BXR, una squadra di DJ alla conquista del mondo

Negli anni Novanta la musica destinata alle discoteche, composta da DJ e team di musicisti ed arrangiatori, è in prevalenza marchiata con pseudonimi. Ciò avviene per moda, per questioni legate ad esclusive discografiche ma anche per differenziare le inclinazioni stilistiche del proprio repertorio. «L’effetto fondamentale è il distanziamento, una rottura col tradizionale impulso pop di associare la musica ad un essere umano in carne ed ossa» scrive Simon Reynolds in “Futuromania”. «L’anonimato ha l’effetto di scardinare i meccanismi della fedeltà al gruppo o al marchio, l’abitudine di seguire la carriera degli artisti tipica del pubblico rock». In egual modo le etichette indipendenti diffondono i propri prodotti attraverso un fiume di sublabel, marchi creati ad hoc per diversificare l’offerta e nel contempo evitare l’inflazione vista l’alta prolificità. La bresciana Media Records di Gianfranco Bortolotti, attiva sin dalla fine del 1987, è tra quelle che nel corso del tempo collezionano più sottoetichette. Ad inizio decennio già vanta la Baia Degli Angeli, la GFB, l’Inside, la Pirate Records, la Signal (contraddistinta da una singolare numerazione del catalogo), l’Underground, la Heartbeat (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) e la Whole Records. A queste, nel 1992, se ne aggiunge un’altra, la BXR, il cui nome deriverebbe dall’antica denominazione della città di Brescia, Brixia, opportunamente modificata in una sorta di sigla a fare il paio con la citata GFB, acronimo di GianFranco Bortolotti. A sottolineare la connessione con le fasi storiche del comune lombardo è pure il logo, la testa di una leonessa, citando Giosuè Carducci che ne “Le Odi Barbare” parla di Brescia come “leonessa d’Italia”. Il payoff invece è il medesimo dell’etichetta-madre, “The Sound Of The Future”.

BXR 001 + logo
Sopra il disco di debutto della BXR (1992), sotto il primo logo dell’etichetta

1992-1994, un avvio nell’ombra
Il primo brano pubblicato su etichetta BXR, nel 1992, è “Space (The Final Frontier)” di DJ Spy. Ispirato al suono nordeuropeo che scavalca la palizzata dei rave e fa ingresso nelle classifiche di vendita (il 1991 ha visto consacrare dal grande pubblico tracce come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Activ 8 (Come With Me)” degli Altern8, “Dominator” degli Human Resource, “Inssomniak” di DJPC, “Mentasm” di Second Phase, “Ambulance” di Robert Armani, “Adrenalin” degli N-Joi, “Who Is Elvis?” dei Phenomania – di cui parliamo qui, “Charly” ed “Everybody In The Place” dei Prodigy, “Pullover” di Speedy J ed “Anasthasia” dei T99, quasi tutte provenienti dall’area anglo-germanica-olandese), il pezzo è un veloce riassunto del modello edificato su amen break e stab. Prodotto da Max Persona e Pagany, che insieme ad Antonio Puntillo e Roby Arduini formano il team veronese ai tempi al lavoro in pianta stabile presso la struttura di Bortolotti, quello del fittizio DJ Spy è un veloce, ingenuo e non troppo ragionato assemblaggio di frammenti tratti da altri brani più fortunati del catalogo Media Records di quel periodo, come “What I Gotta Do” di Antico, “The Music Is Movin'” di Fargetta (di cui parliamo qui nel dettaglio), “Take Me Away” di Cappella, “Mig 29” di Mig 29, “We Gonna Get…” di R.A.F. e “2√231” di Anticappella, giusto per citarne alcuni dietro cui, peraltro, armeggiano gli stessi autori. Il sample vocale principale è tratto dal monologo di Star Trek e ciò spiega la ragione del titolo. L’assenza di un’idea compiuta e definita rende però “Space (The Final Frontier)” solo una delle centinaia di cloni generati dal filone rave, che attrae pletore di produttori sparsi in tutto il continente ambiziosi di replicare i risultati economici delle hit ma talvolta senza particolari slanci creativi.

Calamitate dagli elementi caratteristici che segnano il boom commerciale della (euro)techno tra 1991 e 1992 sarebbero state pure Marina Motta e Donatella Valgonio, le due ragazze che avrebbero operato dietro le quinte di Davida. La loro “I Know More”, secondo disco edito da BXR, rappresenta perfettamente la declinazione italiana della techno nordeuropea, ottenuta con la fusione di pochi elementi presi a modello e semplificati il più possibile per essere “digeriti” da un vasto pubblico. In realtà la Valgonio, conduttrice e speaker radiofonica contattata per l’occasione, rivela di non aver mai partecipato al progetto Davida. «Conobbi Gianfranco Bortolotti quando iniziò a muovere i primi passi nel mondo della musica» spiega, «e in quel periodo era Mario Albanese, all’epoca mio marito, ad occuparsi dei contatti con musicisti e discografici. Io, semplicemente, cantavo, così come feci prima con “Baby, Don’t You Break (My Heart)” di Argentina, l’unico pubblicato dalla Media Records nel 1986 (quando si chiama ancora Media Record, nda) e poi con “Summer Time”, sempre di Argentina ma finito sulla Memory Records a mia insaputa, ai tempi mi dissero che sarebbe stato ricantato da un’altra cantante. Non ho più avuto la possibilità e la fortuna di collaborare con la Media Records che nel frattempo divenne un colosso della discografia. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita artistica se avessi collaborato con Bortolotti. Tengo a precisare comunque che Mario Albanese non ha alcuna colpa perché la prima a non crederci fino in fondo ero proprio io che continuavo a sentirmi come un pesce fuor d’acqua nonostante i suoi ripetuti incoraggiamenti». È plausibile dunque ipotizzare che i nomi della Valgonio e della Motta siano stati usati a mo’ di pseudonimi, così come avviene per “I’m The Creator” di DJ Creator finito nel catalogo di un’altra etichetta della Media Records, la Pirate Records. I risultati di vendita non esaltanti delle prime due uscite, uniti alla progressiva attenuazione della popolarità della rave techno palesatasi nel corso del ’92, probabilmente convince Bortolotti a non insistere su quella formula. Il terzo 12″ su BXR, difatti, guarda nella direzione della garage house, quella che arriva da Londra e da New York. Enrico Serra, Gianluca Brachini e Gianluigi Gallina realizzano, presso l’H.O.G.I.C.A. Studio, “Here With Me” di Miss Mary, pezzo da cui emerge il calore del funk e dell’r&b e che riporta in vita certe atmosfere tipiche della prima house pianistica nostrana con cui qualche anno prima proprio la Media Records si impone all’attenzione internazionale. Nonostante i buoni spunti, Miss Mary non lascia il segno e si rivela incapace di far decollare il marchio BXR temporaneamente messo in stand by. Riappare nel 1994 con “Day By Day” di Laura Becker, che Alex Pagnucco e Davide Ageno realizzano mescolando i classici elementi dell’eurodance ottenendo una sorta di ibrido tra Le Click, Intermission e Corona ma con meno appeal per l’assenza di un efficace ritornello. La prevedibilità e la scontatezza dei suoni e della stesura fanno il resto lasciando il progetto nel quasi totale anonimato, quello stesso anonimato che una manciata di decenni più avanti lo trasforma in un cimelio per i collezionisti disposti a spendere cifre consistenti per entrare in possesso delle pochissime copie in circolazione. È l’ultimo tentativo di riscatto per la BXR, un’iniziativa che, a dirla tutta, in questa prima fase non conta su particolari energie e risorse. Basti pensare all’esigua quantità delle pubblicazioni (appena quattro in un biennio circa, decisamente un’inezia per i tempi) ma anche alla quasi inesistente promozione. Se a ciò si somma la scarsa identità, dovuta ad un mancato focus stilistico, è facile comprendere le ragioni per cui il tutto appaia soltanto un progetto embrionale dal basso potenziale, un’idea non sviluppata a dovere, col fiato corto ed incapace di farsi largo in mezzo ad una giungla di realtà discografiche indipendenti. Ma è solo questione di tempo, la BXR si riprenderà tutto e con gli interessi.

La rinascita sotto una nuova stella
Il 1995 imprime bruschi cambiamenti al mainstream dance italiano a partire dalla velocità di crociera che, complice l’influenza mutuata dalla scena tedesca, aumenta sino a toccare soglie inimmaginabili sino a poco tempo prima. Il fenomeno, iniziato negli ultimi mesi del ’94, si consolida e trascina gran parte dei principali esponenti dell’ambiente danzereccio nostrano, dai Bliss Team a Molella, dai Mato Grosso ai Club House, da Ramirez a Z100 passando per Cerla & Moratto, Double You, Da Blitz, JT Company e Digital Boy che è tra i primi a dare il la a questa adrenalinizzazione ritmica arrivata a sfondare la soglia dei 160 bpm. Nella seconda metà dell’anno, insieme alla velocizzazione e all’avvicinamento a filoni come makina ed happy hardcore, si registra un secondo sostanziale mutamento rappresentato dalla popolarizzazione di formule sino a quel momento adottate in prevalenza nelle discoteche specializzate. La cosiddetta progressive fa breccia in un numero sempre più consistente di ascoltatori sino a prevalere sulla eurodance tradizionale costruita su strofa, ponte e ritornello. La spallata decisiva giunge grazie a Robert Miles che con la Dream Version della sua “Children” (di cui parliamo qui) di fatto inaugura una stagione inedita che vede la supremazia quasi assoluta di brani strumentali. È una sorta di nuovo 1991-1992 insomma, ma questa volta non è una tendenza importata dall’estero bensì germogliata e svezzata entro i nostri confini.

secondo logo BXR
Il secondo logo con cui la BXR torna sul mercato nel 1996

Tale nuova fase risulterà decisiva per la BXR che rinasce proprio sotto la stella della progressive, forma ammorbidita della techno/trance d’impostazione mitteleuropea segnata da evidenti presenze melodiche che attingono dall’ambient, dalle colonne sonore cinematografiche, dal funky, dall’afro e dalla new beat. Così l’etichetta riappare dopo circa due anni di silenzio con più vigore e consapevolezza, accompagnata da una nuova numerazione col prefisso 10 e soprattutto un nuovo logotipo meno anonimo del primo, forgiato su caratteri di bladerunneriana memoria (la B è simile ad un 3 ed infatti inizialmente c’è chi crede che il nome sia 3XR) ed immerso in una dimensione spaziale che rispecchia la vocazione più internazionale, in contrasto con quella di partenza fin troppo legata alla realtà autoctona bresciana. Al nome viene altresì aggiunto un suffisso, Noise Maker, usato a mo’ di payoff, derivato da quello dell’etichetta sulla quale tra 1994 e 1995 Gigi D’Agostino, artista che tiene a battesimo la BXR, pubblica alcuni brani determinanti per la nascita della (mediterranean) progressive, la Noise Maker per l’appunto, gestita dalla Discomagic di Severo Lombardoni.

Homepage del primo sito Media (1996)
L’homepage del primo sito della Media Records (1996)

La nuova immagine della BXR proiettata nel futuro coincide anche col lancio del primo sito internet della Media Records che, tra le altre cose, permette di fare un tour virtuale nella sede a Roncadelle, accedere al cyber shop in cui acquistare il merchandising nonché immergersi nel suono di un juke-box virtuale, una specie di Spotify ante litteram fruibile attraverso il lettore multimediale RealPlayer. A guidare artisticamente la BXR è Mauro Picotto che, come racconta nel suo libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” (recensito qui), voleva radunare dei disc jockey che suonavano nei club, «veri, non quelli usati come immagine dalle grandi case discografiche». Ed aggiunge: «Parlai a Bortolotti del mio progetto e l’idea gli piacque subito visto che aveva già tentato una sortita simile con la Heartbeat. Il primo DJ che contattai ed invitai ad unirsi fu Gigi D’Agostino, uno degli ideatori del party torinese Le Voyage. Ricordo ancora il suo arrivo all’Hotel Continental di Roncadelle (ubicato nello stesso stabile della Media Records, nda) con una vecchia Chrysler Voyager da sette posti, era già un personaggio. […] Gigi però uscì quasi subito dal progetto, evidentemente soffriva qualcosa o qualcuno del mondo BXR, non mi è mai stato chiaro. Comunque gli offrimmo l’opportunità di creare una sua label esclusiva, la NoiseMaker, per continuare ad esprimersi secondo la sua stessa direzione artistica».

Mediterranean progressive, una parentesi su genesi, evoluzione e dissolvimento
Come raccontato nel 2015 da Gianfranco Bortolotti in questa intervista, il termine “mediterranean progressive” fu da lui approvato su suggerimento di Mauro Picotto o di Riccardo Sada (giornalista ai tempi in forze alla Media Records) dopo aver letto una recensione di Pete Tong che parlava, per l’appunto, di mediterranean progressive in riferimento a quei dischi provenienti dall’Italia (come “Sound Of Venus” di Lello B., Subway Records, “Atmosphere” di Voice Of The Paradise, Area Records, o “Advice” di Nuke State, Metrotraxx) che finivano in un’area grigia non essendo facilmente incasellabili nella techno, nella house e tantomeno nella progressive d’oltremanica in stile Sasha e John Digweed. Un filone che da noi pulsava già da qualche anno, irradiato da etichette indipendenti localizzate prevalentemente tra Lombardia, Toscana e Piemonte, ma senza ottenere riscontri commerciali importanti ed infatti Roland Brant lamenterà, in un’intervista, di essere stato ignorato dal grande pubblico nonostante seguisse questo genere da diverso tempo.

RAF by Picotto e compilation Diva
Sopra “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto (GFB, 1995), pare il primo disco a raggiungere il mercato con la dicitura “mediterranean progressive”, usata nello specifico come titolo della versione principale; sotto le copertine di due compilation curate da Claudio Diva uscite nel 1996

Alla Media Records intercettano la tendenza che vede salire le quotazioni commerciali della progressive e pianificano strategicamente di adottare tale dicitura in occasione del (ri)lancio della BXR, nei primi giorni del 1996. Sulle riviste, allora primarie fonti di informazione, la BXR viene presentata come l’etichetta che seguirà un nuovo genere, la mediterranean progressive, catalizzando l’attenzione del grande pubblico. «Il fine era distinguerci da ciò che altri facevano nel Nord Europa» spiega Bortolotti nell’intervista sopraccitata. «Per un fatto oggettivo l’Italia era (ed è) un Paese mediterraneo, quindi da lì nacque la fusione». È bene rammentare però che la tag “mediterranean progressive” aveva già timidamente fatto capolino nel mercato discografico attraverso “Bakerloo Symphony” di R.A.F. By Picotto, pubblicata su un’altra etichetta della Media Records, la GFB, nell’autunno inoltrato del 1995, seppur il successo giunga a distanza di qualche mese, quando per l’appunto esplode il fenomeno progressive in tutta Italia e nei negozi arrivano un paio di compilation intitolate proprio “Mediterranean Progressive” edite dalla Discomagic e compilate da Claudio Diva, alla guida della Subway Records considerata tra le antesignane dei filoni dream e della stessa mediterranean progressive.

Il 1996, per il mainstream nostrano, è quindi l’anno della progressive, glorificata anche sull’etere da un numero imprecisato di programmi, incluso il Molly 4 DeeJay di Molella su Radio DeeJay di cui parliamo dettagliatamente qui. Produttori e promoter puntano tutto su questo genere, investendo denaro ed ambendo a sostanziosi ritorni. La Media Records, ad esempio, riporta in vita sotto il segno della progressive Antico, uno dei marchi che aveva contraddistinto la prima ondata “italo techno” ed ormai assente dal mercato da un quadriennio, ma anche un paio di etichette ibernate come la Pirate Records e la Underground (il nuovo corso di quest’ultima comincia con “The Test” di Mauro Picotto analizzato qui), oltre a contagiare la GFB, sulla quale appaiono i brani di R.A.F. By Picotto, e la Whole Records. Prevedibilmente la progressive diventa il nuovo pop e ciò attrae come una calamita parecchie critiche di chi è convinto che si tratti solo di un’indebita appropriazione di suoni, così come avvenuto qualche tempo prima con la techno. In un’intervista di Paolo Vites pubblicata ad ottobre del 1996, Killer Faber parla di grossa speculazione: «si incidono dischi copiati spudoratamente da altri, si creano mode musicali inesistenti, si immettono sul mercato centinaia di compilation tutte uguali saturando il mercato. Bisognerebbe rischiare e lanciare pochi ma veri artisti dance». A gennaio ’97 Massimo Cominotto raccoglie altre testimonianze in un’inchiesta intitolata “Prog E Contro”, come quella di Paolo Kighine: «Ultimamente la progressive ha preso i connotati da fenomeno di massa e per questo viene additata come commerciale. Questo, secondo me, dovrebbe essere un motivo in più per stimolare i miei colleghi ad offrire un prodotto di qualità elevata […]. L’etichetta “progressive” comunque lascia molto spazio all’immaginazione, puoi scartabellare tra vecchi pezzi acid house per curvare sugli Orb o KLF e magari finire sul made in Italy, l’importante è far stare bene il proprio pubblico». Più disilluso e diretto appare invece Christian Hornbostel: «Il termine “progressive” è già sprofondato nel caos, così come era avvenuto a suo tempo per l’omologo “underground”, diventando la risposta più inflazionata alla fatidica domanda “che genere suoni?”. Migliaia di DJ affermano di proporre progressive ed alcuni di loro si fanno addirittura la guerra per dimostrare al popolo italico di esserne gli assoluti inventori. Sono passati più di quattro anni da quando il vero fenomeno progressive (tutt’altra musica!) faceva la sua comparsa nel Regno Unito ma ecco che in Italia qualcuno ha pensato che il solo utilizzo del bassline 303 bastasse a giustificare la creazione di una nuova corrente musicale chiamandola “progressive”. Nessuno pertanto all’estero capisce l’italianissimo modo di definire progressive tracce che godono di ben altre definizioni. Non parliamo poi della confusione creata dalle compilation che di progressive hanno solo il nome. Dobbiamo dunque accettare a denti stretti che il significato di progressive sia un’amorfa terminologia creata per vendere incoerenti compilation in un mercato discografico già agonizzante, per dar lustro a DJ che si vantano di suonarla (mixando Alexia con DJ Dado ed una traccia su Attack) e per far contenti alcuni proprietari di locali che nella stessa serata propongono, con innocente orgoglio, revival, underground, liscio, latinoamericano e… progressive».

Gg e Picotto 1996
Gigi D’Agostino e Mauro Picotto in due foto del 1996, quando vengono lanciati dalla Media Records come alfieri della mediterranean progressive

Ma cosa è la progressive che si impone tra 1995 e 1997 al grande pubblico nostrano? «Forse è la sorellina della techno» sostiene Mauro Picotto in un’intervista raccolta da Riccardo Sada a novembre 1996. «È sicuramente nata grazie ai DJ della Toscana sotto altri nomi come “virtual music” per colmare un vuoto perché con un certo tipo di techno eravamo arrivati all’apice e c’era voglia di ripartire da zero, svuotando i brani di tanti suonini e suonacci superflui […]. Le produzioni progressive italiane si discostano da quelle estere perché hanno molta melodia, ormai l’Italia ha il suo imprinting». È la melodia, dunque, il punto focale di questo filone, e a tal proposito DJ Panda, ancora intervistato da Sada e quell’anno nelle classifiche con “My Dimension” di cui parliamo nello specifico qui, afferma che «a noi italiani la melodia viene fuori d’istinto perché abbiamo un animo mediterraneo. L’unico rischio è che questa progressive diventi troppo pop». I timori dell’artista si rivelano fondati ed infatti la sbornia progressive (o meglio, popgressive) del 1996 renderà sterile il filone, sino ad inflazionarlo ed obbligarlo ad una costante e netta flessione nel corso del 1997.

D'Agostino Planet 1
“Fly” di D’Agostino Planet riapre il catalogo della BXR dopo circa due anni di silenzio

1996-1997, il biennio della mediterranean progressive
Corrono i primi giorni del 1996 quando la napoletana Flying Records distribuisce “Fly” i cui promo girano tra gli addetti ai lavori già da qualche settimana. Autore è Gigi D’Agostino dietro il moniker D’Agostino Planet, nome perfetto per la nuova dimensione spaziale della BXR anzi, a dirla tutta qualcuno ritiene che l’etichetta possa gravitare esclusivamente intorno alla sua musica e che il pianeta immortalato sulla logo side del disco sia proprio il suo. Tale teoria sembrerebbe trovare riscontro in questa intervista a cura di Leonardo Filomeno e pubblicata da Libero il 14 settembre 2014, in cui D’Agostino afferma: «Nell’autunno del ’95 chiesi di poter fondare un’etichetta con dei principi precisi, libertà dei suoni, dei ritmi, dei tempi. In Media Records mi dissero che avevano una label sulla quale, in passato, avevano pubblicato dei brani e che in quel momento non era in uso, la BXR. Ricordo il primissimo 1001, il 1002, il 1003 e ricordo benissimo le ragioni del blocco della pubblicazione del 1004. Il resto ho preferito rimuoverlo». Il DJ torinese di origini salernitane, noto nelle discoteche piemontesi tipo il Due di Cigliano o L’Ultimo Impero di Airasca, ha già maturato diverse esperienze discografiche, come “Creative Nature” o “Hypnotribe” di cui parliamo rispettivamente qui e qui, ma rimaste sostanzialmente confinate alla platea dei soli appassionati. Con l’arrivo in Media Records le cose cambiano e “Fly”, primo tassello della rinnovata BXR, diventa anche il trampolino di lancio dell’ormai ufficializzata mediterranean progressive. Riadattamento ballabile del tema “Il Tempo Passa” composto da Giancarlo Bigazzi per il film “Mediterraneo” diretto da Gabriele Salvatores, “Fly” plana su struggenti melodie e lunghi accordi che si tuffano tra le onde di un sequencer ipnotico e rotolante che sembra autoalimentarsi per inerzia, senza mai perdere vigore per quasi tutti i nove minuti di durata.

Seguono altri tre brani sul 1002, “Melody Voyager”, “Marimba” ed “Acidismo”, che esaltano lo stile d’agostiniano di allora, stratificato, ritmicamente minimale ed asciutto, adornato da melodie intrecciate ad armonie tra il romantico e il malinconico con frequenti cambi tonali che giocano sui contrasti e fluttuano su nuvole cangianti. In un’intervista rilasciata a Federico Grilli per il magazine Tutto Discoteca Dance a marzo 1996, D’Agostino parla della progressive come «un suono emozionale, energetico e molto convincente» ma ammette di essere conscio che si stia entrando nella fase della commercializzazione: «se prima era un genere destinato a fare tendenza, ora è rivolto alla grande massa che ne fruirà in maniera positiva, come spesso accade in fenomeni simili. Il pubblico reagisce bene e sicuramente ora la risposta è amplificata dato che il fenomeno sta cambiando, prima era ristretto ad alcune realtà locali». Pochi mesi più tardi, ad agosto, l’artista affiderà alla stessa testata un’altra affermazione che conferma la fase ascendente e il desiderio di sfondare i confini alpini: «Credo che la progressive nostrana abbia buone possibilità per imporsi nel mercato europeo e quindi cercheremo di spingerla in ogni occasione, come ho fatto lo scorso 5 luglio al Ministry Of Sound di Londra», ed aggiunge: «la mediterranean progressive è nata dalla personalizzazione da me apportata alla progressive, con suoni minimali e melodie orecchiabili, un po’ spagnole, forse latine, no ecco, proprio mediterranee».

A trainare BXR e Gigi D’Agostino è la compilation “Le Voyage ’96” che Media Records realizza insieme alla Virgin. Gran parte della tracklist è occupata dai suoi brani e remix ma non mancano le già citate “Children” e “Bakerloo Symphony”, “Goblin” della coppia Tannino-Di Carlo ed un paio di titoli d’importazione, “Hit The Bang” di Groove Park (dal catalogo Bonzai, l’etichetta di Fly intervistato qui) e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. Le 80.000 copie vendute de “Le Voyage ’96” e le 60.000 dell’album “Gigi D’Agostino”, in tandem questa volta tra BXR e RTI Music, testimoniano che l’intuizione di scommettere sulla musica strumentale sia giusta e fanno da volano per nuove produzioni dello stesso D’Agostino come “Gigi’s Violin”, dove troneggia un violino talmente ammaliante da far ricordare i Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi, ed “Elektro Message”, versione vitaminizzata di “Live Line” dei tedeschi You. Nel frattempo BXR mette a segno la prima licenza, “Electronic Pleasure” degli N-Trance, ma optando per le versioni trance (quella che si sente in radio finisce invece nel catalogo Signal).

Mauro Picotto - My House
“My House” di Mauro Picotto viene ritirato dal mercato per ragioni ignote

Mauro Picotto si prende il 1004 con la sua “My House”, naturale seguito a “Bakerloo Symphony” che viene per l’appunto remixata sul lato b in due versioni a creare una sorta di tessuto connettivo. Per ragioni mai chiarite del tutto, il disco verrà ritirato dal commercio pochi giorni dopo essere stato distribuito nei negozi. “My House” riappare, insieme ad “Halleluja”, su Pirate Records nel “Progressive Trip”, l’unico che l’artista firma MP8, accorciamento dell’anglofonizzazione M-Peak-8 usata per la poco nota “I Can’t Bear” l’anno precedente. Considerati gli alfieri del movimento mediterranean progressive dell’etichetta bresciana, Picotto e D’Agostino realizzano a quattro mani “Angels’ Symphony” da cui emergono distintamente tutti gli elementi salienti del filone, forse già all’apice del successo. Sul mercato giunge una tiratura che parrebbe frutto di un errore o di un ripensamento, contenente due versioni (Plastic Mix e Tranxacid Mix) che spariscono dal 12″ distribuito con lo stesso numero di catalogo, 1006. I buoni riscontri procurano ad entrambi alcuni ingaggi come remixer, Picotto rilegge “Mantra” dei Datura, D’Agostino invece “The Flame” dei redivivi Fine Young Cannibals, oltre a spartirsi rispettivamente “Turn It Up And Down” e “U Got 2 Know” dei Cappella, un marchio ormai quasi sulla via del tramonto. Alla Media Records poi arrivano nuovi DJ ad infoltire le fila della BXR: il toscano Mario Più, prima con l’estivo “Mas Experience”, una romanza elettronica agghindata da virtuosi sentimentalismi sintetici utilizzata per lo spot dell’Aquafan di Riccione, e poi con l’autunnale “Dedicated”, dedicato alla futura moglie Stefania alias More ed aperto da una citazione straussiana del poema sinfonico “Così Parlò Zarathustra”, il veneto Saccoman con “Pyramid Soundwave” (di cui parliamo nel dettaglio qui), una sorta di rilettura trancey del classico dei Korgis, “Everybody’s Got To Learn Sometime”, e il laziale Bismark, invitato dall’amico Gigi D’Agostino, che con “Double Pleasure” mette a punto un suono bifase lanciato su tensioni alternate che ha già sperimentato in pezzi usciti precedentemente come “Brain Sequences” o “Chrome”.

D'Agostino-RondoVeneziano
Similitudini grafiche tra le copertine dell’album “Gigi D’Agostino” e de “La Serenissima” dei Rondò Veneziano: androidi argentei che suonano strumenti a corda con città futuristiche sullo sfondo

Gigi D’Agostino torna con “New Year’s Day”, rivisitazione strumentale dell’omonimo degli U2. Sul lato b la lunga “Purezza”, quasi dieci minuti di un ribollire celestiale che i fan hanno già conosciuto grazie al citato album “Gigi D’Agostino”, quello col robot violinista e lo skyline di una città del futuro in copertina che sembra rimandare (intenzionalmente o involontariamente?) alle androidizzazioni a cui talvolta vengono sottoposti i menzionati Rondò Veneziano – si veda l’artwork de “La Serenissima”, 1981. Ma in fondo la mediterranean progressive della BXR per certi versi potrebbe essere considerata una proiezione modernista dell’ensemble diretto da Reverberi, coi suoi barocchismi e contrappunti ricamati su arie melodiche zuccherose innestate su arrangiamenti melliflui. L’eurodance delle annate 1992-1994 adesso sembra davvero lontanissima e simbolo di un’età conclusa, rimpiazzata da un suono nuovo proiettato verso il futuro che avanza. «Fatta eccezione per i Cappella, che riscuotono ancora successo in Francia, stiamo invadendo l’Europa con la progressive» afferma con decisione Gianfranco Bortolotti in un articolo di Billboard risalente al 22 giugno 1996. «Il nostro slogan è “The Sound Of The Future” e credo che il più grande vantaggio della dance indipendente sia quello di potersi trasformare rapidamente abbracciando le nuove tendenze. Dalla nostra parte abbiamo quattro dei migliori rappresentanti della scena mediterranean progressive incluso il fondatore, Gigi D’Agostino». Per l’occasione il manager bresciano si conferma come un sostenitore convinto delle nuove tecnologie ed avanza un’ipotesi profetica: «Grazie alla collaborazione con Zero City, provider milanese che offre l’accesso gratuito ad internet, stiamo entrando in un progetto che ci permetterà di avere una visione chiara sul futuro dell’industria musicale. Prima di quanto previsto, la musica verrà venduta attraverso il web, coi clienti che pagheranno uno o due dollari ogni volta che scaricheranno le nostre ultime uscite». A fine ’96 arriva un altro DJ a dare manforte alla squadra della BXR, Riccardo Cenderello, da Sarzana (La Spezia), acclamato in discoteca come l’angelo biondo. Inizialmente noto come Ricky, si trasforma in Ricky Le Roy dopo aver prestato l’immagine ad un progetto di Alex Neri, DJ Le Roy per l’appunto, destinato alla Palmares Records. “First Mission” è, dunque, la sua prima missione discografica ufficiale, uno slancio nel cielo più terso a bordo di un tappeto volante che si ritaglia, grazie all’edenica vena melodica, un posto nell’airplay radiofonico nostrano.

Il 1997 si apre attraverso “My World” di Bismark con cui il DJ romano intinge i pennelli in una mistura agrodolce per realizzare un quadro dalle tinte cromatiche giustapposte. Alla luminosità degli archi corrispondono vortici acidi, binomio che viene ulteriormente sviluppato nei due remix approntati in Belgio da Jan Vervloet, in quel momento all’apice del successo col progetto Fiocco, che la BXR pubblica su un 10″ colorato. A realizzare una versione di “My World” è anche Pablo Gargano, italiano trapiantato nel Regno Unito intervistato qui, seppur questa non finisca nel catalogo dell’etichetta bresciana. Aria di remix pure per “Dedicated” di Mario Più, analogamente solcato su un 10″ splatter blu/nero. Nel contempo il DJ toscano rilegge “I Just Can’t Get Enough” dell’elvetico DJ Energy per la GFB, campionando “Conflictation” di Cherry Moon Trax. Il successo primaverile è comunque “No Name” di Mario Più & Mauro Picotto, una sorta di summa tra “Mystic Force” dell’omonimo artista australiano e “Landslide” dei britannici Harmonix condita con una melodia ricavata da “Close To Me” dei Cure e frammenti ambientali presi dalla pellicola spielbergiana “Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo”. Le potenzialità sono tante al punto che la Media Records lo pubblica anche in formato CD singolo. Si rifanno sentire Saccoman con “Open Your Heart”, trance di facile impatto issata da una melodia triggerata, e Ricky Le Roy col cupo “Tunnel”, più cavernoso e vitreo rispetto al precedente e per questo chiuso in un contesto che riduce al minimo la possibilità di raggiungere l’airplay radiofonico.

Con “Music (An Echo Deep Inside” D’Agostino cerca nuove dimensioni stilistiche. È il primo BXR ad includere l’inserto cartaceo su cui si rinvengono titoli e crediti

Discorso a parte per “Music (An Echo Deep Inside)” di Gigi D’Agostino, brano con cui il DJ torinese inizia ad allontanarsi dalla dimensione iniziale del suo sound, in primis con l’inserimento di una parte cantata incorniciata da una serie di frasi zigzaganti di violino ed un sibilo filmico morriconiano. Nella parte centrale il lirismo vocale è accentuato ed un po’ rammenta quanto sperimentato pochi mesi prima da Marco Grasso in “Melodream” di Bakesky (sulla milanese Diamond Pears diretta da Nando Vannelli) che sovrappone non memorabili stilemi progressive all’italiana agli elementi di un’orchestra (violini, viole, violoncelli, contrabassi, oboe, fagotto ed altro ancora). Anche a livello grafico c’è qualcosa di nuovo: la label copy è occupata, su entrambi i lati, da una foto dell’artista pertanto titoli e crediti finiscono su un inserto di carta infilato all’interno della copertina. La presenza di tale inserto diventa fissa quando l’etichetta rinnova la brand identity (con “Lizard”, 1998), e nel corso del tempo sarà oggetto di variazioni nelle dimensioni. Con “Music (An Echo Deep Inside)” D’Agostino prende le misure di una nuova dimensione artistica in cui immergersi, ma prima di avventurarsi sul percorso che lo trasformerà in uno degli idoli della seconda ondata italodance, si cimenta in una serie di tracce da cui affiora sia la passione per la sampledelia, sia il desiderio di creare qualcosa ex novo, che non assomigli al suo più recente passato forse perché si è già reso conto che l’epoca della mediterranean progressive sia ormai agli sgoccioli e il mercato si è stancato di brani strumentali. La cesura, tuttavia, non è netta ed immediata, “My Dimension”, “Psicadelica” (una specie di nuova “Fly” con ridotti varchi melodici), “Living In Freedom” e “Wondering Soul” (rilettura di “No Time” dei Guya Reg, edita dalla DBX Records di Joe T. Vannelli) contengono ancora chiari retaggi dell’epoca progressive ma in “Bam”, “Tuttobene” e “Locomotive” (rivisitazione di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, già riadattata con successo dagli U.S.U.R.A. in “Open Your Mind” nel ’92) l’artista dimostra la chiara volontà di andare oltre e rimettersi in discussione, anche a rischio di scontentare parte dei fan. Nella vivace “Rumore Di Fondo” rispolvera reticoli ritmici breakbeat, in “All In One Night” trova rifugio in una specie di trance epica trainata da un basso lanciato al galoppo, in “Gin Tonic” rallenta atipicamente i bpm. Non c’è un filo conduttore, sono tracce discontinue che abbracciano un’ampia gamma di sfumature sulla base di impeti creativi nuovi ed un pizzico eccentrici, ad attestare la voglia dell’artista di sperimentare mettendo in comunicazione e in relazione passato e presente, così come avviene in “Gin Lemon”, a posteriori configuratosi come un ibrido tra i cut-up meccanici di “Bla Bla Bla” o “Cuba Libre” e la vocalità umana di “Elisir”. Il pezzo è sequenziato su un sample celebre quanto simbolico per la house music continentale, il “pump up the volume” preso da “I Know You Got Soul” di Eric B. & Rakim ed eternato dai M.A.R.R.S. in “Pump Up The Volume” per l’appunto, di cui parliamo qui. Tutto questo avviene nel “Gin Lemon EP”, un avventuroso, eterogeneo e bizzarro triplo mix disponibile anche in versione colorata (verde, giallo, rosso) diventato ambito per i collezionisti. Altrettanto ricercata l’edizione su CD decorata dall’artwork di Tiberio Faedi intervistato in Decadance Extra, per cui sono stati già sborsati 450 €. Dall’extended play vengono estratti vari brani incisi su un 12″ contenente anche il remix di “Music (An Echo Deep Inside)” a firma Mario Scalambrin, vicino al modello utilizzato per la sua Van S Hard Mix di “Baby, I’m Yours” dei 49ers di cui parliamo qui. Nel contempo anche “Gin Lemon”, l’unico a colpire nel segno e finire nelle rotazioni radiofoniche, viene riversato su un singolo sul quale, tra le varie versioni, c’è pure una R.A.F. Zone Mix di Picotto in bilico tra hard house d’oltremanica e pizzicato style teutonico.

Mario Più (1997)
Mario Più in una foto del 1997

Progetto-miscellanea è anche quello di Bismark che incide un doppio mix intitolato “Project 696”, omonimo del programma radiofonico in onda su Power Station ai tempi condotto con Luca Cucchetti così come lui stesso racconta qui. All’interno sei tracce sviluppate intorno alla trance ma con ampie divagazioni che toccano solarità (“Female Vox”, “Trance Sensation”) e stratificazioni più scure (“Synthesis”) passando per echi mediterranean progressive (“Shadow”), rimbalzi à la “Chrome” (“Space Is The Place”) ed impervie modulazioni drum n bass miste a pulsioni speed garage (“Give Yourself 2 Me”). “Project 696” avrebbe dovuto anticipare l’uscita dell’album, così come annuncia lo stesso Bismark in un’intervista rilasciata a Barbara Calzolaio a novembre 1997, ma il progetto non andrà mai in porto. Sempre in autunno la BXR tira fuori un’altra hit destinata alle radio e al circuito più commerciale, “All I Need” di Mario Più Feat. More, un brano costruito sulla falsariga dei successi dei tedeschi Sash! che conquista licenze sparse per il mondo, Regno Unito e Stati Uniti inclusi con l’interesse mostrato dalla MCA. Una delle versioni remix, la Love Mix, uscita un paio di mesi più tardi, ricalca invece i suoni di “Come Into My Life” di Gala. Parallelamente Mario Più incide la strumentale “Your Love”, con l’aiuto e il supporto di Mauro Picotto e Francesco Farfa, destinata alle discoteche e per questo siglata con l’appellativo Club aggiunto al suo nome.

1998, un anno di transizione
Il primo BXR del 1998 è “All 4 One”, un EP contenente quattro tracce di altrettanti artisti. Da un lato Mario Più e Gigi D’Agostino, rispettivamente con una versione semistrumentale di “All I Need” (un possibile edit della Massive Mix?) e con la citata “All In One Night” presa dal descritto “Gin Lemon EP”, dall’altro Mauro Picotto e Ricky Le Roy, il primo con “Jump”, rivisitazione del marziale “Mig 29” di Mig 29, un classico hooveristico del 1991 tratto dal catalogo Pirate Records realizzato da Mauro ‘Pagany’ Aventino e Francesco Scandolari, il secondo con “Bridge”, riapparso poco tempo dopo col titolo “Speed” e modellato sulla falsariga dei successi dei B.B.E., “Seven Days And One Week” e “Flash”. Ai più attenti non passa inosservato il salto di parecchi numeri di catalogo, quasi una ventina (dal 25 al 43): ai tempi la Media Records spiega che la serie compresa tra il 1026 e il 1042 è destinata ad uso interno e non per dischi commercializzati ma in seguito emergerà una ragione più plausibile legata al fallimento del distributore, la Flying Records, a cui subentra temporaneamente la milanese Self. Sembra che il disallineamento del catalogo possa essere stato causato da quel passaggio ma non è dato sapere se ai diciassette numeri mancanti furono effettivamente attribuiti dei brani rimasti in archivio. Nei primi mesi dell’anno nei negozi arriva anche il nuovo di Saccoman, “Magic Moments”, ascritto a quel tipo di trance che il DJ programma come resident al Cocoricò di Riccione. A ruota segue Ricky Le Roy con “Speed”: se la Blond Angel Mix ha il tiro della hard house britannica sul modello di “Keep On Dancing” dei Perpetual Motion, la Sara Song Mix (già in circolazione col titolo “Bridge”, come annunciato poche righe sopra) batte più sul filone franco-teutonico con svirgolate acide e pause melodiche. Due i remix: quello techno di Francesco Farfa nascosto dietro Mr. Message, pseudonimo utilizzato poco tempo prima per lanciare la Audio Esperanto, e quello di Tony H chiamato Strobo Mix, presentato in anteprima nel suo programma del sabato notte su Radio DeeJay, “From Disco To Disco”, e costruito sullo stampo di “Black Alienation” che il compianto Zenith destina alla IST Records di Lenny Dee.

Mauro Picotto - Lizard
“Lizard”, il disco della svolta internazionale per Picotto e per la stessa BXR

La BXR naviga in una sorta di limbo: ormai la mediterranean progressive è un ricordo, per alcuni persino scomodo, ed urge scovare un nuovo filone da battere per tenere alto l’interesse. La svolta è dietro l’angolo ma nessuno lo sa ancora, incluso l’autore del brano che sancirà il “next step”, Mauro Picotto. L’accoglienza riservata alla sua “Lizard”, nella primavera del 1998, è piuttosto tiepida. Le quattro versioni racchiuse sul mix sono radicalmente diverse l’una dall’altra, ma una di esse risulterà determinante per gli sviluppi futuri, la Tea Mix, contraddistinta da un particolare disegno di basso (simile a quello della Explorer Version di “Dune” di Valez, Subway Records, 1994) la cui genesi viene raccontata dall’artista nel suo libro, “Vita Da DJ – From Heart To Techno” e che noi già svelammo, attraverso l’intervista al musicista Andrea Remondini, in Decadance Appendix nel 2012. L’effetto Larsen avvenuto al Joy’s di Mondovì genera una reazione euforica del pubblico e così Picotto, con l’aiuto del citato Remondini, cerca di riprodurlo in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando, un paio di mesi più tardi, arrivano i remix. In particolare, come raccontato qui, è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale e una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary e, forse, dal riff di “Prophecy” dei WW 3 (l’assonanza è particolarmente evidente nella Marathon Mix). Corre voce che a dare la spinta decisiva al brano sia stato Junior Vasquez dopo aver convinto John Creamer, l’A&R della Empire State Records (division della nota Eightball Records), a licenziarlo negli States. A ruota seguono Judge Jules, Graham Gold e soprattutto Pete Tong che lo inserisce in Essential Mix su BBC Radio 1 e che, poco tempo dopo, ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”. Il pezzo farà il giro del mondo aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per il DJ piemontese. “Lizard” è anche il primo disco che BXR pubblica con un rebranding grafico, contraddistinto ancora dall’immagine del pianeta ma avvolto in una sorta di spirale ciclonica e che per qualche tempo viene utilizzato (in ordine randomico?) insieme al primo, in uso dal 1996. Titoli e crediti, come preannunciato nel precedente paragrafo, finiscono su un inserto cartaceo allegato.

Gigi D'Agostino - Elisir
“Elisir” di Gigi D’Agostino, un successo dell’estate 1998 che però “disarciona” la BXR dalla posizione legata a generi come progressive e trance

Con l’arrivo dell’estate escono due dischi dichiaratamente pop che seguono la strada aperta da “All I Need”, “Sexy Rhythm” di Mario Più, ispirata da “Your Love” dei canadesi Lime, ed “Elisir” di Gigi D’Agostino, interpretata in incognito da David Michael Johnson che per la Media Records ha già inciso alcuni brani tempo prima tra cui la cover di “I Say A Little Prayer”. Come emerso dai contenuti del “Gin Lemon EP” uscito negli ultimi mesi del 1997, D’Agostino è in cerca di un’evoluzione e la trova, come lui stesso afferma in un’intervista del settembre ’98, in una via di mezzo tra house e progressive, «sempre con sonorità energetiche ma senza ritmi troppo ossessivi. I tempi cambiano, le ore corrono e si è già arrivati al nuovo capitolo». A dirla tutta di progressive in “Elisir” resta poco e niente, in prima linea c’è la marcetta che prende le mosse dalla verve sampledelica di “Gin Lemon” e la parte vocale (con qualche similitudine che vola a “Closer” di Liquid) esplosa nel ritornello sorretto dal pianoforte, ma questo non è il piano imperante in stile “Children” di Robert Miles, è piuttosto un elemento coadiuvante che l’autore adopera, con la complicità del musicista Paolo Sandrini, per creare un nuovo standard della dance. La posizione da DJ attivo solo in club di settore forse inizia a stare stretta a D’Agostino, vuole una nuova collocazione nella scena ma soprattutto nel mercato discografico, e questo lo si intuisce sin dai tempi di “Music (An Echo Deep Inside)” che intende andare oltre l’inflazionata mediterranean progressive. Ora riesce a trovare la quadra con una formula alchemica inaspettata per i suoi fan più incalliti e destinata a gettare i semi della seconda ondata italodance, attesa dalle grandi platee generaliste dopo la parentesi del biennio ’96-’97. “Elisir”, licenziato in parecchi Paesi europei ma anche negli States dove la Tommy Boy lo pubblica col titolo “Your Love”, viene salutato con tripudio dalle radio ed anche dalle tv. Memorabile l’apparizione ad “Italia Unz” su Italia 1, in cui D’Agostino sceglie di starsene comodamente sdraiato su un materassino gonfiabile piuttosto che mimare imbarazzanti performance in playback, lasciando invece il compito a David Michael Johnson di occuparsi del (pare necessario) lip-sync. Quella di “Sexy Rhythm” ed “Elisir” è una doppietta, disponibile anche in formato CD, che garantisce ottimi risultati alla Media Records, specialmente in riferimento ad “Elisir”, ma che nel contempo lascia spiazzato chi pensa alla BXR come etichetta legata a soluzioni meno commerciali e più vicine alla progressive (prima) e trance (poi). Che fine hanno fatto gli intenti di sfondare la barriera del prevedibile formato canzone? C’è forse la necessità di tornare a formule più canoniche e tradizionali per mantenere viva l’attenzione del pubblico?

Una foto dell’autunno 1998 in cui si scorge l’ideogramma che Picotto si “tatua” sui capelli: da lì a breve il simbolo diventa un elemento identificativo della sua immagine

A diversificare l’offerta, tenendo un piede nella dimensione più appetibile ai club e al frangente internazionale, sono comunque Tony H con “Zoo Future” (la versione destinata alle radio, la Lion Mix, ricicla il riff di “Get The Balance Right!” dei Depeche Mode) e Bismark con “Street Festival”, pensato come colonna sonora dell’omonimo evento che si tiene a Roma domenica 21 giugno e il nome delle quattro versioni (Colosseum Mix, Fori Imperiali Mix, Piazza Venezia Mix, Circo Massimo Mix) non lascia adito a dubbi sul legame con la Città Eterna. Alla manifestazione, organizzata sul modello della berlinese Love Parade ideata quasi dieci anni prima da Dr. Motte e Danielle de Picciotto intervistata qui, partecipano decine di DJ che si alternano su consolle allestite su camion. La Media Records ha un proprio carro sul quale si esibiscono praticamente tutti gli artisti della scuderia. Quell’estate al debutto su BXR ci sono anche i fratelli Giorgio ed Andrea Prezioso ed Alessandro ‘Marvin’ Moschini con “I Wanna Rock”, un divertente cut-up pubblicato pure su CD (con la copertina curata da Tiberio Faedi) ottenuto incrociando su una trascinante base hard house le chitarre di “Should I Stay Or Should I Go?” dei Clash ed un frammento vocale di “It Takes Two” di Rob Base & DJ E-Z Rock. L’idea però non raccoglie consensi analogamente a “Burning Like Fire / The Pinzel” che i tre firmano Stop Talking su GFB poche settimane prima. La rivincita, come si vedrà avanti, arriva circa dodici mesi più tardi. Ad anticiparla è “Hardcat” che Giorgio Prezioso realizza con Picotto come Tom Cat ma su Underground. La tornata autunnale continua ad alternare pezzi di estrazione trance/hard trance ad altri crossover: si passa così da “Distant Planet” di Saccoman, adorato da Talla 2XLC, a “Unicorn” di Mario Più, da “Under The Sea” di Ricky Le Roy ai remix di “Zoo Future” di Tony H (tra cui quello dei tedeschi DuMonde prossimi all’affermazione mondiale), da “Honey” di Mauro Picotto, ricamato sul giro di “Two Tribes” dei Frankie Goes To Hollywood ed affiancato sul lato b dalla coriacea “Smile” con una risata beffarda, a “Cuba Libre” di Gigi D’Agostino, un’ossessiva marcetta (licenziata negli States dalla Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez ma col nome Noise Maker) sincronizzata sui vocal di “Caught, Can We Get A Witness?” dei Public Enemy, già rispolverati con successo tempo prima dai Natural Born Chillers in “Rock The Funky Beat” in chiave drum n bass. A fine anno giunge “Spectra”, il primo col centrino su fondo verde e il pianeta irriconoscibile per la gradazione cromatica, con cui Mario Più e Mauro Picotto rinnovano il sodalizio e campionano la sezione ritmica di “Spastik” di Plastikman per innestare all’interno l’essenza del nuovo “BXR sound” che marchierà l’annata seguente.

Gigi D'Agostino - Bla Bla Bla
“Bla Bla Bla”, il primo successo messo a segno dalla BXR nel 1999

1999, verso ambiziosi obiettivi con hit internazionali e un nuovo logo
Per BXR il 1999 si apre all’insegna della neo eurodance di Mario Più Feat. More con “Run Away”: il DJ toscano continua ad alternare produzioni trance/hard trance ad altre di stampo prettamente pop come questa in cui, col tocco di Paolo Sandrini come arrangiatore, cerca di riagguantare l’essenza che ha fatto la fortuna dell’eurodance/italodance nostrana tra 1993 e 1994 con ovvi update del banco suoni e con l’esclusione del rap maschile a vantaggio di un’unica voce, quella femminile. Sul 12″ e sul CD singolo figura anche una versione di estrazione filo drum n bass, la Free Style Mix, forse pensata per il territorio britannico dove alcuni esperimenti simili, tipo quello di “Before Today” degli Everything But The Girl, destano particolare interesse. Il primo centro dell’anno, seppur in circolazione da diversi mesi (a dicembre ’98, quando è ancora privo di titolo, Picotto lo recensisce sulle pagine di DiscoiD definendolo «un pezzo che ha dell’incredibile»), è rappresentato da “Bla Bla Bla” di Gigi D’Agostino: edificato su una base simile a quella di “Elisir” e di “Cuba Libre”, la traccia diventa presto un autentico tormentone grazie al fulminante e ribaltante uso di un campionamento vocale tratto da “Why Did You Do It” degli Stretch, tagliato e montato a mo’ di filastrocca nonsense («l’ho realizzato pensando a tutta quella gente che parla tanto senza dir niente» dichiarerà poco tempo dopo l’autore, che in copertina vuole una massima del filosofo Voltaire). Il lato b è occupato per intero dalla Africanismo Mix di “Voyage”, poco più di quindici minuti trasognati e vissuti all’interno di uno shaker che frulla una particolare scansione ritmica che travalica i generi, a riprova della volontà di D’Agostino di dare costantemente una spinta in avanti alla sua musica. “Bla Bla Bla”, per cui viene realizzato un video-parodia de La Linea di Osvaldo Cavandoli, entra in dozzine di compilation e conquista il vertice di un numero imprecisato di classifiche. È il primo disco che BXR affida ad un nuovo distributore, la campana Global Net, lì dove lavora Daniele ‘Dany T’ Tramontano che a tal proposito rammenta: «Un mattino arrivarono in prima battuta diecimila copie di quel BXR e la sera ne erano rimaste forse appena cinquecento».

label variation
Due variazioni grafiche utilizzate dalla BXR tra 1998 e 1999

In primavera si ripresenta Mauro Picotto con “Pulsar”, un pezzo trance dedicato alla figlia primogenita Alessia che ricalca prevedibilmente lo schema di “Lizard” con l’aggiunta di un hook vocale che fa lo spelling del nome dello stesso artista. Tante le versioni approntate, due delle quali finite su un secondo 12″ codificato come Deeper Mixes. Nella stagione dei fiori si fanno risentire anche Bismark con gli affreschi melodici di “Parapapa”, e Tony H con “Sicilia…You Got It!”, che passa dalla tempestosa hard trance con tagli lavici acid della Etna Vulcan Mix alla ridente Taormina Mix, una specie di risposta a “Bla Bla Bla” che usa il campione vocale di “Ride The Pony” dei Peplab abbinato ad una linea melodica in stile “Profondo Rosso”. Curiosità: la Stromboli Mix viene pubblicata quasi contemporaneamente su Pirate Records ma con titolo ed autore differenti, “Mutation” di Pivot. Poco tempo dopo per la medesima etichetta Tony H realizza, con Picotto, “Venezia” di Venice, scandito da un fraseggio di violini che rilancia le atmosfere mediterranee di qualche anno prima. Riappare pure Saccoman con “The Bounce”: le due versioni sulla logo side, la Jumpin’ e la Pumpin’, girano sul classico disegno trance che il DJ veneto spinge in discoteca, mentre sulla info side trovano spazio la Surfin’, con una stesura ed evoluzione progressive che ricorda un classico di quattro anni prima, “Pleasure Voyage” di X-Form al quale abbiamo dedicato qui un articolo, e la Teain’ a firma Picotto, un incrocio tra la sua “Lizard”, un frammento di “Communication” di Mario Più di cui si parla più avanti, e le percussioni di “20Hz” di Capricorn. A ridosso dell’estate BXR prende in licenza per l’Italia “The Launch” dell’olandese DJ Jean, rivisitazione di “The Horn Song” di The Don del 1998 che funziona nei Paesi del Nord Europa ma che da noi fatica a spopolare seppur finisca in diverse compilation tra cui quella dedicata all’Energy mixata da Molella, e “Dream A Dream” dei Captain Jack, act hard dance di Colonia prodotto da Eric Sneo e remixato dai DuMonde. È tempo pure di una tripletta di remix, “Unicorn” di Mario Più, “Tunnel” di Ricky Le Roy e “Lizard” di Mauro Picotto che sbarca ufficialmente oltremanica attraverso la VC Recordings del gruppo Virgin. Proprio su “Lizard” mettono le mani il britannico Tall Paul, reduce dal successo di “Let Me Show You” di Camisra, e Gigi D’Agostino che disfa e ricostruisce il puzzle riciclando un frammento ritmico della sua “Elisir”. Proprio Picotto riporta in vita, per l’ultima volta, l’alter ego R.A.F. By Picotto per “America”, ennesimo derivato di “Lizard”. Sul lato b il remix di “Tuttincoro”, pubblicato a fine ’98 sulla Pirate Records e germogliato su “Leave In Silence” dei Depeche Mode.

Prezioso e Mario Più
Altre due hit annuali della BXR, “Tell Me Why” di Prezioso Feat. Marvin e “Communication” di Mario Più

Dopo il poco fortunato “I Wanna Rock”, i fratelli Prezioso si prendono la rivincita: accompagnati dalla voce di Marvin e con la collaborazione di Paolo Sandrini, incidono “Tell Me Why”, una hit dell’estate ’99 per cui viene girato un videoclip e che finisce al Festivalbar quell’anno presentato da Fiorello ed Alessia Marcuzzi. Nel pezzo i più attenti riconoscono due principali ispirazioni, la tastiera di “Talking In Your Sleep” dei Romantics e la strofa di “Family Man” di Mike Oldfield, ma quello dei Prezioso Feat. Marvin non è un collage figlio della sampledelia più macchinosa, sullo stile dei programmi radiofonici “blobbistici” di Giorgio, ma una canzone solare e perfetta per le platee delle megadiscoteche, non solo italiane a giudicare dal numero di licenze macinate in diversi Paesi del mondo. Va particolarmente bene in Svizzera, in Danimarca ma soprattutto in Austria e in Germania, piazzato rispettivamente in seconda e decima posizione della classifica di vendita. Proprio nella terra dei crauti i tre tengono parecchie serate ed apparizioni televisive come questa su RTL. Un’altra mina lasciata deflagrare dalla BXR nell’estate ’99 è “Communication” di Mario Più: colorita dal suono dell’interferenza del telefono cellulare, parallelamente usato dai Dual Band (Paolo Kighine e Francesco Zappalà) in “GSM” sulla modenese Stik, la traccia attinge (ancora) le forze dallo schema di “Lizard”, mietendo consensi grazie ad una potente dinamica del suono e rumorose rullate che fanno impazzire gli amanti dell’hard trance. Sul lato b figura “Hertz”, cover di un brano che Mario Più suona spesso nelle sue serate, “Pleasure” dei belgi The Squeakers pubblicato nel ’98 su etichetta Hertz. Il grande successo di “Communication” viene garantito però da un remix che giunge a distanza di qualche mese, quello realizzato oltremanica da Yomanda, scelto per sincronizzare il videoclip e sviluppato sulla base della More Mix. Il brano conquista il vertice della Top 40 Club Chart UK con circa 200.000 copie vendute, e l’autore viene ribattezzato “il Fatboy Slim italiano”. In autunno è tempo di una versione di Picotto firmata come Lizard Man. Parallelamente esce “Serendipity” con cui Mario Più rispolvera la melodia di “Showroom Dummies” dei Kraftwerk ed ufficializza la paternità del progetto DJ Arabesque, partito nel ’97 su etichetta Underground. Dopo i vari featuring per Mario Più, More (ex frontwoman dei T-Move Experience inizialmente nota come Jody Moore) incide il primo singolo da solista, “4 Ever With Me”. Il pezzo si inserisce in quella rosa di dance made in Italy al femminile interpretata da cantanti come Kim Lukas, Ann Lee o Neja. A fronte di ciò, il progetto traslocherà presto sulla division pop della BXR, la W/BXR, di cui si parla più avanti.

Mauro Picotto - Iguana
“Iguana”, il follow-up di “Lizard”, è una conferma per la carriera internazionale di Mauro Picotto

Se sino al 1998 il successo dell’etichetta è stato episodico ed occasionale, dal 1999 i trionfi diventano quasi sistematici. È il momento in cui la BXR catalizza l’attenzione della stampa internazionale che ne parla come squadra composta esclusivamente da DJ attivi nelle discoteche di settore e per questo particolarmente abili nell’intercettare i gusti del pubblico. «Abbiamo messo sotto contratto i più importanti disc jockey provenienti da differenti regioni italiane offrendo loro facoltà di produrre la musica che amano proporre durante le proprie serate» spiega Picotto in un articolo di Mark Dezzani pubblicato su Billboard il 12 giugno 1999. «Ci siamo accorti che esiste un grande mercato per la musica progressive/techno seppur le emittenti radiofoniche italiane, fatta eccezione per quelle specializzate, continuino a preferire house e pop dance» prosegue Bortolotti. «Abbiamo dunque deciso di alimentare e sviluppare ulteriormente questi generi più sperimentali e sfruttare internet per promuoverli anche se i software per scaricare illegalmente dalla Rete brani in formato MP3 metteranno presto in ginocchio il mondo della musica. Piuttosto che ignorare questa nuova realtà, però, useremo la tecnologia per portare online il nostro catalogo». Due le importanti novità autunnali: la prima riguarda il cambiamento di logo, con la X rossa in evidenza che manda definitivamente in soffitta le declinazioni grafiche precedenti, la seconda l’avvio di tre serie, Claxixx, Club e Superclub, rispettivamente contraddistinte dai colori bianco, nero ed argento e nate col fine di categorizzare in modo più accurato le pubblicazioni in base ai suoni e il pubblico di riferimento. Questa gradazione cromatica abbraccia inoltre le copertine generiche, sino a questo momento stampate in cinque colorazioni (rosso, nero, blu, giallo, celeste). Il primo ad essere interessato dal nuovo ordine/raggruppamento è “Iguana” di Mauro Picotto, follow-up di “Lizard” in cui l’autore torna ad utilizzare un sample vocale (preso da un live dei Kiss in cui la band esegue “Hotter Than Hell”) che ha già inserito nella sua prima produzione destinata alla Media Records, “We Gonna Get…” del 1991, ai tempi “ritagliato” da “Adrenalin” degli N-Joi. Sono svariate le versioni approntate tanto che nel complesso “Iguana” occupa tutte le serie, la Claxixx, la Club e la Superclub. Nel pacchetto è incluso anche un remix a firma Blank & Jones con cui i tedeschi ripagano la versione che Picotto realizza per la loro “After Love” uscita quasi in contemporanea. Il successo di “Iguana” tocca tutta l’Europa, in particolare la Germania dove resta per settimane al vertice delle classifiche di vendita. Viene prevedibilmente girato un videoclip diretto da Oliver Sommer e finito in high rotation su MTV, VIVA e tutte le principali tv musicali.

BXR Superclub apertura
Uno degli advertising con cui viene annunciata l’apertura del BXR Superclub, il 9 ottobre 1999

A consolidare ulteriormente la posizione, la promozione e la comunicazione di BXR, sono due progetti collaterali: uno su Italia Network, prossima a trasformarsi in RIN, chiamato Maximal, che porta in scena i DJ dell’etichetta con selezioni musicali in cui vengono palesate le coordinate dei brani selezionati, l’altro sul fronte discoteca con l’apertura, sabato 9 ottobre presso lo Shibuya di Rezzato, del BXR Superclub, il miglior palcoscenico che i DJ della Media Records potessero avere in quel momento, seppur rimanga in attività per appena una stagione (la serata di chiusura è del 20 maggio 2000). Maximal e il BXR Superclub veicolano in modo ferreo il suono del pianeta BXR, non più quello celeste del periodo mediterranean progressive bensì uno fiammeggiante rosso fuoco ben visibile sulla copertina del primo volume della “BXR Superclub Compilation”. Entrambe si rivelano presto come due straordinarie vetrine pubblicitarie in un periodo in cui il pubblico, o perlomeno quella parte di esso rappresentata dai fan più sfegatati, si emoziona e si sente fortunata ad ascoltare in anteprima i nuovi brani dei propri beniamini della consolle. Scommettendo su nomi nuovi anche a rischio di non centrare perfettamente l’obiettivo, la BXR mette a segno altre tre licenze, “Gouryella” dei Gouryella alias Tiësto e Ferry Corsten (dal catalogo Tsunami), il remix di “Madagascar” degli Art Of Trance (dal catalogo Platipus), e “The Day” di Lunatic House Sounds (dal catalogo DiKi Records, quella di Age Of Love di cui parliamo approfonditamente qui). Spazio anche agli artisti interni come Bismark con “Reactivate”, Massimo Cominotto con “Minimalistix” (il primo inciso per la BXR dopo un biennio vissuto su Underground), e Tony H con “Tagadà / www.tonyh.com”. «Il tagadà è una giostra techno con un movimento tipo centrifuga, e questo movimento mi fa pensare ad una rullata devastante con effetto energizzante sul corpo, lo stesso che il mio disco vuole ricreare» spiega l’autore ai tempi. «A “Tagadà” si aggiunge “www.tonyh.com”, proprio come il mio nuovo sito internet» conclude. Poi tocca a “Slave To The Rhythm”, cover dell’omonimo di Grace Jones realizzata dai PPK, progetto one shot nato sull’asse italo-britannico formato da Pete Pritchard, Mauro Picotto e Ben Keen alias BK (PPK è l’acronimo dei loro cognomi). Negli ultimi giorni dell’anno arriva infine “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, trance dolcemente immersa in atmosfere orientaleggianti rimarcate dalla grafica in copertina da cui affiorano i loghi degli autori.

Gigi D'Agostino - Tanzen
La copertina di “Tanzen” che nel ’99 apre il catalogo di W/BXR

Canalizzazioni tematiche per fare ordine
Il catalogo della BXR inizia a essere troppo eterogeneo: a produzioni di stampo progressive e trance se ne aggiungono altre prettamente pop ma tale sovrapposizione di mondi musicali, oltre a risultare dispersiva, disorienta i seguaci. Al fine di convogliare tutti quei pezzi dichiaratamente mainstream quindi, nel 1999 viene creata una “filiale” apposita, la W/BXR, partita col triplo “Tanzen” di Gigi D’Agostino che al suo interno raccoglie futuri successi (“The Riddle”, la strumentale “Passion” poi diventata “La Passion”, “Another Way”), nuove marcette ipnotiche à la “Cuba Libre” (“Acid”, “Movimento”, pubblicata l’anno prima su Underground e firmata come Noise Maker, “Coca & Havana”), rimembranze tranceoidi rilette a suo modo (“One Day”), una nuova versione di “Bla Bla Bla” intitolata Dark Mix, una sorta di remix della stessa, “A. A. A.”, realizzato da Mario Più e Ricky Effe, ed anche una hit mancata, “Star”. Per un anno circa la W/BXR raduna le ramificazioni della BXR destinate alle grandi masse generaliste, da “Let Me Stay” dei Prezioso Feat. Marvin ad “Around The World” di More passando per “Ritual Tibetan” dei Kaliya e le versioni vocali di “Techno Harmony” di Mario Più e di “Arabian Pleasure” di Mario Più & Mauro Picotto, quest’ultima interpretata dalla cantante algerina Amel Whaby. Dopo diciassette uscite, il progetto viene assorbito dalla ex Noise Maker ora NoiseMaker, riavviata con l’album “L’Amour Toujours” attraverso il quale D’Agostino si consacra a livello planetario radunando attorno a sé un oceano di supporter estatici, talvolta animati da una devozione ai limiti del fanatismo.

BXR Club, Gold, Sacrifice
I dischi inaugurali di BXR Club, BXR Gold e Sacrifice

Sempre del 1999 è una sottoetichetta di BXR chiamata BXR Club, nata con lo scopo di raccogliere le produzioni dal carattere più schiettamente clubby e con nessuna probabilità di fare crossover. A tagliare il nastro inaugurale è Gabry Fasano con “Jaiss Bangin'”, presto seguito da “Metempsicosi” di Ricky Le Roy (omonimo del gruppo di DJ a cui appartiene, fondato nella primavera del 1997), “Imperiale” di Mario Più & Mauro Picotto (con una pausa sonorizzata sulla melodia di “Merry Christmas Mr. Lawrence” di Ryuichi Sakamoto, dal film “Furyo”) e “Red Moon” ancora di Ricky Le Roy, che arriva a fine ’99 e chiude la breve parentesi rimpiazzata dalla categorizzazione distinta tra Claxixx, Club e Superclub di cui si è già detto sopra. Nell’estate del 2000 nasce la BXR Gold, espediente con cui la Media Records rimette in circolazione alcuni pezzi del repertorio BXR (ma non solo, qualcosa proviene dai cataloghi GFB ed Underground), organizzati in diversi EP che fanno felici i collezionisti seppur alla fine il progetto pecchi un po’ come esercizio autocelebrativo. Pochi mesi più tardi parte invece Sacrifice, etichetta che si colloca in posizione mediana tra Underground e BXR, sia per declinazione grafica che sonora. A marchiare la maggior parte delle pubblicazioni sono le lettere dell’alfabeto ellenico usate per siglare i nomi degli autori. A suggellare il tutto una linea di merchandising e l’apertura di branch sparse per l’Europa (Regno Unito, Germania, Benelux) che rappresentano un supporto valido ed utile per penetrare più capillarmente nei territori esteri.

Mauro Picotto - Pegasus
Sopra la copertina di “Pegasus”, sotto la foto da cui viene sviluppata la grafica

2000-2001, alla conquista del mondo con la supertechno
Uscita indenne dal temuto millennium bug, la BXR inizia il nuovo anno/secolo/millennio lanciando il sito web, che include anche un frequentatissimo forum, e riprendendo il discorso lasciato in sospeso a fine ’99 con “Arabian Pleasure” con canti esotici che fanno venire subito in mente dune, palmeti e qualche oasi. Adesso a marciare verso la calura desertica a bordo di un rullo compressore che fa il verso ai disegni di basso hi NRG di Bobby Orlando è Ricky Le Roy con “Tuareg”. Pronto probabilmente dall’autunno, esce in pieno inverno “Autumn” che dà avvio al progetto Lava, nato tra Italia e Germania dalla collaborazione tra Mauro Picotto, Riccardo Ferri e Tillmann Uhrmacher, DJ tedesco e noto speaker radiofonico su Sunshine Live dove conduce il programma Maximal, che divide solo l’omonimia con quello prima descritto e trasmesso da Italia Network. Come solista, Mauro Picotto sfodera “Pegasus”: la Tea Mix contiene ancora elementi lizardiani ma appare subito chiaro che il DJ si stia stancando di riciclare il basso “wuooom wuooom” ricavato da un vecchio BassStation Novation abbinato ad infinite rullate di snare, schema peraltro imitato da un numero sempre più consistente di competitor già dal 1998 (si sentano, ad esempio, “Enjoy” di Alex Castelli o “Zi-Muk” di CAP). La Superclub Mix di “Pegasus” difatti sposta il baricentro verso costrutti più intrisi di (hard)groovismo post millsiano, arricchito da una vena italo/europea. È uno dei primi brani con cui si inizia a parlare di supertechno, un nuovo filone che BXR, quell’anno premiata dalla rivista tedesca Raveline e corteggiatissima al Midem di Cannes e al Winter Music Conference di Miami, annuncia di seguire per scrollarsi di dosso il passato e restare fedele allo storico payoff della casa madre, “the sound of the future”. In copertina finisce l’elaborazione grafica di una foto scattata nei corridoi della Media Records da cui spicca il pittogramma asiatico giallo che Picotto si “tatua” all’altezza della tempia sinistra sin dall’autunno del ’98 e che diventa una vitale caratteristica della sua immagine pubblica nonché tag identificativa sulle copertine dei dischi. 

Mario Più - Techno Harmony
“Techno Harmony” conferma l’exploit internazionale di Mario Più

Analogamente a Massimo Cominotto, anche Joy Kitikonti approda su BXR dopo aver inciso svariati brani, pure sotto pseudonimi, su altre etichette del gruppo bortolottiano (Underground, GFB, Audio Esperanto). Il debutto sulla label, privo di botto ma solo posticipato di un anno circa, avviene attraverso “Agrimonyzer” in cui il DJ toscano fa sfoggio di numerose linee tambureggianti, retaggio delle esperienze giovanili come batterista. In particolare in una delle quattro versioni, la Hacker’s Mix, campiona il suono emesso dagli ormai obsoleti modem analogici a 56k, quella specie di telefonata non vocale che permetteva di entrare in Rete, un mondo che in quel momento inizia la corsa alla popolarizzazione su larga scala. Reduce dallo strepitoso successo oltremanica ottenuto con “Communication”, Mario Più appronta un follow-up mirato ad espandere la propria fanbase oltre i confini nazionali. In primavera è quindi la volta di “Techno Harmony”, una traccia nata in seno al fermento eurotrance che diventa canzone col titolo “My Love” grazie all’apporto vocale di Maurizio Agosti meglio noto come Principe Maurice, celebre performer del Cocoricò di Riccione. Come da copione, secondo una procedura in uso sin dai primi anni Novanta, la Media Records appronta un alto numero di versioni incise su vari 12″ e sul CD singolo. Gli sforzi vengono premiati, il brano vola alto nelle classifiche internazionali e conquista numerose licenze in primis nei Paesi chiave per la discografia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Mauro Picotto - Komodo
Con “Komodo” Mauro Picotto chiude la trilogia dei rettili e tocca l’apice della popolarità

Non da meno è certamente Mauro Picotto con “Komodo”, con cui chiude la trilogia rettiliana iniziata (non intenzionalmente) nel ’98. Annunciato come “Komodo Dragon” e col featuring dei Deep Forest che sarebbe stato legittimato da un campionamento della loro “Sweet Lullaby”, il pezzo, descritto dalla stampa come una specie di medley tra trance e world music, viene poi commercializzato più semplicemente come “Komodo” e trainato da un videoclip ancora diretto da Oliver Sommer in cui Picotto veste i panni di un investigatore che indaga su una serie di morti sospette. Il testo scritto ex novo sulla melodia di “Sweet Lullaby” diventa “Save A Soul” usato come sottotitolo. Sul 7″ allegato al doppio mix che la BXR pubblica in primavera inoltrata figura “Come Together”, brano downtempo (praticamente un mix tra “Save A Soul” e “Komodo”) che riflette un lato inedito di Picotto legato alla musica lounge e chillout. È il momento in cui l’artista piemontese tocca l’apice commerciale della carriera, finendo nelle lineup di eventi dalla risonanza internazionale come MayDay, Love Parade, Time Warp, Gatecrasher, Atlantis ed Homelands, in club come il Twilo di New York, nella Top 100 DJs di DJ Mag (al 27esimo posto) e sul palco di Top Of The Pops dove non mima azioni su una consolle spenta, così come solitamente è costretto a fare chi viene dal mondo delle discoteche per sottostare agli stringati tempi televisivi. Senza ovviamente tralasciare la sfilza di remix già approntati per artisti del calibro di System F e Blank & Jones a cui ne seguono molti altri di cui si parla più avanti. In Germania è un vero trionfo dove “Komodo” vende circa 300.000 copie. Davvero tante le versioni sfornate negli studi in Via Martiri Della Libertà come quella di Megamind, nome che Picotto usa prima con ruolo di remixer e poi come artista a partire da “Listen To Me” dell’autunno ’98, e quella di Saccoman. Quest’ultimo riappare con “Metamorph”, ennesima escursione nella trance di matrice tedesca ma variata, nella Part One Mix, in qualcosa di diverso e meno prevedibile. È quella che alla Media Records chiamano supertechno, «un’ulteriore evoluzione della tech-house classica ma rivista nello stile BXR» dirà in merito Mauro Picotto qualche tempo dopo. All’esordio su BXR c’è anche Franchino, vocalist popolarissimo in Toscana in locali come Imperiale ed Insomnia. Anche per lui, come per Cominotto e Kitikonti, dopo un paio di anni di training su Underground e GFB, si aprono le porte marchiate dalla X rossa e ciò avviene con “Calor”, traccia senza troppe pretese costruita su una parte più solare, trainata da un basso in ottava, ed una più scura ma un po’ anonima.

Svariati i pezzi presi in licenza dall’estero: i remix di “Schall” – inclusi quelli di Pascal F.E.O.S. e Thomas P. Heckmann – di Elektrochemie LK alias Thomas Schumacher (nel ’98 già approdato su GFB con “When I Rock”, su segnalazione di Picotto), “Communication Part II” di Armin Van Buuren, “Oasis” di Y.O.M.C., cover dell’omonimo dei Paragliders uscito cinque anni prima e diventato uno dei dischi del repertorio BXR più quotati sul mercato collezionistico, “Something About U” di The Act, “Pussylovers” di DJ Balloon (con uno stralcio vocale preso dal film “From Dusk Till Dawn” del ’96), “Digital Dialogue” di Nick Sentience, i remix di “Don’t Laugh” di Winx tra cui uno a firma Mauro Picotto (all’opera anche su “Time To Burn” degli Storm, “See The Light” dei DuMonde e “Running” dei Tyrell Corp.), e quelli di “Science Fiction” di Taucher, un buon successo in Germania sul quale mettono le mani i Cosmic Gate e Mario Più. Proprio quest’ultimo, dopo aver ottenuto un discreto responso oltralpe con “Serendipity”, ci riprova come DJ Arabesque e fa centro grazie a “The Vision”, eurotrance a presa rapida che fa letteralmente il giro del mondo macinando decine di licenze ed affermandosi completamente nel 2001. Più contenuti i risultati di “Dolphin” di Gee Moore, il DJ del Bora Bora di Ibiza con cui il team della Media Records inizia a collaborare l’anno prima con “All Fat Boys Dancing” finito su Underground. Fedele alla linea trance è Bismark che con “Make A Dream” europeizza il suo suono e fa breccia nella Kontor Records che lo ripubblica in Germania col remix di Azzido Da Bass. Dopo diversi mesi di programmazione su Italia Network, Maximal si trasforma in una compilation. Il primo volume, affidato a Ricky Le Roy, include tra le altre “Happy” di Cominotto e “Year 2000” di Tony H, rimaste confinate al formato CD.

La supertechno targata BXR continua a propagarsi in autunno con “Species” del citato Cominotto («un “disco da viaggio” privo di ritornelli a guidare l’ascoltatore, crossover tra trance e techno con qualche occhiata alla Detroit anni Novanta» come lo descrive ai tempi l’autore) ed un paio di feroci 12″ di Picotto contenenti quattro tracce tratte dal suo primo album (“Underground / Baguette”, “Bug / Eclectic”) ma non indirizzate al frangente radiofonico. Il follow-up di “Komodo” infatti è “Proximus” in cui trova alloggio un campionamento tratto da “Adiemus” di Karl Jenkins e che gli italiani hanno facoltà di ascoltare in anteprima attraverso un servizio messo a punto da Omnitel che trasforma il telefono cellulare in un juke-box chiamando il numero 2552. Immancabile il videoclip che chiude la serie diretta da Oliver Sommer, iniziata con “Iguana” e proseguita con “Komodo”: come Alberto Beltrame scrive qui il 27 maggio 2020, «al regista viene commissionato il compito di narrare le vicende dell’investigatore Mauro Picotto e della sua sexy antagonista, la misteriosa donna dagli occhi di drago […], un’assassina seriale che (nel video di “Proximus”, nda) sembra essere diventata ancora più potente e sfuggente, ma l’investigatore riuscirà a trovarla alla fine di un inseguimento» (a bordo di una Ferrari, nda). Negli ultimi frame il colpo di scena, la donna si trasforma in iguana e gli occhi di Picotto diventano gli stessi della donna-lucertola. Le numerose versioni aiutano la diffusione del brano sul fronte estero, quello a cui BXR ormai sembra ambire in modo deciso e non a caso il 20 dicembre Picotto raccoglie diversi premi ai German Dance Awards tenutisi ad Amburgo.

Mario Più - Sfyflex
Dopo circa cento pubblicazioni, la BXR abbandona il payoff Noise Maker

Nel frattempo i DJ della label bresciana continuano a radunare migliaia di adepti provenienti da diverse regioni d’Italia ogni sabato notte. Un autentico nomadismo che si alimenta anche grazie a nastri doppiati a profusione sui quali si rinvengono tanti dei pezzi che vengono testati con diversi mesi d’anticipo rispetto alle date di uscita ufficiali. È il caso di Mario Più con “Sfyflex”, finito sul lato b dei remix di “Techno Harmony” (con cui BXR perde definitivamente il payoff Noise Maker, diventato il nome di un’altra etichetta della Media Records curata artisticamente da Gigi D’Agostino), e di “Matrix”, pubblicato insieme a “Morpheus” in cui riaffiorano elementi di “Tryouts For The Human Race” degli Sparks, prodotta da Giorgio Moroder nel 1979, gli stessi riportati in superficie da Trisco nella sua “Musak”. Proprio “Matrix” è dedicata all’omonimo club, prima ospitato presso il fiorentino Central Park e poi al Ritmodromo di Coccaglio, dove Mario Più e i colleghi del gruppo Metempsicosi si trasferiscono nell’autunno 2000 dopo la fine del sodalizio con l’Insomnia di Ponsacco. Negli ultimi mesi dell’anno escono in rapida sequenza “All The Way” di Ricky Le Roy, trainato da una base in stile “Kernkraft 400 (Remix) di Zombie Nation o “The Greatest DJ” di Lexy & K-Paul, “Ogni Pensiero / È Controllo” di Franchino, al lavoro su una serie di interpolazioni prese dal film “Matrix”, “Just A Moment” di Bismark e “Global Players (My Name Is Techno)” di Mr. X & Mr. Y (WestBam ed Afrika Islam), preso in licenza dalla berlinese Low Spirit ed impreziosito dal remix di Beroshima. A questi si aggiungono “Weltklang” firmato da una new entry proveniente dalla filiale tedesca della BXR capeggiata da Robin Ewald ovvero Marco Zaffarano, consolidato nome che vanta produzioni su Harthouse e due album sull’indimenticata MFS, e “Tenshi” dei Gouryella, che non riesce però a raccogliere gli stessi risultati ottenuti all’estero.

Il 2001 vede proseguire la marcia trionfale di Mauro Picotto, nuovamente sotto i riflettori con un altro estratto dall’album, “Like This Like That”, melodicamente derivato da “Blue Fear” di Armin del 1997. Il DJ originario di Cavour, un piccolo paesino in provincia di Torino, conquista per l’ennesima volta le classifiche di vendita d’oltralpe con licenze sparse in tutto il mondo. Il videoclip, trasmesso massivamente da VIVA, contribuisce alla popolarizzazione della sua immagine. A dirigerlo è ancora Oliver Sommer che, come scrive Alberto Beltrame nel già citato articolo del 2020, «si basa sul parallelismo per opposizione di due mondi in un bellissimo gioco sul bianco e nero. Gli unici elementi che possono far ricordare la video-serie (“Iguana”, “Komodo”, “Proximus”, nda) sono l’intro e l’outro alla James Bond, potenzialmente leggibili come un vago richiamo all’investigatore Picotto ed alle sue avventure». È un momento propizio anche per Mario Più che torna con l’album “Vision”, una raccolta dei suoi maggiori successi con qualche anticipazione su ciò che avverrà nei mesi a venire come “Love Game”, ancora interpretato da Principe Maurice. Ispirato da “Back To Earth” di Yves Deruyter è Saccoman che riappare con “The Recall” seguito da Franchino e la sua “Magia Technologika” in cui rivivono fraseggi quasi mediterranean progressive. “Spring Time (Let Yourself Go)” è il follow-up di Lava che il compianto Tillmann Uhrmacher produce ancora con Picotto e il fido Riccardo Ferri. Dall’estero arrivano l’irlandese Darren Flynn, il britannico Simon Foy e l’elvetico DJ Pure, rispettivamente con “Spirit Of Sp@ce”, “Insideout” e “My Definition”, tutti in stile trance.

Joy Kitikonti - Joyenergizer
“Joyenergizer” porta il nome di Joy Kitikonti all’attenzione del grande pubblico

Su “My Definition” mette le grinfie, come remixer, Joy Kitikonti che si ripresenta con “Joyenergizer”, una traccia sviluppata, come lui stesso racconta qui, «partendo da una kick ottenuta col sintetizzatore Access Virus A, poi lavorata con LFO e processata attraverso vari plugin durante la costruzione su Logic». La Psico Mix travolge e stravolge con un’effettistica strisciante e liquefatta, particolarmente efficace nei break. Senza ombra di dubbio è la matrice del suono a fare la differenza e a giocare sull’unicità. Diversamente dalle sue precedenti produzioni, questa entra in classifica di vendita e ciò impone la realizzazione di un videoclip girato ad Ibiza.

Mentre Kitikonti dà alle stampe un pezzo capace di abbracciare un pubblico più eterogeneo e trasversale, Picotto (che ritocca “Joyenergizer” in un remix madido di sudore) prende qualche distanza dal mondo delle hit a presa rapida orientate alle radio e al pubblico generalista convogliando nel “Metamorphose EP” cinque tracce incise su un doppio mix pensate e destinate ai soli club. Allineati all’hardgroove che vive un momento particolarmente galvanizzante, i pezzi del piemontese mescolano tribalismi demolitori di scuola millsiana (“Prendi & Scappa”, “Wake Up”) a svirgolate di techno frammista ad affilate linee di sintetizzatore sullo stile dello sloveno Umek (“Verdi”, “Kebab”) passando per un intro ambientale beatless (“Luna“). 

Picotto - Metamorphose Awesome
Con “Metamorphose EP” e “Awesome!!!” Mauro Picotto inizia a prendere le distanze dal collaudato schema delle sue hit più popolari

«Ora preferisco fare dischi con più sound e meno melodia» dichiara l’artista pochi mesi prima dell’uscita dell’EP in un’intervista di Riccardo Sada pubblicata a febbraio. «So che così facendo perderò una buona fetta di mercato, magari quello italiano, ma probabilmente potrò conquistarne tanti altri. In Germania il vento soffia a mio favore così come nel Regno Unito e ad Ibiza che è una cosa a sé rispetto alla Spagna». Picotto ormai è nel gotha del DJing mondiale, vede riconfermare la propria presenza nella Top 100 DJs del magazine britannico DJ Mag in ottava piazza (posizione più alta in assoluto sinora conquistata da un italiano) e fa da apripista a colleghi che militano con lui tra le fila della BXR ossia Mario Più (54esimo) e Gigi D’Agostino (98esimo). Poi è la volta di Cominotto con “Trouble”, «una produzione in cui credo molto dopo aver visto gli effetti in locali tipo Cocoricò, Red Zone, Alter Ego e Supalova» come afferma lo stesso autore che aggiunge: «all’interno c’è una versione sfacciatamente tech-house, neologismo che tra le ilarità generali uso da qualche anno e che casualmente oggi rappresenta il crossover più seguito, non certamente per merito mio ma in questa porca Italia sono stato tra i primi a crederci». Seguono Ricky Le Roy con “Dancer” e Bismark con “Triplet”, entrambi con lo shuffle applicato alla batteria in memoria di un successo tedesco di qualche tempo prima, “The Darkside” di Hypetraxx. Accolti su BXR, dopo un “praticantato” su Underground, sono Sandro Vibot con “Everyday”, Zicky (ormai non più “Il Giullare”) con “Follow Me” e Fabio MC con “Mimic”. Lasciandosi alle spalle la comparsata del ’99 sulla effimera BXR Club, riappare pure Gabry Fasano: il “cacciabombardiere” del Jaiss, così come lo chiamano affettuosamente i fan, firma una doppia a side racchiusa in una cornice sonora dai tratti impetuosi e che trasuda energia, “Catapulta”, con un frammento ritmico carpito da un EP di Christian Fischer su Statik Entertainment del ’99 opportunamente velocizzato, e “Ringmo”, che si avvicina alla scuola di Chris Liebing. Attratti dalle manipolazioni del beat sono pure Mario Più, che in “Ayers Rock” inserisce il suono di un didgeridoo, ed Athos Botti, semplicemente noto come Athos, con l’incalzante “Infect”.

In autunno tornano l’ibizenco Gee Moore col percussivo “G-Tribe”, Bismark con “Primitive Love” e Saccoman con “Revelation” mentre Mario Più e Fabio MC (che su Underground danno avvio al progetto TK 401) firmano “Invaders / Away”. In solitaria invece Mario Più realizza “Sensation”, altro estratto dall’album “Vision” in chiave smaccatamente trance. Menzione a parte merita il secondo doppio mix dato alle stampe da Mauro Picotto, “Awesome!!!”, naturale prosieguo al “Metamorphose EP” di pochi mesi prima. Appare sempre più evidente come al DJ inizi a stare stretto il ruolo da coordinatore dell’etichetta e che soprattutto sia stanco di confezionare follow-up standard per accontentare le richieste del mercato discografico più mainstream. Non è certamente un caso che nessuna delle sei tracce incluse (tra cui “Cyberfood”, “Hong Kong” e “Bangkok”) attinga elementi dalle sue hit nazionalpopolari. A cambiare, oltre ai suoni, sono le stesure e soprattutto il mood. «Avevo saturato il mio gusto commerciale ed avvertii la necessità di compensarlo con qualcosa di più club» dirà lui stesso qualche mese più tardi. Picotto cerca nuove strade per rivoluzionare la sua carriera e le trova. Il cambiamento radicale arriverà alla fine del 2002.

“Gula-Matari” è l’ennesimo dei dischi con cui Cominotto traduce il suo spirito eclettico da DJ

2002, i primi scricchiolii
Massimo Cominotto è tra i DJ della scuderia BXR a saper resistere al richiamo della popolarità generalista. «Ci fu una corsa a chi faceva canzonette orecchiabili ma io non ne sono stato capace oppure, più semplicemente, non mi interessava comporle» dichiara in questa intervista del 2020. Alla sua fermezza da DJ si somma quindi la coerenza stilistica delle produzioni discografiche a cui ora si aggiunge “Gula-Matari”. Da un lato la Techno Mix che arde in loop circolari, dall’altro la Funky Mix che sovverte il rodato schema sonoro dell’etichetta bresciana con patchwork di micro sample fusion (presi da “Gula Matari” di Quincy Jones) inchiodati su un sostenuto pianale ritmico. «Vorrei vedere la faccia dei technofili mentre ascoltano fiati, chitarre wah wah e voci femminili» ironizza l’autore ai tempi dell’uscita. Più canonico invece il carattere che Ricky Le Roy infonde in “One Day”, tra suoni cristallini in cascata e aggressività hardgroove, la stessa che qualifica pure il “Percutor EP” di Fabio MC trainato dal pezzo “Klaude”. Ascritto al comparto techno groovy è anche Marco Zaffarano con “Re-Take” che sul lato b vede il remix di “Playback” a firma Picotto con inserti latini in scia a vari successi internazionali di quel periodo realizzati da artisti come Tomaz vs. Filterheadz, Cristian Varela o Renato Cohen. Fedelmente ancorato alla trance resta invece Bismark con la sua “E.R.K.”, ed è trance anche quella di “Like A Dream” del tedesco Andy Jay Powell, arricchita da un remix degli RMB (proprio quelli di “Universe Of Love” di cui parliamo dettagliatamente qui), e di “Believe Me”, quinto brano che Mario Più firma come DJ Arabesque. Retrogusto inaspettatamente house/disco invece per Franchino che ritorna con “Ficha No Caixa”, una specie di french touch velocizzato ai confini con apparati technoidi, segno della fusione tra mondi musicali che avviene nei primi anni Duemila quando la distanza tra house e techno diventa sempre più labile o si azzera del tutto.

Dopo diverse esperienze consumate su Underground, sbarca su BXR come artista anche Riccardo Ferri alias Ricky Effe, collaboratore di vecchia data di Media Records e fedele spalla di Mauro Picotto. Le due tracce solcate sul 12″, “Rectifier” e “Trythis”, occhieggiano all’hardgroove teutonica, la medesima con cui Picotto sta progressivamente sostituendo la formula techno trance, oggetto di un’evidente inflazione, ma non prima di lanciare i remix 2002 di “Pulsar” (tra cui uno a firma Tiësto ma stranamente ora escluso dalla pubblicazione italiana) e soprattutto “Back To Cali”, riverberato da un remix dell’infaticabile Push, tra gli artisti chiave della Bonzai. Col follow-up “Joydontstop”, costruito sul giro portante della citata “Schall” di Elektrochemie LK e per cui viene approntato un videoclip, Joy Kitikonti prova a bissare il successo di “Joyenergizer” ma raccogliendo solo parzialmente i risultati attesi mentre Athos campiona le voci da una puntata della serie televisiva “South Park” per “Oh My God!!!” che si afferma nel circuito dei club. Saccoman ritorna con “Deep In The Woods”, Zicky con “Yeah Man Bomboclat”, Fabio MC con “Prisma EP” e Bismark con “Fluid” ma qualcosa nel BXR Sound comincia a mutare. Se da un lato la costante vocazione all’europeizzazione (quell’anno la Media Records inaugura le filiali iberiche e scandinave) rende i prodotti appetibili sul fronte internazionale, dall’altro tende ad allinearli troppo ad uno standard che gioca a svantaggio dell’identità. Alcune nuove uscite, come “Into The Blue” di Saccoman o “Kiss Me” di Ricky Le Roy ad esempio, non lasciano il segno, tuttavia la spinta ottenuta nelle annate precedenti è talmente forte da non incrinare del tutto gli equilibri. Nella Top 100 DJs di DJ Mag infatti Picotto è 14esimo, Mario Più 82esimo e Joy Kitikonti 91esimo.

Mentre il tenace Cominotto continua ad incidere ciò che più gli aggrada (“Iron Butterfly”) senza preoccuparsi di trovare il modo per penetrare nelle classifiche di vendita, Bismark produce a quattro mani “The Theme Of Sphere” con lo svizzero Philippe Rochard. Alla brigata si aggiunge poi Angelo Pandolfi che come Pan Project firma “L’Amour Pour La Musique” ed “NRG”, due brani influenzati dallo stile di Gigi D’Agostino che però dividono poco e niente con la linea intrapresa dalla BXR, e a dirla tutta anche la resurrezione di “U Got 2 Know” dei Cappella, attraverso i remix di R.A.F. e Joy Kitikonti, non pare proprio una mossa azzeccata. Decisamente più pertinenti risultano “Capsule / Random” di Trasponder, secondo (ed ultimo) atto del progetto messo su l’anno prima da Gabry Fasano e Riccardo Ferri su Underground, “Flair / Return Of Memory” di Fabio MC (“Return Of Memory”, in particolare, è una piroetta nel suono belga della Bonzai, con rimandi a “Synthetic Apocalypse” dei Musix) e “96 Street” di Sandro Vibot. Una deviazione hard house, sullo stile di Sharp Boys, Tony De Vit, Malcolm Duffy ed Alan Thompson, viene presa grazie a Pagano, fattosi notare con alcune pubblicazioni sulla Fragile Records (etichetta del gruppo Arsenic Sound di Paolino Nobile intervistato qui) quell’anno nominato A&R della Nukleuz Italy: prima con “Work It”, realizzata con Marco ‘Maico’ Piraccini, e poi con “(You Better Not) Return To Me” (ripescando frammenti vocali di “Return To Me” di Fits Of Gloom, Baia Degli Angeli, 1994), il DJ nativo di Catania tenta di aprire nuovi spiragli nel mercato estero, in primis quello britannico dove il filone hard house vive uno spiccato fermento.

Above & Beyond - Far From In Love
“Far From In Love” di Above & Beyond, tra i primi 12″ attraverso cui filtra la nuova veste grafica della BXR

In autunno arrivano due licenze, “Ligaya” di Gouryella, nel frattempo diventato progetto solista di Ferry Corsten, e “Far From In Love” del trio Above & Beyond, oggetto di forti interessi nell’Europa centrale ma praticamente ignorati da noi. Sono tra i primi dischi con cui BXR rinnova ancora il layout grafico, minimalizzato e spinto verso il bicromatismo bianco/nero già adoperato da qualche anno per Underground e Sacrifice. La notizia che chiude il 2002 intristendo migliaia di fan è quella dell’abbandono di Mauro Picotto che lascia l’etichetta di Bortolotti dopo undici anni. «La Media Records è stato il mio primo sogno realizzato con successo» dichiara nell’intervista rilasciata allo scrivente pubblicata a dicembre, la prima in cui annuncia pubblicamente la decisione. «La scelta di lasciare è legata agli impegni e soprattutto ai miei sogni, e lo dico in modo chiaro perché vorrei che non venisse fuori nessuna storia strampalata o riportata in modo traviato. L’ultimo anno mi ha visto parecchio impegnato in giro per il mondo come DJ e questo mi ha portato, inevitabilmente, a trascurare gli studi di registrazione. Perché quindi continuare ad essere responsabile di un prodotto se non posso più controllarne la qualità? Così ho maturato la decisione di lasciare e per me è stata una cosa naturale, ho bisogno di obiettivi e stimoli nuovi. Per quanto riguarda le produzioni, continuerò a seguire il mio istinto, come ho sempre fatto. Farò quello che mi pare a seconda del mio umore e soprattutto senza vincoli, perché vorrei decidere in autonomia la data di pubblicazione di un nuovo brano. “Back To Cali”, ad esempio, è uscito ad un anno dalla sua produzione, quando ormai non era più in linea con ciò che proponevo nei miei set da DJ. Insomma, vorrei condividere le cose col mio pubblico nel momento in cui emozionano anche me e non vederle bloccate dalle leggi di mercato delle varie aziende». Per l’occasione Picotto spiega anche le ragioni che lo allontanano dalla trance da classifica e lo fanno uscire dalla comfort zone: «Mi sembra che nella trance non ci siano grandi novità e non ho più voglia di produrre brani in stile “Lizard”. Preferisco piuttosto rischiare e cercare cose nuove, non amo ripetermi eccessivamente. Talvolta i cambiamenti sono stimolanti e permettono di vedere nuove frontiere. Attenzione però, non sto rinnegando il mio recente passato. Sarò sempre legato a “Lizard”, che ho suonato per la prima volta su un acetato domenica 7 dicembre 1997 all’Ultimo Impero di Airasca e che, a mio avviso, ha aperto le porte ad uno stile musicale e rimarrà una pietra miliare. Il fatto che in Italia non venne presa in considerazione dai network radiofonici è stata la sua fortuna: essendo una club hit, ha visto allungarsi la vita più del doppio rispetto ai classici successi trasmessi in FM». L’occasione è giusta pure per fare dei paragoni con l’estero: «Musicalmente i club europei non hanno nulla a che vedere con la maggior parte di quelli italiani anche perché non vengono influenzati dai network. All’estero inoltre i palinsesti delle emittenti radiofoniche includono programmi tematici che accrescono l’informazione musicale del pubblico ed influiscono positivamente sulle vendite dei dischi. Tante produzioni che sono in classifica da noi invece non vengono minimamente prese in considerazione oltre le Alpi. […]. Il successo di questi anni mi ha portato un ricco bottino di soddisfazioni e sono fiero di essere stato il primo e sinora l’unico italiano ad aver solcato l’ambita soglia della top 10 della classifica annuale di DJ Mag. Non che sia così determinante nella vita di un DJ, sia chiaro, ma una certa visibilità non guasta mai. Adesso inizio a sentirmi appagato delle tante fatiche spese ad inizio carriera quando qualcuno, tra i colleghi, rideva dei miei sogni».

2003, il primo anno post Picotto
Il 2003 consegna una BXR con evidenti differenze rispetto a quella che il grande pubblico ha conosciuto negli anni precedenti, a partire dalla nuova impostazione grafica che minimalizza il logo ora ridotto alla sola X sino alla scuderia artistica che inizia a disgregarsi. Alcune partenze però sono presto rimpiazzate con nuovi arrivi. Attraverso “Trip On The Moon / M.I.R.” ed “Elektronic Atmosphere”, ad esempio, debuttano rispettivamente Paola Peroni, che già collabora con Media Records una decina di anni prima, e il DJ bresciano Giovanni Pasquariello alias Exile. A pochi mesi di distanza dall’esordio riappare Pagano con la doppia a side “Packet Of Peace” (cover dell’omonimo dei Lionrock, portato in Italia esattamente un decennio prima proprio attraverso una delle etichette della Media Records, la GFB) / “Blade“, e viene accolto l’olandese Marco V con “Simulated”, su licenza ID&T. Riconfermate le presenze del capitolino Bismark con “In My Heart” e del livornese Mario Più con “Devotion” contenente “C’era Una Volta Il West”, cover dell’omonimo di Ennio Morricone per cui viene girato un videoclip a Bormio, in montagna, sullo sfondo di un paesaggio innevato.

Mario Più e Joy Kitikonti in una foto del 2003, anno in cui diventano gli A&R della BXR

I prescelti per guidare la BXR post picottiana sono Mario Più e Joy Kitikonti che prima realizzano “Strance” firmata con gli pseudonimi DJ Arabesque e Jakyro e poi producono “Mossaic” del DJ colombiano Moss, approdato su Underground nel 2001 con “Bogotá Experiences”, e “Light My Fire” come Rocktronic Orchestra, cover dell’evergreen dei Doors. Saranno sempre loro due, uniti in parallelo come MariKit, gli artefici di gran parte delle versioni remix apparse durante l’annata su BXR. La linea stilistica predominante di questa fase è divisa tra trance/hard trance ed hardgroove, come attestano la nuova licenza per Marco V (“C:\del*.mp3 / Solarize”), “Freedom” di Ricky Le Roy, “Roraima / Logic Guitar” di Mario Più ed “Harem” di Paola Peroni, che tanto ammicca alla techno latina di cui si è già detto sopra. Il cremonese Eros Ongari alias Ronnie Play appronta “It’s Time To Dance”, una specie di rilettura italica dell’electroclash costruita sul giro di accordi di “Fade To Grey” dei Visage, Fabio MC staziona sul segmento hardgroove con la doppietta “Impact / Zelig” e “Priority / Reality”, Kitikonti prova ancora a sfruttare la scia di “Joyenergizer” con “Pornojoy”, trascinato in tv da un videoclip ispirato dai film erotici degli anni Settanta e per questo censurato a causa di contenuti considerati troppo espliciti, e Gee Moore si rifà vivo con “Slam Dunk Funk”. Sul fronte licenze tocca all’argentino DJ Dero (quello di “Batucada” e “La Campana”) con “Revolution 07”, scovato da Kitikonti e con remix annesso di Robbie Rivera, e ai tedeschi Tube-Tech con un’altra cover dei Doors di Jim Morrison, “The End”, arricchita dal remix dei Vanguard reduci dal successo ottenuto poco tempo prima col remake di “Flash” dei Queen.

Della BXR «che guardava avanti e che prende spunto dai DJ che suonavano musica diversa lasciando spazio alla creatività, senza supervisioni dei capi», come la descrive Bismark in un’intervista pubblicata a gennaio 2003, resta ormai ben poco. In autunno arrivano gli Spolvet (Andrea Vettori e Niccolò Spolveri) con “Rock The Sun”, in posizione mediana tra hardgroove ed hard trance, Joman (una delle tante impersonificazioni di Joy Kitikonti) con “Tronic Toys”, Zicky con “The Party Goes On” e i Kiper (Joy Ki-tikonti e Paola Per-oni) con “The Land Of Freedom”. A chiudere è “Incanto Per Ginevra” di Mario Più, dedicata alla nascita della figlia Ginevra immortalata in copertina. Nel frattempo Picotto e l’inseparabile Riccardo Ferri approdano alla britannica Primate Recordings con “Alchemist EP” trainato da “New Time New Place”: il doppio mix vende oltre dodicimila copie ma non genera introiti economici a causa del fallimento del distributore, la Prime Distribution. Picotto però non demorde e vara la sua personale etichetta, la Alchemy, inaugurandola con “Playing Footsie / Amazing” e sulla quale ospiterà alcuni artisti che lo seguono dopo l’abbandono della BXR ossia Massimo Cominotto, Gabry Fasano e il prematuramente scomparso Athos.

2004-2005-2006, gli ultimi anni di attività
L’inizio del nuovo millennio è nefasto per la discografia mondiale. Innumerevoli etichette indipendenti chiudono battenti sopraffatte dalla pirateria e dalla crisi che sembra non conoscere fine. L’atteso salto nel futuro che avrebbe garantito il 2000 in realtà riserva solo strade in salita e prospettive tutt’altro che rosee: le soglie di vendita di pochi anni prima («numeri notevoli sia in Italia che all’estero, che partivano da ventimila copie o giù di lì per nomi tipo Picotto, Più o Kitikonti» rammenta ancora Daniele Tramontano della Global Net in relazione a BXR) si assottigliano sensibilmente, la maggior parte dei distributori fallisce e l’invasione di nuovi equipment digitali sferra il colpo di grazia al mercato del disco in vinile, ridotto ormai ad una nicchia di utenza sempre più esigua. A tutto ciò si aggiunge l’introduzione dell’euro, un cambiamento epocale che mette a dura prova il potere di acquisto di chi, in Italia, continua a credere nel supporto analogico. La Media Records non esce indenne da questa “tempesta”, nonostante fosse preparata ed avvezza da anni alle nuove forme di fruizione della musica, e l’allontanamento di Gianfranco Bortolotti, ormai impegnato come architetto, e l’attività ridimensionata della BXR e di tutte le etichette del gruppo ne sono palesi testimonianze.

Mario Più - Champ Elisées
Con “Champ Elisées” Mario Più tenta di tornare al grande successo

Il senso di confusione e smarrimento sul versante stilistico non aiuta di certo gli A&R della label, disorientati come tanti di fronte a repentini mutamenti che vedono crollare tutte le vecchie certezze. «I DJ che suonano house si sono appropriati di sonorità techno, progressive ed elettroniche» dichiara Mario Più in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile 2004. Ed aggiunge: «C’è stato un notevole avvicinamento dei generi. Io stesso adesso posso esibirmi in locali house perché propongo un suono meno “duro”». Proprio Mario Più incide prima l’anonimo “Green Day EP” e poi “Champ Elisées” in compagnia di Gare Mat K, con cui prova a rilanciarsi nel mainstream abbracciando il mondo electro house che pare la tendenza più importante del momento. Il brano, immerso in atmosfere piuttosto malinconiche ed annunciato come primo singolo del nuovo album “From Dusk Till Dawn” rimasto nel cassetto sino al 2015, è interpretato vocalmente da una certa Catalina B. ed è imperniato su un giro di chitarra che fa il verso a quello di “A Forest” dei Cure. Exile ritorna con “Tragic Error…”, in balia di una techno frammista ad elementi elettronici, Ronnie Play ci riprova con “Walking On The Sunshine”, electro house un filo maldestra e grossolana con qualche propaggine rockeggiante, mentre Franchino (con la K nel nome al posto della ch) si ripresenta con “Solidão”, trance dai riflessi mediterranei forse composta pensando ai bei tempi che furono.

Spazio anche al team dei Trilogy con “Navaho”, che a seconda della versione imbocca sentieri progressive house ed electro house, e ad un paio di licenze estere, “White Scale” dei Subnerve (uscito originariamente nel 1996) e “One Way Out” di Niels Van Gogh col remix di Martin Eyerer che da lì a breve fonda la Kling Klong. A mitigare il proprio apparato stilistico è persino un integralista della techno, Fabio MC, in “Tridonic / Meteor-A”, composte ancora con Simone Pancani. I fasti della BXR ormai sono lontani. A rammentarli è “Iguana” di Mauro Picotto che riappare attraverso due versioni, A Different Starting Mix e il remix del giapponese Yoji Biomehanika che precipita in pozzi hardstyle. Nel corso dell’anno anche Mario Più lascia la Media Records per fondare la sua etichetta, la Fahrenheit Music, nonostante dichiari, in un’intervista pubblicata ad aprile, di non avere alcuna intenzione di mettersi in proprio: «Non andrei molto lontano, specialmente in questo periodo, e non avrei ragione di farlo perché in Media Records mi trovo benissimo, da una struttura così solida e consolidata ho tutto il supporto che mi serve». Per BXR il destino è ormai segnato. Ad inizio 2005 esce “Pulsar 2K5” di Mauro Picotto, ennesimo tentativo di tenere a galla un transatlantico che si sta inesorabilmente inabissando. In copertina si fa riferimento a due “unreleased mix” mai pubblicati in Italia ma che i fan conoscono bene, la Megavoices Mix e il remix di Tiësto. A tirare il sipario è Joy Kitikonti, prima insieme a Cristian Vecchio per il “Finally EP” e poi con Joys Audino per “Started”, nel segno dell’electro house.

BXR last logo
Il logo, il quinto, con cui la BXR riappare nel 2017

2017, un’effimera ripartenza
Tra le etichette che Gianfranco Bortolotti prova a lanciare e rilanciare a partire dal 2015 col gruppo Media Records EVO, oltre ad Underground, UMM ed Heartbeat, c’è anche la BXR, affidata all’A&R Philipp Kieser e marchiata con un nuovo logo. L’idea prende corpo ad inizio del 2016 ma bisogna attendere febbraio dell’anno successivo per vederla concretizzata attraverso la pubblicazione del “No Mercy EP” di 6470 alias Davide Piras. Il 12″ raduna quattro brani (“Our Cognitive Dissonance”, “No Mercy”, “Introspection”, “September 10”) affini alla techno ormai definitivamente sdoganata nel mainstream e richiesta nei circuiti EDM. A giugno segue, questa volta solo in formato digitale, “Mapping A Messiah EP” del bulgaro Ghost303 alias Ivan Shopov, ulteriore tentativo di salire sul treno in corsa di quella techno di cantiere drumcodiano adorata da folle oceaniche ma vacua sotto il profilo delle sollecitazioni creative. Si parla di una possibile terza uscita che avrebbe contato sulle jam session registrate in studio da Kieser, Piras e Shopov, ma il progetto non va in porto. L’altoatesino Kieser, in un comunicato stampa diramato a febbraio 2016, dichiara che il suo intento non è quello di limitarsi ad una strategia copia-incolla: «Ci lanceremo sulla scena con un sound autentico e totalmente all’avanguardia. Punteremo anche su facce nuove e nuovi talenti». Bortolotti aggiunge: «Nuovo A&R, nuovo vestito, nuova strategia, nuovo sound. BXR, come un caccia in ricognizione, sarà affiancata da due label, una alla sua sinistra, la Underground, l’altra alla sua destra, la Divergent, e come per UMM, sarà ricerca e stile orientati verso i clubgoer. Sarà dark, essenziale e culturalmente evocativa. Sara la mia anima. Essere, non esserci, è il suo destino».

Claxixx
Insieme a BXR si ripresenta anche Claxixx, questa volta come etichetta e non serie

Dell’annunciata futuretechno però, che avrebbe dovuto raccogliere il testimone della mediterranean progressive e della supertechno, non resta niente se non un’idea dall’esito caduco. Contestualmente alla temporanea riapparizione di BXR si segnala pure la nascita, a settembre del 2017, della Claxixx, contenitore che utilizza il medesimo nome di una delle serie della BXR con la finalità di rilanciare nuove versioni di classici tratti dal catalogo della Media Records, analogamente a quanto avviene su EDMedia. Alla fine il progetto si arena sul nascere col remix di “Tuareg” di Ricky Le Roy realizzato dal greco George V a cui fa seguito un inedito di Nicola Maddaloni intitolato “L-R”.

Rimasta operativa per circa dodici anni, la BXR lascia un’eredità importante, sia sotto il profilo manageriale per metodo di lavoro, creatività e capacità progettuale, sia sotto quello strettamente musicale raccolta da tantissimi fan sparsi per il mondo. L’alta tiratura e l’ampia disponibilità, fatta qualche eccezione, non la ha (ancora) trasformata in una label appetibile sul fronte ristampe ma senza ombra di dubbio rimane un ottimo esempio che attesta come la visione d’insieme, l’affiatamento e lo spirito di squadra possano fare la differenza in un Paese come l’Italia in cui la cooperazione, specialmente nel contesto musicale, è ancora una meta utopica.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Massimo Berardi

Una panoramica su parte della collezione di dischi di Massimo Berardi. La foto è di Ivan Vonchesterfield, autore anche delle seguenti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo un 45 giri di Lucio Battisti. La mia prima passione, negli anni adolescenziali, è stata la musica italiana e le canzoni d’amore, complici il mangiadischi, le festicciole tra gli amici e i balli lenti. Spesso il sabato pomeriggio ci riunivamo nel garage della nostra amica del cuore, Daniela, visto che il suo papà lavorava nel mondo del cinema e portava a casa una marea di 45 giri tra cui c’era di tutto, dal pop al rock passando per la disco, il funky e la musica italiana. Ne ricordo uno in particolare che ben fotografa quel periodo spensierato, “Rock The Boat” di The Hues Corporation, uno dei primi 7″ disco che mi sia passato tra le mani. Ad attirarmi, oltre alla musica leggera, erano le colonne sonore dei film, in particolar modo quelle delle serie di fantascienza tipo “A Come Andromeda” di Mario Migliardi, “UFO” e “Spazio 1999” di Gerry Anderson, “Gamma” del Maestro Enrico Simonetti e tanti altri capolavori di cui si riesce a capirne il valore solo oggi. Il primo album che ho comprato invece è stato “Foxtrot” dei Genesis, uno dei gruppi che ho apprezzato di più insieme ai Pink Floyd. Il mio preferito però resta “Selling England By The Pound” che ascoltavo sul mio primo fantasmagorico giradischi, uno Stereorama 2000 De Luxe della Reader’s Digest, un modello compatto degli anni Settanta particolarmente di moda in quel periodo. Ho seguito molto anche i gruppi italiani come la Premiata Forneria Marconi o Il Banco del Mutuo Soccorso che a mio parere non avevano davvero nulla da invidiare a quelli esteri, anzi. Ho sempre pensato che la mia generazione sia stata davvero fortunata a vivere un periodo musicalmente tanto ricco.

L’ultimo invece?
Uno degli ultimi acquisti, sul fronte dell’usato, è stato “Just Can’t Help Myself (I Really Love You)” di Common Sense, un 12″ del 1980 discretamente quotato ed edito dalla BC Records di Began Cekic, fondatore dei Brooklyn Express. Continuo ovviamente a comprare anche molti dischi nuovi.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Dopo un calcolo approssimativo, credo fra i 7000 e gli 8000, tra LP e 12″. Ho anche 500/600 CD, un supporto che continua a piacermi molto specialmente per le compilation rare grooves in cui a volte ci si può imbattere in versioni differenti da quelle incise su vinile. Possiedo inoltre una discreta quantità di 7″, circa 400, supporto che adoro. Da qualche anno a questa parte ho cominciato a vendere tutti quei dischi di cui sento di poter fare a meno, le doppie copie (tantissime) e quelli degli anni a cui sono musicalmente meno legato. Sinora penso di aver venduto dai 3000 ai 4000 dischi.

Riusciresti a quantificare il denaro speso?
No, ma non ho alcun rimpianto e rifarei davvero tutto.

Una foto che testimonia l’ordine nella collezione di Berardi

Come è organizzata?
Pur non essendo particolarmente fiscale, l’ordine mi piace ma pulire, catalogare e sistemare i dischi, quando sono tanti, diventa un vero e proprio lavoro. Per quanto riguarda i mix funky e disco, ho optato per un ordine in base alle etichette storiche (T.K. Disco, Prelude Records, Salsoul Records etc). Le label minori invece sono organizzate per generi ed annate. House e techno infine sono incasellate per anni mentre gli album per genere.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Utilizzo le classiche foderine plastificate per proteggere le copertine dall’usura. Man mano che catalogo i dischi, li pulisco con un panno morbido ed un liquido apposito. Quelli più sporchi invece li porto da un amico che possiede la macchina lavadischi e li fa tornare come nuovi.

Ti hanno mai rubato un disco?
Sì, una volta hanno trafugato un’intera valigia dal bagagliaio della macchina. Fortunatamente non erano dischi particolarmente difficili da ritrovare ma non fu possibile placare la rabbia nel momento in cui me ne accorsi.

“Woman” di John Forde, tra i dischi a cui Berardi è più affezionato

Qual è il disco a cui tieni di più?
Tutti hanno lo stesso valore e fanno parte del percorso di vita. Alcuni rappresentano istantanee che mi ricordano momenti più o meno belli, altri invece compagnie, luoghi, discoteche… Forse quelli che mi emozionano di più sono i pezzi che ascoltavo nelle cassette registrate nella Baia Degli Angeli, un luogo di culto per i DJ della mia età e di cui ero letteralmente affascinato quando non ero ancora un professionista. Uno su tutti “Don’t You Know Who Did It” di John Forde, che continua a darmi le stesse emozioni di quando lo ascoltai per la prima volta, e a seguire “Africano” di Timmy Thomas, “Love For The Sake Of Love” di Claudja Barry, “Moon-Boots” degli O.R.S. e “Sneakers (Fifty-Four)” dei Sea Level, insomma, tutto quel filone che mi ha introdotto ad una ricerca più scrupolosa dei dischi da proporre nelle mie serate.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessuno, perché dietro ogni disco acquistato c’è sempre un motivo ben preciso. Sicuramente non è mancato quello che ha disatteso le mie aspettative ma lo avrò già venduto.

Quello che cerchi da anni e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Non sono un collezionista e quindi non ho mai investito grosse somme per accaparrarmi un disco e poi riporlo sullo scaffale (sarebbe rischioso portarsi un cimelio nei locali). Cerco piuttosto di comprarne ad un prezzo ragionevole, scegliendo quelli che diano ancora modo di emozionare il mio pubblico.

Berardi e la sua copia di “Animals”

Quello con la copertina più bella?
“Animals” dei Pink Floyd, immersa in un’atmosfera industriale. In quelle foto c’è tutta la storia dei brani incisi sul disco, guardarle mentre la puntina legge i solchi aiuta a comprendere meglio ciò che intendo. Poi, se si ha la possibilità di andare a Londra e passare davanti alla Battersea Power Station, l’immaginazione diventa realtà. L’energia che scaturisce da questo LP del 1977 è pari a quella che sviluppava l’ex centrale termoelettrica sulla rive del Tamigi. Provo sentimenti profondi ogni volta che lo riascolto, un disco essenziale per la mia crescita musicale nonché compagno di vita.

Che negozi di dischi frequentavi in passato?
Ho comprato i primi dischi nel negozio di elettrodomestici del mio quartiere che aveva un angolo dedicato agli album e ai 45 giri. Dopo qualche anno passai ai negozi specializzati, il primo fu Sound City, sulla via Tuscolana, credo tra il 1974 e il 1975. Erano i tempi di “The Sound Of Philadelphia” di MFSB, le radio private spuntavano come funghi e il sabato pomeriggio si organizzavano sempre feste a casa di qualcuno. La musica era una forma di aggregazione nel vero senso della parola. Allora ebbi la fortuna di conoscere, casualmente, il proprietario di una piccola emittente di quartiere, proprio nel negozio di dischi di cui parlavo prima. All’inizio la potenza era assai flebile, bastava spostarsi di un solo isolato per perdere il segnale ma col tempo fu potenziato sino ad essere venduto ad un network. Gli studi erano allestiti all’ultimo piano di un palazzo e, pur essendo molto piccola, disponeva di tutto quello di cui c’era bisogno. Il mondo della radio mi affascinava tantissimo e l’unico modo per imparare a “far girare i dischi” era guardare per ore ed ore i professionisti e rubare con gli occhi. Il proprietario mi diede l’opportunità di stare lì mentre mandava avanti il suo programma pomeridiano e così appresi tantissime cose. Dopo un po’ di tempo fui “promosso” ed iniziai a selezionare musica per quella piccola radio. Un altro negozio che ricordo con piacere è Magic Sound, a Piazza dei Re di Roma, dove le mie cassette mixate andavano a ruba. Lì ebbi la fortuna di arricchirmi musicalmente con Roberto che curava il reparto soul, jazz e fusion. Un posto altrettanto fornito era Discoteca Laziale, luogo tranquillo e silenzioso, perfetto per i veri audiofili, dove ho acquistato tantissimo materiale, specialmente album di musica elettronica come Alan Parsons Project, Kraftwerk e Jean-Michel Jarre che adoro. Poi naturalmente andavo nei negozi per DJ, quello in cui trascorrevo più tempo era Best Record in via Vodice: il proprietario, Claudio Casalini, solitamente lavorava nell’ufficio al piano superiore mentre Peter, con la sua calma anglosassone, era sempre disponibile a far ascoltare tutte le novità. Atmosfera leggermente più chic si respirava invece in Città 2000, in viale Parioli. Era il negozio di Peppe Farnetti, il primo DJ del Piper già nel 1965, e fu un autentico punto di riferimento dei più importanti DJ della capitale e non solo. L’ultimo baluardo rimasto è il mitico Goody Music che è stato, a quanto ricordo, il primo a far ascoltare dischi attraverso due casse poste agli angoli e piazzate su due colonne che ti “spettinavano”. Tutti i pezzi sembravano belli! Aveva una selezione di dischi d’importazione veramente notevole. In tutti questi negozi si respirava un’aria di sana competizione tra i DJ più o meno famosi, nella continua lotta per riuscire ad accaparrarsi un disco in più rispetto agli altri. Negli anni Ottanta, è bene ricordarlo, erano i proprietari delle discoteche a stanziare il denaro per comprare i dischi pertanto più era alto il budget e più c’era la possibilità di avere un buon repertorio di novità da parte. E lì entrava in moto anche il meccanismo della doppia copia personale.

Il crate digging online è differente rispetto a quello che un tempo si praticava nei negozi?
Direi proprio di sì, non c’è paragone e, un po’ come tutte le cose che si acquistano su internet, non sai mai cosa ti aspetta veramente seppur la scelta non manchi vista l’esistenza di tante piattaforme specializzate. A trarne beneficio è stata senza dubbio la conoscenza, basti pensare che chi si affaccia oggi al mondo del DJing può comprare, oltre al nuovo, una miriade di ristampe e, possibilità economiche permettendo, addirittura gli originali di cui magari si ignorava l’esistenza. Negli anni Settanta ed Ottanta i mezzi erano pochi per approvvigionarsi di dischi “differenti”, era necessario spostarsi in altre città e nel mio caso cito il Disco Più e la Dimar a Rimini, dove riuscivo a trovare cose fuori dai canoni disco.

Ritieni che la digitalizzazione abbia intaccato irrimediabilmente il valore attribuito alla musica?
Paradossalmente la tecnologia, pur rappresentando le fondamenta della musica contemporanea, ha generato un effetto boomerang. Aver reso tutto facilmente accessibile, troppo direi, ha finito col provocare un appiattimento dei gusti e delle conoscenze, e non solo nell’ambiente musicale. Ormai non si fatica più per scoprire qualcosa, a prescindere dall’area di interesse, e in alcuni casi l’uso del vinile, considerato come oggetto di resistenza alla digitalizzazione stessa, si è trasformato in un modo per apparire e darsi un tono. Comunque, al di là di ogni congettura, credo sia ormai sotto gli occhi di tutti che l’avvento del CD (prima) e del download (poi) abbia ucciso definitivamente la discografia, impoverendo le produzioni come non mai. Ormai un brano non dura più di una settimana sulle piattaforme, al massimo due se alle spalle c’è una grossa etichetta, poi solo il dimenticatoio. Prima dell’avvento del web si investiva sulla musica in maniera diversa, dalla grafica per la copertina alla scelta degli studi di registrazione passando per i musicisti e i cantanti. Adesso, con la tecnologia a basso costo ormai diffusa capillarmente in ogni angolo del globo o quasi, si può produrre un disco dalla a alla z con pochi mezzi e in casa. Tuttavia, secondo me, il disco in vinile continuerà a rappresentare meglio questo mondo rispetto ad altri supporti, e ci sarà sempre chi lo supporterà per l’amore di ascoltare o proporre ad altri quelle musiche. Il disco ha bisogno di uno spazio fisico che si materializza tra gli scaffali e questa è una delle ragioni che terrà in vita il valore della musica.

Il retro della copertina di “Walking In The Street” con le foto del Penny Club

Una delle prime produzioni su cui appare il tuo nome è stata “Walking In The Street” di Gold Rush And The Sun-Shine-Sisters, edita dalla Best Record di Claudio Casalini nel 1985. Come ricordi le tue primissime esperienze in studio di registrazione? Quali motivi spingevano allora i DJ come te a cimentarsi nella composizione?
Era il periodo in cui le discoteche sponsorizzavano i 12″ per farsi pubblicità, basti pensare allo Xenon di Firenze o a L’Altro Mondo Studios di Rimini. Per me era l’occasione giusta per oltrepassare la linea di confine tra DJ e produttore così avanzai la proposta a Carlo Bernaschi, proprietario del Penny Club, una splendida mega discoteca a Frascati, zona Castelli Romani, allestita in un palazzo dell’Ottocento e in cui ho lavorato come resident per parecchi anni. Accettò ed infatti sul retro della copertina vennero piazzate fotografie e logo del locale. Dal punto di vista musicale invece, Casalini, dopo aver ascoltato le mie idee, mi suggerì di svilupparle e registrare il tutto nello studio di Stefano Galante, compositore ed arrangiatore che insieme al bassista Paolo Del Prete aveva realizzato già diverse produzioni come “Sweepin’ Off” di High Resolution e “Do It Again” di Asso. La voce invece era di Orlando Johnson, presenza consolidata nelle produzioni italiane di quegli anni. Nello studio di Galante rimasi totalmente affascinato dalla strumentazione: il multitraccia, le batterie elettroniche, i campionatori, i sintetizzatori, ma a restare più impresso nella mia mente fu il processo di costruzione e stesura del brano, insomma, la creazione del pezzo musicale partendo dal nulla. Un anno dopo l’uscita di “Walking In The Street” fu la volta del mio primo remix, quello di “I Feel Good” di Herbie Goins pubblicato dalla Jumbo Records, una delle tantissime label raccolte sotto l’ombrello della Best Record di Casalini. Per l’occasione registrai, sempre su consiglio di Casalini, nel mega studio di Mario Zannini Quirini, oggi direttore d’orchestra. Dopo quelle due esperienze decisi che il mio futuro non sarebbe più stato solo nella consolle di una discoteca ma pure dietro il mixer di uno studio di registrazione. Cominciai gradualmente a comprare la strumentazione necessaria e alla fine degli anni Ottanta trovai un socio per aprire il primo studio. Da quel momento non avrei più trascorso i pomeriggi esclusivamente nei negozi di dischi ma anche nei punti vendita di strumenti come Musicarte e Cherubini. A spingere i DJ verso la creazione di musica in quegli anni ritengo sia stato il desiderio di sperimentare, alimentato fortemente da quelle “macchine infernali” che sprigionavano suoni mai sentiti prima, almeno per me fu così e credo che lo stesso valga per la maggior parte di coloro che gravitavano intorno a quel mondo. La voglia di spingersi sempre oltre era testimoniata anche dai dischi stessi, specialmente quelli provenienti dal Regno Unito che offrivano suoni in continua evoluzione. Il fermento era notevole quanto la condivisione: a tal proposito ricordo quando nell’ambiente romano si sparse voce dell’ottimo utilizzo che facevo del campionatore a tastiera Casio FZ-1 dal costo più accessibile rispetto ad altre macchine dai nomi maggiormente blasonati. Nel mio studio ci fu un bel via vai di amici armati di block notes per prendere appunti. Tra gli altri Michele Prestipino ed Eugenio Passalacqua del team Full Beat di Faber Cucchetti, e Claudio Coccoluto che mi chiese ragguagli sul tempo di campionamento e funzioni varie, seppur alla fine optò per un E-mu Emulator. Oggi le cose sono nettamente diverse, più produci e più ti metti in mostra cercando di ottenere ingaggi per le serate, rimasta praticamente l’unica maniera per guadagnare denaro. Prima gli introiti invece arrivavano principalmente dalle produzioni discografiche. I limiti erano rappresentati dal costo proibitivo delle strumentazioni. La mia prima produzione in assoluto, “The Story Is True” di Cut & Sew And The Partyrock, la feci con un mixer Tascam M-35, il campionatore Casio FZ-1 di cui parlavo prima, un expander Yamaha TX81Z, un multieffetto Lexicon ed una drum machine Yamaha RX5, oltre ad un Technics SL-1200 ed un registratore Revox B77. Fu un vero e proprio taglia e cuci autoprodotto, a cui parteciparono per l’editing Luca Cucchetti e Mauro Convertito, rispettivamente nascosti dietro gli alias L.L. Full C. e Moor Funk’s. Gli scratch invece erano di Ice One ma non ne sono proprio sicuro, sono passati così tanti anni.

Uno scatto che immortala alcune produzioni discografiche di Berardi, diversi flight case e il vecchio setup utilizzato. In particolare, a sinistra dall’alto in basso, si vedono Roland R-8, Casio FZ-10M, Oberheim Matrix 1000, E-mu Morpheus, E-mu Vintage Keys, E-mu Orbit 9090, Akai S3000 ed Akai S2000, accanto invece Casio FZ 1 e Roland JX-10 (Super JX)

Venivi da un passato fatto di rock, funk e disco. Come approcciasti alle “musiche nuove” come hip hop, house e techno?
Il mio approccio con la musica avvenne prima dell’avvento dell’elettronica da ballo, intorno agli undici/dodici anni, quando prendevo lezioni private di pianoforte e chiesi ai miei di regalarmi una batteria acustica (semiprofessionale ovviamente!) ed una pianola della Elka. Al DJing giunsi in seguito, verso i quattordici/quindici anni. Il primo locale in cui misi i dischi era un piccolo club di quartiere chiamato Marilyn. Passare dal funk/disco all’hip hop fu quasi naturale. Chi, come me, aveva seguito personaggi come DJ Kool Herc, Grandmaster Flash & The Furious Five, Marley Marl, Afrika Bambaataa, Whodini, Kurtis Blow, Spoonie Gee, Sugarhill Gang ed altri ancora non faticò certamente ad apprezzare la nuova ondata innescata dai Run-DMC, LL Cool J, Public Enemy o Eric B. & Rakim. La transizione dall’hip hop alla (hip) house invece fu stuzzicata dai campionatori e da pezzi come “Beat Dis” di Bomb The Bass o “Theme From S-Express” di S’Express che cambiarono l’utilizzo del sample rispetto a quello in uso sino a quel momento nell’hip hop. Il resto avvenne grazie alla continua evoluzione e sperimentazione di suoni, d’altronde l’avvicendarsi dei generi musicali è andato di pari passo con le innovazioni tecnologiche.

Un flight case di Berardi decorato da Ice One nel 1988

A partire dal 1989 la tua attività in ambito discografico subisce una netta intensificazione. Col supporto della Energy Production di Alvaro Ugolini e Dario Raimondi Cominesi metti su la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti e Sebastiano ‘Ice One’ Ruocco e poi produci musica (come il fortunato “You Don’t Get Stop”) con la sigla M.B., acronimo che ti accompagna tuttora. Potresti raccontare quella particolare fase creativa della tua carriera?
A fine anni Ottanta la musica hip hop imperversava nella capitale dove nascevano di continuo nuovi gruppi rap, grazie anche alla spinta dei film usciti qualche anno prima sulla break dance, uno su tutti “Beat Street”. In quel contesto nacque la Mad DJ’s Band insieme a Luca Cucchetti, fresco di consolle condivisa con Jovanotti e del remix del suo “Walking”, ed Ice One, giovanissimo rapper e talentuoso writer (mentre eravamo in studio lui disegnava su qualsiasi superficie gli capitasse a tiro, conservo ancora qualche flight case coi suoi graffiti e il primo logo di M.B. è proprio opera sua!). Nel progetto Mad DJ’s Band coprivamo ruoli precisi: io mi occupavo dei sample, della parte ritmica, della struttura e del mixaggio, i testi e gli scratch erano di Sebastiano mentre gli editing di Luca. Poi, a seconda delle esigenze, interpellavamo amici come Elvio Moratto, che suonò le tastiere nel singolo d’esordio, “Get Mad”, o il giovane talento Stefano Di Carlo che si occupò delle linee melodiche dei brani pubblicati in seguito. Gli scratch addizionali invece erano degli italiani usciti vittoriosi dalle gare del DMC come Francesco Zappalà, Giorgio Prezioso e Andrea Piangerelli. Realizzammo tre singoli ed un doppio album a cui si aggiunse pure un 12″ con su incise basi ed effetti vari, “Mad DJ’s Grooves Volume 1”. M.B. invece nacque come avventura solista per poter identificare il mio lavoro in studio. Qualche viaggio oltremanica e le uscite che arrivavano dagli Stati Uniti mi spinsero a cimentarmi in altri generi. La X-Energy Records mi chiese di dare un taglio hi NRG alle nuove produzioni e in tal senso credo di aver campionato davvero tutto il campionabile. Avevo scatole piene di floppy disk con sample di bassline e sequencer in stile Giorgio Moroder, Patrick Cowley e Bobby Orlando. Per “Fast And Slow” del 1989, ad esempio, usai un frammento di “Hills Of Katmandu” di Tantra, prodotto da Celso Valli esattamente dieci anni prima. La grafica in copertina in stile murales era di Ice One. Per i dischi a seguire invece cambiai marcia anche grazie all’apporto di Stefano Di Carlo che suonava le tastiere. “The Beat”, del 1990, è quello a cui sono più legato e penso mi identifichi meglio, ma quell’anno uscì pure “You Don’t Get Stop” che riscosse un discreto successo e venne licenziato in Germania dalla Logic Records degli Snap! e in Spagna dalla Boy Records. I due singoli successivi, “Feel The Heat” e “Make It Right”, erano contraddistinti da un suono più duro influenzato dai rave di allora che riuscivano a raccogliere folle immense di pubblico anche di 5000 persone. All’Ombrellaro del 4 aprile 1992, a cui partecipò pure un giovanissimo Aphex Twin, eseguii dal vivo “Make It Right” così come si può vedere in questo documentario, e quella fu l’ultima uscita su X-Energy Records che per me chiuse il filone della rave techno.

Underground Nation Undertour Sensation (sopra) e Cosmic Underground (sotto), due produzioni particolarmente ricercate del repertorio di Berardi

Tra 1992 e 1993 col citato Cucchetti realizzi “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation e “Trance Me EP” di Cosmic Underground, editi rispettivamente da Mystic Records ed R. Records, due tra le numerose etichette patrocinate dal negozio Re-Mix di Sandro Nasonte. Ai tempi i negozi di dischi potevano rappresentare punti di ritrovo e confronto tra addetti ai lavori e semplici appassionati. Alcuni si trasformarono in veri e propri quartier generali di etichette o freemag, come il Disco Inn di Modena e il Disco Più di Rimini o, all’estero, il Disco King di Mouscron e il Blitz da cui nacquero la DiKi Records e la Bonzai come raccontiamo qui e qui. Ritieni che il web abbia sostituito egregiamente quelle iniziative oggi rimaste tra le espressioni di un mondo che non esiste più? In caso contrario invece, cosa si stanno perdendo le nuove generazioni rispetto alle vecchie?
Tra ’91 e ’92 ci fu un cambiamento quasi radicale. La house continuava ad evolversi, specialmente nel genere deep che iniziò ad allargarsi a macchia d’olio in Italia dove nacquero tantissime accreditate realtà guidate da personaggi come MBG (che per me resta il maggior esponente italiano di quella scuola), Alex Neri ed Andrea Torre, il “pifferaio magico”. Per quanto mi riguarda, quel cambiamento fu espresso pienamente da “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation, prodotto ancora con l’amico Luca Cucchetti (fu sua l’intuizione di unire le forze con Torre) che curò il mixing finale e Stefano Di Carlo alle tastiere. La versione più emblematica è la Noneta del citato Andrea Torre. Il progetto sembrava fatto su misura per il movimento che gravitava intorno al suo seguitissimo programma radiofonico e le serate “tappetose” al Uonna Club, uno storico locale romano in cui si celebrava proprio questo genere. La prima volta che portai il provino a Torre fu subito amore, ricordo ancora i momenti della costruzione di quella versione. L’idea (geniale) di aggiungere la voce di una signora anziana che raccontava la poesia “Le Nuvole” di Fabrizio De Andrè fu di Peter, il commesso di Best Record menzionato prima, e non a caso “nuvolosità variabile” era uno slogan creato ad arte da Andrea per il suo programma mentre il nome del progetto prendeva spunto da Underground Nation, la classifica deep in onda su Radio Centro Suono, un’emittente romana che in quegli anni rappresentò l’epicentro di un vero e proprio movimento. Dulcis in fundo, l’uscita del disco coincise con la nascita di mio figlio Andrea menzionato tra i ringraziamenti sul centrino, e il sample del bambino nella versione Hardcore di Paolo ‘Zerla’ Zerletti non fu casuale. Il “Trance Me EP” di Cosmic Underground invece nacque un anno dopo e l’idea di partenza era realizzare un remix di “Save Me” ma con un arrangiamento più trance. A quella versione aggiungemmo due inediti, “Minimal Dream” ed “House Evolution”. A differenza di quando uscì, oggi è diventato un disco piuttosto ricercato e con un discreto valore per gli appassionati e ciò non può che rendermi felice. Ho già ricevuto diverse richieste di ristampa. Per quanto riguarda i negozi, credo che negli anni Novanta Re-Mix sia stato un vero e proprio quartier generale, un punto di riferimento per la quasi totalità dei DJ e produttori di quel sound ma anche per coloro che ascoltavano la radio e partecipavano agli eventi. Una tappa obbligata per gli addetti ai lavori che bazzicavano la club culture capitolina, per non parlare poi delle produzioni annesse. Basterebbe citare la Sounds Never Seen, la Plasmek, la Synthetic, la Nature Records o la Killer Clown Records che hanno visto come protagonisti Lory D, Andrea Benedetti, Mauro Tannino, Stefano Di Carlo, Marco Passarani, Cristiano Balducci e molti altri ancora, tutte realtà che hanno contribuito alla nascita di una scena riconosciuta anche all’estero. I giovani adesso sono abituati a comprare online, chi è passato da lavorare dietro il bancone di un negozio agli store virtuali ha fatto comunque un lavoro enorme. Noto con piacere il fiorire e il proliferare di realtà che combinano etichetta, produzione, mastering e distribuzione con intenzione di dare spazio sia a nuove proposte che a ristampe di classici o rarità del passato.

Nel 1994 il progetto Cosmic Underground si trasforma in Cosmic Galaxy ed apre il catalogo della Virtual World, etichetta distribuita dalla milanese Discomagic a cui, nello stesso anno, tu e Cucchetti destinate “Pussy” di The Fair Sex, altrettanto ambito per i collezionisti. Come arrivaste a Lombardoni?
Cosmic Galaxy è stata croce e delizia. Per me ha rappresentato uno dei momenti peggiori a livello personale e, di conseguenza, una fase di stanchezza mentale. Avevo un cassetto pieno di idee e progetti lasciati a metà, così provammo a mettere in ordine qualcosa e finalizzare le tracce incomplete. Ricavammo tre DAT ma non ricordo quanti pezzi fossero incisi sopra. Ad occuparsi di chiudere i contratti con le etichette è sempre stato Luca e quella volta partì alla volta di Milano. Negli uffici della Discomagic incontrò Emilio La Notte che ascoltò i brani e creò appositamente la Virtual World per prodotti di quel tipo, diciamo un misto tra techno, minimal e deep house. Furono stampate 500 copie di “Dream Girl” di Cosmic Galaxy ed altrettante di “Pussy” di The Fair Sex. A seguire arrivarono “Change Position” di A Girl Called Bitch su Subway Records e “You Don’t Get Stop” di Morena su Out. Era ciò che restava di quei DAT ma francamente non ho memorie in merito. “Dream Girl” è stato ristampato nel 2019 dalla Obscure World mentre il brano “Walkin’ On The Moon” è finito sull’olandese Safe Trip per il terzo volume della fortunatissima compilation “Welcome To Paradise”. Per maggio è atteso un EP su KMA60, la label di Jamie Fry e Dana Ruh, che su un lato conterrà “Save Me” ed “House Evolution” di Cosmic Underground e sull’altro “Cosmic” e “Virtual Transpose” di The Fair Sex. Mi rende felice sapere che a distanza di tanti anni questi brani facciano parte di una cultura musicale ben definita e che le nuove etichette ne siano consapevoli.

Gli Harlem Hustlers in una foto del 2001

Negli anni Novanta chi, come te, produceva tanta musica ricorreva all’uso intensivo di molteplici nomi di fantasia a differenza di oggi, con la scena contraddistinta da un individualismo assai più pronunciato. Alito, Base On Space, The Night Fever, Critical Release, Players Inc., Star Funk e The Hammer sono solo alcuni di quelli che ti riguardano, ma menzione speciale merita Harlem Hustlers, condiviso con Roberto Masutti sin dal 1996, con cui realizzi vari brani ma soprattutto remixi un numero abissale di artisti. C’era (e c’è) un preciso modus operandi nel vostro lavoro in studio?
Usare più pseudonimi contemporaneamente era nella norma. Avere almeno due produzioni nuove ogni mese, che il più delle volte diventavano tre o quattro, obbligava ad una scelta simile per non inflazionare il nome su cui si puntava di più. Poi entravano in gioco ragioni di direzione musicale o di esclusive strette con alcune etichette. Come Base On Space, ad esempio, ho prodotto per la Lemon Records (di cui parliamo qui, nda), per la Big Big Trax di Victor Simonelli e per la D:Vision, Star Funk era destinato alla milanese Hitland, Cyclone alla Propaganda… Harlem Hustlers invece nacque per pura casualità con la voglia di provare a cambiare lo status quo della house nella seconda metà degli anni Novanta. Conobbi Roberto Masutti tramite un amico in comune. Ad oggi abbiamo realizzato, tra remix e produzioni, quasi duecento brani. Lui è un vero esperto dell’hardware e software, sempre aggiornatissimo sulle novità e con una specialità per l’effettistica. È dieci anni più giovane di me ed ha un gusto musicale molto raffinato. Dopo i primi lavori portati a termine in studi diversi, decidemmo di metterne su uno tutto nostro, il Penthouse Studio, ancora esistente, situato all’ultimo piano di un edificio. Scelsi il nome Penthouse anche in virtù di un apprezzato programma radiofonico su Radio Centro Suono. Il nostro rapporto è andato oltre la semplice collaborazione lavorativa. A tenerci uniti, oltre ad una solida amicizia, è sempre stato un grande rispetto reciproco. Modus operandi? Ascoltiamo il brano da remixare, decidiamo la direzione da prendere ed una volta trovato il sample giusto da accostare, ci dedichiamo alla linea di basso, alla drum e all’arrangiamento. A seguire stesura e missaggio finale, da riascoltare dopo un paio di giorni di pausa. Ricordo ancora molto bene l’emozione che provammo quando, grazie alla D:Vision, ascoltammo il 24 piste originale di “Guilty” delle First Choice, in cui le cantanti ridevano, scherzavano e provavano gli strumenti. Prima di quel momento per noi era una cosa impensabile poter lavorare sui brani della Philly Groove Records. Poi avremmo messo le mani pure su “Put Yourself In My Place” di TJM, in origine su Casablanca, su “Lovin’ You Is Killing Me” dei Moment Of Truth, dal catalogo Salsoul, e su “Don’t Put Me Down” di Finishing Touch: la nostra Soul Reconstruction Mix era tanto cara a Frankie Knuckles. Qualche tempo fa Domenico Scuteri della Lemon Records, a mio parere tra i migliori musicisti, compositori e sound engineer italiani, definì gli Harlem Hustlers gli artefici del “cut off sampling”. Non so se effettivamente siamo stati i primi ma quando sento un disco nuovo che lavora col filtro passa basso e l’automazione non posso non ricordare che noi lo facevamo già venti (e passa) anni fa. Anche con gli A&R delle varie etichette con cui abbiamo lavorato e collaborato c’è sempre stato un profondo rispetto. In qualche caso, come con la Strictly Rhythm o la Azuli Records, le richieste riguardavano perlopiù piccole correzioni ma mai stravolgimenti. Con la X-Energy c’era un rapporto praticamente quotidiano e il confronto con Alvaro Ugolini portava tanti buoni consigli. Una volta Bob Sinclar ci chiese le parti del remix che realizzammo per la sua hit del 2006, “World, Hold On (Children Of The Sky)”: volle fare un editing della nostra versione migliorandola con un paio di correzioni sulla stesura. Il risultato su la Bob Sinclar Vs. Harlem Hustlers Remix. Con Sinclar, peraltro, ci furono precedenti molto lusinghieri. Già nel 2004 infatti remixammo “Sexy Dancer” e la nostra versione venne pubblicata pure sulla sua Yellow Productions, e grande soddisfazione giunse anche quando il remix che facemmo per “Give A Lil’ Love” venne scelto dalla Tim come sigla del campionato di serie A 2006-2007.

Con alcuni musicisti capitolini ti sei affacciato anche alla musica lounge con Joker Juice.
Esattamente. Joker Juice nasce come progetto commissionato dalla Energy Production a cui hanno preso parte diversi musicisti una quindicina di anni fa circa. La considero una meteora quasi sperimentale in un periodo in cui imperversava la musica lounge con le mitologiche compilation in stile “Buddha Bar”. Alcuni brani dell’album “Contrast” sono stati selezionati per numerose compilation specializzate nel settore.

Continui tuttora a rieditare pezzi per la Full Time Records: cosa pensi del re-edit “selvaggio” praticato da quelle etichette, fisiche e digitali, che sfruttano la musica di altri ma senza alcuna autorizzazione da parte di autori ed editori depositari dei diritti? È un fenomeno arginabile in qualche modo?
Il re-edit che definisci “selvaggio” è un problema culturale, praticato perlopiù da chi vuole solo cavalcare l’onda di un genere senza farsi troppi scrupoli e non conosce a fondo la materia o non gliene importa nulla di approfondire sulle radici del brano che sta utilizzando. Un ventenne alle prese con un pezzo anni Settanta/Ottanta non si pone troppi problemi e preferisce fare ciò che meglio crede, aiutato dai software che facilitano la manipolazione. Però per fare cose buone non basta mettere una cassa dritta su un sample. Il re-edit dovrebbe limitarsi ad isolare le parti migliori di un brano e sistemarle in modo da non avere quelle interruzioni o classiche pause dei pezzi disco/funk. In questa disciplina uno dei migliori per me resta Danny Krivit. Leggere il suo nome sui dischi mi fa subito pensare ad un prodotto concepito col massimo rispetto per l’artista. Per quanto mi riguarda, cerco di essere sempre molto attento a non oltrepassare il limite. Provo un rispetto profondo per l’artista su cui lavoro e d’altronde vengo dalla scuola in cui si potevano campionare dalle due alle quattro battute. In passato c’era più rigidità nel controllo dei sample, adesso se il brano funziona, che sia un edit o un remix, si trova un accordo tra l’etichetta/editore e il producer creando una buona opportunità di lavoro per entrambe le parti. Tornando alla domanda, non credo che la pseudo cultura di saccheggiare materiale altrui sia arginabile. Ci dovrebbe essere un’educazione musicale, una sorta di bon ton che indichi dove fermarsi prima di essere risucchiati nel mercato ormai troppo inflazionato del disco re-edit. Speriamo in un cambio di direzione e che si ritorni a scrivere qualche nota in più in onore della nostra amata house music. Collaborare con la Full Time per me è una gran bella soddisfazione. Avere la possibilità di lavorare su brani inavvicinabili quando iniziai la mia carriera è qualcosa di magico. Adesso, con tutto il rispetto possibile, cerco di renderli più attuali e fornire ad essi una marcia in più ma senza offendere le versioni originali.

La pandemia da coronavirus ha “congelato” il mondo delle discoteche da ormai un anno a questa parte. In Rete si sentono e leggono tanti buoni propositi legati all’agognata ripartenza di cui però al momento nessuno è in grado di prevedere l’inizio. Credi sia possibile ristabilire priorità, scala valori e meritocrazia in un settore come quello del nightclubbing che nell’arco di un trentennio circa ha remato costantemente verso la mercificazione dell’arte e della passione?
Secondo me la pandemia ha solo dato lo schiaffo finale ad un mondo che ormai non funzionava più da un pezzo. Ci vorrà tempo e un cambio generazionale non indifferente per tornare ai fasti di una volta, bisognerebbe creare qualcosa di autenticamente nuovo per dare un seguito a ciò che fu fatto di buono in passato. Spero che l’incubo del covid-19 possa finire al più presto, abbiamo bisogno psicologicamente dei nostri punti di riferimento ma soprattutto di musica.

Due ultimi scatti relativi ad altre parti della collezione di Massimo Berardi

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato aggiungendo per ognuno di essi un’accurata descrizione.

Pink Floyd – The Dark Side Of The Moon
Da ragazzo rimanevo affascinato da tutto ciò che era futuristico e fantasticavo sul fatto che nel 2000 le astronavi avrebbero sostituito le utilitarie. “The Dark Side Of The Moon”, uscito nel 1973, è in assoluto l’LP che mi ha accompagnato più di tutti in quel viaggio immaginario. Sperimentazione allo stato puro, sia per l’uso dei sintetizzatori che per i rumori d’ambiente utilizzati come mai nessuno aveva saputo fare prima. Per tutti quelli della mia età fu un’introduzione a sonorità da viaggio mentale, un vero e proprio apriscatole delle emozioni.

Cerrone – Love In C Minor
La storia della disco music è piena zeppa di nomi importanti che hanno dato vita ad essa e Cerrone è sicuramente uno di questi. La prima volta che lo ascoltai avevo circa quattordici/quindici anni, i gemiti femminili abbinati alla cassa dritta mi fecero andare letteralmente in estasi. Potrebbe essere definito quasi un pezzo proto house. Da metà in poi, con l’esplosione di accordi e i fraseggi, era come fare sesso con le note musicali. Sono particolarmente legato a questo disco perché mi ricorda un caro amico che non c’è più con cui trascorrevo i pomeriggi a selezionare ed ascoltare musica sul suo mega impianto.

Jean-Michel Jarre – Oxygene
Dire che questo disco mi abbia influenzato è poco, e per capirlo basta ascoltare “Dream Girl” di Cosmic Galaxy. Lo comprai quando ero molto giovane ma nonostante ciò diedi ad esso il giusto valore tanto da ascoltarlo ininterrottamente in cuffia quasi a stancarmene. Lo “incrociai” nuovamente qualche anno dopo cercando di scoprire qualcosa in più sull’autore e sull’utilizzo che fece degli “strumenti infernali” tra cui il primo modello del VCS3 della EMS di Peter Zinovieff, l’organo elettrico Eminent 310 Unique ed una drum machine Korg Mini Pops. Semplicemente spettacolare.

Rose Royce – In Full Bloom
Cercai questo album del 1977 per un brano in particolare, “Do Your Dance”, uno di quelli che si sentivano nella Baia Degli Angeli, il tempio che ha spinto tanti ad intraprendere l’avventura da DJ. Nella sua interezza, “In Full Bloom” è uno di quei dischi che si apprezzano col passare del tempo. Puoi ascoltarlo in qualsiasi momento della tua vita e ti sembrerà sempre di averlo appena comprato. A produrlo fu Norman Whitfield, uno dei creatori del cosiddetto Motown Sound. Tra gli altri brani contenuti segnalo “Wishing On A Star” scritto da Billie Calvin e riproposto nel 1998 da Jay-Z in una fortunata cover.

Herbie Hancock – Future Shock
Hancock è uno dei tanti leggendari musicisti che hanno suonato per la band di Miles Davis. “Future Shock”, uscito nel 1983, probabilmente non è il lavoro migliore del suo repertorio ma il più vicino ai poveri mortali amanti della disco/funk, come me. Un artista un po’ nomade a cui è sempre piaciuto passare da un genere all’altro e che per l’occasione si avvicinò sensibilmente all’elettronica sperimentandone le potenzialità insieme al grande bassista Bill Laswell. A venirne fuori fu un fantastico album electro funk trainato dalla hit “Rockit”, devastante in pista.

Gaznevada – I.C. Love Affair
Nei primi anni Ottanta le domeniche pomeriggio in discoteca erano musicalmente assai diverse rispetto al venerdì o al sabato, quando la selezione era più certosina ed elegante. L’età media del pubblico che frequentava i locali la domenica pomeriggio era più bassa e quindi c’era grande possibilità di sperimentare cose nuove. A me piaceva molto proporre le novità di matrice elettronica, specie il filone italo disco, ma senza abbassare troppo la qualità, e i Gaznevada, come i N.O.I.A. o gli International Music System (di cui parliamo qui e qui, nda), si prestavano perfettamente a tale scopo. “I.C. Love Affair”, pubblicato dalla bolognese Italian Records (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), è uno dei pezzi con cui ho rischiato quasi di svuotare la pista la prima volta che lo misi ma poi, armandomi di costanza e tenacia, sono riuscito a farlo diventare un inno. Agli amanti del genere consiglio i remix pubblicati nel 2015 raccolti nella Exclusive Edition.

Adonis – No Way Back
È doveroso per me ricordare la Trax Records, iconica etichetta di Chicago che ha sconvolto il mercato dance nella seconda metà degli anni Ottanta con una miriade di produzioni passate alla storia. La scelta è difficile ma è caduta su questo brano di Adonis del 1986 che mi ricorda il primo viaggio a Londra. Entrai in uno dei tanti negozietti di dischi sparsi per la città e c’era questo brano sparato da un mega impianto. Rimasi folgorato dai club e dal modo in cui lì si viveva la musica, passando dai negozi di abbigliamento in stile acid house ed ovviamente quelli di dischi. Un autentico percorso di vita.

University Of Love Featuring MBG – Vostok 3
Un vero colpo al cuore, “Vostok 3”, uscito nel 1992, ha fatto il bello e il cattivo tempo dei miei sentimenti, un quadro da appendere in un punto quasi nascosto della casa in modo da soffermarti a guardarlo ogni volta che ci passi davanti. Inneggia a momenti memorabili di un periodo glorioso della musica dance e del clubbing italiano, un’opera d’arte per me come tutto quel filone nostrano deep house che ancora oggi, a distanza di ormai un trentennio, continua ad avere un ottimo mercato.

Raymond Castoldi – Biosphere 2
Se un giorno qualcuno mi domandasse quale disco avrei voluto realizzare indicherei senza ombra di dubbio questo, pubblicato dalla statunitense X-Ray Records nel 1993. Sino a qualche tempo fa ne possedevo tre copie, una l’ho venduta ad un carissimo collega, una continuo ad usarla senza sosta, l’ultima invece la ho riposta con cura sullo scaffale. Un disco pieno di tutto ciò che un DJ ha bisogno, suoni acidi, melodia, una bassline dal suono retrò e tanto amore.

Danny Tenaglia – Tourism
Penso sia uno degli album house più completi mai incisi in assoluto. Pubblicato nel 1998, gira su suoni techno, tribal e progressive incorniciati da splendide melodie. Un quadruplo pieno di pezzi (tra cui l’arcinoto “Music Is The Answer (Dancin’ And Prancin’)”, nda) che fanno la differenza ancora oggi. Il mio preferito resta “Do You Remember” col featuring di Liz Torres. Al Penthouse Studio non passò inosservato, io e Roberto Masutti ne comprammo una copia a testa.

(Giosuè Impellizzeri)

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Anna Bolena, amante della musica senza confini

All’anagrafe è Antonella Pintus ma il mondo della musica la conosce come Anna Bolena. Nata a Sassari nel 1970 e trasferitasi a Roma nel 1989, inizia a mettere dischi come DJ nel 1995 e in parallelo organizza rave ed eventi di musica elettronica underground diventando la prima DJ donna attiva nel circuito dei freeparty capitolini. Creativa e propositiva, nel 1997 è tra i co-fondatori di Peti Nudi, fanzine che, come recita la sua biografia, «veicola informazioni su musica, stati alterati di coscienza e contesti sociali giovanili». Nel 1999 acquista il primo PC e, da autodidatta, si dedica alla composizione di musica con l’ausilio di vari programmi software. Nel contempo matura l’idea di creare un’etichetta discografica, Idroscalo Dischi, che lei stessa considera la prima ad essere generata dal fenomeno dei freeparty illegali. Legata a matrici industrial, IDM ed allo sperimentalismo rumorista di stampo russoliano, la label debutta nel 2001 con l’ambizioso “Smash Biotek” al cui interno si rinviene la musica, tra gli altri, dei D’Arcangelo, Marco Passarani, Andrea Benedetti e Marco Micheli ma pure di presenze estere come Venetian Snares, Eiterherd e Saoulaterre, e poi cresce di anno in anno contando sul supporto di artisti accomunati dalla propensione a spingersi ben oltre i confini della musica da ballo. Passando da esperienze musicali alle multimediali, la Bolena, di stanza a Berlino dal 2004, è una testimone autorevole della scena alternativa nostrana, contesto che meriterebbe più approfondimenti obiettivi dopo anni di pregiudizievoli demonizzazioni da parte dei media generalisti.

Antonella Pintus ancora adolescente in una foto del 1986

Con che tipo di ascolti trascorri infanzia ed adolescenza?
Mia madre era una promettente pianista. Da piccolina studiava al Conservatorio Luigi Canepa di Sassari e di lei hanno parlato sia giornali locali che nazionali. Quando rimase incinta di me aveva appena diciassette anni ma continuò comunque ad esercitarsi almeno otto ore al giorno, la sua passione per il pianoforte era davvero grande. Credo di aver ereditato proprio da lei l’orecchio per la musica classica e quella più “raffinata”, a cui mi sono avvicinata sempre di più nel corso del tempo. Durante l’infanzia ero attratta da altre cose ma pian piano ho recuperato. Per il mio primo documentario girato da videomaker, ad esempio, ho utilizzato parecchi campioni di musica lirica. Il mio papà invece era un abile calciatore. Quando fu convocato nel Cagliari però suo padre non acconsentì e quindi proseguì in modo amatoriale, facendo anche da trainer per giovani talenti di altre squadre. Pure lui mi ha trasmesso la passione per la musica, sin da quando ero piccola. In casa ne girava di tutti i tipi, classica, pop, rock, tradizionale… Qualche tempo fa mio padre mi ha regalato la sua collezione di CD jazz e blues, andata ad infoltire la raccolta dei dischi di musica classica di mia madre che nel tempo ho continuato a rimpinguare. Oggi possiedo circa 7500 titoli: non è una collezione enorme ma un bel pezzo di storia e di questo ne vado particolarmente orgogliosa. Quando avevo nove/dieci anni circa, d’estate andavo in vacanza dai nonni a Palau, in Costa Smeralda, lì dove nacque mia mamma. Proprio sotto la loro casa c’era un locale, il night club del paese, frequentato principalmente dalla comunità afroamericana (militari sempre molto eleganti con le mogli al seguito) della base NATO che stava sull’isola de La Maddalena. Qualche volta riuscivo ad entrare lì dentro, pur non potendo partecipare alle feste perché minorenne. La visione della sala da ballo con le luci psichedeliche e la consolle mi colpirono ed affascinarono parecchio. Quando tornavo in camera mi sdraiavo per terra e sentivo i battiti della cassa della musica disco suonare di sotto. Mi addormentavo così e non lo trovavo neanche fastidioso visto che le estati in Sardegna sono state sempre particolarmente afose e il fresco del pavimento mi dava un po’ di sollievo. Nell’adolescenza i gusti cambiarono. Se da piccola apprezzavo la disco, il pop e il funky, gli anni Ottanta mi portarono verso altri generi musicali, primi su tutti il gothic rock, il dark e la new wave. Alcuni amici più grandi acquistavano dischi per corrispondenza e, una volta giunti “nel continente” (così come si diceva da noi) me li registravano carinamente su cassetta. In quel modo ebbi la possibilità di ascoltare ed approfondire musica di band come Joy Division, Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees, Christian Death, And Also The Trees e praticamente tutta la produzione della britannica 4AD (impazzivo per i Cocteau Twins e Dead Can Dance!). Nel contempo non disdegnavo cose tendenzialmente più commerciali come The Smiths e Morrissey a cui devo il mio vegetarianesimo, Pogues, Who, U2 e il combat rock degli Alarm. Mi divertivo a ballare con gli amici che adoravano Bowie (io un po’ meno), l’indie rock e tutta la new wave nostrana, dai Litfiba ai Diaframma passando per i Not Moving. Gran parte di quei pezzi li conservo su cassetta. Mi piacevano molto anche i Culture Club, affascinata dalla stravaganza di Boy George. Frequentare giovani omosessuali alimentò l’interesse per le tematiche legate al gender e probabilmente ad accendere la curiosità fu il fatto di essere circondata da persone piuttosto bizzarre e particolari. Per il resto i miei anni Ottanta furono piuttosto “scuri” e passarono nell’attesa di lasciare Sassari alla volta di Roma, città in cui volevo andare a vivere sin da quando avevo tredici anni. Una volta terminato il liceo ci andai per davvero, con l’obiettivo di studiare psicologia. Da ragazzina, non disponendo di molti soldi, selezionavo scrupolosamente i dischi da comprare. Iniziai ad acquistare i dischi degli U2 che andai a vedere a Modena nel 1987 a sedici anni, e di quel concerto conservo gelosamente anche un’incisione bootleg, a mo’ di cimelio. Poi Joe Jackson, Television, Patti Smith, Talk Talk, Billy Bragg, Matt Bianco e il new folk inglese dei Fairport Convention, ma anche Neil Young, Van Morrison, Joan Baez, R.E.M., The Jesus And Mary Chain, Joni Mitchell, Janis Joplin…

Cosa era per te la “musica elettronica”?
Ho iniziato ad interessarmi di musica elettronica (intendendo quella da discoteca) solo negli anni Novanta. Prima nutrivo per essa una sorta di antipatia, forse perché non mi aveva stimolato a sufficienza. Molti amici partivano dalla Sardegna alla volta del Cocoricò di Riccione ed io li sfottevo sostenendo che quella proposta lì dentro non fosse affatto “musica”. Ai tempi ero attratta da altro, in primis dalla musica suonata con gli strumenti tradizionali, ma affermare che l’elettronica non rientrasse a priori nei miei interessi potrebbe essere sbagliato e fuorviante perché il suono dei sintetizzatori aveva preso ampiamente piede nel pop e rock degli anni Ottanta. Ai tempi ballavo tantissimo e di tutto, ed anche quando mi trasferii a Roma continuai a frequentare le scene più disparate. Ero di casa al Uonna, sulla Cassia, dove la musica era ancora la new wave dei Cure, Bauhaus o Joy Division, ma la fortuna di avere un orecchio parecchio aperto mi diede lo stimolo per aprire nuovi orizzonti. Ad attrarmi fu principalmente il suono britannico, forse perché ero già appassionata del pop composto oltremanica. Negli anni Novanta l’IDM della Warp fu il genere che mi prese di più, senza ombra di dubbio. Per quanto riguarda invece la scena nostrana, vivere a Roma per quindici anni mi ha dato la possibilità di entrare in contatto col cosiddetto Sound Of Rome che ritengo la massima avanguardia anche a livello internazionale. Acquistai subito i dischi di Leo Anibaldi e dei D’Arcangelo che mi piacevano tantissimo, senza dimenticare il progetto Automatic Sound Unlimited condiviso con Max Durante (di cui parliamo qui, nda) che proponevo senza tregua nelle mie serate. Ai tempi, parlo della metà degli anni Novanta, una buona parte degli avventori dei rave, anche più giovani di me, era interessata e disposta a sentire cose realmente alternative e non necessariamente orecchiabili. Nel corso del tempo ho progressivamente aumentato la conoscenza approfondendo ed interessandomi a generi complementari, recuperando davvero tanto della produzione italiana che non tenni in considerazione perché consideravo troppo commerciale. Dalla deep house alla progressive sino alla hi nrg, tutto è finito nella mia collezione. A posteriori ho scoperto pure di essere letteralmente innamorata della house cantata da voci femminili. Alcuni che mi seguono si sono stupiti quando ho iniziato a proporre quel tipo di sonorità nei miei set, ma per me è stata una sorta di recupero della black music che ho vissuto da bambina negli anni Settanta. La mia passione per la musica è davvero a 360 gradi ed affrontare nuovi generi non vuole affatto essere uno scimmiottamento. Sorprendere e non dare nulla per scontato è alla base del mio concept e viene naturale contaminare continuamente le mie radici, fa parte della mia personalità, del mio carattere e del mio modo di intendere il party.

Nel ’95 ha inizio la tua carriera da DJ e, in parallelo, da organizzatrice di party, rave ed eventi underground. Come ricordi quel periodo? Il fatto di essere donna ha mai rappresentato un problema o generato discriminazioni in un ambiente dominato quasi esclusivamente dal sesso maschile?
Mi sono ritrovata in una scena che non era esattamente quella di riferimento perché ero un’attivista politica, facevo parte dei gruppi extraparlamentari romani, ero legata ai centri sociali e frequentavo principalmente ambienti anarchici e studenteschi. Dopo una fase iniziale più “commerciale”, il cui il “suono di Roma” si espresse nella sua forma migliore ma a cui non aderii, iniziai a partecipare a piccolissimi party organizzati in periferia da amici dei centri sociali. Eravamo pochissimi, dalle cinquanta alle cento persone. Avevo poco più di vent’anni e la mia passione era, semplicemente, ballare. Ad iniziare quella scena furono miei coetanei o gente poco più grande di me. Alcuni conducevano una trasmissione su Radio Onda Rossa e sdoganarono la techno negli ambienti di sinistra, lì dove erano radicati parecchi pregiudizi perché, è bene ricordarlo, la techno a Roma era collegata principalmente agli ambienti di destra. Era comprensibile quindi il motivo per cui compagni e compagne nutrissero dei preconcetti, anche perché ascoltavano tutt’altra musica come il punk e il reggae. Nel 1990, un anno dopo essermi trasferita nella capitale, iniziai a partecipare attivamente al movimento di protesta della Pantera, nato negli ambienti universitari palermitani e poi esteso in molte altre facoltà d’Italia. Seguivo i corsi di psicologia nella sede distaccata de La Sapienza che fu la prima facoltà che occupai a Roma. Proprio lì si creò il fenomeno delle posse, nato in seno alla cultura hip hop, che rappavano canzoni di protesta. Il rap era già entrato nei centri sociali e il fenomeno si ingrandì a dismisura di fronte alle folle di studenti. Poi toccò anche all’elettronica, peraltro già presente in qualche modo nell’hip hop, ed infatti alcuni rapper parteciparono alla scena rave come alcuni collaboratori degli Assalti Frontali di stanza al Forte Prenestino. All’inizio, come spiegavo prima, ero una semplice frequentatrice perché mi piaceva ballare. Un giorno, in un piccolo rave organizzato nella zona di Valle Aurelia, un paio di amici mi invitarono a mettere dei dischi, forse perché non c’era il DJ o forse perché loro erano stanchi, non ricordo più con esattezza. Era l’estate del 1995 e da quel momento non mi sono più fermata. Compravo dischi, accumulavo contatti internazionali ed allacciavo rapporti diretti coi negozi saltando i passaggi coi management di turno che ho trovato sempre un po’ discutibili. Non nascondo che essere donna abbia creato alcune situazioni imbarazzanti da parte di alcuni maschietti misogini o comunque non abituati a vedere donne dietro la consolle, e non mi riferisco solo alla mia figura artistica (approcciai al DJing in modo estremamente discreto, non considerandomi una musicista ma più un’eccentrica ed un’intellettuale visto che studio da sempre) ma soprattutto al ruolo di organizzatrice. Per lungo tempo ho gestito le consolle e ciò è avvenuto sino a pochi anni fa con l’attività di booker a Berlino, ed è capitato molte volte che alcuni DJ (anche famosi) si irritassero per il fatto che fosse una donna a gestirli. Sento comunque di aver avuto rispetto e considerazione perché sono sempre stata attiva, creativa e propositiva, e credo che tutto ciò mi abbia “salvata”. Confrontarmi coi maschi in consolle, perlopiù etero – molti amici gay non palesavano le loro preferenze sessuali come oggi, la musica era più importante dell’esprimere esigenze di tipo affettivo o sentimentale – talvolta mi ha obbligata a fare delle scelte, ad esempio rinunciare ad esprimermi in modo più coraggioso. Sia chiaro, non ho mai avuto esigenze tipiche dei maschi che erano guardati da tutti e si potevano permettere di fare i “piacioni”, atteggiamento che ho sempre odiato. Essendo donna però non potevo fare lo stesso, sarei subito passata per una poco di buono. La donna non poteva fare le stesse cose che facevano i maschi (seppur non mi piaccia molto parlare di “femmine” e “maschi”), specialmente quando si parlava poco di misoginia che era un vero e proprio tabù. Per un po’ di tempo sono stata l’unica donna in consolle nella scena dei freeparty, le amiche si occupavano di decorazioni, bar ed organizzazione ma poi, per fortuna, altre hanno seguito il mio esempio facendo crescere le quote rosa.

Perché ti trasformi in Anna Bolena? Quali ragioni ti spingono ad adottare uno pseudonimo di taglio storico?
Negli anni Novanta, quando era tanto di moda usare i nickname, iniziai come Meridiana 07, ispirata dalla Meridiana del fumetto Cybersix. Con quello pseudonimo firmai anche gli articoli sulla rivista Peti Nudi. Nel momento in cui diedi avvio all’attività da artista però, decisi di optare per uno più forte e giunsi ad Anna Bolena, figura storica perfetta per rappresentare il mio concetto di DJ. Ho letto vari libri a tal proposito e l’aspetto che mi interessava maggiormente della Bolena non era tanto quello della famiglia di nobili origini bensì la sua raffinatezza e cultura, la capacità di suonare musica, scrivere poemi e, non meno importante, la propensione a circondarsi di musicisti, esattamente quello che facevo io. A ciò si aggiunse infine l’aspetto politico: Anna Bolena e il suo matrimonio con Enrico VIII originò lo scisma anglicano, e vista la mia crisi mistica che mi ha portato ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della chiesa cattolica, ciò mi affascinò spingendomi ad abbracciare questa figura storica assai controversa.

Roma, città in cui vivi ai tempi, è stata una vera roccaforte della techno e della house ma pure dei rave che iniziano a diffondersi tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta, come hanno descritto qui e qui Leo Young e Max Durante. C’erano sostanziali differenze tra i rave/eventi che ti videro come protagonista e quelli precedenti? Esisteva un filo conduttore ed un continuum tra quelle due epoche consecutive o si trattava di movimenti che non potevano essere considerati l’uno l’evoluzione dell’altro?
Come accennavo prima, non ho partecipato alla prima fase dei rave, quella legata alla scena delle discoteche o comunque organizzata e gestita da personaggi di quel circuito. Tuttavia, nel corso degli anni, sono entrata in contatto con alcuni dei protagonisti di quel momento, come Leo Anibaldi, Lory D, Marco Passarani e Marco Micheli, collaborando in consolle o discograficamente. La differenza principale tra il primo movimento rave e quello successivo, nato intorno alla metà degli anni Novanta e meglio identificato come “illegal” o “freeparty”, era l’auto-organizzazione. Facendo parte di movimenti politici extraparlamentari che credevano fermamente nell’autogestione degli spazi sociali, portammo avanti in maniera coerente questo “diktat” occupando spazi, come capannoni industriali in periferia e gestendo autonomamente il divertimento. Era questo il messaggio più forte che lanciavamo, la nostra parola d’ordine. Iniziammo prendendo le distanze da ciò che era avvenuto prima, dalla scena considerata più “mainstream” o comunque inserita in contesti legali, seppur non mancarono rapporti con alcuni dei personaggi-simbolo di quegli eventi. La stima era immensa e certi riuscimmo a portarli nei nostri party e con le nostre regole, ma con qualche polemica. Quando venne a suonare Lory D alla Fintech, ad esempio, gli venne riconosciuto un cachet ed alcuni protestarono in nome di un approccio diverso (si suona per amore dell’arte, della musica, della politica e dell’essere alternativi) e nacquero diverse discussioni, anche accese. A posteriori mi rendo conto che fosse giusto che Lory D venisse pagato perché era un musicista e viveva di quello, ma ai tempi il nostro approccio era diverso. Sotto il profilo sonoro, la musica era molto contaminata. Passavamo dalle produzioni più famose a quelle underground, portate da amici che andavano personalmente a Londra o a Berlino a comprare dischi. Si trattava prevalentemente di limited edition di mille copie. Così conobbi la Praxis di Christoph Fringeli e tutta una serie di etichette affini che si possono raccogliere sotto il cappello della breakcore e della musica estrema che in quegli anni mi appassionò parecchio insieme alla darkstep e al drum n bass. Non dimentico ovviamente gli Spiral Tribe, famosissimi traveller britannici che riuscirono a portare il loro sound e il loro verbo fuori dai confini patri, seppur con un approccio non molto vicino alla mia sensibilità, più intellettuale, sperimentale e in qualche maniera più varia ed aperta. Tuttavia sono orgogliosa di possedere alcune edizioni originali dei loro dischi. Ad un certo punto è stato necessario legalizzare tutto, non era più possibile andare avanti così e le special guest andavano pagate. Non so se sia stata un’evoluzione o un’involuzione ma ormai viviamo in un mondo in cui non è più possibile sottrarsi alla sicurezza e al controllo sociale. Gli anni Settanta, Ottanta e in parte i Novanta sono stati importanti nella storia politica perché c’era la possibilità di muoversi ancora a livello sotterraneo. Ciò che quel periodo mi ha lasciato in eredità adesso lo esprimo a livello creativo e non ho timore del giudizio del pubblico. Quando sono in consolle voglio stimolare le persone che mi stanno davanti, non annoiarle o consumarle.

Anna Bolena in uno scatto di pochi anni fa

Nel documentario del 2011 “Tekno – Il Respiro Del Mostro” diretto da Andrea Zambelli e recensito qui, parli di un nuovo modo di vivere l’aggregazione reso possibile proprio dal movimento legato ai freeparty. Quale divario sussisteva tra il mondo delle discoteche e quello dei rave illegali?
La differenza sostanziale tra i due contesti risiedeva nell’aspetto politico. Se vai in una discoteca prendi quello che ti organizzano ma non sei tu il diretto protagonista. Chi frequentava i rave illegali invece aveva la possibilità di esprimersi molto di più rispetto all’ambiente discotecaro. Non esistevano guest list, non era necessario pagare parecchi soldi per entrare e, in linea più generale, non si subiva e si consumava quello che veniva offerto. Gli avventori dei freeparty erano persone appartenenti ad un circuito ben preciso, legato ai centri sociali ma non solo. Visti i contatti tra i vari gruppi territoriali, tra centri sociali ed altri spazi occupati, fummo capaci di portare nei nostri spazi pure ragazzi e ragazzini provenienti dai classici muretti di aggregazione sociale della Roma degli anni Novanta e questo, non lo nego, a volte ha causato problemi coi compagni che vedevano la cosa molto poco ortodossa. Resta però la soddisfazione di essere riusciti a sdoganare la techno all’interno dei centri sociali, impiegando un po’ di anni per far capire che quella musica potesse creare una nuova forma di aggregazione, e di strappare giovanissimi (minorenni inclusi) ai “muretti fascisti” mostrando loro la possibilità di poter vivere il divertimento senza essere seguiti, controllati, repressi o persino picchiati dal punto di vista fisico. Loro videro come ballare la techno senza saluti romani o altri tipi di posizioni ed atteggiamenti mentali tipici di quell’ala politica che, lo dico a malincuore, erano molto presenti nelle discoteche. Anche per questo motivo prendemmo le distanze dal mondo discotecaro, un ambiente in cui ciò che contava di più era consumare, alcool e non solo. Noi cercammo di fare controinformazione pure sull’utilizzo delle sostanze che, è inutile negarlo, c’è stato anche ai freeparty, abbondante ed esagerato. Distribuivamo volantini informativi con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui rischi che si correvano, e da lì nacquero persino ricerche, articoli e libri diffusi in un circuito esterno a quello commerciale ed istituzionale. Ad un certo punto iniziammo a cooperare pure con le istituzioni: a Bologna ad esempio, dove il movimento era legato prevalentemente al Livello 57, parecchi compagni si interessarono all’uso delle sostanze psicotrope creando spazi appositi dove la gente poteva richiedere informazioni ed essere seguita, innescando meccanismi e dinamiche superpositive per dare supporto a chi cercava aiuto dal punto di vista psicologico. Tutto ciò invece era davvero difficile trovarlo nelle discoteche. Parte di questo approccio è rimasto in vita in alcuni sex party berlinesi, dove organizzazioni operano in sinergia con le istituzioni per informare sui rischi che si corrono ad esempio facendo sesso abbinato a sostanze stupefacenti, ma senza soffocare o reprimere chi vuole praticare ciò.

In più di qualche occasione hai posto l’accento sulla valenza culturale della musica elettronica. I tuoi studi universitari (laurea in psicologia e un master in programmazione neurolinguistica e comunicazione efficace) ti hanno aiutato in qualche modo ad andare oltre il pregiudizio riservato ancora da molte persone nei confronti di (certa) musica elettronica? Perché nello specifico la techno è stata oggetto, sin da subito, di una connotazione negativa al punto da essere apostrofata come “musica del diavolo”? In tal senso, quali sono stati i grandi errori compiuti nei primissimi anni Novanta in Italia, e da chi? Sarà possibile eradicarli in un futuro non troppo lontano?
Ritengo che il mondo sia abbastanza conformista e non così propenso alle novità. La techno, analogamente ad altri generi musicali, ha subito l’ostracismo della vecchia generazione con tutte le conseguenze del caso. All’inizio in certi ambienti, come il mio, si avvertiva pure tensione per la differenza di vedute. Il fatto che la gente non abbia accettato di buon grado la techno abbinandola a cose che non avevano nulla a che fare con essa fu forzatamente normale e coerente. La techno servì a “rompere” le solite cose, anche in merito alla gestione degli spazi sociali. I rave illegali usarono la techno perché in quel preciso momento era il tipo di musica più adeguato a comunicare il nostro pensiero. Era un suono emergenziale che nella sua aggressività esprimeva protesta e che in qualche maniera ben si connetteva al concetto del “mordi e fuggi” tipico delle TAZ – zone temporaneamente autonome. Ai tempi la techno era un suono contaminato da tantissime cose e tradizioni plurime, adesso invece si è trasformata in un filone conforme, è sufficiente variarne appena il suo codice per finire in aree attigue identificate con altri nomi. Molti compagni non avevano affatto piacere di sentire la techno, non erano stimolati da quel suono come del resto non lo ero io sino a pochi anni prima. A volte, si sa, l’approccio personale può incidere sul giudizio di qualcosa. La techno per me si rivelò come un universo da scoprire ma non l’unico, visto che nel tempo la ho accantonata per seguire altri generi che invece avevo trascurato. Negli anni Novanta esisteva un approccio più aperto ma, come in tutte le decadi in cui nascono e si sviluppano cose nuove, si verificò la severa condanna dell’opinione pubblica, ma non me la sento di dare giudizi a ritroso su cosa si potesse fare o dire.

Cosa è diventata la techno nel 2021?
Molta della produzione techno attuale è la fotocopia di cose già sentite, e in questo rientra pure la mia produzione seppur tenti di fare sempre qualcosa di nuovo adoperando un suono che esprima la mia personalità e gusto. Sono cosciente di non possedere particolari capacità rivoluzionarie ma preferirei che siano i critici a stabilirlo, non come fanno alcuni artisti egocentrici e narcisisti, aiutati parzialmente dai social network. Adesso bisogna uscire dal conformismo e dalla propria comfort zone, non esiste praticamente più l’effetto sorpresa di un tempo. Anche nell’ambito dell’organizzazione sono dell’avviso che le nuove generazioni abbiano un po’ perso quella che era la nostra capacità di voler fare qualcosa di nuovo. Molti seguono pedissequamente ciò che c’è stato, senza novità e capacità creative, convinti che rientrare in una categoria possa essere sufficiente per fare carriera. È proprio il concetto di “fare carriera” a dover essere messo in discussione e su questo punto rimango sempre politica: per me la musica è uno degli elementi della vita ma non l’unico. Bisogna provare altre strade, cimentarsi in prove diverse e cercare soprattutto di essere curiosi e sempre pronti e flessibili al nuovo. In questo momento di pandemia poi ancora di più, non solo per adeguarsi ma sopravvivere. In tutta franchezza, un certo tipo di techno ripetitiva, ridondante e fastidiosa non riesco proprio più ad ascoltarla ed apprezzarla, ma non voglio passare per nostalgica perché sono più propensa a guardare ciò che arriverà e non quello che è stato. Vorrei sentire cose nuove, magari generate dal crossover tra culture diverse. Non voglio rassicurare me stessa e gli altri, amo l’effetto sorpresa.

La copertina di uno dei primi numeri di Peti Nudi

Negli anni Novanta il giornalismo musicale nostrano legato alle nuove forme di dance music (house, techno e derivati) è stato particolarmente lacunoso. Certi contenuti riuscivano a filtrare solo attraverso free press e fanzine e non tramite testate editoriali ufficiali, perlopiù interessate solo ed esclusivamente al mainstream. Tu stessa, nel 1997, hai creato una fanzine provocatoria sin dal nome, Peti Nudi. Di cosa si trattava?
Provenendo dal rock e dall’indie, ero più vicina a riviste tipo Rumore, Rockerilla o Rolling Stone e non seguendo le attività delle discoteche di conseguenza non mi interessavano quelle testate che ne parlavano. Peti Nudi era una “techno-zine” in formato A4 ripiegato. Nacque alla fine del settembre ’97 e diede l’occasione, a me ed agli altri che mi accompagnarono in quella esperienza editoriale dal sapore do it yourself, di raccontare in modo provocatorio e scanzonato la scena non commerciale della musica elettronica che ci piaceva allora. Esistevano anche altre fanzine di quel tipo come Torazine, che rispetto a Peti Nudi contava su una redazione più corposa ed una distribuzione più capillare. Il giornalismo mainstream non fu capace di trattare adeguatamente gli argomenti, ma del resto senza vivere le esperienze in prima persona è difficile raccontarle. I giornalisti al massimo si limitavano a scrivere ciò che avevano sentito dire, avvallando certe tesi piuttosto che altre (e a tal proposito ricordo una trasmissione televisiva, Lucignolo mi pare, che mandò un servizio sui rave tagliato ad hoc da cui non emergeva nulla se non ciò che volevano loro). Peti Nudi ed altre riviste simili nacquero fondamentalmente per “suonarcela e cantarcela”, consentendoci di raccontare la nostra storia e dare valore al movimento tekno dei freeparty, senza alimentare demonizzazioni su quella che fu descritta tante volte come “musica non musica”. Non dimentichiamo che l’Italia è un Paese fatto perlopiù da persone fintamente cattoliche, bigotte, destroidi e tradizionaliste, allo stesso tempo con la puzza sotto il naso e poco propense ad accettare cose che non si conoscono e che vengono messe subito all’angolo, tra “i cattivi”.

Che negozi di dischi frequentavi?
A Roma andavo da Re-Mix, l’unico ad essere superfornito della musica che mi interessava. Qualcosa la acquistavo pure attraverso amici che si recavano direttamente a Londra ed ogni tanto ero io stessa a volare all’estero. Nel 1996, in occasione della Love Parade, misi piede per la prima volta nel berlinese Hard Wax (a cui abbiamo dedicato qui un articolo di “Dentro Le Chart”, nda). Lì presi “Port Rhombus EP” di Squarepusher, su Warp, artista che proposi credo per prima nel circuito dei freeparty italiani. La gente impazzì completamente, era un disco importantissimo sia per lui che per noi, uno di quelli che hanno segnato un’epoca.

Quando e come hai iniziato a produrre musica non limitandoti più a selezionare e mixare quella degli altri?
Arrivai a comporre musica per pura curiosità e non perché avessi aspirazioni carrieristiche o ambizioni da musicista anzi, essendo figlia di una pianista, ho sempre nutrito una forma di rispetto nei confronti dei musicisti, cosa che invece spesso è mancata da parte di tanti DJ. Affrontare l’avvento delle tecnologie con l’acquisto di un computer abbinato all’installazione di nuovi programmi mi diedero la spinta a cominciare, ridendo e scherzando. Non avevo pianificato nulla e testimone di ciò che sostengo è la mia assenza dal primo disco su Idroscalo. Il rispetto marcato nei confronti di chi faceva musica da più tempo mi convinse a tenermi in disparte. Poi, pian piano, mi sono procurata un po’ di macchinette con cui ho migliorato e perfezionato il mio sound, nato come raccolta sedimentata di suoni, registrazioni ed incisioni analogiche e digitali. Sono passata da velocità estreme, anche oltre 200 BPM, a cose lentissime, a 30 o 40 BPM. Non fossilizzarmi fa parte del mio carattere.

Anna Bolena in consolle in un club di Berlino nel 2016

Come si è evoluta la tua attività produttiva nel corso del tempo?
Sono partita dalla migliore tradizione IDM, industrial e techno, migliorando l’accortezza per il dettaglio. Ora sono meno frettolosa e più meticolosa, e mi avvalgo anche della preziosa collaborazione di ingegneri del suono che mi aiutano a migliorare il sound seppur le idee restino sempre e solo mie. Questo è fondamentale, anche in studio: accettare suggerimenti va bene ma bisogna evitare di perdere la narratività e mantenere integra la capacità di creare storie e l’atmosfera con la propria musica. Per fare ciò è necessario tempo e non a caso la mia prima produzione su vinile è giunta a ben quattordici anni di distanza dall’esordio come DJ. Non ho mai pensato di sfruttare la mia etichetta per autoprodurmi, ho preferito invece dare spazio agli altri. La mia prima produzione è stata “Homopatik”, del 2012, a cui è seguito poco altro.

Sul fronte live/DJing invece?
Suonare live è radicalmente diverso rispetto ad un DJ set. Credo di avere raccolto più riscontri come DJ che live performer. Fare il DJ è più versatile, è un ruolo che ti offre la possibilità di cambiare il disco che pensavi di mettere anche all’ultimo minuto, velocità che invece non puoi affatto disporre nella dimensione live dove tutto è ben concepito e studiato. Per questa ragione quando mi esibisco nei live preferisco tempistiche molto ridotte, dai venti ai quaranta/quarantacinque minuti. Se il suono è particolarmente aggressivo è meglio dosarlo, in modo tale che la gente abbia nuovamente voglia di sentirti in futuro.

Il logo di Idroscalo Dischi

Nell’autunno del 2001, attraverso “Smash Biotek”, debutta ufficialmente Idroscalo Dischi, la tua etichetta che affonda saldamente le radici nel suono IDM ed industrial dalle tinte spiccatamente sperimentali e che, come tu stessa dichiari sinteticamente in “Rave In Italy”, il libro di Pablito El Drito di cui parliamo qui, è stata la risposta alla fine dei rave. Puoi approfondire le ragioni che ti spinsero a crearla? C’è un particolare significato dietro la scelta del nome?
Per approntare “Smash Biotek” ci vollero un paio d’anni circa. Era un triplo vinile e nacque per lanciare il messaggio dello stato delle cose di quel periodo, oltre a voler unire la vecchia generazione del cosiddetto Sound Of Rome con la nuova. Il tutto condito da alcuni interventi internazionali, come quello di Venetian Snares con la bellissima “Withdrew”. Come giustamente dicevi, il debutto risale all’autunno 2001 ma l’idea risale al 1999 quando i rave illegali subirono un discreto calo di interesse causato dalla riduzione di creatività e del livello organizzativo. Iniziò a circolare la proposta di mettere in piedi un’etichetta discografica per dare voce alla nostra musica e alla fine credo che Idroscalo Dischi sia stata la prima ad essere uscita dal circuito dei rave illegali romani. Optai per il nome Idroscalo perché ero molto attiva all’interno dello Spaziokamino di Ostia, dove appunto sorge un idroscalo, ma pure perché ero appassionata di Pasolini e nel ’75 il suo corpo venne ritrovato proprio all’idroscalo ostiense. Idroscalo Dischi fu un omaggio alla sua figura. Scelto il nome, facemmo una colletta per finanziare il progetto e tanti artisti della vecchia scuola romana diedero il proprio contributo. A quel punto presi in mano le redini della situazione occupandomi personalmente delle scelte del pressing plant, della burocrazia, della raccolta del materiale e relativa archiviazione. La presenza di artisti stranieri fu il risultato dei miei viaggi, soprattutto a Berlino. Desideravo avere qualche artista estero per dare un afflato più internazionale al disco. Fu un lavoro duro e lungo ma alla fine gli sforzi vennero ripagati alla grande. Ciliegina sulla torta la copertina, realizzata dal compianto Paolo Picozza che la realizzò a titolo gratuito insieme ai centrini, elevando il livello artistico dell’intera produzione. In fase di distribuzione trovai in Chris della parigina Toolbox Records un più che valido collaboratore. Mi aiutò a piazzare tutte le cinquecento copie a cui non è mai seguita alcuna ristampa. Non ne farò neanche in futuro, “Smash Biotek” era e resterà una limited edition.

La copertina di “Smash Biotek”, il 3×12″ che apre il catalogo di Idroscalo Dischi nel 2001

La parte interna del gatefold di “Smash Biotek” racchiude una serie di tue ponderate considerazioni sulla bioscienza. «Da una parte siamo incastrati nella becera sopravvivenza del mangiare/cagare/riposare, dall’altra siamo affascinati dall’immortalità del bisturi chirurgico che è capace di tagliare/staccare/cucire/forgiare la bellezza clonata, uguale quindi rassicurante» si legge tra le altre cose, e non mancano prese di coscienza sullo stato del pianeta: «Sappiamo che l’aria che respiriamo è inquinata irrimediabilmente, senza ritorno ad una presunta verginità […]. Siamo schiavi di poche risorse, irrinunciabili carburanti che bruciano per accelerare il nostro inevitabile invecchiamento». A torreggiare su quella colonna di pensieri, tradotti in francese, inglese e tedesco, c’è un invito a mo’ di capitello, evidenziato in grassetto: «Ferma la bioscienza prima che la natura scateni la sua ira». A quasi circa venti anni di distanza tante cose, purtroppo, sono accadute per davvero. Stiamo assistendo inermi allo sfacelo del mondo e della società?
All’epoca l’argomento era decisamente “caldo”, l’utilizzo della biotecnologia invasiva nella vita quotidiana, l’abuso della scienza sulla naturalezza degli eventi… del resto il virus stesso del covid-19 credo sia la drammatica risposta all’intromissione dell’uomo nei confronti dei meccanismi naturali che avvengono sul nostro pianeta. Ora ci fidiamo degli esperti sperando che le cose non peggiorino ulteriormente e forse quello che scrissi circa un ventennio fa si è rivelato tristemente profetico. In quell’occasione cercai di dare al tutto una forma un po’ poetica. Le persone stavano attraversando l’inizio del secolo/millennio con paura e senso di frustrazione derivata dall’impossibilità di controllare il passare del tempo, l’invecchiamento, il cambiamento. Ritengo invece che tutto ciò debba essere affrontato con energia ed entusiasmo, in fondo invecchiare fa parte della natura dell’uomo, non possiamo rimanere eterni e sempre uguali, fare le stesse cose, ripeterci continuamente in un loop biologico infinito, sarebbe noiosissimo. Ripetersi è legato alla paura per la diversità e per l’imprevisto e nella paranoia di voler controllare tutto adesso ci stiamo rendendo conto che la natura si è ribellata, basti pensare alle catastrofi naturali che sono all’ordine del giorno. Non ho figli ma lavorando all’interno del sistema scolastico mi pongo il problema di cosa stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni ed oggi non so dare una risposta. Credo che l’uomo sia capace di adeguarsi di fronte a grandi cambiamenti o drammi che possono succedere, lo spirito di adattamento è insito nella nostra natura e la vita è un continuo equilibrio. Bisognerebbe rendersi conto che una parte della bellezza della nostra esistenza sia rappresentata proprio dall’imprevisto.

Torniamo a parlare di Idroscalo Dischi: quali sono gli highlight che segnaleresti a chi non la conosce e vorrebbe “esplorarne” i contenuti?
Preferirei che l’ascoltatore scoprisse tutto da solo, in modo autonomo, c’è già internet, coi suoi infiniti suggerimenti, ad impigrire le persone. Un valido aiuto è rappresentato da Discogs e YouTube. Personalmente sono affezionata a tutte le uscite su Idroscalo, è stata una bella avventura nella sua interezza.

Credo che l’ultima pubblicazione su Idroscalo Dischi, il tuo “Kill The DJ In You”, risalga al 2017: si tratta di uno stop temporaneo o definitivo?
Per il momento l’etichetta è in stand-by. Ho bisogno di trovare artisti interessanti e sarei propensa a produrre una giovane donna, ma vista la situazione particolare che viviamo preferisco attendere.

Tra 2018 e 2019 hai inciso una manciata di titoli (“I Got Back The Soul Sold In The 90’s” e “Feeling Jazz” di G.A.Z.A. col featuring di Danny Polaris) per Underground, una delle etichette della Media Records recentemente risorte. Come sei arrivata lì? Prevedi di dare continuità a questa collaborazione?
Sono stata contattata da Alessandro, uno dei referenti di Underground. Cercava materiale techno e gli ho proposto diversi pezzi utilizzando pure il nickname G.A.Z.A. che risponde ad un sound più ibrido. L’esperienza è stata carina ma non credo ci siano i presupposti per replicarla. La Media Records non ha più lo splendore di una volta, Gianfranco Bortolotti mi pare interessato più al mainstream (rap e trap) contro cui non ho nulla, ribadisco che a me piace davvero di tutto, ma credo che per portare avanti certi progetti servano maggiori investimenti e soprattutto più attenzione. Mi aspettavo una promozione migliore che purtroppo non è arrivata quindi alla fine ritorno al “mio” underground.

Volevi lanciare un messaggio attraverso il titolo “I Got Back The Soul Sold In The 90’s”?
È un po’ provocatorio, lo ammetto, specialmente nei confronti di chi ha un concetto sacro degli anni Novanta, un periodo che è stato anche abbastanza turbolento, triste e pesante e non sempre confortante come si immagina e sostiene. Mi piace usare titoli ad effetto, fa parte del mio modo di declinare le cose.

Un’altra foto di Anna Bolena impegnata in consolle

Vivi a Berlino dal 2004: ritieni che la capitale tedesca possa essere ancora annoverata tra gli avamposti della club culture europea, o la spinta della gentrificazione ha contagiato pure il mondo della musica?
La gentrificazione è un problema che tocca tutti gli ambiti della vita, e forse è anche normale, ogni tanto bisogna resettare. Molti compagni si lamentano che alcune case occupate siano state ristrutturate dimenticando però che alcune fossero vere e proprie topaie. Si va avanti, non si può rimanere ancorati a contesti fatiscenti che portano altri tipi di problematiche. Chiaramente quando la gentrificazione spopola per dare spazio al turismo elitario non è bello, ma succede in tutte le capitali del mondo e non credo ci sia la benché minima possibilità di uscire da un meccanismo di questo tipo. Per farlo dovremmo mettere in discussione il sistema capitalistico e creare un altro modo per aggregarci e vivere. È il capitalismo stesso a chiedere ed imporre la velocità nel cambiamento e quindi la continua resilienza per affrontare nuove sfide, la maggior parte delle volte insidiose. All’interno dei club berlinesi la musica si è fermata già da tempo. È molto facile sentire DJ affermati che suonano sempre e solo le stesse cose, non provando a fare niente di nuovo ma limitandosi a quello che sanno fare e che la gente si aspetta da loro. Alla fine credo che il vero problema sia il carrierismo che ha portato molti DJ ad allontanarsi dalla passione per la musica in favore di quella per il soldo facile. La finalità di tanti è ricercare il grande consenso ed un pubblico pronto ad omaggiare ed applaudire a prescindere da ciò che si fa. Tutto questo però non offre alcuno stimolo per azzardare e reinventarsi e quasi più nessuno ormai prova strade nuove assumendosi il rischio di deludere o fallire.

I social network e più in generale internet hanno determinato un’identità artistica sempre più fragile. Credi che a risentire di tale “omologazione” sia stata anche la musica underground? Ho l’impressione che per abbracciare i gusti di un pubblico sempre più vasto, un crescente numero di produttori ed etichette abbiano inesorabilmente abbassato la qualità dei loro prodotti.
Sì, sono completamente d’accordo. Capitalizzare le attività artistiche dietro la consolle spesso è a scapito di ricerca, approfondimento e voglia di proporre altro. Il problema principale della scena rimane l’omologazione ed è quello che negli ultimi anni mi ha convinta a mettermi un po’ in disparte. Trovo noioso l’atteggiamento della nuova generazione (ma pure della vecchia, che si è adeguata dimenticando di dare il buon esempio), poco propensa a capire le esigenze del prossimo ma soprattutto poco incline a trovare una propria identità. Anche io, nel corso del tempo, ho cambiato il mio suono ma questa mutazione è frutto di una ricerca, di un pensiero e di un’analisi, non la mera replica di cose che funzionano perché testate da altri anzi, cerco sempre di personalizzare tutto. Questo approccio fa parte della mia filosofia e lo applico pure nella vita quotidiana e non solo quando lavoro dietro la consolle. Nella produzione musicale ciò emerge ancora più nitidamente ed è lì che a mio avviso si vede il vero artista. Negli ultimi anni i generi musicali che mi hanno entusiasmata di più sono quelli che non hanno niente a che fare con la techno. Ho comprato dischi di musica organica che presentano una progettualità del tutto diversa. Dietro magari ci sono ensemble di musicisti provenienti da parti del mondo in cui la musica elettronica non è proprio di casa (Africa, Sud America, alcune zone remote dell’Asia) e che hanno voglia di contaminare, un desiderio insito nella loro cultura perché appartengono a popoli colonizzati. Se da un lato la colonizzazione porta a difendere a spada tratta le proprie tradizioni contro l’invasore, dall’altro sprona a trarre le cose migliori dallo stesso. Il mescolamento di culture crea musica bellissima che non può non essere conosciuta anche da chi è dedito alla techno. Bisognerebbe avere una conoscenza aperta della musica, lasciarsi andare, sperimentare ed avere voglia di cose nuove ma questa curiosità fa parte della propria personalità, non la si può appiccicare sulla faccia con un pezzo di scotch. Viene dal background, dalla crescita individuale, dalla famiglia, dall’educazione che è stata impartita, dai posti che si frequentano… Non smetterò mai di consigliare agli aspiranti artisti delle nuove generazioni di essere curiosi e di non limitarsi a rifare ciò che hanno già fatto altri in passato. Che senso ha ripercorrere la strada di Jeff Mills? C’è persino chi si indebita per comprarsi una TR-808 o una TR-909 per poi riprodurre gli stessi pattern strausati da un trentennio. A remare contro è pure lo sfrenato revival: bisognerebbe interfacciare il vecchio al nuovo per generare cose diverse e che guardino al futuro. Fermarsi a ri-fare il passato lo trovo estremamente noioso e soprattutto sterile.

Cosa è diventato l’underground ai tempi dei social network?
Qualche settimana fa, su Facebook, mi sono imbattuta in una serie di critiche nei confronti di chi ha seguito il Festival di Sanremo o contro chi, in qualche maniera, si è sentito coinvolto da quella kermesse. A scagliarle è stato qualcuno che crede di essere un “portavoce della cultura underground” e che vuole sembrare duro e puro rispetto a chi invece spinge o apprezza il mainstream. Per me rimanere ancorati sempre e solo alle stesse sonorità per tutta la vita non vuol dire affatto essere underground, prima di criticare il mainstream bisognerebbe studiarlo in tutte le sue forme. Per essere underground non basta mettersi il libretto rosso di Mao in tasca e sostenere di essere un rivoluzionario e di rappresentare ciò che non può essere monetizzato o utilizzato dalla cultura “ufficiale”. Per essere dei veri rivoluzionari, e quindi dire qualcosa di autenticamente nuovo, bisogna essere geniali ma pochissimi, tra noi, lo sono per davvero. Pur essendo molto distante dal mondo di Sanremo, non disdegno affatto la cultura nazionalpopolare perché, chi più e chi meno, tutti sono entrati in contatto con essa. Alzi la mano chi prima di essere affascinato da musiche diverse non sia stato colpito dalle canzonette trasmesse in radio o dal videoclip famoso di turno. Oggi tante cose possono sembrare alternative ma non lo sono affatto ed inoltre bisogna capire se chi si pone come “diverso” rispetto alla massa poi lo sia per davvero. Non sono molto convinta di chi parla di regole per stabilire cosa sia mainstream ed underground. Prima di tutto bisognerebbe fare le cose con serietà e passione ma soprattutto studiare per capire a fondo cosa ci piace e non. Tanti sono convinti che postare su Facebook un video di Aphex Twin o degli Autechre basti per essere considerati alternativi ma in realtà si tratta di stupidi e banali cliché. C’è chi sbandiera di ascoltare Aphex Twin ma poi, nel privato, di alternativo non ha proprio niente. Chi pensa che la cultura underground sia pari ad una patacca da appuntarsi addosso è fuori strada ed assistere a questi atteggiamenti per è estremamente irritante. Bisognerebbe lottare tutti i giorni contro una serie di cose e non utilizzare musiche e culture alla stregua di sticker che si appiccicano addosso per darsi un tono. Probabilmente chi fa ciò segue le mode ed è incapace di capire se un pezzo sia di pregio o meno oppure se dietro un lavoro ci siano ricerca ed approfondimento. Il mainstream non esisterebbe se non ci fosse l’underground e viceversa, quindi dipingere uno di bianco ed uno di nero non ha davvero senso. I colori si mescolano così come le dimensioni e gli ambiti. Bisognerebbe piuttosto parlare di qualità che si è persa tanto nel mainstream quanto nell’underground.

Anna Bolena ai tempi della pandemia da coronavirus

Il post pandemia riserverà davvero sostanziali novità nel settore della musica indipendente o tutti i bei discorsi che circolano in Rete da ormai un anno a questa parte si disperderanno come granelli di sabbia al vento?
Sono convinta che la pandemia non ci stia insegnando proprio niente. Senza dubbio la popolazione mondiale sta affrontando grosse difficoltà ma appena si vedrà un piccolo spiraglio, ognuno si riprenderà il proprio spazio. Chi era solidale resterà tale o forse di più, chi non lo era andrà avanti col proprio egocentrismo. Questa è una grossa opportunità per ragionare, riflettere, cercare di migliorarsi e lasciare alle generazioni future un mondo migliore ma gli interessi dei singoli e ancor di più delle multinazionali non cambiano, restano aggressivi ed invadenti. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, dovrebbe fare qualcosa per la gioia e il piacere di farlo. Non ripongo troppe speranze che ciò accada però. Mi concentrerò su poche amicizie, famiglia, affetti e lavoro, nella speranza che i club possano riaprire perché ho tanta voglia di suonare. Le feste mi appartengono da sempre, sin da quando organizzai quella per il mio decimo compleanno.

Quali sono le prime tre cose che ti vengono in mente se ripensi ai rave degli anni Novanta?
Il discreto grado di follia generale, visto che all’epoca si pensava di poter fare tutto quello che si voleva e che, effettivamente, si faceva, la componente politicizzata del nostro agire e l’energia proveniente dal nuovo millennio che stava arrivando. Forse quell’energia era legata alla giovane età, fu un elemento assai caratterizzante di quel periodo.

Quali invece i tuoi progetti che si concretizzeranno in un prossimo futuro?
In arrivo ci sono diversi brani che troveranno spazio nel catalogo di varie etichette: a maggio, ad esempio, tocca a “Pandemoniak”, EP destinato alla Witches Are Back. Nel frattempo continuo a comprare dischi e a leggere moltissimo, anche in tedesco. Tra non molto uscirà il libro di Caterina Tomeo intitolato “L’Elettronica È Donna” per cui ho scritto e curato un capitolo che riguarda Berlino, la musica elettronica e la pandemia. A pubblicarlo sarà Castelvecchi.

(Giosuè Impellizzeri)

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New Atlantic – The Sunshine After The Rain (Ffrreedom)

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta nel Regno Unito escono migliaia di brani che cavalcano l’euforica fase dei warehouse party e dei rave. Il modello principale è fatto di ibridazioni nate sull’asse house-techno con frequenti divagazioni breakbeat e qualche sample a farcire la ricetta. Gran parte di quel materiale resta ad appannaggio dei DJ specializzati e cultori ma alcuni, per una serie di circostanze talvolta fortuite, riescono a scavalcare la palizzata finendo nelle classifiche di vendita, sui giornali e persino in programmi televisivi. È il caso dei Prodigy capeggiati da Liam Howlett, partiti in sordina nel ’91 con “What Evil Lurks” e finiti presto sotto i riflettori con “Charly”, “Everybody In The Place”, “Out Of Space” e “Jericho”, tutti estratti dall’esplosivo album “Experience” del ’92. Dalla stessa casa discografica, la XL Recordings, giungono in parallelo i Liquid (di cui abbiamo parlato qui) con “Sweet Harmony”, gli SL2 con “On A Ragga Tip” e i Nu-Matic con “Spring In My Step”, ma di titoli se ne potrebbero citare a iosa rischiando puntualmente di ometterne qualcuno. Tra quelli che riescono a sfondare il muro dell’underground si ricordano pure i New Atlantic, nome dietro cui opera un duo di Southport, nella contea del Merseyside, a pochi chilometri da Liverpool. Artefici sono Richard Lloyd e Cameron Saunders, conosciutisi nel 1985 ed attratti dalle potenzialità offerte dalla manipolazione sonora di quel febbricitante periodo in cui tutto è in divenire.

La copertina di “I Know”, il brano con cui esordiscono i New Atlantic

Scelti da Jon Barlow per inaugurare il catalogo della sua 3 Beat Music, nata come “estensione” di un negozio di dischi aperto con gli amici Dave Nicoll e Phil Southall, debuttano tra il 1991 e il 1992 con “I Know” in cui il sample di “You Got The Love” di The Source Feat. Candy Staton diventa il fulcro su cui installare pianate e ritmiche housy con qualche breve concessione ad inserti new age. Trainato da un videoclip, il brano entra nella top 40 britannica e si muove bene anche in alcuni Paesi esteri tra cui Germania, Francia e Stati Uniti. Sul lato b è incisa “Yes To Satan”, più vicina al filone dei Prodigy con sequenze breakkate e campionamenti legati a doppio filo alla scena rave, su tutti quello preso dal live di “Hotter Than Hell” dei Kiss, già impresso a fuoco dagli N-Joi in “Adrenalin” e riciclato infinite volte negli anni a seguire. “Into The Future” è il perfetto follow-up dal punto di vista stilistico ma commercialmente meno fortunato. Nel 1993, quando gli amen break vengono rimpiazzati da altre tendenze in atto, Lloyd e Saunders danno al progetto New Atlantic un indirizzo più house attraverso “Take Off Some Time”, scandito da un assolo di sax e un organo Hammond. Ben confezionato ma piuttosto anonimo, non riesce a farsi notare come avviene a “Sunshine” e “Fiorè”. Una versione di quest’ultimo, intitolata Datura Mix, viene realizzata in Italia da Cirillo e Pierluigi ‘Tin Tin’ Melato, quell’anno attivi su vari fronti (su Eye Q Records firmano “Free Beach” di GoaHead mentre su IST Records piazzano “Mr. Chill’s Back” di Cyberia). Nonostante tutto la 3 Beat di Liverpool continua a crederci e pubblica il primo (ed unico) album dei New Atlantic, “Global”, che sortisce reazioni tiepide. Quando le speranze di un nuovo successo sembrano spegnersi però avviene qualcosa che rimette tutto in discussione. Sulla scrivania di Barlow arriva un nuovo pezzo, “The Sunshine After The Rain”, cover dell’omonimo di Ellie Greenwich del ’68 e già ripreso con successo da Elkie Brooks nel ’77. La base breakbeat, piena di asperità ritmiche, è accarezzata dalla raggiante melodia della canzone originale e da tale collisione di elementi respingenti emerge un piacevole contrasto. Pare che l’idea di riprendere quel vecchio successo pop venga a Neil Bowser alias U4EA, a cui è attribuita per l’appunto la Original U4EA Breakbeat Mix e qualcuno parla anche di una precedente versione pubblicata dalla 3 Beat nel 1992 ma solo in formato promozionale.

Purtroppo dalla sede dell’etichetta britannica non giungono conferme o smentite, ma è certo è che a cambiare le sorti del progetto New Atlantic, invertendone nettamente la tendenza, è un remix italiano, quello di Roberto Gallo Salsotto che, contattato per l’occasione, racconta: «La proposta di fare quella versione, la Two Cowboys Mix, fu avanzata dalla 3 Beat perché pochi mesi prima Two Cowboys era diventato praticamente il marchio di punta della label grazie alla licenza di “Everybody Gonfi-Gon” (di cui parliamo qui, nda) finita al quinto posto della UK single sales chart. Purtroppo non conosco dettagli e retroscena relativi alla scelta del brano, ricevetti semplicemente l’acappella e non avevo neanche idea di come fosse la versione dei New Atlantic o di U4EA anzi, a dirla tutta, ho scoperto solo adesso attraverso questa intervista e dopo più di venticinque anni, che “The Sunshine After The Rain” fosse una cover. Come remixer ho sempre cercato di non farmi condizionare dagli arrangiamenti preesistenti e così avvenne anche per la versione che realizzai di “When Will You Learn” di Boy George, portata alla nomination del Grammy nel 1999». Alla citata versione di U4EA di matrice breakbeat, sul 12″ si aggiungono i remix dei New Atlantic e Tall Paul che però risultano poco efficaci. A fare la differenza, senza timore di smentita, è la Two Cowboys Mix in cui vengono sapientemente bilanciate ariose melodie eurodance al rigore meccanico di un bassline di moroderiana memoria.

Un recente scatto di Roberto Gallo Salsotto e la targa che certifica il traguardo delle oltre 200.000 copie vendute di “The Sunshine After The Rain”

«All’epoca il mio set up era costituito principalmente da due campionatori Akai S1100, un Oberheim Matrix 1000 con cui realizzai il suono del riff principale, un Novation Bass Station Rack ed un Roland JV-1080, tutto pilotato da un computer Atari Mega 4 su cui era installato Cubase» prosegue Gallo Salsotto. «Il lavoro non richiese molto tempo in quanto trovai subito una chiave interpretativa basandomi sulle sonorità di “I Feel Love” di Donna Summer prodotto da Giorgio Moroder di cui sono da sempre uno sfegatato fan. I discografici della 3 Beat furono subito entusiasti del risultato e, per dare al disco una spinta maggiore in scia al successo di “Everybody Gonfi-Gon”, mi chiesero di usare il marchio Two Cowboys che condividevo con Maurizio Braccagni, nonostante avessi eseguito quel remix da solo (ed è plausibile pensare che le stesse ragioni abbiano spinto a puntare su New Atlantic piuttosto che U4EA, nda). I risultati di “The Sunshine After The Rain” furono certificati dalla targa che ricevetti proprio dalla 3 Beat (ancora gelosamente appesa alla parete del mio studio) che attesta il superamento delle 200.000 copie vendute, una cifra importante in quel periodo in cui iniziava ad intravedersi già una crisi nel settore discografico. Per me fu un riconoscimento assai gratificante. Finire in classifica nel Regno Unito non era cosa facile, soprattutto per un produttore italiano, e la soddisfazione crebbe ulteriormente quando la 3 Beat mi commissionò altri sei brani destinati all’album di Berri, il nome definitivo dato al progetto».

Se, qualche mese prima, i britannici premiano “Everybody Gonfi-Gon” dei Two Cowboys, partito dalla milanese Dancework, adesso gli italiani restituiscono il favore con un remix esplosivo che innesca un successo internazionale. Per la Dancework di Fabrizio Gatto (intervistato qui) e Claudio Ridolfi, inoltre, le sorprese non finiscono giacché sulla rampa di lancio c’è “All I Need Is Love” di Indiana che la 3 Beat si appresta a pubblicare oltremanica attraverso la Fusion Records su cui appare in formato promozionale. Purtroppo il progetto non va in porto a causa di una bega legale di cui parliamo qui. Nessun intoppo invece per “The Sunshine After The Rain”: la versione realizzata in Italia da Gallo Salsotto viene scelta sia per sincronizzare il videoclip che per accompagnare le apparizioni televisive come quella a Top Of The Pops. L’immagine è affidata a Rebecca Sleight alias Berri, cantante nata a York, nella contea del North Yorkshire. Da noi il fortunato remix, pubblicato dalla Welcome del gruppo Dancework, viene curiosamente privato delle coordinate autorali. Il nome di Roberto Gallo Salsotto è rimpiazzato da un anonimo Energy mentre la versione è reintitolata Theloveyoufeel Mix. Una leggera modifica, forse neppure intenzionale, riguarda anche il titolo che da “The Sunshine After The Rain” diventa “Sunshine After The Rain”. «Credo siano state semplici scelte di carattere “estetico” fatte dalla Dancework per il mercato domestico visto che si trattava di una licenza presa dall’estero» risponde a tal proposito Gallo Salsotto. «Il titolo dato alla mia versione, infatti, era una sorta di ammissione (ovvia) sulle chiare assonanze con “I Feel Love” di Donna Summer».

Come testimonia questa copertina, dal 1995 in poi “The Sunshine After The Rain” viene attribuito alla sola Berri

Tra il 1995 e il 1996 il brano, riadattato dall’olandese Paul Elstak in chiave happy hardcore nella sua “Rainbow In The Sky”, viene remixato ulteriormente (da Dancing Divaz, KenDoh, U96, Klubbheads) e ripubblicato in diversi Paesi del mondo ma attribuito alla sola Berri, presumibilmente perché la dimensione in cui piomba il pezzo è troppo diversa e distante da quello che erano in origine i New Atlantic. In tal senso però Gallo Salsotto non può fornire spiegazioni dettagliate: «Brano e progetto erano gestiti interamente dalla 3 Beat e tutto quello che successe dopo “The Sunshine After The Rain” non fu di mia competenza né tantomeno della Dancework. La collaborazione con gli inglesi si interruppe dopo la realizzazione del follow-up, “Shine Like A Star”, e di alcuni brani destinati all’album “About Time” che venne pubblicato solo in Giappone ma a mia insaputa». Esaurita la spinta fornita dalla fiammata di “The Sunshine After The Rain” (che genera pure qualche pseudo clone, si senta ad esempio la S.O.B. Mix di “Talkin’ Bout A Revolution” di Gitana), Berri riappare nel ’98 al fianco degli Hector’s House per “Come And Get My Lovin'”, cover dell’omonimo di Dionne uscito dieci anni prima, e a seguire in altri pezzi. Tempi più recenti la vedono tornare in scena col gruppo dei Raggy Anns. Dei New Atlantic invece quello destinato ad una sfolgorante carriera, ma non nella musica, è Cameron Saunders, oggi vice presidente esecutivo della Paramount Pictures. Dopo il boom di “The Sunshine After The Rain” la 3 Beat, ai tempi forte per una partnership stretta col gruppo London Records/FFRR, riesce a mettere altri punti a segno come “Keep On Jumpin'” dei Lisa Marie Experience, cover del classico dei Musique ripreso nel contempo da Todd Terry con le straordinarie voci di Martha Wash e Jocelyn Brown, e “Blurred” dei Pianoman, che incrocia i sample di “Girls & Boys” dei Blur e “Love Me” di Patric. A questi si sarebbe potuto aggiungere “Sunchyme” dei Dario G, il cui demo viene portato nel negozio di dischi annesso alla label da uno degli autori, Paul Spencer, amico di Barlow. «Sapevo che dietro quel pezzo ci fosse un successo ma pensai che scritturare Paul sulla mia etichetta avrebbe mutato le dimensioni del nostro rapporto così gli consigliai di rivolgersi ad altri» rammenta Barlow in questa intervista del 29 febbraio 2016. Spencer e gli altri membri dei Dario G lo convincono ad occuparsi del management ma a pubblicare il brano è la Warner, detentrice dei diritti del sample incastonato al suo interno, “Life In A Northern Town” dei Dream Academy. (Giosuè Impellizzeri)

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Rave In Italy, gli anni Novanta diversi da quelli che quasi tutti raccontano

Pablito El Drito - Rave In ItalyScritto da Pablo Pistolesi, meglio noto in ambito editoriale e discografico come Pablito El Drito, “Rave In Italy” prende in esame uno dei fenomeni che hanno reso unici gli anni Novanta, i rave. Un autentico viaggio all’interno di una scena nata e cresciuta nel “sottosuolo” e marginalmente considerata dai media generalisti se non in occasione di tragici casi di cronaca. «La techno e derivati sono stati la colonna sonora degli anni Novanta come il punk lo fu negli Ottanta» si legge nella prefazione e questo è profondamente vero seppur l’idea oggi radicata nel grande pubblico su quel decennio sia diversa. Complice una sorta di triste oscurantismo nei confronti delle “musiche altre”, i Novanta sono sineddoticamente diventati gli anni dell’eurodance, nonostante house, techno e derivati abbiano inciso in modo assai più profondo nel solco e questo lo si denota più che bene a distanza di diversi decenni. Con la sua indagine Pistolesi fruga negli interstizi della storia inserendosi nelle pieghe della memoria dei tanti personaggi coinvolti. Attenzione però, i rave di cui si parla non sono gli eventi mastodontici (e ai tempi impropriamente definiti rave da tanti magazine) tipo Love Parade, MayDay, Street Parade o Energy. La ricerca mira a fotografare invece una scena nella scena, quella della cosiddetta tekno, “versione più brutale della techno di Detroit e Francoforte”, più abrasiva, spiazzante, sfrontata, senza regole, accelerata e di estrema rottura con gli stereotipi attraverso una filigrana rumoristicamente assordante. «Musica più per cyborg e mutanti che per i fighetti lampadati da club» si specifica nelle prime pagine, affermazione da cui si leva un concetto che emerge con forza dal libro ed espresso quasi all’unanimità da tutti i coinvolti, il distacco dalla discoteca intesa come contenitore di cliché commerciali, di divismo e protagonismo, simbolo di un ambiente fin troppo patinato. Una diffidenza, talvolta ai confini col pregiudizio, simile a quella nutrita dai rocker che parlavano (e talvolta parlano tuttora) dell’elettronica come “musica di plastica” e priva di contenuti artistici perché eseguita con modalità diverse dalle tradizionali.

Il testo offre dunque una prospettiva diversa rispetto all’abusato concetto di “dance anni Novanta” e ciò avviene attraverso una stesura altrettanto inconsueta. L’autore evade dal tradizionale impianto narrativo redigendo quella che a tutti gli effetti è una raccolta di interviste a personaggi che hanno vissuto l’epopea dei rave in maniera diretta ma privandola di considerazioni personali che possano influenzare in qualche modo il lettore. I protagonisti sono dunque autentici “eroi clandestini” in un mondo altrettanto clandestino, nomadistico e sommerso, gente distante anni luce dai canali tradizionali e trincerata dietro alias e nomignoli apparentemente anonimi (Stek, Pippo, Kyuzz, Duka, Warbear, Kola, Hyena, Simone, Violentina, Frikkio, Fire At Work, Francesco Zac, Kainowska giusto per citarne alcuni). Dai loro racconti spiccano realtà accomunate da intense esperienze tra case occupate, TAZ – zone temporaneamente autonome – e centri sociali oltre, come si diceva prima, al netto pregiudizio nei confronti sia della discoteca, sia della musica che girava al suo interno, inclusa paradossalmente la stessa techno.

black and white label
Black label e white label: gran parte dei dischi che girano nell’ambiente rave sono accomunati dal totale anonimato

La tekno dei rave presa in esame presenta tratti somatici diversi. Come spiegato ancora nella prefazione, viene prodotta «con pochi mezzi in camion o furgoni da artisti che si nascondono dietro nickname sfuggenti e misteriosi e che optano per dischi spesso tutti neri o tutti bianchi – black label e white label – provvisti di un’etichetta posticcia a distinguerli e con centrini che riportano solo i numeri di telefono o di fax del distributore (quando questo c’è, nda) oppure un timbro, spesso illeggibile». Musica dalla provenienza ignota e priva di strutture compositive rodate, la tekno, altresì accompagnata dall’aggettivo crusty, appare come sequenza randomica perfettamente accordata all’euforia di chi partecipa a quel tipo di eventi, percorsa da impulsi forsennati che traghettano verso qualcosa di «metamusicale, un magma, una materia iperstratificata che si evolve in modi imprevedibili», così come descrive A034. È facile intuire quindi come il mondo dei freeparty si sia posizionato davvero agli antipodi del sistema legato alla discografia classica. Non esistono uffici, sedi legali, promoter, A&R, strategie promozionali, passaggi in radio, classifiche. Un’autentica «rivolta contro la commercializzazione della musica, il proibizionismo e la società mainstream» sostiene Pistolesi. Prende così forma uno scenario quasi anarchico nato e cresciuto ai margini di quella che, nella percezione generale dei tempi, era una scena “differente” dalla principale. Una sorta di underground dell’underground insomma.

Aphex Twin (199x)
Aphex Twin immortalato in una foto risalente ai primi anni Novanta

Altro fil rouge a connettere la maggior parte degli intervistati è un nome, quello di Aphex Twin, indicato come artista di riferimento in grado di veicolare IL suono sganciato per antonomasia dalle regole della club music, un sound organico pieno di tessiture personalizzate difficilmente ascrivibile ad un filone ben preciso e riconosciuto tale dalla critica. È curioso constatare che, a distanza di qualche decennio, Aphex Twin sia riuscito ad andare ben oltre i confini della scena rave diventando a tutti gli effetti un nome trasversale per un pubblico immensamente ingigantito, e in tal senso gli oltre 950.000 fan che lo seguono su Facebook ne sono palese testimonianza. Pure tra i coinvolti c’è chi ha scavalcato il recinto della tekno o comunque non risulta essere esclusivamente legato a quel mondo come Anna Bolena, Marco Micheli, Max Durante, Andrea Benedetti, Fabrizio D’Arcangelo, Luciano Lamanna, DJ Balli e Mauro ‘Boris’ Borella. Quest’ultimo, nato a Genova ma trapiantato a Bologna, è co-fondatore del Link, tra gli spazi culturali/musicali a lasciare un solco più profondo nella storia del nostro Paese. Pure lui parla in termini poco lusinghieri del primo approccio con house e techno, percezione in seguito radicalmente mutata grazie all’aiuto di Alessandro ‘M16’ Bocci degli Starfuckers e del compianto Fabrizio Usberti meglio noto come Sinapsi e Kalapodis. Alla stessa maniera Durante, Benedetti e D’Arcangelo, intervistati rispettivamente qui, qui e qui, aprono i cassetti della memoria rivelando quanto fosse dirompente l’onda della techno, una sorta di buco della serratura attraverso cui sbirciare nel futuro. Fa eco la Bolena, fondatrice della Idroscalo Dischi, che parla di “alternativa alla discoteca” e di una presenza “variegata e variopinta della musica andata perdendosi negli anni”. In coda Balli con trascorsi legati al punk e diventato alfiere del suono hardcore, gabber e breakcore, generi promossi dal 2000 attraverso la sua etichetta, la Sonic Belligeranza.

Da “Rave In Italy”, edito nel 2018 dalla coraggiosa ed intraprendente Agenzia X che mette a disposizione qui un breve estratto, si profila dunque una moltitudine di personalità eterogenee unite dalla voglia di guardare ben oltre l’orizzonte, sfondare le pareti del club e trovare nuovi luoghi di aggregazione in capannoni abbandonati, cascine semidiroccate o supermercati dismessi. Pistolesi conduce con criterio la scrupolosa indagine, potenzialmente estendibile ad altre città oltre alle quattro prese in esame (Torino, Roma, Milano, Bologna) e coronata da una ricca sezione fotografica – non solo flyer do it yourself ma pure location. Raccontare con perizia «l’alba della scena e sfatare la vulgata che vede l’arrivo della travelling nation anglofrancese come il detonatore di ogni cosa» non era affatto semplice.
Ps: per implementare la conoscenza della tematica si rimanda al documentario di Andrea Zambelli, “Tekno – Il Respiro Del Mostro”, segnalato e commentato qui.

(Giosuè Impellizzeri)

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Pablo Gargano, oltremanica per amore della musica

Pablo Gargano

Attratto dalla dance e dai suoni elettronici, nella seconda metà degli anni Ottanta Pablo Gargano si appassiona al DJing, analogamente a tanti coetanei. Nei Novanta comincia ad esibirsi in pubblico in una discoteca dell’hinterland milanese, l’Immaginazione di Pantigliate, dove divide la consolle con Maurizio Braccagni e Fabio Locati. Un avvio di carriera simile a quello di tanti altri DJ insomma, ma quando si trasferisce a Belfast per Gargano cambia tutto. Lavora presso un negozio di dischi specializzato, suona agli eventi Hell Raiser e comincia a dedicarsi alle produzioni discografiche, prima inclini all’acid e poi via via sempre più vicine alla trance frammista ad energetiche spinte techno e goa. Nel 1995 fonda la Eve Records sulla quale convoglia gran parte della sua attività produttiva fatta di una moltitudine di singoli e due album, “Senza Volto” del ’97 e “Girotondo” del ’98. Incidere dischi è un autentico volano che gli permette di affermarsi come DJ sulla piazza internazionale, macinando gig in tutti i continenti e conquistando la stima di blasonati colleghi come Sasha, Tiësto, Paul Oakenfold e Pete Tong. La fiamma si spegne ad inizio del nuovo millennio, periodo in cui l’artista perde le energie necessarie per proseguire in una scena che muta radicalmente il proprio DNA contestualmente alla globalizzazione e alla diffusione di internet. Nella primavera del 2020 però il nome di Gargano torna inaspettatamente a farsi sentire con nuove produzioni, proprio quando il mondo entra in lockdown a causa della pandemia di coronavirus.

Con quali artisti e musiche trascorri infanzia ed adolescenza?
Per quello che posso ricordare, il primo contatto “fisico” con la musica avvenne alla tenera età di quattro anni, quando facevo a pezzi graziose lastre circolari di plastica nera per farne una sorta di puzzle. Si trattava dei dischi dei miei genitori su cui era incisa musica classica. Da adolescente cominciai a prendere lezioni di chitarra acustica e ad ascoltare la radio accontentandomi di quello che, come si suol dire, “passava il convento”, da Francesco Guccini a Vasco Rossi, dagli U2 a Madonna. Rammento nitidamente però che fossi attratto dai suoni elettronici provando fastidio per le voci che li coprivano.

Quando scopri il DJing invece?
Intorno al 1986 mixando, con due registratori a cassetta, brani disco e pop del periodo. Successivamente, frequentando due cari amici, Fabiano e Saro, appresi meglio quell’arte. Passavamo le serate imparando la tecnica di mixaggio con giradischi a cinghia, aiutandoci con le dita per sincronizzare i BPM e cercando di memorizzare gli arrangiamenti dei brani.

flyer Immaginazione (1992)
Un paio di flyer dell’Immaginazione di Pantigliate risalenti al 1992: su entrambi, tra gli altri, presenzia Pablo (Atomic Sound), uno dei due alias con cui Gargano inizia la carriera da DJ

Qualche mese fa, su Facebook, hai ricordato le tue prime esperienze in discoteca come DJ rimandando a questo set registrato nel 1992 presso l’Immaginazione di Pantigliate, a pochi chilometri da Milano. Come descriveresti il Pablo Gargano che armeggiava dietro la consolle, riascoltando oggi quel set di quasi trent’anni fa?
Ero un ragazzo spontaneo e semplice. Avevo persino scelto due nomignoli per iniziare quell’avventura, Pablo (Atomic Sound) e Pablo T.T.J. (risate). Pietro e Manuel Zucca mi concessero di suonare nel loro locale insieme ai grandi Maurizio Braccagni e Fabio Locati. Per me fu una tappa particolarmente importante che mi diede la possibilità di creare il primo contatto col pubblico e quindi fare esperienza su come capirlo e controllarlo. Non mancò ovviamente il divertimento e ricordo come se fosse ieri le risate che mi feci con Braccagni quelle sere.

Sabato 25 luglio 1992 sei tra i DJ dell’Insanity Rage, un evento capitolino che in consolle vede, tra gli altri, il compianto Mauro Tannino a cui abbiamo dedicato un articolo qui, Lory D e Max Durante, oltre ai live di Automatic Sound Unlimited (di cui parliamo qui), The Order e Stefano Di Carlo. Come ricordi quella data?
Conobbi e vidi per la prima volta Lory D rimanendo totalmente impressionato. In quell’occasione appresi che in romano la frase “quanto sei ignorante” fosse un complimento in relazione al sound particolarmente “duro”.

flyer Insanity Rage
Il flyer dell’Insanity Rage, svoltosi il 25 luglio 1992. In quell’occasione Gargano si esibisce come Pablo T.T. Jay

Com’era la scena house/techno italiana dei primi anni Novanta?
La maggiore distinzione correva tra musica commerciale e musica underground. Prima le discoteche e poi i grandi eventi come i rave, costituivano le principali forme di divertimento nonché i luoghi in cui ci si sfogava e si socializzava. La scena era ancora ingenua, spontanea ed inesplorata. A prevalere era la vera passione per la musica e, purtroppo, per le droghe, che contribuirono all’evasione da schemi preimpostati dando vita ad una nuova realtà.

In quel periodo un amico, Stefano Lo Presti, ti invita ad andare a trovarlo a Belfast, in Irlanda, e la tua vita cambia. Inizi a lavorare per un negozio di dischi, Underground Records a cui era collegata l’omonima etichetta, suoni agli eventi Hell Raiser presso la Ulster Hall e nel 1993 incidi il tuo primo EP, “Liquid Brain”, sulla Mindpower Records nata sotto l’ala della stessa Underground Records. Come vivesti quella prima fase all’estero?
È il ricordo più nitido che ho del passato, un’esperienza incisiva della mia vita. Lì ho imparato la lingua inglese, a lavorare full time nella musica e ad esibirmi di fronte ad un pubblico più ampio rispetto a quello italiano. Restano indimenticabili le giornate trascorse tra le mura di Underground Records a fare ordini, ad ascoltare le novità e a vendere dischi. Ho ancora viva l’immagine dei giovedì sera passati in un negozio letteralmente pieno, con gente che si accalcava all’esterno mettendosi in fila per ascoltare i nuovi arrivi e poi acquistarli. I set dei DJ durante gli eventi Hell Raiser, tenuti nella magnifica sala concerti Ulster Hall, creavano un’atmosfera paragonabile a quella delle esibizioni delle rockstar. Poi arrivò la prima pubblicazione ufficiale su vinile, le interviste, gli autografi… fortunatamente è durato poco altrimenti avrei finito con l’abituarmi.

Agli eventi Hell Raiser si esibiscono pure diversi artisti italiani, dagli SPQR a Ricci DJ, da Maurizio Braccagni a Francesco Zappalà: c’era il tuo zampino dietro quelle ospitate?
Cercammo, sempre insieme a Stefano Lo Presti, di promuovere gli italiani che conoscevamo. Una delle due serate con Zappalà (quella risalente al 4 giugno 1993, ascoltabile qui, nda) credo sia stata la più riuscita.

flyer Hell Raiser
Una serie di flyer degli eventi Hell Raiser presso la Ulster Hall di Belfast. Tra i vari nomi si scorgono anche quelli di alcuni DJ italiani

Quanto era complesso, ai tempi, comporre un disco come i tuoi? In che modo ci si procurava gli strumenti e si imparava ad usarli quando non c’erano internet e i tutorial gratuiti su YouTube?
Era persino difficile trovare i manuali di utilizzo visto che molti sintetizzatori erano di seconda mano e prodotti anni prima. Il metodo era soltanto uno, il classico “trial & error” ossia sbagliando si impara. L’acquisto di strumenti? Si ricorreva ad amici di amici oppure si effettuava la ricerca attraverso giornali di annunci di compravendita di oggetti di seconda mano come Loot, oppure riviste di strumenti come Sound On Sound o Future Music. Qualora si disponesse di finanze più sostanziose e si avesse meno voglia di ricercare l’affare invece, si optava per i classici negozi di strumenti musicali. Il mio primo brano pubblicato su 12″ si intitolava “Bombass Confusion” e fu stampato in soli ottanta test pressing promozionali. Lo realizzai con una tastiera Roland S-50 ed un registratore multitraccia Fostex X-26 campionando suoni da “Dukkha” di Precious X Project (di cui parliamo qui, nda) e frammenti di ritmiche da pezzi dei cataloghi Edge Records e Rabbit City Records. Suonavo tutto dal vivo riversando il contenuto su cassetta, se ben ricordo una TDK da quindici minuti. In seguito al mio trasferimento a Belfast implementai l’equipaggiamento acquistando varie macchine Roland ossia una TB-303, un SH-101 ed una TR-808, ideali per la realizzazione di pezzi acid. Con quell’equipment realizzai il mio primo remix per “Killer Filler” dei Tri-Core, un duo di Belfast.

Ad un certo punto ti trasferisci a Londra: com’era la metropoli inglese a metà degli anni Novanta? Quali erano le sostanziali differenze con l’Italia?
Tra 1993 e 1994 lasciai Belfast per spostarmi nella capitale britannica dove si respirava il vero odore dell’underground. Negozi come Black Market Records, Chochi’s Chewns, Groove Records, Catch A Groove, Zoom Records, Plastic Fantastic ed altri ancora erano assoluti punti di ritrovo dove approvvigionarsi di novità discografiche, fare promozione dei party ed incontrare colleghi DJ. Erano posti originalissimi e a volte tetri, immersi in atmosfere in stile Mad Max. Correvano indubbiamente gli anni d’oro della scena, mi sembrò di vivere in un film di John Carpenter. I primi pezzi che realizzai a Londra confluirono nel “Mental Pabvlvm EP” pubblicato dalla Rabbit City Records di Colin Faver e Gordon Matthewman (di cui parliamo qui, nda) a cui seguì “Planet LH. 45” su Metropolitan Music. Avendo lasciato l’Italia nel 1992, non posso fare paragoni con la scena britannica, non so come si sviluppò il mondo delle discoteche nello Stivale dopo la mia partenza.

Eve Records 001
Il primo 12″ pubblicato nel 1995 dalla Eve Records

Dal 1995 inizi ad incidere musica con regolarità per la Eve Records: come ricordi l’inizio di quell’esperienza?
La Eve Records, a dispetto di quanto riportato su Discogs, non fu affatto fondata da Simon Eve. La coincidenza ha preso il sopravvento sulla conoscenza. Eve Records nacque invece nel 1995 da un’idea condivisa tra me e Stefano Lo Presti, foraggiati da un accordo di P&D stretto con Angelo Bernardo e Doug Osborne della Flying Records UK. Simon Eve lavorò con noi soltanto dopo il Duemila. In principio era un’etichetta che pubblicava esclusivamente mie produzioni. Le prime uscite recavano solo il logo, il numero di catalogo e poche altre informazioni ma non il nome dell’autore. Il primo “esterno” ad apparire su Eve Records fu, di fatto, David Craig, con cui iniziai a collaborare nel 1995 mediante “Eternal NRG”, una delle tracce incluse nel citato “Planet L.H. 45” su Metropolitan Music. Solo a partire dal 1998 l’etichetta cominciò ad aprire le porte ad altri artisti come Atmos, i Mara, Steve Gibbs, Markus Schulz, Michael Thomas, gli Sleepwalker e David Forbes, gettando le basi per l’Eve Records Group che sotto il suo ombrello raccolse altre label come Telica, Eve Nova, Discover e Recover.

Tra i tanti dischi realizzati in quegli anni, qual è quello a cui sei maggiormente legato?
Un brano su tutti? “The Secret Spice” incluso nell'”Eve 3″ del ’96. Appena masterizzato pensai che avrebbe riscosso più attenzione rispetto alle precedenti due uscite e così fu, aprendomi le porte di un mercato più ampio.

Quale invece quello che ti ha dato maggiori soddisfazioni, sia artistiche che economiche?
Dal punto di vista artistico, oltre al già citato “The Secret Spice” dell'”Eve 3″, direi “Blow Your Mind” ed “Everyone’s Future”, tratti rispettivamente dall'”Eve 8″ e dall'”Eve 12″, ma sono sicuro che potrebbero essercene altri più interessanti. Sotto il profilo economico invece, non mi sono mai arricchito con la musica anzi, non sono mai diventato ricco (risate).

Molti anni fa lessi che dietro David Craig ci fossi tu. Confermi o smentisci?
Smentisco assolutamente. David Craig è un caro amico che sento spesso tuttora. Continua a darmi consigli informandomi su come si è evoluta la scena e sui trend nel settore. Lo conobbi a Belfast e da allora siamo rimasti sempre in contatto. Oltre ad essere una persona integra, ha sempre avuto un orecchio critico ed attento e proprio per tale ragione lo coinvolsi nelle produzioni su Eve Records. Lo aiutavo solo nella parte tecnica però, dirigeva autonomamente arrangiamenti e scelte sonore. Chissà, magari in futuro potremo collaborare ancora.

David Craig e Pablo Gargano su Lisergica (1997)
In alto “Acid Indulgence EP” e “Lord Of The Universe” di David Craig, co-prodotti con Gargano e pubblicati anche in Italia, sotto l’EP di Gargano edito dalla Lisergica

Un paio di dischi di David Craig, “Acid Indulgence EP” e “Lord Of The Universe”, escono anche in Italia, rispettivamente licenziati da Sonica Records e Sativa. Nello stesso periodo, tra 1996 e 1997, “My World” di Bismark, originariamente su BXR, finisce nel catalogo Telica con l’aggiunta di un tuo remix. Nel 1999 invece la Lisergica Records del gruppo Arsenic Sound (di cui parliamo qui) assembla un EP prendendo tre tuoi brani dal catalogo Eve Records e Metropolitan Music. A quanto pare, seppur vivessi oltremanica, mantenesti qualche rapporto con l’Italia. Qui c’erano DJ, produttori, etichette e club che a tuo avviso avevano le carte in regola per reggere il confronto con le più consolidate realtà estere?
I produttori italiani non avevano davvero nulla da invidiare a quelli d’oltralpe, basti pensare ad Elvio Moratto, Dino Lenny, Joe T. Vannelli, Mario Più, Jose Amnesia… senza dimenticare tutti quelli dell’italian house ovviamente. Forse, per quanto riguarda trance e techno, il sound italiano era più vicino al modello tedesco piuttosto che a quello britannico. In merito ai club invece, come dicevo prima, da quando mi trasferii in Irlanda non ho più suonato o frequentato locali italiani quindi non posso esprimermi.

Nei primi anni Duemila inventi nuovi alias (Bitcrusher, Francisco Savier, Wavestorm) ed abbracci nuove soluzioni stilistiche ma diradi progressivamente l’attività produttiva. L’ultima uscita su 12″ infatti è del 2003, “Arcana / Osho”. Perché mollasti?
Furono anni stressanti. La monotonia finì col prendere il posto della creatività ed iniziò ad essere difficile sopravvivere di sola musica. Crebbero le paure e seppur le idee fossero ancora tante, a mancare furono le energie per realizzarle e così decisi di abbandonare tutto.

Phronesis Digital (2020)
Il logo della Phronesis Digital, l’etichetta che Pablo Gargano vara nei primi mesi del 2020

Sei tornato alla composizione giusto di recente attraverso la tua nuova label, la Phronesis Digital, sulla quale hai pubblicato diversi brani di matrice progressive house in cui comunque è nitida l’impronta trance. Ti aspetti qualcosa da questo nuovo corso della tua carriera da produttore?
La Phronesis Digital è un po’ come la Eve Records degli inizi, più che un’etichetta è una piattaforma showcase sulla quale, pian piano, cercherò di ritrovare un sound che possa identificarmi. L’arrangiamento trance è un modo di percepire la musica che, per me, resta sempre un viaggio ed un racconto. L’importante ora è mantenere vive le emozioni e i ricordi. Non so cosa succederà e a dire la verità, a differenza di quanto avvenne circa trent’anni fa, non ho aspettative o pretese.

Hai vissuto gli anni più floridi e rigogliosi per la discografia della club culture. Quanto è difficile per uno come te rimettersi in gioco adesso, con visualizzazioni e follower sui social network che hanno preso (incredibilmente) il posto delle vendite dei dischi?
Rimettersi in gioco è semplice quando non si hanno aspettative e non si dipende dall’opinione degli altri. Fai ciò che credi e quello ti basta. I mezzi sono cambiati ma il fine rimane sempre lo stesso, trovare più persone possibili che ascoltino e si interessino al tuo modo di interpretare la musica. Forse la grande problematica odierna è che la musica non venga più ascoltata. I tempi sono veloci e difficilmente permettono di memorizzare o vivere appieno ciò che si ascolta.

Al netto della nostalgia, credi che la nuova fruizione della musica possa garantire un impegno da parte degli artisti (ed anche delle etichette, in riferimento alle piccole indipendenti) pari a quello di un tempo? Mi spiego meglio: la musica potrà continuare ad essere alimentata da professionisti in assenza di un pubblico disposto a sostenerla economicamente?
Parlando della nostra scena, penso che le piccole label riusciranno a rimanere in vita come nicchie di realtà più grandi. Stiamo progressivamente ritornando al punto di partenza, quello della pre-dance intendo, e il periodo che viviamo non è altro che un punto nell’onda sinusoidale che continuerà a propagarsi sempre, ma forse per dare vita ad un altro vero periodo dance occorreranno decenni.

Oggi pare non sia più fattibile poter ambire a comporre musica senza essere nel contempo un performer. Credi in questo binomio? Non sempre chi è abile in studio lo è altrettanto sul palco, e viceversa.
Anche ai vecchi tempi c’era chi produceva in studio ma poi veniva sostituito nelle performance dal vivo da altre persone (in merito a tale tematica rimandiamo a questo reportage, nda). Adesso il contatto è più immediato e diretto ma la tecnologia ha creato strumenti utili per affrontare ogni situazione in maniera decente. Per fortuna esistono ancora artisti in grado di eccellere in entrambe le arti.

Hai suonato in tutti i continenti: come ricordi l’attività frenetica nei club? Ti manca quella vita?
A mancarmi più di tutto è l’atmosfera, i viaggi, le location, le persone incontrate, i personaggi più strambi, chi lavorava nei backstage e gli imprevisti. Il club era paragonabile ad un “forum” moderno ma non vorrei tornare indietro, sono vecchio ed ho già dato (risate).

Sei sempre stato fedele ad un’estrazione underground, sia come DJ che produttore, non cedendo mai a tentazioni pop contrariamente a tanti tuoi colleghi. A posteriori rifaresti le stesse scelte?
Non ho nulla in contrario alle tentazioni pop, per me alla fine resta sempre una scelta musicale o economica. Poi non è semplice realizzare brani pop, tecnicamente la qualità sonora dello standard è sempre più elevata e trovare il motivo “catchy” non è così scontato come potrebbe sembrare. Fatta questa premessa, confesso che mi hanno sempre affascinato l’originalità e la spontaneità dell’underground, fattori che nel pop sono molto rari visto che il mainstream ruota su quello che viene inventato proprio nell’underground.

Ritieni che i cosiddetti DJ-star abbiano portato più vantaggi o svantaggi alla scena?
Secondo me i “DJ-star” esistevano già dall’inizio ma forse inconsapevolmente. I vari Lory D, Claudio Coccoluto, Marco Trani, Carl Cox, Sasha, Paul Oakenfold, Joey Beltram, Jeff Mills, Richie Hawtin, Tony Humphries, David Morales e tanti altri non erano (e sono) delle star? Preferisco più le DJ-star però, guardo tutte le loro foto. Peccato non esistessero un paio di decenni fa!

Da essere un genere sperimentale nato sull’asse ambient/techno ad inizio anni Novanta, la trance è diventata piuttosto monotona e si è svuotata di guizzi creativi. C’è qualcuno che in tempi recenti è riuscito a fornire qualche slancio inedito?
Al momento non so rispondere perché è solo un anno che ho ripreso ad ascoltarla ed internet è molto dispersivo. Seguo David Forbes e John Askew, che originariamente erano artisti delle mie etichette, ma a dirla tutta non mi ritrovo nella trance moderna, è un sound troppo canalizzato e specifico e manca di imprevedibilità: sai come inizia e sai come finisce.

La tua carriera sarebbe stata la stessa se non ti fossi trasferito oltremanica?
Ogni tanto ci penso ma finisco sempre col ripetermi il detto popolare “se mio padre avesse avuto tre palle…”. Senza dubbio la carriera non sarebbe stata la stessa ma diversa nelle esperienze vissute. Sono stato sempre pienamente convinto della scelta fatta, oltremanica sentivo che la musica fosse più vicina alle mie idee.

Quali sono i tre aggettivi con cui vorresti fosse ricordata la tua musica?
Sarei già contento se fosse ricordata ma, per rispondere alla domanda, direi spontanea, imprevedibile e, perché no, interessante.

(Giosuè Impellizzeri)

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Arkanoid – No Problem (Hi Tech Music)

Arkanoid - No ProblemÈ vero che, con la nascita di house e techno, a cimentarsi nella composizione di “musiche nuove” è anche chi non ha maturato una formazione accademica ed è incapace di leggere lo spartito, suscitando disapprovazione in certi ambienti, ma è altrettanto vero che in quei frenetici anni di radicale cambiamento (tra la seconda metà degli Ottanta e i primi Novanta) sono pure giovani musicisti, reduci di studi al conservatorio, ad essere attratti da nuove modalità compositive e sonorità non più riconducibili a strumenti tradizionali. Scrivere musica su un sequencer che scorre nel monitor di un computer, modificare il timbro dei suoni mediante manopole e programmare ritmi pigiando tasti è qualcosa che intriga non poco e fa sentire l’accelerazione del futuro su se stessi.

Potrebbe averla pensata così pure Edoardo Milani, studente di pianoforte e flauto presso il Conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste, che nel 1986 inizia ad armeggiare con la computer music. «Avevo la disco nel sangue e già quando cominciai a suonare il pianoforte da bambino sognavo di mettere le mani su quelle cose chiamate sintetizzatori che all’epoca si vedevano in televisione e che erano completamente fuori dalla portata della gente comune» racconta oggi. «Cominciai giovanissimo a fare il disc jockey, prima in radio e poi in discoteca. Nel frattempo militavo in una band che tentai di educare a suon di funk e Moroder ma quando mi resi conto come fosse difficile convincere i membri a seguire quel sound cercai di rendermi autonomo. Coi soldi guadagnati dalle serate comprai le prime tastiere ed apparecchiature varie e a studiarne le loro potenzialità per sfruttarle al meglio. Incisi il primo disco nel 1987, “Uh Uh Ah Ah” di Sband Aid (ironica risposta alla Band Aid di Bob Geldof, nda), una vera avventura nel gestire sia gli artisti partecipanti al progetto, sia i rapporti col distributore che si tirò indietro all’ultimo momento. Le mille copie della prima stampa infatti furono distribuite secondo la modalità “fai da te” e quell’esperienza mi fece capire bene i meccanismi di marketing dell’epoca. A Trieste, la mia città natale, c’era un fermento importante di cui purtroppo quasi nessuno parla perché è luogo fuori da certi circuiti. Potrei stilare un lungo elenco di triestini che hanno fatto la storia della dance italiana, cominciando da Vivien Vee» (di cui abbiamo parlato qui, nda).

Milani in studio nel 1987

Edoardo Milani in studio nel 1987

Ai tempi i pregiudizi riservati alla musica composta con mezzi diversi dai tradizionali sono particolarmente radicati e, ad ormai oltre un trentennio di distanza, non ancora del tutto sopiti, seppur oggi l’elettronica (inteso come mondo e non filone stilistico) abbia invaso praticamente ogni genere. Preclusioni fondate o dettate dallo scetticismo per il nuovo e il non conosciuto? «Non avevo alcun pregiudizio ma pian piano ho cambiato atteggiamento» risponde in merito Milani. «Mi sono battuto tanto per portare la cultura nelle discoteche con svariatissime iniziative più o meno riuscite, ma oggi posso affermare che sia una missione impossibile, a meno che ci si trovi a New York. Già negli anni Novanta era finita l’epoca del pubblico che andava nei club per sentire un genere piuttosto che un disc jockey. È chiaro che la musica elettronica colta parta da solide premesse culturali che generano l’opera stessa ed è qualcosa di completamente diverso da quello che volgarmente si chiama “elettronica”. Il tempo dimostra che tanta produzione snobbata all’epoca ha riacquistato dignità essendo universalmente riconosciuta come opera culturale di alto livello. Nel marasma della produzione c’è sempre qualche punta di diamante, ma per uno buono se ne trovano almeno altri mille che contribuiscono ad abbassare la stima per il genere e quindi ad aumentare il pregiudizio di cui si parlava prima. A prescindere dallo stile musicale a cui ci si accosti, è sempre necessaria una solida formazione e consapevolezza. A quel punto entra in gioco la creatività che, se prende il sopravvento in maniera originale con un buon controllo delle tecniche, riesce a fare la differenza». Di creatività però oggi pare se ne veda e senta sempre meno, col mercato invaso costantemente da prodotti derivativi. Qualcuno, già da tempo, ha avanzato l’ipotesi che la colpa sia attribuibile alla tecnologia, diventata fin troppo semplificatrice. Paradossalmente proprio la tecnologia, che qualche decennio fa spalancò le porte del futuro, adesso pare remare al contrario. «Alla metà degli anni Ottanta anche in una produzione a basso budget erano comunque presenti un ingegnere del suono, un musicista, un arrangiatore e un tecnico che curava il cosiddetto computer programming» dice Milani. «A loro si aggiungeva l’artista o la band, il produttore e il discografico. Queste teste insieme garantivano un livello minimo dignitoso, anche nel peggiore dei casi. Oggi invece tutte queste figure coincidono con un’unica persona che decide autonomamente per se stessa, a volte in maniera geniale, altre in modo fallimentare».

Milani e Lombardoni, nei primi anni Novanta

Edoardo Milani e Severo Lombardoni in uno scatto risalente ai primi anni Novanta

Nel 1990, col supporto della Discomagic di Severo Lombardoni, Edoardo Milani fonda la sua etichetta, la Hi Tech Music, inaugurandola con “No Problem” che lui stesso produce sotto uno pseudonimo preso in prestito dal mondo dei videogiochi, Arkanoid. Stilisticamente il brano attinge dal campionario new beat, dal bleep e dalla techno che inizia il processo di europeizzazione, analogamente a quanto avviene in un altro pezzo prodotto in Italia nello stesso anno, “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui abbiamo parlato qui. «All’epoca avevo parecchi contatti con vari editori ma nessuno voleva esporsi troppo col sound che arrivava dal Nord Europa e dagli Stati Uniti» rammenta l’autore. «Pensai così che fosse il momento giusto per rischiare e creare un marchio con una connotazione house e techno parecchio svincolata dal tipico italian sound in auge allora. Le maggiori difficoltà che si prospettarono erano legate alla comunicazione. Un telefono fisso ed un fax rappresentavano le porte per il mondo. Internet non c’era e quindi si spedivano i dischi per posta. Un altro problema piuttosto importante era reperire dei vocalist. Nessuno era disposto a cantare su quella “roba”, oggi invece ci sarebbe la fila di cantanti preparatissimi, anche con formazione accademica, pronti a sperimentare sulla dance. La Hi Tech Music nacque anche grazie alla Discomagic che però, all’epoca, era una ditta criticatissima nell’ambiente discografico seppur fosse l’unica a pagare gli anticipi e a detenere l’export più importante d’Italia attraverso il quale la produzione nazionale veniva catapultata in tutto il mondo. Alla Discomagic ho potuto operare sempre in totale autonomia in campo artistico (dalla musica fino all’artwork) e questo per me era molto importante. Con Lombardoni instaurai un ottimo rapporto, continuato dopo la crisi del disco ed andato avanti sino alla sua prematura scomparsa nel febbraio del 2012.

“No Problem” nacque in un momento in cui la musica new beat cominciò a portare una ventata di novità. A me piaceva molto il techno pop e volevo esprimermi con queste modalità filtrando il tutto con sonorità del momento. Il disco fu realizzato in circa un mese. Nel set up utilizzato figuravano un sequencer Roland MC-500, una workstation Roland W-30, un sintetizzatore Yamaha DX e il mitico Ensoniq Mirage. A dare il nome al mio progetto fu un videogioco da bar uscito pochi anni prima, Arkanoid per l’appunto. A dispetto dei crediti riportati sulla copertina però, il pezzo non fu affatto registrato presso il Seven Valleys Studio a Perugia (da dove quello stesso anno esce un successo internazionale, “Last Rhythm”, nda). Fu un errore di grafica commesso dalla Discomagic. Nonostante avessimo spedito l’impianto grafico completo, mi ritrovai sulla copertina crediti che non c’entravano davvero nulla con me. Qualcuno avrebbe fatto causa per una cosa del genere ma io invece lasciai perdere ed ordinai le ristampe in copertina generica. Fu comunque un peccato perché avevamo lavorato molto sull’artwork. Maurizio Verbeni, citato erroneamente tra i ringraziamenti, lo conobbi qualche anno dopo ma non abbiamo mai condiviso nulla di artistico. Anche quella parte di note, purtroppo, era frutto dell’errore di stampa. Aneddoti? La B2, “No Problem (Criminal Drum Box)”, la realizzai in una sola notte con un registratore Teac analogico a quattro piste».

Arkanoid su R&S

Sia “No Problem” che il singolo successivo “Limit” vengono ripubblicati in Belgio dalla R&S Records

“No Problem” non diventa un successo commerciale ma suscita l’attenzione di un’etichetta destinata a lasciare il segno, la belga R&S, particolarmente attratta dai prodotti nostrani di allora, da “Lot To Learn” di Lee Marrow ad “Hazme Soñar” di Morenas e, a seguire, “La Musika Tremenda” di Ramirez e “Funky Guitar” dei TC 1992 di cui abbiamo parlato nel dettaglio qui. Anche Arkanoid finisce nel catalogo della label diretta da Renaat Vandepapeliere, che prende in licenza pure il follow-up “Limit”, del 1991. «La stampa italiana di “No Problem” vendette diecimila copie, credo la maggior parte finite all’estero» spiega Milani. «All’epoca non era poi così difficile fare questi numeri. La R&S era una delle mie etichette preferite che seguivo con attenzione. Quando ricevetti la notizia rimasi davvero stupito! Pur cercandoli, non ebbi mai rapporti diretti con loro, a chiudere la licenza fu l’ufficio estero della Discomagic». Nella veste di Arkanoid Edoardo Milani incide diversi singoli tra cui il menzionato “Limit”, finito nuovamente su R&S, ed “Alpha Centauri” recuperato da Joey Negro nella raccolta celebrativa “Italo House” del 2014, ed anche un album, “Electronic Communications”, del 1992, dedicato alla madre Renata Del Conte e in cui figura una cover di “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim (alias Derrick May) e tracce dal respiro sperimentalista come “X A. M.”, “Waitin’ For The Next Track” e “The Jazzin’ Flute”. In copertina, tra i ringraziamenti, una sfilza di nomi (da Plus 8 a CJ Bolland, da Underground Resistance a Liam Howlett, dagli Orbital a Baby Ford passando per 808 State, Telex, Frank De Wulf, N-Joi, Eon, Public Enemy, Nightmares On Wax, MC 900 Ft Jesus, Gaznevada, Giorgio Moroder, Lime, Yellow Magic Orchestra e Dexter Wansel) che fa capire quali siano i riferimenti di Milani e quanto ampio sia il suo range d’interesse.

Arkanoid - Electronic Communications

La copertina di “Electronic Communications”, primo ed unico album che Edoardo Milani firma come Arkanoid e pubblica sulla sua Hi Tech Music nel 1992 anche su CD

In parallelo porta avanti molti altri progetti complementari come 2 Elektron, E.S.G. (“Electric Sound Generator”, ispirato a “Technarchy” dei Cybersonik), Edward’s World, Electric Choc (“Shock The Beat” gira parecchio nei rave britannici), Hypertone e Tribal Village. Nel 1993 torna sulla bolognese DFC, a tre anni da “Future” di Disco City, con “Nanah Trance” di Trans-Mission, “Proxima” di Club Futura (insieme a Dario Crisman, col quale già conia i Rex con “Credere Obbedire Combattere”) e nella seconda metà del decennio continua con Glamour Inc., DreamLand (prodotto dal compianto Salvatore ‘Casco’ Cusato), Interzona, Interstellar, Bubble Trouble, U.V.A. e Sonar. «Dopo le prime produzioni, la Hi Tech Music si espanse con due studi ed un piccolo team di artisti che collaboravano con idee e progetti» rammenta ancora Milani.

adv Hi Tech Music (maggio 1995)

Un advertising pubblicitario della Hi Tech Music (fonte Disk Jockey New Trend n. 5, maggio 1995)

«Durò qualche anno ma i generi cambiavano velocemente per cui si rese necessario rivedere il tutto, specialmente dal punto di vista artistico. Scelsi di lavorare anche come freelance pur mantenendo l’etichetta con cui continuavo a produrre musica più sperimentale. Era una vita difficile però, l’editore aveva il controllo diretto sugli artisti per cui andava a cadere quella libertà creativa plagiata da “consigli” che, nel mio caso, non produssero i risultati sperati. Non nascondo di aver fatto anche dischi non accreditati a mio nome per la maggior parte degli editori dance dell’epoca, tranne la Energy Production con cui non ho mai lavorato. Per me era diventata una sfida pubblicare musica sull’etichetta romana perché lì avevano puntualmente rifiutato tutti i pezzi che mandai. Ogni volta che avevo qualcosa che pensavo potesse fare al caso loro, mi recavo da Dario Raimondi Cominesi e lui ascoltava per poi dirmi sempre la stessa frase: “sì, il pezzo è bello ma non mi sembra così forte da prenderlo”. Questo per me è rimasto un mistero visto che nel loro catalogo figuravano anche dischi che in termini di vendite facevano molto meno di quello che totalizzavo io pubblicando altrove. “Shock The Beat” di Electric Choc e “Soul Roots” di Edward’s World, ad esempio, sono stati campionati o risuonati in tutte le salse (come in “Dream On” dei Que Pasa, Manifesto, 1999, nda), con e senza crediti, ma questo fa parte dei ricicli della dance. Con Crisman remixai anche “Harmony In Love” cantato da una giovane ed ancora sconosciuta Laura Pausini. Ci impegnammo parecchio ma per questioni contrattuali il disco venne ritirato dal mercato e risultò un buco nell’acqua. Le poche copie in circolazione, per tale ragione, hanno iniziato ad acquistare valore per i collezionisti».

Reflections (luglio 1995)

Una pagina di “Reflections”, la rubrica che Milani cura negli anni Novanta per la rivista Disk Jockey New Trend (n. 7/8, luglio/agosto 1995)

Negli anni Novanta Milani instaura anche una collaborazione con Disk Jockey New Trend, la rivista ufficiale dell’AID (Associazione Italiana Disc Jockey) poi diventata Jocks Mag, su cui appare la rubrica “Reflections”. In assenza di internet la comunicazione attraverso un canale tradizionale come la stampa è ancora la privilegiata, soprattutto nell’ambito musicale e discografico. «Per me gli anni Novanta erano un sottoprodotto degli Ottanta, che covava i segni della decadenza del sistema discoteca già dopo la metà della decade» afferma il musicista triestino. «Cavalcai quindi quella fase con molta consapevolezza per ciò che stava succedendo. I momenti esaltanti coincidono con l’incontro di molti personaggi coi quali ho condiviso studi di registrazione e la mia musica. Ho cercato di dare sempre il massimo con onestà, non portandomi dietro nessun rimpianto. Ho chiuso ufficialmente la mia carriera da disc jockey nel 2014. Mi sembrava giusto dare opportunità ai più giovani ma guardandomi indietro ho trovato il vuoto, un vuoto generazionale ed un totale disinteresse per questo fenomeno ormai ridotto al lumicino. Penso che tale epilogo sia la naturale risposta alla conclusione di un’epoca. Alcuni album comunque non invecchiano e restano delle pietre miliari: “Galaxy” dei War, “Computer World” dei Kraftwerk… senza dimenticare band come The Quick, label come la Transmat e tantissime altre che conservo nella collezione di circa quindicimila dischi che hanno scandito la mia esistenza.

Robotnick, Casco e Milani (2008)

Edoardo Milani insieme a Maurizio Dami (alias Alexander Robotnick, a sinistra) e il compianto Salvatore Cusato (alias Casco, al centro) in una foto del 2008

È difficile però individuare punti saldi nel panorama odierno, soprattutto nel mondo della dance dove i pezzi si compongono coi telefonini. Mi piace molto Mark Ronson e tra gli indipendenti Flamingosis. Trovo divertente stare davanti ad un computer portatile col remote a girare manopole ma questo, per come la penso io, non è fare il disc jockey. I grandi raduni con l’idolo fanno parte di qualcos’altro che non ha davvero nulla a che fare con un club da duecento persone dove c’è un personaggio che interpreta la tua voglia di ballare e la soddisfa con un bel disco in vinile mixato magistralmente. A soffrire, purtroppo, è anche la radio, soprattutto nel segmento dei più giovani, quelli che una volta rappresentavano la fascia d’utenza più consistente. Il panorama italiano è abbastanza livellato e terrorizzato dal passaggio al digitale. Qualche goccia nel mare ogni tanto ci regala belle emozioni nell’etere ma, a mio avviso, la questione è tutta da rivedere. Quando arriveremo ai giga illimitati e ad una connettività evoluta, tutto viaggerà solo sul web e la moltiplicazione dei canali cancellerà il mondo radiofonico così come lo abbiamo conosciuto e vissuto. Siamo ormai distanti dal Novecento e, come è sempre avvenuto nella storia, il mondo nuovo seppellisce quello vecchio. I dischi, le radio e i club ormai non sono che un fenomeno per soli amatori e nostalgici. Viviamo nell’epoca post Gutemberg dove l’opera autoriale si replica all’istante attraverso le Reti, sia una canzone o un video virale, e dopo poco sparisce nell’oblio senza lasciare traccia. Libri e dischi, quindi, non esisteranno più».

Milani nel 2016

Edoardo Milani e parte della sua collezione di dischi (2016)

Servirà dunque organizzare biblioteche e discoteche per tenere traccia di un passato che potrebbe essere cancellato del tutto? In un articolo del 2012 proprio il triestino accenna l’idea di creare un’associazione culturale per la conservazione di vinili e CD. «Qualche traccia va tramandata» sostiene, «ed io credo fermamente che il patrimonio culturale musicale di fine secolo sia uno stimolo importante per le prossime generazioni, quindi il mio impegno va in quella direzione. Mi piacerebbe molto creare uno studio storico con apparecchiature degli anni Settanta ed un archivio discografico che, riunendo alcuni fondi, riuscirebbe a raggiungere facilmente la soglia delle centomila unità. Chiaramente occorrono finanziamenti che di questi tempi è difficile reperire per cui al momento resta solo un ambizioso progetto sulla carta. Recentemente ho prodotto alcuni videoclip musicali ed ho in mente la realizzazione di alcuni film. Vorrei raccontare la storia della Hi Tech Music che in pochi conoscono ma attualmente la didattica e l’attività come musicista classico mi allontanano un po’ da questi “sogni”» conclude Milani. (Giosuè Impellizzeri)

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Phenomania – Who Is Elvis? (No Respect Records)

Phenomania - Who Is ElvisI primi anni Novanta vedono la diffusione e popolarizzazione della techno in Europa. Gran parte dei produttori del Vecchio Continente però non proseguono sul modello dei creatori di Detroit ma ne forgiano un altro che attinge prevalentemente dalla new beat e che punta ad essere immediatamente riconoscibile per l’utilizzo di suoni artificiali (ossia non riconducibili a strumenti tradizionali) e ritmiche incalzanti, spesso contraddistinte da una cassa marcata. Questo mix, che in Italia degenera in un fiume di pubblicazioni messe sul mercato da case discografiche che si appropriano di tale “nomenclatura” con fini meramente speculativi e che quindi davvero poco e nulla spartiscono con la techno, diventa un filone battuto per un paio d’anni circa e da cui provengono diversi impressionanti successi.

È il caso di “Who Is Elvis?” realizzato dai tedeschi Ramon Zenker (dietro agli Hardfloor e a dozzine di altri act come Bellini, Fragma o Perplexer) e Jens Lissat che per l’occasione coniano il progetto Phenomania, uno dei tanti “brand” utilizzati per marchiare la loro attività produttiva in quel decennio. «Facevo il DJ già da molto tempo» racconta oggi Lissat. «Nel 1978 acquistai il mio primo 12″, “Chase” di Giorgio Moroder. Poi, durante l’estate del ’79, vidi un DJ mixare al Trinity, famosa discoteca della mia città natale, Amburgo: quella notte fu determinante per la mia vita! Dopo pochi giorni comprai due giradischi Technics SL-B3 e un mixer ed iniziai a prendere dimestichezza con la strumentazione, senza alcun aiuto esterno. Ai tempi non esistevano mica i tutorial. Ad ottobre di quell’anno sapevo già mixare in modo professionale ed avevo appena quindici anni».

Jens Lissat @ Trinity (Hamburg Germany 1981)

Un giovanissimo Jens Lissat in consolle al Trinity di Amburgo, nel 1981, la discoteca dove solo un paio di anni prima scocca la scintilla per il DJing

Lo step successivo è la composizione, nonostante ai tempi non sia affatto facile procurarsi il necessario per produrre musica visti i costi ancora proibitivi degli strumenti. «La mia prima esperienza professionale in studio di registrazione risale al 1984 quando realizzai il remix di “Dancing In The Dark” di Mike Mareen» ricorda ancora Lissat. «Lo feci allo Star Studio, ad Amburgo, lì dove vennero registrati anche alcuni brani dei Modern Talking. Negli anni precedenti però ero già considerato il “re tedesco dei bootleg”. Realizzavo quelli che venivano chiamati medley e successivamente mash-up (pratica a cui abbiamo dedicato un ampio reportage qui, nda), stampandoli e vendendoli con successo. Ero particolarmente noto in Germania per questo tipo di attività e in virtù delle mie capacità nel 1986 mi offrirono la possibilità di realizzare un megamix ufficiale per Phil Collins che venne pubblicato dalla WEA. Lo realizzai nel Try Harder, lo studio di Peter Harder con cui avrei collaborato a lungo negli anni a seguire. Fu lui ad insegnarmi ad usare l’Atari 1040ST e il programma Creator per produrre musica. Sottolineo però di non aver mai studiato alcuno strumento classico anche se so suonare il pianoforte».

Work The Housesound

La copertina di “Work The Housesound”, il brano che Lissat realizza con Peter Harder nel 1987 come chiara imitazione dei pezzi provenienti da Chicago

Proprio con Harder, nel 1987, Lissat incide “Work The Housesound”, uno dei primi brani house realizzati in Germania. La copertina contiene chiare citazioni grafiche di “The House Sound Of Chicago”, la celebre serie della D.J. International Records, mentre la traccia suona come una sorta di rework di “Love Can’t Turn Around” di Farley Jackmaster Funk & Jesse Saunders sequenzata sul disegno ritmico di “Blue Monday” dei New Order. Pure i nomi degli autori, J.M. Jay ed Hardy, ammiccano a quelli che ai tempi giungono dalla discografia house d’oltreoceano. «”Work The Housesound” fu una delle mie prime produzioni in assoluto» spiega a tal proposito l’artista tedesco. «Nel 1986, durante un viaggio a New York, comprai un mucchio di dischi di un nuovo genere che stava iniziando a prendere piede, la house music, e proposi quel sound al Voilà, discoteca di Amburgo dove ero resident. Poco tempo dopo conobbi Harder e gli dissi che avrei voluto incidere un pezzo simile a “Love Can’t Turn Around”. Non sapevo davvero nulla sulle Roland TR-808, TR-909 e TB-303 ma cercai ugualmente di fare del mio meglio. Il risultato fu “Work The Housesound”, il primo disco house prodotto in Germania. Per l’occasione decisi di darmi un nome simile a quello dei ragazzi di Chicago, J.M. Jay, acronimo di Jack Master Jens. Vendemmo circa diecimila copie, mica male per un disco di debutto».

La house da lì a breve esplode in Europa e pochi anni più tardi, come anticipato, tocca anche alla techno, riconcepita su nuove basi ideologiche, più schiettamente connesse al ballo. «In realtà la techno di Detroit era più vicina alla house» sostiene Lissat, «mentre la techno europea nata ad inizio degli anni Novanta attingeva dalla new beat belga e dalla EBM tedesca. Techno, per me, è una “cosa” europea, mentre house ed acid invece sono riconducibili agli Stati Uniti e Gran Bretagna». Nel 1991 quindi, sull’onda crescente della europeizzazione della techno, esce “Who Is Elvis?”, contraddistinto da una costruzione tipicamente ravey ed un sample vocale di Elvis Presley che chiarisce la ragione del titolo. «Ero in tour oltremanica col progetto Off-Shore (quello di “I Can’t Take The Power”, nda) che era entrato nella top ten, e a Londra acquistai un sintetizzatore Roland SH-101» ricorda Lissat. «Tornato a casa andai in studio, insieme a Ramon Zenker, per provare questa nuova macchina ed iniziai a strimpellare una linea di basso con due dita, scegliendo un saw bass. A quel punto creammo un loop ritmico ispirato da “The House Of God” di D.H.S. e una drum part con la TR-909. Nella prima versione approntata c’era la mia voce ma alla fine optammo per quella campionata di Presley. In appena quattro ore il pezzo, diventato uno dei più grandi inni della techno di prima generazione, era pronto».

Sempre nel 1991 “Who Is Elvis?” viene ripubblicata ma utilizzando il nome Interactive, progetto che Zenker e Lissat fondano l’anno prima col brano “The Techno Wave”. Una maggiore spinta promozionale è garantita dal video che ne favorisce la diffusione nel mainstream. «Vendemmo all’incirca 15.000 copie di Phenomania (preso in licenza per l’Italia dalla Flying Records dietro segnalazione e suggerimento di Mimmo Mennito che lavora come import buyer presso il polo distributivo partenopeo, nda) ma poi decidemmo di sospendere la stampa e cambiare nome optando per Interactive, un altro nostro progetto che aveva già raccolto particolari consensi» spiega Lissat. «Come Interactive infatti finimmo col raggiungere la soglia di circa 180.000 copie vendute, entrammo nella top 20 tedesca e le compilation in cui il brano fu inserito superarono persino il milione di copie. Rammento pure una cover prodotta in Italia firmata Feno-Mania (sulla fittizia Unrespect Records del gruppo Discomagic, che parodiava ironicamente l’originaria No Respect Records, nda), del tutto illegale e che ebbe ovviamente meno successo della nostra traccia».

Jens Lissat e Ramon Zenker @ Studio Bolkerstrasse Düsseldorf 1993

Ramon Zenker e Jens Lissat nello studio in Bolkerstraße, a Düsseldorf, nel 1993

“Who Is Elvis?” è il brano che taglia il nastro inaugurale della No Respect Records, fondata ad ottobre del 1991 da Zenker e Lissat, rimasta in attività sino al 2000 per poi essere rilanciata, nella dimensione digitale, nel 2008. Nel catalogo annovera artisti come DJ Hooligan (il futuro Da Hool), Jürgen Driessen alias Exit EEE e i Mega ‘Lo Mania di “Close Your Eyes”, coverizzata dal nostro Moka DJ nel 1996. «La No Respect Records nacque proprio con “Who Is Elvis?”» chiarisce Lissat. «Ai tempi collaboravamo con diverse etichette a cui però avevamo già dato altri progetti quindi proposi a Ramon di crearne una nostra per pubblicare Phenomania. Lui annuì e in breve propose il nome, contrariamente a quanto accadeva di solito visto che ero io a creare pseudonimi. Insomma, fu proprio l’uscita di “Who Is Elvis?” a sancire la nascita della No Respect Records con la quale abbiamo lanciato un sacco di nuovi artisti destinati a diventare grandi nomi della scena. Ai tempi gestire un’etichetta discografica era piuttosto complesso ed impegnativo, bisognava continuamente far arrivare le white label ai DJ e soprattutto poter contare su un distributore efficiente. Per fortuna il nostro (Discomania, nda) lavorava benissimo».

Tra 1992 e 1993 i Phenomania remixano vari brani tra cui “Poing!” dei Rotterdam Termination Source, che di quella invasione rave techno è un inno insieme ad altri come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Dominator” degli Human Resource, “Anasthasia” dei T99 e “Pullover” di Speedy J, ed incidono nuovi singoli come “Caramelle”, “Strings Of Love” (una sorta di mash-up tra “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim e “All You Need Is Love” dei Beatles), “He Chilled Out” ed “Amazonas”, ma il successo pop sembra ormai essere sfumato. Non a caso la storia dei Phenomania si interrompe, anche se a tal proposito Lissat dice che la ragione fu legata a ragioni private. La coppia di dioscuri teutonici prosegue comunque la collaborazione puntando su progetti paralleli, in primis il menzionato Interactive, che inanella una serie di hit europee, da “Dildo”, per cui viene girato un ironico videoclip ad “Elevator Up And Down”, da “Amok” a “Can You Hear Me Calling” passando per l’happy hardcore di “Forever Young”, cover dell’omonimo degli Alphaville, “Living Without Your Love”, “Tell Me When” e “Sun Always Shines On TV”, rilettura del classico degli a-ha trainata da un video in cui viene coinvolto, come modello/attore, un giovane Tobias Lützenkirchen, poco tempo dopo finito anche nella line up di Paffendorf, ennesimo act curato da Zenker.

Interactive (premiazione nel 1994)

Gli Interactive, nella loro lineup completa, premiati nel 1994 per le 500.000 copie vendute di “Forever Young”: da sinistra Marc Innocent, Ramon Zenker, Andreas Schneider e Jens Lissat

«Interactive fu una mia idea e Ramon divenne immediatamente partner nell’avventura» rammenta ancora Lissat. «Dietro il brano d’esordio, “The Techno Wave”, c’è una storia che mi riguarda in prima persona: facevo il DJ in un locale di Dortmund ma desideravo tornare nella discoteca in cui lavoravo prima, il Königsburg Krefeld, a Krefeld. Così chiesi al proprietario se potessi essere nuovamente il resident il sabato sera e per convincerlo gli offrii una produzione discografica, ovvero “The Techno Wave” con cui nacquero gli Interactive (sul retro della copertina, infatti, c’è uno speciale ringraziamento abbinato alle foto della discoteca dove peraltro viene girato un video, nda). Nel nostro repertorio vantiamo numerose hit ma nonostante ciò sono salito sul palco con la band davvero poche volte essendo un DJ e non un performer. A portare il progetto nella dimensione live furono invece Ramon e il cantante Marc Innocent. Il successo più clamoroso resta “Forever Young” che raggiunse la soglia delle circa 500.000 copie vendute. Erano gli anni in cui nasceva quella che mi piace definire “business techno” che però non rientra esattamente nei miei gusti. Cedemmo l’album “Touché” alla Blow Up del gruppo Intercord incassando un ottimo anticipo economico. Il mio preferito resta “Dildo”, del 1992».

Phenomania tour Italia 1992

Flyer del 1992: i Phenomania sono tra gli ospiti di rave romani

Molti singoli degli Interactive arrivano anche in Italia dove, inizialmente, il gruppo può contare sul supporto di Albertino che peraltro firma un remix, con Giorgio Prezioso, di “Dildo” (il Wighida Remix realizzato nello studio di David X, di cui abbiamo parlato qui). Lo stesso Prezioso si occupa di “Elevator Up And Down”. I tedeschi ripagano con la loro versione di “Je Le Fais Express (Satisfy)” dei Fishbone Beat, recensiti qui. Quasi contemporaneamente Lissat sbarca nel nostro Paese col brano “Energy Flow”, edito da R&S e preso in licenza dalla Time Records che nel 1993 lo convoglia su una delle sue sublabel, la Downtown. «L’Italia è stata fondamentale nella scena techno» dichiara Lissat, «ho tantissimi ricordi dei rave romani dei primi anni Novanta ma soprattutto del Cocoricò, la mia discoteca preferita in assoluto di quel periodo. Inoltre sono particolarmente legato ad “Energy Flow” perché fu il primo brano che firmai col mio nome anagrafico. Proprio l’anno scorso ho realizzato un remix con Ramon. Lo considero un pezzo senza tempo. Nel 2020 festeggio il quarantennale nel mondo dei club e non mi sono ancora stufato anzi, ho ancora tanta voglia di produrre buona musica» conclude il DJ tedesco. (Giosuè Impellizzeri)

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I mash-up non sono nati negli anni Novanta

Le origini: teorie messe a confronto
“Un mash-up è una canzone o composizione realizzata unendo fra loro due o più brani preregistrati, spesso sovrapponendo la parte vocale di una traccia a quella strumentale di un’altra mediante l’uso di campionatori o giradischi” (da Wikipedia). Oggi questa tecnica è diventata di pubblico accesso grazie alla capillare diffusione della tecnologia con cui realizzarla nonché alla facilità con cui procurarsi gli elementi principali, come versioni acappella e basi strumentali. Chiunque, con un minimo di conoscenza tecnica in materia, è messo nelle condizioni di abbinare due (o più) brani in una sorta di mixaggio prolungato con cui far emergere un pezzo “nuovo”, che contenga gli elementi dei precedenti ma fusi tra loro melodicamente ed armonicamente in modo più o meno intrigante. A livello storico non è facile individuare con precisione quando e soprattutto chi abbia dato avvio a tale procedimento artistico. Più fonti concordano nell’attribuire ai musicisti statunitensi Bill Buchanan e Dickie Goodman il merito di aver mescolato per primi spezzoni di vari brani per originare un fantasioso programma radiofonico narrante l’invasione extraterrestre del pianeta Terra (un chiaro rimando a quanto fece in radio il giovane Orson Welles il 30 ottobre 1938). Questo avviene in “The Flying Saucer” del 1956, ma probabilmente il contesto più pertinente in cui annoverare tale esempio è quello del sampling, giacché Buchanan e Goodman non sovrappongono ma mettono in fila una sequenza di proto campionamenti non autorizzati, cosa che peraltro procura loro beghe legali costringendoli a reincidere la traccia dopo averne sostituito alcune parti. Un’altra teoria riconduce la genesi del mash up alla xenocronia di Frank Zappa, «una tecnica di straniamento musicale volta a produrre continuità dal discontinuo, pur volendolo fortemente sottolineare; il “sincronismo altro” è un modo di ridicolizzare il formalismo musicale per dimostrare che due parti totalmente estranee l’una dall’altra per tempo, tonalità e metro possano suonare insieme e produrre musica, rientrando a pieno titolo in quella categoria di pensiero definito “postmoderno” che l’arte ancora fatica a superare», come scrive qui Alberto Ciafardoni. In tale ambito potrebbero rientrare gli esperimenti “plunderfonici” (si sentano “The Mercy Bit (MTTHBTLS)”, “Psychophonia” o “The Free Skoo Bit (MTTHRSDTS)”) che l’artista e critico musicale Vittore Baroni firma come Lieutenant Murnau tra 1980 e 1984. Come lo stesso Baroni spiega dettagliatamente in un post su Facebook il 2 settembre 2016, «i concetti alla base del progetto Lieutenant Murnau erano quelli di riciclo ed ecologia sonora (ossia produrre composizioni rielaborando musica preesistente) conseguentemente di implicita critica-satira-commento della scena musicale e discografica (da parte soprattutto di non-musicisti come me). Dato che il progetto si muoveva nell’alveo del “tape network” degli anni Ottanta, c’era anche una contaminazione con la scena e l’immaginario dei circuiti sperimentali industrial e post-punk in genere. […] Lieutenant Murnau poi è stato anche uno dei primi aderenti alla organizzazione internazionale M.A.C.O.S. (Musicians Against Copyrighting of Samples), quindi c’era pure un’adesione alle campagne del no copyright e in genere la volontà di sovvertire ludicamente alcuni stereotipi e vezzi del “divismo” pop e dell’industria musicale. Forse è difficile comprendere completamente oggi, in epoca di smaterializzazione del prodotto musicale e di download gratuito di tutto e il contrario di tutto, la valenza liberatoria di allora, nel tagliare/cucire vinile o inventare il “mash up” vent’anni prima, con processi casalinghi fai-da-te e tecnologie poverissime di riciclo». Una terza teoria rimanda invece a quanto avvenuto tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, quando si avvia la storia del sampling in seno all’hip hop con “Rapper’s Delight” di Sugarhill Gang, “Planet Rock” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force, “The Adventures Of Grandmaster Flash On The Wheels Of Steel” di Grandmaster Flash, “Buffalo Gals” di Malcolm McLaren o i collage di Double Dee & Steinski, ma sebbene tutti paiano ottimi esempi per rappresentare quanto teorizzato da Zappa, non incarnano esattamente la struttura e l’essenza del mash-up che invece è un’altra.

Mach e Jesse Saunders

“On And On” di Mach (1980) e “On And On” di Jesse Saunders (1984): sono questi, rispettivamente, il primo mash-up e il primo brano house della storia?

House music in debito coi mash-up?
Più vicino alla tecnica del mash-up risulta essere un pezzo intitolato “On And On” attribuito ad un tal Mach, stampato nel 1980 su un 12″ non ufficiale sulla fittizia Remix Records. La traccia nasce dalla sovrapposizione tra la base di “Space Invaders” degli australiani Player [1] e i brevi vocalizzi di Donna Summer tratti da “Bad Girls”. C’è spazio pure per i fiati provenienti da “Funky Town” dei Lipps, Inc. e per l’intro tratto da “Get On The Funk Train” dei Munich Machine di Giorgio Moroder. Insomma, un vero mash-up ante litteram, altresì ricordato per essere stato uno dei cavalli di battaglia di Jesse Saunders, DJ di Chicago che ai tempi lo usa a mo’ di sigla musicale in tutte le sue serate. «Quando il disco gli venne rubato promise solennemente che ne avrebbe ricreato lo spirito» si legge in “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton. Nel 1983 Saunders inizia a realizzare qualche traccia con una drum machine Roland TR-808, una tastiera Korg Poly-61, un Roland Bassline TB-303 e un registratore a quattro piste. Il primo brano che completa è “Fantasy”, il secondo invece, scritto con Vince Lawrence, è intitolato “On And On” proprio in omaggio al disco sottrattogli qualche tempo prima. Simon Reynolds, in “Energy Flash”, scrive che «i due si rivolsero a Larry Sherman, un imprenditore locale che aveva rilevato l’unico impianto con la pressa di dischi esistente a Chicago in quel periodo, chiedendogli di stampare a credito cinquecento copie del brano in formato 12″, con la promessa di tornare entro venti minuti e pagarlo quattro dollari a disco. Non solo tornarono e saldarono completamente il debito, ma ordinarono altre mille copie».

Jesse Saunders alla presentazione di On And On (1984)

Jesse Saunders alla presentazione di “On And On”, da lui considerato primo brano di house music ad essere prodotto

“On And On” esce a gennaio del 1984 su Jes Say Records e Saunders lo definisce il primo brano house della storia. Se tale interpretazione fosse vera, in un certo senso la house music risulterebbe debitrice a quel proto mash-up del 1980, la cui paternità autoriale, fatta eccezione per il nomignolo Mach apposto sulla label copy, resta sinora sconosciuta.

Italia, 1982: nasce la medley mania
È vero che “On And On”, uno dei primi presunti mash-up, sia frutto dell’estro di un produttore residente negli Stati Uniti, ma è altrettanto vero che l’Italia abbia svolto un ruolo tutt’altro che secondario nella genesi ed evoluzione di tale tecnica. Mentre dall’altra parte dell’Atlantico Jesse Saunders passa senza mai stancarsi la traccia di Mach, da noi prende piede la moda dei medley, un termine che nel linguaggio musicale indica la presenza di due (o più) brani eseguiti senza interruzioni, solitamente dalla durata più breve rispetto alla stesura originale. Nel 1982 però avviene qualcosa che stravolge la concezione classica del medley. La milanese Zanza Records, una delle etichette appartenenti alla Gong Records di Salvatore Annunziata che proprio quell’anno pubblica “Dirty Talk” di Klein & MBO, mette sul mercato “Disco Project” di Pink Project, spacciato per medley sul disco stesso ma che propriamente medley non è. Il brano infatti mescola, in una riuscita sovrapposizione, “Mammagamma” e “Sirius” degli Alan Parsons Project ed “Another Brick In The Wall” dei Pink Floyd. I pezzi non sono messi in sequenza come la ricetta del medley vuole ma letteralmente incastrati e fusi uno nell’altro, esattamente secondo i dettami del mash-up. Il nome stesso Pink Project omaggia quello delle band rispettivamente coinvolte, i Pink Floyd e gli Alan Parsons Project. A differenza di quanto avvenga in tempi più recenti però, in cui l’autore si limita a tagliare il nastro o a manipolare digitalmente due o più registrazioni, pare che i Pink Project abbiano risuonato integralmente le parti in studio e fatto ricantare le sezioni vocali. Qualora fosse andata così, comunque, non deve essere stato certamente un problema insormontabile per gli artefici, due musicisti e compositori attivi già da diversi anni in ambito cantautorale, Luciano Ninzatti e Stefano Pulga, che in quel periodo si cimentano in pezzi esplicitamente dance (da “Plastic Doll” di Dharma a “Dance Forever” di Gaucho passando per le celebri “It’s A War” ed “Another Life” di Kano, giusto per citarne alcuni). “Disco Project” è nella top 30 dei singoli più venduti in Italia nel 1982, e lo strepitoso successo raccolto spinge la Baby Records di Freddy Naggiar, che nel frattempo rileva i diritti del brano licenziandolo in tutto il mondo, ad inventare un misterioso gruppo per far fronte alle esibizioni nei locali e in televisione. In realtà è tutto palesemente finto e sotto il cappuccio a punta dei presunti membri, come scrivono Carlo Antonelli e Fabio De Luca in “Discoinferno”, «finiscono i magazzinieri dell’azienda nel ruolo di prestanome e doppelganger, controfigure al posto degli artisti e cyborg al posto dei cantanti». Nello stesso libro si rinviene un’intervista a Carlo Freccero, autore e dirigente televisivo, che sinteticamente spiega cosa avviene alla musica di quegli anni che «diventa performativa e deve essere uno spettacolo, tutta travestimenti e maquillages». Ciò chiarisce bene le ragioni per cui gran parte dell’italo disco venga rappresentata da personaggi immagine e cantanti-mimi, come già illustrato in questo ampio reportage.

Pink Project album

Le copertine dei due album dei Pink Project

La riuscita di “Disco Project” convince ad incidere un intero album fatto di brani-collage in cui le rispettive partiture diventano tessere di un puzzle sonoro da spostare per creare nuove alchimie. Il titolo? “Domino”. La copertina? Un gatefold su cui campeggia il simbolo araldico dell’Occhio della Provvidenza. Lo stile? Un mix tra l’italodisco più classica e la space disco influenzata dalla synth music cinematografica. All’interno “Der Da Da Da” (“Der Kommissar” di Falco + “Da Da Da” dei Trio), “Hyper Gamma Oxygene” (“Hyper-Gamma-Spaces” degli Alan Parsons Project + “Oxygene (Part 4)” di Jean-Michel Jarre), “Voices Of Independence” (“Voices Inside My Head” dei Police + “State Of Independence” di Jon & Vangelis), “Smoke Like A Man” (“Smoke On The Water” dei Deep Purple + “Love Like A Man” dei Ten Years After) e “Magic Flight” (“Magic Fly” degli Space + “Connecting Flight” di Roland Romanelli). Oltre a “Disco Project” ovviamente, ed “Amama”, a quanto pare l’unica a non seguire il trattamento medley. Insieme a Pulga e Ninzatti, in studio, ci sono anche vari musicisti (il bassista Pier Michelatti, i batteristi Bruno Bergonzi ed Ellade Bandini, il percussionista Maurizio Preti, il sassofonista Claudio Pascoli) nonché una serie di vocalist tra cui Linda Wesley, Naimy Hackett, Rossana Casale e Silver Pozzoli. In scia a “Domino” nel 1983 viene dato alle stampe il secondo (ed ultimo) album dei Pink Project, “Split”, in cui viene assoldato, nel ruolo di scratch consultant, Afrika Bambaataa. All’interno nuove fusioni, forse meno riuscite, come “Scratchin’ Superstition” (“Rockit” di Herbie Hancock + “Superstition” di Stevie Wonder), “Stand By Every Breath” (“Stand By Me” di Ben E. King + “Every Breath You Take” dei Police) e il più noto “B-Project” (“Jeopardy” di Greg Kihn Band + “Billie Jean” di Michael Jackson). Con quest’ultimo i Pink Project mostrano un aggiornamento della loro enigmatica immagine, anticipato dalla copertina del singolo: maschere di gomma dalle mostruose fattezze (ispirate forse da quelle utilizzate qualche anno prima dai colleghi esteri Ganymed?) prendono il posto dei cappucci di ku klux klaniana memoria.

Pink Project live

In alto i Pink Project coi cappucci a punta ai tempi di “Disco Project”, nel 1982, in basso invece la formazione indossa maschere di gomma presentando il brano “B-Project”, nel 1983

Battere il ferro finché è caldo
Il successo dei Pink Project apre letteralmente un filone che le etichette iniziano a seguire con prevedibile regolarità ed insistenza. Nel 1983 la stessa Zanza Records, “culla” del progetto di Pulga e Ninzatti, prova a replicarne i risultati attraverso “Tubular Affair” di Samoa Park, uno studio project la cui immagine pubblica viene affidata alla cantante Loretta Ferrarato alias Barbarella. A produrre invece, in incognito perché celati dai fantasiosi pseudonimi Kandinsky e Multiplay Back, sono Franco Rago e Gigi Farina che hanno già inciso varie cose per Discomagic e Durium (‘Lectric Workers, Atelier Folie, Expansives e Wanexa) diventate veri cult per i collezionisti a distanza di qualche decennio. Ad essere sovrapposti sono due pezzi dello stesso autore, “Tubular Bells” e “Foreign Affair” di Mike Oldfield. Ne segue subito un altro, “Monkey Latino” (“Monkey Chop” di Dan-I + “Paris Latino” dei Bandolero) per poi concludere nel 1985, ma sulla Many Records di Stefano Scalera, con “One Night In Bangkok Medley With Midnight Man”, prodotto da Tony Carrasco che costruisce tutto sposando “One Night In Bangkok” di Murray Head con “Midnight Man” dei Flash & The Pan. Scalera non è nuovo ad operazioni di questo tipo. Già nel 1983 infatti pubblica sulla sua etichetta il primo singolo di Club House intitolato “Do It Again (Medley With Billie Jean)”. Di fatto è un mash-up tra “Do It Again” degli Steely Dan e “Billie Jean” di Michael Jackson. Pochi mesi dopo ne segue un altro, “Superstition Medley With Good Times”, che incrocia “Superstition” di Stevie Wonder e “Good Times” degli Chic. Artefice di entrambi è il musicista Luca Orioli. A chiudere la tripletta è “I’m A Man / Yé Ké Yé Ké”, del 1987, fortunato combo nato dalla collisione tra “I’m A Man” degli Spencer Davis Group (già coverizzato nel ’78 in chiave dance da Macho con la produzione di Mauro Malavasi) e “Yé Ké Yé Ké” di Mory Kanté. Questa volta a produrre è Gianfranco Bortolotti per la Media Record, prossima a trasformarsi in Media Records. L’imprenditore bresciano rileva i diritti del marchio Club House per poi rilanciarlo con “I’m Alone” del 1989 (di cui abbiamo parlato qui), seguito da una serie di brani che faranno breccia nel cuore dei fan dell’eurodance, soprattutto quando l’italoamericano Carl Fanini, intervistato qui, diventa voce ed immagine del progetto. Nel frattempo Orioli, sempre per la Many Records di Scalera, realizza “Thriller Medley With Owner Of A Lonely Heart” di Local Boy (la base è di “Thriller” di Michael Jackson, ovviamente risuonata, mentre le parti vocali di “Owner Of A Lonely Heart” degli Yes). Ad affiancare Orioli, particolarmente prolifico allora in ambito dance, sono Mario Flores e Romano Bais.

Tra 1983 e 1985 altri medley/mash-up raggiungono il mercato discografico come “Every Breath You Take Medley With Moonlight Shadow” di Green Lights (“Every Breath You Take” dei Police + “Moonlight Shadow” di Mike Oldfield), arrangiato da Maurizio Sangineto dei Firefly di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui e registrato presso il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian, “Affair A Gogo (Foreign Affair Medley With Giddyap A Gogo)” di Cruisin’ Gang (“Foreign Affair” di Mike Oldfield + “Giddyap A Gogo” di Ad Visser & Daniel Sahuleka), “What Is Love Medley With Big In Japan” di More Or Less (“What Is Love?” di Howard Jones + “Big In Japan” degli Alphaville), “Incantations” di G.A.N.G. (“Incantations” + “Foreign Affair” di Mike Oldfield) realizzato da Roberto ‘Savage’ Zanetti e Giorgio Dolce dei Primadonna con l’ausilio della cantante Stefania Dal Pino, “Star” di Claudio Mingardi (versione dance di “Starman” di David Bowie prodotta e ricantata dal citato Zanetti sulla ritmica dell’inedito “Star”) e “Coming Up Medley Walk Away” di F. Monieri, in cui la base approntata da Fulvio Monieri e Manlio Cangelli abbraccia il testo di “Walk Away” dei James Gang. Ed ancora: “Medley: Odyssey – Dance Hall Days” di Maquillage (“Odyssey” di Johnny Harris + “Dance Hall Days” dei Wang Chung), “Medley “19” “Rock It”” di J.J. Young (“19” di Paul Hardcastle + “Rock It” di Herbie Hancock) e “Shine On You Crazy Diamond (Medley Of Pink Floyd)” di Floyd Parson, in cui Sergio Zuccotti riassembla, in chiave italo disco, il celebre brano della band britannica di David Gilmour, Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright con qualche passaggio che pare citare “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood. Quest’ultimo viene ripreso in modo più esplicito nel 1986 in “P. Machinery Medley With Relax”, abbinato a “P: Machinery” dei Propaganda. A produrre il collage sono Marco Sabiu e Massimo Carpani che si firmano P4F, acronimo di Propaganda For Frankie, scelto a suggellare l’incrocio sonoro anglo-tedesco. A credere nell’operazione è Claudio Cecchetto che pubblica il pezzo sulla sua Ibiza Records e riesce ad esportarlo con successo sia in Europa (Germania, Francia, Belgio, Regno Unito), sia oltreoceano (Stati Uniti, Canada, Messico). Sabiu e Carpani ci riprovano l’anno seguente con “Notorious Medley With Le Freak” (“Notorious” dei Duran Duran + “Le Freak” degli Chic) ma con risultati più contenuti. Si rifaranno, sempre nel 1987, con “Winner”, incluso nell’album “Hustle & Bustle” e scelto come sigla del concorso lanciato dall’Algida legato all’omonimo gelato (ma, secondo quanto riportato nel libro “Sentimento Espresso”, recensito qui, in quel caso «Claudio Cecchetto acquistò i diritti di “Winner” di tali Roncuzzi & Crazy e ne cambiò il nome artistico in P4F»). “Winner” viene registrato e mixato presso il Factory Sound Studio di Mauro Farina e Giuliano Crivellente, da dove proviene “Dancer Medley Try It Out” di Macho Gang che interseca due classici della discografia di Gino Soccio, “Dancer” e “Try It Out” per l’appunto. A pubblicarlo è la Macho Records, distribuita da Discomagic, che a ruota fa uscire “Funkytown Medley Let’s All Chant” di Stars in cui Farina e Crivellente accavallano “Funkytown” dei Lipps, Inc. e “Let’s All Chant” di Michael Zager Band. Sempre del 1987 è “Stone Fox Chase & In Zaire” di Rhythm From Zaire, arrangiato da Raff Todesco e registrato nello studio di Sandy Dian, che mette insieme “Stone Fox Chase” degli Area Code 615 e “In Zaire” di Johnny Wakelin per un risultato che vorrebbe ammiccare all’afro sound in voga una decina di anni prima in locali come Cosmic e Baia Degli Angeli. Per esso Severo Lombardoni, sempre pronto a cavalcare ogni possibile trend, crea persino un’etichetta ad hoc, la Afro Records, con un logo-parodia dell’illustrazione presente sul picture disc 7″ di “Africa” dei Toto. Su latitudini stilistiche pressappoco simili si muovono gli Off Limits che nel 1988 realizzano per la citata Many Records “Africano Medley With Soweto”, frullando “Africano” di Timmy Thomas con un non identificato “Soweto”.

Del 1989 si segnalano sia “Moments In Soul” di J.T. And The Big Family, prodotto da Christian Hornbostel col supporto tecnico di Max Artusi intrecciando la base di “Moments In Love” degli Art Of Noise ai vocal di “Keep On Movin” dei Soul II Soul ma non esimendosi dal tirare dentro altri sample tra cui “For The Love Of Money” degli O’Jays ed “Hot Pants – I’m Coming, Coming, I’m Coming” di Bobby Byrd, sia “You Used To Salsa” con cui qualcuno (pare il DJ britannico Eddie Richards) interseca “Salsa House” di Richie Rich a “You Used To Hold Me” di Ralphi Rosario. Citazione a parte invece per un altro personaggio d’oltremanica, John Rush alias John Truelove che, sempre nel 1989, pubblica “Love / Rock”, un 12″ su Truelove Electronic Communications comprendente ben cinque mash-up tra cui spicca quello realizzato dal DJ Eren Abdullah costruito su “Your Love” di Jamie Principle/Frankie Knuckles e “You Got The Love” di The Source Feat. Candy Staton. Quando la traccia viene pubblicata ufficialmente raccogliendo grande successo nel 1991, Rush adotta curiosamente lo stesso pseudonimo del trio (formato da Anthony Stephens, Arnecia Michelle Harris e John Bellamy) che nel 1986 realizza “You Got The Love”, The Source, creando comprensibilmente più di qualche equivoco. Si narra che coi proventi delle oltre 200.000 copie vendute Rush abbia fondato il gruppo Truelove Label Collective, “ombrello” sotto cui si collocano etichette come Stay Up Forever, Boscaland, TeC e Phoenix Uprising. Tutti questi esempi, a cui se ne potrebbero aggiungere altri, proiettano l’immagine di un’ideale staffetta a cui musicisti, arrangiatori, cantanti, DJ e produttori partecipano, ignari di alimentare una tecnica che sarebbe diventata popolare a livello mondiale soltanto molti anni più tardi. Per lungo tempo però la pratica di fondere brani diversi non risponde ad una nomenclatura identificativa precisa. Negli anni Ottanta si definisce, per convenzione, medley, nei Novanta invece, come si vedrà più avanti, si preferirà annoverarla in modo ancora più sommario nell’enorme calderone dei bootleg privi di ogni tipo di riconoscimento autoriale, e questo avviene per evitare procedimenti legali giacché la maggior parte di quelle incisioni non è legittimata né dagli artisti né tantomeno dalle case discografiche o dagli editori titolari dei diritti. Per parlare propriamente di mash-up bisognerà attendere i primi anni Duemila.

La testimonianza di un esperto, Ben Liebrand
Nato a Nijmegen nel 1960, Ben Liebrand è tra i DJ olandesi più noti negli anni Ottanta. Assiduo sostenitore del megamix, diventa uno dei beniamini di futuri idoli della consolle come Armin van Buuren e Tiësto che seguono con costanza e passione i suoi programmi radiofonici mixati. Alla serrata attività da remixer (mette le mani, tra gli altri, su “Happy Station” delle Fun Fun, “It Only Takes A Minute” dei Tavares e “The Night” di Valerie Dore), e produttore (si sentano “Rock The Boat” di Forrest, “Night Of The Full Moon” di Gaby Lang ma soprattutto “Holiday Rap”, la hit del 1986 di MC Miker G. & DJ Sven nata sull’incrocio tra “Holiday” di Madonna e un’interpolazione di “Summer Holiday” di Cliff Richard & The Shadows), Liebrand affianca quella di “mashuppatore”. Tra i suoi lavori meglio riusciti c’è quello che abbina “Bad” di Michael Jackson a “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. in merito a cui oggi racconta: «Realizzai quel mash-up il 25 settembre del 1987. Fu frutto di una sovrapposizione ottenuta probabilmente col solo ausilio di due giradischi. Mixai il tutto con un mixer Tascam ed infine feci l’edit mediante un Revox PR99. Quell’anno remixai “Bad” per il DMC che uscì ad ottobre ma il mash-up in questione non venne mai pubblicato, era destinato esclusivamente ai miei programmi radiofonici come parte del Minimix settimanale. Iniziai a sperimentare quel tipo di tecnica già diversi anni prima, intorno al 1980. Il mio primo mash-up ruotava intorno ad alcuni pezzi delle Andrews Sisters e il risultato finì nelle due versioni (Ballroom Big Band Version e Mega Be-Bop-Mix) che realizzai per “Sing Sing Sing” delle Broads, edite nel 1983. Non saprei indicare però chi abbia inciso per primo un mash-up, sono sempre stato impegnato a mixare e non mi sono preoccupato di studiare la storia di ciò che stesse avvenendo. La moderna tecnologia oggi permette di sfornare mash-up in continuazione. Io adopero questa tecnica sia per i miei programmi radiofonici, sia per i miei live set. In questi ultimi, in particolare, mixo per tre ore mischiando circa 120 tracce ed acappella. Ormai è diventato una sorta di trademark per me».

lo studio di Ben Liebrand negli anni Ottanta

Lo studio in cui Ben Liebrand realizza, nel 1987, il mash-up tra “Bad” di Michael Jackson e “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S.

Anni Novanta, scoppia la bootleg mania
La tecnologia degli anni Novanta, seppur differente e meno intuitiva rispetto a quella odierna, permette di spingersi oltre i limiti e fare cose sempre più ardite e complesse. «Le incisioni casalinghe possono ormai suonare bene quanto quelle degli studi di grido e la minor pressione (e i costi ridotti) dell’ambiente domestico spesso favorisce la creatività» scrive David Byrne in “Come Funziona La Musica”. E continua: «L’idea è in qualche modo rivoluzionaria per la registrazione e la composizione della musica e le ripercussioni di questi primi passi saranno enormi in futuro. […] Si avvertiva l’inizio di un’era completamente nuova. Con l’avvento di apparecchiature relativamente economiche che offrivano una qualità sonora paragonabile a quella degli studi, la possibilità di fare un disco non si apriva soltanto a chiunque disponesse di due piatti ed un microfono ma anche a molti altri, con una incredibile varietà di stili ed approcci, ovunque e in qualunque momento. […] Con il crollo verticale dei costi di registrazione, gli artisti emergenti di tutto il mondo si trovavano su un piano di parità con i musicisti pop, alternativi e metropolitani dell’Occidente, professionisti e ben finanziati […], e un numero sempre maggiore ha avuto la possibilità di essere preso sul serio». Il vecchio medley, sinora realizzabile essenzialmente solo da musicisti in grado di eseguire o riarrangiare le parti originali coadiuvati da qualche ingegnere del suono che poi le avrebbe fuse insieme, adesso, come spiega Byrne, può essere approntato anche da chi non ha uno studio milionario ed alcuna conoscenza accademica, a patto che abbia qualche strumento elettronico e dei dischi-tool da cui prelevare le acappella (illegali nella maggior parte dei casi, ma pare che alcune major li mettessero intenzionalmente sul mercato per favorire il fenomeno dei remix da cui, eventualmente, trarre vantaggio, in una sorta di do ut des tattico). Oltre ad un buon orecchio ovviamente. A fare la differenza sono i DJ che, pian piano, si liberano della presenza (limitante o, secondo alcuni, persino ingombrante) dei musicisti ottenendo carta bianca e massima libertà espressiva proprio come avviene con i bootleg, un immenso segmento di registrazioni non ufficiali in cui rientrano anche le versioni “pirata” di brani, noti e non, ottenute intersecandone altri. La diffusione della house music inoltre sdogana in modo ancora più radicale l’uso del campionamento rispetto a quanto non avvenga nel decennio precedente, e ciò incrementa la proliferazione di brani-puzzle in scia al prototipo marssiano di “Pump Up The Volume” del 1987.

A metà strada tra il tradizionale medley, il megamix e il futuro mash-up è “Medley” dei New Beat Less, del 1990. Una base ritmica filohouse diventa la piattaforma per sequenziare alcuni brani dei Beatles, farciti con una serie di sample raccattati a destra e a manca e palesi citazioni di hit del periodo, dalla citata “Pump Up The Volume” a “Ride On Time” dei Black Box passando per “Pump Up The Jam” dei Technotronic e “French Kiss” di Lil’ Louis, con calo di BPM incluso. Artefici di tutto sono due vecchie conoscenze, Luciano Ninzatti e Stefano Pulga, affiancati per l’occasione da Matteo Bonsanto. Sempre nel ’90 la già nominata Truelove Electronic Communications mette sul mercato un paio di nuovi 12″ in scia a “Love / Rock”. Su entrambi, stampati pare in sole mille copie l’uno, sono incisi vari mash-up tra cui quello realizzato da Rhythm Doctor e ricavato dalla fusione tra “We Are Phuture” dei Phuture e “Moments In Love” degli Art Of Noise. Nel corso degli anni un numero sempre maggiore di artisti si dedica a questa tecnica, battuta con predilezione in ambito breakbeat/techno ad inizio decennio. Si possono menzionare “Let The Bass Kick” attribuito a Carl Cox, in cui confluiscono “Roll It Up (Bass Kickin Beats)” di Success – N – Effect, “I Like It” di Landlord Featuring Dex Danclair e “My House Is Your House” di Break Boys, o “Somebody Better Groove” nato invece dalla sovrapposizione tra “I Need Somebody” di Kechia Jenkins e “40 Miles” dei Congress. Entrambi, su white label ovviamente, risalgono al 1991. L’anno dopo arriva “Let The Passion Pump” (“Passion” di Gat Decor + “Let The Rhythm Pump” di Doug Lazy) e nel 1993 invece “Classified” di J.D.S., mix tra “Lock Up” dei Zero B e “Daydreaming” dei Baby D, e i primi quattro volumi di Naughty Naughty in cui si sente davvero di tutto, dai Korgis agli FPI Project passando per Liquid e Kaos.

We Will Rock You

Il 12″ su cui è inciso il “Techno Remix” di We Will Rock You dei Queen, attribuito erroneamente al fittizio Q-Inno nel 1995

Di titoli se ne potrebbero citare a iosa nonostante la ricerca sia complicata dal fatto che gran parte di questo materiale raramente rechi autori ed etichette, per motivi legali di cui si parlava qualche riga più sopra. È bene sottolineare però che la maggior parte degli artefici di tali versioni non sia mossa da intenti speculativi, almeno nei primi anni. Esemplificativo, a tal proposito, risulta il caso offerto dalla versione gabber/hardcore di “We Will Rock You” dei Queen, realizzata dall’americano di origini italiane Joey ‘Binky’ Sabella. Come minuziosamente descritto in Decadance Extra con le testimonianze inedite raccolte per l’occasione dallo stesso Sabella, all’acappella originale di Freddie Mercury, trovata sul lato B di un vecchio disco, viene aggiunta la parte strumentale di “Hyperdome” di George Vagas meets Mike D, campionandola dal 12″ promozionale preso in prestito da un amico. «Per fare ciò adoperai una strumentazione poco più che amatoriale, un registratore multitraccia Fostex X-28, un campionatore Roland DJ-70, un giradischi Technics SL-1200, un mixer Peavey ed un processore di effetti Boss SE-50» spiega Sabella. Passaggio degno di nota è quello relativo all’aspetto economico: «Decisi di stamparne solo un centinaio di copie, col centrino giallo e titoli in nero, nel modo più economico possibile e senza apporre alcun credito per paura di ripercussioni legali giacché l’operazione non contava su alcuna liberatoria degli autori. Il disco (su cui sono solcati altri due mash-up, nda) andò in stampa alla fine di gennaio 1995. Garantisco che dietro questa iniziativa non si celò alcuna velleità. Facevo il DJ dal 1988 e tutto quel che desideravo era produrre fisicamente un disco ma non per guadagnare denaro, per me rappresentava la concretizzazione di un sogno. Nell’estate di quell’anno il negozio di dischi a cui avevo dato alcune copie me ne chiese altre. Mi riferirono che la mia versione di “We Will Rock You” fosse finita nelle mani di alcuni DJ nei club underground e nei rave e che l’interesse stesse crescendo. Purtroppo non avevo più dischi a disposizione e non pensai nemmeno di ristamparlo, non mi sembrava corretto». Sabella, sino al momento in cui rilascia queste dichiarazioni (ottobre 2014) non immagina che quel mash-up realizzato per gioco in casa abbia oltrepassato il confine della sua città, New York, e persino dell’America. Nel corso del 1995 infatti, per soddisfare le crescenti richieste europee, sul mercato piombano nuove white label contenenti le stesse incisioni, alcune pare in versione edit. Non si sa chi le abbia commissionate ma pare che alcune giungessero dai Paesi Bassi lasciando presumere la nazionalità olandese dell’autore. Probabilmente su una di queste “nuove copie” qualcuno scrive Q-Inno, nomignolo con cui il disco viene segnalato da Max Moroldo nell’articolo Dance In The World apparso sul magazine Tutto Discoteca Dance ad ottobre ’95. Proprio in quel periodo il mash-up di Sabella, totalmente ignaro di quanto stesse accadendo oltre l’Atlantico, finisce in “Molly 4 DeeJay”, il programma di Molella a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui. Vista l’influenza che ai tempi il network di via Massena esercita sul mercato discografico nazionale, le richieste aumentano ma le copie in circolazione pare siano davvero pochissime. La soluzione la trova in un batter d’occhio Severo Lombardoni che commissiona la cover del mash-up a qualcuno del suo entourage. A venirne fuori è una copia abbastanza fedele all’originale ma privata della voce femminile dell’intro e con la parte vocale di Mercury interamente ricantata. In compenso, sul lato B, è incisa un’inedita Jungle Mix. Lombardoni è in grado di licenziare questo mash-up “rifatto in casa” anche all’estero, Spagna, Francia e persino Australia, a testimonianza di quanto ai tempi il mercato fosse dinamico e consumasse davvero di tutto.

883 - Molella Remix

La copertina del remix di “Nella Notte” degli 883 realizzato da Molella nel 1993

Quasi esattamente un paio di anni prima che avvenga ciò esce il remix che il citato Molella realizza per “Nella Notte” degli 883. Facendo leva sulla tecnica del mash-up, Molella unisce l’acappella di Pezzali alla base della sua “Confusion”, un successo estivo che in tal modo gode di una seconda giovinezza. L’effetto è accattivante e la riuscita è incitata probabilmente dal fatto che il grande pubblico conosca già molto bene entrambi i pezzi e trovi strambo riascoltarli uno nell’altro. Quel remix di “Nella Notte” però è ben lontano dal poter essere considerato il primo esempio di mash-up, nonostante negli anni siano state diverse le voci ad aver irrobustito questo falso storico. L’ultima, in ordine di tempo, è inclusa nel documentario del 2017 “And The Heads Keep On Movin”, precisamente in questo passaggio: è comprensibile che Pezzali non ricordi altri esperimenti precedenti di mash-up giacché artista non vicino al mondo dei DJ e della musica dance, ma appare curioso che Molella sostenga che «Claudio Cecchetto e Max Pezzali impazzirono per questa cosa che non era mai successa prima». Cecchetto, come illustrato precedentemente, pubblica ben due di quegli esperimenti creativi sulla sua Ibiza Records, tra 1986 e 1987, ben sette anni prima rispetto al remix di Molella di “Nella Notte”. Pare bizzarro quindi che Cecchetto abbia mostrato meraviglia per qualcosa che avrebbe dovuto conoscere più che bene. Il DJ di Monza, che nel 2005 lancia il programma “Molly Mash Up” su Radio DeeJay e nel 2006 realizza la “Mash-Up Compilation” per la bresciana Time Records, quando ormai il trend è esploso su larga scala, resta comunque convinto che il suo sia un probabile primo mash-up della storia (come si legge nella biografia ufficiale qui) e il 9 agosto 2018 posta questa clip sulla propria Pagina Facebook continuando ad alimentare il falso storico tra i suoi numerosi fan.

Un esperimento simile a quello effettuato da Molella viene adottato nel 1992 per il remix di “Radio Rap” di Jovanotti a firma DJ Herbie ed Easy B. Ad essere utilizzati sono vocal ed una parte melodica velocizzata della loro “Think About.. “, primo successo del progetto DJ H. Feat. Stefy, del 1990. «Il “to the right, to the left” faceva sponda alla parte vocale “Jovanotti di qua, Jovanotti di là”» rammenta oggi Enrico Acerbi alias DJ Herbie che nella sua “A-Tomico”, del 1989, srotola una serie di sample sulla base di “Pump Up The Jam” dei Technotronic, in una specie di megamix. Lo stesso Jovanotti sonda le potenzialità della puzzle music nel 1988 prima in “Welcome” e “Yo” firmati Gino Latino, e poi nel suo album di debutto, “Jovanotti For President”, in cui brani come “The Rappers”, “Funk Lab” e “Jovanotti Sound” traboccano di sample mentre “Raggamuffin” è innestata sulla base di “Reckless” di Afrika Bambaataa Featuring UB40. Del 1992 è pure “Feel All Right” di DJ Zanza, poco noto in Italia ma oggetto di svariate licenze estere, in cui convergono “Light My Fire” dei Doors e “Tainted Love” dei Soft Cell, insieme ad altri campionamenti. Artefice è Maurizio Pavesi, noto come Bit-Max di cui parliamo qui. Voliamo avanti di qualche anno: nel 1995 esce “Don’t Laugh But Lick It” in cui “Don’t Laugh” di Winx è incollato a “Lick It” dei 20 Fingers. A realizzarlo per la tedesca ZYX è Mario Aldini.  Provenienza teutonica anche per “Booyah (Here We Go)” di Sweetbox che Edward Louis alias Nique remixa con estro e fortuna: nella sua Hot Pants Club Mix i vocal di Tempest trovano alloggio nella base strumentale derivata da “We Are Family” delle Sister Sledge. Produzione totalmente italiana invece per “Feel My Body” di Frank ‘O’ Moiraghi Feat. Amnesia, uscito nello stesso anno su UMM ma mai presentato come mash-up seppur l’assemblaggio delle parti lo possa lasciar supporre (la base di “Utopia – Me Giorgio” di Giorgio Moroder sorregge i vocal tratti da “Feel My Body” di Talena Mix, da cui provengono altresì quelli del follow-up, “Baby Hold Me”). Una fortuita coincidenza, sempre nel 1995, porta alla creazione di “Computerliebe” dei Das Modul. In studio uno degli autori ascolta l’omonimo dei Paso Doble mentre echeggia un pezzo che il socio sta ultimando in una stanza attigua, “Expedition Zur O-Zone”. La sovrapposizione del tutto casuale in perfetto stile mash-up si trasforma in un lampo di genio, ma per i dettagli rimandiamo a questo articolo di qualche tempo fa.

La seconda metà degli anni Novanta vede un incremento dei bootleg/mash-up: il fittizio Bob Lacy unisce “Hideaway” dei De’Lacy a “Circus Bells” di Robert Armani ed ottiene “Hide The Bells” (1996), Hani e Jonathan Peters collegano “Born Slippy .NUXX” degli Underworld ad “Is There Anybody Out There?” dei Pink Floyd ricavando “Brown Acid” (1997) mentre un autore rimasto ignoto, nello stesso anno, poggia un po’ maldestramente i vocal di “Missing” degli Everything But The Girl sulla base di “Ultra Flava” di Heller & Farley Project rinominando il tutto “Missing The Flava”. Esperimento dal dubbio esito è pure quello effettuato da Mauro Picotto che per una delle versioni di “I Need Your Love” dei Cappella somma le voci del pezzo della band eurodance alla base della sua “Bakerloo Symphony” che poi dà il titolo al tutto, Bakerloo Symphony Mix. Più riuscita la sovrapposizione tra “People Hold On” dei Coldcut Feat. Lisa Stansfield e il remix di “Professional Widow” di Tori Amos a firma Armand Van Helden. Inizialmente pubblicato in white label, viene ufficializzato da una tiratura condivisa tra Arista e BMG su cui viene palesato il nome degli artefici, la coppia di DJ formata da Dan Bewick e Matt Frost nota come Dirty Rotten Scoundrels. Proprio loro, nel 1998, figurano come remixer di una hit italiana, “Feel It” dei Tamperer Feat. Maya, che per costruzione potrebbe perfettamente rientrare nella categoria mash-up analogamente a “Feel My Body” di Frank ‘O’ Moiraghi Feat. Amnesia. Abbinando la base di “Can You Feel It” dei Jacksons a parte della strofa e vocal di “Drop A House” degli Urban Discharge, Alex Farolfi e Mario Fargetta raccolgono un clamoroso successo che conquista due piazze fondamentali della discografia mondiale, il Regno Unito e gli Stati Uniti. A fare da collante tra i Jacksons e Urban Discharge, nella prima versione, è un hook vocale tratto da “Sex Or Love” di Danny Vitale And Family, campionato senza autorizzazione e quindi rimosso in seguito come spiega qui lo stesso autore. Fortunata, ma con risultati più modesti rispetto ai Tamperer, è l’operazione varata nel 1995 da Stefano Secchi con cui “Tieni Il Tempo” degli 883 rivive sulla base di “Quiero Volar” dei G.E.M., prodotta dallo stesso Secchi sulla falsariga del remix di “Nella Notte” di Molella risalente ad un paio di anni prima. Il mash-up, definito “Medley Remix” in copertina, viene assemblato presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano con l’ausilio di Roberto ‘Rob’ Borrelli e del trombettista Fabio Ciboldi. Va meglio a “Children / Voyage” che Secchi (e il coproduttore Oscar Berardinelli) pubblica nel ’96 sulla sua Propio Records, incrociando una delle maggiori hit di quell’anno, “Children” di Robert Miles a “Voyage Voyage” di Desireless, uscita esattamente dieci anni prima ed ora ricantata da Jolande Bolade. Una variante sul tema è rappresentata da “Mix It Yourself Vol.1”, un doppio mix di due single sided con cui la Propio Records spinge gli acquirenti a cimentarsi nel realizzare il proprio mash-up. Come opportunamente spiegato nelle note di copertina infatti, su un disco vi è la base di “Children”, sull’altro l’acappella di “Voyage”, «lasciandovi così la possibilità di fare il mixaggio come più vi piace». Gli incoraggianti risultati spingono Secchi a realizzare un secondo volume di “Mix It Yourself” che nel 1997, sempre su doppio mix, offre vari tool incentrati sull’acappella della sua “I Say Yeah” e la base di “Offshore” di Chicane. Secchi, va ricordato, non è nuovo a questo tipo di pratica artistica. Dalla sua discografia infatti affiorano “I Don’t Know Anybody Else (Medley With Ride On Time)” dei Black Box e “Monkey Wah (Medley With I Got Minze)”, in cui la base del pezzo prodotto per Max Baffa diventa il sostegno del rap preso da “I Git Minze” dei Too Nice. Oltre a “Bits And Pieces” (un tributo al “Beats + Pieces” dei Coldcut?) che potrebbe essere considerato il prodromo di “Mix It Yourself Vol. 2”. Tutti sono del 1990.

Sempre in Italia, nel 1997, Gabry Ponte e Domenico ‘MTJ’ Capuano realizzano, per il progetto Sangwara, la cover di “Don’t Speak” dei No Doubt, abbinandola al basso e alla ritmica di “Make The World Go Round” di Sandy B remixata dai Deep Dish. In autunno i due, in compagnia di Simone Pastore dei Da Blitz, firmano anche “Just Be Good To Me” di Karmah, remake dell’omonimo della S.O.S. Band sincronizzato sulla base di “Every Breath You Take” dei Police, quell’anno adoperata da Puff Daddy & Faith Evans Featuring 112 per “I’ll Be Missing You”. Il pezzo passa del tutto inosservato ma si rifarà con gli interessi nel 2005 quando diventa un successo in Germania, come dettagliatamente illustrato in Decadance Extra con le testimonianze inedite raccolte per l’occasione da Massimo Gabutti, boss della Bliss Corporation. Il 1997 è anche l’anno in cui viene ufficializzata l’uscita del mash-up (adorato oltremanica) realizzato dal DJ australiano Anthony Pappa incrociando la base del remix di “Offshore” di Chicane all’acappella di “A Little Love A Little Life” dei Power Circle. Nel 1998 invece i Groovy 69 approntano “Stardust Medley With Dust”, licenziato in diversi Paesi europei e persino in Australia, Canada e Stati Uniti. Il pezzo lascia convivere al suo interno “Music Sounds Better With You” degli Stardust e sample vocali simili a quelli di Jane Fonda usati senza permesso in “Gym Tonic” di Bob Sinclar, ai tempi oggetto di una querelle con Thomas Bangalter dei Daft Punk, presunto autore del brano che, è bene rammentarlo, gira su una base già esistente, quella di “Bad Mouthin'” di Motown Sounds. Nel ’99 inizia a circolare un white label con l’acappella di “You See The Trouble With Me” di Barry White e la base di “The House Of God” di DHS. L’interesse è tale da spingere a trovare il modo per ufficializzarlo e creare, dopo aver risolto qualche inghippo burocratico, “You See The Trouble With Me” dei Black Legend, in cui la parte vocale viene ricantata dal britannico Elroy Powell alias Spoonface. Il brano conquista la vetta della classifica del Regno Unito. Costruiti in modo simile sono sia “Turn Around” dei Phats & Small che pare frutti oltre due milioni di copie, in cui la base è ricavata da un sample di “The Glow Of Love” dei Change e la parte vocale (che nel 1992 ispira gli italiani Alison Price per “It’s Gonna Be Alright”) ritagliata da “Reach Up” di Toney Lee ma ricantata da Ben Ofoedu, sia l’altrettanto fortunato remix approntato da Mousse T. per “Sex Bomb” di Tom Jones: la celeberrima Peppermint Disco Mix gira su una base desunta da “All American Girls” delle Sister Sledge, di quasi venti anni prima, in cui viene opportunamente incastrata l’acappella di Jones. Quasi parallela l’uscita di “Kathy Sits On Morales’ Face”, in cui un autore rimasto ignoto abbina sagacemente “Turn Me Out” di Praxis Feat. Kathy Brown a “Needin’ U” di David Morales Presents The Face (quest’ultimo, a sua volta, già sbocciato sull’incrocio tra “My First Mistake” dei Chi-Lites e “Let Me Down Easy” dei Rare Pleasure). Ma non è finita. Il modus operandi del mash-up, da lì a breve, conquisterà ancora più spazio e credibilità.

Anni Duemila, ufficializzazione e consacrazione
Incisi su migliaia di white label sparsi in tutto il pianeta, i bootleg ottenuti dalla sovrapposizione tra pezzi differenti si apprestano a conoscere una ufficializzazione e consacrazione nel mondo della musica. Ufficializzazione perché emerge il termine mash-up ad identificare quelle incisioni in modo chiaro e riconoscibile, consacrazione perché il mercato, non più solo quello delle realtà indipendenti con numeri risicati e destinati al solo mondo dei DJ, accoglie a braccia aperte questa pratica, cannibalizzandola. A favorire ciò è la tecnologia che incalza e permette di affinare la tecnica e sottrarre a quel tipo di creazioni l’effetto artigianale che in passato tradisce spesso imperfezioni. Come spiega Simon Reynolds in “Retromania”, «Il mash-up decolla quasi contemporaneamente al lancio dell’iPod, nell’autunno del 2001. Coincidenza? Sì e no. L’uno e l’altro sono prodotti della stessa rivoluzione tecnologica: la compressione dei dati musicali nell’MP3, l’aumento della banda larga per trasmettere rapidamente la musica sul web. Inoltre, in un certo senso, il mash-up è un mixtape o una playlist cortissima, così breve che i due brani vengono ascoltati simultaneamente e non in sequenza». E così ecco arrivare mega successi come quello di “Toca’s Miracle” che nel 2000 sbanca la chart di vendita britannica. L’idea di unire la base di “Toca Me” dei tedeschi Fragma ai vocal di “I Need A Miracle” di Susan Brice alias Coco, un brano house edito originariamente nel 1996 dalla statunitense Greenlight Recordings, viene ad un DJ di Nottingham, Vimto, che nel ’99 stampa il mash-up su una classica white label illegale. Le reazioni entusiastiche di DJ influenti come Pete Tong e Judge Jules spingono la Positiva, casa discografica del gruppo EMI che ha sotto contratto i Fragma e che nel ’97 ha preso in licenza, ri-registrandolo, il pezzo di Coco, a pubblicare in via ufficiale l’intuizione di Vimto, sottoponendola ad alcune migliorie apportate da Ramon Zenker. I risultati sono strabilianti, si parla di oltre tre milioni di copie, ma nel 2012 la Brice solleva un polverone dichiarando pubblicamente di non aver mai percepito denaro per nessuna delle versioni messe in commercio, inclusa quella del 2008 edita dalla tedesca Tiger Records. Un successo di dimensioni analoghe viene approntato pochi anni più tardi in Belgio: “Pump It Up!” di Danzel gira su una trascinante base col sample preso da “In The Mix” di Mix Masters Featuring MC Action a cui viene sommata la linea vocale di “Pump It Up” dei Black & White Brothers. Il risultato guadagna oltre tre milioni di copie. Particolarmente riuscito è pure “Doctor Pressure” in cui i Phil N’ Dog convogliano “Drop The Pressure” di Mylo e “Dr. Beat” dei Miami Sound Machine. La versione viene ufficializzata dalla Breastfed e licenziata in vari Paesi del mondo. Ricercati dai collezionisti sono “I Wanna Dance With Numbers” di Girls On Top, del 2001, in cui Whitney Houston canta insolitamente per i Kraftwerk (“I Wanna Dance With Somebody” + “Numbers”), e “Let Me Show Your Lizard” in cui qualcuno, nel 2002, mette insieme “Lizard” di Mauro Picotto e “Let Me Show You” di Camisra, quest’ultimo già derivato dall’accavallamento di sezioni tratte da dischi diversi come “Loose Caboose” degli Electroliners e il basso della citata “Make The World Go Round” di Sandy B remixata dai Deep Dish. Di Girls On Top (alias Richard X, di cui si riparlerà più avanti) si rinviene pure “Being Scrubbed” (“Being Boiled” degli Human League + “No Scrubs” delle TLC), racchiuso in una copertina parodistica dello stesso “Being Boiled”.

Autentici mattatori di quegli anni sono i 2 Many DJ’s (i fratelli belgi David e Stephen Dewaele) che coi vari volumi di “As Heard On Radio Soulwax” impartiscono lezioni di stile attraverso tracklist che fondono magistralmente mondi musicali plurimi e dimostrando non solo sapiente tecnica ma anche invidiabile background. Tra 2002 e 2003 escono “Like A Prayer” dei Mad’house (“Like A Prayer” di Madonna + “The House Of God” di DHS, che ha già portato tanta fortuna a Black Legend), “Begin To Spin Me Around” di Dannii Minogue Vs. Dead Or Alive (“I Begin To Wonder” di J.C.A. + “You Spin Me Round (Like A Record)” dei Dead Or Alive) e “Can’t Get Blue Monday Out Of My Head” (“Can’t Get You Out Of My Head” di Kylie Minogue + “Blue Monday” dei New Order). A realizzare quest’ultimo è Erol Alkan nascosto dietro lo pseudonimo Kurtis Rush con cui si diverte ad assemblarne altri come “George Gets His Freak On” (“Faith” di George Michael + “Get Ur Freak On” di Missy Elliott) e “Is There A Cure For The One Minute” (“The Lovecats” dei Cure + “One Minute Man” ancora di Missy Elliott). Negli anni a seguire invece: “Love Don’t Let Me Go (Walking Away)” di David Guetta vs. The Egg (“Love, Don’t Let Me Go” di David Guetta Featuring Chris Willis + “Walking Away” di The Egg), “Destination Calabria” di Alex Gaudino Ft. Crystal Waters (“Destination Unknown” dello stesso Gaudino + “Calabria” di Rune) ed “Horny As A Dandy” di Mousse T. vs. The Dandy Warhols (“Horny ’98” di Mousse T. + “Bohemian Like You” dei Dandy Warhols). Una sorta di mash-up è pure “Being_Nobody” di Richard X vs. Liberty X, ottenuto dall’incastro tra le liriche di “Ain’t Nobody” di Rufus & Chaka Khan ed elementi di “Being Boiled” degli Human League. Tra i meno noti invece “Stunt Alone” (“1$44” di Mr. Oizo + “Never Be Alone” dei Simian), “Police On Chemicals” (“Voices Inside My Head” dei Police + “Loops Of Fury” dei Chemical Brothers), “Want Control?” (“I Want You” dei Filur + “Keep Control” dei Sono) e “Work That Punk” (“Work It” di Missy Elliot + “Punk Or Funk” dei JDS), tutti del 2004.

Danger Mouse - The Grey Album

La copertina di “The Grey Album” di Danger Mouse, che nel 2004 crea forte interesse ma nel contempo problematiche legali mai risolte

Si potrebbe andare avanti a lungo col rischio di non coprire neanche un decimo dell’immensa produzione mash-uppistica degli ultimi vent’anni anche perché questa pratica entra, come si è già visto, a pieno titolo pure nel mainstream, talvolta col supporto e benestare delle grosse etichette discografiche che intravedono in essa un nuovo modo per lucrare. Non è però il caso di “The Grey Album” dello statunitense Danger Mouse, del 2004, un album geniale sin dal titolo creato sull’incrocio tra “The Black Album” di Jay-Z, da cui vengono tratte le parti vocali, e “The White Album” dei Beatles, dal quale provengono invece le sezioni strumentali. La disputa legale sorta con la EMI non creerà mai i presupposti per l’ufficializzazione ma ciò non impedisce la ripetuta stampa su vinile e CD, oltre alla capillare diffusione digitale via internet alimentata anche dall’organizzazione no-profit Downhill Battle. Insomma, tutto inizia a rientrare nel contesto “mash-uppabile”, anche l’hip hop, il pop e il rock, come illustrato qui. Emblematico il caso di “Numb/Encore” di Jay-Z e Linkin Park (“Numb” dei Linkin Park + “Encore” di Jay-Z), un successo che vende milioni di copie e che nel 2005 fa guadagnare agli autori persino un Grammy Award.

Quale sarà il futuro della puzzle music?
Prima che si scatenino robusti appetiti commerciali e la tecnologia a buon mercato lo renda accessibile davvero a tutti, neofiti inclusi, finendo irrimediabilmente col banalizzarlo, il mash-up è un modo con cui artisti di diversa provenienza ed estrazione stilistica riescono a dare una forma inedita alla propria creatività. Simile e parallelo all’arte del sampling, il mash-up attribuisce agli artefici un nuovo tipo di merito, senza dubbio differente rispetto a quello di chi crea da zero, ma pur sempre un merito, tanto più grande quanto il risultato finale spicchi per genialità e, soprattutto, imprevedibilità, che pare la qualità determinante per suscitare la massima approvazione del pubblico. Se il campionamento poteva già essere considerato una sorta di “riciclo creativo”, il mash-up amplifica ulteriormente tale concetto, soprattutto quando l’incalzante tecnologia incoraggia a spingersi oltre i limiti che un tempo sembrano invalicabili. I mash-up, inoltre, aprono commistioni strambe e a volte a dir poco improbabili, perché virtualizzano gli incontri tra autori che mai si troverebbero a collaborare nello stesso studio per ragioni di varia natura, età, stile, culture diametralmente opposte o, ancora più a monte, il passaggio a miglior vita. Come in una fiaba, il mash-up annulla distanze e diffidenze ed unisce pure chi non c’è più biologicamente sulla Terra. Lo slancio poi, in alcuni casi, diventa davvero forte e lascia emergere dagli intrecci sonori una nitida carica inventiva che smentisce il giudizio di chi liquida tutto frettolosamente e superficialmente come “una banale sovrapposizione che potrebbe fare chiunque”. Non che tutti i mash-up rivelino acutezza creativa però, sia ben inteso, anzi, e la caterva di materiale discutibile a cui poter accedere oggi attraverso piattaforme come YouTube o Soundcloud lo testimonia. Se da un lato, come si è detto poc’anzi, la tecnologia incita, dall’altro narcotizza la creatività perché rende tutto troppo facile, scontato ed immediato. «I produttori di mash-up hanno portato questo genere di sampledelia alle estreme conseguenze» scrive il citato Reynolds in “Retromania”. «L’obiettivo era aggiungere la minore dose di musica originale possibile, lo stretto indispensabile per incollare le due metà. Musicalmente parlando non c’è creazione di valore aggiunto, anche nel migliore dei casi equivale alla somma delle parti. Il sovrappiù è concettuale, l’intelligenza della giustapposizione incongrua, la capacità di far dialogare tra loro musicisti di estrazione completamente diversa. La moda del mash-up dà il via ad ogni sorta di interpretazioni sostanzialmente modellate sull’ideologia punk. La riscossa dei consumatori pop che si impadroniscono dei mezzi di produzione e fanno da soli, il mash-up come rigurgito di tutta la musica pop che ci hanno ficcato in gola a forza. In ultima analisi però non sembrava che una forma di pseudo creatività basata sul connubio di blanda irriverenza e semplice passione pop: amiamo questi dischi, proviamo a raddoppiarne il piacere incollandoli insieme». Col passare degli anni (e dei decenni) è diventato più arduo riuscire ad andare oltre la soglia del già fatto e del già sentito ma questa, è risaputo, è una situazione che interessa anche la musica inedita, accusata di essersi arenata e stereotipata. Il futuro però potrebbe riservare ancora gradite sorprese ed aprire inediti scenari per il mash-up. La speranza è (sempre) l’ultima a morire. (Giosuè Impellizzeri)

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Doris Norton, l’artista che veniva dal futuro

scan doris dj mag

L’intervista a cura di Giosuè Impellizzeri pubblicata da DJ Mag Italia n. 16, dicembre 2011

È il 1980 quando Doris Norton innesta retaggi prog rock ed elementi siderali della kosmische musik sul “rumore” legato all’urbanizzazione e al progresso terreno narrato dai Kraftwerk. Alle spalle le esperienze col marito, Antonio Bartoccetti, nelle band Jacula ed Antonius Rex che in vari album editi negli anni Settanta trattano argomentazioni su mistero, esoterismo e magia. La Norton scandisce metronomicamente la ribellione agli stereotipi cercando di rappresentare in musica l’incalzante rivoluzione scientifica. «Fu la curiosità il fattore trainante, i miei interessi erano sperimentazione e ricerca e in area sintetizzatori volevo capire come con un VCO e un ADSR si potesse ricreare il timbro di uno strumento tradizionale o generare timbri mai ascoltati sino a quel momento» racconta l’artista in un’intervista esclusiva che lo scrivente realizza nel 2011 per la rivista DJ Mag Italia.

Dalla collisione tra armonie scenografiche mistico/arcane e ritmi binari delle macchine emerge un suggestivo ambiente stilistico che da un lato vede intatto l’approccio manuale e dall’altro introduce l’operatività digitale presto proiettata verso techno e trance, generi che la Norton riprende nei Novanta quando dirige il magazine Future Style nato dalle ceneri della rivista Musik Research, omonima della loro etichetta (e da non confondere con la Music Research fondata in Germania da Talla 2XLC) ed incide, insieme al figlio Rexanthony, tracce dai titoli speranzosi come “Science Killed HIV” e “Stop The War” destinate alla generazione dei rave.

Gli anni Ottanta: dal prog rock alla computer music

Under GroundUnder Ground ed altri dischi misteriosi
Di “Under Ground” si sa veramente poco e nulla. Pare sia stato registrato con un otto piste presso lo Studio Fontana, a Milano, (come dichiara la Norton in questa intervista nel 2012) e stampato su vinile nel 1980 dalla Musik Research di proprietà degli stessi Bartoccetti/Norton (o dalla Gnome, come invece è indicato nel booklet di “Next Objective” del 1993?) in un numero limitatissimo di copie, tanto esiguo che ad oggi nessuno lo ha inserito su Discogs, il database dei supporti musicali più dettagliato al mondo. Nel 2011 viene annunciata la pubblicazione che però non vede concretizzazione. «Ai tempi non gestivo la discografia in prima persona» spiega oggi l’artista. «Più che un’operazione di marketing fu una stampa di pochissime copie per un “art portfolio”. Pianificammo il reissue diversi anni fa ma il progetto è stato interrotto perché erano già in corso altre ristampe ed avevamo molti impegni discografici che ci hanno impedito di seguire l’iniziativa».

In Rete i più scettici iniziano a sostenere che “Under Ground” non sia mai esistito, convinzione che va insinuandosi anche per vicende parallele riguardanti la discografia della famiglia Bartoccetti. In relazione a ciò è possibile tracciare un parallelismo con quanto scrive Valerio Mattioli nel libro “Superonda – Storia Segreta Della Musica Italiana”, riguardo “In Cauda Semper Stat Venenum” degli Jacula, a cui prende parte la stessa Norton. «Un disco (pare) stampato originariamente nel 1969 in poche copie per l’inesistente serie Gnome della Ariston (che fosse la Ariston Progressive che aveva uno gnomo nel logo?, nda), tutte andate misteriosamente perse». Mattioli afferma, senza giri di parole, che quell’album, pubblicato dalla Black Widow Records nel 2001, sia stato palesemente registrato in tempi molto più recenti. Dubbi simili vengono sollevati anche da “Praeternatural” indicato da Antonio Bartoccetti in questa intervista di Francesco Zenti come «ultimo documento degli Antonius Rex totalmente autoprodotto a maggio del 1980 a Milano» (precisamente negli studi Regson, come si legge qui). «Poi più niente primariamente per decisione presa e collateralmente perché la tastierista Doris Norton ha dato inizio alle sue sperimentazioni soliste prima con i synth e poi con il computer anticipando di un decennio i generi techno e trance che sarebbero nati nel 1990». In un’altra intervista rilasciata a Francesco Fabbri a marzo del 2003, Antonio Bartoccetti parla di uno dei brani racchiusi in “Praeternatural” ossia “Capturing Universe”, prodotto insieme alla Norton in Romania nel 1979 e da cui il figlio della coppia, Rexanthony, creerà nel 1995 una delle sue maggiori hit, “Capturing Matrix”. «Questo brano è passato del tutto inosservato fino a quando nel 1990 venne ripreso da un pianista tedesco e poi da un gruppo techno tedesco che lo chiamò “Universe Of Love”. Nel 1995 guardavo con pietà questi “furti” e convinsi mio figlio a riprendere il brano originale». Rolf Maier-Bode alias RMB effettivamente incide “Universe Of Love” per Le Petit Prince nel 1994, in cui peraltro sembra di scorgere dei fraseggi melodici finiti in “Polaris Dream” di Rexanthony, 1995, ma è difficile stabilire in che modo il tedesco sia riuscito ad ascoltare un brano racchiuso in un album che, per ammissione dello stesso Bartoccetti nella medesima intervista di Fabbri, «non fu volutamente mai messo in vendita». Del disco del 1980 infatti non vi è traccia se non nelle dichiarazioni di Bartoccetti e tra i crediti sulla stampa effettuata dalla Black Widow Records nel 2003. Insomma, le vicende che ruotano intorno ad “Under Ground”, “In Cauda Semper Stat Venenum” e “Praeternatural” presentano parecchie incognite, punti oscuri ed ipotizzabili retrodatazioni. Di “Under Ground” però qualcosa filtra nel corso degli anni, come ad esempio il brano che avrebbe dato il titolo all’intero album, “Under Ground” per l’appunto, finito nella compilation “Document 1” del 1994 insieme ad “Eightoeight”, ancora del 1980, e “Wave” del 1982, considerando veritiere le date indicate sulla copertina. I primi due figurano nella tracklist della più recente raccolta “Selection ’80-’90” risalente al 2006 e distribuita anche in digitale, ma diversi elementi lasciano pensare che entrambi siano stati prodotti almeno dieci anni più tardi rispetto alle presunte collocazioni temporali. Se tale teoria risultasse infondata, ci troveremmo di fronte a due sorprendenti esempi di proto electro/techno/acid che obbligherebbero a rivedere la storia o perlomeno a mettere un altro nome sulla mappa. “Wave” invece è compreso in “Next Objective 2” del 1994, e i crediti rivelano la presenza del figlio della Norton. Arduo pensare che ad appena cinque anni (1982) avesse potuto collaborare in studio con la madre ma è bene ricordare che Rexanthony abbia rivelato sorprendenti doti compositive in giovanissima età.

Si parla inoltre di lavori precedenti ad “Under Ground” rimasti nel cassetto. A tal proposito la Norton, nell’intervista su DJ Mag Italia di cui si è fatto menzione sopra, afferma di avere parecchi nastri inediti. «Ho sempre registrato tutto quello che sperimentavo ma il fine non era pubblicare bensì archiviare per poi riascoltare in futuro. Ci sono persone che riempiono album fotografici per riguardare la loro vita, io ho riempito nastri con registrazioni. Alcuni sono stati dati alle stampe, altri giacciono nella cassapanca in soffitta». In merito a questo approccio torna utile evidenziare un passaggio del libro “Come Funziona La Musica” di David Byrne, in cui l’autore si interroga sull’importanza attribuita da un artista al fatto che le proprie opere debbano arrivare al pubblico. «Molti artisti visivi che ammiro, come Henry Darger, Gordon Carter e James Castle, non hanno mai diffuso la propria opera. Hanno lavorato incessantemente ed accumulato le proprie creazioni che sono state scoperte solo alla loro morte o quando hanno lasciato il proprio appartamento. […] Fare musica racchiude in sé la propria ricompensa. È bello e può rappresentare uno sfogo terapeutico».

ParapsychoParapsycho (1981)
Il primo album solista ufficiale di Doris Norton («una ragazza dagli occhi di ghiaccio definita angelo nel cantare e demone nel suonare un vecchio armonium», riprendendo la descrizione di Francesco Zenti nell’intervista sopraccitata) è ancora visibilmente ancorato al mondo prog rock come attestano la title track “Parapsycho” ed “Obsession”, ma nel contempo comincia ad adoperare nuovi linguaggi che ne fanno un punto di incrocio e raccordo tra il periodo di militanza negli Antonius Rex e Jacula e quello dominato dalla cibernetica, anima degli elaborati giunti a metà decennio. “Parapsycho” viene registrato nei pressi di Ostrava, nella Repubblica Ceca, «dove avevo portato parte del mio gear per integrarlo con quello di un visionario gentiluomo che aveva l’hobby della musica elettronica ma che aveva ancora bisogno di qualcuno che gli svelasse i primi rudimenti» ricorda oggi la Norton. La compositrice declina melodie ambientali ed ancestrali (“Ludus”, il cui intro, si dice, abbia ispirato sia Angelo Badalamenti per “Laura Palmer’s Theme”, sia Moby per “Go”) e canti paradisiaci new age (“Tears”), per poi schiudere l’alveo del blippeggiante mondo del computer (“Psychic Research”) e calarsi in atmosfere miste tra tristezza e malinconia (“Telepathia”). Il flauto di Hugo Heredia introduce “Hypnotised By Norton”, un prototipo filotechno con un basso sequencerato à la A Number Of Names, inserti funk, destrezze ritmiche e scie melodiche prog rock. L’ibrido è il modello di sviluppo della Norton e di chi, come lei, allora vide il futuro nelle commistioni stilistiche e culturali. L’LP, a cui tra gli altri partecipa Tullio De Piscopo, è pubblicato dalla milanese Disco Più e viene presentato al TG2 con Mario Pastore. Ci pensa la Black Widow Records a ristamparlo, sia su vinile che CD, nel 2013 aggiungendo una bonus track inedita pare realizzata sempre nel 1981, “Precognition”. Resta inalterata invece la copertina originale realizzata appositamente dal pittore Osvaldo Pivetta.

RaptusRaptus (1981)
A poca distanza da “Parapsycho” giunge “Raptus” con cui la Norton approda sulla Durium, attiva sin dal 1935 e ai tempi diretta da Elisabel Mintanjan alla quale la sua musica piace al punto da stampare degli LP seppur non in linea con lo stile della label. Sulla sua tavolozza ci sono ancora matrici rock alternate a deviazioni elettroniche ottenute con sequencer (Roland CSQ-100, Roland CSQ-600), sintetizzatori (Roland SH-2000, Roland SH-09, Roland SH-7, Roland System 100m, Fairlight CMI), batterie elettroniche (Roland TR-808, un anno prima rispetto alla seminale “Planet Rock” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force), vocoder (Roland SVC-350) ed altro ancora. La title track, “Raptus”, selezionata da Com Truise in un suo set pochi anni fa, viene sviluppata in tre variazioni “causali” (“Psychoraptus”, “Erosraptus” – in entrambe c’è la batteria di Tullio De Piscopo, e “Drugraptus”). Arpeggiatori sintetici disegnano trame nervose su cui si posizionano chitarre umane e synth artificiali sfilando in atmosfere cinematografiche piuttosto noir. In posizione B2, come se fosse una bonus track, c’è “Doris Norton Lab”, brano di chiusura di un ipotetico b-movie poliziottesco anni Settanta e che da lì a breve diventa anche il nomignolo dello studio/laboratorio della Norton. Sulla costola della copertina è riportata la dicitura “Vol. 1”, logica conseguenza del “Vol. 0” presente su “Parapsycho” e questo lascia supporre una possibile sequenza di atti. «In realtà c’era in cantiere un progetto basato sugli “oscuri meandri della psiche umana” suddiviso in tre volumi» rivela oggi l’artista. «”Parapsycho” era il volume zero, “Raptus” il volume 1 a cui avrebbe dovuto far seguito un terzo disco che però non uscì per dare priorità a “Nortoncomputerforpeace” e “Personal Computer”. Nel 1982 avevo abbozzato molte tracce, Elisabel Mintanjan ascoltò tutti i nastri su cui avevo “congelato le idee” e mi chiese dei titoli che avevo in mente per i vari brani. Mi propose di uscire subito con “Nortoncomputerforpeace”, che trovava più “fruibile”, e “Personal Computer” che invece considerava “molto particolare”. Mi disse inoltre che aveva deciso di seguire i miei lavori musicali in sinergia con Francis Dreyfus (Durium per l’Italia e Disques Dreyfus per la Francia). Dreyfus aveva alcune mie demo sin dalla fine degli anni Settanta, forse giunte tramite Alain Trossat della PolyGram. Molte idee del terzo volume “congelato” a cui facevo prima riferimento le sviluppai proprio in “Nortoncomputerforpeace”, “Personal Computer” e nel seguente “Artificial Intelligence”».

Per “Psychoraptus” viene realizzato un videoclip diretto da Toni Occhiello che, contattato per l’occasione, racconta: «Vivevo a Los Angeles con la mia fidanzata, la stilista e costumista Marlene Stewart, e tornavo in Italia solo per le classiche vacanze estive. Proprio durante uno di questi soggiorni incontrai la pr olandese Erika van Tandem che da lì a breve avrebbe iniziato a lavorare per la RCA col mio amico Vincent Messina. Erika si propose come mia agente in Italia giacché avevo già girato tre/quattro videoclip tra cui quello di “Figli Delle Stelle” di Alan Sorrenti, del 1978. Ritengo di essere stato uno dei pionieri di quel nuovo modo di fruire la musica, MTV sarebbe stata lanciata solo ad agosto del 1981. Dopo qualche mese, a novembre se ben ricordo, la van Tandem mi chiamò annunciandomi che c’erano dei video da realizzare tra cui uno per Gino Paoli ed uno per una nuova artista messa sotto contratto dalla Durium, una certa Doris Norton, che incontrai per la prima volta, insieme alla mia fidanzata, in un albergo di Milano, giusto un paio di giorni prima di girare. In quell’occasione vagliammo le idee su ciò che avremmo dovuto fare e stilammo la trama della clip. Il video di “Psychoraptus” venne realizzato in appena due giorni, girato in una discoteca di Milano scelta perché provvista di uno schermo su cui proiettare le scritte laser, e nella mia casa a Roma, con le pareti spogliate intenzionalmente per ricreare un ambiente da cui doveva emergere povertà, solitudine ed anche un po’ di squallore. A prendere parte al cast furono, oltre alla Norton, un mio amico attore, l’italo-irlandese Patrick Persichetti, Giuseppe ‘Pino’ Sottile (un altro amico!) vestito col camice bianco da dottore, nonché un giovane assunto come comparsa che avrebbe dovuto interpretare il ragazzo da lobotomizzare. A suonare la chitarra invece era il compagno della Norton e suo manager, Antonio Bartoccetti. Lo girammo in due formati: le scene milanesi a 16mm su pellicola Kodak, quelle romane invece su video (3/4″) U-Matic, e ci avvalemmo anche di due diversi direttori della fotografia. A Roma c’era Gianni Mammolotti che proprio quest’anno ha ricevuto la nomination al David di Donatello per il film drammatico “Malarazza”. A prendersi cura del look fu Marlene, che poco prima di girare la portò in bagno e la truccò. Il look della Norton, per come l’avevamo conosciuta, ci parve un po’ inadeguato, troppo “square” e poco congruo per un contesto futuristico come quello di “Psychoraptus”. Cercammo inoltre di creare un contrasto tra le scene girate a Milano e quelle a Roma utilizzando l’immagine della Norton prima in veste di musicista e poi in quelle da scienziata. Da qui l’idea registica di usare due diversi supporti filmici, la pellicola granulosa per le scene musicali realistiche in discoteca e il video (più aderente alla realtà) per le scene di fantasy. Stilisticamente volevo così creare un chiasmo in cui alla realtà della musica corrispondesse la fantasy della pellicola e alla fantasy della trama la realtà del video. Per realizzare la clip furono necessari all’incirca sei milioni di lire stanziati dalla Durium che di fatto ci commissionò il lavoro, ma francamente non ho proprio idea su chi potesse trasmettere il video anche perché dopo averlo completato ripartimmo subito per Los Angeles. Erano gli anni in cui muovevano i primi passi le televisioni private quindi è possibile che i nastri finissero nei palinsesti notturni di quelle emittenti. Non ho più avuto modo di lavorare con la Norton che ricordo come una persona piuttosto schiva e riservata. Io avevo maturato esperienze come giornalista musicale scrivendo per Nuovo Sound, la rivista fondata da Elisabetta Ponti, e a Los Angeles ebbi modo di ascoltare tantissima musica d’avanguardia, dai Kraftwerk ai Devo con cui peraltro collaborai. Il suono di Doris Norton era senza dubbio gradevole ma non rivoluzionario. Si inseriva in un milieu praticabile allora ma non spiccava per particolare inventiva, almeno per me che familiarizzai con certa musica già qualche anno prima. A lasciarmi stupito fu piuttosto la Durium che mise sotto contratto un’artista simile, decisamente atipica per la scena in cui operava da decenni e per cui era nota (Little Tony, Fausto Papetti, Rocky Roberts, Aurelio Fierro, Roberto Murolo, Gino Paoli)» conclude Occhiello. È ipotizzabile, in tal senso, che i dirigenti della Durium stessero pensando a Doris Norton come un nome da esportare oltre i confini e a supportare la tesi è la pubblicazione del disco in Francia, preso in licenza da una multinazionale, la Polydor. “Raptus”, allora presentato a Discoring su Raiuno, viene ristampato nel 2011 in occasione del suo trentennale dalla genovese Black Widow Records che lo pubblica anche su CD, formato che consente di inserire pure il video di “Psychoraptus”.

NortoncomputerforpeaceNortoncomputerforpeace (1983)
Registrato presso il Doris Norton Lab, laboratorio straripante di aggeggi (inclusi prototipi) pieni di pulsanti e manopole che generano i suoni del futuro, “Nortoncomputerforpeace” è l’album con cui l’artista inizia a prendere maggiori distanze dal rock seppur un certo modo di riempire lo spartito riconduca ancora al mondo delle chitarre. A scandire il beat robotizzato di “Norton Computer For Peace” è un vocoder vox a cui si somma, nel corso dell’esecuzione, un saliscendi di virtuosi arpeggi. L’effetto pare una sorta di Kraftwerk ma con dosi maggiori di armonizzazioni. Il paragone col pop sperimentalista di Hütter e Schneider-Esleben regge anche per “The Hunger Problem In The World”, caratterizzato da una marzialità che strizza l’occhio a quella di “Trans-Europe Express” ma con molti più ghirigori e tessiture melodiche. “Don’t Shoot At Animals” invece è un ottimo lavoro di sonorizzazione ascrivibile alla library music: dieci minuti a mo’ di ouverture in stile Jean-Michel Jarre realizzati come colonna sonora di “Rumore Di Fondo”, radiodramma trasmesso dalla RAI scritto da Umberto Marino. Il lato b annovera un paio di esperimenti minimal synth (“War Mania Analysis”, “Warszawar”) ed altrettanti slanci verso lidi esotici ed orientaleggianti (“Salvasansalwar”, “Iran No Ra”, scritte col compianto Vittorio ‘Vitros’ Paltrinieri), con aderenze allo stile space age. Un foglio infilato nella copertina (su cui campeggia una foto tratta dallo shooting di “Psychoraptus” di due anni prima) rivela che oltre all’immancabile Antonio Bartoccetti e Rudy Luksch (addetto all’effettistica), a “Nortoncomputerforpeace” abbiano partecipato altri musicisti come Andy Jackson e Marco E. Nobili. L’album è edito dalla Durium sia su vinile che cassetta ma col logo Marche Estere, usato in prevalenza per quelle pubblicazioni firmate da artisti esteri appunto (James Brown, Telex, Plastic Bertrand, Village People, Boney M., Silver Convention, Donna Summer, Dee D. Jackson, Japan, Gibson Brothers, giusto per citarne alcuni). Nel 2010 sul mercato piomba una ristampa illegale su plastica rossa. Il reissue ufficiale giunge solo nel 2018.

Personal ComputerPersonal Computer (1984)
Secondo alcuni basterebbe la sola copertina per fare di “Personal Computer” un album di culto. Pubblicato dalla Durium su vinile e cassetta nel 1984, anno in cui la Apple lancia il Macintosh con uno spot diretto da Ridley Scott, il disco viene registrato tra gli Stati Uniti e l’Italia ed è quello in cui l’artista mostra una più chiara aderenza ai temi della “machine music” e, in virtù del titolo stesso, della “computer music” visto che le sue creazioni nascono usando anche un Apple IIe a cui si sommano varie Roland (CMU-800R, System 100, TR-808, CSQ-600, VP-330 Vocoder). Allora il computer è considerato la porta di accesso per il futuro, una sorta di pietra filosofale che permette di trasformare idee utopiche in realtà, oltre ad accentrare le emozioni e fornire prezioso carburante creativo. Il logo della mela addentata (colorata) in copertina simboleggia la relazione allacciata tra la Norton e l’azienda di Cupertino che ai tempi, pare, la sponsorizzi. “Personal Computer” risente dell’influsso dei Kraftwerk e la title track potrebbe essere considerata figlia di quanto i teutonici convogliano in “Computerwelt” del 1981. Le melodie della Norton però appaiono subito più contorte, disarticolate e dall’appeal e mood meno pop. Le tracce scorrono senza la rispondenza delle parti come avviene in una classica song structure e probabilmente è proprio l’assenza di linearità ad impedire un’affermazione di tipo commerciale. Tim Burgess dei Charlatans, nel suo libro “Telling Stories” del 2012, definisce questo album un anello di congiunzione tra i Kraftwerk e i New Order, ma nel trait d’union più o meno condivisibile mancano le melodie fischiettabili o replicabili sulla tastiera con una mano sola e, come già detto, il formato canzone. Alla luce di tali considerazioni appare quindi incorretto descrivere Doris Norton la “risposta italiana ai Kraftwerk” o attribuirle ingenerosamente il ruolo di “banale scopiazzatrice” come invece qualcuno asserisce tempo addietro. Probabilmente sussistono più similitudini a livello visivo che musicale, in particolare sul combo musica-scienza, senza comunque negare il rilevante influsso ispiratore dei tedeschi. Ma chi, tra i musicisti elettronici di allora, non restò ammaliato dalle intuizioni kraftwerkiane opponendo la forza necessaria per non cedere ad eventuali influenze ed infatuazioni più o meno evidenti e riscontrabili nelle proprie opere?

In perfetto equilibrio tra atmosfere sci-fi (“Norton Apple Software”) e una singolare forma di cybersinfonia (“Parallel Interface”, con assoli velocizzati in un glissando impazzito, “Caution Radiation Norton”, library music arricchita con un beat dalla costruzione atipica), l’artista edifica il suo mondo sonoro fatto di suoni artificiali ed ambientazioni futuristiche, tutto trattato con un piglio sperimentale. Un pizzico di epicità prog la si assapora in “A.D.A. Converter” mentre dalla ferrea “Binary Love” emerge la forma mentis scientifica della compositrice («da teenager ero attratta dalla fisica quantistica, dalle equazioni differenziali, dalla chimica organica ed anche dalla musica medievale, rinascimentale, barocca, dalle sperimentazioni di Cage e dalle combinazioni di suoni e rumori che caratterizzavano le sonorizzazioni delle opere cinematografiche di animazione», da un’intervista del 2012. Presenzia pure un reprise di “Personal Computer” con voce non robotizzata e qualche sottile variazione nella stesura e nell’assemblaggio delle parti. Insomma, considerando i precedenti elaborati, qui la Norton appare più padrona di quello stravagante universo che ai tempi lasciano prospettare i suoni delle macchine, e il suo alfabeto sonoro acquista più intensità e caratterizzazione assimilando la lezione dei gruppi tedeschi ma filtrando i risultati in una scomposizione personalizzata del genere (che si possa quindi parlare di kraut synth disco?)

A maggio di quell’anno, il 1984, Apple invita la Norton all’Hilton di Roma in occasione del lancio dell’Apple //c dove esegue proprio la title track del disco, affiancata da Antonio Bartoccetti. Ad organizzare la serata è Mauro Gandini, ai tempi responsabile della comunicazione di Apple Italia, che oggi racconta: «Ad ideare quello spettacolo all’Hilton insieme a me furono il compianto Gianni Boncompagni e Giancarlo Magalli. Nel programma, come si può evincere dalla registrazione presa da una vecchia VHS che ho inserito su YouTube nel 2014, figurò anche Doris Norton ma francamente non ricordo se quella performance prevedesse o meno un compenso. Non ebbi molto a che fare con l’artista, per noi più che altro era semplice curiosità e non una fonte di business. Inoltre non ricordo di averla mai sponsorizzata personalmente, non saprei se ciò avvenne in seguito. Allora il marchio Apple non era ancora legato ad un’area creativa come fu poi con l’avvento del Macintosh, e il logo era esclusivamente riservato ai rivenditori autorizzati. Ai tempi in cui lavoravo per Apple c’era la fila di coloro che chiedevano l’utilizzo della mela da apporre su magliette e gadget vari da vendere ma non diedi mai nessuna autorizzazione e sono abbastanza certo che nemmeno Marzia Santagostino, giunta dopo di me, abbia potuto autorizzare alcuno all’uso del logo di Apple».

Sul numero 32 della rivista MCmicrocomputer uscito a luglio del 1984, Corrado Giustozzi intervista la Norton e le chiede a cosa si ispiri e che senso abbia fare musica elettronica. Lei risponde: «Un centro tipo IRCAM è troppo chiuso in se stesso, è una torre d’avorio in cui si pensa troppo e si produce poco. D’altro canto i Tangerine Dream sono fermi da dieci anni al loro sequencer analogico e non hanno più niente da dire. La loro è musica con troppi interventi manuali». E prosegue: «La nostra computer music è matematica, fatta di programmazione e pulizia geometrica e non manualità. Non bisogna far dipendere il brano dall’esecutore che lo interpreta in base al suo stato d’animo e alla sua preparazione tecnica». Infatti, ben rimarcato da Giustozzi in chiusura dell’intervista, la Norton ci tiene ad essere chiamata programmatrice e non musicista.

De Crescenzo e Norton, 1984

Lo scatto, risalente a lunedì 26 novembre 1984, che immortala la presenza di Doris Norton come ospite di Bit, programma televisivo condotto da Luciano De Crescenzo e trasmesso da Italia 1

Come riportato in un trafiletto sul numero 36 della citata rivista MCmicrocomputer, diretta da Paolo Nuti e Marco Marinacci nella veste di condirettore, nell’autunno di quello stesso anno la Norton si esibisce presso l’Electronic Art Festival di Camerino, un evento ripreso dalle telecamere di Rai 3. Il 26 novembre invece è ospite di Bit, programma dedicato alle tecnologie informatiche condotto da Luciano De Crescenzo in onda su Italia 1, dove presenta alcuni brani in formato live tra cui, sembra, ci siano quelli contenuti proprio in “Personal Computer”.

Ad oggi “Personal Computer” è l’album più ricercato di Doris Norton e probabilmente anche il più rappresentativo della sua discografia legata agli anni Ottanta, riscoperto dai diggers e rivalutato ad un paio di decenni dalla sua pubblicazione originaria. Nel 2006 il brano “Personal Computer” finisce (insieme a “Norton Computer For Peace”) nella compilation (non ufficiale) “Cosmic Excursions”, nel 2007 Amplified Orchestra edita “Personal Computer” rinominandola (senza autorizzazione) in “Flash”, nel 2009, nel 2011 e nel 2013 “Personal Computer” viene scelta rispettivamente da Flemming Dalum, Helena Hauff e Trevor Jackson per “Boogie Down”, “Birds And Other Instruments #3” e “Metal Dance 2”, sempre nel 2013 “Norton Apple Software” è nella tracklist della raccolta “Mutazione: Italian Electronic & New Wave Underground 1980-1988”, nel 2016 “Personal Computer” e “Norton Computer For Peace” vengono stampate illegalmente su un 12″ dedicato ai re-edit di Ron Hardy e pare che “Caution Radiation Norton” sia finita persino in un set radiofonico degli Autechre. Nel 2010 qualcuno mette furbescamente in circolazione anche una tiratura bootleg su vinile colorato (verde e giallo). I fan mettono le mani sulla ristampa ufficiale nel 2018.

Artificial IntelligenceArtificial Intelligence (1985)
Terminato il contratto con la Durium, ormai sulla via dell’inesorabile declino che si concluderà nel 1989 col fallimento, Doris Norton incide il nuovo album sulla Globo Records, label brasiliana che ha una sede anche in Italia coordinata da Cesare Benvenuti. È bizzarro constatare che mentre sul mercato giungono i vinili e le cassette di “Artificial Intelligence” la Globo pubblica dischi di artisti che con la Norton non dividono davvero nulla, come Claudio Baglioni o la band latina dei Menudo in cui figura Ricky Martin appena quattordicenne. “Artificial Intelligence” lascia detonare le intuizioni avvistate in “Nortoncomputerforpeace” e proseguite in “Personal Computer”, facendo una summa e chiudendo l’ideale trilogia. Il risultato è un concentrato di musica che si avventura lungo sentieri futuristici con sconfinamenti melodici ai margini della sid music dei videogiochi in auge in quel periodo. Note che corrono su e giù per le ottave della tastiera (“Artificial Intelligence”, “Sylicon Valley”, “Norton Institute”), contemplazioni elettroniche (“Machine Language”), synth cervellotici che ululano (“Advanced Micro Music”): la Norton personalizza al meglio la sua creatività apparendo sempre più distante dai trascorsi prog rock. “Norton Musik Research”, tra i pezzi migliori del disco, è una sorta di inno celtico eseguito con strumentazione elettronica ma quel che colpisce di “Artificial Intelligence” è anche il collage di voci usate come se fossero citazioni sampledeliche simili a quelle che poi figureranno nell’esplosione europea della house qualche anno più tardi. Si senta “Oh Supermac” dove il messaggio Macintosh Computer viene disintegrato in frammenti alcuni dei quali mandati in reverse analogamente a quanto avviene in “Bit Killed Hertz”. «Il titolo provvisorio che diedi inizialmente all’album fu “Art-Physiol”, nato da un campione vocale che realizzai nel 1983 per cominciare a testare il Roland ADA-200R Converter» rivela l’artista. «Era una non-parola che mi dava l’idea di un connubio tra arte, fisiologia ed artificialità ma prima di andare in stampa optai per “Artificial Intelligence”, sia per il brano che per l’album intero, perché suonava meglio ed era più eloquente». Grazie ad un articolo apparso sul blog Mutant Sounds curato da Jim Bull si rinviene una spiegazione piuttosto dettagliata di quanto Doris Norton attua in quel lavoro, debitamente recuperata da un numero del 1985 della rivista ComputerMusik. Necessario porre l’accento anche sullo studio del ritmo che in più passaggi assume le sembianze di proto techno/hardcore. Quei martellamenti audaci e guerriglieschi potrebbero essere paragonati alle bizzarrie catalogate come IDM negli anni Novanta, e non meraviglierebbe se Ceephax Acid Crew un giorno dovesse rivelare di essersi ispirato alla Norton per alcuni dei suoi lavori. Poi, volendo trovare un appiglio più ovvio e banale per effettuare tale raffronto, ci sarebbe l’omonimia proprio con quella raccolta attraverso cui nel 1992 la Warp Records, come scrive Simon Reynolds in “Energy Flash”, «annuncia la nascita di un nuovo genere post rave battezzato “musica elettronica d’ascolto” a cui seguirono altri appellativi come armchair techno, ambient techno ed intelligent techno, ossia musica dance per sedentari casalinghi». Alla tracklist si aggiungono “Juno 106 Software” e “JX-3P Software” destinate ai musicisti che, come è illustrato sul retro della copertina, possono caricare le sequenze e i suoni per farli pilotare e sincronizzare da una batteria elettronica tramite trigger o da una tastiera mediante connessione MIDI. A realizzare il mastering è Piero Mannucci, sino a pochi anni prima operativo presso gli studi della RCA Italiana sulla via Tiburtina, a Roma, lì dove lavora pure Antonio Dojmi, il graphic designer che si occupa della copertina dominata da macchine Akai, Roland, Viscount ed un computer Macintosh. Un disco che meriterebbe senza dubbio di essere ristampato.

Automatic FeelingAutomatic Feeling (1986)
La Norton incide ancora per una label estranea al suo universo musicale e parecchio distante dalla computer music. Disco Più, Durium e Globo Records erano collegate a contesti pop, la Nuova Era, con sede a Pontelambro, in provincia di Como, invece è devota alla musica classica e in catalogo annovera dischi, tra gli altri, di Rossini, Verdi, Donizetti, Mozart e Schubert. A dirigerla è l’allora trentenne Alessandro Nava, che negli anni Novanta si occupa della serie Grammofono 2000 per la Fono Enterprise e nel nuovo millennio scrive libri come “Il Terzo Uomo Di Mussolini”, “Sindrome Meetic” e “La Macchina Del Tempo”. Il logo stesso della label pare alquanto contraddittorio: il font è quello degli schermi LCD (usato sulle copertine di “Raptus”, “Personal Computer” ed “Artificial Intelligence” e, in seguito, nelle prime annate del magazine Future Style), allora simbolo di modernità, futuro ed innovazione, ma messo a confronto coi contenuti sviluppati risulta atipico e, per certi versi, persino antitetico. Doris Norton nel frattempo diventa consulente per l’IBM, colosso americano dell’informatica che in tempi non sospetti appronta programmi per comporre musica (si vedano incisioni come “Computer Composities”, “Personal Music”, l’esplicativo “Computer-Musik” o l’ancora più remoto “Music From Mathematics” con l’IBM 7090 in copertina). «La cosa più rilevante che constatai allora fu che la maggior parte delle persone interessate ad usare computer IBM nel settore musicale erano compositori ed arrangiatori “classici”, abituati a scrivere le partiture sullo spartito cartaceo» dichiara l’artista. “Automatic Feeling” e il seguente “The Double Side Of The Science” vengono creati proprio adoperando sistemi IBM. Come ricorda la biografia diffusa da Musik Research anni addietro, “entrambi appartengono all’area new age / computer sound / psychoactive music”. I titoli che si rinvengono all’interno della tracklist rimandano al mondo dell’informatica, da “Megabyte” a “Digital Processor” passando per “Computerized Anderson” e “Business Machines” che pare una semi citazione dedicata proprio ad IBM (acronimo di International Business Machines). Gli “hit sound” di “Converted Cobham”, così tanto legati ad un genere nazionalpopolare come l’italodisco o la più gonfiata hi nrg, però non convincono del tutto. Come nel precedente “Artificial Intelligence”, anche qui presenziano degli “impulsi” raccolti in “Norton Rhythm Soft” e provenienti da Roland TR-707, Roland TR-727 e Yamaha RX5. “Automatic Feeling” viene pubblicato nella primavera del 1986 solo su CD, ai tempi considerato un formato rivoluzionario ambito per qualità, maneggevolezza e praticità nonché tra i simboli più rappresentativi legati alla riproducibilità della musica del futuro, come all’epoca rimarcano questi advertising di Sony e Philips. «La label curata da Nava era proiettata nella produzione digitale di CD-DDD. Ai tempi il formato CD rappresentava la novità e i cataloghi di CD musicali erano veramente poveri di titoli. Moltissimi erano invece i CD realizzati da master analogici. Per la masterizzazione di “Automatic Feeling” usai il processore digitale Sony PCM-F1 a 16 bit collegato ad un VCR Beta» ricorda oggi la Norton.

The Double Side Of The ScienceThe Double Side Of The Science (1990)
“The Double Side Of The Science”, come scrive Francesco Fabbri sul suo blog già citato, «per un attimo ci illude segnando un parziale ritorno alle antiche suggestioni create da organo e strumenti non elettronici, ma è solo un fuoco di paglia, giacché i Nostri si gettano anima e corpo nel mondo della musica rave-party divenendone apprezzati produttori. Purtroppo i tempi sono cambiati e Bartoccetti e la Norton vi si adeguano». Effettivamente nella tracklist di questo album si rinviene una certa voglia di tornare alla manualità del rock con virtuosismi al basso e alla batteria (“Double Side”, “Uranium”) e all’epicità soundtrackistica del mondo prog (“Protect And Survive”, “Natural In Agony”) ma nel contempo non manca la sequenzialità meccanica generata con IBM PS/2 ed IBM PS/2 P70 a cui la Norton ormai non sa o non vuole rinunciare, specialmente in riferimento a “Radioactive Gnome” imparentata col suono di “Personal Computer” ed “Artificial Intelligence”. Insomma, un lavoro in bilico tra tradizione ed innovazione che, nonostante esca nel 1990, è tendenzialmente legato alla decade precedente anche perché viene registrato nel triennio ’87-’90. In “Death From Chernobyl”, presumibilmente ispirata dal disastro del 26 aprile 1986, l’artista si rapporta ancora a temi affini al suo passato ricavandone un mosaico ridondante di note. Infine il piuttosto trascurabile “Loading The Folk Dance” che pare un file MIDI suonato con una vecchia tastiera workstation, e “Christmas In Memory” affossato in ambientazioni natalizie poco proporzionate allo stile nortoniano. Le otto tracce contano su uno special guest che suona le tastiere in real time, Anthony Bartoccetti, figlio tredicenne della Norton e di Antonio Bartoccetti che da lì a breve inizia la carriera come Rexanthony. Il tutto è inciso solo su CD autoprodotto dalla Musik Research. «Fu una decisione presa all’interno del team, intendevamo proseguire la discografia della nostra etichetta anche se dopo breve tempo iniziammo a collaborare stabilmente con la Sound Of Bomb continuando come Musik Research Productions» spiega la musicista.

Gli anni Novanta: dalla computer music alla techno

Negli anni Novanta la computer music non esercita più un vivo stupore come agli inizi. Un conto è comporre musica con le macchine nel 1980 (o prima), un conto è farlo dieci anni più tardi. Possedere e programmare batterie elettroniche, modulare suoni di un sintetizzatore mediante manopole, robotizzare la voce col vocoder ed assemblare il tutto attraverso un sequencer installato su un computer inizia ad essere un’operazione più accessibile e di conseguenza suscita molta meno meraviglia anche perché lo stesso computer entra con più facilità nelle case, primariamente con fini ludici, grazie alla diffusione di consolle di aziende come Commodore, Atari, Amiga, Sinclair, Sega ed Amstrad, seppur alcuni modelli restino ancora economicamente poco abbordabili – come il PC 1640 HD-ECD di Amstrad, dotato di un hard disk da 20 MB, RAM da 640K, tastiera, mouse e sistema MS-DOS, che nel 1988 costa oltre due milioni e mezzo di lire. Per Doris Norton sarebbe inutile ripetersi col rischio di banalizzarsi e veder sparire l’aura futuristica, meglio cercare nuove vie come la techno, “discendente” proprio di quel suono che aveva sperimentato nel corso del decennio precedente. Come afferma Antonio Bartoccetti nell’intervista di Zenti citata prima, «già dal 1980 Doris Norton porta avanti il concetto di musicista autonoma con produzioni senza l’apporto di collaboratori, quella che oggi è diventata una regola del business». La techno in effetti, che in quel periodo inizia a vivere la fase di europeizzazione e di sdoganamento commerciale su larga scala, è uno stile che si presta ad essere composto in solitaria, senza ausilio di musicisti. La Norton, tra l’altro, è un’individualista convinta e tra le dichiarazioni apparse nella menzionata intervista su DJ Mag Italia del 2011 c’è qualche passaggio che lo rivela apertamente: «Non amo lavorare in equipe, ho la mentalità dell’artigiano alchimista rinascimentale. Da sola non mi annoio mai, costretta a collaborare con altri mi sento un’aliena». Per chi, come lei, preferisce elaborare le proprie idee senza interferenze esterne la techno sembra perfetta ed infatti è quella la musica a cui si dedica. Ai nuovi generi però non corrisponde un cambiamento del suo processo creativo: «La materializzazione di un’idea, per me, avviene sempre nella stessa maniera. Cambiano i mezzi ma non il modo di operare che essenzialmente può essere paragonato ad una continua correzione di ciò che a me sembra un errore e che, nel complesso generale, stona. Similmente a quello che faccio quando disegno, butto giù uno schizzo e poi comincio a correggere tutte quelle linee o quei colori che mi appaiono fuori luogo fino a quando, senza cancellare nulla, riesco ad integrarli col tutto. Al disegno non impongo niente, è il disegno stesso a guidarmi» illustra oggi la compositrice.

tempo di singoliTempo di singoli su 12″
Nel 1991 si registra l’esplosione della techno in Europa, pure sotto il profilo commerciale. Britannici e tedeschi fanno la parte dei leoni, molte intuizioni sono le loro, ma anche gli italiani non scherzano a partire dalla Roma dei rave di Leo Anibaldi e Lory D che per un periodo non temono rivali. Pian piano la techno assume caratteristiche diverse da quelle delle matrici detroitiane ormai frantumate quasi del tutto, si fonde con la new beat, con esasperazioni house, con canovacci trance, con sample vocali, con le distorsioni hardcore e con gli spezzettamenti ritmici breakbeat. Si trasforma insomma, per alcuni in meglio, per altri decisamente in peggio. Come sostiene Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, «in Italia si tenta di sfruttare il momento d’oro della techno, schematizzandone le caratteristiche e inserendola su binari semplici e riconoscibili (cassa di grande impatto, basso in levare, riff di synth armonicamente quasi rock. […]. Nell’immaginario collettivo italiano, la parola techno viene sempre più associata a sonorità dure e la diffusione sempre maggiore di rave ed afterhour, coi loro eccessi e problematiche, conferma agli occhi della gente questa impressione, anche per la mancanza di una controinformazione preparata».

Nel quadro di neo commistioni sonore e riformulazioni più o meno discutibili, si inserisce l’attività di Doris Norton che archivia il periodo della synth music ed approda ad una scena radicalmente diversa, quella del mercato della musica da discoteca, più rapido e veloce rispetto a quello del rock e della proto elettronica, che richiede soprattutto singoli da dare in pasto ai DJ e non più ponderati concept album. È il caso di “Ego Sum Qui Sum” edito dalla Meet Records, etichetta della New Music International di Pippo Landro. Realizzate con un IBM P-70, le due versioni (Magic Rave, Usa Cult) trascinano sul dancefloor il brano omonimo degli Antonius Rex contenuto nell’album “Anno Demoni” pubblicato sempre nel 1991, e ciò spiega la ragione del featuring indicato in copertina. L’ideale follow-up è “Pig In The Witch” firmato Antonius Rex ed uscito l’anno seguente sulla Dance And Waves del gruppo Expanded Music di Giovanni Natale. Ad essere campionato qui è il grugnito di un maiale secondo l’approccio cartoonesco tipico di quella techno “all’italiana” sdoganata al grande pubblico dalle radio e televisioni commerciali che fanno un uso/abuso erroneo e superficiale del termine techno «in parte per ignoranza in buona fede, in parte per tipica furbizia italica», riprendendo il pensiero di Benedetti dal libro citato poche righe sopra. Lo stile è simile a quello delle prime produzioni del figlio della coppia, Rexanthony, che debutta nel ’91 con “Gas Mask” ed “After Hours”. L’avvicinamento dei coniugi alla techno, tra l’altro, potrebbe essere imputato proprio al figlio, stando a quanto dichiara Antonio Bartoccetti in questo articolo: «Un giorno Anthony, che frequentava la terza media, arrivò a casa con un CD dei Technotronic. Lo ascoltai pensando che fosse un disco rovinato e registrato male ma il giorno seguente riuscii a contattare telefonicamente il loro produttore che viveva in Belgio e mi disse che di quel disco ne erano state vendute già un milione di copie. La cosa si fece interessante». Il 1991 vede anche l’uscita di “01 Rave”, sulla Top Secret Records della Dig It International. Composto ed arrangiato dalla Norton affiancata da Mario Di Giacomo (cofondatore della Cut Records insieme al compianto Zenith), il brano centrifuga chiare rimembranze della breakbeat/hardcore d’oltremanica con tanto di inserti pianistici à la Liquid. Non mancano interventi di Rexanthony e di due DJ, Livio Damiani ed Alexander Boss. Il tutto sotto la direzione di Antonio Bartoccetti e la supervisione di Roberto Fusar Poli, fondatore de Il Discotto e ai tempi diventato A&R per la Dig It International. Nel ’92 la Top Secret manda in stampa “08 Rave”, prodotto sulla falsariga di “An.Tho.Ny” di Rexanthony che a sua volta sembra imparentato in qualche modo con la formula del progetto bresciano degli Antico, esploso con “We Need Freedom” (ispirato da “Let Me Hear You (Say Yeah)” di PKA?) e su quel sentiero già dal 1990 con l’omonimo “Antico”. “01 Rave” e “08 Rave” sono accomunati anche dalla presenza dei numeri, motivo ricorrente nella discografia nortoniana sin dai tempi di “Parapsycho”. «Come addendum ai titoli, inserii in copertina una frase in codice binario che però tolsi prima di andare in stampa, dopo un ripensamento. Oggi ognuno potrebbe vedere in quei numeri ciò che più gli aggrada, del resto i misteri servono per mettere in moto e mantenere giovani le sinapsi cerebrali» oggi svela l’artista. Stilisticamente non dissimile “Tairah”, ancora su Top Secret nel ’93, registrato presso lo studio di Terry Williams a New York, rimaneggiato da Rexanthony con un campionatore/sintetizzatore Ensoniq ASR-10 e un computer IBM PS/1 e trainato da un vocal hook pensato forse come ipotetico tormentone. La fotografia sul retro della copertina è la stessa che appare su “Nortoncomputerforpeace” dieci anni prima. Del 1993 è pure “The Dust” finita nel primo volume di “Outer Space Communications” sulla barese Disturbance di Ivan Iusco (di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui). In quell’ammirevole raccolta insieme alla Norton figurano artisti come Lagowski, 303 Nation, Atomu Shinzo, Pro-Pulse, Francesco Zappalà ma soprattutto Aphex Twin sotto l’alias Polygon Window.

L'electroshock diventa Techno ShockL’electroshock diventa Techno Shock
Nei primi anni Novanta i Bartoccetti iniziano a collaborare in modo stabile e continuativo con la milanese Dig It International che gli offre massimo sostegno, disponibilità e soprattutto i margini di quella libertà che talvolta viene negata agli artisti dai discografici per questioni legate al profitto economico. L’etichetta sulla quale sarebbero apparsi i loro lavori, inclusi quelli del giovane Rexanthony, è la S.O.B., acronimo di Sound Of Bomb, piattaforma destinata a tutte le produzioni incasellabili con (maldestra) approssimazione sotto la voce techno, sia italiane che licenziate dall’estero (come avviene a “Raw Mission” dei Plexus – Bruno Sanchioni, Emmanuel Top e Jean-François Samyn, “Poing” dei Rotterdam Termination Source e “The Age Of Love” degli Age Of Love). I tempi sono cambiati e l’electroshock di “Psychoraptus” si trasforma in “Techno Shock”, update doveroso per continuare a parlare la lingua del futuro. Nel ’92 la Sound Of Bomb pubblica il primo volume di “Techno Shock”, una “rave collection a 136 bpm” come viene indicato in copertina, commercializzata su vinile, cassetta e CD. Il mercato è florido per la dance, si vende tanto ed ovunque senza particolari sforzi. Il “Techno Shock” di Doris Norton è frutto di un lavoro condiviso col figlio Anthony e la pasta del suono che ne deriva lo rivela apertamente, soprattutto se si fa un confronto coi contenuti del suo primo album “Mega Dance”. Brani come “Wipe Out”, “Self Go”, “E.F.F.E.C.T.” e “Lesdonne” si inseriscono nel filone di quella techno rielaborata su basi europee con riferimenti ispirati a ciò che proviene specialmente da Germania, Belgio ed Olanda con elevata velocità di crociera, brevi inserti vocali, sequenze di sintetizzatori che intonano riff e melodie dall’impatto immediato. Per una come la Norton, veterana del prog rock e dalla proto computer music, fare quelle cose doveva essere un gioco da ragazzi o poco più ed infatti, come afferma Antonio Bartoccetti un paio di anni fa nell’articolo su “Cocoricò 3” linkato sopra, il primo volume di “Techno Shock” viene realizzato in appena quattro giorni.

Tutti i brani racchiusi sono curiosamente remixati da DJ più o meno identificati. Nessun dubbio su Roberto Onofri e Michael Hammer di Italia Network ma qualche perplessità sorge in merito al giapponese Satushi, agli spagnoli Hernandez e Villa, agli statunitensi Slamm, Terry Williams e Mackintosh, alla britannica Annie Taylor e al belga T.T.TecknoTerapy, di cui non filtra alcuna indiscrezione nel corso degli anni. «Nel nostro studio di incisione sono passate tante di quelle persone e collaboratori occasionali che per me è veramente impossibile ricordare, soprattutto a distanza di decenni» spiega oggi la Norton. «In linea generale, oltre all’entusiasmo dei raver per la techno di Musik Research degli anni Novanta, ricordo soprattutto le innumerevoli cene dopo il lavoro in studio. Tra il team Musik Research e i “consiglieri per il remix” c’era un continuo scambio di idee sul lavoro, sulla filosofia di vita in generale, sulle esperienze personali e sulle speranze per il futuro. Dei tantissimi remixer, solo alcuni sono nomi anagrafici, altri sono pseudonimi o nomignoli di gruppi di persone che, in quell’occasione si trovavano in studio, altri ancora erano DJ professionisti ma c’erano anche consiglieri che occasionalmente diventavano DJ». Nella tracklist del primo volume di “Techno Shock” c’è pure “Sample 4 U”, una serie di sample riciclati pochi anni più tardi dalla Dig It International per il bonus allegato alla compilation “Megamix Planet” di Molella e Fargetta del 1995 e che tanto ricorda le sequenze messe a disposizione dei più creativi in “Artificial Intelligence” e “Automatic Feeling” dieci anni prima. La copertina reca la firma di Max dello Studio Mariotti.

Visto il successo, la Sound Of Bomb non tergiversa e pubblica “Techno Shock 2” che riprende il discorso lì dove era stato interrotto pochi mesi prima ma spingendo sul pedale dell’acceleratore dei bpm che qui vanno dai 142 ai 160. La techno di Doris Norton (e del figlio Rexanthony) si avvicina sensibilmente all’hardcore e alla gabber. Pure qui compaiono nomi dall’identità dubbia come Amsterdam Teknobrain, Rotterdam Interface, Rome Teckno Resistance, Hard Rome Attack, Mauro D’Angelo e Phase Out. Su “Telescopic” invece si registra il contributo di Eddy De Clercq, noto DJ olandese. L’artwork demoniaco è ancora dello Studio Mariotti. Nel ’93 è tempo del terzo volume di “Techno Shock”, parecchio simile al predecessore sia per stile, velocità (aumentata sino al range 140-180 bpm) che impostazione timbrica. Altri nomi non meglio identificati (lo statunitense Techno Metal Trance, il russo Dmitry D.L., la rumena Sighisoara Tasnad che pare anticipare la medium Monika Tasnad che figurerà venti anni dopo in “Hystero Demonopathy” degli Antonius Rex) finiscono nella tracklist dove se ne trova uno appurato, quello di Luca Cucchetti, DJ capitolino fratello di Faber Cucchetti, che mette mano a “Live In Rome”. La copertina è ancora opera di Max dello Studio Mariotti. La serie dei “Techno Shock” proseguirà ininterrottamente sino al decimo atto uscito nel 2002 ma dal quarto, del 1994, l’autore diventa il solo Rexanthony.

Next Objective, l'obiettivo è ancora il futuroNext Objective, l’obiettivo è ancora il futuro
Mentre Rexanthony firma i restanti sette volumi di “Techno Shock”, Doris Norton inaugura un nuovo progetto chiamato “Next Objective”, ancora supportato dalla Sound Of Bomb. La cosiddetta rave techno va ormai esaurendo il potenziale commerciale e l’artista individua un nuovo punto d’interesse nella musica trance prima ed hard trance poi. «I “Techno Shock” sono stati un’esperienza divertente e concreta, i “Next Objective” invece provenivano da una visione più intimista della realtà» spiega oggi la Norton. «Le considero comunque due facce della stessa medaglia visto che nacquero e si svilupparono più o meno nello stesso periodo». Nel primo volume di “Next Objective”, uscito nell’autunno del 1993 e col titolo rafforzato dallo slogan in italiano “Obiettivo Futuro”, le velocità si smorzano e calano vistosamente inquadrando il segmento 120-134 bpm. Pure i suoni subiscono una trasformazione quasi radicale. È sufficiente ascoltare brani come “Hypnotized”, “Switch On Dream”, “Grunge Girls”, “Grungend You” o “Digital Rotation” per rendersi conto di quanto diverso sia lo scenario rispetto al passato, ora più vicino alla house. Qualche gancio metallico si sente in “Bit Killed Woman” e una vena ambientale emerge da “Next To One”. “Trancefiguraction”, col suono del pan flute in stile Dance 2 Trance, si muove in ritmiche e riferimenti quasi eurobeat con tanto di vocal femminile. La salsa viene ripresa in “Stop The War”. La trance poi ha la meglio in “Trance By Raptus”, graffiata da unghiate acid in “Radio Trancemission” sino a sfilare nelle atmosfere orrorifiche di “Sarajevo Crime”, probabile rimando alle vicende belliche che resero allora la capitale della Bosnia-Erzegovina teatro di un interminabile assedio durato ben quattro anni. Analogamente a quanto avviene in “Techno Shock”, anche qui la tracklist è costellata di nomi ambigui che i credit in copertina attribuiscono a personaggi provenienti da Europa ed America (Trancemission, Psychedelic Force, Dish Seattle, Hybrid Jazz, Hipe 2 Trend, Amorphous Project, Surface Tension, Detroit Out Now, Jolanda). Il tutto è prodotto insieme a Rexanthony. Nel 1994 è tempo del secondo volume di “Next Objective” con cui si vara un nuovo concept. I tredici brani, che marciano dai 116 ai 164 bpm, vengono raccolti in tre aree distinte che indicano altrettante declinazioni stilistiche in modo simile a quanto avviene in “Cocoricò 2”. Nella Trancegression finiscono quelli con atmosfere in bilico tra sogno ed incubo come “Trancefusion”, “Wave”, “Bahamas Trance” (che pare un reprise di “Fly Zone”, a cui collaborano i Krisma) e “Trance Gression”, in Virtual Ambient si fluttua, come annuncia il titolo, su nubi ambient (“Next Age Of Norton”, “Dreamzone”) con divagazioni downtempo (“Infatuation”) e lampi breakbeat (“Incantation”), ed infine nella Progressive si mandano in orbita i ritmi più marcatamente ballabili di “Voltage Controlled”, “Science Killed HIV”, “This Is A Trip” ed “Objective Two”. Chiude “Rhythmletter”, una dichiarazione d’intenti dell’autrice che racconta verbalmente cosa avviene nel disco in cui figurano ancora interventi esterni tra cui quelli di Alberto Fantoni ed Alfredo Zanca.

Nel 1995, uno degli anni più fortunati per il team della Musik Research anche in riferimento all’Italia per i successi mainstream di Rexanthony (“Capturing Matrix”, “Polaris Dream”), esce il terzo ed ultimo volume di “Next Objective” che si ributta nella techno e nell’hard trance più rumorosa. Bpm che vanno dai 150 ai 168 incorniciano suoni di estrazione ravey ma a differenza dei precedenti due volumi questa appare più propriamente una compilation giacché raccoglie brani di artisti diversi e pubblicati anche come singoli. Si possono citare i quattro pezzi di Moka DJ estratti da “Switch On Power” (“Switch On Power”, “Climax”, “Future Shock Five (Rmx)” e “Yestrance”, tutti prodotti nello studio della Musik Research, due versioni della citata “Capturing Matrix” e “Saving You” di Prysm, un’altra produzione del team marchigiano finita nel catalogo Reflex Records. Tra gli altri si segnala l’indiavolata “Exagon” di Surface Tension, “Next Objective 3” della stessa Norton, quasi trancecore, e “Charisma” di Loris Riccardi, art director del Cocoricò col quale la famiglia Bartoccetti coopera, tra 1994 e 1995, per gli album “Cocoricò 2” e “Cocoricò 3” in cui vengono riciclati diversi sample di brani editi in precedenza.

Anche le copertine dei tre volumi di “Next Objective”, analogamente a quelle dei primi tre “Techno Shock”, sono realizzate graficamente da Max dello Studio Mariotti, «quello dell’era dei mitici rave romani» ricorda oggi la Norton. «Entrammo in contatto nei primi anni Novanta quando loro curavano la grafica dei flyer degli eventi a cui ha partecipato Rexanthony come performer live. Oltre alla sede nella capitale, c’era una filiale a Rimini dove lavorava Massimo “Max” Imbastari che firmò diversi artwork per noi. Lo studio quindi ci proponeva immagini e soluzioni grafiche che valutavamo ed approvavamo o meno. Tutto avvenne nel periodo in cui, a Riccione, si tennero le riunioni tra noi di Musik Research e Bruno Palazzi per la pianificazione degli album “Cocoricò”».

Dall’underground più profondo degli anni Ottanta, la Norton si ritrova in decine di compilation che vendono migliaia di copie ma nonostante gli esaltanti riscontri, l’artista abbandona progressivamente la scena passando il testimone al figlio. Il suo nome lo si ritrova sparpagliato tra i credit delle innumerevoli pubblicazioni di Rexanthony ma dal 1996 non figurerà più come artista principale.

I tempi recentiI tempi recenti
Come dichiara la Musik Research, Doris Norton è da sempre impegnata anche nel campo delle arti visive attraverso molteplici pseudonimi. Con questo intento realizza, in veste di regista, i video di “Magic Ritual” (2005) e “Perpetual Adoration” (2006). Proprio il 2006 vede la riedizione digitale dei quattro brani di “Chagrin Et Plaisir – U Fisty Fussy”, originariamente racchiusi in “Cocoricò 3” del 1995, e la compilation “Selection ’80-’90” di cui si è già fatto cenno. Sul fronte rock invece torna a collaborare con gli Antonius Rex per gli arrangiamenti di “Switch On Dark”, esperienza ripetuta nel 2009 in “Per Viam” e nel 2013 in “Hystero Demonopathy”. Nell’autunno del 2015 esce, solo in digitale, “Don’t Stop Now (2012 Remake)” che profuma di dubstep. «La traccia era pronta già ad ottobre del 2011 ma ho deciso di non pubblicarla. Nel 2012 la ho re-editata e remixata ma scelsi comunque di non metterla in commercio, cosa avvenuta solo nel 2015» spiega l’artista. Per l’occasione Musik Research annuncia il ritorno di Doris Norton attraverso una serie di singoli che però, ad oggi, non vedono luce.

(Giosuè Impellizzeri)

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