La dance rimasta nel cassetto

Annunciare l’uscita di un disco che poi però resta nel cassetto: capita più volte negli anni Novanta, quando la musica dance vive una delle sue fasi più entusiasmanti. È accaduto per motivi legali, connessi ad esempio all’uso non autorizzato di un campionamento, per scelta dell’autore o, più frequentemente, per un ripensamento della casa discografica.
Per l’occasione Luca Giampetruzzi e Giosuè Impellizzeri, che tornano a scrivere un articolo a quattro mani a distanza di diversi anni, fanno incetta di informazioni d’archivio e le mettono in fila per indagare e raccontare le vicende di brani sconosciuti perché mai pubblicati o usciti dopo decenni a insaputa degli stessi autori. Non manca neanche qualche caso legato a pezzi finiti sul mercato con il nome artistico diverso rispetto a quello dichiarato inizialmente. Il risultato finale è una gallery che conta circa una ventina di titoli legati a storie rimaste nell’ombra, arricchite da dichiarazioni riscoperte su vecchie riviste o raccolte ad hoc.

Aladino – Nasty Rhythm
Forte di una storia lunga ormai quarant’anni, la bresciana Time Records è una delle etichette dance più importanti nei Novanta, con diversi progetti di successo. Tra questi, a partire dal 1993, anche Aladino, nome legato al DJ e produttore Diego Abaribi, che esordisce nell’estate di quell’anno con “Make It Right Now” (di cui parliamo qui) e si conferma qualche mese dopo con “Brothers In The Space”, entrambi scanditi dalla voce di Emanuela Gubinelli meglio conosciuta come Taleesa. Nell’autunno del 1994, su alcune riviste, si parla di un LP per Aladino ma Abaribi, contattato per l’occasione, spiega che «nonostante fossero pronti diversi singoli, tra cui “Promise”, poi uscito come No Name, il progetto dell’album venne accantonato in quanto la Time puntava più al mercato dei singoli. Tra i pezzi già pronti c’era anche “Nasty Rhythm”, che a mio parere sarebbe stato il disco migliore tra quelli usciti a nome Aladino, era davvero forte. In quello stesso periodo decisi di lasciare l’ambiente musicale per dedicarmi all’azienda dolciaria di famiglia, quindi la traccia non venne mai pubblicata». Orfano del bravo produttore bresciano, il progetto Aladino vede un’altra uscita a ottobre 1995 con “Stay With Me”, prodotta dal duo Trivellato-Sacchetto e con la voce di Sandy Chambers.

Albertino Feat. The Outhere Brothers – ?
Speaker di successo e assoluto protagonista della scena radiofonica italiana fin dagli anni Ottanta, Albertino è diventato negli anni Novanta il punto di riferimento per il genere dance, grazie ai suoi programmi DeeJay Time e DeeJay Parade in onda su Radio DeeJay. Significativa anche la sua carriera a livello discografico che l’ha visto protagonista con alcune produzioni come “Your Love Is Crazy”, a cui abbiamo dedicato un articolo qui, e collaborazioni in vari progetti (Do It!, Lost Tribe – di cui parliamo qui – The End, Control Unit), soprattutto a inizio anni Novanta. Nel luglio 1995, come dichiarato dallo stesso Albertino attraverso un’intervista per la rivista di videogiochi The Games Machine realizzata da Stefano Petrullo, era in programma l’uscita di un disco realizzato con gli Outhere Brothers. «Dopo il successo ottenuto all’Aquafan a ferragosto (del 1994, nda) ero impazzito, mi sentii un po’ cantante e volevo fare un disco con gli Outhere Brothers. Loro mi mandarono la base da Chicago, tra l’altro molto bella, ma poi mi sono vergognato e non l’ho fatto… Se questa cosa fosse andata in porto però, penso che sarei arrivato al primo posto delle classifiche». Un disco con la voce di Albertino uscirà anni dopo, nel 2001, e arriva proprio al numero uno della classifica di vendita italiana: “Super”, realizzato insieme a Gigi D’Agostino.

Alex Party – Now It’s Time
Il progetto di Alex Natale e i fratelli Gianni e Paolo Visnadi è, soprattutto tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, uno dei più importanti tra quelli da esportazione, con una posizione numero due raggiunta nella classifica di vendita nel Regno Unito, a febbraio 1995, grazie a “Don’t Give Me Your Life”. Con “Wrap Me Up”, sempre nello stesso anno, diventano profeti in patria, visto che il brano interpretato da Shanie Campbell è uno dei grandi successi estivi per lo Stivale tricolore. Dopo il fallimento della Flying Records però, avvenuto alla fine del 1997 e quindi anche dell’etichetta UMM (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) in cui militavano Natale e i Visnadi, il progetto subisce un repentino stop che pare possa terminare a novembre del 1998 quando sul mercato appare una white label intitolata “Now It’s Time”. Il brano, tuttavia, non vede ufficialmente la luce perché gli autori, a dispetto del titolo, non sono convinti al 100% dell’operazione, e ciò fa calare (temporaneamente) il sipario sul progetto prodotto nel 77 Studio di Mestre. Il ritorno però è solo rimandato, visto che nell’estate del 2000 gli Alex Party ricompaiono con un singolo dal titolo “U Gotta Be” su etichetta Undiscovered, che ottiene ottimi riscontri ed è impreziosito da un remix ad opera degli Eiffel 65.

Claudio Coccoluto – Rio
L’uscita di “Rio” di Coccoluto non è mai stata annunciata pubblicamente ma pare che nel 1998 il pezzo fosse destinato all’etichetta milanese Reshape, tentacolo house del gruppo Dipiù guidato da Pierangelo Mauri. Costruita su campionamenti tratti da “Rio De Janeiro” di Gary Criss uscito su Salsoul Records nel 1977, la traccia nasce nell’HWW Studio di Cassino insieme all’inseparabile Savino Martinez che, come racconta qui, non ricorda nel dettaglio le ragioni per cui rimase chiusa nel cassetto ma ipotizza che la causa fosse legata alla mancata autorizzazione dell’uso del sample. Un paio di minuti di “Rio” finiscono sul canale Soundcloud della thedub: Martinez conserva ancora il DAT nel suo studio.

Countermove - Something
La copertina dell’album dei Countermove diffusa in formato digitale nel 2009

Countermove – Something
Nato alla fine del 1998, Countermove prende le mosse dalla new wave e dal synth pop, generi che gli autori Cristian Camporesi (intervistato qui) e Alberto Frignani conoscono più che bene e a cui puntano con l’aiuto di Davide Marani, cantante dal timbro molto simile a quello di Dave Gahan (è sua la voce di “A Question Of Time” di Tony H, artista di cui si parla più avanti, nonché di altre cover della band di Basildon come “Personal Jesus” dei Bond Street, “Little 15” dei Mustache e “Flexible” dei Miami Dub Machine”). “Myself Free”, uscito nella primavera ’99 e per cui viene girato anche un videoclip, apre la strada con discreti risultati che si cerca di replicare con “Unbelievable” del 2000. L’anima pop alla base del progetto spinge la Do It Yourself a prendere in considerazione l’ipotesi di pubblicare persino un album, “Something”. Alla fine però tutto si arena con l’EP omonimo diffuso solo in formato promozionale. «Quando incontrai Cristian e Alberto, c’erano già diverse canzoni allo stato di demo o poco più» spiega Marani, anni fa, sulle pagine di Decadance Appendix. «L’ingaggio con la Do It Yourself avvenne perché Molella, amico di Cristian, ascoltò un paio di brani probabilmente intravedendo il potenziale commerciale con dei remix ossia “Myself Free” e “Another Day”. Sul primo non si sbagliava affatto e da lì a poco ci chiesero di preparare l’album. Avevamo tempo sino al 10 settembre di quell’anno, il 1999. Nel frattempo uscì il secondo singolo, “Unbelievable”, spinto ancora dal remix di Molella & Phil Jay. Noi ci presentavamo come band pop o techno pop, ma con l’alto airplay radiofonico legato a un’etichetta prettamente dance tutti ci inquadrarono semplicemente come gruppo dance. A emergere fu dunque un’immagine “strozzata” e piuttosto riduttiva per chi, come noi, suonava anche la chitarra acustica ed eseguiva brani unplugged. “Dive” avrebbe dovuto anticipare l’uscita di “Something”, pianificata prima per ottobre, poi per dicembre, poi per gennaio 2000 in occasione del Midem, poi a febbraio … ma alla fine fu chiuso in un cassetto. Forse non era propriamente adatto al pubblico italiano visto che ricalcava gli schemi dei Depeche Mode, la passione che condividevo con Cristian e Alberto. In seguito l’etichetta ci chiese di scrivere qualcosa sulla falsariga di “Myself Free”: preparammo delle bozze ma nessuna andava bene. Il tempo passava e la scadenza del contratto era ormai prossima, non vedevamo l’ora di spedire una raccomandata con ricevuta di ritorno affinché non fosse rinnovato per tacito consenso. A posteriori, credo che finimmo nelle mani sbagliate: noi eravamo pop e facevamo pop ma l’etichetta era dance e vide il lucro solo in un paio di singoli remixati in chiave dance». Il 27 agosto 2009, a sorpresa, la Do It Yourself pubblica in digitale l’album dei Countermove, fortemente intriso di riferimenti derivati dalla band britannica oggi attiva con Martin Gore e Dave Gahan, forse proprio quei riferimenti che contribuirono a farlo naufragare circa dieci anni prima.

Datura & Carol Bailey – I Can Feel It
1997: il suono della dance made in Italy sta attraversando per l’ennesima volta una fase di cambiamento e in primavera le produzioni tornano ad avere un sapore pop, dopo l’abbuffata di dream progressive dei mesi precedenti. Sulle pagine della rivista DiscoiD si parla di un’inedita collaborazione marchiata Time Records, tra i Datura e Carol Bailey (cantante di cui parliamo qui), tra i nomi di maggior spicco dell’etichetta bresciana di Giacomo Maiolini. L’annuncio però cade nel vuoto visto che nei mesi seguenti si perdono le tracce del pezzo intitolato “I Can Feel It”. Tempo dopo Ciro Pagano dei Datura afferma che «si stava pianificando l’uscita, ma poiché il brano non piacque a uno speaker radiofonico di riferimento dell’epoca, si preferì seguire il suo suggerimento e non commercializzarlo, cosa che, a ogni modo, in quegli anni capitava spesso». Relativamente ai Datura, nel cassetto resta pure il remix di “Angeli Domini” realizzato dai tedeschi Scooter. Come spiegano Stefano Mazzavillani e il citato Pagano nell’intervista finita in “Decadance”, la ragione per cui ciò avvenne fu legata a un problema di tempistiche: «quando gli amici Scooter ci consegnarono quel remix, sulla rampa di lancio era già posizionato “Mantra”. All’epoca in Time Records non c’era la mentalità adatta per stampare un singolo nuovo con una traccia uscita in precedenza, seppur in versione inedita. Da lì a breve fu la Media Records di Gianfranco Bortolotti a dare inizio a questo tipo di pratica che permetteva di creare un filo conduttore tra una pubblicazione e l’altra dello stesso artista». Intorno al 1996 si parla anche di un nuovo album per i Datura, il secondo dopo “Eternity” del 1993: «circa un anno fa era pronto l’LP che però abbiamo bloccato perché troppo legato al nostro vecchio sound. Successivamente è nata “Voo-Doo Believe?” e abbiamo voltato del tutto pagina» chiariscono Pagano e Mazzavillani in un’intervista di Paolo Caputo apparsa sulla rivista Future Style nel 1997, aggiungendo che il progetto in tale direzione ormai non fosse più tra le priorità. «Fare un album è un lavoro importante che richiede un grande sforzo di tempo ed energie, sarebbe un peccato sprecarlo con tempi e modi che non sono ideali. Oggi in Italia la situazione commerciale e artistica nel mondo della dance è molto delicata, restiamo quindi in attesa di un segno». Quel segno, evidentemente, non è mai arrivato.

DJ Cerla & Moratto – Baby Love
A metà degli anni Novanta, tra i generi più apprezzati dai fruitori di musica dance, c’è la happy hardcore, caratterizzata da pianoforti sincopati, alti bpm e melodie felici, happy per l’appunto. Nonostante le produzioni di questo stile arrivassero principalmente dai Paesi nordeuropei, ad abbracciarlo sono anche alcuni artisti italiani, con fortune alterne. Tra questi i D-Juno, Tiny Tot (di cui parliamo qui), Russoff e l’accoppiata formata da Gabriele Cerlini, meglio noto come DJ Cerla, e il musicista Elvio Moratto. All’inizio del 1995 i due, accompagnati dalla voce di Jo Smith, scalano le classifiche di vendita con “Wonder” che ripesca la melodia di “Help Me (Get Me Some Help)”, brano del 1971 di Tony Ronald già ricostruito in versione happy hardcore qualche mese prima dagli olandesi Charly Lownoise e Mental Theo per “Wonderfull Days”.

Cerla & Moratto - Baby Love
La compilation in cui finisce “Baby Love”

Il seguito intitolato “Baby Love”, la cui pubblicazione è prevista per l’estate dello stesso anno, stranamente non vede ufficialmente la luce nonostante l’inserimento nella compilation “Festivalbar Superdance ’95”. «La Flying Records, nostra etichetta di quel periodo, ci chiese di realizzare velocemente un brano da destinare a un’importante compilation e così facemmo. Poi però, per l’uscita ufficiale, era necessario elaborarlo adeguatamente ma visto che non fu possibile farlo per vari motivi, non venne ritenuto abbastanza forte per la pubblicazione e quindi accantonato» spiega in merito DJ Cerla.

Freestylers – B Boy Breakers
Non è raro che negli anni Novanta si mettano sul mercato produzioni discografiche in formato white label disponibili in poche centinaia di copie: è una modalità che permette di testare le proprie idee con un investimento economico ridotto al minimo e praticabile anche senza il supporto di un distributore. Avviene più o meno così per il duo britannico dei Freestylers, formatosi nel 1996 dalla collaborazione tra Aston Harvey e Matt Cantor, entrambi reduci di diverse esperienze, anche di successo, come Uno Clio e Strike. In occasione della nuova avventura optano per uno pseudonimo inedito, Freestylers per l’appunto, con cui realizzano un remix di “Do You Wanna Get Funky” dei C+C Music Factory, originariamente del 1994. Lo solcano su un test pressing single sided con l’intenzione di inaugurare la loro nuova etichetta, la Freskanova, ma qualcosa non va per il verso giusto. Per gettare luce sull’accaduto risulta provvidenziale Nico De Ceglia (intervistato qui) che a dicembre ’97, attraverso le pagine di DiscoiD, chiede ragguagli a David Morgan, uno dei manager dell’etichetta: «il disco non è mai uscito per problemi irrisolti legati all’autorizzazione di alcuni samples. Tuttavia è diventato un classico nonostante sia praticamente impossibile trovarlo» spiega Morgan. «Sono ancora molti quelli che ci chiamano per avere informazioni a riguardo ma credo che solo tre o quattro persone ne posseggano una copia, oltre ovviamente agli stessi autori. Non uscirà mai anche se una sua commercializzazione probabilmente lo avrebbe reso un successo». Il primo disco della Freskanova è quindi destinato a rimanere nel cassetto, almeno parzialmente, visto che il secondo brano, “Beat Of The Year”, finisce sulla quinta uscita dell’etichetta firmata Freska Allstars. Qualche copia, nel corso degli anni, è transitata dal marketplace di Discogs subendo peraltro un sensibile incremento nella quotazione che il 26 aprile 2015 ha toccato i 332 €. Per i Freestylers e la loro Freskanova però è solo questione di tempo: nel ’98, grazie al boom commerciale del big beat, spopolano con “B-Boy Stance” col featuring del compianto Tenor Fly e trainato da un videoclip in alta rotazione su MTV. Il pezzo è estratto dall’album “We Rock Hard” da cui vengono prelevati altri singoli come “Ruffneck” e “Here We Go”, pubblicati anche in Italia dalla T.P. del gruppo Dipiù.

Gabry Ponte – Power Of Love
È convinzione generale che il primo singolo ufficiale del noto DJ torinese sia quello uscito nel 2001 intitolato “Got To Get”, che mette insieme “Dance Your Ass Off” dell’olandese R.T.Z. e “Feel That Beat” dei 2 Static. In realtà Gabry Ponte cerca la via solista già a gennaio 1999 con “Always On My Mind” (nulla a che vedere col brano omonimo contenuto nel suo primo album) del progetto The Gang @ Gabry Ponte, con la voce di Jeffrey Jey. Ad onor del vero però il primissimo tentativo risale addirittura al 1997 con una traccia intitolata “Power Of Love” realizzata insieme a Simone Pastore dei Da Blitz di cui parliamo qui, che si aggiungeva ad altri progetti curati da lui stesso all’interno della Bliss Corporation come Sangwara e Blyzart. Il brano non esce ufficialmente ma anni dopo viene inserito all’interno del catalogo di Danceria, portale attraverso cui l’etichetta di Massimo Gabutti (intervistato qui) e Luciano Zucchet vendeva la propria musica in formato digitale e ricercava giovani talenti attraverso un nutrito forum.

Molella & Phil Jay – Don’t You Want Me
Una problematica molto diffusa, fin dalla nascita della house music e dell’utilizzo dei campionatori come strumento per creare musica, è legata all’utilizzo dei sample, parti di altre canzoni già edite e magari di successo adoperati per creare brani inediti. Come visto più sopra nei casi di Claudio Coccoluto e dei Freestylers, non sempre gli autori o gli editori originali permettono l’uso di campionamenti tratti dal proprio repertorio e questo, di fatto, può bloccare l’uscita delle musiche che li contengono. È proprio quanto accaduto a “Don’t You Want Me”, follow-up di “With This Ring Let Me Go”, successo estivo del duo Molella e Phil Jay i quali, dopo aver rispolverato il brano “Let Me Go!” degli Heaven 17, targato 1982, tentano di fare il bis riprendendo una hit degli Human League dello stesso anno, “Don’t You Want Me”. L’operazione non va in porto a causa della mancata autorizzazione del “sample clearance” da parte degli autori come dichiarato dallo stesso Molella in una puntata del 2008 di Samples, programma condotto all’epoca da Paolo Noise e Wender su Radio 105.

Netzwerk - Love Is Alive
Annunciato come il nuovo Netzwerk, “Love Is Alive” esce come Johanna

Netzwerk – Love Is Alive
Progetto di punta della DWA (etichetta a cui abbiamo dedicato qui una monografia) fino a metà degli anni Novanta e passato nel 1997 alla scuderia della Dancework per il poco noto “Dream”, Netzwerk, animato dai toscani Gianni Bini, Fulvio Perniola, Marco Galeotti e Maurizio Tognarelli ha segnato il periodo eurodance grazie a diverse hit, in primis “Passion” (di cui parliamo qui) e “Memories”, entrambi interpretati da Simone Jackson, successivamente nota come Simone Jay come raccontiamo qui. Nel 1999 su Volumex, sublabel dell’etichetta milanese gestita da Fabrizio Gatto (intervistato qui) e Claudio Ridolfi, viene annunciato il nuovo singolo dei Netzwerk intitolato “Love Is Alive”. L’uscita ufficiale avviene però sotto un altro nome, Johanna, dietro il quale si nasconde Karen Jones, cantante precedentemente impegnata col progetto Bit Machine ad opera di Daniele Davoli e i suoi Black Box. Una delle quattro versioni è firmata dal compianto Alberto Bertapelle alias Brainbug, che pochi anni prima spopola a livello internazionale con “Nightmare”.

R.A.F. By Picotto - What I Gotta Do
L’info sheet che accompagna la tiratura promozionale di “What I Gotta Do” su GFB

R.A.F. By Picotto – What I Gotta Do
Per “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto probabilmente sarebbe più corretto parlare di ripensamento giacché il brano, alla fine, viene pubblicato ma con alcune modifiche e soprattutto con un nome d’artista diverso da quello pianificato in prima battuta. Le copie promozionali iniziano a circolare a gennaio del 1994 e contengono quattro versioni tra le quali svetta l’Extended Mix. In buona sostanza il pezzo è un rifacimento eurodance di “Days Of Pearly Spencer” di David McWilliams, un brano del 1967 che forse ispira Cerrone per “Supernature” e che viene coverizzato a più riprese da artisti sparsi per il mondo, tra cui Marc Almond e la nostra Caterina Caselli che lo reintitola in “Il Volto Della Vita”. Ai tempi Mauro Picotto, affiancato in studio da Steven Zucchini, ricorre anche a uno stralcio melodico di “Pure” dei GTO e un paio di frammenti vocali: uno è un campionamento preso da “My Family Depends On Me” di Simone e già usato in “What I Gotta Do” di Antico, l’altro è un rap di Ricardo Overman alias Mc Fixx It (“I love music yeah, can you feel it”) che si ritroverà qualche mese dopo in “Move On Baby” dei Cappella. “What I Gotta Do” finisce proprio nel secondo album di questi ultimi intitolato “U Got 2 Know”. Contattato con la speranza di poter aggiungere dettagli circostanziati, l’artista piemontese purtroppo non rammenta nello specifico le ragioni che spinsero la Media Records a cambiare il nome dell’artista ma ipotizza che ciò avvenne perché sorse l’esigenza di ultimare il nuovo album dei Cappella sottolineando, come peraltro già fatto nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” a cui abbiamo dedicato un articolo qui, come allora ci fosse chi produceva musica e chi invece decideva la modalità con cui pubblicarla, nomi e marchi inclusi. «Più che la traccia in sé, riascoltare il pezzo mi fa pensare a quanti ingredienti eterogenei cercai di incastrare» commenta Picotto. «Oltre alla melodia di “Days Of Pearly Spencer” e il campionamento di Simone, in “What I Gotta Do” c’erano anche un frammento di Herb Alpert e uno preso da un mix hip hop che comprai al Disco Più di Rimini. È pazzesco come un riff o una tonalità inconsueta possano fare riaffiorare ricordi ormai andati persi, ma del resto è questa la magia della musica». Vale la pena sottolineare infine che a “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto venne abbinato anche un numero del catalogo GFB in previsione di una pubblicazione ufficiale, lo 063, poi riassegnato a “Doop” dell’omonimo duo olandese (formato da Ferry Ridderhof e Peter Garnefski, già artefici del successo “Hocus Pocus”) che la Media Records prende in licenza per il territorio italiano.

Systematic – Upside Down
Una partenza sotto i migliori auspici colloca Systematic, a cui abbiamo dedicato qui un articolo/intervista, tra i progetti italiani meglio riusciti del ’94, anno di grazia dell’eurodance. Dopo lo sprint iniziale ottenuto con “I Got The Music” e “Love Is The Answer” però l’interesse si flette sino a lasciare quasi nell’anonimato “Stay Here (In My Heart)”, cantato da Sandy Chambers, e “Suite #1 D-Minor/Klavier Concert”, entrambi del ’96. Affidato a un nuovo team di produzione composto dal musicista Bruno Guerrini e dal giornalista Riccardo Sada, Systematic risorge nel 2000 con “Everyday”, ispirato dai primi successi messi a segno dagli Eiffel 65. L’interesse mostrato da vari Paesi europei lascia presagire un follow-up che viene effettivamente annunciato a febbraio del 2001 proprio da Riccardo Sada attraverso la sua rubrica Le Fromage sulle pagine del mensile d’informazione discografica DiscoiD.

Systematic - Upside Down
“Upside Down” esce nel 2021, venti anni dopo la sua creazione

Contattato per l’occasione, Sada spiega che l’intenzione era quella di dare un seguito al fortunato “Everyday” ma usando un riff potenzialmente utilizzabile per le suonerie dei telefoni cellulari, un segmento di mercato che in quel periodo iniziava a mostrare interessanti potenzialità e sbocchi commerciali. «Guerrini mi telefonò mentre ero in vacanza in Grecia e mi fece ascoltare un frammento della melodia ma mi resi subito conto che non fosse forte e immediata come quella di “Everyday”» ricorda il giornalista. «Il testo e la voce erano ancora di Ivano Fizio e i riferimenti agli Eiffel 65 non mancavano, tuttavia la Energy Production, proprietaria del marchio Systematic, preferì non investire denaro su “Upside Down”, essenzialmente nato dallo scarto della melodia di “Everyday”». A maggio del 2021, a un ventennio di distanza, l’etichetta di Raimondi e Ugolini pubblica in digitale “Upside Down” inserendolo peraltro nella tracklist di “Love Is The Answer”, un best of che raccoglie il repertorio del progetto Systematic.

Ti.Pi.Cal. - What I Like

Ti.Pi.Cal. – What I Like
Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea sono stati per anni, con il nome Ti.Pi.Cal. e altri, tre dei produttori più prolifici della scena dance italiana. Dopo un decennio costellato di hit legate al loro progetto più importante, Ti.Pi.Cal. per l’appunto, nell’estate del 2001 esce “Is This The Love”, brano che vede il ritorno alla parte vocale del cantante americano Josh Colow. Successivamente arriverà una pausa lunga ben dieci anni intervallata però, nel 2006, dal promo single sided su LUP Records di una traccia cantata da Kimara Lawson e dal titolo “What I Like”, caratterizzata da un insolito stile pop. A tal proposito, Vincenzo Callea chiarisce: «il brano risale al 2000 e doveva sancire il nostro passaggio dalla New Music International alla Time ma poi l’accordo con l’etichetta di Giacomo Maiolini saltò e quindi anni dopo uscì solo come promo, ricevendo qualche passaggio su Radio DeeJay. A dir la verità non sembrava neanche un disco dei Ti.Pi.Cal.». Il successo busserà ancora alla porte dei tre siciliani con “Stars”, tra le hit dance dell’estate 2011.

Tony H – Year 2000 (I Wanna Fly)
Entrato nella scuderia BXR nel 1998, Daniele Tognacca alias Tony H incide per l’etichetta della Media Records (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) “Zoo Future”, “Sicilia…You Got It!” e “Tagadà/www.tonyh.com”. A luglio del 2000 su DiscoiD viene annunciata l’uscita di un quarto disco, composto da “due versioni diversissime tra loro, una strumentale, l’altra cantata e dedicata all’estate di Ibiza”. Il trafiletto rimanda anche alla pubblicazione nel Regno Unito prevista a settembre. Di questo pezzo però, intitolato “Year 2000 (I Wanna Fly)” si perdono le tracce.

Tony H - Year 2000 (I Wanna Fly)
Una delle due compilation in cui finisce “Year 2000”

Contattato per l’occasione, Tognacca spiega che non riuscì a finalizzare il progetto per problemi di tempo perché, proprio in quel periodo, lasciò Radio DeeJay, dove era arrivato nel 1989, per approdare a Radio Italia Network che stava cominciando un nuovo percorso editoriale, e gli impegni in quella direzione finirono con l’assorbire tutte le sue energie. La lavorazione del brano non fu quindi portata a termine e si limitò a una sola versione che venne trasmessa come Disco Strobo in “From Disco To Disco”, su Radio DeeJay, nella puntata di sabato 29 aprile 2000. Quella stessa versione finisce nella tracklist del quarto volume della compilation “Collegamento Mentale” mixata dallo stesso Tony H e nel primo di “Maximal.FM” mixata da Ricky Le Roy, dove c’è un altro inedito confinato al CD in questione, “Happy” di Massimo Cominotto. Dal web però affiora una seconda versione di “Year 2000 (I Wanna Fly)” intitolata CRW Mix interpretata da Veronica Coassolo, in quel periodo voce del progetto CRW, che confermerebbe i dettagli emersi dal trafiletto su DiscoiD: a quanto riportato da un lettore del blog, a renderla disponibile anni addietro sul proprio profilo SoundCloud fu proprio Tognacca che però poi decise di rimuoverla. Sul fronte “annunciati ma mai pubblicati”, di Tony H si ricordano pure il mash-up “Hard Spice” del 1997, di cui parliamo qui, e “Delicious” che il DJ originario di Seregno presenta attraverso le pagine di DiscoiD a dicembre 2001 quando sta per partire il suo nuovo programma chillout su Radio Italia Network chiamato provvisoriamente “Delicious” per l’appunto ma poi diventato “Suavis”. Si segnala infine la ripubblicazione della Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” sotto il titolo “Mutation” e l’artista Pivot, su Pirate Records, l’ennesima delle etichette sussidiarie della Media Records. A oggi resta ignota la ragione per cui ciò avvenne.

USURA - Evolution - Magic Fly
L’advertising su cui si fa cenno a “Evolution/Magic Fly” (giugno ’96)

U.S.U.R.A. – Evolution/Magic Fly
Esplosi in tutta Europa tra 1992 e 1993 grazie a “Open Your Mind” che la bresciana Time Records pubblica su Italian Style Production a cui abbiamo dedicato qui una monografia, gli U.S.U.R.A. tentano di mantenere alte le proprie quotazioni per buona parte degli anni Novanta ma riuscendo solo parzialmente nell’impresa. Il team, rappresentato pubblicamente dai veneti Claudio Varola, Michele Comis ed Elisa Spreafichi ma completato, nell’attività in studio, dal produttore Valter Cremonini e dal musicista Alex Gilardi, continua a raccogliere consensi significativi sino al 1995. Nella seconda metà del decennio, quando l’eurodance cede il passo a nuove tendenze, il marchio perde quota. A “Flying High”, cantata dalla britannica Robin Campbell che aveva già interpretato dei brani per gli Alex Party, avrebbe dovuto fare seguito “Evolution/Magic Fly”, come annunciato da una pagina pubblicitaria della Time Records a giugno ’96. In realtà sul mercato, in estate, arriva “In The Bush”, remake house di un classico disco/funk del 1978 degli americani Musique. Contattato per l’occasione, Alex Gilardi rivela di non ricordare nulla in merito a “Evolution”, diversamente da “Magic Fly”, cover dell’omonimo degli Space del 1977. «Lo reinterpretammo in chiave dream progressive, così come voleva la moda del periodo, ma alla fine, su suggerimento di Giacomo Maiolini, rimase nel cassetto» afferma a tal proposito. Per gli U.S.U.R.A. ci sarà una nuova fiammata nel 1997 grazie al remix di “Open Your Mind” realizzato da DJ Quicksilver (e dal fido collaboratore Tommaso De Donatis). Sull’onda di questo risultato Maiolini affida proprio a loro “Trance Emotions” del 1998, rimasta l’ultima tessera del progetto nato a Padova di cui però si ipotizza un ritorno nel nuovo millennio.

Jinny - Don't Stop The Dance
La pagina pubblicitaria che annuncia “Don’t Stop The Dance” di Jinny (maggio ’95)

Nel 2002 infatti la Time distribuisce delle copie promozionali single sided con su inciso “Rage Hard”, rifacimento dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood. «Purtroppo non riuscimmo ad ottenere l’autorizzazione per l’uso dei sample e ritenemmo inutile proseguire, quindi quel promo venne siglato col nome Arsuu, anagramma di U.S.U.R.A.» spiega ancora Gilardi. Andando indietro negli anni e spulciando nella stampa dell’epoca, si ritrovano altri annunci della Time Records non andati a buon fine, come quelli relativi a possibili follow-up previsti per il 1995 di progetti curati dallo stesso team di produzione degli U.S.U.R.A. ovvero Silvia Coleman, Deadly Sins e Jinny. Per quest’ultimo in particolare, un advertising a maggio 1995 fa cenno a “Don’t Stop The Dance” ma ad uscire, poche settimane più tardi, è invece “Wanna Be With U” interpretata in incognito da Sandy Chambers. «Per un certo periodo eravamo come in fabbrica, la mole di musica che componevamo era talmente grande che divenne difficile se non impossibile tenere traccia di tutto. Non escludo quindi che “Don’t Stop The Dance” di Jinny (act di cui parliamo qui, nda) possa essere stato uno degli innumerevoli provini poi scartato per qualche motivo e magari riciclato, parzialmente o integralmente, per progetti di nome differente» conclude Gilardi.

(Giosuè Impellizzeri & Luca Giampetruzzi)

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La carriera di Digital Boy, quando la techno divenne pop

Parlare di techno, in Italia, è sempre stato piuttosto difficile e controverso, specialmente in riferimento ai primi anni Novanta quando il genere sbarca da Detroit nel Vecchio Continente e inizia a europeizzarsi mutando sensibilmente le proprie caratteristiche in base a diverse dinamiche, inclusa la collocazione geografica. Da noi, ad esempio, c’è una cerchia di artisti, prevalentemente romani, che tiene bene a mente la lezione impartita dai decani della Motor City, ma è una minoranza. La techno che prende piede nello Stivale, tra 1991 e 1992, è prevalentemente figlia della new beat belga amalgamata a elementi della cultura rave della produzione anglo-olandese. Un filone edificato su gimmick ricavati da campionamenti di provenienza eterogenea (incluse pellicole cinematografiche, cartoni animati e suoni onomatopeici), assoli di sintetizzatori e strutture ritmiche con kickdrum in evidenza: per un numero imprecisato di italiani infatti, techno è sostanzialmente tutto ciò che gira su una cassa marcata e bpm sostenuti, e va messo in netta antitesi con l’house/garage permeata invece di sonorità più affini agli strumenti tradizionali e legata a parti cantate. Secondo tale approccio semplificatore, la techno si configura quindi come un genere rabbioso, sfrontato, energico, vigoroso, adrenalinico, quasi sempre strumentale e alimentato dalle tec(h)nologie che invadono capillarmente ogni studio di registrazione, sintetizzatori, batterie elettroniche e soprattutto campionatori con cui captare ed isolare frammenti da ogni dove e ricollocarli all’interno di nuovi nuclei sonori.
Tra i protagonisti italiani di questa fase c’è un giovane ligure, Luca Pretolesi, nato a Genova nel 1970 e attratto dalla musica al punto da mollare la città natale a sedici anni per trasferirsi a Milano dove frequenta una scuola per apprendere i rudimenti delle registrazioni audio, Professione Musica. «Ero il più piccolo della classe e frequentai quel corso per un triennio ma, vista la giovane età, non pensavo di utilizzare ciò che stessi apprendendo per qualcosa di preciso» rivela in questa intervista del 2015. In realtà Pretolesi metterà presto a frutto le conoscenze acquisite in quella scuola del comune meneghino, decisive per la sua carriera artistica che inizia inaspettatamente da lì a breve.

La Bestia
S 900/S 950, la prima autoproduzione che Pretolesi pubblica su Demo Studio

1990, il Demo Studio e le prime produzioni da indipendente
L’house music è la grande novità in ambito dance che dal 1989 in avanti gli italiani, dopo un biennio di training come raccontato qui, riescono ad esportare in ogni angolo del globo, Stati Uniti inclusi. Si tratta di un genere capace di mandare in frantumi l’elitarismo che per decenni ha permesso di comporre musica solo ad un certo tipo di musicisti, un suono ancora più “democratico” dell’italo disco degli anni immediatamente precedenti perché non prevede necessariamente uno schema legato al formato canzone che implichi quindi un testo e un cantante che lo interpreti. La house music funziona anche in forma strumentale ma può comunque vantare voci d’eccezione grazie al campionatore, così come testimonia uno dei grandi successi nostrani dei tempi, “Ride On Time” dei Black Box, costruito sul sample carpito, suo malgrado, a Loleatta Holloway e la sua “Love Sensation”. Con una spesa relativamente abbordabile si può approntare un provino tra le mura casalinghe per poi affinarlo in qualche studio più equipaggiato e farlo mixare in modo appropriato per procedere con la stampa su vinile. C’è anche chi riesce a fare tutto in modo autonomo ed indipendente proprio come Pretolesi: «rispetto ai colleghi dell’epoca ero un ibrido» afferma nell’intervista sopraccitata. «Sapevo come registrare gli strumenti, ero un tastierista ed anche un DJ, fusi queste capacità per creare la mia musica occupandomi pure del mixaggio della stessa». Con un po’ di risparmi messi da parte, Pretolesi acquista un campionatore Akai S 900, un sequencer Roland MC-500 e una batteria elettronica Roland TR-909. Con quelli crea il Demo Studio, un piccolo home studio allestito nel retrobottega del negozio di ceramiche di famiglia, ai tempi al 21 di Largo Giuseppe Casini, a Chiavari. «Aspettavo che i miei (Sergio Pretolesi, musicista, e Francesca Musanti, pittrice, in seguito coinvolti in alcune produzioni discografiche del figlio, nda) chiudessero il negozio per fare musica, a volte fino al mattino, e subito dopo andavo a scuola» racconta in questa intervista edita da Vice nel 2012. «Era un periodo in cui riuscivo a completare anche quindici pezzi al mese. Il proprietario (Enrico Delaiti? nda) del negozio di dischi da cui mi rifornivo, Good Music, mi convinse a mandare una cassetta con un mixato a Radio DeeJay. Non avevo grosse aspettative però ricevetti una telefonata da Molella che mi invitava a partecipare ad un contest che la radio avrebbe organizzato da lì a poco all’Aquafan di Riccione, la Walky Cup Competition. Era il 1989 e a sfidarci eravamo io, Mauro Picotto, Daniele Davoli dei Black Box e Francesco Zappalà (ma pure Max Kelly e Fabietto Cataneo come raccontiamo rispettivamente qui e qui, nda), tutti giovanissimi. Vinse Picotto ma ebbi comunque la sensazione che tutto si stesse muovendo nella direzione giusta ed è incredibile come ognuno di noi poi abbia avuto successo».

Demo Studio logo
Il ritratto di Beethoven e il logo del Demo Studio a cui questo pare ispirarsi chiaramente

Nel 1990 la techno inizia il processo di europeizzazione ma, come detto all’inizio, in Italia solo una minoranza segue con attenzione il fenomeno e a dirla tutta il confine tra house e techno è labile e non ancora definito come invece sarà poco tempo dopo. Pretolesi, convinto che le sue creazioni siano all’altezza dei dischi che trova in vendita nei negozi, decide di provarci. La prima (auto)produzione si intitola “La Bestia (Bring It On Down)” e la firma con uno pseudonimo-citazione, S 900/S 950, un palese rimando ai campionatori Akai S900 ed S950, assoluti protagonisti della dance music prodotta a cavallo tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il brano viene pubblicato su Demo Studio, brand omonimo del citato studio di Pretolesi per l’occasione abbinato ad un logo che vede la fumettizzazione di quello che pare il volto di Ludwig van Beethoven con la cuffia che affiora sotto la fluente capigliatura. A seguire arriva “Electric Live”, questa volta firmato Luca P. e prodotto in coppia con Vincenzo Ciannarella con cui Pretolesi ricostruisce “Electric Fling” dei RAH Band con divagazioni hip house e downtempo. La traccia vive una seconda vita attraverso il remix di M&M Crew edito dalla tedesca Hansa e distribuito in Europa dalla BMG Ariola oltre ad essere licenziata in Germania dalla Metrovynil per intercessione della Discomagic di Severo Lombardoni.

Kokko
“Kokko” dei Digital Boys, inciso sul lato b del terzo e ultimo 12″ su Demo Studio (1990)

«Dopo i primi dischi alcuni amici mi dissero che la mia musica suonava davvero bene e così iniziai a produrre e mixare anche per altre persone» aggiunge Pretolesi nell’intervista del 2015. Tra 1990 e 1991 infatti è impegnato come mixing engineer in “Eurovision” di Demo, sulla Tasmania Records, e “Back In The Time” di Kamera, su Flying Records. A quest’ultima, con cui chiude un accordo di distribuzione in contovendita, si presenta col terzo (ed ultimo) disco su Demo Studio che, come avvenuto per “Electric Live”, è costruito a quattro mani, questa volta con Mauro Fregara con cui Pretolesi forma il duo dei Digital Boys. Si intitola “Techno (Dance To The House)” ma di techno non ha nulla. È un rimaneggiamento di “Dance To The House” di The House Crew edito dalla Strictly Rhythm e il featuring attribuito al fittizio Cool De Suck (ironica anglofonizzazione di cul-de-sac?) in realtà cela il campionamento dell’acappella originale di Norberto ‘Bonz’ Walters. Nulla di autenticamente nuovo insomma. La sorpresa però è incisa sul lato b dove si trova “Kokko” rivista in due versioni, Elettro Mix e Suicide Mix, in cui si sviluppa un carattere musicale insolito. A differenza dei pezzi sinora messi in commercio, sostanzialmente manipolazioni ed interpolazioni di tracce già edite, in “Kokko” viene convogliata maggiore vitalità ed esuberanza oltre ad elementi saldati tra loro da patch campionate (su tutte l’hook ‘dance, you got the chance’ preso dalla Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters Featuring MC Action e finito anche in “Dance, You Got The Chance” dei Rhythm Masters). La lunga lingua filo acida che si dipana lungo la stesura, troncata dalle punteggiature di stab, fa di “Kokko” qualcosa di diverso dalla classica house cantierizzata da un numero crescente di etichette, seppur un vocione continui a declamare “house”. «Grazie ad un passaggio di Albertino su Radio DeeJay le mille copie che avevo stampato a mie spese si esaurirono in due giorni così la Flying Records decise di mettermi sotto contratto e stamparne subito altre trentamila» svela ancora nell’intervista a Vice. «Quello fu il momento della svolta, cominciai a suonare in giro per l’Italia e l’Europa proprio quando la techno veniva sdoganata nei club e nasceva la rave culture».

In Order To Dance 2
“Kokko” dei Digital Boys finisce nel secondo volume di “In Order To Dance”, sulla belga R&S Records

A mostrare interesse per “Kokko” sono anche i DJ esteri sparsi tra Germania, Regno Unito (dove tra i supporter pare ci fosse anche Sasha), Paesi Bassi e Belgio. Ma non è tutto: il brano viene ripubblicato in Spagna dalla Max Music, ai tempi etichetta particolarmente influente nell’area iberica, e scelto da Renaat Vandepapeliere per il secondo volume della compilation “In Order To Dance” su R&S Records. In tracklist ci sono tracce di CJ Bolland, Frank De Wulf, Joey Beltram, James Pennington, Dave Clarke, Mark Ryder ed altri due italiani, i Free Force (Roberto Fontolan e il compianto Stefano Cundari) col brano “M.I.R.C.O.”. «”Kokko” riempiva le piste delle discoteche, in Italia e all’estero» ricorda oggi Mauro Fregara, contattato per l’occasione. «Impiegammo un pomeriggio per realizzare “Techno (Dance To The House)”. Dopo aver mangiato una pizza e bevuto una birra tornammo in studio e in appena un’ora nacque “Kokko”. “Techno (Dance To The House)” germogliò dai ripetuti ascolti della rivoluzionaria “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. (di cui parliamo qui, nda), ma rispetto a “Kokko” funzionò poco. Ai tempi incidere un disco di musica dance era una scommessa, specialmente per chi, come noi, provava a fare roba innovativa. Prima di collaborare con Luca, avevo prodotto un altro disco insieme a Charlie Storchi, un bravissimo DJ con cui lavoravo a Radio Babboleo. Si intitolava “Calanza” ed era firmato Macha, ma non ebbe grandi riscontri seppur fu utilizzato per un servizio mandato in onda dalla Rai, forse Tg2 Dossier, in cui si parlava di discoteche ed ecstasy. Andò decisamente meglio con “Kokko”, un successo anche ad Ibiza. Tuttavia dopo quello non incisi più dischi, concentrandomi sul lavoro in radio (facevo il tecnico per un programma chiamato Rock Cafè che andava in onda da Milano). Quella fu l’unica apparizione dei Digital Boys, un nome che ideai proprio io: la parola “digital” in quel periodo era sinonimo di tecnologia e faceva pensare subito al futuro. Poi forse la Flying Records suggerì a Luca di tenere l’alter ego al singolare per il suo progetto solista ma è solo una supposizione perché io non fui informato su nulla e tutto finì così come era iniziato» conclude Fregara. “Kokko”, comunque siano andate le cose, apre di fatto un nuovo scenario per Pretolesi che da quel momento diventa Digital Boy.

Gimme A Fat Beat
“Gimme A Fat Beat” è il brano con cui Digital Boy debutta sulla Flying Records

1991-1992, l’ingresso nella Flying Records e il boom dell’eurotechno
“Kokko”, b-side della terza autoproduzione di Pretolesi, è una palla di neve che si trasforma in valanga e cambia letteralmente lo status quo. Il successo raccolto in vari Paesi europei gli fa guadagnare un ingaggio dalla Flying Records, tra i poli discografici italiani più agguerriti in quel momento storico. Con un ruolo importante ricoperto anche come distributore ed importatore (ha una filiale a Milano, in Via Mecenate, ed una a Londra a cui se ne aggiungerà poi una terza a New York), la casa discografica campana di Flavio Rossi ed Angelo Tardio mette Pretolesi sotto contratto e nel 1991 pubblica “Gimme A Fat Beat”. Trainato dall’hook vocale preso da “The Party” di Kraze e frammenti di “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Jewel (Rough Cut)” dei Propaganda, il brano non impiega molto a consacrarsi in Italia, complice il supporto massivo di Albertino che lo porta al vertice della DeeJay Parade. Sul centrino del mix si rinviene, seppur piccolissimo, il logo del Demo Studio, ultima connessione con la breve parentesi “indie” dell’artista. La copertina invece, di Patrizio Squeglia, vede una sorta di installazione artistica col corpo di una donna sovrappeso seduta su un televisore. Un secondo televisore è piazzato al posto della testa. «La composizione grafica aveva solo un riferimento metaforico col titolo, appunto il “fat beat”, ed usai un concetto rappresentativo puramente astratto» spiega Squeglia poche settimane fa. «Nonostante il brano avesse un evidente suono accattivante e molto pop, allo stesso tempo risultava decisamente originale per i tempi. Per questo mi interessava creare un’immagine che potesse colpire ed incuriosire senza essere per forza didascalica, ma volevo soprattutto che la copertina catturasse un pubblico internazionale come quello del mercato inglese dove la creatività nella musica stava disegnando un percorso innovativo che in breve tempo andò ad influenzare tutti i settori merceologici e non».

Technologiko
Il fronte della copertina di “Technologiko” occupato integralmente dal primo logo di Digital Boy realizzato da Patrizio Squeglia

“Gimme A Fat Beat”, con la sua energia frenetica e ribollente, anticipa l’uscita del primo album di Digital Boy, “Technologiko”, pubblicato su vinile, cassetta e CD. Su quest’ultimo la tracklist include due tracce in più, la blippeggiante “Unisys” e “Yo! Techno”. La scelta di mettere sul mercato un album con questa musica è parecchio inusuale ai tempi, specialmente in Italia dove la dance viaggia quasi esclusivamente su 12″. L’LP, tendenzialmente legato ad ambienti pop e rock, faticherà non poco ad affermarsi nel comparto della musica da discoteca, ma è un chiaro segno di come alla Flying Records ambissero a ridurre la distanza tra mercato pop e dance, e fare di Digital Boy una star giovanile gestita come quelle dei grandi concerti. La stampa su vinile (gatefold), cassetta e CD ne rappresenta un’ulteriore conferma. Da “Technologiko” affiora un suono di matrice nordeuropea, fortemente dominato dall’uso del campionatore e dalla partizione sampledelica post marssiana come attestano “Digital Danze”, “This Is Metal Beat!”, riadattamento di “Acid Rock” di Rhythm Device, o “Rave Situation” con classici stab e voci adoperate come snodi ritmici, ma a presenziare è pure una solarità dal taglio melodico quasi eurodance con parentesi rappate in stile Technotronic (“Logik”). C’è spazio anche per una nuova versione di “Kokko” chiamata Jungle Remix (il “jungle” probabilmente deriva dai suoni ambientali usati ed evidenti nell’intro). Il fronte della copertina è occupato per intero dal logo di Digital Boy racchiuso in un quadrato di colore azzurro. «Il logo fu realizzato da me contestualmente alla scritta (rinvenibile sul retro e all’interno del gatefold, nda) “Digital Boy”» spiega ancora Squeglia. «Più che un significato specifico, questo segno distintivo incastrato tra le due parole aveva un riferimento preciso a quelle che erano le linee guida della grafica che si stava sviluppando all’inizio degli anni Novanta. La scelta di usare due elementi dalla forma rigida e definita (quadrato ed ellisse) disturbati da un graffio centrale, fu dettata dalla volontà di creare una rottura con quello che era stato il segno “morbido e romantico” che aveva accompagnato diversi progetti dell’industria discografica italiana negli anni Ottanta». Un elemento grafico di discontinuità insomma, che faccia il paio con il tipo di musica profondamente differente da ciò che il decennio precedente aveva lasciato in eredità.

Il secondo singolo estratto da “Technologiko è “OK! Alright”, ancora costruito su quell’essenzialità che tiene insieme tutti i pezzi pretolesiani del periodo innestati su moduli simili ossia brevi campionamenti a dare respiro tra gli anelli dei loop ritmici, un basso in stile Bobby Orlando su onda quadra, sirene e mini riff di poche note sincopate. Licenziato in Belgio dalla Music Man Records, il brano nasce sulla base di “OK, Alright” di The Minutemen, progetto del DJ newyorkese Norty Cotto edito dalla Smokin’ nel 1989. Così come si usa fare ai tempi, escono anche i remix tra cui quelli di Frank De Wulf e DJ Herbie, il primo all’opera su “Gimme A Fat Beat”, il secondo su “OK! Alright” e “Kokko”. Il 1991 è pure l’anno in cui debutta la UMM – Underground Music Movement, diretta artisticamente da Angelo Tardio e diventata presto un marchio di punta della Flying Records. Proprio a UMM Pretolesi destina “The Voice Of Rave” del progetto one shot omonimo, probabilmente interpretato nelle parti vocali dall’amico Ronnie Lee. Nel catalogo della main label del gruppo discografico napoletano, Flying Records per l’appunto, finisce invece “Just Let Your Body Ride” di Oi Sonik, pure questo limitato ad una sola apparizione e portato in Belgio dalla Music Man Records. Parallelamente inizia a muoversi sia l’attività sul fronte remix, con le versioni approntate per “Extasy Express” dei The End e “Thunder” dei Mato Grosso di cui parliamo qui e qui, sia quella nel redditizio comparto compilation con “Techno Beat”, mixata dal ragazzo digitale, edita ancora da Flying Records e sequenziata prevalentemente su materiale made in Italy alternata a due presenze d’oltralpe, “Hell Or Heaven” del compianto L.U.P.O. e “What Time Is Love” dei KLF. Tra le altre, pure un inedito a firma Digital Boy, “Rotation”, blipperia hardcore mista a sirene e bassline squadrati ed un sample preso da “Jump To The Pump” di 2-Wize che fa impazzire le platee all’estero. Il pezzo si ritroverà, due anni più tardi, sul CD singolo di “Crossover”.

La techno riformulata in Europa ormai ha preso piede a livello internazionale, è una tendenza consolidata che macina numeri inimmaginabili sino a poco tempo prima. Sul mercato si riversa un fiume di techno music o presunta tale, in grado di conquistare un numero crescente di ascoltatori disposti a farsi risucchiare in un vortice di musica mai sentita prima, sia per suoni che ritmiche. Un autentico boom commerciale che da un lato porta al diapason il fenomeno ma dall’altro finisce per inflazionarlo attraverso prodotti alquanto discutibili. C’è chi spera che quel momento non finisca mai, soprattutto i grossisti e le etichette discografiche che producono a nastro prodotti seriali, ma pure chi auspica che tale sovraesposizione si eclissi al più presto perché sta portando alla deriva ciò che la techno era originariamente, ossia tutto fuorché genere governato da espressioni stilistiche convenzionali. La stella di Digital Boy è ancora luminosissima: è ospite in importanti club tra Germania, Belgio e Paesi Bassi, la “mecca” di quel suono ronzante, ma pure in alcuni prestigiosi eventi statunitensi, su tutti il rave organizzato a Los Angeles da R.E.A.L. Events il 7 marzo ’92 in cui il nostro si esibisce insieme ad artisti del calibro di Joey Beltram e Doc Martin. Il flyer dell’evento viene spillato ad un flexi-disc 8″ prevedibilmente diventato un cimelio per i collezionisti. Non mancano ovviamente le serate in Italia in posti come il Cocoricò o l’Immaginazione di Pantigliate, dove propone un suono rude, acido ed inselvaggito come si sente in questa clip. In buona sostanza Digital Boy diventa uno degli artisti di riferimento per chi segue un suono descritto da Christian Zingales nel libro “Techno” come «una sintesi commerciale dell’imprinting abrasivo di Underground Resistance, humus principale di una bastardizzazione europea che dettò legge su Radio DeeJay con Albertino che ribattezzò “zanzarismo” quel sound».

This Is Mutha Fuker
“This Is Mutha F**ker!”, una conferma per Digital Boy nel 1992

Le idee per alimentare la discografia non mancano e ripercorrendo le orme lasciate da “Who Is Elvis?” dei Phenomania (di cui parliamo qui) e flirtando col cosiddetto hoover sound ottenuto con la Roland Alpha Juno-2 ed eternato da pezzi tipo “Dominator” degli Human Resource o “Mentasm” di Second Phase, Pretolesi sfodera “This Is Mutha F**ker!”, con suoni che si spandono come inchiostro su carta assorbente. Sulla copertina del 12″ realizzata ancora da Patrizio Squeglia l’autore, fotografato da Emanuele Mascioni, inforca uno strano paio di occhiali con le lenti a forma di mirino, acquistati a Camden Town, nella capitale britannica, come lui stesso svela nell’intervista a Vice. «Quegli occhiali furono un accessorio che finì con l’identificare Luca anche senza usare il suo nome d’arte» spiega Squeglia. «Li propose in maniera autonoma e tutto il team della Flying Records sposò la scelta senza esitazioni. Tra l’altro la copertina di Digital Boy a cui sono legato di più è proprio quella di “This Is Mutha F**ker!”: per arrivare a quello scatto io ed Emanuele Mascioni chiedemmo a Luca, durante lo shooting fotografico, di eseguire un’infinita di flessioni e per questo, probabilmente, lui arrivò ad “odiarci”. La tensione del suo corpo, il bianco e il nero, il logo nella versione minimale e le proporzioni striminzite del titolo in netto contrasto coi titoloni usati da altri artisti italiani, resero quell’artwork iconico e riconoscibile in mezzo a mille. Operavo sempre in simbiosi con Luca, il fine ultimo era proporre l’immagine di un artista di carattere internazionale, diverso dalla solita pop star italiana vestita bene per l’occasione. Ovviamente il tutto era legato al sound proposto e penso che, visti i risultati ottenuti, il lavoro abbia funzionato».

Sul retro della copertina di “This Is Mutha F**ker!” si legge uno speciale ringraziamento rivolto all’Akai insieme ad una foto dell’MPC60, strumento che l’azienda nipponica sviluppa insieme a Roger Linn. Tra i crediti si apprende anche della nascita del Digital Boy Management, curato da Mario Cirillo. Ormai Pretolesi è lanciato nello star system, “This Is Mutha F**ker!” staziona per tutto il mese di aprile al vertice della DeeJay Parade e sembrano davvero lontanissimi i tempi in cui armeggia nello studio amatoriale ricavato nel negozio dei genitori provando ad assemblare suoni e ritmiche con le poche macchine di cui dispone. A remixare “This Is Mutha F**ker!” (che stando a quanto riportato dalle Raveology News a marzo 1997, avrebbe venduto 55.000 copie in Italia ma 200.000 includendo le numerose licenze estere) sono gli Underground Resistance, artefici di una versione in chiaro hoover style che palpita su uno sfondo fiammeggiante. In parallelo il team di Detroit approda sulla neonata UMM con “Living For The Nite” i cui remix vengono affidati a Digital Boy che ne ricava due reinterpretazioni, The Digital Morning After e The Boy’s Nite Before. A fare da “ponte” tra Pretolesi e gli americani è il citato Tardio che oggi rammenta: «Conobbi Jeff Mills e Mike Banks al New Music Seminar di New York dove mi trovavo insieme ad Alberto Faggiana, responsabile legale della Flying Records. Erano persone simpatiche, gentili ed affabili, in netto contrasto con la musica che producevano, così violenta ed alienante, e diventammo presto amici. Mi sembrò naturale quindi, qualche tempo dopo, coinvolgerli in alcuni progetti discografici che stavo curando. In virtù del ruolo consolidato come distributore, la Flying Records era un punto di riferimento non solo per le realtà italiane ma pure per quelle estere che si affidavano a noi sapendo di poter contare su una distribuzione efficace e capillare nonché su una società più che solida sotto il profilo finanziario, in quel periodo il fatturato annuo era pari a quaranta miliardi di lire».

Punizione
L’artwork della compilation “Punizione”

“This Is Mutha F**ker!” finisce pure nella tracklist della compilation “Punizione” in cui Digital Boy mette insieme un collage di pezzi ascritti a quel filone che vive l’apice del successo in Europa, da “Babilonia” di Moka DJ a “Mig 29” dei Mig 29, da “UHF” di UHF (tra i primi progetti di Moby) a “The Sound Of Rome” di Lory D e “Purgatorio” di Technicida passando per varie hit come “Pullover” di Speedy J, “Dominator” di Human Resource, “Who Is Elvis?” dei Phenomania, “Dance Your Ass Off” di R.T.Z. ed “Everybody In The Place” dei Prodigy. La copertina, ancora di Patrizio Squeglia, è una provocazione che i benpensanti possono tacciare facilmente di blasfemia, la riproposizione della crocifissione cristiana dove la croce è fatta però da maxi subwoofer e il volto di Cristo sostituito dal monitor di un computer, un chiaro rimando all’artwork di “Gimme A Fat Beat”. «Essendo ateo ho una percezione delle immagini sacre diversa rispetto a quella di un credente, per me il Cristo sulla croce è solo un uomo torturato ingiustamente» chiarisce Squeglia. «Terminologie come “Punizione”, “Yerba Del Diablo” (Datura, nda) e simili, erano frequenti ai tempi, specialmente nel circuito techno. Essere in bilico tra sacro e profano aveva un fascino particolare, catturava l’attenzione del pubblico che voleva cambiare le regole del club allontanandosi dalle pedane luminose e ballare nel buio, in linea con le basse frequenze del nuovo suono che stava esplodendo. L’utilizzo di immagini sacre (si veda la copertina di “The Age Of Love” di cui parliamo qui, nda) in contesti così forti veniva percepito come una grande volontà di rottura col passato e col finto perbenismo dilagante. Qui in Italia abbiamo un esempio eccellente di questa scuola di pensiero, il grande tempio della techno, sua maestà il Cocoricò, su cui ci sarebbe l’impossibile da raccontare soprattutto per quello che riguarda la grafica».

Futuristik
“Futuristik”, secondo LP di Digital Boy uscito poco dopo “Technologiko”

“This Is Mutha F**ker!” è il primo singolo estratto dal nuovo album, “Futuristik”, che la Flying Records stampa ancora su CD, cassetta e vinile, questa volta doppio. Rispetto a “Technologiko”, figlio delle sperimentazioni casalinghe generate durante quella sorta di apprendistato tra le mura del Demo Studio, il secondo LP vive in un’atmosfera variopinta e si nutre di una gamma ispirativa più ampia, probabilmente derivata dalle esperienze che l’autore matura in giro per l’Europa («non puoi fare dischi di successo se non hai un feeling e un contatto costante col pubblico» dirà in una videointervista nel 1994), e mostra un appeal meno commercia(bi)le. Non è inoltre un disco monocorde come potrebbe apparire il predecessore, Pretolesi esplora nuove vie cimentandosi in un paio di tracce filo house (“If You Keep It Up”, “Touch Me”) che mettono un po’ di brio nella tavolozza compositiva che comunque resta ad appannaggio dell’eurotechno forata da vocalizzi umani (“Avreibody Move”, “Jack To The Max”), cavalcata da suoni cristallini (“The B-O-Y”, “Wave 128”), stab di memoria rave (“D-Dance”, una specie di italianizzazione di “I Like It” di Landlord Featuring Dex Danclair), euforie hardcore (“Kaos”, “In The Mix”, “Now Come-On”, “Energetiko”), minimalismo post pulloveriano (“Tilt 21”). Di tanto in tanto affiorano gli interventi vocali di Ronnie Lee che ai tempi si fa chiamare MC Fresh, come quelli in “Children Of The House” registrata durante un live al Parkzicht di Rotterdam.

123 Acid
La copertina di “1-2-3 Acid!” dominata ancora dagli occhiali con le lenti a forma di mirino

“1-2-3 Acid!” è il secondo singolo preso da “Futuristik” in cui l’autore ritaglia un elemento vocale da “In The Bottle” dei C.O.D. e torna a campionare la Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters seppur nel video diretto da Nick Burgess-Jones quella parte venga mimata dal menzionato Lee, il futuro Ronny Money. In copertina finisce un altro scatto di Mascioni caratterizzato ancora dagli occhiali-mirino, gli stessi che si scorgono sull’artwork dell’album dove Pretolesi è immortalato per intero ed indossa t-shirt e scarpe SPX, brand britannico importato in Italia dalla Interga di Bressanone insieme ad altri marchi come Daniel Poole, Nervous, Apollo, Million Dollar, DeLong, World Tribe Productions, Caterpillar e Trigger Happy. Il modello Street Slam finito sull’artwork diventa particolarmente popolare nell’ambiente delle discoteche grazie a vari testimonial che l’Interga coinvolge ai tempi come Rexanthony, KK, Digital Boy per l’appunto e il suo master of ceremonies, MC Fresh, che in parallelo debutta da solista con “Don’t You Wanna Be Free”. A conti fatti Pretolesi è già un endorser capace di catalizzare i gusti del pubblico, principalmente dei giovanissimi, ed è desideroso di dare voce alla sua creatività non solo nella musica ed infatti firma col suo marchio una linea di abbigliamento (cappellini, t-shirt, pantaloni, accessori vari).

Digital Boy & SPX
Digital Boy è uno degli endorser italiani del brand britannico SPX (foto tratta da una brochure dell’Interga del 1992)

La Flying Records pubblica “Futuristik” anche in territorio britannico ma c’è qualcosa che non va secondo i piani. «Vorremmo approdare negli Stati Uniti ma è un mercato molto diverso da quello europeo e giapponese» dichiara il promoter Alessandro Massara in un articolo di David Stansfield pubblicato su Billboard il 4 luglio 1992. «Per raggiungere un vasto pubblico negli States è necessario che un artista venga gestito da una multinazionale. Dare in licenza il prodotto ad etichette indipendenti è irrilevante, possono muovere circa 5000 copie e non basta. Uno dei problemi che la Flying Records sta incontrando è rappresentato dal fatto che alcuni Paesi siano interessati solo ad un singolo» prosegue Massara. «La nostra priorità, al momento, è Digital Boy ma vorremmo andare oltre la vendita del classico mix visto che è tra i pochi artisti techno, in Italia, a potersi esibire come in un vero e proprio concerto. Per questa ragione abbiamo rifiutato diverse offerte giunte da etichette indipendenti, auspichiamo che qualche major possa farsi avanti magari dopo il New Music Seminar o il mega rave a Los Angeles previsto per il 4 luglio». Le speranze di Massara si infrangono, non c’è nessuna multinazionale interessata a Digital Boy che nel frattempo remixa “Nana” dei N.U.K.E. (uno dei progetti del tedesco Torsten Stenzel intervistato qui) e “Ti Sei Bevuto Il Cervello” di Control Unit, deriva demenziale dell’euro(techno)dance firmata da Albertino e Pierpaolo Peroni, per ovvie ragioni pompata sulle frequenze di Radio DeeJay. «A mio avviso tra la pubblicazione di “Technologiko” e “Futuristik” trascorse troppo poco tempo» afferma Tardio. «Farlo uscire pochi mesi dopo il primo LP fu un errore che si ripercosse sulle vendite, ridimensionate rispetto al precedente. A complicare ulteriormente la situazione fu inoltre la posizione dicotomica di Digital Boy nel mercato: in Italia era seguito perlopiù dai teenager ed era considerato un nome commerciale perché entrato nelle grazie di Albertino che lo supportava su Radio DeeJay al contrario dell’estero dove invece continuava ad essere un nome di nicchia dell’underground e credibile per un pubblico più adulto. Per questa ragione le multinazionali non si mossero, evidentemente non considerarono l’ipotesi di investire su un artista legato ad un genere musicale ancora lontano dai riflettori e dalle copertine patinate come allora era la techno». Nel corso dell’anno la Flying Records gli affida anche il mix di due compilation, “Punizione Continua” e “Digital Beat”, quest’ultima accompagnata da una copertina che richiama quella di “Futuristik” con una foto probabilmente scattata nella stessa session ma con una giacca di pelle al posto della felpa e un altro paio di SPX ai piedi, le CB 104 in nubuck rosso. Sotto il profilo musicale invece, la prima annovera qualche concessione techno (Underground Resistance, Solid State), la seconda invece tracima nel suono dance generalista italiano di allora (U.S.U.R.A., Anticappella, Ramirez, Glam, Mato Grosso) al quale l’artista si avvicina di più a partire dall’anno seguente.

1993-1994, l’avvicinamento all’eurodance e la fine del sodalizio con la Flying Records
A partire dal 1993 il trend commerciale europeo della techno va progressivamente sgonfiandosi, soverchiato da nuove tendenze che conquistano il gusto del grande pubblico. In Italia, tuttavia, c’è un colpo di coda rappresentato da un ibrido sonoro portato avanti da artisti come Ramirez, DJ Cerla, Masoko, Z100, Virtualmismo e Digital Boy. La figura di quest’ultimo si ritrova in una posizione difficile: la sua musica è fin troppo “cheesy” per i soldati dell’underground ma nel contempo suona troppo “dura” per gli irriducibili della melodia e del formato canzone. «Tra coloro che facevano techno nei primi anni Novanta, in Italia, sono quello che è finito in radio prima di altri» afferma a tal proposito l’artista in questa intervista a cura di Damir Ivic, pubblicata su Soundwall il 15 ottobre 2018. «”Kokko”, “Gimme A Fat Beat” e “OK! Alright” erano mandati in onda da Radio DeeJay e se finivi lì automaticamente diventavi “commerciale”. Lory D ha smesso di suonare i miei pezzi da quando iniziarono ad essere trasmessi in un certo tipo di contesto. Dal punto di vista pratico, divenni l’artista techno con un pubblico fatto di non appassionati techno. La Gig Promotion (agenzia di management legata a Radio DeeJay, nda) mi faceva suonare in posti dove il pubblico non era assolutamente composto da raver bensì da gente che frequentava le discoteche “normali”. I miei colleghi quindi ad un certo punto mi hanno visto andare “di là”, seppur io continuassi a suonare le stesse cose di prima, di fronte ad un’audience diversa, sì, ma la musica era la stessa».

Crossover
“Crossover” è l’unico brano che Pretolesi pubblica come Digital Boy nel 1993

Probabilmente è questa singolare collocazione nella scena che persuade Pretolesi a dare un taglio diverso alle sue (poche) produzioni discografiche, ridotte sensibilmente rispetto alle due annate precedenti. Alla Discoid Corporation, uno dei tanti tentacoli della Flying Records, destina due 12″ dell’amico Lee che abbandona le vesti di MC Fresh diventando Ronny Money, “Ula La” e “Money’s Back”. Solo uno invece il disco a nome Digital Boy uscito nel ’93, “Crossover”, successo estivo con cui l’artista, pur non cedendo in modo evidente alla costruzione tipica dell’eurodance, applica una sostanziale modifica alla matrice del suo stile adesso più vicino al modello tedesco di artisti come Genlog, General Base, N.U.K.E. o U96. Il titolo stesso del brano sembra sintetizzare gli intenti indicando un miscuglio di elementi eterogenei che possano transitare attraverso diversi mondi musicali. All’interno di “Crossover” c’è ritmo, energia, un breve messaggio vocale (dell’amico Ronny Money) ed una spirale acida, ma la costruzione assai prevedibile del tutto rivela un approccio che divide ben poco con la techno. Sul retro della copertina una foto, ancora di Mascioni, restituisce un’immagine di Pretolesi un po’ diversa rispetto a quella del biennio precedente, più composta e sobria e meno ravecentrica. La versione che apre il lato b, la L.U.C.A. Over Mix, pulsa su battiti accelerati e viene ulteriormente rivista nella L.U.C.A. Over Remix (solcata su un 12″ di colore blu) che pare una summa tra il suono spiritato dei Datura e le sincopi balbettanti di Ramirez. Sul lato a invece figura una Edit LP Mix che lascia supporre la presenza di un nuovo album di cui peraltro si parla ma che, come si vedrà più avanti, non vedrà la concretizzazione. L’Italia danzereccia accoglie con entusiasmo “Crossover”: sebbene non conquisti la cima della DeeJay Parade, il brano resta nell’ambita classifica settimanale per due mesi e mezzo circa (dal 3 luglio al 18 settembre) e la Flying Records cavalca comprensibilmente l’onda, prima con la “Crossover Compilation” mixata da Pretolesi in modo parecchio creativo a mo’ di medley, e poi con vari remix come quello di “Atchoo!!!” dei Control Unit e soprattutto quello per “Ricordati Di Me” di Fiorello, edito su vinile giallo e ricavato dallo stesso telaio di “Crossover”. Tutto sembra andare per il verso giusto ma alcune nuvole si profilano all’orizzonte.

Il 1994 si apre con “It’s All Right” della vocalist britannica Jo Smith, cover eurodance dell’omonimo di Sterling Void e Paris Brightledge uscito nel 1987. ‎A produrre, arrangiare e mixare il brano è Digital Boy nel suo Demo Studio. Sul lato b del disco, edito da Flying Records, c’è pure un inedito, “Incomprehensions”, scritto da Pretolesi e dalla Smith. Il titolo, a giudicare da ciò che avviene pochi mesi dopo, è forse un indizio su quello che sta avvenendo dietro le quinte? Su Discoid Corporation torna invece Ronny Money col poco fortunato “Again N’ Again”, un’altra produzione proveniente dal Demo Studio in chiave smaccatamente euro: il Digital Boy di adesso è davvero irriconoscibile se paragonato a quello di pochi anni prima. Rimasto nell’anonimato è pure il remix realizzato per “Another Love” di Further Out, sempre su Flying Records.

Dig It All Beat
Con “Dig It All Beat!” si conclude l’avventura di Digital Boy al fianco della Flying Records

Tuttavia le aspettative dei fan sono alte e ad aprile esce “Dig It All Beat!” che richiama i suoni e la stesura di “Crossover” ma con l’aggiunta di una componente pop più evidente derivata dalle presenze vocali incrociate di Jo Smith e Ronny Money. Sebbene ricordi il successo dell’estate precedente, “Dig It All Beat!” non riesce però a replicarne i risultati, non figura né tra i mix più venduti né tantomeno tra i titoli irrinunciabili di DJ ed emittenti radiofoniche. Fugace l’apparizione nella DeeJay Parade per appena due settimane a giugno e limitata alla parte più bassa della classifica. Il vento sta cambiando e il periodo più creativo sembra già essere alle spalle. Un’impasse. La figura di Digital Boy appare più aderente al fermento musicale italiano che a quello internazionale e la pubblicazione del secondo volume della “Crossover Compilation” non lascia adito a dubbi. In tracklist si va da Masoko Solo ad Anticappella, dai Datura a Silvia Coleman passando per Molella, The Outhere Brothers, 2 Unlimited ed Aladino. Non c’è ombra neanche dell’eurotechno e il pezzo che avrebbe potuto aprire una nuova traiettoria preservando connessioni col passato, “Inkubo”, viene relegato invece al CD singolo di “Dig It All Beat!”. Durante la primavera viene ancora annunciata l’uscita del nuovo album, il terzo, accompagnato da un VHS, atteso già ad ottobre ’93 come sottolinea Marco Biondi in una recensione su Tutto Discoteca Dance a maggio. «Il nuovo LP arriverà insieme ad un home video che raccoglie spettacoli fatti un po’ in tutta Italia e poi rieditati, oltre a brani nuovi» spiega Pretolesi in un’intervista rilasciata alla rivista Trend Discotec a giugno 1994. «In particolare c’è uno spettacolo fatto all’Ultimo Impero di Airasca che abbiamo filmato appositamente per la videocassetta con una troupe video e con piccole telecamere amatoriali». Uno scatto dell’evento in questione finisce sul retro della copertina di “Dig It All Beat!”, un’annunciazione in pompa magna di un lavoro che, almeno sulla carta, sembra molto forte. «”Digital Boy Live”, titolo dell’album ma pure del VHS, è un crossover di situazioni» prosegue l’artista nell’intervista. «È techno ma raccoglie influenze diverse. Ha voci, di Jo Smith e Ronny Money, completamente inedite, originali, e non più campionamenti come in passato. Sto lavorando a questo LP da molto tempo visto che faccio tutto da solo, penso i pezzi, li compongo e poi li mixo. I testi invece sono di Ronny Money. […] Nella mia musica rappresento me stesso, non c’è un team di studio che produce un pezzo da mettere in commercio ma un artista che si espone in prima persona e rappresenta un certo tipo di musica. Io sono un rappresentante della techno e sono me stesso in tutte le cose che faccio, negli spettacoli, nei dischi, nelle copertine. Non si tratta di un’immagine per vendere un prodotto. Il brano può essere commerciale ma è quello che sento io». Per l’occasione Pretolesi annuncia che da “Digital Boy Live” verranno estratti due o tre singoli ma nel momento in cui viene pubblicata l’intervista sono ancora da definire. «Posso però dire che uscirà un’edizione limitata e numerata su 10″ del singolo “Dig It All Beat!” con due ulteriori versioni del pezzo. Ne verranno stampate solo mille copie che verranno messe in vendita nei migliori negozi di dischi dopo una selezione fatta dalla Flying Records».

Dell’album, del VHS e del 10″ in limited edition però si perdono le tracce. A saltare fuori invece è una notizia clamorosa, iniziata a trapelare a fine estate: Digital Boy abbandona la Flying Records. In un primo momento sembrano solo voci di corridoio prive di fondamento ma nell’arco di qualche settimana giunge l’ufficialità. Pretolesi tornerà ad essere indipendente, col supporto distributivo della Dig It International di Milano. La Flying Records para il colpo mettendo sotto contratto Moratto, temporaneamente allontanatosi dall’Expanded Music di Giovanni Natale, intervistato qui, e i salernitani KK, reduci di gloriose esibizioni ai campionati DMC ed introdotti alla discografia dalla modenese Wicked & Wild Records di Fabietto Carniel, così come raccontiamo qui. «Tra ’93 e ’94 la musica di Digital Boy divenne sempre più commerciale e per questa ragione smisi di occuparmene» spiega ancora Angelo Tardio. «Entrare a far parte di un’agenzia di spettacolo come la Gig Promotion voleva dire vedere aumentare sensibilmente il numero delle serate ma nel contempo sacrificare la parte di pubblico che seguiva tutt’altra musica. Era impossibile tenere il piede in due scarpe e ad un certo punto Luca se ne accorse e mostrò il desiderio di tornare ad essere indipendente, forse per uscire dalla dimensione pop in cui lo aveva proiettato la Flying Records con importanti investimenti economici. Il nostro fu comunque un “divorzio” consensuale, non avevamo alcun interesse ad impedirgli di proseguire la carriera come meglio credeva. Ricordo Pretolesi come un ragazzo dal talento pazzesco, con una dimestichezza unica nell’usare le macchine, sia analogiche che digitali. Nonostante fosse poco più che ventenne, sembrava maneggiarle da sempre e in grado di parlare con ogni strumento su cui metteva le mani. Era inoltre una persona che accettava di buon grado i consigli e non nutriva il suo ego come altri artisti o presunti tali. Solitamente veniva da noi con un demo che ascoltavamo insieme e sistemavamo marginalmente, magari per qualche suono o dettagli della stesura. Era molto creativo ma a volte necessitava di essere indirizzato su qualcosa di preciso per non perdersi. Fui proprio io, ad esempio, a suggerirgli di usare la base di “OK, Alright” di The Minutemen che poi divenne “OK! Alright”, ma lungi da me prendermi dei meriti: Luca è il vero artefice di tutto quello che ha fatto, era una persona che capiva al volo e parecchio intuitiva. A mio avviso sono tre i pezzi cardine della sua discografia, “Gimme A Fat Beat”, “OK! Alright” e “This Is Mutha F**ker!”, il mio preferito. In quel periodo vendeva vagonate di mix, anche 50.000/60.000 copie a titolo, risultati che però non riuscì più ad eguagliare dopo aver abbandonato la Flying Records».

The Mountain Of King
Con “The Mountain Of King” Digital Boy torna al successo nell’autunno del 1994 e lancia la sua personale etichetta, la D-Boy Records

Un passo indietro per andare avanti: il ritorno all’indipendenza
Nonostante le interviste rilasciate nel corso del primo semestre ’94 non facciano sospettare nulla, corre voce che negli ultimi tempi i rapporti tra Digital Boy e la Flying Records non fossero idilliaci. Una volta esauritasi la spinta della bolla eurotechno, gonfiata tra 1991 e 1992 e poi scoppiata nel corso del ’93, sorge la necessità di voltare pagina e ricostruire una nuova immagine intorno al “ragazzo digitale” che però, probabilmente, non è allettato dall’idea di seguire le mode e le tendenze del momento. A chiarirlo è lui stesso in un’intervista a cura di Roberto Dall’Acqua, realizzata a settembre ma pubblicata a novembre sul mensile Tutto Discoteca Dance: «Negli ultimi tempi avvertivo il rischio di trovarmi prigioniero di un cliché, costretto dai vincoli contrattuali a dover fare un singolo di un certo tipo perché era estate ed uno di un altro tipo perché era inverno. Non avevo spazio per la sperimentazione, lavorare con un’etichetta mia mi tranquillizza molto in tal senso perché ho un totale controllo artistico su ciò che faccio». L’etichetta a cui fa riferimento è la D-Boy Records che debutta in autunno con “The Mountain Of King”, pezzo lanciato su una velocità atipica per la dance (specialmente italiana) del periodo e che ha una duplice valenza, riportare l’artista all’indipendenza e fargli riassaporare parte del successo dei primi tempi. Ad interpretarlo è Sharon Rose Francis in arte Asia, cantante di colore che rimpiazza Jo Smith, impossibilitata a proseguire la collaborazione per motivi contrattuali. Da noi il successo è più che evidente, “The Mountain Of King” cattura all’istante l’attenzione di DJ e programmatori radiofonici perché non somiglia a niente in circolazione in quel momento ed entra in decine di compilation e in praticamente tutte le classifiche dance dell’FM inclusa la DeeJay Parade di cui conquista il vertice per tre settimane a novembre.

classifica da Billboard 24-12-1994,
La top ten dei singoli in Italia a dicembre ’94: Digital Boy è sul terzo gradino del podio

Viene girato anche un videoclip (incluso in “T.V.T.B. – La Televisione Che Non C’è”, VHS di successo di Albertino) in cui Digital Boy è alle prese con una tastiera Ensoniq ASR-10 e che nella parte finale mostra un rocambolesco volo in elicottero e chiarisce la ragione del titolo: il “re” è Martin Luther King. A curare il design della copertina del disco è Claudio Gobbi mentre autore delle due foto, una sul fronte ed una, più piccola, sul retro, che probabilmente mostra per la prima volta al pubblico il volto di Asia, è Lorenzo Camocardi. Più che incoraggianti le vendite, in sole tre settimane macina oltre 40.000 mix e come testimonia la top ten dei singoli italiani di Musica E Dischi apparsa su Billboard il 12 dicembre, il brano si piazza in terza posizione, dopo “It’s A Rainy Day” di Ice MC e “Stay With Me” dei Da Blitz, davanti a star stellari del pop come Bon Jovi, Madonna e Vasco Rossi. Nello stesso periodo Digital Boy partecipa al brano “Song For You” nato a supporto dell’iniziativa solidale di Radio DeeJay, con cui si stanziano proventi per ricostruire la scuola elementare Giovanni Bovio di Alessandria gravemente danneggiata dall’alluvione del 5 e 6 novembre. Diventata, con gli estremi speculari di melodia e ritmo, una sorta di archetipo di una eurodance steroidizzata, “The Mountain Of King” (affiancata dalla virulenta “S.A.L.T.A.” sul lato b) apre inconsciamente una strada nuova e sprona un crescente numero di produttori italiani a cimentarsi in brani a bpm sostenuti, un vero trend che andrà avanti per tutto il 1995 e parte del ’96. La D-Boy Records, col centrino quadrato anziché rotondo e con un logo in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi, non si configura come un’etichetta nata come piattaforma esclusiva per le sue produzioni così come è stata la Demo Studio nel 1990. «La label nasce con la finalità di dare alla luce nuovi progetti artistici curati da giovani produttori con idee innovative ed originali, senza seguire canoni predeterminati o obblighi di mercato. L’unico scopo a cui miriamo è proiettarci verso il futuro seguendo il nostro senso artistico» sottolinea Pretolesi in un’intervista di Nello Simioli su Tutto Discoteca Dance a maggio 1995, ed aggiunge: «ogni sei mesi pubblicherò il mix di un personaggio esordiente grazie agli innumerevoli provini che ricevo da tutta Italia».

cartolina fan club 1994
L’opuscolo che annuncia l’apertura del Digital Boy Fan Club a dicembre ’94

A fine ’94, poco prima dell’uscita del nuovo album, apre i battenti anche il Digital Boy Fan Club, iniziativa attraverso cui i fan possono mantenere un filo diretto con il loro beniamino. Due le operazioni attivate, la Fan Card e il Cofanetto Digitale. La Fan Card garantisce sconti sul merchandising in vendita nei negozi di dischi, offre la possibilità di partecipare ad incontri con l’artista ed entrare in una mailing list (postale) per ricevere mensilmente notizie in anteprima e il calendario aggiornato con le date dei live; il Cofanetto Digitale contiene invece un manifesto, una cartolina autografata, una t-shirt e il VHS “Digital Boy Live” che i fan attendono ormai impazientemente da circa un anno.

1995, il terzo (ed ultimo) album
“The Mountain Of King” anticipa di pochi mesi l’uscita del terzo LP di Digital Boy, “Ten Steps To The Rise”. «È un disco che non si limita a guardare al mercato italiano e non è nemmeno il classico disco di “spaghetti dance” cioè un freddo progetto di studio che vede in azione il musicista e il DJ che usano delle “controfigure mute” come immagine per i passaggi televisivi» spiega Pretolesi nell’intervista a cura di Dall’Acqua sopraccitata. Ed aggiunge: «questa produzione è senza ombra di dubbio un ritorno all’istintività e all’intuitività dei miei primi lavori. Mi riporta a quando registravo le tracce e le mettevo su vinile così come le sentivo, senza alcuna malizia commerciale. La cosa veramente importante per me era la spinta, la motivazione che c’era dietro». L’artista individua una linea da seguire sullo sfondo di nuove prospettive e prende le distanze dal tipico modus operandi della dance nostrana, popolata da tanti (o troppi?) personaggi immagine come descritto qui. Pare inoltre voglia dare un taglio di forbici al suo passato, contestualmente al cambio dell’etichetta discografica. Molla la natia Liguria per trasferirsi a Melazzo, un piccolo paesino della provincia di Alessandria, in Piemonte, dove fissa la nuova base operativa, e crea un nuovo logo, già apprezzato sulla copertina di “The Mountain Of King” e piazzato al centro del vecchio logotipo “Digital Boy”, unico elemento grafico a garantire un continuum con gli anni precedenti. L’autore ora vuole guardare meno le cose dall’aspetto commerciale, come sostiene nella videointervista di Marco Gotelli trasmessa da Entella Tv nell’autunno ’94 e in effetti “Ten Steps To The Rise” evade dalla classica prevedibilità delle produzioni dance mainstream italiane e non è proprio il classico disco destinato al mercato di massa, seppur la linea sfacciatamente melodica di “The Mountain Of King”, pervasa da un filo di malinconica nostalgia, pare sconfessare gli intenti alternativi.

Ten Steps To The Rise
“Ten Steps To The Rise”, terzo e ultimo LP di Digital Boy

È sufficiente però ascoltare il brano d’apertura, “Ten Steps To The Rise”, che è una sorta di prologo narrato dalla voce di Ronny Money, per capire come Pretolesi non voglia affatto scimmiottare le hit del momento. “Exterminate”, coi profondi vocalizzi di Flame, è una cavalcata hard trance sullo sfondo di iridescenti melodie daturiane, “Get Up (To The Old School)” è un salto indietro nel breakbeat britannico post Prodigy con una vena rock incastonata all’interno (a suonare la chitarra è Sergio Pretolesi, padre di Luca), “The Ride” si spinge a lambire sponde acidcore, “7 A.M. Day Dream”, ancora con l’intervento di Flame, è un’escursione onirica, “Party Hardy” è giocosa happy hardcore, “Mental Attack” galleggia su bolle di trance solforica, “S.A.L.T.A.” è un martello demolitore, “Acid Boy” avrebbe fatto ottima figura nel catalogo Bonzai insieme ad Yves Deruyter, Jones & Stephenson e Cherry Moon Trax. In fondo ci sono “Trippin'”, ipnosi in slow motion, e “Set Um’ Up, Dee”, dove il rap di Ronny Money è incorniciato da una cortina di acidismi dai quali emerge anche una citazione per “Crossover”. A chiudere è una versione di “The Mountain Of King” ad 80 bpm, quasi trip hop. Pretolesi, a conti fatti, si rimette in discussione sviluppando e sperimentando cose nuove e più stimolanti, in risposta alla rassicurante standardizzazione dell’eurodance. Edito su (doppio) vinile, CD e cassetta, “Ten Steps To The Rise” risulta essere un album decisamente atipico per un personaggio finito nelle spire della dance generalista da Superclassifica Show, spiazzante perché non ruota su una carrellata di brani simili a quello più popolare (e questo lascia profondamente deluso chi si aspettava invece un’altra “The Mountain Of King” o comunque brani da DeeJay Parade) ma mostra all’ascoltatore i vari volti sonori dell’autore non configurandosi come un banale contenitore di qualche promettente singolo accompagnato da ovvietà riempitive. Non a caso ad essere estratto, in estate, è solo un secondo brano, “Exterminate”, abbinato all’inedito “Direct To Rave”, un ingranaggio mosso da bracci pneumatici che funge da cartina tornasole della nuova rave music cambiata rispetto ai primi Novanta: al posto delle sirene, dei reticoli breakbeat, degli stab e dei suoni hoover ora ci sono velocità sostenute, traslitterazione audio del futuro che avanza fulmineo, e melodie festaiole, in rappresentanza di un’epoca prospera sotto il profilo economico e geopolitico. Sono gli anni in cui l’hardcore vive la fase commercialmente più fortunata ed eventi come la Love Parade vedono aumentare esponenzialmente l’affluenza «capitalizzando e disciplinando l’energia dei primi rave clandestini in un network milionario fatto di sponsor ed indotti sempre più roboanti», come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”. “Exterminate” e “Direct To Rave” vengono pubblicate su CD e su un vinile particolare perché incise entrambe sul lato a ma in due solchi affiancati. Più di qualcuno pensa si tratti di un errore di stampa ma invece è un espediente che rende più particolare il tutto, insieme alla doppia copertina e al lato b decorato con l’incisione del nuovo logo di Digital Boy, seppur a conti fatti risulti un disco destinato più al collezionismo che all’utilizzo nelle discoteche, l’involontario salto della puntina finirebbe col disorientare sia il DJ che il pubblico.

successi eurodance
I tre brani che Digital Boy realizza nel 1995 sul fortunato schema di “The Mountain Of King”

Una tattica efficace?
“The Mountain Of King”, che i collezionisti oggi cercano anche nel formato picture disc, diventa un brano di rilievo per la dance nostrana, capace di affermarsi a livello generalista ma con un imprinting diverso rispetto a ciò che il mainstream chiede in quel determinato momento storico. La discografia tradizionale avrebbe cavalcato l’onda sfornando, a pochi mesi di distanza, un follow-up dalle caratteristiche identiche al fine di rendere longevo il successo e garantirsi un rientro economico con sforzi ridotti quasi a zero. A seguire questo modus operandi è pure Pretolesi ma non esattamente nella formula canonica. Il seguito di “The Mountain Of King” arriva nella primavera del 1995 e si intitola “Happy To Be” ma è firmato dalla sola Asia. Approntato nel nuovo Demo Studio che diventa Demo Studio Professional, il pezzo inizia lì dove finisce il precedente, marciando su bpm serrati, una melodia felice che pare eseguita con una banale Bontempi ed un riff euforico a presa rapida. Il continuum tra i due brani è tale che per l’ospitata nell’ultima edizione di Non È La Rai vengono eseguiti entrambi uno dopo l’altro, a mo’ di medley. Se Pretolesi è messo nella condizione, come avviene sempre in tv, di mimare l’esecuzione su una tastiera Roland, Asia invece canta dal vivo e dimostra di non essere una frontwoman specialmente alla fine quando accenna “Fever” di Peggy Lee al fianco di Ambra Angiolini e sul battito di mani delle ragazze che, a posteriori, hanno trasformato il programma di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo in un cult. Nell’autunno dello stesso anno Pretolesi appronta un altro brano che ricalca le orme di “The Mountain Of King” ed “Happy To Be” ossia “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, ma anche in questo caso decide di affidarlo ad un altro membro della D-Boy Records, Ronny Money, per l’occasione affiancato da Jeffrey Jey dei Bliss Team, quell’anno lanciatissimi con “You Make Me Cry” ed “Hold On To Love”. Il pezzo, a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui, chiude la trilogia eurodance pretolesiana di successo. Pubblicare follow-up con nomi differenti, dunque, potrebbe essere considerata una strategia messa in atto col fine di coinvolgere altri componenti del team e lanciarli nel mondo parallelo delle esibizioni in discoteca, più che utili per rimpinguare le finanze. Nel contempo ciò avrebbe garantito un maggiore dinamismo all’etichetta, non relegandola ad un unico artista. C’è anche un quarto brano che potrebbe rientrare in questa parentesi, “Sky High” di Individual, per cui Digital Boy realizza due remix (il Part 1 è quello che segue la scia di “The Mountain Of King”). La voce è di Billie Ray Martin nonostante il featuring sia intenzionalmente celato su volontà della cantante tedesca, come lei stessa spiega qui. Nel corso del 1995 la Dig It International affida a Pretolesi pure il remix di “La Casa” di Adrian & Alfarez, finito su Top Secret Records. Nel catalogo della stessa confluiscono anche le compilation “Energia Digitale” ed “Energia Pura”: in entrambe, doppie, Digital Boy alterna classica italodance ad hard trance, house ed hardcore, un enorme calderone multiverso non inusuale per i tempi.

Logo D-Boy Records
Il logo della D-Boy Records in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi

Il primo anno di attività della D-Boy Records
Inaugurata nella migliore delle maniere con “The Mountain Of King” nell’autunno ’94, la D-Boy Records cerca sin da subito di ritagliarsi un posto nel mercato della musica hardcore ed happy hardcore, allora in forte ascesa ed espansione. Tra i primi brani messi sul mercato il gioioso “Voulez Vous Un Rendez – Vous?” di Lee Marrant a cui segue “Khorona – Nooo!!!” del quindicenne siciliano The Destroyer che ironizza su una delle maggiori hit del periodo, “The Rhythm Of The Night” di Corona (di cui parliamo qui), attraverso una specie di audiosatira intavolata con la fittizia Concetta. Il brano è solcato su 7″ con la stessa versione incisa su entrambi i lati. Così come anticipato in varie interviste, Pretolesi scommette sulla musica di giovani emergenti come gli Underground Planet (Emanuele Fernandez e Fabio Mangione) e Giorgio Campailla alias Placid K, oltre a rilevare qualche licenza dall’estero (la prima è “The Power Of Love” degli scozzesi Q-Tex per cui lui stesso realizza due remix di taglio happy hardcore). Alla tripletta “The Mountain Of King”, “Happy To Be” e “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, la D-Boy Records aggiunge un altro discreto successo, “Discoland” di Tiny Tot, un pezzo happy hardcore nato un po’ per gioco con una vocina all’elio che, come raccontato qui da uno dei produttori, Bob Benozzo, è quella di Asia opportunamente modificata. Da noi il brano funziona bene, ancora di più nei Paesi nordeuropei dove viene licenziato da label locali e diventa un classico negli ambienti hardcore trainato da vari remix. Nel 1995 la D-Boy Records viene affiancata dalla Big Trax Records, la prima delle due sublabel che fanno la staffetta nel biennio ’95/’96. Orientata a prodotti nati sul crocevia tra eurodance ed eurotrance, non riesce però ad emergere dal mare magnum della discografia fermando la sua corsa dopo appena cinque pubblicazioni rimaste confinate al quasi totale anonimato e in virtù di ciò oggi particolarmente quotate sul mercato del collezionismo, su tutte “Talk About Me” di Vision e “Rock My Body” di Nice Price che suona come una versione velocizzata dei bortolottiani Cappella.

Asia e Tiny Tot
I follow-up di Asia e Tiny Tot falliscono l’obiettivo

1996, tra follow-up poco fortunati e successi oltre le Alpi
Nel corso del 1996 la D-Boy Records consolida l’interesse nutrito per la musica hardcore e gabber mandando in stampa gli EP di Placid K, The Destroyer e Ryan Campbell & The Acme Hardcore Company, ma non tagliando del tutto il filo che la lega al movimento eurodance. È tempo di follow-up per Asia e Tiny Tot, i due nomi che hanno generato parecchio interesse nei dodici mesi precedenti. Pretolesi produce “Hallelujah” per la prima, con qualche bpm in meno ma con una vena melodica ancora saldamente ancorata al modello di “The Mountain Of King”. Le vendite del 12″, disponibile anche in colore rosso, però non sono esaltanti e gli esiti sono simili per “La Bambolina” di Tiny Tot, remake di “La Poupee Qui Fait Non” di Michel Polnareff di trent’anni prima, ricostruito seguendo il modello di “Luv U More” di Paul Elstak e con un sample preso da “Crazy Man” dei Prodigy. Sia Asia che Tiny Tot perdono repentinamente quota, sopraffatti dalla tendenza italiana dell’anno per la dream di Robert Miles e la mediterranean progressive della BXR, di cui parliamo rispettivamente qui e qui, due generi capaci di mettere all’angolo persino un fenomeno consolidato ed apparentemente imbattibile come quello dell’eurodance.

Rhio
“Feeling Your Love” di Rhio, prodotto dai fratelli Andrea e Paolo Amati

Pretolesi e il suo team però non si abbattono e continuano a puntare su un suono che trova terreno fertile in Germania, Regno Unito e soprattutto nei Paesi Bassi. In quest’ottica la D-Boy Records scommette su “Feeling Your Love” di Rhio, brano ascritto al filone happy hardcore marginalmente battuto pure da noi dove si sviluppa un micro alveolo di produttori (si sentano pezzi come “Sikret” di Russoff, “Dream Of You” di Venusia – di cui parliamo qui -, “Mamy” di Polyphonic o “A Song To Be Sung” di Byte Beaters). A realizzarlo ed arrangiarlo sono i fratelli Andrea e Paolo Amati che, contattati per l’occasione, raccontano: «Nonostante fossimo presenze un po’ anomale per la dance in quanto attivi prevalentemente nella musica leggera italiana con collaborazioni con Gianni Morandi, Mietta, Flavia Fortunato, Biagio Antonacci e Pupo, proponemmo dei pezzi ad alcune etichette discografiche tra cui la D-Boy Records. In quel periodo le label che operavano nel comparto della musica da discoteca prendevano spesso licenze ed inserivano nel proprio catalogo brani di produttori indipendenti, come noi, scegliendoli in base al genere che più si confaceva ai propri interessi. Andammo personalmente a Melazzo, quartier generale di Digital Boy, per proporre “Feeling Your Love” di Rhio. Pretolesi ci ricevette nel suo studio ed ascoltò insieme a noi, con molta attenzione, tutte le versioni approntate. Si dimostrò da subito entusiasta e non richiese modifiche su suoni o parti, come invece avveniva di frequente ai tempi, ma volle comunque realizzare insieme al suo staff due versioni finite sul mix (la Happy Hardcore Mix e la Radio Mix, nda). Ricordiamo Luca come una persona cordiale e molto disponibile, fu quindi facilissimo raggiungere un accordo di licenza. Pur non andando malissimo, “Feeling Your Love” non riuscì a raccogliere un grosso riscontro ma fu comunque inserito in alcune compilation tra cui il secondo volume di “100% Hardcore Warning!”. Era un periodo in cui uscivano decine se non centinaia di prodotti al giorno ed essere notati in quel mare immenso di pubblicazioni non era facile per nessuno. Le soddisfazioni, tuttavia, sono giunte a distanza di qualche decennio, quando i cultori di quel genere si sono accorti di tanti brani che non erano poi così malvagi seppur rimasti nell’ombra. Oltre a “Feeling Your Love” di Rhio, nel nostro repertorio dance ci sono anche altri pezzi tra cui “Far Away” di France, che cedemmo alla Zac Records, e “Stop Burning” di U.F.O. Featuring Dr. Straker, edito dalla Exex Records».

Dopo Rhio su D-Boy Records seguono a ruota “Good Vibrations” di Oddness, chiaramente ispirato da “Let Me Be Your Fantasy” di Baby D, e “Fuck Macarena”, sarcastica reinterpretazione della “Macarena” dei Los Del Rio con cui Ronnie Lee apre una nuova fase della sua carriera nelle vesti di MC Rage. Il pezzo, supportato da un videoclip altrettanto canzonatorio, diventa un top seller nel nord Europa dove, si dice, abbia venduto circa 30.000 CD singoli e un milione di copie calcolando dischi e compilation. La D-Boy Records dunque, in netta controtendenza, fa volentieri a meno della dream e della progressive (nonostante qualche disco segnalato in seguito ne ricalchi le orme) per dedicarsi all’hardcore e alla gabber. «La nascita del movimento mediterranean progressive è senza dubbio un buon punto a favore dell’Italia» afferma Pretolesi in un’inchiesta pubblicata su Tutto Discoteca Dance a novembre 1996, «ma ciò che non mi convince è che il nostro Paese si stia fossilizzando in uno schema. Preferisco la spregiudicatezza dei tedeschi».

Let's Live
“Let’s Live”, ultimo tentativo di Pretolesi di cavalcare l’onda eurodance

Nel 1996 il posto della Big Trax Records viene preso da una nuova sublabel, la Electronik Musik, sulla quale vengono convogliate produzioni filo trance come “Desires” di Indaco Feat. Leika (realizzata da Massimo Tatti parecchio influenzato da “Children”), “Free Dimension” di Umma-Y, “Tomorrow” di P. Logan (un misto tra R.A.F. By Picotto e Robert Miles), un paio di EP dei BioMontana (neo progetto di Flavio Gemma e Massimiliano Bocchio che come Urbanatribù incidono un EP ed un ammirevole album per la Disturbance del gruppo barese Minus Habens di Ivan Iusco intervistato qui) ed “Euphonia” degli Underground Planet. In primavera finisce proprio nel catalogo Electronik Musik “Let’s Live”, il 10″ che sancisce il ritrovato asse artistico tra Asia e Digital Boy, nonostante in copertina il nome di quest’ultimo venga troncato in Digital B., un’autentica stranezza per i fan. Il pezzo è completamente fuori dalle tendenze che in quei mesi si consumano nel nostro Paese, una scelta azzardata ma senza ombra di dubbio coerente con quanto affermato in diverse interviste sull’intenzione di non seguire in modo pedestre i continui mutamenti del mercato. “Let’s Live” gira su retaggi eurodance del biennio ’93-’94 e su una stesura alquanto irregolare. Nonostante l’hook vocale, ripetuto ossessivamente per quasi tutta la durata, sembri garantire quasi un flashback di “The Mountain Of King”, il brano non riesce a carburare e convincere. Davvero risicati i passaggi nel DeeJay Time, presenza non pervenuta invece nella DeeJay Parade: Albertino, che cinque anni prima aveva aiutato la musica di Digital Boy a trovare una vasta audience in Italia, adesso pare indifferente. È l’ultimo tentativo da parte di Pretolesi di calcare una scena a cui, probabilmente, non sente più di appartenere. Asia riapparirà nel ’99 con “Take Me Away” sulla romana X-Energy Records che, nello stesso anno, pubblica “Groovin’ On The Dance Floor” di Night Delegation da lei cantato. In entrambi, passati inosservati, Luca Pretolesi figura come autore ma è legittimo ipotizzare che si tratti di iniziative sviluppate partendo da vecchi demo inutilizzati e risalenti al periodo della D-Boy Records, poi finalizzati dai DJ riminesi Enrico Galli e Luca Belloni.

Hardcore Bells
La copertina di “Hardcore Bells” con gli autori trasformati in personaggi di un ipotetico fumetto

Tempo di extremizzazione: la fase hardcore
Il cuore di Digital Boy ormai pulsa quasi esclusivamente per hardcore e gabber, generi che inizia ad esplorare già nei primi anni Novanta cercando di trovare ad essi una collocazione anche in posti fuori contesto come testimonia questa clip del 1994 registrata al Genux di Lonato. Battere un percorso poco compatibile coi gusti italiani non lo intimorisce però, anzi, sembra spronarlo a prendere sempre più le distanze dalla scena nazionale. «Suono spesso in Scozia e nei Paesi Bassi» afferma nell’inchiesta su Tutto Discoteca prima menzionata. «In particolar modo lavoro per la one night chiamata Old School durante la quale educhiamo il pubblico facendo sentire molti pezzi vecchi. Il popolo deve sapere e conoscere quello che balla. Spesso mi esibisco al Parkzicht, venite a sentirmi e capirete. Non uso i piatti come i DJ né tantomeno i dischi. Con me porto macchine analogiche, batterie elettroniche, computer, sintetizzatori e campionatori per sviluppare dal vivo i demo che faccio in studio così noto la reazione della gente e devo ammettere che i risultati sono molto soddisfacenti». A ridosso delle feste natalizie del ’96 esce “Hardcore Bells”, hardcorizzazione del tradizionale “Jingle Bells” promosso Disco Makina da Molella ad inizio dicembre in una delle ultime puntate del programma radiofonico Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui nel dettaglio. Il 10″ è impreziosito da una copertina che ripropone in chiave fumettistica i D-Boy Bad Boys (ovvero Tiny Tot, MC Rage, The Destroyer, Placid K ed ovviamente Digital Boy). Subito dopo arriva il primo volume di “Back To The Past”, progetto con cui Pretolesi inizia a riportare indietro le lancette dell’orologio e riavvolgere il nastro per tornare parzialmente nel passato, nel suo passato, rispolverando “Kokko” e “OK Alright!”. Sulla prima mette le mani l’olandese DJ Rob, sulla seconda invece si attiva lui stesso. Il disco, presentato in anteprima domenica 8 dicembre presso il Number One di Cortefranca, esce sulla neonata Italian Steel, una delle etichette della Raveology S.r.l. – “Raveology” è uno dei brani che Pretolesi destina nel ’91 alla UMM per The Voice Of Rave – che, come si legge sul n. 2 della rubrica D-Boy News a dicembre, è una nuova società che gestisce dischi, eventi, merchandising e management.

Back To The Past 1
Col primo volume di “Back To The Past” uscito a fine ’96 Digital Boy inizia a ripercorrere la sua carriera in chiave hardcore

Il 1997 vede la pubblicazione del secondo e terzo volume di “Back To The Past” che ripercorrono ancora la fase carrieristica di Pretolesi sotto l’egida della Flying Records con l’aggiunta di nuovi remix (gli Stunned Guys – presto ripagati con una versione di “Paranoia” di Baba Nation – e Placid K mettono mano rispettivamente su “This Is Mutha F**ker” e “Gimme A Fat Beat”, Neophyte rilegge “Digital Danze” mentre la coppia DJ Jappo e Lancinhouse riassembla “Crossover”). È sempre l’Italian Steel a pubblicare “Beats & Riffs 1”, un disco contenente tre tracce (“163 – 179”, “Him Again” e “Fist Like This”) che Pretolesi firma col nom de plume The Dark Side, oggetto di particolari apprezzamenti all’estero. Nei primi mesi del ’97 parte anche l’avventura radiofonica: Digital Boy conduce una striscia quotidiana nel pomeriggio di Italia Network, venticinque minuti di musica hardcore e gabber. Titolo? “Extreme”. Nel corso degli anni il programma si evolve e diventa anche una finestra d’informazione ed approfondimento sui grandi eventi hardcore esteri, come si può sentire in questa clip. Pretolesi viene poi affiancato nella conduzione da Randy ed Extreme diventa un vero punto di riferimento per gli hardcore warriors italiani. Col rebranding dell’emittente che si trasforma in RIN – Radio Italia Network, il programma però viene interrotto. «Secondo il mio punto di vista è stato un passo indietro!» sentenzia senza mezze misure Pretolesi in questa intervista del 2001 curata da Antonio Bartoccetti per Future Style. Tuttavia in Italia il movimento regge ancora. «La vendita delle nostre compilation tematiche ora si aggira tra le 10.000 e le 12.000 copie» aggiunge Pretolesi. «Se arrotondiamo per eccesso, sapendo che la compilation viene prestata all’amico, allo zio o alla sorella minore, questo numero cresce». Per l’occasione l’artista stila pure un ritratto dell’ascoltatore medio della musica hardcore: «la compra, l’ascolta, la balla e si muove solo fra i confini tecnologici. Può amare la new style, un certo tipo di hard trance ma non si sposta dal filone tec(h)nologico e non acquisterebbe mai un cantautore, sorridendo di fronte alla comicità del pop e cosciente che fenomeni come “The Fat Of The Land” dei Prodigy o i Chemical Brothers siano invenzioni commerciali che hanno dovuto trovare un po’ di oro attingendo dal vecchio rock».

Randy e Pretolesi (1999)
Randy e Digital Boy in uno scatto del 1999 con un disco della Head Fuck Records, una delle etichette raccolte sotto l’ombrello Raveology

Attraverso l’hardcore e la gabber Digital Boy, tra ’99 e ’00 frequentemente alla consolle di locali romagnoli come il Gheodrome e l’Ecu, rafforza parecchio la competitività all’interno del mercato mondiale e stringe proficue collaborazioni con artisti del calibro di Scott Brown (suo il remix di “Asylum” firmato The Scotchman) e The Masochist (insieme realizzano “Shout Out”). Sono gli anni che, inoltre, vedono l’affermazione globale della D-Boy Black Label che prende il posto della iniziale D-Boy Records Black Label, ora assorbita dalla Raveology subentrata in modo definitivo alla D-Boy Records nel 1996 (l’ultimo 12″ col logo rosso è quello coi remix de “La Bambolina” di Tiny Tot realizzati dagli Stunned Guys, Bass-D & King Matthew e Placid K). Nel nuovo millennio Pretolesi inizia a diradare progressivamente l’attività produttiva, mantenendo comunque i piedi sempre ben saldi nella scena hardcore come attestano pezzi come “Akkur” in coppia con MC Rage, “I’m Hard To Da Core” in tandem con DJ J.D.A. o “How You Diein'” a quattro mani con DJ Bike dei Noize Suppressor. Tra gli ultimi dischi realizzati c’è “Sugar Daddy” (con un frammento di “Sugar Is Sweeter” di CJ Bolland), ancora insieme al vecchio amico Lee e sulla D-Boy Black Label, oggetto di un update grafico del logo col cane bassotto incattivito. Inspiegabile solo la riapparizione, nel 2008, con Shane Thomas per l’anonima “Sexy, Sultry, Delicious, Dirty” incapsulata nell’electro house. Pretolesi, con molta probabilità, non vuole vivere nel passato e non è disposto a finire in svendita al mercato della nostalgia o essere sacrificato sull’altare del revivalismo, così decide di dedicarsi ad altro.

ai Latin Grammy Awards (2018)
Pretolesi e la moglie ai Latin Grammy Awards (Las Vegas, novembre 2018)

Il ragazzo digitale un trentennio dopo
Sono trascorse poco più di tre decadi da quando il “ragazzo digitale” inizia la sua carriera. Di quel ventenne che i magazine nostrani definivano “l’eroe della techno italiana”, dalla lunga chioma, il cappellino da baseball quasi sempre in testa, gli occhiali tondi con le lenti a forma di mirino ed animato dal desiderio di mettere a soqquadro le regole della discografia, probabilmente resta poco o nulla: il “boy” è diventato “man”, ha oltrepassato la soglia dei cinquant’anni e il suo sguardo è meno innocente e più scafato. Dal 2001 risiede a Los Angeles dove ha messo su un super studio di mix e mastering, lo Studio DMI (DMI è l’acronimo di Digital Music Innovation), frequentato da personaggi assai popolari della scena pop e da dove sono usciti pezzi come “On My Mind” di Diplo & Sidepiece (che gli garantisce una nomination ai Grammy), “Mi Gente” di J Balvin, “Goodbye” di Jason Derulo & David Guetta Feat. Nicki Minaj & Willy William e “Lean On” di Major Lazer. Basta un banale clic su Google per imbattersi in recenti interviste come questa ed approfondire adeguatamente sul nuovo ciclo lavorativo di Pretolesi che, costantemente attratto dall’inarrestabile tecnologia, ha smesso di vestire i panni di Digital Boy tornando ad essere, per l’appunto, Luca Pretolesi, considerato un luminare in fatto di ingegneria del suono, richiesto ovunque per corsi, seminari e workshop. Per tale ragione lasciamo ad altri il compito di tracciare e narrare le coordinate di un percorso che esula dal tipo di ricerche svolte sulle pagine di questo blog ma con la consapevolezza che la sua storia non sia terminata ma proseguita in un’altra direzione, sempre all’interno del caleidoscopico e multiforme mondo della musica elettronica.

(Giosuè Impellizzeri)

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Ronny Money Ft. Jeffrey Jey – Don’t You Know (The Devil’s Smiling) (D-Boy Records)

Ronny Money - Don't You Know

«Provate ad immaginare che combinazione esplosiva possa uscire mettendo insieme la straordinaria energia e il rap di Ronny Money, la voce bella e potente di Jeffrey Jey dei Bliss Team e il sound ipertechnologico e geniale di Digital Boy. Se non avete sufficiente fantasia allora fate vostro questo nuovo mix, è una bomba!»: si apre così la recensione di Nicola Villani apparsa sulla rivista Dance Music Magazine a novembre 1995, in cui il giornalista fa riferimento anche al testo del brano riportato sul retro della copertina, «impegnato quanto basta per farci riflettere sulle violenze ed ingiustizie che tutti i giorni si ripetono sotto lo sguardo di un diavolo sorridente a cui potete dare la faccia e il nome che volete». Nel ’95 Ronny Money, all’anagrafe Ronnie Lee, non è un esordiente, si era fatto conoscere come MC di Luca ‘Digital Boy’ Pretolesi nei primissimi anni Novanta, periodo in cui inizia ad affiancarlo in videoclip come quello di “1-2-3 Acid!” e nei live in discoteca come quello al Genux, una performance frammista tra eurodance ed hardcore con derive parecchio scenografiche. Considerato un suo protégé, viene coinvolto dall’Interga di Bressanone per uno dei brand britannici distribuiti in esclusiva in Italia, SPX, insieme ad altri testimonial come lo stesso Digital Boy, i KK (di cui parliamo qui) ed un giovanissimo Rexanthony. Voci di corridoio asseriscono che Lee abbia collaborato in incognito ad uno dei primi brani di Molella, pare la U.S.A. Mixx di “Revolution!”, in cui si sente anche la chitarra di Nikki, e qualcuno gli attribuirebbe pure il rap della 153 Jingle Mixx di “Free”.

MC Fresh - Don't You Wanna Be Free
“Don’t You Wanna Be Free” è l’unico disco che Lee firma MC Fresh

Ai tempi si fa chiamare ancora MC Fresh, pseudonimo con cui interviene in alcuni brani di “Futuristik”, secondo album di Digital Boy, e firma “Don’t You Wanna Be Free”, in cui mostra le inclinazioni come rapper su una base breakbeat. Più fortunato si rivela “Ula La”, il primo realizzato come Ronny Money sulla falsariga di quel filone che esplode a livello europeo coi 2 Unlimited e viene identificato dalle riviste nostrane, con evidente approssimazione e non poca superficialità, “technorap”. I seguenti, “Money’s Back” ed “Again N’ Again”, usciti tra 1993 e 1994 e prodotti ancora da Pretolesi, non riescono però a lasciare il segno per mancanza di una personalità definita, e non sortisce grandi risultati nemmeno l’apporto dato a “Ding Dang Dong” di R2DM prodotto dal DFC Team e DJ Ricci, improbabile rivisitazione eurodance della filastrocca di “Fra’ Martino Campanaro”. In compenso l’istrionico Lee si ritaglia spazio in tv come conduttore di Caos Time su Videomusic. La fase di impasse viene superata nel 1995 quando nei negozi arriva “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”. È l’anno in cui l’eurodance nostrana vive la velocizzazione ritmica, importata da artisti teutonici come Dune, Das Modul, (di cui parliamo rispettivamente qui e qui), Marusha, Mark ‘Oh, U96, Perplexer, Scooter, Jam & Spoon, Intrance Feat. D-Sign e pure gli Snap! che con “Welcome To Tomorrow” pigiano il pedale dell’acceleratore.

D-Boy team (1995)
Una foto scattata negli uffici della D-Boy Records nel 1995: al centro si scorgono Luca ‘Digital Boy’ Pretolesi, la compagna Ornella Contu e Ronny Money

A trainare quella che si rivela come una vera e propria tendenza generalizzata è proprio Digital Boy con la sua “The Mountain Of King” che, già nell’autunno ’94, cambia i parametri di un filone apparentemente intoccabile. È un momento particolare per la carriera di Pretolesi, che abbandona la napoletana Flying Records per fondare la sua personale etichetta, la D-Boy Records, nata lì dove era terminato il breve cammino della Demo Studio nel 1990. «In questa maniera ho un totale controllo artistico sulle mie produzioni e posso, eventualmente, introdurre al pubblico musica di altri artisti, italiani e stranieri» spiegava a Roberto Dall’Acqua in un’intervista pubblicata dalla rivista Tutto Discoteca Dance a novembre 1994. L’occasione è giusta anche per chiarire le ragioni che lo spingono a compiere un passo simile: «Negli ultimi tempi avvertivo il rischio di trovarmi prigioniero di un cliché, costretto dai vincoli contrattuali a dover fare un singolo di un certo tipo perché era estate ed uno di un altro tipo perché inverno. Non avevo più spazio per la sperimentazione […]. L’album “Ten Steps To The Rise” (da cui viene estratto “The Mountain Of King”, nda) è un ritorno all’istintività e all’intuitività dei miei primi lavori, mi riporta a quando registravo le tracce e le mettevo su vinile così come le sentivo, senza alcuna malizia commerciale. La cosa veramente importante per me era la spinta, la motivazione che c’era dietro […]. Lavorare con una mia etichetta mi tranquillizza molto in tal senso. Oltre al mio album, non il classico disco di “spaghetti dance” che vede il musicista e il DJ usare controfigure “mute” come immagine per i passaggi televisivi (così come descritto in questo reportage, nda), in cantiere ho un paio di lavori: il mix della cantante inglese Asia (subentrata a Jo Smith per la quale Pretolesi, nel primo semestre ’94, produce “It’s All Right” e a cui affida la sua “Dig It All Beat!”, nda) e quello del vocalist Ronny Money».

Adv D Boy
Advertising della D-Boy Records risalente al 1995 che mette in risalto i primi nomi della scuderia artistica messa su da Pretolesi

Il performer ligure, oggi di stanza a Las Vegas dove si è affermato come ingegnere del suono con lo Studio DMI, dimostra che si possa ottenere successo anche iniettando una dose di adrenalina nei circuiti ritmici e scombinando un po’ la formula dell’eurodance più tradizionale. “The Mountain Of King”, promosso in tv da un videoclip chiuso da una riflessione sulle discriminazioni razziali ed una foto di Martin Luther King che chiarisce la ragione del titolo, vende oltre 40.000 copie e traina verso nuovi obiettivi la D-Boy Records, accompagnata da un logo in cui fa capolino il cane bassotto Ninì, come raccontato in questa video-intervista del ’94 a cura di Marco Gotelli. L’etichetta è animata da «una maggiore indipendenza artistica e libertà assoluta di dare sfogo alle intuizioni senza più seguire canoni predeterminati», rimarca ancora Pretolesi a Nello Simioli in un’intervista raccolta a maggio 1995. Paradossalmente però, nonostante il plateale successo, Digital Boy non inciderà mai un follow-up, perlomeno a suo nome. Naturale continuum a “The Mountain Of King” infatti sono “Happy To Be” di Asia, uscito in primavera, e “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)” di Ronny Money, giunto in autunno: a tenere insieme la tripletta è la forma del sound pretolesiano del periodo, anello di congiunzione tra l’epoca hooveristica segnata da successi tipo “This Is Mutha F**ker!”, “1-2-3 Acid!”, “Gimme A Fat Beat” e “OK! Alright” e quella più estremista intrecciata ai filoni hardcore e gabber che segue nella seconda metà degli anni Novanta.

Ad affiancare Pretolesi nella produzione di “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, è Roberto ‘Bob’ Benozzo, giunto alla D-Boy Records proprio nel 1995 come raccontava qui qualche anno fa. «Incontrai per la prima volta Ronnie nello studio di Luca, dove avevo iniziato a lavorare come ingegnere del suono» spiega oggi, ricontattato per l’occasione. «Ronnie partecipava, con Sharon Francis alias Asia, alle serate in discoteca di Luca che ai tempi erano davvero tantissime visto il successo di “The Mountain Of King”. Era arrivato in Italia qualche tempo prima prestando lavoro presso una base militare americana della NATO e poi iniziò a collaborare con Luca come MC nei dischi (tra cui il citato “Dig It All Beat!”, nda) e nelle gig in discoteca. Faceva sorridere il fatto che, a distanza di diversi anni trascorsi in Italia, avesse ancora un accento americano così marcato (così come si sente in questa clip, nda). Era fissato con la palestra e possedeva un bel macchinone sportivo. In seguito iniziò a partecipare più attivamente alla gestione di Raveology, le edizioni musicali nate quando la D-Boy Records spostò l’interesse verso l’hardcore».

“Don’t You Know (The Devil’s Smiling)” resta uno dei brani di maggior successo del repertorio di Ronny Money ma, anche a causa di una certa riluttanza da parte dell’autore di concedere interviste, è stato sempre difficile disporre di informazioni più dettagliate. Grazie alla testimonianza di Benozzo, oggi è possibile gettare una luce inedita sul pezzo: «In quel periodo Luca portava avanti diversi progetti simultaneamente, in primis il suo, Digital Boy, seguito da altri come Asia e Ronny Money per l’appunto. Quest’ultimo, tra l’altro, era assente dal mercato da oltre un anno con un disco a suo nome quindi era giunto il momento di pensare a qualcosa di nuovo. Come accadeva il più delle volte, l’idea embrionale era racchiusa nel riff di tastiera: Luca mise giù in una notte quel giro che possedeva l’imprinting del “Digital Boy sound” dell’epoca. Qualche giorno dopo Ronnie venne in studio e registrammo le parti rappate, ma per avere delle chance di essere passato in radio il brano doveva essere cantato. Luca era in buoni rapporti con Massimo Gabutti della Bliss Corporation (intervistato qui, nda) che in quel periodo aveva due progetti che funzionavano piuttosto bene, Bliss Team e Da Blitz, con un suono non così distante da quello che facevamo noi alla D-Boy Records, almeno a livello di bpm. A loro piacque molto l’idea di unire le forze e così nacque il featuring con Jeffrey Jey (non nuovo a partnership con etichette ed artisti esterni alla torinese Bliss Corporation, si sentano “Change” di Molella ed “If You Wanna Be (My Only)” di Orange Blue del ’94, a cui due anni dopo segue “Without You” di The Dog, tutte destinate alla Time di Giacomo Maiolini, nda). Ricordo ancora quando Jeffrey arrivò in studio accompagnato da Gabutti. Scrisse la melodia della parte cantata e con Ronnie ultimò il testo. Nella stessa giornata registrammo le parti vocali di Jeffrey e nei giorni successivi lavorammo alle varie versioni che avrebbero composto il mix».

Adv Ronny
Pagina pubblicitaria risalente all’autunno 1995 quando esce “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”

Benozzo non lesina neanche a fornire un’accurata panoramica tecnica sul pezzo: «La cassa, se la memoria non mi inganna, era un sample dell’Akai S1100 che usavamo per contraddistinguere le nostre produzioni, il resto della batteria invece era realizzato con una Roland TR-909. Sul suono solista del riff ci lavorammo parecchio, non volevamo che assomigliasse troppo a “The Mountain Of King” ma eravamo alla ricerca di qualcosa ugualmente efficace. Alla fine optammo per un layer fatto con un sample, probabilmente del Korg 01/W o del Roland JV-1080, ed un suono synth fatto col BassStation della Novation. Riascoltando il brano adesso mi sembra di riconoscere anche il Microwave della Waldorf e l’immancabile Akai AX60. Il suono un po’ trance di cori “trigger” che emerge da una delle versioni era fatto invece col citato Korg 01/W. Le voci le incidemmo con un Akai DD1000, uno strano registratore su disco magneto-ottico, e poi passammo i campioni sull’Akai S1100 che venivano re-triggerati via MIDI. Una volta completata la scrittura e le registrazioni, lavorammo sulle versioni, prima quella principale e poi le alternative. In genere impiegavamo un giorno per la stesura e il mix di una versione». “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)” entra in diverse compilation di successo, incluse la “One Nation One Station Compilation” e il terzo volume della “Alba” di Albertino che generano forte interesse grazie alla capillare fidelizzazione di Radio DeeJay sul territorio nazionale. Degno di menzione anche l’ingresso nella colonna sonora di “Ragazzi Della Notte”, pellicola scritta, diretta ed interpretata da Jerry Calà. «Mi pare che il 12″ vendette, solo in Italia, circa 18.000 copie» prosegue Benozzo. «Rispetto ai parametri di oggi può sembrare un numero notevole, specialmente in riferimento a produzioni dance, ma ai tempi quelle erano soglie normali per un brano di medio successo come “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”».

MC Rage - Fuck Macarena
La copertina di “Fuck Macarena” su cui MC Rage (nuova identità artistica di Ronny Money) ironizza sui passi della “Macarena”

Sebbene il pezzo raccolga discreti consensi e riesca a riportare il nome di Ronny Money all’attenzione generale, il team della D-Boy Records non appronterà mai un follow-up. Alcune propaggini si rincorrono in “Hallelujah” e “Let’s Live” di Asia ma entrambi risultano avulsi e distanti dalle principali tendenze stilistiche in atto nel nostro Paese nel ’96 (progressive in primis) e ciò finisce col pregiudicarne gli esiti. Va decisamente meglio a “Discoland” di Tiny Tot, di cui parliamo qui, ascritta al segmento dell’happy hardcore. «A mio avviso l’eurodance rappresentò solo una parentesi momentanea per Luca, da sempre più attratto dalla techno e derivati» spiega Benozzo. «Inoltre, nel frattempo, il suono dell’etichetta si stava spostando progressivamente verso l’hardcore nelle sue differenti declinazioni, e non a caso Ronnie, dopo l’inaspettato successo ottenuto con “Fuck Macarena”, decise di abbandonare il personaggio di Ronny Money (tranne per qualche featuring non particolarmente fortunato coi Black Machine e Phoebus, si sentano, “Jump Up”, “Thinkin’ About You” e “Love Will Make A Difference”, nda) a favore di una nuova identità artistica, MC Rage». “Fuck Macarena” è il pezzo, co-prodotto ancora da Bob Benozzo, che rilegge in chiave ironica la “Macarena” dei Los Del Rio trapiantata su una serratissima base hardcore. A coadiuvare il brano è il videoclip in cui Lee canzona pure i passi del celebre ballo, analogamente a quanto avviene nella grafica usata in copertina. A pubblicarlo è la D-Boy Black Label, “sorellina” della D-Boy Records destinata, per l’appunto, alle produzioni di matrice hardcore e gabber. «”Fuck Macarena” nacque davvero per gioco» rammenta Benozzo. «La “Macarena”, così commerciale e sfacciatamente mainstream, era esattamente agli antipodi della musica hardcore che stava diventando il vero focus della D-Boy Records. Concepito come parodia un po’ ironica e sprezzante, si trasformò inaspettatamente in un grande successo, soprattutto nei Paesi Bassi dove l’hardcore viveva un momento dorato. Si parlò di un milione di copie vendute, peccato però che l’etichetta olandese che lo licenziò, la Hard Attack Records del gruppo ID&T, fallì poco tempo dopo, e per questa ragione non ci fu mai riconosciuta una sola lira» conclude il musicista. (Giosuè Impellizzeri)

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R.O.D. – Heaven Or Hell (Muzic Without Control Records)

C’è stato un periodo, indicativamente tra l’autunno del 1994 e il primo semestre del 1996, in cui un’ampia frangia della dance music nostrana vive una netta accelerazione ritmica. Probabilmente innescata dalle produzioni tedesche tipo Marusha, Dune, Bass Bumpers, Perplexer, Mark ‘Oh, General Base, Scooter o Jam & Spoon che vendono centinaia di migliaia di copie e finiscono in compilation altrettanto fortunate supportate pure dalle multinazionali (come “Dance Nation”), quella che sembra una parentesi momentanea finisce col diventare una tendenza piuttosto consolidata. Tra i primi ad aderire a questo fenomeno c’è Digital Boy con “The Mountain Of King” il cui successo forse convince altri connazionali a cimentarsi in un nuovo tipo di eurodance dopata, steroidizzata e lanciata a velocità folli. Da Z100 ai Club House, da Exit Way a Molella, da Moratto a Giorgio Prezioso passando per Da Blitz, Ramirez, Bliss Team, Kina, Mato Grosso, JT Company ed altri ancora. Insomma, il gotha dell’italodance di allora si butta a capofitto in un’autentica scorribanda di bpm farcita da elementi desunti dalla hard trance mitteleuropea ai confini con la happy hardcore di paternità olandese. In questo contesto si inserisce perfettamente R.O.D. che debutta nei primi mesi del 1995 con “Heaven Or Hell”.

Dietro le quinte del progetto opera un team di giovani produttori lombardi tra cui Fabio Giraldo che, contattato per l’occasione, racconta: «In quel periodo ascoltavo parecchia hard trance tedesca e, in compagnia dell’amico Max Cassan, iniziai a buttare giù una traccia in quello stile che poi divenne “Heaven Or Hell”. Realizzammo il demo nella sala b del JTC Recording Studio, praticamente un corridoio vista la sua forma stretta e lunga. La voce era di Rodney Freake, giunto in studio grazie al compianto Greg Girigorie, ai tempi vocalist di JT Company, che propose a Vannelli di produrlo». A pubblicare il disco è proprio Joe T. Vannelli che lo convoglia su una delle sublabel del suo gruppo discografico, la Muzic Without Control Records. La versione più nota, la Heaven Mix, attinge spunti dalla hard trance e dalla happy hardcore analogamente alla Hot & Wet mentre la Hell Mix spinge in direzione makina. C’è pure una quarta interpretazione, la Jungle R.O.D. che, come anticipa il titolo stesso, prende le mosse dalle sincopi della jungle. «A noi piaceva parecchio sperimentare per non stazionare banalmente su una formula e a testimonianza di ciò ci sono le versioni così diverse tra loro» prosegue Giraldo. «La Jungle R.O.D., ad esempio, derivava dalla curiosità per il mondo della jungle che in quel periodo stava partendo dalla Gran Bretagna contagiando pure l’Italia. “Heaven Or Hell” fu realizzato con un mixer Mackie 8 Bus a 24 piste, un computer Atari 1040 ST abbinato al sequencer Notator Logic, campionatori Roland S-750 ed S-770, sintetizzatori Roland Juno-106, Roland JX-3P, Yamaha TX81Z, un multieffetto Alesis Midiverb III, drum machine Alesis D4, monitor Yamaha NS10 ed Electro Voice Sentry 500, un (immancabile) giradischi Technics SL-1210 e, per finire, un registratore DAT Tascam DA-P1. Completammo tutte le versioni in una quindicina di giorni circa. In studio ci eravamo divisi i ruoli: Max Cassan era il musicista e curava arrangiamenti e composizione, Fausto Intrieri era il fonico mentre io mi occupavo della direzione musicale e delle sonorità da seguire. Ovviamente tutti potevano dare suggerimenti ed opinioni anche nei campi di competenza altrui in modo da avere uno scambio completo. Non seguivamo però un modus operandi preciso nella fase compositiva, tante cose germogliavano dall’improvvisazione e da ispirazioni estemporanee. Ad “Heaven Or Hell” è legato un aneddoto tecnico che oggi ricordo col sorriso: per passare la traccia sul DAT dovemmo fare più tentativi perché il MIDI saltava, il bus dell’Atari era sovraccarico».

Le copertine dei successivi 12″ di R.O.D. usciti tra 1995 e 1996

In Italia il pezzo si muove piuttosto bene, complice il supporto di Albertino che lo spinge nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade (dove rimane per circa due mesi, dal 25 febbraio al 15 aprile) e lo sceglie per la compilation “Alba Volume 1”. «R.O.D. entrò nella “Alba Volume 1” proprio all’ultimo momento» rammenta ancora Giraldo. «La traccia non era ancora finita ma Vannelli andò in radio con una cassetta con su inciso il rough mix ottenendo subito l’approvazione da Albertino. A quel punto Joe tornò in studio comunicandoci che “Heaven Or Hell” sarebbe stato inserito in quella compilation. Rimanemmo piacevolmente sorpresi e felici e ci demmo subito da fare per finalizzare la traccia. Credo che in Italia il disco abbia venduto circa ventimila copie ma fu pubblicato anche in Germania dalla Urban, ai tempi etichetta del gruppo Motor Music GmbH, e quella per noi fu decisamente una bella soddisfazione». Il follow-up, “Free Your Soul”, esce a ridosso dell’estate ma rispetto al primo punta sul formato canzone con un falsetto in stile “Smalltown Boy”. Nel ’96 invece “Flight 777” riprende il discorso lasciato in sospeso da “Heaven Or Hell”, con forti attinenze hard trance corroborate da svirgolate acid, ma i tempi dell’eurodance velocizzata ormai sono quasi al capolinea e a posteriori quella particolarità ritmica così evidente giocherà persino a svantaggio. Il movimento revivalista infatti fatica non poco a riproporre il filone “speedy”, oggi poco adatto sia alle discoteche che alle selezioni radiofoniche. «Se non ricordo male, puntammo su un follow-up completamente diverso da “Heaven Or Hell” su espressa richiesta di Rodney Freake, desideroso di interfacciarsi con un brano con dosi maggiori di cantato» dichiara Giraldo. «Lo accontentammo ma purtroppo senza riscuotere gli stessi risultati. “Flight 777” invece, nettamente più vicino allo stile di “Heaven Or Hell”, lo realizzammo nell’Underfloor Studio a Misinto, in Brianza, di proprietà di Carlo Fath (il futuro Io, Carlo di “L’Ego” e “Figlio Dei Manga”, nda) che collaborò con noi coproducendolo. Di quel brano ricordo l’errore ortografico in copertina: “flight” fu erroneamente riportato come “flyght”». Proprio con “Flight 777” si chiude la trilogia di R.O.D., seppur Freake incida l’houseggiante “Rise Up” per la Dream Beat sotto la produzione vannelliana. «”Rise Up” nacque come primo singolo solista di Rodney Freake e venne realizzato da Joe T. Vannelli e Max Cassan» chiarisce Giraldo. «La mia collaborazione con Vannelli invece si interruppe nel 1996, anno in cui iniziai un percorso musicale da indipendente».

Polyphonic e Byte Beaters, altri dischi a cui partecipa Giraldo nel 1996

Per Giraldo il periodo è particolarmente ricco di produzioni più e meno note legate al movimento makina/happy hardcore e progressive trance: da “Always On My Mind” di Pink Noize, cover dell’omonimo dei Pet Shop Boys, ad “Ivory” di Romantics, da “The Hammer” di Hammerhead a “Try” di Glissando, da “Optical EP” di Identification Two ad “I Wait For You (Movin’ On Baby)” di Screen passando per “Mamy” di Polyphonic e il remix di “A Song To Be Sung” dei Byte Beaters, queste ultime due promosse Disco Makina da Molella nella stagione più fortunata del suo Molly 4 DeeJay di cui parliamo nel dettaglio qui. «Innegabilmente furono annate piene di idee» afferma l’artista. «Ricordo con piacere la voglia di fare di tutte le persone coinvolte nei vari di team di produzione, le notti trascorse in studio da dove uscivamo per andare a fare colazione prima di recuperare le ore di sonno perse, o quando ci trattenevamo sino a tardi ed andavamo a cena, sempre tutti insieme. Un simpatico aneddoto di quel periodo riguarda “Always On My Mind” di Pink Noize, cantato da Max Cassan con la voce pitchata (analogamente a quanto fanno i Sensoria in “Dream Of You” di Venusia, come raccontato qui, nda). Dovevamo consegnare il master per la stampa ma riascoltandolo ci accorgemmo che la seconda strofa aveva lo stesso testo della precedente. In soccorso venne il sistema Atari Falcon030 che permetteva la gestione di due o quattro canali audio e in quella maniera riuscimmo a posizionare la seconda strofa col testo corretto a tempo di record. Per l’occasione però prosciugammo la grande scorta di lattine di aranciata che Carlo Fath aveva nel suo frigorifero.

Ripensare al passato mi fa tornare in mente pure la mia prima produzione in assoluto, “Extroscopic” di D.A.T.A., pubblicata nel 1993 dalla Out di Severo Lombardoni. La realizzai insieme a Max Cassan e Leo Mazza partendo da un’idea di Maurizio Guglielmelli che aveva un piccolo studio vicino casa mia. Gli strumenti a nostra disposizione erano pochissimi: un campionatore Ensoniq EPS-16+ con pochissima RAM (credo appena 2 MB!), un computer Atari 1040 ST, un mixer Yamaha MC 1202, una drum machine Roland R-8, un multieffetto Alesis Midiverb III, un Roland Juno-60, un Roland JD-800 ed una coppia di monitor Yamaha NS10. Ai tempi per costruire un brano si partiva da un’idea rappresentata solitamente da un giro armonico o da un sample carpito da qualche disco. Per arrivare alla pubblicazione le strade percorribili erano due: o conoscevi qualcuno nel settore discografico indipendente disposto a darti retta oppure dovevi recarti personalmente nella sede di qualche etichetta, previo appuntamento telefonico, per far ascoltare i brani all’A&R di turno. Nel nostro caso ci interfacciammo con Nando Vannelli, uno degli A&R della Discomagic. Fu lui a decidere di pubblicare il brano e francamente non so neanche se Severo Lombardoni lo abbia mai ascoltato. Poi nell’autunno del ’93 sapemmo, grazie ad una dritta di Filippo Carmeni alias Phil Jay/Z100, che Joe T. Vannelli era in cerca di produttori. Realizzai subito, con Max Cassan, alcuni demo che un sabato pomeriggio portammo personalmente nel suo studio. Quando entrammo stava lavorando al remix di “All About Love” di Analogue City e rimanemmo impressionati da ciò che si presentò ai nostri occhi, in particolare un bellissimo mixer Amek 2500 che avrebbe lasciato estasiato chiunque operava in quel settore ma in modo particolare chi, come noi, era abituato a lavorare con pochissimi strumenti e di un’altra categoria. Dopo aver ascoltato i demo, Joe ci disse che a partire dal 3 gennaio 1994 avremmo iniziato a lavorare nei suoi studi e da lì a breve, infatti, sulla neonata DBX uscirono “Give It Alone” di X Tracks e “Choir Boys” di Black Bulldog. Con Max e Fausto c’era una forte intesa e l’unico rimpianto che mi porto dietro è non aver continuato a lavorare con quel team composto da persone eccezionali con cui, comunque, mi sento ancora regolarmente. In studio c’era un’atmosfera magica e sono certo che avremmo potuto realizzare molto di più di quello che abbiamo fatto» conclude Giraldo. (Giosuè Impellizzeri)

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RMB – Love EP (Le Petit Prince)

RMB - Love EPSi dice che nessuno, nella musica, abbia inventato qualcosa dal nulla, perché in qualche modo tutto deriva da elementi preesistenti. Vale anche per la trance che nei suoi primi anni di vita è una sorta di ambient “groovizzato”, provvisto di ritmo ballabile importato dalle neonate techno ed house. Tra i giovani che aderiscono presto a quel fermento musicale, localizzato in primis nell’Europa centrale, c’è il berlinese Rolf Maier-Bode, classe ’74, che oggi racconta: «Ho scoperto la musica elettronica attraverso i primi dischi di Vangelis e Jean-Michel Jarre, a colpirmi in modo particolare furono le melodie e le armonie che li contraddistinguevano. Ad attirarmi però erano pure i suoni di sintetizzatore nei primi due album di Jarre, che riascolto con piacere ancora adesso. A ciò si sommava ovviamente tutto il campionario pop e rock anni Ottanta consumato durante il periodo dell’adolescenza. Tra i miei preferiti, quando ero appena tredicenne, c’era persino Bruce Springsteen. In quegli anni cominciai a suonare il pianoforte ma odiavo andare a lezione di musica classica. Preferivo di gran lunga i pezzi di Vangelis, Jarre e Tangerine Dream e scoprii che si potesse comporre attraverso il Commodore 64. Avevo quindici anni e desideravo fare musica nuova a tutti gli effetti evitando ciò che veniva solitamente trasmesso dalle radio. Una notte ho sentito il DJ set di WestBam presso la festa itinerante Macht Der Nacht (per approfondire si rimanda a questo articolo, nda) e cambiò tutto. Per la prima volta vissi l’esperienza della techno ed individuai gli elementi mancanti nell’elettronica con cui ero cresciuto sino a quel momento ossia l’energia, il basso e l’aggressività. La potenza selvaggia delle ritmiche elettroniche mi conquistò totalmente. Fu allora che pensai di unire la spinta energizzante della techno a parti melodiche eseguite col sintetizzatore, combinazione ancora piuttosto rara intorno al 1990. Quella era diventata la mia missione ma dovevo capire come mettere in pratica l’idea. Il primo passo fu acquistare la strumentazione necessaria, cosa non molto facile ai tempi. Ritenni che il campionatore adatto per la mia musica fosse il Casio FZ-1, con la RAM espandibile sino a ben 2MB. Lo vidi in un documentario su “Beat Dis” di Bomb The Bass ma costava tantissimo, duemila marchi tedeschi, usato ovviamente!».

Casio FZ-1
Il campionatore Casio FZ-1 è uno dei primi strumenti che Rolf Maier-Bode acquista per creare la sua musica quando è ancora un adolescente

Per finalizzare le sue idee Maier-Bode impiega del tempo. Non è solo l’ostacolo economico a frenare l’entusiasmo ma pure la necessità di impratichirsi e diventare padrone degli strumenti in un periodo in cui non esistono tutorial gratuiti su internet ma al massimo un manuale d’istruzioni, in inglese. Approccia ufficialmente alle produzioni discografiche grazie ai fratelli gemelli Arndt e Markus Pecher, prima come Nautilus e poi come Skyflyer. Per il primo progetto solista però bisogna attendere il ’93. Si intitola “RMB Trax” e lo firma, semplicemente, con l’acronimo RMB, le sue iniziali anagrafiche. All’interno trovano posto quattro pezzi (tra cui l’indiavolata “Ocean Of Love”) che ben sintetizzano lo stile che intende seguire. A pubblicarlo è la Adam & Eve Records, etichetta fondata dai Pecher giusto un paio di anni prima ad Erkrath, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, alle porte di Düsseldorf. «I pezzi di Nautilus e Skyflyer furono mixati da altri» prosegue il tedesco. «In particolare Skyflyer venne finalizzato di notte nell’ex Skyline Studio, prendendo il suono da un nastro magnetico e facendolo passare attraverso un costosissimo mixer della Neve. Fu una bella esperienza ma alcune decisioni prese mi lasciarono interdetto e ciò mi convinse, da quel momento in poi, ad optare per l’autoproduzione. Iniziai a prendere in prestito le cose che mi mancavano per realizzare brani nella migliore delle maniere ed infatti “RMB Trax” lo mixai da solo e in totale autonomia, nella cameretta a casa dei miei genitori, analogamente a tutti i primi dischi di RMB incluso “Redemption”. Poi riversavo il risultato su cassette che spedivo alle etichette più note, sperando in una risposta positiva».

Lo stile con cui RMB si ritaglia un posto nella scena discografica europea nei primi anni Novanta è fatto di hard trance, techno e spruzzate di happy hardcore, così come si sente in “Follow Me”, uno dei pezzi racchiusi in “Heaven & Hell”, il primo EP su Le Petit Prince. Quel mix di suoni e ritmi diventa la colonna sonora del movimento rave europeo di metà decennio. «La mia musica, almeno per come la intendevo io, era una combinazione di bellezza ed energia» dice l’artista. «La bellezza proveniva da melodie ed armonie che componevo seduto al pianoforte, l’energia invece derivava da suoni “duri”, specialmente le casse marcate che definirono la techno europea in quel momento storico, ottenute nella maggioranza dei casi con una Roland TR-909 mandata in saturazione/distorsione. Poiché le strumentazioni potevano gestire un numero maggiore di sample, frammenti breakbeat si aggiunsero alla “ricetta”. Io però, in tutta franchezza, non ho mai pensato di etichettare il risultato in modo diverso da techno. Rammento tanti DJ set techno di allora che includevano un mucchio di generi disparati, dal drum n bass alla house passando per disco ed elementi pop, ed è ancora così che oggi intendo la techno. Non una categoria tra le dozzine di stili dance bensì un genere nato mischiando “paradiso” ed “inferno” (“Heaven & Hell”, come il sopramenzionato EP, nda). La trance giunta dopo per me voleva essenzialmente dire trasformare la techno in qualcosa di terribilmente noioso, usando puntualmente gli stessi suoni e le medesime stesure. Classici come “The Age Of Love” a mio avviso restano accorpati alla techno (melodica), e la roba uscita in seguito non ha mai raggiunto un livello altrettanto interessante. Alla fine degli anni Novanta tutto avrei voluto sentire fuorché qualsiasi pezzo trance, ormai era diventato un genere davvero prevedibile. Segnalatemi eventuali produzioni trance recenti con elementi nuovi o migliori rispetto a quelli degli anni Novanta, sarei proprio curioso di ascoltarle».

Love EP su Brainstorm
“Love EP” viene pubblicato anche in Italia su etichetta Brainstorm

Il secondo EP destinato a Le Petit Prince è “Love”, edito nel 1994, pubblicato sia nella canonica versione nera che in colore rosa e licenziato pure in Italia dalla Brainstorm. Lo stile di RMB resta saldamente ancorato alla melodia e a grintosi blocchi ritmici. A testimoniarlo sono nuovi pezzi, tutti tematicamente legati all’amore, “Banjo Love”, “There’s Love”, “Marimba Love” ma soprattutto “Universe Of Love” in cui romantiche melodie (da noi sviluppate nella cosiddetta dream) si insinuano prepotentemente in granitici beat quaternari. «Anche “Love” è uno dei dischi approntati nella casa dei miei genitori, con davvero pochissimi strumenti a disposizione» spiega Maier-Bode, rimarcando il fatto che talvolta avere un budget limitato risulti un sano incentivo alla creatività. «Avevo il già citato campionatore Casio FZ-1, due sintetizzatori Roland (D-10 e JD-990), un multieffetto Zoom 9010 e un mixer a sedici piste, il Boss BX-16. Nient’altro. Non ricordo quanto impiegai a completare l’EP ma non tantissimo, credo dalle quattro alle sei settimane. Gran parte del tempo andava via per scegliere i suoni giusti». La citata “Universe Of Love”, finita anche nel primo album di RMB intitolato “This World Is Yours” pubblicato dalla Low Spirit nel ’95, probabilmente è tra i brani più rappresentativi del compositore teutonico. Corre voce che ad ispirare la sua melodia sia stato “Capturing Universe”, un pezzo prog rock degli italiani Antonius Rex capitanati da Antonio Bartoccetti, presumibilmente composto in Romania nel 1979 seppur affiorato pubblicamente solo nel 2003 attraverso l’album “Praeternatural”. In questa intervista rilasciata a Francesco Fabbri a marzo 2003, Bartoccetti sostiene che “Capturing Universe” «venne ripreso da un pianista tedesco nel 1990 e poi da un gruppo techno tedesco che lo chiamò “Universe Of Love”» e che fu proprio lui a convincere il figlio Anthony alias Rexanthony, nel 1995, a rielaborare il brano originale. Rexanthony stesso sostiene questa tesi nell’intervista finita in Decadance. L’artista marchigiano avrebbe sviluppato parte di quell’impianto melodico in due brani, tra i più fortunati del proprio repertorio, “Capturing Matrix” e “Polaris Dream”, entrambi del 1995, ma in merito a questa presunta appropriazione Maier-Bode si dichiara totalmente estraneo: «Nei primi anni Novanta ero solo un adolescente, non avevo neanche idea che esistesse un genere chiamato progressive rock e di sicuro non conoscevo il pezzo degli Antonius Rex. Ho composto la melodia principale di “Universe Of Love” al pianoforte, poi ho aggiunto i pad e un basso con un sintetizzatore. L’arpeggio eseguito coi fiati gira sugli stessi accordi. Anche la voce è mia, intenzionalmente “ruvida”, processata con un pitch shifter. Era un pezzo che sostanzialmente combinava pochi elementi ma selezionati in modo oculato. Credo che nella musica scegliere bene valga molto di più del numero di strumenti di cui si dispone. A definire il proprio stile alla fine è l’istinto creativo».

RMB - This World Is Yours
La copertina di “This World Is Yours”, il primo album di RMB edito dalla berlinese Low Spirit nel 1995

Quando la Low Spirit pubblica “This World Is Yours”, in Europa la techno/trance da rave è diventata già oggetto di interesse delle grosse compagnie discografiche attratte dai numeri che quella musica riesce a generare. La rave age viene mandata in orbita da maxi raduni come Love Parade, MayDay, Street Parade ed Energy, e fa storia. «Mi sono esibito in tutti questi eventi» prosegue il tedesco. «Fu un momento grandioso, eravamo giovani e trainati dalla techno che ci faceva capire come il futuro fosse giunto e stesse prendendo il sopravvento su tutto. Però, quando il fenomeno divenne di massa, iniziarono a piovere dischi di pessima fattura, pezzi cheesy fatti solo per vendere, con una cassa in quattro e melodie magari tratte da temi già noti. Non mi piacque affatto quella deriva degenerativa ma i rave, dal più piccolo al più grande, furono semplicemente fantastici. Si respirava un’atmosfera unica, gran parte del pubblico che prendeva parte era amichevole, ricordo ben pochi rissosi ma forse circolava troppa droga. I grandi festival di oggi invece sono diversi. L’EDM è differente dalla techno degli anni Novanta, adesso la gente è completamente assuefatta dal voler fare video, chattare e mandare messaggi con lo smartphone in qualsiasi istante. Questo non avveniva affatto ai tempi delle Love Parade».

RMB duo
Rolf Maier-Bode (a sinistra) affiancato da Farid Gharadjedaghi, diventato ufficialmente membro di RMB che così si trasforma in un duo

Dopo i primi anni vissuti da solista, Rolf Maier-Bode si lascia affiancare da Farid Gharadjedaghi, suo coetaneo di origini iraniane. A partire dal già citato “Redemption” RMB diventa un duo, in studio e nelle performance live come si vede qui in occasione del MayDay del ’94. «Conobbi Gharadjedaghi quando collaboravo coi fratelli Pecher» spiega. «Ai tempi lui si occupava del management della loro Adam & Eve Records oltre a curare le grafiche delle copertine, inclusa quella del mio “RMB Trax”. Entrambi, inoltre, fummo raggirati dai Pecher, non abbiamo mai visto un solo centesimo per tutto il lavoro svolto. Fu proprio Farid a mettermi in contatto con l’etichetta di Klaus Derichs e Marc Romboy, Le Petit Prince, annessa al gruppo Alphabet City per cui ho inciso vari dischi. Fu sempre lui ad introdurmi alla Low Spirit, diventando praticamente il mio manager. Dopo aver realizzato remix per WestBam, Genlog e Marusha (“Celebration Generation”, “Eiskalt”, “Over The Rainbow” e “Trip To Raveland”, tutti del 1994, nda) la Low Spirit mi propose di entrare nella scuderia artistica. A quel punto Farid mi disse che, affinché ciò andasse in porto, lui sarebbe dovuto diventare parte integrante del progetto. Ingenuamente gli credetti e così RMB divenne un duo, seppur lui continuasse a svolgere attività manageriale mentre io lavoravo in studio. La maggior parte dei pezzi usciti in quel periodo, inclusi gli album e i tanti remix, li realizzai completamente da solo. Per i singoli, come “Love Is An Ocean“, “Experience (Follow Me)”, “Passport To Heaven”, “Reality” o “Spring” (potenziato da un pacchetto di remix firmati da Kadoc, Microwave Prince, Hitch Hiker & Jacques Dumondt e Future Breeze, nda), veniva in studio cercando di offrire il proprio contributo come meglio poteva. Alcune delle sue idee, obiettivamente, furono davvero importanti per il successo di RMB. Fu lui, ad esempio, a convincermi a riutilizzare in “Spring” la melodia che scrissi qualche anno prima per “Ever Means Never” di Manitou, pubblicato da Adam & Eve Records (forse presa a modello pure da Roland Brant in “Nuclear Sun”?, nda). Spesso veniva con musica nuova da farmi ascoltare oltre a scegliere la maggior parte dei numerosi sample tratti da film che inserii nei pezzi dei vari album. Tuttavia non ha mai premuto un solo tasto della tastiera, girato una manopola o toccato un fader».

La collaborazione tra Maier-Bode e Gharadjedaghi comunque prosegue. Nel 1998, dopo l’album “Widescreen” e gli ultimi singoli destinati alla Low Spirit come “Break The Silence”, “Everything” e “Shadows” in cui lo stile inizia a mutare carambolando elementi breakbeat e downtempo, i due danno vita alla loro etichetta, la Various Silver Recordings, rimasta in attività sino al 2003. «Fu un progetto a cui non ambivo affatto, tutto ciò che volevo fare era scrivere e produrre musica» sostiene Maier-Bode. «Purtroppo non sono stato sufficientemente determinato e alla fine Farid ha ottenuto ciò che voleva. A quanto ricordo, la situazione economica delle label indipendenti stava già peggiorando alla fine degli anni Novanta. Il nostro business da lì a breve iniziò a ruotare su varie etichette, un’agenzia di booking, un editore e persino un locale. Ogni attività però, ad eccezione di RMB (che nel 2001 torna nei negozi con un nuovo album, “Mission Horizon”, nda), bruciava solamente denaro. Avrei dovuto battermi in modo più risoluto per rifiutare di imbarcarmi in quell’avventura ma non ho rimpianti perché dagli errori si impara sempre qualcosa. I primi anni Duemila furono davvero difficili per me. Il denaro guadagnato con RMB era ormai finito, io e Farid non avevamo più punti di vista in comune e l’industria musicale parve letteralmente devastata. Quasi più nessuno voleva stampare musica su supporto fisico. Eravamo d’accordo di non pubblicare “Evolution”, l’ultimo album di RMB, solo in formato liquido ma nel 2009 Farid, senza neanche chiedermi l’autorizzazione, lo mandò alle piattaforme digitali».

gli album solisti di Maier Bode
I tre album che Rolf Maier-Bode realizza come solista tra 2009 e 2016

I rapporti tra i due si fanno particolarmente burrascosi e Maier-Bode lo sottolinea in questa videointervista pubblicata da Zoundshine il 24 luglio 2016, dichiarando che da un punto di vista legale non gli è più permesso di esibirsi in pubblico come RMB. Ma per lui ormai è un capitolo chiuso. «Dopo essermi lasciato gli anni più bui alle spalle, nel 2005 ho ricominciato da capo componendo musica per pubblicità ed occupandomi di sound logo e branding» dice. «Ho inciso tre album da solista firmati col mio nome, “Thirteen Stories” del 2009, “Twenty Thirteen” del 2013 e “Foundation” del 2016, e sono entrato a far parte di team che si occupano di film ed eventi. Ho imparato tantissimo su cinematografia, fotografia, videografia, storytelling, montaggio e post produzione. Gli ultimi anni quindi mi hanno visto impegnato nell’industria cinematografica, specialmente in pellicole legate alle automobili. Finalmente posso sviscerare il mio stile senza edulcorazioni visto che i video di auto solitamente necessitano di una buona dose di energia. Settore musicale? Credo circolino ancora buone idee seppur sia più difficile scovarle in mezzo ad un mare di mediocrità e pezzi pessimi che riescono comunque ad essere messi in vendita. Ritengo inoltre che i DJ diventati celebrità non abbiano portato nulla di buono alla scena. Saper sincronizzare due file MP3 con Traktor non è la base per essere considerati veri artisti e il desiderio di diventare ricchi e famosi raramente accompagna imprese artistiche. Nei ritagli di tempo continuo a scrivere musica dance per il mio piacere personale e in autunno prenderà vita un progetto in cui ripongo molte aspettative» conclude il compositore tedesco. (Giosuè Impellizzeri)

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La storia di Italian Style Production, etichetta-laboratorio della Time

Nel 1990 la house music ha già conquistato in modo definitivo i gusti dei giovani europei. Le prime produzioni italiane di questo genere circolano sin dal biennio 1987-1988 (per approfondire si rimanda a questo dettagliato reportage), ma nel 1989, con l’exploit mondiale di artisti come Black Box, FPI Project, 49ers e Sueño Latino, l’attenzione delle case discografiche indipendenti si sposta in modo netto verso quella che inizialmente sembra solo l’ennesima delle mode passeggere provenienti dall’estero. Alla Time Records, in attività sin dal 1984 in ambito italo disco/hi NRG, si cercano nuovi stimoli e strade da percorrere e in tal senso la house appare la scelta stilistica più ovvia e rassicurante dal punto di vista economico. «Fino all’esplosione della house made in Italy avevo indirizzato la nostra produzione prevalentemente all’hi NRG e al mercato giapponese» spiega Giacomo Maiolini, fondatore della Time, in un’intervista del febbraio 1993. Ed aggiunge: «Una volta scoppiato il boom dell’italian style (non è chiaro se il manager si riferisse allo stile italiano della house che conquista le classifiche internazionali o specificatamente alla sua etichetta, nda) ho aggiunto al nostro catalogo un buon quantitativo di prodotti ricalcanti questa linea con notevoli risultati». Nasce così una label finalizzata a coprire un nuovo segmento stilistico, diverso da quello che la Time destina al Paese del Sol Levante. Per cavalcare il boom della house però Maiolini, come lui stesso illustra in questa intervista di Alfredo Marziano pubblicata da Rockol il 24 gennaio 2014, si affida a persone completamente diverse perché «chi lavorava sulle produzioni giapponesi non era in grado di lavorare sulla house e viceversa». La neo etichetta, tra le prime sublabel del gruppo Time, si chiama Italian Style Production e già nel nome evidenzia lo spirito patriottico. Ad accompagnarla, per diversi anni, è la tagline “House Evolution” e un design grafico che mostra una coppia stilizzata di un uomo ed una donna che ballano a cui si somma un logo simile al simbolo della pace rovesciato. Il divertimento, la musica e il senso di unione, del resto, sono il leitmotiv di quel periodo, soprattutto se si pensa alla Berlino post Muro. Il business discografico prospera e sul mercato non faticano ad arrivare anche quei pezzi nati con l’obiettivo di prendere le misure di una musica nuova e dall’evoluzione in divenire. A dirla tutta, Italian Style Production sembra proprio un’etichetta-laboratorio da cui escono, per anni, centinaia di pubblicazioni tra cui, di tanto in tanto, qualche successo nazionale ed internazionale. Parte del resto diventa materiale cult per appassionati e collezionisti attenti a tutto ciò che, per ragioni plurime, non finisce nelle classifiche di vendita e sotto i riflettori.

1990-1991, l’avvio nel segno dell’italo house

DJ Pierre - Move Your Body

“Move Your Body” di DJ Pierre (il bresciano Pierangelo Feroldi) è il primo disco pubblicato su Italian Style Production

Ad aprire il catalogo è “Move Your Body” di DJ Pierre (Pierangelo Feroldi), disc jockey bresciano già con diverse produzioni alle spalle e che, come si evince dalla biografia di Maiolini disponibile sul sito della Time Records, è co-fondatore della stessa Italian Style Production. Il brano, scritto insieme al veronese Roberto ‘Roby’ Arduini, mette insieme le pianate tipiche della spaghetti house con una base in stile Twenty 4 Seven e sample tratti da “Get Up! (Before The Night Is Over)” dei belgi Technotronic. Segue “Come On Come On” di Aysha, scritto da Arduini e Ronnie Jones sulla falsariga dell’hip house degli olandesi Twenty 4 Seven (di cui abbiamo parlato qui) e “I Need Your Love”, primo disco di Jinny, progetto destinato a raccogliere particolari consensi ma solo negli anni a venire. Prodotto da Walter Cremonini e scritto da Francesco Boscolo, co-autore di “I’m Alone” dei Club House uscito nel 1989 su Media Records e di cui si parla qui, il pezzo fa leva su un sample vocale preso da “It’s Too Late” di Nayobe. Da questo momento in poi, Cremonini diventa uno dei principali protagonisti dell’Italian Style Production. Sua la firma dell’hip house di “Come On Yours” di B Master J, arrangiato con un altro di cui si parlerà parecchio in futuro, Claudio Varola. Più schiettamente italo house è invece “Movin Now” di Pierre Feroldi Featuring Linda Ray, costruito sulle armonie di “System” di Force Legato e le voci di “Waited So Long” di Darcy Alonso, riprese dallo stesso autore nel ’93 in “Make It Together” di Drop ma in chiave eurodance. È sempre Feroldi, affiancato da Laurent Gelmetti, a realizzare “I Can’t Feel It” di Yankees, quasi un clone di “I Can’t Stand It” dei Twenty 4 Seven, e “Going On” di KC Element, un mosaico di sample assemblato a mo’ di medley (“Happenin’ All Over Again” di Lonnie Gordon, “Don’t Miss The Party Line” dei Bizz Nizz, “Poetry House Style” di J.D. Featuring Inovator Dee e “A Little Love (What’s Going On)” di Ceejay). Pare che prima di essere pubblicato su Italian Style Production il brano circoli su un promo firmato come J.D. Element, poi cambiato in KC Element probabilmente per non correre il rischio di essere facilmente collegato col J.D. (John Laskowski) campionato. La decima uscita vede debuttare un altro nome di cui si sentirà parlare negli anni successivi, Dirty Mind. “The Killer” attinge dal campionario sonoro new beat ma con una citazione funk/disco dei MFSB tratta da “Zach’s Fanfare #2” (dall’album “Philadelphia Freedom” del ’75). A produrla è il team dell’Extra Beat Studio, Antonio Puntillo, Sergio Dall’Ora e Roby Arduini, con la collaborazione di Pagany. A mixarla invece Max Persona, intervistato qui. Arriva dall’estero invece “The Future Is Ours”, l’album della coppia Musto & Bones preso in licenza per l’Italia dalla City Beat e da cui viene estratto il singolo “All I Want Is To Get Away”.

Feroldi ed Arduini sono due autentici fiumi in piena: realizzano “House Of Hell” di House Corporation strizzando l’occhio agli Snap!, “For Your Love” di Anita Adams, “Ain’t No Sunshine” di Soul To Love, “Walking Away” di Synthesis e “Get Round” di Blazer. L’uso intensivo di un nuovo pseudonimo per ogni disco rivela una pianificazione tutto fuorché strategica. La house, del resto, è musica fitta di incognite e misteri, sbocciata tra mille nomi di fantasia e sample raccattati a destra e a manca (e senza alcun credito riservato agli autori originali), e ciò alimenta parecchio la curiosità del pubblico. Si rifanno vivi i veronesi dell’Extra Beat, prossimi ad essere messi sotto contratto dalla Media Records, con un altro pezzo che incrocia new beat (in Italia a lungo spacciata per techno) ed hip house, “I’m A R.A.B.O.L.” di Fighter MC. Quella su Italian Style Production è praticamente una staffetta tra Verona e Brescia: Feroldi gioca ancora coi sample in “Work For More” di Linda Ray, “Thank You” di Synthesis, “What’s Happened” di Yankees, “Spaak” di Task Force, “No One Can Do It Better” di B Master J, “African Jungle” di African Jungle e in “The Beat” firmata a suo nome. A “Brain” collega l’acronimo P.F. mentre con Marcello Catalano realizza “Got To Try” di KC Element, “It’s A New Day” di Jennifer Payne, “OK Radio” di Soggetto, “No Groove” di House Of Crazy Sound, “Back Again” di Rap Delight, “Let Your Body Move” di MC Marshall (cantato da Valerie Still, affermata cestista statunitense che tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta tenta la carriera musicale e di cui parliamo qui nel dettaglio), “Visions” di Basic Experience, “Double U” di Hypnotik (sul giro di “Assault On Precinct 13” di John Carpenter), “Go Get It” di Smiling Frogs e “Tonight” di In House, quest’ultimo in battuta downtempo ammiccando alla hit degli Enigma, “Sadeness Part I”. Dirty Mind riappare prima con “The Dream” in cui scorre, tra le altre cose, un sample ritmico dei Kraftwerk, e poi con “What Time Is It”, entrambe estratte dall’album “The Killer”. Su basi house iniziano ad apparire sovente suoni sintetici annessi convenzionalmente alla techno, come avviene in “Stop Provin'” di X.B.T. prodotto a Verona ancora da Arduini, Puntillo e Persona. I primi due affiancano Francesco Scandolari in “New Life, New Civilization” di Doctor Franz. Cremonini e Boscolo, da Padova, firmano invece il downtempo/hip hop di “Party Time” di M.C. Tad (Tad è l’acronimo di The Absolute Dopest) e la euro techno di “Got To Be” di Hypnotyk mentre Marco Bongiovanni, ex bassista dei Gaznevada e in quel periodo alle prese col fortunato progetto DJ H. Feat. Stefy condiviso con Enrico ‘DJ Herbie’ Acerbi (di cui si parla qui), produce “Just Groovin'” come DJ D Lite usando un sample di “Video Games” degli Alien con qualche anno di anticipo rispetto ai Pan Position che lo inseriranno in “Elephant Paw”.

KC Element - What Time Is It

“What Time Is It?” di K.C. Element è il primo 12″ che la Italian Style Production pubblica col centrino di colore blu

Il primo ad essere pubblicato nel 1991 è “What Time Is It?” di KC Element, prodotto da Feroldi e Dall’Ora seguendo lo stile della hardcore techno britannica che comincia a vivere un periodo di forte esposizione commerciale. È anche il primo 12″ dell’Italian Style Production col centrino di colore blu, da questo momento usato alternativamente al nero. Forse inizialmente tale scelta viene presa per evitare la monotematicità grafica ma, come si vedrà più avanti, la distinzione cromatica poi servirà anche ad un fine preciso. Blu è pure il colore scelto per l’etichetta centrale di “Run To Me” di Ruffcut Featuring Carol Jones, ad opera di Feroldi, Ivan Gechele e Mauro Marcolin. Campionando il riff di “Let Me Hear You (Say Yeah)”, la hit di PKA, sovrapposto al rap preso da “Jam It On The Dance Floor” di Unity Featuring The Fresh Kid e un frammento di “(I Wanna Give You) Devotion” dei Nomad, la coppia Feroldi/Marcolin realizza “Jammin On The Dance Floor” di House Corporation a cui seguono, in rapida sequenza, “Get On The Floor” di DJ Pierre, “Make A Move” di P.F. e “Rock The House” di Synthesis.

M.C. Claude - Highlander

Attraverso “Highlander” di M.C. Claude, Italian Style Production vara un diverso layout grafico usato per anni in modo saltuario

Poi si fanno risentire Boscolo e Cremonini con “Highlander” di M.C. Claude (il primo apparso con un layout diverso con una combinazione grafica minimalista) e sbuca una nuova licenza, “Love Let Love” di Tony Scott, rilevata dall’olandese Rhythm Records. Dopo un anno di attività e con oltre cinquanta uscite all’attivo, l’Italian Style Production inizia a circolare capillarmente nel mercato discografico seppur non abbia ancora centrato l’obiettivo con una vera hit. La situazione cambia col ritorno di Jinny per cui questa volta Cremonini si lascia affiancare da Alex Gilardi e Claudio Varola. “Keep Warm” è ispirato dal quasi omonimo “Keep It Warm” di Voices In The Dark del 1987 (campionato nel medesimo periodo dai romani Groove Section nella loro “Keep It Warm” su Hot Trax) e scandito da un secondo sample preso invece da “Playgirl” di La Velle, lo stesso che compare in “Your Love” di Fargetta nel 1993. Come racconta Gilardi qui, la Next Plateau di Eddie O’Loughlin pubblica “Keep Warm” negli Stati Uniti considerandola una potenziale hit e nell’affare entra anche la Virgin Records che gestisce il prodotto per il resto del mondo. Il brano fa ingresso nella top ten dance di Billboard e in decine di altre rilevanti classifiche statunitensi, finendo in programmazione radiofonica insieme a colossi del pop/rock. Ottimi risultati giungono anche dal Regno Unito e dall’Europa continentale ma, stranamente, non dall’Italia dove “Keep Warm” passa del tutto inosservata almeno sino al 1995 quando la londinese Multiply Records pubblica nuovi remix, tra cui quello dei veneti Alex Party, e Jinny finisce a Top Of The Pops.

Feroldi e Marcolin continuano ad incidere brani su brani, da “Everybody Get Up” di Magic Marmalade (a cui collabora Carlo Paitoni ovvero Carlo Vanni del negozio di dischi bresciano Deejay Choice di cui parliamo in Decadance Extra) a “Jungle Beat” di African Jungle, da “Get Away” di Pierre Feroldi Featuring Linda Ray (il main sample viene da “Stop And Think” dei Fire On Blonde) a “Living” di New World passando per “Love Me Now” di M.C. Marshal, “I’ve Got The New Attitude” di Linda Ray, “I’m Gonna Get You” di Jennifer Payne (il campione, preso da “Love’s Gonna Get You” di Jocelyn Brown, è lo stesso che useranno l’anno dopo, ma con più fortuna, i Bizarre Inc) e “Fever” di Carol, costruito sulla falsariga di “Touch Me” dei 49ers ed “I Like It” di DJ H. Feat. Stefy. Da Verona giunge “Everybody Let’s Go”, nuovo singolo di Dirty Mind allacciato ai suoni della eurotechno che vive la prima fase di commercializzazione, mentre da Padova “You Got The Dance” di Open Billet, “I Can’t Stand It” di Sound Machine, “Peecher Rap” di Woody Band e “Let’s Go” di B Master J per cui viene adoperata ancora una grafica differente insieme ad “I Wanna Be Right There” di Jennifer H. Featuring Marco Larri. Marcello Catalano, questa volta in solitaria, appronta il secondo (ed ultimo) disco di House Of Crazy Sound, “Best You Can Get”.

Italian Style Compilation

La copertina della “Italian Style Compilation” mixata da Maurizio “Bit-Max” Pavesi, in quel momento all’apice del successo

La settantesima uscita è rappresentata dalla “Italian Style Compilation”, raccolta edita su LP, musicassetta e CD e mixata da Maurizio Pavesi in quel periodo all’apice del successo come Bit-Max (di cui parliamo qui). Poco tempo dopo ne arriva un’altra intitolata “Megastyle” e mixata da Feroldi. La corsa riprende con “A. O. (No Bunga Low)” di Soul To Love, in cui Walter Cremonini riesce a sposare un frammento di “Rebel Without A Pause” dei Public Enemy con “A-O (No Bungalow)” dei norvegesi Data, già ripresa nel 1984 dagli italiani Yanguru prodotti dal citato Pavesi e Stefano Secchi. Coi fidi Varola e Gilardi, Cremonini realizza invece “Barbaro” di M.C. Claude, sullo stile di Digital Boy. Feroldi e Marcolin, in compagnia di Walter Biondi, producono “Get It On” di The First Twins, con una matrice ripresa in “Time” di K-F.M., pubblicato sulla stessa label l’anno successivo. Biondi e Minelli, quest’ultimo reduce della produzione di “Antico” del progetto omonimo tenuto a battesimo dalla GFB del gruppo Media Records, assemblano le tre versioni di “Atto I°” di Analogic. L’instancabile e vulcanico Feroldi produce “Don’t Try To Tease Me” di DJ Choice dove riappare Paitoni (e ciò spiegherebbe la ragione dell’alias scelto) e in cui pare di assaggiare un’anticipazione dell’eurodance che si svilupperà in modo compiuto dal 1992. Ancorata al combo techno/house sdoganato dai britannici Bizarre Inc e cavalcato con successo dai Cappella è “Like Like This” di KC Element. Sono gli anni in cui si campiona di tutto e da tutto, compreso le preghiere come avviene in “Alleluja” di Dirty Mind. La parte vocale di “Buffalo Bill” degli Indeep finisce in “Let’s Dance” di Magic Marmalade e quella di “Not Gonna Do It (I Need A Man)” di Vicky Martin in “Anymore” di Brenda. Ulteriori stimoli eurodance affiorano in “Could Be Rock” di Open Billet (una risposta a “Rock Me Steady” di DJ Professor?) mentre “House Time” di Synthesis occhieggia ai 2 Unlimited, “Movin Up And Down” di Anita Adams e “Talk About” di Ruffcut puntano ancora alla piano house ed “Everybody Need Somebody” di A.R.T. replica lo schema di “We Need Freedom” degli Antico. Modelli più house sono quelli di “Wake Up” di Sound Machine a cui si somma “Don’t Stop” di Celine, prodotto dallo stesso team di Jinny sull’onda di “Keep Warm”.

Feroldi (ri)mette mano a “Movin Now” dell’anno precedente ora ripubblicata come “Perfect Love” ed attribuita a Linda Ray (presumibilmente un nome fittizio adoperato per giustificare la presenza vocale solitamente campionata da brani esteri) a cui seguono la sua “Everyday” e “We Don’t Need No Music” di Party Machine in cui sono rispettivamente allocati i sample di “No Frills Love” di Jennifer Holliday e “Crash Goes Love” di Loleatta Holloway. Il campionatore è lo strumento fondamentale nella house music di quel periodo, irrinunciabile specialmente per chi, in Italia, fatica a trovare vocalist madrelingua vedendosi costretto a ripiegare sulle acappellas incise su dischi d’importazione. Cremonini, Gilardi e Varola usano quella di “I Need You Now” di Sinnamon per “Give Yourself To Me” di Sonic Attack mentre Gelmetti e Marcolin optano per quella di “K.I.S.S.I.N.G.” di Siedah Garrett per “Uh La La” di Soul System. Italo house con grandi pianate in evidenza è pure quella di “Beet Oven” di T.E.E. (Cremonini con Ricky Stecca, Roby ‘Long Leg’ Sartarelli – intervistato qui – ed Andrea Acchioni), “Everything” di Spiritual (Mauro Marcolin e Valerio Gaffurini), e “Get Into My Life” di Local Area Network (Gelmetti e Marcolin). La prolificità è senza dubbio tra i segni distintivi dell’Italian Style Production che sortisce più interesse all’estero che in Italia: è il caso di “It’s Not Over” di Istitution, prodotto da Luigi Stanga, Ivan Gechele e Franco Martinelli in cui si intravede la formula che porterà tanta fortuna ai Livin’ Joy pochi anni più tardi. Il brano viene licenziato oltremanica dalla Brainiak Records che commissiona i remix ad Andrew “Doc” Livingstone (quello di “Bamboogie” di Bamboo) e al compianto Caspar Pound (la sua “RHL Mix” è inchiodata al giro di “Rock To The Beat” di Reese). Spetta al remix di “Let’s Dance” di Magic Marmalade toccare quota cento del catalogo. Il repertorio inizia ad essere consistente e, col fine di fare un sunto di ciò che è avvenuto negli ultimi tempi, viene approntata la “Italian Style Compilation Vol. II”. Martinelli, Gechele e Stanga tornano a farsi sentire prima come Pharaoh con la cover new beat di “Dance Like An Egyptian” dei Bangles e poi con “I Feel The Friction” di Black House. Ritorna pure il team House Corporation con “I Know I Can Do It”: a capitanarlo è il “solito” Feroldi che nel contempo si occupa di “Everybody Move” di KC Spirit, col campionamento di un classico della house statunitense, “Ride On The Rhythm” di “Little” Louie Vega & Marc Anthony. A fine anno Maiolini apre i battenti dei Time Studios (in una “megainaugurazione”, come scrive Eugenio Tovini in un articolo sulla rivista Tutto Disco), lì dove vengono prodotti moltissimi dei brani che usciranno in seguito.

1992-1993, l’alba dell’eurodance

La parabola fortunata dell’italo house, costruita essenzialmente su campionamenti vocali ed estensivi giri di pianoforte, è quasi al termine. A circa tre anni dall’exploit internazionale, la formula entra in una fase di stanca e di sterile ripetitività dovuta al ristagno creativo. L’Italian Style Production, che sinora ha praticamente puntato quasi tutto su tale filone, è costretta a rivedere la propria progettualità ma non prima di aver immesso sul mercato “Down Town” di DJ Cornelius, “Do It Now” e “Don’t Stop The Beat” di Magic Marmalade e “Let’s Talk About You And Me” di Ella Lund. La house pianistica comincia a lasciare il posto a costrutti imparentati coi suoni ruvidi tipici delle produzioni nordeuropee (come “George Bush” di Wash. D.C., il primo Italian Style Production a cui collaborano Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto, coppia destinata ad una rosea carriera) e a soluzioni affini all’eurodance come “Gone Away” di Danaeh. In parallelo nasce e si sviluppa una visione house più legata ai suoni ovattati in auge nelle discoteche specializzate. È il caso di “Love Will Make It Right” di Ruffcut prodotto da Cremonini & company, scandito dal suono di una campana usata a mo’ di refrein. Strascichi hip house si sentono in “Let’s Get Together” di Synthesis caratterizzato da un hook vocale che sembra annunciare “Move On Baby” dei Cappella mentre in “Tropical Movement”, secondo ed ultimo disco che Marco Bongiovanni firma come DJ D Lite, fanno prepotentemente capolino le congas e un giro di organo.

Collage ISP

Alcuni dischi comparsi nel catalogo Italian Style Production marchiati con nomi di personaggi storici

Cremonini e i suoi sono infaticabili e tirano fuori pezzi a raffica dal Prisma Studio: dalla house (“Hot For You” di Three D, “Believe You” di Tune Grooves) a forme ibridate tra eurodance ed house (“Feel The Power” di Open Billet, “Sky” di Brenda) passando per “Funk Express” di Brothers Of Funk, che occhieggia ad “How-Gee” di Black Machine di cui parliamo qui, e “Highlander Part II” di MC Claude con rimandi alla hardcore techno dei Paesi Bassi. Marcolin, dal canto suo, non se ne sta con le mani in mano e sforna “Waste Your Time” di House Corporation, “Are You Ready” di KC Spirit, “Paura” di Louis Creole, “Play My Games” di Contact One e “Can’t Stop” di B Master J. Menzione a parte per “I Need Loving You”, primo disco di Quasimodo curato proprio da Marcolin che inaugura una serie di pubblicazioni legate a nomi di personaggi storici (scrittori, pittori, astronomi, esploratori). Filo conduttore resta la serrata pratica del campionamento che in “I Need Loving You” si rivela attraverso il riadattamento del riff di “Sweet Dreams” dei britannici Eurythmics. Segue “My Obsession” che Cremonini, Gilardi e Varola firmano come Keplero ma raccogliendo pochi consensi. La situazione si ribalta con “Open Your Mind” di U.S.U.R.A., l’ennesimo dei nomignoli comparsi nel catalogo della label bresciana. Messo a punto da Cremonini, Varola e Comis a cui si aggiungono Claudio Calvello e la bella Elisa Spreafichi tempo dopo nota come Lisa Allison, il pezzo ruota sul sample (pare risuonato) di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, ossessivamente scandito da un vocal tratto dalla pellicola “Total Recall” del 1990 controbilanciato da un frammento irriconoscibile di “Solid” di Ashford & Simpson. Stampato sia su etichetta blu che nera, “Open Your Mind” è, dopo “Keep Warm” di Jinny, la nuova hit internazionale messa a segno dalla Italian Style Production che macina licenze in tutto il mondo e vende centinaia di migliaia di copie, si dice almeno 700.000. Per l’occasione viene approntato un videoclip interamente basato sull’effetto morphing in cui passano in rassegna volti di celebrità tra cui Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Joseph Stalin e Benito Mussolini. Visto il grandissimo successo (Italia inclusa), gli U.S.U.R.A. “migrano” sulla label principale del gruppo diretto da Maiolini, la Time per l’appunto, sin dal successivo singolo intitolato “Sweat”, analogamente a quanto avviene per Jinny dopo “Keep Warm”.

U.S.U.R.A. - Open Your Mind

Con “Open Your Mind” degli U.S.U.R.A. l’Italian Style Production torna nelle classifiche internazionali dopo “Keep Warm” di Jinny dell’anno prima

Galvanizzato dagli strepitosi risultati, il team patavino mostra subito la sua iperattività ed incide pezzi a nastro, da “Transilvania” di I.N.C.U.B., trainato dall’assolo sinfonico di un organo della L.S.A. Version, a “Bam Bam Show” di Andros, a cui prendono nuovamente parte Trivellato e Sacchetto, da “Rag Time” di P.I.A.N.O., con una performance pianistica di Gaffurini, ad “Old Times” di S.H.O.K. passando per “I Want Your Love” di Open Billet. Nel frattempo, a Brescia, Mauro Marcolin e i suoi collaboratori più stretti come il sopracitato Gaffurini e Silvio Perrone, “rispondono” con altre produzioni come “America” di Magic Marmalade, un mix tra ripescaggi del passato (“Last Night A D.J. Saved My Life” degli Indeep, “On The Road Again” dei Barrabas e “Come To America” dei Gibson Brothers) e linee melodiche contemporanee, “Breaking Down” di Synthesis, che incapsula elementi della hoover techno, “Tubular Noise” di Phantomas e l’ipnotico “Dream On Ecstacy” di Extasy. Poi, come Techno Hype Council, realizzano “Welcome To The Real World” pubblicato anche in Spagna dalla Blanco Y Negro ma con l’acronimo T.H.C., a cui seguono “Until The End” di Ethiopia che gira su un sample preso da “Chase Across The 69th Street Bridge” di John Carpenter ed Alan Howarth (dalla colonna sonora di “Escape From New York”), “Good Morning” di Copernico (il riff è quello di “Enola Gay” degli Orchestral Manoeuvres In The Dark) e “Shut Up” di Contact Two, prosieguo di “Play My Games” uscito un paio di mesi prima come Contact One. Cremonini, Gilardi e Perrone riciclano l'”everybody fuck now” di Sissy Penis Factory (remake di “Gonna Make You Sweat (Everybody Dance Now)” dei C+C Music Factory) intrecciandolo ad un breve riff di sintetizzatore preso da “Send Me An Angel” dei Real Life, coverizzato con successo dai Netzwerk proprio quell’anno: il risultato è “Everybody Fuck Now” di Extensive. Gli stessi autori si celano dietro “Trauma” di 479 Experience, colorito da scat vocali, “Rage Thumb” di Caliope, “Take My Hand” di Trance Fusion e “Funkystein” dell’omonimo Funkystein (un omaggio a “The Clones Of Dr. Funkenstein” dei Parliament di George Clinton?), un potpourri sampledelico venato di funk – in evidenza c’è un frammento di “Hang Up Your Hang Ups” di Herbie Hancock, lo stesso che l’anno seguente figura nella T.C. Funky Mix di “Come On (And Do It)” degli FPI Project – dai contenuti graficamente tradotti nell’ironica illustrazione sulla logo side. La voce di “Big House (We’ve Got The Juice)” di MC Miker G finisce in “Hyper” di 44 Megabyte e la malinconica melodia di un carillon scorre in “Music Box” di Nenja. Il campionatore è il “motore creativo” di quel periodo e più le fonti sono inusuali, più l’attenzione cresce. Così, se Max Kelly cattura la voce delle colonnine Viacard in “M.K.O.K.” su Wicked & Wild Records (di cui parliamo qui), in “Free Message” Cremonini e soci optano per il messaggio della segreteria telefonica della SIP, poi diventata Telecom. Il nome del progetto? S.I.P. ovviamente.

“James Bond” di Spectre è il remake del tema cinematografico scritto da John Barry mentre “Time”, è l’unico brano che Franco Moiraghi realizza come K-F.M.. Sound à la 2 Unlimited è quello di “Get Hip To This” di B Master J. e “People Come Together” di KC Element (quest’ultimo sfiora davvero il plagio di “Twilight Zone”). Più house oriented, col riff di “Change” dei Tears For Fears ripreso l’anno dopo da Z100 in “On The Low”, è “Somebody” di Dominoes. Il synth pop, il funk e il rock rappresentano un serbatoio immenso da cui si attinge deliberatamente. È il caso di “Coming Up” di Magellano, edificato sulla melodia di “Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode, di “The Picture” di Giotto, costruito sul giro di “Last Train To London” degli Electric Light Orchestra, di “Mamamelo” di Dirty Mind, in cui si incrociano “Fade To Grey” dei Visage ed “Anastasis” dei Rockets, di “Let It Out” di Quasimodo, in cui viene arpionato “Mammagamma” degli Alan Parsons Project, di “Space Dream” di Space Dream, rilettura di “Pulstar” di Vangelis già oggetto di un fortunato rifacimento del 1983 ad opera degli Hipnosis del compianto Stefano Cundari, o di “Over Me” di Pharaoh in cui viene rispolverato “Situation” degli Yazoo. Scritto, registrato e mixato da Ugo Bolzoni presso il suo New Frontiers Studio, a Rovigo, è “Sexual Intimidation” di X-Ray. Il suono dell’Italian Style Production inizia a battere con regolarità il sentiero dell’eurodance, genere che tra 1992 e 1993 promette sempre di più in termini commerciali. Escono “It’s Gonna Be There” di Car Max, “Alphabet Mode” di Alphabet (nato dal campionamento di “It Gets No Rougher” di LL Cool J e prodotto dal menzionato Max Kelly insieme ad Alex Bagnoli e Sabino Contartese, rispettivamente il futuro produttore di Neja e il protagonista in Santos & Sabino con Sante Pucello), “I Feel So Good” di Boxster (che sfrutta il sample vocale “hope, cause I’ve learned to cope” di “Hope” di Phil Asher, usatissimo in futuro), “Giving My Heart” di Glamour e il più “picchiato” “Do It Do It” di Yama. Tra febbraio e marzo del 1993 inizia a circolare “We Are Going On Down”, l’ennesimo dei brani costruiti su sample di vecchi dischi con cui il team cremoniniano riporta in vita, dopo circa due anni d’inattività, il progetto Deadly Sins nato sulla Line Music con “Together” di cui parliamo qui. Il successo è clamoroso e il pezzo, ribattezzato “disco dell’ottovolante” in virtù del video, entra in decine di compilation ma soprattutto nel secondo volume della “DeeJay Parade” edita da Time e diventato uno dei bestseller estivi. A finire nell’ambita tracklist della compilation di Albertino è pure un altro brano del repertorio Italian Style Production, “Make It Right Now” di Aladino, interpretato da Emanuela ‘Taleesa’ Gubinelli, già turnista in decine di progetti che la Time destina al mercato nipponico. Prodotto da Mauro Marcolin, Valerio Gaffurini e Diego Abaribi ispirati da “Angel Eyes” dei canadesi Lime uscito esattamente dieci anni prima, “Make It Right Now” (di cui parliamo qui nello specifico) diventa una hit in Italia e contagia anche qualche Paese estero, segnando una tappa importante di quella che sarà poi identificata come prima ondata italodance. Il successo da noi è tale da richiedere le esibizioni nelle discoteche. A quel punto Abaribi, che già lavora come DJ, diventa il frontman del progetto portando il brand Aladino nei locali di tutto lo Stivale.

ISP green

“Progressive House” di Mah-Jong e “In The Ghetto” di Jam 2 Jam sono gli unici dischi che Italian Style Production pubblica su etichetta di colore verde

Sino a questo momento i due colori usati per le etichette centrali e per le relative copertine sono il nero e il blu, fatta eccezione per alcune cover rosse usate sporadicamente nei primi anni. Come racconta Abaribi in un’intervista finita in Decadance, da un certo momento in poi l’alternanza serve a velocizzare il lavoro del distributore: i dischi col logo blu sono destinati all’Italia, quelli col logo nero invece relegati al mercato estero. Non sempre però questa categorizzazione cromatica risulta essere adeguata e “Make It Right Now” di Aladino, stampato su etichetta nera, ne è un esempio. Alcuni inoltre, come “Open Your Mind” degli U.S.U.R.A., “Suicide” di Phase Generator o “Dirty Love” di Infinity (un altro discreto successo italiano messo a segno da Cremonini & co., con la chitarra di “Sweet Child O’ Mine” dei Guns N’ Roses e un breve passaggio vocale di “Human” degli Human League), vengono stampati in entrambe le versioni, blu e nera. Come si spiega in Decadance Extra, nel 1993 viene scelto anche un terzo colore, il verde, riservato però ad appena una manciata di pubblicazioni orientate ai club, “Progressive House” di Mah-Jong, prodotto da Gianni Bini nel Brain Studio a Viareggio, e “In The Ghetto” di Jam 2 Jam, dietro cui armeggiano Franco Moiraghi e Marco Dalle Luche. Proviene dal Ghost Studio di Francesco Marchetti invece “Jericho” di Jericho, in cui riappare l’hook vocal tratto da “The Badman Is Robbin'” degli Hijack, già ripreso nel ’92 dai Prodigy in “Jericho” e, qualche anno più tardi, da DJ Supreme in “Tha Horns Of Jericho”. La prolificità dei team che lavorano per Maiolini non conosce pause ma spesso tradisce similitudini troppo evidenti come in “Do You Want My Love” di House Corporation, simile a “Make It Right Now” di Aladino, “Time Is Right” di Synthesis, prodotto sulla falsariga di “We Are Going On Down” di Deadly Sins, o ancora “I’m Your Memory” di Copernico e “Let Me Down” di Rock House con l’assolo rock rispettivamente di “Eye Of The Tiger” dei Survivor e “Money For Nothing” dei Dire Straits, che si riagganciano ai Guns N’ Roses ripresi in “Dirty Love” di Infinity, e “Movin’ Over” di Trivial Voice che suona come una sorta di nuova “Open Your Mind”. Con la media di una nuova uscita a settimana, l’Italian Style Production è davvero un pozzo senza fondo. Da “What’s Your Name” di KC Spirit ad “Arriba Arriba” di DJ Cartoons, da “Sex” di Spirits a “Got To Feel Good” di Anita Adams, da “I Wanna Give Up” di Intuition ad “I Love Music” di Louis Creole passando per “Wash” di Alverman ed “Open Your Eyes” di Gulliver che pare una miscellanea tra “Suicide” di Phase Generator e “Make It Right Now” di Aladino con l’aggiunta di un testo scritto da Silver Pozzoli.

Dirty Mind - Bocca Boca

A causa di un presunto errore, il titolo riportato sulla copertina di Dirty Mind è “Bocca Boca” anziché “Back To Future”

Particolarmente fortunato il ritorno di Dirty Mind che con “Back To Future” tocca forse il punto più alto di popolarità. Facendo leva su un riff di fisarmonica suonato da Elvio Moratto e campionato da “¡Hablando!” di Ramirez & Pizarro, Marcolin, Gaffurini e Perrone ottengono un martellante pezzo che si ritaglia spazio nella programmazione estiva e stimola l’interesse della Jelly Street Records che lo licenzia nel territorio britannico. In copertina finisce un titolo diverso, “Bocca Boca”, poi coperto da rettangolini adesivi che recano invece quello esatto. Promette bene ma non riuscendo ad esplodere “Won’t You Find A Way” di D.R.A.M.A., prodotta ed arrangiata da Cremonini e Gilardi sul testo scritto da Fred Ventura e cantato da Debbie French, turnista che un paio di anni prima presta la voce a “Do What You Feel” di Joey Negro e “One Kiss” di Pacha. La britannica frequenta gli studi della Time e in quel periodo interpreta, tra le altre, “Confusion” di Molella e “Do You Know My Name” di Humanize di cui si parlerà in seguito. Cremonini, Gilardi ed Abaribi sono pure gli artefici di “Bump” di House Corporation (lo spunto viene da “Baby, Do You Wanna Bump” dei Boney M.). Stilisticamente simili sono “Movement Of People” di M.O.P., “Check It For Me (One Time)” di Strawberry Juice, “Let’s Spend The Night Together” di KC Element, “Don’t Look Back” di Carol Jones (che sul lato b annovera “Feel Underground”, a fare il verso ai suoni di “Plastic Dream” di Jaydee di cui parliamo qui) e “Popeye” di DJ Cartoons. Un altro pezzo che, come D.R.A.M.A., pare avere tutte le carte in regola per sfondare ma non riuscendoci è “We’ve Got To Live Together” di Andromeda, una specie di “Make It Right Now” che corre sull’acappella tratta da “Why Can’t We See” di Blind Truth, la stessa ad essere utilizzata nel ’91 da R.A.F. in “We’ve Got To Live Together” e nel ’94 da Proce in “Jump” (ma ricantata) e dai Systematic nella fortunata “Love Is The Answer”. Gli autori, Gilardi e Cremonini (insieme ad Abaribi), si rifanno comunque con gli interessi con un brano parecchio simile pubblicato su Italian Style Production nell’autunno del 1993, “Allright” di Silvia Coleman. Nato nel 1991 con “Into The Night (Taira Taira)”, pare interpretato da una certa K. Hausmann ed apparso su un’altra sublabel della Time, la citata Line Music, il progetto Silvia Coleman (l’ennesimo dei nomi di fantasia, scelto da Gilardi per omaggiare la pianista dei Revolution, Lisa Coleman, come lui stesso spiega in questa puntata di 90 All’Ora con DJ Peter e Luca Giampetruzzi) ora conosce una popolarità inaspettata grazie ad un brano a presa rapida che ricorda parecchio “Make It Right Now” di Aladino. A cantarlo è la britannica Denise Johnson, in quegli anni corista dei Primal Scream con cui Gilardi e Cremonini collaborano poco tempo prima attraverso “Matter Of Time” di D-Inspiration uscito su Time. Lo stesso team di lavoro sviluppa “Listen Up” di Synthesis, che occhieggia all’eurodance teutonica di Maxx, Culture Beat, Masterboy, Fun Factory o Intermission, e medesimi riferimenti stilistici sono pure quelli seguiti in “Dreams” di B.S. & The Family Stone, “Rock The Place” di Institution, “Girlfriend” di Frankie & The Boys, “All The Things I Like” di Brenda, “House Is Mine” di Rhythm Act e “Somebody” di Transit. Un vago rimando alla fisarmonica di “Back To Future” lo si assapora in “Straight Down On The Floor” di Yama mentre “Love On Love” di Dominoes stuzzica l’appetito della RCA tedesca. La musica del passato, recente e meno, continua a rappresentare una decisiva fonte di ispirazione intrecciando stesure e sonorità tipiche dell’eurosound di quel momento come avviene in “Again ‘N’ Again” di Magic Marmalade, che all’interno cela un campione di “Here Comes That Sound Again” di Love De-Luxe (1979), in “Out Of Control” di Digital Sappers, dove si scorge un fraseggio simile a quello di “Ultimo Imperio” degli Atahualpa (1990) ed uno stralcio vocale preso da “Go On Move” dei Reel 2 Real che si afferma commercialmente con la versione del 1994, e “Loving You” di Phase Generator scandito dal riff (risuonato) di “Take On Me” dei norvegesi a-ha.

Aladino - Brothers In The Space

“Brothers In The Space” è l’atteso follow-up di Aladino giunto nell’autuno del 1993

Insieme ad “Allright” di Silvia Coleman, nell’autunno del ’93 si impone “Brothers In The Space” di Aladino, atteso follow-up di “Make It Right Now”. Per l’occasione commercializzato con una grafica ad hoc, né blu né nera, il brano impasta elementi simili a quelli del precedente inclusa la voce di Taleesa seppur ancora esclusa dai crediti. Gli ultimi mesi dell’anno vedono uscire in rapida sequenza circa una quindicina di 12″ di cui alcuni rimasti nell’anonimato come “Got The Power” di Copernico, “Don’t Stop The Motion” di Andromeda, “Do You Really Love Me?” di Stereo Agents (un tentativo di rispondere alle hit provenienti dall’estero di B.G. The Prince Of Rap o Captain Hollywood), “Dance To The Beat” di Trivial Voice, “Barracuda” di Barracuda, “Shake It Up” di Loren-X (che ricicla la base di “We’ve Got To Live Together” di Andromeda uscito pochi mesi prima), “I Let You Go” di House Corporation e “Do The Dance” di Vi-King. La concorrenza nella cheesy dance è fortissima e spietata, le etichette immettono sul mercato enormi quantità di dischi nella speranza che in mezzo a così tanto materiale ci sia sempre qualcosa che possa trasformarsi in un successo. Quando l’imperativo diventa vendere a tutti i costi la creatività va a farsi benedire e ne risente come avviene in “Let’s Get It” di Marasma, dove un’anonima base eurodance diventa il pianale per reinnestare il sample vocale di “Get On Up” di Silvia Coleman edito dalla Line Music l’anno prima e realizzato dagli stessi autori, pare ispirati da “Rock The House” di Nicole McCloud del 1988. A spingere verso quel “riciclo forzoso” è forse “Get On Up” di Giorgio Prezioso, uscita nel medesimo periodo con lo stesso campionamento vocale? Chissà, magari qualcuno deve aver sperato che la proprietà commutativa fosse valida anche in musica (cambiando l’ordine degli elementi il successo non muta). Eurodance assemblata coi soliti ingredienti e senza guizzi è pure quella di “Gimme The Love” di Darkwood che gira sul riff di “Sounds Like A Melody” degli Alphaville, ripreso con più successo dai bortolottiani Cappella in “U Got 2 Let The Music” negli stessi mesi. L’intro di “I Need I Want” di Alison Price mostra qualche evidente similitudine con “La Pastilla Del Fuego” di Moratto (di cui parliamo qui) incrociata al sample vocale preso da “Was That All It Was” di Solution Featuring Tafuri riciclato nel ’94 in “I Need I Want” di Vince B, “T.J.X.4.” di Algebrika strizza infine l’occhio allo stile di Ramirez. Piero Fidelfatti e Sandy Dian firmano “El Ritmo Del Universo” di Amparo, Cremonini e soci “Ohmm” di Tibet e “Just A Minute” di Castilla, ma nessuno di questi riesce a farsi notare. Sorti diverse invece per le ultime pubblicazioni del 1993 che si faranno ben sentire nei primi mesi del ’94: “Come Down With Me” di Deadly Sins, cantato da Glen White, ex vocalist dei Kano, e “Do You Know My Name” di Humanize, eurodance prodotta da Bruno Cardamone, Gianluigi Piano e Giuseppe Devito ed interpretata da Debbie French sul ritornello di un vecchio brano della già citata Nicole McCloud, “Don’t You Want My Love” (per approfondire rimandiamo all’articolo/intervista disponibile qui).

1994-1995, tsunami italodance

Per Italian Style Production il 1994 si apre all’insegna dell’eurodance, genere che quell’anno domina la scena pop senza rivali. Il primo ad uscire è “Temptation” di Swag, un brano registrato presso il Red Studio di Palermo che mescola suoni tipici del filone insieme al binomio voce femminile/rap maschile (rispettivamente di Sandra Walters e di un certo Aziz) ma che non riesce a districarsi nella miriade di pezzi simili in circolazione. Gli autori, Daniele Tignino e Vincenzo Callea, trovano più fortuna qualche mese più tardi insieme al conterraneo Riccardo Piparo e il cantante Josh Colow con “Illusion”, che lancia in modo definitivo i Ti.Pi.Cal. dopo il poco noto “I Know” dell’anno prima ma con uno stile diverso dall’eurodance. Giorgio Signorini e Sergio Olivieri firmano “End Of Time” di Synthesis a cui seguono “Find A Way” di Ruffcut, “Won’t You Come With Me” di KC Element e “Can’t Give Up” di Dominoes, cantata dalla corista dei Simply Red, Janette Sewell. Cardamone, Piano e Devito, dopo gli esaltanti riscontri di Humanize, realizzano “Eyajalua” come Rajah ma tradendo le aspettative. Riappaiono Danaeh con “Walk Away”, che strizza l’occhio al primo Aladino e a Jinny, e gli Amparo di Fidelfatti e Dian che consegnano a Maiolini il seguito di “El Ritmo Del Universo” intitolato “La Magia De Mi Musica” e scandito ancora dalla voce di Rosalina Roche R., un mix tra Amparo Fidalgo dei Datura e Carolina Damas dei Sueño Latino. I due si fanno risentire, poco più avanti, come Thor col brano “Gibil”, sempre prodotto presso il Sandy’s Recording Studio a Gambellara, in provincia di Vicenza. I quattro remix di “Come Down With Me” di Deadly Sins invece giungono dalla Germania: a firmarli sono Ingo Kays (Genlog, Padre Terra etc) ed Antonio Nunzio Catania, siciliano trapiantato nel Paese dei crauti e dietro una miriade di produzioni come quelle con DJ Hooligan ma soprattutto Scatman John. Attitudini eurodance, le stesse che caratterizzano la prima ondata italodance, si ritrovano in “Never Let It Go” di Dis-Cover (in scia a Silvia Coleman), “Everybody” di Carol Jones, “Underpower” di Algebrika, “That Is Really Mine” di Black House (su cui mettono le mani Maurizio Braccagni e Roberto Gallo Salsotto), “Loverboy” di Mr. Signo, “No Lies” di M.C. Claude, “Easy” di Magic Marmalade, “People All Around” di B Master J (con un intro che rimanda a quello di “Everybody” di Cappella) e “Life Love & Soul” di D-Inspiration. Ed ancora: “Baby” di Mytho, prodotta da Roby Borillo dei Los Locos con una citazione vocale di “Take Your Time (Do It Right)” della S.O.S. Band, “I Need Love” di Open Billet, “Sex Appeal” di KC Spirit, “Keep On Movin'” di Yama, diventato un cimelio per i collezionisti con un sound à la “The Key: The Secret” degli Urban Cookie Collective, “Mastermind” di Hyppocampus e “Why” di Star System. Tutti passano inosservati dalle nostre parti trovando più fortuna in Paesi come Spagna, Francia e soprattutto Sudamerica dove eurodance ed italodance vivono un autentico exploit. Molti progetti risultano one shot probabilmente perché ritenuti tentativi di successo andati a vuoto con più nessuna energia ulteriormente investita.

successi ISP estate 1994

Alcuni successi messi a segno da Italian Style Production nell’estate 1994: dall’alto “Call My Name” di Aladino, “All Around The World” di Silvia Coleman e “Sing, Oh!” di Marvellous Melodicos

L’inversione di tendenza avviene durante la stagione estiva con almeno una manciata di titoli, “Call My Name” di Aladino, orfano della presenza di Marcolin e l’ultimo ad essere prodotto da Abaribi e cantato da Taleesa (che in parallelo interpreta “Promise” di No Name, su Time), ed “All Around The World” di Silvia Coleman, trainata dalla U.S.U.R.A. Mix. A questi si aggiunge “Transiberiana” di Dirty Mind, a cui pare collabori Molella in incognito, e “Sing, Oh!” di Marvellous Melodicos, nuovo progetto messo in piedi da Trivellato e Sacchetto (ed Alberto ‘The Indian’ Lapris) che utilizzano la parte vocale di un classico della musica brasiliana. Il successo coinvolge pure la Francia in autunno, quando si ipotizza l’uscita dell’album di Aladino, iniziativa che però non andrà mai in porto. Come contorno giungono “Batman” di DJ Cartoons, progetto nato in seno a quella che alcune riviste ribattezzano “techno demenziale”, “Watching You” di Frankie (prodotta dai fratelli Paul e Peter Micioni), “Sending (All My Love)” di Andromeda, “I Need A Man” di Buka e “U Love Me” di Delta, un altro di quelli che hanno acquisito valore collezionistico col passare degli anni. Scarsamente accolti in Italia sono “Take Me To Heaven” e “Make My Day” di Nevada, “I Want Your Love” di Etoile (davvero simile ad “I Found Luv” di Taleesa), “For Your Heart” di Alison Price, “Pinga” di El Loco, “Keep Me Going On” di D-Inspiration e “Freedom” di KC Element. Degna di menzione, sul fronte estero, è la nascita della Italian Style UK, filiale britannica accorpata alla Disco Magic UK gestita da Roland Radaelli, società sulla quale è possibile leggere interessanti dettagli cliccando qui. L’iniziativa però si rivela effimera visto che conta su appena tre pubblicazioni (“I Know I Can Do It” di House Corporation, del 1991, “Feel Free” di Debbe Cole, uscita su Time nel 1992, e “Let Me Down” di Rock House del 1993). Altre licenze, come “Moving Now” di Pierre Feroldi, “Keep Warm” di Jinny, “Everyday” di DJ Pierre, “It’s Not Over” di Istitution, “Wake Up” di Sound Machine e la compilation mixata “Megastyle Volume 1” finiscono invece nel catalogo della stessa Disco Magic UK.

Torniamo in Italia: in autunno riappare per l’ultima volta Deadly Sins con “Everybody’s Dancing”, ancora cantato da Glen White su una filastrocca da luna park, atmosfera rimarcata dalla foto vintage scelta per la copertina curata da Clara Zoni. Ultima apparizione pure per Silvia Coleman con “Take My Breath Away”, quasi una copia di “All Around The World” che sul lato b include “Feeling Now The Music” particolarmente apprezzata in Germania e Spagna. Meno fortunato il ritorno degli Humanize con “Take Me To Your Heart”, nonostante tutte le carte in regola per bissare il successo del precedente. Si risente Quasimodo con “All I Want Is You”, sequenzato sia su una parte vocale davvero simile a quella di “Don’t Leave Me Alone” dell’olandese Paul Elstak uscita poco tempo dopo, sia su una chitarra flamenco in stile Jam & Spoon che si ritrova altresì in “Jungle Violin” di Stradivari, prodotto da Roby Arduini e Pagany negli studi della loro Union Records fondata dopo aver lasciato la Media Records proprio quell’anno. Un altro disco che, pur sviluppato con perizia sullo schema eurodance, non riesce ad affermarsi del tutto in Italia è “If You Wanna Be (My Only)” di Orange Blue. Prodotto da Arduini ed Abaribi con la voce della compianta Melanie Thornton, reduce dei clamorosi successi di “Sweet Dreams” dei La Bouche e “Tonight Is The Night” dei Le Click, esce in autunno e conquista Germania, Spagna, Francia, e il Sud America. In cambio Amir Saraf ed Ulli Brenner, produttori di La Bouche e Le Click, e il rapper Mikey Romeo, si occupano del citato “I Found Luv” con cui Taleesa torna come solista dopo il poco fortunato “Living For Love” del ’91 (firmato Talysha), l’esperienza accanto ai Co.Ro., Stefano Secchi, Aladino (seppur mai ufficializzata) ed una caterva di lavori come turnista. Scarso interesse è suscitato da “Do You Wanna Right Now” di Andromeda, costruito sui sample presi dall’omonimo dei Degrees Of Motion (cover del classico di Siedah Garrett del 1985 già ripreso da Taylor Dayne e parzialmente riadattato da Stefano Secchi in “We Are Easy To Love”) e da “Ghostdancing” dei Simple Minds scelto nel medesimo periodo dai Dynamic Base in “Make Me Wonder” sulla Welcome del gruppo Dancework. Provengono degli anni Ottanta pure i campionamenti celati in “Feel So Good”di Ruffcut Feat. Carol Jones (“Venus” degli Shocking Blue) e in “Anything For You” di Trivial Voice (le voci da “The Reflex” dei Duran Duran e il riff da “Rain” dei Cult). In entrambi la parte di chitarra è eseguita da Enrico Santacatterina, da lì a breve coinvolto dagli U.S.U.R.A. in “The Spaceman”. Poco noto da noi ma ben piazzato nelle classifiche teutoniche è “The Light Is” di The Dolphin Crew, prodotto da Andrea De Antoni, Franco Amato e William Naraine ossia gli artefici dei Double You. A mixarlo è Francesco Alberti, ingegnere del suono della DWA. Provenienti dalla label di Roberto Zanetti sono pure i Digilove che realizzano “Touch Me”, un clone di “It’s A Rainy Day” di Ice MC. Alex Baraldi ed Andrea Mazzali producono la veloce “I’m Losing My Mind” di L.O.V. (acronimo di Licensed On Venus) che inizia a battere il sentiero di una dance dopata nei bpm a cui aderiscono già diversi act tedeschi e che in Italia trova il la grazie a “The Mountain Of King” di Digital Boy. In tal senso si fa ben notare, a fine anno, “Strange Love” di Kina, un pezzo di Trivellato e Sacchetto che ricicla la melodia di “Reality”, tra i brani della colonna sonora del film “Il Tempo Delle Mele” composta da Vladimir Cosma. Molto simili i contenuti di “Chanson D’Amour” che Arduini ed Abaribi firmano come Savoir Faire insieme a Geraldine, e di “Open Your Hands” di Tatanka, solo omonimo del DJ Valerio Mascellino. Preso in licenza dalla tedesca Maad Records (con l’aggiunta di un remix realizzato nel Time Studio da Gianluigi Piano e Roby Arduini) è “Frozen Luv” di Polaris Feat. Minouche, mentre esportato con successo nel Paese della Torre Eiffel è “Ride On A Meteorite” di Antares in cui la voce di Clara Moroni è alternata al rap di Asher Senator, lo stesso che un paio di anni più tardi affianca con discreto successo i JJ Brothers e Molella. “Adottato” dalla tedesca Polydor è pure “Nevermind” di Phase Generator, prodotto dallo stesso team di Marvellous Melodicos. Tra gli ultimi ad uscire nel ’94 ci sono “The Sun And The Moon” proprio dei Marvellous Melodicos, che risente della velocizzazione a cui allora va incontro la pop dance, e “Come On Let’s Go” di The Dog, prodotta da Cremonini e Gilardi sulla falsariga delle hit estive transalpine de La Bouche/Le Click sul testo scritto e cantato da Orlando Johnson, ricordato per aver interpretato ad inizio decennio i più grandi successi di Stefano Secchi come “I Say Yeah” e “Keep On Jammin'”.

Il 1995 si apre con “I Believe”, ultimo disco del progetto Copernico rappato da Asher Senator a cui si somma “Virtual Dreams”, una specie di incrocio tra Kina ed “Over The Rainbow” della tedesca Marusha che in quel periodo vive uno strepitoso successo commerciale. A realizzarla sono i già incrociati Baraldi e Mazzali che si firmano Argonauts. Bpm serrati e melodie festaiole sono pure gli ingredienti di “In The Name Of Love” di Aqua prodotto dalla premiata ditta Trivellato-Sacchetto che coi medesimi elementi appronta il secondo brano di Kina, “7 Days”. Ultima apparizione per Quasimodo con “Memories” (a scandirlo è una melodia molto simile a quella di “Outside World” dei Sunbeam che, a cavallo tra ’94 e ’95, si sente pure in “Heaven Or Hell” degli italiani R.O.D.) a cui seguono a ruota “Up In The Sky” di Andromeda, “The Big Beat” di Nouvelle Frontiere e “Dreamlover” di Orion (con occhiate a “The Mountain Of King” di Digital Boy), tutti accomunati da echi epic trance desunti dal successo internazionale dei citati Sunbeam. La musica ad alta velocità è il trend imperante di quell’anno che traina “Music Of Belgium” di The Choir (il nome è dovuto alla presenza di una parte ecclesiastico-corale). Più canonicamente eurodance sono “I Keep Calling You” di Prophecy, remixata per l’occasione dai Ti.Pi.Cal. (le versioni dei siculi sono due, Underground Mix e Crossover Mix, incise sul lato b), “Cannibal” di Black 4 White, progetto di Massimo Traversoni e Roberto Calzolari mixato presso il Casablanca Studio di Zanetti da Francesco Alberti, “You’re The Best Thing” di Gorky, “The Beat Of The Flamenco” di Trivial Voice, “All I Wanna Do” di Phase Generator e “Don’t U Bring Me Love” di Nevada, decisamente in “DWA style” analogamente a “To Be Free” di Prime, prodotto da un giovane Federico Scavo affiancato da Riccardo Menichetti. Sfruttando il successo di Ini Kamoze i DJ B. (Benny DJ, Mitia ed Umberto Benotto) incidono la cover di “Here Comes The Hotstepper” presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. Makina le matrici di “The Sugar Of Life” di Human Dragon, act rimasto nell’anonimato seppur orchestrato da Alex Quiroz Buelvas, frontman di uno dei progetti nostrani più fortunati di quel periodo, Ramirez. Trivellato e Sacchetto, con la vocalist Mireille, realizzano “Don’t U Know” di Pelican sullo schema seguito in parallelo per i singoli di Taleesa (“Let Me Be”, “Burning Up”, editi su Time). Maiolini affida loro il nuovo Orange Blue, “Sunshine Of My Life”, che conquista licenze in Spagna, Francia, Svezia e Canada come accade a “You Belong To Me” di Antares. I Discover riprendono “’74-’75” dei Connells ricantata da un certo Dominic.

tshirt ISP

Tre tshirt della Italian Style Production distribuite dalla Pro Mail tra 1994 e 1995

Con oltre dieci anni di attività alle spalle, la Time è tra le aziende discografiche italiane più consolidate. I tempi sono giusti per lanciare una ricca linea di gadget, merchandising ed abbigliamento tra cui orologi da parete e da polso, slipmat, flight case, borse portadischi in stoffa, bandane, camicie, cappellini, felpe ed alcune tshirt decorate con il logo Italian Style Production. A distribuire tutto questo materiale è la Pro Mail di Trento, specializzata in vendita per corrispondenza. In autunno arrivano due discreti successi messi a segno da Trivellato e Sacchetto: “Stay With Me”, il quarto (ed ultimo, almeno in questa fase) 12″ di Aladino, col featuring vocale ma non accreditato ufficialmente di Sandy Chambers, ed “Over The Rainbow”, ultima apparizione di Marvellous Melodicos ispirato da “Luv U More” del DJ olandese Paul Elstak, un successo estivo a metà strada tra eurodance ed happy hardcore. Torna anche Dirty Mind con un brano radicalmente diverso dai precedenti e che forse sarebbe stato più opportuno collocare su un’etichetta più legata alla house come la Downtown. Trattasi di “Make It Funky” in cui Walter Cremonini, Alex Gilardi e Ricky Romanini inseriscono il campionamento di “K-Jee” degli MFSB, un classico funk/disco estratto dal catalogo Philadelphia International Records. Chiudono l’annata la veloce “My Love” di Torricana, “Ridin’ On The Night” di Trivial Voice, “Wanna Move Up” di Ruffcut Feat. Carol Jones, “Take A Chance” di Dream Project (per cui Trivellato e Sacchetto ricorrono ancora alla voce della Chambers) ed “Everytime You Go” di Andromeda, annessi alla corrente eurodance ma probabilmente fuori tempo massimo visto che i suoni della dream progressive iniziano a farsi avanti e tutto sta per cambiare.

1996-1997, in balia di happy hardcore e dream progressive

Con una fama ben consolidata oltralpe, il progetto Antares ricompare con “Let Me Be Your Fantasy” a cui partecipa nuovamente il rapper Asher Senator. In scia si inserisce “Runaway” interpretato dalla Chambers, che chiude definitivamente l’operatività di Orange Blue. Influssi dream à la Robert Miles scandiscono “Como El Viento” di Lullaby, seppur intriso in modo evidente di salsa eurodance. Il brano, scritto da Alessandro Sangiorgio, viene utilizzato nel medesimo periodo dai G.E.M. prodotti da Stefano Secchi per un medley con “Batufest”, su Propio Records. Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto ora sono tra i produttori più prolifici in forze alla scuderia maioliniana e sfornano un pezzo dietro l’altro come “Feels Like Heaven” di Nevada e “Wonderful Life” di Phase Generator, quest’ultimo una risposta a “Discoland” di Tiny Tot (di cui parliamo qui) e a tutto quel filone euro happy hardcore sdoganato dal citato Paul Elstak e Charly Lownoise & Mental Theo ma anche da tanti act tedeschi come Das Modul e Dune, di cui si può approfondire qui e qui. Elevati bpm sono altresì quelli di “I Wanna Make U Happy” di Free Jack in cui Asher Senator rappa un brano semi-emulo di “I Wanna Be A Hippy” dei Technohead, “Heaven”, ultimo disco di Andromeda costruito sulla falsariga di “Can’t Stop Raving” dei Dune da poco citati, e il quasi omonimo “Heaven’s Door”, ultimo per Kina ed ancora fortemente ispirato dalla happy hardcore teutonica di Dune e Blümchen. Curiosamente la parola “heaven” si ripete nel titolo in tre uscite attigue (Nevada, Andromeda, Kina): ambizione a finire nel paradiso della dance?

The Spy - The Persuaders Theme

“The Persuaders Theme” di The Spy è il primo disco che Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani realizzano per Italian Style Production ad inizio ’96

Uscito intorno a febbraio è “The Persuaders Theme”, cover dell’omonimo tema composto da John Barry per la serie televisiva “The Persuaders” (“Attenti A Quei Due” in Italia) per cui Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani dei Datura, che poco prima abbandonano la Irma Records in favore della Time, coniano un nuovo progetto one-shot, The Spy. Ad affiancarli nell’avventura è Guido Caliandro di cui si parlerà più avanti e che nel medesimo periodo realizza col compianto Ricci DJ “Electro Sound Generator” come Neutopia, unica uscita sulla E.S.P. (Extra Sensorial Productions), anch’essa raccolta sotto l’ormai enorme ombrello della label bresciana di Maiolini. Pagano e Mazzavillani aggiungono nel catalogo ISP altre due cover: “Il Clan Dei Siciliani” di Goodfellas (dalla colonna sonora dell’eterno Ennio Morricone dell’omonimo film del ’69) e “A Whiter Shade Of Pale” di Doomsday (l’originale è un classico dei Procol Harum, scritto da Gary Brooker e Keith Reid), co-prodotta con MC Hair (il futuro Andrea Doria di cui si parla qui) in chiave hard trance con graffiate acide. “Tears” di Overture, “Rapsody” di Skylab, “Once Upon A Time In The West” di Evolution (ennesima e non certamente ultima cover della morriconiana “C’era Una Volta Il West”) e “Treasure” di Globo seguono pedestremente lo stile di “Children” di Robert Miles. Un mix tra dream ed eurodance è quello di “Need Somebody” con cui Claudio Varola e Michele Comis degli U.S.U.R.A., a cui si aggiunge il DJ veneto Andrea Tegon, riportano in vita, a tre anni di distanza, il progetto Infinity. Anche questa volta l’ispirazione viene dal passato, precisamente da “Crockett’s Theme” di Jan Hammer (dalla soundtrack della serie “Miami Vice”). Cremonini, Gilardi e Romanini approntano “Whenever You Want Me” di Antares, questa volta in uno stile più house oriented che comunque convince la francese Scorpio Music di Henri Belolo a prenderlo in licenza.

Historya - Catch Me If I Fall

Con “Catch Me If I Fall” di Historya, Italian Style Production rinnova il suo layout grafico

Al ritorno dalle vacanze estive Italian Style Production si ripresenta con una veste grafica aggiornata: non c’è più la coppia che balla, sostituita da un logotipo in stile graffitista creato con le iniziali I ed S intrecciate. Il primo disco ad essere accompagnato da tale design è “Catch Me If I Fall” di Historya, prodotto dagli instancabili Trivellato e Sacchetto che riciclano una base simile a quella di “Seven Days And One Week” dei B.B.E. sulla quale innestano una parte cantata dalla compianta Diane Charlemagne, ex Urban Cookie Collective. Sull’onda dell’ormai iperinflazionata progressive totalmente cannibalizzata dal pop riesce ad affermarsi, anche oltralpe, “Clap On Top Of Me” dei M.U.T.E., prodotto da Cremlins & Zuul ovvero Max Boscolo e Luca Moretti che abbinano una base trainata da un basso in levare ad una melodia in pizzicato style à la Faithless. A fare da collante un breve hook vocale campionato da “Sweet Pussy Pauline” di Hateful Head Helen, del 1989. Il brano finisce in una celebre scena girata in un negozio di dischi de “Uomo D’Acqua Dolce”, film diretto ed interpretato da Antonio Albanese. Un altro brano-emulo dei transalpini B.B.E. è “Try” di Glissando, composto da Carl Fath (il futuro Io, Carlo) e Fabio Giraldo, a cui si sommano “Take Your Body” di Tunnel Groove, “Happiness” di 2 Ghosts, “Phrygian” di Euphonia (prodotto da Michele Generale), “Esperantia” di Cremlins e “You And I” di Luna, una sorta di “Summer Is Crazy” di Alexia cantata da Sandy Chambers, arrangiata da Ricky Romanini e Stefano Marcato con la produzione addizionale di Luca Pernici e Marco Rizzi.

In circolazione già da dicembre ’96 ma fattosi notare ad inizio 1997 è “The Bit Goes On” di Snakebite, brano proveniente dal Coco Studio di Bologna e costruito su un sample vocale preso da “The Beat Goes On” di Orbit Featuring Carol Hall dai già citati Pagano, Mazzavillani e Caliandro. A differenza di The Spy però questa volta il pezzo intriga la londinese Multiply Records che lo licenza nel Regno Unito commissionando un paio di remix agli Ispirazione (Gordon Matthewman e Mike Wells) e a Jason Hayward alias DJ Phats, che da lì a breve crea con Russell Small il duo Phats & Small. Segue “The Mission” di Sosa, progetto di Massimo Bergamini per l’occasione diretto da Roberto Gallo Salsotto. Il pezzo è stilisticamente allineato alla formula di DJ Dado, artista prodotto dallo stesso Gallo Salsotto ed entrato nell’autunno del ’96 in Time Records con “Revenge”. In seguito Bergamini approderà con più fortuna alla Media Records che, tra ’97 e ’98, gli mette a disposizione i suoi studi ma soprattutto i propri musicisti e produttori come Mauro Picotto, Andrea Remondini e Riccardo Ferri che confezionano “Wave” ed “Accelerator”, esportati entrambi all’estero col supporto della Tetsuo di Talla 2XLC e i remix di Taucher e Torsten Stenzel (intervistato qui). Nonostante il trend principale resti ancora quello della progressive, Italian Style Production non si esime dal pubblicare brani più inclini all’eurodance come “Thinkin’ About You” di Discover, prodotto da Ricky Romanini e Stefano Marcato e cantato in incognito da Simone Jay (analogamente a quanto avviene in “Keep The Spirit” di Sarah Willer, finito su Downtown), “I Dream Of You” di Nevada, “Jump To The Beat” di Dr. Beat (col sample dell’omonimo di Stacy Lattisaw), “It’s Time To Party Now” di Star System, “All I Need Is Love” di Celine ed “I Want Your Love” di Antares, ormai all’ultima apparizione e che vanta un remix house di Alex Gaudino, futuro A&R della Rise. Connessi all’eurotrance che inizia a farsi spazio soprattutto nelle classifiche estere sono “It’s The Day After The Party” di DJ Zuul, sul modello di “Bellissima” di DJ Quicksilver, e “Where’s My Money” di Skanky, side project dei M.U.T.E. edificato sul cocktail tra acid line e pizzicato style. In mezzo, a mo’ di farcitura di un sandwich, il sample vocale tratto da “Cantgetaman, Cantgetajob (Life’s A Bitch!)” di Sister Bliss & Colette. Il risultato colpisce il mercato francese, spagnolo e tedesco. Ingredienti simili per “Dirty Tricks / Peer Gynt” di Neural-M, con cui Pagano, Mazzavillani e Caliandro riadattano il “Peer Gynt” di Grieg, “Electronic Trip” di Woodland (l’ennesimo di Cremlins e Zuul) ed “Harmonic Fly” di Vortex, combo di Davi DJ e Maurizio Pirotta alias Pirmaut 70. Scritto insieme al compianto Federico ‘Zenith’ Franchi e Mario Di Giacomo, il brano viene remixato dal citato Sosa sempre presso lo Stockhouse Studio di Gallo Salsotto. Galvanizzati dal successo ottenuto pochi mesi prima con “Clap On Top Of Me”, Boscolo e Moretti approntano il secondo ed ultimo brano di M.U.T.E. che si intitola “She Loves Me” e conquista un paio di licenze in Francia e Spagna. Questa volta l’ispirazione giunge da “Petal” dei Wubble-U, un discreto successo britannico del 1994. Una sorta di Gala, ma meno fortunata, è Nancy Sexton che firma “Never (Don’t Need Your Love)” solo col suo nome. Il brano è prodotto da Molella & Phil Jay che nell’estate di quello stesso anno le affidano il featuring vocale della loro “It’s A Real World” con risultati ben più lusinghieri. La Sexton comunque si rifà qualche anno più tardi interpretando il trittico degli E.Magic, “Prepare Yourself”, “Stop” e “Go!”, finiti nel catalogo di un’altra label della Time, la Spy, allora guidata da Rossano ‘DJ Ross’ Prini. Riconfezionato in nuove versioni più adatte alle platee della progressive è “My Body & Soul” dei Marvin Gardens, un successo del ’92 nato come rifacimento dell’omonimo dei Delicious del 1986 e di cui parliamo approfonditamente qui. Il remix di punta è di Space Frog che quell’anno fa il giro del mondo con “X-Ray (Follow Me)” e i suoni, prevedibilmente, sono praticamente gli stessi. Sulla falsariga giunge “God Of House” di Central Seven, un discreto successo oltralpe ma che da noi fatica ad imporsi. Con l’eurodance di “Stay With Me” e “Never Gonna Say Goodbye” si tira il sipario su Trivial Voice e Discover: entrambi sono prodotti da Romanini e Marcato mentre a cantare come turniste sono rispettivamente Sandy Chambers e Simone Jay. Alle battute finali pure Tunnel Groove con “Hot Stuff”, remake dell’omonimo di Donna Summer, e The Dog con “Without You”, cantato da Gianfranco ‘Jeffrey Jey’ Randone dei Bliss Team e, da lì a breve, negli Eiffel 65. Una specie di “Clap On Top Of Me” con rimandi al sound di Klubbheads, DJ Disco, DJ Jean e Vengaboys è “Don’t Clap Anybody” di Black Mushroom, progetto one shot dietro cui operano Max Boscolo, Luca Moretti e Rossano Prini.

Sundance, Sven Vath

Un paio di licenze messe a segno da Italian Style Production nella seconda metà del 1997: sopra “Sundance” dei londinesi Sundance, sotto “Fusion/Scorpio’s Movement” del tedesco Sven Väth

Intorno a metà anno il trend progressive è ormai in vistoso calo, le platee mainstream si sono già stancate dei pezzi strumentali e richiedono nuovamente vocalità. Non si fanno trovare impreparati Cremonini, Gilardi, Comis, Varola e Tegon con “Dance Around The World” di Rio, brano orecchiabilissimo che ruota su un giro di pianoforte simile a quello di “Two Can Play That Game” di Bobby Brown remixato dai K-Klass ed una stesura che rammenta i successi internazionali dei Livin’ Joy dei fratelli Visnadi. Nonostante i buoni propositi però il pezzo fatica ad emergere dall’anonimato. Resa simile per “Get Down On It” di Gravity One, cover dell’omonimo di Kool & The Gang assemblata sempre dal team della Prisma Record a Padova. Un altro remake è quello di “Ring My Bell” di Anita Ward realizzato dagli Star System. Arriva dall’estero invece “Sundance” del progetto omonimo creato da Mark Shimmon e Nick Woolfson. Sfruttando un celebre sample di “The New Age Of Faith” di L.B. Bad del 1989, già ripreso nel ’93 dai Sabres Of Paradise capitanati dal compianto Andrew Weatherall in “Smokebelch II”, i londinesi creano un brano che in estate spopola nelle discoteche ibizenche e che contribuisce, insieme ad altri, a sancire la commercializzazione della trance. Passando per la poco nota “Mediterranea” di Mundo Nuevo si raggiunge l’ultima apparizione di Dirty Mind che avviene sotto il segno della progressive con “Millennium”, riadattamento del brano scritto da Mark Snow per l’omonima serie televisiva. Artefici sono DJ Dado e l’inseparabile Gallo Salsotto. Atmosfere progressive trance sono pure quelle di “How U Feel” di Headroom, traccia proveniente dalla Germania che vanta i remix di Sash! e dei Brooklyn Bounce ma insufficienti per intrigare il mercato italiano. Luca Moretti si inventa l’ennesimo alias, Sunrise, scelto per “Theme From Furyo”, reinterpretazione eurotrance del celebre tema cinematografico scritto da Ryuichi Sakamoto per “Merry Christmas Mr. Lawrence”. Chiude, a fine anno, un’altra licenza, “Fusion / Scorpio’s Movement” di Sven Väth. Entrambi i brani, estratti dall’album “Fusion” edito da Virgin, recano la firma del celebre DJ di Francoforte e del musicista Ralf Hildenbeutel (insieme erano i Barbarella nei primi anni Novanta). Sul 12″ presenziano pure i remix dei Fila Brazillia e Doctor Rockit alias Matthew Herbert.

1998, capolinea, si scende!

Gabriele Pastori ed Andrea Mathee, reduci del discreto successo raccolto qualche tempo prima con “I Try” di Activa su UMM, collaborano col DJ Alberto Castellari tirando fuori dal milanese Spirit Studio il brano “Endless Wind” che firmano come Lifebeat. A trainarlo, ma senza particolari esiti, la versione di DJ Dado. A metà strada tra progressive e trance è “Magic Fly” di Atrax, progetto curato dai fratelli Visnadi che ripesca l’omonimo degli Space intrecciato ad un bassline che pare pagare il tributo al “Blade Runner (End Titles)” di vangelisiana memoria. Partorito in seno al fenomeno cover è pure “Original Sin” di Cremlins, remake del pezzo degli australiani INXS che giusto pochi mesi prima perdono tragicamente il loro cantante, Michael Hutchence. Una sorta di mash-up tra “The House Of God” di DHS e la base del pluridecorato remix di “It’s Like That” dei Run-DMC realizzato da Jason Nevins è “Tar-Zan” di BB’s. Dentro ci sono anche svirgolate di TB-303 ma soprattutto l’urlo di Tarzan che chiarisce la ragione del titolo. A produrlo, per la tedesca Orbit Records da cui Italian Style Production rileva la licenza, sono Ramon Zenker (quello degli Hardfloor, Interactive o Phenomania di cui si parla qui) e il compianto Gottfried Engels, fondatore tra le altre cose della popolare Tiger Records. A sorpresa riappare Deadly Sins col remix di “We Are Going On Down” rimodellato sulla base del citato remix di Nevins. DJ Zuul invece in “Feel The Music” rispolvera l’hook vocale di “Feel The Rhythm” di Jinny, collocandolo in un contesto eurotrance a cui crede la sopramenzionata Orbit Records che lo pubblica in territorio tedesco. Tratto dal catalogo della britannica Inferno è “Dreaming” di Ruff Driverz Presents Arrola, un grosso successo in Nord Europa esportato persino negli Stati Uniti ma che non riesce proprio ad attecchire in Italia dove la trance trova un terreno decisamente poco fertile. Sulla falsariga dei più recenti successi di DJ Dado (“Coming Back”, “Give Me Love”) che abbandona la dream progressive a favore della pop dance, si inseriscono i Seven Days con “Send Me An Angel”. Dietro le quinte operano i Devotional (Cristian Piccinelli, ex Media Records ed artefice del successo di Simone Jay di cui si parla qui) e Tiziano Giupponi. Luca Moretti, prossimo alla consacrazione con Triple X (prima) ed Antillas e Rhythm Gangsta (poi) porta in scena per l’ultima volta Sunrise con “Ayla”, rifacimento del brano omonimo del tedesco Ingo Kunzi alias Ayla, risalente al ’96 e diventato un classico della trance mitteleuropea. Sul lato b del disco è incisa “Loco Train”, prog trance trascinata dal sample di un treno, idea che nello stesso anno viene sfruttata con più efficacia da Robbie Tronco nella sua “Fright Train”.

Miss Kittin & The Hacker - 1982

“1982” di Miss Kittin & The Hacker è il disco che nell’autunno ’98 chiude in modo quasi definitivo l’attività di Italian Style Production

In autunno giunge “1982” del duo francese Miss Kittin & The Hacker, tra i brani che gettano le fondamenta dell’electroclash, genere all’apice nei primi anni Duemila. Il pezzo, preso in licenza dalla label tedesca di DJ Hell, l’International Deejay Gigolo Records, è «un viaggio a ritroso nel tempo attraverso un testo con rimandi a Jean-Michel Jarre (“Let’s go to the rendezvouz”), Klein & M.B.O. (“DJ play deja vu”), Visage (“I see your face fade to grey”), New Order (“just wait for the blue monday”), Kraftwerk (“you’re a robot, man machine”), Soft Cell (“I don’t want a tainted love”), Yazoo (“but don’t go”), Telex (“just play me moscow discow”), e Depeche Mode (“I just can’t get enough”)» (da Gigolography) e diventa un successo inaspettato entrando in numerose compilation, programmazioni radiofoniche e classifiche di vendita. Sul lato b si trovano “Gigolo Intro” e “Frank Sinatra”, rilanciata tempo dopo attraverso una versione più incisiva. È il disco che tira il sipario in modo quasi definitivo sull’Italian Style Production.

2004, una falsa ripartenza

ISP 2004

Sopra il 12″ di “Make It Right Now” di DJ Damm Vs Aladino (2004), sotto il cofanetto “The Best Of Italian Style” del 2014

I primi anni Duemila vedono l’affermazione di una seconda ondata italodance, partita intorno al 1998. Alcuni artisti e compositori, già protagonisti nella fase precedente, si ripresentano con nomi diversi (Eiffel 65, Paps N Skar, DJ Lhasa giusto per citarne alcuni), altri invece appartengono ad una nuova generazione cresciuta coi successi del decennio precedente e desiderosa di emularne lo spirito e i risultati. Il suono identificativo di tale passaggio, come descritto in Decadance Appendix, vede la preminenza di «basso in levare, ritmiche appena colorite dall’uso del charleston della batteria e riff portanti eseguiti con suoni corposi di sintetizzatore che riprendono la linea melodica vocale». Sono proprio questi ingredienti a riportare in vita l’Italian Style Production nel 2004, sia nel nome che nel layout grafico iniziale. Per i nostalgici è un vero tuffo al cuore, rimarcato peraltro dal contenuto musicale che attinge dagli indimenticati 90s. L’ISP 1400 infatti è un remix di “Memories” dei Netzwerk, un classico del ’95. A realizzarlo sono i Promise Land, coppia di DJ romani formata da Fabio Ranucci e Nazario Pelusi. Segue un secondo 12″ ancora legato a doppio filo con gli anni Novanta e, in questo caso, con la stessa Italian Style Production: solcate sul mix sono due nuove versioni di “Make It Right Now” realizzate dal fantomatico DJ Damm (in realtà acronimo di Diego Abaribi Mauro Marcolin, autori del brano originale del 1993). Abaribi, tornato ad occuparsi di musica dopo diversi anni di assenza, fa resuscitare Aladino nel 2002 con “Feel The Fire”, interpretato da un ancora poco noto Sagi Rei e pubblicato dalla Moremoney, sublabel del gruppo Melodica che lui stesso fonda qualche tempo prima insieme a Bob Salton. Per Italian Style Production però si tratta solo di una falsa ripartenza. Dopo l’uscita di DJ Damm l’etichetta bresciana si congeda definitivamente, fatta eccezione per la raccolta riepilogativa “The Best Of Italian Style”, uscita nel 2014 e racchiusa in un cofanetto contenente cinque CD con una manciata di brani tratti dal repertorio Line Music, e la conversione del catalogo in formato digitale avvenuta attraverso la T30, l’ennesimo marchio raccolto sotto l’egida del gruppo Time di Giacomo Maiolini.

grafici ISP

Grafici che sintetizzano l’attività di Italian Style Production: a sinistra l’istogramma relativo al numero di pubblicazioni annue, a destra l’aerogramma che evidenzia la categorizzazione stilistica. I dati presi in esame potrebbero essere soggetti a marginali errori (per quei dischi, ad esempio, pubblicati in un anno diverso rispetto a quello riportato sull’etichetta).

Un mercato che dà i numeri

L’impatto che internet (specialmente il peer-to-peer e la pirateria) ha sulla discografia dopo il 2000 è devastante ma già qualche anno prima il comparto dance inizia a risentire di una crisi, acuita dalla povertà di idee e clonazioni troppo frequenti che ingolfano e saturano il mercato. Inoltre la chiusura di aziende-simbolo come Flying Records e Discomagic non è incoraggiante ed infatti negli ultimi anni Novanta il business comincia a cristallizzarsi. Sono ormai lontani i tempi in cui Italian Style Production immette a nastro dischi sul mercato non lasciandosi intimorire da risultati altalenanti. Dallo studio allestito al 5 in Via Sabotino, a Brescia, esce davvero un mare di musica che adesso però necessita di un ridimensionamento. Giacomo Maiolini, in un articolo apparso sulla rivista Trend a dicembre 1998 a cura di Nello Simioli ed Eugenio Tovini, afferma che «il mercato diventa ogni giorno più difficile e solo un costante lavoro permette di mantenere una quota significativa dei 12″. Per i discografici della dance c’è anche lo scoglio della scarsa considerazione in cui è tenuto questo genere dai grandi media. Non si capisce perché un progetto come The Tamperer non possa essere ospitato a Sanremo con tutta la dignità che merita dopo aver venduto oltre un milione di copie. In ogni caso la mia società ha da qualche tempo deciso di ridurre radicalmente le uscite pubblicando solo quei dischi che hanno ricevuto un giudizio positivo nella fase di pre-release dalle radio o dai partner stranieri. Con questa strategia si raggiungono contemporaneamente due risultati: agevolare il compratore verso prodotti curati con particolare attenzione e garantire un’alta professionalità anche promozionale su ogni lavoro pubblicato dalle nostre etichette». Il calo delle pubblicazioni a cui si riferisce Maiolini appare evidente prendendo in esame lo storico di Italian Style Production che, è bene rammentarlo, è solo una delle sublabel del gruppo Time Records. Il biennio più prolifico di uscite risulta essere il 1993-1994, rispettivamente con 75 e 62 pubblicazioni. Dal ’95 in poi invece si avvia una drastica diminuzione che coincide in pieno con quanto il bresciano afferma in quell’intervista di fine ’98 di cui si è detto sopra. A livello stilistico invece, il filone maggiormente battuto è quello dell’eurodance con oltre 200 pubblicazioni. Seguono la house (poco più di 100), l’eurotechno (una quarantina) e dream progressive/trance (una trentina). Dal punto di vista collezionistico, infine, una stima, seppur parziale, la si ottiene analizzando i dati emersi dal marketplace di Discogs. “Sky” di Brenda, “My Love” di Torricana, “Dirty Tricks / Peer Gynt” di Neural-M e “Keep On Movin'” di Yama sono tra quelli pagati a prezzo più alto (rispettivamente 250 €, 160 €, 125 € e 104 €) e si difendono bene anche “Cannibal” di Black 4 White (100 €), “I Want Your Love” di Etoile e “Keep Me Going On” di D-Inspiration (entrambi 95 €), “The Big Beat” di Nouvelle Frontiere (89 €), “That Is Really Mine” di Black House (69 €), “U Love Me” di Delta (67 €) e “Baby” di Mytho (63 €). Sul fronte grafico, in ultima analisi, Italian Style Production alterna artwork studiati appositamente, adoperati in prevalenza nelle prime annate d’attività, a copertine decorate con lo stesso layout e colore dell’etichetta centrale sino a più banali ed economiche standard con sticker applicati nella parte superiore per cui si opta nell’ultima fase operativa. Con circa quattrocento pubblicazioni edite in otto anni, l’etichetta bresciana si è saputa imporre in Italia e all’estero, seppur con risultati alterni. Da un lato la prolificità ha alimentato una collana di brani che, in taluni casi, si specchiavano l’uno nell’altro differendo più per nomi che per stile, ma del resto quello della dance mainstream, è risaputo, è un mercato che ha sempre necessitato di novità costanti e il persistente utilizzo di nuovi alias orchestrati dai medesimi autori è servito a convincere il pubblico di avere a che fare di volta in volta con artisti diversi; dall’altro giovani ed intraprendenti DJ affiancati da validi musicisti sono riusciti a consegnare agli annali pezzi diventati “sempreverdi” o rivalutati a posteriori. Da rimarcare infine l’ingenuità delle prime annate, in cui non mancano spunti interessanti ma talvolta sviluppati in modo poco incisivo come avviene sovente all’italo house a cavallo tra ’89 e ’90. A conti fatti Italian Style Production lascia un ricordo indelebile nei cuori di tanti appassionati di dance music, oltre ad aver rappresentato una “palestra” dove moltissimi hanno fatto gavetta prima di spiccare il grande salto. (Giosuè Impellizzeri)

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Ricci DJ – DJ chart agosto 1997

Ricci DJ, Trend Discotec, agosto 1997

DJ: Ricci DJ
Fonte: Trend Discotec
Data: agosto 1997

1) Analogue Reflections – Controllers
Un disco di cui si conosce ben poco: certa è la provenienza, dai Paesi Bassi, e lo stile, a metà strada tra techno ed hard trance. Praticamente nulle le coordinate relative all’autore, un tal Ronnie Warhole che pare abbia inciso solo questo 12″ pubblicato dalla ReflecT Records, una delle etichette raccolte sotto l’ombrello della XSV Music e la cui operatività resta circoscritta ad appena tre uscite. Sull’ultima, sempre del ’97, spicca il nome di un futuro idolo delle platee mondiali, Tiësto.

2) Spectrum – Pratikus / Atomizer
Con la doppia a-side degli Spectrum (David Lazzari e Jean-Philippe Nicolier), la Primate Recordings dà avvio ad una serie di uscite su 10″ colorati. Per l’occasione il disco verde accoglie nei propri solchi due brani: sul lato a “Pratikus”, una techno circolare edificata sull’essenzialità dei suoni disposti a mo’ di marcetta (sul medesimo schema usato da Christopher Just nella sua “I’m A Disco Dancer (And A Sweet Romancer)”), sul b “Atomizer”, frutto della stessa metodologia compositiva sviluppata nello studio allestito a Ginevra.

3) Thomas Krome – Wood Carver
È il doppio mix che apre il catalogo della Code Red, sublabel della più nota Drumcode di Adam Beyer. A firmarlo un altro degli eroi della techno svedese, Thomas Krome, che muove i primi passi da produttore intorno alla metà degli anni Novanta guadagnandosi una discreta fama nell’ambiente europeo. Sette gli untitled incisi, disponibili anche su vinile colore rosso, tutti accomunati da una vena millsiana (A2) che sfila in compressioni al limite della distorsione (B1, B2).

4) Juno Reactor – God Is God (CJ Bolland Remix)
“God Is God” resta uno dei pezzi più noti del repertorio dei Juno Reactor, band britannica rimasta negli annali per una caleidoscopica vena creativa capace di riunire sotto lo stesso tetto world music, ambient, techno, industrial e goa trance. La versione originale del brano, estratto come singolo dall’album “Bible Of Dreams”, è annessa al cosiddetto chemical beat (quello battuto ai tempi da gruppi come Chemical Brothers, Propellerheads o Fluke) e finisce un paio di anni dopo nel film “Beowulf” di Graham Baker. Il remix scelto da Ricci è più ballabile, realizzato da CJ Bolland che quell’anno ha dalla sua parte una hit, “The Prophet”, ma degne di menzione sono anche le due versioni approntate dai Front 242 intitolate Godzilla e Grisha. A prendere il disco in licenza per l’Italia è la Media Records che lo pubblica su etichetta GFB.

5) Oliver Ho – Chasm EP
“Chasm” è l’ennesimo degli extended play contenenti brani privi di titoli che escono a pioggia negli anni Novanta. Al suo interno l’autore britannico convoglia loop febbricitanti che grondano sudore (B1) e vortici ipnotici (B2, A1) ma la sciabolata più intensa giunge con la A2, dove i pattern si arroventano ed ardono in un braciere di hihat e cimbali shakerati orchestrati da un suono che si ripete come un mantra sin dalle prime misure. Oliver Ho tornerà su Drumcode dopo oltre dieci anni con “Resistor EP” firmato Raudive, in un periodo in cui la techno perde inesorabilmente intensità e vede affievolire la sua fiamma sotto il vento del neo minimal.

Ricci & Cirillo (199x)

Ricci e Cirillo in una foto scattata presumibilmente nel 1994

6) Ricci – X Clone (Remix)
La versione originale edita in primavera dalla Sushi del gruppo American Records, di cui si può leggere la monografia qui, si muove nei meandri dell’hard trance dotata di un bassline a trazione anteriore. I due remix usciti a ridosso dell’estate invece reinterpretano la formula con linguaggi diversi: Sinus opta per una techno minimale pilotata da una cassa in evidenza, suoni filo acid e scariche di snare, medesimi elementi che fanno la fortuna della sua “Blob” remixata giusto pochi mesi prima dallo stesso Ricci. Discorso completamente diverso per la versione di Miss Groovy: Paola Peroni, reduce dall’ottimo responso del “Rough And Tough EP” trainato da “Jungle Sickness” promosso Disco Makina nel programma radiofonico Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui, intaglia un remix hardcore squarciato in più punti da melodie accennate che rompono la monotonia della trapanante cassa distorta.

7) 2 Without Heads – U And Me
Nato nel ’94 col brano “Trouble Of The World” prodotto da Pieradis Rossini, Graziano Fanelli e la sopracitata Paola Peroni su etichetta DJ Movement, il progetto 2 Without Heads riappare tre anni più tardi con la happy hardcore di “U And Me”. Seppur non sia esplicitato, è presumibile che la versione a cui facesse riferimento Ricci fosse proprio la sua, energica hard trance con inflessioni acid sullo stile Junk Project o AWeX e melodicamente costruita sul modello di brani come “X-Santo” di DJ Jan (una club hit di quel periodo) e “Lord Of The Universe” di David Craig. Il 10″ è edito dalla Atomic Energy Records, sublabel della DJ Movement che in catalogo annovera la licenza di “Loving You” di Rob’s Project ovvero l’olandese DJ Rob a cui peraltro viene affidato un remix della stessa “U And Me”.

8) Sinus – Drops EP
Non è uno degli EP più noti di Fabrizio Pasquali pur adoperando gli stessi ingredienti che fanno la fortuna del progetto Sinus tra ’96 e ’97. La main track, “Drops”, è dominata dai tipici suoni della progressive nostrana, con pause e scatti improvvisi sino alle rullate esasperate nella versione Le Cave Drum (un omaggio al locale in provincia di Vercelli dove Pasquali, noto anche come DJ Pareti, è resident ai tempi). Spazio anche ad un terzo brano, “Simplex”, in cui la classica kick spaccatimpani incornicia una flessuosa linea di synth filo acid/bleepy.

9) Deep Ink – Spellbound
Penultima uscita della Data Records del gruppo Europlan, di cui abbiamo parlato tempo fa in questa intervista ad Alfredo Violante, “Spellbound” macina al suo interno ritmo ed atmosfere trancey grazie ad emozionali evoluzioni di pad. Dietro Deep Ink si cela Guido Gaule (e un non meglio identificato P. Henzler), responsabile insieme al citato Violante di quella techno/trance che intorno alla metà degli anni Novanta intriga parecchio i DJ europei: tra i tanti si segnalano “Radiations” di Radiations, impreziosito dal remix di Francesco Farfa, “Awakenings” di Atlantis, “Numera Stellas” di Solaris, “Life Is So Realistic” di Moogability e “Guitara Del Cielo” di Barcelona 2000, quest’ultimo oggetto di un inatteso airplay radiofonico nel nostro Paese.

10) Emmanuel Top – Turkich Bazar
I brani di Emmanuel Top, in particolare quelli editi nei primi anni Novanta sulla sua Attack Records e facilmente identificabili mediante il colore usato per l’etichetta centrale, sono diventati evergreen a tutti gli effetti ma, in un certo senso, lo sono sempre stati, anche quando non si parla ancora di culto per il passato e di serate remember. “Turkich Bazar”, insieme all’ormai celebre “Acid Phase”, è tra i pezzi più amati del produttore francese. Pubblicato in origine nel 1994, si sviluppa su un crescendo ritmico costantemente graffiato da unghiate di TB-303 in cui trova alloggio uno spoken word di Jim Morrison (“the music was new, black, polished chrome and came over the summer like liquid night”, da “Black Polished Chrome” presente nell’album “An American Prayer”). Il ’97 vede l’uscita di due remix, quello acid trance dei tedeschi Future Breeze, all’apice del successo commerciale con la hit “Why Don’t You Dance With Me”, e quello hypno trance di Massimo Vivona, italiano trapiantato in Germania diventato noto con le pubblicazioni su Headzone. Non sappiamo se Ricci intendesse segnalare la versione originale o uno di questi remix a cui nel tempo se ne aggiungono ancora altri tra cui quelli di Thomas P. Heckmann e di Samuel L Session.

(Giosuè Impellizzeri)

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Phenomania – Who Is Elvis? (No Respect Records)

Phenomania - Who Is ElvisI primi anni Novanta vedono la diffusione e popolarizzazione della techno in Europa. Gran parte dei produttori del Vecchio Continente però non proseguono sul modello dei creatori di Detroit ma ne forgiano un altro che attinge prevalentemente dalla new beat e che punta ad essere immediatamente riconoscibile per l’utilizzo di suoni artificiali (ossia non riconducibili a strumenti tradizionali) e ritmiche incalzanti, spesso contraddistinte da una cassa marcata. Questo mix, che in Italia degenera in un fiume di pubblicazioni messe sul mercato da case discografiche che si appropriano di tale “nomenclatura” con fini meramente speculativi e che quindi davvero poco e nulla spartiscono con la techno, diventa un filone battuto per un paio d’anni circa e da cui provengono diversi impressionanti successi.

È il caso di “Who Is Elvis?” realizzato dai tedeschi Ramon Zenker (dietro agli Hardfloor e a dozzine di altri act come Bellini, Fragma o Perplexer) e Jens Lissat che per l’occasione coniano il progetto Phenomania, uno dei tanti “brand” utilizzati per marchiare la loro attività produttiva in quel decennio. «Facevo il DJ già da molto tempo» racconta oggi Lissat. «Nel 1978 acquistai il mio primo 12″, “Chase” di Giorgio Moroder. Poi, durante l’estate del ’79, vidi un DJ mixare al Trinity, famosa discoteca della mia città natale, Amburgo: quella notte fu determinante per la mia vita! Dopo pochi giorni comprai due giradischi Technics SL-B3 e un mixer ed iniziai a prendere dimestichezza con la strumentazione, senza alcun aiuto esterno. Ai tempi non esistevano mica i tutorial. Ad ottobre di quell’anno sapevo già mixare in modo professionale ed avevo appena quindici anni».

Jens Lissat @ Trinity (Hamburg Germany 1981)

Un giovanissimo Jens Lissat in consolle al Trinity di Amburgo, nel 1981, la discoteca dove solo un paio di anni prima scocca la scintilla per il DJing

Lo step successivo è la composizione, nonostante ai tempi non sia affatto facile procurarsi il necessario per produrre musica visti i costi ancora proibitivi degli strumenti. «La mia prima esperienza professionale in studio di registrazione risale al 1984 quando realizzai il remix di “Dancing In The Dark” di Mike Mareen» ricorda ancora Lissat. «Lo feci allo Star Studio, ad Amburgo, lì dove vennero registrati anche alcuni brani dei Modern Talking. Negli anni precedenti però ero già considerato il “re tedesco dei bootleg”. Realizzavo quelli che venivano chiamati medley e successivamente mash-up (pratica a cui abbiamo dedicato un ampio reportage qui, nda), stampandoli e vendendoli con successo. Ero particolarmente noto in Germania per questo tipo di attività e in virtù delle mie capacità nel 1986 mi offrirono la possibilità di realizzare un megamix ufficiale per Phil Collins che venne pubblicato dalla WEA. Lo realizzai nel Try Harder, lo studio di Peter Harder con cui avrei collaborato a lungo negli anni a seguire. Fu lui ad insegnarmi ad usare l’Atari 1040ST e il programma Creator per produrre musica. Sottolineo però di non aver mai studiato alcuno strumento classico anche se so suonare il pianoforte».

Work The Housesound

La copertina di “Work The Housesound”, il brano che Lissat realizza con Peter Harder nel 1987 come chiara imitazione dei pezzi provenienti da Chicago

Proprio con Harder, nel 1987, Lissat incide “Work The Housesound”, uno dei primi brani house realizzati in Germania. La copertina contiene chiare citazioni grafiche di “The House Sound Of Chicago”, la celebre serie della D.J. International Records, mentre la traccia suona come una sorta di rework di “Love Can’t Turn Around” di Farley Jackmaster Funk & Jesse Saunders sequenzata sul disegno ritmico di “Blue Monday” dei New Order. Pure i nomi degli autori, J.M. Jay ed Hardy, ammiccano a quelli che ai tempi giungono dalla discografia house d’oltreoceano. «”Work The Housesound” fu una delle mie prime produzioni in assoluto» spiega a tal proposito l’artista tedesco. «Nel 1986, durante un viaggio a New York, comprai un mucchio di dischi di un nuovo genere che stava iniziando a prendere piede, la house music, e proposi quel sound al Voilà, discoteca di Amburgo dove ero resident. Poco tempo dopo conobbi Harder e gli dissi che avrei voluto incidere un pezzo simile a “Love Can’t Turn Around”. Non sapevo davvero nulla sulle Roland TR-808, TR-909 e TB-303 ma cercai ugualmente di fare del mio meglio. Il risultato fu “Work The Housesound”, il primo disco house prodotto in Germania. Per l’occasione decisi di darmi un nome simile a quello dei ragazzi di Chicago, J.M. Jay, acronimo di Jack Master Jens. Vendemmo circa diecimila copie, mica male per un disco di debutto».

La house da lì a breve esplode in Europa e pochi anni più tardi, come anticipato, tocca anche alla techno, riconcepita su nuove basi ideologiche, più schiettamente connesse al ballo. «In realtà la techno di Detroit era più vicina alla house» sostiene Lissat, «mentre la techno europea nata ad inizio degli anni Novanta attingeva dalla new beat belga e dalla EBM tedesca. Techno, per me, è una “cosa” europea, mentre house ed acid invece sono riconducibili agli Stati Uniti e Gran Bretagna». Nel 1991 quindi, sull’onda crescente della europeizzazione della techno, esce “Who Is Elvis?”, contraddistinto da una costruzione tipicamente ravey ed un sample vocale di Elvis Presley che chiarisce la ragione del titolo. «Ero in tour oltremanica col progetto Off-Shore (quello di “I Can’t Take The Power”, nda) che era entrato nella top ten, e a Londra acquistai un sintetizzatore Roland SH-101» ricorda Lissat. «Tornato a casa andai in studio, insieme a Ramon Zenker, per provare questa nuova macchina ed iniziai a strimpellare una linea di basso con due dita, scegliendo un saw bass. A quel punto creammo un loop ritmico ispirato da “The House Of God” di D.H.S. e una drum part con la TR-909. Nella prima versione approntata c’era la mia voce ma alla fine optammo per quella campionata di Presley. In appena quattro ore il pezzo, diventato uno dei più grandi inni della techno di prima generazione, era pronto».

Sempre nel 1991 “Who Is Elvis?” viene ripubblicata ma utilizzando il nome Interactive, progetto che Zenker e Lissat fondano l’anno prima col brano “The Techno Wave”. Una maggiore spinta promozionale è garantita dal video che ne favorisce la diffusione nel mainstream. «Vendemmo all’incirca 15.000 copie di Phenomania (preso in licenza per l’Italia dalla Flying Records dietro segnalazione e suggerimento di Mimmo Mennito che lavora come import buyer presso il polo distributivo partenopeo, nda) ma poi decidemmo di sospendere la stampa e cambiare nome optando per Interactive, un altro nostro progetto che aveva già raccolto particolari consensi» spiega Lissat. «Come Interactive infatti finimmo col raggiungere la soglia di circa 180.000 copie vendute, entrammo nella top 20 tedesca e le compilation in cui il brano fu inserito superarono persino il milione di copie. Rammento pure una cover prodotta in Italia firmata Feno-Mania (sulla fittizia Unrespect Records del gruppo Discomagic, che parodiava ironicamente l’originaria No Respect Records, nda), del tutto illegale e che ebbe ovviamente meno successo della nostra traccia».

Jens Lissat e Ramon Zenker @ Studio Bolkerstrasse Düsseldorf 1993

Ramon Zenker e Jens Lissat nello studio in Bolkerstraße, a Düsseldorf, nel 1993

“Who Is Elvis?” è il brano che taglia il nastro inaugurale della No Respect Records, fondata ad ottobre del 1991 da Zenker e Lissat, rimasta in attività sino al 2000 per poi essere rilanciata, nella dimensione digitale, nel 2008. Nel catalogo annovera artisti come DJ Hooligan (il futuro Da Hool), Jürgen Driessen alias Exit EEE e i Mega ‘Lo Mania di “Close Your Eyes”, coverizzata dal nostro Moka DJ nel 1996. «La No Respect Records nacque proprio con “Who Is Elvis?”» chiarisce Lissat. «Ai tempi collaboravamo con diverse etichette a cui però avevamo già dato altri progetti quindi proposi a Ramon di crearne una nostra per pubblicare Phenomania. Lui annuì e in breve propose il nome, contrariamente a quanto accadeva di solito visto che ero io a creare pseudonimi. Insomma, fu proprio l’uscita di “Who Is Elvis?” a sancire la nascita della No Respect Records con la quale abbiamo lanciato un sacco di nuovi artisti destinati a diventare grandi nomi della scena. Ai tempi gestire un’etichetta discografica era piuttosto complesso ed impegnativo, bisognava continuamente far arrivare le white label ai DJ e soprattutto poter contare su un distributore efficiente. Per fortuna il nostro (Discomania, nda) lavorava benissimo».

Tra 1992 e 1993 i Phenomania remixano vari brani tra cui “Poing!” dei Rotterdam Termination Source, che di quella invasione rave techno è un inno insieme ad altri come “James Brown Is Dead” di L.A. Style, “Dominator” degli Human Resource, “Anasthasia” dei T99 e “Pullover” di Speedy J, ed incidono nuovi singoli come “Caramelle”, “Strings Of Love” (una sorta di mash-up tra “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim e “All You Need Is Love” dei Beatles), “He Chilled Out” ed “Amazonas”, ma il successo pop sembra ormai essere sfumato. Non a caso la storia dei Phenomania si interrompe, anche se a tal proposito Lissat dice che la ragione fu legata a ragioni private. La coppia di dioscuri teutonici prosegue comunque la collaborazione puntando su progetti paralleli, in primis il menzionato Interactive, che inanella una serie di hit europee, da “Dildo”, per cui viene girato un ironico videoclip ad “Elevator Up And Down”, da “Amok” a “Can You Hear Me Calling” passando per l’happy hardcore di “Forever Young”, cover dell’omonimo degli Alphaville, “Living Without Your Love”, “Tell Me When” e “Sun Always Shines On TV”, rilettura del classico degli a-ha trainata da un video in cui viene coinvolto, come modello/attore, un giovane Tobias Lützenkirchen, poco tempo dopo finito anche nella line up di Paffendorf, ennesimo act curato da Zenker.

Interactive (premiazione nel 1994)

Gli Interactive, nella loro lineup completa, premiati nel 1994 per le 500.000 copie vendute di “Forever Young”: da sinistra Marc Innocent, Ramon Zenker, Andreas Schneider e Jens Lissat

«Interactive fu una mia idea e Ramon divenne immediatamente partner nell’avventura» rammenta ancora Lissat. «Dietro il brano d’esordio, “The Techno Wave”, c’è una storia che mi riguarda in prima persona: facevo il DJ in un locale di Dortmund ma desideravo tornare nella discoteca in cui lavoravo prima, il Königsburg Krefeld, a Krefeld. Così chiesi al proprietario se potessi essere nuovamente il resident il sabato sera e per convincerlo gli offrii una produzione discografica, ovvero “The Techno Wave” con cui nacquero gli Interactive (sul retro della copertina, infatti, c’è uno speciale ringraziamento abbinato alle foto della discoteca dove peraltro viene girato un video, nda). Nel nostro repertorio vantiamo numerose hit ma nonostante ciò sono salito sul palco con la band davvero poche volte essendo un DJ e non un performer. A portare il progetto nella dimensione live furono invece Ramon e il cantante Marc Innocent. Il successo più clamoroso resta “Forever Young” che raggiunse la soglia delle circa 500.000 copie vendute. Erano gli anni in cui nasceva quella che mi piace definire “business techno” che però non rientra esattamente nei miei gusti. Cedemmo l’album “Touché” alla Blow Up del gruppo Intercord incassando un ottimo anticipo economico. Il mio preferito resta “Dildo”, del 1992».

Phenomania tour Italia 1992

Flyer del 1992: i Phenomania sono tra gli ospiti di rave romani

Molti singoli degli Interactive arrivano anche in Italia dove, inizialmente, il gruppo può contare sul supporto di Albertino che peraltro firma un remix, con Giorgio Prezioso, di “Dildo” (il Wighida Remix realizzato nello studio di David X, di cui abbiamo parlato qui). Lo stesso Prezioso si occupa di “Elevator Up And Down”. I tedeschi ripagano con la loro versione di “Je Le Fais Express (Satisfy)” dei Fishbone Beat, recensiti qui. Quasi contemporaneamente Lissat sbarca nel nostro Paese col brano “Energy Flow”, edito da R&S e preso in licenza dalla Time Records che nel 1993 lo convoglia su una delle sue sublabel, la Downtown. «L’Italia è stata fondamentale nella scena techno» dichiara Lissat, «ho tantissimi ricordi dei rave romani dei primi anni Novanta ma soprattutto del Cocoricò, la mia discoteca preferita in assoluto di quel periodo. Inoltre sono particolarmente legato ad “Energy Flow” perché fu il primo brano che firmai col mio nome anagrafico. Proprio l’anno scorso ho realizzato un remix con Ramon. Lo considero un pezzo senza tempo. Nel 2020 festeggio il quarantennale nel mondo dei club e non mi sono ancora stufato anzi, ho ancora tanta voglia di produrre buona musica» conclude il DJ tedesco. (Giosuè Impellizzeri)

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Das Modul – Computerliebe (Urban)

Das Modul - ComputerliebeInsieme ai Dune di cui si parla dettagliatamente qui, i Das Modul vanno annoverati tra gli act tedeschi che contribuiscono all’affermazione del genere happy hardcore. Attivi nello stesso periodo e peraltro militanti nelle fila della stessa casa discografica, la Urban, possono essere messi a confronto per sfumature stilistiche parecchio simili legate alla velocità sostenuta e all’uso di suoni e ritmiche di estrazione techno/hardcore. I Das Modul, in particolare, fanno sfoggio di voci cartoonesche gonfiate con l’elio analogamente a quanto avviene in altri pezzi-simbolo del filone happy hardcore come “Wonderfull Days” di Charly Lownoise & Mental Theo, “Luv U More” di Paul Elstak, “Tears Don’t Lie” di Mark’ Oh ed “Herz An Herz” di Blümchen.

Dietro le quinte ci sono i compositori e produttori Felix Gauder ed Olaf Roberto Bossi, già impegnati in progetti minori come Ke-4 ed O-Zone passati del tutto inosservati. Le sorti cambiano radicalmente ad inizio 1995 quando esce “Computerliebe”, cover di “Computerliebe (Die Module Spielen Verrückt)” dei Paso Doble. «Eravamo in uno studio di registrazione vicino Stoccarda per mixare il singolo di O-Zone, “Engel 07”, un pezzo che raccolse poco successo» racconta oggi Bossi. «Questo studio era dotato di una sala DJ con un archivio pazzesco contenente migliaia di dischi. Così, mentre Felix mixava “Expedition Zur O-Zone”, brano un po’ sperimentale privo di un’idea commerciale finito sul lato b del disco, io mi dedicai ad esplorare quell’immensa raccolta. Ascoltai per ore canzoni che, forse, avevo sentito l’ultima volta almeno dieci anni prima provando tutti i flashback che la musica può evocare in quel tipo di situazioni. Nella montagna di dischi trovai “Computerliebe” dei Paso Doble, tra i miei brani preferiti dell’epoca neue deutsche welle nei primi anni Ottanta. Il caso volle che al suono dei Paso Doble si sovrapponesse quello che veniva dallo studio dove Felix stava mixando a volume molto alto. L’incrocio del tutto casuale tra le due canzoni per me si rivelò magico. Chiamai Felix e lo misi al corrente di ciò che avvenne e il giorno dopo provammo a fare una cover di “Computerliebe” utilizzando i suoni di “Expedition Zur O-Zone” per replicare esattamente quello strano effetto di poche ore prima.

Il progetto Das Modul nacque quindi in modo del tutto estemporaneo, non c’era alcuna pianificazione. Se ben ricordo impiegammo tre giorni per finalizzare il brano. Come dicevo prima, ripartimmo dai suoni di “Expedition Zur O-Zone” combinati al ritornello di “Computerliebe” ma si prospettò presto il problema relativo ai vocal. La mia voce ci sembrò di stampo troppo new wave ed iniziammo a prendere in considerazione l’ipotesi di interpellare un cantante. Poi ricordai di aver ascoltato un pezzo underground con una frase pitchata, registrata lentamente e poi fatta suonare a velocità normale, da creare l’effetto Mickey Mouse. Felix si mise a fare dei calcoli per imitare quell’effetto col campionatore Akai. Cantai il brano molto lentamente e poi lui modificò la parte col sampler, un vero lavoraccio durato ore ed ore. L’effetto finale però ci sorprese completamente: forse eravamo riusciti a fare qualcosa di nuovo e nel contempo abbastanza commerciale».

Gauder e Bossi hanno ragione visto che la loro versione di “Computerliebe” vola altissima nelle classifiche di vendita in Germania, Austria e Svizzera. «Il singolo vendette, solo in Germania, 485.000 copie. Ci fermammo ad un passo dal traguardo per ottenere il disco di platino, allora fissato a 500.000 copie. A dire il vero, il successo è stato un po’ surreale perché eravamo al terzo posto della classifica ma nessuno ci conosceva. Io continuavo a fare la fila come tutti gli altri per entrare in discoteca sperando che il buttafuori mi lasciasse passare, e poi dentro vedevo migliaia di persone ballare e cantare la nostra canzone. Fu veramente bizzarro vivere quei momenti».

I Das Modul vengono messi sotto contratto dalla Urban, importante etichetta appartenente al gruppo Universal che in catalogo ha già artisti di successo internazionale come U96, Westbam, Marusha, Sunbeam e Leila K e che prende in licenza pure “I Will Find You” di Mohikana. «Andammo dal nostro manager, Andreas Läsker noto anche come DJ Bär, precedentemente manager dei Die Fantastischen Vier, pionieri del rap in tedesco, e gli facemmo ascoltare “Computerliebe”. Ci guardò stranito e dopo il primo ritornello telefonò a Tim Renner, allora capo della Urban e della Motor, e gli fece sentire il pezzo al telefono. Dopo circa un minuto Renner gli disse di non rivolgersi ad altri, lo avrebbero pubblicato loro. Fu la prima e purtroppo ultima volta che vendemmo un brano tanto velocemente. In brevissimo tempo cominciò pure la promozione per i DJ».

Il 1995 è l’anno di grazia per i Das Modul (attivi anche come Neonrave) che pubblicano il primo album “Musik Mit Hertz” contenente, oltre a “Computerliebe”, “Kleine Maus” (che vende 350.000 copie) e “1100101” entrambi estratti come singoli. “Musik Mit Hertz” è un tripudio di soluzioni happy hardcore, genere che tra 1995 e 1996 vive una parabola particolarmente fortunata a livello commerciale e che appassiona migliaia di giovani mitteleuropei. «Credo fossimo tra i primi (o i primi?) a fare happy hardcore in lingua tedesca, che ai tempi però chiamavamo happy rave. Poi seguì un’ondata di dischi e compilation simili ma non so quanto il nostro lavoro abbia influito a livello internazionale» continua Bossi.

Das Modul su Impulse (1995)

La stampa italiana di “Computerliebe” su Impulse, etichetta della Media Records

Anche l’Italia cede all’invasione della musica happy hardcore: “Computerliebe” viene licenziato dalla Impulse (gruppo Media Records) ed è il brano che apre la prima puntata di un programma radiofonico molto noto ai tempi, Molly 4 DeeJay condotto da Molella (a cui abbiamo dedicato un intero reportage qui). «Non sapevo questo aneddoto, mi sento onorato! Ogni volta che tornavo in Italia, visto che la mia famiglia è originaria di un paesino affacciato sul Lago Maggiore, sentivo sempre Radio DeeJay, anche prima di dedicarmi alla composizione musicale. Ancora oggi, grazie ad internet, ascolto programmi radiofonici italiani, molto spesso proprio Radio DeeJay. Quando “Computerliebe” entrò in classifica in Germania, il caso volle che mi trovassi in vacanza in Italia e in macchina ascoltavo il DeeJay Time. Albertino annunciò il “Disco Prezioso” del giorno ed era proprio “Computerliebe” remixata da Giorgio Prezioso. La mia voce viaggiava sulle frequenze di Radio DeeJay, a momenti andavo fuori strada per la gioia! Ho sempre ascoltato molta musica dance made in Italy, sin dagli anni Ottanta, come “I Like Chopin” di Gazebo, “Vamos A La Playa” dei Righeira e tantissimi brani italo disco dei Radiorama, Den Harrow e soprattutto Savage (l’album “Tonight”, del 1984, è ancora oggi uno dei miei preferiti in assoluto). Ho continuato a seguire la dance italiana anche negli anni Novanta con Gigi D’Agostino, Cappella o Prezioso e, a parte la musica da discoteca, apprezzo molto pure i cantautori italiani».

Nel 1996 i Das Modul incidono il secondo album, “Urlaub Auf Der M.S. Dos”, da cui vengono estratti altri singoli come “Robby Roboter”, “Frühlingsgefühle” e “Surfen” che però in Italia restano pressoché sconosciuti. L’uso costante dell’idioma tedesco lascia supporre che il duo volesse rivolgersi in primis al pubblico germanico, particolarmente ricettivo a quel genere musicale. «Sinceramente non fu una cosa studiata. Capitò che il primo singolo fosse in tedesco e poi siamo andati avanti così, senza pensarci troppo o supporre come avrebbe potuto reagire il pubblico di nazioni diverse» spiega Bossi.

Das Modul - cartolina autografata (1996)

La cartolina autografata da Dierk Schmidt e Denise Hameley che rappresentano l’immagine pubblica dei Das Modul nel 1996

Ad impersonare i Das Modul sulle copertine, nei video e nelle live performance, come spesso accade negli anni Novanta ma anche negli Ottanta, soprattutto in Italia, non sono i produttori bensì due personaggi immagine reclutati per l’occasione, Yasemin Baysal (in seguito rimpiazzata da Denise Hameley, da Stoccarda, e da Keren Mey, da Tel Aviv) e Dierk Schmidt. Mandare sul palco chi non sa suonare (e talvolta nemmeno cantare) col solo fine di coprire valenze sceniche è, come sostengono alcuni, una truffa perpetrata ai danni di chi ascolta o semplicemente un’esigenza, come viene spiegato in questo reportage? Bossi, a tal proposito, è molto chiaro: «Lo scandalo dei Milli Vanilli è rimasto negli annali ed io, da grande fan dell’italo disco, Den Harrow compreso, rimasi piuttosto deluso quando seppi che a cantare i pezzi più noti era Tom Hooker. Credo però che gli anni Novanta fossero un po’ diversi perché tutto era leggero e certe volte intenzionalmente ironico. Era piuttosto palese che non fosse la voce di Yasemin Baysal a scandire “Computerliebe”, contrariamente a “Frühlingsgefühle” che fu cantata veramente da lei. Tuttavia rimase solo un esperimento visto che a contraddistinguere i Das Modul era la mia voce col pitch fx, particolarmente adatta a “Robby Roboter”».

L’ultimo singolo dei Das Modul esce nel 1998 e si intitola “Ich Will”, ancora happy hardcore ma forse fuori tempo massimo per quello stile la cui popolarità inizia a calare già nel 1997. «Purtroppo fummo un po’ sfortunati. Sebbene la Urban ci avesse supportato con una grande campagna di marketing e il pezzo fosse nella tracklist di una delle compilation più note dei tempi, “Bravo Hits”, il CD non raggiunse puntualmente i negozi. Quel ritardo vanificò la promozione e la casa discografica decise di non rinnovare il contratto. Pochi anni più tardi, nel 2001, “Computerliebe” viene ripescata dal duo degli E-Love e dall’etichetta Clubland che commissiona tanti remix ma non sortendo il successo del 1995.

Per me gli anni Novanta sono stati quelli del “tutto è possibile”: se avevi un’idea valida di business la realizzavi subito con una startup, se volevi fare una canzone la producevi con un equipment ridotto all’osso, non eri più costretto a dover andare nelle costosissime sale di registrazione come nei decenni precedenti. E, non meno importante, se non trovavi un’etichetta interessata ne fondavi una tutta tua. C’era veramente la sensazione di poter fare qualsiasi cosa e questa leggerezza positiva si ripercuoteva anche nella musica. Forse c’era un nesso con la Caduta del Muro di Berlino ma dopo il 1989 il mondo sembrò cambiare veramente in modo molto positivo. Poi purtroppo ci fu il crash delle borse, le prime avvisaglie di crisi economiche e le case discografiche iniziarono a chiudere battenti come la Intercord, un autentico colosso che sorgeva nello stesso quartiere in cui vivevo, a Stoccarda.

Le cose sono cambiate radicalmente ma continuo ad occuparmi ancora di musica con Felix Gauder, con cui ai tempi produssi anche il progetto The Free supportato dalla Dance Pool del gruppo Sony (“Born Crazy” del 1994, è stato anche il mio primo disco finito in classifica). Qui in Germania esiste una grande differenza tra musica leggera, lo schlager, e la pop/dance. Noi però stiamo mescolando esattamente questi due mondi, all’apparenza inconciliabili. Recentemente abbiamo riscosso grande successo con “Sieben Leben Für Dich” di Maite Kelly, reduce del triplo disco d’oro per oltre 300.000 copie vendute. Nel contempo porto avanti il tour col mio spettacolo, un incrocio tra cabaret e cantautorato, per il momento senza musica elettronica e completamente unplugged. Ho persino scritto una canzone in italiano, “Paese Dei Miei” che stranamente piace al pubblico tedesco anche se per molti risulta del tutto incomprensibile». (Giosuè Impellizzeri)

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Dune – Can’t Stop Raving (Urban)

Dune - Can't Stop RavingL’happy hardcore nasce come riformulazione e conversione a trazione pop dell’hardcore/breakbeat che infiamma i rave britannici tra 1991 e 1993. Giunto in primis da Olanda e Germania, diventa la colonna sonora dei maxi eventi sdoganati al grande pubblico alla metà del decennio. Tra i maggiori protagonisti di questa fase stilistica ci sono i tedeschi Dune, formatisi nel ’94 dalla sinergia tra Jens Oettrich ed Oliver Froning.

«Quando completammo il nostro primo brano, “Hardcore Vibes”, iniziammo a cercare un’etichetta interessata a pubblicarlo. Una volta trovata ci chiesero il nome del progetto e fu solo allora che ci rendemmo conto di non aver ancora pensato a ciò» rivela oggi Froning, noto anche come DJ Raw. «Iniziammo a riflettere su alcune possibili soluzioni ed una delle opzioni che annotai su un foglio era proprio Dune, omonimo del film di fantascienza diretto da David Lynch, tra i miei preferiti in assoluto». “Hardcore Vibes” è il loro singolo di debutto uscito nei primi mesi del 1995 sulla Urban e licenziato in Italia dalla bresciana Time Records. È uno dei pezzi chiave del movimento happy hardcore, traslazione catchy dell’hardcore più rabbiosa sino ad allora relegata ai club specializzati. «Ai tempi ascoltavo moltissima jungle, drum & bass e techno. Campionammo un mucchio di dischi e contribuimmo alla creazione del genere happy hardcore ma ritengo che non si possa parlare di un originatore in assoluto di questo filone, credo piuttosto che si trattò più semplicemente di un’evoluzione della dance di quegli anni basata sul campionamento e la velocizzazione di beat hip hop su cui venivano piazzati vocal altrettanto accelerati simili a voci di bambini. In “Hardcore Vibes”, ad esempio, utilizzammo la voce della mia nipotina londinese Janine Kelly-Fiddes appena undicenne. Un giorno venne a trovarci in studio e mentre le mostravo vari strumenti mi chiese di usare il microfono per sentire la propria voce attraverso le cuffie. Fortunatamente registrammo la sua “session” che, tra le altre cose, includeva la frase “this one is dedicated to all the ravers in the nation” diventata una delle parti fondamentali della traccia. Non ci aspettavamo affatto che “Hardcore Vibes” potesse riscuotere così tanti consensi, fummo letteralmente travolti dal successo. Decidemmo quindi di coinvolgere ancora la piccola Janine per nuovi vocal incisi direttamente nella sua cameretta attraverso un registratore DAT che portai con me a Londra».

MusicNews n. 8, 1995

Il giornale tedesco MusicNews dedica la copertina ai Dune e ai Das Modul, profeti in patria della musica happy hardcore

Il follow-up di “Hardcore Vibes” è “Are You Ready To Fly”, cover dell’omonimo di Rozalla, a cui segue “Can’t Stop Raving”, probabilmente il brano del repertorio più noto da noi e senza dubbio tra i maggiormente fortunati dell’intera discografia dei Dune. In Italia giunge ancora attraverso una label bresciana, la Impulse del gruppo Media Records che giusto qualche mese prima pubblica un altro classico happy hardcore, “Computerliebe” dei Das Modul (di cui abbiamo parlato qui), e viene promosso a pieni voti da Molella che lo elegge Disco Makina nel suo Molly 4 DeeJay nell’autunno ’95. Il testo riflette in pieno tutta l’euforia e la spensieratezza della musica happy hardcore, colonna sonora di un momento storico in cui il futuro sembra promettere più che bene:

Come and take a trip with me
To a land where love is free
Follow me into the light
Everything’s gonna be alright

Just to go and take my hand
I will show you promised land
Stay with me in paradise
So our future can be nice

Il resto lo fanno taglienti ritmi di matrice breakbeat (con dentro un sample adrenalinizzato preso da “Amen, Brother” dei Winstons, 1969) abbinati a rasoiate di origine acid e melodie festaiole. Il videoclip girato ad Amsterdam e in cui compaiono anche tre ballerine, Anna, Tahiti e Verena (quest’ultima scelta in seguito come vocalist del gruppo), finisce in heavy rotation su Viva Tv e per i Dune si aprono ufficialmente le porte di un successo tanto forte da portarli sul canale televisivo ZDF. Altrettanto incisivo risulta il loro look dai colori sgargianti e netti contrasti cromatici (nel suddetto video si scorgono capi W&LT e Daniel Poole).

dal video di Can't Stop Raving

Un frame del video di “Can’t Stop Raving”. Gli artisti indossano tshirt W&LT e Daniel Poole

«Esistono due versioni di “Can’t Stop Raving”. Quella racchiusa nell’album era completamente differente rispetto alla più nota che scegliemmo come singolo. Ricordo che il giorno in cui registrammo quest’ultima invitai le cantanti in studio sebbene non avessimo ancora preparato alcun testo. Lo scrissi di getto appena quindici minuti prima che arrivasse Tina Lagao». L’Album Version include però un sample di “Dum Dum Girl” dei Talk Talk che sparisce dalla ben più fortunata Single Version. Sul mix trova spazio anche l’atmosferica Vocoder Mix. Tra i remix invece, quello di Revil O (Oliver Bensmann dei Plug ‘N’ Play) e quello dei Montini Experience, ai tempi in ascesa europea con “Astrosyn”.

L’album, intitolato semplicemente “Dune”, viene pubblicato ancora dalla Urban del gruppo Universal. «L’A&R della Urban era Sascha Basler e devo ammettere che ci lasciò completa libertà nella realizzazione del disco, a patto di avere a disposizione tre singoli da estrarre. Nel 1996 passammo alla neonata Orbit Records fondata proprio da Basler e da Bernd Burhoff (ossia i Plutone, nda), affiliata alla Virgin a cui destinammo il secondo album “Expedicion” trainato dal singolo “Rainbow To The Stars” remixato, tra gli altri, dai Jam & Spoon. Visto l’incredibile successo la Virgin ci offrì un contratto milionario per avere la nostra musica».

Oliver Froning riceve un award accompagnato dalla mamma

Oliver Froning riceve un award, affiancato dalla mamma

Il 1996 è ancora stellare per i tedeschi ma dall’anno seguente qualcosa inizia a cambiare. Tra ’97 e ’98 incidono due dischi con la London Session Orchestra che suonano radicalmente diversi da tutto quello fatto sino a quel momento. Il loro pubblico muta drasticamente, la generazione di giovanissimi che balla ritmi a 160 bpm viene rimpiazzata da un’audience più adulta che dimostra di apprezzare pezzi come “One Of Us” o “Somebody”. Una scelta estrema, senza dubbio, che per i fan dell’happy hardcore suona come una cocente delusione. Froning però chiarisce che si trattò solo di una pura coincidenza. «Ci chiesero di realizzare un remix destinato ad una raccolta dei Queen. Ai tempi a tantissimi act eurodance venivano commissionate rivisitazioni ballabili di classici pop/rock ma la nostra versione di “Who Wants To Live Forever” guardò in direzioni diverse. Ai discografici piacque così tanto da voler realizzare un intero disco di musica orchestrale/sinfonica, “Forever”. Il singolo divenne un successo clamoroso che vendette 750.000 copie e vinse il disco di platino in Germania».

In scia all’eurotrance i Dune tornano alla dance nel ’99 con “Dark Side Of The Moon” seguito nel 2000 da “Heaven”, sullo stile degli olandesi Alice Deejay ma il successo degli anni precedenti è visibilmente ridimensionato. Inoltre su Wikipedia ed alcuni siti si parla di un presunto plagio che avrebbero commesso ai danni di “Piece Of Heaven” del team A7 per realizzare la loro “Heaven”. La disputa avrebbe persino impedito la pubblicazione dell’album “Reunion”. Sempre del 2000 è una nuova versione di “Hardcore Vibes” realizzata dai Trubblemaker che ammicca ad un successo di quel periodo, “Freestyler” dei finlandesi Bomfunk MC’s. Ripiegare su idee del passato o altrui però è sintomatico di chi non ne ha di nuove ed infatti per i Dune si apre la parentesi del “best of” con la compilation “History”. Nel 2002 ci pensano Mythos ‘N DJ Cosmo a coverizzare “I Can’t Stop Raving” e nel 2003 riappare pure “Rainbow To The Stars” che di fatto finisce in quel calderone infinito di remake alimentato tuttora da chi è convinto di poter ricreare un clima simile a quello di un paio di decenni fa.

Lo studio dei Dune

Lo studio dei Dune in una foto scattata nella seconda metà degli anni Novanta

«Gli anni Novanta sono stati incredibili, potrei riempire un libro intero con gli aneddoti capitati allora. Mi spiace però che, ad oggi, non mi sia mai esibito in Italia. Probabilmente ciò deriva dal fatto che non sia mai riuscito ad entrare in contatto con promoter o case discografiche italiane. Purtroppo il management che gestiva Dune nei primi tempi non era preparato al grande successo che riscuotemmo e si rivelò incapace nel gestire tutto in modo ottimale. Adesso le cose sono cambiate radicalmente e magari in futuro potrebbero accadere gradite novità».

Il 2016 riporta il nome Dune sul mercato discografico. Il singolo si intitola “Magic Carpet Ride”, riprende alcuni suoni ed atmosfere del periodo happy hardcore ed è prodotto dal solo Froning che così pare aver ereditato la paternità del marchio. «In realtà Dune è sempre stato il mio alias personale seppur ci sia chi non è d’accordo ma questa è un’altra storia. “Magic Carpet Ride” fu scritta originariamente nel 1999 ma rimase nel cassetto. Amavo profondamente il testo e qualche tempo fa pensai che sarebbe stato bello realizzare una nuova versione che in qualche modo potesse preservare la memoria di quel periodo. Nel 2017 è uscito anche “Starchild” che ha raccolto ottimi riscontri. Si tratta del primo capitolo di una trilogia che verrà completata presto. Attualmente sto lavorando anche ad una nuova versione di “Hardcore Vibes” che uscirà durante il 2018». (Giosuè Impellizzeri)

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