All’anagrafe è Antonella Pintus ma il mondo della musica la conosce come Anna Bolena. Nata a Sassari nel 1970 e trasferitasi a Roma nel 1989, inizia a mettere dischi come DJ nel 1995 e in parallelo organizza rave ed eventi di musica elettronica underground diventando la prima DJ donna attiva nel circuito dei freeparty capitolini. Creativa e propositiva, nel 1997 è tra i co-fondatori di Peti Nudi, fanzine che, come recita la sua biografia, «veicola informazioni su musica, stati alterati di coscienza e contesti sociali giovanili». Nel 1999 acquista il primo PC e, da autodidatta, si dedica alla composizione di musica con l’ausilio di vari programmi software. Nel contempo matura l’idea di creare un’etichetta discografica, Idroscalo Dischi, che lei stessa considera la prima ad essere generata dal fenomeno dei freeparty illegali. Legata a matrici industrial, IDM ed allo sperimentalismo rumorista di stampo russoliano, la label debutta nel 2001 con l’ambizioso “Smash Biotek” al cui interno si rinviene la musica, tra gli altri, dei D’Arcangelo, Marco Passarani, Andrea Benedetti e Marco Micheli ma pure di presenze estere come Venetian Snares, Eiterherd e Saoulaterre, e poi cresce di anno in anno contando sul supporto di artisti accomunati dalla propensione a spingersi ben oltre i confini della musica da ballo. Passando da esperienze musicali alle multimediali, la Bolena, di stanza a Berlino dal 2004, è una testimone autorevole della scena alternativa nostrana, contesto che meriterebbe più approfondimenti obiettivi dopo anni di pregiudizievoli demonizzazioni da parte dei media generalisti.
Con che tipo di ascolti trascorri infanzia ed adolescenza?
Mia madre era una promettente pianista. Da piccolina studiava al Conservatorio Luigi Canepa di Sassari e di lei hanno parlato sia giornali locali che nazionali. Quando rimase incinta di me aveva appena diciassette anni ma continuò comunque ad esercitarsi almeno otto ore al giorno, la sua passione per il pianoforte era davvero grande. Credo di aver ereditato proprio da lei l’orecchio per la musica classica e quella più “raffinata”, a cui mi sono avvicinata sempre di più nel corso del tempo. Durante l’infanzia ero attratta da altre cose ma pian piano ho recuperato. Per il mio primo documentario girato da videomaker, ad esempio, ho utilizzato parecchi campioni di musica lirica. Il mio papà invece era un abile calciatore. Quando fu convocato nel Cagliari però suo padre non acconsentì e quindi proseguì in modo amatoriale, facendo anche da trainer per giovani talenti di altre squadre. Pure lui mi ha trasmesso la passione per la musica, sin da quando ero piccola. In casa ne girava di tutti i tipi, classica, pop, rock, tradizionale… Qualche tempo fa mio padre mi ha regalato la sua collezione di CD jazz e blues, andata ad infoltire la raccolta dei dischi di musica classica di mia madre che nel tempo ho continuato a rimpinguare. Oggi possiedo circa 7500 titoli: non è una collezione enorme ma un bel pezzo di storia e di questo ne vado particolarmente orgogliosa. Quando avevo nove/dieci anni circa, d’estate andavo in vacanza dai nonni a Palau, in Costa Smeralda, lì dove nacque mia mamma. Proprio sotto la loro casa c’era un locale, il night club del paese, frequentato principalmente dalla comunità afroamericana (militari sempre molto eleganti con le mogli al seguito) della base NATO che stava sull’isola de La Maddalena. Qualche volta riuscivo ad entrare lì dentro, pur non potendo partecipare alle feste perché minorenne. La visione della sala da ballo con le luci psichedeliche e la consolle mi colpirono ed affascinarono parecchio. Quando tornavo in camera mi sdraiavo per terra e sentivo i battiti della cassa della musica disco suonare di sotto. Mi addormentavo così e non lo trovavo neanche fastidioso visto che le estati in Sardegna sono state sempre particolarmente afose e il fresco del pavimento mi dava un po’ di sollievo. Nell’adolescenza i gusti cambiarono. Se da piccola apprezzavo la disco, il pop e il funky, gli anni Ottanta mi portarono verso altri generi musicali, primi su tutti il gothic rock, il dark e la new wave. Alcuni amici più grandi acquistavano dischi per corrispondenza e, una volta giunti “nel continente” (così come si diceva da noi) me li registravano carinamente su cassetta. In quel modo ebbi la possibilità di ascoltare ed approfondire musica di band come Joy Division, Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees, Christian Death, And Also The Trees e praticamente tutta la produzione della britannica 4AD (impazzivo per i Cocteau Twins e Dead Can Dance!). Nel contempo non disdegnavo cose tendenzialmente più commerciali come The Smiths e Morrissey a cui devo il mio vegetarianesimo, Pogues, Who, U2 e il combat rock degli Alarm. Mi divertivo a ballare con gli amici che adoravano Bowie (io un po’ meno), l’indie rock e tutta la new wave nostrana, dai Litfiba ai Diaframma passando per i Not Moving. Gran parte di quei pezzi li conservo su cassetta. Mi piacevano molto anche i Culture Club, affascinata dalla stravaganza di Boy George. Frequentare giovani omosessuali alimentò l’interesse per le tematiche legate al gender e probabilmente ad accendere la curiosità fu il fatto di essere circondata da persone piuttosto bizzarre e particolari. Per il resto i miei anni Ottanta furono piuttosto “scuri” e passarono nell’attesa di lasciare Sassari alla volta di Roma, città in cui volevo andare a vivere sin da quando avevo tredici anni. Una volta terminato il liceo ci andai per davvero, con l’obiettivo di studiare psicologia. Da ragazzina, non disponendo di molti soldi, selezionavo scrupolosamente i dischi da comprare. Iniziai ad acquistare i dischi degli U2 che andai a vedere a Modena nel 1987 a sedici anni, e di quel concerto conservo gelosamente anche un’incisione bootleg, a mo’ di cimelio. Poi Joe Jackson, Television, Patti Smith, Talk Talk, Billy Bragg, Matt Bianco e il new folk inglese dei Fairport Convention, ma anche Neil Young, Van Morrison, Joan Baez, R.E.M., The Jesus And Mary Chain, Joni Mitchell, Janis Joplin…
Cosa era per te la “musica elettronica”?
Ho iniziato ad interessarmi di musica elettronica (intendendo quella da discoteca) solo negli anni Novanta. Prima nutrivo per essa una sorta di antipatia, forse perché non mi aveva stimolato a sufficienza. Molti amici partivano dalla Sardegna alla volta del Cocoricò di Riccione ed io li sfottevo sostenendo che quella proposta lì dentro non fosse affatto “musica”. Ai tempi ero attratta da altro, in primis dalla musica suonata con gli strumenti tradizionali, ma affermare che l’elettronica non rientrasse a priori nei miei interessi potrebbe essere sbagliato e fuorviante perché il suono dei sintetizzatori aveva preso ampiamente piede nel pop e rock degli anni Ottanta. Ai tempi ballavo tantissimo e di tutto, ed anche quando mi trasferii a Roma continuai a frequentare le scene più disparate. Ero di casa al Uonna, sulla Cassia, dove la musica era ancora la new wave dei Cure, Bauhaus o Joy Division, ma la fortuna di avere un orecchio parecchio aperto mi diede lo stimolo per aprire nuovi orizzonti. Ad attrarmi fu principalmente il suono britannico, forse perché ero già appassionata del pop composto oltremanica. Negli anni Novanta l’IDM della Warp fu il genere che mi prese di più, senza ombra di dubbio. Per quanto riguarda invece la scena nostrana, vivere a Roma per quindici anni mi ha dato la possibilità di entrare in contatto col cosiddetto Sound Of Rome che ritengo la massima avanguardia anche a livello internazionale. Acquistai subito i dischi di Leo Anibaldi e dei D’Arcangelo che mi piacevano tantissimo, senza dimenticare il progetto Automatic Sound Unlimited condiviso con Max Durante (di cui parliamo qui, nda) che proponevo senza tregua nelle mie serate. Ai tempi, parlo della metà degli anni Novanta, una buona parte degli avventori dei rave, anche più giovani di me, era interessata e disposta a sentire cose realmente alternative e non necessariamente orecchiabili. Nel corso del tempo ho progressivamente aumentato la conoscenza approfondendo ed interessandomi a generi complementari, recuperando davvero tanto della produzione italiana che non tenni in considerazione perché consideravo troppo commerciale. Dalla deep house alla progressive sino alla hi nrg, tutto è finito nella mia collezione. A posteriori ho scoperto pure di essere letteralmente innamorata della house cantata da voci femminili. Alcuni che mi seguono si sono stupiti quando ho iniziato a proporre quel tipo di sonorità nei miei set, ma per me è stata una sorta di recupero della black music che ho vissuto da bambina negli anni Settanta. La mia passione per la musica è davvero a 360 gradi ed affrontare nuovi generi non vuole affatto essere uno scimmiottamento. Sorprendere e non dare nulla per scontato è alla base del mio concept e viene naturale contaminare continuamente le mie radici, fa parte della mia personalità, del mio carattere e del mio modo di intendere il party.
Nel ’95 ha inizio la tua carriera da DJ e, in parallelo, da organizzatrice di party, rave ed eventi underground. Come ricordi quel periodo? Il fatto di essere donna ha mai rappresentato un problema o generato discriminazioni in un ambiente dominato quasi esclusivamente dal sesso maschile?
Mi sono ritrovata in una scena che non era esattamente quella di riferimento perché ero un’attivista politica, facevo parte dei gruppi extraparlamentari romani, ero legata ai centri sociali e frequentavo principalmente ambienti anarchici e studenteschi. Dopo una fase iniziale più “commerciale”, il cui il “suono di Roma” si espresse nella sua forma migliore ma a cui non aderii, iniziai a partecipare a piccolissimi party organizzati in periferia da amici dei centri sociali. Eravamo pochissimi, dalle cinquanta alle cento persone. Avevo poco più di vent’anni e la mia passione era, semplicemente, ballare. Ad iniziare quella scena furono miei coetanei o gente poco più grande di me. Alcuni conducevano una trasmissione su Radio Onda Rossa e sdoganarono la techno negli ambienti di sinistra, lì dove erano radicati parecchi pregiudizi perché, è bene ricordarlo, la techno a Roma era collegata principalmente agli ambienti di destra. Era comprensibile quindi il motivo per cui compagni e compagne nutrissero dei preconcetti, anche perché ascoltavano tutt’altra musica come il punk e il reggae. Nel 1990, un anno dopo essermi trasferita nella capitale, iniziai a partecipare attivamente al movimento di protesta della Pantera, nato negli ambienti universitari palermitani e poi esteso in molte altre facoltà d’Italia. Seguivo i corsi di psicologia nella sede distaccata de La Sapienza che fu la prima facoltà che occupai a Roma. Proprio lì si creò il fenomeno delle posse, nato in seno alla cultura hip hop, che rappavano canzoni di protesta. Il rap era già entrato nei centri sociali e il fenomeno si ingrandì a dismisura di fronte alle folle di studenti. Poi toccò anche all’elettronica, peraltro già presente in qualche modo nell’hip hop, ed infatti alcuni rapper parteciparono alla scena rave come alcuni collaboratori degli Assalti Frontali di stanza al Forte Prenestino. All’inizio, come spiegavo prima, ero una semplice frequentatrice perché mi piaceva ballare. Un giorno, in un piccolo rave organizzato nella zona di Valle Aurelia, un paio di amici mi invitarono a mettere dei dischi, forse perché non c’era il DJ o forse perché loro erano stanchi, non ricordo più con esattezza. Era l’estate del 1995 e da quel momento non mi sono più fermata. Compravo dischi, accumulavo contatti internazionali ed allacciavo rapporti diretti coi negozi saltando i passaggi coi management di turno che ho trovato sempre un po’ discutibili. Non nascondo che essere donna abbia creato alcune situazioni imbarazzanti da parte di alcuni maschietti misogini o comunque non abituati a vedere donne dietro la consolle, e non mi riferisco solo alla mia figura artistica (approcciai al DJing in modo estremamente discreto, non considerandomi una musicista ma più un’eccentrica ed un’intellettuale visto che studio da sempre) ma soprattutto al ruolo di organizzatrice. Per lungo tempo ho gestito le consolle e ciò è avvenuto sino a pochi anni fa con l’attività di booker a Berlino, ed è capitato molte volte che alcuni DJ (anche famosi) si irritassero per il fatto che fosse una donna a gestirli. Sento comunque di aver avuto rispetto e considerazione perché sono sempre stata attiva, creativa e propositiva, e credo che tutto ciò mi abbia “salvata”. Confrontarmi coi maschi in consolle, perlopiù etero – molti amici gay non palesavano le loro preferenze sessuali come oggi, la musica era più importante dell’esprimere esigenze di tipo affettivo o sentimentale – talvolta mi ha obbligata a fare delle scelte, ad esempio rinunciare ad esprimermi in modo più coraggioso. Sia chiaro, non ho mai avuto esigenze tipiche dei maschi che erano guardati da tutti e si potevano permettere di fare i “piacioni”, atteggiamento che ho sempre odiato. Essendo donna però non potevo fare lo stesso, sarei subito passata per una poco di buono. La donna non poteva fare le stesse cose che facevano i maschi (seppur non mi piaccia molto parlare di “femmine” e “maschi”), specialmente quando si parlava poco di misoginia che era un vero e proprio tabù. Per un po’ di tempo sono stata l’unica donna in consolle nella scena dei freeparty, le amiche si occupavano di decorazioni, bar ed organizzazione ma poi, per fortuna, altre hanno seguito il mio esempio facendo crescere le quote rosa.
Perché ti trasformi in Anna Bolena? Quali ragioni ti spingono ad adottare uno pseudonimo di taglio storico?
Negli anni Novanta, quando era tanto di moda usare i nickname, iniziai come Meridiana 07, ispirata dalla Meridiana del fumetto Cybersix. Con quello pseudonimo firmai anche gli articoli sulla rivista Peti Nudi. Nel momento in cui diedi avvio all’attività da artista però, decisi di optare per uno più forte e giunsi ad Anna Bolena, figura storica perfetta per rappresentare il mio concetto di DJ. Ho letto vari libri a tal proposito e l’aspetto che mi interessava maggiormente della Bolena non era tanto quello della famiglia di nobili origini bensì la sua raffinatezza e cultura, la capacità di suonare musica, scrivere poemi e, non meno importante, la propensione a circondarsi di musicisti, esattamente quello che facevo io. A ciò si aggiunse infine l’aspetto politico: Anna Bolena e il suo matrimonio con Enrico VIII originò lo scisma anglicano, e vista la mia crisi mistica che mi ha portato ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della chiesa cattolica, ciò mi affascinò spingendomi ad abbracciare questa figura storica assai controversa.
Roma, città in cui vivi ai tempi, è stata una vera roccaforte della techno e della house ma pure dei rave che iniziano a diffondersi tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta, come hanno descritto qui e qui Leo Young e Max Durante. C’erano sostanziali differenze tra i rave/eventi che ti videro come protagonista e quelli precedenti? Esisteva un filo conduttore ed un continuum tra quelle due epoche consecutive o si trattava di movimenti che non potevano essere considerati l’uno l’evoluzione dell’altro?
Come accennavo prima, non ho partecipato alla prima fase dei rave, quella legata alla scena delle discoteche o comunque organizzata e gestita da personaggi di quel circuito. Tuttavia, nel corso degli anni, sono entrata in contatto con alcuni dei protagonisti di quel momento, come Leo Anibaldi, Lory D, Marco Passarani e Marco Micheli, collaborando in consolle o discograficamente. La differenza principale tra il primo movimento rave e quello successivo, nato intorno alla metà degli anni Novanta e meglio identificato come “illegal” o “freeparty”, era l’auto-organizzazione. Facendo parte di movimenti politici extraparlamentari che credevano fermamente nell’autogestione degli spazi sociali, portammo avanti in maniera coerente questo “diktat” occupando spazi, come capannoni industriali in periferia e gestendo autonomamente il divertimento. Era questo il messaggio più forte che lanciavamo, la nostra parola d’ordine. Iniziammo prendendo le distanze da ciò che era avvenuto prima, dalla scena considerata più “mainstream” o comunque inserita in contesti legali, seppur non mancarono rapporti con alcuni dei personaggi-simbolo di quegli eventi. La stima era immensa e certi riuscimmo a portarli nei nostri party e con le nostre regole, ma con qualche polemica. Quando venne a suonare Lory D alla Fintech, ad esempio, gli venne riconosciuto un cachet ed alcuni protestarono in nome di un approccio diverso (si suona per amore dell’arte, della musica, della politica e dell’essere alternativi) e nacquero diverse discussioni, anche accese. A posteriori mi rendo conto che fosse giusto che Lory D venisse pagato perché era un musicista e viveva di quello, ma ai tempi il nostro approccio era diverso. Sotto il profilo sonoro, la musica era molto contaminata. Passavamo dalle produzioni più famose a quelle underground, portate da amici che andavano personalmente a Londra o a Berlino a comprare dischi. Si trattava prevalentemente di limited edition di mille copie. Così conobbi la Praxis di Christoph Fringeli e tutta una serie di etichette affini che si possono raccogliere sotto il cappello della breakcore e della musica estrema che in quegli anni mi appassionò parecchio insieme alla darkstep e al drum n bass. Non dimentico ovviamente gli Spiral Tribe, famosissimi traveller britannici che riuscirono a portare il loro sound e il loro verbo fuori dai confini patri, seppur con un approccio non molto vicino alla mia sensibilità, più intellettuale, sperimentale e in qualche maniera più varia ed aperta. Tuttavia sono orgogliosa di possedere alcune edizioni originali dei loro dischi. Ad un certo punto è stato necessario legalizzare tutto, non era più possibile andare avanti così e le special guest andavano pagate. Non so se sia stata un’evoluzione o un’involuzione ma ormai viviamo in un mondo in cui non è più possibile sottrarsi alla sicurezza e al controllo sociale. Gli anni Settanta, Ottanta e in parte i Novanta sono stati importanti nella storia politica perché c’era la possibilità di muoversi ancora a livello sotterraneo. Ciò che quel periodo mi ha lasciato in eredità adesso lo esprimo a livello creativo e non ho timore del giudizio del pubblico. Quando sono in consolle voglio stimolare le persone che mi stanno davanti, non annoiarle o consumarle.
Nel documentario del 2011 “Tekno – Il Respiro Del Mostro” diretto da Andrea Zambelli e recensito qui, parli di un nuovo modo di vivere l’aggregazione reso possibile proprio dal movimento legato ai freeparty. Quale divario sussisteva tra il mondo delle discoteche e quello dei rave illegali?
La differenza sostanziale tra i due contesti risiedeva nell’aspetto politico. Se vai in una discoteca prendi quello che ti organizzano ma non sei tu il diretto protagonista. Chi frequentava i rave illegali invece aveva la possibilità di esprimersi molto di più rispetto all’ambiente discotecaro. Non esistevano guest list, non era necessario pagare parecchi soldi per entrare e, in linea più generale, non si subiva e si consumava quello che veniva offerto. Gli avventori dei freeparty erano persone appartenenti ad un circuito ben preciso, legato ai centri sociali ma non solo. Visti i contatti tra i vari gruppi territoriali, tra centri sociali ed altri spazi occupati, fummo capaci di portare nei nostri spazi pure ragazzi e ragazzini provenienti dai classici muretti di aggregazione sociale della Roma degli anni Novanta e questo, non lo nego, a volte ha causato problemi coi compagni che vedevano la cosa molto poco ortodossa. Resta però la soddisfazione di essere riusciti a sdoganare la techno all’interno dei centri sociali, impiegando un po’ di anni per far capire che quella musica potesse creare una nuova forma di aggregazione, e di strappare giovanissimi (minorenni inclusi) ai “muretti fascisti” mostrando loro la possibilità di poter vivere il divertimento senza essere seguiti, controllati, repressi o persino picchiati dal punto di vista fisico. Loro videro come ballare la techno senza saluti romani o altri tipi di posizioni ed atteggiamenti mentali tipici di quell’ala politica che, lo dico a malincuore, erano molto presenti nelle discoteche. Anche per questo motivo prendemmo le distanze dal mondo discotecaro, un ambiente in cui ciò che contava di più era consumare, alcool e non solo. Noi cercammo di fare controinformazione pure sull’utilizzo delle sostanze che, è inutile negarlo, c’è stato anche ai freeparty, abbondante ed esagerato. Distribuivamo volantini informativi con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui rischi che si correvano, e da lì nacquero persino ricerche, articoli e libri diffusi in un circuito esterno a quello commerciale ed istituzionale. Ad un certo punto iniziammo a cooperare pure con le istituzioni: a Bologna ad esempio, dove il movimento era legato prevalentemente al Livello 57, parecchi compagni si interessarono all’uso delle sostanze psicotrope creando spazi appositi dove la gente poteva richiedere informazioni ed essere seguita, innescando meccanismi e dinamiche superpositive per dare supporto a chi cercava aiuto dal punto di vista psicologico. Tutto ciò invece era davvero difficile trovarlo nelle discoteche. Parte di questo approccio è rimasto in vita in alcuni sex party berlinesi, dove organizzazioni operano in sinergia con le istituzioni per informare sui rischi che si corrono ad esempio facendo sesso abbinato a sostanze stupefacenti, ma senza soffocare o reprimere chi vuole praticare ciò.
In più di qualche occasione hai posto l’accento sulla valenza culturale della musica elettronica. I tuoi studi universitari (laurea in psicologia e un master in programmazione neurolinguistica e comunicazione efficace) ti hanno aiutato in qualche modo ad andare oltre il pregiudizio riservato ancora da molte persone nei confronti di (certa) musica elettronica? Perché nello specifico la techno è stata oggetto, sin da subito, di una connotazione negativa al punto da essere apostrofata come “musica del diavolo”? In tal senso, quali sono stati i grandi errori compiuti nei primissimi anni Novanta in Italia, e da chi? Sarà possibile eradicarli in un futuro non troppo lontano?
Ritengo che il mondo sia abbastanza conformista e non così propenso alle novità. La techno, analogamente ad altri generi musicali, ha subito l’ostracismo della vecchia generazione con tutte le conseguenze del caso. All’inizio in certi ambienti, come il mio, si avvertiva pure tensione per la differenza di vedute. Il fatto che la gente non abbia accettato di buon grado la techno abbinandola a cose che non avevano nulla a che fare con essa fu forzatamente normale e coerente. La techno servì a “rompere” le solite cose, anche in merito alla gestione degli spazi sociali. I rave illegali usarono la techno perché in quel preciso momento era il tipo di musica più adeguato a comunicare il nostro pensiero. Era un suono emergenziale che nella sua aggressività esprimeva protesta e che in qualche maniera ben si connetteva al concetto del “mordi e fuggi” tipico delle TAZ – zone temporaneamente autonome. Ai tempi la techno era un suono contaminato da tantissime cose e tradizioni plurime, adesso invece si è trasformata in un filone conforme, è sufficiente variarne appena il suo codice per finire in aree attigue identificate con altri nomi. Molti compagni non avevano affatto piacere di sentire la techno, non erano stimolati da quel suono come del resto non lo ero io sino a pochi anni prima. A volte, si sa, l’approccio personale può incidere sul giudizio di qualcosa. La techno per me si rivelò come un universo da scoprire ma non l’unico, visto che nel tempo la ho accantonata per seguire altri generi che invece avevo trascurato. Negli anni Novanta esisteva un approccio più aperto ma, come in tutte le decadi in cui nascono e si sviluppano cose nuove, si verificò la severa condanna dell’opinione pubblica, ma non me la sento di dare giudizi a ritroso su cosa si potesse fare o dire.
Cosa è diventata la techno nel 2021?
Molta della produzione techno attuale è la fotocopia di cose già sentite, e in questo rientra pure la mia produzione seppur tenti di fare sempre qualcosa di nuovo adoperando un suono che esprima la mia personalità e gusto. Sono cosciente di non possedere particolari capacità rivoluzionarie ma preferirei che siano i critici a stabilirlo, non come fanno alcuni artisti egocentrici e narcisisti, aiutati parzialmente dai social network. Adesso bisogna uscire dal conformismo e dalla propria comfort zone, non esiste praticamente più l’effetto sorpresa di un tempo. Anche nell’ambito dell’organizzazione sono dell’avviso che le nuove generazioni abbiano un po’ perso quella che era la nostra capacità di voler fare qualcosa di nuovo. Molti seguono pedissequamente ciò che c’è stato, senza novità e capacità creative, convinti che rientrare in una categoria possa essere sufficiente per fare carriera. È proprio il concetto di “fare carriera” a dover essere messo in discussione e su questo punto rimango sempre politica: per me la musica è uno degli elementi della vita ma non l’unico. Bisogna provare altre strade, cimentarsi in prove diverse e cercare soprattutto di essere curiosi e sempre pronti e flessibili al nuovo. In questo momento di pandemia poi ancora di più, non solo per adeguarsi ma sopravvivere. In tutta franchezza, un certo tipo di techno ripetitiva, ridondante e fastidiosa non riesco proprio più ad ascoltarla ed apprezzarla, ma non voglio passare per nostalgica perché sono più propensa a guardare ciò che arriverà e non quello che è stato. Vorrei sentire cose nuove, magari generate dal crossover tra culture diverse. Non voglio rassicurare me stessa e gli altri, amo l’effetto sorpresa.
Negli anni Novanta il giornalismo musicale nostrano legato alle nuove forme di dance music (house, techno e derivati) è stato particolarmente lacunoso. Certi contenuti riuscivano a filtrare solo attraverso free press e fanzine e non tramite testate editoriali ufficiali, perlopiù interessate solo ed esclusivamente al mainstream. Tu stessa, nel 1997, hai creato una fanzine provocatoria sin dal nome, Peti Nudi. Di cosa si trattava?
Provenendo dal rock e dall’indie, ero più vicina a riviste tipo Rumore, Rockerilla o Rolling Stone e non seguendo le attività delle discoteche di conseguenza non mi interessavano quelle testate che ne parlavano. Peti Nudi era una “techno-zine” in formato A4 ripiegato. Nacque alla fine del settembre ’97 e diede l’occasione, a me ed agli altri che mi accompagnarono in quella esperienza editoriale dal sapore do it yourself, di raccontare in modo provocatorio e scanzonato la scena non commerciale della musica elettronica che ci piaceva allora. Esistevano anche altre fanzine di quel tipo come Torazine, che rispetto a Peti Nudi contava su una redazione più corposa ed una distribuzione più capillare. Il giornalismo mainstream non fu capace di trattare adeguatamente gli argomenti, ma del resto senza vivere le esperienze in prima persona è difficile raccontarle. I giornalisti al massimo si limitavano a scrivere ciò che avevano sentito dire, avvallando certe tesi piuttosto che altre (e a tal proposito ricordo una trasmissione televisiva, Lucignolo mi pare, che mandò un servizio sui rave tagliato ad hoc da cui non emergeva nulla se non ciò che volevano loro). Peti Nudi ed altre riviste simili nacquero fondamentalmente per “suonarcela e cantarcela”, consentendoci di raccontare la nostra storia e dare valore al movimento tekno dei freeparty, senza alimentare demonizzazioni su quella che fu descritta tante volte come “musica non musica”. Non dimentichiamo che l’Italia è un Paese fatto perlopiù da persone fintamente cattoliche, bigotte, destroidi e tradizionaliste, allo stesso tempo con la puzza sotto il naso e poco propense ad accettare cose che non si conoscono e che vengono messe subito all’angolo, tra “i cattivi”.
Che negozi di dischi frequentavi?
A Roma andavo da Re-Mix, l’unico ad essere superfornito della musica che mi interessava. Qualcosa la acquistavo pure attraverso amici che si recavano direttamente a Londra ed ogni tanto ero io stessa a volare all’estero. Nel 1996, in occasione della Love Parade, misi piede per la prima volta nel berlinese Hard Wax (a cui abbiamo dedicato qui un articolo di “Dentro Le Chart”, nda). Lì presi “Port Rhombus EP” di Squarepusher, su Warp, artista che proposi credo per prima nel circuito dei freeparty italiani. La gente impazzì completamente, era un disco importantissimo sia per lui che per noi, uno di quelli che hanno segnato un’epoca.
Quando e come hai iniziato a produrre musica non limitandoti più a selezionare e mixare quella degli altri?
Arrivai a comporre musica per pura curiosità e non perché avessi aspirazioni carrieristiche o ambizioni da musicista anzi, essendo figlia di una pianista, ho sempre nutrito una forma di rispetto nei confronti dei musicisti, cosa che invece spesso è mancata da parte di tanti DJ. Affrontare l’avvento delle tecnologie con l’acquisto di un computer abbinato all’installazione di nuovi programmi mi diedero la spinta a cominciare, ridendo e scherzando. Non avevo pianificato nulla e testimone di ciò che sostengo è la mia assenza dal primo disco su Idroscalo. Il rispetto marcato nei confronti di chi faceva musica da più tempo mi convinse a tenermi in disparte. Poi, pian piano, mi sono procurata un po’ di macchinette con cui ho migliorato e perfezionato il mio sound, nato come raccolta sedimentata di suoni, registrazioni ed incisioni analogiche e digitali. Sono passata da velocità estreme, anche oltre 200 BPM, a cose lentissime, a 30 o 40 BPM. Non fossilizzarmi fa parte del mio carattere.
Come si è evoluta la tua attività produttiva nel corso del tempo?
Sono partita dalla migliore tradizione IDM, industrial e techno, migliorando l’accortezza per il dettaglio. Ora sono meno frettolosa e più meticolosa, e mi avvalgo anche della preziosa collaborazione di ingegneri del suono che mi aiutano a migliorare il sound seppur le idee restino sempre e solo mie. Questo è fondamentale, anche in studio: accettare suggerimenti va bene ma bisogna evitare di perdere la narratività e mantenere integra la capacità di creare storie e l’atmosfera con la propria musica. Per fare ciò è necessario tempo e non a caso la mia prima produzione su vinile è giunta a ben quattordici anni di distanza dall’esordio come DJ. Non ho mai pensato di sfruttare la mia etichetta per autoprodurmi, ho preferito invece dare spazio agli altri. La mia prima produzione è stata “Homopatik”, del 2012, a cui è seguito poco altro.
Sul fronte live/DJing invece?
Suonare live è radicalmente diverso rispetto ad un DJ set. Credo di avere raccolto più riscontri come DJ che live performer. Fare il DJ è più versatile, è un ruolo che ti offre la possibilità di cambiare il disco che pensavi di mettere anche all’ultimo minuto, velocità che invece non puoi affatto disporre nella dimensione live dove tutto è ben concepito e studiato. Per questa ragione quando mi esibisco nei live preferisco tempistiche molto ridotte, dai venti ai quaranta/quarantacinque minuti. Se il suono è particolarmente aggressivo è meglio dosarlo, in modo tale che la gente abbia nuovamente voglia di sentirti in futuro.
Nell’autunno del 2001, attraverso “Smash Biotek”, debutta ufficialmente Idroscalo Dischi, la tua etichetta che affonda saldamente le radici nel suono IDM ed industrial dalle tinte spiccatamente sperimentali e che, come tu stessa dichiari sinteticamente in “Rave In Italy”, il libro di Pablito El Drito di cui parliamo qui, è stata la risposta alla fine dei rave. Puoi approfondire le ragioni che ti spinsero a crearla? C’è un particolare significato dietro la scelta del nome?
Per approntare “Smash Biotek” ci vollero un paio d’anni circa. Era un triplo vinile e nacque per lanciare il messaggio dello stato delle cose di quel periodo, oltre a voler unire la vecchia generazione del cosiddetto Sound Of Rome con la nuova. Il tutto condito da alcuni interventi internazionali, come quello di Venetian Snares con la bellissima “Withdrew”. Come giustamente dicevi, il debutto risale all’autunno 2001 ma l’idea risale al 1999 quando i rave illegali subirono un discreto calo di interesse causato dalla riduzione di creatività e del livello organizzativo. Iniziò a circolare la proposta di mettere in piedi un’etichetta discografica per dare voce alla nostra musica e alla fine credo che Idroscalo Dischi sia stata la prima ad essere uscita dal circuito dei rave illegali romani. Optai per il nome Idroscalo perché ero molto attiva all’interno dello Spaziokamino di Ostia, dove appunto sorge un idroscalo, ma pure perché ero appassionata di Pasolini e nel ’75 il suo corpo venne ritrovato proprio all’idroscalo ostiense. Idroscalo Dischi fu un omaggio alla sua figura. Scelto il nome, facemmo una colletta per finanziare il progetto e tanti artisti della vecchia scuola romana diedero il proprio contributo. A quel punto presi in mano le redini della situazione occupandomi personalmente delle scelte del pressing plant, della burocrazia, della raccolta del materiale e relativa archiviazione. La presenza di artisti stranieri fu il risultato dei miei viaggi, soprattutto a Berlino. Desideravo avere qualche artista estero per dare un afflato più internazionale al disco. Fu un lavoro duro e lungo ma alla fine gli sforzi vennero ripagati alla grande. Ciliegina sulla torta la copertina, realizzata dal compianto Paolo Picozza che la realizzò a titolo gratuito insieme ai centrini, elevando il livello artistico dell’intera produzione. In fase di distribuzione trovai in Chris della parigina Toolbox Records un più che valido collaboratore. Mi aiutò a piazzare tutte le cinquecento copie a cui non è mai seguita alcuna ristampa. Non ne farò neanche in futuro, “Smash Biotek” era e resterà una limited edition.
La parte interna del gatefold di “Smash Biotek” racchiude una serie di tue ponderate considerazioni sulla bioscienza. «Da una parte siamo incastrati nella becera sopravvivenza del mangiare/cagare/riposare, dall’altra siamo affascinati dall’immortalità del bisturi chirurgico che è capace di tagliare/staccare/cucire/forgiare la bellezza clonata, uguale quindi rassicurante» si legge tra le altre cose, e non mancano prese di coscienza sullo stato del pianeta: «Sappiamo che l’aria che respiriamo è inquinata irrimediabilmente, senza ritorno ad una presunta verginità […]. Siamo schiavi di poche risorse, irrinunciabili carburanti che bruciano per accelerare il nostro inevitabile invecchiamento». A torreggiare su quella colonna di pensieri, tradotti in francese, inglese e tedesco, c’è un invito a mo’ di capitello, evidenziato in grassetto: «Ferma la bioscienza prima che la natura scateni la sua ira». A quasi circa venti anni di distanza tante cose, purtroppo, sono accadute per davvero. Stiamo assistendo inermi allo sfacelo del mondo e della società?
All’epoca l’argomento era decisamente “caldo”, l’utilizzo della biotecnologia invasiva nella vita quotidiana, l’abuso della scienza sulla naturalezza degli eventi… del resto il virus stesso del covid-19 credo sia la drammatica risposta all’intromissione dell’uomo nei confronti dei meccanismi naturali che avvengono sul nostro pianeta. Ora ci fidiamo degli esperti sperando che le cose non peggiorino ulteriormente e forse quello che scrissi circa un ventennio fa si è rivelato tristemente profetico. In quell’occasione cercai di dare al tutto una forma un po’ poetica. Le persone stavano attraversando l’inizio del secolo/millennio con paura e senso di frustrazione derivata dall’impossibilità di controllare il passare del tempo, l’invecchiamento, il cambiamento. Ritengo invece che tutto ciò debba essere affrontato con energia ed entusiasmo, in fondo invecchiare fa parte della natura dell’uomo, non possiamo rimanere eterni e sempre uguali, fare le stesse cose, ripeterci continuamente in un loop biologico infinito, sarebbe noiosissimo. Ripetersi è legato alla paura per la diversità e per l’imprevisto e nella paranoia di voler controllare tutto adesso ci stiamo rendendo conto che la natura si è ribellata, basti pensare alle catastrofi naturali che sono all’ordine del giorno. Non ho figli ma lavorando all’interno del sistema scolastico mi pongo il problema di cosa stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni ed oggi non so dare una risposta. Credo che l’uomo sia capace di adeguarsi di fronte a grandi cambiamenti o drammi che possono succedere, lo spirito di adattamento è insito nella nostra natura e la vita è un continuo equilibrio. Bisognerebbe rendersi conto che una parte della bellezza della nostra esistenza sia rappresentata proprio dall’imprevisto.
Torniamo a parlare di Idroscalo Dischi: quali sono gli highlight che segnaleresti a chi non la conosce e vorrebbe “esplorarne” i contenuti?
Preferirei che l’ascoltatore scoprisse tutto da solo, in modo autonomo, c’è già internet, coi suoi infiniti suggerimenti, ad impigrire le persone. Un valido aiuto è rappresentato da Discogs e YouTube. Personalmente sono affezionata a tutte le uscite su Idroscalo, è stata una bella avventura nella sua interezza.
Credo che l’ultima pubblicazione su Idroscalo Dischi, il tuo “Kill The DJ In You”, risalga al 2017: si tratta di uno stop temporaneo o definitivo?
Per il momento l’etichetta è in stand-by. Ho bisogno di trovare artisti interessanti e sarei propensa a produrre una giovane donna, ma vista la situazione particolare che viviamo preferisco attendere.
Tra 2018 e 2019 hai inciso una manciata di titoli (“I Got Back The Soul Sold In The 90’s” e “Feeling Jazz” di G.A.Z.A. col featuring di Danny Polaris) per Underground, una delle etichette della Media Records recentemente risorte. Come sei arrivata lì? Prevedi di dare continuità a questa collaborazione?
Sono stata contattata da Alessandro, uno dei referenti di Underground. Cercava materiale techno e gli ho proposto diversi pezzi utilizzando pure il nickname G.A.Z.A. che risponde ad un sound più ibrido. L’esperienza è stata carina ma non credo ci siano i presupposti per replicarla. La Media Records non ha più lo splendore di una volta, Gianfranco Bortolotti mi pare interessato più al mainstream (rap e trap) contro cui non ho nulla, ribadisco che a me piace davvero di tutto, ma credo che per portare avanti certi progetti servano maggiori investimenti e soprattutto più attenzione. Mi aspettavo una promozione migliore che purtroppo non è arrivata quindi alla fine ritorno al “mio” underground.
Volevi lanciare un messaggio attraverso il titolo “I Got Back The Soul Sold In The 90’s”?
È un po’ provocatorio, lo ammetto, specialmente nei confronti di chi ha un concetto sacro degli anni Novanta, un periodo che è stato anche abbastanza turbolento, triste e pesante e non sempre confortante come si immagina e sostiene. Mi piace usare titoli ad effetto, fa parte del mio modo di declinare le cose.
Vivi a Berlino dal 2004: ritieni che la capitale tedesca possa essere ancora annoverata tra gli avamposti della club culture europea, o la spinta della gentrificazione ha contagiato pure il mondo della musica?
La gentrificazione è un problema che tocca tutti gli ambiti della vita, e forse è anche normale, ogni tanto bisogna resettare. Molti compagni si lamentano che alcune case occupate siano state ristrutturate dimenticando però che alcune fossero vere e proprie topaie. Si va avanti, non si può rimanere ancorati a contesti fatiscenti che portano altri tipi di problematiche. Chiaramente quando la gentrificazione spopola per dare spazio al turismo elitario non è bello, ma succede in tutte le capitali del mondo e non credo ci sia la benché minima possibilità di uscire da un meccanismo di questo tipo. Per farlo dovremmo mettere in discussione il sistema capitalistico e creare un altro modo per aggregarci e vivere. È il capitalismo stesso a chiedere ed imporre la velocità nel cambiamento e quindi la continua resilienza per affrontare nuove sfide, la maggior parte delle volte insidiose. All’interno dei club berlinesi la musica si è fermata già da tempo. È molto facile sentire DJ affermati che suonano sempre e solo le stesse cose, non provando a fare niente di nuovo ma limitandosi a quello che sanno fare e che la gente si aspetta da loro. Alla fine credo che il vero problema sia il carrierismo che ha portato molti DJ ad allontanarsi dalla passione per la musica in favore di quella per il soldo facile. La finalità di tanti è ricercare il grande consenso ed un pubblico pronto ad omaggiare ed applaudire a prescindere da ciò che si fa. Tutto questo però non offre alcuno stimolo per azzardare e reinventarsi e quasi più nessuno ormai prova strade nuove assumendosi il rischio di deludere o fallire.
I social network e più in generale internet hanno determinato un’identità artistica sempre più fragile. Credi che a risentire di tale “omologazione” sia stata anche la musica underground? Ho l’impressione che per abbracciare i gusti di un pubblico sempre più vasto, un crescente numero di produttori ed etichette abbiano inesorabilmente abbassato la qualità dei loro prodotti.
Sì, sono completamente d’accordo. Capitalizzare le attività artistiche dietro la consolle spesso è a scapito di ricerca, approfondimento e voglia di proporre altro. Il problema principale della scena rimane l’omologazione ed è quello che negli ultimi anni mi ha convinta a mettermi un po’ in disparte. Trovo noioso l’atteggiamento della nuova generazione (ma pure della vecchia, che si è adeguata dimenticando di dare il buon esempio), poco propensa a capire le esigenze del prossimo ma soprattutto poco incline a trovare una propria identità. Anche io, nel corso del tempo, ho cambiato il mio suono ma questa mutazione è frutto di una ricerca, di un pensiero e di un’analisi, non la mera replica di cose che funzionano perché testate da altri anzi, cerco sempre di personalizzare tutto. Questo approccio fa parte della mia filosofia e lo applico pure nella vita quotidiana e non solo quando lavoro dietro la consolle. Nella produzione musicale ciò emerge ancora più nitidamente ed è lì che a mio avviso si vede il vero artista. Negli ultimi anni i generi musicali che mi hanno entusiasmata di più sono quelli che non hanno niente a che fare con la techno. Ho comprato dischi di musica organica che presentano una progettualità del tutto diversa. Dietro magari ci sono ensemble di musicisti provenienti da parti del mondo in cui la musica elettronica non è proprio di casa (Africa, Sud America, alcune zone remote dell’Asia) e che hanno voglia di contaminare, un desiderio insito nella loro cultura perché appartengono a popoli colonizzati. Se da un lato la colonizzazione porta a difendere a spada tratta le proprie tradizioni contro l’invasore, dall’altro sprona a trarre le cose migliori dallo stesso. Il mescolamento di culture crea musica bellissima che non può non essere conosciuta anche da chi è dedito alla techno. Bisognerebbe avere una conoscenza aperta della musica, lasciarsi andare, sperimentare ed avere voglia di cose nuove ma questa curiosità fa parte della propria personalità, non la si può appiccicare sulla faccia con un pezzo di scotch. Viene dal background, dalla crescita individuale, dalla famiglia, dall’educazione che è stata impartita, dai posti che si frequentano… Non smetterò mai di consigliare agli aspiranti artisti delle nuove generazioni di essere curiosi e di non limitarsi a rifare ciò che hanno già fatto altri in passato. Che senso ha ripercorrere la strada di Jeff Mills? C’è persino chi si indebita per comprarsi una TR-808 o una TR-909 per poi riprodurre gli stessi pattern strausati da un trentennio. A remare contro è pure lo sfrenato revival: bisognerebbe interfacciare il vecchio al nuovo per generare cose diverse e che guardino al futuro. Fermarsi a ri-fare il passato lo trovo estremamente noioso e soprattutto sterile.
Cosa è diventato l’underground ai tempi dei social network?
Qualche settimana fa, su Facebook, mi sono imbattuta in una serie di critiche nei confronti di chi ha seguito il Festival di Sanremo o contro chi, in qualche maniera, si è sentito coinvolto da quella kermesse. A scagliarle è stato qualcuno che crede di essere un “portavoce della cultura underground” e che vuole sembrare duro e puro rispetto a chi invece spinge o apprezza il mainstream. Per me rimanere ancorati sempre e solo alle stesse sonorità per tutta la vita non vuol dire affatto essere underground, prima di criticare il mainstream bisognerebbe studiarlo in tutte le sue forme. Per essere underground non basta mettersi il libretto rosso di Mao in tasca e sostenere di essere un rivoluzionario e di rappresentare ciò che non può essere monetizzato o utilizzato dalla cultura “ufficiale”. Per essere dei veri rivoluzionari, e quindi dire qualcosa di autenticamente nuovo, bisogna essere geniali ma pochissimi, tra noi, lo sono per davvero. Pur essendo molto distante dal mondo di Sanremo, non disdegno affatto la cultura nazionalpopolare perché, chi più e chi meno, tutti sono entrati in contatto con essa. Alzi la mano chi prima di essere affascinato da musiche diverse non sia stato colpito dalle canzonette trasmesse in radio o dal videoclip famoso di turno. Oggi tante cose possono sembrare alternative ma non lo sono affatto ed inoltre bisogna capire se chi si pone come “diverso” rispetto alla massa poi lo sia per davvero. Non sono molto convinta di chi parla di regole per stabilire cosa sia mainstream ed underground. Prima di tutto bisognerebbe fare le cose con serietà e passione ma soprattutto studiare per capire a fondo cosa ci piace e non. Tanti sono convinti che postare su Facebook un video di Aphex Twin o degli Autechre basti per essere considerati alternativi ma in realtà si tratta di stupidi e banali cliché. C’è chi sbandiera di ascoltare Aphex Twin ma poi, nel privato, di alternativo non ha proprio niente. Chi pensa che la cultura underground sia pari ad una patacca da appuntarsi addosso è fuori strada ed assistere a questi atteggiamenti per è estremamente irritante. Bisognerebbe lottare tutti i giorni contro una serie di cose e non utilizzare musiche e culture alla stregua di sticker che si appiccicano addosso per darsi un tono. Probabilmente chi fa ciò segue le mode ed è incapace di capire se un pezzo sia di pregio o meno oppure se dietro un lavoro ci siano ricerca ed approfondimento. Il mainstream non esisterebbe se non ci fosse l’underground e viceversa, quindi dipingere uno di bianco ed uno di nero non ha davvero senso. I colori si mescolano così come le dimensioni e gli ambiti. Bisognerebbe piuttosto parlare di qualità che si è persa tanto nel mainstream quanto nell’underground.
Il post pandemia riserverà davvero sostanziali novità nel settore della musica indipendente o tutti i bei discorsi che circolano in Rete da ormai un anno a questa parte si disperderanno come granelli di sabbia al vento?
Sono convinta che la pandemia non ci stia insegnando proprio niente. Senza dubbio la popolazione mondiale sta affrontando grosse difficoltà ma appena si vedrà un piccolo spiraglio, ognuno si riprenderà il proprio spazio. Chi era solidale resterà tale o forse di più, chi non lo era andrà avanti col proprio egocentrismo. Questa è una grossa opportunità per ragionare, riflettere, cercare di migliorarsi e lasciare alle generazioni future un mondo migliore ma gli interessi dei singoli e ancor di più delle multinazionali non cambiano, restano aggressivi ed invadenti. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, dovrebbe fare qualcosa per la gioia e il piacere di farlo. Non ripongo troppe speranze che ciò accada però. Mi concentrerò su poche amicizie, famiglia, affetti e lavoro, nella speranza che i club possano riaprire perché ho tanta voglia di suonare. Le feste mi appartengono da sempre, sin da quando organizzai quella per il mio decimo compleanno.
Quali sono le prime tre cose che ti vengono in mente se ripensi ai rave degli anni Novanta?
Il discreto grado di follia generale, visto che all’epoca si pensava di poter fare tutto quello che si voleva e che, effettivamente, si faceva, la componente politicizzata del nostro agire e l’energia proveniente dal nuovo millennio che stava arrivando. Forse quell’energia era legata alla giovane età, fu un elemento assai caratterizzante di quel periodo.
Quali invece i tuoi progetti che si concretizzeranno in un prossimo futuro?
In arrivo ci sono diversi brani che troveranno spazio nel catalogo di varie etichette: a maggio, ad esempio, tocca a “Pandemoniak”, EP destinato alla Witches Are Back. Nel frattempo continuo a comprare dischi e a leggere moltissimo, anche in tedesco. Tra non molto uscirà il libro di Caterina Tomeo intitolato “L’Elettronica È Donna” per cui ho scritto e curato un capitolo che riguarda Berlino, la musica elettronica e la pandemia. A pubblicarlo sarà Castelvecchi.
(Giosuè Impellizzeri)
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