Quando il remix batte l’originale

Di solito nella musica destinata alle discoteche le versioni originali restano imbattibili ma è capitato che a fare la differenza siano stati i remix, soprattutto negli anni Novanta quando tale pratica raggiunge probabilmente l’apice per esiti creativi e popolarità. A testimonianza ci sono brani noti unicamente attraverso i remix e di cui oggi è difficile recuperare le versioni originali, sepolte e dimenticate persino dagli stessi autori. L’articolo di Giosuè Impellizzeri che segue si pone il fine quindi di riassumere quanto avvenuto grazie ai remix nel decennio compreso indicativamente tra il 1990 e il 2000, sia a hit da milioni di copie che a brani dal successo più contenuto, per offrire al lettore un vero viaggio immersivo che conta oltre cento casi, in rigoroso ordine alfabetico e a cavallo dei generi più disparati, dall’eurodance alla house, dalla trance alla progressive. Non manca qualche particolare episodio in cui sarebbe più pertinente parlare di rivisitazione o dove il termine remix è stato usato in modo improprio. L’indagine evidenzia inoltre il ruolo tutt’altro che marginale rivestito dagli italiani, artefici in più di qualche sporadica occasione di autentiche hit mondiali. Il tutto senza la pretesa di essere esaustivo, probabilmente è utopico stilare una lista omnicomprensiva e per turare le falle della ricerca non è escluso che nel corso del tempo possano aggiungersi altri titoli e quindi nuove storie e testimonianze.

49ers - Baby, I'm Yours49ers – Baby, I’m Yours
La versione iniziale di “Baby, I’m Yours”, in chiave hi nrg, è pensata per essere esportata nel mercato orientale, quello a cui la Media Records destina diverse produzioni raccolte sotto il brand Media Sound For Japan. Il caso però vuole che Mario Scalambrin senta il pezzo negli studi roncadelliani e si offra spontaneamente per reinterpretarlo. A venir fuori è la versione più nota, la Van S Hard Mix (il Van è un tributo ad Armand Van Helden, la S invece sta per Scalambrin), completamente diversa da quella di partenza, col cantato di Ann-Marie Smith ridotto all’osso ed uno spingente giro di basso. «All’inizio non piacque a Bortolotti tanto che dovetti insistere parecchio per farla inserire sul 12″» racconta lo stesso Scalambrin in questa intervista. Finito alla fine del ’96 nel catalogo della Heartbeat, etichetta a cui abbiamo dedicato una monografia qui, “Baby, I’m Yours” rilancia il nome dei 49ers dopo alcuni pezzi passati inosservati soprattutto in Italia come spieghiamo qui ed apre un’elettrizzante fase per Scalambrin, A&R in carica della citata Heartbeat e da lì a breve autore (insieme a Roberto Guiotto) della versione più forte di “Gipsy Boy” di Sharada House Gang, una miscellanea tra “Hideaway” di De’Lacy e i suoni della sua reinterpretazione di “Baby, I’m Yours”.

740 Boyz - Shimmy Shake740 Boyz – Shimmy Shake
In scia alla rinnovata formula hip house in grande spolvero dopo i fasti iniziali sviluppati a Chicago, i 740 Boyz prodotti da Winston Rosa debuttano nel ’92 con “It’s Your Party”. Due anni più tardi arriva “Shimmy Shake” in stile miami bass, passato completamente inosservato. A cambiare le sorti del brano, nei primi mesi del 1995, è il remix realizzato in Italia da Costantino ‘Mixmaster’ Padovano e Ciro Sasso che lo stravolgono interamente ispirandosi in modo piuttosto palese allo stile degli Outhere Brothers, team chicagoano che in quel periodo si impone in Europa con diverse hit. Un autentico colpaccio per la Cutting Records dei fratelli Aldo ed Amado Marin che, archiviata l’electrofunk di Hashim, Imperial Brothers e Nitro Deluxe, vive una seconda giovinezza grazie ai 2 In A Room con “Wiggle It” ed altri fortunati singoli come “El Trago (The Drink)”, “Ahora! (Now!)”, “Giddy Up” e “Carnival” a cui i 740 Boyz (più avanti remixati anche da Fargetta, si senta “Party Over Here” del 1996) fanno da cornice.

Age Of Love - The Age Of LoveAge Of Love – The Age Of Love
Nel 1990 nessuno alla DiKi Records immagina cosa sarebbe diventato questo brano nel corso del tempo. Prodotto dall’italiano Bruno Sanchioni che assembla vari sample (tra cui quelli di “Native House” di MTS And RTT e “Native Love (Step By Step)” di Divine) a cui aggiunge una breve parte vocale femminile registrata ad hoc ed uno pseudo rap maschile scritto ed interpretato da un altro italiano, Giuseppe Chierchia meglio noto come Pino D’Angiò, “The Age Of Love” si trasforma in uno dei primi prototipi trance. Ai tempi della pubblicazione totalizza appena una manciata di licenze e circa duemila copie, soglia davvero risibile. La situazione si ribalta due anni più tardi quando, su iniziativa dell’etichetta britannica React, “The Age Of Love” viene remixata dall’emergente duo tedesco Jam & Spoon. La Watch Out For Stella Club Mix, come descritto in questo articolo, rimette tutto in discussione attraverso una schematizzazione diversa degli elementi di partenza che esalta il potere ipnotico dell’originale raggiungendo esiti virtuosistici inaspettati. Ad oggi è difficile stabilire con precisione quante copie siano state vendute ma, considerando la sfilza di remix e ristampe giunte sul mercato in circa un trentennio, è ipotizzabile stimarne oltre un milione.

AK Soul - FreeAK Soul – Free
Col fine di tornare al successo raccolto tra 1991 e 1993 con gli Euphoria, l’australiano Andrew Klippel si ribattezza prima Elastic e poi AK Soul. I primi tentativi sono vani ma è solo questione di tempo. Un suo pezzo intitolato “Free”, incluso nell’album omonimo in circolazione dal 1996 ed interpretato da Jocelyn Brown, stuzzica l’interesse di Joe T. Vannelli che lo prende in licenza dalla Festival Records e lo pubblica su Dream Beat prima coi remix (house) di Marco ‘Polo’ Cecere e poi con quello (eurodance) di Fargetta, particolarmente fortunato nel mainstream nostrano. Spazio anche a due reinterpretazioni dello stesso Vannelli, la Club Mix e la Corvette Mix (Corvette è il nome con cui in quegli anni il DJ sigla decine di remix tra cui quelli di “Return Of The Mack” di Mark Morrison, “Love Shine” di Rhythm Source, “Nite Life” di Kim English e “Looking At You” dei Sunscreem). Impreziosito da tutto ciò, nei primi mesi del 1998 “Free” esce dall’anonimato e vive un’ottima parabola europea a cui la Dream Beat cerca di dare un continuum attraverso i remix di un altro pezzo dell’album, “Show You Love”, ma raggiungendo inferiori risultati.

Amos - Only Saw TodayAmos – Only Saw Today
Collaboratore di vecchia data di Boy George, nella primavera del 1994 Amos Pizzey vive uno dei momenti più esaltanti della carriera. La More Protein, nata nel 1989 con “Everything Begins With An ‘E'” degli E-Zee Possee, un classico dell’acid house britannica, pubblica “Only Saw Today”, un brano house che Pizzey produce insieme ad Andronicus dei Diss-Cuss e in cui campeggia un sample di “Instant Karma!” di John Lennon. All’inizio la Murder Mix incuriosisce solo i DJ specializzati ma a mutare le sorti è il remix realizzato in Italia dal Factory Team composto per l’occasione da Fabio Serra, Mauro Farina e Johnny Di Martino che trasformano la house in eurodance, rendendo accessibile al grande pubblico ciò che invece è riservato ad una ristretta nicchia di ascoltatori. Visto il successo internazionale la versione approntata negli studi della Saifam, a Verona, viene scelta per sincronizzare il videoclip. Il Factory Team metterà mano pure ai successivi “Sweet Music” e “Let Love Shine” ma con esiti calanti.

Andreas Dorau - Girls In LoveAndreas Dorau – Girls In Love
Finito nelle classifiche nel 1981 con “Fred Vom Jupiter” realizzato quando è ancora adolescente, il musicista tedesco Andreas Dorau scrive musica per film e si interessa di video. Negli anni Novanta collabora con Tommi Eckart col quale realizza il brano “Girls In Love”. La versione originale, aperta dall’urlo preso da “Scream For Daddy” di Ish Ledesma, inclusa nell’album “70 Minuten Musik Ungeklärter Herkunft” ed accompagnata dal relativo videoclip è un’allegra canzoncina da intonare sotto la doccia. In Italia però ad avere la meglio è il remix di Wolfgang Voigt alias Grungerman. Riducendo la struttura e gli elementi al minimo indispensabile, il prolifico produttore di Colonia, co-fondatore della nota Kompakt, ottiene una traccia meno pop e scanzonata che però riesce incredibilmente a fare crossover tra le discoteche specializzate e le radio. Autentico collante tra la compassata griglia ritmica e le strofe in lingua tedesca è il ritornello, in inglese, ricavato da “Girl’s In Love” di Shirley Kim del ’78 e reinterpretato da Inga Humpe, che qualche anno più tardi forma col citato Eckart il duo 2raumwohnung. A pubblicare in Italia i remix di “Girls In Love” (ma escludendo la versione originale) è la PRG del gruppo Expanded Music. Parti del remix di “Girls In Love” si ritroveranno in un pezzo prodotto nella nostra penisola che, tra la fine del 1997 e il primi mesi del 1998, si afferma sulla piazza internazionale, “Repeated Love” di A.T.G.O.C., acronimo di A Thousand Girls One Condom.

Ayla - AylaAyla – Ayla
Praticamente sconosciuto in Italia ma non nel nord Europa dove vende svariate migliaia di copie, “Ayla” è il brano con cui, nel 1996, il tedesco Ingo Kunzi, già noto come DJ Tandu, inaugura un nuovo corso della sua carriera da produttore. Edita dalla Maddog del gruppo Intercord, la versione originale della traccia plana su incantati pad a cui si sovrappone, in progressione, una melodia di pianoforte. Poi arriva l’onda acida della TB-303 che si infrange portando schegge taglienti ed arroventate. A fare la differenza nelle classifiche è però il remix di Ralph Armand Beck alias Taucher in cui viene sviluppata una linea melodica più marcata che garantisce un’incredibile longevità ulteriormente riverberata dal remake di Kosmonova giunto nel 1997. A cimentarsi in un rifacimento è pure l’italiano Luca Moretti in “Ayla” su Italian Style Production, firmato come Sunrise nel 1998. Alla luce del successo ottenuto, Kunzi produrrà “Ayla Part II” avvalendosi del supporto di Taucher e dell’inseparabile Torsten Stenzel intervistato qui.

Azzido Da Bass - Dooms NightAzzido Da Bass – Dooms Night
Nel 1999 è la Club Tools del gruppo Edel a pubblicare il brano con cui il tedesco Ingo Martens materializza il progetto Azzido Da Bass. La Club Mix, prodotta ed arrangiata con Stevo Wilcken, è trance assemblata senza particolari doti creative e che rasenta la banalità per stesura e scelta di suoni (basso in levare, cassa con riverbero, accenni acid, melodia monocorde ed un sample estorto ad una hit di quell’anno, “Flat Beat” di Mr. Oizo). Tra i remix commissionati e pubblicati in seguito però ce n’è uno che cambia tutto, quello di Timo Maas (affiancato da Andy Bolleshon e Martin Buttrich), che trasforma Azzido Da Bass in una star internazionale con una soglia stimata di circa un milione di copie vendute. «Il primo remix che realizzammo di “Dooms Night” fu rifiutato dalla Edel perché all’interno non c’era nessun elemento tratto della traccia originale» racconta Maas in questa intervista. «Riprovammo usando solo il basso e dopo circa quattro ore il secondo remix, quello che oggi tutti conoscono, era pronto. Il primo lo riciclammo qualche tempo dopo e divenne la mia “Ubik”». Una cosa simile avviene anche in Italia giusto un paio di anni prima: il remix di “Back To The 70’s” di Carl si trasforma in “Disco Fever” di Carl Feat. Music Mind, così come lo stesso Fanini svela qui.

Basic Connection - Hablame LunaBasic Connection – Hablame Luna
Corre il 1996 quando la No Colors, etichetta del gruppo F.M.A., pubblica il 12″ di debutto di Basic Connection. Ad armeggiare dietro le quinte del progetto è il compositore e musicista Mauro Tondini, uno dei Tipinifini scritturati da Claudio Cecchetto per la sua Ibiza Records nel 1985, affiancato dalla vocalist Daniela Gorgoni. Il brano si intitola “Faithless (Hablame Luna)” ed è quasi interamente strumentale. L’Original Mix gira su un intensivo arpeggio che pare tributare “Where The Street Have No Name” degli U2 (proprio quell’anno ripreso in “Landslide” dagli Harmonix, sull’esempio offerto dall’australiano Mystic Force nel brano omonimo del ’94 a cui si ispirano pure Mario Più e Mauro Picotto per “No Name” nel ’97) mentre la Progressive Mix si adagia sull’annunciata formula progressive con tanto di graffiate acide che nel ’96 tiene banco in Italia spodestando l’eurodance nella sua forma più classica. “Faithless (Hablame Luna)” si perde nel marasma delle produzioni simili piombate quell’anno ma tutto cambia nell’autunno del 1997 quando riappare in una nuova versione, questa volta sviluppata sulla song structure ed intitolata “Hablame Luna”. Ridotta la componente progressive in favore di quella pop, il pezzo esplode in tutta Europa, trainato dal relativo videoclip in heavy rotation su MTV. Sul 12″ c’è pure il remix firmato da uno dei guru della house statunitense, Todd Terry, forse pensato per introdurre i Basic Connection in una scena parallela a quella pop ma in questo caso non determinante per il successo come invece avvenuto in altre occasioni.

Billie Ray Martin - Your Loving ArmsBillie Ray Martin – Your Loving Arms
A produrre “Your Loving Arms”, estratto come primo singolo da “Deadline For My Memories”, sono i Grid (quelli di “Texas Cowboys”) e il musicista David Harrow alias James Hardway. È proprio quest’ultimo ad approntare la base su cui la cantante, ex componente degli Electribe 101, scrive il testo. «Conservo ancora la cassetta su cui Hardway incise il demo, sopra c’era scritto “little techno demo”» racconta Billie Ray Martin in questa intervista. La versione più nota però non è l’Original, con arrangiamenti tangenti l’eurodance, bensì la Soundfactory Vocal realizzata da Junior Vasquez, che fa di “Your Loving Arms” una hit mondiale da circa due milioni di copie. «Non scelsi Vasquez personalmente ma fui entusiasta del suo lavoro» prosegue l’artista. «Senza il suo intervento il disco non sarebbe diventato quello che è stato».

Black Connection - Give Me RhythmBlack Connection – Give Me Rhythm
Black Connection è il progetto dietro cui operano i DJ capitolini Corrado Rizza e Gino ‘Woody’ Bianchi affiancati dal musicista Domenico Scuteri. Il nome sottolinea l’amore che gli autori nutrono per il funk, il soul e la musica black in generale. Nel 1997 realizzano, per la loro Lemon Records, il brano “Rhythm”, in cui figurano vari campioni vocali e ritmici presi dal mondo del philly sound. Quando Alex Gold dell’Xtravaganza Recordings si mostra interessato a licenziare il brano nel Regno Unito i tre decidono però di apportare delle modifiche e chiedono ad Orlando Johnson di scrivere un testo e cantarlo col fine di dare al risultato finale un’impronta più pop. Dopo queste variazioni la traccia viene reintitolata “Give Me Rhythm” ed affidata ai Full Intention che realizzano un nuovo remix che va ad affiancare quello di Victor Simonelli già presente sulla prima tiratura. A quel punto, come Corrado Rizza racconta in questo articolo, «il pezzo entrò nella classifica britannica e venne suonato da tutte le radio. Pete Tong lo inserì nella sua raccolta annuale, “Essential Selection – Spring 1998” e finì in tante altre compilation come quella del tour australiano del Ministry Of Sound e quella dello Space di Ibiza. Nei club dell’isla blanca divenne una vera hit! In Italia lo cedemmo alla VCI Recordings, divisione dance della Virgin che si fece avanti dopo il clamore suscitato oltremanica». Per i Black Connection, dunque, si rivela propizia la scelta di far cantare il brano ed è simile la sorte di altri pezzi commercializzati in forma strumentale ma diventati successi con la versione cantata, da “Needin’ You” di David Morales/The Face ad “Horny” di Mousse T., da “Right On!” dei Silicone Soul a “Da Hype” di Junior Jack passando per “Hindu Lover” di Djaimin, “Groovejet” di Spiller e “Jambe Myth” degli Starchaser.

Blackwood - Ride On The RhythmBlackwood – Ride On The Rhythm
Attivo sin dal 1992 ma più noto all’estero che in Italia, il progetto Blackwood si impone anche in patria alla fine del 1996 con “Ride On The Rhythm”. Scritto ed interpretato dalla vocalist americana Taborah Adams e prodotto da Toni Verde e Sandro Murru, il brano non sortisce grandi risultati con la prima tornata di remix tra cui quello di Marascia scopiazzato dal trattamento dei Deep Dish su “Hideaway” dei De’Lacy. Va diversamente però quando arriva la versione di Alex Natale, composta sulla falsariga del remix realizzato pochi mesi prima per “What Goes Around Comes Around” di Bob Marley, usata per il videoclip e cruciale per il successo. Il momento è galvanizzante per l’etichetta romana A&D Music And Vision che per un biennio circa continuerà a scommettere su Blackwood ed altri progetti complementari come Chase e Gate.

Blast - Crayzy ManBlast – Crayzy Man
Partiti nel 1993 col poco noto “Take You Right”, i siculi Blast (Fabio Fiorentino, Roberto Masi e il cantante Vito De Canzio alias V.D.C.) si impongono a livello internazionale l’anno dopo con “Crayzy Man”, oggetto di numerose licenze estere, Regno Unito e Stati Uniti inclusi. Sul 12″ edito dalla napoletana UMM la versione originale del brano, la Club On Blast, finisce sul lato b. A prevalere è il remix realizzato dai Fathers Of Sound (Gianni Bini e Fulvio Perniola) che traina il pezzo dalle discoteche specializzate alle classifiche radiofoniche e di vendita. «Con la loro versione chiamata F.O.S. In Progress i Fathers Of Sound stravolsero l’originale dotandola di sonorità più aperte e tipiche della house internazionale» afferma De Canzio in questa intervista qualche anno fa. «Riuscirono a valorizzare ulteriormente le nostre idee portando il brano ad un livello superiore, facendolo uscire dai confini della house da club traghettandolo nel mondo commerciale (nel senso positivo del termine), con un appeal vendibile e radiofonico». A supporto di “Crayzy Man” è pure il video girato al cretto di Burri e sincronizzato sulla F.O.S. In Progress. Saranno sempre i Fathers Of Sound a mettere mano al follow-up, “Princes Of The Night” mentre a “Sex And Infidelity” del ’95 ci penseranno gli svedesi StoneBridge e Nick Nice e i Ti.Pi.Cal. che, come i Blast, sono originari dell’isola della trinacria.

Bloodhound Gang - The Bad TouchBloodhound Gang – The Bad Touch
Corrono i primi mesi del 2000 quando la band indie rock statunitense Bloodhound Gang si ritrova proiettata inaspettatamente nell’eurodance. Ciò avviene attraverso il remix di un brano estratto dal terzo album “Hooray For Boobies”, pubblicato nel ’99 dalla Geffen e in circolazione attraverso un ironico videoclip. A dirla tutta la versione originale mostra già propaggini ballabili ma il trattamento riservato ad essa dagli Eiffel 65, ovviamente sullo schema di “Blue (Da Ba Dee)”, ne amplifica la portata sino a farne un classico proposto ancora oggi a distanza di oltre vent’anni. Per Lobina, Ponte e Randone è un momento magico sancito da decine di remix e dall’uscita del loro primo album, “Europop”, per cui pare la Universal abbia sborsato 500.000 dollari per assicurarsi i diritti.

Bob Marley - What Goes Around Comes AroundBob Marley – What Goes Around Comes Around
Così come riportato nelle note del 12″ e del CD su JAD Records, le parti vocali di “What Goes Around Comes Around” vengono registrate in Jamaica nel 1967 ma restano nel cassetto sino al 1996, anno in cui sul mercato arrivano diverse versioni come quelle di Fabian Cooke e di Christopher Troy e Zack Harmon. A fare la differenza però, senza timore di smentita, è quella realizzata in Italia da Alex Natale (affiancato da Alex Baraldi con cui l’anno dopo mette mano a “Oh What A Life”, un inedito di Gloria Gaynor), diventata una hit estiva. A pubblicare da noi “What Goes Around Comes Around” è la Dance Factory del gruppo EMI che, parimenti alla JAD Records, sottolinea l’inedicità del pezzo apponendo la dicitura “previously unreleased” in copertina. Natale e Baraldi ci riprovano l’anno seguente ritoccando “Fallin’ In & Out Of Love” ma non riuscendo nel difficile compito di eguagliare i risultati. Va meglio invece a “Sun Is Shining”, riconfezionata nel 1999 dal danese Funkstar De Luxe. Ps: tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97 un altro protagonista del reggae finisce in classifica con un remix, il giamaicano Jimmy Cliff. A curare la nuova versione di “Breakout” sono i fratelli Visnadi.

Bobby Brown - Two Can Play That GameBobby Brown – Two Can Play That Game
Ex componente dei New Edition, Bobby Brown si costruisce una solida carriera solista sin dal 1986, anno in cui debutta con “Girlfriend”. Svariati i successi incisi nel corso del tempo tra cui “My Prerogative” (remixato da Joe T. Vannelli), “Every Little Step”, “Something In Common”, duettando con la moglie Whitney Houston, e “Two Can Play That Game”, presente nella tracklist del suo quarto album, “Bobby”, uscito nel 1992. Il remix che consegna il brano r&b alla storia però arriva due anni dopo ed è firmato dai britannici K-Klass, abili nel ricostruire la tessitura ritmica in cui trova ricollocazione la voce di Brown. Il videoclip, programmatissimo da MTV, funge da propellente per la diffusione del pezzo finito nella top ten dei singoli più venduti nei Paesi Bassi e nella top twenty nel Regno Unito. In Italia il disco giunge nel 1995 grazie alla ZAC Records su licenza MCA. Negli advertising pubblicitari l’artista viene definito, con non poca esagerazione ed immodestia, “il re della dance music”.

B-Zet - Everlasting PicturesB-Zet – Everlasting Pictures
All’anagrafe è Steffen Britzke ma il mondo della musica lo conosce come B-Zet. Artefice, insieme a Matthias Hoffmann, Ralf Hildenbeutel e Sven Väth, di progetti come Mosaic, Odyssee Of Noises e They, il tedesco veste i panni di B-Zet dal 1993, anno in cui pubblica il primo album da solista, “Archaic Modulation”. I suoi interessi primari risiedono nella trance e nell’ambient, i due filoni entro cui si inscrive il brano “Everlasting Pictures (The Way I See)”, incluso nel secondo album intitolato “When I See…” e in cui si apprezza una breve parte cantata da Darlesia Cearcy. Nella tracklist dell’LP edito da Eye Q esiste una seconda versione, “Everlasting Pictures (Right Through Infinity)”, con maggiori concessioni al downtempo ed alla song structure. Nell’autunno del 1995 a decretare la fortuna di Britzke, riconosciuto come straordinario tastierista, è proprio uno dei remix di “Everlasting Pictures – Right Through Infinity”. A firmarlo sono StoneBridge e Nick Nice che continuano a riciclare la formula utilizzata per un altro epocale remix di cui si parlerà più avanti, quello di “Show Me Love” di Robin S.

Cappella - U Got 2 Let The MusicCappella – U Got 2 Let The Music
Quello dei Cappella è un caso non legato propriamente a un remix bensì a una reinterpretazione di un pezzo preesistente. Tutto ha inizio nel 1992 quando la Aries Records pubblica “Let The Music” di Legend, un brano eurodance costruito sul riff preso da “Sounds Like A Melody” degli Alphaville e un frammento vocale di “Let The Music Take Control” dei J.M. Silk. A produrlo è Pierre Feroldi, DJ bresciano particolarmente prolifico allora, seppur sulla white label promozionale, si dice limitata a una tiratura di poche decine di copie, non vengano riportate molte informazioni. Nell’autunno dell’anno dopo la rielaborazione del brano riappare sulla Media Records diventando la hit planetaria dei Cappella. «Due transfughi della Media Records tentarono di mettersi in proprio fondando una nuova etichetta, la Aries, ma si ritrovarono in seria difficoltà pochi mesi dopo essersene andati» racconta Gianfranco Bortolotti in questa intervista del 2015. «Pentiti della loro fuga, mi pregarono di aiutarli e salvarli dal fallimento così affidai il compito a Vicky, la figlia del mio socio Diego Leoni, di gestire quell’azienda mentre chiudevamo i rapporti coi fornitori e i creditori e valutavamo il prodotto ereditato. Tra i brani che avevano realizzato ne scovai uno che mi colpì e, seppur i miei collaboratori più stretti mi criticarono a lungo convinti che l’idea non avrebbe sortito buoni risultati, decisi che quello dovesse essere il punto di partenza per il follow-up di “U Got 2 Know” dei Cappella. Così, dopo circa quindici/venti rimaneggiamenti, trovai la soluzione, il mixaggio adeguato, l’alchimia giusta e fu un massacro, top in tutto il mondo». Delle tantissime versioni di “U Got 2 Let The Music” approntate negli studi a Roncadelle, la KM 1972 Mix di Pagany è quella più nota ed efficace. Analogamente a Cappella, anche altri brani trovano fortuna attraverso rielaborazioni: si segnalano “Technotronic” di The Pro 24’s da cui nasce “Pump Up The Jam” dei Technotronic, “Babe Babe” di Joy & Joyce e “Try Me Out” di Lee Marrow, diventati rispettivamente “Baby Baby” e “Try Me Out” di Corona, “Don’t You Worry” di Caminita Feat. Lorena Haarkur ricostruito per generare “Don’t Worry” di Clutch e “Get Together” di DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue trasformata in “Move Your Feet” di Jack Floyd (parliamo dettagliatamente di entrambe qui e qui), “Future Love” di Brahama premiata quando diventa “Future Woman (Future Love)” di Brahama / Rockets e “Mutation” di Pivot convertita, ma pare senza alcun intervento, nella Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” firmata Tony H.

Ce Ce Peniston - FinallyCe Ce Peniston – Finally
Quando il produttore Manny Lehman sente la voce della Peniston in alcuni brani di Overweight Pooch chiede al DJ Felipe Delgado, che pare avesse spronato l’amica cantante a collaborare con la rapper, di preparare un pezzo ad hoc per lei. A sua volta Delgado interpella un amico, Rodney Jackson, ed insieme approntano la versione originale di “Finally”. Per la A&M Records è un successo quasi istantaneo, la canzone entra nella Hot 100 di Billboard rimanendoci per ben 33 settimane e raggiungendo la quinta posizione il 18 gennaio 1992. A supporto giunge un remix che porta la giovane nativa di Dayton, in Ohio, a sfiorare la vetta della classifica di vendita dei singoli nel Regno Unito. Artefice è David Morales, l’anno prima all’opera su “Deep In My Heart” dei nostri Club House, che realizza la Choice Mix ispirato dal riff di pianoforte di “Someday”, successo di Ce Ce Rogers del 1987 prodotto da Marshall Jefferson. Da Ce Ce (Rogers) a Ce Ce (Peniston) è un attimo.

Cenith X - FeelCenith X – Feel
Dietro Cenith X c’è Achim Schönherr, compositore presumibilmente tedesco che nel 1995 debutta con “Feel”. La versione originale del pezzo incisa sul lato b, la SMP-Club Mix, scorre su layer di hammond e pianoforte, elementi tipicamente house ma per l’occasione piantati su una base ritmica a velocità sostenuta. A fare da collante tra le parti è un breve campione vocale femminile da cui deriva il titolo del brano. La 3 Lanka che pubblica il disco però scommette tutto sul remix realizzato dai Legend B (Peter Blase e Jens Ahrens), costruito sulla falsariga della loro “Lost In Love” uscita pochi mesi prima. È proprio questa versione, diventata un classico dell’hard trance, ad essere sincronizzata col videoclip e a decretare il successo in patria e in altri Paesi europei, Italia inclusa dove “Feel” gode del supporto di Molella nella prima edizione del programma Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui. A licenziarla da noi è la Discomagic che la convoglia su una delle sue innumerevoli etichette, la Hard Dance. Sul 12″ c’è pure un secondo remix a firma CZ 101, stilisticamente più affine alla versione di Schönherr.

Charlie Dore - Time Goes ByCharlie Dore – Time Goes By
Attrice, musicista e cantautrice pop/folk, la britannica Charlie Dore incide dischi sin dal 1979 col supporto della Island. Nel corso del tempo scrive prevalentemente per artisti di alto calibro come Tina Turner e Celine Dion (è suo il testo di “Refuse To Dance”, da “The Colour Of My Love” del ’93) ma non perde mai la voglia di riproporsi come interprete ed infatti nel 1995, a quattordici anni dal precedente, incide il terzo album, “Things Change”. All’interno, tra le altre, c’è “Time Goes By” che nella sua versione originale passa totalmente inosservata. Sono gli italiani Souled Out a stravolgere le sorti della canzone, data in pasto al popolo che anima le discoteche tra la fine del ’96 e l’inizio del ’97. Il successo è tale da richiedere anche un videoclip. La Bustin’ Loose Recordings, ai tempi guidata dall’A&R Stefano Silvestri, completa il quadro con ulteriori versioni affidate ad altri remixer di pregio tra cui Mike Delgado, Ivan Iacobucci e i fratelli Visnadi.

Chase - Stay With MeChase – Stay With Me
Come avvenuto a Blackwood, anche i primi anni del progetto Chase sono legati al “nemo propheta in patria”. Con “Obsession” però, inizialmente pubblicato con l’omonimo nome artistico e prodotto in scia al remix di “Missing” degli Everything But The Girl (da cui trae, oltre ad un sample ritmico, pure l’atmosfera tra romantico e malinconico), anche l’Italia cede al progetto eurodance che spopola tra la primavera e l’estate ’97. Da quel momento voce ed immagine vengono affidate alla cantante Cindy Wyffels. La fortuna di “Stay With Me”, uscito in autunno, risiede nel remix realizzato dagli stessi autori, Toni Verde e Sandro Murru, affiancati da Marascia, che puntano alla miscela del precedente così come vuole la ricetta del classico follow-up. La versione originale invece è una ballata pop rock, inserita nell’album “Barefoot” ma poco nota al grande pubblico. Anche per il singolo seguente, “Gotta Lot Of Love”, uscito ad inizio ’98, è determinante il remix questa volta affidato a Mario Fargetta coadiuvato in studio da Graziano Fanelli e Max Castrezzati.

Chicane - OffshoreChicane – Offshore
Gran Bretagna, 1996: Nicholas Bracegirdle è un musicista venticinquenne con studi classici maturati alle spalle ma attratto sin dall’infanzia dall’elettronica di compositori come Vangelis, Jean-Michel Jarre o Harold Faltermeyer e di gruppi come Yazoo. Durante la rave age scocca la scintilla per la nuova dance grazie ad “Anthem” degli N-Joi: «era una traccia ballabile con fantastici cambi di tonalità e melodia» spiega in un’intervista a Top Magazine ad aprile del 2000. Nel suo futuro però c’è musica piuttosto diversa da quella degli N-Joi, più rilassata, distesa e sognante, impregnata di una sorta di romanticismo misto a malinconia. «Tutto nasce dalle lunghe vacanze estive che trascorrevo coi miei genitori da bambino» spiega ancora in quell’intervista. «Ero sempre l’ultimo in spiaggia, quello che non voleva mai andarsene quando la bella stagione finiva. Credo di essermi sempre portato dietro questa sensazione di malinconia». È quell’atmosfera a contraddistinguere i suoi primi lavori discografici tra cui “Offshore EP #1”, uscito nel ’96 sull’etichetta pare creata dallo stesso autore, la Cyanide. Uno dei quattro brani racchiusi all’interno dell’extended play e prodotti in coppia con Leo Elstob è “Offshore”, crocevia tra contorte porzioni ritmiche breakkate e melodie che disegnano paesaggi incontrastati, ispirate da “Love On A Real Train” dei Tangerine Dream e “The Boys Of Summer” di Don Henley. Realizzata con modesti mezzi, inizialmente la traccia desta poca attenzione perché poco ballabile e quindi scarsamente utilizzabile in discoteca se non in particolari situazioni, quelle gergalmente dette “da decompressione”. La situazione viene capovolta però da un remix realizzato dagli stessi Bracegirdle ed Elstob nascosti dietro il nome Disco Citizens, pseudonimo con cui avevano già firmato “Right Here Right Now” l’anno prima per la Deconstruction. Ora dotato di un impianto ritmico in 4/4, “Offshore” viene acquisito dalla neonata Xtravaganza Recordings di Alex Gold e volta alto nelle classifiche di tutto il mondo (Stati Uniti inclusi) col suo carico “chill-trance”, ulteriormente riverberato in un videoclip sincronizzato proprio sul remix. Nel 1997 viene ufficializzata anche la versione cantata, realizzata a mo’ di mash-up dal DJ australiano Anthony Pappa incrociando la base del remix di “Offshore” all’acappella di “A Little Love A Little Life” dei Power Circle. Questa rivisitazione conquista il pubblico britannico e finisce anche nella tracklist del primo album di Chicane, “Far From The Maddening Crowds”, insieme ad altri singoli estratti, “Sunstroke”, “Red Skies” e “Lost You Somewhere”. Per Bracegirdle è solo l’inizio di una sfolgorante carriera che tocca l’apice tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila grazie a “Saltwater”, rilettura di “Theme From Harry’s Game” dei Clannad, e “Don’t Give Up” che vanta un featuring d’eccezione, quello di Bryan Adams.

CJ Bolland - Sugar Is SweeterCJ Bolland – Sugar Is Sweeter
Estratto dall’album “The Analogue Theatre” del 1996, lo stesso da cui proviene “The Prophet”, “Sugar Is Sweeter” è il brano in cui l’autore condensa una breakbeat rabbiosa ed intensa, sullo stile di “Poison” dei Prodigy a cui pare essersi ispirato scatenando peraltro le ire dei fan del gruppo di Liam Howlett. Il pezzo di Bolland non ha la forza di diventare trasversale però avviene comunque qualcosa che ne cambia gli esiti. Col suo remix, Armand Van Helden sostituisce la radice della traccia spostandola dalle sincopi del breakbeat alle misure quaternarie della house, nonostante il nome della versione, Drum ‘n Bass Mix, faccia pensare ad altro. Un ruolo più marginale spetta alla parte vocale della belga Jade 4 U a cui spetta un trattamento simile a quello riservato a Tori Amos e la sua “Professional Widow” di cui si parla più avanti.

Cornershop - Brimful Of AshaCornershop – Brimful Of Asha
Similmente ai Bloodhound Gang di cui si è già detto sopra, i britannici Cornershop vengono dall’indie rock. Quando “Brimful Of Asha”, uno dei brani del loro terzo album pubblicato nel ’97 ed intitolato “When I Was Born For The 7th Time”, finisce nelle mani di Norman Cook, dell’indie rock di partenza però rimane ben poco. Il DJ di Brighton, ribatezzatosi Fatboy Slim nel 1995 con “Santa Cruz” ed “Everybody Needs A 303”, ne ricava un incalzante inno big beat spinto da un hook che resta impresso a fuoco nella memoria di una generazione, “everybody needs a bosom for a pillow”. Cook conferma dunque la sua straordinaria versatilità dopo alcune prove ben riuscite tra ’96 e ’97 (“I’m Alive” di Stretch & Vern, “Renegade Master” di Wildchild) a cui se ne aggiungeranno molte altre in futuro (“Body Movin'” dei Beastie Boys, “King Of Snake” degli Underworld, “I See You Baby” dei Groove Armada, “Ride The Pony” dei Peplab, “I Get Live” di Mike & Charlie giusto per citarne alcune) ad eternare l’apice creativo.

CRW - I Feel LoveCRW – I Feel Love
Le prime due versioni di “I Feel Love”, l’Extended Mix e la Clubby Mix, escono nel 1998 su una delle tante etichette della Media Records, la Inside, e battono il percorso progressive trance. A produrle sono Mauro Picotto ed Andrea Remondini. In Italia non avviene niente a differenza dei Paesi mitteleuropei dove escono alcuni remix tra cui quello degli olandesi Klubbheads, richiestissimi dopo le hit “Discohopping” e “Kickin’ Hard”. Tuttavia a fare la differenza qualche tempo dopo è una versione riconfezionata in Italia, la R.A.F. Zone Mix, dagli stessi Picotto e Remondini che rivedono sia la parte ritmica che quella melodica, scardinando l’impostazione iniziale a favore di un costrutto che si rifà ai bassi ragga della speed garage e che viene decorato dalla sibillina voce di Veronica Coassolo. A pubblicare la nuova versione oltremanica è la Nukleuz e da quel momento è un effetto domino che contagia, tra le altre, la VC Recordings del gruppo Virgin e la statunitense Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez. A ben poco servono ulteriori remix come quello di JamX & De Leon alias DuMonde e DJ Isaac. In scia al successo di “I Feel Love” Picotto e Remondini, sempre nelle vesti di CRW, contribuiscono sensibilmente al successo di “On The Beach” di York con una versione di cui si parla nello specifico più avanti.

Cunnie Williams Feat. Monie Love - SaturdayCunnie Williams Feat. Monie Love – Saturday
Cantante r&b dalla potente voce paragonata più volte a quella di Barry White, Cunnie Williams debutta nel 1993 con l’album “Comin’ From The Heart Of The Ghetto” prodotto da Ralf Droesemeyer dei Mo’ Horizons. Nel ’99, messo sotto contratto dalla Peppermint Jam, incide “Star Hotel”, il terzo LP in cui presenzia, tra le altre, “Saturday”, un brano a cui partecipano Inaya Day e Monie Love. La versione che gli garantisce massima visibilità nei primi mesi del 1999 però è la Welcome To The Star-Hotel Mix approntata da Mousse T., il DJ tedesco di origini turche che finisce sotto i riflettori l’estate precedente con “Horny ’98”, versione cantata dell’omonimo brano strumentale passato del tutto inosservato e realizzato riciclando parti ritmiche del remix confezionato per “Ghosts” di Michael Jackson uscito nel 1997, quando altresì remixa “All My Time” di Paid & Live Feat. Lauryn Hill. È sempre Mousse T. a mettere mano a un altro singolo di Cunnie Williams, “A World Celebration”, rigato dal rap di Heavy D.

Da Hool - Meet Her At The Love ParadeDa Hool – Meet Her At The Love Parade
Il tedesco Frank Tomiczek inizia a produrre musica nei primi anni Novanta come DJ Hooligan (è tra i nomi citati dagli Scooter in “Hyper Hyper”). Nel 1996, anno in cui vara l’etichetta B-Sides, modifica lo pseudonimo in Da Hool. Proprio su B-Sides, in autunno, esce un EP intitolato “Meet Her At The Love Parade” aperto dalla traccia omonima. Ritmicamente rasenta la banalità ma contiene un riff di sintetizzatore che resta appiccicato alle orecchie come un chewing gum sotto le scarpe. «Contrariamente a quanto diffuso su internet, il brano non fu dedicato a nessuna donna» chiarisce Tomiczek contattato per l’occasione qualche tempo fa. «Lo realizzai in una sola notte, dopo essere tornato dalla Love Parade. Forse a causa dell’esagerata euforia non riuscivo a prendere sonno, mi chiusi in studio e “Meet Her At The Love Parade” fu il risultato. Colsi al volo l’ispirazione che mi diede la parata berlinese con le sue impareggiabili atmosfere e fu l’ironia a suggerirmi quel titolo, era praticamente impossibile trovare qualcuno che si conoscesse in mezzo ad una folla di un milione di persone». I responsi raccolti dal brano non sono entusiasmanti ma la situazione cambia nel 1997 quando la Kosmo Records lo reimmette sul mercato col remix più accattivante realizzato da Nalin & Kane che quell’anno spopolano con “Beachball”. Il successo è clamoroso (si parla di circa sei milioni di copie vendute) e il titolo trasforma il brano di Da Hool nell’inno non ufficiale della Love Parade ’97 (l’ufficiale è “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam). In Italia è un’esclusiva della Bonzai Records Italy del gruppo Arsenic Sound guidato da Paolino Nobile intervistato qui.

Dakar & Grinser - Stay With MeDakar & Grinser – Stay With Me
Formato da Christian ‘Dakar’ Kreuz (sintetizzatori, voce) e Michael ‘Grinser’ Kuhn (sintetizzatori, batteria elettronica), il duo Dakar & Grinser debutta nel ’96 con “Shot Down In Reno”. Supportati dalla Disko B, tre anni dopo i tedeschi incidono un album, “Are You Really Satisfied Now”, che si inserisce a pieno titolo nel vasto campionario pre-electroclash con rimandi a suoni e musiche del passato (come “I Wanna Be Your Dog”, cover dell’omonimo degli Stooges di Iggy Pop uscito trent’anni prima). Nella playlist dell’LP c’è pure “Stay With Me”, una traccia costruita sul formato canzone ma senza tradire ambizioni schiettamente commerciali. Non succede nulla sino a quando l’etichetta di Peter Wacha lo ripubblica come singolo, nella primavera del 2001, dotandolo di nuove versioni remix a firma Patrick Pulsinger, Abe Duque, Portofino Rockers e Gary Wilkinson. Tuttavia a trascinare la traccia nelle programmazioni radiofoniche è la 2001 Mix (ribattezzata Murphy’s Law Single Mix sul CD singolo) realizzata da Christian Kreuz e Tobi Neumann, una rivisitazione scandita da un ammiccante giro di chitarra ed un fascinoso retrogusto retrò che manda subito in solluchero quei DJ che hanno lasciato parte di cuore negli anni Ottanta. In Italia a descrivere il pezzo in toni entusiastici attraverso le pagine del magazine DiscoiD ad aprile 2001 sono Vincenzo Viceversa, che definisce Dakar & Grinser «i campioni assoluto del nuovo techno-pop», e Massimo Cominotto che invece parla di “Stay With Me” come «il suo pezzo del momento». L’interesse cresce al punto da creare i presupposti per una licenza rilevata dalla Ultralab, neonata etichetta dance del gruppo Virgin curata da Ilario Drago che sul 12″, oltre alla Murphy’s Law Single Mix (sincronizzata sul videoclip e finita persino nella compilation del Festivalbar) e al remix di Abe Duque, solca pure una versione realizzata in loco dai P&F ossia Paolino Rossato e Francesco Marchetti, che garantisce a Dakar & Grinser la presenza in altre compilation di dance generalista come la “Deejay Parade” di Albertino e la “Discomania Mix” di Radio 105.

Dana Dawson - 3 Is FamilyDana Dawson – 3 Is Family
Dana Dawson incide il primo disco per la CBS, “Ready To Follow You”, nel 1988 quando ha appena quattordici anni. Nel ’91 esce l’album “Paris New-York And Me” che la aiuta a farsi notare anche in Europa ma per la consacrazione definitiva dovrà attendere ancora qualche tempo. Nel 1995, sotto contratto con la EMI, arriva il secondo LP “Black Butterfly” prodotto da Narada Michael Walden. Uno dei pezzi racchiusi al suo interno è “3 Is Family” in cui la cantante statunitense esprime al massimo la vocazione soul/r&b anche se a spopolare è uno dei remix, quello di Dancing Divaz. Velocizzato e trascinato su una base disco house impostata su un ammaliante giro di pianoforte che pare citare “Drive My Car” dei Beatles e che anni dopo forse ispira “Gimme Fantasy” dei Red Zone da cui nel 2002 Gianni Coletti trae il suo più grande successo, il brano si impone nelle discoteche di tutto il mondo. La EMI prova a replicare i risultati attraverso “Got To Give Me Love”, “How I Wanna Be Loved” e “Show Me” dati in pasto al mondo della notte ma con risultati calanti. L’obiettivo della Dawson non è la dance (seppur nel ’97 interpreti “More More More” di Dolce & Gabbana, remake dell’omonimo di Andrea True Connection) ma i musical di Broadway dove approda nel 2000. La sua carriera si ferma nel 2010 quando perde la lotta contro il cancro. Ha solo trentasei anni.

Datura - Mystic MotionDatura – Mystic Motion
Insieme a “Devotion e “Passion”, “Mystic Motion” è tra i brani nati sull’asse Italia-Germania nel 1993, scritti dai Datura (che ai tempi sono in quattro, i musicisti Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani e i DJ Cirillo e Ricci) e la cantante tedesca Billie Ray Martin. “Devotion” si impone proprio quell’anno come hit estiva ma gli altri due restano confinati alla tracklist di “Eternity”, il primo (ed unico) album che il team bolognese incide per la Irma Records. Nel 1995 Pagano e Mazzavillani passano alla Time Records firmando “Infinity” con gli U.S.U.R.A. a cui segue, in autunno, “Angeli Domini”. In parallelo la Irma rispolvera “Mystic Motion” attraverso vari remix tra cui quello dei Bum Bum Club che, strizzando l’occhio allo stile di StoneBridge, ne fanno un successo stagionale. Ulteriori rivisitazioni, come quella di Charles Webster, giungono dall’estero. Visti i risultati, nel ’96 ai Bum Bum Club viene commissionato anche il remix di “Passion” che però ottiene responsi più contenuti.

Deejay Punk-Roc - My BeatboxDeejay Punk-Roc – My Beatbox
Tra 1997 e 1998 la fortuna di alcuni brani come “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam, “Sonic Empire” di Members Of Mayday, “Super Sonic” di Music Instructor ed “Energie” di U96 riportano sotto i riflettori del panorama mainstream l’electrofunk di inizio anni Ottanta. In questo contesto stilistico si inserisce “My Beatbox” di Deejay Punk-Roc, progetto che batte bandiera britannica ma gestito secondo una metodologia tipicamente italiana: in studio opera Jon Paul Davies mentre le esibizioni pubbliche toccano al DJ americano Charles Gettis. “My Beatbox” catalizza l’attenzione generale col supporto di MTV che manda in onda il video più volte al giorno. A decretare una diffusione maggiore del brano, qualche tempo dopo finito nella colonna sonora del videogioco per PlayStation “Thrasher Presents Skate and Destroy”, è il remix di Stuart Price alias Les Rythmes Digitales che la Independiente riversa pure sul successivo “Far Out”. Il DJ e produttore anglosassone, noto anche come Jacques Lu Cont, Man With Guitar e Thin White Duke, linearizza il ritmo trasformandolo nel pianale su cui installare la filastrocca eseguita col talkbox e la spirale di basso rotolante che prefigura con lungimiranza gli stilemi dell’electro house post electroclash, gli stessi che utilizzerà anni dopo per produrre “Confessions On A Dance Floor” di Madonna trainato dai singoli strapazzaclassifiche “Hung Up” e “Sorry”.

De'Lacy - HideawayDe’Lacy – Hideaway
La versione originale di “Hideaway”, prodotta dai Blaze e cantata da Rainie Lassiter, esce nel 1994 su Easy Street Records. Pare un pezzo garage come tanti che escono ai tempi, destinato a non lasciare il segno, ma quando l’anno dopo arriva il remix dei Deep Dish tutte le previsioni vengono azzerate. La versione di Dubfire e Sharam, lunga quasi dodici minuti, conta su un’irresistibile sezione ritmica su cui si arrampica gradualmente l’anima del brano, con la voce della Lassiter abbinata agli accordi di un organo liturgico. Il successo contagia tutta l’Europa al punto da spingere la casa discografica a girare un videoclip sincronizzato proprio sul remix dei Deep Dish. Quasi irrilevante invece la versione dei K-Klass, esclusa dalla stampa italiana sulla rediviva Full Time tornata in attività dopo un periodo di pausa. Ai Deep Dish spetta remixare il follow-up, “That Look”, ma è difficile o forse impossibile bissare i risultati di “Hideaway”. Decisiva invece la versione di “All I Need Is Love” realizzata a fine ’97 dall’italiano Massimo Braghieri alias Paramour.

Delerium Feat. Sarah McLachlan - SilenceDelerium Feat. Sarah McLachlan – Silence
Nato da una costola dei Front Line Assembly, Delerium è un progetto partito nel 1988 che si muove nei territori industrial e dark ambient. Nel 1999 la Nettwerk pubblica il remix di “Silence”, uno dei brani dell’album “Karma” uscito nel ’97. La versione originale, in bilico tra new age e downtempo, pare pagare il tributo agli Enigma di Michael Cretu. Nella loro Sanctuary Mix i Fade (Chris Fortier e Neil Kolo) ricostruiscono il pezzo rendendolo ballabile ma nel contempo preservando parte della caratteristica atmosfera gregoriana. Tutto ciò però non basta. È un olandese a fare la differenza: Tiësto, da Breda, con gli oltre undici minuti del suo In Search Of Sunrise Remix, trasforma “Silence” in un inno, valorizzando la voce di Sarah McLachlan con una serie di plananti pad. Più euforica la versione degli Airscape ma incapace di reggere il confronto con quella di Tiësto destinato ad una sfolgorante carriera da DJ.

DNA Featuring Suzanne Vega - Tom's DinerDNA Featuring Suzanne Vega – Tom’s Diner
Incluso in una raccolta del 1984 allegata alla rivista Fast Folk Musical Magazine, “Tom’s Diner” è il brano acappella scritto qualche tempo prima dalla cantautrice californiana Suzanne Vega ispirata da un piccolo ristorante, il Tom’s Restaurant per l’appunto, situato a Broadway. Nel 1987 il pezzo viene incluso nell’album “Solitude Standing” ed estratto come singolo ma senza raccogliere grandi consensi. A creare i giusti presupposti per il successo internazionale sono i DNA ossia i produttori britannici Nick Batt e Neal Slateford che nel 1990 ricollocano la voce della Vega su una base downtempo carpendo un sample a “Keep On Movin” dei Soul II Soul dell’anno prima. In assenza delle autorizzazioni necessarie, i due si vedono costretti a solcare la versione su un’anonima white label sulla fittizia S+B Records che inizialmente circola solo nelle discoteche. In qualche modo quella rivisitazione giunge alla Vega e il verdetto positivo convince i dirigenti della sua etichetta, la A&M Records, a credere nel progetto e pubblicarlo ufficialmente. “Tom’s Diner” così, supportato adeguatamente dal videoclip diretto da Gareth Roberts, si impone in tutto il mondo, conquistando la top 5 delle due classifiche più ambite di allora, quella britannica e quella statunitense. Per la canzone si apre un secondo ciclo biologico, ben più fortunato rispetto al primo, scandito da nuovi remix, remake (tra i più recenti quello firmato da Giorgio Moroder con l’ausilio vocale di Britney Spears), campionamenti e, non meno importante, l’utilizzo da parte dell’ingegnere del suono Karlheinz Brandenburg per mettere a punto il sistema di compressione di un formato che avrebbe stravolto la musica nel nuovo millennio, l’MP3 (per approfondire si rimanda a questo articolo). Entusiasmati dai risultati, i DNA scommettono ancora sui campionamenti come avviene in “Rebel Woman”, in cui riciclano il riff di “Rebel Rebel” di David Bowie, o ne “La Serenissima”, cover dell’omonimo dei nostri Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi.

Duke - So In Love With YouDuke – So In Love With You
Cantautore e polistrumentista, Mark Adams nasce a Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell’Inghilterra. I suoi modelli di riferimento in età adolescenziale sono idoli del soul come Marvin Gaye, Isaac Hayes e Sly & The Family Stone ma pure eroi della generazione rock n roll, da Buddy Holly a Little Richard passando per Gene Vincent ed Eddie Cochran. Insieme alla sua band chiamata Catch 22 si esibisce nei locali della città natale con un repertorio di cover di classici degli anni Cinquanta. Poi, complice l’annuncio su una tv privata, entra nella formazione dei One Hand One Heart incidendo, nei tardi anni Ottanta, alcuni singoli ed un album per la Epic. Per la sua carriera solista si ribattezza Duke debuttando con “New Beginning”, prodotto da Tony Mansfield e remixato, tra gli altri, da Jaydee ma senza grandi risultati. Poi arriva “So In Love With You” in cui fa sfoggio delle sue abilità vocali di chiara matrice soul. A spalancargli le porte del successo è uno dei remix del pezzo, quello realizzato da Norman Cook (prossimo ad imporsi come Fatboy Slim) e firmato con lo pseudonimo Pizzaman. Come afferma lo stesso Adams nella sua biografia, tutto inizia nei Paesi Bassi dove DJ Marcello suona per primo il remix di “So In Love With You” all’Escape di Amsterdam. L’interesse della Virgin fa il resto, trasformando Duke in uno dei protagonisti della scena dance/house nell’autunno 1995 e facendone una sorta di nuovo Jimmy Somerville. Ad accaparrarsi la licenza in Italia è la Propio Records di Stefano Secchi che, sfruttando il momento propizio, commissiona altre versioni (tra cui quelle di Miky B, Max Baffa, Franco Moiraghi e del compianto Mauro M.B.S.) raccolte in un doppio vinile.

Elektrochemie LK - SchallElektrochemie LK – Schall
Coniato nel 1995 col brano “Da Phonk”, Elektrochemie LK è uno degli pseudonimi utilizzati dal tedesco Thomas Schumacher. Nel 1996 la Confused Recordings pubblica “Schall & Rauch” aperto proprio da “Schall” in cui il DJ originario di Brema sovrappone balbuzienti tessere vocali campionate da “Acid Poke” di Adonis (ma ignorandone il significato, come lui stesso ammette qui) ad un basso sbilenco che funge da argano per tirarsi dietro un granitico beat. La traccia funziona bene nei club di matrice techno ma non è memorabile. Nel 1999 è sempre la Confused Recordings a rimettere in circolazione “Schall” attraverso un remix realizzato da Schumacher stesso che ricostruisce il mosaico questa volta adoperando un basso distorto ed un reticolo ritmico più incisivo. Grazie a queste nuove caratteristiche si fa avanti la Leaded, etichetta del gruppo Warner che ripubblica il brano in Germania sia su 12″ che CD, abbinandolo ad ulteriori remix (Toktok, Pascal F.E.O.S., Thomas P. Heckmann). L’attenzione cresce e contagia pure il Regno Unito dove se lo aggiudica la FFRR che nel pacchetto inserisce la versione di Trevor Rockcliffe. Si accodano poi altre nazioni europee come Francia, Spagna, Paesi Bassi e Danimarca. A prenderlo in licenza in Italia invece è la Media Records che lo convoglia sulla sua etichetta di punta, la BXR. Tra 2000 e 2001 il fortunato remix di “Schall” approntato da Schumacher fa ingresso in decine di compilation e finisce pure nella programmazione delle tv musicali grazie al videoclip. Il successo è tale da spingere la Leaded a scommettere sull’album, “Gold!”, da cui viene estratto “Girl!”, abilmente costruito su un vecchio pezzo rock dei Kinks, “All Day And All Of The Night”, e in cui figura, tra le altre, “When I Rock”, un pezzo che Schumacher firma col suo nome anagrafico nel ’97 vendendo ben 25.000 copie e che la Warner decide di rilanciare e ripubblicare come Elektrochemie LK abbinandolo ad un paio di remix realizzati per l’occasione da DJ Rush e dall’italiano Santos.

Energy 52 - Cafe Del MarEnergy 52 – Café Del Mar
Partito nel 1991 da un’idea del DJ tedesco Paul Schmitz-Moormann meglio noto come Kid Paul, il progetto Energy 52 emerge due anni più tardi quando la nota Eye Q Records di Sven Väth, Matthias Hoffmann ed Heinz Roth pubblica “Café Del Mar”. Ispirata nel titolo dal noto bar ibizenco e nel suono da “Struggle For Pleasure” del compositore belga Wim Mertens, la traccia diventa un caposaldo della prima ondata trance teutonica istigata dalla MFS di Mark Reeder. Sul 12″ della Eye Q ci sono due versioni, quella di Kid Paul e quella di Harald Blüchel alias Cosmic Baby ma il pezzo non riesce ad andare oltre la scena dei club seppur maturi la presenza in una serie di compilation tematiche tra cui la “Logic Trance 2”. Tre anni più tardi “Café Del Mar” è già considerato materiale d’archivio ed infatti la Bonzai lo ristampa sulla branch Classics che tra gli altri annovera “My Name Is Barbarella” di Barbarella, “Body Motion” degli italiani Sadomasy & DJ One, “My Noise” di Master Techno e “Perfect Motion” dei Sunscreem. C’è qualcuno però ad auspicare ancora una seconda vita della traccia come Red Jerry della Hooj Choons, che affida ad una pagina di Bandcamp i suoi ricordi: «Abbiamo passato circa diciotto mesi a remixarlo e non ricordo neanche i nomi di tutti coloro che ci hanno provato fallendo ripetutamente. Il problema di base era rappresentato dalla scala del riff principale e dalla progressione dei relativi accordi che nessuno riusciva a combinare con un certo impatto. Risultato? Ogni versione andava alla deriva, sommersa dalle melodie. Poi, ad inizio ’97, accadde qualcosa:  tornai a casa con una cassetta su cui era inciso l’ennesimo remix di “Café Del Mar”». A realizzare la nuova versione sono i Three ‘N One (André Strässer e Sharam Jey), reduci dal successo ottenuto con “Reflect”. «Seduto a casa a Kentish Town, con la luce dell’alba dopo una notte in discoteca, ascoltai per la prima volta quel remix su un impianto audio decente. Fu uno di quei momenti che non si dimenticano facilmente» conclude Red Jerry. I Three ‘N One riescono dove tanti altri avevano fallito. Sarà il loro remix ad iniettare nuova linfa vitale nelle melodie di “Café Del Mar” che questa volta, complice l’affermazione della trance su larga scala, segna inequivocabilmente lo zenit per Energy 52. La Hooj Choons mette sul mercato due ulteriori rivisitazioni a firma Solar Stone e Universal State Of Mind a cui se ne aggiungeranno altre ancora tra cui quelle di Oliver Lieb e di Nalin & Kane. Tra 1997 e 1998 il pezzo conosce dunque una nuova giovinezza che lo trasforma in un classico, oggetto di continui rimaneggiamenti nonché in fonte d’ispirazione per altri artisti come gli olandesi Three Drives e la loro “Greece 2000”.

Everything But The Girl - MissingEverything But The Girl – Missing
Insieme sin dal 1982 quando debuttano con “Night And Day”, cover dell’omonimo di Cole Porter, Ben Watt e la moglie Tracey Thorn sono gli Everything But The Girl. Prendono il nome d’arte dallo slogan usato da un negozio d’abbigliamento su Beverley Road ad Hull, il Turners, e fanno pop rock ai confini col jazz. Pur maturando una carriera di tutto rispetto che, tra le altre cose, annovera la collaborazione coi Massive Attack per un paio di brani finiti in “Protection”, riescono a conquistare il grande pubblico generalista solo nel 1995 con un remix. “Missing”, dalla tracklist del loro ottavo album intitolato “Amplified Heart”, è una ballata unplugged che passa inosservata ma grazie al tocco di Todd Terry cambia tutto. Il DJ/produttore statunitense, tra i decani dell’house music, trasforma quella ballata in un classico che vende oltre un milione di copie e per cui viene girato un nuovo videoclip diretto da Mark Szaszy. Il remix inizia a girare nell’autunno del 1994 ma il successo non è immediato specialmente in Europa (Italia compresa) dove bisogna attendere la primavera dell’anno seguente per sentire “Missing” in radio e in discoteca. Todd Terry si occuperà poi di “Wrong” (estratto dall’album “Walking Wounded” del ’96) ma con risultati inferiori. Ps: esiste una versione di “Missing” prodotta in Italia, la Rockin’ Blue Mix, realizzata da Alex Natale e i Visnadi.

Face On Mars - The BugFace On Mars – The Bug
Il progetto one-shot Face On Mars batte bandiera britannica ed è prodotto da Kenny Young e dal duo ManMadeMan (Paul Baguley e Sonya Bailey). Entrati nelle grazie di Judge Jules, Pete Tong, Sasha e John Digweed con dischi firmati con vari pseudonimi, riescono a raccogliere modesti consensi tra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000 grazie a “The Bug” che, come testimonia anche la copertina, fa leva sui timori, poi rivelatisi quasi del tutto infondati, derivati dal presunto millennium bug che avrebbe mandato in tilt i sistemi informatici di tutto il mondo al cambio di data tra il 31 dicembre 1999 e il primo gennaio 2000. La versione originale chiamata Teotwawki si inserisce nel filone hard house, sullo stile di artisti come Da Junkies, Knuckleheadz e BK, ma resta confinata al quasi totale anonimato. A rendere “The Bug” un pezzo appetibile per le radio e le tv musicali a cui è destinato il videoclip sono Marco Baroni ed Alex Neri con il loro remix firmato Kamasutra. In Italia è un’esclusiva della napoletana Bustin’ Loose Recordings che in catalogo vanta, tra gli altri, Individual (“Sky High” è cantato da Billie Ray Martin ma in incognito), Charlie Dore e soprattutto Karen Ramirez.

Felix - Don't You Want MeFelix – Don’t You Want Me
Regno Unito, 1992: Francis Wright è un diciottenne come tanti, desideroso di entrare a far parte del mondo della musica. Si diletta a comporre nella sua cameretta con pochi strumenti presi in prestito dallo zio e dal fratello maggiore che gestiscono una società di noleggio strumentazioni. Dispone di un campionatore Akai S950 e qualche sintetizzatore come un Korg MS-20, un Roland JX-1 ed un Oberheim Matrix 1000. Il tutto pilotato dal Notator installato su un computer Atari 1040 ST. Un giorno riceve la telefonata di Jeremy Dickens alias Red Jerry, uno dei titolari dell’etichetta Hooj Choons a cui ha mandato alcuni demo qualche settimana prima. A catalizzare l’attenzione del discografico è un brano in particolare, “Don’t You Want Me”, che Wright realizza ispirandosi allo stile di Steve “Silk” Hurley e in cui piazza un sample vocale preso da “Don’t You Want My Love” delle Jomanda. A Dickens piace ma gli chiede di sviluppare l’idea in modo alternativo. Wright allora piazza un organo al posto del pianoforte e crea la base di quella che sarebbe diventata la Hooj Mix, la versione più nota. «A quel punto Red Jerry mi invitò a Londra per registrare le due versioni» racconta Wright in questo articolo. «L’Original Mix rimase praticamente la stessa del demo mentre alla Hooj Mix aggiungemmo ulteriori elementi. Purtroppo fu fatta confusione coi crediti sul disco che attribuiscono la paternità della Hooj Mix ai soli Red Jerry e Rollo, cosa che non è esatta visto che fu un lavoro interamente sinergico». Il successo di “Don’t You Want Me” è stellare, grazie all’interesse mostrato dalla Deconstruction. Il brano, da noi licenziato dalla GFB, etichetta della Media Records, conquista la prima posizione in molte classifiche sparse per il mondo e si stima abbia venduto oltre tre milioni di copie.

Fifty Fifty - Tonight I'm DreamingFifty Fifty – Tonight I’m Dreaming
I britannici Fifty Fifty (il produttore Jason Smith e il cantante Steve Trowell) esordiscono in sordina nel 1996 col poco noto “Crazy Thing” ma balzano agli onori della cronaca due anni dopo con “Tonight I’m Dreaming”, un brano di matrice progressive house pubblicato dalla Jackpot impreziosito subito da vari remix tra cui quello di Eric Kupper proteso verso la garage. A far cambiare profondamente aspetto al pezzo è però la Blue Moon Mix approntata in Italia negli studi milanesi della Dancework da Fabrizio Gatto, Roberto Zucchini, Germano ‘Jerma’ Polli e Marco ‘China B’ Brugognone. «L’idea di fare un remix fu nostra» racconta Gatto contattato per l’occasione. «”Tonight I’m Dreaming” era una bella canzone ma non abbastanza commerciale, così ci attivammo e realizzammo alcuni remix più adatti al mercato italiano dell’epoca». A spiccare dalle tre versioni pubblicate dalla @rt Records, sublabel del gruppo Dancework, è la citata Blue Moon Mix che imperversa nelle discoteche e in radio nell’autunno ’98. La Rosa Shocking Mix riprende lo stile latineggiante di Paradisio mentre la Tribe Art Production Mix, realizzata da Massimiliano Falchi ed Umberto Ferraro, resta ancorata alle atmosfere house di partenza. «Il mix vendette dalle ventimila alle venticinquemila copie e il brano entrò in svariate compilation» prosegue Gatto. «Quella volta mi firmai come El Zigeuner, nome nato pochi anni prima da una telefonata che un mio promoter fece ad un suo amico. Essendo di Bolzano, ogni tanto parlava in tedesco e quella volta al telefono disse “el Zigeuner” (lo zingaro), una parola che mi piacque subito e che decisi di adottare come pseudonimo». I tentativi di mantenere alte le quotazioni dei Fifty Fifty vanno a vuoto nonostante il remix del successivo “Listen To Me” a firma StoneBridge. Riscontri flebili giungono pure quando nel ’99 Smith e Trowell si ripresentano come Apple 9 firmando “What You Do To Me” per la Time Records.

Freddie Mercury - Living On My OwnFreddie Mercury – Living On My Own
Estratto come singolo dall’album “Mr. Bad Guy”, il primo che Mercury realizza come solista dopo aver abbandonato i Queen, “Living On My Own”, del 1985, è un pezzo synth pop che non riscuote consensi memorabili. Decisamente diversi però i risultati raccolti circa otto anni più tardi quando l’artista è già prematuramente passato a miglior vita e sul mercato arriva il remix realizzato dai No More Brothers (Carl Ward, Colin Peter e Serge Ramaekers) nel loro studio ad Anversa, in Belgio, ad aprile del ’93: con un taglio house friendly corroborato da un cristallino arpeggio, i tre conferiscono a “Living On My Own” la spinta necessaria per essere apprezzato dal pubblico trasversale di tutto il mondo che non si è ancora stancato di ascoltarlo. Per avere un’idea della longevità è sufficiente aprire YouTube: ad oggi la somma delle visualizzazioni ottenute dal remix oltrepassa i cento milioni. Proprio nello stesso periodo in cui imperversa “Living On My Own”, sul mercato arrivano i remix di un altro brano pop internazionale, “Dreams” di Gabrielle. La House Mix degli Our Tribe (Rollo, futuro membro dei Faithless nonché fratello della cantante Dido, e Rob Dougan) è tra le versioni che si distinguono meglio, con un retrogusto à la “Plastic Dreams” di Jaydee. Nel contempo in Italia finiscono in discoteca “Delusa” di Vasco Rossi e “Ricordati Di Me” di Fiorello, rispettivamente remixati dagli U.S.U.R.A. e Digital Boy.

Fun Factory - Close To YouFun Factory – Close To You
Tra la miriade di gruppi eurodance tedeschi emersi nei primi anni Novanta, i Fun Factory si fanno notare a livello europeo tra 1993 e 1994 con “Groove Me”, “Pain”, “Close To You” e “Take Your Chance”, tutti estratti dal primo album intitolato “Nonstop!”. “Close To You”, per cui viene girato questo videoclip, sfiora il plagio delle hit messe a segno dai connazionali Culture Beat (“Mr. Vain”, “Got To Get It”, “Anything”) ma sono tempi in cui clonare talvolta può portare buoni risultati. In Italia la versione originale di “Close To You” passa inosservata a differenza del remix dei Positive Groove, side project degli stessi Fun Factory. Nella reinterpretazione, intitolata Energy Trance e licenziata nell’estate ’94 da Dig It International, la componente vocale è ridotta ai minimi termini per privilegiare un costrutto di matrice trance. Eliminata la parte rappata, dopo un lungo intro strumentale filo acid affiora un brandello dell’inciso, unico elemento tratto dalla versione di partenza. Anche per il remix i Fun Factory però si ispirano palesemente a qualcosa di preesistente, il Fruit Loops Remix dei Jens di cui si parla dettagliatamente più avanti.

Gayà - It's LoveGayà – It’s Love
Nel ’98 la J&Q diretta da Enzo Martino pubblica il terzo singolo del progetto Gayà, partito tre anni prima con “Lovin’ The Way”. A produrre “It’s Love”, un brano house ai confini con la garage colorito da un virtuosismo vocale a mo’ di scat, sono Daniele Soriani e Marco Mazzantini, ma il successo arriva poco tempo dopo col remix curato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che riadatta tutto in chiave eurodance. Gli apprezzabili risultati vengono sottolineati dal videoclip in cui appare l’americana Stephanie Haley, scelta come immagine del progetto e per le esibizioni live come quella ad Italia Unz. Sarà sempre Fargetta a confezionare le versioni di punta dei successivi singoli di Gayà, “Shine On Me”, “I Keep On Dreaming” e “Never Meet”, utili a trainare altri artisti della J&Q come Jola, Underfish e Bibi Schön.

Gigi D'Agostino - L'Amour ToujoursGigi D’Agostino – L’Amour Toujours
In virtù della popolarità raggiunta, “L’Amour Toujours” è diventato il brano più noto del repertorio d’agostiniano. La versione originale, apparsa nel 1999 nell’album omonimo, gira su ritmi sincopati, un basso in ottava (forse “stimolato” da un preset dell’Hohner HS-1, versione tedesca del Casio FZ-1) ed armonie ispirate da “But Not Tonight” dei Depeche Mode, così come già descritto in Decadance. A decretare il successo è però il remix che la Media Records pubblica nel 2000 attraverso l’EP “Tecno Fes”: arrangiato insieme a Paolo Sandrini, il Tanzen Vision Remix fa leva sulla caratteristica frase di tastiera evidenziata ulteriormente nella versione usata per il videoclip ad oggi visualizzato su YouTube più di 320 milioni di volte. A seguire arrivano altre reinterpretazioni, come la Cielo Mix e L’Amour Vision, ed un indefinito numero di cover che garantiscono ulteriore longevità ad un pezzo italodance ormai diventato transgenerazionale.

Gigi D'Agostino & Daniele Gas - Creative NatureGigi D’Agostino & Daniele Gas – Creative Nature
La prima versione di “Creative Nature” esce nel 1994 sulla Subway. A distanza di qualche mese sulla stessa etichetta appaiono due versioni (Fly Side ed Eternity Side) realizzate dagli stessi autori ma a lasciare il segno nel cuore degli irriducibili della progressive italiana è il remix edito dalla Metrotraxx, altra sussidiaria della Discomagic di Severo Lombardoni, intitolato Giallone e contenuto nel doppio “Creative Nature Vol. 2”. A dirla tutta pare più una sorta di re-edit con variazione della stesura e non del banco suoni che rimane pressoché invariato ma i risultati, specialmente a partire dall’autunno del 1995, sono ben diversi. Con un sample di campana sincronizzato su un basso ottavato ed un riff d’atmosfera giocato anch’esso sulle ottave, D’Agostino (che riciclerà tutto nel 2000 per la sua “Campane”) e Gas si confermano tra gli artefici di un sound presto ribattezzato e sdoganato come mediterranean progressive in cui minimalismo e struggenti melodie vanno a braccetto. «Una notte ero al Le Palace di Torino con Gigi e Francesco Farfa» racconta Daniele Gas in questa intervista. «Prima della serata chiacchierammo anche di produzioni e Francesco ci propose di fare una nuova versione del “giallone”, riferendosi al remix di “Creative Nature” pubblicato dalla Subway su un’etichetta di colore giallo per l’appunto. Da quel momento lo chiamammo amichevolmente Giallone Remix, proprio in ricordo del suggerimento di Farfa che, ovviamente, fu tra i primi a ricevere il promo».

Gisele Jackson - Love CommandmentsGisele Jackson – Love Commandments
È il pezzo più noto della Jackson, cantante nativa di Baltimora messa sotto contratto dalla Waako Records di Bob Shami. La versione originale di “Love Commandments”, un pezzo garage non particolarmente pretenzioso, inizia a circolare nel 1996 quando viene pubblicato anche in Italia dalla UMM. La spallata determinante giunge l’anno dopo con vari remix firmati, tra gli altri, da Danny Tenaglia, Jason Nevins, StoneBridge, Dancing Divaz e Loop Da Loop. Quest’ultimo, in particolare, con qualche occhiata non velata al tocco di Van Helden, catalizza l’attenzione generale introducendo la Jackson nel segmento speed garage. A pubblicare in Italia quattro remix di “Love Commandments”, incluso ovviamente quello di Loop Da Loop, è la D:vision.

Hanky Panky - Hanky PankyHanky Panky – Hanky Panky
Pubblicato inizialmente dalla Love, una delle etichette della EMI tedesca, “Hanky Panky” del progetto omonimo segue il corso eurodance in salsa house, utilizzando i suoni “tubati” resi popolarissimi da StoneBridge abbinati ad una specie di filastrocca scritta da Najib Hachim e Carolin Schwarz e musicata dagli stessi insieme a Jürgen Hildebrandt. Di loro si sa davvero poco e niente. Di certo è che ad aiutarli ad uscire dall’anonimato, riservato invece ad altri brani del loro risicato repertorio come ad esempio “Me & Mr. Fantasy” di Cosma Das Sternenkind, è il remix realizzato da Mousse T: con una versione che occhieggia ai Max-A-Million prodotti dai 20 Fingers ed ai Reel 2 Real di Morillo ma in chiave ancora più scanzonata, “Hanky Panky” riesce a raccogliere qualche licenza in Europa. A crederci in Italia è la Dance Factory del gruppo EMI ma pure Albertino che propone il brano in radio e lo vuole nel sesto volume della compilation “Alba” uscita nell’autunno del 1996.

Jamiroquai - Space CowboyJamiroquai – Space Cowboy
La versione originale di “Space Cowboy”, inclusa nell’album “The Return Of The Space Cowboy” del 1994, non è certamente passata inosservata ma il remix di David Morales, uscito l’anno dopo, ha il merito di aver ingigantito la notorietà della band britannica. Con un lavoro magistrale curato tanto nella parte ritmica quanto in quella degli arrangiamenti, il DJ tocca uno dei momenti clou della propria carriera. Tuttavia Jay Kay gli riserva toni piuttosto polemici, almeno inizialmente: «non capisco perché devo dare quindicimila sterline ad un tizio americano quando un qualsiasi mio collaboratore può fare la stessa cosa, ma ho imparato che i remix fanno parte del gioco, così come i video» afferma il cantante in un’intervista risalente al gennaio 1997. «Devo essere onesto, i remix di Morales (oltre a “Space Cowboy” anche quello di “Cosmic Girl”, nda) hanno funzionato molto bene ed hanno aumentato la mia popolarità. La gente voleva ballare i miei pezzi in discoteca e lui la ha accontentata».

Jens - Loops & TingsJens – Loops & Tings
Contenuta nel “Glomb EP” pubblicato nel 1993, “Loops & Tings” è il pezzo che Jens Mahlstedt, Gerret Frerichs ed Hans Jürgen Vogel realizzano assemblando magnetiche onde trance a svasati beat che ogni tanto vedono rompere il 4/4 metronomico sotto la spinta di inserti raggamuffin, striature acide e sincopi breakbeat. Nel momento in cui la Superstition pubblica i remix del brano, le cose prendono una piega diversa. È il Fruit Loops Remix, realizzato dagli stessi Mahlstedt e Frerichs, a tracciare una nuova strada per il progetto Jens, sino a quel momento rimasto a solo appannaggio dei DJ specializzati. Merito di una vena melodica più pronunciata issata da un riff riciclato dai menzionati Fun Factory nel remix di “Close To You” ed una struttura ritmica maggiormente trascinante, resa tale anche da un rotolante bassline. Il remix di “Loops & Tings” diventa così un autentico classico nel 1994, anno in cui viene pubblicato anche in Italia dalla Downtown del gruppo Time Records. Seguirà un’infinita serie di altre versioni più o meno fortunate tra qui quella di Marco V che nel 2003 rilancia per l’ennesima volta uno dei maggiori inni della hard trance tedesca degli anni Novanta.

Jestofunk - Special LoveJestofunk – Special Love
Con un background che affonda saldamente le radici nel funk, nel soul e nel jazz, i Jestofunk (Alessandro ‘Blade’ Staderini, Francesco Farias e Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli) debuttano nel 1991 con “I’m Gonna Love You” supportati dalla bolognese Irma Records. “Say It Again” e “Can We Live”, entrambi interpretati da Ce Ce Rogers, li aiutano ad imporsi anche nel mainstream ma senza scendere a compromessi. Nel 1998 è tempo di un’altra hit trasversale, “Special Love”, estratta da “Universal Mother”, il loro terzo album. Jazzdance rigata di funk, r&b e disco, la traccia gode di un featuring vocale d’eccezione, quello di Jocelyn Brown, protagonista del videoclip. A far prendere il volo però è la Special House Mix realizzata da Steve “Silk” Hurley, uno dei pionieri della house statunitense che in quel periodo torna al successo con “The Word Is Love”. Sul 12″ presenzia una seconda reinterpretazione, la Disco Fusion Mix di Joey Negro probabilmente più vicina al mondo dei Jestofunk ma con minori potenzialità commerciali.

Josh One - ContemplationJosh One – Contemplation
DJ e produttore losangelino, Josh One debutta nel 2001 con “Contemplation”, un pezzo che lascia sfilare i lascivi vocalizzi di Julie Walehwa su una base downtempo altrettanto seducente costruita insieme al musicista Patrick Bailey. Annessa alla musica lounge e chillout che nei primi anni Duemila vive un fortissimo boom così come raccontiamo qui, la traccia riesce a conquistare anche le discoteche grazie a King Britt ed alla sua Funke Mix che proietta tutto su uno schema house dagli evidenti richiami funk giocati in modo sampledelico. Riscontri ancora più tangibili giungono con una seconda versione realizzata in Italia da Alex Neri: nel Road Trip Remix resta intatto un frammento di voce della Walehwa ma il resto scorre su un binario decisamente diverso, fatto da suoni cristallini messi in sequenza in un ossessivo ed inarrestabile arpeggio. Proprio grazie ai remix, nel 2002 Josh One fa il giro d’Europa spinto da etichette come Prolifica, Ministry Of Sound e Vendetta Records. A pubblicarlo da noi è la Rise del gruppo maioliniano Time.

Karen Ramirez - If We TryKaren Ramirez – If We Try
La carriera della londinese Karen Ramirez mostra diverse analogie con quella dei Jestofunk descritti poche righe sopra. Anche lei parte dalla musica black, dal soul e dal jazz, generi che il team di produzione Souled Out (da cui nasceranno poco tempo dopo i Planet Funk) affronta con maestria nell’album “Distant Dreams” da cui vengono estratti diversi singoli, da “Troubled Girl” a “Looking For Love” (cover di “I Didn’t Know I Was Looking For Love” degli Everything But The Girl) passando per “Lies” ed “If We Try”. Tutti godono di numerosi remix realizzati da pesi massimi della house internazionale ma quest’ultimo, in particolare, si distingue per la rivisitazione di Steve “Silk” Hurley, richiestissimo dopo l’exploit a fine ’97 di “The Word Is Love”.

KC Flightt - Bang!KC Flightt – Bang!
Franklin Toson Jr. alias KC Flightt prende parte alla prima ondata hip house che si propaga a fine anni Ottanta da Chicago, riuscendo ad entrare nelle grazie della RCA che pubblica un album e diversi singoli tra cui “Planet E”, “Summer Madness” e “Voices”. Dopo qualche tempo sottotono, riappare con “Bot Dun Bot” e soprattutto “Bang!” che nella versione originale riavvolge il nastro sino a dove tutto era cominciato nella città del vento. A fare la fortuna del pezzo nell’autunno 1995 è la Mixmaster Club realizzata da Costantino Padovano e Mirko Braida, sincronizzata col video e in linea con quanto già fatto per “Shimmy Shake” dei 740 Boyz analizzata più sopra.

Kim Lukas - All I Really WantKim Lukas – All I Really Want
Nata nella contea di Surrey, nell’Inghilterra sud-orientale, Kim Woodcock è la cantante che si fa spazio nel circuito eurodance nel 1999 con “All I Really Want”, prodotto dal team G.R.S. composto da Gino Zandonà, Roberto Turatti e Silvio Melloni. L’Original Single Mix fa leva su una base dai richiami disco / funk, senz’altro gradevole ma con un tiro forse non adatto ad accontentare del tutto il pubblico a cui il progetto è destinato. Ci pensano gli Eiffel 65 a ricostruire la stesura in un remix creato sul fortunato modello di “Blue (Da Ba Dee)”. È quindi loro la versione che spopola e fa la fortuna della biondina che nel 2000 incide un album, “With A K”, da cui vengono prelevati altri tre singoli più o meno fortunati, “Let It Be The Night”, “To Be You” e “Cloud 9”.

L'Homme Van Renn - The (Real) Love ThangL’Homme Van Renn – The (Real) Love Thang
A pubblicare “The Real Thang” nel 1993 è la Nocturnal Images Records, piccola etichetta di Davina Bussey distribuita dalla Submerge di Detroit. È la stessa Bussey a curare tre versioni fatte di house intrecciata al soul che mettono in evidenza le doti canore di Paul Randolph. Nel 1995 la 430 West, in cooperazione con la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker e con la filiale britannica della KMS di Kevin Saunderson, rimettono in circolazione il brano ma con un titolo leggermente diverso, “The (Real) Love Thang”, e vari remix di Rob Dougan, Parks & Wilson e Mike Banks. «Credo che l’operazione nacque con l’obiettivo di portare il mio nome ad un pubblico più vasto e non più solo quello dei DJ specializzati visto che il pezzo aveva un grande potenziale» racconta qui Randolph. Effettivamente le cose vanno proprio così e “The (Real) Love Thang” inizia la “mainstreamizzazione” attraverso la versione del citato Dougan in cui la stesura viene interamente ricostruita giocando sull’alternanza di parti beatless ed altre più incisive legate alla progressive house britannica. Ciò garantisce un risultato apprezzabile in Europa dove il brano viene licenziato in più Paesi ed incuriosisce anche chi non conosceva affatto la versione iniziale. A pubblicarlo in Italia a gennaio 1996 è la milanese Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, che aggiunge al pacchetto due ulteriori versioni a firma M2 ed Italia House Nation.

Lisa Marie Experience - Keep On Jumpin'Lisa Marie Experience – Keep On Jumpin’
Inizialmente pubblicato col titolo “Jumpin”, la hit dei Lisa Marie Experience (il duo britannico formato da Dean Marriott e Neil Hinde) si afferma nel vecchio continente tra l’inverno e la primavera del 1996 come “Keep On Jumpin'”. Il pezzo entra nella top ten dei più venduti nel Regno Unito ed è uno dei tanti di quel periodo a rinvigorire il fil rouge tra la house music e discomusic mediante il campionamento di un classico di fine anni Settanta, “Keep On Jumpin'” dei Musique, ripreso peraltro pochi mesi più tardi pure da Todd Terry con le voci di Martha Wash e Jocelyn Brown. La versione che funziona di più e che viene scelta per accompagnare il videoclip è però quella dei redivivi Bizarre Inc, autentici protagonisti tra 1991 e 1992 con successi come “Playing With Knives”, “Such A Feeling” ed “I’m Gonna Get You”. Con una stesura più d’impatto ed un’elaborazione del sample (a cura di Dave Lee alias Joey Negro ed Andrew “Doc” Livingstone, così come chiariscono i crediti in copertina) maggiormente incisiva, il Bizarre Inc Remix è pertanto quello che decreta il temporaneo momento di gloria dei Lisa Marie Experience, incapaci di mantenere intatto il successo col successivo “Keep On Dreaming”. In compenso però ricevono una sfilza di richieste di remix e tra i tanti mettono mano a “Bamboogie” di Bamboo, act messo su con eclatante riscontri dal citato Livingstone ad inizio ’98 mutuando un sample da un altro evergreen disco, “Get Down Tonight” di KC & The Sunshine Band.

Love Connection - The BombLove Connection – The Bomb
Dietro Love Connection, act one shot creato nel 2000 con “The Bomb”, opera il team di produttori francesi formato da Rabah Djafer, Omar Lazouni e Michel Fages. Il pezzo è costruito su un doppio campionamento: da un lato c’è la melodia di “Love Magic” di John Davis & The Monster Orchestra, un vecchio successo del 1979, dall’altro invece la parte vocale presa da “Love Generation” degli italiani Lost Angels, pubblicato originariamente nel 1996 dalla Volumex del gruppo Dancework ma senza grandi risultati, specialmente in patria. Unendo i due elementi, corroborati da una trascinante base disco house, i transalpini ricavano un pezzo orecchiabile e a presa rapida ma a perfezionarlo ulteriormente è il duo Triple X (Luca Moretti e Ricky Romanini), reduce dal successo europeo di “Feel The Same”. È il loro remix infatti ad avere la meglio e ad essere sincronizzato col videoclip. In Italia è un’esclusiva della Time di Giacomo Maiolini il cui supporto, pare, sia stato determinante per ottenere il clearance del sample di “Love Magic”.

Mario Più - CommunicationMario Più – Communication
Il DJ toscano è stato molto abile nel tenere un piede nelle produzioni destinate a discoteche di tipo progressive/trance e l’altro in quelle più dichiaratamente commerciali. Così, mentre da un lato sforna pezzi come “Your Love”, “Unicorn” o “Serendipity”, dall’altro finisce nelle classifiche di vendita con successi radiofonici tipo “All I Need”, “Sexy Rhythm” e “Runaway”. Nel 1999 però è capitato che un suo brano tendenzialmente rivolto ai club si sia trasformato in una hit trasversale. Tutto ha inizio a ridosso dell’estate quando nei negozi arriva “Communication”, un pezzo creato sul telaio picottiano di “Lizard” e caratterizzato dal suono dell’interferenza creata dal telefono cellulare in una cassa spia (idea che, praticamente nel medesimo periodo, viene sfruttata in “GSM” dai Dual Band – Paolo Kighine e Francesco Zappalà). I responsi nelle discoteche sono ottimi ma a decretare il successo su scala internazionale con oltre 200.000 copie vendute è la versione approntata oltremanica pochi mesi dopo da Paul Masterson alias Yomanda. Diventata “Communication (Somebody Answer The Phone)” ed accompagnata da un videoclip sincronizzato proprio sul remix, la traccia assume una veste hard house in cui compare, oltre all’interferenza, anche il trillo di un telefono cellulare, immortalato in copertina dalla BXR.

Mato Grosso - LoveMato Grosso – Love
Partiti nel 1990 come Neverland, Graziano Pegoraro, Marco Biondi e Claudio Tarantola si ribattezzano Mato Grosso con “Thunder” per motivi illustrati in questo articolo e diventano uno dei nomi più longevi in campo eurodance/italodance, area notoriamente soggetta a successi che difficilmente riescono a reggere più di qualche stagione. “Love” esce intorno alla fine del 1993 sulla B4, etichetta fondata dallo stesso team insieme al gruppo Expanded Music, ma gode di poca attenzione. Pochi mesi più tardi, in soccorso, giungono due remix realizzati dagli stessi Pegoraro e Biondi. In particolare è la Fuzzy Mix a risollevare le sorti del pezzo non partito col piede giusto, col beneplacito di Albertino e dei suoi soci del DBM (Fargetta la sceglie e mixa in “Original Megamix 2”) a cui poi si accodano altre emittenti e varie compilation italiane ed estere. «La versione originale, per ammissione dello stesso Pegoraro, peccò a causa di un mixaggio non del tutto riuscito» racconta oggi Marco Biondi contattato per l’occasione. «La Shuttle ‘N’ Space ‘N’ Love Mix iniziava con un intro caratterizzato dal countdown della NASA, senza dubbio d’effetto ma privo di quell’immediatezza che ai tempi serviva alla dance per farsi notare. Facendo tesoro degli errori quindi, rielaborammo tutto in un remix più incisivo, dinamico ed efficace, doti premiate da Albertino che lo tenne nella DeeJay Parade per circa due mesi (dal 26 febbraio al 23 aprile, nda). Il suo supporto fu determinante per raggiungere un buon risultato in termini di vendite, tra mix e remix infatti “Love” contò tra le 16.000 e le 17.000 copie. A scandire marcatamente la nuova versione era un hook vocale realizzato con la mia voce seppur davvero in pochi la riconobbero nonostante conducessi un programma quotidiano su Radio DeeJay. Pure nel follow-up, “Mistery”, figuravano voci vere: il “mistery mistery” era di Miko Mission mentre ad interpretare il “bebele simele amele” era Nikki, mio collega in via Massena. L’idea di partenza era campionare un frammento di “Just A Gigolo” di David Lee Roth ma non avremmo mai avuto il clearance così optammo per quell’alternativa che si rivelò particolarmente fortunata» conclude Biondi.

Mauro Picotto - LizardMauro Picotto – Lizard
Quando le prime copie di “Lizard” raggiungono gli scaffali dei negozi di dischi, nella primavera del 1998, nessuno è in grado di pronosticare cosa sarebbe avvenuto poco tempo dopo. Picotto stesso, nella recensione apparsa sulla rivista Trend Discotec di aprile, è ben lontano da pomposi annunci e ne parla sommessamente come «un mix che forse è un EP, tanto sono differenti le versioni in esso contenute». In effetti le quattro versioni presenti sul 12″ della BXR mostrano evidenti diversità: la Picotto Mix (promossa “Disco Strobo” da Tony H in From Disco To Disco il 7 marzo) punta dritta alla trance, la Nation Mix irrigidisce i suoni tirando dentro un frammento vocale di Martin Luther King, la Mondo Bongo Mix introduce la componente tribale e la Tea Mix, fondamentale per gli sviluppi futuri, riduce tutto a pochi elementi, scroscianti cascate di snare e soprattutto un caratteristico basso. Come descritto dal musicista Andrea Remondini nell’intervista finita in Decadance Appendix nel 2012, la Tea Mix viene realizzata in buona parte un lunedì mattina. «Durante il fine settimana Mauro si esibì in una discoteca in cui il DJ che lo aveva preceduto in consolle terminò il set con un disco che finiva con una lunghissima nota bassa» racconta. «A quel punto lui si sovrappose con un altro brano che iniziava con battute di sola cassa. Il risultato creò un effetto imprevisto: ogni colpo di cassa soffocava la nota bassa, che tornava poi a farsi sentire nelle pause tra un colpo e l’altro. Ipotizzai che la causa del fenomeno fosse un compressore applicato all’uscita del mixer» (ma Picotto, nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” recensito qui, parla di un microfono lasciato inavvertitamente aperto da cui «entrò il rumore dell’effetto Larsen sull’impianto audio della sala – il Joy’s di Mondovì – una risonanza che determinò un suono simile alla coda di un boato», nda). Vista l’euforica reazione del pubblico di fronte a quel fortuito abbinamento di suoni, i due cercano di riprodurre l’effetto in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa abbastanza inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando arrivano i remix. In particolare è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia (adorata da Pete Tong che ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”) si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale ed una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary. In pochi mesi “Lizard” fa il giro del mondo, Stati Uniti compresi, aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per Picotto debitamente irrorata da altre hit come “Iguana” e “Komodo” che insieme a “Lizard” costituiscono l’ideale trilogia rettiliana. I suoni di “Lizard” diventano presto un autentico marchio di fabbrica per la BXR ed innescano centinaia di campionamenti ed imitazioni di ogni tipo. «A quel punto, così come era già avvenuto con la mediterranean progressive, abbandonammo quel suono per primi, dopo averlo inventato» aggiunge Remondini nella menzionata intervista. Curiosità: per il remix la BXR usa un numero di catalogo inferiore (1047) rispetto a quello del disco che ospita invece le prime versioni del brano (1048) nonostante la pubblicazione sia successiva.

Moby – Everytime You Touch Me
Archiviata la disputa legale con la Instinct Records che pubblica i primi due album, Moby firma per la Mute di Daniel Miller. È proprio questa a mandare in stampa il suo terzo LP, “Everything Is Wrong”, l’ultimo con cui l’artista newyorkese cavalca la dance music, un filone che gli fa guadagnare, seppur a malincuore, le critiche di certa stampa convinta che non sia capace di suonare alcuno strumento. «È una fissa mettere in dubbio le mie capacità» afferma in un’intervista realizzata a Londra da Piergiorgio “P.G.” Brunelli ed apparsa su Dance Music Magazine a maggio 1995. «Suono la chitarra da venti anni, perché dovrei usare un campionamento? Ho suonato di tutto, dalla chitarra al basso, dalle tastiere alle percussioni sino alla batteria. Ammetto che la maggioranza dei musicisti dance non sappia suonare musica ma io sono tutt’altro che un idiota. Qualsiasi cosa che esca da uno speaker e genera in me emozioni è positiva, non importa che sia un campionamento o un assolo di chitarra. Vorrei che fosse possibile apprezzare allo stesso tempo la gay-disco e i Biohazard, senza barriere mentali». Uno dei singoli estratti da “Everything Is Wrong” è “Everytime You Touch Me”: la versione originale contiene ancora retaggi del breakbeat di memoria rave ma con meno asperità ritmiche ed inselvaggimenti ridotti praticamente a zero, rimpiazzati da evidenti slanci melodici (vocali e pianistici) intarsiati a brevi parentesi raggamuffin ai tempi parecchio in auge nell’eurodance. A garantire il successo al brano nei primi mesi del 1995 però è uno dei tanti remix giunti sul mercato, quello degli infaticabili Beatmasters che nella loro Uplifting Mix lo ricostruiscono interamente edificando all’interno di esso due blocchi, uno più felice e radioso alimentato dalle voci di Rozz Morehead e Kochie Banton, l’altro più ombroso da cui riaffiora la sensibilità ravey. La Beatmasters 7″, una sorta di re-edit ma con un appeal più radiofonico, viene scelta invece per il videoclip. «Preferisco remixare le mie canzoni da solo perché è divertente ed economico, ma non sono geloso di ciò che faccio e se qualcuno vuole lavorare su un mio pezzo solitamente lascio fare» prosegue l’artista nella sopraccitata intervista. «Non tutti i miei brani però sono a disposizione, quelli molto personali non voglio darli a nessuno. Sono come i miei bambini ed hanno un significato particolare che non va stravolto». A prendere in licenza per l’Italia “Everytime You Touch Me” è la napoletana Flying Records che lo abbina ad una copertina di Patrizio Squeglia e lo convoglia sulla neonata Drohm varata a fine ’94 con “I Let U Go” dei KK e trainata dal successo di “Wonder” di DJ Cerla & Moratto. Sul 12″, oltre alle due versioni dei Beatmasters, ci sono pure la Na Feel Mix e la Freestyle Mix ad opera dello stesso Moby, e a completamento quella di Jude Sebastian, vincitore di una remix-competition a cui partecipano ben quattrocento persone. Da noi il successo è palpabile, il pezzo entra nell’airplay radiofonico e in decine di compilation. Pochi anni più tardi il musicista statunitense rimette tutto in discussione aprendo una nuova fase della carriera caratterizzata da caleidoscopiche sollecitazioni che lo trasformeranno in una sorta di cantautore electronic pop del nuovo millennio. Risultano profetiche, a tal proposito, le parole con cui chiude quell’intervista del 1995 in cui Brunelli gli domanda se abbia una band: «Io sono il gruppo, suonerò tutto eccetto le percussioni. Ho poca pazienza coi musicisti che non sono capaci di fare ciò che gli chiedo, ed io ho grosse pretese».

Moloko - Sing It BackMoloko – Sing It Back
Il duo dei Moloko (il compositore/produttore Mark Brydon e la cantante Róisín Murphy) non impiega molto a raggiungere il successo: già nel 1995, anno del debutto, si impone un po’ ovunque con “Fun For Me”, estratto dall’album “Do You Like My Tight Sweater?”. Nel successivo, “I Am Not A Doctor” uscito nel 1998, figura “Sing It Back”, un brano che plana magicamente su una coltre di materia fumosa dalla singolare consistenza. A dargli la spinta necessaria per trasformarlo in un successo pop è una delle versioni che appaiono nei primi mesi del ’99, la Boris Musical Mix del DJ tedesco Boris Dlugosch, affermatosi nel ’96 con “Keep Pushin'”, nonostante l’etichetta avesse puntato tutto sul remix di Todd Terry, la Tee’s Freeze Mix, sperando che potesse seguire lo stesso corso di “Missing” degli Everything But The Girl. Corre voce che Brydon e la Murphy abbiano faticato non poco per convincere i dirigenti della Echo ad inserire sul disco la versione di Dlugosch (affiancato dal fido collaboratore Michi Lange con cui incide altri discreti successi come “Check It Out! (Everybody)” di BMR, “Azzurro” di Fiorello e i remix per “Blen Blen” di Edesio e “Never Enough” della stessa Murphy) a conti fatti quella che ha trasformato “Sing It Back” in una hit mondiale.

Moratto - WarriorsMoratto – Warriors
Analogamente ad altri dischi trattati in questo articolo, pure “Warriors” viene immesso sul mercato con un remix ad affiancare la versione originale. Nella Bat Mix Elvio Moratto riversa la passione che ai tempi nutre per la dance di matrice mitteleuropea, quella che prende le mosse da generi come hard trance, progressive, rave techno ed happy hardcore, ma nel contempo la farcisce con una vena melodica tipicamente all’italiana. Cantato da Jo Smith, “Warriors” esce nei primi mesi del 1995 raccogliendo discreto successo grazie al remix dei Datura intitolato, forse non casualmente, Main Mix. Pagano, Mazzavillani e Ricci DJ approntano una versione che non differisce molto da quella originale ma risultando d’impatto e garantendo un buon airplay radiofonico ed un’apprezzabile resa in termini di vendite seppur non paragonabile a quella di altri pezzi del repertorio morattiano, su tutti “La Pastilla Del Fuego” dell’anno prima, peraltro remixato sempre dai bolognesi Datura in una sorta di mash-up con la loro “Eternity”. «L’idea di affidare il remix ai Datura fu mia, trattandosi di un team con cui avevo piacere di collaborare» dichiara oggi Moratto contattato per l’occasione. «La scelta di puntare su quella versione come principale però non dipese da me. “Warriors” vendette 20.000 copie in Italia, compreso il Live Remix che feci successivamente e che viene ancora suonato in alcuni club oltremanica». Discutibile, forse, la scelta della Flying Records di commercializzare “Warriors” proprio mentre imperversa “Wonder” che Moratto realizza a quattro mani con DJ Cerla per un’etichetta della stessa società, la neonata Drohm, ritrovandosi paradossalmente a far concorrenza a se stesso. «Entrambi i brani furono prodotti nello stesso periodo ma non credo sia stato controproducente pubblicarli quasi in contemporanea. “Wonder” abbracciò il pubblico commerciale e vendette molto di più ma poiché editi dallo stesso gruppo discografico, alla Flying decisero di investire solo in un video, quello di “Wonder”» conclude Moratto.

Mulu - PussycatMulu – Pussycat
Autentica meteora nella seconda metà degli anni Novanta, i Mulu (Alan Edmunds e Laura Campbell) debuttano nel ’96 con “Desire”, primo singolo estratto da “Smiles Like A Shark”. Nel ’97, tratto dallo stesso LP, tocca a “Pussycat”, un brano downtempo per cui viene girato un videoclip e che, come si usa fare allora, viene dato in pasto a vari remixer. Tra loro c’è François Kevorkian che rende il pezzo appetibile alle piste da ballo trasformandolo in una gioiosa cantilena. A pubblicarlo in Italia è la Nitelite The Club Records, etichetta del gruppo Do It Yourself che in copertina piazza un bel “n° 1 club hit”.

Negrocan - Cada VezNegrocan – Cada Vez
Nati a Londra nei primi anni Novanta dalla collaborazione tra diversi musicisti provenienti da più parti del globo (tra cui il percussionista triestino Davide Giovannini), i Negrocan incidono il primo album intitolato “Medio Mundo” nel 1996. Uno dei pezzi racchiusi all’interno ed estratto come singolo è “Cada Vez”, scandito da ritmi caraibici, elementi bossanova e dalla voce della brasiliana Liliana Chachian. I responsi sono impietosi e il brano finisce presto nel dimenticatoio. Alla fine del 1999 però il remix del britannico Grant Nelson, che trasla il mood latino di partenza nel mondo della house facendo il verso allo stile dei Masters At Work, apre nuove ed inaspettate prospettive. In verità a sancire la rinascita del brano nel 2000 è un’altra versione, quella realizzata da Jerry Ropero, belga trapiantato in Spagna, capace di enfatizzare ulteriormente le potenzialità del brano dei Negrocan. L’Avant Garde Remix (Avant Garde è il progetto con cui nel ’99 Ropero & soci catalizzano l’attenzione europea attraverso “Get Down”) conquista prima i DJ dei club e poi anche i programmatori radiofonici, e nell’arco di pochi mesi il pezzo esplode in buona parte del vecchio continente. A pubblicarlo in Italia (inclusa la Album Version) è la Heartbeat del gruppo Media Records che, in seconda ripresa, mette in circolazione due ulteriori rivisitazioni, quella di Intrallazzi & Fratty e quella di Gigi D’Agostino che, all’apice della popolarità, alimenta ulteriormente il successo trasversale e momentaneo dei Negrocan.

Neja - RestlessNeja – Restless
Dopo l’esordio in sordina del ’97 con “Hallo”, per Agnese Cacciola alias Neja si aprono le porte del successo. Ciò avviene con “Restless”, un pezzo prodotto da Alex Bagnoli presso il suo Alby Studio, a Modena, che si impone come hit estiva in Italia e poi fa il giro del mondo ma soltanto a diversi mesi dall’uscita del disco. L’Extended Version è gradevole ma poco impattante a livello pop. Ci pensano i Bum Bum Club a riconfezionare la canzone in un efficace remix perfettamente calato in una dimensione che sposa le capacità vocali della cantante piemontese alle caratteristiche dell’italodance di fine decennio. Tale versione è scelta per accompagnare il videoclip. Alla luce dei risultati, i Bum Bum Club vengono ingaggiati per il follow-up, l’autunnale “Shock!”, che però raggiunge risultati più contenuti. Il tutto sotto la direzione di Pippo Landro della New Music International che vuole Neja su LUP Records, etichetta partita con “Illusion” dei Ti.Pi.Cal. nel 1994.

New Atlantic - The Sunshine After The RainNew Atlantic – The Sunshine After The Rain
Sino al 1994 la popolarità dei New Atlantic (Richard Lloyd e Cameron Saunders, da Southport, a pochi chilometri da Liverpool) non riesce ad andare oltre i confini patri. I tentativi di replicare il buon successo ottenuto con “I Know” vanno a vuoto ma quando tutte le speranze sembrano perdute accade qualcosa di inaspettato. Sulla scrivania di Jon Barlow, manager della 3 Beat Music che ha messo sotto contratto il duo, arriva “The Sunshine After The Rain”, cover dell’omonimo di Ellie Greenwich del ’68 e già ripreso con successo da Elkie Brooks nel ’77. La versione originale, pare realizzata da Neil Bowser alias U4EA, è inchiodata ad una base breakbeat, piena di asperità ritmiche. Il successo è assicurato dal remix realizzato in Italia da Roberto Gallo Salsotto in cui vengono sapientemente bilanciate ariose melodie eurodance al rigore meccanico di un bassline di moroderiana memoria. «Alla 3 Beat furono entusiasti del risultato e, per dare al disco una spinta maggiore in scia al successo di “Everybody Gonfi-Gon” che avevano licenziato pochi mesi prima, mi chiesero di usare il marchio Two Cowboys che condividevo con Maurizio Braccagni, nonostante avessi eseguito quel remix da solo» racconta qui Gallo Salsotto. La sua versione viene scelta sia per sincronizzare il videoclip che per accompagnare le apparizioni televisive come quella a Top Of The Pops. L’immagine è affidata invece a Rebecca Sleight alias Berri che dal 1995 diventa unica interprete del brano pubblicato in tutto il mondo con oltre 200.000 copie vendute.

Nick Beat - TechnodiscoNick Beat – Technodisco
Partito nel 1996 con “Bow Chi Bow” che attinge dal classico dei Vicious Delicious intitolato “Hocus Pocus”, Nick Beat è il progetto tedesco messo su da Tom Keil e Thorsten Adler. I due fanno centro nel 2000 con “Technodisco”, un pezzo che inizia a circolare in formato white label e che in breve tempo conquista le attenzioni della Zeitgeist del gruppo Polydor, probabilmente attratta dalla evidente somiglianza con una hit di poco tempo prima, “Kernkraft 400” degli Zombie Nation. La versione originale, la Technodiscomix, fa incetta dei tipici elementi della dance tedesca di allora con retaggi hard trance misti a suonini che sembrano saltare fuori da un vecchio coin-op degli anni Ottanta. Dei diversi remix giunti sul mercato quello di Axel Konrad, figura chiave della handsup teutonica, si distingue meglio per il grande pubblico. Più “picchiaduro”, per restare ancorati al mondo dei videogiochi d’antan, sono le versioni del compianto Pascal F.E.O.S. e di Thomas P. Heckmann. A pubblicare il disco in Italia è la Green Force del gruppo Arsenic Sound, lo stesso che prende in licenza “Kernkraft 400″ e che, a distanza di qualche settimana, mette in vendita un 12” con due ulteriori remix di “Technodisco” a firma DJ Gius, l’artefice del successo mondiale di Zombie Nation di cui si parla più avanti.

Nightcrawlers - Push The Feeling OnNightcrawlers – Push The Feeling On
Ispirata da “Pass The Feelin’ On” dei Creative Source, “Push The Feeling On” esce nel 1992 e prova a ritagliarsi un posto nel mercato acid jazz a cui la band dei Nightcrawlers, guidata dal cantante John Reid, approccia già l’anno prima con “Living Inside A Dream”. Il destino però ha in serbo altri progetti. La Nocturnal Dub realizzata dal DJ americano Marc ‘MK’ Kinchen, fratello di Scott Kinchen alias Scotti Deep, dona al brano una veste completamente diversa, ritmicamente (con una base in stile StoneBridge) e sotto il profilo dell’arrangiamento con un assolo di sax che, insieme ad una filastrocca di loop vocali concatenati, diventa un autentico tormentone. Sarà sempre Kinchen a perfezionare ulteriormente “Push The Feeling On” nella MK Mix 95 giunta, per l’appunto, nel 1995, anno in cui si cerca, proprio col suo aiuto, di bissare il successo con altri singoli (“Surrender Your Love”, “Don’t Let The Feeling Go”, “Let’s Push It”) ma con risultati inferiori. Difficile o forse impossibile tenere il conto dei remix, riadattamenti (si senta, ad esempio, “Control Your Body” di Wagamama) e cover di “Push The Feeling On” usciti nell’arco di quasi un trentennio a cui si è recentemente aggiunta la fortunata versione di Riton.

Nina - I'm So ExcitedNina – I’m So Excited
La croata Nina Badric inizia la carriera da cantante nei primi anni Novanta ma con pochi risultati che valicano i confini. La situazione cambia alla fine del 1998 grazie al brano “I’m So Excited”, remake dell’omonimo delle Pointer Sisters prodotto da Albert Koler, che invece fa il giro di buona parte d’Europa conquistando in particolar modo Austria, Francia, Spagna, Grecia ed Italia. La main version, la NYC RnB Mix, è una slow ballad r&b per l’appunto. Koler appronta comunque una versione destinata alle discoteche, la Exciting House Mix. In Italia però Nina spopola grazie ad uno dei due remix realizzati da Alex Voghi e Filippo ‘Sir H’ Soracca, precisamente il Solid State Dance, che tiene banco sino all’estate 1999. A pubblicare il brano, sia su 12″ che CD singolo, è la Dance Excess del gruppo Hitland. Per il follow-up, “One & Only”, la casa discografica scommette sulla versione di DJ Dado realizzata insieme a Roberto Gallo Salsotto presso il suo Stockhouse Studio.

Olive- You're Not AloneOlive – You’re Not Alone
Londra, 1994: il musicista Tim Kellett, ex componente dei Simply Red, e Robin Taylor-Firth, dalla formazione dei Nightmares On Wax, si conoscono attraverso un amico comune ed iniziano a buttare giù idee nello studio casalingo di Kellett. Approntano tre demo, strumentali. Uno di quelli diventa “You’re Not Alone” con la voce di Ruth-Ann Boyle che proprio Kellett sente per caso, attraverso una registrazione, durante una tappa del tour dei Durutti Column per cui quell’anno è ingaggiato come tastierista. La Boyle, tra le coriste dell’album “Sex And Death” degli stessi Durutti Column, si diletta a cantare con band locali della sua città natale, Sunderland, ma sino a quel momento non ha maturato significative esperienze professionali. A settembre del 1995 i tre firmano un contratto con la RCA che nel 1996 pubblica l’album “Extra Virgin”. L’LP, come dichiara Taylor-Firth in questa intervista del 2007, viene realizzato con un paio di sintetizzatori (Roland Juno-60 ed E-mu Vintage Keys) e tre campionatori Akai S3000. Il primo singolo ad essere estratto è “You’re Not Alone”, accompagnato dal relativo videoclip. I responsi sono impietosi, il mix tra rarefatte atmosfere ambientali ed accartocciamenti trip hop non sortisce grandi risultati, e neanche i remix firmati da nomi blasonati come X-Press 2 e Tin Tin Out, tempestivamente pubblicati anche in Italia dalla Flying Records, riescono ad invertire la rotta. Nel 1997 arrivano nuove versioni tra cui quelle di Roni Size, The Ganja Kru, Rollo & Sister Bliss dei Faithless e Paul Oakenfold & Steve Osborne e per gli Olive le cose cambiano radicalmente, in modo simile a quanto avvenuto pochi anni prima ai connazionali N-Trance con “Set You Free”. “You’re Not Alone” entra nella classifica britannica e vende oltre 500.000 copie trainando “Extra Virgin” che la RCA ovviamente ristampa distribuendolo in tutto il mondo, ma curiosamente solo in formato CD e cassetta (il vinile arriva quasi venti anni dopo, nel 2016). A maggio del 1997 ad osannare gli Olive è anche il pubblico di Top Of The Pops mentre arriva un secondo video di “You’re Not Alone” che fa da cornice ad un tour internazionale. Così come la Boyle raccontava anni fa sul suo sito, Madonna assiste ad una performance in Germania proprio durante quel tour e, con entusiasmo, propone alla band di incidere un nuovo album per la sua etichetta, la Maverick. Il disco arriva nel 2000 e si intitola “Trickle”. Più di qualche critico musicale (tra cui Larry Flick in una recensione apparsa su Billboard l’11 aprile 1998) però fa notare che la fascinazione su Madonna prende già corpo con “Frozen”, prodotta da William Orbit, remixata per i club da Victor Calderone e contenente i parametri di “You’re Not Alone”. La hit degli Olive continuerà ad essere motivo d’ispirazione come testimoniano molteplici cover uscite nel corso degli anni a partire da quella del tedesco ATB risalente al 2002.

Paul van Dyk - For An AngelPaul van Dyk – For An Angel
“For An Angel” è uno dei brani racchiusi in “45 RPM”, album di debutto per Paul van Dyk nonché il primo dei due che il DJ destina alla MFS di Mark Reeder. Co-prodotta con l’ingegnere del suono Johnny Klimek, la traccia è imperniata su un breve riff melodico innestato su una base più vicina alla progressive house che alla trance. Nota essenzialmente a chi ha comprato quell’album, nel 1998 per “For An Angel” si apre una seconda vita, molto più intensa della precedente. La britannica Deviant Records del compianto Rob Deacon pubblica un 12″ con tre remix della traccia per lanciare il tedesco oltremanica. Tra quelle nuove versioni c’è la E-Werk Club Mix, approntata dallo stesso van Dyk: grazie ad un ritmo più euforico simile a quello costruito per il remix di “1998” dei Binary Finary, il brano adesso conquista l’intera platea europea, complici la Love Parade di Berlino dove è consacrata allo status di inno ed un videoclip girato per l’occasione. A pubblicare il disco in Italia è la Milk’n Honey, una delle etichette del gruppo More Music curata artisticamente da Raffaela Travisano intervistata qui.

Powerhouse Featuring Duane Harden - What You NeedPowerhouse Featuring Duane Harden – What You Need
Powerhouse è il nome con cui il DJ newyorkese Lenny Fontana firma un successo mondiale nel 1999. Avvalendosi della graffiante voce di Duane Harden, lo stesso che interpreta “You Don’t Know Me” di Armand Van Helden, e sfruttando abilmente un campionamento tratto da “I’m Here Again” di Thelma Houston, Fontana assembla un brano irresistibile, legato tanto alla house quanto alla disco. La versione passata alla storia però non è l’Original Mix bensì il remix dei britannici Full Intention (Jon Pearn e Michael Gray), da anni attratti da quel tipo di fusione stilistica a cui peraltro devono gran parte della loro popolarità (si pensi a brani del repertorio come “Uptown Downtown”, “America (I Love America)” e “Shake Your Body (Down To The Ground)”). È proprio il remix dei Full Intention ad essere sincronizzato sul videoclip programmato dalle tv musicali sparse in tutto il pianeta.

Rachid - PrideRachid – Pride
Figlio del compianto Ronald Nathan Bell, uno dei fondatori dei Kool & The Gang, l’allora ventiquattrenne Rachid non intende affatto usare il nome del padre come scorciatoia per raggiungere il successo o grimaldello per aprire porte nel music biz. Si propone piuttosto come un sedicente poeta punk, ispirato da Björk, Bauhaus, Sonic Youth, Chaka Khan, David Bowie e Marcel Proust, e mostra interessi plurimi che passano dal trip hop all’industrial, dal drum n bass al folk e al soul con l’intenzione di creare il prototipo della musica del futuro. Non a caso “Prototype” è il titolo del suo primo (ed unico) album che Universal pubblica nel 1997 raccogliendo rincuoranti consensi dalla critica che ne parla come disco candidato a ridefinire i confini del pop. Anche il primo singolo estratto, “Pride”, promette molto bene. «È stata la prima canzone che ho registrato, musicandola con un sample hip hop e il suono del violoncello, credo sia perfetta per introdurre il pubblico a ciò che rappresento» spiega l’artista in un’intervista a cura di Michael A. Gonzales apparsa a settembre 1998 sulla rivista americana Vibe. In circolazione finisce pure il video destinato al circuito delle tv musicali. Una serie di remix poi traghetta Rachid anche nel mondo dei DJ e delle discoteche: in particolare è la versione dei Mood II Swing ad essere salutata con maggior entusiasmo, pure in Italia dove viene pubblicata ad inizio ’98 dalla Nitelite The Club Records del gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che rimarca la presenza di quella versione in copertina. Sul trampolino di lancio c’è già il secondo singolo, “Charade”, ma dissapori con la Universal, causati da un presunto cambio di politica aziendale, bloccano tutto. Di “Charade” inoltre è pronto un remix realizzato da Grooverider ma la fine del rapporto con la casa discografica vanifica tutto. Nel 2007 lo stesso Grooverider manda in onda quel remix nel suo radio show su BBC Radio 1, invitando gli ascoltatori a registrarlo perché rarissimo ed inciso su pochissimi acetati.

Rahsaan Patterson - Where You AreRahsaan Patterson – Where You Are
Dopo alcune esperienze come attore, Patterson approda alla musica figurando come corista per vari artisti, su tutti Brandy nel brano “Baby” del ’94. L’anno dopo viene scritturato dalla MCA che nel ’97 pubblica il suo primo album intitolato “Rahsaan Patterson”, un condensato di soul ed r&b. In questo LP c’è “Where You Are”, una ballata romantica supportata dal relativo video. A portare la musica di Patterson al grande pubblico è però il remix di Steve “Silk” Hurley, praticamente in stato di grazia dopo “The Word Is Love” realizzata pochi mesi prima con Sharon Pass e a cui i suoi tanti remix di quel periodo, incluso quello per Rahsaan Patterson, sono direttamente connessi.

Ralphi Rosario Featuring Donna Blakely - Take Me Up (Gotta Get Up)Ralphi Rosario – Take Me Up (Gotta Get Up)
Tra i veterani della scena house chicagoana nonché membro del collettivo Hot Mix 5, Ralphi Rosario incide un inno monolitico nel 1987, “You Used To Hold Me”. Instancabile DJ e produttore/remixer, torna al successo trasversale capace di abbracciare pure il frangente mainstream esattamente dieci anni più tardi, a fine ’97, quando circola un doppio mix su Underground Construction intitolato “Take Me Up (Gotta Get Up)”. La versione originale del brano, interpretato dalla compianta Donna Blakely che mette bene in mostra le proprie potenzialità vocali, gira su un ossessivo basso su cui si innesta a ventaglio tutta una serie di elementi, da fiati ad inserti di tastiere. È perfetto per i club specializzati, meno per le radio e le grandi platee. Uno dei quattro remix incisi sul doppio però, quello di Rafael Rodriguez alias Lego che un paio dopo spopola grazie ad “El Ritmo De Verdad”, capovolge la situazione. Con un ipnotico loop ritmico su cui cresce rigogliosamente la voce della Blakely, il pezzo esplode nei primi mesi del 1998 affermandosi in buona parte d’Europa. A licenziarlo in Italia è la Rise, neonata etichetta della Time Records curata da Alex Gaudino che sul 12″, oltre alla Lego’s Mix ovviamente piazzata in posizione A1, vuole pure la versione dei Fire Island. L’Original Club Mix di Rosario è relegata invece al lato b. Sul CD singolo finiscono infine altri due remix, quelli di Kevin Halstead (anche lui passato a miglior vita) e JJ Flores ma ininfluenti per il successo commerciale del brano.

Reel 2 Real - Go On MoveReel 2 Real – Go On Move
Balzati all’attenzione generale tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994 con “I Like To Move It”, i Reel 2 Real capitanati dal compianto Erick Morillo cavalcano la seconda ondata hip house insieme ad artisti come 2 In A Room, 740 Boyz, Outhere Brothers e KC Flightt. Il follow-up del citato “I Like To Move It” è proprio “Go On Move”, un brano risalente all’anno prima quando la Strictly Rhythm lo pubblica ma senza raccogliere grandi risultati. Nella Erick “More” Mix si sente bene l’imprinting morilliano ma solo grazie alla Erick “More” 94 Vocal Mix, accompagnata dal relativo videoclip e da una parte vocale più estesa interpretata da Mark Quashie alias The Mad Stuntman, il brano diventa un successo estivo. In Italia è un’esclusiva della napoletana UMM che in autunno pubblica anche l’album “Move It!” da cui verranno estratti altri singoli più o meno fortunati come “Can You Feel It?”, “Raise Your Hands” e “Conway”.

Rexanthony - Capturing MatrixRexanthony – Capturing Matrix
Le prime versioni di “Capturing Matrix”, tra cui svetta la Trancegression, iniziano a circolare nella primavera del 1995 attraverso un mix edito dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. Quella dell’allora diciottenne Anthony Bartoccetti, figlio dei musicisti Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui) ed Antonio Bartoccetti, è indiavolata hard trance in cui scorre una spiccata vena melodica che gli apre le porte del mainstream. A decretare il successo del brano a fine estate è il remix realizzato dallo stesso Rexanthony che la S.O.B. immette sul mercato su un 12″ contenente “Cocoacceleration”, realizzata a quattro mani con Molella, e “Deltasygma”. Il successo è tale da conquistare la vetta della classifica dance ai tempi più monitorata ed influente d’Italia, la DeeJay Parade, e generare più di qualche clone realizzato in copia carbone come “Melody In Motion” di Liberty. Ps: si narra che la linea melodica di “Capturing Matrix” sia stata ispirata da “Capturing Universe”, un brano composto dai genitori di Bartoccetti nel 1980 per l’album “Praeternatural” ma di cui non vi è traccia sino al 2003, anno in cui viene pubblicato dalla Black Widow Records. Pare più plausibile invece la relazione tra “Capturing Matrix” (e il follow-up autunnale “Polaris Dream”) e “Universe Of Love” del tedesco RMB, uscita nel ’94 e di cui parliamo qui nel dettaglio.

Robert Miles - ChildrenRobert Miles – Children
Quando si accorge che in circolazione c’è un altro Roberto Milani, pseudonimo utilizzato per alcuni dischi che non riescono ad uscire dall’anonimato, Roberto Concina modifica il suo alter ego ed opta per l’inglesizzazione, Robert Miles. Il primo 12″ firmato col nuovo nome è “Soundtracks”, pubblicato nei primi mesi del 1995 da una delle etichette di Joe T. Vannelli, la DBX Records. Uno dei quattro brani inclusi è “Children”, seppur storpiato da un errore tipografico, sia sulla copertina che sull’etichetta centrale, in “Childrtens”. Questa versione, un ibrido tra progressive house e progressive trance con arcate melodiche in grande evidenza, viene completamente snobbata. Quando la Platipus di Simon Berry prende in licenza “Children” per il territorio britannico però cambia tutto. All’etichetta d’oltremanica Concina destina anche un remix del brano in cui la vena melodica è implementata da un assolo di pianoforte che anni dopo si scoprirà essere parzialmente ispirato da “Napoi Menia Vodoi” del musicista russo Garik Sukachov, sembra col suo benestare. Ad onor del vero anche l’impostazione armonica di stampo new age, già presente nell’Original Version, pare non essere farina del suo sacco: come si legge in questo articolo del 18 settembre 1997, il musicista Patrick O’Hearn accusa Concina di plagio ai danni del suo “At First Light”, contenuto nell’album “Ancient Dreams” del 1985, e chiede oltre dieci milioni di dollari come risarcimento. Comunque siano andate le cose, quel remix del brano, poi diventato la definitiva Dream Version, cambia la vita di Concina, conquistando la vetta delle classifiche in ben diciotto Paesi del mondo e vendendo milioni di copie, dai tre e mezzo ai cinque, secondo diverse interviste. Il resto lo potete leggere in questo dettagliato articolo.

Robin S - Show Me LoveRobin S – Show Me Love
Nata nel 1962 a New York, Robin Stone debutta nel 1990 col brano “Show Me Love”, scritto e prodotto per la londinese Champion da Allen George e Fred McFarlane incontrati, come lei stessa racconta in un’intervista rilasciata nell’autunno del 1994, durante una delle serate che tiene nei dinner club e nei privée delle discoteche dell’area newyorkese insieme alla sua band, i Top Shelf. La versione principale, la Montego Mix, è mixata da Anthony King e scorre su partiture house garage, non pretenziose ed un filo banali seppur ben realizzate. In pochi si fanno avanti, la ZYX per la Germania, la Carrere per la Francia e la Media Records per l’Italia che lo pubblica sulla Whole Records ma con risultati deludenti. “Show Me Love” finisce presto nel dimenticatoio. Un paio di anni dopo circa però un remix proveniente dalla Svezia cambia il corso degli eventi. A realizzarlo sono StoneBridge e Nick Nice della SweMix, un collettivo di DJ e produttori in cui figurano, tra gli altri, anche il compianto Denniz Pop e Douglas Carr. Gli svedesi dotano il pezzo di un apparato ritmico/sonoro interamente nuovo che fornisce a “Show Me Love”, ora ripubblicato in tutto il mondo, una seconda vita che di fatto non si è mai conclusa a giudicare dal numero di remake e remix usciti sino ad oggi. Anche la cantante, coinvolta nel videoclip sincronizzato sulla nuova versione, si ripresenta al pubblico con un nome parzialmente diverso, Robin S. Ad accaparrarsi i diritti per la pubblicazione in Italia è D:Vision Records del gruppo Energy Production, la stessa che si aggiudica il follow-up “Luv 4 Luv”, ancora remixato da StoneBridge.

Roc & Kato - AlrightRoc & Kato – Alright
Il duo americano formato da Ramon Ray Checo e Juan Kato incide house music sin dal 1991 ma senza velleità commerciali. Il loro sound è fedelmente ancorato alla scena house newyorkese come testimoniato dai vari dischi del repertorio, incluso “Alright” che la Slip ‘n’ Slide pubblica nella primavera del 1995. La Original Vocal Mix è spassionata house garage, cantata da Charmaine Radcliff e Bendel Holt con inserti di pad ed un organo hammond. Sul doppio figurano già un paio di remix, tra cui quello di Davidson Ospina, che ingolosiscono gli adepti della garage e che stuzzicano qualcuno alla sede della Discomagic che prende in licenza il brano per l’Italia ristampandolo su etichetta Reform. A far cambiare traiettoria ad “Alright” sarà, qualche mese più tardi, il remix firmato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che da noi diventa un discreto successo autunnale. La nuova versione, pubblicata sempre da Reform e realizzata negli studi della bresciana DJ Movement insieme al musicista Pieradis Rossini, mantiene pochi elementi dell’originale puntando ad una ricostruzione fatta di suoni eurodance ed un cantato che fa leva sull’hook di facile memorizzazione.

Rosie Gaines - Closer Than CloseRosie Gaines – Closer Than Close
La versione originale, in stile r&b, risale al 1995 ed è inclusa nell’album omonimo su Motown, “Closer Than Close”, il secondo inciso dalla cantante californiana, ex corista dei New Power Generation. A conquistare il mondo delle discoteche e le classifiche di vendita europee (soprattutto quella britannica di cui raggiunge la vetta) è però il remix esploso due anni più tardi. A realizzarlo sono i Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza) che con la loro rielaborazione garage house, in circolazione già dal 1996 in formato white label e supportata da molti DJ tra cui il nostro Coccoluto come si legge qui, garantisticono alla Gaines un momento di inaspettata popolarità riuscendo a dare filo da torcere agli altri remixer coinvolti, i londinesi Tuff Jam e l’indimenticato Frankie Knuckles. Per l’occasione viene girato un videoclip diretto da Steve Price. Nella sua biografia Torrales parla di oltre otto milioni di copie vendute, una soglia incredibile per un pezzo che nella versione di partenza aveva rivelato ben poche speranze di sviluppo. Con lo scopo di rendere quanto più longevo possibile l’exploit di Rosie Gaines, la Bigbang Records commissiona sempre ai Mentor il remix del follow-up, “I Surrender”, ma fallendo l’obiettivo.

Run Feat. Justine Simmons - Praise My DJ's (My Funny Valentine)Run Feat. Justine Simmons – Praise My DJ’s (My Funny Valentine)
Inizialmente pubblicato dalla britannica Positivity Records diretta dall’A&R Carlton Brady, “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” è un pezzo hip house modellato sulle liriche di una vecchia canzone scritta negli anni Quaranta da Richard Rodgers e Lorenz Hart, “My Funny Valentine”. Ad interpretarlo sono Joseph Simmons alias Run (il Run dei Run-DMC) e la moglie Justine, ma i risultati ottenuti con le versioni iniziali prodotte da Kirwin Rolle e Remano Dunkley sono particolarmente deludenti. Il remix invece, realizzato in Italia dal team dei Mach 3, capovolge letteralmente la situazione trasformando la traccia in un successo dalle dimensioni internazionali. Merito di un trattamento che gli autori (Alessandro Zullo, Andrea Monta e Luca Neuburg, coadiuvati dagli scratch di DJ Aladyn) edificano rispolverando il mood nevinsiano di “It’s Like That” abbinato a stab di memoria rave ma soprattutto ad un riff fischiettato, vero elemento identificativo che fa di “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” un tormentone tra la primavera e l’estate 1999, accompagnato dal relativo videoclip ovviamente sincronizzato sul remix. A commissionare il lavoro ai Mach 3 (e al veneto Spiller, prossimo ad esplodere con la sua “Groovejet”) è la More Music Italy, ai tempi guidata dalla citata Raffaela Travisano, che convoglia il brano su etichetta Priveé. «Super programmato in radio e in discoteca e presente nelle top ten di vendita, a dimostrazione che le diffidenze delle prime settimane erano totalmente ingiustificate» scrive in merito Eugenio Tovini sulle pagine di Trend Discotec a luglio di quell’anno. Il follow-up, “Check Out The Floor (Summer Breeze)”, remixato ancora dai Mach 3 in quella che pare davvero la fotocopia del precedente, arriva solo nel 2001 sulla 909 Records, una delle label di Joe T. Vannelli, ma ormai fuori tempo massimo.

Run-DMC - It's Like ThatRun-DMC – It’s Like That
Nel 1997, quattordici anni dopo la pubblicazione sulla Profile Records, un remix (in Italia pubblicato dalla bresciana Time) riporta in vita “It’s Like That”, singolo d’esordio dei Run-DMC, dando ad esso una nuova veste sonora ed un’inedita prospettiva. L’artefice, il newyorkese Jason Nevins, sovrappone l’acappella originale ad una trascinante base e il risultato piace talmente tanto da conquistare la prima posizione delle classifiche di vendita in svariate nazioni e macinando oltre cinque milioni di copie anche se Nevins, pare, abbia incassato solo 5000 sterline così come riportato qui dalla BBC. Per far fronte al successo inaspettato viene girato un videoclip che proietta il gruppo in una scena ben diversa rispetto a quella hip hop e ciò provoca, prevedibilmente, aspre critiche degli integralisti, poco propensi a mandare giù una versione più volte definita “pacchiana”. Si parla anche di screzi e risentimenti tra il remixer e gli autori emersi nel 1999 attraverso la rivista XXL Magazine. Comunque sia il particolare beat, una sorta di brutalizzazione di “The House Of God” di DHS, diventa una tag identificativa per Nevins, pronto a riutilizzarlo per altri remix come quello di “It’s Tricky”, ancora dei Run-DMC, e “We Want Some Pussy!” dei 2 Live Crew a cui seguono anche vari tentativi di imitazione come “Work It” di Junkfood Junkies e “I Know You’ve Got Soul” di Trade Secrets.

Sandy B - Make The World Go RoundSandy B – Make The World Go Round
Contrariamente a quanto avviene di solito nel mondo della musica, la carriera della cantante statunitense Sandra Barber decolla dopo aver mollato le multinazionali in favore di etichette indipendenti. Negli anni Ottanta milita prima nei Chew (per la Capitol Records) e poi nei Blue Moderne, sotto contratto con l’Atlantic, ma il successo internazionale giunge nel ’92 grazie a “Feel Like Singin'”, edito da Nervous Records ed impreziosito da un remix di David Morales. Il vero botto nel 1996 con “Make The World Go Round”, pubblicato dalla Champion pare bypassando del tutto la versione originale rimasta, secondo quanto riportato ai tempi da un magazine tedesco, nel cassetto ed allo stato di demo. Scritto da Brinsley Evans e Thomas Del Grosso, il brano si impone in tutto il mondo grazie al remix dei Deep Dish, colorito da un caratteristico disegno di basso che risulterà l’indiscusso punto di forza tanto da essere riproposto in innumerevoli salse, a partire da “Let Me Show You” di Camisra. Con il loro Round The World Remix dunque, Dubfire e Sharam surclassano le rivisitazioni di esimi colleghi come StoneBridge e Kerri Chandler, e dimostrano che il successo ottenuto l’anno prima col remix di “Hideaway” dei De’Lacy, di cui si è già detto sopra, non fu solo frutto della fortuna. Commercialmente meno entusiasmante sarà invece il follow-up, “Ain’t No Need To Hide”, che i Deep Dish rileggono nella Sequel Mix in Italia pubblicata, analogamente a “Make The World Go Round”, dalla D:Vision Records.

Scott Grooves - Mothership ReconnectionScott Grooves – Mothership Reconnection
A portare grande popolarità a Patrick Scott, DJ e produttore di Detroit meglio noto come Scott Grooves, è “Mothership Reconnection”, rielaborazione house di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton anche se, come chiariscono i crediti, i frammenti campionati non sono del brano uscito nel 1975 bensì quelli presi dal Live di Houston registrato dieci anni più tardi. Ai tempi la versione di Scott viene incanalata nel French Touch seppur la traccia provenga dagli States: col suo metti e togli di fiati e scampoli di batteria, pare davvero un pezzo uscito dallo studio dei Motorbass, I:Cube o Dimitri From Paris. Magari sarà stata proprio questa somiglianza a spingere i vertici della scozzese Soma a commissionare un remix ad un duo francese su cui avevano scommesso per primi nel ’94, i Daft Punk. Così, dal Daft House di Parigi, arriva un remix che sintetizza le idee di partenza di Scott centrifugate in un energetico puzzle da cui affiorano tessere electrofunk. Il risultato è irresistibile e finisce col mettere in ombra la versione originale inclusa nell’album “Pieces Of A Dream” pubblicato sempre dalla Soma di Glasgow.

Shamen - Move Any MountainShamen – Move Any Mountain
Analogamente ai connazionali Underworld, pure gli Shamen iniziano con un nome diverso (Alone Again Or) abbracciando il rock alternativo seppur senza vantare un successo simile per dimensioni a “Doot-Doot”. Quando si ribattezzano col nuovo moniker, nel 1985, le differenze con quanto avvenuto degli anni precedenti non sono ancora evidenti ma le prospettive muteranno presto. I riscontri raccolti con “Jesus Loves Amerika” ed altri singoli estratti dall’album “In Gorbachev We Trust” contribuiscono ad edificare la nuova estetica sonica della band fondata da Colin Angus e dai fratelli Derek e Keith McKenzie, a cui si aggiungono altri componenti come Richard West meglio noto come Mr. C (proprio quello del londinese The End), il bassista Will Sin e la cantante Plavka Lonich, pochi anni dopo voce dei pezzi commercialmente più fortunati dei Jam & Spoon. In “En-Tact”, del ’90, le matrici rock collidono in scenari elettronici. Uno dei brani contenuti è “Progen”, antesignano del chemical beat e di tutta quella che, a posteriori, la critica definirà indie dance. Gli inserti rappati dal citato West stuzzicano ricordi hip house ma sarebbe un errore annettere il brano a tale corrente. Estratto come singolo e mixato da Paul Oakenfold, “Progen” conquista una serie di licenze sparse in Europa (Italia compresa, su Ricordi International) ma vedrà la completa affermazione soltanto l’anno seguente quando viene remixato e ripubblicato col titolo “Move Any Mountain” (e il sottotitolo “Progen 91”). Tra le tante versioni approntate risulta decisiva e determinante quella dei Beatmasters, pionieri della house music d’oltremanica con pezzi come “Rok Da House”, “Burn It Up”, “Warm Love” ed “Hey DJ / I Can’t Dance (To That Music You’re Playing)”. È la loro rivisitazione dunque a permettere alla band scozzese di varcare per la prima volta la soglia della top ten dei dischi più venduti in patria e conquistare la quarta posizione nonché piazzarsi alla 38esima piazza dell’ambita Billboard Hot 100 dall’altra parte dell’Atlantico. La Beat Edit mette insieme con lungimiranza spunti breakbeat, rock ed hip hop su uno sfondo psichedelico, vero leitmotiv della produzione shameniana di quegli anni, ed è sincronizzata col video girato nella primavera del 1991 alle pendici del vulcano Teide, a Tenerife. Al termine delle riprese Will Sin, poco più che trentenne, muore annegato nelle acque dell’isola vicina di Gomera, risucchiato da insidiose correnti marine. La tragedia comunque non impedisce di proseguire la carriera agli Shamen che incidono nuovi album da cui vengono prelevati singoli di successo tra cui “Ebeneezer Goode”, “Phorever People”, “L.S.I. (Love Sex Intelligence)”, “Comin’ On”, “Transamazonia” e “Destination Eschaton” e rivelandosi, così come scrive Rita Ferrauto su Dance Music Magazine a novembre del 1995, «la band che allaccia circuiti musicali e mentali tra l’antica mitologia, lo sciamanesimo e le nuove tecnologie informatiche».

Shauna Davis - Get AwayShauna Davis – Get Away
Nata Stéphane Moraille, Shauna Davis debutta come solista nel 1995 col brano “Get Away” pubblicato dalla canadese Hi-Bias Records e in Italia licenziato su Downtown (gruppo Time Records). L’Original Mix resta praticamente ignota al contrario della Club Mix firmata da StoneBridge e Nick Nice: gli svedesi continuano abilmente a sfruttare l’onda innescata dai tempi di “Show Me Love” di Robin S riuscendo a trasformare in successo quasi qualsiasi cosa tocchino. Dello stesso periodo si segnalano infatti, oltre ad “Everlasting Pictures – Right Through Infinity” di B-Zet e “Sex And Infidelity” dei nostri Blast di cui abbiamo già parlato sopra, altri loro fortunati remix come quelli per “Boombastic” di Shaggy, “This Time I’m Free” di Dr. Album e “Deep In You” di Tanya Louise. La Davis inciderà altri due singoli sino al 1998, anno in cui sarebbe dovuto uscire un album rimasto però nel cassetto. La cantante si rifà interpretando “Drinking In L.A.”, hit estiva dei Bran Van 3000.

Simian - We Are Your FriendsSimian – We Are Your Friends
Nel 2002 la Source pubblica “Never Be Alone” dei Simian, brano indie rock estratto dall’album “We Are Your Friends” che non riscuote significativi consensi. L’anno dopo gli allora sconosciuti Justice (i francesi Gaspard Augé e Xavier de Rosnay) realizzano, per un contest, un remix che gli apre le porte della neonata Ed Banger Records. In questa nuova versione, finita su un 12″ della label di Busy P, resta parte della voce originale (un mix tra Iggy Pop e Robert Smith) incastrata in una graffiante e flessuosa base electro house. Qualcosa inizia a muoversi nel 2004 grazie a DJ Hell che intuisce le potenzialità del brano e lo licenzia sulla International Deejay Gigolo, ma la consacrazione pop arriva solo nel 2006 quando la 10 Records del gruppo Virgin ripubblica la traccia reintitolata “We Are Your Friends” e premiata agli MTV Europe Music Awards per il video diretto da Rozan & Schmeltz.

Smoke City - Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)Smoke City – Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)
Non si può dire che la versione originale di “Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)”, presente nell’album “Flying Away”, sia passata proprio inosservata. Con un seducente mix tra trip hop ed acid jazz saldato da richiami latini analogamente a quanto avviene in “Underwater Love” scelta per lo spot Levi’s, la band britannica conquista spazi sempre più consistenti nell’audience internazionale. Tuttavia è il remix del brano a sancire una popolarità ancora più trasversale abbracciando anche il mondo delle discoteche. Merito della Vocal Mix approntata dai Mood II Swing (gli americani John Ciafone e Lem Springsteen, quell’anno all’opera su “Free” di Ultra Naté) in cui le avvolgenti atmosfere evocate dalla voce sibillina di Nina Miranda vengono preservate e fatte confluire in una gabbia di ritmo irresistibile che ne fa una hit nell’estate 1997 e riesce a reggere ottimamente il confronto col remix di “Underwater Love” realizzato da David Morales.

Steam System - Barraca DestroySteam System – Barraca Destroy
“Barraca Destroy” esce nella primavera del 1993 segnando il debutto del progetto Steam System dietro cui armeggiano Claudio Collino (che all’attivo ha già le hit di Sueño Latino ed Atahualpa), Piero Pizzul, e Michele Menegon alias Michael Hammer, futuro direttore di Italia Network. Come racconta proprio Menegon in questa intervista, «”Barraca Destroy” fu una produzione commissionata dall’Expanded Music per la nota discoteca spagnola Barraca. Doveva essere l’inno del locale e il lavoro fu piuttosto semplice: una melodia orecchiabile, parole spagnole comprensibili ed una buona dose di energia, tutti elementi convogliati della Destruction Version. Una volta terminato, il brano fu spedito in Spagna ma appena duemila copie furono stampate per l’Italia. Soltanto Italia Network lo programmò, credo per farmi un piacere. Poi il disco finì nel dimenticatoio. Un giorno di fine estate mi chiamò Giovanni Natale, boss dell’Expanded Music, dicendomi che Molella, di ritorno dalla Spagna, aveva acquistato il disco e che lo fece ascoltare ad Albertino e Fargetta. Tutti erano convinti che si trattasse di una hit. A quel punto mi chiese di rientrare in studio e realizzare un remix che ne esaltasse la forza. Con Claudio e Piero componemmo quindi la traccia oggi nota a tutti». La versione che arriva al grande pubblico è proprio tra i remix, la En Directo, colorita dal battito di mani di “We Will Rock You” dei Queen.

Sven Väth - Dein SchweissSven Väth – Dein Schweiss
La versione originale di “Dein Schweiss”, inclusa nell’album “Contact” edito dalla Virgin nel 2000, è frutto del lavoro sinergico tra Sven Väth e Johannes Heil. Supportata da un videoclip in cui il DJ biondo di Obertshausen domina la scena con la sua solita verve e spigliatezza, la traccia mischia elementi techno ed electro. Quando, tra fine 1999 ed inizio 2000, la Virgin pubblica il singolo però alla Master Mix aggiunge un feroce remix che nell’arco di pochi mesi finisce col diventare decisamente più noto dell’originale: a realizzarlo, spingendosi sino a lambire sponde EBM, è Thomas P. Heckmann, prolifico produttore di Magonza con un eccelso repertorio da cui svettano pure successi dalle dimensioni europee come “Amphetamine” di Drax e “Sync In” di Silent Breed.

Sweetbox Feat. Tempest - Booyah (Here We Go)Sweetbox Feat. Tempest – Booyah (Here We Go)
Prodotto da Roberto ‘Geo’ Rosan e partito dalla tedesca Maad Records, “Booyah (Here We Go)” è un pezzo che si fa lentamente strada nei primi mesi del 1995 unendo una base simile a quella di “Short Dick Man” dei 20 Fingers alla voce di Kimberly ‘Tempest’ Kearney che ammicca invece all’eurorap in stile Technotronic, Leila K o Daisy Dee. La versione originale, supportata dal relativo videoclip, fa presa nei locali e in radio ma a garantire un airplay ancora più incisivo specialmente nel nostro Paese è uno dei remix intitolato Hot Pants Club Mix realizzato da Nique a mo’ di mash-up tra l’acappella di Tempest e la base di “We Are Family” delle Sister Sledge. A pubblicare il brano in Italia è la Discomagic di Severo Lombardoni, la stessa che in autunno licenzia il follow-up “Shakalaka”, una specie di incrocio tra Outhere Brothers e Reel 2 Real che però si rivela meno fortunato nonostante annoveri il remix di Mousse T.

T42 - Melody BlueT42 – Melody Blue
Partito nel ’97 con “Every Life Unfolds” e “Children’s Voices” editi dalla Dance Factory del gruppo EMI, il progetto T42 si fa notare meglio due anni più tardi quando passa all’indipendente No Colors (gruppo F.M.A.) che pubblica “Melody Blue”. L’Original Mix, prodotta dal compianto Graziano Pegoraro, finisce sul lato b mentre a torreggiare è il remix di Fargetta, arrangiato da Graziano Fanelli e Max Castrezzati sul classico modello italodance di fine anni Novanta. Sarà sempre Fargetta a tenere alte le quotazioni di T42 firmando le versioni più note dei successivi “Run To You”, “Find Time” e “Set Me Free” usciti tra 2000 e 2002.

Technohead - I Wanna Be A HippyTechnohead – I Wanna Be A Hippy
I coniugi britannici Lee Newman e Michael Wells, già noti come GTO e Tricky Disco, vestono i panni dei Technohead dal 1993, incidendo primariamente hardcore e gabber. Nel 1995, quando l’happy hardcore e la musica ad alta velocità vive la sua parentesi commerciale più importante, riescono ad intrufolarsi nel mainstream col brano “I Wanna Be A Hippy” pubblicato dall’olandese Mokum Records. A fare da cassa da risonanza però non è l’agitata Original Mix bensì il remix realizzato da Flamman & Abraxas scelto per sincronizzare il videoclip. Il successo è tale da portare, ad inizio ’96, i Technohead persino a Top Of The Pops seppur con due censure nel testo ( si veda qui e qui). Sul palco però non c’è la Newman, morta di cancro ad agosto dell’anno prima ed ignara del successo raccolto da “I Wanna Be A Hippy” di cui si stima siano state vendute oltre 150.000 copie. Curiosità: c’è chi propone il brano a 33 giri anziché 45 come fa in Italia Albertino nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade.

The Corrs - DreamsThe Corrs – Dreams
Quartetto irlandese formato dai fratelli Corr, i Corrs si costruiscono una solida carriera nel ramo rock/folk. Nel 1998 aderiscono al progetto patrocinato dall’Atlantic per una raccolta celebrativa sui Fleetwood Mac, “Legacy: A Tribute To Fleetwood Mac’s Rumours”, che al suo interno raccoglie cover del gruppo londinese. Insieme a loro, tra gli altri, Elton John, The Cranberries e Goo Goo Dolls. I Corrs ricantano “Dreams”, con la produzione di Oliver Leiber e Peter Rafelson, ma a decretare il successo è il remix firmato da Todd Terry, lanciato nella top ten britannica dei singoli con evidenti richiami a quello realizzato qualche anno prima per “Missing” degli Everything But The Girl. Incoraggianti responsi giungono pure per il video approntato per l’occasione entrato nelle nomination ai Billboard Music Video Awards come Best New Clip. Considerato il grande successo, l’etichetta discografica ristampa l’album “Talk On Corners” uscito l’anno prima inserendo in tracklist anche il remix di “Dreams”. A sugellare il tutto è il concerto alla Royal Albert Hall dove i Corrs eseguono dal vivo il brano insieme a Mick Fleetwood, batterista e cofondatore dei Fleetwood Mac.

The Original - I Luv U BabyThe Original – I Love U Baby
Nato su iniziativa di Walter Taieb, DJ parigino di stanza a New York, il progetto The Original prende corpo nella primavera del 1994 con l’arrivo di Giuseppe ‘DJ Pippi’ Nuzzo, italiano trapiantato ad Ibiza dove è resident al Pacha. È lui a suggerire le linee guida di un brano che si completa grazie al supporto vocale del cantante turnista Everett Bradley. Ultimate le due versioni, la Swing Mix e la No! Swing Mix, Taieb e Nuzzo le sottopongono all’attenzione di una multinazionale ma ricevendo picche. Per non vanificare tutto, Taieb opta per l’autoproduzione e pubblica il disco su un’etichetta creata per l’occasione, la WT Records. Fiocca qualche licenza in Europa ma nulla di realmente esaltante, almeno sino a quando giungono i remix dal Regno Unito. A realizzare una delle nuove versioni è Ian Bland alias Dancing Divaz: la sua Club Mix è una cannonata per le classifiche che smonta l’apparato originario della traccia, fondato su un giro di organo contrapposto all’assolo di sax, a favore di arrangiamenti dal sapore più epico e malinconico, con pianate in grande evidenza ad incorniciare la voce di Bradley. Dal 1995 in poi è un tripudio di riconoscimenti, specialmente oltremanica, culminati con l’apparizione a Top Of The Pops dove il brano viene eseguito sulla base del remix, scelto ovviamente anche per accompagnare il videoclip. A pubblicare da noi “I Love U Baby” è la partenopea Flying Records che prende in licenza pure il follow-up, “B 2Gether”, ancora remixato da Dancing Divaz ma con resa inferiore. Taieb e Nuzzo torneranno al successo internazionale nel 1998 grazie a “On The Top Of The World” di Diva Surprise, cantato da Georgia Jones e scandito da un campionamento preso da “YMCA” dei Village People.

The Presence - Forever On My MindThe Presence – Forever On My Mind
Non è stata una hit con centinaia di migliaia di copie all’attivo ma un discreto successo nazionale nella primavera del 1996: “Forever On My Mind”, realizzata dal duo formato da Mauro Di Martino e Carlo Di Rosa nel loro Mad Studio a Ragusa, è una traccia house impreziosita dal contributo vocale del cantante statunitense Stefan Ashton Frank. A fare la differenza però è il remix dei Ti.Pi.Cal., solcato sul lato a del disco e realizzato sul modello garage d’oltreoceano, con la vocalità incastonata all’interno di paratie melodiche. Il 12″ apre il catalogo della Entroterra Records, etichetta creata dagli stessi Ti.Pi.Cal. in collaborazione con la bresciana Time Records ma la cui operatività è ricondotta ad una sola pubblicazione, analogamente a quanto avviene, peraltro nel medesimo periodo, alla E.S.P. – Extra Sensorial Productions, con “Electro Sound Generator” di Neutopia. Saranno sempre i Ti.Pi.Cal. a firmare il remix del follow-up, “Tonight”, pare rifiutato dalla Time di Maiolini e pubblicato dalla Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, la stessa che chiude il cerchio con “Wanna Be The One” ritoccato ancora da Tignino, Piparo e Callea.

Tom Jones - Sex BombTom Jones – Sex Bomb
La Album Version ha il retrogusto di un vecchia canzone degli anni Sessanta pur essendo scritta e composta alle porte del nuovo millennio. A fare la differenza è la Peppermint Disco Mix realizzata da Mousse T. e i Royal Garden, pensata a mo’ di mash-up tra l’acappella del brano e la base ricavata da “All American Girls”, un successo del 1981 delle Sister Sledge. Per Mousse T. è l’inizio della fase pop della carriera che si evolve con una serie di successi radiofonici come “Fire” ed “Is It ‘Cos I’m Cool?”, entrambi cantati da Emma Lanford, e “Il Grande Baboomba” che lo vede impegnato insieme al nostro Zucchero con cui si esibisce alla Royal Albert Hall di Londra nel 2004 come testimonia questa clip.

Tomcraft - ProsacTomcraft – Prosac
La versione originale di “Prosac”, inchiodata ad un battente bassline e scivolosi suoni in reverse, esce nel 1997 ma senza raccogliere particolari elogi. A quattro anni di distanza la Kosmo Records pubblica due remix realizzati dallo stesso autore affiancato da Eniac, e a quel punto per la traccia si prospetta una seconda giovinezza dal più ampio respiro. Alla New Clubmix ed alla TC-THC Mix, elaborate meglio sul piano melodico rispetto alla prima, si somma il videoclip che fa presa sulle tv musicali. Il brano viene licenziato pure in Italia dalla Wild! Entertainment di Raffaela Travisano, a cui abbiamo dedicato una monografia qui, che però opta per due remix ex novo commissionati per l’occasione a Tony H e Karin De Ponti.

Tony Di Bart - The Real ThingTony Di Bart – The Real Thing
Il britannico Antonio Carmine Di Bartolomeo, nato a pochi chilometri da Londra ma di chiare origini italiane, viene baciato dal successo nel 1994 grazie a “The Real Thing”. La versione originale, scritta dallo stesso Di Bartolomeo insieme a Luce Drayton ed Andy Blissett e in circolazione dall’autunno del ’93, è una ballata pop con influssi jazzati poco nota e passata decisamente inosservata. A dare ad essa un taglio completamente diverso è il team dei Joy Brothers, artefice di un remix che si pone sulla linea di mezzeria tra house ed eurodance e conquista l’intera Europa incuriosendo anche Stati Uniti e Canada (in Italia arriva curiosamente attraverso due etichette, la X-Energy Records e la UDP del gruppo Disco Più di Lino Dentico). Sul 12″ c’è pure una seconda versione, la Original Dance Mix, parecchio simile alla prima ma firmata da Rhyme Time Productions (non è chiaro se gli artefici siano proprio gli stessi). Al di là dell’uso di pseudonimi e nickname, Di Bart porta il remix del pezzo a Top Of The Pops ad aprile, cantandolo dal vivo e non ricorrendo, come allora fa la maggior parte degli artisti, al playback. Segue una caterva di date nelle discoteche di tutta Europa, Italia compresa, e la nomination agli International Dance Awards, tenutisi a Londra il 22 gennaio 1995 dove “The Real Thing” è in lizza insieme a pezzi come “Anytime You Need A Friend” di Mariah Carey ed “Incredible” di M-Beat Featuring General Levy. La Cleveland City tenterà di tenere alto l’interesse nei confronti dell’artista con altri singoli come “Do It”, “Why Did Ya” e “Turn Your Love Around”, ma riuscendo solo parzialmente nell’intento.

Tori Amos - Professional WidowTori Amos – Professional Widow
Inclusa nell’album “Boys For Pele”, “Professional Widow” è una canzone che Tori Amos scrive attingendo alcuni versi da “La Sfinge”, il racconto di Edgar Allan Poe. Musicalmente è legata al rock alternativo ma il remix che ne decreta il successo mondiale la traghetta in un mondo completamente differente. Nella sua Star Trunk Funkin’ Mix Armand Van Helden ricostruisce il pezzo partendo, pare, da un frammento ritmico carpito a “Trinidad” di John Gibbs & The U.S. Steel Orchestra, e poi prosegue verso un universo fatto di house music squarciata da un basso funk assassino e sbilenco in cui dondolano brevi cellule vocali della Amos. Sembra più una traccia inedita che un remix tanto è il divario col brano originale e pare che questa audace rilettura sia piaciuta parecchio anche all’autrice, felice che il DJ non abbia tenuto saldi i tasselli di partenza preferendo invece andare in una direzione totalmente diversa. Sul 12″ edito dalla Atlantic figura pure un secondo remix a firma MK che però risulta irrilevante se messo a confronto col primo. A curare la post-produzione della celebre Star Trunk Funkin’ Mix è Johnny De Mairo, fondatore della Henry Street Music per cui Van Helden incide dal ’94 e ai tempi A&R per l’Atlantic. La versione di Van Helden, infine, viene scelta per un videoclip realizzato riciclando ed assemblando frame tratti da altri video della cantante come quelli di “Crucify”, “Winter” e “Silent All These Years”.

Wamdue Project - King Of My CastleWamdue Project – King Of My Castle
La versione originale di “King Of My Castle” è inclusa in “Program Yourself”, il secondo dei tre album che Christopher Brånn, da Atlanta, firma Wamdue Project. Pubblicata dalla Strictly Rhythm, la traccia vive in una bolla di deep house tinta di funk ed è irrorata dalla voce di Gaelle Adisson, la stessa che si sente in “You’re The Reason”, un altro pezzo dell’LP che a tratti ricorda lo stile di “Disco’s Revenge” di Gusto uscito qualche anno prima. A trasformare quello che è destinato ad una ristretta cerchia di eletti in un successo mainstream dalle dimensioni colossali è il remix realizzato in Italia da Mauro Ferrucci per l’occasione trincerato dietro lo pseudonimo Roy Malone. Insieme a lui, nel Cotton Fields Studio di Padova, c’è Walterino, quello del team L.W.S. ed Olga intervistato qui. La King Mix mostra pochi punti in comune con l’originale: l’armatura ritmica corazzata incornicia arrangiamenti essenziali e la sezione vocale della Adisson, finita ovviamente nel videoclip che ad oggi conta più di nove milioni di visualizzazioni su YouTube. Altri remix si sommano al pacchetto, da quello di Roger ‘The S-Man’ Sanchez a quello di Charles Schillings (editi, insieme alla versione di Malone, dalla veneta Airplane! Records) passando per quelli di Armin van Buuren e di Bini & Martini usciti nel 1999.

Whatever, Girl - Activator (You Need Some)Whatever, Girl – Activator (You Need Some)
Col suo incedere ipnotico abbinato ad inserti tribaleggianti, nel 1994 “Activator (You Need Some)” diventa un autentico tormentone nelle discoteche specializzate. A produrlo sono Bill Coleman e Louie Guzman uniti come Whatever, Girl ma le loro versioni, la Gee, Your Hair Smells Terrific! Mix e la T.C.B. Mix, non sono depositarie del successo. A fare la differenza è invece la Jheri Curl Sucker Wearin’ High Heeled Boots Mix incisa sul lato a ed approntata da Johnny Vicious, che peraltro pubblica il disco sulla sua etichetta, la Vicious Muzik Records. In Italia arriva attraverso la bresciana Downtown del gruppo Time che assegna erroneamente la paternità proprio a Johnny Vicious, annunciato sull’adesivo rettangolare applicato in copertina come “the next David Morales”.

Whigfield - Saturday NightWhigfield – Saturday Night
È un caso strano quello di Whigfield, progetto ideato da Davide Riva (intervistato qui) e Larry Pignagnoli e giunto sul mercato nel 1993 con “Saturday Night”. La versione incisa sul lato a, la Dida Mix, è figlia di quanto avvenuto nel biennio precedente con l’esplosione e massificazione di suoni tendenzialmente legati alla eurotechno, e contiene quindi i retaggi di tutto quel serbatoio con cui il mainstream italiano approccia ad un genere messo in antitesi alla house fatto da casse marcate, suoni di sintetizzatore in grande evidenza, arrangiamenti dalle espressività meccaniche, voci campionate ed usate a mo’ di strumenti. Probabilmente, proprio in relazione a questa attinenza stilistica, alla Energy Production decidono di pubblicare il 12″ su Extreme, etichetta usata in prevalenza per produzioni di estrazione filo techno e sulla quale, peraltro, poco tempo prima trovano spazio fortunatissime licenze come “The House Of God” di D.H.S. ed “Ambulance” di Robert Armani. Sul lato b finiscono altre due versioni, la Nite Mix, inserita a giugno ’93 dal team dell’AID su uno dei dischi destinati al servizio per corrispondenza Promo Mix, e la Beagle Mix, radicalmente differenti dalla prima. Per circa un anno non avviene nulla fatta eccezione in Spagna dove “Saturday Night” raccoglie discreti consensi anche grazie ad un particolare balletto abbinato, pare inventato in una discoteca iberica. Whigfield sembra comunque destinato a finire nell’oblio, tra la miriade di brand usciti dagli studi di registrazione italiani negli anni più floridi e prolifici dell’eurodance. Alla fine dell’estate ’94 però la Nite Mix entra nella classifica britannica dei singoli direttamente al primo posto forte di 500.000 copie vendute, togliendo lo scettro ai Wet Wet Wet con “Love Is All Around” e ritrovandosi a dividere la parte più alta di quella chart con un’altra hit made in Italy, “The Rhythm Of The Night” di Corona. Da quel momento in poi per Pignagnoli e Riva cambia davvero tutto: l’interesse mostrato dal Regno Unito, ai tempi autentica cartina tornasole delle tendenze musicali europee, innesca un effetto domino che si propaga ovunque. Fioccano richieste di licenze da ogni angolo del globo (un anno prima erano state appena un paio) e viene girato un videoclip in cui la scena è dominata da Sannie Charlotte Carlson, modella danese ventiquattrenne scelta come frontwoman del progetto (a cantare è invece la britannica Annerley Gordon). Immancabile l’ospitata a Top Of The Pops col debutto il 15 settembre ’94 a cui si somma la puntata natalizia in cui la Carlson è introdotta da due presentatori d’eccezione, Howard Donald e Jason Orange dei Take That. Per gestire meglio tutto ciò la Energy Production ristampa il disco (affiancandolo al CD singolo), questa volta sulla label principale del gruppo, la X-Energy Records, aggiungendo una manciata di rivisitazioni a firma Fishbone Beat e la dicitura “remix ’94” seppur a spopolare non sia affatto un remix ma la Nite Mix, adesso finita sul lato a (la Dida Mix invece viene relegata alla posizione periferica B3). Più di qualcuno quindi pensa erroneamente che a cambiare le sorti della canzone sia un remix, alimentando in buona fede un falso storico. Sul retro della copertina trova spazio inoltre l’accurata guida (anche fotografica) per il sopraccitato balletto a cui è abbinato il brano di Pignagnoli e Riva, in seguito oggetto di qualche accusa di plagio ai danni di “Rub A Dub Dub” degli Equals e “Fog On The Tyne” degli Lindisfarne ma a quanto pare caduta in assenza di oggettivi appigli legali. Alla fine di “Saturday Night”, «inno pigolante con una tastierina che si infilava nel cervello e non lo lasciava più», come scrivono Carlo Antonelli e Fabio De Luca in “Discoinferno”, ne vengono vendute oltre due milioni di copie.

York - On The BeachYork – On The Beach
Il progetto York gestito dai fratelli Jörg e Torsten Stenzel debutta nel 1997 con “The Big Brother Is Watching You” ripubblicato poco tempo dopo come “The Awakening”. Nel 1999 tocca a “On The Beach”, rivisitazione dell’omonimo di Chris Rea del 1986 immersa in una soluzione a metà strada tra house e trance. «Registrammo l’assolo di chitarra nel mio studio, risuonandolo e non campionandolo come qualcuno potrebbe immaginare» racconta Torsten Stenzel in questa intervista. «Una volta completato il brano, lo licenziammo alla Sony e alla Manifesto che commissionarono vari remix». Tra le tante nuove versioni ce n’è una che spicca in modo particolare, quella realizzata in Italia negli studi della Media Records da Mauro Picotto ed Andrea Remondini e firmata CRW. Ritmicamente potenziato, il pezzo rivive nella dimensione eurotrance conquistando il favore del Regno Unito e rivelandosi determinante per raggiungere lo strepitoso risultato di oltre 300.000 copie vendute. A pubblicare in Italia “On The Beach” è la No Colors del gruppo F.M.A. che sul 12″ e sul CD singolo inserisce il remix dei CRW ma attribuendolo, per ragioni mai chiarite, a Basic Connection, un marchio di cui abbiamo parlato sopra. Ciò scatena una controversia tra la F.M.A. e la Media Records. Quest’ultima ristamperà il remix in questione su W/BXR, sussidiaria pop della BXR, ma con un nome artistico diverso, Lesson Number 1.

Ziggy Marley And The Melody Makers - Power To Move YaZiggy Marley And The Melody Makers – Power To Move Ya
Così come avvenuto al padre Bob, anche Ziggy Marley e i suoi Melody Makers vengono trascinati nella musica da discoteca attraverso un remix. Incluso nell’album “Free Like We Want 2 B”, il brano originale oltrepassa la soglia della classica formula reggae adoperando una base downtempo in cui fanno capolino persino chitarre elettriche. Per i remix l’Elektra coinvolge vari artisti: Hani e DJ Dmitry, artefici della Kundalini Rising Mix, Longsy D, Mousse T. ed E-Smoove. È la versione di quest’ultimo a svettare su tutte, la Smoove Power, che adatta perfettamente “Power To Move Ya” in una cornice house garage, con grandi pianate in evidenza. Ziggy Marley diventa così un protagonista dell’estate ’95 facendo la staffetta con altri fortunati remix già descritti sopra (De’Lacy, Bobby Brown, Jamiroquai, Dana Dawson, Everything But The Girl…). Nel ’97 l’Elektra tenta di fare il bis affidando ancora ad E-Smoove il remix di “Everyone Wants To Be” estratto dall’album successivo di Ziggy Marley And The Melody Makers, “Fallen Is Babylon”, ma l’impresa non riesce. Il DJ americano si rifarà comunque nel 2001 incidendo “Shined On Me” come Praise Cats.

Zombie Nation - Kernkraft 400Zombie Nation – Kernkraft 400
Nei primi mesi del 1999 a pubblicare il primo disco degli Zombie Nation (Florian ‘Splank!’ Senfter ed Emanuel ‘Mooner’ Günther), da Monaco di Baviera, è l’International DeeJay Gigolo Records di DJ Hell. Uno dei cinque brani dell’EP è “Kernkraft 400”, «un pezzo electro cadenzato da incastri di suonini in stile chiptune, un sample vocale che ripete il nome del gruppo, un basso in ottava e soprattutto il riff di “Stardust” composto da David Whittaker per il videogioco “Lazy Jones” del 1984» (da Gigolography, 2017). Immerso tra retaggi di Kraftwerk e Yellow Magic Orchestra, “Kernkraft 400” è destinato all’underground più settoriale da poche migliaia di copie ma poi arriva un remix che lo trasforma in un successo pop mondiale. Artefice è l’italiano Cristiano ‘DJ Gius’ Giusberti, la cui versione, frutto di una semplificazione degli elementi di partenza, viene scelta per accompagnare il video che sostituisce il più macabro e violento realizzato qualche tempo prima sulla base dell’originale e in cui compare Senfter. È sempre il remix italiano ad essere utilizzato per gli spettacoli televisivi tra cui l’apparizione a Top Of The Pops per cui Zombie Nation viene trasformato in una sorta di gruppo carnevalesco: l’effetto finale rammenta quanto avvenuto pochi anni prima ai Technohead con “I Wanna Be A Hippy” di cui si è già detto prima. Grazie alla rivisitazione di Giusberti “Kernkraft 400” diventa una hit planetaria anche se Splank!, nel frattempo diventato unico componente del progetto Zombie Nation, non risparmierà toni fortemente polemici nei confronti dell’etichetta italiana che fa realizzare il remix ed una Live Version correlata, la Spectra Records del gruppo bolognese Arsenic Sound diretto da Paolino Nobile intervistato qui.

(Giosuè Impellizzeri)

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Sandy Dian – Moon Light (S.D.R.)

Sandy Dian - Moon Light

Secondo un’idea approssimativa quanto superficiale, il mondo della discografia è principalmente abitato da impresari, cantanti, musicisti, compositori, produttori e, più recentemente, DJ. Esistono però molte altre categorie lavorative sulle quali spesso si sorvola distrattamente, in primis perché non si ha ben chiaro il ruolo che queste coprano. Basti pensare all’apporto di grafici ed illustratori impegnati su copertine, design e packaging, aspetti più che determinanti quando la musica è qualcosa non solo da ascoltare ma anche da vedere. Una funzione altrettanto importante, in taluni casi fondamentale, è ricoperta dell’ingegnere del suono, defilato dalle luci dei riflettori ma artefice dell’audio e di tutto ciò che è correlato ad esso. Il fonico è essenziale quanto necessario soprattutto quando la tecnologia non permette ancora di finalizzare i brani tra le mura domestiche con strumenti intuitivi e a basso costo. Sono dunque i sound engineer ad aiutare artisti e produttori per ottenere la migliore registrazione in studio.

Stefano Dian meglio noto come Sandy, da Gambellara in provincia di Vicenza, è tra i più noti ingegneri del suono italiani legati alla dance, ormai da oltre quarant’anni. «Sono cresciuto con la musica black, funky e tutto quello che arrivava dalla disco degli anni Settanta» racconta oggi il veneto. «I miei riferimenti erano Chic, Earth, Wind & Fire, Eumir Deodato, Zapp, Ray Parker Jr. e Raydio mentre per quanto concerne la musica italiana ero un assiduo fan de Le Orme con cui ebbi il piacere di lavorare per un provino da presentare al Festival di Sanremo a fine anni Ottanta. Per me fu una vera emozione accogliere in studio Aldo Tagliapietra, Michi Dei Rossi e Tony Pagliuca, li consideravo degli idoli. Appena raggiunta l’età della parola, i miei genitori mandarono me e i miei fratelli a scuola di musica. Gianfranco a pianoforte e Romano a batteria, ma io non volevo saperne. Preferivo ascoltare più che suonare, ma c’era qualcosa di strano in quella mia attrazione perché l’ascolto era finalizzato a capire come gli artisti avessero realizzato le singole parti della canzone. Tra gli anni Sessanta e Settanta Gianfranco e Romano misero su pure un complesso chiamato The Lovers Child. Mio padre citava sempre la RCA di Roma e li convinse ad andare lì a fare un provino per incidere un disco. Avevo appena dieci anni ma già mi emozionavo quando si parlava di musica e dischi. A quell’età chiesi al chitarrista della band di insegnarmi a suonare e poi feci lo stesso col batterista e col bassista. Risultato? A quattordici anni mi destreggiavo discretamente coi vari strumenti ed ogni tanto mi capitava persino di sostituire qualcuno del complesso durante qualche serata. Ciò avvenne per l’ultima volta negli anni Novanta quando presi il posto del bassista, partito per le ferie durante il mese di agosto. Rimasi in quel gruppo, diventato quasi un’orchestra, per circa tre anni, suonando strumenti sempre da autodidatta».

Sandy e la moglie Antonella con registratore teac Tascam 8 trk
Sandy Dian e la moglie Antonella. Alle loro spalle un registratore Tascam ad otto tracce

Nel 1979 Dian, appena ventenne, apre uno studio di registrazione musicale, l’R.G. Studio, tra i pochissimi presenti nella regione in cui abita. «Tutto iniziò pochi anni prima, nel ’76, quando arrivarono le prime radio libere» prosegue. «Con la complicità di mio fratello Gianfranco aprii una piccola radio locale, Radio Gambellara. I risultati non si fecero attendere e grazie agli ottimi ascolti riuscivamo a portare in diretta vari ospiti tra cui cantanti e produttori di varie case discografiche. In quel momento maturai il sogno di avviare uno studio di registrazione. I costi per attivare i macchinari professionali però erano letteralmente proibitivi. Per un registratore a ventiquattro piste servivano minimo quaranta milioni di lire, per un mixer invece dai venti ai cento. Non potendo affrontare spese simili, l’idea sembrò destinata a rimanere solo un sogno. L’ambizione però non svanì e decisi di provarci ugualmente ricorrendo al minimo indispensabile ovvero un registratore a quattro tracce della Akai a nastro magnetico, acquistato alla caserma Ederle di Vicenza tramite un carissimo amico americano. In quella base militare dell’Esercito statunitense gli apparati hi-fi costavano quasi la metà. Con quel registratore cominciai così a fare i primi lavoretti, abbastanza discutibili direi. Una scuola per diventare fonico? Magari! L’unico modo per imparare quel mestiere ai tempi era guardare, ascoltare e provare. Attraverso la radio conobbi un musicista di Vicenza, Maurizio Sangineto, che in quel periodo formò, con Maurizio Cavalieri, i Firefly, gruppo che riscosse notevole successo internazionale (e di cui parliamo qui, nda). Registravano a Roma, presso lo Studio TM di un grande musicista ed arrangiatore, Toto Torquati. Quando possibile, mi recavo con loro nella capitale e mi sedevo accanto al fonico, Rodolfo Palazzetti, per osservare e memorizzare ogni sua azione legata alla registrazione ed elaborazione del suono. In seguito conobbi Luca Rossi, tecnico/fonico presso gli Stone Castle Studios a Carimate, allestiti in un vecchio castello a circa quindici chilometri da Como. Rossi era gentilissimo e mi diede tante dritte per diventare un tecnico, inclusi preziosi consigli sulla manutenzione di apparecchi professionali destinati alla registrazione audio. Nel frattempo misi da parte qualche lira che investii prontamente in un registratore ad otto tracce della Tascam provvisto di DBX, un riduttore di rumore e fruscio su ogni canale. Con quello registrai il primo disco in vinile di un gruppo rock vicentino, i Maline, a cui aggiungemmo vari effetti di un live modulati con un riverbero Dynacord, tra i primi digitali giunti sul mercato. Su due tracce registrai la batteria, già mixata in stereo, mentre sulle rimanenti sei basso, chitarre, voci e tastiere. Molto spesso le otto tracce si rivelavano insufficienti quindi ricorrevo ad un pre-mix chiamato “ping pong” tra due tracce, ad esempio fondendo e mixando le percussioni riversate su una pista in modo da guadagnarne un’altra da usare in modo diverso.

registratore Lyrec
Il registratore Lyrec a ventiquattro tracce che Dian acquista dai Trafalgar Studios di Roma

Dal 1979 le cose cominciarono ad andare per il verso giusto. Registravo gruppi, cantanti, poeti e tutto quello che potevo per guadagnare qualcosa da investire nello studio. Finalmente potei permettermi un registratore professionale Lyrec a ventiquattro tracce, usato ma perfettamente funzionante. Era stato dismesso dai Trafalgar Recording Studios di Roma. Per trasportare quel macchinario ingombrante quanto una grossa lavatrice organizzai una gita dal Papa, occasione che mi offrì il giusto pretesto per procurarmi un furgone. Non dimenticherò mai la faccia del grande Pippo Caruso che lo stava ancora usando. Gli chiesi informazioni sul funzionamento balbettando, tanta era l’emozione. Caricai il Lyrec sotto i sedili del furgone, un Ford Transit formato pulmino, e dopo aver accontentato amici e parenti che fecero tappa in Vaticano, tornammo a Gambellara. Rientrammo a mezzanotte, dopo aver macinato circa 1200 chilometri, ma non ero stanco e non avevo neanche sonno sebbene mi fossi svegliato alle cinque del mattino. Il giorno dopo smontai il registratore pezzo per pezzo e sistemai tutti i problemi che avevo notato quando era in funzione a Roma. Con quell’acquisto l’R.G. Studio (R.G. stava per Radio Gambellara) si trasformò nel Sandy’s Recording Studio dove presto troveranno alloggio ben due registratori a ventiquattro tracce sincronizzati, un mixer MCI Sony a trentasei canali che sognavo da tempo, ed un discreto numero di outboard ossia effetti utili per “modellare” il suono. Con quell’equipment mi occupai di “Un’Isola Senza Sole” de Gli Apostholi. A quel punto pure io divenni Sandy, creando un binomio col mio studio».

SRS nel 1984
Una panoramica del Sandy’s Recording Studio del 1984

Stilare una lista esaustiva dei dischi registrati e mixati presso lo studio di Dian è un’impresa davvero ardua, anche perché non sempre i crediti in copertina sono completi. «Tutti hanno una storia e per raccontarle servirebbero le pagine di una enciclopedia» dice con una punta d’orgoglio il fonico veneto. «Qualche aneddoto però merita di essere svelato. Il primo risale al periodo del debutto delle tastiere digitali. Un cliente si presentò entusiasta dopo aver provato una PPG Wave che al tempo costava oltre otto milioni di lire. Io però avevo appena portato in studio, con enorme fierezza, una Yamaha DX7 che secondo me aveva suoni altrettanto incredibili ma questo cliente non espresse un buon giudizio, a suo avviso non c’era proprio confronto con la PPG e ciò mi deluse un po’. La DX7, tra l’altro, era considerata quasi un giocattolo perché costava “solo” due milioni e cinquecentomila lire. Tuttavia il mio intuito non sbagliò. Nell’arco di pochi mesi i suoni della Yamaha DX7 finirono in parecchie produzioni, anche internazionali, mentre il PPG Wave rimase uno strumento per pochi eletti, anche se di elevata qualità. A proposito di roba da ricchi: in studio ogni tanto avevo il super campionatore Fairlight CMI che possedevano in pochissimi in Italia. Lo noleggiavo dal mitico Leandro Leandri che arrivava con un baule pieno zeppo di strumentazioni pregiate. Anche l’Emulator lo prendevo a nolo. Lo usammo moltissimo nell’album “Illusion” dei Creatures, prodotto dall’Altro Mondo Studios di Rimini del compianto Guerrino Galli, un produttore degno di questo nome, un professionista di grande umanità con una fortissima passione per la musica che gli procurò la stima di chiunque lavorasse con lui. Nel 1985 non c’era internet, gli smartphone e le email, quindi per ascoltare un brano era necessario recarsi fisicamente nello studio in cui veniva registrato. Galli partiva alle undici del mattino e dopo aver diretto le operazioni per qualche ora si rimetteva in viaggio per tornare nella sua discoteca di Rimini, percorrendo centinaia di chilometri. Nel medesimo periodo il negoziante che mi forniva le anteprime dei nuovi sintetizzatori mi propose un Synthex. A produrlo era la Elka, una ditta italiana poco nota nell’ambiente della musica dance ma capace di riempire quella macchina coi suoni giusti. La usammo parecchio per le frasi strumentali (come quella di “Somebody” dei Video di cui parliamo qui, nda) e le linee di basso. Poi arrivò la LinnDrum, la regina delle batterie elettroniche. Appena giunta sul mercato costava quasi dieci milioni di lire ma non aveva l’uscita MIDI e per sincronizzarla coi vari sequencer ricorsi a varie “scatolette” esterne costruite appositamente dalla LEMI di Torino».

Il Sound Lab col tornio Neumann acquistato dalla Fonit Cetra
Il tornio Neumann che Sandy Dian rileva dalla Fonit Cetra e con cui crea il Sound Lab, adiacente al Sandy’s Recording Studio

Sempre negli anni Ottanta, accanto al Sandy’s Recording Studio sorge il Sound Lab, un laboratorio che gravita intorno ad una macchina Neumann per effettuare i transfer. Con quella è possibile realizzare il cosiddetto acetato, spesso usato dai DJ in discoteca per testare i propri brani appena usciti dallo studio quando CDr e file digitali sono ancora pura fantascienza, ma anche il transfer da cui poi si passa alla stampa ufficiale con la pressa in stamperia. «Tutto iniziò quando registrai il citato “Illusion” dei Creatures» rammenta Dian. «Guerrino Galli e Maurizio Sangineto, coinvolto come arrangiatore, decisero di fare il transfer, ossia il passaggio da nastro magnetico alla matrice per stampare il disco in vinile, a Londra. I transfer fatti in Italia non erano male ma, a detta di molti colleghi, mancavano di quella elaborazione finale del suono che andava ad incidere il solco del disco, ossia la fase oggi nota come mastering. A dirla tutta, anche io ero dello stesso avviso. Così, col nastro magnetico chiuso in valigia, andai con Sangineto ai Trident Studios di Londra dove conobbi il mitico Ray Staff. Appena entrati mi resi subito conto delle differenze che correvano da una classica sala transfer italiana. Senza togliere nulla alla professionalità nostrana di quel periodo, il divario era abissale. Staff disponeva di limitatori, compressori ed equalizzatori di vario genere mai visti prima. Praticamente un furgone di outboard, oltre ad un imponente tornio Neumann, cuore pulsante della cutting room. Io e Maurizio ci guardammo in faccia sorridendo. Pensai che sarebbe stata una figata poter avere a disposizione un tornio simile, ma costava oltre cento milioni di lire quindi il desiderio sembrò essere utopico. Il caso però volle che pochi mesi più tardi la Fonit Cetra chiudesse la sua sala transfer ed un commerciante mi propose di acquistare un macchinario di quel tipo, proprio della Neumann, ma più vecchio rispetto a quello che vidi a Londra. Lo presi, con l’aiuto economico di mio fratello Gianfranco. Risaliva agli anni Sessanta/Settanta, adoperava registratori Telefunken e seppur fosse tutto datato era perfettamente funzionante. Dopo la solita revisione, questa volta a quattro mani, tornò come nuovo. In quel momento nacque Sound Lab. Venivano da tutta Italia per fare il transfer e il cosiddetto “pronto ascolto”, un vinile inciso al volo, per testarne la resa in discoteca. Il cliente usciva dal mio studio col master inciso su nastro magnetico e la matrice per produrre il vinile. Tutto quello che vidi, sentii ed imparai a Londra giovò non poco sul risultato del prodotto finale».

Michele Paciulli al Sandy's Recording Studio nel 1985
Il musicista Michele Paciulli, tecnico programmatore della Korg, all’opera nello studio di Dian nel 1985

A metà degli anni Ottanta ormai l’attività del Sandy’s Recording Studio è frenetica. Dian vive in simbiosi con la musica al punto da incidere un suo disco. Nel 1985 realizza il primo ed unico album a suo nome, “Moon Light”, diventato un cult per i collezionisti. Al suo interno brani che oggi suonano come basi strumentali per ipotetici pezzi synth pop di allora come “In The Night”, con un disegno melodico in stile “I Like Chopin” di Gazebo, “Strange”, “Dance”, con un pizzico di funk in evidenza, ed “Happy Day’s” ma pure il downtempo rilassato di “Hawaii” che diventa assorto e sensuale nella title track “Moon Light”, nel suo reprise beatless e in “Thought (Pensiero)”. C’è spazio pure per una parentesi ritmica, “Holiday”, e per un appiglio più spiccatamente italo disco, “Computer’s Dream”, ornato di effettistica filo computeristica. «Era un periodo in cui lavoravo sette giorni su sette e per dodici ore quotidiane» dichiara Dian. «Vivevamo in pieno l’esplosione della dance made in Italy, poi detta italo disco. Su un numero sempre più cospicuo di copertine veniva riportato il mio nome e quello del mio studio di registrazione. Il sound che permeava le produzioni del Sandy’s Recording Studio iniziò a piacere pure a registi e a produttori cinematografici e televisivi. Arrivarono alcune richieste di brani strumentali adatti a sonorizzazioni o sottofondi per cinema, radio e tv. Così nei ritagli di tempo (davvero pochissimi) creai “Moon Light”, un LP fatto di musiche interamente composte e suonate da me. In quel periodo nel mio studio lavorava un grande musicista e tecnico programmatore per la Korg, Michele Paciulli. Trascorremmo tantissime ore insieme e da lui appresi qualcosa sulla tecnica di impostazione delle mani sulla tastiera. Mi spiego meglio. Suonati da un tastierista qualsiasi, i fiati di un sintetizzatore assomigliavano ad un treno a vapore ma se quel tastierista era Paciulli tutto si trasformava straordinariamente. La pressione delle dita sulla tastiera e il coordinamento delle mani rendevano il suono più reale. Era una tecnica unica che ho visto mettere in pratica solo da lui, mi risulta difficile persino descriverla. Appresi appena un millesimo di tutto ciò che faceva Paciulli ma quel poco fu sufficiente a rendere “Moon Light” originale per i tempi. La Korg aveva “sfornato” da poco il DSS-1, tra i primi campionatori digitali a cui lavorò lo stesso Paciulli. Il 90% dei suoni che si sentono in “Moon Light” provengono proprio da quella macchina. I restanti da una Yamaha DX7 e da un Roland JX-8P. Le ritmiche invece erano di una LinnDrum e di una Roland TR-808. Come sequencer usai il Commodore 64 con un’interfaccia della Sequential Circuits (produttrice del mitico Prophet-5) sincronizzata col clock del Masterclock della LEMI. I suoni venivano registrati su due Sony MCI da ventiquattro tracce ciascuno e mixati su consolle Sony MCI JH 600. Un editore romano, Piero Colasanti della Edizioni Musicali Gipsy, si innamorò totalmente di “Moon Light” e decise di usare diversi brani per sigle e sottofondi di trasmissioni Rai. Il brano “Hawaii”, ad esempio, finì nel film “Il Male Oscuro” di Mario Monicelli, con Giancarlo Giannini. Per un bel po’ di tempo quando accendevo la tv mi capitava di sentire i brani di quel 33 giri, persino nelle serate di Miss Italia. Tutti parlavano del mio studio in Veneto, ormai in grado di fare concorrenza a quelli sparsi in tutta Italia. L’interesse crebbe a tal punto che una bravissima autrice della sede regionale della Rai, Ornella Barreca, venne a vedere di persona cosa accadeva a Gambellara, dedicando una puntata del suo programma Diskogenia alla musica vista secondo la prospettiva della produzione tecnica. In studio ascoltò “Computer’s Dream” e volle usarlo come sigla di apertura e chiusura del programma, come si può sentire in questa clip. Sull’entusiasmo di tutto ciò continuai a pubblicare altre produzioni di musica strumentale sull’etichetta che avevo creato per “Moon Light”, la S.D.R., acronimo di Sandy Dian Records, ma non utilizzando più il mio nome come artista. Mi sentivo un tecnico/musicista, un autocostruttore, uno sperimentatore. Lavorare nella musica e frequentare musicisti poteva farmi sembrare agli occhi del pubblico un artista ma, pur non disdegnando affatto tale definizione, preferivo rimanere ancorato ad una figura professionale di tipo tecnico».

Moon Light reissue
La ristampa di “Moon Light” con alcuni strumenti utilizzati per la sua composizione: in alto il sequencer installato sul Commodore 64, in basso il sintetizzatore Korg DSS-1 e la drum machine LinnDrum

A trentacinque anni dall’uscita, “Moon Light” viene ristampato in una tiratura limitata e numerata di trecento copie. Nella calda estate del 2020 così i collezionisti, impossibilitati a recuperare la versione originale che nel frattempo acquista maggior valore sul mercato dell’usato, possono saziare la loro “fame” cliccando qui. «A convincermi a ristampare “Moon Light” sono state le numerose richieste del master originale» rivela Dian. «Su spinta ed iniziativa di mio figlio Luke, ho optato per un reissue in edizione limitata a cui è allegata una locandina commemorativa per i trentacinque anni trascorsi dalla pubblicazione. È stato un lavoraccio, abbiamo sudato sette camicie per rigenerare il vecchio nastro magnetico. Qui è possibile visionare il lavoro eseguito che strapperà pure un sorriso visto che abbiamo usato il forno da cucina di mia moglie Antonella per “cuocere” il nastro, diventato appiccicoso col passare dei decenni».

L’italo disco, tra i generi più battuti nel Sandy’s Recording Studio, collassa intorno al 1988. Da quel momento in poi la dance music ruota intorno a due assi principali, la house e la techno, che implicano tutta una serie di novità nelle metodologie compositive nonché una democratizzazione via via più radicale, attraverso la nascita di nuovi strumenti disponibili a prezzi meno proibitivi e gestibili in modo più agevole. «Quando l’italo disco finì nel dimenticatoio iniziai una stretta collaborazione con Piero Fidelfatti, maestro del DJing, che conoscevo già da qualche anno» racconta il fonico. «Da essere un cliente del mio studio, Piero divenne co-produttore e co-autore. Lavoravamo insieme cinque giorni a settimana e demmo avvio ad una lunga serie di produzioni house e techno. Alle tastiere già descritte si unì l’uso del campionatore Akai S950, determinante per i dischi di quegli anni. Si cominciava a dire addio alla registrazione su nastro magnetico multitraccia. Cubase, che girava su computer Atari, fungeva da multitraccia MIDI. Campionatori e tastiere passavano direttamente nel mixer e da lì al master finale».

Deborah Wilson - Free
“Free” di Deborah Wilson è uno dei dischi prodotti da Dian e Fidelfatti negli anni Novanta

Tra i tanti progetti varati da Dian e Fidelfatti nel corso degli anni Novanta c’è Deborah Wilson. Con “Free”, edito tra 1992 e 1993 dalla Dance And Waves del gruppo Expanded Music di Giovanni Natale, campionano la voce di Eleanore Mills in “Mr. Right” sovrapponendola ad una base con forti richiami funk/disco. Il pezzo raccoglie discreto successo anche all’estero, conquistando diverse licenze tra Germania, Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti, e creando i giusti presupposti per un follow-up, “Do You Love What You Feel” uscito nel 1994 su DFC. «”Free” nacque da un’idea di Fidelfatti che considero un grande precursore della musica dance» rammenta Dian. «Così come si diceva nell’ambiente discografico, lui non sbagliava mai un colpo. Arrivava in studio con la sua idea, diversi dischi nel flight case ed alcuni sample già selezionati e pronti per essere uniti alla base musicale. Il nome Deborah Wilson fu un’idea dello stesso Piero, una persona di poche parole ma un grande DJ e produttore professionista. In “Free”, nello specifico, lavorai come musicista, co-autore ed ovviamente tecnico del suono. Oltre al citato Akai S950 adoperammo tastiere Roland e Korg, assemblando tutto con Cubase».

Negli anni Novanta nella vita di Dian rientra anche un altro personaggio, Gianfranco Bortolotti, conosciuto intorno al 1985 quando si reca nel suo studio per realizzare alcuni pezzi. Come raccontato nell’intervista finita in Decadance Appendix, i due si perdono di vista sino al 1995 quando un incontro al Midem di Cannes diventa determinante per ciò che accade da lì a breve. Dian inizia a lavorare in pianta stabile per la Media Records, saldando le collaborazioni di qualche tempo prima come Carl Roberts o Global Hypercolor Of Music, sempre in coppia con Fidelfatti. Durante quel periodo, la seconda metà degli anni Novanta, la sua Team Records viene integrata nel roster dell’etichetta bresciana insieme alla sublabel Magnetik, naturale seguito della Synthetic Records su cui debutta Saccoman. Dian cura, nella veste di ingegnere del suono, brani diventati ormai dei classici, da “Ocean Whispers” di R.A.F. By Picotto a “New Year’s Day” di Gigi D’Agostino passando per “Baby, I’m Yours” dei 49ers, “Gipsy Boy” di Sharada House Gang, di cui parliamo qui, ed “All I Need” di Mario Più Feat. More giusto per citarne alcuni. «Bortolotti arrivò al mio studio introdotto da Maurizio Chiesura che lavorava come A&R della Discotto, a Milano, vantando peraltro un ottimo gusto musicale» ricorda Dian. «Ai tempi non era ancora un celebre produttore internazionale e divenne un mio affezionato cliente. Veniva insieme a Roby Arduini, una “macchina da guerra” come arrangiatore e compositore, e Pierre Feroldi, ottimo DJ e produttore bresciano. Dopo un po’ di tempo però sparì. Sentii dire che aveva costruito pure lui uno studio di registrazione. Non ci sentimmo più per diversi anni. Nel 1995 lo incontrai a Cannes e mi invitò nel suo quartier generale, alle porte di Brescia, aggiungendo che il mixer Allen & Heath che avevo ceduto qualche tempo prima alla TDS di Milano per passare al Sony MCI JH 600, l’aveva comprato lui utilizzandolo per incidere i primi successi da cui nacque la Media Records. Incuriosito, andai a Roncadelle e rimasi basito da ciò che vidi. Svariati studi di registrazione, uffici di promozione, pareti interamente ricoperte da dischi d’oro, di platino e riconoscimenti di ogni tipo e genere. Dopo qualche mese Bortolotti mi propose di lavorare lì e trasferirmi a Roncadelle, anche perché aveva intenzione di modificare i sette studi di registrazione passando dalla tecnologia analogica al sistema digitale Pro Tools, con tutta una serie di upgrade di vera avanguardia. Accettai la proposta e rimasi in Media Records per tre anni. In quell’arco di tempo mi occupai, tra le altre cose, della Media Italiana, etichetta creata col fine di dare spazio a musica in italiano, non espressamente dance. Portammo a Sanremo Giovani una debuttante cantante bresciana, Rossella Nazionale, realizzammo un album per Fiorello, vari singoli per Fabio Volo e tanto altro. Indimenticabile pure l’apporto di Diego Leoni, storico socio di Bortolotti (intervistato qui, nda), un gran signore che mi fece sentire parte di una grande famiglia. Un’altra cosa che non potrò mai dimenticare è l’entusiasmo creato da Bortolotti nelle riunioni settimanali con la crew. Una volta terminato l’incontro, tornavamo in studio puntualmente carichi di entusiasmo e questo contribuiva non poco a sfornare le hit. L’esperienza con la Media Records, seppur limitata ad un triennio, oggi mi fa affermare che se si ha passione, serietà ed entusiasmo in ciò che si fa, è possibile arrivare dove si vuole, e Gianfranco Bortolotti ne è la conferma».

La Media Records e le hit mondiali made in Italy degli anni Novanta sono ormai lontane e suscitano ricordi sbiaditi. Altrettanto lontano è, del resto, tutto l’indotto dell’industria discografica dei decenni passati (pressaggio dischi, grafica per copertine, distributori, negozi, etc) ridotto ormai ai minimi termini e per piccole nicchie di mercato legate perlopiù ad amatori e collezionisti. Ci si domanda se tutto ciò abbia fatto inceppare qualcosa nella creatività del mondo musicale. È solo un caso che alla crescente disponibilità di tecnologia sempre più a basso costo siano seguite scie interminabili di prodotti derivativi? Non c’è davvero più modo di generare cose autenticamente nuove? «L’informatica mi è sempre piaciuta e la uso tantissimo ma, allo stesso tempo, la detesto» risponde Dian, che nel 2000 crea Sunnet.it., un sito dedicato a musica e tecnologia. «Per me, e penso valga anche per tanti coetanei, ha modificato tutto, dalla commercializzazione della musica alla creatività e, perché no, pure la qualità del suono. Non voglio gettare benzina sul fuoco sulle solite diatribe tra analogico e digitale, per carità, ma mi fa molto piacere quando incontro qualche nativo digitale che mi parla della differenza tra il suono creato oggi e quello di trenta o quarant’anni fa. Se potessi gli offrirei persino una borsa di studio. Fino all’arrivo dei campionatori Akai filò tutto bene con tastiere, MIDI ed Atari e col suono mixato in una consolle analogica poi trasferito su un nastro magnetico o su un DAT. Oggi invece tutto (o quasi) proviene da tastiere virtuali che generano il suono da un calcolo matematico elaborato e convertito da una scheda audio. Nostalgia a parte, il Sandy’s Recording Studio esiste ancora, anche se non più con le apparecchiature degli anni Ottanta e Novanta. Seppur controvoglia, ho ceduto pure io a Logic Audio e a tutti i suoi strumenti virtuali. Però, in merito alla creatività, credo che la differenza non dipenda dall’analogico o dal digitale. Quando registri un pezzo che fornisce un’emozione è fatta. Dovendo pensare da tecnico appassionato, darei peso al tipo di tecnologia adoperata, ma nella veste di ricercatore di emozioni generate dall’ascolto di suoni, le belle melodie che arrivano da qualsiasi strumento musicale o, ancora meglio, da una voce umana, restano tali a prescindere dalla modalità con cui siano state prodotte.

Il mixer progettato da Sandy Dian
Il mixer progettato da Sandy Dian per la Dian Audio Engineering

Dal 2017 ad oggi, in collaborazione con mio figlio Luke, ho allestito un laboratorio per la revisione e riparazione di apparati audio professionali. Luke inoltre ha riattivato il marchio Sound Lab in collaborazione con DJ Lawrence, il produttore Andy Fox e mio nipote Angelo, pure lui DJ con una buona cultura musicale essendo nato e cresciuto nella radio locale gestita da mio fratello Gianfranco. Il Sound Lab di oggi, allestito nella stessa stanza/studio degli anni Ottanta, è diventato un punto di ritrovo per DJ dove si fanno dirette streaming sul web con mixati di buona musica di vario genere. Luke mi ha chiesto inoltre di progettare e costruire un mixer audio rotary, ovvero con potenziometri rotativi al posto dei classici slider. Non era certamente un problema, era “er pane mio” come direbbero a Roma. La richiesta però non si limitava a quello. Il mixer doveva essere a valvole, proprio quelle termoioniche, le madri di tutti i transistor e dei circuiti integrati. Sapevo che non fosse una cosa semplice perché la valvola lavora in modo ottimale ad una tensione di trecento volt contro i quindici dei normali mixer a stato solido. Va da sé che il suono amplificato da una valvola termoionica sia radicalmente diverso, e questo è stato il motivo principale che mi ha spinto e motivato a realizzare il mixer valvolare nato sotto il marchio Dian Audio Engineering. Ascoltare il suono che ne esce offre una soddisfazione grande ed indescrivibile. Ho avuto il piacere di vederlo in azione con disc jockey come Craig Smith, Davide Fiorese, Prince Anizoba e Dax DJ e in eventi particolarmente seguiti come Polpette Classic organizzati nel padovano, che peraltro hanno visto la Dian Audio Engineering come main sponsor per una intera stagione. Ad oggi il mixer è finito e funzionante insieme ad altri modelli ma non ancora in vendita. Le novità arriveranno presto» conclude Dian. (Giosuè Impellizzeri)

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La storia di Italian Style Production, etichetta-laboratorio della Time

Nel 1990 la house music ha già conquistato in modo definitivo i gusti dei giovani europei. Le prime produzioni italiane di questo genere circolano sin dal biennio 1987-1988 (per approfondire si rimanda a questo dettagliato reportage), ma nel 1989, con l’exploit mondiale di artisti come Black Box, FPI Project, 49ers e Sueño Latino, l’attenzione delle case discografiche indipendenti si sposta in modo netto verso quella che inizialmente sembra solo l’ennesima delle mode passeggere provenienti dall’estero. Alla Time Records, in attività sin dal 1984 in ambito italo disco/hi NRG, si cercano nuovi stimoli e strade da percorrere e in tal senso la house appare la scelta stilistica più ovvia e rassicurante dal punto di vista economico. «Fino all’esplosione della house made in Italy avevo indirizzato la nostra produzione prevalentemente all’hi NRG e al mercato giapponese» spiega Giacomo Maiolini, fondatore della Time, in un’intervista del febbraio 1993. Ed aggiunge: «Una volta scoppiato il boom dell’italian style (non è chiaro se il manager si riferisse allo stile italiano della house che conquista le classifiche internazionali o specificatamente alla sua etichetta, nda) ho aggiunto al nostro catalogo un buon quantitativo di prodotti ricalcanti questa linea con notevoli risultati». Nasce così una label finalizzata a coprire un nuovo segmento stilistico, diverso da quello che la Time destina al Paese del Sol Levante. Per cavalcare il boom della house però Maiolini, come lui stesso illustra in questa intervista di Alfredo Marziano pubblicata da Rockol il 24 gennaio 2014, si affida a persone completamente diverse perché «chi lavorava sulle produzioni giapponesi non era in grado di lavorare sulla house e viceversa». La neo etichetta, tra le prime sublabel del gruppo Time, si chiama Italian Style Production e già nel nome evidenzia lo spirito patriottico. Ad accompagnarla, per diversi anni, è la tagline “House Evolution” e un design grafico che mostra una coppia stilizzata di un uomo ed una donna che ballano a cui si somma un logo simile al simbolo della pace rovesciato. Il divertimento, la musica e il senso di unione, del resto, sono il leitmotiv di quel periodo, soprattutto se si pensa alla Berlino post Muro. Il business discografico prospera e sul mercato non faticano ad arrivare anche quei pezzi nati con l’obiettivo di prendere le misure di una musica nuova e dall’evoluzione in divenire. A dirla tutta, Italian Style Production sembra proprio un’etichetta-laboratorio da cui escono, per anni, centinaia di pubblicazioni tra cui, di tanto in tanto, qualche successo nazionale ed internazionale. Parte del resto diventa materiale cult per appassionati e collezionisti attenti a tutto ciò che, per ragioni plurime, non finisce nelle classifiche di vendita e sotto i riflettori.

1990-1991, l’avvio nel segno dell’italo house

DJ Pierre - Move Your Body

“Move Your Body” di DJ Pierre (il bresciano Pierangelo Feroldi) è il primo disco pubblicato su Italian Style Production

Ad aprire il catalogo è “Move Your Body” di DJ Pierre (Pierangelo Feroldi), disc jockey bresciano già con diverse produzioni alle spalle e che, come si evince dalla biografia di Maiolini disponibile sul sito della Time Records, è co-fondatore della stessa Italian Style Production. Il brano, scritto insieme al veronese Roberto ‘Roby’ Arduini, mette insieme le pianate tipiche della spaghetti house con una base in stile Twenty 4 Seven e sample tratti da “Get Up! (Before The Night Is Over)” dei belgi Technotronic. Segue “Come On Come On” di Aysha, scritto da Arduini e Ronnie Jones sulla falsariga dell’hip house degli olandesi Twenty 4 Seven (di cui abbiamo parlato qui) e “I Need Your Love”, primo disco di Jinny, progetto destinato a raccogliere particolari consensi ma solo negli anni a venire. Prodotto da Walter Cremonini e scritto da Francesco Boscolo, co-autore di “I’m Alone” dei Club House uscito nel 1989 su Media Records e di cui si parla qui, il pezzo fa leva su un sample vocale preso da “It’s Too Late” di Nayobe. Da questo momento in poi, Cremonini diventa uno dei principali protagonisti dell’Italian Style Production. Sua la firma dell’hip house di “Come On Yours” di B Master J, arrangiato con un altro di cui si parlerà parecchio in futuro, Claudio Varola. Più schiettamente italo house è invece “Movin Now” di Pierre Feroldi Featuring Linda Ray, costruito sulle armonie di “System” di Force Legato e le voci di “Waited So Long” di Darcy Alonso, riprese dallo stesso autore nel ’93 in “Make It Together” di Drop ma in chiave eurodance. È sempre Feroldi, affiancato da Laurent Gelmetti, a realizzare “I Can’t Feel It” di Yankees, quasi un clone di “I Can’t Stand It” dei Twenty 4 Seven, e “Going On” di KC Element, un mosaico di sample assemblato a mo’ di medley (“Happenin’ All Over Again” di Lonnie Gordon, “Don’t Miss The Party Line” dei Bizz Nizz, “Poetry House Style” di J.D. Featuring Inovator Dee e “A Little Love (What’s Going On)” di Ceejay). Pare che prima di essere pubblicato su Italian Style Production il brano circoli su un promo firmato come J.D. Element, poi cambiato in KC Element probabilmente per non correre il rischio di essere facilmente collegato col J.D. (John Laskowski) campionato. La decima uscita vede debuttare un altro nome di cui si sentirà parlare negli anni successivi, Dirty Mind. “The Killer” attinge dal campionario sonoro new beat ma con una citazione funk/disco dei MFSB tratta da “Zach’s Fanfare #2” (dall’album “Philadelphia Freedom” del ’75). A produrla è il team dell’Extra Beat Studio, Antonio Puntillo, Sergio Dall’Ora e Roby Arduini, con la collaborazione di Pagany. A mixarla invece Max Persona, intervistato qui. Arriva dall’estero invece “The Future Is Ours”, l’album della coppia Musto & Bones preso in licenza per l’Italia dalla City Beat e da cui viene estratto il singolo “All I Want Is To Get Away”.

Feroldi ed Arduini sono due autentici fiumi in piena: realizzano “House Of Hell” di House Corporation strizzando l’occhio agli Snap!, “For Your Love” di Anita Adams, “Ain’t No Sunshine” di Soul To Love, “Walking Away” di Synthesis e “Get Round” di Blazer. L’uso intensivo di un nuovo pseudonimo per ogni disco rivela una pianificazione tutto fuorché strategica. La house, del resto, è musica fitta di incognite e misteri, sbocciata tra mille nomi di fantasia e sample raccattati a destra e a manca (e senza alcun credito riservato agli autori originali), e ciò alimenta parecchio la curiosità del pubblico. Si rifanno vivi i veronesi dell’Extra Beat, prossimi ad essere messi sotto contratto dalla Media Records, con un altro pezzo che incrocia new beat (in Italia a lungo spacciata per techno) ed hip house, “I’m A R.A.B.O.L.” di Fighter MC. Quella su Italian Style Production è praticamente una staffetta tra Verona e Brescia: Feroldi gioca ancora coi sample in “Work For More” di Linda Ray, “Thank You” di Synthesis, “What’s Happened” di Yankees, “Spaak” di Task Force, “No One Can Do It Better” di B Master J, “African Jungle” di African Jungle e in “The Beat” firmata a suo nome. A “Brain” collega l’acronimo P.F. mentre con Marcello Catalano realizza “Got To Try” di KC Element, “It’s A New Day” di Jennifer Payne, “OK Radio” di Soggetto, “No Groove” di House Of Crazy Sound, “Back Again” di Rap Delight, “Let Your Body Move” di MC Marshall (cantato da Valerie Still, affermata cestista statunitense che tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta tenta la carriera musicale e di cui parliamo qui nel dettaglio), “Visions” di Basic Experience, “Double U” di Hypnotik (sul giro di “Assault On Precinct 13” di John Carpenter), “Go Get It” di Smiling Frogs e “Tonight” di In House, quest’ultimo in battuta downtempo ammiccando alla hit degli Enigma, “Sadeness Part I”. Dirty Mind riappare prima con “The Dream” in cui scorre, tra le altre cose, un sample ritmico dei Kraftwerk, e poi con “What Time Is It”, entrambe estratte dall’album “The Killer”. Su basi house iniziano ad apparire sovente suoni sintetici annessi convenzionalmente alla techno, come avviene in “Stop Provin'” di X.B.T. prodotto a Verona ancora da Arduini, Puntillo e Persona. I primi due affiancano Francesco Scandolari in “New Life, New Civilization” di Doctor Franz. Cremonini e Boscolo, da Padova, firmano invece il downtempo/hip hop di “Party Time” di M.C. Tad (Tad è l’acronimo di The Absolute Dopest) e la euro techno di “Got To Be” di Hypnotyk mentre Marco Bongiovanni, ex bassista dei Gaznevada e in quel periodo alle prese col fortunato progetto DJ H. Feat. Stefy condiviso con Enrico ‘DJ Herbie’ Acerbi (di cui si parla qui), produce “Just Groovin'” come DJ D Lite usando un sample di “Video Games” degli Alien con qualche anno di anticipo rispetto ai Pan Position che lo inseriranno in “Elephant Paw”.

KC Element - What Time Is It

“What Time Is It?” di K.C. Element è il primo 12″ che la Italian Style Production pubblica col centrino di colore blu

Il primo ad essere pubblicato nel 1991 è “What Time Is It?” di KC Element, prodotto da Feroldi e Dall’Ora seguendo lo stile della hardcore techno britannica che comincia a vivere un periodo di forte esposizione commerciale. È anche il primo 12″ dell’Italian Style Production col centrino di colore blu, da questo momento usato alternativamente al nero. Forse inizialmente tale scelta viene presa per evitare la monotematicità grafica ma, come si vedrà più avanti, la distinzione cromatica poi servirà anche ad un fine preciso. Blu è pure il colore scelto per l’etichetta centrale di “Run To Me” di Ruffcut Featuring Carol Jones, ad opera di Feroldi, Ivan Gechele e Mauro Marcolin. Campionando il riff di “Let Me Hear You (Say Yeah)”, la hit di PKA, sovrapposto al rap preso da “Jam It On The Dance Floor” di Unity Featuring The Fresh Kid e un frammento di “(I Wanna Give You) Devotion” dei Nomad, la coppia Feroldi/Marcolin realizza “Jammin On The Dance Floor” di House Corporation a cui seguono, in rapida sequenza, “Get On The Floor” di DJ Pierre, “Make A Move” di P.F. e “Rock The House” di Synthesis.

M.C. Claude - Highlander

Attraverso “Highlander” di M.C. Claude, Italian Style Production vara un diverso layout grafico usato per anni in modo saltuario

Poi si fanno risentire Boscolo e Cremonini con “Highlander” di M.C. Claude (il primo apparso con un layout diverso con una combinazione grafica minimalista) e sbuca una nuova licenza, “Love Let Love” di Tony Scott, rilevata dall’olandese Rhythm Records. Dopo un anno di attività e con oltre cinquanta uscite all’attivo, l’Italian Style Production inizia a circolare capillarmente nel mercato discografico seppur non abbia ancora centrato l’obiettivo con una vera hit. La situazione cambia col ritorno di Jinny per cui questa volta Cremonini si lascia affiancare da Alex Gilardi e Claudio Varola. “Keep Warm” è ispirato dal quasi omonimo “Keep It Warm” di Voices In The Dark del 1987 (campionato nel medesimo periodo dai romani Groove Section nella loro “Keep It Warm” su Hot Trax) e scandito da un secondo sample preso invece da “Playgirl” di La Velle, lo stesso che compare in “Your Love” di Fargetta nel 1993. Come racconta Gilardi qui, la Next Plateau di Eddie O’Loughlin pubblica “Keep Warm” negli Stati Uniti considerandola una potenziale hit e nell’affare entra anche la Virgin Records che gestisce il prodotto per il resto del mondo. Il brano fa ingresso nella top ten dance di Billboard e in decine di altre rilevanti classifiche statunitensi, finendo in programmazione radiofonica insieme a colossi del pop/rock. Ottimi risultati giungono anche dal Regno Unito e dall’Europa continentale ma, stranamente, non dall’Italia dove “Keep Warm” passa del tutto inosservata almeno sino al 1995 quando la londinese Multiply Records pubblica nuovi remix, tra cui quello dei veneti Alex Party, e Jinny finisce a Top Of The Pops.

Feroldi e Marcolin continuano ad incidere brani su brani, da “Everybody Get Up” di Magic Marmalade (a cui collabora Carlo Paitoni ovvero Carlo Vanni del negozio di dischi bresciano Deejay Choice di cui parliamo in Decadance Extra) a “Jungle Beat” di African Jungle, da “Get Away” di Pierre Feroldi Featuring Linda Ray (il main sample viene da “Stop And Think” dei Fire On Blonde) a “Living” di New World passando per “Love Me Now” di M.C. Marshal, “I’ve Got The New Attitude” di Linda Ray, “I’m Gonna Get You” di Jennifer Payne (il campione, preso da “Love’s Gonna Get You” di Jocelyn Brown, è lo stesso che useranno l’anno dopo, ma con più fortuna, i Bizarre Inc) e “Fever” di Carol, costruito sulla falsariga di “Touch Me” dei 49ers ed “I Like It” di DJ H. Feat. Stefy. Da Verona giunge “Everybody Let’s Go”, nuovo singolo di Dirty Mind allacciato ai suoni della eurotechno che vive la prima fase di commercializzazione, mentre da Padova “You Got The Dance” di Open Billet, “I Can’t Stand It” di Sound Machine, “Peecher Rap” di Woody Band e “Let’s Go” di B Master J per cui viene adoperata ancora una grafica differente insieme ad “I Wanna Be Right There” di Jennifer H. Featuring Marco Larri. Marcello Catalano, questa volta in solitaria, appronta il secondo (ed ultimo) disco di House Of Crazy Sound, “Best You Can Get”.

Italian Style Compilation

La copertina della “Italian Style Compilation” mixata da Maurizio “Bit-Max” Pavesi, in quel momento all’apice del successo

La settantesima uscita è rappresentata dalla “Italian Style Compilation”, raccolta edita su LP, musicassetta e CD e mixata da Maurizio Pavesi in quel periodo all’apice del successo come Bit-Max (di cui parliamo qui). Poco tempo dopo ne arriva un’altra intitolata “Megastyle” e mixata da Feroldi. La corsa riprende con “A. O. (No Bunga Low)” di Soul To Love, in cui Walter Cremonini riesce a sposare un frammento di “Rebel Without A Pause” dei Public Enemy con “A-O (No Bungalow)” dei norvegesi Data, già ripresa nel 1984 dagli italiani Yanguru prodotti dal citato Pavesi e Stefano Secchi. Coi fidi Varola e Gilardi, Cremonini realizza invece “Barbaro” di M.C. Claude, sullo stile di Digital Boy. Feroldi e Marcolin, in compagnia di Walter Biondi, producono “Get It On” di The First Twins, con una matrice ripresa in “Time” di K-F.M., pubblicato sulla stessa label l’anno successivo. Biondi e Minelli, quest’ultimo reduce della produzione di “Antico” del progetto omonimo tenuto a battesimo dalla GFB del gruppo Media Records, assemblano le tre versioni di “Atto I°” di Analogic. L’instancabile e vulcanico Feroldi produce “Don’t Try To Tease Me” di DJ Choice dove riappare Paitoni (e ciò spiegherebbe la ragione dell’alias scelto) e in cui pare di assaggiare un’anticipazione dell’eurodance che si svilupperà in modo compiuto dal 1992. Ancorata al combo techno/house sdoganato dai britannici Bizarre Inc e cavalcato con successo dai Cappella è “Like Like This” di KC Element. Sono gli anni in cui si campiona di tutto e da tutto, compreso le preghiere come avviene in “Alleluja” di Dirty Mind. La parte vocale di “Buffalo Bill” degli Indeep finisce in “Let’s Dance” di Magic Marmalade e quella di “Not Gonna Do It (I Need A Man)” di Vicky Martin in “Anymore” di Brenda. Ulteriori stimoli eurodance affiorano in “Could Be Rock” di Open Billet (una risposta a “Rock Me Steady” di DJ Professor?) mentre “House Time” di Synthesis occhieggia ai 2 Unlimited, “Movin Up And Down” di Anita Adams e “Talk About” di Ruffcut puntano ancora alla piano house ed “Everybody Need Somebody” di A.R.T. replica lo schema di “We Need Freedom” degli Antico. Modelli più house sono quelli di “Wake Up” di Sound Machine a cui si somma “Don’t Stop” di Celine, prodotto dallo stesso team di Jinny sull’onda di “Keep Warm”.

Feroldi (ri)mette mano a “Movin Now” dell’anno precedente ora ripubblicata come “Perfect Love” ed attribuita a Linda Ray (presumibilmente un nome fittizio adoperato per giustificare la presenza vocale solitamente campionata da brani esteri) a cui seguono la sua “Everyday” e “We Don’t Need No Music” di Party Machine in cui sono rispettivamente allocati i sample di “No Frills Love” di Jennifer Holliday e “Crash Goes Love” di Loleatta Holloway. Il campionatore è lo strumento fondamentale nella house music di quel periodo, irrinunciabile specialmente per chi, in Italia, fatica a trovare vocalist madrelingua vedendosi costretto a ripiegare sulle acappellas incise su dischi d’importazione. Cremonini, Gilardi e Varola usano quella di “I Need You Now” di Sinnamon per “Give Yourself To Me” di Sonic Attack mentre Gelmetti e Marcolin optano per quella di “K.I.S.S.I.N.G.” di Siedah Garrett per “Uh La La” di Soul System. Italo house con grandi pianate in evidenza è pure quella di “Beet Oven” di T.E.E. (Cremonini con Ricky Stecca, Roby ‘Long Leg’ Sartarelli – intervistato qui – ed Andrea Acchioni), “Everything” di Spiritual (Mauro Marcolin e Valerio Gaffurini), e “Get Into My Life” di Local Area Network (Gelmetti e Marcolin). La prolificità è senza dubbio tra i segni distintivi dell’Italian Style Production che sortisce più interesse all’estero che in Italia: è il caso di “It’s Not Over” di Istitution, prodotto da Luigi Stanga, Ivan Gechele e Franco Martinelli in cui si intravede la formula che porterà tanta fortuna ai Livin’ Joy pochi anni più tardi. Il brano viene licenziato oltremanica dalla Brainiak Records che commissiona i remix ad Andrew “Doc” Livingstone (quello di “Bamboogie” di Bamboo) e al compianto Caspar Pound (la sua “RHL Mix” è inchiodata al giro di “Rock To The Beat” di Reese). Spetta al remix di “Let’s Dance” di Magic Marmalade toccare quota cento del catalogo. Il repertorio inizia ad essere consistente e, col fine di fare un sunto di ciò che è avvenuto negli ultimi tempi, viene approntata la “Italian Style Compilation Vol. II”. Martinelli, Gechele e Stanga tornano a farsi sentire prima come Pharaoh con la cover new beat di “Dance Like An Egyptian” dei Bangles e poi con “I Feel The Friction” di Black House. Ritorna pure il team House Corporation con “I Know I Can Do It”: a capitanarlo è il “solito” Feroldi che nel contempo si occupa di “Everybody Move” di KC Spirit, col campionamento di un classico della house statunitense, “Ride On The Rhythm” di “Little” Louie Vega & Marc Anthony. A fine anno Maiolini apre i battenti dei Time Studios (in una “megainaugurazione”, come scrive Eugenio Tovini in un articolo sulla rivista Tutto Disco), lì dove vengono prodotti moltissimi dei brani che usciranno in seguito.

1992-1993, l’alba dell’eurodance

La parabola fortunata dell’italo house, costruita essenzialmente su campionamenti vocali ed estensivi giri di pianoforte, è quasi al termine. A circa tre anni dall’exploit internazionale, la formula entra in una fase di stanca e di sterile ripetitività dovuta al ristagno creativo. L’Italian Style Production, che sinora ha praticamente puntato quasi tutto su tale filone, è costretta a rivedere la propria progettualità ma non prima di aver immesso sul mercato “Down Town” di DJ Cornelius, “Do It Now” e “Don’t Stop The Beat” di Magic Marmalade e “Let’s Talk About You And Me” di Ella Lund. La house pianistica comincia a lasciare il posto a costrutti imparentati coi suoni ruvidi tipici delle produzioni nordeuropee (come “George Bush” di Wash. D.C., il primo Italian Style Production a cui collaborano Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto, coppia destinata ad una rosea carriera) e a soluzioni affini all’eurodance come “Gone Away” di Danaeh. In parallelo nasce e si sviluppa una visione house più legata ai suoni ovattati in auge nelle discoteche specializzate. È il caso di “Love Will Make It Right” di Ruffcut prodotto da Cremonini & company, scandito dal suono di una campana usata a mo’ di refrein. Strascichi hip house si sentono in “Let’s Get Together” di Synthesis caratterizzato da un hook vocale che sembra annunciare “Move On Baby” dei Cappella mentre in “Tropical Movement”, secondo ed ultimo disco che Marco Bongiovanni firma come DJ D Lite, fanno prepotentemente capolino le congas e un giro di organo.

Collage ISP

Alcuni dischi comparsi nel catalogo Italian Style Production marchiati con nomi di personaggi storici

Cremonini e i suoi sono infaticabili e tirano fuori pezzi a raffica dal Prisma Studio: dalla house (“Hot For You” di Three D, “Believe You” di Tune Grooves) a forme ibridate tra eurodance ed house (“Feel The Power” di Open Billet, “Sky” di Brenda) passando per “Funk Express” di Brothers Of Funk, che occhieggia ad “How-Gee” di Black Machine di cui parliamo qui, e “Highlander Part II” di MC Claude con rimandi alla hardcore techno dei Paesi Bassi. Marcolin, dal canto suo, non se ne sta con le mani in mano e sforna “Waste Your Time” di House Corporation, “Are You Ready” di KC Spirit, “Paura” di Louis Creole, “Play My Games” di Contact One e “Can’t Stop” di B Master J. Menzione a parte per “I Need Loving You”, primo disco di Quasimodo curato proprio da Marcolin che inaugura una serie di pubblicazioni legate a nomi di personaggi storici (scrittori, pittori, astronomi, esploratori). Filo conduttore resta la serrata pratica del campionamento che in “I Need Loving You” si rivela attraverso il riadattamento del riff di “Sweet Dreams” dei britannici Eurythmics. Segue “My Obsession” che Cremonini, Gilardi e Varola firmano come Keplero ma raccogliendo pochi consensi. La situazione si ribalta con “Open Your Mind” di U.S.U.R.A., l’ennesimo dei nomignoli comparsi nel catalogo della label bresciana. Messo a punto da Cremonini, Varola e Comis a cui si aggiungono Claudio Calvello e la bella Elisa Spreafichi tempo dopo nota come Lisa Allison, il pezzo ruota sul sample (pare risuonato) di “New Gold Dream (81-82-83-84)” dei Simple Minds, ossessivamente scandito da un vocal tratto dalla pellicola “Total Recall” del 1990 controbilanciato da un frammento irriconoscibile di “Solid” di Ashford & Simpson. Stampato sia su etichetta blu che nera, “Open Your Mind” è, dopo “Keep Warm” di Jinny, la nuova hit internazionale messa a segno dalla Italian Style Production che macina licenze in tutto il mondo e vende centinaia di migliaia di copie, si dice almeno 700.000. Per l’occasione viene approntato un videoclip interamente basato sull’effetto morphing in cui passano in rassegna volti di celebrità tra cui Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Joseph Stalin e Benito Mussolini. Visto il grandissimo successo (Italia inclusa), gli U.S.U.R.A. “migrano” sulla label principale del gruppo diretto da Maiolini, la Time per l’appunto, sin dal successivo singolo intitolato “Sweat”, analogamente a quanto avviene per Jinny dopo “Keep Warm”.

U.S.U.R.A. - Open Your Mind

Con “Open Your Mind” degli U.S.U.R.A. l’Italian Style Production torna nelle classifiche internazionali dopo “Keep Warm” di Jinny dell’anno prima

Galvanizzato dagli strepitosi risultati, il team patavino mostra subito la sua iperattività ed incide pezzi a nastro, da “Transilvania” di I.N.C.U.B., trainato dall’assolo sinfonico di un organo della L.S.A. Version, a “Bam Bam Show” di Andros, a cui prendono nuovamente parte Trivellato e Sacchetto, da “Rag Time” di P.I.A.N.O., con una performance pianistica di Gaffurini, ad “Old Times” di S.H.O.K. passando per “I Want Your Love” di Open Billet. Nel frattempo, a Brescia, Mauro Marcolin e i suoi collaboratori più stretti come il sopracitato Gaffurini e Silvio Perrone, “rispondono” con altre produzioni come “America” di Magic Marmalade, un mix tra ripescaggi del passato (“Last Night A D.J. Saved My Life” degli Indeep, “On The Road Again” dei Barrabas e “Come To America” dei Gibson Brothers) e linee melodiche contemporanee, “Breaking Down” di Synthesis, che incapsula elementi della hoover techno, “Tubular Noise” di Phantomas e l’ipnotico “Dream On Ecstacy” di Extasy. Poi, come Techno Hype Council, realizzano “Welcome To The Real World” pubblicato anche in Spagna dalla Blanco Y Negro ma con l’acronimo T.H.C., a cui seguono “Until The End” di Ethiopia che gira su un sample preso da “Chase Across The 69th Street Bridge” di John Carpenter ed Alan Howarth (dalla colonna sonora di “Escape From New York”), “Good Morning” di Copernico (il riff è quello di “Enola Gay” degli Orchestral Manoeuvres In The Dark) e “Shut Up” di Contact Two, prosieguo di “Play My Games” uscito un paio di mesi prima come Contact One. Cremonini, Gilardi e Perrone riciclano l'”everybody fuck now” di Sissy Penis Factory (remake di “Gonna Make You Sweat (Everybody Dance Now)” dei C+C Music Factory) intrecciandolo ad un breve riff di sintetizzatore preso da “Send Me An Angel” dei Real Life, coverizzato con successo dai Netzwerk proprio quell’anno: il risultato è “Everybody Fuck Now” di Extensive. Gli stessi autori si celano dietro “Trauma” di 479 Experience, colorito da scat vocali, “Rage Thumb” di Caliope, “Take My Hand” di Trance Fusion e “Funkystein” dell’omonimo Funkystein (un omaggio a “The Clones Of Dr. Funkenstein” dei Parliament di George Clinton?), un potpourri sampledelico venato di funk – in evidenza c’è un frammento di “Hang Up Your Hang Ups” di Herbie Hancock, lo stesso che l’anno seguente figura nella T.C. Funky Mix di “Come On (And Do It)” degli FPI Project – dai contenuti graficamente tradotti nell’ironica illustrazione sulla logo side. La voce di “Big House (We’ve Got The Juice)” di MC Miker G finisce in “Hyper” di 44 Megabyte e la malinconica melodia di un carillon scorre in “Music Box” di Nenja. Il campionatore è il “motore creativo” di quel periodo e più le fonti sono inusuali, più l’attenzione cresce. Così, se Max Kelly cattura la voce delle colonnine Viacard in “M.K.O.K.” su Wicked & Wild Records (di cui parliamo qui), in “Free Message” Cremonini e soci optano per il messaggio della segreteria telefonica della SIP, poi diventata Telecom. Il nome del progetto? S.I.P. ovviamente.

“James Bond” di Spectre è il remake del tema cinematografico scritto da John Barry mentre “Time”, è l’unico brano che Franco Moiraghi realizza come K-F.M.. Sound à la 2 Unlimited è quello di “Get Hip To This” di B Master J. e “People Come Together” di KC Element (quest’ultimo sfiora davvero il plagio di “Twilight Zone”). Più house oriented, col riff di “Change” dei Tears For Fears ripreso l’anno dopo da Z100 in “On The Low”, è “Somebody” di Dominoes. Il synth pop, il funk e il rock rappresentano un serbatoio immenso da cui si attinge deliberatamente. È il caso di “Coming Up” di Magellano, edificato sulla melodia di “Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode, di “The Picture” di Giotto, costruito sul giro di “Last Train To London” degli Electric Light Orchestra, di “Mamamelo” di Dirty Mind, in cui si incrociano “Fade To Grey” dei Visage ed “Anastasis” dei Rockets, di “Let It Out” di Quasimodo, in cui viene arpionato “Mammagamma” degli Alan Parsons Project, di “Space Dream” di Space Dream, rilettura di “Pulstar” di Vangelis già oggetto di un fortunato rifacimento del 1983 ad opera degli Hipnosis del compianto Stefano Cundari, o di “Over Me” di Pharaoh in cui viene rispolverato “Situation” degli Yazoo. Scritto, registrato e mixato da Ugo Bolzoni presso il suo New Frontiers Studio, a Rovigo, è “Sexual Intimidation” di X-Ray. Il suono dell’Italian Style Production inizia a battere con regolarità il sentiero dell’eurodance, genere che tra 1992 e 1993 promette sempre di più in termini commerciali. Escono “It’s Gonna Be There” di Car Max, “Alphabet Mode” di Alphabet (nato dal campionamento di “It Gets No Rougher” di LL Cool J e prodotto dal menzionato Max Kelly insieme ad Alex Bagnoli e Sabino Contartese, rispettivamente il futuro produttore di Neja e il protagonista in Santos & Sabino con Sante Pucello), “I Feel So Good” di Boxster (che sfrutta il sample vocale “hope, cause I’ve learned to cope” di “Hope” di Phil Asher, usatissimo in futuro), “Giving My Heart” di Glamour e il più “picchiato” “Do It Do It” di Yama. Tra febbraio e marzo del 1993 inizia a circolare “We Are Going On Down”, l’ennesimo dei brani costruiti su sample di vecchi dischi con cui il team cremoniniano riporta in vita, dopo circa due anni d’inattività, il progetto Deadly Sins nato sulla Line Music con “Together” di cui parliamo qui. Il successo è clamoroso e il pezzo, ribattezzato “disco dell’ottovolante” in virtù del video, entra in decine di compilation ma soprattutto nel secondo volume della “DeeJay Parade” edita da Time e diventato uno dei bestseller estivi. A finire nell’ambita tracklist della compilation di Albertino è pure un altro brano del repertorio Italian Style Production, “Make It Right Now” di Aladino, interpretato da Emanuela ‘Taleesa’ Gubinelli, già turnista in decine di progetti che la Time destina al mercato nipponico. Prodotto da Mauro Marcolin, Valerio Gaffurini e Diego Abaribi ispirati da “Angel Eyes” dei canadesi Lime uscito esattamente dieci anni prima, “Make It Right Now” (di cui parliamo qui nello specifico) diventa una hit in Italia e contagia anche qualche Paese estero, segnando una tappa importante di quella che sarà poi identificata come prima ondata italodance. Il successo da noi è tale da richiedere le esibizioni nelle discoteche. A quel punto Abaribi, che già lavora come DJ, diventa il frontman del progetto portando il brand Aladino nei locali di tutto lo Stivale.

ISP green

“Progressive House” di Mah-Jong e “In The Ghetto” di Jam 2 Jam sono gli unici dischi che Italian Style Production pubblica su etichetta di colore verde

Sino a questo momento i due colori usati per le etichette centrali e per le relative copertine sono il nero e il blu, fatta eccezione per alcune cover rosse usate sporadicamente nei primi anni. Come racconta Abaribi in un’intervista finita in Decadance, da un certo momento in poi l’alternanza serve a velocizzare il lavoro del distributore: i dischi col logo blu sono destinati all’Italia, quelli col logo nero invece relegati al mercato estero. Non sempre però questa categorizzazione cromatica risulta essere adeguata e “Make It Right Now” di Aladino, stampato su etichetta nera, ne è un esempio. Alcuni inoltre, come “Open Your Mind” degli U.S.U.R.A., “Suicide” di Phase Generator o “Dirty Love” di Infinity (un altro discreto successo italiano messo a segno da Cremonini & co., con la chitarra di “Sweet Child O’ Mine” dei Guns N’ Roses e un breve passaggio vocale di “Human” degli Human League), vengono stampati in entrambe le versioni, blu e nera. Come si spiega in Decadance Extra, nel 1993 viene scelto anche un terzo colore, il verde, riservato però ad appena una manciata di pubblicazioni orientate ai club, “Progressive House” di Mah-Jong, prodotto da Gianni Bini nel Brain Studio a Viareggio, e “In The Ghetto” di Jam 2 Jam, dietro cui armeggiano Franco Moiraghi e Marco Dalle Luche. Proviene dal Ghost Studio di Francesco Marchetti invece “Jericho” di Jericho, in cui riappare l’hook vocal tratto da “The Badman Is Robbin'” degli Hijack, già ripreso nel ’92 dai Prodigy in “Jericho” e, qualche anno più tardi, da DJ Supreme in “Tha Horns Of Jericho”. La prolificità dei team che lavorano per Maiolini non conosce pause ma spesso tradisce similitudini troppo evidenti come in “Do You Want My Love” di House Corporation, simile a “Make It Right Now” di Aladino, “Time Is Right” di Synthesis, prodotto sulla falsariga di “We Are Going On Down” di Deadly Sins, o ancora “I’m Your Memory” di Copernico e “Let Me Down” di Rock House con l’assolo rock rispettivamente di “Eye Of The Tiger” dei Survivor e “Money For Nothing” dei Dire Straits, che si riagganciano ai Guns N’ Roses ripresi in “Dirty Love” di Infinity, e “Movin’ Over” di Trivial Voice che suona come una sorta di nuova “Open Your Mind”. Con la media di una nuova uscita a settimana, l’Italian Style Production è davvero un pozzo senza fondo. Da “What’s Your Name” di KC Spirit ad “Arriba Arriba” di DJ Cartoons, da “Sex” di Spirits a “Got To Feel Good” di Anita Adams, da “I Wanna Give Up” di Intuition ad “I Love Music” di Louis Creole passando per “Wash” di Alverman ed “Open Your Eyes” di Gulliver che pare una miscellanea tra “Suicide” di Phase Generator e “Make It Right Now” di Aladino con l’aggiunta di un testo scritto da Silver Pozzoli.

Dirty Mind - Bocca Boca

A causa di un presunto errore, il titolo riportato sulla copertina di Dirty Mind è “Bocca Boca” anziché “Back To Future”

Particolarmente fortunato il ritorno di Dirty Mind che con “Back To Future” tocca forse il punto più alto di popolarità. Facendo leva su un riff di fisarmonica suonato da Elvio Moratto e campionato da “¡Hablando!” di Ramirez & Pizarro, Marcolin, Gaffurini e Perrone ottengono un martellante pezzo che si ritaglia spazio nella programmazione estiva e stimola l’interesse della Jelly Street Records che lo licenzia nel territorio britannico. In copertina finisce un titolo diverso, “Bocca Boca”, poi coperto da rettangolini adesivi che recano invece quello esatto. Promette bene ma non riuscendo ad esplodere “Won’t You Find A Way” di D.R.A.M.A., prodotta ed arrangiata da Cremonini e Gilardi sul testo scritto da Fred Ventura e cantato da Debbie French, turnista che un paio di anni prima presta la voce a “Do What You Feel” di Joey Negro e “One Kiss” di Pacha. La britannica frequenta gli studi della Time e in quel periodo interpreta, tra le altre, “Confusion” di Molella e “Do You Know My Name” di Humanize di cui si parlerà in seguito. Cremonini, Gilardi ed Abaribi sono pure gli artefici di “Bump” di House Corporation (lo spunto viene da “Baby, Do You Wanna Bump” dei Boney M.). Stilisticamente simili sono “Movement Of People” di M.O.P., “Check It For Me (One Time)” di Strawberry Juice, “Let’s Spend The Night Together” di KC Element, “Don’t Look Back” di Carol Jones (che sul lato b annovera “Feel Underground”, a fare il verso ai suoni di “Plastic Dream” di Jaydee di cui parliamo qui) e “Popeye” di DJ Cartoons. Un altro pezzo che, come D.R.A.M.A., pare avere tutte le carte in regola per sfondare ma non riuscendoci è “We’ve Got To Live Together” di Andromeda, una specie di “Make It Right Now” che corre sull’acappella tratta da “Why Can’t We See” di Blind Truth, la stessa ad essere utilizzata nel ’91 da R.A.F. in “We’ve Got To Live Together” e nel ’94 da Proce in “Jump” (ma ricantata) e dai Systematic nella fortunata “Love Is The Answer”. Gli autori, Gilardi e Cremonini (insieme ad Abaribi), si rifanno comunque con gli interessi con un brano parecchio simile pubblicato su Italian Style Production nell’autunno del 1993, “Allright” di Silvia Coleman. Nato nel 1991 con “Into The Night (Taira Taira)”, pare interpretato da una certa K. Hausmann ed apparso su un’altra sublabel della Time, la citata Line Music, il progetto Silvia Coleman (l’ennesimo dei nomi di fantasia, scelto da Gilardi per omaggiare la pianista dei Revolution, Lisa Coleman, come lui stesso spiega in questa puntata di 90 All’Ora con DJ Peter e Luca Giampetruzzi) ora conosce una popolarità inaspettata grazie ad un brano a presa rapida che ricorda parecchio “Make It Right Now” di Aladino. A cantarlo è la britannica Denise Johnson, in quegli anni corista dei Primal Scream con cui Gilardi e Cremonini collaborano poco tempo prima attraverso “Matter Of Time” di D-Inspiration uscito su Time. Lo stesso team di lavoro sviluppa “Listen Up” di Synthesis, che occhieggia all’eurodance teutonica di Maxx, Culture Beat, Masterboy, Fun Factory o Intermission, e medesimi riferimenti stilistici sono pure quelli seguiti in “Dreams” di B.S. & The Family Stone, “Rock The Place” di Institution, “Girlfriend” di Frankie & The Boys, “All The Things I Like” di Brenda, “House Is Mine” di Rhythm Act e “Somebody” di Transit. Un vago rimando alla fisarmonica di “Back To Future” lo si assapora in “Straight Down On The Floor” di Yama mentre “Love On Love” di Dominoes stuzzica l’appetito della RCA tedesca. La musica del passato, recente e meno, continua a rappresentare una decisiva fonte di ispirazione intrecciando stesure e sonorità tipiche dell’eurosound di quel momento come avviene in “Again ‘N’ Again” di Magic Marmalade, che all’interno cela un campione di “Here Comes That Sound Again” di Love De-Luxe (1979), in “Out Of Control” di Digital Sappers, dove si scorge un fraseggio simile a quello di “Ultimo Imperio” degli Atahualpa (1990) ed uno stralcio vocale preso da “Go On Move” dei Reel 2 Real che si afferma commercialmente con la versione del 1994, e “Loving You” di Phase Generator scandito dal riff (risuonato) di “Take On Me” dei norvegesi a-ha.

Aladino - Brothers In The Space

“Brothers In The Space” è l’atteso follow-up di Aladino giunto nell’autuno del 1993

Insieme ad “Allright” di Silvia Coleman, nell’autunno del ’93 si impone “Brothers In The Space” di Aladino, atteso follow-up di “Make It Right Now”. Per l’occasione commercializzato con una grafica ad hoc, né blu né nera, il brano impasta elementi simili a quelli del precedente inclusa la voce di Taleesa seppur ancora esclusa dai crediti. Gli ultimi mesi dell’anno vedono uscire in rapida sequenza circa una quindicina di 12″ di cui alcuni rimasti nell’anonimato come “Got The Power” di Copernico, “Don’t Stop The Motion” di Andromeda, “Do You Really Love Me?” di Stereo Agents (un tentativo di rispondere alle hit provenienti dall’estero di B.G. The Prince Of Rap o Captain Hollywood), “Dance To The Beat” di Trivial Voice, “Barracuda” di Barracuda, “Shake It Up” di Loren-X (che ricicla la base di “We’ve Got To Live Together” di Andromeda uscito pochi mesi prima), “I Let You Go” di House Corporation e “Do The Dance” di Vi-King. La concorrenza nella cheesy dance è fortissima e spietata, le etichette immettono sul mercato enormi quantità di dischi nella speranza che in mezzo a così tanto materiale ci sia sempre qualcosa che possa trasformarsi in un successo. Quando l’imperativo diventa vendere a tutti i costi la creatività va a farsi benedire e ne risente come avviene in “Let’s Get It” di Marasma, dove un’anonima base eurodance diventa il pianale per reinnestare il sample vocale di “Get On Up” di Silvia Coleman edito dalla Line Music l’anno prima e realizzato dagli stessi autori, pare ispirati da “Rock The House” di Nicole McCloud del 1988. A spingere verso quel “riciclo forzoso” è forse “Get On Up” di Giorgio Prezioso, uscita nel medesimo periodo con lo stesso campionamento vocale? Chissà, magari qualcuno deve aver sperato che la proprietà commutativa fosse valida anche in musica (cambiando l’ordine degli elementi il successo non muta). Eurodance assemblata coi soliti ingredienti e senza guizzi è pure quella di “Gimme The Love” di Darkwood che gira sul riff di “Sounds Like A Melody” degli Alphaville, ripreso con più successo dai bortolottiani Cappella in “U Got 2 Let The Music” negli stessi mesi. L’intro di “I Need I Want” di Alison Price mostra qualche evidente similitudine con “La Pastilla Del Fuego” di Moratto (di cui parliamo qui) incrociata al sample vocale preso da “Was That All It Was” di Solution Featuring Tafuri riciclato nel ’94 in “I Need I Want” di Vince B, “T.J.X.4.” di Algebrika strizza infine l’occhio allo stile di Ramirez. Piero Fidelfatti e Sandy Dian firmano “El Ritmo Del Universo” di Amparo, Cremonini e soci “Ohmm” di Tibet e “Just A Minute” di Castilla, ma nessuno di questi riesce a farsi notare. Sorti diverse invece per le ultime pubblicazioni del 1993 che si faranno ben sentire nei primi mesi del ’94: “Come Down With Me” di Deadly Sins, cantato da Glen White, ex vocalist dei Kano, e “Do You Know My Name” di Humanize, eurodance prodotta da Bruno Cardamone, Gianluigi Piano e Giuseppe Devito ed interpretata da Debbie French sul ritornello di un vecchio brano della già citata Nicole McCloud, “Don’t You Want My Love” (per approfondire rimandiamo all’articolo/intervista disponibile qui).

1994-1995, tsunami italodance

Per Italian Style Production il 1994 si apre all’insegna dell’eurodance, genere che quell’anno domina la scena pop senza rivali. Il primo ad uscire è “Temptation” di Swag, un brano registrato presso il Red Studio di Palermo che mescola suoni tipici del filone insieme al binomio voce femminile/rap maschile (rispettivamente di Sandra Walters e di un certo Aziz) ma che non riesce a districarsi nella miriade di pezzi simili in circolazione. Gli autori, Daniele Tignino e Vincenzo Callea, trovano più fortuna qualche mese più tardi insieme al conterraneo Riccardo Piparo e il cantante Josh Colow con “Illusion”, che lancia in modo definitivo i Ti.Pi.Cal. dopo il poco noto “I Know” dell’anno prima ma con uno stile diverso dall’eurodance. Giorgio Signorini e Sergio Olivieri firmano “End Of Time” di Synthesis a cui seguono “Find A Way” di Ruffcut, “Won’t You Come With Me” di KC Element e “Can’t Give Up” di Dominoes, cantata dalla corista dei Simply Red, Janette Sewell. Cardamone, Piano e Devito, dopo gli esaltanti riscontri di Humanize, realizzano “Eyajalua” come Rajah ma tradendo le aspettative. Riappaiono Danaeh con “Walk Away”, che strizza l’occhio al primo Aladino e a Jinny, e gli Amparo di Fidelfatti e Dian che consegnano a Maiolini il seguito di “El Ritmo Del Universo” intitolato “La Magia De Mi Musica” e scandito ancora dalla voce di Rosalina Roche R., un mix tra Amparo Fidalgo dei Datura e Carolina Damas dei Sueño Latino. I due si fanno risentire, poco più avanti, come Thor col brano “Gibil”, sempre prodotto presso il Sandy’s Recording Studio a Gambellara, in provincia di Vicenza. I quattro remix di “Come Down With Me” di Deadly Sins invece giungono dalla Germania: a firmarli sono Ingo Kays (Genlog, Padre Terra etc) ed Antonio Nunzio Catania, siciliano trapiantato nel Paese dei crauti e dietro una miriade di produzioni come quelle con DJ Hooligan ma soprattutto Scatman John. Attitudini eurodance, le stesse che caratterizzano la prima ondata italodance, si ritrovano in “Never Let It Go” di Dis-Cover (in scia a Silvia Coleman), “Everybody” di Carol Jones, “Underpower” di Algebrika, “That Is Really Mine” di Black House (su cui mettono le mani Maurizio Braccagni e Roberto Gallo Salsotto), “Loverboy” di Mr. Signo, “No Lies” di M.C. Claude, “Easy” di Magic Marmalade, “People All Around” di B Master J (con un intro che rimanda a quello di “Everybody” di Cappella) e “Life Love & Soul” di D-Inspiration. Ed ancora: “Baby” di Mytho, prodotta da Roby Borillo dei Los Locos con una citazione vocale di “Take Your Time (Do It Right)” della S.O.S. Band, “I Need Love” di Open Billet, “Sex Appeal” di KC Spirit, “Keep On Movin'” di Yama, diventato un cimelio per i collezionisti con un sound à la “The Key: The Secret” degli Urban Cookie Collective, “Mastermind” di Hyppocampus e “Why” di Star System. Tutti passano inosservati dalle nostre parti trovando più fortuna in Paesi come Spagna, Francia e soprattutto Sudamerica dove eurodance ed italodance vivono un autentico exploit. Molti progetti risultano one shot probabilmente perché ritenuti tentativi di successo andati a vuoto con più nessuna energia ulteriormente investita.

successi ISP estate 1994

Alcuni successi messi a segno da Italian Style Production nell’estate 1994: dall’alto “Call My Name” di Aladino, “All Around The World” di Silvia Coleman e “Sing, Oh!” di Marvellous Melodicos

L’inversione di tendenza avviene durante la stagione estiva con almeno una manciata di titoli, “Call My Name” di Aladino, orfano della presenza di Marcolin e l’ultimo ad essere prodotto da Abaribi e cantato da Taleesa (che in parallelo interpreta “Promise” di No Name, su Time), ed “All Around The World” di Silvia Coleman, trainata dalla U.S.U.R.A. Mix. A questi si aggiunge “Transiberiana” di Dirty Mind, a cui pare collabori Molella in incognito, e “Sing, Oh!” di Marvellous Melodicos, nuovo progetto messo in piedi da Trivellato e Sacchetto (ed Alberto ‘The Indian’ Lapris) che utilizzano la parte vocale di un classico della musica brasiliana. Il successo coinvolge pure la Francia in autunno, quando si ipotizza l’uscita dell’album di Aladino, iniziativa che però non andrà mai in porto. Come contorno giungono “Batman” di DJ Cartoons, progetto nato in seno a quella che alcune riviste ribattezzano “techno demenziale”, “Watching You” di Frankie (prodotta dai fratelli Paul e Peter Micioni), “Sending (All My Love)” di Andromeda, “I Need A Man” di Buka e “U Love Me” di Delta, un altro di quelli che hanno acquisito valore collezionistico col passare degli anni. Scarsamente accolti in Italia sono “Take Me To Heaven” e “Make My Day” di Nevada, “I Want Your Love” di Etoile (davvero simile ad “I Found Luv” di Taleesa), “For Your Heart” di Alison Price, “Pinga” di El Loco, “Keep Me Going On” di D-Inspiration e “Freedom” di KC Element. Degna di menzione, sul fronte estero, è la nascita della Italian Style UK, filiale britannica accorpata alla Disco Magic UK gestita da Roland Radaelli, società sulla quale è possibile leggere interessanti dettagli cliccando qui. L’iniziativa però si rivela effimera visto che conta su appena tre pubblicazioni (“I Know I Can Do It” di House Corporation, del 1991, “Feel Free” di Debbe Cole, uscita su Time nel 1992, e “Let Me Down” di Rock House del 1993). Altre licenze, come “Moving Now” di Pierre Feroldi, “Keep Warm” di Jinny, “Everyday” di DJ Pierre, “It’s Not Over” di Istitution, “Wake Up” di Sound Machine e la compilation mixata “Megastyle Volume 1” finiscono invece nel catalogo della stessa Disco Magic UK.

Torniamo in Italia: in autunno riappare per l’ultima volta Deadly Sins con “Everybody’s Dancing”, ancora cantato da Glen White su una filastrocca da luna park, atmosfera rimarcata dalla foto vintage scelta per la copertina curata da Clara Zoni. Ultima apparizione pure per Silvia Coleman con “Take My Breath Away”, quasi una copia di “All Around The World” che sul lato b include “Feeling Now The Music” particolarmente apprezzata in Germania e Spagna. Meno fortunato il ritorno degli Humanize con “Take Me To Your Heart”, nonostante tutte le carte in regola per bissare il successo del precedente. Si risente Quasimodo con “All I Want Is You”, sequenzato sia su una parte vocale davvero simile a quella di “Don’t Leave Me Alone” dell’olandese Paul Elstak uscita poco tempo dopo, sia su una chitarra flamenco in stile Jam & Spoon che si ritrova altresì in “Jungle Violin” di Stradivari, prodotto da Roby Arduini e Pagany negli studi della loro Union Records fondata dopo aver lasciato la Media Records proprio quell’anno. Un altro disco che, pur sviluppato con perizia sullo schema eurodance, non riesce ad affermarsi del tutto in Italia è “If You Wanna Be (My Only)” di Orange Blue. Prodotto da Arduini ed Abaribi con la voce della compianta Melanie Thornton, reduce dei clamorosi successi di “Sweet Dreams” dei La Bouche e “Tonight Is The Night” dei Le Click, esce in autunno e conquista Germania, Spagna, Francia, e il Sud America. In cambio Amir Saraf ed Ulli Brenner, produttori di La Bouche e Le Click, e il rapper Mikey Romeo, si occupano del citato “I Found Luv” con cui Taleesa torna come solista dopo il poco fortunato “Living For Love” del ’91 (firmato Talysha), l’esperienza accanto ai Co.Ro., Stefano Secchi, Aladino (seppur mai ufficializzata) ed una caterva di lavori come turnista. Scarso interesse è suscitato da “Do You Wanna Right Now” di Andromeda, costruito sui sample presi dall’omonimo dei Degrees Of Motion (cover del classico di Siedah Garrett del 1985 già ripreso da Taylor Dayne e parzialmente riadattato da Stefano Secchi in “We Are Easy To Love”) e da “Ghostdancing” dei Simple Minds scelto nel medesimo periodo dai Dynamic Base in “Make Me Wonder” sulla Welcome del gruppo Dancework. Provengono degli anni Ottanta pure i campionamenti celati in “Feel So Good”di Ruffcut Feat. Carol Jones (“Venus” degli Shocking Blue) e in “Anything For You” di Trivial Voice (le voci da “The Reflex” dei Duran Duran e il riff da “Rain” dei Cult). In entrambi la parte di chitarra è eseguita da Enrico Santacatterina, da lì a breve coinvolto dagli U.S.U.R.A. in “The Spaceman”. Poco noto da noi ma ben piazzato nelle classifiche teutoniche è “The Light Is” di The Dolphin Crew, prodotto da Andrea De Antoni, Franco Amato e William Naraine ossia gli artefici dei Double You. A mixarlo è Francesco Alberti, ingegnere del suono della DWA. Provenienti dalla label di Roberto Zanetti sono pure i Digilove che realizzano “Touch Me”, un clone di “It’s A Rainy Day” di Ice MC. Alex Baraldi ed Andrea Mazzali producono la veloce “I’m Losing My Mind” di L.O.V. (acronimo di Licensed On Venus) che inizia a battere il sentiero di una dance dopata nei bpm a cui aderiscono già diversi act tedeschi e che in Italia trova il la grazie a “The Mountain Of King” di Digital Boy. In tal senso si fa ben notare, a fine anno, “Strange Love” di Kina, un pezzo di Trivellato e Sacchetto che ricicla la melodia di “Reality”, tra i brani della colonna sonora del film “Il Tempo Delle Mele” composta da Vladimir Cosma. Molto simili i contenuti di “Chanson D’Amour” che Arduini ed Abaribi firmano come Savoir Faire insieme a Geraldine, e di “Open Your Hands” di Tatanka, solo omonimo del DJ Valerio Mascellino. Preso in licenza dalla tedesca Maad Records (con l’aggiunta di un remix realizzato nel Time Studio da Gianluigi Piano e Roby Arduini) è “Frozen Luv” di Polaris Feat. Minouche, mentre esportato con successo nel Paese della Torre Eiffel è “Ride On A Meteorite” di Antares in cui la voce di Clara Moroni è alternata al rap di Asher Senator, lo stesso che un paio di anni più tardi affianca con discreto successo i JJ Brothers e Molella. “Adottato” dalla tedesca Polydor è pure “Nevermind” di Phase Generator, prodotto dallo stesso team di Marvellous Melodicos. Tra gli ultimi ad uscire nel ’94 ci sono “The Sun And The Moon” proprio dei Marvellous Melodicos, che risente della velocizzazione a cui allora va incontro la pop dance, e “Come On Let’s Go” di The Dog, prodotta da Cremonini e Gilardi sulla falsariga delle hit estive transalpine de La Bouche/Le Click sul testo scritto e cantato da Orlando Johnson, ricordato per aver interpretato ad inizio decennio i più grandi successi di Stefano Secchi come “I Say Yeah” e “Keep On Jammin'”.

Il 1995 si apre con “I Believe”, ultimo disco del progetto Copernico rappato da Asher Senator a cui si somma “Virtual Dreams”, una specie di incrocio tra Kina ed “Over The Rainbow” della tedesca Marusha che in quel periodo vive uno strepitoso successo commerciale. A realizzarla sono i già incrociati Baraldi e Mazzali che si firmano Argonauts. Bpm serrati e melodie festaiole sono pure gli ingredienti di “In The Name Of Love” di Aqua prodotto dalla premiata ditta Trivellato-Sacchetto che coi medesimi elementi appronta il secondo brano di Kina, “7 Days”. Ultima apparizione per Quasimodo con “Memories” (a scandirlo è una melodia molto simile a quella di “Outside World” dei Sunbeam che, a cavallo tra ’94 e ’95, si sente pure in “Heaven Or Hell” degli italiani R.O.D.) a cui seguono a ruota “Up In The Sky” di Andromeda, “The Big Beat” di Nouvelle Frontiere e “Dreamlover” di Orion (con occhiate a “The Mountain Of King” di Digital Boy), tutti accomunati da echi epic trance desunti dal successo internazionale dei citati Sunbeam. La musica ad alta velocità è il trend imperante di quell’anno che traina “Music Of Belgium” di The Choir (il nome è dovuto alla presenza di una parte ecclesiastico-corale). Più canonicamente eurodance sono “I Keep Calling You” di Prophecy, remixata per l’occasione dai Ti.Pi.Cal. (le versioni dei siculi sono due, Underground Mix e Crossover Mix, incise sul lato b), “Cannibal” di Black 4 White, progetto di Massimo Traversoni e Roberto Calzolari mixato presso il Casablanca Studio di Zanetti da Francesco Alberti, “You’re The Best Thing” di Gorky, “The Beat Of The Flamenco” di Trivial Voice, “All I Wanna Do” di Phase Generator e “Don’t U Bring Me Love” di Nevada, decisamente in “DWA style” analogamente a “To Be Free” di Prime, prodotto da un giovane Federico Scavo affiancato da Riccardo Menichetti. Sfruttando il successo di Ini Kamoze i DJ B. (Benny DJ, Mitia ed Umberto Benotto) incidono la cover di “Here Comes The Hotstepper” presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. Makina le matrici di “The Sugar Of Life” di Human Dragon, act rimasto nell’anonimato seppur orchestrato da Alex Quiroz Buelvas, frontman di uno dei progetti nostrani più fortunati di quel periodo, Ramirez. Trivellato e Sacchetto, con la vocalist Mireille, realizzano “Don’t U Know” di Pelican sullo schema seguito in parallelo per i singoli di Taleesa (“Let Me Be”, “Burning Up”, editi su Time). Maiolini affida loro il nuovo Orange Blue, “Sunshine Of My Life”, che conquista licenze in Spagna, Francia, Svezia e Canada come accade a “You Belong To Me” di Antares. I Discover riprendono “’74-’75” dei Connells ricantata da un certo Dominic.

tshirt ISP

Tre tshirt della Italian Style Production distribuite dalla Pro Mail tra 1994 e 1995

Con oltre dieci anni di attività alle spalle, la Time è tra le aziende discografiche italiane più consolidate. I tempi sono giusti per lanciare una ricca linea di gadget, merchandising ed abbigliamento tra cui orologi da parete e da polso, slipmat, flight case, borse portadischi in stoffa, bandane, camicie, cappellini, felpe ed alcune tshirt decorate con il logo Italian Style Production. A distribuire tutto questo materiale è la Pro Mail di Trento, specializzata in vendita per corrispondenza. In autunno arrivano due discreti successi messi a segno da Trivellato e Sacchetto: “Stay With Me”, il quarto (ed ultimo, almeno in questa fase) 12″ di Aladino, col featuring vocale ma non accreditato ufficialmente di Sandy Chambers, ed “Over The Rainbow”, ultima apparizione di Marvellous Melodicos ispirato da “Luv U More” del DJ olandese Paul Elstak, un successo estivo a metà strada tra eurodance ed happy hardcore. Torna anche Dirty Mind con un brano radicalmente diverso dai precedenti e che forse sarebbe stato più opportuno collocare su un’etichetta più legata alla house come la Downtown. Trattasi di “Make It Funky” in cui Walter Cremonini, Alex Gilardi e Ricky Romanini inseriscono il campionamento di “K-Jee” degli MFSB, un classico funk/disco estratto dal catalogo Philadelphia International Records. Chiudono l’annata la veloce “My Love” di Torricana, “Ridin’ On The Night” di Trivial Voice, “Wanna Move Up” di Ruffcut Feat. Carol Jones, “Take A Chance” di Dream Project (per cui Trivellato e Sacchetto ricorrono ancora alla voce della Chambers) ed “Everytime You Go” di Andromeda, annessi alla corrente eurodance ma probabilmente fuori tempo massimo visto che i suoni della dream progressive iniziano a farsi avanti e tutto sta per cambiare.

1996-1997, in balia di happy hardcore e dream progressive

Con una fama ben consolidata oltralpe, il progetto Antares ricompare con “Let Me Be Your Fantasy” a cui partecipa nuovamente il rapper Asher Senator. In scia si inserisce “Runaway” interpretato dalla Chambers, che chiude definitivamente l’operatività di Orange Blue. Influssi dream à la Robert Miles scandiscono “Como El Viento” di Lullaby, seppur intriso in modo evidente di salsa eurodance. Il brano, scritto da Alessandro Sangiorgio, viene utilizzato nel medesimo periodo dai G.E.M. prodotti da Stefano Secchi per un medley con “Batufest”, su Propio Records. Giordano Trivellato e Giuliano Sacchetto ora sono tra i produttori più prolifici in forze alla scuderia maioliniana e sfornano un pezzo dietro l’altro come “Feels Like Heaven” di Nevada e “Wonderful Life” di Phase Generator, quest’ultimo una risposta a “Discoland” di Tiny Tot (di cui parliamo qui) e a tutto quel filone euro happy hardcore sdoganato dal citato Paul Elstak e Charly Lownoise & Mental Theo ma anche da tanti act tedeschi come Das Modul e Dune, di cui si può approfondire qui e qui. Elevati bpm sono altresì quelli di “I Wanna Make U Happy” di Free Jack in cui Asher Senator rappa un brano semi-emulo di “I Wanna Be A Hippy” dei Technohead, “Heaven”, ultimo disco di Andromeda costruito sulla falsariga di “Can’t Stop Raving” dei Dune da poco citati, e il quasi omonimo “Heaven’s Door”, ultimo per Kina ed ancora fortemente ispirato dalla happy hardcore teutonica di Dune e Blümchen. Curiosamente la parola “heaven” si ripete nel titolo in tre uscite attigue (Nevada, Andromeda, Kina): ambizione a finire nel paradiso della dance?

The Spy - The Persuaders Theme

“The Persuaders Theme” di The Spy è il primo disco che Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani realizzano per Italian Style Production ad inizio ’96

Uscito intorno a febbraio è “The Persuaders Theme”, cover dell’omonimo tema composto da John Barry per la serie televisiva “The Persuaders” (“Attenti A Quei Due” in Italia) per cui Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani dei Datura, che poco prima abbandonano la Irma Records in favore della Time, coniano un nuovo progetto one-shot, The Spy. Ad affiancarli nell’avventura è Guido Caliandro di cui si parlerà più avanti e che nel medesimo periodo realizza col compianto Ricci DJ “Electro Sound Generator” come Neutopia, unica uscita sulla E.S.P. (Extra Sensorial Productions), anch’essa raccolta sotto l’ormai enorme ombrello della label bresciana di Maiolini. Pagano e Mazzavillani aggiungono nel catalogo ISP altre due cover: “Il Clan Dei Siciliani” di Goodfellas (dalla colonna sonora dell’eterno Ennio Morricone dell’omonimo film del ’69) e “A Whiter Shade Of Pale” di Doomsday (l’originale è un classico dei Procol Harum, scritto da Gary Brooker e Keith Reid), co-prodotta con MC Hair (il futuro Andrea Doria di cui si parla qui) in chiave hard trance con graffiate acide. “Tears” di Overture, “Rapsody” di Skylab, “Once Upon A Time In The West” di Evolution (ennesima e non certamente ultima cover della morriconiana “C’era Una Volta Il West”) e “Treasure” di Globo seguono pedestremente lo stile di “Children” di Robert Miles. Un mix tra dream ed eurodance è quello di “Need Somebody” con cui Claudio Varola e Michele Comis degli U.S.U.R.A., a cui si aggiunge il DJ veneto Andrea Tegon, riportano in vita, a tre anni di distanza, il progetto Infinity. Anche questa volta l’ispirazione viene dal passato, precisamente da “Crockett’s Theme” di Jan Hammer (dalla soundtrack della serie “Miami Vice”). Cremonini, Gilardi e Romanini approntano “Whenever You Want Me” di Antares, questa volta in uno stile più house oriented che comunque convince la francese Scorpio Music di Henri Belolo a prenderlo in licenza.

Historya - Catch Me If I Fall

Con “Catch Me If I Fall” di Historya, Italian Style Production rinnova il suo layout grafico

Al ritorno dalle vacanze estive Italian Style Production si ripresenta con una veste grafica aggiornata: non c’è più la coppia che balla, sostituita da un logotipo in stile graffitista creato con le iniziali I ed S intrecciate. Il primo disco ad essere accompagnato da tale design è “Catch Me If I Fall” di Historya, prodotto dagli instancabili Trivellato e Sacchetto che riciclano una base simile a quella di “Seven Days And One Week” dei B.B.E. sulla quale innestano una parte cantata dalla compianta Diane Charlemagne, ex Urban Cookie Collective. Sull’onda dell’ormai iperinflazionata progressive totalmente cannibalizzata dal pop riesce ad affermarsi, anche oltralpe, “Clap On Top Of Me” dei M.U.T.E., prodotto da Cremlins & Zuul ovvero Max Boscolo e Luca Moretti che abbinano una base trainata da un basso in levare ad una melodia in pizzicato style à la Faithless. A fare da collante un breve hook vocale campionato da “Sweet Pussy Pauline” di Hateful Head Helen, del 1989. Il brano finisce in una celebre scena girata in un negozio di dischi de “Uomo D’Acqua Dolce”, film diretto ed interpretato da Antonio Albanese. Un altro brano-emulo dei transalpini B.B.E. è “Try” di Glissando, composto da Carl Fath (il futuro Io, Carlo) e Fabio Giraldo, a cui si sommano “Take Your Body” di Tunnel Groove, “Happiness” di 2 Ghosts, “Phrygian” di Euphonia (prodotto da Michele Generale), “Esperantia” di Cremlins e “You And I” di Luna, una sorta di “Summer Is Crazy” di Alexia cantata da Sandy Chambers, arrangiata da Ricky Romanini e Stefano Marcato con la produzione addizionale di Luca Pernici e Marco Rizzi.

In circolazione già da dicembre ’96 ma fattosi notare ad inizio 1997 è “The Bit Goes On” di Snakebite, brano proveniente dal Coco Studio di Bologna e costruito su un sample vocale preso da “The Beat Goes On” di Orbit Featuring Carol Hall dai già citati Pagano, Mazzavillani e Caliandro. A differenza di The Spy però questa volta il pezzo intriga la londinese Multiply Records che lo licenza nel Regno Unito commissionando un paio di remix agli Ispirazione (Gordon Matthewman e Mike Wells) e a Jason Hayward alias DJ Phats, che da lì a breve crea con Russell Small il duo Phats & Small. Segue “The Mission” di Sosa, progetto di Massimo Bergamini per l’occasione diretto da Roberto Gallo Salsotto. Il pezzo è stilisticamente allineato alla formula di DJ Dado, artista prodotto dallo stesso Gallo Salsotto ed entrato nell’autunno del ’96 in Time Records con “Revenge”. In seguito Bergamini approderà con più fortuna alla Media Records che, tra ’97 e ’98, gli mette a disposizione i suoi studi ma soprattutto i propri musicisti e produttori come Mauro Picotto, Andrea Remondini e Riccardo Ferri che confezionano “Wave” ed “Accelerator”, esportati entrambi all’estero col supporto della Tetsuo di Talla 2XLC e i remix di Taucher e Torsten Stenzel (intervistato qui). Nonostante il trend principale resti ancora quello della progressive, Italian Style Production non si esime dal pubblicare brani più inclini all’eurodance come “Thinkin’ About You” di Discover, prodotto da Ricky Romanini e Stefano Marcato e cantato in incognito da Simone Jay (analogamente a quanto avviene in “Keep The Spirit” di Sarah Willer, finito su Downtown), “I Dream Of You” di Nevada, “Jump To The Beat” di Dr. Beat (col sample dell’omonimo di Stacy Lattisaw), “It’s Time To Party Now” di Star System, “All I Need Is Love” di Celine ed “I Want Your Love” di Antares, ormai all’ultima apparizione e che vanta un remix house di Alex Gaudino, futuro A&R della Rise. Connessi all’eurotrance che inizia a farsi spazio soprattutto nelle classifiche estere sono “It’s The Day After The Party” di DJ Zuul, sul modello di “Bellissima” di DJ Quicksilver, e “Where’s My Money” di Skanky, side project dei M.U.T.E. edificato sul cocktail tra acid line e pizzicato style. In mezzo, a mo’ di farcitura di un sandwich, il sample vocale tratto da “Cantgetaman, Cantgetajob (Life’s A Bitch!)” di Sister Bliss & Colette. Il risultato colpisce il mercato francese, spagnolo e tedesco. Ingredienti simili per “Dirty Tricks / Peer Gynt” di Neural-M, con cui Pagano, Mazzavillani e Caliandro riadattano il “Peer Gynt” di Grieg, “Electronic Trip” di Woodland (l’ennesimo di Cremlins e Zuul) ed “Harmonic Fly” di Vortex, combo di Davi DJ e Maurizio Pirotta alias Pirmaut 70. Scritto insieme al compianto Federico ‘Zenith’ Franchi e Mario Di Giacomo, il brano viene remixato dal citato Sosa sempre presso lo Stockhouse Studio di Gallo Salsotto. Galvanizzati dal successo ottenuto pochi mesi prima con “Clap On Top Of Me”, Boscolo e Moretti approntano il secondo ed ultimo brano di M.U.T.E. che si intitola “She Loves Me” e conquista un paio di licenze in Francia e Spagna. Questa volta l’ispirazione giunge da “Petal” dei Wubble-U, un discreto successo britannico del 1994. Una sorta di Gala, ma meno fortunata, è Nancy Sexton che firma “Never (Don’t Need Your Love)” solo col suo nome. Il brano è prodotto da Molella & Phil Jay che nell’estate di quello stesso anno le affidano il featuring vocale della loro “It’s A Real World” con risultati ben più lusinghieri. La Sexton comunque si rifà qualche anno più tardi interpretando il trittico degli E.Magic, “Prepare Yourself”, “Stop” e “Go!”, finiti nel catalogo di un’altra label della Time, la Spy, allora guidata da Rossano ‘DJ Ross’ Prini. Riconfezionato in nuove versioni più adatte alle platee della progressive è “My Body & Soul” dei Marvin Gardens, un successo del ’92 nato come rifacimento dell’omonimo dei Delicious del 1986 e di cui parliamo approfonditamente qui. Il remix di punta è di Space Frog che quell’anno fa il giro del mondo con “X-Ray (Follow Me)” e i suoni, prevedibilmente, sono praticamente gli stessi. Sulla falsariga giunge “God Of House” di Central Seven, un discreto successo oltralpe ma che da noi fatica ad imporsi. Con l’eurodance di “Stay With Me” e “Never Gonna Say Goodbye” si tira il sipario su Trivial Voice e Discover: entrambi sono prodotti da Romanini e Marcato mentre a cantare come turniste sono rispettivamente Sandy Chambers e Simone Jay. Alle battute finali pure Tunnel Groove con “Hot Stuff”, remake dell’omonimo di Donna Summer, e The Dog con “Without You”, cantato da Gianfranco ‘Jeffrey Jey’ Randone dei Bliss Team e, da lì a breve, negli Eiffel 65. Una specie di “Clap On Top Of Me” con rimandi al sound di Klubbheads, DJ Disco, DJ Jean e Vengaboys è “Don’t Clap Anybody” di Black Mushroom, progetto one shot dietro cui operano Max Boscolo, Luca Moretti e Rossano Prini.

Sundance, Sven Vath

Un paio di licenze messe a segno da Italian Style Production nella seconda metà del 1997: sopra “Sundance” dei londinesi Sundance, sotto “Fusion/Scorpio’s Movement” del tedesco Sven Väth

Intorno a metà anno il trend progressive è ormai in vistoso calo, le platee mainstream si sono già stancate dei pezzi strumentali e richiedono nuovamente vocalità. Non si fanno trovare impreparati Cremonini, Gilardi, Comis, Varola e Tegon con “Dance Around The World” di Rio, brano orecchiabilissimo che ruota su un giro di pianoforte simile a quello di “Two Can Play That Game” di Bobby Brown remixato dai K-Klass ed una stesura che rammenta i successi internazionali dei Livin’ Joy dei fratelli Visnadi. Nonostante i buoni propositi però il pezzo fatica ad emergere dall’anonimato. Resa simile per “Get Down On It” di Gravity One, cover dell’omonimo di Kool & The Gang assemblata sempre dal team della Prisma Record a Padova. Un altro remake è quello di “Ring My Bell” di Anita Ward realizzato dagli Star System. Arriva dall’estero invece “Sundance” del progetto omonimo creato da Mark Shimmon e Nick Woolfson. Sfruttando un celebre sample di “The New Age Of Faith” di L.B. Bad del 1989, già ripreso nel ’93 dai Sabres Of Paradise capitanati dal compianto Andrew Weatherall in “Smokebelch II”, i londinesi creano un brano che in estate spopola nelle discoteche ibizenche e che contribuisce, insieme ad altri, a sancire la commercializzazione della trance. Passando per la poco nota “Mediterranea” di Mundo Nuevo si raggiunge l’ultima apparizione di Dirty Mind che avviene sotto il segno della progressive con “Millennium”, riadattamento del brano scritto da Mark Snow per l’omonima serie televisiva. Artefici sono DJ Dado e l’inseparabile Gallo Salsotto. Atmosfere progressive trance sono pure quelle di “How U Feel” di Headroom, traccia proveniente dalla Germania che vanta i remix di Sash! e dei Brooklyn Bounce ma insufficienti per intrigare il mercato italiano. Luca Moretti si inventa l’ennesimo alias, Sunrise, scelto per “Theme From Furyo”, reinterpretazione eurotrance del celebre tema cinematografico scritto da Ryuichi Sakamoto per “Merry Christmas Mr. Lawrence”. Chiude, a fine anno, un’altra licenza, “Fusion / Scorpio’s Movement” di Sven Väth. Entrambi i brani, estratti dall’album “Fusion” edito da Virgin, recano la firma del celebre DJ di Francoforte e del musicista Ralf Hildenbeutel (insieme erano i Barbarella nei primi anni Novanta). Sul 12″ presenziano pure i remix dei Fila Brazillia e Doctor Rockit alias Matthew Herbert.

1998, capolinea, si scende!

Gabriele Pastori ed Andrea Mathee, reduci del discreto successo raccolto qualche tempo prima con “I Try” di Activa su UMM, collaborano col DJ Alberto Castellari tirando fuori dal milanese Spirit Studio il brano “Endless Wind” che firmano come Lifebeat. A trainarlo, ma senza particolari esiti, la versione di DJ Dado. A metà strada tra progressive e trance è “Magic Fly” di Atrax, progetto curato dai fratelli Visnadi che ripesca l’omonimo degli Space intrecciato ad un bassline che pare pagare il tributo al “Blade Runner (End Titles)” di vangelisiana memoria. Partorito in seno al fenomeno cover è pure “Original Sin” di Cremlins, remake del pezzo degli australiani INXS che giusto pochi mesi prima perdono tragicamente il loro cantante, Michael Hutchence. Una sorta di mash-up tra “The House Of God” di DHS e la base del pluridecorato remix di “It’s Like That” dei Run-DMC realizzato da Jason Nevins è “Tar-Zan” di BB’s. Dentro ci sono anche svirgolate di TB-303 ma soprattutto l’urlo di Tarzan che chiarisce la ragione del titolo. A produrlo, per la tedesca Orbit Records da cui Italian Style Production rileva la licenza, sono Ramon Zenker (quello degli Hardfloor, Interactive o Phenomania di cui si parla qui) e il compianto Gottfried Engels, fondatore tra le altre cose della popolare Tiger Records. A sorpresa riappare Deadly Sins col remix di “We Are Going On Down” rimodellato sulla base del citato remix di Nevins. DJ Zuul invece in “Feel The Music” rispolvera l’hook vocale di “Feel The Rhythm” di Jinny, collocandolo in un contesto eurotrance a cui crede la sopramenzionata Orbit Records che lo pubblica in territorio tedesco. Tratto dal catalogo della britannica Inferno è “Dreaming” di Ruff Driverz Presents Arrola, un grosso successo in Nord Europa esportato persino negli Stati Uniti ma che non riesce proprio ad attecchire in Italia dove la trance trova un terreno decisamente poco fertile. Sulla falsariga dei più recenti successi di DJ Dado (“Coming Back”, “Give Me Love”) che abbandona la dream progressive a favore della pop dance, si inseriscono i Seven Days con “Send Me An Angel”. Dietro le quinte operano i Devotional (Cristian Piccinelli, ex Media Records ed artefice del successo di Simone Jay di cui si parla qui) e Tiziano Giupponi. Luca Moretti, prossimo alla consacrazione con Triple X (prima) ed Antillas e Rhythm Gangsta (poi) porta in scena per l’ultima volta Sunrise con “Ayla”, rifacimento del brano omonimo del tedesco Ingo Kunzi alias Ayla, risalente al ’96 e diventato un classico della trance mitteleuropea. Sul lato b del disco è incisa “Loco Train”, prog trance trascinata dal sample di un treno, idea che nello stesso anno viene sfruttata con più efficacia da Robbie Tronco nella sua “Fright Train”.

Miss Kittin & The Hacker - 1982

“1982” di Miss Kittin & The Hacker è il disco che nell’autunno ’98 chiude in modo quasi definitivo l’attività di Italian Style Production

In autunno giunge “1982” del duo francese Miss Kittin & The Hacker, tra i brani che gettano le fondamenta dell’electroclash, genere all’apice nei primi anni Duemila. Il pezzo, preso in licenza dalla label tedesca di DJ Hell, l’International Deejay Gigolo Records, è «un viaggio a ritroso nel tempo attraverso un testo con rimandi a Jean-Michel Jarre (“Let’s go to the rendezvouz”), Klein & M.B.O. (“DJ play deja vu”), Visage (“I see your face fade to grey”), New Order (“just wait for the blue monday”), Kraftwerk (“you’re a robot, man machine”), Soft Cell (“I don’t want a tainted love”), Yazoo (“but don’t go”), Telex (“just play me moscow discow”), e Depeche Mode (“I just can’t get enough”)» (da Gigolography) e diventa un successo inaspettato entrando in numerose compilation, programmazioni radiofoniche e classifiche di vendita. Sul lato b si trovano “Gigolo Intro” e “Frank Sinatra”, rilanciata tempo dopo attraverso una versione più incisiva. È il disco che tira il sipario in modo quasi definitivo sull’Italian Style Production.

2004, una falsa ripartenza

ISP 2004

Sopra il 12″ di “Make It Right Now” di DJ Damm Vs Aladino (2004), sotto il cofanetto “The Best Of Italian Style” del 2014

I primi anni Duemila vedono l’affermazione di una seconda ondata italodance, partita intorno al 1998. Alcuni artisti e compositori, già protagonisti nella fase precedente, si ripresentano con nomi diversi (Eiffel 65, Paps N Skar, DJ Lhasa giusto per citarne alcuni), altri invece appartengono ad una nuova generazione cresciuta coi successi del decennio precedente e desiderosa di emularne lo spirito e i risultati. Il suono identificativo di tale passaggio, come descritto in Decadance Appendix, vede la preminenza di «basso in levare, ritmiche appena colorite dall’uso del charleston della batteria e riff portanti eseguiti con suoni corposi di sintetizzatore che riprendono la linea melodica vocale». Sono proprio questi ingredienti a riportare in vita l’Italian Style Production nel 2004, sia nel nome che nel layout grafico iniziale. Per i nostalgici è un vero tuffo al cuore, rimarcato peraltro dal contenuto musicale che attinge dagli indimenticati 90s. L’ISP 1400 infatti è un remix di “Memories” dei Netzwerk, un classico del ’95. A realizzarlo sono i Promise Land, coppia di DJ romani formata da Fabio Ranucci e Nazario Pelusi. Segue un secondo 12″ ancora legato a doppio filo con gli anni Novanta e, in questo caso, con la stessa Italian Style Production: solcate sul mix sono due nuove versioni di “Make It Right Now” realizzate dal fantomatico DJ Damm (in realtà acronimo di Diego Abaribi Mauro Marcolin, autori del brano originale del 1993). Abaribi, tornato ad occuparsi di musica dopo diversi anni di assenza, fa resuscitare Aladino nel 2002 con “Feel The Fire”, interpretato da un ancora poco noto Sagi Rei e pubblicato dalla Moremoney, sublabel del gruppo Melodica che lui stesso fonda qualche tempo prima insieme a Bob Salton. Per Italian Style Production però si tratta solo di una falsa ripartenza. Dopo l’uscita di DJ Damm l’etichetta bresciana si congeda definitivamente, fatta eccezione per la raccolta riepilogativa “The Best Of Italian Style”, uscita nel 2014 e racchiusa in un cofanetto contenente cinque CD con una manciata di brani tratti dal repertorio Line Music, e la conversione del catalogo in formato digitale avvenuta attraverso la T30, l’ennesimo marchio raccolto sotto l’egida del gruppo Time di Giacomo Maiolini.

grafici ISP

Grafici che sintetizzano l’attività di Italian Style Production: a sinistra l’istogramma relativo al numero di pubblicazioni annue, a destra l’aerogramma che evidenzia la categorizzazione stilistica. I dati presi in esame potrebbero essere soggetti a marginali errori (per quei dischi, ad esempio, pubblicati in un anno diverso rispetto a quello riportato sull’etichetta).

Un mercato che dà i numeri

L’impatto che internet (specialmente il peer-to-peer e la pirateria) ha sulla discografia dopo il 2000 è devastante ma già qualche anno prima il comparto dance inizia a risentire di una crisi, acuita dalla povertà di idee e clonazioni troppo frequenti che ingolfano e saturano il mercato. Inoltre la chiusura di aziende-simbolo come Flying Records e Discomagic non è incoraggiante ed infatti negli ultimi anni Novanta il business comincia a cristallizzarsi. Sono ormai lontani i tempi in cui Italian Style Production immette a nastro dischi sul mercato non lasciandosi intimorire da risultati altalenanti. Dallo studio allestito al 5 in Via Sabotino, a Brescia, esce davvero un mare di musica che adesso però necessita di un ridimensionamento. Giacomo Maiolini, in un articolo apparso sulla rivista Trend a dicembre 1998 a cura di Nello Simioli ed Eugenio Tovini, afferma che «il mercato diventa ogni giorno più difficile e solo un costante lavoro permette di mantenere una quota significativa dei 12″. Per i discografici della dance c’è anche lo scoglio della scarsa considerazione in cui è tenuto questo genere dai grandi media. Non si capisce perché un progetto come The Tamperer non possa essere ospitato a Sanremo con tutta la dignità che merita dopo aver venduto oltre un milione di copie. In ogni caso la mia società ha da qualche tempo deciso di ridurre radicalmente le uscite pubblicando solo quei dischi che hanno ricevuto un giudizio positivo nella fase di pre-release dalle radio o dai partner stranieri. Con questa strategia si raggiungono contemporaneamente due risultati: agevolare il compratore verso prodotti curati con particolare attenzione e garantire un’alta professionalità anche promozionale su ogni lavoro pubblicato dalle nostre etichette». Il calo delle pubblicazioni a cui si riferisce Maiolini appare evidente prendendo in esame lo storico di Italian Style Production che, è bene rammentarlo, è solo una delle sublabel del gruppo Time Records. Il biennio più prolifico di uscite risulta essere il 1993-1994, rispettivamente con 75 e 62 pubblicazioni. Dal ’95 in poi invece si avvia una drastica diminuzione che coincide in pieno con quanto il bresciano afferma in quell’intervista di fine ’98 di cui si è detto sopra. A livello stilistico invece, il filone maggiormente battuto è quello dell’eurodance con oltre 200 pubblicazioni. Seguono la house (poco più di 100), l’eurotechno (una quarantina) e dream progressive/trance (una trentina). Dal punto di vista collezionistico, infine, una stima, seppur parziale, la si ottiene analizzando i dati emersi dal marketplace di Discogs. “Sky” di Brenda, “My Love” di Torricana, “Dirty Tricks / Peer Gynt” di Neural-M e “Keep On Movin'” di Yama sono tra quelli pagati a prezzo più alto (rispettivamente 250 €, 160 €, 125 € e 104 €) e si difendono bene anche “Cannibal” di Black 4 White (100 €), “I Want Your Love” di Etoile e “Keep Me Going On” di D-Inspiration (entrambi 95 €), “The Big Beat” di Nouvelle Frontiere (89 €), “That Is Really Mine” di Black House (69 €), “U Love Me” di Delta (67 €) e “Baby” di Mytho (63 €). Sul fronte grafico, in ultima analisi, Italian Style Production alterna artwork studiati appositamente, adoperati in prevalenza nelle prime annate d’attività, a copertine decorate con lo stesso layout e colore dell’etichetta centrale sino a più banali ed economiche standard con sticker applicati nella parte superiore per cui si opta nell’ultima fase operativa. Con circa quattrocento pubblicazioni edite in otto anni, l’etichetta bresciana si è saputa imporre in Italia e all’estero, seppur con risultati alterni. Da un lato la prolificità ha alimentato una collana di brani che, in taluni casi, si specchiavano l’uno nell’altro differendo più per nomi che per stile, ma del resto quello della dance mainstream, è risaputo, è un mercato che ha sempre necessitato di novità costanti e il persistente utilizzo di nuovi alias orchestrati dai medesimi autori è servito a convincere il pubblico di avere a che fare di volta in volta con artisti diversi; dall’altro giovani ed intraprendenti DJ affiancati da validi musicisti sono riusciti a consegnare agli annali pezzi diventati “sempreverdi” o rivalutati a posteriori. Da rimarcare infine l’ingenuità delle prime annate, in cui non mancano spunti interessanti ma talvolta sviluppati in modo poco incisivo come avviene sovente all’italo house a cavallo tra ’89 e ’90. A conti fatti Italian Style Production lascia un ricordo indelebile nei cuori di tanti appassionati di dance music, oltre ad aver rappresentato una “palestra” dove moltissimi hanno fatto gavetta prima di spiccare il grande salto. (Giosuè Impellizzeri)

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1987-1988: la house music arriva in Italia

1987: uno sguardo d’insieme
La musica che i DJ propongono nella maggior parte delle discoteche italiane nel 1987 è legata prevalentemente all’italodisco e al synth pop per i locali di stampo più commerciale, alla new wave, EBM ed industrial per quelli rivolti invece ad un pubblico più settoriale ed incline al rock alternativo. Sull’onda della cosiddetta “afro” lanciata molti anni prima in locali-culto come Baia Degli Angeli, Cosmic, Typhoon, Melody Mecca e Ciak, giusto per citare alcuni dei più noti, non mancano quelli che continuano a selezionare funk, soul e disco ma il panorama appare piuttosto stagnante perché improntato in sostanza sul recupero di materiale datato. Sul fronte rock/pop c’è chi, come Lorenzo Zacchetti in questo articolo, parla del 1987 come «un anno straordinariamente fertile sia sul piano della qualità che su quello della quantità, con le uscite di tutti i più grandi artisti del periodo, di figure emergenti e di diverse meteore». Il singolo più venduto dell’anno, secondo le statistiche di Hit Parade Italia è “La Bamba” dei Los Lobos. Undicesima si piazza Spagna con “Call Me”, prodotta da Larry Pignagnoli, ventiduesimi i tedeschi Off (i futuri Snap! ed un giovane Sven Väth che canta e presta l’immagine pubblica) con “Electrica Salsa (Baba Baba)” seguiti dalla prorompente Sabrina Salerno con “Boys”. Poco più giù “Respectable” di Mel & Kim, col tocco della premiata ditta Stock, Aitken & Waterman, e “Take Me Back” di un’altra bellezza della scuderia cecchettiana, Tracy Spencer. In ordine sparso poi Madonna, Nick Kamen, Rick Astley, Samantha Fox, Pet Shop Boys, Boy George, Level 42, Eighth Wonder, Depeche Mode, Duran Duran e Spandau Ballet. Solo settantaduesimo Den Harrow con “Don’t Break My Heart”, ennesimo singolo messo a segno dalla coppia Miki Chieregato – Roberto Turatti che quell’anno sforna anche “Meet My Friend” ed “Up & Down” di Eddy Huntington. L’italodisco nostrana pare essere giunta però al capolinea, il periodo più ricco di intuizioni, quello che va dal 1983 al 1985 circa, è ormai lontano e la formula di quel filone, ripetuta migliaia di volte e sdoganata in infinite salse, inizia a rivelarsi stantia. Sbirciare in altre classifiche di riferimento dei tempi non rivela grandi differenze: a giugno 1987 i posti più alti della “Superclassifica Show” condotta da Maurizio Seymandi (e dal virtuale DJ Super X) vede artisti come U2, Edoardo Bennato, Vasco Rossi, Zucchero e Whitney Houston. Tra le chart più consultate ai tempi c’è anche quella di TV Sorrisi E Canzoni diretto dal compianto Gigi Vesigna che, proprio nel 1987, tocca la tiratura record di oltre tre milioni di copie settimanali, ma anche lì non si rinviene nulla che riconduca alla “nuova dance music” che pulsa, da circa un biennio, in alcune discoteche statunitensi. Nella DeeJay Parade di Radio DeeJay invece, “Pump Up The Volume”, considerata alla stregua di una traccia spartiacque, entra il 24 ottobre e raggiunge la vetta il 7 novembre per rimanerci un mese.

DJ Parade 7 novembre 1987 (courtesy Maurizio Santi)

La DeeJay Parade del 7 novembre 1987 vede in vetta “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., considerato uno dei primi brani house prodotti in Europa. Foto su gentile concessione di Maurizio Santi

Per buona parte del 1987 quello della house music è un mondo ancora profondamente sotterraneo per gli stessi disc jockey, fatta eccezione per coloro che si tengono aggiornati leggendo riviste estere. Il fatto che ad inizio febbraio “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley conquisti la vetta della chart britannica dei 45 giri (giunta da noi attraverso le pagine del Radiocorriere Tv) non significa molto, neanche nello stesso Regno Unito dove a Top Of The Pops giungono, già l’anno prima, Farley “Jackmaster” Funk e il compianto Darryl Pandy con “Love Can’t Turn Around”, ripubblicata oltremanica dalla London Records. In appena un paio di anni però in Europa cambia tutto, a partire proprio dalla Gran Bretagna dove i M.A.R.R.S., incrociano la sampledelia dell’hip hop coi beat in 4/4 della house e danno la spinta necessaria con “Pump Up The Volume” (a tal proposito si veda questo approfondimento). La house, che all’inizio viene scambiata per una moda passeggera, arriverà a conquistare milioni di giovani e non solo. Cederanno persino gli Style Council di Paul Weller che a febbraio del 1989 portano sul palco di Top Of The Pops “Promised Land”, cover dell’omonimo di Joe Smooth edito nel 1987 dalla D.J. International Records di Rocky Jones, tra i primi brani house prodotti a Chicago a fare fortuna nel Vecchio Continente.

Radiocorriere, classifica 1 ed 8 febbraio 1987

Le classifiche dei 45 giri giunte in Italia attraverso il Radiocorriere (1 ed 8 febbraio 1987): In prima posizione, nel Regno Unito, c’è “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley

La “disco nera degli anni Ottanta” sbarca in Italia
È molto complesso stabilire chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese. La scarsissima reperibilità di fonti impedisce di collocare nomi e date in un contesto preciso e le informazioni tramandate per via orale purtroppo non sempre rispettano e rispecchiano la reale cronologia degli eventi. Comunque, per sommi capi, si può asserire quasi con tranquillità che nella prima metà del 1987 i mass media generalisti (televisioni, radio e giornali) non si siano ancora accorti di quella grande rivoluzione in arrivo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Sarà “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., uscito ad agosto, a cambiare lo status quo e a spalancare nuove prospettive, introducendo anche in Italia per il grande pubblico il termine house music, genere che però, come si vedrà più avanti, necessiterà di circa due anni per assumere una personalità più definita. Inizialmente la house è considerata, come scrive Michele Monti in un articolo apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno ’87 (presumibilmente a novembre) «l’ultima moda che soppianta il rap, l’electro funk e il go-go, cioè tutti i ritmi esotici approdati sulla pista da ballo negli ultimi tempi. A colpi di mezz’ora o di serate intere, la house music sta impazzando in ogni locale che si rispetti e non c’é DJ che non abbia in scaletta i suoi bei dieci minuti di house». Intesa come una sorta di diversivo, la house music è ancora ad uso e consumo di una ristrettissima fascia di DJ che peraltro fatica non poco a reperirla perché gli unici dischi disponibili sono quelli d’importazione, prevalentemente statunitense. Dislocati a macchia di leopardo lungo la penisola ci sono però gruppi di appassionati, DJ e ricercatori di nuove tendenze musicali, che intercettano il movimento house con abbondante anticipo rispetto all’affermazione commerciale e lo supportano in locali o eventi dedicati espressamente. È il caso del Devotion, che prende il nome dal brano omonimo dei Ten City, e de I Ragazzi Terribili a Roma, di cui si parla approfonditamente in questo articolo a cura di Luca Lo Pinto e Valerio Mannucci, dell’Ethos Mama a Gabicce, dove Flavio Vecchi, che allora si fa chiamare Double J. Flash, e Wayne Brown alternano la house all’hip hop e all’r&b come testimonia questo documento audio, o del Macrillo, locale ubicato sull’altopiano di Asiago e diretto dal compianto Vasco Rigoni, dove Leo Mas ed Alfredo Fiorito, reduci di una esaltante stagione estiva all’Amnesia di Ibiza – di cui si parla anche in Decadance Extra -, propongono house per un pubblico che accorre da tutta la penisola. Mas avrebbe poi continuato al Movida di Jesolo, diretto da Enzo Bellinato, fiancheggiato da Fabrice ed Andrea Gemolotto con cui dà avvio a “La Magica Triade”. Un certo interesse è mostrato pure dalle riviste di settore, come Fare Musica, dove appare un’intervista a Larry Levan, o Rockstar, dove invece trova spazio una rubrica di Luca De Gennaro, come scrive Andrea Benedetti nel suo libro “Mondo Techno”. Paolo Di Nola del citato Devotion ricorda altresì un articolo sul Messaggero e una breve intervista mandata in onda la domenica su Rai 3.

Deejay Show (presumibilmente novembre 1987) courtesy of Maurizio Santi

L’articolo di Michele Monti apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno del 1987 (presumibilmente a novembre), tra i primi dedicati alla house music apparsi in Italia. Su gentile concessione di Maurizio Santi

Il successo spiazzante dei M.A.R.R.S. nell’autunno ’87 però, se da un lato aiuta la diffusione nazionale di questo nuovo genere, dall’altro finisce col falsare e compromettere la percezione che il pubblico italiano ha per l’house music che a quel punto viene spacciata come prodotto nato esclusivamente dal campionamento di pezzi altrui. Secondo i detrattori più accaniti, campionare equivale a rubare e la house diventa conseguentemente simile ad un riassemblaggio raffazzonato ad opera di non musicisti messi in condizione, dalla tecnologia, di poter fare musica anche a casa. Emerge così pure il parallelismo tra “house” e “casa” che secondo alcuni si presterebbe in modo inequivocabile a chiarire le origini di quel nuovo genere. A tal proposito, in quelle due pagine apparse su DeeJay Show, il citato Monti si riallaccia a quanto scritto dalla rivista anglosassone Mixmag spiegando che «dietro ogni pezzo house, più o meno famoso, si nascondono i ritmi e le melodie di brani di vecchia disco o di recente dance», elencando pure diversi esempi: «“Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders non è altro che un remix di “I Can’t Turn Around” di Isaac Hayes, “Dum-Dum” dei Fresh “rubacchia” frammenti di “One Nation Under A Groove” dei Funkadelic e di “The Glamorous Life” di Sheila E., “Move” dei Farm Boy ricorda molto “Slave To The Rhythm” di Grace Jones, “Like This” di Chip E. è la copia carbone di “Moody” degli ESG». Poi prosegue dicendo che «le canzoni più saccheggiate in assoluto dalla house music sono “Love Is The Message” degli MFSB, “Let No Man Put Asunder” dei First Choice, “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Moskow Diskow” dei Telex e, incredibilmente, “Happy Children” dell’italianissimo P. Lion». Il ruolo ricoperto specificamente dall’italodisco comunque è fondamentale tanto nella house di Chicago quanto nella techno di Detroit, per ammissione degli stessi artefici e probabilmente ad insaputa della maggior parte dei produttori (e giornalisti) italiani di allora, ma ridurre la house music a qualcosa di passivamente ed ingenerosamente derivativo, così come viene descritto ai tempi, è ingiusto, non solo sotto il profilo creativo ma pure sotto quello tecnico. “Rubacchiare” a destra e a manca e ricollocare con estrema semplicità su telai ritmici programmati da drum machine ree di aver svilito il ruolo dei batteristi in carne ed ossa è solamente una verità apparente, istigata inconsapevolmente dal collage dei M.A.R.R.S. a cui, comunque, va riconosciuto il merito di essere riusciti a creare un brano-patchwork talmente dirompente da diventare una pietra miliare in un particolare momento storico che offre nuove opportunità. Monti include una dichiarazione di Chip E. particolarmente significativa a tal riguardo: «prendere idee da altri dischi non è considerato furto, dopotutto il lavoro del DJ è sempre stato questo, usare pezzi vecchi per creare un sound nuovo e personale». È interessante constatare, ad esempio, che non sia emersa altrettanta indignazione da parte di critici e stampa quando nel 1980 i Queen pubblicano “Another One Bites The Dust” che gira su un basso davvero simile a quello di “Christmas Rappin'” di Kurtis Blow uscito l’anno prima, o quando negli anni Sessanta proliferano decine di cover in italiano di brani angloamericani. Si può forse parlare di rifacimenti di serie A e di serie B, in virtù della funzione da essi esercitata? Le musiche destinate in modo specifico ai locali da ballo sono implicitamente meno valide di altre per il loro uso ludico? L’impressione, quindi, è che si usino due pesi e due misure, così come avviene per gli eccessi del rock/pop, tollerati ed assai meno demonizzati rispetto a quelli di altre culture musicali. A pagina 289 dei libro “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton, la house viene definita come «disco music realizzata da dilettanti. Era l’essenza della disco (ritmi, giri di basso, spirito) ricreata su macchine che erano una via di mezzo tra giocattoli e strumenti musicali da ragazzi, più clubber che musicisti. I DJ, che aspiravano a preservare una musica dichiarata morta, ne avevano creata un’altra dalle sue ceneri». Tale descrizione risulta senza dubbio più appropriata rispetto a tante altre emerse ai tempi, probabilmente indotte anche da un forte e radicato scetticismo nei confronti della novità.

La house nei club dello Stivale: le testimonianze

Lazio
Il grande pubblico scopre la house coi M.A.R.R.S. ma in Italia esistono luoghi in cui quel tipo di musica viene proposta già da qualche tempo, seppur senza particolar clamore. Il più delle volte l’unico modo con cui scoprire tali “raduni” è il semplice passaparola. Roma, ricordata più frequentemente per il suo ruolo primario nella fase rave giunta qualche anno dopo con l’esplosione della techno, ha ricoperto una posizione altrettanto importante per la house specialmente in riferimento al Devotion, nato come associazione culturale su iniziativa di un gruppo di amici tra cui Alessandro Gilardini, oggi giornalista per il TG5, e Paolo Di Nola, DJ, che racconta: «L’house entrò molto presto nel mio mondo, direi anche prima che ci fosse un termine per definirla in Italia, considerando l’ascolto di dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Hypnotic Tango” di My Mine o “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, tutti incorporati nelle scalette dei DJ che sono passati alla storia dell’house music. Nell’inverno del 1981 trascorsi un periodo dell’ultimo anno di liceo a New York, nel quartiere di Canarsie a Brooklyn per l’esattezza, prevalentemente popolato dalla comunità italoamericana e dove risiedeva parte della mia famiglia paterna che ebbe la possibilità di ospitarmi. Furono i miei compagni di scuola, quelli più intraprendenti che passavano le notti dei weekend in città facendo breakdance, ad introdurmi ai dancefloor dei club di New York dove si potevano già ascoltare esempi di proto house e musica dance prodotta prevalentemente mediante strumenti elettronici, ma con una radice più soul e disco rispetto alla new wave europea. I primi dischi house li acquistai a New York negli anni successivi in negozi come Vinylmania e Rock And Soul, veri e propri templi del vinile dove lo staff era incredibilmente ferrato musicalmente ed addirittura in grado di riconoscere pezzi da me fischiati o a malapena canticchiati nel tentativo di riprodurli, non conoscendone i titoli. Le prime tracce house da me collezionate furono gli ormai diventati classici della Trax Records come “Washing Machine” di Mr. Fingers, “Acid Tracks” dei Phuture e “Baby Wants To Ride” di Frankie Knuckles a cui si aggiunsero le prime cose su Easy Street Records come “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe nonché i dischi su State Street Records tra cui “Face It” di Master C & J e “Can’t Get Enough” di Liz Torres. Oltre a tantissima disco, tipo “Is It All Over My Face” dei Loose Joints ed altre stampe su West End Records, Salsoul Records e Prelude Records. L’impatto e la successiva infinita storia d’amore con quella che per definizione viene chiamata house music si consumò nei club gay di New York come Paradise Garage, The Choice, Tracks, Roxy, The Loft, Sound Factory ed anche in locali londinesi come l’Heaven. I primi DJ da me seguiti, propugnatori dell’house music, furono black, latino, gay e lesbian, ma gli stessi club erano spesso gestiti da personale LGBTQ e il dancefloor era quello che oggi viene definito “safe space” ovvero uno spazio in cui poter esistere liberi da ogni discriminazione. Tutti questi elementi, per me, sono inscindibilmente legati alla radice della house music. Questa è stata la scena che mi ha forgiato e a cui tuttora porto massimo rispetto e dedizione.

il pubblico del Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Il pubblico del Devotion (Roma, 1987) in una foto scattata da Federico Del Prete, gentilmente concessa da Paolo Di Nola. A sinistra c’è Vincenzo Viceversa

Per quanto riguarda l’Italia, nel 1987 c’era sicuramente l’intero pubblico del Devotion ad apprezzare quelle sonorità tra cui moltissimi DJ noti della scena romana che venivano a ballare. Noi, col nostro club, fummo i primi a proporre quel tipo di programmazione after hour nella capitale e nell’intera regione, con un’intera scaletta fatta esclusivamente di house music e disco, nonché ad introdurre un certo tipo di “attitude” nella vita notturna, slegata dal solito modello delle VIP room, tavoli riservati e bottiglie di alcolici in vendita per centinaia di migliaia di lire. La nostra fu una scelta talmente radicale per quegli anni che l’unico club che ci aprì le porte fu il Life 85, la cui capienza raggiungeva le appena duecento persone ed era fuori da ogni circuito. Nell’arco di un paio di settimane appena il successo della serata fu talmente eclatante che per la seconda stagione ci spostammo al Parco del Turismo in una mega tenda geodetica che, puntualmente ogni weekend, si riempiva di gente fino all’orlo. Io e i miei colleghi DJ, Marco Militello ed Alessandro Gilardini, viaggiavamo a turno per comprare i dischi direttamente a New York, assicurandoci così musica non ancora uscita in Europa, cosa che ci permetteva di mantenere uno standard alto nell’esclusività musicale. Poi molti DJ seguirono le nostre orme, alcuni con enorme successo, ma credo che Marco Moreggia con I Ragazzi Terribili sia quello che abbia preservato meglio la purezza e lo spirito di ciò che intendevamo fare noi.

la tessera del Devotion (courtesy Paolo Di Nola)

La tessera del Devotion (1987). Su gentile concessione di Paolo Di Nola

Al di fuori del Lazio, l’unico altro posto in cui sentii suonare per intero un set di house music ad inizio ’87 fu Napoli, dove c’erano alcuni ragazzi di colore che svolgevano il servizio militare nelle basi NATO limitrofe e si dilettavano a fare i DJ. Sfortunatamente non ho mai avuto il piacere di incontrarli, li avrei ringraziati personalmente per gli splendidi set. Ricordo con affetto anche il contingente umbro, con Vincenzo Viceversa e Ralf che, sulle orme del Devotion, lanciarono serate house a Perugia e dintorni. Io stesso fui ospite in un’occasione allo storico locale Norman durante una serata chiamata “Big Party”. Come raccontavo prima, in quel periodo compravo la maggior parte dei dischi a New York e Londra. Mi recavo lì solo per comprare vinile, partivo con valigie vuote che tornavano strapiene. Il mio budget però era talmente scarso che passavo intere settimane mangiando solo barrette di cioccolata o al massimo un trancio di pizza una volta al giorno, pur di risparmiare soldi per comprare dischi. Credo fossi uno dei DJ più magri al mondo ma in realtà la cosa funzionava a mio vantaggio perché in quegli anni per fare clubbing ci si vestiva in spandex e lycra come i ciclisti. Quando poi arrivarono dischi house a Roma cominciai a comprare pure nei negozi specializzati per DJ nella capitale. Spesso però la disponibilità era legata a poche copie e puntualmente con un paio di settimane di ritardo rispetto al resto d’Europa, per cui bisognava darsi da fare velocemente per trovare i pezzi nuovi ed era fondamentale fare amicizia coi negozianti altrimenti si restava a mani vuote. Eravamo abbastanza competitivi e quando alcuni dei titoli che suonavamo al Devotion divennero reperibili, li compravamo in blocco. Credo di avere ancora copie sigillate di “Devotion” dei Ten City nella mia collezione, alcune le ho regalate durante qualche serata nel corso degli anni.

Il Devotion mi diede la possibilità di fare il salto da “bedroom DJ” a “professional DJ”, fu la piattaforma e il momento ideale per proporre quel tipo di suono. Il nostro pubblico era estremamente eterogeneo ma il nucleo di chi ci seguiva religiosamente era un gruppo di persone, prevalentemente LGBTQ, provenienti dal mondo dell’arte e della moda, e questo facilitò l’introduzione del nostro concetto essendo loro già esposti a quel tipo di sonorità e modo di fare clubbing più internazionale. Dal primo istante in cui poggiai la puntina sul disco capii che questo suono avrebbe conquistato la mia città, la reazione fu a dir poco euforica, come se tutti finalmente avessero trovato il groove ideale per esprimersi liberamente. I pochi increduli cambiarono velocemente opinione e finirono anche loro sul nostro dancefloor. Nel 1987 il termine “house” era comunque un’assoluta novità, i mass media a copertura nazionale solitamente aspettavano (ed aspettano) lunghi periodi prima di convalidare un nuovo fenomeno. Dare spazio a linguaggi diversi comporta dei cambiamenti e in Italia l’introduzione di nuove idee non è necessariamente premiata. Forse ora le cose sono cambiate, non saprei dirlo con certezza perché ho lasciato l’Italia oltre venti anni fa, ma in quel momento l’insieme dei mezzi di comunicazione di massa era un circolo chiuso. La stampa musicale italiana in quegli anni era ancora prevalentemente interessata al rock e la maggioranza delle radio passava dischi da classifica, in molti casi ancora italodisco ed eurodisco. Solo in seguito al grande successo commerciale l’house suscitò attenzione nel nostro Paese, altrimenti sarebbe restata un fenomeno marginale. Io ascoltavo Radio Città Futura che trasmetteva a Roma e nel Lazio, e fu proprio così che conobbi Marco Militello, mio collega DJ e cofondatore del Devotion insieme ad Alessandro Gilardini che conduceva una trasmissione insieme a Marco Boccitto in cui proponevano un repertorio disco, soul, afrobeat e, occasionalmente, proto house. La maggior parte del pubblico comunque è arrivata alla house music tramite “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. o “Ride On Time” dei Black Box, pezzi che personalmente ho trovato banali ma che hanno formato l’orecchio dozzinale della grande maggioranza della gente.

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (Roma, 1987) in uno scatto di Federico Del Prete

Comunque è risaputo che le masse non siano depositarie di gusti sofisticati, e questo avviene non solo in Italia. La prima house, per definizione, venne coniata a Chicago, ed è quella a rappresentare la matrice originale del genere musicale. Racchiude in sé lo zeitgeist della propria generazione e il linguaggio del tessuto sociale da cui proveniva. Nella composizione dei primi brani non erano presenti molti campionamenti perché in quegli anni avere un campionatore a disposizione in un home studio non era così comune. Le tracce erano scarne ma era proprio questa l’innovazione e la forza sonora dell’estetica house, l’impatto di quel suono minimale ad alto volume era molto più diretto ed efficace rispetto alla dance prodotta precedentemente. La musica concepita dai DJ, inoltre, deriva spesso dalla sovrapposizione di suoni, ritmi e melodie, che poi è quanto accade in fase di mixaggio. L’uso del campionamento non è altro che il “riadattamento” della stessa tecnica in studio di registrazione. L’importante è la creatività applicata al metodo e Steve Reich ha cambiato il concetto di musica proprio tramite questo procedimento. Ora come ora, con l’uso del computer, ci sono intere generazioni di musicisti che usano solo manipolazioni audio con risultati eccellenti, l’importante è mantenere sempre una mente aperta rispetto all’innovazione, credo sia proprio ciò ad aver alimentato e mantenuto vivo lo spirito della house nella miriade di mutazioni a cui è andata incontro. Da non dimenticare un altro fattore: la house fu un fenomeno importato nel nostro Paese e come spesso accade in queste situazioni, gran parte della radice culturale viene persa durante l’assimilazione o reinterpretata non sempre nella maniera più corretta. Fu difficile replicarne fedelmente l’essenza perché la house non era solo una tipologia di musica ma un universo e stile di vita per intere comunità di persone. Inoltre, come in tutti i casi in cui si manifesta un grande ed immediato successo economico, entrarono in gioco gli imitatori nel tentativo di replicarne la formula magica. Poi c’era anche il problema degli studi: fare musica non era accessibile come oggi, bisognava avere un equipaggiamento tecnico difficile da reperire, costoso, si doveva conoscere il linguaggio MIDI e bisognava fare i conti con ingegneri del suono che raramente lasciavano carta bianca agli artisti. L’onda creativa avvenne dopo l’impatto commerciale, quando i DJ house italiani si dedicarono a suoni più deep, parallelamente all’avvento della techno, e ciò spinse l’house verso territori più underground e più melodici. Fu proprio tramite il vocabolario più familiare della melodia che gli italiani riuscirono spesso a distinguersi, trovando il giusto terreno per reinterpretare e fare proprio questo stile di musica».

Tra i DJ del Devotion, insieme a Paolo Di Nola, c’è anche il citato Marco Moreggia, uno dei fondatori de I Ragazzi Terribili, un gruppo di giovani attivisti che crea eventi a base di musica dance alternativa: «Iniziai ad organizzare serate nel 1985 ma frequentavo i locali sin dal 1978 e credo di aver vissuto la parte migliore della dance» racconta oggi. «La nuova “ventata musicale” per me giunse alla fine del 1986 e brani come “Move Your Body” di Marshall Jefferson o “Work It To The Bone” dei LNR mi fecero scorgere un mondo del tutto inedito. L’unico posto dove ebbi occasione di ascoltare un intero set di quel nuovo sound fu al Life 85, durante una serata del Devotion. In quel posto riecheggiavano pezzi come “Bring Down The Walls” di Robert Owens, “Taste My Love” di House To House, “I’m A Lover” di Kym Mazelle, “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, “In The City” di Master C & J, “Someday” di Ce Ce Rogers, “Mystery Of Love” di Mr. Fingers, “If You Should Need A Friend” dei Blaze e “Devotion” dei Ten City, giusto per citarne alcuni. Parallelamente al Devotion, nell’estate del 1987, con I Ragazzi Terribili allestimmo il parcheggio del Castello di Maccarese trasformandolo in un club house all’aperto, tutti i sabato. Con orgoglio posso affermare che le prime serate a base di house music, unite all’esigenza di trovare nuovi spazi che non fossero le classiche discoteche, partirono da Roma. Nonostante sia durato per solo due stagioni, il Devotion ha lasciato un segno molto forte. Al citato Life 85 facevano una selezione assai ferrea, la gente che voleva entrare era tantissima e quindi l’organizzazione si spostò presto all’Euritmia, una location dalla capienza maggiore e il primo spazio a prendere le distanze dai soliti club del centro della città, con particolare cura dell’impianto, delle luci, del bar e di tutto il resto, al punto da spronare le persone a macinare un bel po’ di chilometri per raggiungere il posto (in un periodo in cui spostarsi era tutt’altro che usuale) e vivere la serata in modo diverso. Poi, purtroppo, la situazione sfuggì di mano.

line up (I Ragazzi Terribili)

Documento di una delle serate organizzate da I Ragazzi Terribili

Noi, come I Ragazzi Terribili, prendemmo un vecchio dancing creando un pre-serata, altra cosa del tutto nuova perché in quel periodo se non erano minimo le 2:00 non si andava da nessuna parte. Il periodo della Riviera nacque pochi anni dopo ed affini al nostro stile c’erano DJ come Ralf e Flavio Vecchi coi quali ho poi instaurato un lungo rapporto sia d’amicizia che professionale. Personalmente ho cominciato a fare il DJ nel 1988 al Dream nato dalle ceneri del Saint James, primo locale gay in Italia, gestito poi da I Ragazzi Terribili. Mi considero un privilegiato perché entrai in quel mondo da una porta prioritaria, essendo una serata che curavo insieme al mio team. Il pubblico mi conosceva come organizzatore ma non era scontato che mi accettasse, come poi fortunatamente è successo, nel ruolo di DJ che in quel periodo era una figura molto territoriale. Il Dream era un piccolo club ma nonostante ciò lanciò i “fuori orario”, detti anche after hour, perché apriva alle 23:00 e chiudeva alle 11:00 (e a volte persino alle 12:00!) del mattino seguente. Ogni sabato, quindi, mettevo musica per circa dodici ore consecutive. Allora compravo i dischi a New York, da Vinylmania, Dance Tracks ed altri negozi nel Village dove mi recavo regolarmente diverse volte l’anno. A Roma arrivava poco e niente, solo i titoli più commerciali, quindi se volevi un certo suono te lo dovevi letteralmente andare a prendere, investendo parecchi soldi. A New York andavo per comprare i dischi e per farmi avvolgere da quella energia che solo lì potevi cogliere andando nei club a sentire dal vivo quei DJ che poi erano i produttori dei dischi stessi che mettevo alle mie serate. Ebbi la fortuna di assistere all’ultima performance di Larry Levan al The Choice insieme ad altre cinquanta persone, fu una serata memorabile. Nel biennio ’87-’88 gran parte della stampa italiana cominciò ad interessarsi all’house music, ma per molti giornalisti fu solo un modo per parlare di ecstasy e non di musica e della rivoluzione che quella stava portando nel mercato discografico. Da un certo punto in poi, quindi, ho proibito l’ingresso con macchine fotografiche e videocamere alle mie feste, per evitare che gli ospiti si ritrovassero coinvolti in articoli compromettenti. È giusto ricordare però che non tutti i giornalisti volevano fare notizia sbandierando l’uso di droghe. A tal proposito feci una lunga intervista con Enrico Lucherini che rappresentava in modo eccelso l’ufficio stampa del cinema sulle pagine de Il Messaggero. A seguire una rubrica sulla stessa testata di Pietro D’Ottavi ed un’altra, neonata, sul Trovaroma curata da Stefano Cillis, i quali seguivano tutto con molto interesse e professionalità. Le radio invece arrivarono dopo.

Marco Moreggia al Coliseum (1990)

Marco Moreggia in consolle al Coliseum (1990)

A cavallo degli stessi anni a Chicago nacque l’acid house che prese presto piede a Londra ma anche noi a Roma, con I Ragazzi Terribili, la proponemmo con molto successo. Nel 1988 Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito, bandì dalle radio la programmazione di brani acid house ed era persino proibito indossare indumenti che avessero il simbolo dello smile perché rievocava l’uso di ecstasy e degli acidi. Proprio quell’anno tornai a Londra (dove avevo vissuto sino al 1985, quando la musica era focalizzata sul dark, new wave e new romantic) e all’uscita di un locale vidi un gruppetto di amici. Gli andai incontro per salutarli e da lontano mi fecero gesti per bloccare il mio entusiasmo perché nelle immediate vicinanze c’era una camionetta della polizia. I poliziotti erano lì per controllare se qualcuno rivelasse, col proprio atteggiamento, di aver assunto sostanze stupefacenti. In tal caso lo avrebbero portato in caserma. Da lì a breve, come reazione a questo clima di repressione, nacquero i rave. Inizialmente l’house non venne presa sul serio da molti e solo una ristretta nicchia di persone capì il grande potenziale di quel nuovo genere. I giudizi ricorrenti erano sempre gli stessi, come “ma che musica è questa?” o “sembra tutta uguale!”, e l’attenzione di molti si limitò giusto ai brani più commerciali. Mancava insomma il voler approfondire la vastità delle produzioni, la ricerca del suono e la presenza di grandi voci emerse in quel momento storico. Purtroppo lo snobismo musicale che prima toccò altri generi fu riservato anche alla house, c’era addirittura chi ne decretò la morte già nel 1990, facendoci subito dopo la propria fortuna. Ci volle qualche anno prima che i produttori nostrani iniziassero a produrla, io stesso necessitai di tempo per assimilarla. Mi sentii pronto per fare il primo passo in discografia solo nel 1991, quando uscì “I Know Love’s On Earth” del mio progetto Three-Bu. Tra i maggiori impedimenti senza dubbio quello dell’assenza cronica di cantanti, tuttavia sono convinto che quella italiana resti una grande scuola di DJing che ha mantenuto una forte dignità artistica e che non è seconda a nessuno».

Emilia-Romagna
La house music viene irradiata con tempismo anche in Emilia-Romagna, una delle regioni cardine del clubbing italiano. Autorevole testimonianza giunge da uno dei DJ capostipiti, Flavio Vecchi: «Non rammento esattamente il momento preciso in cui entrai in contatto con la house music, ricordo che correva il 1986 e suonavo al Kinki di Bologna. Conobbi quel nuovo genere attraverso delle musicassette che un amico mi spediva da New York. Erano registrazioni di un programma radiofonico, credo su Kiss FM, che si collegava in diretta col club Zanzibar a Newark, in New Jersey, dove suonava Tony Humphries. Insieme ad un ristretto gruppo di amici, iniziai quindi ad ascoltare house music e da lì a breve cominciò la caccia ai titoli. Il primo disco house che comprai fu “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe, a seguire quelli della Trax Records come “Move Your Body” di Marshall Jefferson, “Let’s Let’s Let’s Dance” di Keynotes, “Tell Me (That You Want Me)” di West Phillips, “House Ain’t Givin Up” di BnC e “Go Bang” di Dinosaur L. Nel negozio che frequentavo, il Disco D’Oro di Bologna, arrivava un magazine quindicinale chiamato Echoes sul quale venivano pubblicate le prime underground house chart: consultavo con attenzione quelle classifiche insieme ad Achille ‘Aki Tune’ Franceschi (che lavora ancora lì!) il quale ordinava tre o quattro copie di quei titoli che ci parevano i più interessanti. Poi aspettavamo con ansia che arrivassero per poterli proporre durante le serate. I miei primi dischi house li comprai proprio al Disco D’Oro ma quando, nell’estate del 1986, iniziai a suonare in riviera cominciai ad andare pure al Disco Più di Rimini. Non mancavano viaggi a Londra, da dove tornavo con dischi non ancora reperibili in Italia. Non ero certamente l’unico DJ in Emilia-Romagna ad interessarsi di house music ai tempi, ma come dicevo prima il gruppo era veramente circoscritto a cinque o sei persone. Non conoscevo la realtà al di fuori della mia regione perché la mia attività da DJ non mi consentiva ancora di viaggiare per l’Italia, ma quando aprimmo le porte dell’Ethos Mama di Gabicce, nel 1987, mi resi conto di essere assolutamente un pioniere di quella nuova musica, come del resto lo era l’Emilia-Romagna. Lo capii perché nell’arco di breve tempo all’Ethos Mama veniva a ballare gente proveniente da tutto il Paese.

Ethos Mama Club

L’ingresso dell’Ethos Mama Club

Iniziai a suonare i primi dischi house nel 1986 al Kinki di Bologna e qualcosa alla Villa Delle Rose di Riccione, durante l’estate dello stesso anno, dove proponevo anche soul, r&b ed hip hop visto che in circolazione non c’era ancora molta house che mi piaceva. Ricordo reazioni positive da parte del pubblico e a tal proposito rammento un pensiero che feci: una volta che il pubblico “assaggiò” il nuovo tipo di cassa, dimostrando di gradirla, non sarebbe più stato possibile non offrirgliela più. Era una specie di punto di non ritorno e in effetti è stato proprio così visto che dopo pochi anni anche artisti pop iniziarono a pubblicare remix realizzati da DJ e produttori provenienti dal mondo house. Tra 1987 e 1988 comunque le uniche informazioni sulla house underground le reperivo sempre e solo al Disco D’Oro dove Achille riusciva a far arrivare con regolarità diverse riviste musicali inglesi ed americane dove venivano riportati nuovi titoli e nomi di produttori e DJ da tenere d’occhio. L’Italia ci mise un po’ per capire cosa fosse l’house music, semplicemente perché si trattava di un genere non nato entro i nostri confini. La mia prima collaborazione in una produzione house risale al 1990 (“House Of Calypso” di Key Tronics Ensemble Featuring Double J. Flash, nda) a cui seguirono parecchi dischi tra ’91 e ’92 alcuni dei quali sono ora considerati dei classici (cito fra tutti il Vol.1 e il Vol. 2 di Riviera Traxx, prodotti e composti insieme a Ricky Montanari e Kid Batchelor). Conservo ancora trafiletti di riviste britanniche e statunitensi in cui vennero citate le nostre produzioni, e recentemente alcuni nostri brani sono stati ristampati o inseriti in nuove compilation, a testimonianza che noi italiani imparammo presto e bene a comporre house music di buon livello».

Il citato Achille Franceschi (meglio noto come Aki Trax o Aki Tune) è un altro dei primi DJ, in Emilia-Romagna, a proporre house music. «La scoprii per caso. L’assoluta scarsità di informazioni in merito non permetteva infatti di capire esattamente cosa fosse» racconta oggi Franceschi. «Nella tarda primavera del 1986 iniziai a comprare dischi da Groove Records, a Londra, e la maggior parte riportava la scritta “house of Chicago” in copertina. La cosa mi incuriosì e da lì a poco mi resi conto che stessi suonando, inconsapevolmente, house music. Nell’arco di pochi mesi acquistai decine di quei mix, quasi tutti provenienti da Chicago. I miei preferiti? “Mystery Of Love” di Fingers Inc., “Your Love” di Frankie Knuckles, “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Free Yourself” di Virgo. Iniziai a proporli al Lilì Marleen di Misano Adriatico (poi trasformato in Vae Victis ed Echoes) e al Graffio di Modena, supportato dall’entusiasmo del pubblico. In Emilia-Romagna c’erano anche altri DJ interessati come me a quel fenomeno musicale, Maurizio Tangerini, Flavio Vecchi, Pier Del Vega e Renzo Master Funk. In quel periodo la house era un fermento totalmente sotterraneo. Il successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. poi aprì la strada a produzioni più commerciali che nel giro di un paio di anni, a mio parere, snaturarono del tutto l’essenza della stessa house music».

Concerto di Afrika Bambaataa, foto di Marinella Mattioli

Il biglietto del concerto di Afrika Bambaataa organizzato da Il Graffio (dall’archivio personale di Marinella Mattioli)

Un paio di anni prima che la house music giungesse in Italia, a Modena apre un locale “di educazione all’intrattenimento”, così come lo descrive uno dei fondatori, Alessandro “Jumbo” Manfredini, in questo breve articolo di Laura Solieri del 3 settembre 2012. Appartenente al circolo Arci, il Graffio diventa in breve un ritrovo giovanile dove sperimentare allestimenti, proiettare film e proporre musiche alternative come hip hop ed house. «”Devotion” dei Ten City era uno dei pezzi che riempiva di più la pista del Graffio» ricorda oggi Manfredini, che in quel periodo milita nella band dei Ciao Fellini. «Fu la mia palestra coi maestri Maurizio Tangerini ed Achille Franceschi alias Aki Trax, un posto per anime libere e scevre da ogni preconcetto nei confronti di nuovi sound, che rappresentava una situazione abbastanza anomala almeno in Emilia, visto che in riviera alcuni DJ, come Renzo Master Funk, avevano già dato il loro contributo alla causa house. Ai tempi attivammo i contatti anche con altre realtà attraverso la sigla O.N.U. (acronimo di One Nation Underground) creando un circuito di locali “alternativi” dove poter trovare un’offerta musicale diversa dal mainstream. La house però era ancora per pochi, e dischi di quel genere ne arrivavano in quantità ridotta. I miei punti di riferimento erano l’American Records di Roberto Attarantato e il Disco Inn di Fabietto Carniel. Nel 1987 l’uscita di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. aprì sicuramente gli orizzonti a molte persone seppur la culla della house fosse Chicago e non Londra, ma all’inizio in pochi capirono l’importanza di questo genere nato in America. Probabilmente vi era un’incapacità diffusa di interpretare la portata e la potenza culturale che poi quella musica avrebbe avuto. Non a caso per prendere dimestichezza con la house, i produttori italiani impiegarono del tempo perché non era in linea col percorso, sia creativo che di business, dell’italodisco che in quel momento imperava ancora».

Il Graffio (1986), allestimento dedicato al surrealismo, foto di Ernesto Tuliozi

L’allestimento dedicato al surrealismo allestito al Graffio nel 1986. Foto di Ernesto Tuliozi, gentilmente concessa da Alessandro Manfredini

Originario dell’Emilia-Romagna, seppur trapiantato da anni nel Lazio, è pure Maurizio Clemente, produttore del documentario “Italo House Story” (di cui si è fatto cenno qui) che mette ordine, in tempi non sospetti, nella storia della cosiddetta spaghetti house nostrana. «Conobbi la musica house nel 1987 circa, grazie agli amici DJ Ricky Montanari e Cirillo e alle registrazioni in cassetta di vari radio show newyorkesi, come quello di Tony Humphries allo Zanzibar. Un paio di anni più tardi approcciai anche alla discografia grazie all’amicizia con Kid Batchelor e Giorgio Canepa alias MBG. Lavorare nel campo della musica è sempre stato il mio sogno quindi fui coinvolto praticamente all’istante sia grazie a Batchelor, col quale andai negli studi londinesi della Warriors Dance (dove, tra l’altro, i Soul II Soul incisero la loro hit “Keep On Movin”), sia grazie ad MBG che aveva un piccolo studio di registrazione, pilotato dal Commodore 64, con cui alimentava una label distribuita da Severo Lombardoni, la MBG International Records. Su quella label nel ’90 uscì “The Chance” di Optik, un disco realizzato a quattro mani dallo stesso MBG e Montanari a cui collaborai pure io, in un secondo momento, come business manager. Conclusi una licenza esclusiva in Belgio con la Dancyclopaedia negoziandola con Rudy De Waele, oggi autorevole figura della cultura digitale.

Cirillo e Ricky Montanari (1989) courtesy Maurizio Clemente

Cirillo e Ricky Montanari nel 1984 a Berlino, durante un viaggio all’estero per comprare dischi (foto gentilmente concessa da Maurizio Clemente)

Col tempo la mia attività si irrobustì: nel ’92 fondai la Causa Effetto Italia e le etichette Zippy Records e Rena Records a cui fece seguito, nel 1994, la Nite Stuff, col supporto della Flying Records di Napoli. La società campana poi mi affidò pure il ruolo di A&R della UMM, affiancando Angelo Tardio e Giuseppe Manda. Facendo un passo indietro rispetto a tutto ciò però, ritengo che il citato Lombardoni della Discomagic sia stato un personaggio chiave per la house made in Italy di quegli anni. Senza di lui non ci sarebbe stata la diffusione della piano house in Europa e nel mondo intero. In Emilia-Romagna la prima House Convention venne organizzata al Tino di Massa Lombarda nel 1987, poi ripetuta all’Ethos Mama di Gabicce Mare. I primi underground house party, che non erano neanche organizzati in discoteca, però risalgono al periodo 1989-1990.

House Sound Convention II (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer della seconda House Convention svoltasi al Tino di Massa Lombarda (provincia di Ravenna) l’11 novembre 1987 (su gentile concessione di Maurizio Clemente)

A Rimini c’erano diversi giovani DJ che cercavano di emergere da quel sottobosco perché non trovavano spazio nei generi musicali in auge allora promossi dalle radio. Nel movimento underground era in voga anche la “afro” del Cosmic di Verona (oggi associato erroneamente all’italodisco) e de La Mecca. I DJ di riferimento erano Peri, T.B.C. (Claudio Tosi Brandi), Daniele Baldelli, Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli, Rubens, L’Ebreo e Spranga. I primi party in assoluto che organizzammo con la house però erano vuoti, ma la gente cominciò presto a capire questa musica e ad apprezzarla fino a riempire anche i club della collina di Riccione che all’inizio erano piuttosto riluttanti. Dopo le difficoltà iniziali noi appassionati e promotori cavalcammo questo genere musicale come un cavallo di Troia per entrare nel mercato dei club mediante i DJ resident dei locali più famosi di Rimini, visto che la house iniziò ad essere richiesta dal pubblico in tutte le discoteche e non più solo in quelle specializzate. I primi DJ che ho fatto ingaggiare a Londra, ad esempio, suonavano all’Echoes di Gabicce. Ai tempi non era facile seguire i trend di tutto il mondo e per questo ero spesso in viaggio per conto dei proprietari ed art director delle discoteche con cui collaboravo (Gianluca Tantini dell’Ethos, Gianni Nistico del Peter Pan, Gianni Fabbri e Renato Ricci del Paradiso, Pascià e Pineta, Luca Carrieri del Cellophane) proprio per intercettare nuove tendenze musicali. Allora non c’era internet, le uniche fonti di informazione erano il telefono e la stampa di settore, principalmente straniera. Sapevamo che a Roma ci fosse un movimento house intorno al Devotion di cui si parlava tanto anche perché gli organizzatori invitavano artisti come guest dagli Stati Uniti. Noi li seguivamo sperando di poter replicare, un giorno, quelle proposte artistiche internazionali anche in provincia, magari organizzando un unico tour nazionale ed agganciandoci a Roma per dividere le spese, visti soprattutto gli alti costi dei biglietti aerei. A dare spazio alla house music prima dell’esplosione commerciale furono diverse emittenti radiofoniche locali che riuscivano ad avere ospiti in esclusiva come ad esempio i Ten City che io stesso portai in una piccola radio di Riccione di cui non ricordo più il nome.

House Sound Convention III (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer (gentilmente concesso da Maurizio Clemente) della terza House Convention svoltasi presso l’Ethos Mama Club il 24 dicembre 1987. In evidenza, al centro, un motivo grafico già apparso sul precedente che rimanda alla serie “The House Sound Of Chicago” varata dalla D.J. International Records nel 1986

Uno dei brani che fece uscire la house dal territorio prettamente underground fu “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S.: pur non essendo ancora musica da classifica radiofonica, quel genere iniziò a riempire le mega discoteche di allora e ritengo fu molto positivo. Non mancò ovviamente chi accusò la house di essere “falsa” perché fondata sull’uso di campionamenti, ma credo che ciò dipenda dall’annosa questione legata all’utilizzo del computer per produrre musica. A tal proposito ricordo di cantanti, più o meno famosi, che interpretarono dei pezzi house e che si arrabbiarono molto quando si resero conto di essere stati rimpiazzati negli eventi live dai DJ. Dal punto di vista della produzione invece i musicisti venivano ingaggiati perlopiù come turnisti, a volte senza neanche nessun riconoscimento tra i credit (a tal proposito si rimanda a questo approfondimento, nda). Il computer e la house music fecero in modo che un brano fosse interamente prodotto da una sola persona, il DJ, e questo ribaltò gli equilibri già allora in bilico e che oggi, con internet, sono sconvolti ancora di più. Noi italiani comunque fummo secondi solo rispetto all’Inghilterra nella produzione di musica house, in quanto avevamo alle spalle una storia di disco ed italodisco che aprì le porte all’import-export, e questo ne facilitò la divulgazione. Per tale ragione l’italo house fu importante per la scena internazionale, così come lo furono i club italiani che per primi iniziarono ad ingaggiare DJ guest internazionali dando maggiore visibilità alla nostra nazione e al settore dell’intrattenimento di allora».

Umbria
Anche il “cuore verde” dello Stivale, l’Umbria, ricopre un ruolo importante nella diffusione della house. La vicinanza con il Lazio ha generato una specie di ping pong tra alcune realtà da diventare determinante per futuri sviluppi. Nome statuario è quello di Antonio Ferrari noto come Ralf, nato a Bastìa Umbra, in provincia di Perugia, che racconta: «Sono curioso ed attento di natura ma nei primi anni Ottanta non frequentavo le discoteche, erano posti in cui passava musica a mio avviso indigesta. Preferivo di gran lunga i club del rock alternativo, dove peraltro iniziai a lavorare selezionando cose molto eterogenee, da Stevie Wonder a Barry White e i Clash passando per roba ska, punk, funk e il primo hip hop. Ci fu un periodo in cui feci incetta del repertorio funk/soul specialmente statunitense e britannico, con titoli per me completamente sconosciuti. Alla house invece arrivai attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders: era il 1986 e per me fu una vera e propria illuminazione. Ad aprirmi quel mondo nuovo furono le riviste estere che acquistavo regolarmente, New Musical Express, The Face, Melody Maker e i-D, sempre molto attente alle nuove tendenze. Parallelamente a mostrare interesse per la house fu l’amico Vincenzo Viceversa che veniva da un background di musica parecchio dura come industrial, EBM e punk. Non ricordo altri in Umbria. Al di fuori dei confini regionali invece c’erano i ragazzi del Devotion, a Roma, ed anche alcuni DJ in Emilia-Romagna come Aki Trax, Renzo Master Funk, Flavio Vecchi, Ricky Montanari e Wayne Brown. All’inizio però era dura. Iniziai in un piccolo locale a Lacugnano, lì dove facevo coppia con Viceversa, ma le reazioni del pubblico furono negative. Scommisi tutto sulla house facendo incetta di dischi e realizzando set interamente basati su quel genere ma nell’arco di poche settimane mi ritrovai senza stipendio, la gente non apprezzava affatto. Le cose cambiarono quando approdai all’Ultra Violet, un posto che mi garantì un bel successo. In seguito sarei approdato al Matmos di Milano, al Plegine di Firenze, all’Ethos Mama di Gabicce e al Matis di Bologna, praticamente i templi house italiani. I primi dischi house li comprai da Musica Musica, un negozio di Ponte San Giovanni. A seguire da Mipatrini e da DJ News. Erano tutti abbastanza forniti e con le mie continue richieste credo di aver stimolato, in qualche modo, anche i negozianti a richiedere quel tipo di musica. Nel momento in cui cominciai a lavorare al di fuori dei confini regionali, iniziai a frequentare il Disco Più di Rimini e il Disco Inn di Modena, i due negozi più forniti d’Italia. Non mancavano però viaggi a Londra, dove mi fiondavo da Catch A Groove e Black Market Records, e a New York, dove invece andavo da Hard To Get e Vinylmania, dove si potevano incrociare tantissimi DJ della Grande Mela. Ricordo però che una volta da Vinylmania (la cui storia si può leggere qui, nda) accadde una cosa singolare: chiesi dischi di musica house ma non comprendevano affatto cosa volessi. Per loro quella era semplicemente “dance music”, analogamente a quanto avveniva in Italia, sin dai tempi dell’italodisco. Non c’era ancora una grande consapevolezza di ciò che stesse avvenendo, e prima del successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., ad esempio, da noi praticamente nessuno mostrò interesse per la house, sia a livello locale che nazionale, se non qualche sparuta realtà. Quando emerse il fenomeno del sampling il campionatore divenne lo strumento principe della house e molti la sposarono per moda ed interesse economico. Seppur nata negli States però, il fenomeno venne pilotato dalla Gran Bretagna, autentico volano del movimento house come fu la Germania per la techno. Noi italiani, comunque, non siamo stati da meno e ci facemmo ben notare, con neanche tanto ritardo rispetto ad altre nazioni. Non a caso oggi si parla di italo house come filone identificativo e rispettato anche oltre i confini».

Un altro nome preponderante della scena umbra è quello di Vincenzo Viceversa, già citato da Ralf poche righe fa ed intervistato qui qualche anno addietro. Ricontattato oggi, il DJ rammenta il suo primo contatto con la house music che avvenne «tra il 1986, anno di chiusura del Svbvrbia, e il 1987, attraverso riviste internazionali come The Face, i-D e New Musical Express, di cui ero assiduo lettore, che segnalavano questo nuovo “trend” con recensioni ed articoli di costume. I primi dischi house che mi folgorarono realmente e mi fecero sposare la causa furono “House Nation” di The Housemaster Boyz & The Rude Boy Of House, “Let’s Get Brutal” di Nitro Deluxe e “The Morning After” dei Fallout (ma anche il remix di “Behind The Wheel” dei Depeche Mode realizzato da Shep Pettibone, con un lungo intro simil-acid), in qualche modo mi ricordavano “Metal On Metal” dei Kraftwerk, “Planet Rock” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force, alcuni remix dei Front 242 ed altre cose electro dell’epoca come “Egypt, Egypt” di Egyptian Lover, “Breaker’s Revenge” di Arthur Baker o capolavori visionari come “Metal Dance” degli SPK e varie cose dei Cabaret Voltaire e di Chris & Cosey, tutti pezzi di matrice elettronica che già proponevo al menzionato Svbvrbia. Per me avvicinarmi a quel genere, nuovo e nero che si stava creando oltreoceano, fu una naturale evoluzione. Tracce elettroniche realizzate interamente con macchine e cantate esistevano già ed erano prodotte principalmente in Europa, ma quando le periferie americane dissero la loro cambiò tutto. Condivisi l’attrazione per la house inizialmente con Ralf, col quale ero in stretto contatto in quanto collaboratore degli stessi locali in cui lavorava come il Norman a Lacugnano, dove organizzammo i primi venerdì house underground della regione. In seguito si aggiunse Sauro Cosimetti. Ralf si avvicinò alla house perché appassionato di musica nera, io in virtù dell’amore per l’elettronica e la sperimentazione, Sauro invece per la via “afro”. Gettando uno sguardo al di fuori dei confini regionali, credo che tutto nacque a Roma col Devotion che adottò un concept praticamente contemporaneo con una location alternativa, un sound system potente, proiezioni visual (attraverso l’uso di diapositive) e musica house pura al 100% dato che i vari Militello, Di Nola e Gilardini in quel periodo vissero o frequentarono New York e locali come il Paradise Garage, oltre ad avere rapporti diretti con David Piccioni del Black Market di Londra. Le preziosissime copie dei primi dischi house americani arrivarono a Perugia proprio grazie a loro. Gilardini inoltre scriveva per il giornale Fare Musica e ricordo una sua intervista a Larry Levan. Attraverso la sua intercessione, realizzai pure io alcuni articoli per la stessa testata, tra cui uno sull’evoluzione EBM/new beat, ed uno su Fela Kuti per cui feci il DJ in after show nel 1988 al Quasar. Così come Ralf, anche io andavo da Musica Musica ma per fare vero shopping discografico era necessario volare a Londra. Ricordo, ad esempio, che di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. ne arrivò solo una copia a Perugia. La comprai ma attratto dall brano inciso sull’altro lato, “Anitina (The First Time I See She Dance)”. Solo in seguito la band esplose per “Pump Up The Volume”, un pezzo fatto per gioco in una notte con l’intento di riempire la facciata del disco, testando il nuovo campionatore acquistato dallo studio di registrazione della 4AD usufruendo dei dischi a portata di mano. I M.A.R.R.S. furono fondamentali per la diffusione europea della house, ma senza dimenticare il successo mondiale di “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e di “Respectable” di Mel & Kim. Il campionatore divenne uno strumento a tutti gli effetti e venne aggiunto all’equipment in uso negli studi di incisione. In Italia la house fu di fatto una evoluzione dell’italodisco che, a sua volta, si rivelò fonte d’ispirazione per la scena americana, basti pensare a “Dirty Talk” di Klein & MBO o a “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick. Quando Di Nola mi disse che “Problèmes D’Amour” era un cult nel circuito di New York e Chicago, mi venne l’idea di fare un remix e mi recai alla sede della Materiali Sonori, a San Giovanni Valdarno, ma lì mi dissero che non avevano né DAT, né nastri e tantomeno una copia del 12″. Credo che i fratelli Bigazzi allora ignorassero quanto quel disco fosse speciale, per loro era solo un vecchio pezzo che non aveva venduto molto. Le mie prime serate house le feci al citato Norman, ma all’inizio il pubblico in Umbria era schifato da quella musica, solo pochi eletti si rivelarono estaticamente entusiasti. Roma invece era al top grazie al Devotion».

Lombardia / Veneto
Una parte del cuore del settentrione nostrano inizia a battere presto per la house music. Operativo tra Lombardia e Veneto, seppur le sue prime incursioni house, come si vedrà tra poco, avvengano prevalentemente ad Ibiza, è il citato Leo Mas che racconta: «Scoprii la house nel 1985 attraverso dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Music Is The Key” di J.M. Silk, “Jam Tracks” di Kenny “Jammin” Jason e “Funkin With The Drums” di Farley “Jackmaster” Funk. Non ricordo in che modo giunsi ad essi, forse dopo aver letto qualche articolo relativo alla scena di Chicago sulla rivista The Face, la mia fonte d’informazione per tutti gli anni Ottanta. I primi dischi li trovai da Non Stop, il più grosso importatore d’Italia, in Via Quintiliano, a Milano, dove comunque erano disponibili poche copie ed ovviamente non di tutte le uscite. In quel momento il genere non era ancora definito, conosciuto ed etichettato, e quel tipo di produzioni, ai meno attenti, potevano sembrare frutto e parte del mondo electro o, nel caso di Colonel Abrams, persino del pop. Il fenomeno house iniziò a raccogliere una certa importanza solo nel 1986, tra Gran Bretagna ed Ibiza. Iniziarono a circolare più produzioni di quel nuovo sound e la compilation “The House Sound Of Chicago”, edita dalla D.J. International Records, a mio avviso fotografò perfettamente il genere con una tracklist di future mega hit (da “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley a “Mystery Of Love” di Fingers Inc. passando per “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Move Your Body (The House Music Anthem)” di Marshall Jefferson, nda), senza dimenticare le pubblicazioni della Trax Records e di altre svariate etichette nate proprio quell’anno. Fino all’estate del 1987 i centri di irradiamento, come dicevo prima, furono Ibiza e Regno Unito, poi la diffusione del genere iniziò ad allargarsi al mondo intero. Per lungo tempo le mie fonti restarono sempre e solo le riviste musicali britanniche, oltre al menzionato The Face anche i-D, New Musical Express e Record Mirror. Che io sappia, nessuna testata giornalistica nostrana affrontò l’argomento house music prima del successo internazionale di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., che fu determinante per far conoscere il genere al grande pubblico seppur fosse una produzione inglese che non rispecchiava affatto quella che invece era la house di Chicago, pur possedendo alcuni elementi di quel filone, come i campionamenti. A “Pump Up The Volume” peraltro è legato un divertente aneddoto: poco prima dell’uscita del disco dei M.A.R.R.S., scelsi come nome d’arte Leo Mars, variazione del mio cognome anagrafico, Marras, a cui tolsi le lettere doppie. Da amante della conquista dello spazio e di tutto ciò che riguarda la space age, Leo Mars mi parve davvero perfetto, ma dopo l’uscita di “Pump Up The Volume” chiunque avrebbe potuto pensare che avessi copiato Mars dai M.A.R.R.S., e quindi a quel punto decisi di eliminare anche la R e diventai Leo Mas.

La prima volta che ho proposto house music fu nell’estate del 1985, all’Amnesia di Ibiza, con Alfredo. La alternavo a pezzi come “(I Like To Do It In) Fast Cars” di Z Factor, “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, “Al-Naafiysh (The Soul)” di Hashim, “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Clear” di Cybotron, tutti del 1983, che comprai quando non facevo ancora il DJ. Replicai nello stesso posto l’estate successiva, contando su più dischi a disposizione, anche se alla fine restavano insufficienti per reggere l’intera serata giacché mettevamo musica per ben nove ore quotidiane, da mezzanotte alle nove del mattino seguente, senza ospiti, che invece iniziarono a giungere solo nel 1990, per appena uno o due party stagionali (e a tal proposito ricordo il compianto Paul “Trouble” Anderson e Pete Heller). Quei brani quindi finivano irrimediabilmente nel mezzo del programma musicale. Poi di comune accordo con Alfredo, nell’estate ’87, quando la quantità delle produzioni aumentò sensibilmente, suonammo musica house da 116 a 127/130 bpm per ben tre ore consecutive, in cui la tensione sonora raggiungeva l’apice, e fummo i primi a farlo in Europa. Consumato quello sprint di energie, il ritmo tornava a calare per raggiungere i 110 (ed anche meno) bpm, e pure quel momento era assai speciale ed emotivamente coinvolgente, complice la struttura stessa del locale. L’Amnesia infatti era un club open air, fino al 1990 anno in cui venne chiuso (analogamente al Ku) perché non fu più permessa l’attività di discoteche all’aperto sull’isola. Nell’estate del 1987 arrivarono i DJ britannici come Paul Oakenfold, Danny Rampling, Nicky Holloway e Johnny Walker che portarono oltremanica praticamente tutto quello che noi suonammo in quei mesti estivi. Da ricordare anche Nancy Noise, nostra cliente già dall’estate ’86, poi al fianco di Oakenfold al Future, uno dei primi club house/balearic londinesi insieme allo Shoom di Rampling. Poiché Londra rappresentava un “faro” per tutto il mondo, specialmente nell’ambito delle tendenze musicali, da quel momento l’house music cambiò le dancefloor e il modo di vivere la notte a livello planetario, innescando di fatto un’autentica rivoluzione senza precedenti. Ci terrei anche a ricordare che nel genere house, fino all’uscita sulla 10 Records, sublabel della Virgin, della compilation “Techno! The New Dance Sound Of Detroit”, rientravano anche le produzioni made in Detroit, su Transmat, Metroplex, KMS ed altre etichette indipendenti della motor city. Si trattava insomma di un genere unico, non esisteva alcuna distinzione tra i dischi di Chicago e quelli di Detroit. Solo dopo l’uscita di quella compilation, a metà estate del 1988, la seconda “Summer Of Love”, la musica che proveniva da Detroit sarebbe stata etichettata come techno.

Leo Mas e Vasco Rigoni del Macrillo

Leo Mas e Vasco Rigoni, art director del Macrillo

Provai una grande emozione quando all’Amnesia, nel 1987, suonavamo “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, vidi l’intera dancefloor con le mani in alto e in quell’istante percepii che stesse accadendo qualcosa di grande ed epocale. L’entusiasmo del pubblico fu sempre in crescendo, tra 1985 e 1986, ma nel 1987 divenne davvero devastante. Quell’anno iniziai a fare il DJ anche in Italia (dopo precedenti occasionali esperienze in qualche club in Emilia-Romagna) ed approdai al Macrillo di Asiago, diretto da Vasco Rigoni. A suggerirgli il mio nome e quello di Alfredo fu Mauro Bondi che organizzava le feste ibizenche al Pineta di Milano Marittima dopo la stagione estiva sull’Isla Blanca, e che poi aprì il Pascià a Riccione. Rigoni coinvolse anche gran parte dell’animazione del Pacha e del Ku. Molti clienti del Macrillo quindi conoscevano già il nostro sound perché frequentavano Ibiza, e mostrarono fortissimo entusiasmo quando si resero conto che non serviva più né attendere l’estate per ballare quella musica, né tantomeno volare nell’isola balearica. Era una situazione eccitante ma soprattutto unica perché, sino al 1987 circa, nelle discoteche italiane i DJ raramente superavano i 116/118 bpm. Come tutti i generi musicali che hanno innescato delle rivoluzioni, anche la house music era legata ad una sostanza stupefacente, l’MDMA, giunta ad Ibiza a fine ’86 da New York e poi prodotta in Olanda dal 1987, anno in cui il consumo aumentò esponenzialmente nell’isola proprio con l’avvento della rivoluzione house in atto (mentre in Italia non si sapeva ancora nulla, l’MDMA entrò nella tabella delle droghe solo nel 1989 dopo un mega arresto avvenuto al Movida di Jesolo). La combinazione house-droga amplificò ulteriormente l’esplosione del genere nei club. Per quanto riguarda le produzioni, noi italiani abbiamo dato presto la nostra interpretazione riuscendo a creare una “nostra house”, amata e riconosciuta ancora oggi da svariati DJ internazionali».

Piemonte
Dopo l’esperienza discografica nei Talk Of The Town di cui abbiamo già parlato qui, Roberto Pezzetti, da Novara, scopre la house music e si trasforma in Jackmaster Pez, cavalcando da protagonista buona parte degli anni Novanta. «Sino a poco tempo prima ascoltavo prevalentemente rock psichedelico e le cose appartenenti alla coda finale della new wave, inclusi brani di gruppi come A.R. Kane e Colourbox, dalla cui collaborazione poi nacquero i M.A.R.R.S.» racconta oggi. «Tolti Michael Jackson, Madonna e Prince, nel 1987 in Italia imperava ancora l’italodisco a cui mi ero avvicinato attraverso il progetto Talk Of The Town prodotto nel Logic Studio dei fratelli La Bionda. Alla house giunsi attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk (dal quale “presi in prestito” un pezzo del mio pseudonimo), uscito nel 1986. Da lì iniziò l’invasione della house di Chicago (D.J. International Records, Trax Records), poi Detroit rispose con la techno, senza dimenticare i paralleli fenomeni acid e garage, ma all’inizio tutti questi generi trovarono parecchia resistenza, almeno nella mia regione, il Piemonte. I primi confronti coi colleghi di studio, coi discografici e con gli altri membri dei Talk Of The Town furono decisamente deludenti. Nessuno di loro provava lo stesso feeling emozionale che percepivo io ascoltando quelle tracce, e mi gelarono con commenti tranchant tipo “ma questa non è musica, è solo una combinazione elementare tra drum machine e synth!”. La svolta, per me del tutto inaspettata, avvenne nel 1988, precisamente ad agosto quando mi trovavo all’Isola d’Elba, durante una pausa del tour dei Talk Of The Town. Andai in una discoteca dove si ballava house music, programmata e mixata dall’amico Miki The Dolphin, e quella serata accese in me la miccia. Tornato a Milano, conobbi Leo Mas che suonava al Macrillo di Asiago, in una “dodici ore non stop” organizzata dall’indimenticabile Vasco Rigoni. Lì, insieme a lui, anche i primi DJ guest ibizenchi. Da quel momento per me sarebbe stato un costante crescendo. A settembre ’88 iniziai a comprare dischi house con regolarità, prima dai distributori e da negozi occasionali, poi dal Disco Più di Rimini che mi spediva settimanalmente delle cassette coi demo delle nuove uscite per facilitare gli ordini a distanza. In seguito il mio fornitore divenne, per almeno un decennio, Fabietto Carniel del Disco Inn di Modena. Ai primi dischi house è legato un ricordo indelebile: dopo una serata trascorsa al Macrillo con l’amico Johnson Righeira, acquistai in un piccolo negozio di dischi “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim (Derrick May), e rimanemmo entrambi folgorati. Ancora oggi, dopo oltre trent’anni, quel disco lo ho ancora nel flight case. Giusto pochi giorni fa proprio Johnson mi ha fatto scoprire l’opening del Weather Festival a Parigi, con la versione orchestrale di “Strings Of Life” di Francesco Tristano (ex Aufgang) eseguita dalla Philharmonic Orchestra Lamoureux diretta da Dzijan Emin. Mi sono venute le lacrime agli occhi per l’emozione, consiglio davvero di guardare la clip.

flyer Clinica (1988)

Flyer de La Clinica (1988) su gentile concessione di Jackmaster Pez

Nell’autunno del 1988, sull’onda dell’entusiasmo, iniziai ad organizzare piccoli house party a casa mia. Così nacque la Clinica che, in teoria, era riservata a pochi intimi amici conosciuti all’Elba invece ci ritrovammo in cinquecento provenienti da Roma, Firenze, Genova, Milano, Torino … Tutto crebbe in modo spontaneo e col passaparola (in un periodo in cui internet non era neanche ipotizzabile) generando una tribù di seguaci molto ricettivi per quel nuovo fenomeno musicale all’interno di una cornice radicalmente inedita e meravigliosamente magica. Ricky Pannuto, mio partner ai tempi dei Talk Of The Town all’inizio fortemente scettico nei confronti della house, cambiò idea ed insieme producemmo, nel 1990, “Life Is An Illusion” di Sound Of Clinica, in puro genere “paradise”. In Italia però giornali, televisioni ed emittenti radiofoniche giunsero alla house solo dopo “Pump Up The Volume”, peraltro prestando più attenzione ai primi acid house party londinesi che altro. La house era musica di nicchia e vista di traverso perché legata all’uso dell’ecstasy. Inoltre sia discografia che distribuzione nostrana non erano ancora pronte a voltare pagina, perché inizialmente le soglie di vendita della house erano talmente esigue da non creare alcun interesse per i manager discografici che continuavano a vendere milioni di copie con altri generi. Non a caso la house music si è diffusa attraverso piccole etichette indipendenti, quelle che avevano meno paura di osare. Non dimenticherò mai l’espressione di un discografico dopo aver ascoltato un mio demo house. Aspettava che succedesse qualcosa e alla fine mi guardò stranito dicendomi “mah, mi sembra un jingle per uno spot pubblicitario”».

I primi dischi house made in Italy
Se è arduo indicare chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese è altrettanto problematico stabilire con esattezza chi abbia prodotto il primo pezzo house in Italia. Quel che pare certo è che a dedicarsi discograficamente a questo nuovo sound è, in principio, solo chi ha già carriere pregresse alle spalle in ambito italodisco e con una certa dimestichezza sia in processi tecnici che trafile burocratiche e, non meno importante, con uno studio di registrazione a disposizione, allora requisito essenziale per incidere dischi. Si ha inoltre l’impressione che la maggior parte dei primi italiani a buttarsi nella produzione di musica house sia allettata in primis da possibili introiti economici più che dallo stile in sé, ed infatti sul mercato giungono diverse riproposizioni, piuttosto pedestri, della formula portata al successo dai M.A.R.R.S. con “Pump Up The Volume”, a dimostrazione che inizialmente la house venga considerata più come mezzo per lucrare velocemente che esprimere la propria vocazione artistica e creativa. Il campionatore viene adoperato per generare frullati citazionistici ma attingendo da fonti prevalentemente riconoscibili anche dal pubblico generalista. Non c’è ancora traccia del minuzioso lavoro dei cosiddetti “crate digger” che passano al setaccio materiale oscuro facendo leva sulla propria sensibilità per individuare i giusti frammenti da trasformare in cose nuove. A differenza di quanto avviene oltremanica inoltre, da noi inizialmente mancano produttori che prendono le mosse da Chicago, e i pochi DJ a volerlo fare non hanno la forza economica sufficiente per approntare prodotti adatti alla stampa, se non qualche demo registrato alla meno peggio. Negli studi che si usa prendere a nolo invece non c’è ancora personale specializzato in house music e a dirla tutta i turnisti mostrano più di qualche riserva nel prendere parte a progetti in cui la musica viene composta in modo del tutto diverso rispetto a quanto fosse avvenuto sino a quel momento. Non mancano neppure produttori infastiditi dal fatto che i DJ inizino a conquistare indipendenza emancipandosi dai musicisti qualificati per realizzare i propri brani. Inoltre non esistono case discografiche, tranne piccole e piccolissime indipendenti, disposte a pubblicare senza riserve pezzi di quel tipo, preferendo puntare ancora sull’italodisco che, nel frattempo, raggiunge la fase creativa più deludente. Si delinea pertanto un quadro in cui i DJ italiani che amano sperimentare nuove fogge stilistiche sono costretti a ripiegare esclusivamente su materiale discografico proveniente dall’estero perché non esiste ancora un equivalente prodotto in patria. Qui di seguito una carrellata (in ordine alfabetico) di produzioni italiane edite nel 1987, candidate ad essere considerate tra le prime prove “friendly house” nostrane. La gallery non ha però la pretesa di essere completa ed esaustiva, pertanto in futuro potrebbe essere oggetto di aggiornamenti.

Alexander Robotnick - C'est La VieAlexander Robotnick – C’est La Vie (Fuzz Dance)
“C’est La Vie” è il brano con cui Maurizio Dami torna a vestire i panni di Alexander Robotnick, personaggio franco-sovietico scaturito dalla sua fantasia e materializzatosi per la prima volta nel 1983 con la seminale “Problèmes D’Amour” a cui abbiamo dedicato un ampio articolo qui. Il pezzo, per cui viene realizzato anche un videoclip, non è esattamente house almeno nella versione principale. Cantata ancora in lingua francese e con gli inserimenti di sax ad opera di Stefano Cantini che giusto l’anno prima partecipa a “Love Supreme” dei Giovanotti Mondani Meccanici, team in cui figura lo stesso Dami, “C’est La Vie” è destinata al pubblico mainstream e alle radio. Più filo house risulta essere però la versione incisa sul lato b intitolata, piuttosto banalmente, Another Version, privata di quasi tutte le parti vocali e contraddistinta da un telaio percussivo più rigido. Nonostante venga licenziato in Francia dalla Sire, il pezzo non raccoglie il successo sperato e spinge l’autore toscano ad “ibernare” il suo alter ego sino al 1991, anno in cui ci riprova ancora con la house attraverso “Les Vacances” edito da Los Cuarenta/Expanded Music ed arrangiato da Claudio Collino ed Elvio Moratto. La nuova delusione sembra tale da infliggere a Robotnick il colpo di grazia. Le cose cambiano però nei primi anni Duemila, quando scoppia l’electroclash e il revivalismo connesso alla “80s dance”: influenti personaggi esteri riconoscono a Maurizio Dami il merito di aver gettato con “Problèmes D’Amour” (ma pure con altri brani meno noti del suo repertorio come “Dance Boy Dance”), i semi della proto house specialmente a Chicago, lì dove il suo primo singolo è considerato un’autentica pietra miliare.

Cappella - BauhausCappella – Bauhaus (Media Record)
Con le mani in pasta nella discografia sin dal 1983, Gianfranco Bortolotti conia il progetto Cappella nell’autunno del 1987 per questo brano-emulo di “Pump Up The Volume” realizzato da Francesco Bontempi, affermatosi in epoca italodisco come Lee Marrow e futuro produttore delle hit di Corona di cui abbiamo parlato qui. «Ero in vacanza negli States ed ascoltai il pezzo dei M.A.R.R.S. che mi colpì al punto da voler creare qualcosa di simile» spiega l’imprenditore bresciano in questa intervista. La vicenda ricorda quanto avvenuto esattamente un anno prima a Ian Levine che tornato a Londra da New York replica “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders attraverso “On The House” di Midnight Sunrise (per tutti i dettagli si rimanda a questo approfondimento). Autentico spirito di emulazione transcontinentale insomma. «“Bauhaus” fu realizzato con tecnologia primitiva» prosegue Bortolotti, «avevamo cinque o sei campionatori Akai tra cui l’S612, ma non disponendo del MIDI tre persone erano costrette a spingere un pulsantino nello stesso istante. Registravamo su nastro a 24 piste per poi editare con la taglierina ed attaccare con lo scotch. Le tastiere erano al 99% analogiche come del resto l’effettistica della Lexicon che costò un occhio della testa. Tra le poche macchine digitali di cui disponevamo c’era la Yamaha DX7. Il pezzo venne realizzato in una cantina dove era allestito lo studio (il 24th Street Studio in Via Sant’Emiliano, a Brescia, nda) di cui sarei diventato socio e che poi avrei spostato in Via Martiri Della Libertà». “Bauhaus” macina licenze sparse in tutto il mondo, Svezia, Paesi Bassi, Germania, Francia, Spagna, Grecia e persino Australia. In Canada e Regno Unito viene pubblicato con un titolo diverso, “Push The Beat” perché, come rivela Bortolotti contattato per l’occasione, «chi rilevò la licenza tentò di fregarci il 50% dei diritti di master e d’autore, cercando di far passare il pezzo per un medley con “Push The Beat”, un campione che figura solo sulle prime copie britanniche. Ovviamente sistemammo la questione». La scarsità sul mercato di materiale di quel tipo, dovuta alla difficoltà tecnica nel replicare il risultato considerati gli esorbitanti costi per allestire uno studio, determina la fortuna di “Bauhaus”, sostanzialmente la risposta italiana a “Pump Up The Volume”, e a tal proposito Bortolotti dice, sempre in quell’intervista del 2015, che «fu la chiave di volta nella mia carriera da produttore, il successo continentale da cui germogliò l’elemento determinante per la nascita della Media Records e che iniziò a lanciare lo stile italiano in Europa». Oggi aggiunge: «Credo che “Bauhaus” abbia venduto circa un milione di copie e pensarci mi riporta alla memoria qualche aneddoto: quando lo pubblicai in Italia ormai l’italodisco era agli sgoccioli e i titoli vendevano mediamente duecento/trecento copie, lasciando emergere un malessere generale nella discografia. Le richieste del pezzo però furono straordinarie, così alte da non poter sostenere da solo i costi della stamperia. Quando ordinai la prima tiratura di oltre trentamila copie il buon Antonio Cagnola della Microwatt, che ormai ci ha lasciati, si spaventò e mi disse che era necessario versare almeno il 50% in anticipo. Fui costretto a farmi prestare il denaro da Diego Leoni, in cambio di quote della Media Records. Alla fine ne stampai quasi centomila, e così fu per tutte le nostre hit sino al 2004, quando lasciai. Sia la Microwatt che la Ariston di Alfredo Rossi, per quindici anni, mi inviavano puntualmente ogni Natale mazzi giganteschi di fiori (rose o gardenie) e champagne per ringraziarmi del lavoro che gli passavamo. Rossi inoltre mi mandò suo figlio a “scuola”, a Roncadelle, per due o tre anni, chiedendomi di crescerlo adeguatamente». “Bauhaus” esce su Media Record (senza s finale), brand che il produttore bresciano crea nel 1986 in seno all’italodisco e quando è ancora affiliato alla Discomagic di Severo Lombardoni. Ci vorrà ancora del tempo prima di giungere alla Media Records (il primo ad uscire col nuovo marchio è “Shadows” di 49ers, 1989). Nel frattempo Cappella continua ad essere il nome con cui Bortolotti scommette sulla house filobritannica, a partire dal fortunato “Helyom Halib” del 1988 (con un campionamento di “Work It To The Bone” degli LNR), “Get Out Of My Case” ed “House Energy Revenge”, entrambi del 1989, sino a “Be Master In One’s Own House” del 1990. Nel 1991, sull’onda della compenetrazione tra suoni techno e ritmiche house in stile Bizarre Inc (“Such A Feeling”, “Playing With Knives”), escono “Everybody” e “Take Me Away”, prima della svolta eurodance con hit milionarie (“U Got 2 Know”, “U Got 2 Let The Music”, “Move On Baby”, “U & Me”, “Move It Up”, “Tell Me The Way”, “I Need Your Love”) che legheranno Cappella sia ad un nuovo volto sonoro che fisico visto che il ballerino/body builder Ettore Foresti, già coinvolto in Superbowl tra ’85 e ’87, lascia spazio a Rodney Bishop, Kelly Overett ed Alison Jordan che contribuiscono a mantenere alte le quotazioni del progetto per diversi anni.

DJ Lelewel - House MachineDJ Lelewel – House Machine (Renata Edizioni Musicali)
Trainato da sezioni di pianoforte sincronizzate su una base in 4/4, “House Machine” è il brano di Daniele Davoli alias DJ Lelewel, disc jockey di Reggio Emilia e tra i primi ad incidere musica house nel nostro Paese. «Ai tempi c’erano già dei sentori di house music, spesso mischiata a rimasugli dell’electro usata per la breakdance come ad esempio “19” di Paul Hardcastle, del 1985, che conteneva qualche elemento che si sarebbe poi ritrovato nella house» spiega oggi Davoli. «Allora lavoravo al Marabù di Reggio Emilia e in particolare ricordo la serata del giovedì dedicata agli studenti, in cui proponevo la cosiddetta “afro”, quella che per intenderci passavano DJ come Daniele Baldelli, Moz-Art, L’Ebreo, Spranga, emittenti come la bresciana Radio Azzurra e locali come il Chicago di Baricella di Bologna. Era un filone intorno al quale c’era un forte interesse specialmente nella zona del lago di Garda, a Lazise e a Verona. Le prime influenze che emersero quando divenni un produttore infatti richiamavano più l’afro che altro. Comunque il pezzo che mi fece capire quanto fosse forte la house fu “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders, del 1986. L’anno dopo giunse “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. con cui tutti capirono che la house era arrivata e sarebbe rimasta. Ricordo però che ad avere la meglio da noi era ancora la dance hi NRG in stile Stock, Aitken & Waterman, specialmente nei locali di provincia come il citato Marabù. Seppur fosse gestito molto bene e meta di un corposo pubblico, non era il luogo più adatto per sperimentare nuovi stili tranne il giovedì, quando non scendevo a nessun compromesso con le hit da classifica e facevo un programma afro che, verso la fine, includeva qualche pezzo house. Partivo molto lento, intorno agli 85 bpm, tirando dentro un mucchio di cose eterogenee, da James Brown alla new age». A produrre “House Machine” è il compianto Stefano Cundari, co-fondatore della Memory Records che ai tempi inizia a prendere le misure di un nuovo segmento di mercato, quello della house per l’appunto. «Il grande Cundari, espertissimo in tecnologia, mi insegnò tanto, fu lui a spiegarmi come realizzare i remix col Revox ad 1/4 di pollice, a tagliare, duplicare ed incollare il nastro» prosegue Davoli. «Prima di diventare un produttore di fama internazionale inoltre, Cundari era un DJ e per questo capiva benissimo la mentalità di noi disc jockey, anche se quando ci conoscemmo aveva smesso già da tempo di mettere i dischi nei locali preferendo dedicarsi esclusivamente alla produzione discografica. Aveva una struttura avviatissima, un’etichetta di successo e due studi di registrazione che erano ad appena cinquecento metri da casa mia. Grazie a questa vicinanza potevo andare a trovarlo spesso perché condividevamo la passione per le auto d’epoca. Paradossalmente parlavamo poco di musica perché a me non piaceva molto il genere con cui lui fece fortuna, l’italodisco, che cercavo di evitare nelle mie serate fatta eccezione per le hit da classifica che non potevo proprio esimermi dal passare. Un giorno, durante uno dei nostri incontri, gli dissi che la house music stava prendendo piede in Europa e lui annuì sostenendo che anche altri gli avessero riferito la stessa cosa. A quel punto mi propose di provare a fare un brano, non con l’intento di incidere una hit ma giusto per tenere un piede nel futuro. La musica che gli dava da mangiare era ancora l’italodisco ma Cundari mostrò la curiosità e la volontà di sondare le potenzialità di quel nuovo genere e per farlo avremmo potuto usare gli strumenti in suo possesso come il campionatore Akai S900 e vari sintetizzatori (Prophet-5, Minimoog, PPG). Per “House Machine”, nello specifico, adoperammo un sequencer Roland programmato da Stefano perché ai tempi non ci capivo davvero niente, l’Akai S900 (o forse due), un Korg M1 con cui eseguimmo la parte di pianoforte, e un PPG Wave 2.3 per il basso. La batteria invece era un misto tra campioni e percussioni prese dalla mitica Linn LM-1. Per finalizzare il tutto impiegammo un paio di settimane circa ma lavorando quattro/cinque ore per volta in qualche serata. Durante il giorno infatti Stefano si occupava degli artisti del suo catalogo, si dedicava a me solo dopo le 18, rimanendo in studio sino alle 21/22. Il brano non fu un successo, vendette 1500 copie che poi, probabilmente, furono destinate quasi tutte all’export, ma fece anche una manciata di licenze, in Olanda e in Germania, seppur non vidi mai i rendiconti (il socio di Stefano, Alessandro Zanni, non era tra i più solerti nel mandarli). Le perplessità di Cundari sorsero nel 1988 quando avremmo dovuto preparare il follow-up. Nonostante non fosse un fiasco, “House Machine” non raggiunse i risultati che si aspettava o sperava. Siccome vendeva ancora molte copie di italodisco, fu titubante a dedicarmi del tempo per un disco house. Mi chiese innanzitutto di pensare ad un pezzo con più musica, a suo avviso per ottenere buoni risultati non bastava incidere una traccia adatta solo ai disc jockey, il rischio era di vendere di nuovo troppo poco. Né io, né Stefano però eravamo musicisti, capivamo la musica ma mettersi davanti ad un pianoforte e suonarlo è un altro paio di maniche. Avevamo bisogno di coinvolgere un musicista e Stefano interpellò Mirko Limoni che, di tanto in tanto, collaborava con lui a cottimo. In mente avevo una vaga idea di ciò che avrei voluto realizzare ma dopo appena un paio di pomeriggi Cundari si demoralizzò e ci disse che era costretto a mettere il progetto “in freezer” per dedicarsi ad altro. Aggiunse che lo avremmo potuto riprendere più avanti, qualora la voglia non fosse scemata del tutto. Delusi per quella decisione, uscimmo affranti dallo studio ma Mirko si mostrò subito dubbioso. Secondo lui le idee buttate giù erano buone e mi propose di raggiungerlo nello studiolo che aveva allestito con alcuni amici tra cui Valerio Semplici. Lì potevamo dedicarci senza limiti di tempo perché lui usciva dal lavoro a mezzogiorno ed avremmo avuto tutto il pomeriggio e parte della sera per strimpellare e fare quello che ci pareva, senza alcuna costrizione. Nove/dieci mesi dopo il pezzo era pronto, si trattava di “Numero Uno” che pubblicammo come Starlight, omonimo del locale estivo in cui lavoravo. I direttori della discoteca si offrirono di pagare le spese della copertina stanziando un milione di lire per il grafico. In cambio noi avremmo dovuto inserire il nome del locale da qualche parte. Nessuno avrebbe potuto immaginare che “Numero Uno” (con un sample preso da “Beyond The Clouds” dei Quartz, pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni ed oggetto di una ricchissima serie di licenze in tutto il mondo, nda) fosse il follow-up di “House Machine”. A sua volta Starlight fu il predecessore di “Ride On Time” dei Black Box. Alla luce di tutto ciò quindi posso affermare che “House Machine” mi incoraggiò ad intraprendere l’attività di produttore discografico oltre a fornirmi aiuto per farmi conoscere nell’ambiente. Da lì a breve infatti cominciarono a giungere le prime richieste di remix come quello di “Happy Children” di P. Lion che mi commissionò Lombardoni. Cose italiote, senza dubbio, ma che mi garantirono comunque una certa esposizione. Allora non riuscivo neanche ad immaginare di poter conquistare le classifiche straniere, soprattutto quelle inglesi, esisteva solo una flebile speranza contrapposta alla consapevolezza di non poter riuscire in quella impresa. “House Machine” mi fece capire come e cosa fare per creare l’arrangiamento di un disco, mi fece conoscere prima Mirko e poi Valerio, insomma proprio con quel pezzo si aprì la porta della mia carriera da produttore». Nel 1989 Davoli darà vita ad uno dei capisaldi della italo house, “Ride On Time” di Black Box, che sommato al menzionato “Numero Uno” di Starlight, “Do-Do-Don’t Stop” di Rosso Barocco, “Airport 89” di Wood Allen e “Grand Piano” di The Mixmaster costituisce l’ossatura dell’affiatato team della Groove Groove Melody creato insieme a Mirko Limoni e Valerio Semplici.

DJ System - Animal HouseDJ System – Animal House (Discomagic Records)
DJ System è il team project messo su da Stefano Secchi, Maurizio Pavesi e Marcello Catalano con l’intento di cavalcare l’esplosione della house music dopo il successo di “Pump Up The Volume”. La loro “Animal House” è annodata in modo inequivocabile al disegno creativo dalla hit dei britannici, con sample piazzati qua e là, alcuni dei quali ben noti come quello di “Thriller” di Michael Jackson, e qualche immancabile scratch. Il titolo è ispirato dal latrato di un cane incastrato nelle pieghe ritmiche insieme al nome del progetto fatto balbettare così come si usa fare a Chicago. Nel 1989 Secchi e Pavesi ci riprovano con la poco nota “Party Time” su Rolls Record, ma si rifaranno entrambi con gli interessi negli anni a seguire. La Discomagic Records di Severo Lombardoni riprende invece il brand DJ System nel 1992 per “Yeah!” prodotto da Maurizio Braccagni quando la tendenza commerciale in Italia si è spostata sui suoni derivati dalla techno dei rave britannici, tedeschi ed olandesi.

Fun Fun - Gimme Some Loving (House Mix)Fun Fun – Gimme Some Loving (House Mix) (X-Energy Records)
Le Fun Fun spopolano tra 1983 e 1984 coi singoli “Happy Station” e “Color My Love”, ispirati entrambi dalla disco hi NRG di Bobby Orlando. Nel corso degli anni vengono ingaggiate diverse vocalist, tra cui Ivana Spagna, ed altrettante frontwomen a rappresentare l’immagine pubblica del duo secondo una modalità lavorativa ampiamente rodata nell’ambiente dell’italodisco nostrana (a tal proposito si rimanda a questo reportage). “Gimme Some Loving” è la cover, arrangiata da Paolo Gianolio, dell’omonimo di Spencer Davis Group, ma l’uso del termine House Mix è decisamente fuorviante. È vero che c’è un beat costruito con la TR-909 e qualche inserto pianistico ma, contrariamente a quanto forse pensano i produttori allora, ciò non è sufficiente a farne un brano house, e basta un veloce ascolto per sfatare ogni dubbio. Una “House Mix” realizzata dall’olandese Ben Liebrand figura pure nel successivo “Could This Be Love”, ma di house se ne sente davvero poca pure in questo caso, a testimonianza di quanta confusione ed approssimazione ci fosse intorno al termine “house” nel 1987.

Glance - Turas Open LegsGlance – Turas / Open Legs (Les Folies Records)
Ad orchestrare il lavoro dietro lo sconosciuto progetto Glance è Tony Carrasco, DJ americano di origini italiane che alle spalle ha un successo di proporzioni epocali, “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., uscito nel 1982 e considerato una specie di proto house. Ad affiancare Carrasco sono Sergio Pisano, i fratelli Nicolosi (Giuseppe, Lino e Rossana) e la vocalist Dora Carofiglio, altri nomi ben noti nella discografia nostrana (Novecento, Valerie Dore). Delle varie versioni incise sul 12″ spicca meglio la Sexy Piano che, come promette il titolo, sfoggia un assolo di pianoforte incastrato a dovere in un basso slappato di matrice funk derivato dall’omonimo brano originale, edito dalla Proto Records nel 1983 e firmato Amnésie. Il tutto su un beat “dritto” a garantire una sorta di “effetto Paradise Garage”. Il disco viene pubblicato sulla Les Folies Records che all’attivo ha solamente un’altra uscita, “Limit” di True Colors, prodotta da Pisano nel 1984 ed oggi ben quotata sul mercato dell’usato.

L.A.N.D.R.O. & Co. - Get Up, Get On UpL.A.N.D.R.O. & Co. – Get Up, Get On Up (New Music International)
Prodotto da Pippo Landro, ex membro dei Gens e titolare di uno dei negozi di dischi più noti di Milano, il Bazaar Di Pippo, Maurizio Macchioni e il sopraccitato Sergio Pisano presso il Les Folies Studio, “Get Up, Get On Up” è uno dei primi 12″ del catalogo New Music International, etichetta che lo stesso Landro fonda nel 1987. Il brano è costruito in maniera semplice, con assoli di tastiera jazzati, un breve messaggio vocale, una parte pseudo rap, un sample preso da “Kiss” di Prince e la chiusura con un virtuosismo di tromba. Dal 1988 L.A.N.D.R.O. & Co. ospita nuovi autori: a “Belo E Sambar” mettono mano Massimino Lippoli ed Angelino Albanese mentre “Hey Mr. D.J.” viene prodotto da Fabrizio Rizzolo, Franco Diaferia e Marco Martina. Con “I’ve Got Your Love”, “Un Otro” e “Zodiac Lady” l’attenzione si sposta progressivamente verso il downtempo.

MBO - M.B.O. Liverpool ThemeMBO – M.B.O. Liverpool Theme (Limited Edition Records)
Il successo internazionale raccolto con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O. (nato da un’idea di Davide Piatto dei N.O.I.A. seppur il suo nome non figuri tra i credit – si legga questo reportage per tutti i dettagli) galvanizza il compianto Mario Boncaldo che nel 1987 avvia il progetto MBO lasciandosi affiancare da Elio Crociani. “M.B.O. Liverpool Theme” ricalca lo schema di “Dirty Talk” sfruttando più incisivamente la rhythm section di una Roland TR-808, elemento che stuzzica l’attenzione oltreoceano negli anni immediatamente precedenti alla nascita della house. In “M.B.O. Liverpool Theme”, ad onor del vero, di house non c’è granché, fatta eccezione proprio per il telaio della batteria analogamente a “Don’t Stop The Music” di Lee Marrow, ma Boncaldo era convinto che la house fosse una sua invenzione. A tal proposito qualche anno fa scrive sul suo sito: «Nel 1985 Rocky Jones, patron della celebre etichetta D.J. International Records, prese spunto da “Dirty Talk” e continuò il trend chiamandolo impropriamente The House Of Chicago. “La Casa di Forlì” sarebbe andata certamente poco lontano! Rifiutai, diverse volte, proposte accorate e suppliche di Rocky che mi voleva con lui a Chicago. Non sempre nella vita si fanno le cose giuste e purtroppo lo si capisce col senno di poi». Intervistato dallo scrivente nel 2011, Rocky Jones dichiara però di non aver mai sentito parlare di Boncaldo a Chicago, e che in realtà fu l’amico Benji Espinoza, commesso presso il negozio di dischi DJ Records, a segnalargli quel pezzo. «Incontrai Boncaldo tempo dopo in Francia, dove era insieme a Tony Carrasco» spiega, «mi sarebbe piaciuto lavorare con loro per traghettarli in una dimensione più vicina alla house che alla disco. “Dirty Talk” resta un gran pezzo, avanguardista nell’uso della batteria ed ispiratore per chi in seguito si è dedicato alla house, ma il mondo intero sa che la genesi della house spetta ai creativi di Chicago. La disco e la house non vanno assolutamente confuse perché non sono la stessa cosa, e il pezzo di Boncaldo appartiene più alla disco visto che fu prodotto nel 1982 quando la house, di fatto, non esisteva ancora». Da abile uomo d’affari, Boncaldo cerca comunque di tirare acqua al suo mulino facendo scrivere sul centrino del disco “the original house sound of M.B.O.” parodiando, anche graficamente, il “the house sound of Chicago” che si ritrova sull’omonima compilation della D.J. International Records uscita nel 1986. Un secondo 12″ marchiato con la sigla MBO viene commercializzato, pure in formato picture disc, attraverso la lombardoniana Technology su cui, sempre nel 1987, esce “War… No More” assemblato insieme a David Sabiu. Analogamente a “M.B.O. Liverpool Theme”, la title track incrocia stilemi house a impostazioni eurobeat, “Theme For Peace” è un restyling piuttosto raffazzonato di “Dirty Talk” mentre “House Nation” suona come la versione tarocca dell’omonimo di The House Master Boyz And The Rude Boy Of House, un classico di Farley Jackmaster Funk pubblicato l’anno prima dalla Dance Mania di Chicago.

Midas - One O OneMidas – One O One (DFC)
Dietro il nomignolo Midas si celano Riccardo Persi, Davide Sabadin, Claudio Collino ed Andrea Gemolotto che ritroveremo più avanti in altri progetti. “One O One” sintetizza certe sfumature della house sampledelica britannica con suoni e costruzioni che risentono ancora dell’influsso italodisco specialmente nella Extended Dance Mix. Più filo-house risulta la Reaction Drums Mix, in cui presenzia ancora il sample dell’arcinota “Long Train Running” dei Doobie Brothers ma combinato insieme al suono di quello che pare un organo hammond. Persi & co. incideranno ancora come Midas pubblicando “Nummer Een” nel 1988 e il meglio riuscito “You Make Me Feel So Good” nel 1989, quando la house italiana acquista più personalità e carattere.

PPG - Jack The BeatP/P/G – Jack The Beat (DFC)
P/P/G sta per Persi Previsti Gemolotto, i tre che uniscono le forze per creare il disco in questione. Intervistato anni fa in Decadance Extra, Riccardo Persi racconta il modo in cui giunge alla house, lasciandosi alle spalle l’esperienza coi Krisma e con l’italodisco. «Le major erano ancora legate al concetto di album, io puntavo invece ad incidere dischi mix con etichette indipendenti che velocizzavano molto l’iter, bypassando burocrazia ed attese interminabili dovute al passaggio del pezzo di scrivania in scrivania. Dopo aver creato i Premio Nobel con Claudio Collino e Davide Sabadin, decidemmo di prendere le distanze da quello che era l’andazzo generale della dance italiana. Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, ammiccando pure alla sigla simile DMC. Non a caso proprio in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Il catalogo della DFC è inaugurato da “Jack The Beat”, prodotto nello studio di Gemolotto ad Udine e a cui partecipa Fulvio Zafret come tecnico del suono. Il pezzo segna la fusione tra house ed italodisco: da una parte la classica costruzione ritmica con kick/hihat in levare, snare e qualche vocione a declamare il titolo ammiccando al jack di estrazione chicagoana e ai successi dei J.M Silk, dall’altra un bassline che pare citare quello di “Moskow Diskow” dei Telex, pianate jeffersoniane e qualche scorcio melodico classicamente disco/funk a richiamare “Dancer” di Gino Soccio. Tra ’88 e ’89 il brano viene pubblicato anche all’estero ma il follow-up, “Funky Domanuva”, rimane nell’anonimato. Persi e Gemolotto si rifaranno a partire dal 1989, quando realizzano “Sueño Latino” del progetto omonimo a cui seguiranno svariate altre hit (Atahualpa, Glam, Ramirez) che renderanno la DFC uno dei capisaldi della dance made in Italy negli anni Novanta.

The Jam Machine - Funky (Let's Go)The Jam Machine – Funky (Let’s Go) (X-Energy Records)
Prodotto da Dario Raimondi ed Alvaro Ugolini per la loro X-Energy Records, “Funky (Let’s Go)” mette insieme alcune delle caratteristiche primarie della house diffusasi ai tempi in Europa, un beat in 4/4, un basso avvolgente, qualche breve sample vocale giocato col campionatore ed un paio di elementi melodici. Ad arrangiarlo è Paolo Gianolio, che ha già maturato esperienze in ambito dance collaborando con musicisti di prim’ordine come Celso Valli, Claudio Simonetti (nell’album dei Crazy Gang) e Mauro Malavasi. «Conobbi Dario Raimondi qualche anno prima in uno studio di Cremona dove ci incrociammo in occasione di un lavoro che poi portammo avanti insieme, credo fossero alcuni brani per le Fun Fun» ricorda oggi Gianolio. «Da lì nacque la collaborazione che andò avanti per un bel periodo in cui producemmo diversi progetti, proprio come The Jam Machine, uno di quelli nati davvero per caso. La costruzione di “Funky (Let’s Go)” era basata sul puro divertimento e su idee da cui ne sbocciavano altre. Andavamo avanti a ruota libera, senza alcuna tensione o ansia per il risultato. In quegli anni la tecnologia aiutava fino ad un certo punto, a seconda delle necessità ed esigenze ricorrevamo a trucchi ed artifici. Erano tempi in cui ci si poteva esprimere attraverso varie tipologie di dance ma l’influenza della house mi attrasse per i suoi contenuti. Nonostante le drum machine e i sequencer fossero già molto usati, la house manteneva di fondo una cosa fondamentale, lo swing e il “nervo” musicale che faceva ballare anche le sedie». Non è mistero che in quel periodo più di qualche musicista riserva alla house giudizi tutt’altro che lusinghieri in virtù del fatto che fosse una musica realizzabile anche da chi non in grado di leggere lo spartito. A tal proposito Gianolio sostiene che «leggere lo spartito non significa saper costruire un brano musicale. La dance si è creata il proprio pubblico indirizzando il ritmo sulla semplicità scelta anche da chi, pur non avendo preparazione musicale, ha saputo inventare melodie ripetitive ma accattivanti su ritmi al servizio del ballo. Le buone idee non tengono conto da dove vengono». Nel passato di Gianolio c’è anche la collaborazione con la Goody Music di Jacques Fred Petrus (assassinato proprio nel 1987) in progetti come Change, Silence e The Brooklyn, Bronx & Queens Band – meglio noti come B. B. & Q. Band. Probabilmente una prova più che utile per ciò che avviene in seguito con la X-Energy Records. «L’esperienza che un musicista acquisisce nel suo cammino gli servirà sempre da base per sviluppare il proprio gusto secondo il proprio carattere. Silence ad esempio, che mi portò a collaborare con Celso Valli, mi aprì il mondo della melodia e dell’armonia applicate alle canzoni. Change invece mi ha fatto capire, grazie a grandi musicisti come Davide Romani e Mauro Malavasi, come avvicinarsi alla musica in modo che la musica stessa ti si avvicinasse. La mia vita è trainata dalla musica, l’importante è viverla come mezzo per esprimerla. L’anima è, con o senza sapere, il tramite, il ponte che permette di esprimere al mondo la sensibilità di ognuno di noi» conclude Gianolio. “Funky (Let’s Go)” viene registrato presso il Pick-Up Studio di Reggio Emilia e licenziato all’estero (Canada, Stati Uniti, Spagna, Paesi Bassi) conquistando la presenza in diverse compilation. Dal 1988 il progetto The Jam Machine ospiterà autori a rotazione: a “Graffiti House” lavorano Julio Ferrarin e Gino Woody Bianchi, in “Everyday”, del 1989, figurano invece Corrado Rizza e i cugini Frank e Max Minoia. L’ultimo è “Move On Up” del ’93, cover dell’omonimo di Curtis Mayfield, prodotto dal team della Lemon Records (di cui abbiamo parlato qui) col supporto vocale di Orlando Johnson e Karen Jones.

Yagmur - Ali BabaYagmur – Ali Baba (DFC)
A poca distanza da “Jack The Beat” di P/P/G di cui si è parlato più sopra, Persi, Collino e Sabadin incidono un pezzo contraddistinto da linee melodiche orientaleggianti. All’interno un sample vocale tratto da “Electrica Salsa (Baba Baba)” dei tedeschi Off ed assoli di scratch, “tag” sonora di Gemolotto che allora bazzica il mondo del mixing acrobatico del DMC. L’Extended Dance Mix è più connessa alla new beat che alla house, la Percussion Mix invece lavora meglio il ritmo, anticipando la formula che gli Yagmur presentano in “Woo-Alli-Alli” del 1988, battendo ancora itinerari esotici ed adoperando un sample vocale che si ritroverà più avanti in “We Are Going On Down” dei Deadly Sins.

1988, un anno spartiacque
Dal 1988 in poi la produzione va intensificandosi ma l’impressione è che la house, in Italia, continui ad essere ancora discograficamente battuta con scarsa o inesistente cognizione di causa a supporto di parodie, cloni di successi esteri e brani ironico-demenziali come “C’è Da Spostare Una Macchina” di Francesco Salvi che ricicla la base di “The Party” di Kraze, “Checca Dance” di Gay Forse Featuring D.J. Roby, che canzona Claudio Cecchetto in un quadro di continui riferimenti all’omosessualità, ed “Inno Del Corpo Sciolto” di Toilet Paper, che campiona l’omonimo di Roberto Benigni e semina citazioni per “È Qui La Festa?” di Jovanotti. Per diversi discografici nostrani la house pare una parentesi stilistica più che un ceppo culturale, qualcosa a cui approdare adoperando certi suoni ma ignorandone le origini. Ed ecco sfilare le presunte house version di “Just An Illusion” degli Imagination a firma Marco Martina (arrangiata da Franco Diaferia) e quella di “Jesahel” dei Delirium. Persino la blasonata Irma Records ha, come racconta Vittorio “Vikk” Papa su Orrore A 33 Giri uno scheletro nell’armadio: “Tombao Meravigliao”, brano che ironizza sullo sciatore Alberto Tomba in una delle sue stagioni più fortunate, facendo il verso al “Cacao Meravigliao” di Renzo Arbore (dal programma tv “Indietro tutta!”). Nulla di house al suo interno ma vale la pena soffermarsi su uno degli autori, Cesare Collina, un paio di anni dopo all’opera con Kekko Montefiori e Flavio Vecchi su Key Tronics Ensemble, diventato uno dei vessilli della italo house. Il 1988 è anche l’anno in cui Lorenzo Cherubini conduce, su Italia 1, il programma “1, 2, 3 Jovanotti”, imponendosi al pubblico dei giovanissimi grazie al primo album, “Jovanotti For President”, un mix tra hip hop all’italiana, pop e qualche riferimento house. Il mercato però necessita ancora di tempo, e a testimonianza di ciò è utile ricordare che uno dei top seller italiani del 1988 è “Faccia Da Pirla” di Carlo Marchino alias Charlie. Segue l’analisi di produzioni nostrane targate 1988, a cui se ne potrebbero aggiungere altre in futuro.

49ers - Die Walküre49ers – Die Walküre (Media Record)
Sulle ali dell’entusiasmo per il successo internazionale raccolto con “Bauhaus” di Cappella, Gianfranco Bortolotti lancia un altro progetto che farà la fortuna della sua casa discografica. Col nome ispirato dalla squadra di football americano, i San Francisco 49ers, crea i 49ers che traghettano nuovamente la Media Record, prossima a trasformarsi nella definitiva Media Records, all’attenzione generale. A livello di concept, 49ers potrebbe essere considerata l’evoluzione di un altro progetto bortolottiano di qualche anno prima, Superbowl, anch’esso intrecciato al mondo del football. Indizi evidenti si palesano sulla copertina del singolo “Oé – Ooh” del 1985, dove il nome 49ers appare su uno dei due elmetti, insieme alla ristilizzazione del logo della squadra stessa con le iniziali del produttore bresciano. «Effettivamente tra Superbowl e 49ers c’era una certa continuità dettata dalla mia passione per il football americano» rivela oggi Bortolotti. «Dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti dell’Ovest, tornai talmente entusiasta per le prodezze di Joe Montana, quarterback dei San Francisco 49ers originario di Brescia e coi parenti che vivevano poco distanti dalla casa dei miei genitori, da dedicare un disco al Super Bowl. La mia passione per il football americano non si spense in tempi brevi, continuai a seguire per anni le avventure dei San Francisco 49ers e quando possibile, durante i miei viaggi negli States, cercavo di non mancare mai alle loro partite. Quando scoprii l’origine del nome della squadra, che rimandava ai cercatori d’oro del ’49 del secolo precedente, pensai di adottarlo per un nuovo progetto. Immaginando che una grande hit discografica fosse la mia miniera d’oro, ne auspicai lo stesso vantaggio». “Die Walküre”, assemblato insieme a Pierre Feroldi, mescola parecchi sample presi da brani più o meno noti, come “I.O.U.” dei Freeez e “Papa’s Got A Brand New Pigbag” dei Pigbag, e viene pubblicato in numerosi Paesi, anche extraeuropei. Tra i risultati più esaltanti l’ingresso nella top 20 dei singoli in Francia. «Effettivamente lì funzionò particolarmente bene ma lo licenziammo, più o meno, in tutto il mondo. L’house music stava esplodendo. Da sempre feroce ascoltatore di musica classica ed opera, presi in prestito il titolo in lingua tedesca da uno dei quattro drammi di Richard Wagner di cui ammiravo lo stile innovativo, sempre orientato al nuovo e all’eccezione. Sentendomi in qualche modo (ovviamente con le super dovute distanze e rispetto!) come Wagner, per l’innovazione che sostenevo con la house music, “Die Walküre” mi sembrò il titolo più adatto allo scopo». A supporto del brano viene girato un videoclip in cui l’immagine del gruppo è rappresentata da Josy Gil Persia, che però non copre alcun ruolo all’interno del progetto. «All’inizio dell’avventura eravamo ancora impreparati nella ricerca del talento e, come avveniva solitamente negli anni Ottanta, “usammo” anche noi una artista col solo scopo di sostenere la canzone in un video. Qualche anno dopo iniziai a scommettere sui DJ con la Heartbeat, strategia per supplire alla mancanza di rockstar nel territorio della musica da discoteca» conclude Bortolotti. La storia dei 49ers prosegue l’anno seguente con “Shadows” e soprattutto “Touch Me”, dove elementi dell’omonimo di Alisha Warren ne incrociano altri presi da “Rock-A-Lott” di Aretha Franklin e contribuiscono a rendere l’italo house un fenomeno d’esportazione, insieme a gruppi come Black Box, FPI Project, Double Dee e Sueño Latino. Sarà la britannica Ann-Marie Smith, che sostituisce la temporanea presenza di Dawn Mitchell, a dare voce al resto della discografia e a rappresentare l’immagine del gruppo negli anni a venire, quando il successo sarà altalenante ma arricchito da un ricco parterre di blasonati remixer house tra cui Masters At Work, E-Smoove e Maurice Joshua.

Abel Kare - AllallaAbel Kare – Allalla (Out)
Roberto Zanetti, che brilla nel ruolo di interprete nel firmamento italodisco come Savage, è il Robyx che produce il pezzo in questione per la Out di Severo Lombardoni. La versione principale è la Afro-Acid Version che è una summa di influenze new beat ed house. All’interno l’artista sovrappone ritagli vocali e ritmici assemblandoli con la metodologia sdoganata dai britannici. In mezzo a varie citazioni (l’urlo di “Jesus Loves The Acid” di Ecstasy Club, un bassline che ricorda il riff di “It’s More Fun To Compute” dei Kraftwerk) piazza anche una pianata che strizza l’occhio a quella di “The Party” dei newyorkesi Kraze, brano che Zanetti coverizza proprio nello stesso anno per un’altra etichetta della Discomagic di Lombardoni, la Technology, firmandola Rubix. In parallelo incide “Me Gusta” nelle vesti di Raimunda Navarro, lasciandosi affiancare dalla cantante Paola Bonini (la Paula Evans di “Ciao”, 1989). Il tutto prodotto nel Casablanca Recording Studio a Massa Carrara, lì dove nasceranno le molteplici hit milionarie della sua DWA.

Amadhouse - Shock Me AmadhouseAmadhouse – Shock Me Amadhouse (Memory Records)
Affiancato da Alessandro Cardini, Damiano Prosperi realizza questo brano per la Memory Records di Parma che riesce a licenziarlo in Svezia, Germania e Grecia. “Shock Me Amadhouse” è fondato su ingenui strimpellamenti sampledelici sequenziati su una linea di basso ispirata da “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders. Il titolo e l’alias sono un gioco fonetico che rimanda ad una delle più note sonate di Wolfgang Amadeus Mozart, il rondò “alla turca”, risuonato all’interno della traccia in uno smaccato “Bontempi style”.

B.C. - HousebadB.C. – Housebad (Soundtrack Record)
“Housebad” è una traccia che nella sua essenzialità rammenta molto la schematizzazione della house prima maniera di Chicago, con quell’asciutto minimalismo tra ritmi programmati con drum machine ed il virtuoso basso funzionale nei club. Un altro rimando alla house d’oltreoceano pare rimarcato pure dal titolo di una delle due versioni, Bam Bam, omonima del Bam Bam (Chris Westbrook) della Westbrook Records. Non mancano ovviamente dei sample tra cui quelli di “Bad Girls” di Donna Summer e “Le Freak” degli Chic. Ad assemblare il tutto sono Andrea Baratella ed Orlando Bragante che per la loro prima esperienza discografica decidono, come si è soliti fare allora, di inglesizzare i loro nomi in Andrew Bratley e Roland Brant. «Tradurre in inglese i nostri riferimenti anagrafici servì sia a dare una parvenza estera al prodotto, sia ad evitare di “bollinare” tutti i dischi col marchio SIAE, giacché ai tempi i vinili provenienti dall’estero erano esenti da tale procedura» rivela oggi Bragante. «La Soundtrack Record, di mia esclusiva proprietà, fu la prima etichetta che creai, nata esclusivamente per la produzione di musica dance appartenente al cosiddetto circuito di “tendenza”. La utilizzai per una decina di produzioni e rimase attiva per soli tre anni. Registrammo “Housebad” con un otto piste della Fostex e lo masterizzammo sul classico Revox a due piste. I suoni provenivano da un Roland JX-8P, un Ensoniq Mirage (il primo campionatore disponibile sul mercato ad un prezzo abbordabile) ed una Yamaha DX7. A questi si aggiunsero due drum machine, una Roland TR-909 ed una Yamaha RX7. Il tutto pilotato da un sequencer Roland MSQ-700 fatta eccezione per la parte della RX7, non quantizzata ma suonata live tramite i pad e registrata su due tracce separate del Fostex per dare una maggiore sensazione di batteria reale. Il brano piacque molto ai DJ e venne suonato parecchio nei club ma ai tempi la house era un genere ancora di nicchia quindi non vendette molto, dalle duemila alle tremila copie circa. Poiché non riscosse il successo desiderato, decisi di abbandonare il progetto B.C. e dedicarmi ad altro: avevo già intrapreso il viaggio verso nuove “frontiere” nell’ambito dell’allora nascente techno». Bragante infatti si ritaglierà spazio nel corso degli anni Novanta con la musica dream/progressive, filone di cui diventa uno dei principali portabandiera.

Beat Kick - Claro Que SiBeat Kick – Claro Que Si (Sunset)
Con un piglio aggressivo quasi new beat, Luca Marci realizza “Claro Que Si” per la Sunset, etichetta affiliata alla Renata Edizioni Musicali di Parma di cui si è già parlato più sopra. Gli elementi che si rincorrono sono gli stessi che compaiono in praticamente tutte le produzioni house del periodo, beat in 4/4 usati come traino per un carico di sample carpiti, senza un filo conduttore ben preciso, da vari dischi noti (come “Situation” di Yazoo) e non, con l’aggiunta di melodie pianistiche appena abbozzate. La formula, chiaramente, non può garantire successo a tutti ma in tanti si buttano nella mischia tentando il grande salto.

Co-Mix Featuring Y-10 - RelaxCo-Mix Featuring Y-10 – Relax (X-Energy Records)
A metà strada tra eurodisco e il tipico “fare house” dei tempi, “Relax”, prodotta dai fratelli Paolo e Pietro Micioni, è la cover dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood del 1983. Con la velocità aumentata rispetto all’originale e con l’aggiunta di una parte rappata realizzata dall’enigmatica Y-10 (un possibile rimando all’omonima automobile della Autobianchi, assai popolare in quel periodo?), il brano gira sulla linea del basso moroderiano carpito ad “I Feel Love” di Donna Summer a cui i fratelli romani intersecano una pianata e qualche velato rimando ad “High Energy” di Evelyn Thomas. A curare l’editing è Gino “Woody” Bianchi che oggi racconta: «In quel periodo lavoravo molto con la X-Energy Records, il mio ruolo principale era fare gli edit in post produzione nel piccolo studio che avevo allestito a casa, con un registratore Revox B77 ad alta velocità ed un paio di multieffetto. In pratica mi portavano i nastri con le registrazioni del pezzo ed io sceglievo le parti “ristesurando” e tagliando il nastro, creando in editing sezioni inesistenti sia su ritmiche che su bassi (un esempio di ciò che facevo lo si può sentire nella compilation “Garage Classics Volume 1”, uscita nel 1989 sempre su X-Energy Records e di cui è disponibile un estratto qui). Anche su Co-Mix il mio intervento avvenne in post production. L’inciso fu campionato paro paro mentre il rap venne registrato lento per poi essere ricampionato, velocizzato ed armonizzato con un effetto. A produrre il tutto furono i fratelli Micioni e il DJ Angelino. Il disco andò abbastanza bene, dai rendiconti appresi che vendette tremila copie, non male per una cover. Nel 1988 uscì pure “Graffiti House” di The Jam Machine (progetto nato l’anno prima e di cui abbiamo parlato più sopra, nda), un pezzo partorito da una mia idea mentre collaboravo con Giulio Ferrarin. Era uscito da poco “The Opera House” di Jack E Makossa e, da amante del sound di Arthur Baker, pensai di rifarmi a quello “schema” con altri sample stile anni Sessanta. Grazie alla bravura di Ferrarin realizzammo il brano in una notte appena. Poi dedicai un’altra giornata al mix e all’editing. Nel mondo discografico stava cambiando tutto radicalmente e velocemente. A tal proposito, un anno particolarmente importante fu il 1987: le ritmiche della LinnDrum e della Alesis HR-16 iniziarono a dare spazio a quelle della Roland e dei campionatori Akai ed E-mu Emulator, mentre i bassi divennero ripetitivi e molto gommosi. Si sviluppò forte interesse intorno ad etichette americane come D.J. International e Trax Records ma un ruolo decisivo lo svolse pure la prima house britannica tipo Yazz, Bomb The Bass e soprattutto la serie di campionamenti su S’Express. Da lì partirono le idee e si sperimentò inserendo il piano ispirato a “Going Back To My Roots” di Lamont Dozier che diede origine alla prima italo house. “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., poi, fu un’assoluta genialata, credo sia stato il brano ad aver aperto la strada ad un sound europeo oltre a sdoganare un modo diverso di utilizzare le macchine (sample e drum machine). Ai tempi la house americana risultava troppo underground per le radio ma i britannici sfruttarono abilmente il concetto di “canzone” inserendolo nel sound house. Forse senza il movimento europeo (Gran Bretagna, Olanda, Italia) l’house music non avrebbe mai preso corpo in maniera consistente ed importante come è effettivamente avvenuto».

Cutmaster-G & The Plastic Beats - Rock On!Cutmaster-G & The Plastic Beats – Rock On! (DFC)
“Rock On!” è l’unico brano (remix a parte) che Andrea Gemolotto firma come Cutmaster-G, nickname con cui ai tempi si fa largo ai campionati DMC. Autentico mosaico di scratch e campionamenti (tra cui l’assolo di chitarra rallentato di “Ain’t Talkin’ ‘Bout Love” dei Van Halen, ripreso tempo dopo dagli Apollo 440 in “Ain’t Talkin’ ‘Bout Dub”), il pezzo pare girare sulla base di “Beat Dis” di Bomb The Bass ed attinge il main vocal da “Rock Party/Smoke On The Water” dei Da Rock, un brano che circola parecchio negli ambienti del turntablism e che a sua volta seziona “Smoke On The Water” dei Deep Purple e dal quale qualche anno dopo il britannico Tinman estrarrà uno dei sample per la sua hit “Eighteen Strings”.

Dalu - Do You Like HouseDalu – Do You Like House? (Memory Records)
La parmense Memory Records di Alessandro Zanni e del compianto Stefano Cundari continua a sondare il terreno della house con questo “Do You Like House?” prodotto dal citato Damiano Prosperi sul modello marrsiano, assemblando un alto numero di sample di estrazione eterogenea (incluso un frammento di “Don’t Let Me Be Misunderstood” dei Santa Esmeralda) sonori e vocali, farcendo il tutto con immancabili tastierate di pianoforte.

DJ Atkins & Sharada House Gang - Let's Down The HouseDJ Atkins & Sharada House Gang – Let’s Down The House (Media Record)
Con “Let’s Down The House” Gianfranco Bortolotti rinnova la direzione stilistica di un progetto partito nel 1984 in seno all’italodisco, Paul Sharada. Al personaggio che presta voce ed immagine ai tempi di “Florida (Move Your Feet)”, “Dancing All The Night” o “Boxers”, Lamott Eugene Atkins (nel 1985 finito nel cast del film “Lui È Peggio Di Me” con Adriano Celentano e Renato Pozzetto) viene ora attribuito il ruolo di DJ. Il lavoro in studio è di Pieradis Rossini e Pierre Feroldi che realizzano due versioni, House Side ed Acid Side, nelle quali montano vari sample (tra cui quello di “Reach Up” di Toney Lee e quello di “Last Night A D.J. Saved My Life” degli Indeep) ed un basso di moroderiana memoria. Nonostante sia l’ennesimo dei pezzi col sampling in stile M.A.R.R.S., Bortolotti lo piazza comunque in tutta Europa, tra Paesi Bassi, Francia, Spagna, Germania, Portogallo e persino nel lontano Giappone. La storia di Sharada House Gang continuerà per i dieci anni successivi con successo alterno. Tra i vari singoli si ricordano “House Legend”, in stile Technotronic, “Life Is Life”, una sorta di cover di “Mary Had A Little Boy” degli Snap!, “It’s Gonna Be Alright”, cantata da Valerie Etienne dei Galliano, “Dancing Through The Night”, col featuring di Ann-Marie Smith dei 49ers, “Keep It Up”, con la voce di Zeitia Massiah, e “Gipsy Boy” a cui abbiamo dedicato un articolo qui.

Don Pablo's Animals - IbizaDon Pablo’s Animals – Ibiza (Meal Power)
Ideato e sviluppato da Christian Hornbostel, “Ibiza” è il primo singolo del progetto Don Pablo’s Animals in cui l’autore mescola e sovrappone tutti gli elementi che in quel periodo portano ad incanalare automaticamente un brano nel calderone della house. Scratch, sample raccattati a mani basse da fonti di varia estrazione (tra cui Chic, James Brown, LNR e Run-DMC) senza ovviamente dimenticare inevitabili pianate. «Appena tornato da Ibiza, totalmente devastato per tutto quello che vidi e vissi – qualcosa di assolutamente rivoluzionario ed avanguardistico per l’epoca, sia dal punto di vista musicale che da quello della moda e del modo stesso di vivere -, pensai di dedicare all’Isla Blanca il disco» racconta oggi Hornbostel. «Lo realizzai al 90% con un campionatore Akai S1000 rubando, saccheggiando ed editando materiale musicale ben oltre il limite della legalità. Se ben ricordo, vendette diecimila copie, un risultato più che ottimo ai tempi per quel tipo di produzioni». “Ibiza” è il preludio di un successo ancora più grande, quello raccolto con “Venus” del 1989 con cui il terzetto della BHF Production (Paul Bisiach, Christian Hornbostel e Mauro Ferrucci) riprende l’omonimo degli Shocking Blue, rinverdito tre anni prima dalle Bananarama, e raggiunge l’ambito palco di Top Of The Pops, lì dove peraltro viene accolto a braccia aperte anche per “Moments In Soul” di J.T. And The Big Family a cui segue, qualche tempo dopo, “I Need You” di Nikita Warren che abbiamo analizzato qui nel dettaglio. «Credo sia necessario puntualizzare un aspetto cronologico importante riguardante i brand Don Pablo’s Animals e J.T. And The Big Family» dice Hornbostel. «Entrambi furono creati da me prima della nascita del team BHF ed inglobati in esso solo successivamente. L’ispirazione per i nomi venne da un famoso negozio padovano di dischi, al tempo di proprietà di Paolo ‘Don Pablo’ Turiaco e del figlio Giovanni. Da qui l’iniziale inglesizzata nella prima lettera, J.T., che stava appunto per il suo nome e cognome. Quasi tutti i DJ dell’epoca fissarono come punto di riferimento il Dischi Arcella, formando quella che loro stessi definirono una “grande famiglia” (Big Family appunto). Qualche anno più tardi, quando fondai la Shadow Productions con Mr. Marvin (di cui abbiamo parlato qui, nda), Giovanni Turiaco tornerà a collaborare con me nei progetti Hortuma (“The Fantastic Bongo Dream”, 1994) e Sacro Cosmico (“Yattosan”, 1995)». A supportare discograficamente “Ibiza” è la Meal Power del gruppo veronese S.A.I.F.A.M. che continua a sfruttare commercialmente il nome quando si trasforma in New Meal Power affidando svariati nuovi singoli di Don Pablo’s Animals (“Birmania”, “Dreadlock Holiday”, “Ganja Party”, “Walking In The Rain”, giusto per citarne alcuni) a produttori differenti. «Se da un lato c’era un’ingenuità positiva che rese possibili azioni folli e coraggiose nell’editing e nel campionamento, cosa comunque di moda ovunque in quel periodo, dall’altro quella stessa ingenuità generò una pessima gestione dei diritti dei cosiddetti “marchi di servizio”, e ciò avvenne da parte della maggioranza dei produttori di allora. È altresì vero che la Meal Power fece semplicemente e legittimamente il proprio interesse, anche perché non mostrammo più intenzione di produrre ancora musica con quel marchio o in quella direzione. Qualche mese più tardi infatti sarebbe partita l’avventura Interdance, sempre con Ferrucci e Bisiach e il contributo di altri produttori come Marco “Lys” Lisei e i fratelli Visnadi» conclude Hornbostel.

El Chico - D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.El Chico – D.I.N.D.O.N.D.E.R.O. (Out)
“D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.” è il primo disco che Marco Bresciani firma come El Chico. Supportato dalla Out di Severo Lombardoni, il noto DJ toscano realizza un autentico potpourri di sample in stile “Pump Up The Volume”, talmente serrato da sembrare più un megamix che un brano vero e proprio. Con la stesso piglio pochi mesi più tardi incide “House Party” a cui segue, nel 1989, “House Music Lovers”, in cui emerge chiaramente l’influenza di altri act italiani che raccolgono successo internazionale (49ers, Black Box, FPI Project). Bresciani, già coinvolto nel progetto italodisco Radiorama, torna a vestire i panni di El Chico per “Brisa Latina” del ’90, sui binari di una house ormai virata euro.

Gino Latino - comboGino Latino – Welcome (Yo Productions) / Gino Latino – È L’ Amore (Time Records)
A cimentarsi in una manciata di pezzi ammiccanti alla house post M.A.R.R.S. è pure un giovane Lorenzo Cherubini, prodotto da Claudio Cecchetto sulla sua Yo Productions: “Welcome” prima e “Yo” poi bazzicano suoni e ritmi che allora segnano una cesura dalla più classica italodisco, portando avanti un collage tra hip hop, funk, new beat ed hip house. Entrambi vengono licenziati all’estero (Gran Bretagna e Stati Uniti compresi, rispettivamente dalla blasonata FFRR e dalla Harbor Light Records) e sono firmati come Gino Latino, pseudonimo usato contemporaneamente da un artista “house friendly” di una casa discografica diversa, la Time Records di Giacomo Maiolini (per tutti i dettagli in merito si veda qui).

Horn & Art - Action! (The Cock)Horn & Art – Action! (The Cock) (Meal Power)
Lasciata alle spalle l’esperienza nell’italodisco/rock dei Fard (“Chiamami Da Tokyo”, 1984, “Flash, Running Into The Night”, 1986, entrambi editi dalla EMI) , Christian Hornbostel approda alla house che, tra 1987 e 1988, inizia a scardinare le certezze che le compagnie discografiche ripongono ancora nella canonica “disco dance all’italiana”. «Per me il passaggio dall’italodisco alla house avvenne in modo molto naturale, conseguentemente allo sviluppo della musica da discoteca e alla mia attività da DJ» ricorda oggi Hornbostel. «Le prime “club edit” presenti sui dischi furono uno stimolo ed un’ispirazione molto forte per iniziare ad interpretare la produzione musicale in un modo inedito, con suoni ed arrangiamenti orientati verso il genere house, allora del tutto nuovo». “Action! (The Cock)”, prodotto insieme a Max Artusi (artefice, qualche anno più tardi, di “What’s Up” di DJ Miko), è una traccia-collage con cui i due si cimentano nel sampling assemblando funk e disco a matrici house, usando come collante sia un campione vocale di “Get Up Action!” degli olandesi Digital Emotion, sia il canto di un gallo, cinque anni prima rispetto ad “El Gallinero” di Ramirez. Ecco spiegata quindi la ragione del titolo. «A quel tempo ero spesso in studio da Artusi col quale lavoravo in una radio regionale. Lui era un esperto di campionatori (parliamo dell’era dell’Akai S1000) e un giorno mi fece sentire delle cose divertenti ed interessanti che stimolarono la mia curiosità goliardica in modo così determinante da mettermi subito a cercare qualcosa di sorprendente, un suono che potesse colpire con violenza l’attenzione dell’ascoltatore. Optai per il chicchirichì del gallo, ovviamente circondato con suoni house». Il 12″ esce sulla veronese Meal Power, la stessa che pubblica altri dischi di Hornbostel e dei suoi soci della BHF Production come “Ibiza” di Don Pablo’s Animals di cui si è parlato poche righe fa.

House Force - Pig HouseHouse Force – Pig House (S.P.Q.R.)
Sebbene Discogs riporti il 1986 come data di pubblicazione, il disco in questione esce due anni più tardi su una delle tante etichette affiliate alla Best Record di Claudio Casalini. Lo stile anticipa gli stilemi che diventeranno classici dell’italo house, con assoli di piano in evidenza corredati da sample vocali. Autore è Giovanni Cinaglia, meglio noto come Cinols, che oggi racconta: «Cominciai a mettere i dischi nelle radio locali nel 1977. Il periodo storico era meraviglioso per funk e disco ma con l’avvento dell’elettronica, ad inizio degli anni Ottanta, la qualità e soprattutto la carica emozionale della dance cominciò a perdere colpi. Evidentemente questa sensazione si diffuse anche e soprattutto negli States tant’è che, già nel 1985, in alcune discoteche i DJ iniziarono a suonare musica “fatta in casa” con le drum machine della Roland. Il fenomeno prese piede velocemente e l’anno successivo uscirono tantissimi dischi house che fortunatamente arrivarono anche in Italia. Per me fu la svolta ma era ancora presto per proporre al pubblico un’intera serata di house music che vedrà la sua totale affermazione nel nostro Paese durante il 1987. Ad attrarre la mia attenzione furono specialmente DJ/produttori americani come Todd Terry, Ralphi Rosario, Marshall Jefferson, Farley Jackmaster Funk, Steve ‘Silk’ Hurley ma pure alcuni britannici come Coldcut e Simon Harris. In quel periodo diversi DJ nostrani si misero in gioco per produrre un disco. Nel 1988 volli provare pure io e così realizzai “Pig House”. Ai tempi non possedevo campionatori, sequencer e tastiere, avevo solamente una batteria elettronica Roland TR-909, quindi fui costretto ad affidarmi ad uno studio di registrazione esponendo le mie idee al tecnico di turno che fino al nostro incontro non aveva mai sentito parlare di house music. Non fu facile entrare in sintonia con lui. Insieme alla mia TR-909, ruolo di protagonista lo giocò l’Akai MPC60: oltre ad essere utilizzato come sequencer, ebbe la funzione di campionatore con cui elaborammo sample di batterie elettroniche, bassi e voci. Quelle femminili le registrammo in studio ma non rammento da dove fu estrapolato l’eins zwei drei vier. Per i suoni usammo un Roland D-50 e un paio di expander tra cui il Roland D-550. Era presente anche un bel Lexicon 480L, appena giunto sul mercato, destinato alla riverberazione. Il mixer invece era un Soundcraft di cui non ricordo più il modello. Per completare il pezzo impiegammo circa quindici giorni. Non so esattamente quante copie abbia venduto ma ricordo che riuscii ad andare quasi in pari con le spese sostenute per la sua realizzazione. Adottai come nome House Force per dare subito l’idea di cosa si trattasse ma da lì a breve, visto l’uso esasperato che si fece della parola “house”, decisi di abbandonarlo. Tutte le produzioni che seguirono a “Pig House” furono interamente prodotte presso lo studio che ho allestito alla fine del 1988 e che nel corso degli anni ha subito regolarmente cambiamenti ed aggiornamenti». Dal 1991 Cinols inizia a collaborare con la Media Records per cui produce diversi dischi tra cui “Divin’ In The Beat” degli East Side Beat, “Congo Bongo” di The African Juice, “The Only One” di Base Of Dreams e “Rock House Party” di Theorema.

J.M.B.I. - Snoopy's Count HouseJ.M.B.I. – Snoopy’s Count House (American Records)
Dedicato alla nota discoteca modenese Snoopy Countdown a cui allude chiaramente il titolo e dove, pare, nei primi anni Settanta fece il suo debutto come DJ Vasco Rossi, il brano è l’ennesimo dei “figli” di “Pump Up The Volume”. Ad occuparsi degli arrangiamenti e degli scratch sono i disc jockey Max Gavioli ed Ivan Delisi mentre la produzione è affidata a Roberto Attarantato che pubblica il 12″ sulla sua American Records a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Il tutto registrato presso il B.M.S. Recording Studio di Modena. Sembra che l’idea di partenza sia venuta a Filiberto Degani, ai tempi titolare del locale ed anni dopo coinvolto in guai giudiziari per il fallimento dello stesso come si può leggere qui. In circolazione ci sono almeno tre tirature con altrettante copertine, tutte dedicate all’indimenticata discoteca di Piazza Cittadella di cui si possono scorgere interessanti dettagli tra cui la consolle e parte degli esterni. Nonostante non sia diventato una hit, il brano viene licenziato in diversi Paesi esteri (Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Francia, Canada) e ciò alimenta l’entusiasmo degli autori che, facendo leva sui medesimi elementi, approntano altri due singoli, “Rat In The Movie’s House” e “Snoopy’s Makes 3° (Bloody Hell?)”.

Kekkotronix - It's Time To ReliveKekkotronix – It’s Time To Relive (Top Line Productions)
Edito dalla milanese Top Line Productions, “It’s Time To Relive” è un brano non propriamente ascrivibile alla house in senso stretto, seppur contenga alcuni elementi che ai tempi lo rendono appetibile per coloro che prediligono programmazioni inclini alla house con dilatazioni afro/baleariche. Le tre versioni sul 12″ derivano pressoché dallo stesso materiale ma è la Dangerous Version a rendere meglio l’idea del disegno stilistico effettuato da Kekkotronix ossia Francesco Montefiori, pare coadiuvato in studio da Claudio “Moz-Art” Rispoli. Entrambi vivranno da protagonisti la fase successiva della italo house, quando navigheranno a bordo di una moltitudine di progetti (Omniverse, Outphase, Soft House Company, Key Tronics Ensemble, Soft & Loud Music Enterprise, TFM, Jestofunk, Double Dee) supportati dalla bolognese Irma Records. La stessa etichetta pubblica un’altra manciata di dischi che Montefiori firma come Kekkotronics (e non più Kekkotronix) in coppia con Luca ‘LTJ’ Trevisi, “First Job” e “Gimme The Funk”.

Koxo' Club Band - ParadhouseKoxo’ Club Band – Paradhouse (Di-Gei Music)
Registrato presso il B.M.S. Recording Studio e dedicato ad un altro storico locale del capoluogo emiliano, il Koxo’, “Paradhouse” è frutto del lavoro di un team di produzione in cui spiccano due nomi che si faranno ben notare negli anni Novanta, quelli di Lino Lodi e Stefano Mango (Face The Bass, Masoko, Pan Position, Express Of Sound etc). Gli elementi sono i soliti: pianate, bassline meccanico, campionamenti ed ovviamente un trascinante beat che però si ferma ai 110 BPM. Il brano è oggetto di diverse licenze in Germania, Spagna e Regno Unito, aiutato dal remix di Roberto ‘Bob One’ Attarantato che nel 1989 lo ristampa sulla sua American Records. Il singolo successivo, “Makes You Blind”, uscirà proprio sulla American Records. Il sample è tratto dall’omonimo della Glitter Band alternato a frammenti di celebri artisti e compositori (Michael Jackson, Mike Leander, Mory Kanté). Sul lato b trova spazio la pianistica “Drive House” coi sample vocali del paninaro di Drive In, Enzo Braschi.

Ocean In Red - Relax In HouseOcean In Red – Relax In House (Many Records)
Arrangiato da Pasquale Scarfì che matura diverse esperienze discografiche sin dai primi anni Ottanta, “Relax In House” è il brano con cui due DJ dall’identità sconosciuta svuotano un calderone di campionamenti eterogenei su una base di house semplificata e ridotta a pochissimi elementi. Con squarci aperti verso classici pop/rock come “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Another One Bites The Dust” dei Queen ed “(I Can’t Get No) Satisfaction” dei Rolling Stones, la Many Records di Stefano Scalera inizia quindi ad esplorare la house music, prendendo parallelamente in licenza brani come “The Party” di Kraze e “Night Moves” di Rickster.

Piero Fidelfatti - Baila Chico (Acid Version)Piero Fidelfatti – Baila Chico (Acid Version) (Out)
DJ di lungo corso, Fidelfatti incide un megamix bootleg intitolato “Baila Chico Mix” sulla fittizia Easy Dance ideata per parodiare la newyorkese Easy Street. All’interno, tra gli altri, anche Mantronix, M.A.R.R.S. e J.M. Silk. L’ottimo riscontro lo spinge a realizzare anche un singolo, questa volta a suo nome, in scia a “Pump Up The Volume”. Il brano viene assemblato nel Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto, ad Udine, e pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni. Due le versioni, arrangiate col musicista/illustratore Franco Storchi e l’ingegnere del suono Fulvio Zafret: la Acid Version, che a dispetto del nome di acid non ha davvero nulla, allineata ai suoni di “The Party” di Kraze e “Jack To The Sound Of The Underground” del compianto Hithouse, e la Piano Version che prevedibilmente mette in evidenza assoli pianistici. Fidelfatti raccoglierà successo internazionale l’anno seguente con “Just Wanna Touch Me” di cui abbiamo parlato nel dettaglio qui.

Raff Todesco - I Got My MindRaff Todesco – I Got My Mind (RA – RE Productions)
Produttore sin dalla fine degli anni Settanta, Raff Todesco vive in pieno sia l’exploit dell’italodisco, sia quello della house e dell’eurodance. “I Got My Mind”, edito sulla sua RA – RE Productions, è un omaggio/tributo al quasi omonimo degli Instant Funk, “I Got My Mind Made Up” del 1978, di cui vi è un sample all’interno insieme ad un frammento preso da “Hit It Run” dei Run-DMC, del 1986. Il resto è un susseguirsi ritmico affine a quel nuovo genere musicale che arriva dagli States e dalla Gran Bretagna, ben rimarcato dal nome di una delle tre versioni presenti sul 12″, Hause-Hause Version, oltre ad immancabili assoli di piano. «Verso la fine del 1987 le vendite delle produzioni italodisco cominciarono a non essere più soddisfacenti per chi, come me, frequentava il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian, a Gambellara, in provincia di Vicenza» racconta oggi Todesco. «Anche per coloro che avevano la fortuna di produrre in continuazione, lo storico studio della dance col mixer MCI 600 a 32 piste e con strumentazioni d’avanguardia iniziò a pesare non poco per gli elevati costi. Tuttavia a settembre del 1987 decisi di avviare lì un progetto musicalmente innovativo, sull’onda di ascolti maturati attraverso produzioni alternative rispetto alle cose che ero abituato a fare, come “Your Love” di Frankie Knuckles e le pubblicazioni sulla Trax Records. Non avevo ancora le idee chiare sulla strada da seguire musicalmente ma sentivo la necessità di abbandonare sia l’italodisco che l’eurodisco, fino ad allora i capisaldi del mio autorato, e cominciare una nuova avventura musicale e produttiva. Il primo risultato di quella svolta fu proprio “I Got My Mind”, realizzata col vecchio sistema analogico e senza ausilio del computer. Il progetto si fondava sul disegno strumentale creato con la tastiera su cui vennero inseriti vari campionamenti, “suonati” come se fossero uno strumento, attraverso la Korg DSS-1 grazie all’aiuto di Michele Paciulli, ai tempi dimostratore della stessa azienda. Il tema principale del piano invece, che doveva rappresentare un ideale volo nello spazio, fu eseguito con una Korg DW-8000 polifonica. Fu l’unico disco a portare il mio nome come artista sulla copertina e il mio ultimo lavoro ad essere registrato nello studio di Sandy Dian, tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1987. Lo avrei terminato e mixato in autunno inoltrato presso il Summit Studio. Per continuare l’attività da produttore infatti mi trasferii a Milano e in un nuovo studio, il citato Summit Studio di Antonio Summa, a Villa d’Almè, in provincia di Bergamo, i cui costi erano notevolmente inferiori rispetto a quello di Dian. Oltre a Summa, tecnico e bassista, lì conobbi anche il tastierista Sergio Bonzanni col quale avrei collaborato negli anni a seguire. Il Summit Studio era uno studio tradizionale che si poggiava ancora su tecnologia analogica ma in Italia praticamente nessuno, ai tempi, registrava in digitale. All’inizio del 1988 feci veramente una pazzia: tentai di sostituirmi al lavoro del DJ e costruii una song basata su soli campionamenti legati tra loro da una brevissima melodia strumentale. Si trattava di “Magnetic Dance” di T.V.M. (acronimo di Todesco Vaccari Maini), pubblicato dalla On The Road, etichetta che avevo creato qualche tempo prima proprio con Francesco Vaccari e Gigi Maini. Il brano si fondava su una ventina di campionamenti, i più rilevanti erano tratti dal film “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick e da un brano dei Jackson 5, che emergevano più volte durante la stesura. Nonostante le buone vendite, per fortuna non avemmo conseguenze legali. A posteriori la considero una vera follia aver inciso un disco con sample di quel tipo senza regolari autorizzazioni! Nel 1988 uscirono anche “Foot Stompin’ Music / Funnyhouse”, ancora insieme a Vaccari e Maini, ed “I Am” dei Time, un nome risorto dai periodi più rosei della italodisco (quelli di “Can’t You Feel It”, di cui abbiamo parlato qui, nda). In quel caso presi a modello “No UFO’s” di Model 500: usai la Roland TR-808 per la drum e Summa incise il basso col suo Fender Precision. La voce invece era di Eleonor, una cantante di un gruppo rock, e non mancavano vari campionamenti, scratch e clap così come voleva la tipologia house di allora. La melodia però era tipica del modello disco, imprinting della nostra italica memoria musicale. Soltanto alla fine del 1989 incominciai, nel nuovo studio allestito da Sergio Bonzanni, le produzioni digitali con la tecnologia computeristica».

Rhythm Station - Let's Clean Up The GhettoRhythm Station – Let’s Clean Up The Ghetto (Technology)
Cover dell’omonimo dei Philadelphia International All Stars, il brano in questione viene approntato nel Lumiere Studio di Milano dai componenti della Big Business Orchestra (tra cui si cela il poliedrico Fred Ventura) che nello stesso anno incidono “Big Business”. Nel 1990 nei negozi arriva il secondo singolo, “Don’t Stop”, registrato presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. Il tutto supportato da Severo Lombardoni.

Risen From The Rank - Sampler '83Risen From The Rank – Sampler ’83 (Media Record)
Nato nel 1985 con “AIDS” (la cui base viene riadattata per “America” due anni dopo), Risen From The Rank è uno dei tanti progetti scaturiti dalla fervida immaginazione di Gianfranco Bortolotti. Sull’onda di “Bauhaus” di Cappella e “Die Walküre” dei 49ers, di cui si è già detto più sopra, l’imprenditore bresciano pubblica “Sampler ’83”, altro collage di sample in stile “Pump Up The Volume”, in cui spiccano frammenti di “Last Night A DJ Saved My Life” degli Indeep, ma con meno potenzialità commerciali. «Era uno dei brani che facevano parte, insieme ai menzionati Cappella e 49ers, alle prime esperienze della house music, del campionamento, dell’organizzazione di una nuova metodologia di lavoro nei nuovi home studio che mi inventai e che poi furono perfezionati e copiati in tutto il mondo. Un gradino che ci avrebbe portato in cielo, proiettati verso il successo mondiale» dice oggi Bortolotti. «Seppur molto simile a “Bauhaus”, le vendite furono inferiori ma lo scopo non era eguagliare i risultati economici bensì testare nelle discoteche prodotti di quel tipo e cercare la formula giusta per il nuovo Cappella». Sempre nel 1988 esce “Ecstasy”, prodotto da Pieradis Rossini e Pierre Feroldi, poi diventato “Fantasy” per il mercato estero. «Non volevamo correre il rischio di farlo passare per un’incitazione all’uso della nota droga sintetica. Per noi era un semplice sample e chi mi conosce sa che non ho mai fatto uso di droghe e questo posso giurarlo» conclude Bortolotti. Dal 1990 Risen From The Rank riapparirà solo con l’acronimo R.F.T.R. attraverso vari singoli in bilico tra suoni techno ed house, tra cui “I Need A Fix” (col featuring di Simone Baldo, pochi anni dopo coinvolto nel progetto televisivo TSD) e “Rock Oops”, entrambi prodotti a Padova negli studi della Prisma Records da Valter Cremonini e dal team che da lì a breve crea gli U.S.U.R.A. di “Open Your Mind”. Meritevole di citazione anche il più fortunato “Extrasyn”, arrangiato da Max Persona con la consulenza artistica di Francesco Zappalà.

Rusty - Rusty AcidRusty – Rusty Acid (Dance And Waves)
Mentre esplodono in Giappone come Green Olives con “Jive Into The Night” agganciato agli stereotipi stilistici eurodisco/hi NRG, David Sion, Fulvio Zafret e Sergio Portaluri iniziano a tastare il terreno della house sia come Big House e il poco noto “Don’t Stop The Party”, sia come Rusty, pseudonimo con cui firmano “Rusty Acid”. Il brano raccoglie gli input dei tipici collage sampledelici, con brevi passaggi vocali alternati a qualche melodia bleepy e ai graffi degli scratch, vero leimotiv del DJismo di quel periodo. A pubblicarlo è la Dance And Waves del gruppo bolognese Expanded Music. Più fortunato risulta il singolo seguente, “Everything’s Gonna Change”, edito dalla DFC nel 1989 e licenziato oltremanica dalla Stress Records di Dave Seaman che affida il remix ad una figura chiave della progressive house britannica degli anni Novanta, Sasha. Da lì a poco Sion, Zafret e Portaluri creano il team di produzione De Point con cui mettono a segno diversi successi come “Your Love Is Crazy” di Albertino (a cui abbiamo dedicato un articolo qui) ma soprattutto i brani con cui Afrika Bambaataa aderisce, inaspettatamente e per molti inspiegabilmente, all’italodance, “Just Get Up And Dance”, “Feeling Irie”, “Pupunanny” e “Feel The Vibe”.

Surprise - 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle)Surprise – 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle) (X-Energy Records)
A metà strada tra l’italodisco virata pop/hi NRG e scorci house, il disco riporta in vita l’omonimo dei Gary Toms Empire del 1975. Artefice è Giulio Ferrarin, che qualche anno più tardi fonda la MKS Records, affiancato da Gino “Woody” Bianchi. Maggiormente aderente all’universo house è la traccia incisa sul lato b, “Don’t Stop The Music”. A chiarirlo è il nome stesso della versione, Acid House Mix. «A proporci di coverizzare il brano dei Gary Toms Empire (già rifatto con successo dai Rimshots) fu Alvaro Ugolini, uno dei proprietari della X-Energy Records, e devo ammettere che ci divertimmo molto a realizzarlo. Utilizzammo un piano della Roland ma per poter guadagnare sui diritti d’autore dovevamo produrre una traccia inedita e quindi pensammo di aggiungere qualcosa in stile Trax Records. Prendendo spunto da “Are You Ready” di Rich Martinez e “Don’t Stop The Music” dei Bay City Rollers, un classico per il pubblico della Baia Degli Angeli, il gioco era fatto. Dopo un paio di whisky il chitarrista Marco Scainetti si lanciò a cantare il brano e in appena due giorni completammo il tutto. La X-Energy Records investì molto nei progetti italo house e dopo poco tempo mi avrebbe affidato il remix/rework di “Notice Me” di Sandee. Da lì a breve, inoltre, fui invitato in studio dai cugini Minoia e da Corrado Rizza (mio futuro socio nella Lemon Records/Wax Production) per remixare “Satisfy Your Dream” di Paradise Orchestra ed “Everyday” di The Jam Machine, usciti entrambi nel 1989 e che, a mio avviso, hanno scritto la storia della italo house».

The Hardsonic Bottoms 3 - Do It Anyway You WannaThe Hardsonic Bottoms 3 – Do It Anyway You Wanna (BBAT)
Nati da una costola dei Pankow, gruppo fiorentino che aderisce al movimento industrial, gli Hardsonic Bottoms 3 debuttano col singolo “Do It Anyway You Wanna” che, è bene chiarirlo, non è propriamente house bensì un mix tra EBM e new beat, generi che in quel periodo iniziano però ad essere riadattati dai produttori house europei vista la loro spiccata ballabilità. Tra ’89 e ’90 escono altri due 12″, “Disco Inferno” e la doppia a-side “Jailhouse Shock / Stompxnxtorr” che chiude la breve parentesi danzereccia di Maurizio Fasolo, Enzo Regi e Sergio Pani, supportata discograficamente dalla BBAT, sublabel della Contempo Records.

Considerazioni finali
Sono ormai trascorsi più di trent’anni da quando la house music ha messo piede in Italia. Quello che era un foglio bianco, tutto da scrivere, adesso è diventato un libro, con molteplici capitoli ricchissimi di avvenimenti, nomi, passioni, vite e, purtroppo, anche morti. La house è diventata la colonna sonora di intere generazioni dando vita ad una visione “house-centrica” della musica da ballo. L’housecentrismo come nucleo da cui irradiare idee, soluzioni, intuizioni, emozioni. Per alcuni i primi dischi house prodotti in Italia svilirono pesantemente la sacralità della stessa house music, profanandola e minandone la credibilità con un approccio tipicamente consumistico tanto da restare ai margini della conoscenza collettiva e scarsamente considerati. Per altri invece quelle produzioni, molto spesso dai caratteri oggettivamente naïf, servirono eccome perché gettarono le basi per lo sviluppo della personalizzazione del genere, giunta nel 1989 quando si delineano i caratteri somatici intrinsechi dell’italo house che emerge con forza facendosi notare pure in quei mercati sino a poco prima apparentemente inavvicinabili, come il britannico e lo statunitense. L’Italia avrebbe mostrato i muscoli dimostrando al mondo intero di avere voce in capitolo. Ma questa è un’altra storia.

Giosuè Impellizzeri

* le testimonianze esclusive di questo reportage sono state raccolte tra novembre 2018 ed aprile 2019.

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