise Maker ora NoiseMaker, riavviata con l’album “L’Amour Toujours” attraverso il quale D’Agostino si consacra a livello planetario radunando attorno a sé un oceano di supporter estatici, talvolta animati da una devozione ai limiti del fanatismo.

BXR Club, Gold, Sacrifice
I dischi inaugurali di BXR Club, BXR Gold e Sacrifice

Sempre del 1999 è una sottoetichetta di BXR chiamata BXR Club, nata con lo scopo di raccogliere le produzioni dal carattere più schiettamente clubby e con nessuna probabilità di fare crossover. A tagliare il nastro inaugurale è Gabry Fasano con “Jaiss Bangin'”, presto seguito da “Metempsicosi” di Ricky Le Roy (omonimo del gruppo di DJ a cui appartiene, fondato nella primavera del 1997), “Imperiale” di Mario Più & Mauro Picotto (con una pausa sonorizzata sulla melodia di “Merry Christmas Mr. Lawrence” di Ryuichi Sakamoto, dal film “Furyo”) e “Red Moon” ancora di Ricky Le Roy, che arriva a fine ’99 e chiude la breve parentesi rimpiazzata dalla categorizzazione distinta tra Claxixx, Club e Superclub di cui si è già detto sopra. Nell’estate del 2000 nasce la BXR Gold, espediente con cui la Media Records rimette in circolazione alcuni pezzi del repertorio BXR (ma non solo, qualcosa proviene dai cataloghi GFB ed Underground), organizzati in diversi EP che fanno felici i collezionisti seppur alla fine il progetto pecchi un po’ come esercizio autocelebrativo. Pochi mesi più tardi parte invece Sacrifice, etichetta che si colloca in posizione mediana tra Underground e BXR, sia per declinazione grafica che sonora. A marchiare la maggior parte delle pubblicazioni sono le lettere dell’alfabeto ellenico usate per siglare i nomi degli autori. A suggellare il tutto una linea di merchandising e l’apertura di branch sparse per l’Europa (Regno Unito, Germania, Benelux) che rappresentano un supporto valido ed utile per penetrare più capillarmente nei territori esteri.

Mauro Picotto - Pegasus
Sopra la copertina di “Pegasus”, sotto la foto da cui viene sviluppata la grafica

2000-2001, alla conquista del mondo con la supertechno
Uscita indenne dal temuto millennium bug, la BXR inizia il nuovo anno/secolo/millennio lanciando il sito web, che include anche un frequentatissimo forum, e riprendendo il discorso lasciato in sospeso a fine ’99 con “Arabian Pleasure” con canti esotici che fanno venire subito in mente dune, palmeti e qualche oasi. Adesso a marciare verso la calura desertica a bordo di un rullo compressore che fa il verso ai disegni di basso hi NRG di Bobby Orlando è Ricky Le Roy con “Tuareg”. Pronto probabilmente dall’autunno, esce in pieno inverno “Autumn” che dà avvio al progetto Lava, nato tra Italia e Germania dalla collaborazione tra Mauro Picotto, Riccardo Ferri e Tillmann Uhrmacher, DJ tedesco e noto speaker radiofonico su Sunshine Live dove conduce il programma Maximal, che divide solo l’omonimia con quello prima descritto e trasmesso da Italia Network. Come solista, Mauro Picotto sfodera “Pegasus”: la Tea Mix contiene ancora elementi lizardiani ma appare subito chiaro che il DJ si stia stancando di riciclare il basso “wuooom wuooom” ricavato da un vecchio BassStation Novation abbinato ad infinite rullate di snare, schema peraltro imitato da un numero sempre più consistente di competitor già dal 1998 (si sentano, ad esempio, “Enjoy” di Alex Castelli o “Zi-Muk” di CAP). La Superclub Mix di “Pegasus” difatti sposta il baricentro verso costrutti più intrisi di (hard)groovismo post millsiano, arricchito da una vena italo/europea. È uno dei primi brani con cui si inizia a parlare di supertechno, un nuovo filone che BXR, quell’anno premiata dalla rivista tedesca Raveline e corteggiatissima al Midem di Cannes e al Winter Music Conference di Miami, annuncia di seguire per scrollarsi di dosso il passato e restare fedele allo storico payoff della casa madre, “the sound of the future”. In copertina finisce l’elaborazione grafica di una foto scattata nei corridoi della Media Records da cui spicca il pittogramma asiatico giallo che Picotto si “tatua” all’altezza della tempia sinistra sin dall’autunno del ’98 e che diventa una vitale caratteristica della sua immagine pubblica nonché tag identificativa sulle copertine dei dischi. 

Mario Più - Techno Harmony
“Techno Harmony” conferma l’exploit internazionale di Mario Più

Analogamente a Massimo Cominotto, anche Joy Kitikonti approda su BXR dopo aver inciso svariati brani, pure sotto pseudonimi, su altre etichette del gruppo bortolottiano (Underground, GFB, Audio Esperanto). Il debutto sulla label, privo di botto ma solo posticipato di un anno circa, avviene attraverso “Agrimonyzer” in cui il DJ toscano fa sfoggio di numerose linee tambureggianti, retaggio delle esperienze giovanili come batterista. In particolare in una delle quattro versioni, la Hacker’s Mix, campiona il suono emesso dagli ormai obsoleti modem analogici a 56k, quella specie di telefonata non vocale che permetteva di entrare in Rete, un mondo che in quel momento inizia la corsa alla popolarizzazione su larga scala. Reduce dallo strepitoso successo oltremanica ottenuto con “Communication”, Mario Più appronta un follow-up mirato ad espandere la propria fanbase oltre i confini nazionali. In primavera è quindi la volta di “Techno Harmony”, una traccia nata in seno al fermento eurotrance che diventa canzone col titolo “My Love” grazie all’apporto vocale di Maurizio Agosti meglio noto come Principe Maurice, celebre performer del Cocoricò di Riccione. Come da copione, secondo una procedura in uso sin dai primi anni Novanta, la Media Records appronta un alto numero di versioni incise su vari 12″ e sul CD singolo. Gli sforzi vengono premiati, il brano vola alto nelle classifiche internazionali e conquista numerose licenze in primis nei Paesi chiave per la discografia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Mauro Picotto - Komodo
Con “Komodo” Mauro Picotto chiude la trilogia dei rettili e tocca l’apice della popolarità

Non da meno è certamente Mauro Picotto con “Komodo”, con cui chiude la trilogia rettiliana iniziata (non intenzionalmente) nel ’98. Annunciato come “Komodo Dragon” e col featuring dei Deep Forest che sarebbe stato legittimato da un campionamento della loro “Sweet Lullaby”, il pezzo, descritto dalla stampa come una specie di medley tra trance e world music, viene poi commercializzato più semplicemente come “Komodo” e trainato da un videoclip ancora diretto da Oliver Sommer in cui Picotto veste i panni di un investigatore che indaga su una serie di morti sospette. Il testo scritto ex novo sulla melodia di “Sweet Lullaby” diventa “Save A Soul” usato come sottotitolo. Sul 7″ allegato al doppio mix che la BXR pubblica in primavera inoltrata figura “Come Together”, brano downtempo (praticamente un mix tra “Save A Soul” e “Komodo”) che riflette un lato inedito di Picotto legato alla musica lounge e chillout. È il momento in cui l’artista piemontese tocca l’apice commerciale della carriera, finendo nelle lineup di eventi dalla risonanza internazionale come MayDay, Love Parade, Time Warp, Gatecrasher, Atlantis ed Homelands, in club come il Twilo di New York, nella Top 100 DJs di DJ Mag (al 27esimo posto) e sul palco di Top Of The Pops dove non mima azioni su una consolle spenta, così come solitamente è costretto a fare chi viene dal mondo delle discoteche per sottostare agli stringati tempi televisivi. Senza ovviamente tralasciare la sfilza di remix già approntati per artisti del calibro di System F e Blank & Jones a cui ne seguono molti altri di cui si parla più avanti. In Germania è un vero trionfo dove “Komodo” vende circa 300.000 copie. Davvero tante le versioni sfornate negli studi in Via Martiri Della Libertà come quella di Megamind, nome che Picotto usa prima con ruolo di remixer e poi come artista a partire da “Listen To Me” dell’autunno ’98, e quella di Saccoman. Quest’ultimo riappare con “Metamorph”, ennesima escursione nella trance di matrice tedesca ma variata, nella Part One Mix, in qualcosa di diverso e meno prevedibile. È quella che alla Media Records chiamano supertechno, «un’ulteriore evoluzione della tech-house classica ma rivista nello stile BXR» dirà in merito Mauro Picotto qualche tempo dopo. All’esordio su BXR c’è anche Franchino, vocalist popolarissimo in Toscana in locali come Imperiale ed Insomnia. Anche per lui, come per Cominotto e Kitikonti, dopo un paio di anni di training su Underground e GFB, si aprono le porte marchiate dalla X rossa e ciò avviene con “Calor”, traccia senza troppe pretese costruita su una parte più solare, trainata da un basso in ottava, ed una più scura ma un po’ anonima.

Svariati i pezzi presi in licenza dall’estero: i remix di “Schall” – inclusi quelli di Pascal F.E.O.S. e Thomas P. Heckmann – di Elektrochemie LK alias Thomas Schumacher (nel ’98 già approdato su GFB con “When I Rock”, su segnalazione di Picotto), “Communication Part II” di Armin Van Buuren, “Oasis” di Y.O.M.C., cover dell’omonimo dei Paragliders uscito cinque anni prima e diventato uno dei dischi del repertorio BXR più quotati sul mercato collezionistico, “Something About U” di The Act, “Pussylovers” di DJ Balloon (con uno stralcio vocale preso dal film “From Dusk Till Dawn” del ’96), “Digital Dialogue” di Nick Sentience, i remix di “Don’t Laugh” di Winx tra cui uno a firma Mauro Picotto (all’opera anche su “Time To Burn” degli Storm, “See The Light” dei DuMonde e “Running” dei Tyrell Corp.), e quelli di “Science Fiction” di Taucher, un buon successo in Germania sul quale mettono le mani i Cosmic Gate e Mario Più. Proprio quest’ultimo, dopo aver ottenuto un discreto responso oltralpe con “Serendipity”, ci riprova come DJ Arabesque e fa centro grazie a “The Vision”, eurotrance a presa rapida che fa letteralmente il giro del mondo macinando decine di licenze ed affermandosi completamente nel 2001. Più contenuti i risultati di “Dolphin” di Gee Moore, il DJ del Bora Bora di Ibiza con cui il team della Media Records inizia a collaborare l’anno prima con “All Fat Boys Dancing” finito su Underground. Fedele alla linea trance è Bismark che con “Make A Dream” europeizza il suo suono e fa breccia nella Kontor Records che lo ripubblica in Germania col remix di Azzido Da Bass. Dopo diversi mesi di programmazione su Italia Network, Maximal si trasforma in una compilation. Il primo volume, affidato a Ricky Le Roy, include tra le altre “Happy” di Cominotto e “Year 2000” di Tony H, rimaste confinate al formato CD.

La supertechno targata BXR continua a propagarsi in autunno con “Species” del citato Cominotto («un “disco da viaggio” privo di ritornelli a guidare l’ascoltatore, crossover tra trance e techno con qualche occhiata alla Detroit anni Novanta» come lo descrive ai tempi l’autore) ed un paio di feroci 12″ di Picotto contenenti quattro tracce tratte dal suo primo album (“Underground / Baguette”, “Bug / Eclectic”) ma non indirizzate al frangente radiofonico. Il follow-up di “Komodo” infatti è “Proximus” in cui trova alloggio un campionamento tratto da “Adiemus” di Karl Jenkins e che gli italiani hanno facoltà di ascoltare in anteprima attraverso un servizio messo a punto da Omnitel che trasforma il telefono cellulare in un juke-box chiamando il numero 2552. Immancabile il videoclip che chiude la serie diretta da Oliver Sommer, iniziata con “Iguana” e proseguita con “Komodo”: come Alberto Beltrame scrive qui il 27 maggio 2020, «al regista viene commissionato il compito di narrare le vicende dell’investigatore Mauro Picotto e della sua sexy antagonista, la misteriosa donna dagli occhi di drago […], un’assassina seriale che (nel video di “Proximus”, nda) sembra essere diventata ancora più potente e sfuggente, ma l’investigatore riuscirà a trovarla alla fine di un inseguimento» (a bordo di una Ferrari, nda). Negli ultimi frame il colpo di scena, la donna si trasforma in iguana e gli occhi di Picotto diventano gli stessi della donna-lucertola. Le numerose versioni aiutano la diffusione del brano sul fronte estero, quello a cui BXR ormai sembra ambire in modo deciso e non a caso il 20 dicembre Picotto raccoglie diversi premi ai German Dance Awards tenutisi ad Amburgo.

Mario Più - Sfyflex
Dopo circa cento pubblicazioni, la BXR abbandona il payoff Noise Maker

Nel frattempo i DJ della label bresciana continuano a radunare migliaia di adepti provenienti da diverse regioni d’Italia ogni sabato notte. Un autentico nomadismo che si alimenta anche grazie a nastri doppiati a profusione sui quali si rinvengono tanti dei pezzi che vengono testati con diversi mesi d’anticipo rispetto alle date di uscita ufficiali. È il caso di Mario Più con “Sfyflex”, finito sul lato b dei remix di “Techno Harmony” (con cui BXR perde definitivamente il payoff Noise Maker, diventato il nome di un’altra etichetta della Media Records curata artisticamente da Gigi D’Agostino), e di “Matrix”, pubblicato insieme a “Morpheus” in cui riaffiorano elementi di “Tryouts For The Human Race” degli Sparks, prodotta da Giorgio Moroder nel 1979, gli stessi riportati in superficie da Trisco nella sua “Musak”. Proprio “Matrix” è dedicata all’omonimo club, prima ospitato presso il fiorentino Central Park e poi al Ritmodromo di Coccaglio, dove Mario Più e i colleghi del gruppo Metempsicosi si trasferiscono nell’autunno 2000 dopo la fine del sodalizio con l’Insomnia di Ponsacco. Negli ultimi mesi dell’anno escono in rapida sequenza “All The Way” di Ricky Le Roy, trainato da una base in stile “Kernkraft 400 (Remix) di Zombie Nation o “The Greatest DJ” di Lexy & K-Paul, “Ogni Pensiero / È Controllo” di Franchino, al lavoro su una serie di interpolazioni prese dal film “Matrix”, “Just A Moment” di Bismark e “Global Players (My Name Is Techno)” di Mr. X & Mr. Y (WestBam ed Afrika Islam), preso in licenza dalla berlinese Low Spirit ed impreziosito dal remix di Beroshima. A questi si aggiungono “Weltklang” firmato da una new entry proveniente dalla filiale tedesca della BXR capeggiata da Robin Ewald ovvero Marco Zaffarano, consolidato nome che vanta produzioni su Harthouse e due album sull’indimenticata MFS, e “Tenshi” dei Gouryella, che non riesce però a raccogliere gli stessi risultati ottenuti all’estero.

Il 2001 vede proseguire la marcia trionfale di Mauro Picotto, nuovamente sotto i riflettori con un altro estratto dall’album, “Like This Like That”, melodicamente derivato da “Blue Fear” di Armin del 1997. Il DJ originario di Cavour, un piccolo paesino in provincia di Torino, conquista per l’ennesima volta le classifiche di vendita d’oltralpe con licenze sparse in tutto il mondo. Il videoclip, trasmesso massivamente da VIVA, contribuisce alla popolarizzazione della sua immagine. A dirigerlo è ancora Oliver Sommer che, come scrive Alberto Beltrame nel già citato articolo del 2020, «si basa sul parallelismo per opposizione di due mondi in un bellissimo gioco sul bianco e nero. Gli unici elementi che possono far ricordare la video-serie (“Iguana”, “Komodo”, “Proximus”, nda) sono l’intro e l’outro alla James Bond, potenzialmente leggibili come un vago richiamo all’investigatore Picotto ed alle sue avventure». È un momento propizio anche per Mario Più che torna con l’album “Vision”, una raccolta dei suoi maggiori successi con qualche anticipazione su ciò che avverrà nei mesi a venire come “Love Game”, ancora interpretato da Principe Maurice. Ispirato da “Back To Earth” di Yves Deruyter è Saccoman che riappare con “The Recall” seguito da Franchino e la sua “Magia Technologika” in cui rivivono fraseggi quasi mediterranean progressive. “Spring Time (Let Yourself Go)” è il follow-up di Lava che il compianto Tillmann Uhrmacher produce ancora con Picotto e il fido Riccardo Ferri. Dall’estero arrivano l’irlandese Darren Flynn, il britannico Simon Foy e l’elvetico DJ Pure, rispettivamente con “Spirit Of Sp@ce”, “Insideout” e “My Definition”, tutti in stile trance.

Joy Kitikonti - Joyenergizer
“Joyenergizer” porta il nome di Joy Kitikonti all’attenzione del grande pubblico

Su “My Definition” mette le grinfie, come remixer, Joy Kitikonti che si ripresenta con “Joyenergizer”, una traccia sviluppata, come lui stesso racconta qui, «partendo da una kick ottenuta col sintetizzatore Access Virus A, poi lavorata con LFO e processata attraverso vari plugin durante la costruzione su Logic». La Psico Mix travolge e stravolge con un’effettistica strisciante e liquefatta, particolarmente efficace nei break. Senza ombra di dubbio è la matrice del suono a fare la differenza e a giocare sull’unicità. Diversamente dalle sue precedenti produzioni, questa entra in classifica di vendita e ciò impone la realizzazione di un videoclip girato ad Ibiza.

Mentre Kitikonti dà alle stampe un pezzo capace di abbracciare un pubblico più eterogeneo e trasversale, Picotto (che ritocca “Joyenergizer” in un remix madido di sudore) prende qualche distanza dal mondo delle hit a presa rapida orientate alle radio e al pubblico generalista convogliando nel “Metamorphose EP” cinque tracce incise su un doppio mix pensate e destinate ai soli club. Allineati all’hardgroove che vive un momento particolarmente galvanizzante, i pezzi del piemontese mescolano tribalismi demolitori di scuola millsiana (“Prendi & Scappa”, “Wake Up”) a svirgolate di techno frammista ad affilate linee di sintetizzatore sullo stile dello sloveno Umek (“Verdi”, “Kebab”) passando per un intro ambientale beatless (“Luna“). 

Picotto - Metamorphose Awesome
Con “Metamorphose EP” e “Awesome!!!” Mauro Picotto inizia a prendere le distanze dal collaudato schema delle sue hit più popolari

«Ora preferisco fare dischi con più sound e meno melodia» dichiara l’artista pochi mesi prima dell’uscita dell’EP in un’intervista di Riccardo Sada pubblicata a febbraio. «So che così facendo perderò una buona fetta di mercato, magari quello italiano, ma probabilmente potrò conquistarne tanti altri. In Germania il vento soffia a mio favore così come nel Regno Unito e ad Ibiza che è una cosa a sé rispetto alla Spagna». Picotto ormai è nel gotha del DJing mondiale, vede riconfermare la propria presenza nella Top 100 DJs del magazine britannico DJ Mag in ottava piazza (posizione più alta in assoluto sinora conquistata da un italiano) e fa da apripista a colleghi che militano con lui tra le fila della BXR ossia Mario Più (54esimo) e Gigi D’Agostino (98esimo). Poi è la volta di Cominotto con “Trouble”, «una produzione in cui credo molto dopo aver visto gli effetti in locali tipo Cocoricò, Red Zone, Alter Ego e Supalova» come afferma lo stesso autore che aggiunge: «all’interno c’è una versione sfacciatamente tech-house, neologismo che tra le ilarità generali uso da qualche anno e che casualmente oggi rappresenta il crossover più seguito, non certamente per merito mio ma in questa porca Italia sono stato tra i primi a crederci». Seguono Ricky Le Roy con “Dancer” e Bismark con “Triplet”, entrambi con lo shuffle applicato alla batteria in memoria di un successo tedesco di qualche tempo prima, “The Darkside” di Hypetraxx. Accolti su BXR, dopo un “praticantato” su Underground, sono Sandro Vibot con “Everyday”, Zicky (ormai non più “Il Giullare”) con “Follow Me” e Fabio MC con “Mimic”. Lasciandosi alle spalle la comparsata del ’99 sulla effimera BXR Club, riappare pure Gabry Fasano: il “cacciabombardiere” del Jaiss, così come lo chiamano affettuosamente i fan, firma una doppia a side racchiusa in una cornice sonora dai tratti impetuosi e che trasuda energia, “Catapulta”, con un frammento ritmico carpito da un EP di Christian Fischer su Statik Entertainment del ’99 opportunamente velocizzato, e “Ringmo”, che si avvicina alla scuola di Chris Liebing. Attratti dalle manipolazioni del beat sono pure Mario Più, che in “Ayers Rock” inserisce il suono di un didgeridoo, ed Athos Botti, semplicemente noto come Athos, con l’incalzante “Infect”.

In autunno tornano l’ibizenco Gee Moore col percussivo “G-Tribe”, Bismark con “Primitive Love” e Saccoman con “Revelation” mentre Mario Più e Fabio MC (che su Underground danno avvio al progetto TK 401) firmano “Invaders / Away”. In solitaria invece Mario Più realizza “Sensation”, altro estratto dall’album “Vision” in chiave smaccatamente trance. Menzione a parte merita il secondo doppio mix dato alle stampe da Mauro Picotto, “Awesome!!!”, naturale prosieguo al “Metamorphose EP” di pochi mesi prima. Appare sempre più evidente come al DJ inizi a stare stretto il ruolo da coordinatore dell’etichetta e che soprattutto sia stanco di confezionare follow-up standard per accontentare le richieste del mercato discografico più mainstream. Non è certamente un caso che nessuna delle sei tracce incluse (tra cui “Cyberfood”, “Hong Kong” e “Bangkok”) attinga elementi dalle sue hit nazionalpopolari. A cambiare, oltre ai suoni, sono le stesure e soprattutto il mood. «Avevo saturato il mio gusto commerciale ed avvertii la necessità di compensarlo con qualcosa di più club» dirà lui stesso qualche mese più tardi. Picotto cerca nuove strade per rivoluzionare la sua carriera e le trova. Il cambiamento radicale arriverà alla fine del 2002.

“Gula-Matari” è l’ennesimo dei dischi con cui Cominotto traduce il suo spirito eclettico da DJ

2002, i primi scricchiolii
Massimo Cominotto è tra i DJ della scuderia BXR a saper resistere al richiamo della popolarità generalista. «Ci fu una corsa a chi faceva canzonette orecchiabili ma io non ne sono stato capace oppure, più semplicemente, non mi interessava comporle» dichiara in questa intervista del 2020. Alla sua fermezza da DJ si somma quindi la coerenza stilistica delle produzioni discografiche a cui ora si aggiunge “Gula-Matari”. Da un lato la Techno Mix che arde in loop circolari, dall’altro la Funky Mix che sovverte il rodato schema sonoro dell’etichetta bresciana con patchwork di micro sample fusion (presi da “Gula Matari” di Quincy Jones) inchiodati su un sostenuto pianale ritmico. «Vorrei vedere la faccia dei technofili mentre ascoltano fiati, chitarre wah wah e voci femminili» ironizza l’autore ai tempi dell’uscita. Più canonico invece il carattere che Ricky Le Roy infonde in “One Day”, tra suoni cristallini in cascata e aggressività hardgroove, la stessa che qualifica pure il “Percutor EP” di Fabio MC trainato dal pezzo “Klaude”. Ascritto al comparto techno groovy è anche Marco Zaffarano con “Re-Take” che sul lato b vede il remix di “Playback” a firma Picotto con inserti latini in scia a vari successi internazionali di quel periodo realizzati da artisti come Tomaz vs. Filterheadz, Cristian Varela o Renato Cohen. Fedelmente ancorato alla trance resta invece Bismark con la sua “E.R.K.”, ed è trance anche quella di “Like A Dream” del tedesco Andy Jay Powell, arricchita da un remix degli RMB (proprio quelli di “Universe Of Love” di cui parliamo dettagliatamente qui), e di “Believe Me”, quinto brano che Mario Più firma come DJ Arabesque. Retrogusto inaspettatamente house/disco invece per Franchino che ritorna con “Ficha No Caixa”, una specie di french touch velocizzato ai confini con apparati technoidi, segno della fusione tra mondi musicali che avviene nei primi anni Duemila quando la distanza tra house e techno diventa sempre più labile o si azzera del tutto.

Dopo diverse esperienze consumate su Underground, sbarca su BXR come artista anche Riccardo Ferri alias Ricky Effe, collaboratore di vecchia data di Media Records e fedele spalla di Mauro Picotto. Le due tracce solcate sul 12″, “Rectifier” e “Trythis”, occhieggiano all’hardgroove teutonica, la medesima con cui Picotto sta progressivamente sostituendo la formula techno trance, oggetto di un’evidente inflazione, ma non prima di lanciare i remix 2002 di “Pulsar” (tra cui uno a firma Tiësto ma stranamente ora escluso dalla pubblicazione italiana) e soprattutto “Back To Cali”, riverberato da un remix dell’infaticabile Push, tra gli artisti chiave della Bonzai. Col follow-up “Joydontstop”, costruito sul giro portante della citata “Schall” di Elektrochemie LK e per cui viene approntato un videoclip, Joy Kitikonti prova a bissare il successo di “Joyenergizer” ma raccogliendo solo parzialmente i risultati attesi mentre Athos campiona le voci da una puntata della serie televisiva “South Park” per “Oh My God!!!” che si afferma nel circuito dei club. Saccoman ritorna con “Deep In The Woods”, Zicky con “Yeah Man Bomboclat”, Fabio MC con “Prisma EP” e Bismark con “Fluid” ma qualcosa nel BXR Sound comincia a mutare. Se da un lato la costante vocazione all’europeizzazione (quell’anno la Media Records inaugura le filiali iberiche e scandinave) rende i prodotti appetibili sul fronte internazionale, dall’altro tende ad allinearli troppo ad uno standard che gioca a svantaggio dell’identità. Alcune nuove uscite, come “Into The Blue” di Saccoman o “Kiss Me” di Ricky Le Roy ad esempio, non lasciano il segno, tuttavia la spinta ottenuta nelle annate precedenti è talmente forte da non incrinare del tutto gli equilibri. Nella Top 100 DJs di DJ Mag infatti Picotto è 14esimo, Mario Più 82esimo e Joy Kitikonti 91esimo.

Mentre il tenace Cominotto continua ad incidere ciò che più gli aggrada (“Iron Butterfly”) senza preoccuparsi di trovare il modo per penetrare nelle classifiche di vendita, Bismark produce a quattro mani “The Theme Of Sphere” con lo svizzero Philippe Rochard. Alla brigata si aggiunge poi Angelo Pandolfi che come Pan Project firma “L’Amour Pour La Musique” ed “NRG”, due brani influenzati dallo stile di Gigi D’Agostino che però dividono poco e niente con la linea intrapresa dalla BXR, e a dirla tutta anche la resurrezione di “U Got 2 Know” dei Cappella, attraverso i remix di R.A.F. e Joy Kitikonti, non pare proprio una mossa azzeccata. Decisamente più pertinenti risultano “Capsule / Random” di Trasponder, secondo (ed ultimo) atto del progetto messo su l’anno prima da Gabry Fasano e Riccardo Ferri su Underground, “Flair / Return Of Memory” di Fabio MC (“Return Of Memory”, in particolare, è una piroetta nel suono belga della Bonzai, con rimandi a “Synthetic Apocalypse” dei Musix) e “96 Street” di Sandro Vibot. Una deviazione hard house, sullo stile di Sharp Boys, Tony De Vit, Malcolm Duffy ed Alan Thompson, viene presa grazie a Pagano, fattosi notare con alcune pubblicazioni sulla Fragile Records (etichetta del gruppo Arsenic Sound di Paolino Nobile intervistato qui) quell’anno nominato A&R della Nukleuz Italy: prima con “Work It”, realizzata con Marco ‘Maico’ Piraccini, e poi con “(You Better Not) Return To Me” (ripescando frammenti vocali di “Return To Me” di Fits Of Gloom, Baia Degli Angeli, 1994), il DJ nativo di Catania tenta di aprire nuovi spiragli nel mercato estero, in primis quello britannico dove il filone hard house vive uno spiccato fermento.

Above & Beyond - Far From In Love
“Far From In Love” di Above & Beyond, tra i primi 12″ attraverso cui filtra la nuova veste grafica della BXR

In autunno arrivano due licenze, “Ligaya” di Gouryella, nel frattempo diventato progetto solista di Ferry Corsten, e “Far From In Love” del trio Above & Beyond, oggetto di forti interessi nell’Europa centrale ma praticamente ignorati da noi. Sono tra i primi dischi con cui BXR rinnova ancora il layout grafico, minimalizzato e spinto verso il bicromatismo bianco/nero già adoperato da qualche anno per Underground e Sacrifice. La notizia che chiude il 2002 intristendo migliaia di fan è quella dell’abbandono di Mauro Picotto che lascia l’etichetta di Bortolotti dopo undici anni. «La Media Records è stato il mio primo sogno realizzato con successo» dichiara nell’intervista rilasciata allo scrivente pubblicata a dicembre, la prima in cui annuncia pubblicamente la decisione. «La scelta di lasciare è legata agli impegni e soprattutto ai miei sogni, e lo dico in modo chiaro perché vorrei che non venisse fuori nessuna storia strampalata o riportata in modo traviato. L’ultimo anno mi ha visto parecchio impegnato in giro per il mondo come DJ e questo mi ha portato, inevitabilmente, a trascurare gli studi di registrazione. Perché quindi continuare ad essere responsabile di un prodotto se non posso più controllarne la qualità? Così ho maturato la decisione di lasciare e per me è stata una cosa naturale, ho bisogno di obiettivi e stimoli nuovi. Per quanto riguarda le produzioni, continuerò a seguire il mio istinto, come ho sempre fatto. Farò quello che mi pare a seconda del mio umore e soprattutto senza vincoli, perché vorrei decidere in autonomia la data di pubblicazione di un nuovo brano. “Back To Cali”, ad esempio, è uscito ad un anno dalla sua produzione, quando ormai non era più in linea con ciò che proponevo nei miei set da DJ. Insomma, vorrei condividere le cose col mio pubblico nel momento in cui emozionano anche me e non vederle bloccate dalle leggi di mercato delle varie aziende». Per l’occasione Picotto spiega anche le ragioni che lo allontanano dalla trance da classifica e lo fanno uscire dalla comfort zone: «Mi sembra che nella trance non ci siano grandi novità e non ho più voglia di produrre brani in stile “Lizard”. Preferisco piuttosto rischiare e cercare cose nuove, non amo ripetermi eccessivamente. Talvolta i cambiamenti sono stimolanti e permettono di vedere nuove frontiere. Attenzione però, non sto rinnegando il mio recente passato. Sarò sempre legato a “Lizard”, che ho suonato per la prima volta su un acetato domenica 7 dicembre 1997 all’Ultimo Impero di Airasca e che, a mio avviso, ha aperto le porte ad uno stile musicale e rimarrà una pietra miliare. Il fatto che in Italia non venne presa in considerazione dai network radiofonici è stata la sua fortuna: essendo una club hit, ha visto allungarsi la vita più del doppio rispetto ai classici successi trasmessi in FM». L’occasione è giusta pure per fare dei paragoni con l’estero: «Musicalmente i club europei non hanno nulla a che vedere con la maggior parte di quelli italiani anche perché non vengono influenzati dai network. All’estero inoltre i palinsesti delle emittenti radiofoniche includono programmi tematici che accrescono l’informazione musicale del pubblico ed influiscono positivamente sulle vendite dei dischi. Tante produzioni che sono in classifica da noi invece non vengono minimamente prese in considerazione oltre le Alpi. […]. Il successo di questi anni mi ha portato un ricco bottino di soddisfazioni e sono fiero di essere stato il primo e sinora l’unico italiano ad aver solcato l’ambita soglia della top 10 della classifica annuale di DJ Mag. Non che sia così determinante nella vita di un DJ, sia chiaro, ma una certa visibilità non guasta mai. Adesso inizio a sentirmi appagato delle tante fatiche spese ad inizio carriera quando qualcuno, tra i colleghi, rideva dei miei sogni».

2003, il primo anno post Picotto
Il 2003 consegna una BXR con evidenti differenze rispetto a quella che il grande pubblico ha conosciuto negli anni precedenti, a partire dalla nuova impostazione grafica che minimalizza il logo ora ridotto alla sola X sino alla scuderia artistica che inizia a disgregarsi. Alcune partenze però sono presto rimpiazzate con nuovi arrivi. Attraverso “Trip On The Moon / M.I.R.” ed “Elektronic Atmosphere”, ad esempio, debuttano rispettivamente Paola Peroni, che già collabora con Media Records una decina di anni prima, e il DJ bresciano Giovanni Pasquariello alias Exile. A pochi mesi di distanza dall’esordio riappare Pagano con la doppia a side “Packet Of Peace” (cover dell’omonimo dei Lionrock, portato in Italia esattamente un decennio prima proprio attraverso una delle etichette della Media Records, la GFB) / “Blade“, e viene accolto l’olandese Marco V con “Simulated”, su licenza ID&T. Riconfermate le presenze del capitolino Bismark con “In My Heart” e del livornese Mario Più con “Devotion” contenente “C’era Una Volta Il West”, cover dell’omonimo di Ennio Morricone per cui viene girato un videoclip a Bormio, in montagna, sullo sfondo di un paesaggio innevato.

Mario Più e Joy Kitikonti in una foto del 2003, anno in cui diventano gli A&R della BXR

I prescelti per guidare la BXR post picottiana sono Mario Più e Joy Kitikonti che prima realizzano “Strance” firmata con gli pseudonimi DJ Arabesque e Jakyro e poi producono “Mossaic” del DJ colombiano Moss, approdato su Underground nel 2001 con “Bogotá Experiences”, e “Light My Fire” come Rocktronic Orchestra, cover dell’evergreen dei Doors. Saranno sempre loro due, uniti in parallelo come MariKit, gli artefici di gran parte delle versioni remix apparse durante l’annata su BXR. La linea stilistica predominante di questa fase è divisa tra trance/hard trance ed hardgroove, come attestano la nuova licenza per Marco V (“C:\del*.mp3 / Solarize”), “Freedom” di Ricky Le Roy, “Roraima / Logic Guitar” di Mario Più ed “Harem” di Paola Peroni, che tanto ammicca alla techno latina di cui si è già detto sopra. Il cremonese Eros Ongari alias Ronnie Play appronta “It’s Time To Dance”, una specie di rilettura italica dell’electroclash costruita sul giro di accordi di “Fade To Grey” dei Visage, Fabio MC staziona sul segmento hardgroove con la doppietta “Impact / Zelig” e “Priority / Reality”, Kitikonti prova ancora a sfruttare la scia di “Joyenergizer” con “Pornojoy”, trascinato in tv da un videoclip ispirato dai film erotici degli anni Settanta e per questo censurato a causa di contenuti considerati troppo espliciti, e Gee Moore si rifà vivo con “Slam Dunk Funk”. Sul fronte licenze tocca all’argentino DJ Dero (quello di “Batucada” e “La Campana”) con “Revolution 07”, scovato da Kitikonti e con remix annesso di Robbie Rivera, e ai tedeschi Tube-Tech con un’altra cover dei Doors di Jim Morrison, “The End”, arricchita dal remix dei Vanguard reduci dal successo ottenuto poco tempo prima col remake di “Flash” dei Queen.

Della BXR «che guardava avanti e che prende spunto dai DJ che suonavano musica diversa lasciando spazio alla creatività, senza supervisioni dei capi», come la descrive Bismark in un’intervista pubblicata a gennaio 2003, resta ormai ben poco. In autunno arrivano gli Spolvet (Andrea Vettori e Niccolò Spolveri) con “Rock The Sun”, in posizione mediana tra hardgroove ed hard trance, Joman (una delle tante impersonificazioni di Joy Kitikonti) con “Tronic Toys”, Zicky con “The Party Goes On” e i Kiper (Joy Ki-tikonti e Paola Per-oni) con “The Land Of Freedom”. A chiudere è “Incanto Per Ginevra” di Mario Più, dedicata alla nascita della figlia Ginevra immortalata in copertina. Nel frattempo Picotto e l’inseparabile Riccardo Ferri approdano alla britannica Primate Recordings con “Alchemist EP” trainato da “New Time New Place”: il doppio mix vende oltre dodicimila copie ma non genera introiti economici a causa del fallimento del distributore, la Prime Distribution. Picotto però non demorde e vara la sua personale etichetta, la Alchemy, inaugurandola con “Playing Footsie / Amazing” e sulla quale ospiterà alcuni artisti che lo seguono dopo l’abbandono della BXR ossia Massimo Cominotto, Gabry Fasano e il prematuramente scomparso Athos.

2004-2005-2006, gli ultimi anni di attività
L’inizio del nuovo millennio è nefasto per la discografia mondiale. Innumerevoli etichette indipendenti chiudono battenti sopraffatte dalla pirateria e dalla crisi che sembra non conoscere fine. L’atteso salto nel futuro che avrebbe garantito il 2000 in realtà riserva solo strade in salita e prospettive tutt’altro che rosee: le soglie di vendita di pochi anni prima («numeri notevoli sia in Italia che all’estero, che partivano da ventimila copie o giù di lì per nomi tipo Picotto, Più o Kitikonti» rammenta ancora Daniele Tramontano della Global Net in relazione a BXR) si assottigliano sensibilmente, la maggior parte dei distributori fallisce e l’invasione di nuovi equipment digitali sferra il colpo di grazia al mercato del disco in vinile, ridotto ormai ad una nicchia di utenza sempre più esigua. A tutto ciò si aggiunge l’introduzione dell’euro, un cambiamento epocale che mette a dura prova il potere di acquisto di chi, in Italia, continua a credere nel supporto analogico. La Media Records non esce indenne da questa “tempesta”, nonostante fosse preparata ed avvezza da anni alle nuove forme di fruizione della musica, e l’allontanamento di Gianfranco Bortolotti, ormai impegnato come architetto, e l’attività ridimensionata della BXR e di tutte le etichette del gruppo ne sono palesi testimonianze.

Mario Più - Champ Elisées
Con “Champ Elisées” Mario Più tenta di tornare al grande successo

Il senso di confusione e smarrimento sul versante stilistico non aiuta di certo gli A&R della label, disorientati come tanti di fronte a repentini mutamenti che vedono crollare tutte le vecchie certezze. «I DJ che suonano house si sono appropriati di sonorità techno, progressive ed elettroniche» dichiara Mario Più in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile 2004. Ed aggiunge: «C’è stato un notevole avvicinamento dei generi. Io stesso adesso posso esibirmi in locali house perché propongo un suono meno “duro”». Proprio Mario Più incide prima l’anonimo “Green Day EP” e poi “Champ Elisées” in compagnia di Gare Mat K, con cui prova a rilanciarsi nel mainstream abbracciando il mondo electro house che pare la tendenza più importante del momento. Il brano, immerso in atmosfere piuttosto malinconiche ed annunciato come primo singolo del nuovo album “From Dusk Till Dawn” rimasto nel cassetto sino al 2015, è interpretato vocalmente da una certa Catalina B. ed è imperniato su un giro di chitarra che fa il verso a quello di “A Forest” dei Cure. Exile ritorna con “Tragic Error…”, in balia di una techno frammista ad elementi elettronici, Ronnie Play ci riprova con “Walking On The Sunshine”, electro house un filo maldestra e grossolana con qualche propaggine rockeggiante, mentre Franchino (con la K nel nome al posto della ch) si ripresenta con “Solidão”, trance dai riflessi mediterranei forse composta pensando ai bei tempi che furono.

Spazio anche al team dei Trilogy con “Navaho”, che a seconda della versione imbocca sentieri progressive house ed electro house, e ad un paio di licenze estere, “White Scale” dei Subnerve (uscito originariamente nel 1996) e “One Way Out” di Niels Van Gogh col remix di Martin Eyerer che da lì a breve fonda la Kling Klong. A mitigare il proprio apparato stilistico è persino un integralista della techno, Fabio MC, in “Tridonic / Meteor-A”, composte ancora con Simone Pancani. I fasti della BXR ormai sono lontani. A rammentarli è “Iguana” di Mauro Picotto che riappare attraverso due versioni, A Different Starting Mix e il remix del giapponese Yoji Biomehanika che precipita in pozzi hardstyle. Nel corso dell’anno anche Mario Più lascia la Media Records per fondare la sua etichetta, la Fahrenheit Music, nonostante dichiari, in un’intervista pubblicata ad aprile, di non avere alcuna intenzione di mettersi in proprio: «Non andrei molto lontano, specialmente in questo periodo, e non avrei ragione di farlo perché in Media Records mi trovo benissimo, da una struttura così solida e consolidata ho tutto il supporto che mi serve». Per BXR il destino è ormai segnato. Ad inizio 2005 esce “Pulsar 2K5” di Mauro Picotto, ennesimo tentativo di tenere a galla un transatlantico che si sta inesorabilmente inabissando. In copertina si fa riferimento a due “unreleased mix” mai pubblicati in Italia ma che i fan conoscono bene, la Megavoices Mix e il remix di Tiësto. A tirare il sipario è Joy Kitikonti, prima insieme a Cristian Vecchio per il “Finally EP” e poi con Joys Audino per “Started”, nel segno dell’electro house.

BXR last logo
Il logo, il quinto, con cui la BXR riappare nel 2017

2017, un’effimera ripartenza
Tra le etichette che Gianfranco Bortolotti prova a lanciare e rilanciare a partire dal 2015 col gruppo Media Records EVO, oltre ad Underground, UMM ed Heartbeat, c’è anche la BXR, affidata all’A&R Philipp Kieser e marchiata con un nuovo logo. L’idea prende corpo ad inizio del 2016 ma bisogna attendere febbraio dell’anno successivo per vederla concretizzata attraverso la pubblicazione del “No Mercy EP” di 6470 alias Davide Piras. Il 12″ raduna quattro brani (“Our Cognitive Dissonance”, “No Mercy”, “Introspection”, “September 10”) affini alla techno ormai definitivamente sdoganata nel mainstream e richiesta nei circuiti EDM. A giugno segue, questa volta solo in formato digitale, “Mapping A Messiah EP” del bulgaro Ghost303 alias Ivan Shopov, ulteriore tentativo di salire sul treno in corsa di quella techno di cantiere drumcodiano adorata da folle oceaniche ma vacua sotto il profilo delle sollecitazioni creative. Si parla di una possibile terza uscita che avrebbe contato sulle jam session registrate in studio da Kieser, Piras e Shopov, ma il progetto non va in porto. L’altoatesino Kieser, in un comunicato stampa diramato a febbraio 2016, dichiara che il suo intento non è quello di limitarsi ad una strategia copia-incolla: «Ci lanceremo sulla scena con un sound autentico e totalmente all’avanguardia. Punteremo anche su facce nuove e nuovi talenti». Bortolotti aggiunge: «Nuovo A&R, nuovo vestito, nuova strategia, nuovo sound. BXR, come un caccia in ricognizione, sarà affiancata da due label, una alla sua sinistra, la Underground, l’altra alla sua destra, la Divergent, e come per UMM, sarà ricerca e stile orientati verso i clubgoer. Sarà dark, essenziale e culturalmente evocativa. Sara la mia anima. Essere, non esserci, è il suo destino».

Claxixx
Insieme a BXR si ripresenta anche Claxixx, questa volta come etichetta e non serie

Dell’annunciata futuretechno però, che avrebbe dovuto raccogliere il testimone della mediterranean progressive e della supertechno, non resta niente se non un’idea dall’esito caduco. Contestualmente alla temporanea riapparizione di BXR si segnala pure la nascita, a settembre del 2017, della Claxixx, contenitore che utilizza il medesimo nome di una delle serie della BXR con la finalità di rilanciare nuove versioni di classici tratti dal catalogo della Media Records, analogamente a quanto avviene su EDMedia. Alla fine il progetto si arena sul nascere col remix di “Tuareg” di Ricky Le Roy realizzato dal greco George V a cui fa seguito un inedito di Nicola Maddaloni intitolato “L-R”.

Rimasta operativa per circa dodici anni, la BXR lascia un’eredità importante, sia sotto il profilo manageriale per metodo di lavoro, creatività e capacità progettuale, sia sotto quello strettamente musicale raccolta da tantissimi fan sparsi per il mondo. L’alta tiratura e l’ampia disponibilità, fatta qualche eccezione, non la ha (ancora) trasformata in una label appetibile sul fronte ristampe ma senza ombra di dubbio rimane un ottimo esempio che attesta come la visione d’insieme, l’affiatamento e lo spirito di squadra possano fare la differenza in un Paese come l’Italia in cui la cooperazione, specialmente nel contesto musicale, è ancora una meta utopica.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Negozi di dischi del passato: Michael Wolf a Parma

00) Apertura
Una foto scattata all’interno di Michael Wolf nell’autunno del 1997: rivelatrici, per la collocazione temporale, risultano le copertine di “Stay With Me” di Chase, di “Prendimi Così” di Todd Terry Featuring Lucio Dalla, e della compilation “Speed Garage Vol. 1” edita dalla Peppermint Jam

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Michael Wold col commesso Robert Passera

Quando apre i battenti Michael Wolf?
Venne aperto in una ex enoteca di alta fascia all’inizio del 1993 col nome Music Shop da una società che rilevava fallimenti commerciali. A maggio di quello stesso anno fu ceduto a Michele Catellani meglio conosciuto come “Il Lupo”, che successivamente ne cambiò il nome.

1) logo
Il logo del negozio

Tu invece quando inizi a lavorare lì?
Alla fine di novembre del 1993 Catellani mi propose di lasciare il Mariposa di Reggio Emilia, dove lavoravo da cinque anni, e trasformare la sua attività in un negozio specializzato per DJ. Siccome avevo già maturato esperienza nel settore, fin dall’inizio ebbi carta bianca sulla scelta dei fornitori e sulle politiche di vendita. Per il suo modo di fare e di parlare, Il Lupo era considerato un vero personaggio, abbastanza conosciuto anche nell’ambiente locale della discoteca. Fui proprio io a suggerire di usare quel nickname e trasformarlo in una sorta di brand, coniando il logo col suo profilo in stile pop art. Al nome inglesizzato Michael Wolf venne aggiunto Record Pusher, sia nel senso di “spacciatore di dischi” che di “colui che spinge”. Un’idea che riscosse da subito simpatia e consenso.

Ai tempi che tipo di investimento economico era necessario per avviare un’attività di quel genere?
Si poteva partire con qualche decina di milioni di lire, più o meno cinquanta, ma noi lo facemmo con circa la metà avendo la possibilità di riutilizzare i mobili e le strutture lasciate della champagneria che occupava il locale sino a pochi mesi prima.

A Parma c’erano altri negozi simili al vostro?
Se non ricordo male nel 1993 c’erano almeno cinque o sei negozi che vendevano musicassette e CD “di catalogo”, come si diceva allora. Solo in uno di essi erano esposte un paio di vasche di dischi mix, quasi esclusivamente nazionali, che si potevano “pescare” e pagare alla cassa. Per trovare novità degne di essere suonate in un buon club bisognava spingersi almeno fino a Reggio Emilia, nel fornito reparto del Mariposa, o nei negozi di Modena, il Groove DJ Point e il Disco Inn, che distavano circa sessanta chilometri.

2) il bancone
Il bancone equipaggiato con consolle

Quanto era grande il punto vendita? Come era organizzato all’interno?
La metratura del negozio era di appena 25 mq compreso il retro. Oltre a tre punti d’ascolto allestiti con Technics SL-1200, cuffie ed amplificatori, disponevamo di una consolle con mixer e due piatti Technics SL-1200 sul bancone da cui facevamo ascoltare ai clienti i dischi assortiti alle nostre spalle.

Che generi musicali trattavate?
Puntavamo su tutto ciò che fosse di difficile reperibilità nella nostra zona cercando di ritagliarci la fetta di mercato esclusiva e scoperta legata alla musica destinata a DJ, radio e discoteche. Davamo soprattutto spazio ad house, techno, hip hop, acid jazz, breakbeat, drum n bass ed elettronica, specialmente ai dischi d’importazione.

3) gli stili affrontati
Un banner pubblicitario che mette in evidenza i generi trattati

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
La quantità variava in base alle annate ma, facendo una giusta media, direi circa 500 pezzi a settimana.

Praticavate anche vendita per corrispondenza?
La vendita per corrispondenza contribuiva ad arrotondare discretamente il fatturato medio, circa del 15% ogni mese. Gli ordini telefonici arrivavano principalmente dalle città limitrofe, sprovviste di punti vendita dedicati ai DJ e lì dove riusciva ad arrivare la nostra pubblicità radiofonica. In particolare mi riferisco alle province di Piacenza, Cremona e Mantova.

Sapresti indicare i tre best seller? Conservi ricordi intrecciati ad essi?
“Pride (A Deeper Love)” di Aretha Franklin, uscito la prima settimana di dicembre ’93 proprio mentre inauguravamo il Michael Wolf. Si trattava di un triplo mix americano su Arista che si presentava come un oggetto un po’ più costoso del solito ma estremamente nuovo ed accattivante sia nel contenuto che nella confezione. Fu decisamente un gran bel biglietto da visita per il nuovo negozio e fu il nostro primo best seller;
“This Is A…? / Acid Phase” di Emmanuel Top: gran parte della nostra clientela seguiva il movimento delle discoteche toscane e noi facevamo in modo di offrire una vasta scelta di mix di techno ed elettronica di ottimo “Tuscania Sound”. Erano dischi veramente molto ambiti e in zona si potevano trovare praticamente solo da noi. In virtù di ciò diventammo un punto di riferimento territoriale in questo genere. Devo ammettere che tutte le uscite su Attack Records ci diedero grandi soddisfazioni ma in modo particolare questa che, in termini di quantità, fu in assoluto il top tra i nostri best seller, non solo nel periodo a ridosso dell’uscita, tra 1994 e 1995, ma anche in seguito perché da noi continuamente riassortito almeno fino al 1999;
“Missing (Todd Terry Remix)” degli Everything But The Girl: lo avevamo preso a gennaio ’95 ma giaceva invenduto, non lo voleva davvero nessuno. A marzo Ralf lo suonò in un locale, in città, e magicamente cambiò tutto: il giorno dopo vendemmo di colpo le dieci copie americane disponibili a cui poi ovviamente ne seguirono molte altre.

C’erano DJ noti che frequentavano il negozio?
Offrendo un servizio esclusivo in un raggio relativamente ampio, i DJ più popolari della zona si rifornivano da noi e, in quanto clienti abituali, ricevevano un buon trattamento attraverso una valida e nutrita casella di novità settimanali da ascoltare, a volte anche con un piccolo sconto alla cassa sul totale. Nel corso degli anni abbiamo ricevuto anche qualche visita inaspettata da occasionali clienti “vip” che si trovavano di passaggio a Parma, come Frankie Hi-NRG MC, Johnson Righeira dei Righeira o Peak Nick. Tra i nostri giovani clienti di allora c’erano, tra gli altri, anche Marcello Giordani (intervistato qui, nda) e Marco Lentano, oggi apprezzati a livello internazionale coi loro progetti Marvin & Guy e Mushrooms Project.

4) DJ Emergenti Awards
I flyer risalenti al triennio 1995-1996-1997 relativi ad alcune delle competizioni organizzate da Michael Wolf per i DJ emergenti

Rammenti aneddoti legati a qualche cliente?
Negli anni Novanta i DJ cercavano costantemente novità e si impegnavano per scovarle e proporle prima dei colleghi. Per riempire un’ora di musica mixata occorrevano circa una ventina di dischi e quelli d’importazione erano piuttosto cari, pertanto fare il DJ, oltre alla passione, implicava anche un certo sacrificio e sforzo economico. Due clienti, Leo Mussini e Francesco Mantovani alias Cisky, di cui uno proponeva house garage e l’altro sonorità più dub, costituirono tra di loro una specie di società per accaparrarsi le uscite in formato doppio mix che, se import, erano particolarmente costose. In pratica le acquistavano dividendosi un 12″ a testa scegliendolo in base alle versioni più idonee al proprio stile.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
Tra i vari generi, direi una quarantina abbondante di titoli, naturalmente alcuni in quantità esigue.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare?
Ogni lunedì arrivavano, presso gli importatori, le novità spedite dall’estero, principalmente da Regno Unito e Stati Uniti, e mi recavo di persona nei magazzini a Milano per ascoltare e comprare. Le sedi di questi grossisti erano concentrate nella zona di via Mecenate, nelle immediate vicinanze dell’aeroporto di Linate. Si doveva usare un certo intuito ascoltando ogni disco per capire a quanti e quali DJ proporlo e quanti tra loro lo avrebbero acquistato e suonato. Bisognava essere molto bravi e precisi nello scegliere perché questi dischi d’importazione venivano pagati all’acquisto e, al contrario dei dischi nazionali, in seguito non era possibile fare resi di merce al fornitore, quindi bisognava assolutamente evitare rimanenze. Quei lunedì a Milano rappresentavano anche un importante momento di ritrovo e confronto con gli altri commercianti di dischi import per DJ che, da gran parte d’Italia, si radunavano lì per l’ascolto e l’acquisto delle novità. Si respirava un grande fermento di idee e sicuramente più di una hit underground da club è nata anche da quei ritrovi tra commercianti e importatori. ll sabato mattina inoltre ricevevamo dal corriere i riassortimenti ed ulteriori novità ordinate via fax nel corso della settimana.

5) esposizioni interne
Esposizione interna di dischi e cassette. Tra gli altri si scorgono “The Rockafeller Skank” di Fatboy Slim, “Paradise” di Bob Sinclar, “Angel” dei Massive Attack, il primo volume della compilation “Ultradolce”, “Flat Beat” di Mr. Oizo, “1999” dei Cassius e “Body” dei Funky Green Dogs

Quanto pesava sulle vendite di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ particolarmente in vista?
In quegli anni, in Italia, i titoli inseriti nella Pagellina settimanale di Radio DeeJay distribuita in tutti i negozi di dischi – in particolar modo quelli della DeeJay Parade stilata da Albertino -, rappresentavano il pane quotidiano per punti vendita come il nostro. L’influenza di Albertino sulla vendita di dischi era decisiva. Per le nostre vendite contavano moltissimo anche le scelte dei DJ di grido durante le loro serate nei club. La vendita di altri titoli venne “pilotata” da noi, a livello locale, insieme ai programmi radiofonici Overload su Radio Base (Cremona) ed Effetto 29 su Radio Circuito 29 (Mantova). Per il nostro tipo di clientela inoltre erano particolarmente influenti le scelte dei vari programmi di Italia Network.

C’è un disco che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più e che invece rimase confinato a pochi eletti?
“Raccolta N°1” dei Montefiori Cocktail, su Irma Records. Un sabato mattina di luglio 1997 arrivò in negozio un servizio novità della Flying Records che in quel periodo distribuiva la Irma, contenente per l’appunto “Raccolta N°1”, un disco che mi conquistò all’istante e che in seguito divenne molto importante per me. Mi portai a casa la copia campione e cercammo in seguito di proporlo anche ai selector dei club ma ovviamente fece ben poca presa.

6) I freemag
I magazine ideati da Michael Wolf

Sull’esempio del Disco Inn di Modena e del Disco Più di Rimini, anche voi creaste una sorta di magazine, prima chiamato Dancefloor e poi Dance Music Specialist. Quali ragioni vi spinsero a coltivare un’iniziativa di questo tipo?
Oltre alla pubblicità radiofonica ed alla collaborazione con programmi di dance alternativa, abbiamo affittato inserti e spazi pubblicitari all’interno di giornali e riviste a distribuzione locale gratuita, da riempire con la comunicazione a cura dei nostri DJ. Per noi era importante la loro promozione, più erano lanciati, più acquistavano novità, alimentando il loro ed il nostro business in un vero circolo virtuoso. A riempire tali spazi con recensioni e segnalazioni erano i DJ più attivi in consolle e nelle radio tra cui Ado The Dream, Federico ‘Alar’ Simonazzi, Polly, Ginger e Gigi ‘MTN’ Montanini, frequentatori assidui del negozio. Per loro era l’occasione di autogestirsi a livello locale disponendo di uno spazio come già facevano i loro colleghi più blasonati dalle pagine di DiscoiD e del Disco Mix.

Alcuni negozi di dischi, in Italia e all’estero, sono stati pure la culla di produzioni discografiche e conseguentemente di etichette. In tal senso avevate preventivato qualcosa di simile?
Tra i frequentatori del Michael Wolf c’era Emanuele Asti, artefice di diversi successi, su tutti “The Summer Is Magic” di Playahitty. Un giorno ci propose di lavorare insieme su un pezzo scritto e cantato da lui nello stile di Jamie Principle e Robert Owens. Il risultato fu “Alone” di Michael Wolf Presents Unforgettable Trees, pubblicato dalla Mammut Records del gruppo Dancework nel 1993. Era una buona traccia a cavallo tra deep house e garage, avvalorata da un paio di versioni del citato Cisky, ottimo DJ e produttore, oltre alle mie. Nel 1996 curammo, sempre come Michael Wolf, la riedizione di “Neue Dimensionen” di Techno Bert (di cui parliamo qui, nda) e dei remix project “Koto/Dragon’s Legend”, “Visitors/Japanese War Game” e “Pulstar/Oxigene” editi da Hitwave Music. In quell’occasione elaborammo il tutto negli studi dell’American Records di Modena (a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda), insieme a Roberto ‘Bob One’ Attarantato e Yale.

7) flyer disco su Mammut
Un flyer del ’94 in cui viene menzionata “Alone”, una delle produzioni discografiche edite come Michael Wolf

A tuo avviso cosa innescò il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
I Novanta furono gli anni in cui il disco in vinile divenne desueto per i consumi di massa. Dischi e giradischi passarono dai salotti e dalle camerette ai solai e alle cantine. Pure il formato “singolo” non funzionava più come prima sin da quando, nel 1989 circa, smisero di stampare i 7″ col fine di rimpiazzarli col CD singolo che però, come è ben noto, non ha mai preso completamente piede. Il vinile (r)esisteva come formato professionale per DJ e discoteche ed era reperibile quasi esclusivamente in negozi come il nostro. Contemporaneamente, alla fine del decennio, si affacciò e si impose sul mercato la grande distribuzione (Fnac, Ricordi ma pure vastissimi reparti allestiti all’interno degli ipermercati della GDO) che, grazie alla sua filiera, poteva offrire grandi assortimenti e prezzi altamente concorrenziali, impraticabili dai piccoli commercianti. Le alte spese di gestione e il continuo aumento del costo della merce, in un contesto con modesti ricarichi, furono essenzialmente le cause principali della sparizione dei negozi di dischi a cavallo del nuovo millennio. Ad un certo punto non si trovavano più i dischi mix e i ricercatori di sound si dovettero buttare giocoforza sull’offerta in CD, su Napster e sugli acquisti per corrispondenza a costi più elevati, adattandosi alle nuove condizioni.

In termini economici, qual è stata l’annata più fortunata e quella meno del Michael Wolf?
Credo che le annate migliori siano state il 1995 e il 1996. Dall’apertura, avvenuta a fine 1993, l’andamento fu crescente nel primo quadriennio. Il quinto anno fu stabile ma iniziarono ad aumentare le spese. A seguire registrammo una lenta ma progressiva discesa.

Quando chiude il negozio?
Intorno alla metà del 1999 ci rendemmo conto che da lì a breve il Michael Wolf non sarebbe più stato in grado di garantirci due stipendi così dovetti abbandonare il mio contratto di Co.Co.Co. nell’agosto di quell’anno. Il negozio proseguì la sua attività fino al 2002 commerciando soprattutto piccoli lotti di dischi usati.

9) Passera e Catellani (1994)
Robert Passera e Michele “Il Lupo” Catellani nel 1994

Pensi che in futuro ci sarà ancora spazio per i negozi di dischi?
In Italia le spese di gestione sono piuttosto alte. Per un negozio di dischi poi, la posizione geografica è certamente importante, sia per bacino di utenza che raggiungibilità. Un negozio fisico oggi contempla necessariamente anche altri servizi come, ad esempio, vendita e noleggio di materiali, accessori e gadget, oltre a dischi usati. Sarebbe bello se ce ne fossero tanti, nella mia regione ne esistono ancora, sia quelli aperti in passato che quelli inaugurati in epoca più recente.

Cosa c’è adesso al 75/A in Via Bixio, a Parma, al posto di Michael Wolf?
Una pizzeria al taglio.

Qual è la prima cosa che ti torna in mente ripensando al negozio e a quel luogo?
Davvero tante cose belle ma che ormai appartengono alla sfera dei ricordi. Il luogo e il business non sono più gli stessi e nemmeno il quartiere, l’Oltretorrente, oggi un po’ degradato.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di Massimo Berardi

Una panoramica su parte della collezione di dischi di Massimo Berardi. La foto è di Ivan Vonchesterfield, autore anche delle seguenti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo un 45 giri di Lucio Battisti. La mia prima passione, negli anni adolescenziali, è stata la musica italiana e le canzoni d’amore, complici il mangiadischi, le festicciole tra gli amici e i balli lenti. Spesso il sabato pomeriggio ci riunivamo nel garage della nostra amica del cuore, Daniela, visto che il suo papà lavorava nel mondo del cinema e portava a casa una marea di 45 giri tra cui c’era di tutto, dal pop al rock passando per la disco, il funky e la musica italiana. Ne ricordo uno in particolare che ben fotografa quel periodo spensierato, “Rock The Boat” di The Hues Corporation, uno dei primi 7″ disco che mi sia passato tra le mani. Ad attirarmi, oltre alla musica leggera, erano le colonne sonore dei film, in particolar modo quelle delle serie di fantascienza tipo “A Come Andromeda” di Mario Migliardi, “UFO” e “Spazio 1999” di Gerry Anderson, “Gamma” del Maestro Enrico Simonetti e tanti altri capolavori di cui si riesce a capirne il valore solo oggi. Il primo album che ho comprato invece è stato “Foxtrot” dei Genesis, uno dei gruppi che ho apprezzato di più insieme ai Pink Floyd. Il mio preferito però resta “Selling England By The Pound” che ascoltavo sul mio primo fantasmagorico giradischi, uno Stereorama 2000 De Luxe della Reader’s Digest, un modello compatto degli anni Settanta particolarmente di moda in quel periodo. Ho seguito molto anche i gruppi italiani come la Premiata Forneria Marconi o Il Banco del Mutuo Soccorso che a mio parere non avevano davvero nulla da invidiare a quelli esteri, anzi. Ho sempre pensato che la mia generazione sia stata davvero fortunata a vivere un periodo musicalmente tanto ricco.

L’ultimo invece?
Uno degli ultimi acquisti, sul fronte dell’usato, è stato “Just Can’t Help Myself (I Really Love You)” di Common Sense, un 12″ del 1980 discretamente quotato ed edito dalla BC Records di Began Cekic, fondatore dei Brooklyn Express. Continuo ovviamente a comprare anche molti dischi nuovi.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Dopo un calcolo approssimativo, credo fra i 7000 e gli 8000, tra LP e 12″. Ho anche 500/600 CD, un supporto che continua a piacermi molto specialmente per le compilation rare grooves in cui a volte ci si può imbattere in versioni differenti da quelle incise su vinile. Possiedo inoltre una discreta quantità di 7″, circa 400, supporto che adoro. Da qualche anno a questa parte ho cominciato a vendere tutti quei dischi di cui sento di poter fare a meno, le doppie copie (tantissime) e quelli degli anni a cui sono musicalmente meno legato. Sinora penso di aver venduto dai 3000 ai 4000 dischi.

Riusciresti a quantificare il denaro speso?
No, ma non ho alcun rimpianto e rifarei davvero tutto.

Una foto che testimonia l’ordine nella collezione di Berardi

Come è organizzata?
Pur non essendo particolarmente fiscale, l’ordine mi piace ma pulire, catalogare e sistemare i dischi, quando sono tanti, diventa un vero e proprio lavoro. Per quanto riguarda i mix funky e disco, ho optato per un ordine in base alle etichette storiche (T.K. Disco, Prelude Records, Salsoul Records etc). Le label minori invece sono organizzate per generi ed annate. House e techno infine sono incasellate per anni mentre gli album per genere.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Utilizzo le classiche foderine plastificate per proteggere le copertine dall’usura. Man mano che catalogo i dischi, li pulisco con un panno morbido ed un liquido apposito. Quelli più sporchi invece li porto da un amico che possiede la macchina lavadischi e li fa tornare come nuovi.

Ti hanno mai rubato un disco?
Sì, una volta hanno trafugato un’intera valigia dal bagagliaio della macchina. Fortunatamente non erano dischi particolarmente difficili da ritrovare ma non fu possibile placare la rabbia nel momento in cui me ne accorsi.

“Woman” di John Forde, tra i dischi a cui Berardi è più affezionato

Qual è il disco a cui tieni di più?
Tutti hanno lo stesso valore e fanno parte del percorso di vita. Alcuni rappresentano istantanee che mi ricordano momenti più o meno belli, altri invece compagnie, luoghi, discoteche… Forse quelli che mi emozionano di più sono i pezzi che ascoltavo nelle cassette registrate nella Baia Degli Angeli, un luogo di culto per i DJ della mia età e di cui ero letteralmente affascinato quando non ero ancora un professionista. Uno su tutti “Don’t You Know Who Did It” di John Forde, che continua a darmi le stesse emozioni di quando lo ascoltai per la prima volta, e a seguire “Africano” di Timmy Thomas, “Love For The Sake Of Love” di Claudja Barry, “Moon-Boots” degli O.R.S. e “Sneakers (Fifty-Four)” dei Sea Level, insomma, tutto quel filone che mi ha introdotto ad una ricerca più scrupolosa dei dischi da proporre nelle mie serate.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessuno, perché dietro ogni disco acquistato c’è sempre un motivo ben preciso. Sicuramente non è mancato quello che ha disatteso le mie aspettative ma lo avrò già venduto.

Quello che cerchi da anni e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Non sono un collezionista e quindi non ho mai investito grosse somme per accaparrarmi un disco e poi riporlo sullo scaffale (sarebbe rischioso portarsi un cimelio nei locali). Cerco piuttosto di comprarne ad un prezzo ragionevole, scegliendo quelli che diano ancora modo di emozionare il mio pubblico.

Berardi e la sua copia di “Animals”

Quello con la copertina più bella?
“Animals” dei Pink Floyd, immersa in un’atmosfera industriale. In quelle foto c’è tutta la storia dei brani incisi sul disco, guardarle mentre la puntina legge i solchi aiuta a comprendere meglio ciò che intendo. Poi, se si ha la possibilità di andare a Londra e passare davanti alla Battersea Power Station, l’immaginazione diventa realtà. L’energia che scaturisce da questo LP del 1977 è pari a quella che sviluppava l’ex centrale termoelettrica sulla rive del Tamigi. Provo sentimenti profondi ogni volta che lo riascolto, un disco essenziale per la mia crescita musicale nonché compagno di vita.

Che negozi di dischi frequentavi in passato?
Ho comprato i primi dischi nel negozio di elettrodomestici del mio quartiere che aveva un angolo dedicato agli album e ai 45 giri. Dopo qualche anno passai ai negozi specializzati, il primo fu Sound City, sulla via Tuscolana, credo tra il 1974 e il 1975. Erano i tempi di “The Sound Of Philadelphia” di MFSB, le radio private spuntavano come funghi e il sabato pomeriggio si organizzavano sempre feste a casa di qualcuno. La musica era una forma di aggregazione nel vero senso della parola. Allora ebbi la fortuna di conoscere, casualmente, il proprietario di una piccola emittente di quartiere, proprio nel negozio di dischi di cui parlavo prima. All’inizio la potenza era assai flebile, bastava spostarsi di un solo isolato per perdere il segnale ma col tempo fu potenziato sino ad essere venduto ad un network. Gli studi erano allestiti all’ultimo piano di un palazzo e, pur essendo molto piccola, disponeva di tutto quello di cui c’era bisogno. Il mondo della radio mi affascinava tantissimo e l’unico modo per imparare a “far girare i dischi” era guardare per ore ed ore i professionisti e rubare con gli occhi. Il proprietario mi diede l’opportunità di stare lì mentre mandava avanti il suo programma pomeridiano e così appresi tantissime cose. Dopo un po’ di tempo fui “promosso” ed iniziai a selezionare musica per quella piccola radio. Un altro negozio che ricordo con piacere è Magic Sound, a Piazza dei Re di Roma, dove le mie cassette mixate andavano a ruba. Lì ebbi la fortuna di arricchirmi musicalmente con Roberto che curava il reparto soul, jazz e fusion. Un posto altrettanto fornito era Discoteca Laziale, luogo tranquillo e silenzioso, perfetto per i veri audiofili, dove ho acquistato tantissimo materiale, specialmente album di musica elettronica come Alan Parsons Project, Kraftwerk e Jean-Michel Jarre che adoro. Poi naturalmente andavo nei negozi per DJ, quello in cui trascorrevo più tempo era Best Record in via Vodice: il proprietario, Claudio Casalini, solitamente lavorava nell’ufficio al piano superiore mentre Peter, con la sua calma anglosassone, era sempre disponibile a far ascoltare tutte le novità. Atmosfera leggermente più chic si respirava invece in Città 2000, in viale Parioli. Era il negozio di Peppe Farnetti, il primo DJ del Piper già nel 1965, e fu un autentico punto di riferimento dei più importanti DJ della capitale e non solo. L’ultimo baluardo rimasto è il mitico Goody Music che è stato, a quanto ricordo, il primo a far ascoltare dischi attraverso due casse poste agli angoli e piazzate su due colonne che ti “spettinavano”. Tutti i pezzi sembravano belli! Aveva una selezione di dischi d’importazione veramente notevole. In tutti questi negozi si respirava un’aria di sana competizione tra i DJ più o meno famosi, nella continua lotta per riuscire ad accaparrarsi un disco in più rispetto agli altri. Negli anni Ottanta, è bene ricordarlo, erano i proprietari delle discoteche a stanziare il denaro per comprare i dischi pertanto più era alto il budget e più c’era la possibilità di avere un buon repertorio di novità da parte. E lì entrava in moto anche il meccanismo della doppia copia personale.

Il crate digging online è differente rispetto a quello che un tempo si praticava nei negozi?
Direi proprio di sì, non c’è paragone e, un po’ come tutte le cose che si acquistano su internet, non sai mai cosa ti aspetta veramente seppur la scelta non manchi vista l’esistenza di tante piattaforme specializzate. A trarne beneficio è stata senza dubbio la conoscenza, basti pensare che chi si affaccia oggi al mondo del DJing può comprare, oltre al nuovo, una miriade di ristampe e, possibilità economiche permettendo, addirittura gli originali di cui magari si ignorava l’esistenza. Negli anni Settanta ed Ottanta i mezzi erano pochi per approvvigionarsi di dischi “differenti”, era necessario spostarsi in altre città e nel mio caso cito il Disco Più e la Dimar a Rimini, dove riuscivo a trovare cose fuori dai canoni disco.

Ritieni che la digitalizzazione abbia intaccato irrimediabilmente il valore attribuito alla musica?
Paradossalmente la tecnologia, pur rappresentando le fondamenta della musica contemporanea, ha generato un effetto boomerang. Aver reso tutto facilmente accessibile, troppo direi, ha finito col provocare un appiattimento dei gusti e delle conoscenze, e non solo nell’ambiente musicale. Ormai non si fatica più per scoprire qualcosa, a prescindere dall’area di interesse, e in alcuni casi l’uso del vinile, considerato come oggetto di resistenza alla digitalizzazione stessa, si è trasformato in un modo per apparire e darsi un tono. Comunque, al di là di ogni congettura, credo sia ormai sotto gli occhi di tutti che l’avvento del CD (prima) e del download (poi) abbia ucciso definitivamente la discografia, impoverendo le produzioni come non mai. Ormai un brano non dura più di una settimana sulle piattaforme, al massimo due se alle spalle c’è una grossa etichetta, poi solo il dimenticatoio. Prima dell’avvento del web si investiva sulla musica in maniera diversa, dalla grafica per la copertina alla scelta degli studi di registrazione passando per i musicisti e i cantanti. Adesso, con la tecnologia a basso costo ormai diffusa capillarmente in ogni angolo del globo o quasi, si può produrre un disco dalla a alla z con pochi mezzi e in casa. Tuttavia, secondo me, il disco in vinile continuerà a rappresentare meglio questo mondo rispetto ad altri supporti, e ci sarà sempre chi lo supporterà per l’amore di ascoltare o proporre ad altri quelle musiche. Il disco ha bisogno di uno spazio fisico che si materializza tra gli scaffali e questa è una delle ragioni che terrà in vita il valore della musica.

Il retro della copertina di “Walking In The Street” con le foto del Penny Club

Una delle prime produzioni su cui appare il tuo nome è stata “Walking In The Street” di Gold Rush And The Sun-Shine-Sisters, edita dalla Best Record di Claudio Casalini nel 1985. Come ricordi le tue primissime esperienze in studio di registrazione? Quali motivi spingevano allora i DJ come te a cimentarsi nella composizione?
Era il periodo in cui le discoteche sponsorizzavano i 12″ per farsi pubblicità, basti pensare allo Xenon di Firenze o a L’Altro Mondo Studios di Rimini. Per me era l’occasione giusta per oltrepassare la linea di confine tra DJ e produttore così avanzai la proposta a Carlo Bernaschi, proprietario del Penny Club, una splendida mega discoteca a Frascati, zona Castelli Romani, allestita in un palazzo dell’Ottocento e in cui ho lavorato come resident per parecchi anni. Accettò ed infatti sul retro della copertina vennero piazzate fotografie e logo del locale. Dal punto di vista musicale invece, Casalini, dopo aver ascoltato le mie idee, mi suggerì di svilupparle e registrare il tutto nello studio di Stefano Galante, compositore ed arrangiatore che insieme al bassista Paolo Del Prete aveva realizzato già diverse produzioni come “Sweepin’ Off” di High Resolution e “Do It Again” di Asso. La voce invece era di Orlando Johnson, presenza consolidata nelle produzioni italiane di quegli anni. Nello studio di Galante rimasi totalmente affascinato dalla strumentazione: il multitraccia, le batterie elettroniche, i campionatori, i sintetizzatori, ma a restare più impresso nella mia mente fu il processo di costruzione e stesura del brano, insomma, la creazione del pezzo musicale partendo dal nulla. Un anno dopo l’uscita di “Walking In The Street” fu la volta del mio primo remix, quello di “I Feel Good” di Herbie Goins pubblicato dalla Jumbo Records, una delle tantissime label raccolte sotto l’ombrello della Best Record di Casalini. Per l’occasione registrai, sempre su consiglio di Casalini, nel mega studio di Mario Zannini Quirini, oggi direttore d’orchestra. Dopo quelle due esperienze decisi che il mio futuro non sarebbe più stato solo nella consolle di una discoteca ma pure dietro il mixer di uno studio di registrazione. Cominciai gradualmente a comprare la strumentazione necessaria e alla fine degli anni Ottanta trovai un socio per aprire il primo studio. Da quel momento non avrei più trascorso i pomeriggi esclusivamente nei negozi di dischi ma anche nei punti vendita di strumenti come Musicarte e Cherubini. A spingere i DJ verso la creazione di musica in quegli anni ritengo sia stato il desiderio di sperimentare, alimentato fortemente da quelle “macchine infernali” che sprigionavano suoni mai sentiti prima, almeno per me fu così e credo che lo stesso valga per la maggior parte di coloro che gravitavano intorno a quel mondo. La voglia di spingersi sempre oltre era testimoniata anche dai dischi stessi, specialmente quelli provenienti dal Regno Unito che offrivano suoni in continua evoluzione. Il fermento era notevole quanto la condivisione: a tal proposito ricordo quando nell’ambiente romano si sparse voce dell’ottimo utilizzo che facevo del campionatore a tastiera Casio FZ-1 dal costo più accessibile rispetto ad altre macchine dai nomi maggiormente blasonati. Nel mio studio ci fu un bel via vai di amici armati di block notes per prendere appunti. Tra gli altri Michele Prestipino ed Eugenio Passalacqua del team Full Beat di Faber Cucchetti, e Claudio Coccoluto che mi chiese ragguagli sul tempo di campionamento e funzioni varie, seppur alla fine optò per un E-mu Emulator. Oggi le cose sono nettamente diverse, più produci e più ti metti in mostra cercando di ottenere ingaggi per le serate, rimasta praticamente l’unica maniera per guadagnare denaro. Prima gli introiti invece arrivavano principalmente dalle produzioni discografiche. I limiti erano rappresentati dal costo proibitivo delle strumentazioni. La mia prima produzione in assoluto, “The Story Is True” di Cut & Sew And The Partyrock, la feci con un mixer Tascam M-35, il campionatore Casio FZ-1 di cui parlavo prima, un expander Yamaha TX81Z, un multieffetto Lexicon ed una drum machine Yamaha RX5, oltre ad un Technics SL-1200 ed un registratore Revox B77. Fu un vero e proprio taglia e cuci autoprodotto, a cui parteciparono per l’editing Luca Cucchetti e Mauro Convertito, rispettivamente nascosti dietro gli alias L.L. Full C. e Moor Funk’s. Gli scratch invece erano di Ice One ma non ne sono proprio sicuro, sono passati così tanti anni.

Uno scatto che immortala alcune produzioni discografiche di Berardi, diversi flight case e il vecchio setup utilizzato. In particolare, a sinistra dall’alto in basso, si vedono Roland R-8, Casio FZ-10M, Oberheim Matrix 1000, E-mu Morpheus, E-mu Vintage Keys, E-mu Orbit 9090, Akai S3000 ed Akai S2000, accanto invece Casio FZ 1 e Roland JX-10 (Super JX)

Venivi da un passato fatto di rock, funk e disco. Come approcciasti alle “musiche nuove” come hip hop, house e techno?
Il mio approccio con la musica avvenne prima dell’avvento dell’elettronica da ballo, intorno agli undici/dodici anni, quando prendevo lezioni private di pianoforte e chiesi ai miei di regalarmi una batteria acustica (semiprofessionale ovviamente!) ed una pianola della Elka. Al DJing giunsi in seguito, verso i quattordici/quindici anni. Il primo locale in cui misi i dischi era un piccolo club di quartiere chiamato Marilyn. Passare dal funk/disco all’hip hop fu quasi naturale. Chi, come me, aveva seguito personaggi come DJ Kool Herc, Grandmaster Flash & The Furious Five, Marley Marl, Afrika Bambaataa, Whodini, Kurtis Blow, Spoonie Gee, Sugarhill Gang ed altri ancora non faticò certamente ad apprezzare la nuova ondata innescata dai Run-DMC, LL Cool J, Public Enemy o Eric B. & Rakim. La transizione dall’hip hop alla (hip) house invece fu stuzzicata dai campionatori e da pezzi come “Beat Dis” di Bomb The Bass o “Theme From S-Express” di S’Express che cambiarono l’utilizzo del sample rispetto a quello in uso sino a quel momento nell’hip hop. Il resto avvenne grazie alla continua evoluzione e sperimentazione di suoni, d’altronde l’avvicendarsi dei generi musicali è andato di pari passo con le innovazioni tecnologiche.

Un flight case di Berardi decorato da Ice One nel 1988

A partire dal 1989 la tua attività in ambito discografico subisce una netta intensificazione. Col supporto della Energy Production di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi metti su la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti e Sebastiano ‘Ice One’ Ruocco e poi produci musica (come il fortunato “You Don’t Get Stop”) con la sigla M.B., acronimo che ti accompagna tuttora. Potresti raccontare quella particolare fase creativa della tua carriera?
A fine anni Ottanta la musica hip hop imperversava nella capitale dove nascevano di continuo nuovi gruppi rap, grazie anche alla spinta dei film usciti qualche anno prima sulla break dance, uno su tutti “Beat Street”. In quel contesto nacque la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti, fresco di consolle condivisa con Jovanotti e del remix del suo “Walking”, ed Ice One, giovanissimo rapper e talentuoso writer (mentre eravamo in studio lui disegnava su qualsiasi superficie gli capitasse a tiro, conservo ancora qualche flight case coi suoi graffiti e il primo logo di M.B. è proprio opera sua!). Nel progetto Mad DJ’s Band coprivamo ruoli precisi: io mi occupavo dei sample, della parte ritmica, della struttura e del mixaggio, i testi e gli scratch erano di Sebastiano mentre gli editing di Luca. Poi, a seconda delle esigenze, interpellavamo amici come Elvio Moratto, che suonò le tastiere nel singolo d’esordio, “Get Mad”, o il giovane talento Stefano Di Carlo che si occupò delle linee melodiche dei brani pubblicati in seguito. Gli scratch addizionali invece erano degli italiani usciti vittoriosi dalle gare del DMC come Francesco Zappalà, Giorgio Prezioso e Andrea Piangerelli. Realizzammo tre singoli ed un doppio album a cui si aggiunse pure un 12″ con su incise basi ed effetti vari, “Mad DJ’s Grooves Volume 1”. M.B. invece nacque come avventura solista per poter identificare il mio lavoro in studio. Qualche viaggio oltremanica e le uscite che arrivavano dagli Stati Uniti mi spinsero a cimentarmi in altri generi. La X-Energy Records mi chiese di dare un taglio hi NRG alle nuove produzioni e in tal senso credo di aver campionato davvero tutto il campionabile. Avevo scatole piene di floppy disk con sample di bassline e sequencer in stile Giorgio Moroder, Patrick Cowley e Bobby Orlando. Per “Fast And Slow” del 1989, ad esempio, usai un frammento di “Hills Of Katmandu” di Tantra, prodotto da Celso Valli esattamente dieci anni prima. La grafica in copertina in stile murales era di Ice One. Per i dischi a seguire invece cambiai marcia anche grazie all’apporto di Stefano Di Carlo che suonava le tastiere. “The Beat”, del 1990, è quello a cui sono più legato e penso mi identifichi meglio, ma quell’anno uscì pure “You Don’t Get Stop” che riscosse un discreto successo e venne licenziato in Germania dalla Logic Records degli Snap! e in Spagna dalla Boy Records. I due singoli successivi, “Feel The Heat” e “Make It Right”, erano contraddistinti da un suono più duro influenzato dai rave di allora che riuscivano a raccogliere folle immense di pubblico anche di 5000 persone. All’Ombrellaro del 4 aprile 1992, a cui partecipò pure un giovanissimo Aphex Twin, eseguii dal vivo “Make It Right” così come si può vedere in questo documentario, e quella fu l’ultima uscita su X-Energy Records che per me chiuse il filone della rave techno.

Underground Nation Undertour Sensation (sopra) e Cosmic Underground (sotto), due produzioni particolarmente ricercate del repertorio di Berardi

Tra 1992 e 1993 col citato Cucchetti realizzi “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation e “Trance Me EP” di Cosmic Underground, editi rispettivamente da Mystic Records ed R. Records, due tra le numerose etichette patrocinate dal negozio Re-Mix di Sandro Nasonte. Ai tempi i negozi di dischi potevano rappresentare punti di ritrovo e confronto tra addetti ai lavori e semplici appassionati. Alcuni si trasformarono in veri e propri quartier generali di etichette o freemag, come il Disco Inn di Modena e il Disco Più di Rimini o, all’estero, il Disco King di Mouscron e il Blitz da cui nacquero la DiKi Records e la Bonzai come raccontiamo qui e qui. Ritieni che il web abbia sostituito egregiamente quelle iniziative oggi rimaste tra le espressioni di un mondo che non esiste più? In caso contrario invece, cosa si stanno perdendo le nuove generazioni rispetto alle vecchie?
Tra ’91 e ’92 ci fu un cambiamento quasi radicale. La house continuava ad evolversi, specialmente nel genere deep che iniziò ad allargarsi a macchia d’olio in Italia dove nacquero tantissime accreditate realtà guidate da personaggi come MBG (che per me resta il maggior esponente italiano di quella scuola), Alex Neri ed Andrea Torre, il “pifferaio magico”. Per quanto mi riguarda, quel cambiamento fu espresso pienamente da “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation, prodotto ancora con l’amico Luca Cucchetti (fu sua l’intuizione di unire le forze con Torre) che curò il mixing finale e Stefano Di Carlo alle tastiere. La versione più emblematica è la Noneta del citato Andrea Torre. Il progetto sembrava fatto su misura per il movimento che gravitava intorno al suo seguitissimo programma radiofonico e le serate “tappetose” al Uonna Club, uno storico locale romano in cui si celebrava proprio questo genere. La prima volta che portai il provino a Torre fu subito amore, ricordo ancora i momenti della costruzione di quella versione. L’idea (geniale) di aggiungere la voce di una signora anziana che raccontava la poesia “Le Nuvole” di Fabrizio De Andrè fu di Peter, il commesso di Best Record menzionato prima, e non a caso “nuvolosità variabile” era uno slogan creato ad arte da Andrea per il suo programma mentre il nome del progetto prendeva spunto da Underground Nation, la classifica deep in onda su Radio Centro Suono, un’emittente romana che in quegli anni rappresentò l’epicentro di un vero e proprio movimento. Dulcis in fundo, l’uscita del disco coincise con la nascita di mio figlio Andrea menzionato tra i ringraziamenti sul centrino, e il sample del bambino nella versione Hardcore di Paolo ‘Zerla’ Zerletti non fu casuale. Il “Trance Me EP” di Cosmic Underground invece nacque un anno dopo e l’idea di partenza era realizzare un remix di “Save Me” ma con un arrangiamento più trance. A quella versione aggiungemmo due inediti, “Minimal Dream” ed “House Evolution”. A differenza di quando uscì, oggi è diventato un disco piuttosto ricercato e con un discreto valore per gli appassionati e ciò non può che rendermi felice. Ho già ricevuto diverse richieste di ristampa. Per quanto riguarda i negozi, credo che negli anni Novanta Re-Mix sia stato un vero e proprio quartier generale, un punto di riferimento per la quasi totalità dei DJ e produttori di quel sound ma anche per coloro che ascoltavano la radio e partecipavano agli eventi. Una tappa obbligata per gli addetti ai lavori che bazzicavano la club culture capitolina, per non parlare poi delle produzioni annesse. Basterebbe citare la Sounds Never Seen, la Plasmek, la Synthetic, la Nature Records o la Killer Clown Records che hanno visto come protagonisti Lory D, Andrea Benedetti, Mauro Tannino, Stefano Di Carlo, Marco Passarani, Cristiano Balducci e molti altri ancora, tutte realtà che hanno contribuito alla nascita di una scena riconosciuta anche all’estero. I giovani adesso sono abituati a comprare online, chi è passato da lavorare dietro il bancone di un negozio agli store virtuali ha fatto comunque un lavoro enorme. Noto con piacere il fiorire e il proliferare di realtà che combinano etichetta, produzione, mastering e distribuzione con intenzione di dare spazio sia a nuove proposte che a ristampe di classici o rarità del passato.

Nel 1994 il progetto Cosmic Underground si trasforma in Cosmic Galaxy ed apre il catalogo della Virtual World, etichetta distribuita dalla milanese Discomagic a cui, nello stesso anno, tu e Cucchetti destinate “Pussy” di The Fair Sex, altrettanto ambito per i collezionisti. Come arrivaste a Lombardoni?
Cosmic Galaxy è stata croce e delizia. Per me ha rappresentato uno dei momenti peggiori a livello personale e, di conseguenza, una fase di stanchezza mentale. Avevo un cassetto pieno di idee e progetti lasciati a metà, così provammo a mettere in ordine qualcosa e finalizzare le tracce incomplete. Ricavammo tre DAT ma non ricordo quanti pezzi fossero incisi sopra. Ad occuparsi di chiudere i contratti con le etichette è sempre stato Luca e quella volta partì alla volta di Milano. Negli uffici della Discomagic incontrò Emilio La Notte che ascoltò i brani e creò appositamente la Virtual World per prodotti di quel tipo, diciamo un misto tra techno, minimal e deep house. Furono stampate 500 copie di “Dream Girl” di Cosmic Galaxy ed altrettante di “Pussy” di The Fair Sex. A seguire arrivarono “Change Position” di A Girl Called Bitch su Subway Records e “You Don’t Get Stop” di Morena su Out. Era ciò che restava di quei DAT ma francamente non ho memorie in merito. “Dream Girl” è stato ristampato nel 2019 dalla Obscure World mentre il brano “Walkin’ On The Moon” è finito sull’olandese Safe Trip per il terzo volume della fortunatissima compilation “Welcome To Paradise”. Per maggio è atteso un EP su KMA60, la label di Jamie Fry e Dana Ruh, che su un lato conterrà “Save Me” ed “House Evolution” di Cosmic Underground e sull’altro “Cosmic” e “Virtual Transpose” di The Fair Sex. Mi rende felice sapere che a distanza di tanti anni questi brani facciano parte di una cultura musicale ben definita e che le nuove etichette ne siano consapevoli.

Gli Harlem Hustlers in una foto del 2001

Negli anni Novanta chi, come te, produceva tanta musica ricorreva all’uso intensivo di molteplici nomi di fantasia a differenza di oggi, con la scena contraddistinta da un individualismo assai più pronunciato. Alito, Base On Space, The Night Fever, Critical Release, Players Inc., Star Funk e The Hammer sono solo alcuni di quelli che ti riguardano, ma menzione speciale merita Harlem Hustlers, condiviso con Roberto Masutti sin dal 1996, con cui realizzi vari brani ma soprattutto remixi un numero abissale di artisti. C’era (e c’è) un preciso modus operandi nel vostro lavoro in studio?
Usare più pseudonimi contemporaneamente era nella norma. Avere almeno due produzioni nuove ogni mese, che il più delle volte diventavano tre o quattro, obbligava ad una scelta simile per non inflazionare il nome su cui si puntava di più. Poi entravano in gioco ragioni di direzione musicale o di esclusive strette con alcune etichette. Come Base On Space, ad esempio, ho prodotto per la Lemon Records (di cui parliamo qui, nda), per la Big Big Trax di Victor Simonelli e per la D:Vision, Star Funk era destinato alla milanese Hitland, Cyclone alla Propaganda… Harlem Hustlers invece nacque per pura casualità con la voglia di provare a cambiare lo status quo della house nella seconda metà degli anni Novanta. Conobbi Roberto Masutti tramite un amico in comune. Ad oggi abbiamo realizzato, tra remix e produzioni, quasi duecento brani. Lui è un vero esperto dell’hardware e software, sempre aggiornatissimo sulle novità e con una specialità per l’effettistica. È dieci anni più giovane di me ed ha un gusto musicale molto raffinato. Dopo i primi lavori portati a termine in studi diversi, decidemmo di metterne su uno tutto nostro, il Penthouse Studio, ancora esistente, situato all’ultimo piano di un edificio. Scelsi il nome Penthouse anche in virtù di un apprezzato programma radiofonico su Radio Centro Suono. Il nostro rapporto è andato oltre la semplice collaborazione lavorativa. A tenerci uniti, oltre ad una solida amicizia, è sempre stato un grande rispetto reciproco. Modus operandi? Ascoltiamo il brano da remixare, decidiamo la direzione da prendere ed una volta trovato il sample giusto da accostare, ci dedichiamo alla linea di basso, alla drum e all’arrangiamento. A seguire stesura e missaggio finale, da riascoltare dopo un paio di giorni di pausa. Ricordo ancora molto bene l’emozione che provammo quando, grazie alla D:Vision, ascoltammo il 24 piste originale di “Guilty” delle First Choice, in cui le cantanti ridevano, scherzavano e provavano gli strumenti. Prima di quel momento per noi era una cosa impensabile poter lavorare sui brani della Philly Groove Records. Poi avremmo messo le mani pure su “Put Yourself In My Place” di TJM, in origine su Casablanca, su “Lovin’ You Is Killing Me” dei Moment Of Truth, dal catalogo Salsoul, e su “Don’t Put Me Down” di Finishing Touch: la nostra Soul Reconstruction Mix era tanto cara a Frankie Knuckles. Qualche tempo fa Domenico Scuteri della Lemon Records, a mio parere tra i migliori musicisti, compositori e sound engineer italiani, definì gli Harlem Hustlers gli artefici del “cut off sampling”. Non so se effettivamente siamo stati i primi ma quando sento un disco nuovo che lavora col filtro passa basso e l’automazione non posso non ricordare che noi lo facevamo già venti (e passa) anni fa. Anche con gli A&R delle varie etichette con cui abbiamo lavorato e collaborato c’è sempre stato un profondo rispetto. In qualche caso, come con la Strictly Rhythm o la Azuli Records, le richieste riguardavano perlopiù piccole correzioni ma mai stravolgimenti. Con la X-Energy c’era un rapporto praticamente quotidiano e il confronto con Alvaro Ugolini portava tanti buoni consigli. Una volta Bob Sinclar ci chiese le parti del remix che realizzammo per la sua hit del 2006, “World, Hold On (Children Of The Sky)”: volle fare un editing della nostra versione migliorandola con un paio di correzioni sulla stesura. Il risultato su la Bob Sinclar Vs. Harlem Hustlers Remix. Con Sinclar, peraltro, ci furono precedenti molto lusinghieri. Già nel 2004 infatti remixammo “Sexy Dancer” e la nostra versione venne pubblicata pure sulla sua Yellow Productions, e grande soddisfazione giunse anche quando il remix che facemmo per “Give A Lil’ Love” venne scelto dalla Tim come sigla del campionato di serie A 2006-2007.

Con alcuni musicisti capitolini ti sei affacciato anche alla musica lounge con Joker Juice.
Esattamente. Joker Juice nasce come progetto commissionato dalla Energy Production a cui hanno preso parte diversi musicisti una quindicina di anni fa circa. La considero una meteora quasi sperimentale in un periodo in cui imperversava la musica lounge con le mitologiche compilation in stile “Buddha Bar”. Alcuni brani dell’album “Contrast” sono stati selezionati per numerose compilation specializzate nel settore.

Continui tuttora a rieditare pezzi per la Full Time Records: cosa pensi del re-edit “selvaggio” praticato da quelle etichette, fisiche e digitali, che sfruttano la musica di altri ma senza alcuna autorizzazione da parte di autori ed editori depositari dei diritti? È un fenomeno arginabile in qualche modo?
Il re-edit che definisci “selvaggio” è un problema culturale, praticato perlopiù da chi vuole solo cavalcare l’onda di un genere senza farsi troppi scrupoli e non conosce a fondo la materia o non gliene importa nulla di approfondire sulle radici del brano che sta utilizzando. Un ventenne alle prese con un pezzo anni Settanta/Ottanta non si pone troppi problemi e preferisce fare ciò che meglio crede, aiutato dai software che facilitano la manipolazione. Però per fare cose buone non basta mettere una cassa dritta su un sample. Il re-edit dovrebbe limitarsi ad isolare le parti migliori di un brano e sistemarle in modo da non avere quelle interruzioni o classiche pause dei pezzi disco/funk. In questa disciplina uno dei migliori per me resta Danny Krivit. Leggere il suo nome sui dischi mi fa subito pensare ad un prodotto concepito col massimo rispetto per l’artista. Per quanto mi riguarda, cerco di essere sempre molto attento a non oltrepassare il limite. Provo un rispetto profondo per l’artista su cui lavoro e d’altronde vengo dalla scuola in cui si potevano campionare dalle due alle quattro battute. In passato c’era più rigidità nel controllo dei sample, adesso se il brano funziona, che sia un edit o un remix, si trova un accordo tra l’etichetta/editore e il producer creando una buona opportunità di lavoro per entrambe le parti. Tornando alla domanda, non credo che la pseudo cultura di saccheggiare materiale altrui sia arginabile. Ci dovrebbe essere un’educazione musicale, una sorta di bon ton che indichi dove fermarsi prima di essere risucchiati nel mercato ormai troppo inflazionato del disco re-edit. Speriamo in un cambio di direzione e che si ritorni a scrivere qualche nota in più in onore della nostra amata house music. Collaborare con la Full Time per me è una gran bella soddisfazione. Avere la possibilità di lavorare su brani inavvicinabili quando iniziai la mia carriera è qualcosa di magico. Adesso, con tutto il rispetto possibile, cerco di renderli più attuali e fornire ad essi una marcia in più ma senza offendere le versioni originali.

La pandemia da coronavirus ha “congelato” il mondo delle discoteche da ormai un anno a questa parte. In Rete si sentono e leggono tanti buoni propositi legati all’agognata ripartenza di cui però al momento nessuno è in grado di prevedere l’inizio. Credi sia possibile ristabilire priorità, scala valori e meritocrazia in un settore come quello del nightclubbing che nell’arco di un trentennio circa ha remato costantemente verso la mercificazione dell’arte e della passione?
Secondo me la pandemia ha solo dato lo schiaffo finale ad un mondo che ormai non funzionava più da un pezzo. Ci vorrà tempo e un cambio generazionale non indifferente per tornare ai fasti di una volta, bisognerebbe creare qualcosa di autenticamente nuovo per dare un seguito a ciò che fu fatto di buono in passato. Spero che l’incubo del covid-19 possa finire al più presto, abbiamo bisogno psicologicamente dei nostri punti di riferimento ma soprattutto di musica.

Due ultimi scatti relativi ad altre parti della collezione di Massimo Berardi

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato aggiungendo per ognuno di essi un’accurata descrizione.

Pink Floyd – The Dark Side Of The Moon
Da ragazzo rimanevo affascinato da tutto ciò che era futuristico e fantasticavo sul fatto che nel 2000 le astronavi avrebbero sostituito le utilitarie. “The Dark Side Of The Moon”, uscito nel 1973, è in assoluto l’LP che mi ha accompagnato più di tutti in quel viaggio immaginario. Sperimentazione allo stato puro, sia per l’uso dei sintetizzatori che per i rumori d’ambiente utilizzati come mai nessuno aveva saputo fare prima. Per tutti quelli della mia età fu un’introduzione a sonorità da viaggio mentale, un vero e proprio apriscatole delle emozioni.

Cerrone – Love In C Minor
La storia della disco music è piena zeppa di nomi importanti che hanno dato vita ad essa e Cerrone è sicuramente uno di questi. La prima volta che lo ascoltai avevo circa quattordici/quindici anni, i gemiti femminili abbinati alla cassa dritta mi fecero andare letteralmente in estasi. Potrebbe essere definito quasi un pezzo proto house. Da metà in poi, con l’esplosione di accordi e i fraseggi, era come fare sesso con le note musicali. Sono particolarmente legato a questo disco perché mi ricorda un caro amico che non c’è più con cui trascorrevo i pomeriggi a selezionare ed ascoltare musica sul suo mega impianto.

Jean-Michel Jarre – Oxygene
Dire che questo disco mi abbia influenzato è poco, e per capirlo basta ascoltare “Dream Girl” di Cosmic Galaxy. Lo comprai quando ero molto giovane ma nonostante ciò diedi ad esso il giusto valore tanto da ascoltarlo ininterrottamente in cuffia quasi a stancarmene. Lo “incrociai” nuovamente qualche anno dopo cercando di scoprire qualcosa in più sull’autore e sull’utilizzo che fece degli “strumenti infernali” tra cui il primo modello del VCS3 della EMS di Peter Zinovieff, l’organo elettrico Eminent 310 Unique ed una drum machine Korg Mini Pops. Semplicemente spettacolare.

Rose Royce – In Full Bloom
Cercai questo album del 1977 per un brano in particolare, “Do Your Dance”, uno di quelli che si sentivano nella Baia Degli Angeli, il tempio che ha spinto tanti ad intraprendere l’avventura da DJ. Nella sua interezza, “In Full Bloom” è uno di quei dischi che si apprezzano col passare del tempo. Puoi ascoltarlo in qualsiasi momento della tua vita e ti sembrerà sempre di averlo appena comprato. A produrlo fu Norman Whitfield, uno dei creatori del cosiddetto Motown Sound. Tra gli altri brani contenuti segnalo “Wishing On A Star” scritto da Billie Calvin e riproposto nel 1998 da Jay-Z in una fortunata cover.

Herbie Hancock – Future Shock
Hancock è uno dei tanti leggendari musicisti che hanno suonato per la band di Miles Davis. “Future Shock”, uscito nel 1983, probabilmente non è il lavoro migliore del suo repertorio ma il più vicino ai poveri mortali amanti della disco/funk, come me. Un artista un po’ nomade a cui è sempre piaciuto passare da un genere all’altro e che per l’occasione si avvicinò sensibilmente all’elettronica sperimentandone le potenzialità insieme al grande bassista Bill Laswell. A venirne fuori fu un fantastico album electro funk trainato dalla hit “Rockit”, devastante in pista.

Gaznevada – I.C. Love Affair
Nei primi anni Ottanta le domeniche pomeriggio in discoteca erano musicalmente assai diverse rispetto al venerdì o al sabato, quando la selezione era più certosina ed elegante. L’età media del pubblico che frequentava i locali la domenica pomeriggio era più bassa e quindi c’era grande possibilità di sperimentare cose nuove. A me piaceva molto proporre le novità di matrice elettronica, specie il filone italo disco, ma senza abbassare troppo la qualità, e i Gaznevada, come i N.O.I.A. o gli International Music System (di cui parliamo qui e qui, nda), si prestavano perfettamente a tale scopo. “I.C. Love Affair”, pubblicato dalla bolognese Italian Records (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), è uno dei pezzi con cui ho rischiato quasi di svuotare la pista la prima volta che lo misi ma poi, armandomi di costanza e tenacia, sono riuscito a farlo diventare un inno. Agli amanti del genere consiglio i remix pubblicati nel 2015 raccolti nella Exclusive Edition.

Adonis – No Way Back
È doveroso per me ricordare la Trax Records, iconica etichetta di Chicago che ha sconvolto il mercato dance nella seconda metà degli anni Ottanta con una miriade di produzioni passate alla storia. La scelta è difficile ma è caduta su questo brano di Adonis del 1986 che mi ricorda il primo viaggio a Londra. Entrai in uno dei tanti negozietti di dischi sparsi per la città e c’era questo brano sparato da un mega impianto. Rimasi folgorato dai club e dal modo in cui lì si viveva la musica, passando dai negozi di abbigliamento in stile acid house ed ovviamente quelli di dischi. Un autentico percorso di vita.

University Of Love Featuring MBG – Vostok 3
Un vero colpo al cuore, “Vostok 3”, uscito nel 1992, ha fatto il bello e il cattivo tempo dei miei sentimenti, un quadro da appendere in un punto quasi nascosto della casa in modo da soffermarti a guardarlo ogni volta che ci passi davanti. Inneggia a momenti memorabili di un periodo glorioso della musica dance e del clubbing italiano, un’opera d’arte per me come tutto quel filone nostrano deep house che ancora oggi, a distanza di ormai un trentennio, continua ad avere un ottimo mercato.

Raymond Castoldi – Biosphere 2
Se un giorno qualcuno mi domandasse quale disco avrei voluto realizzare indicherei senza ombra di dubbio questo, pubblicato dalla statunitense X-Ray Records nel 1993. Sino a qualche tempo fa ne possedevo tre copie, una l’ho venduta ad un carissimo collega, una continuo ad usarla senza sosta, l’ultima invece la ho riposta con cura sullo scaffale. Un disco pieno di tutto ciò che un DJ ha bisogno, suoni acidi, melodia, una bassline dal suono retrò e tanto amore.

Danny Tenaglia – Tourism
Penso sia uno degli album house più completi mai incisi in assoluto. Pubblicato nel 1998, gira su suoni techno, tribal e progressive incorniciati da splendide melodie. Un quadruplo pieno di pezzi (tra cui l’arcinoto “Music Is The Answer (Dancin’ And Prancin’)”, nda) che fanno la differenza ancora oggi. Il mio preferito resta “Do You Remember” col featuring di Liz Torres. Al Penthouse Studio non passò inosservato, io e Roberto Masutti ne comprammo una copia a testa.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Joy Kitikonti – Joyenergizer (BXR)

Joy Kitikonti - JoyenergizerQuando negli anni Ottanta la soglia d’accesso alla tecnologia per la composizione musicale si abbassa, si innesca un processo creativo che sfida le convenzioni. La nascita dell’electro, della new wave e dell’italo disco prima, della house e della techno poi, decreta una nuova era. Queste ultime due, in particolare, sono musiche che mandano in frantumi tutte le norme e generano una nuova figura professionale che prima non esisteva, quella del DJ-produttore, un attento conoscitore di musica, bravo a captare nuove tendenze e nel contempo capace di mettersi alla prova sul piano compositivo senza dover necessariamente chiedere sostegno ai musicisti ma soprattutto senza che l’inabilità di leggere il pentagramma e suonare uno strumento tradizionale sia più un limite oggettivo.

La musica che nasce sul crocevia tra sintetizzatori, batterie elettroniche e campionatori, è (s)travolgente. Può essere terribilmente banale o esageratamente efficace, ma al di là della resa il fattore a renderla unica è il poter essere approntata anche tra le mura domestiche. Paradossalmente molti suoni che lasciano scorgere il futuro non provengono affatto da studi di incisione iper milionari bensì da meno affascinanti home studio allestiti in camere da letto, cantine o persino polverosi garage. Sono tantissimi quindi i DJ che si cimentano in produzioni, allestendo alla meno peggio studi casalinghi fatti di pochissime cose, l’essenziale da cui tirare fuori il meglio. A provarci è anche Massimo Chiti Conti, meglio noto come Joy Kitikonti, che oggi racconta: «Quello sì che era un bel periodo. Era tutto in fermento. Facevo il DJ già da qualche anno, dal 1984 per l’esattezza, e nei primi Novanta decisi di creare un home studio per avere tutto a portata di mano e buttare giù le continue idee che mi venivano in mente. Ai tempi andare negli studi super professionali costava un occhio della testa quindi chi era motivato e non aveva denaro a sufficienza doveva arrangiarsi in qualche modo. C’era voglia di cambiare, di sperimentare, e non importava affatto essere musicisti diplomati al conservatorio. Ciò che contava, invece, erano la fantasia e la passione. Il mio primo studio si trovava a casa dei miei genitori, in un seminterrato. Tolsi i tavoli per le cene coi parenti e aggiunsi mixer, tastiere, monitor e il caro e vecchio Atari 1040ST con Cubase. Sento ancora l’odore di tutte quelle macchine. Molti dei primi dischi, realizzati sia come solista che in collaborazione con l’amico Francesco Farfa, furono fatti lì, mentre approfittavamo dei pranzi e delle cene preparate da mia madre Lia e in compagnia di mio padre Gino, colui che mi ha iniziato al mondo della musica spronandomi a suonare batteria e percussioni».

Joy Kitikonti 1976-1986

Due foto di un giovanissimo Chiti Conti: in alto strimpella la batteria del padre, nel 1976, in basso suona invece un Tama Drums, nel 1986

Dal 1992 Chiti Conti inizia ad incidere dischi, prima in modo saltuario e via via con più costanza sino a creare l’Area Records col citato Francesco Farfa (intervistato qui), col quale fa coppia in diversi progetti come Hoyos Corya, Ziet-O, X-Simble, Farmakit, Terre Forti e, successivamente, Miss Message. Pur non avendo maturato particolari formazioni accademiche, i due si rivelano piuttosto prolifici. «Non volevamo dimostrare di essere musicisti professionisti, stavamo semplicemente esprimendo ciò che sentivamo in precisi istanti della giornata o di un certo periodo» spiega Chiti Conti. «A volte bastava vedere una situazione particolare per strada, piuttosto che un volto o un quadro, per essere ispirati. Questo ci ha portati a creare vari pseudonimi in base al tipo di messaggio che intendevano lanciare. Sono state tutte esperienze bellissime e piene di creatività. Riguardo la formazione accademica, penso sia fantastico conoscere i meandri della musica ma l’importante, poi, è saper andare anche oltre i canoni. Charlie Parker disse: “impara tutto dalla musica, poi dimenticala e suona come ti detta l’anima”».

Jakyro UND 1996

Il primo disco che Chiti Conti realizza per la Media Records, uscito nel 1996 su Undeground e firmato con lo pseudonimo Jakyro

Nel 1996 per Chiti Conti si prospetta la svolta. Entra a far parte del roster artistico della Media Records intenta a creare la squadra dei DJ che animeranno per anni la BXR, rilanciata da poco. Il primo EP edito dall’etichetta capitanata da Gianfranco Bortolotti esce però sulla sublabel Underground ed è firmato Jakyro. A trainarlo è “The End”, remake di “Assault On Precinct 13” di John Carpenter. «Fu l’amico e collega Mario Più ad introdurmi alla Media Records» rammenta l’artista. «A Roncadelle conoscevano già le mie precedenti produzioni e da quel momento partì la collaborazione, inizialmente come Jakyro, Veru Monburu e P.I.N. Factory». Il primo disco edito dall’etichetta bresciana come Joy Kitikonti (per approfondire sulla genesi di questo pseudonimo si rimanda a questa videointervista a cura di Enrico Marchi) è “Etno Unite” ancora su Underground, etichetta che successivamente pubblicherà la fortunata “Raggattak” edificata sul sample preso da “A Who Seh Me Dun” di Cutty Ranks e che Chiti Conti firma Joman. Seguono “Pacific Unplugged” (GFB, 1998) ed “A Century Of Beatz” (Audio Esperanto, 1999) oltre a produzioni parallele e brani finiti nella compilation “The Very Best Of Trip Hop”.

con i dischi di Russ Meyers (1997)

Kitikonti coi dischi di Russ Meyer (1997)

«Ritengo che se una persona abbia molte idee, anche diverse tra di loro, dovrebbe provare a svilupparle. Per questa ragione ho creato, nel corso del tempo, vari pseudonimi, proprio per poter dare libero sfogo alla mia fantasia» dichiara. «Ho partecipato inoltre a molti progetti di altri artisti della BXR come Mario Più, Mauro Picotto (la citata “Pacific Unplugged” e “Deep Blue” finiscono nel pluridecorato “The Album”, nda), Sandro Vibot, Zicky, Ricky Le Roy, Stephan Krus, l’amico DJ Moss (manager del tour colombiano) ed altri ancora. Una delle più belle soddisfazioni è legata alla composizione di “The Very Best Of Trip Hop” per cui rimasi chiuso in casa per circa un mese, senza orari ma con la massima libertà di espressione. Altrettanto avvenne per “A Century Of Beatz”, finita sulla Audio Esperanto diretta da Farfa». Rispetto ad altri artisti che militano tra le fila della scuderia bortolottiana però, Kitikonti è tra quelli che non cercano sfacciatamente il successo discografico di grosse dimensioni, facendo leva su suoni iperrodati e schemi facilmente assimilabili dalle radio. «Non mi è mai piaciuta l’idea di avere un “marchio” stampato sulla pelle» afferma concisamente. «Ho sempre fatto le cose di pancia e di cuore piuttosto che pianificarle per soddisfare le esigenze commerciali. È la mia natura. Non nego tuttavia che sia ancora meglio quando la spontaneità viene premiata e riesce a raccogliere riconoscimenti e risultati economici».

Sebbene in Media Records dal 1996, Kitikonti inizia ad incidere per la BXR, ai tempi l’etichetta più rilevante del gruppo discografico con sede a Roncadelle e che in quel periodo è all’apice della popolarità, soltanto nel 2000. Il pezzo, uscito in primavera, si intitola “Agrimonyzer” ed è destinato ai club. Tutto cambia però l’anno seguente quando la stessa label pubblica “Joyenergizer” per cui viene persino girato un videoclip. Ad accorgersi di Kitikonti e della sua musica ora non sono più soltanto i DJ e il pubblico che frequenta un certo tipo di discoteche. «Sono particolarmente legato a quel periodo fatto di sorprese e soddisfazioni» dice l’artista in merito. «Con “Agrimonyzer” raccolsi riscontri molto positivi ma “Joyenergizer” ebbe l’effetto di un fulmine a ciel sereno. Fu realizzato negli studi BXR insieme al mitico Riccardo Ferri, uno dei miei produttori preferiti nell’ambito della musica elettronica. Iniziò tutto da una sorta di kick fatta con il sintetizzatore Access Virus A, poi lavorata con LFO e processata attraverso vari plugin durante la costruzione su Logic. Non impiegammo moltissimo tempo ma furono necessari vari test audio prima di ufficializzarla. A volte mi domando se saremmo ancora capaci di rifarla identica partendo da zero, ma credo proprio di no. Certi plugin non esistono più ma a mancare sarebbero anche la situazione e l’atmosfera. Riguardo il video, ricordo che mi trovavo a casa di Sandro Vibot per una cena tra amici quando ricevetti una telefonata da Picotto il quale mi disse che “Joyenergizer” fosse entrato in classifica, direttamente al primo posto. Aggiunse che il giorno dopo sarei dovuto partire per Ibiza per realizzare il video. Venendo da un mondo più underground, rimasi letteralmente stupito da quelle notizie, anche perché il disco era uscito da pochissimi giorni. “Joyenergizer” generò vendite consistenti seppur non rammenti il numero esatto di copie. Entrò in oltre 150 compilation. Non potrò mai dimenticare cosa avvenne durante una serata al Winter Music Conference, a Miami, quando Picotto (che remixa il brano con un vibe più technoide, nda) iniziò il suo set proprio col promo di “Joyenergizer”. Judge Jules, che lo aveva preceduto, rimase in consolle con lui e gli chiese “what’s this?” con una strana espressione sul volto. Mauro indicò me, che ero in pista, e dopo averlo mixato col successivo gli regalò la copia. La settimana seguente eravamo già in classifica su BBC».

a Buenos Aires (dicembre 2001)

Joy Kitikonti alla consolle di una discoteca a Buenos Aires, a dicembre del 2001, nel periodo in cui impazza la sua “Joyenergizer”

Il follow-up di “Joyenergizer” esce nel 2002, sempre su BXR. Si intitola “Joydontstop”, viene accompagnato da un nuovo videoclip e mostra qualche (ovvio) gancio col precedente, offerto intenzionalmente per creare un naturale continuum. «Anche “Joydontstop” fu realizzato con Ferri ed andò molto bene» ricorda Chiti Conti. «Dovevamo fare il follow-up di una hit, le aspettative erano molto alte e per questa ragione dovemmo optare per una soluzione più “commerciabile”. Personalmente preferisco di gran lunga “Joyenergizer”». L’effetto “Joyenergizer” si palesa presto: nel 2002 Kitikonti fa ingresso al 91esimo posto della Top 100 DJs del magazine britannico DJ Mag. Insieme a lui quell’anno, nella stessa classifica, ci sono due colleghi della BXR, Mauro Picotto e Mario Più. «La Top 100 DJs mi ha dato una discreta spinta ma alla fine ad aprirmi le porte in tutto il mondo fu proprio “Joyenergizer”» chiarisce. «Lo suonavano in molti, dai DJ techno ai trance, e grazie a quel successo iniziai a fare tantissime serate in varie parti del pianeta, tra Europa, Stati Uniti, Australia, Sud America e soprattutto in Colombia, dove sono stato innumerevoli volte e dove ho portato tutti i DJ del gruppo Metempsicosi ed anche altri colleghi italiani. Ho dei bellissimi ricordi dei giorni trascorsi insieme a DJ Moss e a Mirko Rispoli, amico e regista col quale realizzavamo foto e video di tutte le nostre serate. Prima del successo di “Joyenergizer” comunque lavoravo già tutti i weekend ma soprattutto in Italia. Mi capitava spesso però di fare serate sia in Francia con Tom Pooks, con cui collaboro ancora attraverso il progetto Family Piknik e la label Family Piknik Music, sia in Spagna al Florida 135 insieme a nomi importanti della scena techno internazionale».

con DJ moss nel vecchio studio (2001)

DJ Moss nello studio di Kitikonti, nel 2001: insieme realizzano diversi dischi come “Bogotà Experiences”, “Mossaic” ed “Ultramar EP”

A chiudere la trilogia, partita con “Joyenergizer” e proseguita con “Joydontstop”, è “Pornojoy”, del 2003, ma con risultati inferiori rispetto ai precedenti. A dirla tutta la sbornia di successo della BXR ormai era in fase calante, trend che progressivamente coinvolge in modo generalizzato l’intero panorama italiano con etichette e distributori che chiudono battenti ed artisti che spariscono letteralmente dalla scena. «Effettivamente “Pornojoy” non andò bene come gli altri due, ma raccogliemmo ugualmente molte soddisfazioni sul fronte compilation e col videoclip che fu censurato durante la fascia oraria protetta» prosegue Chiti Conti. «Stava prendendo sempre più piede l’era del digital download pirata, i software peer-to-peer erano in via di sensibile affermazione mentre i supporti fisici, vinile in primis, iniziavano a perdere quote consistenti di mercato. Di conseguenza diminuivano i guadagni per tutti».

Kitikonti comunque prosegue portando avanti sia la carriera da DJ che quella da produttore incidendo nuovi brani ancora per la BXR, etichetta per cui diventa A&R insieme a Mario Più dopo l’abbandono di Picotto nel 2002, e per altre giunte in seguito, quando la Media Records smette di essere operativa. Nel frattempo la generazione dei clubgoer cambia, il mondo della musica e della discoteca viene radicalmente trasformato e quella che era contemporaneità, d’un tratto, smette di essere tale diventando già materiale pseudo vintage da riportare in auge per un pubblico più giovane che la considera inedita. È quanto avviene a “Joyenergizer” che nel 2013 viene riproposta attraverso una cover da Sander van Doorn. «Mi ha fatto piacere che il DJ olandese abbia deciso di rifare il pezzo più noto della mia discografia, seppur il suo genere musicale non rientri affatto nelle mie corde» chiarisce Kitikonti. «A quella versione però è connessa anche una spiacevole vicenda che mi fece arrabbiare parecchio. Inizialmente van Doorn e il suo team volevano intitolare il pezzo “Energizer” rimuovendo il “Joy”, con l’intenzione di farlo passare per un pezzo nuovo ed ideato da loro. Discussi a lungo, sia con la Spinnin’ Records che lo pubblicava, sia con la ZYX, titolare dei diritti, in quanto nessuno mi aveva avvisato di ciò. Dopo un forte e pesante dibattito sono riuscito a spuntarla, obbligando l’olandese ad usare il titolo originale. Se decidi di fare una cover alla fine non puoi arbitrariamente cambiarne il titolo. Da quando si è aperta l’era digitale sono spuntate migliaia di etichette, migliaia di web radio e migliaia di produttori. La situazione è ancora un po’ caotica e credo ci vorrà del tempo per trovare il giusto equilibrio. Tuttavia trovo positivo il facile approccio odierno alla musica e sono contento del fatto che chiunque ormai possa avvicinarsi alla composizione senza dover spendere un patrimonio come avveniva in passato. Quando si tratta di arte e creatività c’è spazio per tutti e la musica, in modo particolare, scalda l’anima». (Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Adrian Morrison – DJ chart ottobre 1996

Adrian Morrison, DiscoiD, ottobre 1996
DJ: Adrian Morrison
Fonte: DiscoiD
Data: ottobre 1996

1) Dimitri From Paris – Sacrebleu
Edito nel 1996 dalla Yellow Productions di Bob Sinclar e DJ Yellow, “Sacrebleu” è il primo album di Dimitri Yerasimos, meglio noto come Dimitri From Paris. All’interno si palesa il mondo musicale di riferimento del francese nato ad Istanbul, fatto in prevalenza di downtempo, soul, jazz, funk ed easy listening, ad anticipare quella grande onda chiamata lounge che conquisterà il mainstream qualche anno più tardi. Tuttavia non mancano parentesi che si aprono verso materie ballabili, come “Dirty Larry” (estratto come singolo), “La Rythme Et Le Cadence” e “Le Moody Reggae” altrettanto ricche di digressioni latin e brazil a testimonianza di quale sia la direzione stilistica dell’artista quello stesso anno impegnato col citato Sinclar nel progetto La Yellow 357. A mixare il disco è Philippe Cerboneschi alias Zdar (Cassius, Motorbass, La Funk Mob) scomparso tragicamente pochi mesi fa.

2) Lionrock – Fire Up The Shoesaw
Ricordato per la hit “Packet Of Peace” del 1993, il progetto Lionrock orchestrato da Justin Robertson vede accrescere la fama negli anni Novanta, col costante supporto della Deconstruction. “Fire Up The Shoesaw”, uno dei singoli estratti dall’album “An Instinct For Detection”, si inserisce a pieno titolo in quel filone che la stampa ribattezza chemical beat, allora battuto da Chemical Brothers, Prodigy, Fatboy Slim, Fluke, Apollo 440 o Propellerheads. Il brano fruga con perizia in discografie di artisti stilisticamente lontani dal mondo dell’elettronica (Nancy Sinatra, John Barry e Bram Tchaikovsky), come avviene sovente nel segmento big beat, rivelando poderoso background culturale ed abilità tecnica degli autori. Sul lato b trovano spazio due versioni ritmicamente più lineari, la Discotheque Mix e la Discotheque Dub.

3) Mateo & Matos – Shades Of Time
La coppia di DJ newyorkesi è tra le più prolifiche negli anni Novanta, decade in cui la house music assume nuove forme e declinazioni. In questo 12″, pubblicato dalla Spiritual Life Music di Joe Claussell, jazz e vibe danzereccio vengono sapientemente bilanciati: in “Loft Sensations” (con un probabile rimando tematico al Loft di Dave Mancuso) si lascia spazio agli strumenti acustici, poi è tempo di ancheggiare sul canovaccio percussivo di “New York Style” che, come il titolo stesso lascia supporre, intende rappresentare la house music della Grande Mela.

4) DJ Afid – Wild Bass
Si conosce ben poco di questo disco, stampato dalla Wax Records di Losanna, Svizzera. Praticamente nulle le informazioni anche sull’autore, un tal DJ Afid, che incide due brani, “Wild Bass” e “Maracaibo”, rivisti in altrettante versioni ciascuno.

5) Street Corner Symphony – Symphony For The Devil (The Harvey Remixes)
A realizzare i remix è uno dei maggiori agitatori della club scene londinese degli anni Novanta, DJ Harvey. Sia la Obligatory Mix che la 95% Live Mix risentono in modo evidente di influenze funk, soul e disco, tracciando la via che avrebbe seguito, anni dopo, la nu disco. Autori del brano originale sono Petar Zivkovic e Glen Gunner che, nel 2000, daranno vita ai Block 16 insieme a Ray Mang, appoggiati da un’etichetta d’eccezione come la Nuphonic.

6) Jephté Guillaume – Lakou-A
“Lakou-A” è il singolo di debutto per questo poliedrico artista nativo di Haiti, in grado di incrociare il folk originario della sua terra con la deep house. La combinazione non sfugge al radar di Joe Claussell che lo mette sotto contratto sulla propria Spiritual Life Music. Da “Lakou-A” si schiude un mondo in cui Guillaume orchestra sapientemente un percussionista, un pianista e un trombettista per raggiungere la sublimazione. All’afro house dell’Original Vocal si sommano le toccanti vibrazioni della Frédo’s Jazzy Fingers e della Live Bass Vocal, a cui si aggiungono vari tool destinati ai DJ più creativi.

7) Sunship – Come True
Prolifico artista britannico ed ex membro dei Brand New Heavies, Ceri Evans si fa largo nella scena house/future jazz come Sunship. “Come True”, che lo porta sulla londinese Filter, fa contemporaneamente leva sullo spezzettamento ritmico del broken beat e sulla soavità dei lead che si levano come tappeti onirici. La Sun Dub e la True Dub proseguono nello stesso solco, la prima semplificando i pattern della batteria, la seconda continuando a svolazzare su frammenti di materia grigia dondolati in un dolce sogno. A mo’ di bonus appare infine il remix di “The 13th Key”, un brano edito nel 1992 ora rimaneggiato dai Black Science Orchestra capeggiati da Ashley Beedle che si lasciano andare a virtuosismi jazzy di straordinaria fattura.

8) Reel Houze – The Chance
Sviluppato su un sample preso da “Go Bang!” dei Dinosaur L, “The Chance” è un altro di quei pezzi che, nella Londra di metà anni Novanta, determinano il fermento del cosiddetto nu funk a cui aderisce anche l’italiano Leo Young di cui abbiamo parlato qui e qui. A produrlo sono due vecchie conoscenze della scena britannica, Dominic Dawson e Rob Mello. A stamparlo invece la Zoom Records, nata nel retrobottega dell’omonimo negozio di dischi a Camden.

9) Brooklyn Funk Essentials – ?
In assenza del titolo non è possibile identificare quale sia il pezzo dei Brooklyn Funk Essentials in questione. Peraltro nel 1996, anno di pubblicazione della classifica, il collettivo pare non abbia inciso nulla. È presumibile dunque che Adrian Morrison facesse riferimento all’album “Cool And Steady And Easy”, uscito a fine ’93 e prodotto dal sommo Arthur Baker, o a qualche singolo estratto in seguito, “The Creator Has A Master Plan”, “Dilly Dally” o “Big Apple Boogaloo”.

10) Tri Spiritual Experience – Platform City
Trattasi di un disco presente nel ridottissimo catalogo della Üzziel Records, etichetta apparentemente californiana che conta appena tre pubblicazioni, tutte del ’96 e firmate dal trio Tri Spiritual Experience. “Platform City” è deep house che stringe l’ascoltatore in un fraterno abbraccio ma degna di menzione è pure “Phunktuary”, incisa sul lato opposto, in cui Twister, Heather e DJ Loic flirtano col breakbeat e continui inviluppi di filtri.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Bruno Bolla, DJ dal vibe eclettico

Bruno BollaBruno Bolla vanta un ampio bagaglio culturale che attinge da un nugolo di generi musicali agli antipodi del mainstream. La sua prima passione è quella per il cosiddetto “afro”, un intricato filone-contenitore di materiale trasversale determinante per gli orientamenti stilistici futuri. Negli anni Novanta infatti si lascia conquistare dall’acid jazz che, analogamente a quanto avvenuto con l’afro, è simile ad un groviglio multisfaccettato di generi che collega il mondo degli strumenti acustici con quello degli elettronici. Tra i suoi interessi c’è anche la house, che interseca ecletticamente con disco, funk e soul. Attivo pure in ambito discografico ma prediligendo più intenti compilativi che produttivi, Bolla è oggi uno dei veterani italiani della consolle, con una passione quarantennale alle spalle che continua ad animarlo senza sosta.

Nell’intervista rilasciata qualche tempo fa ad Emanuele Treppiedi per Zero, racconti di aver frequentato i primi negozi di dischi d’importazione in Italia, come Goody Music di Jacques Fred Petrus o Il Bazaar di Pippo di Pippo Landro, ai quali abbiamo dedicato ampio spazio in Decadance Extra. Cosa significava, quarant’anni fa, comprare musica che conoscevano in pochi?
Alla fine degli anni Settanta i negozi in cui acquistare musica specializzata erano una marea. Ce n’erano moltissimi non legati alla dance music, dove trovavo jazz, funk, fusion, afro, brazil, new wave ed elettronica in genere. In realtà molti di questi erano librerie in cui vi era un reparto appositamente dedicato ai dischi. Se ripenso a cosa ho comprato in quei posti, peraltro a prezzi bassissimi, mi vengono i brividi! Adesso molti di quei dischi sono introvabili o disponibili, su internet, a prezzi incredibilmente alti. Nei primi anni Ottanta però, seppur i negozi fossero tantissimi, a suonare quelle cose a Milano eravamo davvero quattro gatti. Io compravo ovunque, da Pacha a Supporti Fonografici, da Mariposa a Tape Art, da Buscemi a Bonaparte Dischi passando per Stradivarius, Messaggerie Musicali, Iperdue in zona Brera e i magazzini sparsi in zona Mecenate dove era quasi impossibile accedere per un privato, senza dimenticare i minuscoli negozietti sparsi per la città con un ben di Dio incredibile.

Chi, come te, voleva intraprendere la carriera da DJ, era messo di fronte al bivio di scegliere se passare le musiche da hit parade o dedicarsi a cose più ricercate e quindi difficilmente proponibili al grande pubblico? Tale scelta implicava anche delle conseguenze a livello lavorativo?
In quegli anni, pur facendo il DJ ancora a livello hobbistico, desideravo prendere le distanze dai generi musicali mainstream che andavano per la maggiore a Milano. La musica commerciale più in voga era la disco, quella in stile Claudio Cecchetto che comunque era un “signor DJ”, tra i pochi che stimavo veramente in quel periodo in città. Io però stavo crescendo con altri gusti puntando ad un genere che non era popolarissimo nei club milanesi ma che palpitava nei cuori di molti “alternativi” e vantava migliaia di seguaci disposti a spostarsi persino in altre regioni, come il Veneto o l’Emilia Romagna, pur di seguirlo. Mi riferisco al filone “afro” nato in club come la Baia Degli Angeli, meno facile ed immediato rispetto alla disco proposta dai DJ importanti di Milano come Tony Carrasco, il menzionato Cecchetto o Moreno della discoteca Astrolabio (quest’ultimo, a mio avviso, una spanna sopra tutti), che erano la risposta italiana a David Mancuso, Nicky Siano o Larry Levan, e posso garantire che fossero tecnicamente persino migliori rispetto ai colleghi d’oltreoceano. Per il genere che piaceva a me però i modelli erano Moz-Art, Beppe Loda, Daniele Baldelli, TBC ed altri contraddistinti da scelte musicali coraggiose, cura nella selezione ed una certa apertura verso tutto quello che era meno scontato e scarsamente appetibile per il mondo radiofonico. Non certamente a caso questi DJ sono tuttora in attività e molti di loro stanno vivendo una seconda giovinezza, con un giusto tributo anche all’estero perché in quel periodo erano ben pochi i DJ in Europa a proporre musica simile. Nel Regno Unito, ad esempio, i DJ passavano bella musica ma il mixaggio non apparteneva alla loro cultura, davano priorità alla selezione più che alla tecnica. Io seguivo quindi gli input dei miei riferimenti ma avevo già una personalità e cercavo di metterci del mio. A causa della poca popolarità del genere però non fu facile approdare a consolle importanti e a livello lavorativo si faceva una grande fatica. C’era qualche party privato o serate tematiche nei circoli, che non erano molti e spesso legati troppo a livello politico. In linea di massima non si dedicava tempo ed attenzione al divertimento e al disimpegno. La discoteca poi non era ben vista, almeno tra le mie conoscenze. Io ero fortunato, mi capitava di finire dentro il locale trendy per qualche festa a tema organizzata da qualcuno che prediligeva i suoni strani ed affascinanti, e a tal proposito ricordo un bellissimo party dedicato ai fumetti che sonorizzai con musica afro/elettronica nel 1984. Il club si chiamava Primadonna e si trovava nei pressi di Via Monte Napoleone. Fu una festa fantastica, la gente ballava tutto ciò che mettevo e a Milano mi sembrò davvero un miracolo.

Bruno Bolla (1987)

Bruno Bolla in una foto risalente al 1987

Tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta l’arrivo di strumenti elettronici dal costo contenuto, in primis quelli della Roland, decretano la nascita di nuovi generi come new wave e synth pop che offuscano la popolarità del funk, del soul e specialmente della disco. Da appassionato proprio di questi generi, come vivesti quella fase?
Vissi quel periodo con poca sofferenza perché curiosità ed eclettismo mi avevano già portato a mischiare quei filoni. Alcune cose synth pop, ad esempio, si sovrapponevano bene ai suoni disco funk. Comunque iniziai a comprare molta meno disco, ma seppur si stessero manifestando i primi segni di stanchezza, artisti provenienti da Stati Uniti e Gran Bretagna continuarono a partorire grandi cose, lasciando emergere le prime contaminazioni.

Nel corso degli anni non hai mai fatto mistero della tua stima e devozione per il cosiddetto movimento “afro”, nato e sviluppato in locali come Baia degli Angeli, Cosmic, Ciak, Typhoon o Melody Mecca. Secondo te quelle sovrapposizioni stilistiche effettuate con maestria da DJ preparati tanto in tecnica quanto in cultura e background, sono state storicamente impattanti come house e techno? L’impressione è che sulla mappa mondiale della dance music culture, l’afro, inteso sia come stile che come attitudine, non sia finito forse proprio per la scarsa considerazione degli italiani.
Come hai giustamente detto, il cosiddetto “afro” era più un’attitudine che un genere, un po’ come avvenne per l’acid jazz negli anni Novanta. Effettivamente quello che si vedeva nei club italiani di allora non esisteva in molti locali europei. Eravamo avanti ma non siamo stati capaci di capitalizzare le nostre stesse intuizioni e questo, per noi italiani, purtroppo è un classico. La risposta a quanto mi chiedi l’abbiamo davanti agli occhi: i giovani adesso comprano ristampe e sono alla costante ricerca degli originali. Importanti label indipendenti di tutto il mondo dedicano gran parte dei loro budget per ristampare autentiche pietre miliari di questa “dance music” non proprio convenzionale, facendo scoprire cose di quel periodo rimaste nell’ombra per decenni. Le ristampe afro, disco, funk e boogie oggi vanno a ruba, ma l’impatto rispetto ad house e techno è stato minore, e credo non potesse essere diversamente. House e techno rientrano infatti nella categoria dei generi musicali ed hanno già una vita molto lunga, pluritrentennale. La loro collocazione è radicalmente legata alle evoluzioni tecnologiche al contrario dell’afro, un’attitudine ed un mix tra post punk, electro, industrial, new age, ethno, new wave, dark, funk, disco, prog rock…

Un flyer del Matmos (1991-1992)

Un flyer del Matmos (1991-1992)

Nei primi anni Novanta sei tra i DJ che animano una delle one night più note di Milano, Matmos, ideata dal compianto Marco Tini. Potresti descriverla?
Matmos fu, molto semplicemente, la prima one night milanese completamente dedicata all’house music. L’esordio fu al Beau Geste, tra 1990 e 1991, con tre DJ resident, Luca Colombo, Giorgio Matè e Ralf. Tra 1991 e 1992 la location si spostò al Linea, in Piazza San Babila. Ralf si alternava come guest a Ricky Montanari e Flavio Vecchi portando il suono della Riviera, e a Colombo e Matè si aggiunsero Jackmaster Pez ed Andrea Gemolotto. Io entrai come guest fisso, una volta al mese, esibendomi dopo aver suonato al Lizard dove ero resident. Insomma, ogni trenta giorni avevo una “doppia” in città, una vera rarità perché erano entrambe serate e non after hour, ma la cosa non dava fastidio a nessuno. Ricordo che si facevano serate sporadiche pure il giovedì, negli ultimi anni al Tainos in zona Piazza della Repubblica, dove si testavano anche giovani talenti in una specie di laboratorio, affiancati alternativamente da uno di noi resident. A Marco Tini piaceva cambiare quindi prenotò il Carisma di Piazzale Cordusio per la stagione 1992-1993 e lo inaugurò con un progetto fighissimo basato su due sale. In una c’erano i resident Luca Colombo, Jackmaster Pez e Giorgio Matè che suonavano house, nell’altra invece io e Steve Dub, ai tempi resident del Plastic con Nicola Guiducci, che invece proponevamo sonorità black, acid jazz, r&b ed hip hop. Visto il mio eclettismo, apprezzato senza riserve da Tini, mi chiesero di curare anche il set di chiusura in decompressione della sala house, col mio downbeat cosmico strumentale. Insomma, un progetto in cui risiedeva tutta la visione di Marco Tini relativa ad un locale perfetto e definitivo. Purtroppo Marco ci lasciò ancor prima di iniziare in seguito ad un tragico incidente stradale, e portare avanti il Matmos senza di lui non funzionò. Con Isa e Lucia, le sue assistenti che presero in mano le redini del progetto, approdammo al Lizard dove, come annunciato prima, ero resident col mio gruppo Les Fous De L’Île. Si trattava di un club fashion dove suonavo cose underground pur avendo a che fare con un pubblico modaiolo ed internazionale. Il sogno di Marco Tini, far convivere l’anima raver ed underground del Matmos col pubblico del jet set, più “fighetto” ma ricettivo, si realizzò ma purtroppo senza di lui. Mi emoziono ancora quando ci penso. Tempo fa un nostro vecchio cliente ed ormai grande amico mi disse: «Bruno, hai fatto una bellissima carriera ma con Marco accanto avresti raggiunto molti più obiettivi, ti adorava e credeva in te come pochi altri». Credo avesse ragione.

C’era una ragione dietro il nome Matmos, adottato in seguito dal duo americano di San Francisco formato da Drew Daniel e Martin Schmidt?
Il Matmos nostrano non ha davvero nulla da spartire con la band da te menzionata. Marco prese quel nome dal film “Barbarella” del 1968, con Jane Fonda come protagonista. Nella pellicola lei è una viaggiatrice dello spazio che ha tante avventure, fantastiche ed erotiche, e il Matmos è una sostanza energetica di cui vivevano gli abitanti di Sogo, la città dove approda. Sul perché Tini abbia optato per questo nome esistono varie versioni, ormai diventate quasi delle leggende. Per quanto ricordo io, c’erano connessioni con l’uso di sostanze stupefacenti e con la perversione, ma essendo un fanatico di quel film ed amandolo visceralmente, è probabile che la ragione si debba ricercare altrove. La serata incarnava in toto la sua visione cinematica e sotto questo aspetto Marco Tini fu un assoluto precursore di ciò che si fa oggi in molte one night.

riviste Bruno Bolla (1994-1996-2001)

Le rubriche musicali curate da Bruno Bolla sui magazine di settore

Nel 1996 inizi a scrivere per DiscoiD, freepress di informazione discografica particolarmente noto tra gli addetti ai lavori. La tua rubrica rimasta in vita per ben dieci anni, Eclectic Jazz, sembra raccogliere l’eredità sia dell’Hot From The Box curato qualche tempo prima sulle stesse pagine da Philippe Renault Jr., sia di Jazzy Vibes di cui ti occupavi personalmente nel 1994 su Trend Discotec e Tutto Discoteca. Eclectic Jazz bazzicava nei territori acid jazz, rare grooves, r&b, easy listening e jazz house/soul, con qualche incursione nel drum n bass e nel breakbeat. Come nacque la collaborazione con quella testata ideata da Vincenzo Viceversa (intervistato qui) e guidata da Gianni Zuffa del Discopiù di Rimini?
Effettivamente una rubrica simile esisteva già ed era curata da Philippe, con cui ho condiviso tantissime consolle ed è tuttora tra i miei amici più cari. Lui era molto impegnato sia come DJ che come imprenditore e quindi non riusciva più a seguire tutto come avrebbe voluto. Credo fu proprio lui a suggerire il mio nome a Gianni Zuffa, che tra l’altro conoscevo già perché ero cliente del suo negozio. È stato straordinario collaborare con DiscoiD e con tutti coloro che, come me, curavano le rubriche fisse. Senza presunzione, posso ammettere che fosse una guida sincera, appassionata ed imparziale, come poche altre in Italia. Un fantastico contributo di non professionisti, perché a quanto ricordo non c’erano giornalisti o aspiranti tali ad interessarsi a quelle musiche, che diede vita ad un magazine altamente professionale, costruito con pochi mezzi ma tanto entusiasmo. Ricevo tuttora attestati di stima per il mio lavoro e di questi tempi fa veramente piacere.

Come ti tenevi aggiornato negli anni Novanta? Oltre a frequentare i negozi di dischi, leggevi riviste specializzate?
Avevo dei giornali di riferimento ma quasi tutti stranieri, da Straight No Chaser a Blues & Soul e Wire. In Italia invece mi piaceva Blow Up e non disdegnavo Il Mucchio.

Ritieni che la stampa italiana relativa alla dance elettronica abbia educato il pubblico o gran parte delle riviste, come alcuni sostengono, erano riempite con recensioni accomodanti ed interviste simili a panegirici?
Entriamo in un argomento piuttosto delicato. Anche io, qualche volta, sono stato criticato per il lavoro su DiscoiD, accusato di parlare maggiormente di una certa etichetta o di un certo artista. A differenza di altri però non mi occupavo di un solo genere e in poche righe dovevo selezionare materiale eterogeneo, house, funk, jazz, broken beat, afro, trip hop, breakbeat, e non era facile. Da parte mia c’era molta ricerca ma nel contempo tentavo di avere un occhio di riguardo per i prodotti di “casa nostra” che le label mi mandavano in formato promozionale. La stampa italiana che si occupava di dance elettronica e in generale di musica mi è sempre sembrata discretamente imparziale, a parte qualche giornale in voga negli anni Novanta che puntava più al gossip e metteva l’aspetto musicale in secondo piano. In quel caso figuravano interviste “a comando” con l’intervistato che dettava le domande, sullo sfondo di celebrazioni gratuite a nastro che si sprecavano. Operazioni sostanzialmente commerciali basate sul triste scambio del dare-avere, che non hanno fatto bene al movimento abbassando terribilmente il livello. Ora credo ci sia più equilibro anche se purtroppo mi capita ancora di imbattermi in qualche intervista di quel tipo. Su internet però scrive pure gente molto più attenta ed appassionata, e questo dovrebbe onorare chi opera oggi.

Programmi radiofonici (vari su Italia Network, il tuo Dancefloor Jazz su Rai Radio 2 seguito da Cool Dance su Radio Montecarlo), programmi televisivi (Match Music, Crazy Dance, TSD, Videomusic ed altri minori diffusi in syndication), riviste: in passato era possibile percorrere tante strade con obiettivi di divulgazione, oggi invece pare che quei canali siano propensi a tutto fuorché dare voce a movimenti subculturali. Internet, che in teoria potrebbe condurre a riscontri ancora più forti, non sembra generare fidelizzazione o comunque un interesse pari a quello che avevano i giovani di qualche decennio fa. Possibile che a quasi vent’anni dal Duemila, data ideale di accesso al futuro, i vecchi mass media abbiano deciso di non puntare più su contenuti didattici preferendo l’intrattenimento leggero e molto spesso privo di alcuno spessore culturale? Perché avviene ciò?
Perché la musica non è più un motivo dominante. Le cose sono profondamente cambiate, i media se ne fregano della cultura musicale e cercano soluzioni facili ed immediate. Un vero peccato. Ormai se si cercano contenuti culturali relativi ad argomenti di nicchia, è necessario fiondarsi su internet o al massimo sui canali tematici televisivi, anche se lì ho visto più cose brutte del resto. I vecchi media sono oppressi dalla necessità di fare audience, non che prima non lo fossero ma ora chi rischia a parlare di argomenti che interessano a pochi? Vuoi sentire musica di un certo spessore? Vai sul web e lascia perdere le stazioni radiofoniche che non hanno più voglia, coraggio e competenze per investire sulla qualità. Il loro lavoro è mettere in rotazione venti brani, spesso pessimi. A questo punto, per me, possono diventare tutte radio di informazione, sul modello Radio 24. Fa eccezione, con buoni risultati, la Rai, forte del canone, dove c’è ancora voglia di far sentire musica seria, di raccontare una storia con calma e senza fretta. Spero possa durare. Sentire programmi liberi, senza significativi paletti editoriali come i miei Dancefloor Jazz e Cool Dance da te citati prima, ma anche come B Side di Alessio Bertallot o i mixati di Italia Network, è diventata pura utopia. Mi viene sempre in mente l’affermazione di uno che le radio private le aveva iniziate e alla grande, il compianto Leonardo Re Cecconi alias Leopardo, un genio assoluto. Nei primi anni Duemila, quando si iniziò a sentire aria di smobilitazione per i programmi radiofonici specializzati, mi disse: «Le radio private italiane, e quindi anche i network, sono sempre state fatte da tanti mediocri e pochi bravi». Mai come oggi quel concetto risulta veritiero. Leopardo stava anticipando ciò che sarebbe successo. Io, che in fondo nelle radio ho lavorato poco, solo cinque anni circa, ed essendo più un DJ da club, rimasi particolarmente colpito da quelle parole. Per quanto concerne la televisione e gli altri canali, l’analisi è molto più semplice: nei primi anni Novanta c’era un fermento incredibile intorno alla house music, risultò quasi logico creare televisioni e programmi dedicati, ma si trattò solo di un fenomeno passeggero. Io non ho mai creduto sino in fondo a quella vampata d’interesse, infatti declinai qualche proposta che sembrava interessante. Non mi rappresentava, non serviva e soprattutto non mi sentivo adatto. È un po’ come quello che è avvenuto ai club. Chi investe ancora in questo settore? Oggi non esiste più neanche un terzo delle discoteche che c’erano in Italia nel 1995. A fine anni Novanta è iniziato il declino ed è cambiato il sistema. Rimane internet ma, come dici tu, a dispetto del suo enorme potenziale non possiede la stessa forza di allora perché le nuove generazioni non hanno lo stesso interesse e rivolgono la loro attenzione altrove. Inoltre non c’è un fenomeno musicale dirompente come lo è stata l’house music. La trap? Non credo affatto. Assistiamo ad un calo vistoso dell’attenzione da parte dei giovani per la musica e le sue storie, ma anche per il clubbing. Questo argomento mi ha convinto a creare, con una crew di amici DJ, sia veterani che non, Brotherhood, un concept che non ha la pretesa di creare nulla di nuovo e fantastico ma solo di riportare al centro il valore della musica, come le one night degli anni Novanta tipo Matmos di cui parlavamo qualche riga fa. Insomma, prima la musica e poi il resto. È dura portare avanti un progetto del genere oggi ma qualche piccola soddisfazione ce la stiamo prendendo, ed abbiamo solo un anno di vita.

Discografia Bruno Bolla

Le copertine di alcune produzioni discografiche di Bruno Bolla

Il decennio 1990-1999 è stato l’ultimo a poter contare su un mercato regolato dall’economia pre-internet in cui le case discografiche incassavano denaro dalla vendita dei loro prodotti fisici (dischi, CD e cassette). Dal 2000 in poi le cose non sarebbero più state le stesse, e in tanti ci hanno rimesso le penne. Stranamente tu, a differenza di gran parte dei tuoi colleghi, non hai mai puntato a sviluppare il ruolo di produttore, seppur i tempi fossero ancora propizi, limitandoti perlopiù alla selezione di varie compilation tematiche (“Influencia Do Jazz”, “Break N’ Bossa”) a cui se ne aggiunsero altre nel nuovo millennio come i due volumi di “BlackTronic” su Cool D:vision. Perché hai preferito focalizzare la tua attività solo sul DJing?
Ho sempre avuto un rapporto particolare con la produzione di musica e soprattutto con la definizione di “produttore”. Quando sento qualcuno che si considera tale rimango sempre perplesso. Associo il fare musica all’essere musicista, ed io non lo sono. Ma cosa vuol dire realmente essere “produttori musicali”? Attribuirsi la paternità di un disco? Una buona parte dei nomi internazionali del DJing si avvale di ghost producer, musicisti con grande abilità nell’uso delle macchine, pagati per realizzare brani che escono a nomi di altri (a tal proposito si rimanda a questo reportage, nda). A metterci la firma è il DJ che grazie a questi dischi diventa famoso facendo più gig. In realtà più che essere un DJ, quello credo sia un imprenditore, label manager o qualcosa di simile. Qualora mettesse l’idea portante è giusto che gli vengano riconosciuti i meriti, ma se non lo fa? Questo succede abbastanza spesso, soprattutto oggi dove il marketing ha preso il sopravvento sul resto. Io sono molto rispettoso della mia attività da DJ ed anche di quella dei musicisti. Nel 1997 ho “prodotto” il mio primo disco, “Indefinita Atmosfera” di Neos, con Gerardo Frisina e musicisti straordinariamente importanti nel panorama jazz italiano come il sassofonista Gianni Bedori, scomparso nel 2005, e il pianista Luigi Bonafede. Il compito mio e di Gerardo, che poi ha intrapreso una strepitosa carriera solista, era dare degli input nu jazz con un’attitudine da club a dei musicisti tradizionali che della dance non sapevano nulla o quasi. Ecco perché sul disco c’è scritto “produzione artistica” accanto ai nostri nomi. Mi sembra una definizione corretta. Comunque il mio è un discorso generale, ovviamente esistono DJ che nel contempo possono essere anche musicisti e bravi producer, ma sono una minoranza contrariamente a quanto si possa credere. Si tratta di rispetto dei ruoli insomma. Io ad esempio realizzo e suono re-edit nelle mie serate, ma non le ho mai pubblicate, lungi da me appropriarmi di un brano su cui sono intervenuto facendo qualche cut, allungando delle parti ed aggiungendo beat e groove piu freschi. Nutro comunque rispetto per chi pubblica cose del genere, e devo dire che ci sono personaggi abili in questo, inclusi tanti amici DJ-producer, ma io non riesco proprio, almeno per il momento. Mi rifaccio a quella che è la mission del DJ sin dai tempi dei grandi maestri, Mancuso, Levan, Grasso, Hardy… ovvero selezionare, assemblare e mixare musica di altri dando ad essa l’energia necessaria per essere utilizzata in un club. Questo è il DJ, le altre funzioni sono accessorie, meno importanti. Per tale ragione non sono mai stato un “producer” prolifico, ho sempre lavorato sulla selezione e sul DJing piuttosto che sulla creazione. Quando sento un bel disco non penso quasi mai al groove da carpire per ricavarne un nuovo prodotto, bensì a quale possa essere il brano da accostare in un set. Ho questa attitudine, non c’è nulla da fare. Tuttavia in passato è capitato di collaborare in un team in cui il mio compito era rappresentare l’archivio storico e quindi tirare fuori l’idea da un disco che non conosceva nessuno. Un produttore artistico quindi, e non escludo che ciò possa accadere ancora in futuro. Gran parte dei miei sforzi, comunque, sono stati assorbiti dalle compilation: i tre volumi di “Influencia Do Jazz” raggiunsero, a metà anni Novanta, soglie di vendita impensabili per un progetto così specializzato, per di più made in Italy. Si parlava di ottomila/novemila copie a volume, forse anche di più, non ricordo bene. Stesso dicasi per i due volumi di “BlackTronic” usciti tra 2003 e 2005, tuttora un mio format da club.

Nel 2006 metti su, insieme a vari amici/colleghi, il team Love Supreme che debutta sulla Tirk di Sav Remzi, erede della Nuphonic citata spesso nei tuoi articoli e recensioni. L’ultima uscita però credo risalga al 2012, vi siete fermati?
Cause di forza maggiore ci hanno divisi. Io mi sono trasferito in Piemonte nel 2008, Roberto Di Movi ha mollato l’Italia per andarsene ad Ibiza più o meno nello stesso periodo. Nic Sarno invece ha iniziato con progetti solisti interessanti ma diversi. Luca Saponaro infine, musicista e perno del tutto, ha stretto varie collaborazioni con altri artisti della scena milanese, oltre ad aver fondato una propria etichetta, la Mad On The Moon, con risultati egregi anche se i dischi in quel periodo (2006-2010) si vendevano davvero poco e la riesplosione del vinile era piuttosto lontana. Era rimasto solo e noi, a differenza di tanti altri, non riuscivamo a scambiarci idee a distanza con Skype, avevamo bisogno del contatto fisico, di respirare la stessa aria, marijuana compresa (loro, io no) – ride. Molte incisioni dei Love Supreme erano jam improvvisate con una strumentazione quasi interamente analogica, nel pieno stile dei nostri eroi ed ispiratori come Can, Tangerine Dream, Klaus Schulze, Popol Vuh ed altre eminenze del krautrock tedesco. La spontaneità era la qualità primaria del nostro lavoro e riascoltando oggi quei brani mi accorgo che a guidarci era una grande creatività. Chissà, magari un giorno torneremo insieme.

Il mercato della musica è radicalmente cambiato ma si può dire altrettanto del DJing, spettacolarizzato come non mai e portato a livelli di popolarità esagerata, agli antipodi rispetto a quello che era il DJing degli albori. Tu, che hai avuto la possibilità di vivere almeno tre decenni in questo settore, come giudichi tale evoluzione o, come sostengono in tanti, involuzione?
La spettacolarizzazione e l’eccessiva popolarità di alcuni, cosiddetti, DJ, hanno ben poco da spartire con la mission per cui la figura del DJ stesso è nata. Negli anni d’oro il DJ era considerato importante quanto il barman del locale o poco più. Doveva solo caratterizzare il club con la sua musica. L’importanza attribuita ai DJ oggi è davvero eccessiva e lo dico anche se sono parte in causa. Non so se sia da considerare un’involuzione ma sono del parere che il DJ superstar odierno sia una figura ben diversa rispetto a quello che deve essere un DJ. Io lo chiamerei persino diversamente anche se non saprei come. Un DJ americano un giorno mi disse: «Un disc jockey non può valere più di cinquemila dollari, chiunque esso sia, è una questione di ruolo. Il DJ deve rimanere underground, anche sotto il profilo economico, è un concetto etico». Poi, come nel mondo del calcio, c’è la relazione tra domanda ed offerta ed è proprio lì che tutto diventa distorto. D’altra parte è un fenomeno strettamente connesso alla realtà contemporanea dove regnano eccessi incontrollati.

Oggi in discoteca pare si preferisca fare video con lo smartphone anziché ballare, e in relazione a ciò piovono costantemente critiche sulle nuove generazioni, accusate di non sapersi divertire e di frequentare locali (ma specialmente i grandi festival) per il solo gusto di far sapere agli altri di esserci stati. Come era il pubblico di venti o trent’anni fa invece? È vero che gli avventori dei club erano più appassionati rispetto a quelli odierni o è solo un luogo comune?
Esiste un pubblico appassionato anche ora, non tutto è negativo ed io non sono affatto un nostalgico. Sono però cambiati i numeri. Nei club ci andava più gente, questo è un aspetto non trascurabile, ora ci sono altre distrazioni proprio come lo smartphone. A questo proposito vorrei raccontare un aneddoto divertente e significativo. Nel 2008 sonorizzai l’apertura di un negozio di un brand italiano importante a Tokyo. Sentendo per caso un amico giapponese, un addetto ai lavori noto a Milano, mi venne in mente di allungare la permanenza in Giappone con un paio di gig in piccoli club dove normalmente si tenevano serate rare grooves. A rendere fattibile l’idea furono le mie raccolte “Influencia Do Jazz”, pare che grazie ad esse il mio nome fosse discretamente popolare da quelle parti. Portai solo CD per la performance nel negozio ed una quarantina di dischi rare grooves di tipo funk, brazil e jazz. Nel primo club, a Tokyo, la serata andò egregiamente, ricevetti tanti complimenti ed un ottimo riscontro. Il giorno dopo andai in un’altra località, fuori dal centro cittadino, praticamente in periferia, e lì ebbi quasi uno shock. C’erano tanti addetti ai lavori ma dopo un’ora mi resi conto che non ci fosse grande entusiasmo, ballavano in pochi e molti erano distratti, guardavano il telefonino ed io non capivo la ragione. Chiamai quindi il mio amico chiedendogli se fosse possibile farmi parlare con l’organizzatore che era a pochi metri da me. Gli domandai cosa non andasse, se stessi sbagliando qualcosa in quello che facevo e lui, dopo un paio di classici inchini, mi disse: «No amico, tutt’altro. Stai mettendo cose bellissime che non conoscono e quindi stanno cercando di capire cosa siano con l’aiuto di un’app installata sul cellulare». Caddi dalle nuvole, non sapevo neanche cosa fosse ma è risaputo, i giapponesi sono sempre stati avanti nella tecnologia. Rimasi talmente basito che il mio interlocutore capì l’imbarazzo e qualche minuto dopo, credo in seguito ad un robusto passaparola, tutti iniziarono magicamente a ballare e terminai il mio set in gloria. In quel caso ho dovuto ricorrere a tutta la mia sfacciataggine ed esperienza per non perdere la calma. Oggi quando vedo smartphone e video, invito la gente a godersi il momento ma purtroppo non ho l’antidoto a questo atteggiamento, credo sia una questione di cultura. Per quanto riguarda i festival invece, penso che abbiano accelerato il declino del clubbing. Come dicevo prima, in Italia il “decesso” è avvenuto da tempo, ma in Europa, soprattutto al nord, un certo modo di identificarsi nel club “di fiducia” resiste ancora e i frequentatori non sono certamente solo attempati nostalgici ma pure giovanissimi. Gli appassionati e i cultori restano ma sono meno. Personalmente mi piacciono alcuni piccoli festival a programmazione mista tra live e DJ set con un mix tra acustica ed elettronica, con act nuovi abbinati a show di figure storiche. Di questo tipo ce ne sono anche in Italia. Non mi piacciono invece i festival monocorde, quelli con trenta DJ di nome che fanno più o meno la stessa cosa, o coi tantissimi DJ che richiedono set lunghi per suonare la stessa minestra (e questo succede anche nei club). Li trovo noiosi ed inutili.

Bruno Bolla @ Country Club (Siziano, 1994)

Bruno Bolla in compagnia di un’amica al Country Club di Siziano (Pavia), nel 1994

Perché si parla sempre entusiasticamente degli anni Novanta?
Perché rappresentano la golden age del clubbing e forse anche la mia stessa “età dorata” soprattutto per i trascorsi più underground. Credo però che anche negli anni Novanta ci siano stati dei momenti d’ombra. Nel mio caso, intorno al 1996, vissi un’impasse perché la house sembrava aver esaurito la sua spinta delle origini. Quella “stasi creativa” mi portò ad esplorare altri mondi musicali come trip hop, breakbeat e le prime cose del french touch, correnti che però non mi convinsero appieno. Nel frattempo la scena rare grooves, altro mio volto sonoro, stava entrando nella fase nel cosiddetto “nuovo jazz da club” poi chiamato nu jazz, ma i tempi non erano ancora maturi. Fu un periodo di piccola confusione perché erano generi non molto popolari e quindi non era affatto facile acquisire gig ed avere sfoghi radiofonici. Ritrovai la giusta energia alla fine del decennio quando l’house prese nuovamente una piega a me congeniale, tingendosi di afro e jazz con bellissime pubblicazioni di artisti come Masters At Work, Joe Claussell, François Kevorkian ed Osunlade, solo per citarne alcuni. Iniziai quindi gli anni Duemila col piede giusto e con le idee molto chiare, infatti credo che il periodo 2000-2006 sia quello in cui il mio nome abbia conosciuto maggiore popolarità, anche grazie a Cool Dance a cui facevamo prima cenno, un radio show dal concept assolutamente innovativo per i tempi e veramente eclettico, che andava oltre i mix show, pur pregevoli, orientati ad house e dance commerciale sentiti fino ad allora. Mettere insieme ben cinquemila persone nei primi cinque anni della mia residenza decennale al Cafè Solaire con quel suono poteva sembrare solo un sogno eppure era realtà.

Hai più vissuto momenti di stanca come quello del 1996?
Sì, circa una decina di anni più tardi. Nel 2007 entrai nuovamente in una fase un po’ strana, le cose stavano cambiando sia professionalmente che umanamente. Il matrimonio, la nascita di mia figlia, il trasferimento in Piemonte in una casa con bed & breakfast e studio annessi: tutti eventi non certamente indifferenti per chi, come me, non avrebbe scommesso un centesimo sul creare una famiglia. Invece è successo, con tutto il coinvolgimento emotivo del caso. La ristrutturazione della casa, la totale devozione al mio orto, la costruzione di una nuova, seppur piccola, attività sono diventate la mia quotidianità. A dirla tutta, iniziai ad avere un certo senso di nausea del mondo del clubbing perché a mio avviso la scena stava cambiando in peggio e nelle discoteche italiane si cominciò a respirare un’altra aria. Milano, in particolare, toccò forse il suo momento più basso (non ricordo periodi peggiori del lustro 2006-2011), almeno per musica, arte e spettacolo. Trovavo molto più interessanti città come Torino che costruivano una visione differente di club culture. Inoltre terminai l’esperienza radiofonica, visto che importanti cambiamenti travolsero pure quel settore, e i locali in cui avevo lavorato come resident iniziarono un declino fisiologico. Sino al 2009 circa ebbi l’opportunità di fare un po’ di serate all’estero, soprattutto in Oriente, grazie ad amici sparsi per il mondo e solo talvolta tramite qualche agenzia, anche perché non ho mai avuto una booking agency che si occupasse di me. Poi seguì un po’ di consapevole isolamento. C’è stato un periodo in cui ho pensato di mollare del tutto la musica, anche a causa di cose che mi hanno profondamente amareggiato e deluso. Riflettere sull’età che avanza però è un errore, basti guardare al momento strepitoso che vivono tanti DJ old school che mi hanno ispirato, tutti ovviamente più grandi di me. Così, grazie ad amici e persone vicine, ho deciso di continuare a mettere dischi sino a novant’anni. Non sono mica un mediano del calcio, posso resistere!

Qualche riga fa hai fatto cenno ad una crisi della scena milanese avvenuta tra la seconda metà degli anni Zero e i primi Dieci. Cosa avvenne di preciso?
Cambiò tutto profondamente. Tolte rarissime eccezioni, il clubbing divenne assolutamente mediocre e la musica non era più l’elemento trainante. Pure i generi si rivelarono solo rimpasti privi di quella forza necessaria per generare e fidelizzare nuovi adepti entusiasti, e la gestione dei locali fu stravolta. Un tempo a scegliere gli ospiti stranieri erano gli art director, al massimo con qualche suggerimento di chi lavorava in consolle, in quegli anni invece capitava molto spesso che le decisioni venissero prese dagli stessi DJ che ambivano a mettersi in mostra e magari ottenere una gig nel Paese di provenienza dell’ospite come contraccambio. Per non parlare poi della valanga di newcomer che si sono avvicinati a questo settore solo grazie alla tecnologia ma con background pari a zero. Risultato? Confusione totale, nei club e tra gli addetti ai lavori, col marketing che ha preso il sopravvento e l’apparire diventato più importante dell’essere. Non nego che questo approccio esistesse già negli anni Novanta, ma era diverso perché la musica riusciva ancora a primeggiare su tutto. Le cose fortunatamente, dopo il 2012 circa, sono migliorate ma faccio ancora fatica a raccapezzarmi e credo che tanti altri si trovino nella mia stessa condizione. L’unico modo per rimanere a galla è adeguarsi, io ci sono arrivato negli ultimi anni ma a modo mio, mantenendo sempre una certa distanza da cose che non riesco proprio a concepire e tollerare. Ora ho una nuova consapevolezza ma non voglio appartenere alla schiera dei nostalgici. Ho ritrovato l’entusiasmo e la voglia di “esplorare”, cerco quindi di fare bene le cose in cui credo così come le facevo un tempo, che ci siano cinquanta o cinquemila persone davanti per me non cambia nulla.

Se da un lato viviamo costantemente immersi nelle tecnologie di asimoviana memoria, dall’altro fronteggiamo col costante recupero di cose passate, facilitato anche da internet che in alcuni casi può trasformarsi in una sorta di “macchina del tempo”. Si veda, ad esempio, l’attenzione che riguarda l’italo house, genere che forse sta ottenendo più consensi ora rispetto alla sua collocazione storica originaria. Cosa ne pensi in merito? Si tratta di fogge passeggere istigate da qualcuno o qualcosa?
Assolutamente sì. Alla fine internet fa anche qualcosa di buono. L’italo house ha partorito grandi dischi ed un sacco di micro etichette interessantissime. Alcuni produttori e label poco popolari all’epoca stanno finalmente raccogliendo riconoscimenti inaspettati. Grazie alla voglia di retrospettiva che adesso sta contagiando un po’ tutti, in Europa si sta facendo giustizia. Meglio tardi che mai! A Brotherhood, ad esempio, abbiamo dedicato un’intera rassegna chiamata “The Italo House 90s Heroes”, dedicata ai produttori e label manager più oscuri ed underground di quegli anni. In tutto questo un merito indiretto lo ha il ritorno del vinile. Io ero tra i tantissimi che avevano cantato il De Profundis dopo il 2004-2005 e sono davvero contento di essermi sbagliato. Non credo che questo recupero del passato durerà poco perché indubbiamente, parlando di dance music, i pezzi che hanno smosso le acque ed hanno lasciato il segno sono quelli usciti dagli anni Settanta a fine anni Novanta. In seguito sono apparse ancora cose interessanti ma a mio avviso generi come disco, funk, boogie, house e techno prima maniera sono irripetibili. Tuttavia le gemme da riscoprire sono sempre meno, ormai stanno setacciando tutto di tutto.

Continui a comprare dischi e musica in generale?
Non mi sono mai fermato ma sicuramente acquisto meno di prima. Dopo quasi quarant’anni e pesanti rinunce, soprattutto da giovanissimo, le priorità cambiano. Per la cosiddetta “musica di consumo”, ovvero quella che suono durante le serate, uso principalmente i file ma il mio set up ideale in consolle è un ibrido tra analogico e digitale, quindi prevede anche la presenza dei giradischi. In vinile compro ristampe di rare grooves di generi come afro, funk e soul, oltre a qualcosa contemporanea, sia in 12″ che LP.

Quanti dischi possiedi?
Ne ho davvero tanti, circa quarantacinquemila, a cui vanno sommati i CD. Inizio ad avere seri problemi di spazio e da qualche tempo a questa parte ho iniziato a vendere le doppie copie ed alcune cose che non mi interessano più. Nel complesso sono tutti catalogati ma qualche volta divento matto a ricercare qualcosa che non è al suo posto.

Bolla Studio (2018)

Una parte della collezione di dischi di Bruno Bolla, 2018

Ci sono artisti ed etichette che ti hanno colpito recentemente?
Mi piacciono molto le cose della nuova scena afro e neo soul, etichette come Freestyle, Soundway, BBE ed pure quelle più house oriented tipo la MoBlack Records, la Philpot, la Lumberjacks In Hell o la Local Talk. Seguo inoltre label elettroniche che definisco “sempreverdi”, come Warp e Ninja Tune, oltre ad una moltitudine di etichette dedite ai re-edit disco e funk, tantissime da menzionare.

Quali invece i nomi più rivoluzionari degli anni Novanta?
Tra i DJ/produttori Carl Craig, Laurent Garnier, Larry Heard, Romanthony, Little Louie Vega, Kenny Dope Gonzalez e François Kevorkian, tra le etichette invece le già citate Warp e Ninja Tune, Nu Groove, F Communications, Soul Jazz Records ma l’elenco potrebbe andare avanti a lungo.

Solitamente i DJ hanno sempre nel flight case qualche “secret weapon” che usano in momenti particolari delle proprie serate. Quali sono i tuoi?
Ne ho tanti. In questo momento citerei “Renegade” di David Camacho, un caro amico DJ scomparso qualche anno fa, una delle anime più soulful che abbia mai conosciuto.

C’è almeno un disco che ti faceva impazzire ma che suonandolo in pubblico rischiava di svuotare la pista?
Solitamente non metto dischi che possano svuotare ma se succede dipende dal fatto di non aver indovinato la giusta sequenza, una qualità basilare per un disc jockey. Puoi passare anche un disco “difficile” ma se ci arrivi con la sequenza giusta lo fai diventare “facile”. In fin dei conti è proprio questa l’essenza dell’essere DJ.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Ominostanco – 5 Seconds (Virgin Music Italy)

Ominostanco - 5 Seconds“Un safari in tre D attraverso giungle inesplorate, terribili cerimonie voodoo e riti iniziatici Maya. Complici i prodigiosi occhiali che permettono di esaltare le tre dimensioni, uno stereo ad alta fedeltà ed una comoda poltrona di pelle, mondi che credevamo lontanissimi, leggende che raccontano di foreste impenetrabili e di bellissime amazzoni che sembrano vivere in simbiosi col proprio cavallo, entrano d’improvviso tra le pareti confortevoli del nostro salotto, rumori evocativi irrompono inaspettati nelle cuffie esaltati dal cocktail Martini che amabilmente sorseggiamo. Vivere “lounge” insomma, scoprire il fascino misterioso dell’esotismo, da consumare sprofondati nel più accogliente divano mentre scorrono le immagini che ci raccontano di altri emisferi, altri popoli, altre radici, commentate da un cocktail di suoni, una miscela perfettamente dosata dove temi struggenti composti da John Barry fanno da perfetto contrappunto alle sontuose orchestrazioni di Burt Bacharach”. Si apre così un articolo scritto da Pierfrancesco Pacoda e pubblicato ad aprile del 2000, che racconta l’invasione della musica exotica in Italia. Il successo di album tipo “Moon Safari” degli Air, “Play” di Moby, “I Find You Very Attractive” dei Touch And Go e “The Fifth Release From Matador” dei Pizzicato Five usciti negli ultimi anni del secolo/millennio e la progressiva diffusione di locali sul modello del parigino Buddha Bar di Claude Challe anticipano l’esplosione nostrana di una scena in cui emergono artisti come Sam Paglia, Montefiori Cocktail, Flabby, Nicola Conte, Alberto Dati, Pilot Jazou e Doing Time mentre etichette come La Douce, Easy Tempo, Dagored o Schema ripescano una valanga di musica cinematica, easy listening e più gergalmente lounge.

In questo quadro di commistioni stilistiche e culturali che incrociano decenni profondamente diversi si inserisce l’attività di Roberto Vallicelli, meglio noto come Ominostanco, compositore dal background complicato, come lui stesso descrive: «Sono nato nel 1964. Nel ’65 esce “(I Can’t Get No) Satisfaction” e l’anno dopo “Lady Jane” dei Rolling Stones, a casa mia la radio era perennemente accesa, soprattutto la mattina. Ai tempi c’era solo quella nazionale con le redazioni regionali ma per un’ora al giorno trasmetteva musica “giovane”. Ho tuttora il nitido ricordo di me abbarbicato sulla sedia, intento ad ascoltare quei brani che mi piacevano, ma con gli Stones finì là. Iniziai ad avere coscienza dell’esistenza della musica praticamente da subito, da quando mia nonna mi prese in braccio per cantarmi “Bandiera Rossa” che all’epoca, incredibilmente, veniva trasmessa alla radio nazionale, nella rubrica di dediche (mia nonna la chiamava “gli auguri” e quel brano, insieme a “Romagna Mia” di Secondo Casadei, “Mamma” di Beniamino Gigli e “Vola Colomba” di Nilla Pizzi, era tra i più richiesti). Sono convinto che ognuno di noi tenda a replicare gli ascolti e le produzioni collegandosi con un filo diretto, ma nascosto e modulato, con ciò che ha ascoltato nei primi dieci anni di vita. Mio padre tentò invano di farmi piacere l’opera e Claudio Villa ma non ci fu nulla da fare. Nel frattempo il boom economico cominciò a farsi sentire e a casa mia arrivò la lavatrice, il tostapane e il mangiadischi che sostituì il giradischi a valigetta. Ereditai dei vecchi 45 giri da non so chi, che ancora posseggo: i miei pomeriggi furono accompagnati per diversi anni dai 7″ dei Beatles, James Brown, Peppino Di Capri, Richard Anthony, Gianni Morandi, Adriano Celentano, Aphrodite’s Child ed altri ancora in un mischione di roba assurda. Poi i cantautori, il prog rock, i Pink Floyd, la Premiata Forneria Marconi, Mike Oldfield, Emerson, Lake & Palmer, King Crimson e via dicendo. Avevo dieci anni, era il ’74 e per un ragazzino non era affatto strano ascoltare quel tipo di musica, la musica del momento che si trovava in tutte le classifiche, e per questo mi reputo fortunato. Inaspettatamente mi venne regalata una chitarra che però lascio inerte per tre anni. Abbandonai il corso dopo appena tre lezioni ma, di tanto in tanto, tornavo a guardare quello strumento con sospetto. Poi un giorno decido di imparare e mi appassiono a Neil Young, Edoardo Bennato, James Taylor e il blues, insomma tutta la musica da suonare a corda aperta. Meno male direi, perché la chitarra mi fece appassionare alla musica acustica di un’onda sonora generata fisicamente prima di scoprire l’esistenza del punk, della new wave, del post rock ma soprattutto dell’elettronica. A quel punto tutto cambiò. Scoprii che esisteva una musica e un mondo lontanissimo rispetto a quello in cui avevo vissuto. Abitavo in una cittadina di provincia, Forlì, che non ha certo la fama di essere una città viva, dove il mondo lo immagini ma non lo vivi, dove le tendenze arrivano con ritardo per la diffidenza delle masse adulte. Dopo aver superato i sedici anni, iniziai a lavorare d’estate come aiuto cuoco (ai tempi il lavoro minorile era una cosa abbastanza normale) ma ricordo di essermi licenziato in piena stagione balneare all’hotel dove lavoravo, suscitando le ire dello chef. Tronfio della mia consapevolezza di adolescente, me ne andai al grido di “io farò il musicista!”. Capisco che sentirsi ribelli ascoltando i Doors è da fricchettoni, ma fui irrimediabilmente attratto da sequencer, synth, drum machine, musica dalle sonorità assurde, fastidiose, affascinanti, cantanti dall’emotività spinta al massimo e dal concetto di strofa/ritornello che scompare. Roba da scoprire ce n’era veramente tanta e pian piano cominciai ad ascoltare tutto quello che era il riferimento in quegli anni, dai Joy Division ai Talking Head passando per Cabaret Voltaire e i Residents. All’epoca non potevi ascoltare in streaming, dovevi avere il vinile o la cassetta, così ci si trovava a casa di chi aveva il disco e si ascoltava, si immaginava, si presumeva, si leggevano sulla copertina i nomi dei componenti delle band, insomma si sognava come si fa da ragazzini.

A diciannove anni sarei dovuto partire per il militare ma scelsi il servizio civile che mi fece incontrare colui che diventerà il mio primo socio nella musica, Luca Ravaioli. Volevamo fare una band ma io suonavo male la chitarra e tentavo di cantare, mentre lui suonava altrettanto male il synth. Nonostante tutto i Tondo restano in piedi per almeno quindici anni, avanzando a fasi alterne ed allargando l’organico a tre, con Vincenzo Vasi al vibrafono e alla voce. Tra i nostri primi produttori invece Giorgio Canali e Roberto Zoli. Gli strumenti elettronici in quegli anni costavano un occhio della testa per noi che nemmeno lavoravamo, quindi capitava spesso di comprare strumenti in società con altri gruppi. Nel tempo riuscimmo a dotare il nostro studio con Sequential Circuits DrumTraks, Roland SH-101 e Roland MC-202, Korg MS-20, Yamaha CS-5 ed Akai X7000. Spesso ci facevamo prestare una Roland TB-303 ed una Roland TR-606. Purtroppo anni dopo, erroneamente folgorati dal digitale, vendemmo tutto. Non sono mai stato un musicofilo, di quelli che si ricordano le formazioni dei gruppi nel primo album, le etichette, che conoscono generi e sottogeneri e che amano i virtuosi dello strumento, ma sono sempre stato curioso della musica e di rimando nella mia espressione artistica confluiscono tutti gli stimoli ricevuti. Tutti quei 45 giri, quei pomeriggi passati a riascoltare lo stesso pezzo (ad esempio “Afrikaan Beat” di Bert Kaempfert) hanno rappresentato le mie ispirazioni».

Il tempo passa e per Vallicelli le cose si evolvono, la passione irrefrenabile per la musica lo porta verso nuove esperienze. «Nonostante i buoni risultati i Tondo si sciolsero e in quel momento vidi allontanarsi la speranza di suonare seriamente» prosegue. «Da alcuni anni lavoravo piuttosto assiduamente nelle discoteche della Romagna, ricoprendo praticamente tutti i ruoli tranne quello del DJ. Ero stanco, quello era un mondo che non mi apparteneva. Fu un modo per guadagnare soldi ed imparare tante cose ma cominciava davvero a starmi stretto e così decisi, all’età di trentatré anni, di fare il musicista. Con la chitarra ero migliorato ma continuavo a fare pena, mentre il lavoro sul sequencer e sul sampling mi riusciva piuttosto bene. Che carriera avrei potuto fare come musicista? Era l’ultima occasione che mi davo per vivere di quel che mi piaceva fare, ovvero suonare. Così, per continuare a mantenermi ed acquistare gli strumenti necessari per fare le produzioni a casa, dovevo escogitare qualcosa. Mi improvvisai tour manager, con quel po’ di esperienza acquisita nei locali dove organizzavamo concerti e con un inglese piuttosto miserevole, ma alla fine andò bene e raggiunsi lo scopo: fare la vita dei musicisti, andare in tour, guadagnare soldi ed accumulare contatti che sarebbero tornati utili per la mia musica. Nel frattempo cercavo di arrangiare brani con le poche cose che avevo, sempre tutto MIDI ovviamente. Dopo tre anni avevo messo da parte un po’ di soldi per comprarmi un mixer a 24 canali, un campionatore nuovo e un computer a supportare due expander della vecchia band e una master keyboard. Mi chiusi in casa, non uscivo, suonavo solo, cercai di realizzare del materiale da far sentire in giro ma il risultato mi sembrava tutta roba slegata, senza una direzione. Però mi piaceva il groove e l’idea di far ballare, e del resto amavo perdermi negli intrecci ritmici dei sample che si accavallavano. Misi in campo dei contatti per fare dei live, chiedevo ospitalità senza cachet per capire se ciò che facevo avesse o meno un senso. Spesso il senso sembrava non ci fosse affatto, eppure a me quella roba piaceva. Avevo finalmente modo di suonare live ciò che producevo a casa, possedevo un auto con cui trasportare gli strumenti ed avevo qualche contatto giusto, ma mi mancava il nome. Ne volevo uno italiano ma che non avesse a che fare col mio nome di battesimo, qualcosa che rappresentasse una persona e non un gruppo e che fosse possibilmente facile da ricordare ma non mi veniva in mente nulla. Poi un giorno ritrovai in un cassetto un foglio scarabocchiato con una forma che pareva un fantoccio accasciato sotto cui avevo scritto “ominostanco”. Ecco ciò che cercavo! Se ben ricordo era il 1997».

Il logo di Ominostanco

Il logo di Ominostanco

La musica che Vallicelli crea come Ominostanco è di ardua classificazione, specialmente per chi proviene dalla dance, dal suono in 4/4, dove il rassicurante “four-on-the-floor” viene a mancare lasciando l’ascoltatore spaesato, a meno che non abbia familiarizzato col suono di etichette come Compost Records, Talkin’ Loud, Acid Jazz, Ninja Tune e Mo Wax. «Trovo difficoltà nel descrivere la mia musica. La parte creativa, quella davanti al “foglio bianco”, alla timeline vuota, quella divertente insomma, dura solo cinque minuti, forse dieci. Tutto quel che resta è lavoro. Quando inizio un nuovo brano non so mai dove andrò a finire, ma adoro quella sensazione che provo nel trovare il primo suono che mi piace, quel “friccico” alla bocca dello stomaco che rappresenterà il carattere del brano, che mi fa immaginare una luce del giorno o una stanza umida nel più brutto hotel alla periferia di una metropoli. Insomma, anche nella musica più pensata per il club metto sempre un’immagine, un personaggio, una storia. Il tutto lo definirei un amalgama dal sapore a volte raffinato ma con un retrogusto che abbina anche caratteri più forti. Senza dubbio mi piacciono sia ritmo che melodia».

Nella primavera del 2000 la Virgin Music Italy pubblica “5 Seconds”, singolo di debutto per Ominostanco. Disponibile sia su 12″ che CD, il brano viene remixato da Adamski, quello della famosa “Killer” (di cui abbiamo parlato qui) che in quel periodo fissa la sua residenza in Italia. «Ero a cena da amici ed uno di loro mise una sua cassetta mixata che comprendeva roba mista, tra rare groove e varie stramberie. Ad un certo punto sentii partire un brano che, per un motivo ignoto, colpì la mia attenzione nonostante il chiasso della cena. Chiesi subito che pezzo fosse ma l’amico non ricordava. Qualche giorno dopo si presentò con quel brano, si trattava della colonna sonora di “55 Giorni A Pechino” composta da Dimitri Tiomkin per il film omonimo del 1963. Campionai l’intro del tema, fatto di archi acuti, percussioni vagamente sudamericane, e chitarra ritmica. Tutto viaggiava ad un BPM perfetto per farne una versione drum n bass lenta. Oltre ai sample di Tiomkin c’è la mia voce pitchata per farla sembrare femminile e un frammento di “Canzone Cinese” di Odoardo Spadaro, quello di “Porta Un Bacione A Firenze”. Come spesso accade a chi fa musica, non riconobbi quel “figlioccio” appena creato e lo avrei escluso da un eventuale album che prima o poi mi sarei stampato da solo. Mi sembrava un brano non finito, che aveva promesso qualcosa ma che poi non era stato in grado di mantenere. Però, contrariamente al mio giudizio, proprio “5 Seconds” venne scelto come singolo.

Ominostanco (2000)

Ominostanco in una foto scattata nel 2000

La voce nell’intro di Spadaro venne aggiunta in seguito e fu semplicemente una botta di fortuna. Acquistai due CD in Autogrill, alla perenne ricerca di sample, cercavo roba lontana dagli ascolti abituali e mi buttai sui cantanti italiani dei primi del Novecento. Uno di questi fu appunto Spadaro con “Canzone Cinese”, del 1939, un brano sottilmente irridente al regime fascista che trovai racchiuso in una raccolta. Quando sentii il campione di voce chiesi all’etichetta di poter fare ancora modifiche, visto che l’uscita del singolo era imminente, e mi risposero che avevo solo un paio di giorni a disposizione. Tornai quindi in studio, riaprii la sessione ed aggiunsi quel sample. Tecnicamente parlando non era proprio uno scherzo, giacché riaprire la sessione significava rifare il mix da capo, col banco analogico da reimpostare e via dicendo. Sostanzialmente realizzai “5 Seconds” con un campionatore Yamaha con appena 16MB di memoria. Per risparmiare spazio, la maggior parte dei sample era in mono. Tutto l’album fu prodotto in questa maniera, anche se poi rendemmo il tutto più bello aggiungendo suoni presi da un sampler Akai S950 e un expander Orbit, ma l’ossatura fu fatta col campionatore Yamaha A3000 e l’expander Roland D-110. Le sequenze invece giravano su Logic MIDI.

Quello con Adam (Adamski) fu un incontro del tutto casuale. Lui viveva a Bologna e il Bayer Studio in cui finalizzammo i pezzi era a Bubano, nelle campagne di Imola, a circa trenta chilometri di distanza. Il fonico e produttore era Alessandro Scala che conobbi facendo il facchino per un service. Lo studio era un po’ a pezzi ma c’era un banco analogico enorme su cui, si dice, abbiano mixato “Saturday Night Fever”, ed inoltre era un posto dove potevi incontrare Tanita Tikaram, Marco Sabiu dei Rapino Brothers ed altri musicisti di livello. Adam era in cerca di un luogo tranquillo, con gente capace e poche pretese. Aveva uno spirito rock n roll ma era piuttosto diffidente visti i problemi sorti con l’ultimo produttore con cui ebbe a che fare. Comunque mostrò molto interesse per quello che producevamo lì dentro ed anche lui stava buttando giù le idee di un nuovo album. Per me era davvero strano, mi trovavo di fronte ad un artista che non avevo seguito nella carriera artistica ma che, dieci anni prima, avevo visto su tutte le copertine dei giornali inglesi che riuscivo a comprare in Italia. Insomma, trovarmi Adamski nelle campagne di Imola fu semplicemente assurdo. Ci conoscemmo ed iniziammo a frequentarci. Una sera uscì dallo studio e poco dopo lo sentimmo urlare. Corremmo a vedere cosa fosse successo e lo trovammo di fronte al buio della campagna illuminato dalle lucciole. “È magia!” diceva, e secondo me era serio, non aveva mai visto quegli insetti. Un giorno venne in studio con Gerideau, voce di suoi brani come “One Of The People”, “Intravenous Venus” e “In The City”, e Shafiq, un amico che faceva del poetry. Io avevo un brano dell’album, “The Junkies”, da cui dovevo rimuovere il sample vocale per non pagare i diritti e quindi chiesi a Gerideau se avesse voglia di fare un paio di registrazioni di voce, con un testo che tenesse conto della metrica del campione. Detto fatto. Chiedere ad Adamski di fare un remix fu quindi abbastanza naturale, ed anche la Virgin era contenta di poter contare su una versione stilisticamente lontana dal mio mondo che in quel periodo era popolato principalmente da DJ drum n bass. Ho riascoltato quel remix qualche tempo fa ma continua a non piacermi, anche se non l’ho mai confessato ad Adam. Penso sia una persona davvero di cuore oltre che un piccolo genio. Produceva i suoi brani con una piccola tastierina (una Ensoniq SQ-80, come lui stesso dichiara nell’articolo citato prima, nda) una workstation che dava la possibilità di creare piccoli pattern con poche note, suoni duri e spietati. Eppure dopo un’oretta di cose per me confuse e senza capire come potessero stare insieme, il brano magicamente partiva e tutto quadrava. Grande Adam! Sia per me che per l’etichetta, “5 Seconds” è stata una vera sorpresa in termini di interesse per la stampa e di riscontro da parte delle radio. Risultati insperati per un brano strumentale, lontano dal mainstream dell’epoca, dalla house e dalla techno, solo con qualche riferimento drum n bass. I media si mostrarono interessati forse proprio perché era un pezzo con un suono nuovo per le radio, ma orecchiabile».

Alessandro Scala @ Bayer Studio (2000)

Alessandro Scala nel Bayer Studio a Bubano (200x)

Nel 2000 la Virgin pubblica il secondo singolo di Ominostanco, “Poshvee”. Rispetto al predecessore, qui figurano più parti vocali montate su una base ricca di fiati e percussioni, questa volta con la cassa in quattro. A supportarlo ci sono ancora diverse emittenti come Radio Italia Network che proprio in quel periodo inizia a trasmettere dalla nuova sede milanese in Viale Giulio Richard. «Nella corsa contro il tempo nel cercare le licenze per tutti i sample adoperati ci fu un intoppo. Mancava il clearance di due campioni di sitar e saroong presi da un CD di musica indiana che “spalmai” in un brano a mo’ di drone magmatico irriconoscibile. Però, comprensibilmente, l’etichetta non voleva avere grane e quindi chiese regolare licenza ma la label rispose picche perché era un brano religioso. A quel punto mi mancava un pezzo per finire l’album e visto che il primo singolo era già uscito stavamo cercando il secondo che avrebbe dovuto accompagnare la pubblicazione contemporanea dell’LP. C’era fretta e fare un brano nel 2000 non era come farlo ora, con la stessa velocità intendo. L’idea poteva nascere rapidamente ma la realizzazione aveva tempi più lunghi, ed inoltre essendo un perfezionista non me la sentivo proprio di raffazzonare. Cominciai quindi a svuotare le registrazioni della traccia da togliere e alla fine tenni solo una percussione iniziale, cestinando il resto. A quel punto iniziai ad aggiungere. L’idea era mantenere qualcosa di etnico in senso lato, per creare omogeneità con quasi tutti gli altri brani dell’album. Così nacque “Poshvee”, un titolo che non so neanche cosa significhi, credo sia una parola in sanscrito. In termini di vendite andò peggio rispetto a “5 Seconds” ma venne inserito in più compilation. “Poshvee” uscì sull’onda di una aspettativa forte visti i riscontri del primo singolo, e live funzionava piuttosto bene, gli intrecci ritmici erano interessanti e mi permettevano di giocare nonostante avesse un beat piuttosto dritto. Non replicò passivamente lo stile di “5 Seconds”, quindi anche per questo credo abbia venduto meno. In quel momento si svolgeva il Gay Pride a Roma, un evento che esplose letteralmente a livello di partecipazione, e “Poshvee” finì nella compilation ufficiale».

Ominostanco Album

La copertina del primo album di Ominostanco, edito dalla Virgin Music Italy nel 2000

Il 2000 è l’anno in cui la Virgin pubblica anche il primo album di Ominostanco, l’omonimo “Ominostanco”. Nella sua recensione, a giugno 2000, Pino Caffarelli parla di “una scena elettronica dolce, dove le macchine non producono alienazione ma emozione” e descrive Vallicelli come “il figlio naturale di questa filosofia che, tradotta in prassi, sa organizzare suoni di matrice diversa, citazioni, annotazioni ironiche e remix di varia natura, restituendo all’ascoltatore un panorama ritmico-armonico stratificato e suggestivo”. «Ad aiutarmi ad attirare l’attenzione di una multinazionale fu innanzitutto fortuna, che però ho istigato in qualche modo. Cercavo di suonare ovunque potessi, all’inizio quasi sempre gratis. Poi i live piacevano, si spargeva la voce e mi richiamavano. Un giorno Marco Boccitto, giornalista de Il Manifesto e conduttore di Rai StereoNotte che conoscevo da alcuni anni, mi disse che Riccardo Petitti (DJ romano scomparso prematuramente nel 2014, nda) mi avrebbe fatto suonare al Brancaleone. Avevo incrociato Petitti qualche tempo prima al Cap Creus di Imola, dove lavoravo, e l’amicizia fu immediata. Mi sarei esibito il venerdì nelle serate targate Agatha, con Petitti e Lai in consolle. Era la prima volta che portavo nella capitale il mio progettino elettronico e per me era come essere in paradiso. Con Riccardo, a dirla tutta, era facile essere amici, era sempre disponibile e mi faceva sganasciare dalle risate. L’impianto al Brancaleone era un’autentica macchina da guerra. Quando aprivo una cassa ed un hihat sul mixer, il sound system mi ripagava delle ore spese nella programmazione. Era come lo avrei sempre voluto, un palco, un club buio, un impianto incredibile e persone disposte ad ascoltare e a lasciarsi andare. In sala, all’inizio, c’era poca gente perché era presto ma si riempì sul finale. Chiuso l’ultimo fader la pista era quasi piena e partì un applauso. Non mi ero mai sentito così bene, e mi pagarono anche. Fico! Andò benone e lì ci tornai più volte. Iniziò a girare voce nell’ambiente romano e Petitti chiamò Francesca Bianchi che all’epoca faceva scouting e tanto altro per la Virgin, invitandola a sentire il mio live set. Mai mi sarei aspettato quello che sarebbe successo da lì a due settimane. Ricevetti una telefonata dalla Virgin, mi chiedevano una demo. In quel periodo cercavo di pubblicare la mia musica, ero presente in “Globe@t”, una compilation del ’97 curata da Boccitto per la Irma, ma il mio colpo da giocare fino a quel momento era una proposta di contratto da parte dell’americana OMW (Oxygen Music Works) che aveva pubblicato i dischi di Kurtis Mantronik. Mi accorgevo che c’era interesse intorno a ciò che facevo, in Italia allora c’erano tanti progetti elettronici, tutti molto settoriali a dire il vero, estremamente dance-oriented oppure spiccatamente intellettuali e sperimentali. La mia proposta invece era più varia ed ironica, alternavo serietà al divertimento e questa formula, abbinata allo pseudonimo, funzionò. Inoltre le iniziative e festival non mancavano, specialmente tra Milano, Torino, Bologna e Roma. Talvolta, in maniera acritica, si finiva per bersi anche la fuffa. A me comunque, come anticipavo prima, è sempre piaciuto scherzare e adoravo l’idea di fare live set che avessero una buona dose di ignoto davanti, non ricordarsi di cosa gira su quel canale del mixer mentre altri dodici sono aperti, fare casino, incartarsi ed essere obbligato a trovare velocemente una soluzione, fare andare le percussioni ed improvvisare qualcosa, poi guardare il pubblico e concedersi il rischio di cambiare completamente, ripartire e rallentare finalmente il ritmo, portare le donne a muovere i fianchi e finire in una sorta di inferno lascivo pieno di groove e sudore. All’epoca il mio set era composto da un sequencer Roland MC-500, un delay Vesta, un riverbero Yamaha SPX1000, un distorsore Korg A3 e i già citati Roland D-110 e Yamaha A3000, tutti splittati sui 24 canali di un mixer Mackie. I loop correvano costantemente senza una stesura e il lavoro su fader, mute e send, era piuttosto impegnativo avendo solo due mani e dieci dita.

Ominostanco al Vibra Club di Modena (2000)

Ominostanco durante un live al Vibra Club di Modena, nei primi anni Duemila

L’Oxygen Music Works nel frattempo chiedeva la firma del contratto e, seppur poco convinto, chiamai Alessandro per domandargli quanto volesse per affittare lo studio per un giorno e mixare dieci brani. Mi rispose che quello che stavo facendo gli piaceva e che se ci avesse messo mano lo avrebbe voluto fare seriamente. Mixare dieci brani in una sola giornata è da dementi. A quel punto mollai l’affare con gli americani che si stava rivelando troppo complicato e continuai a lavorare con Scala. Pian piano i pezzi prendevano una forma più concreta. Al contrario la mia vita si sgretolava, tra lutti famigliari, sentimentali ed economici. Continuai a girare l’Italia facendo il tour manager ed alternando studio all’ospedale. Non avendo casa, spesso finivo col dormire nello stesso studio. Della demo inviata alla Virgin non seppi nulla, e giunse l’estate del 1999. Alcuni ragazzi della Virgin andarono in vacanza e si portarono un po’ di CD tra cui, casualmente, anche la mia cassetta con la demo. La fortuna volle che nell’auto affittata fosse presente una radio a cassette e quindi la mia musica sarebbe diventata la colonna sonora delle loro vacanze. Firmai il contratto per strada sotto al Colosseo quadrato all’Eur dove stavo lavorando per i Mau Mau. Mi chiesero di eliminare un solo brano dalla tracklist dell’album, per il resto mi diedero massima disponibilità e nessuna pressione, anzi, erano propositivi verso altri progetti. Si fidavano, anche se la figura del produttore/artista, come la intendiamo oggi, era una novità. Tutto sommato si trattava di una bella label ma so che, nella maggior parte dei casi con le multinazionali non è così. Credo che ora sia tutto molto diverso, circolano meno soldi ma esistono tanti canali in più. La proposta oggi è massiccia, nel 2000 Facebook e YouTube non esistevano, internet era limitato alle email e poco più. Per me fu un bel momento, fatto anche di jetset ed incontri strambi, lo scambio con altri musicisti, il sentire che stavo facendo una cosa con professionisti. Ho lavorato e conosciuto persone molto velocemente grazie alla Virgin, ho aperto concerti per artisti del calibro di Moby, Laurent Garnier e St Germain e mi hanno sempre sostenuto parecchio, ma fu tutto molto rapido. Stavo ancora cercando di capire chi fossi e cosa dovessi fare e mi ritrovai davanti un mondo in cui tuffarmi senza saper nuotare. Non ho idea di quante copie abbiano venduto singolo ed album, credo realisticamente intorno alle seimila, forse qualcosa in più. Ho incontrato spesso persone che mi hanno confidato di averlo masterizzato. “Ominostanco” è stato un album ascoltato in maniera trasversale e di questo sono felice. Tuttora mi capita di conoscere vecchi estimatori di quel lavoro, parecchio diversi tra loro nei gusti musicali. Ho sempre avuto l’impressione che ci fosse stato più hype che reali vendite. Il merito dell’operazione va riconosciuto alla menzionata Francesca Bianchi e a Marco Cestoni, direttore di Virgin Music Italy, dotato di grande caparbietà e lucidità con cui spinse il progetto. L’asse Roma-Milano della EMI/Virgin funzionava, all’interno c’erano persone sveglie e la comunicazione dava i suoi frutti. Oggi come allora, un brano che arrivava da una major aveva più spinta e riusciva ad imporsi di più sui canali tradizionali».

Il secondo album di Ominostanco esce nel 2004, si intitola “La La La” e viene anticipato dal singolo “The Cake”. Questa volta a pubblicarlo è la EMI Music Italy che, come illustrato poche righe sopra, faceva parte del mondo Virgin. Le premesse c’erano ma i risultati, purtroppo, no. «Andò male per tanti motivi» afferma senza mezze misure Vallicelli. «Come hanno già detto mille altri prima di me, il secondo album è sempre più difficile, ma credo che la responsabilità di ciò che è avvenuto sia quasi solo mia. Sono stato pigro nel gestire i rapporti, artisticamente ho cercato qualcosa che mi è riuscito in parte. Il suono era completamente diverso dal primo album, troppo sofisticato, e il singolo, in tutta franchezza, era debole. Si sarebbe potuto fare un ragionamento diverso su tutto ma il tempo è passato, i termini del contratto scaddero e la label non produsse un secondo singolo. Nel frattempo in Virgin/EMI era cambiato tutto, dalla dirigenza al team di ragazzi con cui lavoravo. La Virgin veniva rottamata, Marco Cestoni e Francesca Bianchi presero altre strade, il mio telefono non squillava più. Era chiaro che i nuovi manager subentrati si fossero dimenticati del mio contratto. A quel punto intavolai una trattativa per il secondo album altrimenti avrei proceduto per vie legali. Parlammo ma non trovammo la sintonia, fu tutto molto manageriale, rampante. Ci accordammo per l’uscita di “La La La” e, consapevole di abbandonarlo a se stesso, incassai una somma piuttosto allettante per la cessione del master e la rinuncia al terzo album. Il divorzio con la Virgin si era concluso, ma l’album non fu promosso e stampato in sole mille copie. Continuo a pensare che lì dentro ci siano bei brani ma alcuni li eliminerei».

Archiviata l’esperienza con la major, Ominostanco ricomincia sulla piccola indipendente D-Verso che nel 2006 pubblica il singolo “Is It (Easy) 4 U”. A differenza dei precedenti, sembra rivolto in modo più marcato al pubblico delle discoteche. Nel frattempo l’ondata della lounge va affievolendosi e in ambito dance, dopo la sbornia electroclash, è tempo dell’esplosione electro house. «Quello fu un disco nato davvero per scherzo. La mia fidanzata mi ossessionava con tutta la musica di derivazione 80s in circolazione ed io rispondevo che con quelle cose ero cresciuto. Ero pronto a scommettere che avrei fatto un pezzo dal sapore “anni Ottanta” in appena trenta minuti. Così fu, ma rimase per lungo tempo in un angolo dell’hard disk. Poi Andrea Rango di m2o, che aveva già scelto miei brani per alcune compilation da lui curate come “Pure Nujazz” e “Pure NuLatin” per la Liquid Art Records, mi chiese di mandargli un po’ di materiale e tra le varie cose che gli inviai c’era pure “Is It (Easy) 4 U”. Dopo qualche mese mi richiamò dicendomi che quel pezzo lo aveva perso ma poi lo ritrovò e ci si era completamente fissato. Quindi fece tutto il resto, incluso il suo remix. Io nel frattempo avevo fatto un video col regista Cosimo Alemà, il brano era pronto, non c’era alcun motivo di continuare a tenerlo nel cassetto».

Ominostanco @ Italia Wave Love Festival (luglio 2007)

Ominostanco all’Italia Wave Love Festival, luglio 2007

Da quel momento in poi l’attività discografica di Ominostanco è meno frequente. Diversi album escono solo in formato digitale su Bacci Bros Records e sulla Microricordo, con musica che si presterebbe molto bene come colonna sonora di qualche film. «Quegli album fanno parte di una setacciata di vari brani realizzati nel corso degli anni. Idee, cazzeggi, musiche da documentari televisivi, insomma di tutto un po’. Tanti provengono da filmati o provini per documentari. Molti artisti che fanno musica prettamente strumentale fanno spesso riferimento ad un immaginario filmico, credo venga da sé anche per l’ascoltatore. Fino ad una decina di anni fa le colonne sonore in Italia erano piuttosto “classiche”, poi anche grazie al fenomeno delle serie e di alcuni registi, si è cominciato ad aprire a musiche diverse. Ultimamente ho lavorato per l’ultima commedia di Federico Moccia e un altro film per Guido Chiesa in collaborazione con Francesco Cerasi, autore della colonna sonora. In passato anche con Andrea Guerra per Ozpetek de “Le Fate Ignoranti”. Tanti anche i documentari di cui due su Netflix. All’attivo ho diverse cose per Sky, con Alex Infascelli, fiction soprattutto. Attualmente sto chiudendo le musiche di un’opera prima di Andrea Rusich e continuo a lavorare per la sincronizzazione componendo per library».

Le dinamiche del mondo della musica sono radicalmente cambiate, specialmente nell’ultimo quindicennio. La globalizzazione e massificazione di internet, la “liquefazione” dei supporti fisici e le nuove forme di fruizione (Spotify in primis) di fatto remano contro il concetto di “possesso”. Le nuove generazioni si accontentano di ascoltare i brani dei loro artisti preferiti con e sullo smartphone. In una condizione simile appare chiaro come gli introiti generati dalla vendita di musica stiano toccando i minimi storici e per i compositori il futuro (ma anche il presente) è assai incerto. Parlare di business spostato sull’attività live però non è propriamente realista, perché per ovvi motivi non c’è spazio per tutti, specialmente per i meno noti e quindi “inadatti”, rei di essere troppo poco pop(olari), senza dimenticare coloro che non sono nemmeno disposti ad esibirsi dal vivo. Per alcuni questa condizione sta già seriamente minando la creatività. «A mio avviso la creatività non viene penalizzata perché ci sono meno soldi, la creatività è innata, umana. Muore invece se culturalmente ci si spalma su modelli preconfezionati. Vivere di live è possibile ma dipende da quanto sei bravo, da cosa suoni, se hai idee, contatti e se ti sbatti parecchio. Certo, l’idea romantica del produttore che da casa fa i contratti importanti è ancora praticabile ma se qualche volta esci dalle pareti domestiche e vai nel mondo è meglio. Indubbiamente è diventato piuttosto faticoso, pieno di incertezze, zero spazi, zero interesse ad usufruire da parte di tutti della musica in una certa maniera. Quando vado a qualche serata vedo che l’attenzione verso chi suona è sempre marginale, è importante alzare le mani e fare “uh!” quando riparte la cassa, non importa se nel frattempo hai fatto una cosa meravigliosa che richiedeva di essere ascoltata, tra uno svuoto e una ripartenza in genere ci si fa i selfie. In sostanza si è aperta la lotta selvaggia ad avere uno spazio in una nicchia di ascoltatori, sperando di poter accedere ad un livello superiore o al massimo di continuare ad avere una nicchia fedele.

La cosa paradossale è che oggi tutti vogliono vivere di musica, quasi come i calciatori. Alcune volte mi è capitato di fare l’auditore e il consulente per un paio di talent show riguardanti la musica e il panorama, se parliamo di mainstream, è desolante per livello di idee, con alcune belle eccezioni che confermano la regola. In compenso è cresciuta molto la tecnica e ci si imbatte in musicisti e cantanti molto bravi ma in assenza di idee restano solo degli esecutori per un pubblico che spende molto per i device su cui ascolta la musica ma non vuole spendere nulla per il contenuto. Di conseguenza se vuoi affrontare il mondo del mainstream come produttore e compositore devi sapere che non hai scelta: devi difendere col coltello tra i denti il poco spazio che riesci a ritagliarti. Diverso, secondo me, è il discorso del club. Puoi cercare di farti spazio e puoi riuscire anche ad ottenere buoni risultati grazie al fatto di poter raggiungere l’intero globo in un click ma come lo stai facendo tu lo stanno facendo altri milioni di persone. Hai però la possibilità di entrare in circuiti del DJing e del live che possono farti vivere dignitosamente, forse non a lungo ma fa parte del gioco. Che il mondo della musica sia effimero lo sai da subito, semplicemente giochi la tua carta se credi in quello che fai. Negli ultimi anni i miei ascolti si sono rivolti sempre più a tutta quella musica già passata che non ho mai esplorato, spesso lontana dall’elettronica che in verità ormai seguo poco. Oggi mi pare tutto molto confuso, bello ma confuso, mi vengono consigliati continuamente nomi nuovi che ascolto distrattamente e poi me ne dimentico. Diciamoci la verità, è diventato tutto piuttosto noioso. Sento bei suoni ma poca personalità.

Insieme ad Edoardo Pietrogrande alias P41 ed Agostino Ticino dei Decomposer ho fondato una etichetta, la Festina Lente, orientata al suono da club ma che sia adulto ed abbia la possibilità di essere ascoltato oltre che ballato. Trovandomi a fare ricerca mi accorgo che il superamento della mia generazione da parte di quelle nuove, che temevo, non c’è stato, almeno in Italia. A me appare il perpetuarsi della stessa cosa da almeno dieci anni. Continuo a non percepire nessuna innovazione sostanziale in procinto di arrivare, ma la colpa è mia, forse sono solo stanco». (Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Ivan Iusco e la Minus Habens Records: una rara anomalia italiana

Ivan_Iusco“Il Paese della pizza, pasta e mandolino” recita uno dei più vecchi luoghi comuni sull’Italia. Per certi versi è vero ma non bisogna dimenticare che più di qualcuno si è dato attivamente da fare per azzerare o almeno ridurre i soliti pregiudizi. Tra questi Ivan Iusco che alla fine degli anni Ottanta, appena diciassettenne, diventa produttore discografico e crea un’etichetta per musica completamente diversa da quella che il nostro mercato interno prediligeva. Un ribollire di elettronica intellettualista, ambient, dark, industrial, quella che qualche tempo dopo sarebbe stata raccolta sotto la dicitura IDM (acronimo di Intelligent Dance Music) o braindance. Questa era la Minus Habens dei primi anni di intrepida sperimentazione, di registrazioni su cassetta vendute per corrispondenza ed effettuate da artisti che quasi certamente qui da noi non avrebbero trovato molti discografici disposti ad incoraggiare e supportare la propria creatività. Se oltralpe l’IDM viene consacrato da realtà come Warp Records, Apollo, Rephlex e Planet Mu, in Italia la Minus Habens pare non temere rivali. Dalla sua sede a Bari, tra le città probabilmente meno adatte ad alimentare il mito della musica sperimentale, irradia a ritmo serrato la musica di un foltissimo roster artistico che annovera anche band statuarie come Front 242 e Front Line Assembly. Iusco poi nel 1992 vara una sublabel destinata ad incidere a fondo nel sottobosco produttivo dei tempi, la Disturbance, approdo per italiani “molto poco italiani” sul fronte stilistico (Doris Norton, X4U, The Kosmik Twins, Baby B, Monomorph, Astral Body, The Frustrated, Xyrex, Dynamic Wave, T.E.W., Iusco stesso nascosto dietro la sigla It) e lido altrettanto felice per esteri destinati a lasciare il segno, su tutti Aphex Twin, Speedy J ed Uwe Schmidt. I Minus Habens e i Disturbance di quegli anni rappresentano il lato oscuro dell’Italia elettronica, quella adorata e rispettata dagli appassionati e che si presta più che bene per la locuzione latina “nemo propheta in patria”. Nel corso del tempo nascono altri marchi (QBic Records, Lingua, Casaluna Productions, Noseless Records, Betaform Records) che servono a rimarcare nuove traiettorie inclini a trip hop, nu jazz, funk, downtempo e lounge in senso più ampio destinato alla cinematografia anche con episodi cantautorali a cui Minus Habens Records, ormai vicina al trentennale d’attività, ha legato stabilmente la sua immagine. Al contrario di quanto suggerisce il nome (i latini indicavano sarcasticamente minus habens chi fosse dotato di scarsa intelligenza), la label di Ivan Iusco «è rimasta in piedi per un arco di tempo incredibilmente lungo, in cui numerose altre esperienze discografiche indipendenti, anche prestigiose, sono nate, cresciute e decedute», come si legge nel libro “Minus Habens eXperYenZ” del 2012 curato da Alessandro Ludovico, co-fondatore insieme allo stesso Iusco della rivista Neural, magazine pubblicato per la prima volta a novembre 1993 e dedicato a realtà virtuali, tecnologia, fantascienza e musica elettronica. Un’altra di quelle atipiche quanto meravigliose anomalie italiane.

Come e quando scopri la musica elettronica?
La musica elettronica iniziò a sedurmi verso la metà degli anni Ottanta in un percorso che mi portò rapidamente dai Depeche Mode ai Kraftwerk verso i Tangerine Dream, mentre esploravo parallelamente territori più oscuri con l’ascolto di gruppi come Virgin Prunes, Christian Death e Bauhaus per arrivare alle sperimentazioni dei Current 93, Nurse With Wound, Coil, Laibach, Diamanda Galás, Einstürzende Neubauten, Steve Reich, Arvo Pärt, Salvatore Sciarrino e tantissimi altri. Galassie musicali che ho scandagliato a fondo ascoltando migliaia di produzioni sotterranee. Acquistai il mio primo synth all’età di sedici anni.

Come ti sei trasformato da appassionato in compositore?
Non ho mai considerato la musica una passione o un amore ma una ragione di vita, un’entità magica, indispensabile e salvifica. Quando da bambino ascoltai per la prima volta il tema della colonna sonora “Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto” di Ennio Morricone rimasi letteralmente ipnotizzato. Avevo sei anni e quella musica scatenò un terremoto nella mia testa, infatti ricordo ancora con chiarezza dov’ero in quel momento e cosa indossavo. Sono anche certo che aver avuto una nonna pianista e compositrice, oggi 94enne, contribuì a porre la musica al centro di tutto.

La tua prima produzione fu “Big Mother In The Strain” dei Nightmare Lodge, inciso su cassetta nel 1987. Come fu realizzato quell’album?
Considero quel lavoro un’eruzione di idee nebulose, frutto della collaborazione con due amici: Beppe Mazzilli (voce) e Gianni Mantelli (basso elettrico). Non eravamo ancora maggiorenni ma intendevamo valicare barriere innanzitutto culturali. Il nostro approccio era piuttosto anarchico, pur essendo seriamente intenzionati a produrre qualcosa di concreto. Registrammo il nastro nell’estate del 1987 in un piccolissimo studio in una via malfamata di Bari. In quel locale c’era un registratore a quattro tracce, un microfono, due casse, un amplificatore e nient’altro, se non la foto della fidanzata tettona del fonico. Le registrazioni durarono una settimana. Noi portammo un sintetizzatore, un basso elettrico ed una serie di nostre sperimentazioni sonore su nastro effettuate nei mesi precedenti. Gli interventi vocali di Beppe furono registrati nella toilette dello studio, unico ambiente al riparo dal caos proveniente dalla strada. Pubblicai la cassetta nel dicembre del 1987, utilizzando per la prima volta il marchio Minus Habens, in una micro-edizione di cento copie vendute attraverso il passaparola ed una serie di annunci su fanzine specializzate, la via di mezzo fra gli attuali blog e i web magazine.

L’album dei Nightmare Lodge segna anche la nascita della Minus Habens Records, inizialmente una “ghost label” come tu stesso la definisci in questa intervista del marzo 1998. Come ti venne in mente di fondare un’etichetta discografica? Il nome si ispirava a qualcosa in particolare?
In primis l’obiettivo fu diffondere la mia musica ma subito dopo intuii la possibilità di far luce su alcuni artisti italiani e stranieri che meritavano decisamente più attenzione, così cominciai a pubblicare lavori inediti di Sigillum S, Gerstein e i primi album di Teho Teardo. I budget erano molto limitati: 500.000 lire per ogni pubblicazione su cassetta e circa 3.000.000 di lire per il vinile, denaro che agli inizi mi procurai attraverso piccoli prestiti e lavorando nello showroom di una nota clothing company europea. Ero così giovane da non potermi permettere una sede indipendente quindi trasformai una camera della casa dei miei genitori in “quartier generale”. Il nome Minus Habens per me rappresenta la condizione dell’uomo rispetto alla conoscenza: un orizzonte inarrivabile che lo rende eternamente affamato e che svela al tempo stesso l’immensità e forse l’irrilevanza di un percorso senza meta. Lo spazio incolmabile che separa l’uomo dalla conoscenza.

Minus Habens nasce a Bari, città che non compare su nessuna “mappa” quando si parla di un certo tipo di musica elettronica, e che non è neppure alimentata dal mito come Detroit, Chicago, Berlino o Londra. Come organizzasti il tuo lavoro lontano dai canonici punti nevralgici della discografia italiana, in un periodo in cui internet non esisteva ancora? Risiedere in Italia, e in particolare nel meridione, ha mai costituito un problema o impedimento?
Non saprei dire in che misura la mia città natale abbia contribuito al concepimento della Minus Habens. Sono quasi certo che il grande vuoto nell’ambito della musica elettronica offerto da Bari e più in generale dal meridione negli anni Ottanta mi aiutò a covare un sogno e ad avvertire fin da subito un senso di responsabilità, ponendomi davanti ad una missione molto ambiziosa: cambiare le cose. A quei tempi tutto era più lento e macchinoso, i rapporti di corrispondenza avvenivano solo e soltanto attraverso le poste. Giorni e giorni di attesa per il viaggio di lettere scritte a mano o a macchina e pacchi da e verso l’Italia e il mondo. Ma ne valeva la pena: tutto questo alimentava inconsapevolmente il desiderio. Scoprivo di volta in volta le musiche e l’identità di gruppi e musicisti da produrre attraverso cassette, DAT, minidisc, foto, flyer e fanzine che arrivavano con quei pacchi. Era una cultura che si consumava a fuoco lento. Ricordo però che già nei primi anni Novanta una rivista intitolò uno dei suoi articoli sulla nostra attività “Bari capitale cyberpunk!”. E comunque non sono stato il solo a muovermi con costanza e caparbietà da queste parti. Bari vanta infatti da trent’anni la presenza di uno dei più interessanti festival al mondo di musiche d’avanguardia, parlo di Time Zones che ha portato nella città nomi come David Sylvian, Philip Glass, Brian Eno, Steve Reich, Einstürzende Neubauten ed alcuni dei nostri: Paolo F. Bragaglia, Synusonde, Dati aka Elastic Society e i Gone di Ugo De Crescenzo e Leziero Rescigno (La Crus).

Le primissime pubblicazioni di Minus Habens erano solo su cassetta. Chi curò la distribuzione?
Nei primi due anni di attività mi affidai alla storica ADN di Milano, alla tedesca Cthulhu Records e ad alcuni store specializzati statunitensi. All’epoca occorreva avere dei radar al posto delle orecchie. Internet era agli albori mentre oggi siamo sommersi da dispositivi che ci permettono di accedere a qualsiasi informazione in tempo reale ed ovunque ci troviamo.

Nel 1989 inizi a pubblicare musica anche su vinile. Quante copie stampavi mediamente per ogni uscita? Quale era il target di riferimento?
Le prime pubblicazioni uscirono in tirature di 500/1000 copie, distribuite in Italia e nel mondo soprattutto da Contempo International, nota label e distribuzione di Firenze che vantava nel suo roster gruppi come Clock DVA e Pankow. Non ho mai avuto un’idea definitiva del nostro pubblico ma nel tempo ho constatato con piacere che i nostri clienti e sostenitori abbracciano fasce d’età e gruppi sociali sorprendentemente eterogenei.

Il catalogo di Minus Habens cresce con la musica di molti italiani (Sigillum S, Iugula-Thor, Red Sector A, Kebabträume, Pankow, Capricorni Pneumatici, Tam Quam Tabula Rasa, Brain Discipline, DsorDNE, Ultima Rota Carri) ma anche di esteri come Lagowski, Principia Audiomatica e persino miti dell’industrial e dell’EBM come Clock DVA, Front 242 e Front Line Assembly. Come riuscisti a metter su una squadra di questo tipo? Insomma, se tutto ciò fosse accaduto all’estero probabilmente Minus Habens oggi verrebbe paragonata a Warp, Rephlex o Apollo.
È avvenuto tutto molto gradualmente. Piccoli passi, giorno dopo giorno, fino ad arrivare a pubblicare album come quelli di Dive (Dirk Ivens) in 15/20mila copie o compilation come “Fractured Reality” con ospiti illustri tra cui Brian Eno, Depeche Mode, William Orbit, Laurent Garnier, Susumu Yokota e molti altri. Se la Minus Habens ti ha portato alla mente etichette come Warp, Rephlex o Apollo è perché in Italia non sono esistiti altri riferimenti di quel tipo, così la mia etichetta è diventata l’unico modello vagamente assimilabile a quelle realtà. È un’associazione ricorrente ma ci siamo distinti in modo inedito anche per aver raggiunto il cinema con numerose colonne sonore originali e pubblicazioni di artisti di rilievo come Angelo Badalamenti. Negli ultimi anni inoltre abbiamo avviato importanti collaborazioni nell’ambito dell’arte contemporanea tra le quali spiccano quelle con Cassandra Cronenberg e Miazbrothers.

Con quali finalità, nel 1992, crei la Disturbance?
L’idea seminale fu ibridare i suoni e le soluzioni concepite dai musicisti del circuito Minus Habens coi ritmi ipnotici della techno. Negli anni Novanta abbiamo pubblicato su Disturbance alcune decine di singoli in vinile con una discreta distribuzione internazionale in Germania, Francia, Benelux, Stati Uniti e Giappone.

Così come per Minus Habens, anche Disturbance vanta in catalogo gemme che meriterebbero di essere riscoperte, da Atomu Shinzo (Uwe Schmidt!) ai The Kosmik Twins (Francesco Zappalà e Biagio Lana), da Monomorph (i fratelli D’Arcangelo) ad altri estrosi italiani come Astral Body, Xyrex e Dynamic Wave. In termini di vendite, come funzionava questa musica? La costanza delle pubblicazioni mi lascia pensare che il mercato fosse vivo.
Significava insediarsi in un mercato fortemente influenzato da mode e tendenze. Ciononostante abbiamo raggiunto buoni risultati anche in quell’ambito. Ricordo che Mr. C degli Shamen e Miss Kittin suonavano spesso le nostre produzioni, mentre per una festa a Milano in occasione del Fornarina Urban Beauty Show coinvolgemmo Timo Maas ed Ellen Allen. Col marchio Disturbance abbiamo creato un repertorio davvero interessante con un’attenzione particolare al made in Italy.

Chi, tra i DJ, giornalisti e critici italiani, seguiva con più attenzione le tue etichette?
I giornalisti storici della stampa musicale italiana ci hanno sempre seguito con molto interesse: Vittore Baroni, Aldo Chimenti, Nicola Catalano, Luca De Gennaro, Paolo Bertoni e tanti altri. Fortunatamente negli anni abbiamo goduto della stessa attenzione anche da parte di numerosi giornalisti stranieri.

Hai mai investito del denaro in promozione?
Investiamo in promozione fin dagli esordi, anche se dal 1987 ad oggi abbiamo adeguato le nostre strategie al mutare dei media. Non ho mai pagato recensioni però, e dubito che esistano riviste che operano in questo modo e comunque lo troverei eticamente scorretto.

A proposito di riviste, nel 1993 hai fondato Neural con Alessandro Ludovico. Come nacque l’idea di creare un magazine con quel taglio avanguardista?
Anche nel caso di Neural cercammo di creare una pubblicazione che potesse rompere il silenzio editoriale in territori culturali che ci interessavano da vicino: tecnologie innovative come la realtà virtuale, hacktivism, new media art e musica d’avanguardia naturalmente. I primi numeri di Neural furono pubblicati in poche migliaia di copie diffuse da un distributore torinese, successivamente la rivista svegliò l’interesse dell’editore dello storico mensile Rockerilla e così, in seguito ad un accordo di licenza, Neural uscì in una tiratura di 15.000 copie distribuite nelle edicole italiane. Questa diffusione capillare catturò un pubblico ben più vasto ma dopo due anni la crisi dell’intero settore ci costrinse a scegliere un distributore alternativo. Atterrammo così nella catena Feltrinelli. Neural da allora, grazie all’impegno di Alessandro, non si è mai fermata. Esce tutt’oggi in versione cartacea ma si avvale anche di un sito costantemente aggiornato che offre ulteriori contenuti.

Recentemente ho letto questo articolo in cui si parla della scomparsa del pubblico delle recensioni. La diffusione e la democratizzazione di internet ha, in un certo senso, tolto valore ed autorevolezza a chi parla criticamente di musica? Insomma, così come proliferano i “produttori” pare nascano come funghi anche i “giornalisti”. Cosa pensi in merito?
Come per la musica e l’arte in genere, anche il giornalismo si manifesta attraverso la voce di autori che possono essere più o meno dotati di talento e capacità. Quando si leggono articoli deboli, senza fondamenta, noiosi e a volte dannosi, diventa difficile arrivare fino in fondo. Penso semplicemente che la curiosità culturale dei fruitori crei nel tempo gli strumenti necessari per scremare il meglio in ogni ambito.

Tra il 1993 e il 1997 su Disturbance compaiono i quattro volumi di “Outer Space Communications”, compilation che annoverano nomi come Nervous Project (Holger Wick, artefice della serie in dvd Slices per Electronic Beats), il citato Uwe Schmidt (come Atomu Shinzo e Coeur Atomique), la prodigiosa Doris Norton, Pro-Pulse (Cirillo e Pierluigi Melato), i QMen (i futuri Retina.it) Speedy J, Planet Love (Marco Repetto, ex Grauzone), Exquisite Corpse (Robbert Heynen dei Psychick Warriors Ov Gaia), i romani T.E.W., Le Forbici Di Manitù e persino Richard D. James travestito da Caustic Window (con “The Garden Of Linmiri”, finito nello spot della Pirelli con Carl Lewis) e da Polygon Window. Insomma, una manna per chi ama l’elettronica ad ampio raggio.
Fu l’apice di un enorme lavoro di relazioni e networking. In quel periodo nacque anche un bel rapporto di collaborazione e stima reciproca con Rob Mitchell (RIP), co-fondatore della Warp Records. Vista la mole dei brani contenuti e l’importanza degli artisti che vi presero parte, i quattro volumi della serie diventarono immediatamente oggetti da collezione. Le compilation includevano uno spaccato del roster Disturbance affiancato da grandi artisti della scena elettronica internazionale. All’interno dei booklet inserivamo anche piccoli riferimenti a culture nascenti o comunque underground come la realtà virtuale, la robotica, il cybersex, i rituali, le brain-machines e la crionica.

Come entrasti in contatto con gli artisti sopraccitati? Usavi già le comunicazioni via internet?
Il primo indirizzo email di Minus Habens risale al 1993, in quegli anni eravamo in pochissimi ad utilizzare internet mentre il fax raggiunse la sua massima diffusione. Abbiamo sempre adoperato qualsiasi mezzo di comunicazione pur di raggiungere i nostri interlocutori.

Nell’advertising di Minus Habens apparso sul primo numero di Neural si anticipavano alcuni nomi del secondo volume di “Outer Space Communications” tra cui Biosphere che però in tracklist non c’era. Cosa accadde? La presenza di Geir Jenssen era prevista ma qualcosa non andò per il verso giusto?
Quando richiesi la licenza di pubblicazione del brano “Novelty Waves” di Biosphere l’etichetta mi rispose che era stato appena dato in esclusiva ad una nota agenzia pubblicitaria internazionale per essere utilizzato come colonna sonora dello spot dei jeans Levi’s (in Italia il pezzo verrà poi licenziato dalla Downtown, etichetta della bresciana Time Records, nda).

A metà degli anni Novanta Disturbance accoglie Nebula (Elvio Trampus), che si piazza in posizione intermedia tra techno e trance, connubio che viene battuto pure dalla QBic Records, rimasta in attività per soli tre anni, dal 1996 al 1999. Come ricordi quel periodo in cui un certo tipo di musica iniziò il processo di “mainstreamizzazione”?
Non essendo il mainstream uno dei nostri obiettivi, non abbiamo mai inseguito il fantasma del successo. I risultati sono giunti soprattutto grazie alla costanza, alla continua ricerca ed alla qualità delle pubblicazioni. Più di una volta i brani del catalogo Disturbance sono arrivati ai primi posti di classifiche dance italiane (come quella della storica Radio Italia Network) e straniere, mentre le produzioni Minus Habens hanno trovato terreno fertile in ambito cinematografico (in numerosi film con distribuzione nazionale) e televisivo (in trasmissioni come Le Iene, Report, Target e tante altre). Inoltre abbiamo partecipato a decine di festival e proprio quest’anno il trio Il Guaio, del nostro marchio Lingua, è stato candidato alle selezioni ufficiali di Sanremo.

Nei primi anni Duemila, proprio dopo gli ultimi lavori di Nebula, Disturbance vira radicalmente direzione e registro, passando al downtempo, al trip hop e al future jazz, facendo l’occhiolino alla Compost Records di Michael Reinboth. Forse l’elettronica con derive dance o sperimentali ti aveva stancato?
Come ben sai credo profondamente nell’evoluzione e nella diversità della musica e dei suoni. All’inizio del nuovo millennio la techno e la drum’n’bass raggiunsero il loro picco evolutivo terminando in un cul-de-sac. Successivamente sono emerse nuove declinazioni come la minimal techno o il dubstep ma nulla di radicalmente innovativo. Ecco il motivo per cui ho sentito la necessità di proseguire verso altre direzioni creando un incubatore in cui abbiamo sviluppato progetti musicali come Pilot Jazou, Gone, Dati, Appetizer o la più recente collaborazione fra il producer Andrea Rucci e il pianista jazz Alessandro Galati. Le produzioni musicali più interessanti emerse in questi primi quindici del nuovo millennio sono il frutto di incontri e collaborazioni di musicisti con esperienze negli ambiti più diversi, e pare che l’elettronica sia diventata il tessuto connettivo privilegiato.

La tua collaborazione con Sergio Rubini comincia proprio in quel periodo, lavorando alle colonne sonore di suoi film come “L’Anima Gemella” e “L’Amore Ritorna”. Come nacquero tali sinergie?
Incontrai Sergio una sera in un bar. Grazie a quell’incontro casuale nacque il nostro rapporto lavorativo che si concretizzò prima con la composizione del tema principale del film “L’Anima Gemella” e successivamente con la colonna sonora del film “L’Amore Ritorna”, le musiche addizionali di “Colpo D’Occhio”, fino al suo progetto filmico “6 Sull’Autobus” in collaborazione con sei giovani registi e prodotto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Facendo qualche passo indietro, prima della collaborazione con Rubini, fui chiamato dal regista Alessandro Piva che mi commissionò le musiche dei film “LaCapaGira” (1999) e “Mio Cognato” (2003) con cui iniziai a raggiungere un pubblico più ampio anche grazie all’ottenimento di alcuni premi in Italia e all’estero.

Qualche sprazzo di dance elettronica torna a farsi sentire su Minus Habens tra 2005 e 2007, quando pubblichi anche una compilation di Alex Neri. Si rivelò solo una toccata e fuga però. Avevi già preso la decisione di dedicarti ad altro?
In quel periodo Minus Habens fu scelta dal festival Elettrowave (sezione elettronica di Arezzowave) per pubblicare le loro compilation ufficiali. Mi occupai personalmente della selezione degli artisti presenti nei diversi album. Considerando gli ospiti del festival, ebbi il piacere di ospitare grandi nomi fra cui Cassius, Modeselektor, Kalabrese, Stereo Total, Cassy, Mike Shannon, Zombie Zombie e molti altri. La musica elettronica è sempre stato il filo rosso della mia ricerca. È un universo dalle infinite possibilità e la missione della Minus Habens è quella di esplorarlo.

Il 2017 segnerà il trentennale di attività per Minus Habens Records. Avresti mai immaginato, nel 1987, di poter tagliare un così ambizioso traguardo?
È un sogno che si avvera, pur non avendolo mai immaginato come un traguardo.

Nel corso degli anni hai mai pensato di mollare tutto e dedicarti ad altro?
No, immagino da sempre le evoluzioni possibili della nostra attività cercando di incarnare soltanto le più ambiziose.

La sede è ancora in via Giustino Fortunato, nel capoluogo pugliese?
La sede e lo studio sono ancora a Bari anche se rispettivamente in zone diverse della città, ma proprio quest’anno abbiamo posto le basi per alcuni grandi cambiamenti.

Stai pensando già a qualcosa per festeggiare e celebrare i trent’anni di Minus Habens?
Stiamo lavorando ad un progetto che sta prendendo forma in queste settimane di cui però sarebbe prematuro parlarne adesso. Ci sono ancora troppi aspetti da sviscerare. Sarà una forma di condivisione celebrativa volta ad amplificare il concetto di collaborazione e di network. Naturalmente coinvolgeremo anche i musicisti che si sono uniti all’etichetta negli ultimi tempi come Andrea Senatore, Christian Rainer e Il Guaio.

Come vorresti che fosse ricordata la tua etichetta e la tua attività artistica, tra qualche decennio?
Sarebbe già davvero tanto se tutto questo fosse ricordato nel tempo. In fondo il libro Minus Habens eXperYenZ di 224 pagine pubblicato nel 2012 in occasione del venticinquesimo anniversario dell’etichetta ambiva proprio a questo: documentare, o come afferma nello stesso libro Dino Lupelli – fondatore di Elettrowave ed Elita Festival – “produrre per non dimenticare” le esperienze multiformi di un laboratorio che ha portato alla luce inusuali sperimentatori. Un’avventura alla ricerca di territori musicali inesplorati.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Questo slideshow richiede JavaScript.