Anna Bolena, amante della musica senza confini

All’anagrafe è Antonella Pintus ma il mondo della musica la conosce come Anna Bolena. Nata a Sassari nel 1970 e trasferitasi a Roma nel 1989, inizia a mettere dischi come DJ nel 1995 e in parallelo organizza rave ed eventi di musica elettronica underground diventando la prima DJ donna attiva nel circuito dei freeparty capitolini. Creativa e propositiva, nel 1997 è tra i co-fondatori di Peti Nudi, fanzine che, come recita la sua biografia, «veicola informazioni su musica, stati alterati di coscienza e contesti sociali giovanili». Nel 1999 acquista il primo PC e, da autodidatta, si dedica alla composizione di musica con l’ausilio di vari programmi software. Nel contempo matura l’idea di creare un’etichetta discografica, Idroscalo Dischi, che lei stessa considera la prima ad essere generata dal fenomeno dei freeparty illegali. Legata a matrici industrial, IDM ed allo sperimentalismo rumorista di stampo russoliano, la label debutta nel 2001 con l’ambizioso “Smash Biotek” al cui interno si rinviene la musica, tra gli altri, dei D’Arcangelo, Marco Passarani, Andrea Benedetti e Marco Micheli ma pure di presenze estere come Venetian Snares, Eiterherd e Saoulaterre, e poi cresce di anno in anno contando sul supporto di artisti accomunati dalla propensione a spingersi ben oltre i confini della musica da ballo. Passando da esperienze musicali alle multimediali, la Bolena, di stanza a Berlino dal 2004, è una testimone autorevole della scena alternativa nostrana, contesto che meriterebbe più approfondimenti obiettivi dopo anni di pregiudizievoli demonizzazioni da parte dei media generalisti.

Antonella Pintus ancora adolescente in una foto del 1986

Con che tipo di ascolti trascorri infanzia ed adolescenza?
Mia madre era una promettente pianista. Da piccolina studiava al Conservatorio Luigi Canepa di Sassari e di lei hanno parlato sia giornali locali che nazionali. Quando rimase incinta di me aveva appena diciassette anni ma continuò comunque ad esercitarsi almeno otto ore al giorno, la sua passione per il pianoforte era davvero grande. Credo di aver ereditato proprio da lei l’orecchio per la musica classica e quella più “raffinata”, a cui mi sono avvicinata sempre di più nel corso del tempo. Durante l’infanzia ero attratta da altre cose ma pian piano ho recuperato. Per il mio primo documentario girato da videomaker, ad esempio, ho utilizzato parecchi campioni di musica lirica. Il mio papà invece era un abile calciatore. Quando fu convocato nel Cagliari però suo padre non acconsentì e quindi proseguì in modo amatoriale, facendo anche da trainer per giovani talenti di altre squadre. Pure lui mi ha trasmesso la passione per la musica, sin da quando ero piccola. In casa ne girava di tutti i tipi, classica, pop, rock, tradizionale… Qualche tempo fa mio padre mi ha regalato la sua collezione di CD jazz e blues, andata ad infoltire la raccolta dei dischi di musica classica di mia madre che nel tempo ho continuato a rimpinguare. Oggi possiedo circa 7500 titoli: non è una collezione enorme ma un bel pezzo di storia e di questo ne vado particolarmente orgogliosa. Quando avevo nove/dieci anni circa, d’estate andavo in vacanza dai nonni a Palau, in Costa Smeralda, lì dove nacque mia mamma. Proprio sotto la loro casa c’era un locale, il night club del paese, frequentato principalmente dalla comunità afroamericana (militari sempre molto eleganti con le mogli al seguito) della base NATO che stava sull’isola de La Maddalena. Qualche volta riuscivo ad entrare lì dentro, pur non potendo partecipare alle feste perché minorenne. La visione della sala da ballo con le luci psichedeliche e la consolle mi colpirono ed affascinarono parecchio. Quando tornavo in camera mi sdraiavo per terra e sentivo i battiti della cassa della musica disco suonare di sotto. Mi addormentavo così e non lo trovavo neanche fastidioso visto che le estati in Sardegna sono state sempre particolarmente afose e il fresco del pavimento mi dava un po’ di sollievo. Nell’adolescenza i gusti cambiarono. Se da piccola apprezzavo la disco, il pop e il funky, gli anni Ottanta mi portarono verso altri generi musicali, primi su tutti il gothic rock, il dark e la new wave. Alcuni amici più grandi acquistavano dischi per corrispondenza e, una volta giunti “nel continente” (così come si diceva da noi) me li registravano carinamente su cassetta. In quel modo ebbi la possibilità di ascoltare ed approfondire musica di band come Joy Division, Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees, Christian Death, And Also The Trees e praticamente tutta la produzione della britannica 4AD (impazzivo per i Cocteau Twins e Dead Can Dance!). Nel contempo non disdegnavo cose tendenzialmente più commerciali come The Smiths e Morrissey a cui devo il mio vegetarianesimo, Pogues, Who, U2 e il combat rock degli Alarm. Mi divertivo a ballare con gli amici che adoravano Bowie (io un po’ meno), l’indie rock e tutta la new wave nostrana, dai Litfiba ai Diaframma passando per i Not Moving. Gran parte di quei pezzi li conservo su cassetta. Mi piacevano molto anche i Culture Club, affascinata dalla stravaganza di Boy George. Frequentare giovani omosessuali alimentò l’interesse per le tematiche legate al gender e probabilmente ad accendere la curiosità fu il fatto di essere circondata da persone piuttosto bizzarre e particolari. Per il resto i miei anni Ottanta furono piuttosto “scuri” e passarono nell’attesa di lasciare Sassari alla volta di Roma, città in cui volevo andare a vivere sin da quando avevo tredici anni. Una volta terminato il liceo ci andai per davvero, con l’obiettivo di studiare psicologia. Da ragazzina, non disponendo di molti soldi, selezionavo scrupolosamente i dischi da comprare. Iniziai ad acquistare i dischi degli U2 che andai a vedere a Modena nel 1987 a sedici anni, e di quel concerto conservo gelosamente anche un’incisione bootleg, a mo’ di cimelio. Poi Joe Jackson, Television, Patti Smith, Talk Talk, Billy Bragg, Matt Bianco e il new folk inglese dei Fairport Convention, ma anche Neil Young, Van Morrison, Joan Baez, R.E.M., The Jesus And Mary Chain, Joni Mitchell, Janis Joplin…

Cosa era per te la “musica elettronica”?
Ho iniziato ad interessarmi di musica elettronica (intendendo quella da discoteca) solo negli anni Novanta. Prima nutrivo per essa una sorta di antipatia, forse perché non mi aveva stimolato a sufficienza. Molti amici partivano dalla Sardegna alla volta del Cocoricò di Riccione ed io li sfottevo sostenendo che quella proposta lì dentro non fosse affatto “musica”. Ai tempi ero attratta da altro, in primis dalla musica suonata con gli strumenti tradizionali, ma affermare che l’elettronica non rientrasse a priori nei miei interessi potrebbe essere sbagliato e fuorviante perché il suono dei sintetizzatori aveva preso ampiamente piede nel pop e rock degli anni Ottanta. Ai tempi ballavo tantissimo e di tutto, ed anche quando mi trasferii a Roma continuai a frequentare le scene più disparate. Ero di casa al Uonna, sulla Cassia, dove la musica era ancora la new wave dei Cure, Bauhaus o Joy Division, ma la fortuna di avere un orecchio parecchio aperto mi diede lo stimolo per aprire nuovi orizzonti. Ad attrarmi fu principalmente il suono britannico, forse perché ero già appassionata del pop composto oltremanica. Negli anni Novanta l’IDM della Warp fu il genere che mi prese di più, senza ombra di dubbio. Per quanto riguarda invece la scena nostrana, vivere a Roma per quindici anni mi ha dato la possibilità di entrare in contatto col cosiddetto Sound Of Rome che ritengo la massima avanguardia anche a livello internazionale. Acquistai subito i dischi di Leo Anibaldi e dei D’Arcangelo che mi piacevano tantissimo, senza dimenticare il progetto Automatic Sound Unlimited condiviso con Max Durante (di cui parliamo qui, nda) che proponevo senza tregua nelle mie serate. Ai tempi, parlo della metà degli anni Novanta, una buona parte degli avventori dei rave, anche più giovani di me, era interessata e disposta a sentire cose realmente alternative e non necessariamente orecchiabili. Nel corso del tempo ho progressivamente aumentato la conoscenza approfondendo ed interessandomi a generi complementari, recuperando davvero tanto della produzione italiana che non tenni in considerazione perché consideravo troppo commerciale. Dalla deep house alla progressive sino alla hi nrg, tutto è finito nella mia collezione. A posteriori ho scoperto pure di essere letteralmente innamorata della house cantata da voci femminili. Alcuni che mi seguono si sono stupiti quando ho iniziato a proporre quel tipo di sonorità nei miei set, ma per me è stata una sorta di recupero della black music che ho vissuto da bambina negli anni Settanta. La mia passione per la musica è davvero a 360 gradi ed affrontare nuovi generi non vuole affatto essere uno scimmiottamento. Sorprendere e non dare nulla per scontato è alla base del mio concept e viene naturale contaminare continuamente le mie radici, fa parte della mia personalità, del mio carattere e del mio modo di intendere il party.

Nel ’95 ha inizio la tua carriera da DJ e, in parallelo, da organizzatrice di party, rave ed eventi underground. Come ricordi quel periodo? Il fatto di essere donna ha mai rappresentato un problema o generato discriminazioni in un ambiente dominato quasi esclusivamente dal sesso maschile?
Mi sono ritrovata in una scena che non era esattamente quella di riferimento perché ero un’attivista politica, facevo parte dei gruppi extraparlamentari romani, ero legata ai centri sociali e frequentavo principalmente ambienti anarchici e studenteschi. Dopo una fase iniziale più “commerciale”, il cui il “suono di Roma” si espresse nella sua forma migliore ma a cui non aderii, iniziai a partecipare a piccolissimi party organizzati in periferia da amici dei centri sociali. Eravamo pochissimi, dalle cinquanta alle cento persone. Avevo poco più di vent’anni e la mia passione era, semplicemente, ballare. Ad iniziare quella scena furono miei coetanei o gente poco più grande di me. Alcuni conducevano una trasmissione su Radio Onda Rossa e sdoganarono la techno negli ambienti di sinistra, lì dove erano radicati parecchi pregiudizi perché, è bene ricordarlo, la techno a Roma era collegata principalmente agli ambienti di destra. Era comprensibile quindi il motivo per cui compagni e compagne nutrissero dei preconcetti, anche perché ascoltavano tutt’altra musica come il punk e il reggae. Nel 1990, un anno dopo essermi trasferita nella capitale, iniziai a partecipare attivamente al movimento di protesta della Pantera, nato negli ambienti universitari palermitani e poi esteso in molte altre facoltà d’Italia. Seguivo i corsi di psicologia nella sede distaccata de La Sapienza che fu la prima facoltà che occupai a Roma. Proprio lì si creò il fenomeno delle posse, nato in seno alla cultura hip hop, che rappavano canzoni di protesta. Il rap era già entrato nei centri sociali e il fenomeno si ingrandì a dismisura di fronte alle folle di studenti. Poi toccò anche all’elettronica, peraltro già presente in qualche modo nell’hip hop, ed infatti alcuni rapper parteciparono alla scena rave come alcuni collaboratori degli Assalti Frontali di stanza al Forte Prenestino. All’inizio, come spiegavo prima, ero una semplice frequentatrice perché mi piaceva ballare. Un giorno, in un piccolo rave organizzato nella zona di Valle Aurelia, un paio di amici mi invitarono a mettere dei dischi, forse perché non c’era il DJ o forse perché loro erano stanchi, non ricordo più con esattezza. Era l’estate del 1995 e da quel momento non mi sono più fermata. Compravo dischi, accumulavo contatti internazionali ed allacciavo rapporti diretti coi negozi saltando i passaggi coi management di turno che ho trovato sempre un po’ discutibili. Non nascondo che essere donna abbia creato alcune situazioni imbarazzanti da parte di alcuni maschietti misogini o comunque non abituati a vedere donne dietro la consolle, e non mi riferisco solo alla mia figura artistica (approcciai al DJing in modo estremamente discreto, non considerandomi una musicista ma più un’eccentrica ed un’intellettuale visto che studio da sempre) ma soprattutto al ruolo di organizzatrice. Per lungo tempo ho gestito le consolle e ciò è avvenuto sino a pochi anni fa con l’attività di booker a Berlino, ed è capitato molte volte che alcuni DJ (anche famosi) si irritassero per il fatto che fosse una donna a gestirli. Sento comunque di aver avuto rispetto e considerazione perché sono sempre stata attiva, creativa e propositiva, e credo che tutto ciò mi abbia “salvata”. Confrontarmi coi maschi in consolle, perlopiù etero – molti amici gay non palesavano le loro preferenze sessuali come oggi, la musica era più importante dell’esprimere esigenze di tipo affettivo o sentimentale – talvolta mi ha obbligata a fare delle scelte, ad esempio rinunciare ad esprimermi in modo più coraggioso. Sia chiaro, non ho mai avuto esigenze tipiche dei maschi che erano guardati da tutti e si potevano permettere di fare i “piacioni”, atteggiamento che ho sempre odiato. Essendo donna però non potevo fare lo stesso, sarei subito passata per una poco di buono. La donna non poteva fare le stesse cose che facevano i maschi (seppur non mi piaccia molto parlare di “femmine” e “maschi”), specialmente quando si parlava poco di misoginia che era un vero e proprio tabù. Per un po’ di tempo sono stata l’unica donna in consolle nella scena dei freeparty, le amiche si occupavano di decorazioni, bar ed organizzazione ma poi, per fortuna, altre hanno seguito il mio esempio facendo crescere le quote rosa.

Perché ti trasformi in Anna Bolena? Quali ragioni ti spingono ad adottare uno pseudonimo di taglio storico?
Negli anni Novanta, quando era tanto di moda usare i nickname, iniziai come Meridiana 07, ispirata dalla Meridiana del fumetto Cybersix. Con quello pseudonimo firmai anche gli articoli sulla rivista Peti Nudi. Nel momento in cui diedi avvio all’attività da artista però, decisi di optare per uno più forte e giunsi ad Anna Bolena, figura storica perfetta per rappresentare il mio concetto di DJ. Ho letto vari libri a tal proposito e l’aspetto che mi interessava maggiormente della Bolena non era tanto quello della famiglia di nobili origini bensì la sua raffinatezza e cultura, la capacità di suonare musica, scrivere poemi e, non meno importante, la propensione a circondarsi di musicisti, esattamente quello che facevo io. A ciò si aggiunse infine l’aspetto politico: Anna Bolena e il suo matrimonio con Enrico VIII originò lo scisma anglicano, e vista la mia crisi mistica che mi ha portato ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della chiesa cattolica, ciò mi affascinò spingendomi ad abbracciare questa figura storica assai controversa.

Roma, città in cui vivi ai tempi, è stata una vera roccaforte della techno e della house ma pure dei rave che iniziano a diffondersi tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta, come hanno descritto qui e qui Leo Young e Max Durante. C’erano sostanziali differenze tra i rave/eventi che ti videro come protagonista e quelli precedenti? Esisteva un filo conduttore ed un continuum tra quelle due epoche consecutive o si trattava di movimenti che non potevano essere considerati l’uno l’evoluzione dell’altro?
Come accennavo prima, non ho partecipato alla prima fase dei rave, quella legata alla scena delle discoteche o comunque organizzata e gestita da personaggi di quel circuito. Tuttavia, nel corso degli anni, sono entrata in contatto con alcuni dei protagonisti di quel momento, come Leo Anibaldi, Lory D, Marco Passarani e Marco Micheli, collaborando in consolle o discograficamente. La differenza principale tra il primo movimento rave e quello successivo, nato intorno alla metà degli anni Novanta e meglio identificato come “illegal” o “freeparty”, era l’auto-organizzazione. Facendo parte di movimenti politici extraparlamentari che credevano fermamente nell’autogestione degli spazi sociali, portammo avanti in maniera coerente questo “diktat” occupando spazi, come capannoni industriali in periferia e gestendo autonomamente il divertimento. Era questo il messaggio più forte che lanciavamo, la nostra parola d’ordine. Iniziammo prendendo le distanze da ciò che era avvenuto prima, dalla scena considerata più “mainstream” o comunque inserita in contesti legali, seppur non mancarono rapporti con alcuni dei personaggi-simbolo di quegli eventi. La stima era immensa e certi riuscimmo a portarli nei nostri party e con le nostre regole, ma con qualche polemica. Quando venne a suonare Lory D alla Fintech, ad esempio, gli venne riconosciuto un cachet ed alcuni protestarono in nome di un approccio diverso (si suona per amore dell’arte, della musica, della politica e dell’essere alternativi) e nacquero diverse discussioni, anche accese. A posteriori mi rendo conto che fosse giusto che Lory D venisse pagato perché era un musicista e viveva di quello, ma ai tempi il nostro approccio era diverso. Sotto il profilo sonoro, la musica era molto contaminata. Passavamo dalle produzioni più famose a quelle underground, portate da amici che andavano personalmente a Londra o a Berlino a comprare dischi. Si trattava prevalentemente di limited edition di mille copie. Così conobbi la Praxis di Christoph Fringeli e tutta una serie di etichette affini che si possono raccogliere sotto il cappello della breakcore e della musica estrema che in quegli anni mi appassionò parecchio insieme alla darkstep e al drum n bass. Non dimentico ovviamente gli Spiral Tribe, famosissimi traveller britannici che riuscirono a portare il loro sound e il loro verbo fuori dai confini patri, seppur con un approccio non molto vicino alla mia sensibilità, più intellettuale, sperimentale e in qualche maniera più varia ed aperta. Tuttavia sono orgogliosa di possedere alcune edizioni originali dei loro dischi. Ad un certo punto è stato necessario legalizzare tutto, non era più possibile andare avanti così e le special guest andavano pagate. Non so se sia stata un’evoluzione o un’involuzione ma ormai viviamo in un mondo in cui non è più possibile sottrarsi alla sicurezza e al controllo sociale. Gli anni Settanta, Ottanta e in parte i Novanta sono stati importanti nella storia politica perché c’era la possibilità di muoversi ancora a livello sotterraneo. Ciò che quel periodo mi ha lasciato in eredità adesso lo esprimo a livello creativo e non ho timore del giudizio del pubblico. Quando sono in consolle voglio stimolare le persone che mi stanno davanti, non annoiarle o consumarle.

Anna Bolena in uno scatto di pochi anni fa

Nel documentario del 2011 “Tekno – Il Respiro Del Mostro” diretto da Andrea Zambelli e recensito qui, parli di un nuovo modo di vivere l’aggregazione reso possibile proprio dal movimento legato ai freeparty. Quale divario sussisteva tra il mondo delle discoteche e quello dei rave illegali?
La differenza sostanziale tra i due contesti risiedeva nell’aspetto politico. Se vai in una discoteca prendi quello che ti organizzano ma non sei tu il diretto protagonista. Chi frequentava i rave illegali invece aveva la possibilità di esprimersi molto di più rispetto all’ambiente discotecaro. Non esistevano guest list, non era necessario pagare parecchi soldi per entrare e, in linea più generale, non si subiva e si consumava quello che veniva offerto. Gli avventori dei freeparty erano persone appartenenti ad un circuito ben preciso, legato ai centri sociali ma non solo. Visti i contatti tra i vari gruppi territoriali, tra centri sociali ed altri spazi occupati, fummo capaci di portare nei nostri spazi pure ragazzi e ragazzini provenienti dai classici muretti di aggregazione sociale della Roma degli anni Novanta e questo, non lo nego, a volte ha causato problemi coi compagni che vedevano la cosa molto poco ortodossa. Resta però la soddisfazione di essere riusciti a sdoganare la techno all’interno dei centri sociali, impiegando un po’ di anni per far capire che quella musica potesse creare una nuova forma di aggregazione, e di strappare giovanissimi (minorenni inclusi) ai “muretti fascisti” mostrando loro la possibilità di poter vivere il divertimento senza essere seguiti, controllati, repressi o persino picchiati dal punto di vista fisico. Loro videro come ballare la techno senza saluti romani o altri tipi di posizioni ed atteggiamenti mentali tipici di quell’ala politica che, lo dico a malincuore, erano molto presenti nelle discoteche. Anche per questo motivo prendemmo le distanze dal mondo discotecaro, un ambiente in cui ciò che contava di più era consumare, alcool e non solo. Noi cercammo di fare controinformazione pure sull’utilizzo delle sostanze che, è inutile negarlo, c’è stato anche ai freeparty, abbondante ed esagerato. Distribuivamo volantini informativi con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui rischi che si correvano, e da lì nacquero persino ricerche, articoli e libri diffusi in un circuito esterno a quello commerciale ed istituzionale. Ad un certo punto iniziammo a cooperare pure con le istituzioni: a Bologna ad esempio, dove il movimento era legato prevalentemente al Livello 57, parecchi compagni si interessarono all’uso delle sostanze psicotrope creando spazi appositi dove la gente poteva richiedere informazioni ed essere seguita, innescando meccanismi e dinamiche superpositive per dare supporto a chi cercava aiuto dal punto di vista psicologico. Tutto ciò invece era davvero difficile trovarlo nelle discoteche. Parte di questo approccio è rimasto in vita in alcuni sex party berlinesi, dove organizzazioni operano in sinergia con le istituzioni per informare sui rischi che si corrono ad esempio facendo sesso abbinato a sostanze stupefacenti, ma senza soffocare o reprimere chi vuole praticare ciò.

In più di qualche occasione hai posto l’accento sulla valenza culturale della musica elettronica. I tuoi studi universitari (laurea in psicologia e un master in programmazione neurolinguistica e comunicazione efficace) ti hanno aiutato in qualche modo ad andare oltre il pregiudizio riservato ancora da molte persone nei confronti di (certa) musica elettronica? Perché nello specifico la techno è stata oggetto, sin da subito, di una connotazione negativa al punto da essere apostrofata come “musica del diavolo”? In tal senso, quali sono stati i grandi errori compiuti nei primissimi anni Novanta in Italia, e da chi? Sarà possibile eradicarli in un futuro non troppo lontano?
Ritengo che il mondo sia abbastanza conformista e non così propenso alle novità. La techno, analogamente ad altri generi musicali, ha subito l’ostracismo della vecchia generazione con tutte le conseguenze del caso. All’inizio in certi ambienti, come il mio, si avvertiva pure tensione per la differenza di vedute. Il fatto che la gente non abbia accettato di buon grado la techno abbinandola a cose che non avevano nulla a che fare con essa fu forzatamente normale e coerente. La techno servì a “rompere” le solite cose, anche in merito alla gestione degli spazi sociali. I rave illegali usarono la techno perché in quel preciso momento era il tipo di musica più adeguato a comunicare il nostro pensiero. Era un suono emergenziale che nella sua aggressività esprimeva protesta e che in qualche maniera ben si connetteva al concetto del “mordi e fuggi” tipico delle TAZ – zone temporaneamente autonome. Ai tempi la techno era un suono contaminato da tantissime cose e tradizioni plurime, adesso invece si è trasformata in un filone conforme, è sufficiente variarne appena il suo codice per finire in aree attigue identificate con altri nomi. Molti compagni non avevano affatto piacere di sentire la techno, non erano stimolati da quel suono come del resto non lo ero io sino a pochi anni prima. A volte, si sa, l’approccio personale può incidere sul giudizio di qualcosa. La techno per me si rivelò come un universo da scoprire ma non l’unico, visto che nel tempo la ho accantonata per seguire altri generi che invece avevo trascurato. Negli anni Novanta esisteva un approccio più aperto ma, come in tutte le decadi in cui nascono e si sviluppano cose nuove, si verificò la severa condanna dell’opinione pubblica, ma non me la sento di dare giudizi a ritroso su cosa si potesse fare o dire.

Cosa è diventata la techno nel 2021?
Molta della produzione techno attuale è la fotocopia di cose già sentite, e in questo rientra pure la mia produzione seppur tenti di fare sempre qualcosa di nuovo adoperando un suono che esprima la mia personalità e gusto. Sono cosciente di non possedere particolari capacità rivoluzionarie ma preferirei che siano i critici a stabilirlo, non come fanno alcuni artisti egocentrici e narcisisti, aiutati parzialmente dai social network. Adesso bisogna uscire dal conformismo e dalla propria comfort zone, non esiste praticamente più l’effetto sorpresa di un tempo. Anche nell’ambito dell’organizzazione sono dell’avviso che le nuove generazioni abbiano un po’ perso quella che era la nostra capacità di voler fare qualcosa di nuovo. Molti seguono pedissequamente ciò che c’è stato, senza novità e capacità creative, convinti che rientrare in una categoria possa essere sufficiente per fare carriera. È proprio il concetto di “fare carriera” a dover essere messo in discussione e su questo punto rimango sempre politica: per me la musica è uno degli elementi della vita ma non l’unico. Bisogna provare altre strade, cimentarsi in prove diverse e cercare soprattutto di essere curiosi e sempre pronti e flessibili al nuovo. In questo momento di pandemia poi ancora di più, non solo per adeguarsi ma sopravvivere. In tutta franchezza, un certo tipo di techno ripetitiva, ridondante e fastidiosa non riesco proprio più ad ascoltarla ed apprezzarla, ma non voglio passare per nostalgica perché sono più propensa a guardare ciò che arriverà e non quello che è stato. Vorrei sentire cose nuove, magari generate dal crossover tra culture diverse. Non voglio rassicurare me stessa e gli altri, amo l’effetto sorpresa.

La copertina di uno dei primi numeri di Peti Nudi

Negli anni Novanta il giornalismo musicale nostrano legato alle nuove forme di dance music (house, techno e derivati) è stato particolarmente lacunoso. Certi contenuti riuscivano a filtrare solo attraverso free press e fanzine e non tramite testate editoriali ufficiali, perlopiù interessate solo ed esclusivamente al mainstream. Tu stessa, nel 1997, hai creato una fanzine provocatoria sin dal nome, Peti Nudi. Di cosa si trattava?
Provenendo dal rock e dall’indie, ero più vicina a riviste tipo Rumore, Rockerilla o Rolling Stone e non seguendo le attività delle discoteche di conseguenza non mi interessavano quelle testate che ne parlavano. Peti Nudi era una “techno-zine” in formato A4 ripiegato. Nacque alla fine del settembre ’97 e diede l’occasione, a me ed agli altri che mi accompagnarono in quella esperienza editoriale dal sapore do it yourself, di raccontare in modo provocatorio e scanzonato la scena non commerciale della musica elettronica che ci piaceva allora. Esistevano anche altre fanzine di quel tipo come Torazine, che rispetto a Peti Nudi contava su una redazione più corposa ed una distribuzione più capillare. Il giornalismo mainstream non fu capace di trattare adeguatamente gli argomenti, ma del resto senza vivere le esperienze in prima persona è difficile raccontarle. I giornalisti al massimo si limitavano a scrivere ciò che avevano sentito dire, avvallando certe tesi piuttosto che altre (e a tal proposito ricordo una trasmissione televisiva, Lucignolo mi pare, che mandò un servizio sui rave tagliato ad hoc da cui non emergeva nulla se non ciò che volevano loro). Peti Nudi ed altre riviste simili nacquero fondamentalmente per “suonarcela e cantarcela”, consentendoci di raccontare la nostra storia e dare valore al movimento tekno dei freeparty, senza alimentare demonizzazioni su quella che fu descritta tante volte come “musica non musica”. Non dimentichiamo che l’Italia è un Paese fatto perlopiù da persone fintamente cattoliche, bigotte, destroidi e tradizionaliste, allo stesso tempo con la puzza sotto il naso e poco propense ad accettare cose che non si conoscono e che vengono messe subito all’angolo, tra “i cattivi”.

Che negozi di dischi frequentavi?
A Roma andavo da Re-Mix, l’unico ad essere superfornito della musica che mi interessava. Qualcosa la acquistavo pure attraverso amici che si recavano direttamente a Londra ed ogni tanto ero io stessa a volare all’estero. Nel 1996, in occasione della Love Parade, misi piede per la prima volta nel berlinese Hard Wax (a cui abbiamo dedicato qui un articolo di “Dentro Le Chart”, nda). Lì presi “Port Rhombus EP” di Squarepusher, su Warp, artista che proposi credo per prima nel circuito dei freeparty italiani. La gente impazzì completamente, era un disco importantissimo sia per lui che per noi, uno di quelli che hanno segnato un’epoca.

Quando e come hai iniziato a produrre musica non limitandoti più a selezionare e mixare quella degli altri?
Arrivai a comporre musica per pura curiosità e non perché avessi aspirazioni carrieristiche o ambizioni da musicista anzi, essendo figlia di una pianista, ho sempre nutrito una forma di rispetto nei confronti dei musicisti, cosa che invece spesso è mancata da parte di tanti DJ. Affrontare l’avvento delle tecnologie con l’acquisto di un computer abbinato all’installazione di nuovi programmi mi diedero la spinta a cominciare, ridendo e scherzando. Non avevo pianificato nulla e testimone di ciò che sostengo è la mia assenza dal primo disco su Idroscalo. Il rispetto marcato nei confronti di chi faceva musica da più tempo mi convinse a tenermi in disparte. Poi, pian piano, mi sono procurata un po’ di macchinette con cui ho migliorato e perfezionato il mio sound, nato come raccolta sedimentata di suoni, registrazioni ed incisioni analogiche e digitali. Sono passata da velocità estreme, anche oltre 200 BPM, a cose lentissime, a 30 o 40 BPM. Non fossilizzarmi fa parte del mio carattere.

Anna Bolena in consolle in un club di Berlino nel 2016

Come si è evoluta la tua attività produttiva nel corso del tempo?
Sono partita dalla migliore tradizione IDM, industrial e techno, migliorando l’accortezza per il dettaglio. Ora sono meno frettolosa e più meticolosa, e mi avvalgo anche della preziosa collaborazione di ingegneri del suono che mi aiutano a migliorare il sound seppur le idee restino sempre e solo mie. Questo è fondamentale, anche in studio: accettare suggerimenti va bene ma bisogna evitare di perdere la narratività e mantenere integra la capacità di creare storie e l’atmosfera con la propria musica. Per fare ciò è necessario tempo e non a caso la mia prima produzione su vinile è giunta a ben quattordici anni di distanza dall’esordio come DJ. Non ho mai pensato di sfruttare la mia etichetta per autoprodurmi, ho preferito invece dare spazio agli altri. La mia prima produzione è stata “Homopatik”, del 2012, a cui è seguito poco altro.

Sul fronte live/DJing invece?
Suonare live è radicalmente diverso rispetto ad un DJ set. Credo di avere raccolto più riscontri come DJ che live performer. Fare il DJ è più versatile, è un ruolo che ti offre la possibilità di cambiare il disco che pensavi di mettere anche all’ultimo minuto, velocità che invece non puoi affatto disporre nella dimensione live dove tutto è ben concepito e studiato. Per questa ragione quando mi esibisco nei live preferisco tempistiche molto ridotte, dai venti ai quaranta/quarantacinque minuti. Se il suono è particolarmente aggressivo è meglio dosarlo, in modo tale che la gente abbia nuovamente voglia di sentirti in futuro.

Il logo di Idroscalo Dischi

Nell’autunno del 2001, attraverso “Smash Biotek”, debutta ufficialmente Idroscalo Dischi, la tua etichetta che affonda saldamente le radici nel suono IDM ed industrial dalle tinte spiccatamente sperimentali e che, come tu stessa dichiari sinteticamente in “Rave In Italy”, il libro di Pablito El Drito di cui parliamo qui, è stata la risposta alla fine dei rave. Puoi approfondire le ragioni che ti spinsero a crearla? C’è un particolare significato dietro la scelta del nome?
Per approntare “Smash Biotek” ci vollero un paio d’anni circa. Era un triplo vinile e nacque per lanciare il messaggio dello stato delle cose di quel periodo, oltre a voler unire la vecchia generazione del cosiddetto Sound Of Rome con la nuova. Il tutto condito da alcuni interventi internazionali, come quello di Venetian Snares con la bellissima “Withdrew”. Come giustamente dicevi, il debutto risale all’autunno 2001 ma l’idea risale al 1999 quando i rave illegali subirono un discreto calo di interesse causato dalla riduzione di creatività e del livello organizzativo. Iniziò a circolare la proposta di mettere in piedi un’etichetta discografica per dare voce alla nostra musica e alla fine credo che Idroscalo Dischi sia stata la prima ad essere uscita dal circuito dei rave illegali romani. Optai per il nome Idroscalo perché ero molto attiva all’interno dello Spaziokamino di Ostia, dove appunto sorge un idroscalo, ma pure perché ero appassionata di Pasolini e nel ’75 il suo corpo venne ritrovato proprio all’idroscalo ostiense. Idroscalo Dischi fu un omaggio alla sua figura. Scelto il nome, facemmo una colletta per finanziare il progetto e tanti artisti della vecchia scuola romana diedero il proprio contributo. A quel punto presi in mano le redini della situazione occupandomi personalmente delle scelte del pressing plant, della burocrazia, della raccolta del materiale e relativa archiviazione. La presenza di artisti stranieri fu il risultato dei miei viaggi, soprattutto a Berlino. Desideravo avere qualche artista estero per dare un afflato più internazionale al disco. Fu un lavoro duro e lungo ma alla fine gli sforzi vennero ripagati alla grande. Ciliegina sulla torta la copertina, realizzata dal compianto Paolo Picozza che la realizzò a titolo gratuito insieme ai centrini, elevando il livello artistico dell’intera produzione. In fase di distribuzione trovai in Chris della parigina Toolbox Records un più che valido collaboratore. Mi aiutò a piazzare tutte le cinquecento copie a cui non è mai seguita alcuna ristampa. Non ne farò neanche in futuro, “Smash Biotek” era e resterà una limited edition.

La copertina di “Smash Biotek”, il 3×12″ che apre il catalogo di Idroscalo Dischi nel 2001

La parte interna del gatefold di “Smash Biotek” racchiude una serie di tue ponderate considerazioni sulla bioscienza. «Da una parte siamo incastrati nella becera sopravvivenza del mangiare/cagare/riposare, dall’altra siamo affascinati dall’immortalità del bisturi chirurgico che è capace di tagliare/staccare/cucire/forgiare la bellezza clonata, uguale quindi rassicurante» si legge tra le altre cose, e non mancano prese di coscienza sullo stato del pianeta: «Sappiamo che l’aria che respiriamo è inquinata irrimediabilmente, senza ritorno ad una presunta verginità […]. Siamo schiavi di poche risorse, irrinunciabili carburanti che bruciano per accelerare il nostro inevitabile invecchiamento». A torreggiare su quella colonna di pensieri, tradotti in francese, inglese e tedesco, c’è un invito a mo’ di capitello, evidenziato in grassetto: «Ferma la bioscienza prima che la natura scateni la sua ira». A quasi circa venti anni di distanza tante cose, purtroppo, sono accadute per davvero. Stiamo assistendo inermi allo sfacelo del mondo e della società?
All’epoca l’argomento era decisamente “caldo”, l’utilizzo della biotecnologia invasiva nella vita quotidiana, l’abuso della scienza sulla naturalezza degli eventi… del resto il virus stesso del covid-19 credo sia la drammatica risposta all’intromissione dell’uomo nei confronti dei meccanismi naturali che avvengono sul nostro pianeta. Ora ci fidiamo degli esperti sperando che le cose non peggiorino ulteriormente e forse quello che scrissi circa un ventennio fa si è rivelato tristemente profetico. In quell’occasione cercai di dare al tutto una forma un po’ poetica. Le persone stavano attraversando l’inizio del secolo/millennio con paura e senso di frustrazione derivata dall’impossibilità di controllare il passare del tempo, l’invecchiamento, il cambiamento. Ritengo invece che tutto ciò debba essere affrontato con energia ed entusiasmo, in fondo invecchiare fa parte della natura dell’uomo, non possiamo rimanere eterni e sempre uguali, fare le stesse cose, ripeterci continuamente in un loop biologico infinito, sarebbe noiosissimo. Ripetersi è legato alla paura per la diversità e per l’imprevisto e nella paranoia di voler controllare tutto adesso ci stiamo rendendo conto che la natura si è ribellata, basti pensare alle catastrofi naturali che sono all’ordine del giorno. Non ho figli ma lavorando all’interno del sistema scolastico mi pongo il problema di cosa stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni ed oggi non so dare una risposta. Credo che l’uomo sia capace di adeguarsi di fronte a grandi cambiamenti o drammi che possono succedere, lo spirito di adattamento è insito nella nostra natura e la vita è un continuo equilibrio. Bisognerebbe rendersi conto che una parte della bellezza della nostra esistenza sia rappresentata proprio dall’imprevisto.

Torniamo a parlare di Idroscalo Dischi: quali sono gli highlight che segnaleresti a chi non la conosce e vorrebbe “esplorarne” i contenuti?
Preferirei che l’ascoltatore scoprisse tutto da solo, in modo autonomo, c’è già internet, coi suoi infiniti suggerimenti, ad impigrire le persone. Un valido aiuto è rappresentato da Discogs e YouTube. Personalmente sono affezionata a tutte le uscite su Idroscalo, è stata una bella avventura nella sua interezza.

Credo che l’ultima pubblicazione su Idroscalo Dischi, il tuo “Kill The DJ In You”, risalga al 2017: si tratta di uno stop temporaneo o definitivo?
Per il momento l’etichetta è in stand-by. Ho bisogno di trovare artisti interessanti e sarei propensa a produrre una giovane donna, ma vista la situazione particolare che viviamo preferisco attendere.

Tra 2018 e 2019 hai inciso una manciata di titoli (“I Got Back The Soul Sold In The 90’s” e “Feeling Jazz” di G.A.Z.A. col featuring di Danny Polaris) per Underground, una delle etichette della Media Records recentemente risorte. Come sei arrivata lì? Prevedi di dare continuità a questa collaborazione?
Sono stata contattata da Alessandro, uno dei referenti di Underground. Cercava materiale techno e gli ho proposto diversi pezzi utilizzando pure il nickname G.A.Z.A. che risponde ad un sound più ibrido. L’esperienza è stata carina ma non credo ci siano i presupposti per replicarla. La Media Records non ha più lo splendore di una volta, Gianfranco Bortolotti mi pare interessato più al mainstream (rap e trap) contro cui non ho nulla, ribadisco che a me piace davvero di tutto, ma credo che per portare avanti certi progetti servano maggiori investimenti e soprattutto più attenzione. Mi aspettavo una promozione migliore che purtroppo non è arrivata quindi alla fine ritorno al “mio” underground.

Volevi lanciare un messaggio attraverso il titolo “I Got Back The Soul Sold In The 90’s”?
È un po’ provocatorio, lo ammetto, specialmente nei confronti di chi ha un concetto sacro degli anni Novanta, un periodo che è stato anche abbastanza turbolento, triste e pesante e non sempre confortante come si immagina e sostiene. Mi piace usare titoli ad effetto, fa parte del mio modo di declinare le cose.

Un’altra foto di Anna Bolena impegnata in consolle

Vivi a Berlino dal 2004: ritieni che la capitale tedesca possa essere ancora annoverata tra gli avamposti della club culture europea, o la spinta della gentrificazione ha contagiato pure il mondo della musica?
La gentrificazione è un problema che tocca tutti gli ambiti della vita, e forse è anche normale, ogni tanto bisogna resettare. Molti compagni si lamentano che alcune case occupate siano state ristrutturate dimenticando però che alcune fossero vere e proprie topaie. Si va avanti, non si può rimanere ancorati a contesti fatiscenti che portano altri tipi di problematiche. Chiaramente quando la gentrificazione spopola per dare spazio al turismo elitario non è bello, ma succede in tutte le capitali del mondo e non credo ci sia la benché minima possibilità di uscire da un meccanismo di questo tipo. Per farlo dovremmo mettere in discussione il sistema capitalistico e creare un altro modo per aggregarci e vivere. È il capitalismo stesso a chiedere ed imporre la velocità nel cambiamento e quindi la continua resilienza per affrontare nuove sfide, la maggior parte delle volte insidiose. All’interno dei club berlinesi la musica si è fermata già da tempo. È molto facile sentire DJ affermati che suonano sempre e solo le stesse cose, non provando a fare niente di nuovo ma limitandosi a quello che sanno fare e che la gente si aspetta da loro. Alla fine credo che il vero problema sia il carrierismo che ha portato molti DJ ad allontanarsi dalla passione per la musica in favore di quella per il soldo facile. La finalità di tanti è ricercare il grande consenso ed un pubblico pronto ad omaggiare ed applaudire a prescindere da ciò che si fa. Tutto questo però non offre alcuno stimolo per azzardare e reinventarsi e quasi più nessuno ormai prova strade nuove assumendosi il rischio di deludere o fallire.

I social network e più in generale internet hanno determinato un’identità artistica sempre più fragile. Credi che a risentire di tale “omologazione” sia stata anche la musica underground? Ho l’impressione che per abbracciare i gusti di un pubblico sempre più vasto, un crescente numero di produttori ed etichette abbiano inesorabilmente abbassato la qualità dei loro prodotti.
Sì, sono completamente d’accordo. Capitalizzare le attività artistiche dietro la consolle spesso è a scapito di ricerca, approfondimento e voglia di proporre altro. Il problema principale della scena rimane l’omologazione ed è quello che negli ultimi anni mi ha convinta a mettermi un po’ in disparte. Trovo noioso l’atteggiamento della nuova generazione (ma pure della vecchia, che si è adeguata dimenticando di dare il buon esempio), poco propensa a capire le esigenze del prossimo ma soprattutto poco incline a trovare una propria identità. Anche io, nel corso del tempo, ho cambiato il mio suono ma questa mutazione è frutto di una ricerca, di un pensiero e di un’analisi, non la mera replica di cose che funzionano perché testate da altri anzi, cerco sempre di personalizzare tutto. Questo approccio fa parte della mia filosofia e lo applico pure nella vita quotidiana e non solo quando lavoro dietro la consolle. Nella produzione musicale ciò emerge ancora più nitidamente ed è lì che a mio avviso si vede il vero artista. Negli ultimi anni i generi musicali che mi hanno entusiasmata di più sono quelli che non hanno niente a che fare con la techno. Ho comprato dischi di musica organica che presentano una progettualità del tutto diversa. Dietro magari ci sono ensemble di musicisti provenienti da parti del mondo in cui la musica elettronica non è proprio di casa (Africa, Sud America, alcune zone remote dell’Asia) e che hanno voglia di contaminare, un desiderio insito nella loro cultura perché appartengono a popoli colonizzati. Se da un lato la colonizzazione porta a difendere a spada tratta le proprie tradizioni contro l’invasore, dall’altro sprona a trarre le cose migliori dallo stesso. Il mescolamento di culture crea musica bellissima che non può non essere conosciuta anche da chi è dedito alla techno. Bisognerebbe avere una conoscenza aperta della musica, lasciarsi andare, sperimentare ed avere voglia di cose nuove ma questa curiosità fa parte della propria personalità, non la si può appiccicare sulla faccia con un pezzo di scotch. Viene dal background, dalla crescita individuale, dalla famiglia, dall’educazione che è stata impartita, dai posti che si frequentano… Non smetterò mai di consigliare agli aspiranti artisti delle nuove generazioni di essere curiosi e di non limitarsi a rifare ciò che hanno già fatto altri in passato. Che senso ha ripercorrere la strada di Jeff Mills? C’è persino chi si indebita per comprarsi una TR-808 o una TR-909 per poi riprodurre gli stessi pattern strausati da un trentennio. A remare contro è pure lo sfrenato revival: bisognerebbe interfacciare il vecchio al nuovo per generare cose diverse e che guardino al futuro. Fermarsi a ri-fare il passato lo trovo estremamente noioso e soprattutto sterile.

Cosa è diventato l’underground ai tempi dei social network?
Qualche settimana fa, su Facebook, mi sono imbattuta in una serie di critiche nei confronti di chi ha seguito il Festival di Sanremo o contro chi, in qualche maniera, si è sentito coinvolto da quella kermesse. A scagliarle è stato qualcuno che crede di essere un “portavoce della cultura underground” e che vuole sembrare duro e puro rispetto a chi invece spinge o apprezza il mainstream. Per me rimanere ancorati sempre e solo alle stesse sonorità per tutta la vita non vuol dire affatto essere underground, prima di criticare il mainstream bisognerebbe studiarlo in tutte le sue forme. Per essere underground non basta mettersi il libretto rosso di Mao in tasca e sostenere di essere un rivoluzionario e di rappresentare ciò che non può essere monetizzato o utilizzato dalla cultura “ufficiale”. Per essere dei veri rivoluzionari, e quindi dire qualcosa di autenticamente nuovo, bisogna essere geniali ma pochissimi, tra noi, lo sono per davvero. Pur essendo molto distante dal mondo di Sanremo, non disdegno affatto la cultura nazionalpopolare perché, chi più e chi meno, tutti sono entrati in contatto con essa. Alzi la mano chi prima di essere affascinato da musiche diverse non sia stato colpito dalle canzonette trasmesse in radio o dal videoclip famoso di turno. Oggi tante cose possono sembrare alternative ma non lo sono affatto ed inoltre bisogna capire se chi si pone come “diverso” rispetto alla massa poi lo sia per davvero. Non sono molto convinta di chi parla di regole per stabilire cosa sia mainstream ed underground. Prima di tutto bisognerebbe fare le cose con serietà e passione ma soprattutto studiare per capire a fondo cosa ci piace e non. Tanti sono convinti che postare su Facebook un video di Aphex Twin o degli Autechre basti per essere considerati alternativi ma in realtà si tratta di stupidi e banali cliché. C’è chi sbandiera di ascoltare Aphex Twin ma poi, nel privato, di alternativo non ha proprio niente. Chi pensa che la cultura underground sia pari ad una patacca da appuntarsi addosso è fuori strada ed assistere a questi atteggiamenti per è estremamente irritante. Bisognerebbe lottare tutti i giorni contro una serie di cose e non utilizzare musiche e culture alla stregua di sticker che si appiccicano addosso per darsi un tono. Probabilmente chi fa ciò segue le mode ed è incapace di capire se un pezzo sia di pregio o meno oppure se dietro un lavoro ci siano ricerca ed approfondimento. Il mainstream non esisterebbe se non ci fosse l’underground e viceversa, quindi dipingere uno di bianco ed uno di nero non ha davvero senso. I colori si mescolano così come le dimensioni e gli ambiti. Bisognerebbe piuttosto parlare di qualità che si è persa tanto nel mainstream quanto nell’underground.

Anna Bolena ai tempi della pandemia da coronavirus

Il post pandemia riserverà davvero sostanziali novità nel settore della musica indipendente o tutti i bei discorsi che circolano in Rete da ormai un anno a questa parte si disperderanno come granelli di sabbia al vento?
Sono convinta che la pandemia non ci stia insegnando proprio niente. Senza dubbio la popolazione mondiale sta affrontando grosse difficoltà ma appena si vedrà un piccolo spiraglio, ognuno si riprenderà il proprio spazio. Chi era solidale resterà tale o forse di più, chi non lo era andrà avanti col proprio egocentrismo. Questa è una grossa opportunità per ragionare, riflettere, cercare di migliorarsi e lasciare alle generazioni future un mondo migliore ma gli interessi dei singoli e ancor di più delle multinazionali non cambiano, restano aggressivi ed invadenti. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, dovrebbe fare qualcosa per la gioia e il piacere di farlo. Non ripongo troppe speranze che ciò accada però. Mi concentrerò su poche amicizie, famiglia, affetti e lavoro, nella speranza che i club possano riaprire perché ho tanta voglia di suonare. Le feste mi appartengono da sempre, sin da quando organizzai quella per il mio decimo compleanno.

Quali sono le prime tre cose che ti vengono in mente se ripensi ai rave degli anni Novanta?
Il discreto grado di follia generale, visto che all’epoca si pensava di poter fare tutto quello che si voleva e che, effettivamente, si faceva, la componente politicizzata del nostro agire e l’energia proveniente dal nuovo millennio che stava arrivando. Forse quell’energia era legata alla giovane età, fu un elemento assai caratterizzante di quel periodo.

Quali invece i tuoi progetti che si concretizzeranno in un prossimo futuro?
In arrivo ci sono diversi brani che troveranno spazio nel catalogo di varie etichette: a maggio, ad esempio, tocca a “Pandemoniak”, EP destinato alla Witches Are Back. Nel frattempo continuo a comprare dischi e a leggere moltissimo, anche in tedesco. Tra non molto uscirà il libro di Caterina Tomeo intitolato “L’Elettronica È Donna” per cui ho scritto e curato un capitolo che riguarda Berlino, la musica elettronica e la pandemia. A pubblicarlo sarà Castelvecchi.

(Giosuè Impellizzeri)

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Ricci DJ – DJ chart agosto 1997

Ricci DJ, Trend Discotec, agosto 1997

DJ: Ricci DJ
Fonte: Trend Discotec
Data: agosto 1997

1) Analogue Reflections – Controllers
Un disco di cui si conosce ben poco: certa è la provenienza, dai Paesi Bassi, e lo stile, a metà strada tra techno ed hard trance. Praticamente nulle le coordinate relative all’autore, un tal Ronnie Warhole che pare abbia inciso solo questo 12″ pubblicato dalla ReflecT Records, una delle etichette raccolte sotto l’ombrello della XSV Music e la cui operatività resta circoscritta ad appena tre uscite. Sull’ultima, sempre del ’97, spicca il nome di un futuro idolo delle platee mondiali, Tiësto.

2) Spectrum – Pratikus / Atomizer
Con la doppia a-side degli Spectrum (David Lazzari e Jean-Philippe Nicolier), la Primate Recordings dà avvio ad una serie di uscite su 10″ colorati. Per l’occasione il disco verde accoglie nei propri solchi due brani: sul lato a “Pratikus”, una techno circolare edificata sull’essenzialità dei suoni disposti a mo’ di marcetta (sul medesimo schema usato da Christopher Just nella sua “I’m A Disco Dancer (And A Sweet Romancer)”), sul b “Atomizer”, frutto della stessa metodologia compositiva sviluppata nello studio allestito a Ginevra.

3) Thomas Krome – Wood Carver
È il doppio mix che apre il catalogo della Code Red, sublabel della più nota Drumcode di Adam Beyer. A firmarlo un altro degli eroi della techno svedese, Thomas Krome, che muove i primi passi da produttore intorno alla metà degli anni Novanta guadagnandosi una discreta fama nell’ambiente europeo. Sette gli untitled incisi, disponibili anche su vinile colore rosso, tutti accomunati da una vena millsiana (A2) che sfila in compressioni al limite della distorsione (B1, B2).

4) Juno Reactor – God Is God (CJ Bolland Remix)
“God Is God” resta uno dei pezzi più noti del repertorio dei Juno Reactor, band britannica rimasta negli annali per una caleidoscopica vena creativa capace di riunire sotto lo stesso tetto world music, ambient, techno, industrial e goa trance. La versione originale del brano, estratto come singolo dall’album “Bible Of Dreams”, è annessa al cosiddetto chemical beat (quello battuto ai tempi da gruppi come Chemical Brothers, Propellerheads o Fluke) e finisce un paio di anni dopo nel film “Beowulf” di Graham Baker. Il remix scelto da Ricci è più ballabile, realizzato da CJ Bolland che quell’anno ha dalla sua parte una hit, “The Prophet”, ma degne di menzione sono anche le due versioni approntate dai Front 242 intitolate Godzilla e Grisha. A prendere il disco in licenza per l’Italia è la Media Records che lo pubblica su etichetta GFB.

5) Oliver Ho – Chasm EP
“Chasm” è l’ennesimo degli extended play contenenti brani privi di titoli che escono a pioggia negli anni Novanta. Al suo interno l’autore britannico convoglia loop febbricitanti che grondano sudore (B1) e vortici ipnotici (B2, A1) ma la sciabolata più intensa giunge con la A2, dove i pattern si arroventano ed ardono in un braciere di hihat e cimbali shakerati orchestrati da un suono che si ripete come un mantra sin dalle prime misure. Oliver Ho tornerà su Drumcode dopo oltre dieci anni con “Resistor EP” firmato Raudive, in un periodo in cui la techno perde inesorabilmente intensità e vede affievolire la sua fiamma sotto il vento del neo minimal.

Ricci & Cirillo (199x)

Ricci e Cirillo in una foto scattata presumibilmente nel 1994

6) Ricci – X Clone (Remix)
La versione originale edita in primavera dalla Sushi del gruppo American Records, di cui si può leggere la monografia qui, si muove nei meandri dell’hard trance dotata di un bassline a trazione anteriore. I due remix usciti a ridosso dell’estate invece reinterpretano la formula con linguaggi diversi: Sinus opta per una techno minimale pilotata da una cassa in evidenza, suoni filo acid e scariche di snare, medesimi elementi che fanno la fortuna della sua “Blob” remixata giusto pochi mesi prima dallo stesso Ricci. Discorso completamente diverso per la versione di Miss Groovy: Paola Peroni, reduce dall’ottimo responso del “Rough And Tough EP” trainato da “Jungle Sickness” promosso Disco Makina nel programma radiofonico Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui, intaglia un remix hardcore squarciato in più punti da melodie accennate che rompono la monotonia della trapanante cassa distorta.

7) 2 Without Heads – U And Me
Nato nel ’94 col brano “Trouble Of The World” prodotto da Pieradis Rossini, Graziano Fanelli e la sopracitata Paola Peroni su etichetta DJ Movement, il progetto 2 Without Heads riappare tre anni più tardi con la happy hardcore di “U And Me”. Seppur non sia esplicitato, è presumibile che la versione a cui facesse riferimento Ricci fosse proprio la sua, energica hard trance con inflessioni acid sullo stile Junk Project o AWeX e melodicamente costruita sul modello di brani come “X-Santo” di DJ Jan (una club hit di quel periodo) e “Lord Of The Universe” di David Craig. Il 10″ è edito dalla Atomic Energy Records, sublabel della DJ Movement che in catalogo annovera la licenza di “Loving You” di Rob’s Project ovvero l’olandese DJ Rob a cui peraltro viene affidato un remix della stessa “U And Me”.

8) Sinus – Drops EP
Non è uno degli EP più noti di Fabrizio Pasquali pur adoperando gli stessi ingredienti che fanno la fortuna del progetto Sinus tra ’96 e ’97. La main track, “Drops”, è dominata dai tipici suoni della progressive nostrana, con pause e scatti improvvisi sino alle rullate esasperate nella versione Le Cave Drum (un omaggio al locale in provincia di Vercelli dove Pasquali, noto anche come DJ Pareti, è resident ai tempi). Spazio anche ad un terzo brano, “Simplex”, in cui la classica kick spaccatimpani incornicia una flessuosa linea di synth filo acid/bleepy.

9) Deep Ink – Spellbound
Penultima uscita della Data Records del gruppo Europlan, di cui abbiamo parlato tempo fa in questa intervista ad Alfredo Violante, “Spellbound” macina al suo interno ritmo ed atmosfere trancey grazie ad emozionali evoluzioni di pad. Dietro Deep Ink si cela Guido Gaule (e un non meglio identificato P. Henzler), responsabile insieme al citato Violante di quella techno/trance che intorno alla metà degli anni Novanta intriga parecchio i DJ europei: tra i tanti si segnalano “Radiations” di Radiations, impreziosito dal remix di Francesco Farfa, “Awakenings” di Atlantis, “Numera Stellas” di Solaris, “Life Is So Realistic” di Moogability e “Guitara Del Cielo” di Barcelona 2000, quest’ultimo oggetto di un inatteso airplay radiofonico nel nostro Paese.

10) Emmanuel Top – Turkich Bazar
I brani di Emmanuel Top, in particolare quelli editi nei primi anni Novanta sulla sua Attack Records e facilmente identificabili mediante il colore usato per l’etichetta centrale, sono diventati evergreen a tutti gli effetti ma, in un certo senso, lo sono sempre stati, anche quando non si parla ancora di culto per il passato e di serate remember. “Turkich Bazar”, insieme all’ormai celebre “Acid Phase”, è tra i pezzi più amati del produttore francese. Pubblicato in origine nel 1994, si sviluppa su un crescendo ritmico costantemente graffiato da unghiate di TB-303 in cui trova alloggio uno spoken word di Jim Morrison (“the music was new, black, polished chrome and came over the summer like liquid night”, da “Black Polished Chrome” presente nell’album “An American Prayer”). Il ’97 vede l’uscita di due remix, quello acid trance dei tedeschi Future Breeze, all’apice del successo commerciale con la hit “Why Don’t You Dance With Me”, e quello hypno trance di Massimo Vivona, italiano trapiantato in Germania diventato noto con le pubblicazioni su Headzone. Non sappiamo se Ricci intendesse segnalare la versione originale o uno di questi remix a cui nel tempo se ne aggiungono ancora altri tra cui quelli di Thomas P. Heckmann e di Samuel L Session.

(Giosuè Impellizzeri)

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Molecular Recordings, la chimica dell’amore per la techno

“A molecule is the smallest particle of substance that exhibits the chemical properties of that substance. Molecules are group of ARTISTS held together by chemical bonds.Each molecule of a given substance contains the same number and kinds of atoms. In a chemical REACTION (303 programmation) the bonds are broken and rearrangements of atom takes place to form new substances (ACID TRACKS). The number of atom in molecules ranges from two to hundreds or thousands. Examples thereafter range up to huge UNKNOWN molecules with many thousands of atoms”.

La storia della Molecular Recordings inizia con queste poche righe informative stampate su un semplice foglio A4 infilato nelle white label promozionali di un 10″. È il 1996, la techno vive ancora un buon momento anche se, a posteriori, la seconda metà degli anni Novanta si configurerà come un periodo creativamente discendente. A tal proposito Claudia Attimonelli scrive in “Techno: Ritmi Afrofuturisti”: «Il 1995 viene considerato l’apice della techno. Da questo momento in poi, secondo molti, la techno non si sarebbe più evoluta ripetendosi in stilemi stereotipati». Per la Molecular Recordings il credo principale risiede proprio nella techno. A fondarla sono due italiani, Marco Lenzi e Marco D’Arcangelo. Il primo, nato a Livorno ma cresciuto a Roma, entra in contatto con la musica elettronica mediante alcuni dischi di suo padre, un ingegnere della NASA. Stockhausen, Henry, Ligeti ed altri compositori simili gli aprono le porte di nuove tecniche di composizione e di sperimentazione sonora. D’Arcangelo invece, romano, produce musica col fratello (gemello) Fabrizio, prima per etichette nostrane (Hot Trax, Disturbance) e poi per altre estere come la canadese Suction Records di Solvent e Lowfish e la britannica Rephlex di Richard D. James e Grant Wilson-Claridge. I due però, curiosamente, non stringono la partnership in Italia bensì a Londra, dove Lenzi vive sin dal 1988. Come racconta qui D’Arcangelo, si incontrano nel ’94 nel negozio di dischi di cui Lenzi è tra i soci fondatori, Silverfish, in Charing Cross Road. Lì decidono di creare la Molecular Recordings.

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Sopra la prima pubblicazione su Molecular Recordings, il 10″ degli Intemolecular Forces. Sotto il foglio descrittivo che accompagna le copie promozionali

1996, il primo anno d’attività
Nata tra le mura di Silverfish, negozio di dischi londinese fondato nel ’91, la Molecular Recordings si rende operativa attraverso la musica dei suoi stessi fondatori. Marco Lenzi e Marco D’Arcangelo creano il progetto Intermolecular Forces a cui si aggiunge anche il fratello di quest’ultimo, Fabrizio. Il primo del catalogo è un 10″ contenente due brani, “Ion” ed “Electron”, a cui fanno seguito quattro EP (“Raw Mini”, “Attramol”, “The Test” ed “Encore”), tutti firmati Intermolecular Forces e saldamente ancorati al ramo dell’acid techno. Poi il gruppo viene implementato. Il primo a fare ingresso è DJ Bone, da Detroit, con “Electronic Birth EP” in cui la techno sfuma nell’electro. Seguono “Alliance EP” di DJ Lukas (lo svizzero Luca Tavaglione noto anche come Raimond Ford, qualche anno dopo nei Racket Knight di cui abbiamo parlato qui, insieme a Walter Albini e Massimo Cominotto) e “Urban Society EP” del britannico Inigo Kennedy. Quindi è la volta dei remix di “Metoh” dei Monomorph alias i fratelli D’Arcangelo, un brano uscito l’anno prima sulla Sphere Records a cui ora mettono mano Kelli Hand, pure lei da Detroit, e Jim Eliot. Infine “010 EP” ancora degli Intermolecular Forces.

1997, un anno di transizione
Il 1997 si apre col disco di Zombie Assassin a cui fa seguito “Electron Opaque” attraverso cui i già citati Tavaglione ed Albini danno vita ai D-Ex. La loro techno prende le mosse dal detroitismo millsiano e si inserisce a pieno titolo in quel filone che britannici, come Mark Broom, Luke Slater, Neil Landstrumm, Justin Berkovi, Dave Tarrida, Chris McCormack, James Ruskin, Oliver Ho, Surgeon, Ben Sims, Dave Angel e Ben Long, giusto per citarne alcuni, percorrono incessantemente in quegli anni. In “Amplitudal Vibration EP”, a cui partecipa Guido Gaule, gli Intermolecular Forces rivelano un istinto più groovy iniziando a perdere i connotati acidi di partenza. Sono appena tre le uscite nel ’97 contro le dieci dell’anno precedente, e le cose non cambieranno molto in futuro.

Monomorph - Technomorphine EP

“Technomorphine EP” dei Monomorph sigla la ritrovata collaborazione tra i fratelli D’Arcangelo e la Molecular Recordings

1998, quando la techno “circolare” prende il sopravvento
Archiviate le origini acid, la Molecular Recordings prosegue il cammino supportando una techno figlia del loopismo più ipnotico in stile Basic Channel, che marcia a BPM serrati e con poche variazioni sul tema. Torna a farsi sentire Inigo Kennedy (che da lì a poco lancerà la sua Asymmetric) con “Spatial EP” e “Techniques EP”, e i fratelli D’Arcangelo con “Technomorphine EP” firmato Monomorph. Poi tocca ai D-Ex che palesano l’aderenza al segmento groovy prima con “Micro” e “Macro”, realizzate con Lenzi, e poi con “Chain Reaction EP”, in formato doppio mix. Nel 1998 nasce anche la XX, serie in edizione limitata a 500 copie priva di titoli ed indicazioni sull’autore. Appena cinque le pubblicazioni (due del ’98, altrettante del ’99, ed una del 2000).

Chris Liebing - Koller

“Koller” è il primo dei due dischi che Chris Liebing realizza per la Molecular Recordings

1999, la famiglia continua ad allargarsi
Nel ’99 in casa Molecular Recordings giunge un nuovo artista destinato a diventare molto popolare negli anni a seguire, Chris Liebing. Alle spalle il DJ originario di Francoforte sul Meno ha già diverse produzioni su Fine Audio Recordings e Primate Recordings, oltre ad alcuni remix che lo aiutano sensibilmente a mettersi in evidenza, su tutti quelli di “Breakthrough” e “Huri-Khan” realizzati rispettivamente per Sven Väth e per gli Storm di cui abbiamo parlato qui. Il disco, firmato con le sole iniziali anagrafiche, CL, si intitola “Koller” ed è realizzato insieme all’inseparabile Andrew Wooden, suo partner in vari act come Stigmata. Poi tornano i D-Ex con “Drum Attack EP” ma il progetto più rilevante ed ambizioso dell’anno è senza dubbio il primo volume della “Bio Molecular Rhythms”, compilation con cui la label approda ad un nuovo formato, il CD. La raccolta conta su dieci tracce firmate da nomi di tutto rispetto, da Regis a Jay Denham, da Umek agli Spacecops e Chris Liebing con l’esclusiva “Tiktak”, passando per i tedeschi Andrew Richley & Ryan Rivera (già noti come Tesox) e i giapponesi DJ Shufflemaster & Chester Beatty. Particolarità del progetto è la presenza di ben cento loop, encodati in formato WAV ed estraibili attraverso il computer. Un concept analogo ma riversato su 12″ conta invece trentasei locked groove programmati da altri DJ come Ben Long, Jamie Bissmire, Gadget, Colin McBean e Nils Hess. Due gli italiani coinvolti, oltre a Lenzi: Davide Squillace e Gaetek ossia Gaetano Parisio. A distribuire sia la compilation su CD che la raccolta di locked groove, è la Integrale Muzique Limited di Birmingham che prende il posto della Intergroove.

Bio Molecular Rhythms

I tre volumi della compilation “Bio Molecular Rhythms”

2000, un anno sotto il segno dell’hardgroove
L’atteso nuovo secolo/millennio porta alla Molecular Recordings un nuovo nome, quello dell’olandese Jeroen Schrijvershof (oggi prevalentemente attivo come Jeroen Search), già noto come DJ Groovehead e spesso in coppia con DJ Misjah sulla sua X-Trax. Due i brani racchiusi sul 10″ di “Many Ways To Go”. Quattro invece i tool radunati in “Locke” con cui Chris Liebing raddoppia la presenza sulla label inglese. Anche Colin McBean, che ha lasciato al solo Cisco Ferreira le redini di The Advent, incide un disco per Molecular Recordings, “The Outcast”, uno dei primi firmati Halcyon Daze. Il progetto locked groove viene portato avanti da Inigo Kennedy & Marco Lenzi mentre il secondo atto della “Bio Molecular Rhythms”, contenente altri cento loop in formato WAV, conferma la propensione a battere il percorso dell’hardgroove con artisti del calibro di Jamie Bissmire dei Bandulu, Access 58, Richard Harvey, Oliver Ho, Diversion Group (ovvero Surgeon, Regis e Female) e Clemens Neufeld, senza dimenticare remixer d’eccezione come Claude Young e Pacou.

2001, techno vs tech house
Nei primi mesi del 2001 esce “El Robo EP” di Marco Lenzi, un disco dedicato al padre che contiene due tracce prive di titoli e sei locked groove. Sia per stile che concept, la release rammenta il modus operandi adottato in quel periodo dai DJ napoletani (Carola, Parisio, Vigorito, Cerrone, Markantonio, Squillace) in progressiva ascesa all’estero. Una techno meno funky e più squadrata si ritrova invece in “Elevation Seven EP” di Inigo Kennedy, mentre strutture “rotonde” con un retrogusto tech house caratterizzano “Searchin’ EP” di Halcyon Daze. A metà strada tra questi due mondi si ritrova “Cold Sweat / Unbreakable” dello scozzese Andrew McLauchlan, reduce del successo ottenuto l’anno prima con la latineggiante “Love Story” edita dalla Bush. È tempo anche per il terzo (ed ultimo) volume della “Bio Molecular Rhythms” che questa volta annovera, tra gli altri, Claude Young, Jeff Mills e la coppia Adam Beyer/Marco Carola. Inalterata la ricca porzione di loop (cento, come nei precedenti volumi) estraibili attraverso il PC.

Marco Lenzi - Distance

“Distance” di Marco Lenzi è l’ultimo disco edito su Molecular Recordings nel 2005

2002-2005, gli ultimi anni di attività
Con un ritmo operativo che va progressivamente perdendo intensità, la Molecular Recordings apre il 2002 con un 12″ realizzato in cooperazione con la tedesca Fine Audio Recordings. Su un lato due brani della coppia Michael Burkat/Lars Klein, sull’altro Marco Lenzi in solitaria con “Smooth Transition”, un tool groovoide. È l’unica uscita dell’anno, escludendo la nuova tornata di locked groove. Appena una pubblicazione anche nel 2003, “Taboo” di Lenzi, vigorosa techno funky irrobustita da Oliver Ho nel suo remix. Ormai rimasto da solo alla guida dell’etichetta, Lenzi pubblica “Take It Away” nella primavera del 2004, in cui sposa techno, tech house e riferimenti progressive house. Qualche mese più tardi ritorna con “The Riddler”, questa volta insieme al brasiliano Anderson Noise. L’ultimo, il venticinquesimo, è “Distance”, sempre di Lenzi ed uscito nel 2005. La title track si infila nel corridoio dell’hardgroove, “Hotspot” è house-friendly ed è oggetto di due reinterpretazioni ad opera di Danilo Vigorito: nella prima il DJ campano elabora il ritmo con inserti tribali, nella seconda concede spazio a quel tipico layout audio (si sentano “Imaginary Boy”, “Grid” o “Heat”) che rende la techno partenopea unica tra la fine anni Novanta e primi Duemila.

Marco Lenzi in studio (2000 circa)

Marco Lenzi in studio nel 2000 circa

La testimonianza di Marco Lenzi

Cosa ricordi del momento in cui decidesti, insieme a Marco D’Arcangelo, di fondare un’etichetta discografica?
A Londra si viveva un periodo particolarmente fertile per la musica elettronica, soprattutto la techno. Lavorando da Silverfish, che era diventato un autentico punto di riferimento per svariati artisti, anche internazionali, maturai l’idea di creare una casa discografica che potesse in qualche modo rappresentare la mia idea di techno. Marco sposò in pieno il progetto e insieme ideammo il nome, Molecular Recordings, sviluppato da un concetto legato ad atomi e molecole paragonati a suoni e persone che ruotavano intorno al nostro genere musicale di riferimento.

Silverfish (1994 circa)

Una foto scattata intorno al 1994 svela l’interno del Silverfish

Riguardo Silverfish invece?
Silverfish era un negozio di dischi situato in Charing Cross Road, fondato da me, il compianto Alex Oppido (meglio noto come DJ Lowenbandiger, nda) e i fratelli Nils ed Hans Hess. Era un locale abbastanza alternativo per i tempi, provvisto di uno smart bar ed una art gallery in cui piazzavamo opere di artisti emergenti in qualche modo connessi alla musica. Oltre ovviamente ad una sostanziosa selezione di dischi, in prevalenza house e techno (all’epoca non esistevano così tante sottocategorie come oggi). Tra i clienti c’erano Sven Väth, Claude Young e Jeff Mills, quando erano a Londra facevano sempre un salto da noi, ma anche tanti DJ del posto come Ben Sims, Aphex Twin e davvero tantissimi altri. Durante il weekend spostavamo gli scompartimenti coi dischi e gli accessori per creare uno spazio più grande dove organizzavamo piccole serate come quelle della Rephlex, a cui partecipavano cento/centocinquanta persone al massimo. Non era certamente paragonabile ad un club ma garantisco che il clima all’interno fosse quello giusto. Al piano superiore, infine, c’era l’ufficio della distribuzione dell’Underground Resistance: molto spesso i ragazzi che lavoravano lì venivano in negozio a lasciarci promo ed anteprime.

Che budget era necessario ai tempi per iniziare un’attività discografica di quel tipo?
Se ben ricordo servirono 800 sterline per le tirature iniziali limitate a 1000 copie. Ad aiutarci a stampare i primi dischi del catalogo fu la Wasp Distribution. Solo qualche anno più tardi registrammo l’etichetta presso la MCPS (Mechanical-Copyright Protection Society).

Le prime uscite sono tutte vostre, firmate Intermolecular Forces. Con quali strumenti realizzaste quegli EP?
Il primo fu un 10″: ci piaceva l’idea di esordire utilizzando un supporto leggermente diverso dal classico 12″. Sopra erano incisi due brani realizzati esclusivamente in analogico usando una Roland TR-606 ed una Roland TB-303 con effetti a pedale. Registrammo a casa di Jason Mendonca, l’attuale frontman degli Akercocke, e di Bob Bailey della Zero Tolerance: entrambi ai tempi erano protagonisti della scena hard techno molto attiva in quel di Brixton presso il VFM (Value For Money). Non avevamo nessuno studio però, i pezzi li incidemmo utilizzando un DAT portatile che Marco portò con sé quando si trasferì a Londra, dopo aver realizzato i primi EP di Automatic Sound Unlimited con Max Durante (di cui parliamo qui, nda) sulla Hot Trax, dischi che peraltro vendemmo da Silverfish.

L’idea iniziale era creare una piattaforma per autosovvenzionare i propri dischi o avevate già messo in cantiere l’ipotesi di investire tempo e denaro anche sulla musica di altri artisti?
In principio volevamo stampare e distribuire materiale realizzato da noi ma comunque con l’ambizione di crescere, anche nell’aspetto qualitativo. Se le cose sarebbero andate per il verso giusto avremmo ampliato il progetto aprendo la possibilità a collaborazioni esterne, cosa che effettivamente avvenne.

I primi ad entrare nella Molecular Recordings sono stati DJ Bone, da Detroit, lo svizzero DJ Lukas e il britannico Inigo Kennedy. Furono loro a mandarvi delle demo o voi ad avanzare la proposta di collaborazione?
A metterci in contatto con DJ Bone fu un amico comune. A quel punto Eric ci fece recapitare una cassetta coi brani e decidemmo di pubblicarli, dando ufficialmente avvio alla sua carriera discografica visto che “Electronic Birth EP” è il primo disco in assoluto che lui abbia inciso. Con Tavaglione invece fu un po’ diverso: eravamo già amici da tempo e quando sentimmo le sue nuove produzioni gli offrimmo il contratto per uscire anche con noi. Con Inigo Kennedy, infine, avvenne quasi per caso. Lui era uno dei clienti del negozio e un giorno mi lasciò una demo tape con vari inediti. Da quel momento divenne un grande amico ma anche uno degli artisti principali della Molecular Recordings.

Chi si celava dietro il nome Zombie Assassin?
Gary Griffith e Leon Thomson, meglio noti come Holy Ghost Inc., che nel 1991 raccolsero particolare successo con “Mad Monks On Zinc”, diventato ormai un classico. Dal 1996 iniziarono a collaborare con la berlinese Tresor. Thomson era un amico di una mia ex che all’epoca lavorava per MTV e che ci presentò durante un party. Ci conoscevamo reciprocamente solo di nome ma dopo appena una manciata di minuti eravamo già a parlare di musica e dischi come due vecchi amici.

Lenzi & Marco D'Arcangelo (2000 circa)

Marco D’Arcangelo e Marco Lenzi immortalati in una foto del 2000 circa davanti ad Eukatech Records, il negozio di dischi londinese che raccoglie l’eredità del Silverfish

Nel 1996 pubblicate ben dieci dischi ma dall’anno successivo la frequenza di uscite inizia a calare e proseguirà con un ritmo altalenante. Come mai?
In quel periodo ci fu una scissione tra il Silverfish e la nuova gestione arrivata dalla Germania capitanata dalla UCMG che ci diede nuovi spazi, dove aprimmo il negozio Eukatech Records e un ufficio di rappresentanza per gestire meglio sia l’attività produttiva che quella distributiva. Tutto ciò comportò un grande lavoro e purtroppo mancò il tempo per elaborare nuove cose destinate a Molecular Recordings.

Quante copie vendeva, mediamente, ogni 12″ edito da Molecular Recordings?
Con le prime quattro uscite ci fermammo, come anticipavo prima, alla soglia delle 1000 copie cadauna col supporto di Intergroove. Vendevamo la metà alla tedesca Neuton cercando di piazzare il resto aiutandoci coi contatti personali ed ovviamente col negozio. Quando giunsero i nuovi distributori, la Integrale Muzique Limited di Birmingham e la tedesca EFA, le cose cambiarono in meglio. Vendevamo in media 3000/4000 copie ad uscita, alcune molto di più ma erano solo eccezioni.

Qual è il bestseller del catalogo?
“Koller” di CL (Chris Liebing): non facevamo a tempo a ristamparlo che giungevano altre richieste. Alla fine vendemmo 18.000 copie col supporto della EFA che solo in Germania ne piazzò oltre 10.000. Anche il secondo disco di Liebing, “Locke”, andò bene, toccando la soglia delle 14.000 copie. Dischi veri, mica download o streaming come oggi.

Nel 1999 Molecular Recordings approda ad un formato ai tempi ancora poco sfruttato dai DJ, specialmente in ambito techno, il CD. Quali furono le ragioni che vi spinsero a cimentarvi nelle compilation, attraverso i tre volumi di “Bio Molecular Rhythms”?
Senza dubbio il mercato. Le compilation erano tanto richieste e le grandi distribuzioni, come Virgin e Tower Records, riuscivano a venderne veramente moltissime. Tuttavia anche in questo caso c’era la voglia di differenziarci offrendo un prodotto diverso dal solito, e così inventammo i “Bio Molecular Rhythms”, che sposavano in pieno la filosofia Molecular Records seppur fossero destinati più all’ascolto che al DJing.

Perché inseriste cento loop (in formato WAV) in ogni volume?
In circolazione c’erano parecchi CD con librerie di loop, solitamente acquistati dai neofiti che volevano approcciare alla composizione. Con quella trovata desideravamo incoraggiare la creatività di chi seguiva la nostra etichetta, offrendo loop in regalo.

L’operazione era forse connessa ai tre 12″ di locked groove contrassegnati col catalogo MOL LG?
L’idea della MOL LG (ossia Molecular Locked Groove) fu mia: volevo creare dei tool per i DJ che suonavano con tre giradischi. Si trattò di una serie limitata, ne stampavo appena 300 copie per recuperare almeno le spese di pressaggio.

Nel 1998 viene lanciata la serie XX, contraddistinta dall’edizione limitata ma soprattutto dall’assenza di titoli e riferimenti all’autore. Quali ragioni dettarono tale scelta? Ad ormai venti anni di distanza dall’ultima uscita XX, puoi rivelare gli autori ed eventualmente confermare se quelli riportati da Discogs siano veritieri?
La serie XX nacque per promuovere una techno più particolare ma soprattutto per lasciare carta bianca agli artisti, liberi di esprimersi e sperimentare al 100%. Decisi di non apporre alcun nome affinché la musica parlasse da sola, senza “introduzioni”. Il primo era di Inigo Kennedy, il secondo e il terzo miei, il quarto mio e di Inigo Kennedy e il quinto ancora di Kennedy. In dirittura d’arrivo c’è il sesto.

Nel corso degli anni il roster artistico dell’etichetta si amplia. C’è stato qualcuno che avresti voluto ospitare ma che per qualche ragione è rimasto escluso?
La lista, purtroppo, è parecchio lunga.

Che tipo di relazione allacciaste con gli artisti napoletani?
Li ho sempre rispettati perché capaci di creare un sound molto interessante quanto particolare. Conobbi Marco Carola e Gaetano Parisio tramite Andrea Benedetti che importava dalla ELP Medien la Design Music. Da quel momento intrecciai ottime relazioni con loro, specialmente con Carola che vedevo spesso quando abitava a Londra. Sia lui che Parisio erano di casa ad Eukatech, dove ho costantemente spinto la loro musica sin dall’inizio. In seguito coinvolsi su Molecular Recordings anche un altro napoletano, Danilo Vigorito.

Eukatech Records, negozio di dischi che apri insieme a Nils ed Hans Hess nel cuore di Covent Garden e che raccoglie l’eredità del Silverfish, è legato all’omonima etichetta discografica lanciata nel 1995 (a cui poi si aggiungono la Eukahouse e la Eukabreaks per coprire rispettivamente segmenti stilistici house e breaks). C’era un rapporto tra la Molecular Recordings e la Eukatech o erano due progetti che correvano su binari paralleli?
La nostra era una famiglia ed anche le etichette finirono con l’imparentarsi in qualche modo. Hans e Nils però viaggiavano più sulla house, io continuavo a propendere per la techno quindi direi che, seppur raccolti sotto lo stesso tetto, fossero progetti paralleli senza intersecazioni.

Qual è stato il momento più emozionante e gratificante raggiunto con la Molecular Recordings?
Senza dubbio quando il leggendario John Peel suonò la serie XX nel suo programma radiofonico su BBC.

Sino a quando hai gestito l’etichetta con Marco D’Arcangelo?
Nel 1996 Marco e Fabrizio si legarono alla Rephlex ed iniziarono a concentrare i loro sforzi su uscite più IDM o braindance, come quella musica fu definita più tardi. Per forza di cose Marco si interessò meno a Molecular Recordings ma quando possibile abbiamo mantenuto attiva la collaborazione, e il “Technomorphine EP” di Monomorph, del 1998, lo testimonia. Nel ’95 demmo avvio anche ad un’etichetta che in catalogo conta appena un’uscita, la Sphere Records. I due brani di Monomorph lì incisi, “Metoh” ed “Hyperlight” li ripubblicammo l’anno dopo su Molecular Recordings in due remix a firma Jim Eliot e Kelli Hand.

Molecular Recordings si ferma nel 2005: quali furono le ragioni che ti convinsero a smettere?
Avvenne quando Eukatech chiuse a causa di motivi finanziari. Da un giorno all’altro raddoppiò il canone di affitto e nel contempo, con la diffusione di internet e dei formati digitali, i dischi non si vendevano più come una volta. Decidemmo quindi di abbassare la saracinesca. Nel frattempo divenni papà di due bambine ed ho dovuto trovare un’altra occupazione, completamente diversa, in una banca d’investimento. A quel punto il lavoro e le figlie assorbirono totalmente il mio tempo.

Da anni sul sito della label si legge “opens feb 2010”. Hai annunciato un possibile rilancio anche attraverso la tua biografia su Resident Advisor e credo ci siano finalmente novità su tal fronte.
Esattamente, siamo ripartiti giusto da un paio di mesi rilanciando in digitale alcune uscite del catalogo su Bandcamp, visto che i brani del repertorio Molecular Recordings non sono mai stati disponibili in formato liquido. Nel contempo stiamo finalizzando l’accordo con un distributore per qualche pubblicazione su vinile. Abbiamo già quattro release pronte, due nuovi capitoli della serie XX e i remix della mia “Taboo”, uscita originariamente nel 2003 ed adesso rimaneggiata da Lory D, Jeroen Search, Davide Squillace, Leo Anibaldi, Florian Meindl ed Anderson Noise.

Come vorresti che fosse ricordata la Molecular Recordings tra qualche decennio?
Come una delle etichette techno londinesi più all’avanguardia.

(Giosuè Impellizzeri)

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Max Durante – DJ chart marzo 1994

Max Durante, Tunnel, marzo 1994

DJ: Max Durante
Fonte: Tunnel
Data: marzo 1994

1) Biochip C. – Limited Edition
Edizione chiaramente limitata (e il titolo fuga ogni dubbio) quella che Martin Damm affida alla Force Inc. Limited, “sorella” della Force Inc. Music Works di Achim Szepanski. Quattro i brani incisi sul 12″, tutti untitled, in cui l’artista leviga la sua techno sperimentalista dalla filigrana intenzionalmente low-fi, alternando sapientemente beat spezzati (A2) a canoniche misure in 4/4 (B1), toccando in alcuni punti ambientazioni trancey (B2) e gorghi di forsennata acidcore.

2) ADSX – Introducing DSL
Andre Fischer alias Audiosex, qui ulteriormente trincerato dietro l’acronimo ADSX, è uno dei primi in Germania a dedicarsi alle diverse sfumature che assume la dance elettronica negli anni Novanta. La sua serrata attività produttiva contrassegnata da una copiosa lista di alias abbraccia techno, trance ed acid ma talvolta si spinge sino a lambire sponde braindance, proprio come accade in questo 12″ autoprodotto sulla propria Injection Records tornata recentemente in attività sul fronte digitale. “DSL 25” e “DSL 26” si sviluppano sul medesimo costrutto: una linea melodica ambientale graffiata da un battente broken beat dalle venature distorte, con un effetto finale che potrebbe ricordare l’Aphex Twin di quel periodo (e l’uso dell’acronimo ADSX ammiccherebbe coerentemente a quello usato da James, AFX). Sul disco, oltre a brevi interludi, si rinviene anche il remix di “DSL 25” a firma di un decano dell’acid techno teutonica, Rob Acid.

3) Drexciya – Molecular Enhancement
In perpetuo bilico tra electro e techno, il suono di Drexciya è tra i più peculiari e distintivi che la scena underground americana abbia mai generato. “Molecular Enhancement”, terzo disco del misterioso progetto le cui coordinate biografiche diventano più nitide solo nel 2002 quando uno dei due componenti, James Stinson, muore prematuramente, si muove su matrici soniche letteralmente stranianti. “Intensified Magnetron” ed “Hydro Cubes”, con abrasivi bassline ben piantati in trainanti telai ritmici, sembrano continuare il discorso lasciato in sospeso da un EP uscito un paio di anni prima ma firmato con uno pseudonimo diverso, L.A.M., (“Balance Of Terror”, 1992) mentre “Antivapor Waves” ed “Aquatic Bata Particles” aggiungono ulteriori dettagli genomici alla mitologica produzione drexciyana diventata punto di partenza per un numero indefinito di epigoni sparsi in tutto il globo e a cui è stato meritatamente dedicato un libro illustrato da Abu Qadim Haqq, presentato in anteprima in Italia un paio di mesi addietro. Il disco viene pubblicato nel 1994 dalla Rephlex su licenza della Underground Resistance ma riappare l’anno seguente su Submerge con due ulteriori tracce, “Anti-Beats” e “Bata-Pumps”.

4) Mike Dearborn – ? / Storm – Storm
Sembra un pari merito quello che Durante piazza al quarto posto della sua classifica. Entrambi gli artisti vengono d’oltreoceano (Mike Dearborn, uno dei protagonisti della seconda ondata di Chicago, e Steve Stoll sotto uno dei numerosi pseudonimi, Storm) e ad accomunarli è il logo della Djax-Up-Beats di Miss Djax. Purtroppo non aver specificato il titolo del primo non permette l’identificazione certa ma solo l’avanzamento di congetture. Potrebbe trattarsi di “Chaotic State” o forse del più agitato “Unpredictable”. Altrettanto tagliente è la musica di Stoll, che prima concede spazio alle sincopi (“Cloud Fall”) e poi si immerge nel turbinio minimalista di “Halo”, pigiando il pedale dell’acceleratore con “Carbon Fury” e chiudendo con un’acid techno lambiccante (“Radio Dust”), trademark dell’etichetta olandese della bella Saskia Slegers ricordata anche per gli eccelsi artwork a firma Alan Oldham.

5) Automatic Sound Unlimited – Tu*4*Bx/0 = E.P.01 + Tu*4*Bx/2 = E.P.02
Edito dalla Hot Trax, sublabel della più nota ACV, questo doppio EP mette ulteriormente in risalto le doti compositive degli Automatic Sound Unlimited, terzetto formato da Max Durante e dai gemelli Fabrizio e Marco D’Arcangelo, di cui abbiamo già parlato dettagliatamente qui qualche anno fa. Facendo tesoro della lezione del futurista Luigi Russolo, il team capitolino esalta il rumorismo intrecciandolo con maestria ad una techno dura, scarnificata e ai confini col noise hardcorizzato (“Reflection”, “Index System”, “Psychout”, “Damaging Of A 303”, “Synthetic Material”). I sobbalzi della cassa incorniciano atmosfere tetre, demoniache e plumbee (“Logout”, “Daemons Init”) e rivoli acidi (“Tu*4*Bx”, “Workmen”, “Matrix A.S.U.”). Un disco-macigno, rimasto insieme ad altri di quel periodo a testimonianza di quanto fosse profondo e viscerale il rapporto tra Roma e la techno.

6) Biochip C. – Freedom 7 / Jammin’ Unit & Walker – Rudolph Valentino
Un secondo pari merito: da un lato “Freedom 7” del già menzionato Biochip C., alle prese con l’acid selvaggia di “The Mindclearer” e con l’altrettanto animalesco “Untitled” inciso sul lato b, dall’altro Jammin’ Unit & Walker, che ritroveremo poco più avanti come Air Liquide, con altri due pezzi senza titolo a rappresentare vigorose e sfibranti spirali acid techno. Entrambi i dischi sono editi dalla Propulsion 285, piccola etichetta fondata da Ingmar Koch rimasta attiva per appena cinque uscite, tutte del 1993.

7) 303 Nation – ?
L’assenza del titolo impedisce di stabilire con esattezza a quale disco Max Durante qui si riferisca, ma in base al periodo è fattibile ipotizzare che fosse “Strobe Jams II” o “Strobe Jams III”, entrambi editi dalla Dance Ecstasy 2001. Il duo, di stanza a Francoforte e formato da Fernando Sanchez e Patrick Vuillaume, rientra tra i grandi virtuosi del “303 sound” ma a causa della scarsa operatività (appena cinque i dischi incisi, tra 1992 e 1994) finisce immeritatamente nell’oblio. Val la pena rimarcare la presenza dei 303 Nation nel primo volume della “Outer Space Communications”, indimenticata serie di compilation della barese Disturbance (gruppo Minus Habens) di Ivan Iusco, intervistato qui.

8) Mono Junk – Mono Junk
Kim Rapatti è uno dei personaggi-chiave della scena techno finlandese. Autosostenutosi attraverso la sua Dum Records, si ritaglia meritevolmente un posto nel frenetico mercato europeo catalizzando pian piano l’attenzione di altre etichette come la Trope Recordings di Thomas P. Heckmann, a Magonza, che assembla un EP di inediti e qualche traccia ripescata proprio dal catalogo Dum. I brani di Rapatti riflettono un’estetica minimalista, con pochi suoni, stesure alternate tra 4/4 e ritmi spezzati ed intrusioni acide. Qui si passa dai beat battaglieri di “Psycho Kick” ai geometrismi di “I’m Okey”, dai gorghi tranceggianti di “Beyond The Darkness” ed “Osaka House” per finire alle spavalderie acide compresse in “Sweet Bassline” ed “Another Acid”. Una gallery audio di quelle che sono le principali ispirazioni dell’artista finnico, tuttora attivo e ricordato anche per l’avventura New York City Survivors condivisa con Irwin Berg.

9) Kinesthesia – German
“German” è uno dei brani inclusi nel primo volume che Chris Jeffs realizza come Kinesthesia affidandolo ad un’etichetta d’eccezione, la Rephlex. A neanche diciotto anni il britannico si rivela capace di costruire una techno dalle tinte astrattiste, dai rintocchi industriali e virata IDM nelle restanti tracce dell’EP (“Kobal”, “4J” e “Church Of Pain”, quest’ultima con febbricitanti vampate ravey). Dopo qualche anno ed un’altra manciata di pubblicazioni, Jeffs archivia il progetto Kinesthesia rimpiazzandolo con un altro con cui continuerà la proficua collaborazione con Rephlex, Cylob.

10) Air Liquide – Nephology – The New Religion
Dopo una serie di EP gli Air Liquide (Cem Oral ed Ingmar Koch, da Francoforte sul Meno) incidono i primi album. “Nephology – The New Religion” è il secondo, dopo “Air Liquide”, e sviscera in toto l’abilità dei due nell’assemblare una techno mischiata a fluttuazioni ambient/IDM: è sufficiente ascoltare “Kymnea”, “Stratus Static”, “Semwave” o l’inquietante “Nephology”, da vero girone dantesco, per comprendere quanto la scrittura qui rifugga ogni semplice definizione. Immancabili le svirgolate acide (“THX Is On”), peculiarità fortemente caratterizzante del duo scioltosi nel 2004.

(Giosuè Impellizzeri)

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Automatic Sound Unlimited – Roman’s Attak EP (Hot Trax)

Automatic Sound Unlimited - Roman's Attak EPLa Roma dei primi anni Novanta è una roccaforte della techno. Tra i protagonisti di quella ricca quanto convulsa fase si ricordano gli Automatic Sound Unlimited, un terzetto di accaniti sostenitori di suoni anticonvenzionali per eccellenza: da un lato i fratelli Fabrizio e Marco D’Arcangelo, dall’altro Max Durante. Quello che si consuma sulla Hot Trax, “sorella” della più nota ACV partita nel 1990 con attitudini housey, è un vero e proprio attacco dinamitardo. Nell’extended play i D’Arcangelo e Durante trasferiscono l’energia con cui avevano organizzato il memorabile Plus 8 Rave, tenutosi a Roma nell’ottobre del 1991, che portò per la prima volta in Italia i Cybersonik, F.U.S.E. e Speedy J. Su YouTube si ritrovano varie clip dell’evento tra cui quella in cui Richie Hawtin incita la folla al microfono sulla sequenza di “Pullover”.

«Il “Roman’s Attak EP” fu la nostra prima produzione in assoluto, l’inizio delle nostre carriere come produttori discografici. Fu un lavoro realizzato in team nonostante il credit “scritto da” riportato sui dischi riguardasse solo Fabrizio D’Arcangelo. Finalmente ho la possibilità di spiegare il motivo. Nel 1991 l’unico modo per iscriversi alla S.I.A.E. era come mandanti ed ognuno di noi avrebbe dovuto versare ben 600.000 lire. Il totale di 1.800.000 lire però era una follia, con quella somma avremmo potuto acquistare un nuovo sintetizzatore. Io avevo venti anni, i D’Arcangelo circa ventiquattro, e per noi non era affatto facile disporre di tutto quel denaro quindi decidemmo di versare 200.000 lire a testa per iscrivere solo una persona. Tirammo a sorte ed uscì il nome di Fabrizio, ma in tutta franchezza non ci interessava affatto mostrare i nostri nomi, quel che contava era la musica. Da lì a breve avrei preferito la svizzera SUISA, a cui mi iscrissi (gratuitamente) nel 1994» racconta oggi Max Durante.

Rave XTC

Il flyer del Rave XTC tenutosi presso la maxi-disco Maui a Campagnano (Roma) il 22 giugno 1991

E continua: «Il 22 giugno 1991 mi esibii al Rave XTC presso la Disco Maui dove Steve Lo Presti mi chiese qualche mio brano da far ascoltare alla ACV con cui collaborava. Non avevo ancora nulla di pronto ma gli dissi che stavo iniziando a sperimentare alcune cose. Ai tempi Lo Presti curava anche gli ingaggi dei DJ esteri per vari rave romani analogamente a quanto facevo io con la mia piccola agenzia di booking. Circa quattro mesi più tardi, in occasione del Plus 8 Rave, gli consegnai il demotape. Pochi giorni dopo fummo contattati dall’ACV e firmammo il contratto: erano nati gli Automatic Sound Unlimited».

I fratelli Toni e Ciro Verde, sino a quel momento dediti a tutt’altra musica, decidono di investire in un genere alienante come la techno. Erano realmente interessati a far crescere una scena o intravidero più semplicemente un modo per lucrare a spese della creatività di giovani talenti mossi da passione e disposti anche a rinunciare agli introiti economici pur di veder realizzato il sogno di incidere la propria musica su vinile? «Tutto iniziò con Leo Anibaldi, il primo ad entrare in ACV. Fu proprio lui a spingere Verde verso la techno (seppur il suo disco di debutto, “Italian House”, fosse house come attesta il titolo stesso, nda), poi arrivammo noi e il resto della ciurma. Toni Verde comunque era un vecchio volpone ma la sua ingordigia lo portò presto alla perdita di tutto, compreso noi artisti».

La title track, “Roman’s Attack”, parte con la reinterpretazione ritmica del beat di “We Will Rock You” dei Queen. Ma non aspettatevi una cover. È piuttosto un lancinante turbinio in preda a deliri lisergici, tra spirali pseudo acide, la cassa della TR-909 che picchia (insieme ai rimshot) e quella citazione di Mercury che di tanto in tanto riemerge insieme ad un grido (campionato). “Bit” è la dichiarazione d’intenti: la techno che qui passa in rassegna è di chiara derivazione industriale, per costruzione e soprattutto timbrica. Però più che al “rumore” si tende all’ipnosi da minimalismo, soluzione applicata anche ad “Industrial Spirit”, che scorre su scie oniriche sincronizzate su telai in 4/4. I suoni tornano a stridere, a graffiare e a sciogliersi in un mantra di ritmi spezzati in “Fasten Seat Belt”.

«Entrammo negli studi dell’ACV con grande fomento ed armati di Ensoniq EPS 16+, ma Verde voleva che ci avvalessimo dei loro fonici e dei loro strumenti e ciò rappresentò un vero ostacolo. Il nostro disco doveva essere il frutto della nostra macchina ma ci fu impedito e quindi fummo costretti a ricostruirlo coi loro equipment. Non avendo a disposizione ciò che desideravamo finimmo col perdere quel suono ruvido e dark che ha caratterizzato in seguito le nostre produzioni, ispirate dal futurismo italiano di Luigi Russolo e dal concetto del suono-rumore a cui sono fedelissimo. Litigai col fonico e con Toni Verde ma riuscii a spuntarla: non avremmo più dovuto interfacciarci con nessuno per i dischi successivi. Del “Roman’s Attak EP” furono vendute poco più di mille copie ma con Toni non avevamo mai la certezza che quel che ci riferisse fosse vero al 100%».

Il 1993 vede altri tre dischi degli Automatic Sound Unlimited, tutti su Hot Trax e con quell’immancabile carica di techno/hardcore industrializzata graffiata dall’acid ed abbracciata a riferimenti electro ed IDM. Probabilmente, se Russolo fosse stato ancora vivo, avrebbe apprezzato tutto in modo incondizionato. Nonostante il costante affinamento, sono gli ultimi brani prodotti con quello pseudonimo. «Decisi di trasferirmi a Zurigo nel suo periodo di massimo splendore (dove nel ’93 gli Automatic Sound Unlimited si esibiscono all’Energy, filmati dal belga Vdd Energize aka Phil Moon in questa rara clip, nda). Ero stanco di Roma, dell’Italia e dell’ACV di Toni Verde, con cui tra l’altro litigai pesantemente. Non ne potevo più del sistema discografico italiano e delle distribuzioni corrotte. Con somma tristezza decidemmo di comune accordo di separarci. Verde era diventato sinonimo di “galera”: eravamo liberi di esprimerci ma non padroni della nostra musica visti i vincoli contrattuali. Lui stava creando un vero impero ma non volevo sottostare alle sue regole e al suo vile operato. Quando chiesi la risoluzione del contratto ho dovuto attendere anni per la liberatoria. Per giunta tra le clausole c’era anche il diritto sul nome: Automatic Sound Unlimited rimaneva di “proprietà” della ACV. Quella situazione mi disgustò al punto da allontanarmi per qualche anno dal mercato discografico». Per questa ragione alcuni demo destinati ad ACV rimangono nel cassetto. «Si trattava di tracce realizzate come Automatic Sound Unlimited, alcune vennero reinterpretate dai D’Arcangelo per prodotti che pubblicarono sotto diversi pseudonimi, altre invece rimasero confinate nel DAT, perlopiù erano esperimenti».

Plus 8 Rave

Il flyer del Plus 8 Rave, svoltosi a Roma il 26 ottobre 1991

ACV prosegue sino al 1997 circa ma il clima della Roma caput (rave) mundi va pian piano eclissandosi, mentre il Plus 8 Rave del 1991 inizia ad essere il simbolo di qualcosa irrimediabilmente perduta. «Ricordo tutto come se fosse ieri. Più che un evento fu una grande emozione, un figlio. Volevo ricreare a Roma eventi mai visti nel nostro Paese, come gli acid party e i rave londinesi. Tramite varie riviste pazientemente raccolte durante ogni “trasferta” oltremanica, trovammo validi contatti tra cui quello con la Dy-Na-Mix di Eddie Richards e Felipe Rosa. Tornai a Londra con l’amico Massi Piazza alias Dr. Noise per incontrare Rosa che ci mise in contatto con John Acquaviva e Richie Hawtin. Impiegammo oltre sei mesi per organizzare il rave e cercammo soci motivati. Fu proprio in quell’occasione che conobbi i fratelli D’Arcangelo. Io e Massi eravamo molto attivi ed andavamo spesso a Londra per ingaggiare vari artisti per i nostri eventi. A gennaio 1991, ad esempio, organizzammo un prototipo di rave, il Planet Love, insieme ad altri due amici coi quali fondammo la Guys Production, una delle prime agenzie italiane di booking. Tale evento fornì le basi e la spinta necessaria per organizzare, nove mesi più tardi, il Plus 8 Rave, uno dei più grandi rave italiani. Curammo tutto nei minimi dettagli e fu lunga anche la ricerca della location che individuammo presso i Pathe Studios, gli studi cinematografici situati in una zona industriale della città, sulla via Pontina. Nel periodo in cui servivano a noi però stavano girando un film con Paolo Villaggio e parte dello spazio era occupato da un set, quindi fummo costretti ad affittare una immensa tensostruttura poi montata nello spiazzale adiacente gli studi (quella che sul flyer viene chiamata “tenda technologika”, nda). Aspettavamo 2500 persone ed invece ne giunsero circa 9000! C’erano ben 70 buttafuori che riuscirono a domare i raver ma almeno il 30% di loro si intrufolò senza pagare il biglietto. Andò tutto liscio fatta eccezione per Kenny Larkin che non riuscì a venire poiché chiamato pochi giorni prima a svolgere il servizio militare. La riuscita di questo evento segnò la crescita della rave generation romana, quelli della Plus 8 rimasero totalmente stupiti dall’affluenza del pubblico e Speedy J ne parla ancora oggi come un’emozione fortissima difficile da spiegare a parole. Quei giorni vivono ancora nel mio cuore».

Il percorso artistico di Max Durante inizia quindi con una particolare mistura tra techno, acid ed industrial ma poi prende una direzione diversa, più vicina all’electro e al miami bass, suggellata da produzioni su etichette come Plasmek, Psi49net, Electrix, Battery Park Studio e Monotone. Da qualche anno però l’artista è tornato alle origini, come attestano le recenti pubblicazioni su Sonic Groove e Kynant. «Iniziavo a trovare l’electro stilisticamente statica, sentivo il bisogno di rispolverare il suono dark. L’electro è troppo legata a concetti remoti e tutta la scena non vuole evolversi. Basta cambiare un suono per ritrovarsi automaticamente “fuori strada” e questo lo trovo molto noioso e limitante. Ho prodotto musica con Anthony Rother (nel progetto Netzwerk Europa, nda) e con Keith Tucker degli Aux 88, ho militato nella scena electro sin dal 1998 ed ho contribuito alla crescita del movimento ma alla fine era diventata banale routine. Così sono tornato alle distorsioni, alla fusione tra industrial e techno, alle sperimentazioni tra ambient ed influenze EBM, proprio come facevo nei primi anni Novanta ai tempi di Automatic Sound Unlimited. Mi considero un figlio del futuro, nel passato ho sognato un presente migliore ed ora ricerco sonorità dimenticate di ieri per perdermi nelle nuove visioni.

Max Durante a Berlino (2015)

Una recente foto di Max Durante scattata a Berlino nel 2015

Il 20 agosto 2014 ho preso la migliore scelta della mia vita: ho lasciato Roma. A Berlino ho ritrovato lo stesso mood di quando andai a vivere a Zurigo nel 1994, è come un rave che non termina mai. Più che da Roma però, sono scappato dalla mafia che ho visto da vicino ed ho toccato di notte, avendo avuto a che fare con un sistema interamente corrotto. Abitavo ad Ostia, un quartiere che sfocia sul mare, dove il Duce trascorreva le vacanze e dove hanno assassinato Pasolini. Essendo cresciuto lì so che Ostia non è solo un bel quartiere con villette, mare e ristoranti, anzi, non è affatto un luogo turistico ma una piaga sociale, il rifugio delle mafie (calabrese, siciliana, napoletana, romana). Un delirio insomma. Negli anni Novanta invece era tutto diverso, in primis i giovani. Noi eravamo più incazzati, forse con gli stessi problemi di oggi ma con molti sogni e speranze in più. Stanchi del nulla che ci circondava, cominciammo a costruire qualcosa, l’entusiasmo e l’energia non ci mancavano di certo. Purtroppo il sistema, la corruzione e lo Stato ci ha impedito di esplodere, persino la parola “rave” fu bandita. La politica iniziò ad osteggiare la techno bloccandoci proprio sul più bello. Ricordo ancora quando la polizia vietò il Save The Rave, mandando via migliaia di persone e suscitando prevedibilmente la loro ira. Quell’evento segnò la fine di tutto, poi si respirò solo una brutta sensazione di vuoto e di assordante silenzio. Sembrò di vivere il dopoguerra dove ogni cosa era andata distrutta. Se dal 1989 al 1992 Roma venne attraversata da eventi memorabili, dal 1994 in poi tutto degradò ed arrivarono i rave illegali, ma quella è un’altra storia e non ci appartiene affatto.

A rendere magica l’età dei rave fu il concetto di abbattere la barriera del suono, l’esigenza di ampi spazi, la fuga dai club, l’essere apolitico, ateo, multirazziale, colorato ed aperto a tutti, gay, etero, trans, fascisti, comunisti, cristiani, ebrei, musulmani, rockettari, punk e via dicendo. Ogni raver doveva lasciare fuori dalla porta la violenza, la politica, la religione, lo sport, nessuno doveva essere uguale all’altro e non doveva avere le stesse idee. In quel momento nessun’altra cosa aveva importanza come la musica. Un villaggio per una società moderna, un limbo dove nessun clan politico, sportivo o sociale aveva importanza, una tribù con un unico credo, la techno e il ballo. Ogni weekend la gente attendeva il rave come se fosse Natale, un rituale, una cerimonia. Ecco perché gli anni Novanta hanno generato tanta magia ed energia.

Oggi sto cercando di recuperare le spinte creative di allora, convogliando nei miei dischi tutta la furia di quel decennio, tra politica e rivolte sociali. Amo l’Italia, è la Terra dove sono nato, cresciuto ed evoluto come artista, dove ho appreso l’arte e dove ho conosciuto l’amore. Sono orgoglioso di essere romano e fiero degli antichi romani, ma odio il sistema politico italiano, i magnacci e i papponi, un Paese con vecchie leggi e costruito per i vecchi. Mi spiace constatare che quella che trent’anni fa era una fabbrica di emozioni si sia ridotta ad un cumulo di macerie, e tra le vittime anche noi e la nostra musica. In passato sono tornato più volte in Italia ma sempre pentendomi. Rappresentavamo l’avanguardia, ora invece la preistoria. Comunque non può che farmi piacere assistere alla nuova generazione di giovani italiani che, da nord a sud, stanno creando solide realtà techno raccogliendo il nostro testimone. La techno italiana è ancora stimata e i nostri club rappresentano punti di riferimento per artisti internazionali. Penso di aver dato molto al mio Paese ma ora è tempo di pensare a me stesso e crearmi un futuro sereno. Si cresce velocemente e la vita sfugge come sabbia al vento. Ho ancora molto da dire e penso sia giunto il momento di continuare la storia che avevo iniziato nei primi anni Novanta». (Giosuè Impellizzeri)

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Ivan Iusco e la Minus Habens Records: una rara anomalia italiana

Ivan_Iusco“Il Paese della pizza, pasta e mandolino” recita uno dei più vecchi luoghi comuni sull’Italia. Per certi versi è vero ma non bisogna dimenticare che più di qualcuno si è dato attivamente da fare per azzerare o almeno ridurre i soliti pregiudizi. Tra questi Ivan Iusco che alla fine degli anni Ottanta, appena diciassettenne, diventa produttore discografico e crea un’etichetta per musica completamente diversa da quella che il nostro mercato interno prediligeva. Un ribollire di elettronica intellettualista, ambient, dark, industrial, quella che qualche tempo dopo sarebbe stata raccolta sotto la dicitura IDM (acronimo di Intelligent Dance Music) o braindance. Questa era la Minus Habens dei primi anni di intrepida sperimentazione, di registrazioni su cassetta vendute per corrispondenza ed effettuate da artisti che quasi certamente qui da noi non avrebbero trovato molti discografici disposti ad incoraggiare e supportare la propria creatività. Se oltralpe l’IDM viene consacrato da realtà come Warp Records, Apollo, Rephlex e Planet Mu, in Italia la Minus Habens pare non temere rivali. Dalla sua sede a Bari, tra le città probabilmente meno adatte ad alimentare il mito della musica sperimentale, irradia a ritmo serrato la musica di un foltissimo roster artistico che annovera anche band statuarie come Front 242 e Front Line Assembly. Iusco poi nel 1992 vara una sublabel destinata ad incidere a fondo nel sottobosco produttivo dei tempi, la Disturbance, approdo per italiani “molto poco italiani” sul fronte stilistico (Doris Norton, X4U, The Kosmik Twins, Baby B, Monomorph, Astral Body, The Frustrated, Xyrex, Dynamic Wave, T.E.W., Iusco stesso nascosto dietro la sigla It) e lido altrettanto felice per esteri destinati a lasciare il segno, su tutti Aphex Twin, Speedy J ed Uwe Schmidt. I Minus Habens e i Disturbance di quegli anni rappresentano il lato oscuro dell’Italia elettronica, quella adorata e rispettata dagli appassionati e che si presta più che bene per la locuzione latina “nemo propheta in patria”. Nel corso del tempo nascono altri marchi (QBic Records, Lingua, Casaluna Productions, Noseless Records, Betaform Records) che servono a rimarcare nuove traiettorie inclini a trip hop, nu jazz, funk, downtempo e lounge in senso più ampio destinato alla cinematografia anche con episodi cantautorali a cui Minus Habens Records, ormai vicina al trentennale d’attività, ha legato stabilmente la sua immagine. Al contrario di quanto suggerisce il nome (i latini indicavano sarcasticamente minus habens chi fosse dotato di scarsa intelligenza), la label di Ivan Iusco «è rimasta in piedi per un arco di tempo incredibilmente lungo, in cui numerose altre esperienze discografiche indipendenti, anche prestigiose, sono nate, cresciute e decedute», come si legge nel libro “Minus Habens eXperYenZ” del 2012 curato da Alessandro Ludovico, co-fondatore insieme allo stesso Iusco della rivista Neural, magazine pubblicato per la prima volta a novembre 1993 e dedicato a realtà virtuali, tecnologia, fantascienza e musica elettronica. Un’altra di quelle atipiche quanto meravigliose anomalie italiane.

Come e quando scopri la musica elettronica?
La musica elettronica iniziò a sedurmi verso la metà degli anni Ottanta in un percorso che mi portò rapidamente dai Depeche Mode ai Kraftwerk verso i Tangerine Dream, mentre esploravo parallelamente territori più oscuri con l’ascolto di gruppi come Virgin Prunes, Christian Death e Bauhaus per arrivare alle sperimentazioni dei Current 93, Nurse With Wound, Coil, Laibach, Diamanda Galás, Einstürzende Neubauten, Steve Reich, Arvo Pärt, Salvatore Sciarrino e tantissimi altri. Galassie musicali che ho scandagliato a fondo ascoltando migliaia di produzioni sotterranee. Acquistai il mio primo synth all’età di sedici anni.

Come ti sei trasformato da appassionato in compositore?
Non ho mai considerato la musica una passione o un amore ma una ragione di vita, un’entità magica, indispensabile e salvifica. Quando da bambino ascoltai per la prima volta il tema della colonna sonora “Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto” di Ennio Morricone rimasi letteralmente ipnotizzato. Avevo sei anni e quella musica scatenò un terremoto nella mia testa, infatti ricordo ancora con chiarezza dov’ero in quel momento e cosa indossavo. Sono anche certo che aver avuto una nonna pianista e compositrice, oggi 94enne, contribuì a porre la musica al centro di tutto.

La tua prima produzione fu “Big Mother In The Strain” dei Nightmare Lodge, inciso su cassetta nel 1987. Come fu realizzato quell’album?
Considero quel lavoro un’eruzione di idee nebulose, frutto della collaborazione con due amici: Beppe Mazzilli (voce) e Gianni Mantelli (basso elettrico). Non eravamo ancora maggiorenni ma intendevamo valicare barriere innanzitutto culturali. Il nostro approccio era piuttosto anarchico, pur essendo seriamente intenzionati a produrre qualcosa di concreto. Registrammo il nastro nell’estate del 1987 in un piccolissimo studio in una via malfamata di Bari. In quel locale c’era un registratore a quattro tracce, un microfono, due casse, un amplificatore e nient’altro, se non la foto della fidanzata tettona del fonico. Le registrazioni durarono una settimana. Noi portammo un sintetizzatore, un basso elettrico ed una serie di nostre sperimentazioni sonore su nastro effettuate nei mesi precedenti. Gli interventi vocali di Beppe furono registrati nella toilette dello studio, unico ambiente al riparo dal caos proveniente dalla strada. Pubblicai la cassetta nel dicembre del 1987, utilizzando per la prima volta il marchio Minus Habens, in una micro-edizione di cento copie vendute attraverso il passaparola ed una serie di annunci su fanzine specializzate, la via di mezzo fra gli attuali blog e i web magazine.

L’album dei Nightmare Lodge segna anche la nascita della Minus Habens Records, inizialmente una “ghost label” come tu stesso la definisci in questa intervista del marzo 1998. Come ti venne in mente di fondare un’etichetta discografica? Il nome si ispirava a qualcosa in particolare?
In primis l’obiettivo fu diffondere la mia musica ma subito dopo intuii la possibilità di far luce su alcuni artisti italiani e stranieri che meritavano decisamente più attenzione, così cominciai a pubblicare lavori inediti di Sigillum S, Gerstein e i primi album di Teho Teardo. I budget erano molto limitati: 500.000 lire per ogni pubblicazione su cassetta e circa 3.000.000 di lire per il vinile, denaro che agli inizi mi procurai attraverso piccoli prestiti e lavorando nello showroom di una nota clothing company europea. Ero così giovane da non potermi permettere una sede indipendente quindi trasformai una camera della casa dei miei genitori in “quartier generale”. Il nome Minus Habens per me rappresenta la condizione dell’uomo rispetto alla conoscenza: un orizzonte inarrivabile che lo rende eternamente affamato e che svela al tempo stesso l’immensità e forse l’irrilevanza di un percorso senza meta. Lo spazio incolmabile che separa l’uomo dalla conoscenza.

Minus Habens nasce a Bari, città che non compare su nessuna “mappa” quando si parla di un certo tipo di musica elettronica, e che non è neppure alimentata dal mito come Detroit, Chicago, Berlino o Londra. Come organizzasti il tuo lavoro lontano dai canonici punti nevralgici della discografia italiana, in un periodo in cui internet non esisteva ancora? Risiedere in Italia, e in particolare nel meridione, ha mai costituito un problema o impedimento?
Non saprei dire in che misura la mia città natale abbia contribuito al concepimento della Minus Habens. Sono quasi certo che il grande vuoto nell’ambito della musica elettronica offerto da Bari e più in generale dal meridione negli anni Ottanta mi aiutò a covare un sogno e ad avvertire fin da subito un senso di responsabilità, ponendomi davanti ad una missione molto ambiziosa: cambiare le cose. A quei tempi tutto era più lento e macchinoso, i rapporti di corrispondenza avvenivano solo e soltanto attraverso le poste. Giorni e giorni di attesa per il viaggio di lettere scritte a mano o a macchina e pacchi da e verso l’Italia e il mondo. Ma ne valeva la pena: tutto questo alimentava inconsapevolmente il desiderio. Scoprivo di volta in volta le musiche e l’identità di gruppi e musicisti da produrre attraverso cassette, DAT, minidisc, foto, flyer e fanzine che arrivavano con quei pacchi. Era una cultura che si consumava a fuoco lento. Ricordo però che già nei primi anni Novanta una rivista intitolò uno dei suoi articoli sulla nostra attività “Bari capitale cyberpunk!”. E comunque non sono stato il solo a muovermi con costanza e caparbietà da queste parti. Bari vanta infatti da trent’anni la presenza di uno dei più interessanti festival al mondo di musiche d’avanguardia, parlo di Time Zones che ha portato nella città nomi come David Sylvian, Philip Glass, Brian Eno, Steve Reich, Einstürzende Neubauten ed alcuni dei nostri: Paolo F. Bragaglia, Synusonde, Dati aka Elastic Society e i Gone di Ugo De Crescenzo e Leziero Rescigno (La Crus).

Le primissime pubblicazioni di Minus Habens erano solo su cassetta. Chi curò la distribuzione?
Nei primi due anni di attività mi affidai alla storica ADN di Milano, alla tedesca Cthulhu Records e ad alcuni store specializzati statunitensi. All’epoca occorreva avere dei radar al posto delle orecchie. Internet era agli albori mentre oggi siamo sommersi da dispositivi che ci permettono di accedere a qualsiasi informazione in tempo reale ed ovunque ci troviamo.

Nel 1989 inizi a pubblicare musica anche su vinile. Quante copie stampavi mediamente per ogni uscita? Quale era il target di riferimento?
Le prime pubblicazioni uscirono in tirature di 500/1000 copie, distribuite in Italia e nel mondo soprattutto da Contempo International, nota label e distribuzione di Firenze che vantava nel suo roster gruppi come Clock DVA e Pankow. Non ho mai avuto un’idea definitiva del nostro pubblico ma nel tempo ho constatato con piacere che i nostri clienti e sostenitori abbracciano fasce d’età e gruppi sociali sorprendentemente eterogenei.

Il catalogo di Minus Habens cresce con la musica di molti italiani (Sigillum S, Iugula-Thor, Red Sector A, Kebabträume, Pankow, Capricorni Pneumatici, Tam Quam Tabula Rasa, Brain Discipline, DsorDNE, Ultima Rota Carri) ma anche di esteri come Lagowski, Principia Audiomatica e persino miti dell’industrial e dell’EBM come Clock DVA, Front 242 e Front Line Assembly. Come riuscisti a metter su una squadra di questo tipo? Insomma, se tutto ciò fosse accaduto all’estero probabilmente Minus Habens oggi verrebbe paragonata a Warp, Rephlex o Apollo.
È avvenuto tutto molto gradualmente. Piccoli passi, giorno dopo giorno, fino ad arrivare a pubblicare album come quelli di Dive (Dirk Ivens) in 15/20mila copie o compilation come “Fractured Reality” con ospiti illustri tra cui Brian Eno, Depeche Mode, William Orbit, Laurent Garnier, Susumu Yokota e molti altri. Se la Minus Habens ti ha portato alla mente etichette come Warp, Rephlex o Apollo è perché in Italia non sono esistiti altri riferimenti di quel tipo, così la mia etichetta è diventata l’unico modello vagamente assimilabile a quelle realtà. È un’associazione ricorrente ma ci siamo distinti in modo inedito anche per aver raggiunto il cinema con numerose colonne sonore originali e pubblicazioni di artisti di rilievo come Angelo Badalamenti. Negli ultimi anni inoltre abbiamo avviato importanti collaborazioni nell’ambito dell’arte contemporanea tra le quali spiccano quelle con Cassandra Cronenberg e Miazbrothers.

Con quali finalità, nel 1992, crei la Disturbance?
L’idea seminale fu ibridare i suoni e le soluzioni concepite dai musicisti del circuito Minus Habens coi ritmi ipnotici della techno. Negli anni Novanta abbiamo pubblicato su Disturbance alcune decine di singoli in vinile con una discreta distribuzione internazionale in Germania, Francia, Benelux, Stati Uniti e Giappone.

Così come per Minus Habens, anche Disturbance vanta in catalogo gemme che meriterebbero di essere riscoperte, da Atomu Shinzo (Uwe Schmidt!) ai The Kosmik Twins (Francesco Zappalà e Biagio Lana), da Monomorph (i fratelli D’Arcangelo) ad altri estrosi italiani come Astral Body, Xyrex e Dynamic Wave. In termini di vendite, come funzionava questa musica? La costanza delle pubblicazioni mi lascia pensare che il mercato fosse vivo.
Significava insediarsi in un mercato fortemente influenzato da mode e tendenze. Ciononostante abbiamo raggiunto buoni risultati anche in quell’ambito. Ricordo che Mr. C degli Shamen e Miss Kittin suonavano spesso le nostre produzioni, mentre per una festa a Milano in occasione del Fornarina Urban Beauty Show coinvolgemmo Timo Maas ed Ellen Allen. Col marchio Disturbance abbiamo creato un repertorio davvero interessante con un’attenzione particolare al made in Italy.

Chi, tra i DJ, giornalisti e critici italiani, seguiva con più attenzione le tue etichette?
I giornalisti storici della stampa musicale italiana ci hanno sempre seguito con molto interesse: Vittore Baroni, Aldo Chimenti, Nicola Catalano, Luca De Gennaro, Paolo Bertoni e tanti altri. Fortunatamente negli anni abbiamo goduto della stessa attenzione anche da parte di numerosi giornalisti stranieri.

Hai mai investito del denaro in promozione?
Investiamo in promozione fin dagli esordi, anche se dal 1987 ad oggi abbiamo adeguato le nostre strategie al mutare dei media. Non ho mai pagato recensioni però, e dubito che esistano riviste che operano in questo modo e comunque lo troverei eticamente scorretto.

A proposito di riviste, nel 1993 hai fondato Neural con Alessandro Ludovico. Come nacque l’idea di creare un magazine con quel taglio avanguardista?
Anche nel caso di Neural cercammo di creare una pubblicazione che potesse rompere il silenzio editoriale in territori culturali che ci interessavano da vicino: tecnologie innovative come la realtà virtuale, hacktivism, new media art e musica d’avanguardia naturalmente. I primi numeri di Neural furono pubblicati in poche migliaia di copie diffuse da un distributore torinese, successivamente la rivista svegliò l’interesse dell’editore dello storico mensile Rockerilla e così, in seguito ad un accordo di licenza, Neural uscì in una tiratura di 15.000 copie distribuite nelle edicole italiane. Questa diffusione capillare catturò un pubblico ben più vasto ma dopo due anni la crisi dell’intero settore ci costrinse a scegliere un distributore alternativo. Atterrammo così nella catena Feltrinelli. Neural da allora, grazie all’impegno di Alessandro, non si è mai fermata. Esce tutt’oggi in versione cartacea ma si avvale anche di un sito costantemente aggiornato che offre ulteriori contenuti.

Recentemente ho letto questo articolo in cui si parla della scomparsa del pubblico delle recensioni. La diffusione e la democratizzazione di internet ha, in un certo senso, tolto valore ed autorevolezza a chi parla criticamente di musica? Insomma, così come proliferano i “produttori” pare nascano come funghi anche i “giornalisti”. Cosa pensi in merito?
Come per la musica e l’arte in genere, anche il giornalismo si manifesta attraverso la voce di autori che possono essere più o meno dotati di talento e capacità. Quando si leggono articoli deboli, senza fondamenta, noiosi e a volte dannosi, diventa difficile arrivare fino in fondo. Penso semplicemente che la curiosità culturale dei fruitori crei nel tempo gli strumenti necessari per scremare il meglio in ogni ambito.

Tra il 1993 e il 1997 su Disturbance compaiono i quattro volumi di “Outer Space Communications”, compilation che annoverano nomi come Nervous Project (Holger Wick, artefice della serie in dvd Slices per Electronic Beats), il citato Uwe Schmidt (come Atomu Shinzo e Coeur Atomique), la prodigiosa Doris Norton, Pro-Pulse (Cirillo e Pierluigi Melato), i QMen (i futuri Retina.it) Speedy J, Planet Love (Marco Repetto, ex Grauzone), Exquisite Corpse (Robbert Heynen dei Psychick Warriors Ov Gaia), i romani T.E.W., Le Forbici Di Manitù e persino Richard D. James travestito da Caustic Window (con “The Garden Of Linmiri”, finito nello spot della Pirelli con Carl Lewis) e da Polygon Window. Insomma, una manna per chi ama l’elettronica ad ampio raggio.
Fu l’apice di un enorme lavoro di relazioni e networking. In quel periodo nacque anche un bel rapporto di collaborazione e stima reciproca con Rob Mitchell (RIP), co-fondatore della Warp Records. Vista la mole dei brani contenuti e l’importanza degli artisti che vi presero parte, i quattro volumi della serie diventarono immediatamente oggetti da collezione. Le compilation includevano uno spaccato del roster Disturbance affiancato da grandi artisti della scena elettronica internazionale. All’interno dei booklet inserivamo anche piccoli riferimenti a culture nascenti o comunque underground come la realtà virtuale, la robotica, il cybersex, i rituali, le brain-machines e la crionica.

Come entrasti in contatto con gli artisti sopraccitati? Usavi già le comunicazioni via internet?
Il primo indirizzo email di Minus Habens risale al 1993, in quegli anni eravamo in pochissimi ad utilizzare internet mentre il fax raggiunse la sua massima diffusione. Abbiamo sempre adoperato qualsiasi mezzo di comunicazione pur di raggiungere i nostri interlocutori.

Nell’advertising di Minus Habens apparso sul primo numero di Neural si anticipavano alcuni nomi del secondo volume di “Outer Space Communications” tra cui Biosphere che però in tracklist non c’era. Cosa accadde? La presenza di Geir Jenssen era prevista ma qualcosa non andò per il verso giusto?
Quando richiesi la licenza di pubblicazione del brano “Novelty Waves” di Biosphere l’etichetta mi rispose che era stato appena dato in esclusiva ad una nota agenzia pubblicitaria internazionale per essere utilizzato come colonna sonora dello spot dei jeans Levi’s (in Italia il pezzo verrà poi licenziato dalla Downtown, etichetta della bresciana Time Records, nda).

A metà degli anni Novanta Disturbance accoglie Nebula (Elvio Trampus), che si piazza in posizione intermedia tra techno e trance, connubio che viene battuto pure dalla QBic Records, rimasta in attività per soli tre anni, dal 1996 al 1999. Come ricordi quel periodo in cui un certo tipo di musica iniziò il processo di “mainstreamizzazione”?
Non essendo il mainstream uno dei nostri obiettivi, non abbiamo mai inseguito il fantasma del successo. I risultati sono giunti soprattutto grazie alla costanza, alla continua ricerca ed alla qualità delle pubblicazioni. Più di una volta i brani del catalogo Disturbance sono arrivati ai primi posti di classifiche dance italiane (come quella della storica Radio Italia Network) e straniere, mentre le produzioni Minus Habens hanno trovato terreno fertile in ambito cinematografico (in numerosi film con distribuzione nazionale) e televisivo (in trasmissioni come Le Iene, Report, Target e tante altre). Inoltre abbiamo partecipato a decine di festival e proprio quest’anno il trio Il Guaio, del nostro marchio Lingua, è stato candidato alle selezioni ufficiali di Sanremo.

Nei primi anni Duemila, proprio dopo gli ultimi lavori di Nebula, Disturbance vira radicalmente direzione e registro, passando al downtempo, al trip hop e al future jazz, facendo l’occhiolino alla Compost Records di Michael Reinboth. Forse l’elettronica con derive dance o sperimentali ti aveva stancato?
Come ben sai credo profondamente nell’evoluzione e nella diversità della musica e dei suoni. All’inizio del nuovo millennio la techno e la drum’n’bass raggiunsero il loro picco evolutivo terminando in un cul-de-sac. Successivamente sono emerse nuove declinazioni come la minimal techno o il dubstep ma nulla di radicalmente innovativo. Ecco il motivo per cui ho sentito la necessità di proseguire verso altre direzioni creando un incubatore in cui abbiamo sviluppato progetti musicali come Pilot Jazou, Gone, Dati, Appetizer o la più recente collaborazione fra il producer Andrea Rucci e il pianista jazz Alessandro Galati. Le produzioni musicali più interessanti emerse in questi primi quindici del nuovo millennio sono il frutto di incontri e collaborazioni di musicisti con esperienze negli ambiti più diversi, e pare che l’elettronica sia diventata il tessuto connettivo privilegiato.

La tua collaborazione con Sergio Rubini comincia proprio in quel periodo, lavorando alle colonne sonore di suoi film come “L’Anima Gemella” e “L’Amore Ritorna”. Come nacquero tali sinergie?
Incontrai Sergio una sera in un bar. Grazie a quell’incontro casuale nacque il nostro rapporto lavorativo che si concretizzò prima con la composizione del tema principale del film “L’Anima Gemella” e successivamente con la colonna sonora del film “L’Amore Ritorna”, le musiche addizionali di “Colpo D’Occhio”, fino al suo progetto filmico “6 Sull’Autobus” in collaborazione con sei giovani registi e prodotto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Facendo qualche passo indietro, prima della collaborazione con Rubini, fui chiamato dal regista Alessandro Piva che mi commissionò le musiche dei film “LaCapaGira” (1999) e “Mio Cognato” (2003) con cui iniziai a raggiungere un pubblico più ampio anche grazie all’ottenimento di alcuni premi in Italia e all’estero.

Qualche sprazzo di dance elettronica torna a farsi sentire su Minus Habens tra 2005 e 2007, quando pubblichi anche una compilation di Alex Neri. Si rivelò solo una toccata e fuga però. Avevi già preso la decisione di dedicarti ad altro?
In quel periodo Minus Habens fu scelta dal festival Elettrowave (sezione elettronica di Arezzowave) per pubblicare le loro compilation ufficiali. Mi occupai personalmente della selezione degli artisti presenti nei diversi album. Considerando gli ospiti del festival, ebbi il piacere di ospitare grandi nomi fra cui Cassius, Modeselektor, Kalabrese, Stereo Total, Cassy, Mike Shannon, Zombie Zombie e molti altri. La musica elettronica è sempre stato il filo rosso della mia ricerca. È un universo dalle infinite possibilità e la missione della Minus Habens è quella di esplorarlo.

Il 2017 segnerà il trentennale di attività per Minus Habens Records. Avresti mai immaginato, nel 1987, di poter tagliare un così ambizioso traguardo?
È un sogno che si avvera, pur non avendolo mai immaginato come un traguardo.

Nel corso degli anni hai mai pensato di mollare tutto e dedicarti ad altro?
No, immagino da sempre le evoluzioni possibili della nostra attività cercando di incarnare soltanto le più ambiziose.

La sede è ancora in via Giustino Fortunato, nel capoluogo pugliese?
La sede e lo studio sono ancora a Bari anche se rispettivamente in zone diverse della città, ma proprio quest’anno abbiamo posto le basi per alcuni grandi cambiamenti.

Stai pensando già a qualcosa per festeggiare e celebrare i trent’anni di Minus Habens?
Stiamo lavorando ad un progetto che sta prendendo forma in queste settimane di cui però sarebbe prematuro parlarne adesso. Ci sono ancora troppi aspetti da sviscerare. Sarà una forma di condivisione celebrativa volta ad amplificare il concetto di collaborazione e di network. Naturalmente coinvolgeremo anche i musicisti che si sono uniti all’etichetta negli ultimi tempi come Andrea Senatore, Christian Rainer e Il Guaio.

Come vorresti che fosse ricordata la tua etichetta e la tua attività artistica, tra qualche decennio?
Sarebbe già davvero tanto se tutto questo fosse ricordato nel tempo. In fondo il libro Minus Habens eXperYenZ di 224 pagine pubblicato nel 2012 in occasione del venticinquesimo anniversario dell’etichetta ambiva proprio a questo: documentare, o come afferma nello stesso libro Dino Lupelli – fondatore di Elettrowave ed Elita Festival – “produrre per non dimenticare” le esperienze multiformi di un laboratorio che ha portato alla luce inusuali sperimentatori. Un’avventura alla ricerca di territori musicali inesplorati.

(Giosuè Impellizzeri)

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Racket Knight – The Wood EP (Spectra Records)

Racket KnightCorre il 1997 quando su Spectra Records, una delle etichette dell’Arsenic Sound per cui ricopre ruolo di A&R il DJ Cirillo, esce l’EP di debutto di Racket Knight, progetto degli svizzeri Walter Albini e Luca Tavaglione e dell’italiano Massimo Cominotto. Quest’ultimo racconta che tutto nasce una sera a Zurigo, a cena, «davanti ad un bel pollo al cestello e un rösti, orgoglio della cucina elvetica. Il vino scorreva a fiumi ed un paio di ragazze allegre ci tennero compagnia al tavolo. Albini era un mago nella programmazione, musicista spiantato ed incazzato nero perché la sua band non riusciva a decollare, mentre io e Tavaglione parlavamo di musica, in sintonia, confrontandoci sull’underground tedesca e norvegese. Provammo così a produrre qualcosa in linea con quel sound. Il nome Racket Knight fu un’invenzione di Tavaglione, oggi dirigente di una importantissima banca svizzera ed esperto in diritto bancario internazionale. Albini invece produce programmi per la tv nazionale svizzera».

Appare subito chiaro che l’impronta sonora sia molto poco italiana, i tre che ideano il tutto sono poco propensi ad alimentare quello che divenne il decadente scenario progressive nostrano. Sia Albini che Tavaglione (quest’ultimo noto anche come DJ Lukas e Raimond Ford) sono devoti ad una techno fatta di groove incastrati uno nell’altro, priva di riflessi melodici o parti vocali da cantare in coro. Ai tempi si usava chiamarla minimale, termine che torna in auge, inglesizzato, una decina di anni più tardi ma per identificare tutt’altro. Cominotto, dal canto suo, non scherza. Seppur con ancora pochissime produzioni all’attivo, come DJ dimostra di sapere il fatto suo, (provate ad ascoltare questo set del 1996 tenuto in occasione di un Syncopate presso il Marabù di Reggio Emilia, club ormai perso nel degrado) e di non essere l’ennesimo di coloro che ripiegano su cassa, basso in levare ed interminabili rullate per far felice il proprio pubblico.

“The Wood EP” sintetizza perfettamente la personalità delle teste ideatrici e lo fa attraverso due tracce che non rivelano compromessi di alcun tipo. “Magma” fa brillare cerchi concentrici di tribal techno di inesauribile potenza ipnotica, “Model OP-8” rafforza ulteriormente il tiro seguendo la scia di etichette nordeuropee come Construct Rhythm, Primate Recordings, Tortured o Planet Rhythm. «Quei pezzi girarono a lungo come demo e furono suonati da molti DJ importanti a cui li consegnammo a mano, tra cui Carl Cox, che li tenne per parecchio tempo nelle sue chart su Frontpage e Mixmag (“Model OP-8” figura pure in questo set di Cox per l’Essential Mix, registrato a Johannesburg, Sud Africa, il 18 gennaio 1998, nda). Quando portai i brani a Cirillo lui già li conosceva, credo li avesse ascoltati ad Ibiza in quasi tutti i party. Realizzammo entrambe le tracce con le classiche Roland, TR-808, TR-909, TB-303, Juno ed altre diavolerie analogiche dell’Antico Testamento. Sul 12″ doveva finire anche una versione con me al basso e Walter alla batteria che ricalcava lo stile dei primissimi Prodigy, ma venne scartata per questioni di tempo. Peccato, aveva un bel tiro. Luca, ai tempi, aveva già prodotto una montagna di roba per Adam Beyer, quindi preferimmo ispirarci a cose estere (o a quelle della scuola napoletana che cominciava ad affermarsi proprio in quel periodo). A parte qualche rara eccezione, il resto della techno italiana era stratificata su rullate e basso in levare, genere che non ci apparteneva affatto. Poi non so quante copie abbia venduto il disco, ai tempi la Spectra era una piccola etichetta molto underground, una delle poche rispettate nel circuito estero. In seguito però prese una strada diversa».

Racket Knight (2)

Il secondo 12″ dei Racket Knight, edito dalla Spectra Records nell’autunno del 1998

Nel 1998 i tre ci riprovano con “Data 2 / Collectible Camera”, sempre su Spectra, che oltre al remix dei D-Ex (Albini e Tavaglione, che con questa ragione sociale piazzano altri “rulli compressori” sulla Molecular Recordings di Marco Lenzi e i fratelli D’Arcangelo) annovera pure quello del napoletano Gaetano Parisio alias Gaetek, alle prese con uno dei primi remix della sua carriera. «Incontrai Gaetano ad un SIB, a Rimini, parlammo un po’, gli piacque il lavoro ed accettò di remixarlo. In seguito i contratti con l’etichetta e tutti gli accordi presi sparirono misteriosamente nel nulla lasciandoci scontenti, e per tale motivo interrompemmo l’esperienza» conclude Cominotto. «In quel periodo persino Gene Hunt ci chiese di remixare un nostro pezzo destinato alla Zero Muzic Records». (Giosuè Impellizzeri)

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Format HD – Nonoxynol-10 / Tedrasodium (Single Vision)

Format HDSono trascorsi esattamente venti anni da quando viene pubblicato il disco dei Format HD, ossia i fratelli Marco e Fabrizio D’Arcangelo, Marco Lenzi e Guido Gaule. Ma come scocca la scintilla tra di loro? Ci racconta tutto Marco D’Arcangelo: «Incontrai Lenzi da Silverfish, negozio di dischi in Charing Cross Road, durante i primi mesi della mia lunga permanenza in Inghilterra, nel 1994. Divenni un assiduo frequentatore di quel posto (diventato punto di ritrovo per scultori, musicisti, poeti e registi, ndr) tanto da cominciare ad eseguire qualche lavoro per loro. Durante quel periodo pensammo di creare un’etichetta Techno, la Molecular Recordings, e il progetto Intermolecular Forces. Io e mio fratello Fabrizio vivevamo un momento pieno di ispirazioni e quindi valutammo come muoverci a livello discografico. Tra i nostri amici c’erano (e ci sono ancora oggi) Alfredo Violante e Guido Gaule, che ai tempi gestivano Europlan Music Network, un pool di etichette (le due principali erano la Supernova e la Data, ndr) . Era l’occasione perfetta per creare una sinergia».

“Nonoxynol-10” è un macigno di serrato Techno groove che piange lacrime acide. Però non sembra essere una Roland TB-303 quella che striscia contro il ritmo, il suono è meno spesso, più vicino a certe cose Goa Trance che ai tempi uscivano con frequenza, ipotizzabile quindi che fosse una Roland MC-202. “Tedrasodium”, sul lato b, si posiziona tra Techno e 90s Hard Trance, di quella che fa leva sul marcato ipnotismo e non su cori da stadio o canzoni da intonare sotto la doccia.

Il disco rappresenta l’unica uscita su Single Vision (nome profetico quindi), «che creammo appositamente per questo progetto» rammenta D’Arcangelo. «Ci incontravamo tutti nello studio di Violante e Gaule, in Gloucester Road, scambiandoci pareri ed esperienze, oltre a confrontarci sulla produzione. Unimmo le forze per mettere sul mercato qualcosa che potesse unire le idee di tutti». Single Vision e Format HD, nonostante i buoni propositi, nascono e muoiono con questo 12″: «eravamo tutti molto impegnati in altri campi, inoltre la dimestichezza e i mezzi per poter stampare e distribuire materiale ci impedì di trovare accordi per dare un seguito all’etichetta – curata in primis da Gaule – e allo stesso progetto Format HD. Accadde lo stesso per la Sphere, su cui accomodammo solo due brani di Monomorph in salsa semi Techno, “Metoh” ed “Hyperlight”. Gli impegni con la Rephlex ci spinsero a fare altro».

I due pezzi dei Format HD comunque arrivano in Italia, attraverso la milanese Dig It International che lo licenzia sulla S.O.B. – Sound Of The Bomb ma trascrivendo male un titolo: “Nonoxynol-10” diventa “Monoxinol-10”. «La Dig It International era legata a filo doppio con noi, sia perché distribuiva in Italia i nostri prodotti (nel mondo invece eravamo distribuiti da Prime Distribution), sia perché io e Guido trattavamo la maggior parte del promozionale inglese, dalla House alla Progressive, quindi licenziavano molti dei nostri dischi. Tra 1995 e 1996 tutta la Progressive, dalle chart di DiscoiD e Tendence a quella selezionata da DJ come Francesco Farfa, la trattavamo solo noi. Però in soli sei mesi a Londra il fenomeno si affievolì lasciando spazio ad altre commistioni, mentre in Italia la Progressive resse per anni, perché era percepito come un container di altri generi. Il negozio di riferimento era Good Music di Genova» svela il citato Alfredo Violante. Che continua: «La strumentazione per Format HD era tutta analogica, chiaramente le classiche Roland (TR-909, TB-303, SH-101, MC-202), un Moog ed un campionatore Ensoniq, uno strumento incredibile, molto caldo rispetto al freddissimo Akai. Inoltre avevamo un Fostex D824 su cui registravamo le passate di synth dal vivo. Solo quella che suonava meglio veniva poi riversata sul DAT finale». (Giosuè Impellizzeri)

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