Time – Can’t You Feel It (Fly Music)

time - can't you feel it1982: nei cinema arrivano “E.T. l’extraterrestre” e “Blade Runner”, muoiono il pilota di Formula 1 Gilles Villeneuve e la principessa Grace Kelly, viene lanciato il Commodore 64, la nazionale di calcio italiana vince i Mondiali in Spagna, in una fabbrica della Philips viene prodotto il primo Compact Disc. In ambito musicale l’AIDS uccide Patrick Cowley, gli ABBA si sciolgono ed esce “Thriller” di Michael Jackson. Restringendo il campo alla sola Italia e alla “musica da ballo”, sul mercato giunge un disco destinato a lasciare il segno, “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., che pur non sganciandosi del tutto dalla disco e dal funk, introduce l’ossatura di quella che a Chicago diventerà house music. Del 1982 è anche un altro brano che combina suoni elettronici a referenze funky, meno noto rispetto a “Dirty Talk” ma diventato un piccolo cult per gli appassionati, “Can’t You Feel It” dei Time.

Nell’intervista contenuta in Decadance Extra Piero Fidelfatti racconta che l’idea di realizzare questo disco nasce negli studi di un’emittente radiofonica dove incontra il suo futuro partner della produzione, Raffaello ‘Raff’ Todesco. «Effettivamente lavoravamo entrambi a Radio BCS, a Sottomarina di Chioggia, io come responsabile dei programmi dell’emittente che aveva una diffusione regionale in Veneto, Friuli, Slovenia e Croazia, e Piero come speaker» racconta oggi Todesco. «Già da qualche anno, dal ’78 circa, maturava in me la voglia di realizzare le idee musicali che mi frullavano in testa ed avevo deciso di lavorare in radio proprio per formarmi musicalmente nei vari generi. Venivo da esperienze con gruppi ed artisti anche piuttosto importanti (ero autore nello studio di Alberto Testa in Galleria del Corso a Milano, compositore di “Ti Accetto Come Sei” cantato da Mina ed avevo stretto amicizia con Lucio Battisti) ma con l’avanzare degli anni ambivo a diventare produttore e responsabile delle mie idee musicali. Ne parlai quindi con Fidelfatti che ai tempi aveva un negozio di dischi (il Disco Club a cui abbiamo dedicato spazio nel citato Decadance Extra, nda) ed era responsabile, in Veneto, dell’AID – Associazione Italiana Disc Jockey – di Renzo Arbore e Gianni Naso. Inoltre l’amicizia con Mario Percali e la frequentazione della sua casa a Lonigo, in provincia di Vicenza, in concomitanza con le esperienze nei gruppi di cui lui era il tastierista, risolveva il problema dello studio di registrazione. Il team che si venne a creare quindi era composto da me, ideatore della produzione e melodista, Percali, esecutore, strumentista ed arrangiatore, e Fidelfatti, responsabile delle forme ritmiche, pubblicazione e divulgazione del prodotto. Il mixaggio veniva effettuato alla presenza di tutti noi. I tempi erano maturi e quindi optammo per il nome Time, che peraltro coincideva esattamente col genere da noi scelto, la dance.

Incidere un disco nel 1982 però era un grosso problema. Le mie conoscenze a Milano, dove c’era il fulcro di quel mondo, erano limitate al pop italiano e quindi del tutto inutili per ciò che intendevamo fare. Cercavamo un distributore dal respiro internazionale ed io, inoltre, ero contrario a far ascoltare il brano alle etichette discografiche dance già attive, come la Full Time ad esempio, che avrebbero inglobato la produzione tra le loro finendo con l’annullare i nostri propositi iniziali ovvero totale indipendenza sia progettuale che economica. Non trovando ciò che cercavamo fummo costretti ad optare per l’autoproduzione. A distribuire il 12″ sarebbe stata la Gong Records di Salvatore Annunziata (che tra le label conta la Zanza Records su cui esce la citata “Dirty Talk”, nda), a cui riuscimmo ad arrivare attraverso i contatti di Fidelfatti. I costi che ci sobbarcammo per la realizzazione del disco, oltre a quelli dello studio, della copertina, del transfer ed altro, furono notevoli perché la Gong ci ordinò subito 3500 copie. Era un problema non facile da risolvere perché occorreva investire diversi milioni di lire ma credere in se stessi supera ogni cosa. Se avessimo cercato una label questi costi non sarebbero stati a nostro carico ma avremmo dovuto rinunciare al controllo della produzione e alla proprietà del master. Decidemmo quindi di aprire una società in accomandita semplice e fondare un’etichetta tutta nostra, la Fly Music».

I Time nello studio di Sandy Dian

I Time (da sinistra Mario Percali, Piero Fidelfatti e Raff Todesco) nello studio di Sandy Dian nel 1984

Come annunciato poche righe fa, “Can’t You Feel It” si colloca in posizione mediana tra musica eseguita con strumenti tradizionali e quella invece realizzata con macchine elettroniche. Ad alternarsi sono pure due voci, la maschile di Glen White dei Kano, la femminile di una certa Jennifer, corista degli Osibisa come ricorda Fidelfatti nella menzionata intervista. «Lo strumento principale per le mie creazioni era la chitarra, nonostante fossi un pessimo chitarrista» prosegue Todesco. «Componevo più mentalmente che attraverso lo strumento, ma la chitarra la trovavo più vicina al mondo dei cantautori che a quello della musica dance. Con Percali al pianoforte però riuscii ad entrare nella giusta dimensione creativa. Correva l’estate del 1981 e la radio era deserta durante le ore notturne. Ne approfittavo per sentire i lati b dei dischi che solitamente erano riempiti con versioni strumentali e proprio su quegli ascolti componevo melodie nella mia testa. I miei artisti preferiti erano Gino Soccio, Giorgio Moroder e Cerrone. Poi strimpellavo la chitarra riassumendo le melodie e correvo a casa di Percali dove gli facevo ascoltare le basi strumentali dei dischi per individuare il tipo di sintetizzatore e di basso da usare. I mesi passarono e giunse il 1982. Auspicavamo un appeal internazionale per la nostra produzione ed iniziammo a ricercare affannosamente una voce femminile. Alla fine fu Fidelfatti, grazie alle numerose amicizie che aveva, ad individuare quella giusta. La voce era di Jennifer, una entraîneuse di colore che lavorava in un night in quel di Verona, un po’ matura di età. Mi disse che aveva cantato, come turnista, “Shame, Shame, Shame” di Shirley & Company, e c’era da crederle visto che la voce, effettivamente, era uguale. Nello studio di Sandy Dian, a Gambellara, si comportò da vera professionista del microfono quindi non credo stesse bluffando. La parte rappata di “Can’t You Feel It” invece venne eseguita da Glen White, già nella scuderia Full Time e noto DJ che scrisse pure il testo.

Il brano lo realizzammo su un mixer Soundcraft, a sedici tracce se ben ricordo, una Korg Trident MKII per bassi e synth, una Yamaha DX7 per altre parti dell’arrangiamento ed un piano elettrico Wurlitzer. La cassa era umana: il batterista Matteo Baggio registrò quattro colpi su un nastro, poi creammo un “anello” e lo facemmo girare su un registratore Revox. I 4/4 vennero quindi incisi in sync per tutta la durata del pezzo. Anche il resto della sezione di batteria fu registrato in presa diretta. Se ne andò un’intera giornata solo per incidere quella parte, percussioni, lanci e rullate escluse. Insomma, eravamo davvero alle fondamenta della dance, puro artigianato. Non ricordo quanto tempo necessitammo per completare tutto ma almeno una settimana. Curammo ogni dettaglio, non potevamo sbagliare il colpo che avevamo in canna».

fildefatti, percali in studio, di spalle todesco e dian al taglio nastri

Piero Fidelfatti e Mario Percali in studio. Di spalle Sandy Dian e Raff Todesco, intenti a tagliare i nastri

Il 12″ esce dunque su Fly Music con la distribuzione della Gong Records ma per il 7″, formato ai tempi molto diffuso, i Time riescono a chiudere un accordo con la CGD. A tal proposito Todesco rivela che fondamentale, ancora una volta, si rivelano le amicizie di Fidelfatti. «Piero era in contatto da tempo col direttore artistico della CGD, Tino Silvestri, i cui genitori abitavano nei sobborghi di Chioggia, la sua città natale. Così andammo insieme in Via Quintiliano, a Milano, per stringere un accordo rapido ed amichevole che avrebbe previsto l’uscita del 7″ attraverso la distribuzione tradizionale. Oltre alle 3500 copie stampate da noi all’inizio, inoltre, la Gong volle ristampare il disco, stavolta a sue spese, infilandolo in una copertina generica di colore bianco. Quella ristampa, non più controllata da noi, contò 1500 copie e quindi alla fine ci pagarono per 5000 copie vendute. Il 7″ della CGD invece vendette intorno alle 15.000 copie. Eravamo all’inizio, ancora inesperti ma fiduciosi e super felici di quanto avessimo realizzato. Piccolo aneddoto: intorno al 2000, nel grande centro commerciale di Carugate, ora Carosello, si vendevano ancora dischi e lì trovai incredibilmente una copia 12″ nuova di “Can’t You Feel It” in una copertina bianca che acquistai immediatamente. Tengo a precisare un’altra cosa: prima di andare in stampa ci rendemmo conto che nei crediti in copertina e sul centrino mancasse il nome di Piero Fidelfatti, che non era autore del brano, ma con l’intento di riconoscergli gran parte dei meriti dell’operazione volli inserire il suo nome come produttore e responsabile del mixaggio».

La splendida copertina che contraddistingue il disco dei Time reca la firma di Franco Storchi. Al centro è piazzato un uomo armato che indossa un casco ma che per metà si rivela essere un androide, una sorta di anticipazione del RoboCop di Paul Verhoeven che, è bene ricordarlo, sarebbe giunto nelle sale cinematografiche cinque anni più tardi, nel 1987. È legittimo pensare ad una potenziale ispirazione o ad un messaggio celato in quell’illustrazione. «Porre l’accento su questo aspetto per me è importante perché mi offre finalmente la possibilità di spiegare la ragione di una copertina che non aveva davvero nulla da spartire col contenuto del brano» puntualizza Todesco. «Un giorno, in compagnia di Fidelfatti, andammo da Storchi per discutere dell’artwork. Franco, suo amico e peraltro pure musicista, abitava a Chioggia ed era un affermato illustratore di disegni di tipo fantascientifico realizzati con l’aerografo, una tecnica particolarmente difficile ed impegnativa. Ci mostrò dei lavori che aveva fatto e fui immediatamente folgorato da uno che ritraeva un individuo mezzo uomo e mezzo robot che puntava una pistola, con una verosimile somiglianza ad una delle classiche pose di Sean Connery. Trovavo quell’immagine meravigliosa per l’immediatezza e, seppur non c’entrasse un tubo col testo di “Can’t You Feel It”, aveva connessioni con la mia psiche. Nel mio immaginario quell’uomo ero io che dovendo sparare un unico colpo (la produzione del disco) non poteva sbagliare perché in tal caso sarebbe finito tutto. Quindi, per non fallire, doveva trasformarsi in un robot ed essere freddo nelle analisi. Un concetto difficile da comprendere per i non addetti ai lavori e molto personale insomma».

A posteriori il brano dei Time viene incasellato, probabilmente per convenzione e praticità, nell’italodisco ma nel 1982 di italodisco non se ne parla ancora e, a dirla tutta, tale denominazione non è stata ancora coniata dal patron della tedesca Zyx, Bernhard Mikulski. Todesco taglia corto: «Io lo definirei semplicemente “dance”. Mikulski non era ancora intervenuto definendo, secondo un criterio meramente geografico, tutte le produzioni nostrane col celebre “italodisco”. Se ben ricordo mentre usciva “Can’t You Feel It” una delle maggiori hit in circolazione era “She Has A Way” di Bobby Orlando, col remix di John “Jellybean” Benitez, il cui synth assomigliava molto al nostro. Questo mi diede certezza di aver centrato il bersaglio. Rispetto al pezzo di Orlando però, quello dei Time aveva una matrice più funk, tipo Gino Soccio».

radio ga ga

La copertina di “Radio Ga Ga” dei Queen (1984): l’ispirazione di Freddie Mercury e soci giunse davvero da “Can’t You Feel It” dei Time, uscita due anni prima?

In tempi più recenti su internet corre voce che “Can’t You Feel It” avrebbe ispirato Freddie Mercury nella composizione di “Radio Ga Ga”. Se così fosse, ciò costituirebbe ulteriore motivo di vanto per la dance made in Italy, bistrattata specialmente qui in patria dove veniva e viene tuttora considerata una parentesi trascurabile e di bassa lega. «Secondo me le assonanze col pezzo dei Queen ci sono eccome, al di là di ogni ragionevole dubbio» sostiene con sicurezza Todesco. «Quando uscì “Radio Ga Ga”, nel 1984, Freddie Mercury o più precisamente Roger Taylor, compositore del brano nonché batterista della band britannica, avevano senz’altro ascoltato “Can’t You Feel It”. Seguendo il mio fiuto da compositore, sento di poter fornire una possibile versione di quanto avvenuto: Taylor preparò la base sulla quale Freddie scrisse la melodia, completamente diversa dalla nostra. Quella base però rivela ben più di qualche similitudine anzi, direi che molte sequenze sono esattamente identiche (tecnicamente fino al ponte e all’inciso). Quali, più precisamente, le assonanze? È subito detto: il giro armonico con gli stessi accordi (solo l’ultimo ha un risvolto terminale diverso), l’appoggio del piano in coincidenza ad ogni cambio di accordo, lo stesso synth, l’atmosfera tipo elicottero creata dalle tastiere, lo stesso svolgimento dell’introduzione ed infine l’uguale filosofia del brano, dance con effettistica di contorno, come piace definirla a me. Aggiungerei anche che “Radio Ga Ga”, in pratica, fu l’unica canzone “dance” dei Queen ed ascoltandola sino a quando entra la voce di Mercury si ha veramente l’impressione di sentire “Can’t You Feel It”. I primi ad accorgersi di queste affinità su YouTube furono proprio gli inglesi, per i quali Queen e Mercury rappresentano il massimo dei massimi, accusandoci di aver copiato da “Radio Ga Ga”. Le date di pubblicazione però rivelano esattamente il contrario e per un paio di anni circa si generò un enorme putiferio tra appassionati e cultori. A me, in verità, la cosa fece molto piacere: essere copiati dai britannici rovesciava completamente la diceria secondo cui gli inglesi creano e gli italiani copiano».

i time, cesare mazzuccato e graziano bressan (nello studio di sandy dian, 1984)

Foto di gruppo nello studio di Sandy Dian, nel 1984: insieme ai Time, oltre al citato Dian, c’è Cesare Mazzuccato e, primo da sinistra, Graziano Bressan

I Time continuano ad incidere altri singoli: l’orlandiano “Shaker Shake” del 1983, “Selling Song” e “Don’t Stop” del 1984 – anno in cui esce anche il primo ed unico album, “Prime Time”, “Love Is The Reason” del 1985, “Holding On To Love” del 1986 ed “I Am” del 1988. «È vero che il nome Time continuò ad apparire a lungo sul mercato discografico ma è altrettanto vero che cambiò titolarità di produzione. Nel 1985, dopo la pubblicazione dell’album, la Fly Music si sciolse con l’uscita di Piero Fidelfatti. Io e Percali proseguimmo creando la Ram Productions sulla quale uscì “Love Is The Reason”. “Holding On To Love” ed “I Am” finirono invece sulla RA – RE Productions di mia proprietà. In merito a ciò colgo l’occasione per fornire una spiegazione logica di quanto avvenne nel corso degli anni sui cambiamenti di proprietà delle produzioni e dei relativi master. Ero l’unico del team di partenza a vivere con e per la discografia. Fidelfatti era un rinomato DJ e le serate in discoteca erano parte integrante della sua vita (seppur continuerà ad incidere dischi negli anni seguenti, come raccontiamo qui, nda), Percali aveva un negozio ben avviato da mandare avanti oltre ad uno studio personale per soddisfare le voglie musicali. Insomma, ero destinato a rimanere solo nelle produzioni. Facendo un consuntivo di tutto, credo che il pezzo più fortunato dei Time sia stato “Shaker Shake”, con vendite altissime sia per il 12″ che per il 7″, oltre a varie licenze e compilation. Ritengo fosse il classico brano italodisco, una delle nostre poche produzioni a rispettare i canoni del genere. Il più sfortunato senza dubbio fu l’ultimo, “I Am”. Sono del tutto estraneo invece a “Baby For Love” ed “All Night Long” (usciti nel 1989 rispettivamente per la Out di Severo Lombardoni e la ACV Sound dei fratelli Antonio e Ciro Verde, nda) ma preciso che dopo la chiusura di Fly Music e della Ram Productions sia io che Percali e Fidelfatti rimanemmo proprietari del nome di produzioni ed artisti, per cui Time poteva continuare ad essere liberamente usato da ognuno. Per i due dischi sopracitati del 1989 infatti Percali usò il nome Time, del resto come feci io con “I Am”, ma la cosa finì lì perché era inutile portare avanti un nome ormai obsoletoL’album “Prime Time” rappresentò invece, paradossalmente, la fine di tante cose: del team, dei lauti guadagni e di un sogno televisivo, seppur non per colpa nostra ma di questo preferirei non parlarne».

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La copertina dell’album “Prime Time”, uscito nel 1984: sul fronte il trio che rappresenta l’immagine pubblica dei Time, sul retro la foto degli autori in studio di registrazione

La copertina di quell’album spinge a fare una riflessione: sul fronte c’è un trio composto da Cesare Mazzuccato, Cristina Dori e Michela Bugarella, scelti come immagine pubblica dei Time, sul retro invece si rinviene la foto di un altro terzetto, Todesco, Percali e Fidelfatti, i “veri” Time che materialmente realizzano il tutto. In un solo colpo viene rivelata la consueta pratica, in uso nell’italodisco prima e nell’italodance poi, di affidare l’immagine di studio project a personaggi che talvolta prestano solo la propria presenza fisica e nient’altro. Alla lunga ciò finisce col creare qualche contraddizione dal punto di vista etico anche con serie ripercussioni (a tal proposito si legga questo reportage). “Riposizionare” la musica in ambienti diversi dalla radio, come in discoteca o in televisione, implica delle difficoltà che più di qualcuno pensa di risolvere assoldando affascinanti frontwomen ed altrettanto attraenti frontmen, per fidelizzare il pubblico. «Quella strana situazione si venne a creare nel momento in cui nacque la possibilità di fare serate o passaggi televisivi, apparizioni in pubblico sostanzialmente. Di conseguenza proliferarono gruppi o pseudo cantanti destinati alle sole apparizioni. I Time furono il nostro unico tentativo di “immagine”, per il resto altri artisti da me prodotti come George Aaron (Giorgio Aldighieri), Anthony’s Games (Antonio Biolcati), Hally & Kongo Band (Marco Galli), Jimmy Mc Foy, Barbara Sand o Arthur Miles, sono cantanti sia in studio che nelle esibizioni pubbliche. Ero profondamente contrario ad alimentare situazioni simili che creavano presupposti per diatribe, liti ed invidie, in definitiva spese inutili di vestiario e di immagine per una label che non avesse management e non lucrasse sulle apparizioni live. Ritornando ai Time, le richieste di un book fotografico giunsero quando stipulammo licenze internazionali, avere bei giovani da mostrare al grande pubblico era una prassi. Tuttavia ci tengo a ricordare che nelle foto dei Time apparve pure una cantante “vera”, la riccioluta Cristina Dori che cantò “Selling Song”, “The Wind Is Blowin'” e “Makin’ Love”, oltre ad aver fatto la corista in “Shaker Shake” e “Don’t Stop”. Cristina Dori (che negli anni Novanta interpreta un altro classico della dance prodotta in Veneto, “Move Me Up” degli X-Static di cui abbiamo parlato qui, nda) è ormai una colonna portante di Radio Company e del canale televisivo 7 Gold».

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In alto la copertina di “Somebody” dei Video, in basso quella di “Frenzy Flux” di Water Lilly che nel 2004 duplica (lecitamente?) l’illustrazione di Franco Storchi

Parallelamente a Time, Todesco e soci inventano un altro progetto destinato a restare nel cuore degli appassionati, Video, che debutta nel 1983 con “Somebody”, un piccolo cult venato di riferimenti synth pop. Anche questo esce su Fly Music e viene licenziato in diversi Paesi esteri. Autore della copertina, adoperata nel 2004 da un’etichetta tedesca per “Frenzy Flux” di Water Lilly, è ancora Franco Storchi. «La produzione più importante della Fly Music è stata, senza alcun dubbio, proprio quella dei Video, sotto il profilo economico, di diffusione ed immagine discografica. Basti pensare che gli Eurythmics, in un’apparizione televisiva del 1984, risposero che il loro gruppo italiano preferito fossero i Video, lasciando esterrefatto il cronista che non sapeva nemmeno di chi stessero parlando. Seppur diventato un cult dell’italodisco, credo che “Somebody” non abbia nulla da spartire con tale genere. Tra i miei riferimenti di allora c’erano gli Yazoo ed era mia intenzione comporre un brano di quel genere, dance elettro-rock. Ne parlai con Sandy Dian nel suo studio di registrazione chiedendogli se conoscesse qualcuno con la voce simile a quella di Alison Moyet. Mi suggerì un ragazzo molto giovane, un tale Giorgio Aldighieri alias George Aaron che cantava in stile Elvis Presley. Detto fatto, ad interpretare il brano sarebbe stato lui. Durante il primo giorno in studio si consumò un’amichevole discussione con Mario Percali perché non sentivo l’anima del brano con la tastiera Yamaha DX7. Io davo priorità proprio all’imponenza e all’efficacia di synth e tastiere prendendo Yazoo a modello, ma non eravamo neanche lontanamente simili. Il giorno seguente mi assentai per un motivo che non ricordo più ma l’indomani ad aspettarmi sull’uscio della porta c’erano Mario e il batterista/percussionista Matteo Baggio. Mi invitarono ad entrare e a sentire. Quando Sandy aprì le piste del mixer Sony fui letteralmente investito dai suoni e mi si spalancò il mondo, il mio mondo. Mario aveva cambiato tutto con l’uso di una tastiera a noi sconosciuta che era stata lasciata lì da un gruppo che ci aveva preceduto di qualche giorno. Si trattava di una Elka Synthex. L’impatto sonoro del suono elaborato da Percali fu micidiale e rappresentò la fortuna di “Somebody”. Ad assistere al missaggio, per pura curiosità, c’era anche Daniele Baldelli, noto DJ. Poi col demo inciso su cassetta ci recammo alla Discomagic, che aveva già stampato “Shaker Shake”, ai tempi in Via Friuli, a Milano. Io e Piero scendemmo per la famosa e fumosa scala a chiocciola in ferro e in quello scantinato tipo bunker fummo ricevuti da Severo Lombardoni che era in compagnia di un’altra persona. Durante l’ascolto vedevo Severo particolarmente dubbioso, si aspettava un pezzo simile a “Shaker Shake” ed invece si ritrovava con una specie di elettro-rock con cassa non dritta ma a doppio colpo, in stile rock appunto, con suoni più particolari. Era perplesso e la persona accanto a lui, vista la situazione, intervenne e in un italiano stentato gli disse: “Severo, è mio, è mio!”. Si trattava del direttore artistico della Dureco, grossa casa discografica dei Paesi Bassi, una delle più importanti d’Europa. Tre mesi dopo eravamo quarti nella classifica di vendita olandese ed entrammo nelle chart in Regno Unito, Germania e Scandinavia. A quel punto giunse la richiesta del nastro da due pollici a 24 tracce per un rifacimento vocale e strumentale destinato all’etichetta americana Sleeping Bag Records che pochi mesi dopo lo rimise in circolazione attraverso la versione rinominata “Somebody (Hey Boy)” ricantata da un certo Dyan Buckelew. A mio avviso sia l’operazione che il pezzo erano autentiche “ciofeche”. La Discomagic era alle prime armi nelle relazioni internazionali e gli Stati Uniti, come dimostra questa occasione, alle volte non sono proprio quelli che pensiamo noi. Per giunta ci rimettemmo anche il 24 piste, non più rientrato in nostro possesso. Quello che inviammo oltreoceano era l’originale e noi, stupidamente, non avevamo neanche pensato di farne una copia».

chart olandese (31-03-1984)

La top 40 olandese del 31 marzo 1984: alla sesta posizione c’è “Somebody” dei Video e, per una curiosa coincidenza, alla trentesima “Radio Ga Ga” dei Queen.

A distanza di ormai quasi trentasette anni “Can’t You Feel It” dei Time e “Somebody” dei Video restano brani seminali per la dance che si sarebbe sviluppata in Italia negli anni successivi. Gli autori, del tutto inconsciamente, stavano tracciando delle linee guida la cui rilevanza è stata riconosciuta, a posteriori, a partire dalle prime generazioni di artisti di Detroit e Chicago dove l’italodisco rientra tra gli ingredienti della creazione di techno ed house. Stranamente però, tra i meno riconoscenti e meno attenti alla storia ci sono proprio gli italiani, ancora pronti a denigrare l’italodisco, ricordata la maggior parte delle volte solo per una microscopica parte, quella nazionalpopolare. «Secondo la mia opinione i primi dischi di Time e Video erano piuttosto indefinibili ed imprevedibili, aggettivi che mi sono portato dietro per tutta la mia vita musicale. Cavalcammo l’italodisco specialmente con l’album “Prime Time” ed “Everybody” dei Visions ma nelle altre produzioni la contaminazioni con generi diversi è stata sempre piuttosto evidente. “Can’t You Feel It” penso possa piacere ancora oggi e continuerà a stuzzicare l’interesse in futuro, sia per i cultori che gli ignoranti musicali perché è uno di quei brani prodotti e costruiti in un modo artigianale che ha reso noi autori e produttori italiani unici al mondo nel sistema musicale.

Poco tempo fa, sentendo uno dei brani preferiti del mio repertorio, “Why Why” di Rare Band, YouTube mi ha suggerito l’ascolto di “Tell Me” di Saint Pepsi. Siccome avevo prodotto un pezzo con lo stesso titolo, decisi di pigiare play, anche perché aveva oltre due milioni di visualizzazioni e non era nemmeno provvisto di un video ma di un’immagine fissa. In quel momento ho scoperto che si trattava di una rielaborazione stranissima, rilassante e sognante proprio della mia “Why Why” in chiave vaporwave, moda musicale nata negli States e credo sviluppata soprattutto sul web. Ecco, questo mi piace, essere ricordato a distanza di tanti anni ed offrire ancora spunti creativi ad altri musicisti attraverso ciò che abbiamo artigianalmente costruito con le nostre produzioni decenni addietro. Quindi benvenuti i Sant Pepsi, Roger Taylor o chiunque altro che dà senso alla mia/nostra attività e mi fa capire di non essere esistito inutilmente. Quando iniziai questa professione odiavo molto i network radiofonici che non prestavano nessuna attenzione alle produzioni dance italiane. Provavo molto fastidio che la direzione artistica delle emittenti più importanti non riuscisse a distinguere l’oro dall’ottone e si lasciasse influenzare troppo spesso da aspetti finanziari più che da quelli artistici. Purtroppo il mondo, a distanza di anni, continua a girare in maniera molto diversa rispetto a come lo vorrei io». (Giosuè Impellizzeri)

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