Discommenti (febbraio 2024)

Slowaxx - Shapes Interfusion

Slowaxx – Shapes Interfusion (Broken District)
Si tratta del primo album che Riccardo Chiarucci ha realizzato combinando parti registrate in studio a sessioni live condivise con vari musicisti. Il lavoro è pervaso da atmosfere in perenne bilico tra funk, acid jazz, abstract e broken beat, con punte di straordinaria vitalità e virtuosismi (si senta “Pantere Rosee”, dove le improvvisazioni generano un percorso un filo cervellotico ma decisamente d’impatto). Il featuring del rapper Young A.M.A. decora “Y.B.A” e “No Secret”, costruite tenendo bene a mente l’estetica e il piglio compositivo che marchiò a fuoco etichette come Mo Wax e Talkin’ Loud, “Emoyeni” mette in loop meccanico il rhodes suonato da Luca Sguera, “Femmes” si cala in un mood lounge, ma Chiarucci si supera con “Stazione Funk”, col telaio ritmico ridotto all’osso sul quale si innestano a stantuffo irresistibili pistonate boogie. Il risultato lascia immaginare un’ipotetica jam session tra George Clinton e James Lavelle a indicare la strada di possibili nuove collisioni musicali.

Jimy K - She's Gone Away

Jimy K. – She’s Gone Away (Bordello A Parigi/Giorgio Records)
Diversi mesi fa Massimo Portoghese della barese Giorgio Records ne preannunciò l’uscita proprio attraverso le pagine di questo blog (si legga Discommenti di settembre 2023): a essere riportato in superficie dal buio dell’oblio in cui era piombato è “She’s Gone Away”, un pezzo italo disco prodotto nel 1984 da Rodolfo Grieco e scritto insieme a Naimy Hackett. Uscito ai tempi su Eyes, ora si ripresenta su un 12″ stampato in tandem dalla citata Giorgio Records e l’olandese Bordello A Parigi che, oltre alla Vocal 12″ Version e all’Instrumental 12″ Version, vogliono pure la Vocal 7″ Version, quarant’anni fa destinata alla versione 45 giri. Tutte sono state restaurate dai nastri originali da Tommy Cavalieri presso il Sorriso Studio di Bari. Particolarmente ambito dai collezionisti (nel 2023, attraverso il marketplace di Discogs, è stato venduto per 250 €), “She’s Gone Away” torna dunque a pulsare di vita coi suoi tagli oscuri, orli frastagliati funkeggianti e l’alternanza vocale maschile/femminile.

Ten Lardell - Anterspace 03

Ten Lardell – Anterspace 03 (Anterspace)
Dal 2022 Ten Lardell è apparso sul mercato con la sua pseudo etichetta, l’Anterspace, e dischi simili a white label promozionali. Nessuna info aggiuntiva oltre al numero di catalogo e titoli delle tracce, un’essenzialità tipica di chi è fermamente convinto che la musica sia sufficiente a trasmettere il proprio messaggio. Anche a questo giro il misterioso artista mantiene intatta la comunicazione con una techno/electro di matrice tipicamente drexciyana e di red planetiana memoria, basta poggiare la puntina su “The Far Moog Sector” o “Black Gaze” per capire quali siano i suoi riferimenti. Contorsioni acquatiche sorrette da accordi che squarciano le tenebre si ritrovano pure in “Vibranium Prt 1” mentre “Year 6900” lascia scorrere immagini distopiche di città rase al suolo da orde di robot ribelli. Ma chi opera dietro Ten Lardell? Un giovane talento appassionato o un veterano esperto che gioca a nascondino? Le ipotesi, al momento, restano tutte aperte.

l'oggetto - Musica Da Discoteca Vol.3

l’oggetto – Musica Da Discoteca Vol.3 (MKDF Records)
È tempo del terzo (e pare ultimo) volume per Marco Scozzaro, artista multidisciplinare italiano di stanza nella Grande Mela che dal 2021 veste i panni de l’oggetto, scritto rigorosamente senza maiuscole. L’intento resta quello di trovare un’identità ben definita esplorando e tributando la vicendevole contaminazione che riguardò la house music in un ping pong continuo di influenze tra Chicago, Detroit, New York e… la riviera adriatica italiana. “Aquatico” si muove sotto il pelo dell’acqua, incrociando pesci e vegetazione marina in un caleidoscopio di colori, “Fluido” mette in relazione nervosismi ritmici con rassicuranti pad e sinuose arcature filo acide per un risultato che gioca con perizia sui contrasti, “DeepOrg” solletica l’ascolto con pennellate chiare su fondo scuro, “AltVers” tira il sipario con una serie di soluzioni che sembrano uscire dal catalogo Irma o MBG International Records. Il tutto a 120 bpm, le pulsazioni di un sogno sincronizzato sulla musica della discoteca di un tempo che fu.

The Exaltics - Das Heise Experiment - The Remixes

The Exaltics – Das Heise Experiment – The Remixes (Solar One Music)
Escono su vinile arancione marmorizzato quattro remix di altrettanti brani tratti dall’album “Das Heise Experiment” che The Exaltics pubblicò nel 2013 sulla britannica Abstract Acid. “Dreizehn” diventa “Dreizehn Habits” e rivive per mano degli ADULT. in un trattamento che ripialla la materia ritmica e la interfaccia a rigonfiamenti new wave, “Sieben” viene riletta da Gesloten Cirkel (l’unico remixer qui a non essere nativo di Detroit) in un moto sussultorio con darkismi funerei, “Acht” è ciberneticizzata da K1 (Keith Tucker) e per finire “Zwoelf” rimodulata da Arpanet arpionando atmosfere ambientali e geometrismi post kraftwerkiani. Dedicato ai collezionisti è invece il box set pensato per celebrare il decennale dell’album che contiene, oltre ai remix sopra descritti, la riedizione dell’album stesso in colore bianco, un 7″, un CD, una cassetta, una collection di file, un fumetto, un poster e degli adesivi. Appena cento le copie, già sold out ovviamente.

Dopplereffekt - Infinite Tetraspace

Dopplereffekt – Infinite Tetraspace (Curtis Electronix)
Trincerato dietro Rudolf Klorzeiger, Gerald Donald torna ad animare uno dei progetti più apicali della sua carriera, Dopplereffekt, pietra angolare dell’electro dell’ultimo trentennio, affiancato per l’occasione dalla moglie Michaela To-Nhan Barthel e da una certa Beatrice Ottman. Il disco è diviso idealmente in due sezioni: la prima si muove su materie ritmiche con “Programmable Organism” ed “Entity From Tetraspace”, segnate da riverberi metallici, striscianti bassline, effetti che salgono e scendono a spirale, arpeggi velenosi e un brillante impasto cromatico; la seconda invece si tuffa nelle ambientalizzazioni attraverso “Tachyon Intelligence”, un sogno-incubo, e “Computronium”, immersa in un’atmosfera pensosa e fantascientifica. A pubblicare il 12″ è un’etichetta italiana, la barese Curtis Electronix, che negli ultimi anni si è fatta notare in primis per le produzioni di CEM3340 ma ospitando pure diverse incursioni estere di artisti come Detroit’s Filthiest, Galaxian e DJ Overdose.

Global Goon - Nanoclusters

Global Goon – Nanoclusters (Central Processing Unit)
Sebbene non sia proprio recentissimo, questo mini album che Jonathan Taylor firma col suo moniker più noto non merita affatto di passare inosservato nel diluvio quotidiano di nuove pubblicazioni. L’artista britannico si diverte a flirtare con più riferimenti stilistici, come del resto faceva già negli anni Novanta nelle prime apparizioni su Rephlex. In “Nanoclusters” regna un pulsare dinamico di emozioni, ora rivelate da scuffiate sintetiche (“Khroxic Mould”), poi da irradiamenti dark (“Metallik”), varchi armonici malinconici (“Syntheseers”, “Digit Six”, l’eccelsa “Calcula” che lascia dietro una scia cosmica siderale) e pure sapienti lavori sui filtri che sottolineano i movimenti arcuati dei suoni (“Metro Esc”). Non manca il volo nel freestyle agghindato di funky (“Snapterisk”) e persino un’escursione in madide ruderie in botta hardcore (“Metal Glass”), dalle cadenze ritmiche più accentuate.

Various - You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5

Various – You Can Trust A Man With A Moustache Vol. 5 (Moustache Records)
Analogamente a quanto avvenuto col Vol. 4 del 2022, anche questo quinto atto della serie “You Can Trust A Man With A Moustache” sta destando attenzioni così forti da mandare in sold out la tiratura di 500 copie a pochi giorni dall’uscita e, conseguentemente, alimentare le speculazioni da parte dei venditori privati. Difficile poi capirne poi il perché visto che si tratta di un various dignitoso ma privo di particolari slanci da renderlo un must have. Dentro c’è l’italo disco 2.0 di Tending Tropic (“Hondebrok”), l’electro house che Cafius ha scolpito riciclando il riff di un classico eurodance dei Le Click (“Tonight Is The Night”), la post EBM degli Im Kellar (“Not To Be Compromised”) e per finire una versione sotto steroidi che Adrian Marth ricava dall’eurodisco (“Icon Of The Night”). Un 12″ senza infamia e senza lode, che pare uscito dagli anni che seguirono il boom electroclash.

The Hacker - No Senor

The Hacker – No Señor (Italo Moderni)
Michel Amato non ha mai fatto mistero della sua viscerale passione per la new wave e l’industrial più oscure e tenebrose parimenti a tutta la scuola EBM, e questo disco, uscito da poco sull’iberica Italo Moderni, ne è ulteriore testimonianza. “No Señor” ripesca a piene mani dal campionario di Liaisons Dangereuses, Cabaret Voltaire, No More, Front 242, D.A.F. e soprattutto Nitzer Ebb (mettete su “Let Your Body Learn” e magari provate a mixarli insieme) e l’effetto viene ulteriormente riverberato nel remix di Terence Fixmer, un altro che in tempi non sospetti rimise mano a tutto quel repertorio declinandolo in chiave technoide e ottenendo quella che fu ribattezzata TBM (techno body music). A completare il quadro le due parti di “Me & My Sequencer”: la prima con l’aggiunta di tocchi di matrice dopplereffektiana, la seconda con un piglio ancora più militaresco con vampate di spippolamenti analogici.

Abyssy - Extra Meta

Abyssy – Extra Meta (New Interplanetary Melodies)
È un progetto decisamente sostanzioso quello messo in piedi da Andrea ‘Mayo Soulomon’ Salomoni che torna sull’etichetta fiorentina di Simona Faraone (intervistata qui) con un album, in uscita il 22 febbraio, a cui si aggiungerà un EP il 14 marzo. Mediante un ricco armamentario fatto di intramontabili cimeli che, alla stregua dei migliori whisky, più invecchiano e più diventano ambiti (dai classici Roland – MC-202, TR-808, TR-909, Juno-60 – a Yamaha DX100 passando per Korg MS-10 ed E-mu SP 1200), il compositore bolognese colloca le sue opere in scansioni ritmico-armoniche non convenzionali e si lancia a capofitto in un’avventura che muove più corde dei suoi gusti e sensibilità. Si fluttua su materie gassose e ritmi destrutturati (“Samba Temperado”, “Quantum”, “Vectrex”) ma poi si torna coi piedi per terra per marciare insieme a grovigli di ricordi chicagoani (“Mars Trax”, “Acid Rio”, “A Mixed Feeling”) e poi attivare la connessione con la rivisitazione di stilemi italo disco (“Italodoppler”) ma con l’aggiunta di elementi onirici. Nell’EP Salomoni infonde altre tangibili prove del suo talento, prima disegnando arazzi kraut di göttschinghiana memoria (“Busy Line”, “C3C6”, un possibile omaggio al monolitico “E2-E4”?) e poi rituffandosi nelle atmosfere soleggiate e ridenti di un suono meticcio tra house e italo disco (“Lower Milky Way”). A tutto questo si sommano quattro ulteriori tracce destinate al solo formato digitale, “Supernova”, “Ordinateur Numerique”, “Choices” e “Drumatic”, tra iniezioni di theme music, divagazioni low-fi, esplorazioni ambientali issate su scheletri ritmici e misteriosi tam tam che rompono il silenzio delle oscurità spaziali.

Innershades - Explorer EP

Innershades – Explorer EP (Altered Circuits)
Terza apparizione su Altered Circuits per Thomas Blanckaert che in questo extended play continua a spingere verso l’alto una techno frammista a preponderanti elementi electro. I riferimenti a Detroit si palesano proprio nella title track, “Explorer”, un susseguirsi di lanci melodici e cortine fumogene filo acid su una rete ritmica in sincopi. L’aderenza allo stile della Città dei Motori si rende ancora più evidente in “Aquaculture”, un incrocio tra il primo Atkins su Metroplex e il suono acquatico dei Drexciya e il titolo, in tal senso, non lascerebbe adito ad alcun dubbio. Dallo stesso ceppo il prolifico produttore belga ricava pure “Super 6” e “Unknown Depths”, ulteriori slanci verso quel suono che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha fatto sognare un’intera generazione facendole sentire l’accelerazione del futuro ben prima dell’arrivo di internet, degli smartphone o dell’intelligenza artificiale.

(Giosuè Impellizzeri)

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Thomas Barnett, tra gli alfieri dimenticati della techno di Detroit

Come ogni altro genere musicale, anche la techno ha i suoi protagonisti non celebrati a sufficienza e Thomas Barnett potrebbe essere uno di questi. Nativo di Detroit, debutta quando è solo diciannovenne al fianco di Derrick May per “Nude Photo” di Rythim Is Rythim, secondo disco della Transmat a cui segue, pochi mesi dopo, “I Can Feel It” che realizza nello studio della Metroplex di Juan Atkins a nome Paris. Incomprensioni ed estromissioni autoriali, descritte qui, lo allontanano da May e probabilmente non remano a suo favore, soprattutto sul fronte promozionale. Barnett riappare nel 1992 sulla britannica Infonet di Chris Abbot con “Liquid Poetry” con cui inaugura il moniker Subterfuge, entrato presto nell’orbita di un’altra etichetta europea, l’olandese Prime che pubblica vari 12″ e anche l’album “Synthetic Dream”. Nel ’96 per il detroitiano è tempo di varare la propria label, la Visillusion. Seguono altre produzioni su etichette tedesche, Climax Records, Psycho Thrill, Dreamhunter e Audiomatique Recordings, che traghettano l’artista nel nuovo millennio quando si reinventa ancora come Groove Slave e dà alle stampe nuovi EP con cui tiene viva l’attenzione per la techno che resta, indiscutibilmente, il suo riferimento primario.

01) Thomas Barnett (198x)
Un giovane Barnett negli anni Ottanta

Quando e come la musica è diventata parte integrante della tua vita?
La musica gravita intorno a me fin da bambino. Mio padre mi fece conoscere tutti i generi esistenti ai tempi e in famiglia ballavamo brani come “Love Rollercoaster” e “Fire” degli Ohio Players, “For The Love Of Money” e “I Love Music” degli O’Jays e “Fight The Power (Part 1 & Part 2)” degli Isley Brothers. Earth, Wind & Fire, Harold Melvin & The Blue Notes e Commodores erano praticamente in “alta rotazione” tra le mura di casa Barnett, così come Electric Light Orchestra, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Foreigner e Gary Wright, giusto per citarne alcuni. Poi, quando iniziai a scoprire cose per conto mio, mi imbattei nella musica di Yellow Magic Orchestra, Kraftwerk, Giorgio Moroder, Prince, Cameo, P-Funk All Stars, Rick James e The Gap Band, solo alcuni degli artisti che entrarono nella mia testa negli anni Settanta.

Come hai recentemente rivelato in un post su Facebook, la tua prima esperienza da DJ si consumò nel 1983 presso la Greg & Bud’s Video Arcade, a Detroit: «c’erano lunghe pause tra una canzone e l’altra e visto che ero un frequentatore abituale di quella sala giochi, chiesi di poter selezionare e cambiare la musica. Mi accordarono il permesso e fui pagato in partite gratuite ai videogiochi». Che musica facevi girare? Ricordi pure quali erano i tuoi videogame preferiti?
Quello a cui giocavo di più in assoluto era Robotron mentre sorseggiavo una Faygo Red Pop e mangiavo patatine Better Made aromatizzate alla salsa barbecue. Poi correvo nel retro e mettevo cose tipo “Wordy Rappinghood” e “The Genius Of Love” dei Tom Tom Club, “Let’s Work”, “Sexy Dancer” e “Controversy” di Prince, “Funkytown” dei Lipps Inc., “Private Idaho”, “Rock Lobster” e “Mesopotamia” dei B-52’s, “Trans-Europe Express” e “Numbers” dei Kraftwerk, “Flashlight” dei Parliament, “One Nation Under A Groove” dei Funkadelic…

Nasci e cresci a Detroit, un luogo dove, a detta di tantissimi, l’italo disco ha ricoperto un ruolo centrale per i DJ e i produttori della città, analogamente a quanto avviene a Chicago negli anni immediatamente precedenti alla nascita di house e techno. Anche tu hai stretto un rapporto con la musica dance esportata ai tempi dai confini italiani?
In quegli anni ero ancora giovanissimo, i miei genitori non mi permettevano di uscire di casa durante le ore notturne o frequentare le discoteche. L’unica connessione che avevo con quel tipo di musica derivava dalle cassette registrate che ci si passava tra amici e dai programmi mixati trasmessi in radio, tipo quelli degli Hot Mix 5. Tra gli artisti che apprezzavo di quel filone c’erano Gino Soccio, Alexander Robotnick (intervistato qui, nda), Klein & MBO, A Number Of Names e ovviamente Giorgio Moroder. Mi piaceva molto quel suono perché per me colmava il divario che si era creato tra la disco e l’elettronica che amavo in quel periodo.

Quando inizi invece a creare la tua musica, e che tipo di strumenti hai adoperato per ricavare le prime demo?
Cominciai a dilettarmi nella prima adolescenza con tastiere Casio e batterie Synsonics prima di passare a strumenti tipo Korg Poly-800 e Roland SH-101, quando avevo circa sedici anni. Si trattava dell’attrezzatura condivisa con Russell Rice, un amico che viveva nel mio stesso quartiere e col quale avevo allestito un piccolo studio nel seminterrato dei suoi genitori. In un primo momento potemmo contare sul supporto di un batterista un po’ più grande noi ma quando si iscrisse all’Università fummo costretti a procurarci una drum machine. Non ricordo quale fosse esattamente ma senza ombra di dubbio qualcosa di davvero basico e soprattutto priva di suoni che ci piacessero davvero.

2) Paris - I Can Feel It
“I Can Feel It” di Paris, il brano che Barnett realizza nello studio della Metroplex di Juan Atkins e pubblica nel 1987 pochi mesi dopo “Nude Photo” su Transmat

Nel 1987 esce “I Can Feel It” che firmi con lo pseudonimo Paris affiancato da Juan Atkins come ingegnere del suono. Cosa ricordi di quel disco, recentemente ristampato dall’italiana Omaggio?
Conobbi Juan Atkins attraverso Derrick May che gli affidò il lavoro di editing di “Nude Photo”. Juan mi informò che stava noleggiando lo studio della Metroplex e ne approfittai per lavorare lì su alcuni demo: “I Can Feel It” di Paris fu uno di quelli. Una volta pronto, mi proposero di pubblicarlo su Metroplex ma decisi di provarci in modo autonomo con un marchio creato per l’occasione, Tomorrow, perché ritenevo di aver capito come fare dopo l’uscita di “Nude Photo” su Transmat. Probabilmente avrei dovuto lasciare che Atkins e la Metroplex si occupassero di tutto, col senno di poi non avevo la benché minima idea di cosa stessi facendo. Avevo appena diciannove anni ed ero molto inesperto quindi commisi tanti errori in fase di promozione. L’equipment usato per “I Can Feel It” era decisamente elementare, una tastiera Yamaha DX7 II FD per il basso, i suoni di sintetizzatore e i gli archi, batterie Roland TR-808 e TR-909 per le ritmiche. Scelsi di chiamarmi Paris perché, banalmente, mi sembrò un nome cool.

Curiosamente il numero di catalogo del disco in questione era TB 002, che fine fece lo 001?
Non è mai esistito: volevo si generasse un po’ di curiosità e interesse per quella pubblicazione laddove qualcuno si fosse accorto di quel piccolo dettaglio.

03) Nude Photo
I “Nude Photo” su Prime (’93) e Finale Sessions Limited (’18), due tentativi per rivendicare la paternità del brano da cui Barnett viene esautorato

Pochi mesi prima di “I Can Feel It” di Paris, su Transmat esce il citato “Nude Photo” di Rythim Is Rythim che realizzi insieme a Derrick May. Che relazione c’era col “Nude Photo” edito a tuo nome dalla Prime nel ’93, utilizzato anche per veicolare in copertina tutta una serie di ricordi e avvenimenti legati alla genesi della traccia del 1987?
Quel disco conteneva due nuove versioni, My Nude Photo e Your Nude Photo, che realizzai nel 1991. A completamento c’era “Death Of Love (The Nude Photo Opera)” (finita anche nella tracklist di “Synthetic Dream”, album che Barnett firma Subterfuge e di cui si parla nel dettaglio più avanti, nda) nata con l’intento di offrire una visione più trippy e poco ortodossa del tema della traccia originale.

Nel 2018 invece la Finale Sessions Limited ha pubblicato un nuovo “Nude Photo” che contiene pure un remix di Chez Damier.
Mi convinsi a lavorare col compianto Michael Zucker della Finale Sessions per approntare un’uscita che finì per l’appunto su Finale Sessions Limited. Lì dentro, tra le altre, c’erano “Original Day” ispirata dagli albori dell’uomo e al lontano passato della Terra, e “Berlin Nights In Paris / Made In Detroit“.

Come mai dopo le uscite del 1987 hai interrotto la creazione di musica per qualche anno?
In realtà non mi sono mai fermato, ho continuato costantemente a comporre musica ma non pubblicandola. La situazione si sbloccò nel momento in cui Eddie Fowlkes mi diede alcuni consigli e così, a partire dal 1992, approdai su etichette europee come la britannica Infonet e l’olandese Prime.

Perché ricominciasti dal Vecchio Continente?
Le etichette di Detroit non disponevano del denaro sufficiente per pagare gli anticipi, cosa che invece erano solite fare quelle europee, così cedetti la mia musica a chi potesse retribuirmi il giusto compenso.

Sono in tanti (me compreso) a considerarti uno degli eroi della techno di Detroit non celebrati abbastanza. Oltre a Blake Baxter, James Pennington, Art Forest e Cliff Thomas che menzionasti in questa intervista del dicembre 2020, credi ci siano altri pionieri che possano rientrare nella categoria dei cosiddetti “unsung heroes”?
Di sicuro Detroit ha i suoi eroi non celebrati ma per me è difficile fare nomi non sapendo chi si stia facendo notare e chi no. Un vecchio proverbio afferma che “ogni cane ha il suo giorno”, sono certo che tutti coloro che si impegnano a fare qualcosa, prima o poi verranno ricompensati dalla vita.

04) Thomas Barnett (1993)
Thomas Barnett in uno scatto del 1993

Proprio negli anni in cui inizi a collaborare con le etichette europee, la techno esplode come fenomeno commerciale e ciò genera inevitabilmente una pletora di produzioni. Molte di queste però perdono l’imprinting iniziale e finiscono per andare ben oltre il concetto originario di techno contribuendo alla creazione di un nuovo ceppo stilistico basato perlopiù sulla codificazione sonora. Ritieni dunque esista una techno “vera” e una “falsa”? È giusto, come alcuni asseriscono, parlare di techno solo in riferimento a quella prodotta a Detroit?
Secondo me la techno non ha mai perso nulla anzi, continua a crescere contagiando un numero sempre più grande di persone in tutto il mondo. Non mi lascerei ingannare da chi sostiene ci sia un “vero” e un “falso”, è sempre esistita la musica che ci piace e quella che invece preferiamo evitare. Piuttosto, vedo la techno come un linguaggio universale da cui ci nutriamo, indipendentemente dal luogo in cui essa viene creata.

Nel 1996 fondi la Visillusion sulla quale pubblichi la tua musica e quella di colleghi come DJ Reggie e Joshua Harrison. C’è una ragione dietro la scelta del nome?
Visillusion nasce dalla fusione tra le parole “visual” e “illusion” per creare il concetto che descrive uno degli effetti che vorremmo trasmettere con la nostra musica. In tempi più recenti su Visillusion ho ospitato anche altri artisti come l’indonesiano Ecilo, il francese Cloudmasterweed, il detroitiano NVNTR e l’olandese Native 97.

05) Subterfuge - Synthetic Dream
La copertina di “Synthetic Dream”, l’album che Barnett firma Subterfuge nel ’93

“Frequencies From The Abyss” è stato il primo e sinora unico album a tuo nome, pubblicato nel ’99 dalla tedesca Dreamhunter solo su CD. Hai mai pensato di dare un seguito a quel lavoro oppure oggi non ha più molto senso elaborare formati di questo tipo, poco presi in considerazione dalla Spotify generation?
A onor del vero si trattò di un’operazione non ufficiale, “Frequencies From The Abyss” non sarebbe mai dovuto uscire. Il mio primo e unico album, a nome Subterfuge, resta quindi “Synthetic Dream”, edito dalla Prime nel 1993. Avevo quasi ultimato il follow-up ma, in seguito a un furto, trafugarono tutti gli strumenti dal mio studio che purtroppo contenevano in memoria i brani del secondo album. A causa di ciò il disco venne rinviato a tempo indeterminato. Negli anni a seguire ho pubblicato altre cose in varie compilation (come “Let There Be Light” finita in “Trance Atlantic”, sulla Volume del compianto Rob Deacon, nda), singoli ed EP. Ho scritto tanta musica per diversi LP ma non pubblicandola, probabilmente in un futuro non lontano farò uscire qualcosa sulla mia pagina Bandcamp.

I tuoi brani sono apparsi in pubblicità, pellicole cinematografiche e persino in film per adulti: scelte intenzionali o casuali?
Ho semplicemente cercato di far conoscere la mia musica in quanti più modi possibili. Non nutro riserve, quel che mi interessa è far arrivare ciò che faccio a un pubblico più vasto, non importa se con metodi alternativi ai tradizionali.

In passato si poteva guadagnare vendendo i propri dischi, oggi le edizioni limitate di trecento copie sono ormai uno standard e gli affari legati al mercato (o a ciò che resta di esso) risultano piuttosto inconsistenti. Pensi che tutto ciò possa, in qualche maniera, cambiare l’approccio degli artisti, specialmente nell’underground dove acquirenti e sostenitori sono sempre meno?
Gli artisti non smetteranno di comporre la loro musica. La tecnologia rende molto più facile la creazione per cui mi aspetto nuove persone in grado di fare magie sia con apparecchiature ordinarie che con quelle provenienti da studi professionali. In ogni caso quindi, la musica continuerà ad arrivare da qualche parte.

Durante la scorsa primavera hai remixato “About Damn Time” di Lizzo: la scena pop ha forse catturato la tua attenzione?
No anzi, non sono particolarmente attento a ciò che avviene nel pop contemporaneo. Ho deciso di realizzare quel remix dopo aver ascoltato, del tutto casualmente, il pezzo di Lizzo che mi ha colpito per diverse caratteristiche, hook in primis. Ho aggiunto alcune parti di batteria per rinforzarne la struttura per poi velocizzarla e riarrangiarla ottenendo un sapore diverso dall’originale. È stato molto divertente.

Da qualche anno a questa parte molti artisti pop/rock (inclusi gli italiani) hanno iniziato a usare con regolarità pattern ritmici filo dance e suoni di sintetizzatore al posto di strumenti tradizionali come chitarre, pianoforti o sassofoni. I confini tra pop e dance dunque si stanno talmente assottigliando che è difficile stabilire dove finisca uno e inizi l’altro, anche perché tutto suona “elettronico”. È forse un segno della globalizzazione?
Sì, credo che essere più “elettronici” faccia parte di una naturale evoluzione. Però gli stili e mode vanno e vengono, non penso che la musica basata su uno strumento classico tipo la chitarra possa scomparire del tutto, seppur i suoni elettronici prenderanno sempre più piede a livello commerciale, su questo non ho dubbi.

Ha ancora senso parlare di underground nel 2023, o internet sta uccidendo questo tipo di cultura?
Non ne sono sicuro, in un certo senso, forse, l’underground è diventato molto più grande rispetto a ciò che era una volta. La Rete non ha ucciso l’idea di underground ma l’ha fatta evolvere. Gli artisti commerciali esistono ancora e visto che quello che facciamo noi non sarà mai uguale a ciò che fanno loro, l’underground continuerà a vivere in una forma o in un’altra.

06) Low Tech Funk EP (2022, artwork by Abdul Qadim Haqq)
“Low Tech Funk EP”, tra le uscite più recenti su Visillusion. A realizzare la copertina è Abdul Qadim Haqq

Qualche anno fa hai pubblicato una manciata di dischi come Groove Slave, pensi di tornare a usare questo pseudonimo in futuro?
Sì assolutamente, in cantiere ho un progetto per cui riapparirò come Groove Slave. Sarà l’occasione adatta per presentare le mie nuove tracce house.

Per quanto riguarda Visillusion invece, cosa avverrà nel 2023 da poco iniziato?
Ho programmato varie pubblicazioni per quest’anno, diversi remix e pure qualche uscita in vinile.

Da ragazzino consideravo la techno la colonna sonora dei sogni del futuro, per me era il genere più adatto a descrivere l’accelerazione tecnologica, la musica perfetta per tutti gli scenari utopici che ci ha proposto di volta in volta la fantascienza. Oggi viviamo nel futuro e in un mondo dominato da macchine, algoritmi e intelligenze artificiali, ma paradossalmente la techno ha perso energia e visione per mostrare ciò che non esisteva ancora. Dobbiamo legittimamente pensare che il futuro e la techno fossero ieri?
C’è una gamma davvero ampia di techno al giorno d’oggi, credo non ci sia mai stata così tanta varietà nello scenario musicale. Ritengo si stia ancora producendo musica fantastica e ci siano ancora artisti entusiasmanti capaci di creare roba forte.

Qual è il pezzo techno che ti ha mostrato il futuro per l’ultima volta?
È difficile rispondere, c’è così tanta musica in circolazione che ogni settimana sento di avere nuovi artisti preferiti. Alcune tracce ovviamente spiccano su altre. Qualche esempio? “Panoramic Eggnog” di Steffrey Yan, “State Transition” di Olan! e “Bionic Jellyfish” di Ken Ishii.

(Giosuè Impellizzeri)

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Art Déco, l’anello di congiunzione tra new romantic e italo disco

01) Art Deco (1983)
Gli Art Déco immortalati durante una serata al New Life di Venezia nel 1983: da sinistra Stefano Montefusco, Marco Todesco e Claudio Valente

I primi anni Ottanta rappresentano un momento storico fondamentale per la musica, specialmente quella elettronica. La diffusione di sintetizzatori, drum machine e sequencer ispirano intere generazioni di giovani musicisti che riescono a comporre anche senza ricorrere a studi di incisione multimilionari, necessari sino a poco tempo prima. Il proliferare di piccole etichette indipendenti, d’altro canto, alimenta la creatività e rende fattibili anche imprevedibili collisioni stilistiche, rivelatesi seminali per generi futuri. In Italia lo sdoganamento dei sintetizzatori viene intercettato sia da coloro che armeggiano con la discomusic e si ritrovano, inconsapevolmente, a gettare le basi dell’italo disco, sia dai fedeli del rock e del punk che si buttano a capofitto nella new wave sul modello britannico e nordeuropeo, come i veneti Art Déco.

«Ci formammo nell’autunno del 1982 da un’idea mia, che mi occupavo di voce, testi e musiche, e il tastierista Marco Todesco» spiega Claudio Valente. «A noi si unirono presto Stefano Montefusco alla batteria e Gianpaolo Diacci al basso. Avevo iniziato da poco a scrivere ed esibirmi con una band punk wave mentre Todesco e Montefusco venivano da esperienze prog. Tutti ci sentivamo attratti dalla nuova scena new romantic compreso Diacci che arrivò rispondendo a un classico annuncio affisso sulla bacheca dei negozi di dischi di Mestre. Oltre a David Bowie e i Roxy Music, i nostri riferimenti erano rappresentati sia dai gruppi synth pop d’oltremanica come Ultravox, Japan, Visage, Human League, Tears For Fears e Depeche Mode, sia dalla new wave più “buia” dei Joy Division, New Order e Cure. L’idea di proporre un sound sperimentale e raffinato che riproducesse le atmosfere mitteleuropee ma nel contempo fosse anche ballabile ci portò a scegliere come moniker il nome del movimento artistico sbocciato nei primi del Novecento, a cavallo tra avanguardia e modernismo, tra sperimentazione e mercato, che in qualche modo potesse evocare pure l’estetica new dandy che tra l’altro portavamo sul palco con l’adozione di un look assai ricercato. Nacquero così gli Art Déco, la prima band new romantic d’Italia in assoluto, non solo per genere musicale ma anche per l’abbigliamento che ci faceva apparire come giovani adolescenti appena usciti da un party del Blitz di Londra, mecca del movimento new romantic».

02) Art Deco (1984) A
Un live degli Art Déco al Charisma Club di Mogliano Veneto nel 1984: nella foto di Carlo Chiapponi ci sono Marco Todesco alla tastiera e Stefano Montefusco alla batteria

Sebbene la loro musica risulti avere più rapporti e connessioni con new romantic e new wave, in Italia gli Art Déco finiscono nel calderone eterogeneo e multiverso dell’italo disco che a detta di molti, a partire dal 1985 in avanti ingloba progressivamente musiche e interpreti alquanto discutibili. Ai tempi però la classificazione dei generi è assai sommaria e talvolta gli ibridi restano privi di una collocazione precisa, in una sorta di limbo. «Senza ombra di dubbio gli Art Déco erano in linea con lo zeitgeist new romantic, forse in maniera ancora più preponderante rispetto alla new wave, e questo finì col portarci in un’area mainstream» prosegue Valente. «L’esplosione dell’italo disco ci permise di ottenere il primo contratto discografico in quanto i produttori indipendenti stavano investendo sempre di più su quel genere e aziende come Il Discotto e Discomagic supportavano con distribuzione e promozione quei prodotti senza fare troppi distinguo, tanto che ancora adesso i nostri EP sono catalogati, sul mercato del collezionismo, come italo disco. All’epoca vivevamo con fierezza la nostra diversità di discendenza all’interno di quell’enorme macro genere considerandoci, con un po’ di sana arroganza giovanile e dandy, molto più cool dei colleghi smaccatamente dance, ma nel contempo scontavamo la differenza occupando un mercato più di nicchia e meno nazionalpopolare. Anche rispetto alla scena new wave nostrana, decisamente più spostata sul gothic e dark e ossessionata dal cantare in lingua italiana, gli Art Déco partivano come outsider perché considerati troppo mainstream ma questa era una cosa che vivevamo con spensierato divertimento e sentendoci più “avanti” degli altri».

Dopo qualche anno per la band mestrina giunge l’ora di incidere un disco. «Vista l’enorme disponibilità di tempo libero (io e Diacci eravamo ancora studenti, gli altri appena diplomati ma senza lavoro), trascorremmo un anno in classiche e interminabili session pomeridiane e notturne» continua Valente. «Utilizzavamo mezzi semplici come registratori a cassetta per poi approdare a un classico Fostex a quattro piste. Stavamo cercando di capire come proporci a eventuali etichette quando sentimmo parlare dei Nite Lite, band di Mestre in cui cantava Massimo Filippi che aveva scelto di impegnarsi come produttore indipendente aprendo la sua label, la Art Retro Ideas, sulla quale era già uscita la seminale compilation di new wave veneziana intitolata “Samples Only”. Conoscemmo Filippi quasi per caso una sera, all’esterno di una sala prove in centro a Mestre, alla fine di una session dei Nite Lite. Stavano trasportando in auto un sintetizzatore, un Yamaha DX9, e incuriosito mi fermai, insieme a Marco Todesco, per entrare in contatto con altri musicisti che come noi usavano macchine elettroniche per comporre. Facemmo amicizia e a quel punto Filippi ci disse che era in cerca di nuove band per la sua neonata etichetta. Decidemmo così di proporgli una demo di alcuni nostri brani di cui ricordo ancora i titoli, seppur poi furono scartati: “Danceway” e “Dreamless Nights” che ho riproposto di recente in un mio lavoro intitolato “Il Blu Di Ieri” ma in una versione italiana intitolata “Notti Senza Sogni”. Si tratta di un pezzo che rievoca nel testo e nell’atmosfera proprio quella sensazionale stagione musicale».

03) Because The Movie Is On
La copertina di “Because The Movie Is On”, brano d’esordio degli Art Déco (1985)

Per gli Art Déco giunge quindi il momento di debuttare sul mercato discografico. Il 12″ che la Art Retro Ideas pubblica nel 1985 si intitola “Because The Movie Is On” e è un sunto tra new romantic, synth pop e italo disco. «Registrammo due versioni del pezzo ma Filippi scelse di pubblicare solo la seconda, più elettronica e con un nuovo ritornello, con una melodia completamente diversa che modificai in corso d’opera» chiarisce Claudio Valente. «La batteria era una Oberheim DMX perché nel frattempo Stefano Montefusco, purtroppo, partì per prestare il servizio militare in Libano. Tuttavia l’utilizzo di una drum machine fu un ingrediente che ci caratterizzò, almeno nelle incisioni in studio. Tra le tastiere invece una Roland Jupiter-8 e una Elka Synthex. Intanto all’orizzonte comparvero Alessandro Spanio, il bassista che sostituì Gianpaolo Diacci per problemi di salute, il chitarrista Paolo Sisto e Marco Paties che suonava un po’ tutto. Nel contempo David Mora dei Nite Lite, chitarrista, tastierista e programmatore di sequenze, ci aiutava collaborando dietro le quinte.

Registrammo “Because The Movie Is On” al mitico Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian (intervistato qui, nda), a Gambellara, uno studio simbolo per chi produceva italo disco in quegli anni e da dove sono transitati davvero tantissimi artisti. Dian resta uno dei musicisti e tecnici di studio più competenti che abbia mai conosciuto, oltre a essere il più paziente per noi adolescenti alle prime armi e piuttosto presuntuosi. Non ho mai visto nessuno fare con la sua stessa precisione i tagli sul nastro analogico con lametta e nastro adesivo e incollare al punto esatto i due pezzi della bobina. Per quanto concerne invece l’aspetto più commerciale, il disco vendette circa cinquemila copie e avrebbe potuto raggiungere soglie ancora più ragguardevoli dato che lo passavano tante radio e club del nord est ma Il Discotto non lo distribuì bene, molti cercavano il mix nei negozi senza trovarlo. La promozione invece fu lasciata alla Art Retro Ideas che però, essendo una piccola etichetta indipendente, arrivava fin dove era possibile. Anche il profilo artistico era curato dalla label di Filippi, incluse le grafiche, gli shooting fotografici, gli showcase… un sacco di lavoro insomma. A tal proposito mi tornano in mente alcune serate promozionali che ci dividemmo con Valerie Dore e altri artisti del panorama italo, soprattutto in club e discoteche del nord est, la nostra zona d’origine».

04) European Crime
L’artwork di “European Crime”, sviluppato da un fotogramma del film “Blade Runner”

Il follow-up di “Because The Movie Is On” è “European Crime” in cui gli Art Déco continuano a rimarcare la chiara adesione alla new wave, presente anche nel brano inciso sul lato b, “The Fake Of Lovin'”. «”European Crime” è il disco del nostro repertorio che preferisco ed è tuttora un fiore all’occhiello perché rappresenta perfettamente ciò che erano e volevano essere gli Art Déco nel loro momento migliore» afferma candidamente Valente. «Si trattava di new wave romantica dal sound suggestivo ma nel contempo ballabile nei club, del resto come New Order, Human League o Simple Minds. Eravamo in linea con la scena internazionale e questo lo dico con grande orgoglio. Registrammo il disco sempre al Sandy’s Recording Studio con le stesse modalità del precedente ma in quell’occasione Il Discotto mandò Maurizio Chiesura, un suo A&R, ad ascoltare e divertirsi nel realizzare una versione alternativa e creativa (sic!) insieme a Massimo Filippi e Sandy Dian, inserita come bonus sul lato b.

Tra gli strumenti utilizzati una batteria elettronica Linn 9000, un sintetizzatore Oberheim OB-8 e una Yamaha DX7. Per il sequencer invece adoperammo, analogamente a quanto fatto in “Because The Movie Is On”, uno Yamaha monofonico. Il basso elettronico del brano, infine, fu doppiato da uno vero suonato da Alessandro Spanio. Pure quella volta cambiai il ritornello poco prima di incidere la parte ma conservo gelosamente la demo originale insieme a quella di “Because The Movie Is On”. Per il resto, mi spiace dirlo, ma il team de Il Discotto riuscì a fare peggio di quanto avesse già fatto, investendo pochissimo in promozione, forse perché rapito da altri progetti senz’altro più commerciali del nostro che, in quell’occasione, mostrò un volto molto poco italo disco. Tuttavia l’accordo prevedeva che fossero loro a distribuirlo quindi non potemmo fare granché se non constatare i problemi. Dopo il fallimento il catalogo fu venduto alla tedesca ZYX che ancora oggi utilizza i nostri brani per le loro compilation… italo disco».

Oltre all’ispirazione tipicamente nordeuropea, ad accomunare i primi due dischi degli Art Déco è l’apparato grafico delle copertine curate da Luigi Gardenal, immerse tra futurismo e surrealismo. «Per noi la grafica era importante quanto la musica» afferma a tal proposito Claudio Valente. «Gardenal seppe interpretare magnificamente l’atmosfera di “European Crime” con quel fotogramma tratto da “Blade Runner” (un film mito per noi!) rielaborandolo pittoricamente. Consideravamo fondamentale evocare suggestioni artistiche anche attraverso le copertine dei nostri dischi e sia futurismo che surrealismo erano senz’altro movimenti che ci affascinavano e sentivamo vicini. Sull’artwork di “Because The Movie Is On” invece Gardenal inserì una fotografia di Stefano Padovan, fotografo che ha raccolto grosso successo internazionale nel campo della musica e della moda».

05) Secret Divine
“Secret Divine” è il disco conclusivo per gli Art Déco

Nel 1986 arriva il terzo e ultimo disco degli Art Déco, “Secret Divine”, in cui la componente new wave è ridotta rispetto ai due precedenti. Prodotto ancora da Massimo Filippi e mixato al Nova Studio di Vicenza, esce su Modern Music Productions, una delle centinaia di etichette distribuite dalla lombardoniana Discomagic. Spiccatamente art déco la copertina, in stile Tamara de Lempicka. «”Secret Divine” fu il nostro ultimo mix e quello più italo della triade» spiega Valente. «Lo registrammo al Simple Studio di Reggio Emilia con Ivana Spagna, collaboratrice del fonico, che si occupò dei cori. In quell’occasione ci fece sentire in anteprima “Easy Lady” e la sera venne a cena da noi speranzosa che una volta uscito andasse bene. Due mesi dopo era prima in classifica! Ivana era bravissima sin da allora, oltre a essere molto simpatica e alla mano. Anche in “Secret Divine” ci fu il “tradizionale” cambio del ritornello all’ultimo momento. In archivio conservo la demo originale, a questo punto potremmo pensare a una pubblicazione delle versioni mai uscite! A pubblicare il disco fu la Modern Music Productions, una nuova etichetta fondata da Filippi distribuita dalla Discomagic di Severo Lombardoni. Per quanto concerne le vendite, “Secret Divine” si attestò intorno alle tremila copie ma è un dato non ufficiale perché non eravamo così attenti ai conteggi. Però ci tengo a dire che Massimo Filippi è sempre stato un produttore generoso, trasparente e onesto, infatti dopo quarant’anni siamo ancora amici e ci frequentiamo con regolarità. A realizzare la copertina del mix fu l’ufficio grafico della Discomagic, quel cambio di direzione estetica ben rappresentava il contenuto musicale del disco. Credo fosse una potenziale hit per i canoni italo disco ma non fu spinta abbastanza per diventarlo».

06) Garland - Heartbeat
“Heartbeat” di Garland, progetto solista one shot di Valente

Nel 1986, sempre su Modern Music Productions e con la produzione del fido Filippi, Claudio Valente scrive e interpreta “Heartbeat” di Garland, un pezzo arrangiato dal compianto Claudio Corradini che flirta con l’hi NRG e mostra qualche evidente rimando melodico a “Smalltown Boy” dei Bronski Beat. «Garland era il nome che scelsi per un mio one shot solista dichiaratamente italo disco e quindi intenzionalmente coperto con uno pseudonimo visto che volevo continuare a fare le mie cose rock e new wave» chiarisce l’autore. «La song, arrangiata e scritta insieme al caro amico Corradini, a Filippi e a Marco Todesco alle tastiere, mi aveva intrigato proprio per quel legame con l’hi NRG. Sono sempre stato attratto da certa “motorik disco”, da Moroder in giù diciamo. Il tizio in copertina, con giacca e capelli lunghi, sono io. Registrato al Sandy’s Recording Studio, “Heartbeat” ha conquistato considerevole valore sul mercato del collezionismo, è stato inserito in diverse compilation e perfino rielaborato da qualche DJ all’estero. Un brano che nel mondo italo ha avuto i suoi consensi e che a distanza di oltre trentacinque anni continua a vantare un suono potente frutto di macchine elettroniche analogiche e una eccelsa registrazione su nastro».

07) Art Deco (1984) B
Un altro scatto di Chiapponi agli Art Déco nel 1984, con Paolo Sisto e Alessandro Spanio che suonano sintetizzatori Yamaha DX7 e DX9

La musica degli Art Déco è stata riesumata dal danese Flemming Dalum (intervistato qui) in “Boogie Down Box-Set” del 2009 e più recentemente dalla Fonogrammi Particolari diretta da Fred Ventura (intervistato qui) e Davide Persichella (che ristampa “European Crime” nel 2017) e dalla Spittle Records che la colloca in diverse raccolte antologiche come “The Other Side Of Italy” e la citata “Samples Only” con l’aggiunta di “European Crime” e “The Fake Of Loving”, non ancora incisi ai tempi dell’uscita originaria, nel 1981.

L’invasione dei reissue iniziata poco più di un decennio fa, di pezzi noti e non ma pure di inediti, pare stia avendo la meglio sulle uscite contemporanee. Per uno strano paradosso storico, la musica di ieri risulta essere più attrattiva rispetto a quella di oggi. «Credo ci sia una grande fame di passato, specie in riferimento a musiche di quell’epoca» sostiene Valente. «Sono stati anni in cui è iniziato tutto e con gli strumenti più giusti, in primis i sintetizzatori analogici e i computer, considerate macchine creative. Con tanta musica derivativa in circolazione trovo normale che i giovani di oggi sognino quel passato e vogliano saperne di più, magari solo per cercare ispirazione, ma ritengo che la musica odierna conservi ancora una certa attrattività, ogni stagione ha sempre i suoi frutti. Il potere d’acquisto delle tantissime edizioni limitate piombate sul mercato invece credo resti nelle mani di una generazione più adulta che ha vissuto quegli anni e che ama ancora il disco in vinile e non si è lasciata conquistare dal download o dallo streaming».

08) Valente live 1984
Claudio Valente canta al King Club Tessera di Venezia nel 1984 (foto di Carlo Chiapponi)

Con “Secret Divine”, dunque, cala il sipario sugli Art Déco che restano immobilizzati nel decennio accusato a lungo di aver generato quintali di musica di plastica. Una plastica che a posteriori però si è rivelata perennemente riciclabile, a giudicare dagli infiniti ripescaggi e campionamenti. Non sarebbero certamente i primi ad annunciare una reunion ai tempi dell’algocrazia, magari proponendo un album di inediti registrati allora ma mai dati alle stampe. «Effettivamente qualche volta ci siamo baloccati con questa idea ma le reunion sono difficili da attuare e, in tutta onestà, nel nostro caso la vedrei possibile solo come duo formato da me e Todesco» dice Valente. «Non credo però che pubblicheremmo pezzi vecchi, qualora si concretizzasse davvero l’idea scriveremmo brani ex novo. Il primo a considerare chiusa l’avventura del gruppo, seppur con grande dolore, fui proprio io, che nel frattempo cominciai a scrivere in italiano e avevo voglia di rock and roll. Comunque il mio prossimo album, la cui uscita è prevista nel 2023, mi vedrà tornare alla lingua inglese e con più di un collegamento con quel sound».

Oltre a collaborazioni strette coi Circle, gli Unfolk, gli Holiday Futurisme e i Telegram, Claudio Valente incide quattro LP da solista, “Un Pò(p) Più Adulto” del 2008, “Maschere Nude” del 2011, “Cambiamori” del 2016 e “Il Blu Di Ieri” del 2018 a cui si è aggiunto, più recentemente, “Controllo”, un EP che tra le altre cose contiene la cover di “The Man Who Sold The World” di David Bowie. «Oggi fare musica sganciata dal mainstream significa essenzialmente agire in modalità do it yourself più che mai, investire le proprie risorse e lavorare molto sul web» chiosa il musicista. «Fortunatamente sono supportato da una label veneta indipendente, la Dischi Soviet Studio, e da un nuovo team di lavoro di professionisti molto competenti e ciò mi consente di continuare imperterrito a dare vita ai miei sogni musicali. Attualmente la discografia delle major vive di talent e di prodotti super commerciali, vedo poca voglia di rischiare, di investire in progetti particolari o di scommettere sulla crescita di un artista, concedendogli il tempo necessario, supportandolo economicamente e consentendogli la naturale maturazione ed evoluzione così come si faceva un tempo. Purtroppo manca anche un sostegno statale a quei progetti musicali non tradizionali e, più in generale, alla voglia di avventure artistiche» conclude Valente con mestizia. (Giosuè Impellizzeri)

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Negozi di dischi del passato: Disco International a Ivrea

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Disco International col titolare Maurizio De Stefani

Quando apre i battenti Disco International?
Il negozio venne inaugurato a dicembre 1979 nel centro della città, dopo mesi di lavori di ristrutturazione di un vecchio magazzino chiuso da tempo. Il giorno dell’apertura invitammo alcuni dei DJ e speaker in onda sulle radio locali più “importanti” per far capire fin da subito che da quel momento anche ad Ivrea sarebbe stato possibile trovare gli ambiti dischi d’importazione, fino ad allora acquistati nei negozi di Torino, Biella o Milano. Io stesso ero “costretto” a comprare dischi nel capoluogo piemontese, facendomi aiutare peraltro da mio fratello, più grande di me di nove anni, che per riunioni di lavoro si recava a Torino una volta al mese. Non ancora maggiorenne, davo a lui la lista coi titoli che cercavo e coi pochi soldi guadagnati in radio riuscivo ad accaparrarmi le novità discografiche prima degli altri. Fu proprio quello il motivo che mi fece balenare l’idea di aprire un negozio di dischi che mancava ad Ivrea. A quel punto mio fratello smise di fare di rappresentante ed io, che nel frattempo raggiunsi la maggiore età, mi rimboccai le maniche e dalla nostra collaborazione nacque Disco International.

Disco International 1
Una foto del Disco International scattata nel 1993

Perché optaste per quel nome?
Emerse da un “consulto” coi colleghi della radio in cui lavoravo. Eravamo in cerca di un nome che potesse dare l’idea di qualcosa che non fosse il solito negozio di dischi e cassette. Volevamo creare un punto di riferimento per i DJ, per le discoteche (che stavano proliferando in maniera esponenziale), per le radio e per i semplici appassionati di musica dance. L’abbinamento tra le parole Disco, pertinente sia per il prodotto trattato che per il concetto di discomusic o discoteca più in generale, ed International, a rimarcare il concetto di musica che arrivava dall’estero e quindi d’importazione, ci sembrò adeguato oltre che essere facile da ricordare e da pronunciare.

Che investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
Essendo trascorsi più di quarant’anni non ricordo precisamente quanti soldi occorsero per partire, ma tra qualche piccolo prestito e l’aiuto di papà, che era andato da poco in pensione e pure lui commerciante, seppur di tutt’altro genere, riuscimmo ad alzare la saracinesca del Disco International che nell’arco di qualche anno divenne una bella realtà.

Operavano altri negozi di dischi analoghi nell’eporediese?
Come anticipavo prima, c’erano altri negozi di musica ma non trattavano dischi d’importazione e soprattutto non vendevano i cosiddetti “discomix” da discoteca, ovvero i dischi grandi come gli LP ma con uno/due brani per lato e “costruiti” in modo differente da quelli che venivano solitamente trasmessi per radio. Le stesure infatti, oltre ad essere più lunghe, contavano su un intro ed un outro strumentali che permettevano al DJ di mixare il brano con quello successivo. Oggi può sembrare banale ma allora rappresentò una vera e propria novità nel mercato musicale.

Disco International 2
Un altro scorcio del Disco International: in evidenza i flight case per i DJ e la cabina telefonica

Com’era organizzato il punto vendita?
Era grande circa una settantina di metri quadri e composto da un enorme banco di lavoro simile ad una grande consolle da discoteca che contava tre giradischi (ai tempi considerata avanguardia!) ed un mixer. Un reparto era destinato alle musicassette a cui, in seguito, si aggiunsero i Compact Disc, uno agli LP ed uno ai mix contestualmente a tutta l’attrezzatura destinata ai DJ. In fondo al negozio, infine, si trovava la sala d’ascolto con un’altra consolle attraverso cui era possibile ascoltare dischi in maniera più approfondita. A decorazione dell’ambiente c’erano un jukebox anni Settanta funzionante ed una cabina telefonica britannica, originale e non una replica prodotta in Italia.

Che generi musicali trattavate con particolare attenzione?
Per ovvie ragioni la nostra priorità era rivolta al materiale d’importazione, motivo per cui era nato il negozio stesso, ma trovandoci nel centro storico della città con grande passaggio di gente, non mancava nulla delle novità anzi, col passare del tempo il catalogo si ampliò sensibilmente in modo da avere sempre o quasi tutte le discografie di artisti italiani e stranieri.

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
Non so rispondere in modo preciso ma ricordo benissimo le seicento copie di una compilation di Sanremo di fine anni Ottanta, le oltre mille copie, tra LP, CD e cassetta, di “Oro Incenso & Birra” di Zucchero, e le mille (e forse di più) di “…But Seriously” di Phil Collins. Senza dimenticare ovviamente le centinaia di copie di mix di alcuni titoli dance.

Praticavate anche commercio per corrispondenza?
Raramente. A tal proposito ho un paio di ricordi: ogni tanto giungevano ordini da un negozio in Toscana, in difficoltà nel trovare certi mix, e per qualche anno un DJ faceva ordini settimanali dalla Sardegna.

Disco International 4
Una borsa con la serigrafia del Disco International, solo uno dei tanti gadget marchiati con il logo del negozio che finisce anche su slipmat, t-shirt, giubbotti k-way, toppe per jeans, portachiavi ed ovviamente adesivi

Quali furono i tre bestseller?
Ho già menzionato qualche risposta sopra quelli legati alla musica leggera. Per quanto concerne la dance invece cito “The Glow Of Love” dei Change, un LP del 1980 che inizialmente arrivò d’importazione su Warner Bros./RFC Records sebbene il gruppo fosse italiano per metà, prodotto da Jacques Fred Petrus e Mauro Malavasi. Era un disco conosciuto quasi esclusivamente dai DJ ma ogni volta che mostravo le novità ai clienti “normali” proponevo questo album composto da sei brani, uno più bello dell’altro, convincendoli ad acquistarlo. Poi, col passare dei mesi, grazie alla programmazione radiofonica e la pubblicazione italiana, su Goody Music Records, il disco divenne un vero successo, con ben quattro singoli estratti confermando in pieno le mie previsioni. Un altro successo fu “Dance Hall Days” dei Wang Chung, uscito alla fine del 1983: appena lo sentii passare in radio ne ordinai cento copie, cosa che non avevo mai fatto prima di allora ma i fatti poi mi hanno dato ragione. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, è il 12″ di debutto dei Daft Punk, “The New Wave”, uscito nel 1994 sulla scozzese Soma. Della stampa import arrivarono pochissime copie ma ogni volta che riuscivo a trovarne una la prendevo e la vendevo subito a quei DJ che iniziavano ad inserire nei propri programmi house più elettronica. A forza di richieste (anche mie!), dopo qualche mese la Flying Records decise di licenziarlo e pubblicarlo in Italia su UMM, e qui scatta l’aneddoto: in qualità di negozio, ricevevo il “servizio novità” dalla Flying Records che consisteva nell’invio di una copia di tutto quello che sarebbe uscito nel corso del mese successivo, un servizio che l’etichetta/distributore di Napoli destinava anche alle radio e ai DJ famosi. Una sera, al Due di Cigliano, c’era ospite Fargetta. Appena finì il suo set, io e Sergio (Datta) iniziammo con “Alive”, incisa sul lato b di “The New Wave”. A quel punto Fargetta tornò in consolle per chiederci il titolo del disco e glielo rivelai senza problemi, aggiungendo che fosse una delle novità appena giunte dalla Flying Records. Pochi giorni dopo “Alive” aprì una puntata del DeeJay Time.

C’erano DJ noti a frequentare Disco International? Ad essi erano riservati trattamenti particolari?
Da Disco International passavano tutti i DJ della zona, assai ampia poiché non si limitava ad Ivrea e al Canavese ma abbracciava anche il Biellese, la cintura torinese e la Valle D’Aosta. Tra i tanti c’era Gigi D’Agostino col quale, in quel periodo, divisi la consolle dell’Ultimo Impero, del Due e del Palladio e col quale diedi vita al progetto discografico Voyager (di cui parliamo qui, nda), insieme all’amico comune Sergio Datta. Non abbiamo mai riservato trattamenti particolari a nessuno ma quando arrivavano poche copie di un titolo importante poteva esserci una preferenza nei confronti di chi comprava di più o lavorava in un locale importante.

Quale fu la richiesta più stramba o particolare avanzata da un cliente?
Le assurdità erano all’ordine del giorno, soprattutto quelle legate a titoli ed autori sbagliati. A volte bisognava mettercela davvero tutta per interpretare ciò che la gente chiedeva al bancone, e in tal senso direi che il primato se lo giocano “il nuovo 45 giri di Sabrina Palermo” (Sabrina Salerno) e “il disco di Rondissone Veneziano” (Rondò Veneziano). Rondissone, per giunta, è un paesino non distante da Ivrea.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
Tante, forse troppe. Non è possibile stabilire una media perché molto dipendeva dal periodo di uscita, tipo quei dischi che miravano a diventare strenne natalizie, quelli pubblicati in primavera, quando tutti volevano essere i depositari del pezzo dell’estate, o quelli che arrivavano sugli scaffali a settembre, un altro periodo decisivo dell’anno perché c’era tanta voglia di musica nuova dopo almeno un mese di stasi quasi completa.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare? Ti fidavi dei consigli e suggerimenti dei distributori?
Mi fidavo dei distributori ma fino ad un certo punto, era il mio “fiuto” a determinare gli acquisti, e devo ammettere che spesso ho avuto ragione.

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Un portachiavi a forma di disco in vinile marchiato Disco International

Quanto pesava sul rendimento di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ particolarmente “di grido”?
Nei primi anni Ottanta non c’erano ancora i network bensì affermate realtà radiofoniche locali e, a seconda della zona, un disco spinto dalle emittenti private e dai DJ locali più conosciuti poteva sicuramente ottenere riscontri migliori rispetto ad altri. Con la nascita dei network e col carisma di alcuni speaker, Albertino su tutti, il mercato prese un’altra piega e lo ho potuto constatare in prima persona, vedendo crescere sensibilmente le vendite e la popolarità delle mie produzioni nel momento in cui venivano trasmesse dalle radio che coprivano l’intero Paese o selezionate dai DJ importanti.

È capitato di vendere tante copie di un disco proprio in virtù dell’appoggio pubblicitario a cui si faceva riferimento?
Sì, assolutamente. Il caso più eclatante è quello di “Blue (Da Ba Dee)” degli Eiffel 65: rimase sugli scaffali per mesi nella più completa indifferenza, poi, all’improvviso, dopo il passaggio in una nota radio, iniziò a vendere con risultati ormai noti a tutti.

Quale invece quello che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più ma che rimase confinato all’anonimato o quasi?
“A Caus’ Des Garçons” dell’omonimo duo francese, uscito nel 1987. All’epoca lavoravo in una discoteca in Valle D’Aosta e lì, grazie alla propensione verso la musica transalpina, riuscii a metterlo in un certo periodo, ma per il resto fu praticamente ignorato.

Spesso i negozi di dischi erano pure la culla di produzioni discografiche o il crocevia di persone che bazzicavano gli studi di registrazione. La tua attività discografica, iniziata nei primi anni Ottanta, ha mai conosciuto un rapporto stretto col Disco International oppure sono sempre rimaste due attività indipendenti l’una dall’altra?
Disco International mi ha permesso di conoscere persone e colleghi, e le idee per i vari progetti discografici che si sono succeduti nel corso del tempo sono quasi sempre partite da lì. Il mio disco di debutto ad esempio fu firmato 4 M International ed era una chiara citazione del nome del negozio.

4 M International - Space Operator
“Space Operator”, primo ed unico disco che Maurizio De Stefani e Maurizio DiMaggio realizzano come 4 M International nel 1982

Il disco a cui ti riferisci è “Space Operator” di 4 M International, progetto del 1982 che ti vide in coppia con Maurizio DiMaggio e che venne spalleggiato dalla Good Vibes. Diventato un piccolo cult dell’italo disco della prima ora, è stato ristampato a più riprese negli ultimi anni. Puoi raccontare le fasi della produzione di quel disco?
Nei primi mesi del 1982 ero a casa seduto davanti ad una tastiera per strimpellare note, memore delle lezioni di pianoforte che presi per quattro anni da ragazzino. Un giorno buttai giù quello che poi divenne il motivo principale di “Space Operator” ma mancava un efficace giro di basso per renderlo dance. In quell’istante mi venne in mente il disegno di basso di “Nice ‘N’ Nasty” della Salsoul Orchestra, provai a risuonarlo e calzava a pennello. Ne parlai quindi con Maurizio DiMaggio a cui ero legato da un bel rapporto di amicizia e lavoro. L’idea gli piacque e scrisse un testo che divenne il “rap spaziale” del brano. Mancava la parte ritmica che prendemmo da “Drums Power”, una traccia completamente strumentale incisa sul lato b della cover di “Long Train Runnin'” dei Doobie Brothers ad opera dei Traks ma ai tempi era ancora un disco senza etichetta. Approntammo prima proprio la parte strumentale, poi in altri due passaggi suonai il motivo solista e il basso. Infine DiMaggio completò il tutto col rap. Insomma, in appena due ore, in uno studio torinese, “Space Operator” era completato. A quel punto pensammo al nome dell’artista e visto che ad accomunarci era sia lo stesso nome che un cognome “d’arte”, i Maurizio divennero quattro. Alla sigla, come anticipavo prima, aggiungemmo International per omaggiare il negozio Disco International. Contentissimi di ciò che avevamo fatto, ci mettemmo subito all’opera per farlo uscire. DiMaggio, che collaborava con la Full Time Records, lo propose a Franco Donato che gestiva la sede milanese dell’etichetta (nel quartier generale di Roma c’era invece il fratello Claudio). Decise di pubblicarlo ma pochi giorni dopo aver chiuso l’accordo, con assoluto tempismo, nei negozi arrivò la versione ufficiale del disco dei Traks su Best Record, con tanto di crediti dei produttori di “Drums Power”, i fratelli Pietro e Paolo Micioni. Senza farci prendere dallo sconforto, contattammo gli autori, due mostri sacri della dance di quel momento, e gli facemmo sentire il nostro pezzo. Gli piacque e ci diedero l’autorizzazione per farlo uscire, a patto che lo avessero firmato come autori in SIAE e citando sull’etichetta la provenienza (“based on Traks”). A noi venne comunque data la possibilità di riportare i nostri nomi. “Space Operator” uscì a dicembre, nonostante fosse stato pianificato per settembre, ma in Italia faticò a carburare. Diverso il responso in altre parti del mondo dove venne accolto con assoluto piacere e fu oggetto di entusiastiche recensioni su riviste specializzate in musica dance. Tempo dopo giunsero richieste addirittura dal Giappone e ci accorgemmo di far parte anche noi dell’italo disco. Il resto è storia recente. Con l’avvento dei supporti digitali, è stato messo in circolazione in formato liquido nel 2009 a cui sono seguite ristampe su vinile nel 2014 e nel 2018 con un’efficace rimasterizzazione. L’ultima edizione è del 2021 su etichetta Mr. Disc Organization, impreziosita da un nuovo remix di Donato Dozzy. Siamo entrati nelle classifiche di mezza Europa, sia quelle legate alla vendita dei dischi fisici che quelle di download e streaming, e come ciliegina sulla torta la versione originale è stata inclusa nel volume 27 della prestigiosa compilation “I Love ZYX Italo Disco Collection” edita dalla tedesca ZYX.

Nel 1983 produci la cover di “Copacabana” di Barry Manilow per il progetto Rio seguita l’anno dopo da “Poppa Joe” di Acapulco, anche questa una cover dell’omonimo degli Sweet. La tua non sembrò però un’attività discografica studiata a tavolino bensì una breve parentesi all’interno di quel mondo in cui i DJ iniziarono ad avventurarsi grazie alla maggiore accessibilità economica delle strumentazioni. Furono gli anni Novanta infatti a conoscere in modo preponderante la tua vena creativa attraverso molteplici progetti condivisi con l’amico e collega Sergio Datta come Niño Nero, Voyager, Wendy Garcia, Orkestra, Modello 2, G.S.M. e Divine Dance Experience, giusto per citarne alcuni. Quali furono, a prescindere ovviamente dall’incanalamento stilistico, le sostanziali differenze relative all’approccio alla produzione discografica dei due decenni? In termini economici, credi che gli anni Novanta, soprattutto gli ultimi, stessero già accendendo dei campanelli d’allarme sulla crisi che avrebbe interessato da lì a breve il mercato fonografico?
A dire la verità quella cover di “Copacabana”, uscita peraltro su un’etichetta distribuita dalla Full Time, la Spice 7, non la produssi io. Non ho mai capito se quel Maurizio De Stefani citato sul centrino fosse un’altra persona o se per qualche motivo a me sconosciuto misero il mio nome poiché ero sotto contratto con loro. La cover di “Poppa Joe” invece la volli fortemente perché avevo sentito quel brano l’anno prima al Bandiera Gialla: vedendo la reazione positiva della pista, pensai di farne una nuova versione, uscita su Carrere, quella che nello stesso anno pubblicò “Self Control” di Raf. In realtà, come giustamente affermi, ai tempi la mia non era una vera e propria attività discografica a differenza di quanto avvenne negli anni Novanta, quando la vena creativa mi portò grandi soddisfazioni con tante produzioni condivise con Sergio Datta, amico da sempre e da più di trent’anni collega in consolle. Le produzioni relative agli anni Ottanta, pochine se confrontate con le successive, furono fini a sé stesse. Negli anni Novanta invece, quando la musica “da ballo” divenne quella della cassa in quattro, fu abbastanza semplice per i DJ diventare produttori, ma sempre affiancati dai musicisti. Noi, ad esempio, avevamo ed abbiamo ancora dalla nostra parte Michele Generale che, da ottimo musicista jazz, trasformammo in produttore dance di successo. Dopo l’esordio con “Asi Me Gusta A Mi (Esta Si Esta No)” di Niño Nero, nel 1991, abbiamo proseguito dando una certa cadenza alle uscite in modo da essere presenti continuamente sul mercato creando nel contempo più progetti dai nomi differenti per evitare di inflazionarci e di confrontarci anche in diversi ambiti stilistici. La crisi economica del mercato iniziò a farsi sentire verso la fine degli anni Novanta, con l’avvento dei masterizzatori e i CDJ nelle discoteche: era economicamente appetibile scegliere un CD masterizzato con una ventina di tracce scaricate gratuitamente da internet piuttosto che comprare venti dischi nuovi.

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare in modo sensibile vendite e fatturato?
Nei primi anni Duemila: oltre ai masterizzatori e i primi sistemi per scaricare musica gratuitamente dalla Rete, il cambio tra lira ed euro aggiunse ulteriori difficoltà ad un comparto in crisi da qualche tempo.

Disco International 3
Uno slipmat “griffato” Disco International

Furono dunque le nuove tecnologie ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Sì, certamente. Ormai i nuovi DJ lavorano quasi esclusivamente con computer portatili e controller ed io stesso adopero le chiavette USB, per comodità ma pure perché la maggior parte delle nuove uscite è disponibile solo in formato digitale. Ovviamente quando si presenta la giusta occasione non esito ad assemblare un bel set solo con dischi in vinile.

Quando chiude Disco International?
Nel 2003 ci trasferimmo in una nuova locazione nelle vicinanze della prima ma nel 2004 decidemmo, a malincuore, di vendere il negozio che chiuse qualche anno dopo. Per noi, che l’avevamo aperto nel 1979 con l’entusiasmo di chi ama a dismisura la musica “reale”, stava sparendo quella magia che solo un disco in vinile poteva dare. La decisione fu assai sofferta, venne meno un pezzo di vita che amavo. Tuttavia quando manca l’ebbrezza e fai un lavoro a contatto con la gente, rischi di trasmettere quel senso di demoralizzazione anche ai clienti, e questa cosa vale anche per chi fa il DJ.

Riusciresti ad indicare, in termini economici, l’annata più fortunata?
Non ricordo nel dettaglio ma il periodo più bello e proficuo fu quello compreso tra la metà degli anni Ottanta e la seconda parte degli anni Novanta.

Pensi che in futuro ci potrà essere ancora spazio per i negozi di dischi?
In Italia la vedo dura. C’è un parziale “ritorno” del vinile ma mi pare più un oggetto di nicchia che di consumo, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi come in Francia ad esempio. L’anno scorso sono stato nello storico negozio Fnac a Parigi, sugli Champs-Élysées, che fino a qualche tempo fa trattava migliaia di CD di ogni genere. Adesso tutto quel materiale è relegato ad un angolino, il resto dello spazio è occupato da valanghe di LP, nuovi, originali, ristampe…

Cosa c’è adesso al posto del Disco International?
Nella prima sede uno studio dove fanno tatuaggi, nella seconda invece un centro estetico.

Qual è la prima cosa che ti viene in mente ripensando al negozio?
Il profumo delle copertine dei dischi nuovi appena arrivati mentre aprivo gli scatoloni.

(Giosuè Impellizzeri)

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DWA, un faro per l’eurodance

Tra l’italo disco degli anni Ottanta e l’eurodance dei Novanta corre più di qualche analogia a partire dal formato canzone, passando per il modus operandi legato a turnisti e personaggi immagine, sino agli strabilianti risultati in termini di vendite. Uno di quelli che hanno creato un solido continuum tra le fogge stilistiche dei due decenni è Roberto Zanetti: nato a Massa, dopo aver militato tra le fila di alcune band come i Taxi (insieme a Zucchero) e i Santarosa, nel 1983 diventa un idolo dell’italo disco più romantica e malinconica nelle vesti di Savage realizzando ed interpretando successi internazionali, su tutti “Don’t Cry Tonight” con cui approda a Discoring dove viene annunciato come “una nuova firma della disco dance made in Italy”, ed “Only You”, ricamato su una placida delicatezza melodica da carillon.

Savage (198x)
Zanetti ai tempi in cui spopola come Savage

Spalleggiato da Severo Lombardoni della Discomagic, che dell’italo disco è stato uno dei principali traghettatori, Zanetti è un compositore a tutto tondo capace di scrivere, arrangiare ed interpretare i suoi brani, e questo lo differenzia da gran parte degli artisti che popolano l’italo disco (prima) e l’eurodance (poi), rivelatisi spesso un ibrido tra cantanti turnisti ben lontani dall’autonomia ed indipendenza compositiva e performer specializzati in lip-sync. Quando, alla fine degli anni Ottanta, l’house music fa scivolare ai margini della scena l’italo disco soppiantandola, un mondo si sgretola e il comparto dance nostrano, inizialmente disorientato, è da rifondare e ricostruire. Il musicista massese approccia al nuovo genere a partire dal 1988 attraverso vari dischi come “Me Gusta” e “Te Amo” di Raimunda Navarro, “Allalla” di Abel Kare e “The Party”, una cover-parodia dell’omonimo dei Kraze che firma Rubix, variante del Robyx in uso sin dal 1983 per siglare il lavoro da produttore. «In quel momento sentii l’esigenza di creare un mio sound ed ebbi la necessità di fondare un’etichetta personale per dare una precisa identità ai miei progetti» spiega in questo articolo del 2020. L’etichetta in questione è la DWA, acronimo di Dance World Attack, un ambizioso slogan che punta all’internazionalità ma senza tradire o rinnegare l’amor patrio che per alcuni invece, ai tempi, è quasi ingombrante perché apparente segno di provincialismo (il commercialmente ambito italian sounding sarebbe giunto solo molti anni più tardi). Il primo logo non lascia adito a dubbi, è inscritto nel tricolore nostrano, e lo spiccato senso di italianità si farà sentire presto anche attraverso la musica marchiata con tale sigla, foneticamente simile a quella della compagnia aerea statunitense TWA così come lo stesso Zanetti chiarisce nella videointervista del 21 marzo 2020 a cura de LoZio Peter.

Raimunda Navarro - No Lo Hago Por Dinero
Il 12″ d’esordio della DWA su cui si scorge il primo logo della label collocato nel tricolore nazionale

1989-1990, tempo di spaghetti house
A produrre il 12″ inaugurale della DWA nel cruciale 1989 è Zanetti sotto il citato pseudonimo Raimunda Navarro, coniato l’anno prima con “Me Gusta” destinato alla Out di Severo Lombardoni. “No Lo Hago Por Dinero” si sviluppa su una scansione ritmica simile a “Sueño Latino”, seppur qui manchi un sample indovinato come “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching, rimpiazzato dalla chitarra più latineggiante di Claudio Farina abbinata comunque ad una suadente voce femminile a ricordare quella di Carolina Damas. Uno dei remix giunti qualche mese più tardi fruga nel tipico campionario spaghetti house, tra pianate e sample carpiti a vecchie incisioni ed inchiodati ad un battente beat in 4/4. A firmarlo è Zanetti trincerato dietro Bob Howe («a quel tempo era di moda firmarsi con pseudonimi “internazionali” per apparire stranieri» rivela l’artista contattato per l’occasione). Titolo? The Paradise Remix, rimando più che chiaro al citato “Sueño Latino” trainato, per l’appunto, dall’estatica The Paradise Version lunga oltre dieci minuti.

Ice MC - Easy
“Easy” è il singolo di debutto di Ice MC

È sempre Zanetti nelle vesti di Howe a mettere le mani sui remix di “Easy”, singolo di debutto del ballerino/rapper britannico Ian Colin Campbell alias Ice MC che segue il filone del downbeat/hip hop con uno scampolo ritmico preso da “Paid In Full” di Eric B. & Rakim e ricami reggae sottolineati da un breve intervento vocale interpretato da Zanetti stesso. Sul lato b spazio a “Rock Your Body” tangente l’hip house. Il pezzo, pubblicato anche sulla lombardoniana Out e promosso da un videoclip, raccoglie un clamoroso successo in tutto il mondo a partire dalla Francia e conquista decine di licenze, inclusa quella sulla blasonata Cooltempo, ma passa inosservato in Italia. È il primo centro per la DWA che continua a scommettere sul filone dorato della house pianistica ma senza riuscire a sfondare come 49ers, FPI Project o Black Box. In rapida sequenza escono “House From The World” dei Meeting Place (Marco Bresciani e Davide Ruberto), “Face To Face” di Lovetrip, “Together” di Shade Of Love e “Polskie Beat” di Krymu, edificato sullo schema sampledelico di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. in una sorta di megamix/medley assemblato con lo strumento protagonista di quel periodo, il campionatore. L’ottima resa commerciale del downbeat in stile Milli Vanilli o Snap! adottato per Ice MC convince Zanetti a riprendere la cover di “Live Is Life” degli Opus a firma Stargo, già uscita nel 1985, per svilupparla in nuove versioni più adatte ai tempi. Al successo però torna con “Scream”, secondo singolo di Ice MC estratto dall’album “Cinema” che muove i passi su un’impalcatura melodica in stile “Profondo Rosso”. Le urla sono di una certa Vivianne (ossia Viviana Zanetti, sorella di Roberto che, come lui stesso dichiara, «lavora da sempre nell’ufficio della DWA ma è anche una brava cantante e la registravo spesso per voci o effetti»), gli inserti maschili di Zanetti mentre i cori di Alessia Aquilani alias Alexia Cooper, una giovane cantante della provincia di La Spezia destinata ad una rosea carriera. Giacomo De Simone gira un videoclip immerso in atmosfere tenebrose, a rimarcare l’impostazione sonora. “Cinema” è anche il titolo di un altro singolo estratto dall’LP in cui il rapper elenca, su una base filo house, una corposa lista di attori, da John Wayne ad Alain Delon, da Sean Penn a Robert De Niro passando per Charlie Chaplin, Chuck Norris, Charles Bronson, Sean Connery ed Arnold Schwarzenegger senza dimenticare diversi italiani come Marcello Mastroianni, Alberto Sordi e Sophia Loren. Questa volta il video, diretto ancora da De Simone, è ambientato (prevedibilmente) in una sala cinematografica.

L’album di Ice MC si muove bene soprattutto in Francia e in Polonia e produce “carburante” per mandare avanti l’attività. Zanetti è pronto a reinventarsi e rimettersi in gioco di volta in volta con nuovi nomi di fantasia come Pianonegro, pseudonimo con cui firma il brano omonimo, versione in slow motion della piano house virata downtempo che stuzzica parecchio il pubblico del Regno Unito. In coppia con Marco Bresciani poi realizza, in scia alla diffusione europea dell’hip house, “Typical” di Soul Boy a cui fa seguito un altro progetto one shot sempre condiviso con Bresciani, Soul Emotion, che col brano omonimo emula i bortolottiani 49ers. Da “Cinema” viene estratto un altro singolo, “Ok Corral!”, hip house in bolla country, mentre il pucciniano “Nessun Dorma” viene traslato da DFB Featuring Walter Barbaria su un reticolo che ammicca a “Sadeness Part I” degli Enigma di Michael Cretu. A leggere le note in copertina pare si trattasse di un disco registrato al Teatro Internazionale dalla Moscow Philharmonic Orchestra diretta da un certo Victor Bradley ma in realtà, come svela oggi Zanetti, tutti i nomi, l’orchestra e il teatro erano immaginari «a parte Barbaria che è un cantante lirico molto bravo». Ubicata tra reggae e downbeat è la cover di “No Woman No Cry” (in origine di Bob Marley & The Wailers) a firma Babyroots, ennesimo act messo su da Zanetti nel suo Casablanca Recording Studio col supporto vocale della turnista Aquilani. È sempre lui ad innestare canti africani su base house (“The Sound Of Afrika” di Humantronics), a campionare l’acapella di “Warehouse (Days Of Glory)” di New Deep Society per “Party Children” di Wareband che si muove ottimamente all’estero, e produrre “Freedom”, il singolo di debutto del congolese Bale Mondonga. Il brano, ripubblicato anche dalla Sugar ma senza particolari risultati, auspica un nuovo mondo con meno differenze sociali e più equità. A distanza di oltre un trentennio le speranze restano ancora le stesse.

Alexia Cooper - Boy
Una giovane Alessia Aquilani, poco più che ventenne, immortalata sulla copertina di “Boy” (Euroenergy, 1989)

1991-1992, alla ricerca di un’identità
Ice MC è già pronto col secondo album, “My World”, dedicato alla sorella Sandra e ceduto in licenza alla tedesca Polydor. La DWA pubblica una special limited edition con tre versioni remix (la 909 Heavy Mix, il Jump Swing Remix e il Work Remix) di un estratto, “Happy Weekend”. Aria di remix pure per la citata “Party Children” di Wareband e “Don’t Cry Tonight” del redivivo Savage, riarrangiata su base downbeat. Echi hip house si rincorrono in “Jumbo” di Tity B., scritta da Nathaniel Wright e prodotta da Leonardo Rosi alias Fairy Noise che a Zanetti affida, poco dopo, le cover di due classici della canzone italiana, “Senza Una Donna” (di Zucchero) ed “Albachiara” (di Vasco Rossi), entrambe a nome Stargo. È proprio Zanetti invece a produrre “Vocalize” di Scattt, pseudonimo derivato dal virtuosismo vocale, lo scat per l’appunto, adottato nel medesimo periodo in “You Too” di Nexy Lanton, prodotto da Gianni Vitale per la debuttante Line Music di Giacomo Maiolini. Bale Mondonga riappare, questa volta con lo pseudonimo Momo B. che lo accompagnerà sino ai tempi di Floorfilla, con la ridente “Be Happy”, e lo stesso avviene con la Aquilani che torna come artista a nome Alexia Cooper a due anni di distanza da “Boy”, una sorta di incrocio tra “Boys” della prorompente Sabrina Salerno e “La Notte Vola” di Lorella Cuccarini. Abbandonato il filone hi nrg destinato perlopiù al mercato nipponico, la cantante interpreta “Gotta Be Mine”, in linea con la dance europea del periodo. Sull’onda di “Party Children”, Wareband cerca il bis attraverso “A Better Day” ma non riuscendo completamente nell’impresa. Sulla rampa di lancio c’è un progetto nuovo di zecca, Data Drama, che debutta con “The Rain”. Insieme a Zanetti in studio ci sono Riccardo Bronzi ed un talentuoso cantante londinese, William Naraine.

Dal Casablanca Recording Studio arriva pure “The Wind” di Zero Phase, act one shot poco fortunato che cerca di ricalcare le orme di un successo proveniente dal Nord Europa, “James Brown Is Dead” degli olandesi L.A. Style, dichiaratamente preso a modello pure per “James Brown Has Sex”, l’ultimo firmato da Zanetti come Raimunda Navarro. In preda al boom commerciale dell’eurotechnodance, la DWA pubblica “S.l.e.e.p. Tonight” di 303 Trance Factor (una delle quattro versioni, la After-Hour Factor Frequency, in cui ben campeggia il vocal sample preso da “The Dominatrix Sleeps Tonight” di Dominatrix, è realizzata dal pugliese Michele Mausi – intervistato qui – ma senza che il suo nome venga riportato tra i crediti), “Pump The Rhythm” di Fletch Two, “Don’t Stop The Movie” di V.I.R.U.S. 666 e “De Puta Madre” dei Terra W.A.N., quest’ultimo preso in licenza dai Paesi Bassi e ripubblicato con dicitura DWA Underground. La strada maestra di Zanetti però non è quella della musica strumentale, i tentativi di raccogliere consensi con prodotti filo techno – compresi quelli di cui si parlerà poco più avanti – sono vani ed infatti torna presto a scommettere sulla vocalità, prima col follow-up di Scattt, “Scat And Bebop”, e poi con Naraine che, nascosto dietro il nomignolo Willy Morales, reinterpreta un classico degli Electric Light Orchestra, “Last Train To London”. La cover attecchisce nel mercato estero e fa da apripista ad un altro remake che segna indelebilmente uno degli zenit per la label massese, “Please Don’t Go”, originariamente dei KC & The Sunshine Band e già riproposto in chiave dance nel 1985 dai Digital Game prodotti da Alessandro Novaga con la voce di Romano Bais, come lo stesso Novaga afferma in questa intervista del 26 marzo 2009.

Double You - Please Don't Go
“Please Don’t Go” dei Double You, tra i bestseller del catalogo DWA

A realizzare la nuova versione è il team dei Double You formato dal musicista Franco Amato, dal DJ Andrea De Antoni e dal citato William Naraine che oltre a cantare ricopre anche ruolo di frontman. Registrato a dicembre del 1991, il brano viene pubblicato a gennaio del 1992 e, come si legge sul sito della stessa DWA, «divenne un successo immediato che garantì a Double You tournée in tutta Europa ed apparizioni in numerosi programmi televisivi. Con più di tre milioni di copie vendute, “Please Don’t Go” si aggiudica dischi d’oro e di platino spopolando in Paesi come Germania, Francia, Olanda, Spagna, Belgio, Svizzera, Austria, Grecia, Turchia, Europa dell’Est, tutta l’America Latina (nessuna nazione esclusa) e molti stati dell’Africa e dell’Asia. Il disco vende anche nell’America del Nord, entrando nella top 10 maxi sales, e nel Regno Unito dove si piazza secondo nella Cool Cuts Chart». Trainato da un videoclip diretto ancora da Giacomo De Simone in cui la scena è dominata da Naraine che su qualche rivista viene definito una sorta di “Nick Kamen prestato alla dance italiana”, “Please Don’t Go” gira su un organo hammond in stile “Gypsy Woman (She’s Homeless)” di Crystal Waters e “Ride Like The Wind” degli East Side Beat (cover dell’omonimo di Christopher Cross di cui parliamo qui), entrambi del 1991, e glorifica la “covermania” da noi andata avanti per quasi un biennio. In Italia diventa un tormentone, aiutato dalle ragazze di “Non È La Rai” che lo ballano quasi come un mantra e da Fiorello che lo ricanta in italiano in “Si O No”, ma anche all’estero, come già detto, le cose vanno alla grande e senza intoppi, almeno sino a quando si fa avanti un’etichetta britannica, la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker, intenzionata a pubblicarlo oltremanica. Poiché già ceduto ad un’altra compagnia discografica, alla Network Records cercano di trasformare l’imprevisto in un’opportunità per non perdere l’affare e trovano presto la soluzione: incidere una nuova versione. Non si tratta però di una cover dell’originale dei KC & The Sunshine Band bensì di una copia carbone del remake italiano realizzata dai K.W.S. (Chris King, Winston Williams e il vocalist Delroy St. Joseph), un banale tarocco insomma. Grazie pare ad una pratica sleale che blocca oltremanica il disco dei Double You, la “Please Don’t Go” dei K.W.S. ha via libera e riesce a conquistare il vertice delle classifiche britanniche (per ben sette settimane consecutive) e statunitensi, coadiuvata da un videoclip e dal supporto di un colosso come la Next Plateau Records di Eddie O’Loughlin. La reinterpretazione (o presunta tale) sbarca anche in Italia attraverso la Whole Records del gruppo Media Records. La questione desta scalpore e finisce prevedibilmente nell’aula di un tribunale. Informazioni dettagliate trapelano attraverso un articolo di Roger Pearson pubblicato su Billboard l’1 aprile del 1995: Steve Mason e Sean Sullivan, rispettivamente proprietario e co-direttore della Pinnacle che distribuisce il disco dei K.W.S., sono considerati colpevoli di aver condotto una campagna di pirateria internazionale che infrange il diritto d’autore col chiaro fine di trarre enormi vantaggi economici ai danni della ZYX a cui la DWA di Zanetti aveva precedentemente concesso in licenza il brano dei Double You. Una vicenda analoga toccherà, anni dopo, a “Jaguar” di The Aztec Mystic aka DJ Rolando, come descritto in Decadance Extra, e in un certo senso anche a “Belo Horizonti” dei nostri The Heartists, come racconta Claudio Coccoluto in questo articolo/intervista. Talvolta, è risaputo, il successo ha un prezzo da pagare e può risultare particolarmente alto.

Il 1992 si apre comunque sotto i migliori auspici: insieme ad Ice MC, Pianonegro e Wareband, la DWA adesso mette nel forziere dei successi anche i Double You con “Please Don’t Go”, quarantaseiesima pubblicazione di un catalogo che continua a crescere senza esitazioni ed oggi considerata alla stregua di un’istantanea della spensieratezza degli adolescenti di allora. Da “My World” viene estratto un secondo singolo, il malinconico “Rainy Days” che prova a rimettere al centro della scena Ice MC ma senza grandi consensi. La combo tra hip house e downbeat, tenuti insieme da un breve campionamento vocale preso ancora dal citato “Warehouse (Days Of Glory)” – lo stesso che anni dopo ricicleranno gli svedesi Antiloop per la hit del 1997 “In My Mind” – sembra non fare più grande presa sul pubblico della dance generalista. “Love For Love” dei C. Tronics (Alessandro Del Fabbro, Claudio Malatesta alias Claudio Mingardi – per cui Robyx produce “Star” già nel 1984, in seno al fermento dei medley come raccontato qui – e Stefano Marinari) punta ancora su derivazioni technodance in stile Cappella seppur non manchi una versione spassionatamente italo house, la Original ’70 Mix; la Aquilani veste i panni, per l’ultima volta, di Alexia Cooper con “Let You Go” trainato da un fraseggio jazz che strizza l’occhio a quello di “How-Gee” dei Black Machine di cui parliamo qui, e vagamente jazzy è pure la salsa di “Guitar” di Larry Spinosa, altro nome di fantasia dietro cui si cela Francesco Alberti «che oltre ad essere il fonico del Casablanca Recording Studio era anche un musicista» spiega Zanetti.

Delirio compilation
La compilation “Delirio” fotografa bene il mondo della “techno all’italiana” che si sviluppa tra 1991 e 1992

L’onda di quella che viene sommariamente definita “techno” cresce ed impatta fragorosamente in Italia dove si moltiplicano i tentativi di emulazione di replicare i numeri dei successi nordeuropei. La DWA non si esime dal seguire questa tendenza generalizzata, seppur appaia evidente che quello continui a non essere affatto il genere in cui riesca a dare il proprio meglio. Escono “Confusion” di Psycho, “Can You Hear Me” di Walt 93 e la compilation “Delirio” che rappresenta bene lo spaccato di quel mondo “techno all’italiana”, fatto di campionamenti troppo ovvi e semplificazioni che collocano il genere nato a Detroit «su binari semplici e riconoscibili […], oltre a spingerlo verso ritmi produttivi pari a quella dell’ormai consolidata piano house» come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, specificando che «il sound generale di quei dischi aveva veramente poco di techno nel senso più puro della parola. Si tratta infatti di produzioni realizzate perlopiù da musicisti che hanno un background musicale non adatto alle strutture minimali ed eclettiche del sound di Detroit, e al massimo assomigliano alle produzioni europee di label come R&S o Music Man ma senza averne l’impatto e le giuste sonorità». I Data Drama riappaiono, per l’ultima volta, con “Close Your Eyes”, ancora cantato da Naraine che però non compare nelle esibizioni pubbliche (come questa) perché impegnato coi Double You, Claudio Mingardi produce “L.O.V.E.” di 2 Fragile, ennesimo act one shot a cui si sommano Larry Liver Lip con “Challowa”, attraverso cui Zanetti ed Alberti (il Larry rimanda al sopramenzionato Larry Spinosa) rimaneggiano il ragamuffin coadiuvati dalla voce di Ian Campbell e parzialmente ispirati da “Informer” di Snow, “Razza” dei Razza Posse (promosso sullo sticker in copertina come “raggarappin”) e il “Contraddizione EP” dei Contraddizione Posse. Tutti finiscono in una compilation intitolata “Italiano Ragga” omonima di un pezzo di Ice MC racchiuso in “My World”, uscita dopo lo scandalo di Tangentopoli di cui si rinviene qualche riferimento sulla copertina e nella quale, tra gli altri, presenzia Frankie Hi-NRG MC con “Fight Da Faida”.

Double You - We All Need Love LP
Un primo piano di William Naraine finito sulla copertina del primo album dei Double You

Il vero banco di prova per l’etichetta è rappresentato dal follow-up di “Please Don’t Go” dei Double You ossia “We All Need Love”, registrato a giugno 1992 durante la tournée europea. Si tratta ancora di una cover, questa volta del pugliese trapiantato in Canada Domenic Troiano, capace di raggiungere in tempi brevi i vertici delle classifiche di vendita di tutto il mondo. Abbinato ad una base che ricorda, come vuole la ricetta del classico follow-up, quella di “Please Don’t Go”, “We All Need Love” è anche il titolo del primo album della band. Non manca il videoclip dominato ancora dalla figura del carismatico Naraine. A fare da contorno “Rock Me Baby” e “Gimme Some” di Babyroots, interpretate da Sandy Chambers e cover rispettivamente degli omonimi di Horace Andy e Jimmy “Bo” Horne scritti da Harry Casey e Richard Finch. A settembre è tempo di “Who’s Fooling Who”, terzo singolo dei Double You ancora estratto da “We All Need Love”, cover dell’omonimo dei One Way e per cui viene girato un videoclip. È una cover pure quella dei debuttanti Netzwerk, team composto dai produttori Marco Galeotti, Marco Genovesi e Maurizio Tognarelli, che per l’occasione ricostruiscono “Send Me An Angel” degli australiani Real Life avvalendosi della voce della citata Chambers che fa anche da frontwoman per le esibizioni nelle discoteche e in tv. Tra echi à la Snap! (“Rhythm Is A Dancer” è una delle hit dell’anno a cui si ispira più di qualcuno), la vena malinconica preservata dall’originale e il climax raggiunto dopo un effetto stop che introduce il ritornello e che diventa la tag identificativa della DWA, il brano conquista diverse licenze estere e circola parecchio nei primi mesi del 1993. Provengono d’oltralpe invece “Keep Our Love Away” di Sophie Hendrickx e “Use Your Voice” di Red Zone, entrambe prese in licenza dalla belga Rox Records di Roland De Greef.

Digilove - Let The Night Take The Blame
Digilove, uno dei tanti progetti a cui presta la voce Alessia Aquilani

1993, 1994, 1995: la consacrazione dell’eurodance
Ancora estratto da “We All Need Love”, “With Or Without You” è il nuovo singolo dei Double You, cover dell’omonimo degli U2. Posizionato nei binari timbrici di “Please Don’t Go”, il brano rivive attraverso molteplici versioni solcate su un doppio mix tra cui alcune ritmicamente più impetuose come la Mind 150 Mix. Claudio Mingardi torna con un progetto nuovo di zecca, Gray Neve, varato con l’onirica “I Need Your Love” scritta insieme ad Alessia Aquilani con qualche rimando che vola ad “Exterminate!” degli Snap!. L’assenza di una personalità definita e di un’idea sviluppata a dovere lasciano però il pezzo nell’anonimato. Decisamente più convincente e coinvolgente invece la cover di “Let The Night Take The Blame” di Lorraine McKane con cui debutta Digilove, act messo su dal team M.V.S. (il citato Mingardi, Gianluca Vivaldi e Riccardo Salani). Il brano valorizza il timbro prezioso e sensuale della Aquilani e conquista licenze in Germania, Francia e Spagna e lo spazio in numerose compilation che ai tempi possono rappresentare l’ago della bilancia di alcune produzioni discografiche soprattutto in ambito eurodance. Quest’ultimo si configura come un filone dalle caratteristiche ben precise rappresentate da uno spiccato apparato melodico ottenuto con riff di sintetizzatore in cui si incrociano vocalità maschili e femminili, spesso le prime in formato rap nella strofa, le seconde invece a scandire l’inciso, in uno schema apparso già nel 1989 con la profetica “I Can’t Stand It” di Twenty 4 Seven a cui abbiamo dedicato qui un articolo. Dal 1992, con l’esplosione di “Rhythm Is A Dancer”, questo modello diventa praticamente una matrice a cui un numero indefinito di produttori europei fa riferimento per comporre la propria musica. È il caso dello svizzero René Baumann alias DJ Bobo che entra nel mercato discografico nel 1990 con “I Love You”, distillato tra l’house balbettante di Chicago, le pianate italo e ganci hip hop, e che adesso cavalca in pieno il fermento eurodance con “Somebody Dance With Me”, pubblicata a novembre del ’92 ma esplosa in diversi Paesi europei ed extraeuropei (come Australia ed Israele) nel corso dell’anno seguente, quando arriva anche in Italia attraverso la DWA. Si narra che sia stato proprio il successo internazionale ad aver attirato l’attenzione della celebre Motown accortasi dell’evidente somiglianza tra il ritornello di “Somebody Dance With Me” e quello di “Somebody’s Watching Me” di Rockwell, interpretato da Michael Jackson. L’etichetta di Berry Gordy, padre dello stesso Rockwell, avrebbe intentato causa ai danni dello svizzero accusandolo di plagio. In occasione del loro ventennale d’attività, la DWA pubblica il megamix dei KC & The Sunshine Band intitolato ironicamente “The Official Bootleg”. Segue una tiratura su LP, “Oh Yeah!”, che in tracklist annovera una versione di “Please Don’t Go” registrata live in Versilia. Il chitarrista Francesco ‘Larry Spinosa’ Alberti offre un continuum al “Guitar”, “The Guitar E.P. Nº 2” che all’interno ospita due tracce (e due remix) di stampo house rigate da una vena papettiana, e un ritorno è pure quello degli olandesi Terra W.A.N. con “Caramba (Dance 2 Dis)”, traccia ai confini con l’hardcore incanalata nel brand DWA Interface.

È pop dance made in Italy invece “Baby I Need Your Loving” di Johnny Parker Feat. Robert Crawford, prodotto da Marco Mazzantini e Daniele Soriani (quelli che tempo dopo armeggiano dietro Gayà) e coi backing vocal di Alessia Aquilani. A sorpresa Zanetti riporta in vita il suo alter ego Savage, assente da circa un triennio, con “Something And Strangelove”: “Something” è un inedito che risente dell’influsso della dance mitteleuropea, “Strangelove” è la cover dell’omonimo dei Depeche Mode. Sull’etichetta centrale si legge DWA Infective, ennesima declinazione che il musicista utilizza per personalizzare l’iter artistico della sua label analogamente a DWA Italiana, usata per il remix di “Sesso O Amore” degli Stadio realizzato dal sopraccitato team degli M.V.S. (Mingardi, Vivaldi, Salani). I Double You tornano con “Missing You”, primo singolo estratto da “The Blue Album” che uscirà l’anno dopo: sganciata dalla formula del filone iniziato con “Please Don’t Go”, la band inforca una nuova strada contaminata da elementi rock. Sul lato b (e sul CD singolo) finiscono i remix house di Fulvio Perniola e Gianni Bini che proprio quell’anno debuttano su UMM come Fathers Of Sound. Roberto Calzolari e Massimo Traversoni invece, già dietro Dyva, si propongono con “You Make Me Feel” cantata da Gwen Aäntti, un brano in cui pare riascoltare un frammento (velocizzato) di “What Is Love” di Haddaway. Per l’occasione si firmano S.D.P., acronimo di Sweet Doctor Phybes. Il 1993 partorisce un numero abissale di cover dance di classici pop/rock, proprio come “You And I” di Zooo, remake del classico dei Delegation prodotto da Claudio Mingardi e Marco Mazzantini. I due si occupano anche di “Love Is The Key” di Simona Jackson, cantante americana più avanti nota come Simone Jay che inizia a collaborare con la struttura zanettiana mediante un brano di estrazione house. È il centesimo disco della DWA, che scommette ancora sulle potenzialità di DJ Bobo e della sua “Keep On Dancing!”, perfetto follow-up di “Somebody Dance With Me” costruito sui medesimi elementi ossia base che fonde pianate ai bassi sincopati in stile “Rhythm Is A Dancer” condita dal rap maschile e dal ritornello affidato ad una voce femminile. Il successo internazionale convince Zanetti a licenziare nel nostro Paese anche il primo album dell’artista svizzero, “Dance With Me”, pubblicandolo in formato CD.

Ice MC e la tedesca Jasmin ‘Jasmine’ Heinrich che lo affianca quando la DWA lo rilancia nell’eurodance

Assente da quasi due anni, Ice MC riappare sotto la dimensione narrativa dell’eurodance auspicando un ritorno ai fasti reso possibile da “Take Away The Colour” uscito ad ottobre, in cui Robyx assembla con maestria il rap di Campbell ad una trascinante base a cui aggiunge un ritornello a presa rapida. A cantarlo è la menzionata Simona Jackson che però non compare nel videoclip, rimpiazzata dalla tedesca Jasmin Heinrich alias Jasmine, scelta per affiancare Campbell nei live e nei servizi fotografici secondo una pratica comune sin dai tempi dell’italo disco così come descritto in questa inchiesta. È uno dei primi pezzi eurodance prodotti in casa DWA che, in virtù del significativo impatto sul mercato continentale con oltre 200.000 copie vendute, genera più di qualche epigono a partire da “Get-A-Way” dei tedeschi Maxx, così come scrive James Hamilton sulla rivista britannica Music Week il 18 marzo 1995. Insieme ad Ice MC ritornano anche i Netzwerk con un’altra cover, “Breakdown”, originariamente di Ray Cooper ed ora ricantata da Sandy Chambers. Nell’ultimo scorcio del ’93 l’etichetta mette sul mercato i remix di “Give It Up” di KC & The Sunshine Band, “Part-Time Lover” dei Double You (ancora estratto dall’imminente “The Blue Album”), “Give You Love” dei Digilove cantata dall’infaticabile Alessia Aquilani, “I Tammuri” di Andrea Surdi e Tullio De Piscopo e “Take Control” di DJ Bobo, ormai lanciatissimo nel firmamento eurodance internazionale ma con pochi responsi raccolti in Italia.

Corona - The Rhythm Of The Night
La copertina di “The Rhythm Of The Night” di Corona

Menzione a parte merita “The Rhythm Of The Night” di Corona, progetto ideato dal DJ Lee Marrow e registrato nel Pink Studio di Reggio Emilia di Theo Spagna, fratello di Ivana. A scrivere il testo è Annerley Gordon, la futura Ann Lee, a cantare (in incognito) il brano è invece la catanese Jenny B. mentre a portarlo in scena è la frontwoman brasiliana Olga De Souza, unica protagonista del videoclip diretto da Giacomo De Simone. Ottenuto incrociando abilmente parti inedite ad una porzione melodica di “Save Me” delle Say When! ed un riff di tastiera simile a quello di “Venus Rapsody” dei Rockets, “The Rhythm Of The Night”, uscito a novembre e racchiuso in una copertina che immortala lo skyline newyorkese notturno con le Torri Gemelle luccicanti come gioielli nell’oscurità, diventa presto un successo globale che vive tuttora attraverso remix, cover ed interpolazioni, su tutte “Of The Night” dei Bastille e “Ritmo (Bad Boys For Life)” dei Black Eyed Peas e J. Balvin. Innumerevoli anche i derivati, a partire da “The Summer Is Magic” di Playahitty prodotta da Emanuele Asti, uscita nel ’94 e curiosamente interpretata dalla stessa Jenny B. seppur nel video finisca una modella. Quello di Corona è il primo mix ad essere stampato col logo bianco su fondo blu, declinazione grafica più rappresentativa della DWA rimasta in uso sino alla fine del 1996.

Il 1994 inizia con “Number One – La Prima Compilation Dell’Anno”, una raccolta edita su CD e cassetta e mixata da Lee Marrow che raduna materiale prevalentemente dwaiano, alternato a successi del periodo come Silvia Coleman, Cappella ed Aladino. All’interno c’è anche un’anteprima, “Everybody Love” di TF 99, nuovo progetto del team M.V.S. solcato su 12″ a gennaio ed oggetto di discreti riscontri oltralpe. Arrivano dall’estero invece “Is It Love?” dei Superfly e “I Totally Miss You” di Mike L.G., entrambi prodotti da George Sinclair ed Eric Wilde ma passati inosservati da noi. Per i Double You è tempo del secondo LP, “The Blue Album”, dal quale viene prelevato “Heart Of Glass”, cover dell’omonimo dei Blondie. Il fenomeno dei remake è ormai sulla via del tramonto ma certamente non quello dei remix: la DWA rimette in circolazione la musica di Savage attraverso un greatest hits, “Don’t Cry”, abbinato a numerose versioni remix dell’evergreen “Don’t Cry Tonight” incise su due dischi. A firmarle, tra gli altri, Mr. Marvin, Stefano Secchi, Fathers Of Sound e Claudio Mingardi. Proprio quest’ultimo, insieme agli inseparabili Vivaldi e Salani e alla “solita” Aquilani, dà alle stampe “Under The Same Sun”, ignorata in Italia ma accolta bene in altri Paesi europei (Germania, Francia, Spagna). Il nome del progetto one shot è DUE, la medesima sigla (acronimo di Dance Universal Experiment) con cui il team M.V.S. lancia la propria etichetta l’anno dopo, la DUE per l’appunto. Passando per i poco noti “Space Party People” di Arcana, prodotto a Trieste da David Sion (intervistato qui) e Chris Stern, “I Wanna Be With You” dei Cybernetica (Mingardi e soci) e “Better Be Allright” di Space Tribe (una sorta di risposta a “Move Your Body” degli Anticappella realizzata dai componenti dei Double You), la DWA garantisce un po’ di longevità a “The Rhythm Of The Night” di Corona attraverso i (primi) remix tra cui quello di Mephisto (intervistato qui), e scommette sulle potenzialità di “It’s A Loving Thing” di CB Milton, eroe dell’eurodance in buona parte dell’Europa settentrionale prodotto dagli artefici dei 2 Unlimited, Phil Wilde e Jean-Paul De Coster. Il cantante olandese è tra i protagonisti dell’ondata di interpreti come Haddaway, Lane McCray dei La Bouche, Captain Hollywood, Ray Slijngaard dei 2 Unlimited, Dr. Alban, Jay Supreme dei Culture Beat, B.G. The Prince Of Rap o Turbo B. degli Snap! e Centory, accomunati non solo dal genere musicale ma anche dal colore (scuro) della pelle, come del resto vale per Ice MC.

Ice MC - Think About The Way
“Think About The Way” sancisce la completa affermazione di Ice MC in Italia

Il primo boom dell’anno è proprio il suo: “Think About The Way” esce alle porte della primavera ed è il brano con cui l’etichetta di Zanetti conferma il successo internazionale per Campbell. La scrittura si evolve entro canoni ben definiti e l’effetto cover inizia a dissolversi a favore di una personalizzazione dei suoni dalle tonalità calde e brillanti, equilibri attentamente studiati e ponderati tra parti strumentali e vocali nonché una meticolosa attenzione per le stesure accomunate dall’inciso con accento metrico in levare anticipato dall’effetto stop, laser, blip (o comunque un fx simile ad una scarica elettrica) adottato ripetutamente per circa un quadriennio. Questa volta ad affiancare il rapper è la Aquilani che però non compare nel video diretto da Giacomo De Simone e nemmeno sul palco del Festivalbar, nella clip per Superclassifica Show e tantomeno nei live come questo al pugliese Modonovo Beach, rimpiazzata da Jasmin Heinrich già incrociata nel video di “Take Away The Colour” e, un paio di anni dopo, entrata nella formazione degli E-Sensual. La spezzina tuttavia prende parte ad alcune esibizioni live, come questa all’evento francese Dance Machine, o questa in occasione del programma “Donna Sotto Le Stelle” trasmesso da Italia 1. Questa singolare situazione, non nuova negli ambiti dance specialmente nostrani, non la infastidisce almeno a giudicare da quanto dichiara a Riccardo Sada in un’intervista pubblicata ad aprile 1998 su Jocks Mag: «non sono stata vittima nel progetto Ice MC, io cantavo e sul palco ci andava una mulatta, ma mi è bastato. Adesso però sul palco ci vado io e mi diverto». In “Think About The Way” c’è ancora l’impronta rap ma senza riferimenti all’hip house. La produzione zanettiana ora vira verso la melodia più ariosa, e l’indovinato ritornello fa il resto insieme all’hook “bom digi digi digi bom digi bom”. Sebbene pubblicato a marzo, il brano di Ice MC, tempo dopo entrato nella colonna sonora del film “Trainspotting”, diventa un inno estivo dal successo ulteriormente prolungato da nuove versioni tipo la Noche De Luna Mix con una chitarra spagnoleggiante in stile Jam & Spoon. Come sottolinea Manuela Doriani in una recensione di agosto ’94, l’uscita di questo remix risulta decisamente provvidenziale «perché l’originale stava cominciando un po’ a stancare le masse discotecare».

Da “Dance With Me” viene estratto “Everybody” con cui DJ Bobo rallenta i bpm a favore di una canzone downtempo rigata di reggae, tentando di fare il verso ad “All That She Wants” degli Ace Of Base, Mingardi, Vivaldi e Salani clonano “Move On Baby” dei Cappella attraverso “Music Is My Life” di Galactica, Ice MC viene coinvolto in un nuovo remix di “The Rhythm Of The Night” (lo Space Remix), CB Milton riappare con “Hold On (If You Believe In Love)” e i Double You con “Run To Me”, montata sul riff identificativo di “Don’t Go” di Yazoo. Nel turbinio delle pubblicazioni rispunta anche Savage con l’inedito “Don’t You Want Me”, scritto insieme a Fred Ventura (intervistato qui) ed incastonato nella base di “Think About The Way” con qualche marginale variazione. Non è intenzione di Zanetti però rilanciarsi nella scena, è chiaro sin dall’inizio che il musicista non voglia usare la casa discografica per sponsorizzare la sua carriera da artista. La DWA invece veicola nel mondo il suo ruolo da produttore e questo spiega la ragione per cui l’alter ego principale di Zanetti occupi una posizione decisamente defilata rispetto ad altri progetti ed artisti, in primis Corona ed Ice MC, talmente forti da oscurare pure altre proposte dell’etichetta, come “Don’t U Feel The Beat” di Timeshift, importato dal Belgio, “Do You Know” di Black & White, prodotto da Massimo Traversoni e Roberto Calzolari scopiazzando palesemente “Think About The Way”, e “I Don’t Wanna Be” di Crystal B., un altro act one shot registrato presso il Crystal Studio di Francesco Alberti e noto perlopiù all’estero. Nel frattempo Corona arriva oltremanica con la WEA del gruppo Warner aggiudicandosi, come riportato sul sito DWA, un disco d’oro con oltre 400.000 copie vendute. Per l’occasione “The Rhythm Of The Night” viene remixata dai Rapino Brothers (italiani trapiantati nel Regno Unito) e dai fratelli Adrian e Mark LuvDup, anticipando lo sbarco oltreoceano. Alla fine dell’anno saranno più di quindici i dischi d’oro e di platino appesi alla parete. Davvero niente male per un pezzo che, come l’autore racconta qui, viene inizialmente rifiutato da un discografico della Dig It International convinto che non fosse affatto adatto ai tempi e che oggi, paradossalmente, è finito col diventare una specie di elemento mitologico di quell’epoca.

Ice MC + Netzwerk
“It’s A Rainy Day” e “Passion”, due grandi successi della DWA usciti nel secondo semestre ’94

Dopo un’estate vissuta da assoluto protagonista, Ice MC torna con “It’s A Rainy Day”, che davvero nulla divide col quasi omonimo “Rainy Days” di due anni prima. Scritto e prodotto da Zanetti mescolando gli stessi elementi di “Think About The Way” incluso un nuovo hook vocale (“eh eh”), il brano è issato da una suggestiva frase di organo sposata perfettamente con l’atmosfera malinconica tipica delle produzioni a nome Savage. La Aquilani è confermata come voce femminile e questa volta la si ritrova anche nel video ancora diretto da Giacomo De Simone. I tempi sono maturi per lanciare l’album dell’artista, il terzo della carriera, intitolato “Ice’ N’ Green” che gioca sull’assonanza fonetica col quartiere il cui Campbell è cresciuto, Hyson Green, a Nottingham. Quella della DWA ormai è una matrice costituita da suoni e stesure a cui un numero imprecisato di produttori eurodance si ispira, come Malatesti, Salani e Vivaldi che affidano a Zanetti “Don’t Leave Me”, il primo brano firmato Fourteen 14 riuscendo ad ottenere ottimi riscontri all’estero. Percorso inverso invece per CB Milton che dalla belga Byte Records si ritrova in Italia con un altro singolo estratto da “It’s My Loving Thing” ovvero “Open Your Heart”. Allineati al modulo Corona/Ice MC risultano anche i Netzwerk, orfani di Marco Genovesi rimpiazzato da Gianni Bini e Fulvio Perniola, che in autunno tornano con “Passion” lanciata su un ritmo ondulatorio e galoppante. La nuova formazione vede anche la defezione di Sandy Chambers sostituita da Simone Jackson, scelta che però, come lo stesso Bini spiega in questa intervista, «non fu legata a questioni artistiche ma, più banalmente, all’impossibilità della Chambers di cantare in quel periodo». La Jackson, nel 1994, interpreta anche “You’re The One”, prodotto da Francesco Racanati alias Frankie Marlowe, già attivo in progetti come E. L. Gang, Nine 2 Six e 2 B Blue, che però resta nel cassetto. «Dopo il grande successo di “The Rhythm Of The Night” di Corona pensai di realizzare un brano che potesse collocarsi su quel genere» svela oggi Racanati. «Scrissi il testo e mi rivolsi all’amico Alex Bertagnini che mi presentò Vito Ulivi. Lavorammo insieme al pezzo affidandolo vocalmente alla Jackson per l’appunto. Fabrizio Gatto della Dancework (intervistato qui, nda) era intenzionato a farlo uscire come singolo ma parallelamente lo feci ascoltare a Roberto Zanetti che conoscevo dai tempi dei Taxi e con mia sorpresa, sapendo quanto fosse esigente e selettivo, rimase colpito. “You’re The One” gli piaceva e mi consigliò di approfondire il discorso con Lee Marrow per inserirlo nel primo album di Corona che era in lavorazione. Purtroppo Alex e Vito non furono d’accordo, preferivano l’offerta di Gatto che puntava all’uscita come singolo. Tuttavia la Dancework alla fine pubblicò un altro brano in cui non ero coinvolto ossia “All I Need Is Love” di Indiana (di cui parliamo qui, nda), e nel contempo anche il “treno” con Zanetti era ormai passato e perso. “You’re The One”, a cui partecipò pure Marco Tonarelli, rimase quindi in archivio». A chiudere, sotto le feste natalizie, è il Christmas Re-Remix di “It’s A Rainy Day”. Sul 12″ c’è spazio anche per un altro pezzo tratto dall’album, “Dark Night Rider”, col riff di sintetizzatore che paga l’ispirazione a “Move On Baby” dei Cappella, un’altra mega hit italiana messa a segno nel 1994.

Il 1995 riprende dallo stesso nome con cui è terminato il 1994, Ice MC. Non si tratta proprio di un pezzo nuovo di zecca bensì di una rivisitazione di “Take Away The Colour” codificata in copertina come ’95 Reconstruction: ricantata dalla Aquilani che fa capolino anche nel videoclip, la traccia è “figlia” della velocizzazione impressa alla dance nostrana, accelerazione ritmica importata in primis dalla Germania dove quella che a posteriori viene ribattezzata hard dance garantisce un exploit commerciale anche a correnti parallele come l’happy hardcore. La “ricostruzione” di “Take Away The Colour” guarda proprio in quelle direzioni, occhieggiando alle melodie festaiole dei Sequential One del futuro ATB André Tanneberger, alla hit di Marusha (“Over The Rainbow”) e, con un assolo salmodiante a rinforzo del flusso lirico, un po’ anche a quella di Digital Boy (“The Mountain Of King”) che, da noi, fu tra le prime ad innescare quel vigoroso scossone ritmico. «In realtà della versione originale è rimasta solo una piccola parte» spiega Campbell in un’intervista pubblicata su Tutto Discoteca Dance a marzo. «Il pezzo è stato completamente rifatto a 160 bpm, e questo è un disco importante perché segna un’evoluzione del mio stile. La sonorità generale si è rinnovata diventando una via di mezzo tra la melodia, il suono tecnologico tedesco e la jungle britannica». Il brano, in cui si scorge pure qualche rimando vocale non troppo velato a “Think About The Way”, apre la tracklist del remix album dello stesso artista che DWA pubblica insieme alla Polydor del gruppo Polygram.

DWA al Midem
Una foto scattata al Midem di Cannes: a sinistra Steve Allen, A&R della WEA, al centro Roberto Zanetti affiancato da Lee Marrow

È tempo di remix anche per “Passion” dei Netzwerk, ugualmente dopato nella velocità che nella Essential Mix oltrepassa i 140 bpm, e qualche battuta in più la prende anche il nuovo di Corona, “Baby Baby”, rifacimento di “Babe Babe” pubblicato nel 1991 come Joy & Joyce. Ricantato per l’occasione da Sandy Chambers che ovviamente non compare nel video in cui il ruolo da protagonista è sempre di Olga De Souza, il brano, uscito a marzo, conta sul remix di Dancing Divaz utile per penetrare nel mercato britannico ed incluso nella tracklist dell’album uscito in contemporanea, “The Rhythm Of The Night”. La DWA, ancora insieme alla Polydor, lo pubblica solo in formato CD. In Europa è un tripudio. L’etichetta di Zanetti è tra le etichette premiate al Midem di Cannes in virtù di quasi una ventina di dischi d’oro e platino conquistati. La velocità di crociera della dance, nel corso del 1995, aumenta ancora e ciò solleva qualche interrogativo tra gli addetti ai lavori: è corretto parlare di eurobeat? A novembre del ’95 Federico Grilli, sulle pagine di Tutto Discoteca Dance, firma uno speciale in cui pone l’accento proprio sulla trasformazione che investe il filone, «più radicato in Germania e nel Nord Europa che in Italia dove le radio, in alcuni casi, fanno ancora il bello e il cattivo tempo di alcuni dischi». Tanti nomi noti oltralpe (Cartouche, T-Spoon, Maxx, Pandora, Cutoff, Magic Affair, E-Rotic, Imperio, Fun Factory, Intermission, Masterboy) da noi non riescono ad attecchire nonostante l’interesse mostrato per alcuni di essi dalle etichette nostrane, evidentemente incapaci di portare al successo in modo autonomo le scelte dei propri A&R. All’inchiesta prende parte anche Roberto Zanetti che parla dell’eurobeat come «un genere non certamente nuovo ma in vita da oltre un decennio, diretta evoluzione dell’hi NRG con cui Stock, Aitken & Waterman facevano esplodere artisti e band come Rick Astley, Mel & Kim, Dead Or Alive, Hazell Dean e Bananarama. In seguito la Germania, l’Italia e i Paesi limitrofi si sono uniformati ed hanno cominciato a produrre cose simili. Oggi per eurobeat si deve intendere tutto ciò che ha una forte melodia abbinata a suoni e ritmiche attuali, alla moda. In Italia, oltre alle mie produzioni, nella pop dance vedo con interesse dischi come Cappella o Whigfield che di sicuro hanno un sapore internazionale. In conclusione ritengo che l’eurobeat non morirà mai anzi, si andrà sempre più ad identificare con il pop e con tutto ciò che diventa commerciale».

Double You, Netzwerk, Corona (1995)
Double You, Netzwerk e Corona, il tridente d’attacco della DWA nell’estate 1995

L’eurobeat nostrana (o più propriamente eurodance in quanto, come sottolinea Grilli, il fenomeno interessa solamente l’Europa e non l’America) respira a pieni polmoni grazie alla DWA che, a primavera inoltrata, mette sul mercato due mix destinati a diventare in un battito di ciglia dei successi estivi, “Dancing With An Angel” dei Double You e “Memories” dei Netzwerk. Per questi ultimi, ancora affiancati da Simone Jackson che diventa l’immagine e voce nei live così come si vede in questa clip, è una conferma dopo l’exploit invernale ottenuto con “Passion”; per i Double You invece, per l’occasione abbinati al featuring della Chambers che interpreta il ritornello, è un clamoroso ritorno al successo dopo un 1994 vissuto un po’ in sordina. Entrambi testimoniano l’espressività stilistica diventata il trademark della DWA, composto da una pasta del suono limpida e cristallina, irradiata da un bagno di luce che non rompe mai il contatto con la tradizionale formula della song structure. L’inesauribile vena di Robyx porta ad uno stile compositivo ormai inconfondibile che per le radio e i DJ pop dance rappresenta una consolidata certezza in un oceano di produzioni. Quell’anno Corona e la band capitanata da Naraine partecipano alla trasmissione televisiva brasiliana Xuxa Hits che vanta centinaia di migliaia di spettatori: il Brasile è senza timore di smentita tra i Paesi in cui le produzioni DWA fanno maggiore presa. Insieme a loro c’è anche un altro progetto italiano, Andrew Sixty, emerito sconosciuto in patria ma popolarissimo nello Stato sudamericano come testimoniano diverse clip come questa, questa o questa. Nella line up, tra gli altri, figura Max Moroldo, che poco tempo dopo fonda la Do It Yourself e che abbiamo intervistato qui. In estate arrivano “I Want You” dei Po.Lo., prodotto da Mingardi, Vivaldi e Salani sulla falsariga di “Dancing With An Angel” con la voce di Marco Carmassi che ricorda parecchio quella di Naraine, e “Try Me Out” di Corona, rilettura dell’omonimo del ’93 di Lee Marrow cantato da Annerley Gordon ora sostituita da Sandy Chambers ed ispirato da “Toy” delle Teen Dream del 1987. Olga De Souza resta la primattrice del video. Il lato b del disco annovera due remix, quello degli Alex Party e quello di Marc ‘MK’ Kinchen, artefice del successo internazionale dei Nightcrawlers come descritto qui. Kinchen appronta pure una versione strumentale che finisce su un secondo mix codificato, per l’appunto, come Dub Mixes.

In autunno viene annunciato il “divorzio” tra Ice MC e la DWA: Tutto Discoteca Dance fa riferimento alla “stipula di un contratto mondiale tra il cantante di colore e la multinazionale tedesca Polydor” ma per anni le voci che si rincorrono sono discordanti ed alimentano parecchia confusione. Da un lato c’è chi parla dell’uso illegittimo che Campbell avrebbe fatto dello pseudonimo Ice MC – di proprietà della DWA – durante la militanza nella Polydor, dall’altro chi invece punta il dito contro Zanetti, reo di non aver pagato le royalties pattuite a cui il rapper reagisce con una denuncia. «In realtà» come lo stesso Zanetti spiega in un’intervista contenuta nel libro Decadance Appendix, «nessuna delle due versioni è propriamente corretta. Charlie Holmes, manager fino ad allora sconosciuto che viveva a Firenze vicino alla casa italiana di Ice MC, riuscì a convincere l’artista di non essere gestito bene dalla DWA. Ciò portò la rottura improvvisa e non giustificata del contratto e la firma con la Polydor, etichetta con cui, tra l’altro, la DWA già collaborava. A quel punto sorse una causa che venne risolta, amichevolmente, un paio di anni dopo. Holmes aveva un grande potere su Ice MC e lo portò a compiere molte scelte sbagliate che incrinarono la sua carriera. A mio avviso il più grosso errore fu quello di affidare il progetto discografico ai Masterboy che, pur copiando spudoratamente lo stile Robyx, non riuscirono a portare al grande successo brani come “Music For Money” e “Give Me The Light” contenuti nell’album “Dreadatour” uscito nel 1996».

Alexia + Sandy
Nell’autunno ’95 Zanetti lancia Alexia e Sandy come interpreti soliste dopo un numero indefinito di featuring spesso non palesati sulle copertine

L’allontanamento dell’artista su cui aveva scommesso sin dal 1989 e nel tempo diventato un pilastro della sua etichetta non ferma Zanetti che dimostra, immediatamente, di avere un asso nella manica. Nei negozi arriva “Me And You” con cui Alessia Aquilani, da anni turnista per la DWA, diventa Alexia. Ad affiancarla, per una breve parte vocale, è William Naraine dei Double You. Il successo è immediato, il brano conquista il vertice delle classifiche di vendita in Italia e in Spagna col conseguente avvio delle prime tournée da solista. In copertina finisce una foto di Fabio Gianardi che immortala il particolare look della cantante spezzina dalla chioma raccolta in treccioline. Ma le sorprese non sono finite: Zanetti affianca ad Alexia un’altra turnista che ha maturato numerosissime esperienze, Sandra Chambers, ora pronta a spiccare il volo da solista come Sandy. Il suo brano si chiama “Bad Boy” e macina decine di licenze, non solo in Europa, trainato da un refrain di tastiera simile a quello di “Tell Me The Way” dei Cappella, già oggetto di una sorta di ripescaggio nell’omonimo dei The Sensitives nato dalla partnership tra la Bliss Corporation e la Sintetico. A novembre esce “I Don’t Wanna Be A Star” che traghetta Corona nelle atmosfere della discomusic con qualche occhiata a “Can’t Fake The Feeling” di Geraldine Hunt. Il video omaggia la “Dolce Vita” romana ancora con la briosa Olga De Souza, bellezza sudamericana dalla capigliatura fluente e dalla risata peculiare ma un po’ sgraziata, seppur a cantare resti la Chambers. Per non scontentare i fan dell’eurodance viene approntata una versione apposita, la Eurobeat Mix, ma a colpire maggiormente gli addetti ai lavori è la 70’s Mix: in relazione ad essa Nello Simioli, in una recensione apparsa a dicembre su Tutto Discoteca Dance, ipotizza la nascita di un «nuovo filone che possa innalzare il livello qualitativo di un mercato stanco e disorientato». A tirare il sipario sono i Double You con “Because I’m Loving You”, impostato come “I Don’t Wanna Be A Star”: da un lato la versione eurodance pensata come follow-up di “Dancing With An Angel”, dall’altro la ’70 Mix, sincronizzata col video girato in teatro che invece capovolge tutto a favore di dimensioni disco, preservando la linea melodica principale che ammicca a “You Keep Me Hangin’ On” di Kim Wilde. L’idea c’è ma paragonato al predecessore il brano perde un po’ in potenza ed immediatezza. Rispetto alle annate precedenti, quella del 1995 è la prima in cui la frequenza delle pubblicazioni DWA scende a circa una ventina di uscite, riducendo quasi del tutto i progetti one shot e le compilation ed azzerando le licenze estere. Un preludio di ciò che avverrà negli anni a seguire.

1996-1997, un biennio in chiaroscuro
Dopo circa centottanta uscite, la DWA cambia in modo definitivo la numerazione del catalogo del vinile uniformandola a quella del CD: i primi due numeri identificano l’anno, i restanti il tradizionale ordine cronologico di uscita. Il primo è dunque il 96.01 che esce in primavera, “Summer Is Crazy” di Alexia, un pezzo che vuole imporsi come successo estivo sin dal titolo e per cui viene girato anche un video. La Aquilani conferma le proprie doti canore e Zanetti quelle da compositore e produttore. La dance italiana però attraversa una fase particolare, la popolarizzazione di formule strumentali trainata in primis dall’exploit mondiale di “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui) finisce col mettere all’angolo e in ombra il formato canzone sul quale la DWA ha edificato il proprio successo. I suoni della progressive e della dream fanno apparire vecchia e stantia l’eurodance, in tanti(ssimi) preferiscono voltare pagina e cercare fortuna scomodando suoni e stesure che con la dance delle classifiche avevano ben poco in comune.

Alexia - Summer Is Crazy
“Summer Is Crazy” di Alexia, un brano eurodance dai chiari riferimenti dream

In un certo senso lo fa anche Zanetti, come testimoniano i chiari rimandi pianistici a “Children” in “Summer Is Crazy”, portata al Festivalbar e pochi mesi più avanti ricostruita da DJ Dado (e Roberto Gallo Salsotto, intervistato qui) in una versione “pop-gressive”, la World Mix, ottenuta incrociando “Acid Phase” di Emmanuel Top ad “On The Road (From “Rain Man”)” degli Eta Beta J. a cui abbiamo dedicato un articolo qui. Per tentare di cavalcare la transitoria ondata progressive Zanetti riporta in vita, dopo sei anni di assenza, il progetto Pianonegro con “In Africa”, un brano edito anche in formato picture disc nato dalla distillazione della citata “Children”. Ancora una volta appare parecchio evidente che l’artista massese non sia tagliato per i generi strumentali, la sua cifra creativa emerge dalla scrittura di canzoni intarsiate ad efficaci melodie e non dalla ricerca di timbriche inedite che disorientano l’ascoltatore, nuove traiettorie ritmiche o calibrazione di layer davanti a muri di sintetizzatori modulari. «Prima di pensare ai suoni, voci ed arrangiamenti, partivo sempre da una bella canzone» dichiara in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. Con un’anima genuinamente canzonistica Zanetti è dunque un profondo conoscitore della melodia, elemento a cui ha sempre attribuito un ruolo prioritario nelle proprie opere.

A ridosso dell’estate esce il “Megamix” di Corona, composto dai suoi successi usciti tra ’93 e ’95. Quell’anno Olga De Souza è ancora sul palco del Festivalbar ma non come artista bensì come co-conduttrice insieme ad Amadeus ed Alessia Marcuzzi. Tra i cantanti che introduce, come si vede in questa clip, c’è anche Ice MC con la citata “Give Me The Light”, prodotta in Germania dai Masterboy scopiazzando palesemente il DWA style. Zanetti non molla ed appronta un nuovo pezzo per Alexia che esce a novembre, “Number One”, composto sulla falsariga di “Summer Is Crazy” e con l’inciso in comune con “(You’ll Always Be) The Love Of My Life” di Pandora uscito l’anno dopo («alcuni autori britannici mi mandarono un demo da cui presi le note del ritornello, ma tutto il resto fu scritto da me ed Alexia» spiega Zanetti, specificando che ci fosse un accordo a monte di questa scelta). Questa volta oltre al pianoforte childreniano figura pure qualche occhiata a “Seven Days And One Week” dei BBE. Immancabile il video che traina il brano soprattutto all’estero dove l’eurodance non viene intorpidita dalla fiammata progressive. Del pezzo escono svariate versioni remix tra cui la latineggiante Spanish Club Mix in spanglish e la Fun Fun Party Mix, piena di riferimenti agli Alex Party, del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano coadiuvato, tra gli altri, dagli esordienti Harley & Muscle.

E.Y.E. Feat. Alexia - Virtual Reality
“Virtual Reality” di E.Y.E. Feat. Alexia è l’ultimo tentativo della DWA di cavalcare l’onda progressive

Ad inizio ’97 il fenomeno progressive appare già sensibilmente depotenziato rispetto a dodici mesi prima, e nell’arco dell’anno la flessione sarà costante sino ad un calo completo a favore di un ritorno alla vocalità, ad atmosfere più festose e alle tradizionali stesure in formato canzone. Per la DWA, che dopo un triennio rinnova l’impianto grafico ora su fondo nero, l’ultima prova sotto il segno della progressive è rappresentato da “Virtual Reality” di E.Y.E. feat. Alexia, una traccia lontana dalle coordinate robyxiane che tenta di deviare verso stilemi “popgressive” rimaneggiando elementi di “Flash” dei B.B.E. e “Groovebird” dei Natural Born Grooves. L’effetto finale è la sovrapposizione tra prevedibili bassi in levare e girotondi di “pizzicato style”, propaggine di un effimero trend commerciale sdoganato in Europa da pezzi come “Encore Une Fois” dei Sash!, “La Vache” dei Milk Inc. o “Bellissima” di DJ Quicksilver e probabilmente istigato dai Faithless con “Salva Mea (Save Me)” ed “Insomnia”, entrambi del ’95.

Un riavvicinamento alle sponde stilistiche per cui la DWA si è fatta conoscere nel mondo si registra con “Uh La La La” di Alexia, ma non è propriamente un ritorno all’eurodance: Zanetti vira verso il downtempo più scanzonato ai confini con le pop hit r&b, ma lo fa con cognizione di causa. Il brano, con cui la Aquilani partecipa al Festivalbar, diventa un successo estivo europeo, sorretto da un video registrato a Miami. Della ballad arrivano diversi remix realizzati dai Fathers Of Sound pressati su un doppio che ingolosisce i DJ devoti alla house/garage come Paolo Martini che, in una recensione apparsa a maggio su DiscoiD, spende parole più che positive sul progetto: «quando ho ascoltato il DAT sono quasi svenuto, Alexia ha una voce da panico e nel momento in cui sentirete queste versioni anche voi mi darete ragione. Purtroppo (per noi) ha un contratto in esclusiva con la DWA, cosa farei altrimenti con quella voce…». Nei negozi comunque arriva anche un remix espressamente destinato alle radio e ai locali generalisti firmato da Fargetta affiancato da Pieradis Rossini.

Alexia + Sunbrother
Con Alexia e Sunbrother la DWA ritrova la sua dimensione stilistica

“Uh La La La” è tratto da “Fan Club”, primo album di Alexia che la DWA pubblica insieme alla Polydor vendendone più di 600.000 copie e dal quale viene estratto pure “Hold On” con una versione affidata al brasiliano Memê probabilmente ispirato da “Keep On Jumpin'” di Todd Terry. In Italia però i risultati dell’LP non sono completamente soddisfacenti, a dirlo è la stessa cantante in un’intervista pubblicata ad aprile ’98 sulla rivista Jocks Mag in cui sostiene altresì che la sua presenza al Festivalbar «abbia infastidito qualcuno». Perniola, Bini, Galeotti e Tognarelli tornano sull’etichetta zanettiana ma nelle vesti di Sunbrother con “Tell Me What”, una specie di rilettura di “Stop That Train” di Clint Eastwood And General Saint, un vecchio brano reggae del 1983 reimpiantato per l’occasione su una base macareniana. Netzwerk invece “trasloca” sulla Volumex, etichetta della milanese Dancework, con “Dream”, pop tranceggiante interpretata da Sharon May Linn, completamente disallineato dai due precedenti successi e finito inesorabilmente nell’oblio. Un altro ritorno è quello dei Double You prossimi a firmare con la BMG che, orfani di Andrea De Antoni e reduci di un clamoroso successo in Brasile dove esce l’album “Forever” (ma non edito da DWA), si ripropongono con “Somebody”, brano vicino (forse troppo?) alla romantic dance di Blackwood e alla deviazione pop di DJ Dado. Come per Alexia, anche in questo caso ci pensano i Fathers Of Sound a rileggere il brano in numerose versioni house oriented incise su un doppio mix. Il numero risicato di pubblicazioni, una decina nel 1996 ed altrettante nel ’97, è un segnale che qualcosa sia mutato in modo radicale nella struttura discografica massese.

Gli ultimi anni Novanta
Come si è visto, il 1996 e il 1997 segnano un nuovo passo per l’etichetta di Zanetti. Sono ormai lontani i tempi delle pubblicazioni mensili multiple (l’apice è nel 1994 con circa una cinquantina di uscite annue), delle compilation, delle licenze dall’estero e delle scommesse su progetti one shot. I bilanci della discografia, in generale, cambiano bruscamente nell’arco di pochi anni: a Billboard, il 2 luglio ’94, Alvaro Ugolini della Energy Production dichiarava di aver incassato 1 miliardo e 200 milioni di lire nel ’92 e più del doppio nel ’93 mentre Luigi Di Prisco della Dig It International prevedeva di fatturare, per il ’94 ancora in corso, almeno 30 miliardi di lire. Gianfranco Bortolotti della Media Records invece, in un’intervista del giugno ’95 finita nel libro “Discoinferno” di Carlo Antonelli e Fabio De Luca, parla di 10 miliardi di lire in royalties, presumibilmente relativi all’anno precedente. Gli imprenditori del comparto iniziano a capire che sia necessario produrre meno ed alzare l’asticella qualitativa perché i tempi delle vacche grasse stanno repentinamente trasformandosi in ricordi e a testimonianza ci sono eclatanti chiusure, dalla Flying Records («a causa di un insostenibile carico di debiti» come si legge in un trafiletto di Mark Dezzani su Music & Media del 24 gennaio ’98) alla Zac Music, «in ritirata strategica da un mercato ormai depresso», passando per la Discomagic di Severo Lombardoni (distributore della DWA sino a fine ’96) a cui si aggiungerà, nel ’99, la citata Dig It International. Per DWA inoltre si è drasticamente assottigliata pure la scuderia artistica coi nomi statuari ormai defilati dalla scena o già finiti nel dimenticatoio ad eccezione di Alexia, sulla quale Robyx continua a credere ciecamente spinto e motivato anche da un accordo internazionale stretto nel ’97 con la divisione dance della Sony, la Dance Pool. Da quel momento in poi è la multinazionale ad occuparsi della promozione e della distribuzione della musica dell’artista spezzina in tutto il globo. Adesso la DWA, come Zanetti rimarca a Dezzani in uno special sulla scena delle etichette dance indipendenti nostrane pubblicato sul citato numero di Music & Media ad inizio ’98, «è più una casa di produzione che un’etichetta discografica, stiamo concentrando le nostre energie maggiormente su artisti che possano fare crossover tra la dance e il pop come Alexia, a cui vengono aggiunti remix più incisivi destinati alle discoteche. Ritengo che la strada da percorrere sia quella con meno progetti, in questo modo si possono seguire meglio le priorità. Concentrandosi sulla produzione e la gestione dell’artista, è possibile ottenere un prodotto di qualità, quello che attualmente chiedono i consumatori».

Grafico DWA anni 90
La quantità di pubblicazioni DWA nel decennio 1989-1999

Zanetti parla di questo “ridimensionamento progettuale” anche in un’intervista raccolta per il libro Decadance Appendix: «quando, nella seconda metà degli anni Novanta, i miei colleghi della Time, della Media Records e di altre strutture simili si ingrandivano diventando piccole industrie, io preferii rimanere ancorato a dimensioni ridotte per avere un controllo totale sui miei progetti. Basti pensare che nel momento di massimo successo in DWA lavoravano appena quattro persone, io, mia sorella alla contabilità, un ragazzo in studio come aiuto fonico ed una segretaria. Poi, visto che una volta raggiunta fama e popolarità i miei artisti diventavano intrattabili, decisi di lasciarli per dedicarmi a tempo pieno ad Alexia». È altrettanto importante sottolineare che, oltre ad una quantità minore di titoli immessi sul mercato, la DWA abbia sempre poggiato su un lavoro più indipendentista rispetto a quello delle citate Time o Media Records. Nel Casablanca Recording Studio opera il solo Zanetti affiancato da Francesco Alberti, non ci sono team di produzione che possano garantire una maggiore prolificità e tantomeno non si riscontra la presenza di nessuna sublabel, cosa atipica per i tempi quando ci si inventava marchi di ogni tipo e genere spesso con l’unico fine di evitare l’inflazione, tanta era la quantità di dischi immessi mensilmente sul mercato. Se altri portano avanti un’operosità quasi industriale, la DWA resta invece legata ad una sorta di piccolo artigianato.

Alexia LP
Gli album “The Party” ed “Happy” fanno di Alexia una cantante non più legata esclusivamente alla dance

A marzo del 1998 viene pubblicato “Gimme Love” di Alexia, scritto da Zanetti affiancato nel suo studio dall’inseparabile Francesco Alberti, che pare una specie di rivisitazione italica dei fortunati remix di Todd Terry per gli Everything But The Girl. Italia, Spagna e Finlandia sono tra i primi Paesi a “capitolare” ma qualcosa accade anche oltremanica dove Alexia, per sua stessa ammissione in un’intervista rilasciata a Riccardo Sada ad aprile per Jocks Mag, è ancora impopolare. La Dance Pool pubblica i remix (incluso quello degli Almighty) del precedente “Uh La La La” e il brano entra in classifica alla decima posizione, garantendo alla cantante la presenza ad importanti trasmissioni tv, incluso Top Of The Pops. Da noi è tempo del Festivalbar dove Alexia si esibisce prima con “Gimme Love” e poi con “The Music I Like”, secondo singolo estratto dall’album “The Party” uscito a maggio ed inserito in una posizione abilmente giocata tra pop e dance. Le oltre 500.000 copie vendute richiamano l’attenzione del mercato statunitense ed asiatico. La Aquilani figura pure in “Superboy” di Tuttifrutti, un brano bubblegum che Zanetti dedica al mondo del calcio, quell’anno animato dai Mondiali che si disputano in Francia. In autunno è ancora la volta di Alexia con “Keep On Movin'” dove prevale una vocazione maggiormente legata al pop, dimensione in cui la cantante entra definitivamente da lì a breve col terzo album uscito nel ’99, “Happy”, anticipato da “Goodbye” a cui partecipa il musicista Marco Canepa.

Per Alexia è l’LP della consacrazione e la sua musica, seppur ancora in lingua inglese, non è più relegata solo all’ambiente delle discoteche ma abbraccia un pubblico eterogeneo. Anche la sua immagine inizia a conoscere un rinnovamento: appare ancora vispa e sbarazzina, spesso abbigliata con colori fluo così come vuole la moda del periodo, ma senza più le lunghe treccioline. Dall’album viene estratto anche l’omonimo “Happy”, accompagnato da un video in cui l’interprete è proiettata negli anni Sessanta mediante una sorta di macchina del tempo chiamata Virtual Transfer. Nel 2000 tocca ad un inedito, “Ti Amo Ti Amo”, l’ultimo scritto da Zanetti e contenuto nella raccolta “The Hits” che riassume le tappe essenziali della carriera artistica della Aquilani. È l’ennesimo brano a confermare l’abilità del produttore toscano nel costruire canzoni semplici ed efficaci, montate su stesure immediate ed incisi facilmente memorizzabili e collocati in un contesto privo di qualsiasi dettaglio superfluo. Nonostante il considerevole successo, a questo punto qualcosa si incrina. Come riportato sul sito DWA, la cantante chiude un nuovo accordo con la Sony estromettendo Zanetti «costretto ad intentare un procedimento legale per inadempimento di contratto». Alexia ormai non è più la ragazzina dei turni in sala canto, all’orizzonte c’è il Festival di Sanremo a cui partecipa nel 2002 con “Dimmi Come… “ sfiorando la vetta conquistata l’anno successivo con “Per Dire Di No”. Eppure sino a pochi anni prima l’ipotesi di cantare in italiano non la sfiorava nemmeno da lontano: «la lingua inglese mi è molto affine e credo di esprimere con essa il meglio di me stessa» affermava in un’intervista di Barbara Calzolaio pubblicata ad aprile 1998 su Trend Discotec.

Ice MC con Time
I due singoli che nel 2004 segnano la ritrovata collaborazione tra Ice MC e Zanetti

Il ritorno dopo il buio, l’attività nel nuovo millennio
Dopo la rottura del sodalizio con Alexia, la DWA si ferma ma non il suo fondatore che non resta con le mani in mano. Tra le altre cose, Robyx scrive e produce “www.mipiacitu” dei romani Gazosa, hit dell’estate 2001 scelta per lo spot televisivo della Summer Card Omnitel con Megan Gale. La DWA riappare nel 2004 quando, nell’incredulità di molti, l’asse creativo tra Zanetti ed Ice MC viene ristabilito. Il primo risultato della ritrovata partnership è rappresentata dal brano “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” pubblicato in tandem con la Time di Giacomo Maiolini. Contrariamente a quanto si aspettano gli eurobeatiani più convinti e nostalgici, non contiene nulla delle hit nazionalpopolari del rapper britannico se non l’attitudine hip hop che lo accompagna sin dagli esordi spinta verso sponde reggae à la Shaggy o Sean Paul. Il pezzo, per cui viene girato anche un videoclip, è estratto dall’album “Cold Skool” che però passa completamente inosservato. Probabilmente il vero miracolo risiede nel fatto che i due si siano riavvicinati lasciandosi alle spalle i dissapori di metà anni Novanta. «Nel 2004 abbiamo tentato di dare un nuovo avvio alla carriera di Ice MC, prima con “It’s A Miracle (Bring That Beat Back)” e poi con “My World”» (ancora su Time e solo omonimo dello sfortunato album del ’91, nda) ma probabilmente non era il momento propizio per quel genere musicale» dichiara Zanetti in un’intervista finita nel libro Decadance Appendix nel 2012. «Malgrado non abbiano raccolto ampio successo come negli anni Novanta, nutro grande rispetto per quei due singoli e credo rientrino a pieno merito tra i brani più belli di tutta la discografia di Ice MC» aggiunge. L’eurodance ormai appartiene ad un passato che inizia ad essere remoto, e i suoi protagonisti stanno per trasformarsi in materiale revivalistico. Nel 2005 Robyx si cimenta in un pezzo house, “Wonderful Life” di Creavibe, che affida alla Ocean Trax degli amici Gianni Bini e Paolo Martini. Sono anni piuttosto difficili per il mercato discografico, letteralmente sconvolto dalla “digital storm” che azzera gli introiti legati ai tradizionali formati (dischi, CD e cassette). Il mercato generalista, a differenza di quello settoriale, è il primo a non puntare più sui prodotti fisici. Inizia la corsa alla conversione digitale dei cataloghi nella speranza che ciò possa rappresentare un paracadute ed evitare lo schianto, ma le promesse dell’MP3 non verranno mai mantenute perché non c’è stata, oggettivamente, una generazione ad aver raccolto il testimone della precedente che anziché comprare dischi ha investito denaro in file, perlomeno non nei numeri auspicati.

Ural 13 Diktators - Total Destruction
In “Total Destruction” degli Ural 13 Diktators c’è un brano che riprende la melodia di “Only You” di Savage

Nel frattempo, sotto la spinta dei fermenti underground nati all’estero, in primis nei Paesi Bassi, si prospetta una seconda vita per l’italo disco. Dalla fine degli anni Novanta è un crescendo continuo e da genere bistrattato si trasforma in un trend battuto da alcuni DJ che vantano un nutrito seguito, da I-f ad Hell passando per Felix Da Housecat e Tiga. L’italo disco diventa, insieme ad altre correnti stilistiche come new wave, eurodisco e synth pop, materiale da riconvertire per una nuova generazione. Nasce quindi l’electroclash che fa incetta di un numero abissale di musica “retroelettronica”, svecchiata e pronta a risorgere con nuova energia perché, come scrive Simon Reynolds in “Retromania”, ora il plastic pop «viene spogliato dalle connotazioni negative (usa e getta, finto) e recupera il carattere utopico di materia prima del futuro». Nel radar finisce anche la tastiera di “Only You” di Savage, ricollocata in un inedito scenario dai finnici Ural 13 Diktators nella loro “Name Of The Game” (dall’album “Total Destruction”, Forte Records, 2000). Ancora più d’impatto la Vectron Mix dell’anno dopo messa a punto dal compianto Christian Morgenstern sotto le sembianze di The Bikini Machine, accompagnata da un video immerso nel mondo ad 8 bit dei vecchi videogiochi arcade. Ad innamorarsene è anche Gigi D’Agostino che la inserisce nel primo volume della compilation “Il Grande Viaggio Di Gigi D’Agostino”.

Savage - Twothousandnine
“Twothousandnine” riporta Savage all’istintività degli esordi

Così come accaduto ad Alexander Robotnick, Fred Ventura e ai N.O.I.A., di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui, anche Savage è destinato a tornare a splendere di luce propria in una specie di cortocircuito cronologico col presente sempre più intriso di passato e ciò avviene nel 2009 col brano “Twothousandnine”, dedicato alla figlia Matilde e solcato su 12″ dall’etichetta olandese I Venti d’Azzurro Records. In copertina c’è Zanetti bambino: “Twothousandnine” è fondamentalmente un ritorno alla giovinezza, alla spontaneità e all’istintività dei suoi primi lavori, sotto la campata dell’italo più romantica e malinconica. Il disco è già diventato un cimelio ambito per i collezionisti ed è sulla stessa strada il CD edito dalla DWA. Corrono ancora i tempi di MySpace, l’epoca dei social network è alle porte, il mondo sta cambiando velocemente pelle, quello della musica in modo radicale. La tecnologia mette nelle condizioni di poter approntare brani anche nelle camerette con strumenti dai costi più che abbordabili, tanti giovani provano a fare il salto. Tra quelli anche la venticinquenne Elisa Gaiotto alias Eliza G in cui Zanetti crede producendo “Summer Lie” in cui si ritrova parte del mood di “It’s A Rainy Day”. Passando per le cover di “The Rhythm Of The Night” e “Think About The Way” approntate dai britannici Frisco e quella di “Please Don’t Go” dell’italiano DJ Ross, la DWA mette in circolazione “Mad 90’s Megamix” di DJ Mad, un medley di classici (“Saturday Night”, “Please Don’t Go”, “The Rhythm Of The Night”, “Me And You”, “Think About The Way”) che alimenta la voglia di riavvolgere il nastro di una dance d’antan. Zanetti non perde di vista l’italo disco che continua a conquistare consensi sempre più ampi all’estero e, tra 2009 e 2010, ripubblica in digitale “To Miami” dei Taxi, “Magic Carillon” di Rose, “Buenas Noches” di Kamillo, e la tripletta “I’m Singing Again”, “Show Me” e “Sometimes” di Wilson Ferguson. Non mancano ovviamente i pezzi del repertorio savagiano, da “So Close” a “Good-Bye” (ricantata da Alexia nella versione dei Fourteen 14 uscita nel ’95), da “I Just Died In Your Arms” a “Don’t Leave Me”, da “Time” a “Radio”, da “Love Is Death” a “Celebrate” passando per gli evergreen, “Don’t Cry Tonight” ed “Only You”, sino ai primi tentativi di approcciare all’house music come “Volare” di Rosario E I Giaguari, piuttosto improbabile rivisitazione dell’eterna “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno.

Savage - Love And Rain
“Love And Rain”, l’album di Savage uscito nel 2020

La DWA dei giorni nostri, tra inediti e ristampe
Nell’attività recente e contemporanea della DWA si segnala l’uscita, nel 2020, di “Love And Rain”, nuovo album di Savage di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui. Dal disco vengono estratti diversi singoli come “I Love You”, “Where Is The Freedom”, “Italodisco” e “Lonely Night” dati in pasto ad una nutrita squadra di remixer tra cui il danese Flemming Dalum, intervistato qui. In parallelo viene sviluppato e portato a termine il progetto “Ritmo Sinfonico”, rilettura in chiave orchestrale delle hit dell’etichetta. La costante spinta al recupero di materiale del passato non si esaurisce: sono migliaia ormai le label sparse per il mondo a dedicarsi al reissue, pratica supportata anche dalle giovani generazioni che oggi possono scoprire musiche ed artisti dimenticati con estrema facilità ed immediatezza rispetto alle precedenti che invece non potevano contare su un mezzo potente come internet. Ad onor del vero, la DWA sonda il terreno già nel 1999, anno in cui pubblica circa una decina di dischi contrassegnati dalla sigla CL (ossia CL-assic): ci sono i primi Savage ma anche Stargo, Ice MC e Pianonegro. A distanza di poco più di un ventennio l’etichetta torna dunque ad investire sul proprio passato, mandando in (ri)stampa “Tonight” di Savage e gli album più rappresentativi del proprio repertorio (“Ice’ N’ Green” e “Cinema” di Ice MC, “The Rhythm Of The Night” di Corona, “We All Need Love” dei Double You, “Fan Club” di Alexia) che fanno felici gli irriducibili di un genere rimasto impresso a fuoco nella memoria di un’intera generazione, quello stesso genere a cui Zanetti ha dato credibilità sul fronte internazionale lasciando un’impronta indelebile con la sua inesauribile capacità di suggestionare e rapire l’attenzione di chi ascolta.

La testimonianza di Roberto Zanetti

Cosa o chi ti torna in mente pensando ai primi mesi di attività della DWA?
Senza dubbio Ice MC. Avevo voglia di creare una mia etichetta per essere immediatamente riconoscibile coi miei progetti e differenziarmi da Discomagic, il mio distributore che a quel tempo immetteva sul mercato troppi brani. Così realizzai “Easy” di Ice MC e fu immediatamente un successo incredibile in tutta Europa. Si piazzò ai primi tre posti delle classifiche ovunque ma tranne in Italia.

Perché inizialmente Ice MC venne ignorato nel nostro Paese?
Il primo album, “Cinema”, era più hip hop che dance e non partì dalle discoteche come invece capitava spesso ai miei progetti. Ho sempre realizzato canzoni maggiormente legate al pop che alla dance, ma secondo i DJ dei network nostrani erano troppo commerciali. Nel momento in cui riscuotevano successo in discoteca però entravano anche nelle programmazioni radiofoniche.

Fu la scarsa considerazione in patria a convincerti a non pubblicare su DWA “My World”, il secondo album di Ice MC?
No. Visto il successo del primo album, la Polydor tedesca volle acquisire la licenza del secondo per tutto il mondo.

Quanto costò realizzare i primi videoclip di Ice MC? Ai tempi girare il video di un pezzo dance poteva essere determinante per il successo?
In quel periodo girare un videoclip era molto costoso, mediamente la spesa andava dai cinque ai dieci milioni di lire. A volte riuscivo a contenerla grazie ai contributi delle case discografiche a cui licenziavo i brani. Nel caso di Ice MC, esistono due videoclip di “Easy”, uno realizzato a Parigi quando il pezzo era al numero uno della classifica francese, ed uno a New York fatto quando fu preso in licenza dall’americana Virgin. Ad onor del vero, credo che ai tempi il video servisse poco a lanciare il brano ma risultava comunque importante per far conoscere l’artista una volta che il pezzo era partito nelle radio.

Casablanca Recording Studio
Uno scorcio del Casablanca Recording Studio: in primo piano il mixer Trident Series 80B

La DWA gravitava intorno al suono approntato prevalentemente nel tuo Casablanca Recording Studio: come era equipaggiato e perché gli avevi dato questo nome?
Ho investito nell’allestimento dello studio di registrazione tutti i guadagni ottenuti col progetto Savage, la musica era la mia vita e volevo vivere di quello. Altri colleghi invece spesero tutto in bella vita, donne e champagne, io invece venivo da una famiglia umile ed ambivo a crearmi un lavoro per il futuro. Avevo capito che l’italo disco avrebbe avuto una scadenza e così investii le risorse economiche in uno studio. Affittai una villetta bianca in collina e per questo lo chiamai Casablanca. Ai tempi gli studi di registrazione costavano una fortuna: io spesi cento milioni di lire che nel 1985/1986 erano davvero tantissimi. Avevo un mixer Trident Series 80B, un registratore a 24 tracce Sony/MCI, i monitor Westlake e tante tastiere Roland, Moog e Korg.

declinazioni tag DWA
Le quattro branch della DWA

Nei primi anni di attività alcune pubblicazioni erano marchiate da particolari sigle, DWA Underground, DWA Italiana, DWA Interface e DWA Infective: come mai? C’era forse l’intenzione di creare delle branch in base al genere musicale affrontato?
Sì esattamente, volevo differenziare l’etichetta in base al tipo di progetto. Al tempo non esisteva un genere di dance ben preciso e pertanto procedevo di volta in volta in base ad esperimenti. Ad esempio avevo già creato, a fine anni Ottanta, il fenomeno della “house demenziale” (con dischi come “Volare” di Rosario E I Giaguari e “The Party” di Rubix, nda), non destinato alla DWA ma utile per pagare un po’ di debiti contratti per l’allestimento dello studio.

Esisteva una ragione anche dietro le varie declinazioni grafiche che si sono succedute nel corso del tempo come il centrino carioca, quello fiorato e quello su fondo blu che rimase in uso per un triennio?
No, nessun motivo in particolare. Erano semplicemente il marchio e i colori che si adeguavano ai tempi.

Nel primo lustro di attività la DWA è stata operativa anche sul fronte licenze: c’è qualche pezzo importato dall’estero che ha tradito le tue aspettative?
Non davo molta importanza alle licenze, preferivo piuttosto investire sui miei progetti ma talvolta i pezzi presi oltralpe facevano comodo per le compilation. Nel caso di DJ Bobo, ad esempio, ascoltai il demo al Midem di Cannes e lo presi per tutti i Paesi in cui era ancora libero ma purtroppo il nome stesso “Bobo” era un po’ penalizzante in alcuni mercati. Per CB Milton invece, feci un favore ad un partner straniero che pubblicava le mie cose e con cui ci scambiavamo i rispettivi progetti.

Il mancato supporto di Albertino, probabilmente all’apice della sua popolarità radiofonica tra ’93 e ’94, ha forse pregiudicato l’esito di licenze potenzialmente forti proprio come quelle di DJ Bobo e CB Milton?
Le radio dance erano molto importanti e potevano far decollare un progetto se lo spingevano. Alla fine degli anni Ottanta l’emittente più di tendenza era 105, poi arrivò Radio DeeJay con Albertino che però non ha mai supportato i miei brani sin dalla loro uscita, per lui erano troppo commerciali. Forse la colpa era anche di Dario Usuelli, ai tempi responsabile della programmazione in Via Massena. DJ Bobo era un successo in tutta Europa ed avrebbe potuto esserlo anche qui da noi ma forse, come dicevo prima, era il suo nome a remare contro. In Francia, ad esempio, “bobo” significa “stupido”.

Alexia e Ice MC (1994)
Alexia ed Ice MC in una foto del 1994

In quello stesso periodo Ice MC viene affiancato da una ballerina tedesca, Jasmine, nonostante a cantare nei brani fossero prima Simone Jackson e poi Alexia. Come mai decidesti di ricorrere ad un personaggio immagine, analogamente a quanto avvenne per Corona?
Era una consuetudine abbinare ai progetti da studio dei frontman/frontwoman che avessero una buona presenza scenica nelle apparizioni televisive e negli spettacoli in discoteca. Simone Jackson stava iniziando già la sua strada da solista mentre Alessia Aquilani era bravissima come cantante ma non aveva ancora maturato sufficiente esperienza nei live. Così iniziammo la promozione con Jasmine ma poi, quando esplose il successo di “Think About The Way”, chiamammo pure Alessia per alcune performance pubbliche. Devo ammettere che fu bravissima a crearsi un’immagine e ad imparare a ballare, tanto che poco tempo dopo decisi di produrla per un disco solista con cui divenne la Alexia che tutti conosciamo.

Ritieni che le “controfigure mute” che caratterizzarono prima l’italo disco e poi l’eurodance fossero strettamente necessarie? Secondo più di qualcuno fu proprio la pratica dei cosiddetti “ghost singer” (non solo italiana, si pensi all’eclatante caso dei Milli Vanilli prodotti dal tedesco Frank Farian) ad aver svilito l’immagine dei cantanti dance facendoli passare per personaggi artefatti e privi di ogni talento, insinuando e alimentando ulteriormente i pregiudizi nel grande pubblico.
All’inizio dell’italo disco c’erano ben pochi cantanti e quindi i produttori si ritrovarono costretti ad usare la stessa voce per un mucchio di progetti. Quando questi ultimi iniziavano a funzionare però, serviva un volto che andasse in tv e quindi tornava comodo assoldare fotomodelli e ballerine che impersonassero l’artista. C’erano cantanti, come ad esempio Silver Pozzoli, che prestavano la propria voce ad un sacco di progetti immessi sul mercato con vari nomi. In qualche caso alcuni contavano persino su più immagini simultanee: in Spagna, ad esempio si ricorreva al fotomodello tizio mentre in Germania appariva il ballerino caio. Lo riconosco, era una pratica un po’ spudorata. Gli artisti veri che cantavano realmente le proprie canzoni però erano davvero pochissimi e questo sicuramente non giocò a favore dell’italo disco, ma anche all’estero facevano la stessa cosa, proprio come i Milli Vanilli menzionati prima e peraltro ancora attivi, in playback naturalmente, nonostante uno dei due volti pubblici del gruppo, Rob Pilatus, sia deceduto nel 1998. Analogamente altre band come Bad Boys Blue, Joy o Boney M. hanno cambiato tutti o quasi i membri originali ma continuano a vivere attraverso live con performer nuovi e più giovani.

A partire dal 1995 hai ridotto sensibilmente il numero delle pubblicazioni ed azzerato del tutto le licenze. Rispetto a molti competitor in fase di netta espansione, avevi forse intuito con lungimiranza che per le etichette indipendenti preservare dimensioni aziendali più piccole, a distanza di qualche anno, si sarebbe rivelato un pro e non un contro?
Io sono sempre stato più “produttore” che “discografico”, volevo avere pieno controllo sui miei progetti e pertanto non mi sono volutamente ingrandito come hanno fatto altri anzi, quando mi era possibile stringevo accordi per delegare promozione e distribuzione così come avvenne con la Sony per Alexia. Alcuni miei colleghi si ritrovarono a dover pubblicare un sacco di pezzi per mantenere il fatturato e pagare gli stipendi delle decine di dipendenti che avevano assunto. Come ho già dichiarato in altre interviste (inclusa una finita in Decadance Appendix nel 2012, nda), mi rammarica il fatto che in Italia non siano state create strutture indipendenti importanti. Saremmo stati fortissimi se ci fossimo uniti in un’unica label ed avremmo sicuramente dominato il mondo.

In un paio di occasioni (prima tra ’91 e ’92, con l’esplosione dell’euro(techno)dance, poi tra ’96 e ’97 con la fiammata pop-gressive) ti sei ritrovato a puntare su generi strumentali che non appartengono alla tua verve creativa. Era solo un modo per seguire le tendenze in atto del mercato discografico nostrano?
Quando sei produttore, soprattutto nella dance, devi per forza seguire il mercato ed adeguarti alle sonorità del momento. Io ho sempre cercato di prendere spunti ma modificandoli per farli miei. A volte ho creato io stesso le mode, così come avvenne nel ’93 con “Take Away The Colour” di Ice MC con cui lanciai in Europa l’eurobeat misto al rap-ragga.

Fu l’invasione della cosiddetta dream progressive ad interrompere il successo (italiano) dell’eurodance che nel frangente mainstream pareva non temere rivali?
Sì, ma solo in Italia. Quando arriva un successo planetario come quello di Robert Miles è ovvio che tutto il mondo venga influenzato. Il fenomeno dream comunque è stato più italiano che internazionale, e forse da noi a determinare il successo del filone furono le miriadi di compilation commercializzate con quel nome.

In passato hai speso parole positive sulla Media Records ed anni fa Bortolotti indicò proprio te, in una mia intervista, come uno dei pochi produttori ed artisti in grado di generare successi e denaro con continuità. Sebbene sia stata proprio la Media Records a licenziare in Italia la “Please Don’t Go” dei K.W.S., hai mai pensato di trasformare questa vicendevole ammirazione e rispetto in una collaborazione, analogamente a quanto fatto nel 2004 con la Time di Giacomo Maiolini per rilanciare Ice MC?
In Italia non è facile collaborare perché i discografici citati, ma anche tutti gli altri, hanno un grosso ego ed ognuno vede le cose alla sua maniera. Tutti i miei successi sono nati perché io non davo ascolto a nessuno e facevo di istinto quello che mi veniva in mente, a volte sbagliando, altre creando le hit che conosciamo. Se avessi ascoltato i pareri degli altri non avrei fatto nulla. Sono sempre stato un “solitario” nei miei progetti. Nel ’98, ad esempio, un discografico della Jive mi fece ascoltare un demo di “…Baby One More Time” di Britney Spears chiedendomi se avessi voglia di collaborare con loro e con la Disney ma rifiutai perché stavo lavorando ai pezzi di Alexia che, nel contempo, stava crescendo e volevo dedicarmi solo a lei.

In un’intervista di oltre un decennio fa mi dicesti che una delle ragioni per cui l’Italia non è più sulla mappa della dance internazionale, tranne poche eccezioni, è la mancanza di umiltà. «Negli anni Novanta i francesi si facevano produrre i pezzi da noi, poi hanno imparato a farlo (copiandoci) ed oggi lo fanno meglio perché rispettano i ruoli: esiste il discografico, il produttore, il manager e l’autore, non come da noi che vogliamo fare tutto e male» affermasti, aggiungendo che «se ci fossimo organizzati come gli inglesi, gli svedesi e i francesi saremmo sicuramente i primi produttori al mondo perché abbiamo una creatività esagerata, invece siamo scarsamente considerati dalla grossa industria discografica mondiale e purtroppo oggi, senza multinazionali che investono in promozione, è molto difficile farsi notare ed emergere». Credi che negli ultimi dieci anni la situazione sia cambiata? Hanno ancora ragione di esistere le etichette indipendenti? E quanto conta fare scouting?
Gli italiani sono degli “arrangioni” nel senso che hanno sviluppato l’arte e la capacità di arrangiarsi. Quando hanno un briciolo di successo si mettono in proprio e si gestiscono da soli anche in quei campi dove non hanno alcuna esperienza o talento. Quando un cantante diventa famoso vuole decidere tutto da solo, vuole fare l’autore, il manager, il produttore… ed ecco che quindi perde la freschezza che lo aveva fatto emergere all’inizio. Cantanti popolari come Zucchero, Renato Zero o Ligabue fanno dischi carini ma non forti come all’inizio perché vogliono gestire tutto in autonomia. Se c’è di mezzo un produttore, desiderano che faccia solo ciò che decidono loro. Non esistono più produttori “con le palle”, capaci di prendere per mano l’artista ed aiutarlo a creare un progetto intorno. Forse negli ultimi anni è tutto peggiorato ulteriormente perché le case discografiche sono diventate distributori, non hanno più personale che possa aiutare a sviluppare la parte creativa della musica. Le etichette indipendenti potrebbero assumere un ruolo importante in tal senso e preparare l’artista al grande salto, ma purtroppo quelle storiche sono fin troppo orientate al business. In circolazione ci sono un sacco di artisti validi ma non trovano alcuno sbocco perché non esiste più un vero e proprio scouting. Pure le multinazionali oggi si affidano solo ai contest. Inoltre se adesso vuoi scritturare un artista sconosciuto, ti si avvicina un avvocato del settore pronto a presentarti un contratto pari a quello che un tempo avevano solo le star. Nessun produttore indipendente potrebbe accettare di sottoscriverlo. Questo fa capire come si sia praticamente estinto il concetto di gavetta. Una volta portavi un pezzo a Lombardoni della Discomagic e ti dava settecento lire a copia, poi aumentavano a mille, milledue e, man mano che cresceva il successo salivano le royalties e così guadagnavano tutti. Io forse non pagavo royalties altissime ai miei artisti ma investivo molti più soldi rispetto alle multinazionali. Ricordo, ad esempio, il video di “Uh La La La” di Alexia girato a Miami che costò cento milioni di lire, tutti interamente sborsati dalla DWA. Poi gli artisti mi ringraziavano perché diventavano famosi e guadagnavano tantissimo dai concerti.

Negli anni Novanta a decretare il successo di tanti dischi dance prodotti dalle etichette indipendenti erano le emittenti radiofoniche. Adesso invece? C’è ancora qualcosa o qualcuno che riesce a fare il bello e il cattivo tempo?
Come dicevo all’inizio, il successo poteva partire dalle radio ma anche dalle discoteche: talvolta i network arrivavano a certi pezzi solo quando erano già strasuonati dai DJ, e a me succedeva quasi sempre così, specialmente dopo le prime hit. I disc jockey compravano i nostri dischi a scatola chiusa perché certi di usarli per tenere la pista piena. Quando usciva un DWA c’era un fermento incredibile, talvolta stampavamo quindicimila/ventimila copie solo come prima tiratura. Oggi penso sia tutto casuale, ci sono i nuovi canali rappresentati dai social network a spingere un nome piuttosto che un altro, ma il grande successo parte ancora dal pubblico. Solo in un secondo momento arrivano la radio e la televisione. Resto dell’opinione che non sia possibile far decollare un pezzo solo in virtù di un ingente investimento economico promozionale. Esistono personaggi ricchissimi che producono musica spendendo fortune in pubblicità ma non riuscendo ad ottenere il successo che vorrebbero.

Col senno di poi, quali sono gli errori che non ricommetteresti?
Con la DWA non ci sono grandi errori di cui mi rammarico. Con questo non voglio dire di non aver fatto sbagli ma quelli fanno parte del gioco. Forse come artista, nelle vesti di Savage, avrei potuto gestirmi meglio ma ero molto inesperto e non avendo alcun produttore al seguito ho sbagliato alcune canzoni. Ad un certo punto volevo fare l’electro pop inglese ma il pubblico voleva da me ancora l’italo disco.

A distanza di oltre un ventennio la DWA è tornata a credere nelle ristampe solcando dischi, come gli album “The Rhythm Of The Night” di Corona e “Fan Club” di Alexia, che ai tempi dell’uscita originaria non commercializzò in formato vinile. Paradossalmente oggi ci sono più persone rispetto a ieri disposte ad acquistare certi titoli in un supporto ormai obsoleto per la musica pop? Si tratta forse di banale collezionismo che riduce il disco ad un gadget?
Oggi stampare un disco in vinile costa parecchio, parliamo quindi di un mercato molto di nicchia. Ho deciso di ristampare gli album originariamente apparsi solo in CD per accontentare soprattutto fan e collezionisti. Possedere un disco in vinile adesso dà una soddisfazione che non offre il file digitale. Se poi include canzoni che hanno segnato la tua adolescenza acquista ulteriore valore e rimane nel tempo.

Qual è stato il più alto fatturato della DWA?
Preferisco glissare sul discorso economico perché non potremmo utilizzare il dato per confrontarlo con altre realtà. La DWA realizzava poche compilation, veicolo primario di introiti, e il grosso del fatturato era rappresentato da licenze e royalties che arrivavano soprattutto dall’estero. La rivista Musica E Dischi stilava una classifica annuale delle etichette che avevano venduto più singoli e ricordo con orgoglio quando, tra 1993 e 1994, la DWA era prima davanti a tutte le major malgrado avesse pubblicato meno titoli rispetto ad esse. Quasi ogni disco mix che mettevamo in commercio vendeva infatti oltre trentamila/trentacinquemila copie.

Se l’italo disco non fosse collassata ed incalzata dalla house music negli ultimi anni Ottanta, la DWA sarebbe nata ugualmente?
Certo perché volevo essere autonomo nelle scelte artistiche e musicali ed avrei potuto fare ciò che volevo solo creando una mia etichetta.

E se invece la DWA fosse nata esattamente trent’anni dopo ossia nel 2019, quali artisti o brani ti sarebbe piaciuto produrre ed annoverare nel catalogo?
Sicuramente non avrei mai prodotto gli artisti che non sanno cantare ed usano l’autotune, è facile capire a chi mi riferisco. Mi piacciono tantissimo i Måneskin ma ritengo che avrebbero bisogno di canzoni più forti. Ho apprezzato anche i Melancholia provenienti dalla penultima edizione di X Factor. A livello internazionale comunque, al momento il più forte in assoluto per me resta The Weeknd.

(Giosuè Impellizzeri)

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Giovanni Natale di Expanded, con Sueño Latino entrammo nel club dei migliori

Giovanni Natale

Inizialmente Expanded Music pubblica dischi new wave, post punk ed industrial provenienti dall’estero e firmati da band come Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Clock DVA e Modern English. Nel corso degli anni però l’attrazione per la dance, sbocciata nel pieno dell’ondata italo disco, diventa sempre più forte ed infatti è tra le prime, in Italia, a scommettere sulla musica house, precisamente dal 1987 quando nasce la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, etichetta con una vocazione per il sound ballabile inscritta chiaramente nel DNA. Nel 1989 proprio su DFC arriva “Sueño Latino” del progetto omonimo, pietra angolare di quel fenomeno che cresce rigoglioso nei primi anni Novanta sotto forma di dream house, alternativa clubbistica alla piano house che sfocia con risultati strepitosi nel mainstream internazionale. In breve tempo la DFC si rivela un inesauribile serbatoio di hit: da Atahualpa a Ramirez, da Glam a Moratto passando per Paraje e tutta la parentesi italodance di Afrika Bambaataa. L’attività di Expanded Music è tentacolare e multiforme e si materializza attraverso svariate sottoetichette (Dance And Waves, B4, Plastika, Audiodrome, PRG, Steel Wheel, Mantra Vibes, giusto per citare le più note) da cui emerge una miriade di nomi che scandiscono con incisività la dance nostrana tra cui Einstein Doctor DJ, Mato Grosso, Ava & Stone, Steam System, Virtualmismo, V.F.R. e Mo-Do. In grande rilievo pure le licenze prese oltralpe, da KLF a Sunbeam, da Transformer 2 a Capricorn, da Technotronic a 2 Fabiola, da Junk Project a Trancesetters, da ASYS a Marco Bailey passando per produzioni più settoriali come Encephaloïd Disturbance, Idjut Boys & Laj, Aurora Borealis, Unit Moebius, Cortex Thrill, Yves Deruyter e vari episodi della saga Code. Tra tradizione e sfrontatezza, la casa discografica emiliana conquista dunque un numero sempre maggiore di consensi facendo registrare un balzo prestazionale non indifferente. Al comando c’è Giovanni Natale che in questa intervista ripercorre la propria carriera pluridecennale nel mondo della musica.

Ci fu qualcuno o qualcosa ad avvicinarti alla musica?
Potrebbe sembrare strano ma da ragazzo non nutrivo una passione particolare nei confronti della musica: non compravo dischi, non andavo ai concerti e non avevo nemmeno manifesti di rockstar appesi nella mia cameretta.

01 - furgoncino Harpo's Bazaar (fonte bibliotecasalaborsa.it
Il furgoncino con cui gli Harpo’s Bazaar girano il capoluogo emiliano durante i giorni del Convegno nazionale contro la repressione nel ’77 (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Nel ’77 però, mentre frequenti il DAMS a Bologna, nasce la cooperativa culturale Harpo’s Bazaar di cui sei tra i fondatori e che opera anche in ambito musicale. Cosa ricordi di quel periodo?
Il progetto Harpo’s Bazaar in realtà inizia prima di diventare una cooperativa e, a tal proposito, credo sia necessario fare qualche puntualizzazione visto che in Rete circolano tante narrazioni non corrispondenti al vero, Wikipedia inclusa. Eravamo un gruppo di studenti/amici di Gianni Celati, docente d’inglese al DAMS negli ultimi anni Settanta. Con un furgone sgangherato, battezzato per l’appunto Harpo’s Bazaar, girammo per Bologna con una cinepresa super 8 durante i tre giorni del Convegno nazionale contro la repressione, a settembre del ’77. Realizzammo le riprese che trent’anni dopo sono diventate il video “Cineamatori Militanti” pubblicato qui. I componenti erano solo quelli riportati nei titoli di coda dello stesso video, Aldo Castelpietra, Gianni Celati, Leonardo Giuliano ed io. L’idea di trasformare l’esperienza “movimentista” in una cooperativa per avere un lavoro creativo fu di Leonardo Giuliano. Tra tutti noi era quello che volava più alto. Da sognatore ed imprenditore utopista, ci convinse a gettare il cuore oltre l’ostacolo ed iniziare. Fu sempre Leonardo, tra i fondatori della Fonoprint, a presentare al gruppo Harpo’s Bazaar Gianni Gitti e a seguire Cialdo Capelli, Antonella Leporati, Oderso Rubini ed Anna Persiani. A quel punto tutti insieme fondammo la cooperativa. In seguito entrarono a far parte anche Nino Iorfino e Jean-Luc Dorn. Col contributo attivo di tutte queste persone appena menzionate fu possibile realizzare l’evento Bologna Rock e dar vita all’Italian Records. Ps: Gianni Gitti è stata una persona speciale. È venuto a mancare da alcuni anni e meriterebbe davvero un racconto a parte. Fu il vero scopritore degli Skiantos, ne registrò il primo album intitolato “Inascoltable” e lo prestò ad Harpo’s Bazaar. La stessa cosa avvenne col primo album dei Confusional Quartet uscito nel 1980.

Proprio nel 1980 la Harpo’s Music, etichetta discografica di Harpo’s Bazaar, si trasforma in Italian Records così come spiegato in questa monografia, e quello stesso anno nasce Expanded Music: in che modo le due case discografiche erano collegate?
Nel 1980 Harpo’s Bazaar aveva già perso per strada alcuni dei soci iniziali e non aveva la forza economica per continuare. Avevamo bisogno di un socio finanziatore e, per questa operazione, la cooperativa non era lo strumento migliore. Harpo’s Bazaar quindi fu messa in liquidazione e fondammo l’Expanded Music Srl. Da quel momento l’Italian Records è diventata una delle etichette dell’Expanded Music. Ad entrare nelle vesti di socio finanziatore fu Federico Venturoli del Disco D’Oro di Bologna. Il nome Expanded Music nacque come omaggio al libro Expanded Cinema di Gene Youngblood, pubblicato nel 1970 e considerato la bibbia del cinema sperimentale. Al DAMS mi ero laureato proprio con una tesi sul cinema.

02 - le prime pubblicazioni Expanded
Le copertine di alcune fra le prime pubblicazioni dell’Expanded Music risalenti al 1981: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus e Clock DVA

Le prime pubblicazioni dell’Expanded Music fugano ogni dubbio sul tipo di inclinazione stilistica a cui l’etichetta è legata: Tuxedomoon, Throbbing Gristle, Bauhaus, Modern English, Thomas Leer & Robert Rental, Lounge Lizards, Flesh Eaters giusto per citarne alcuni. Sul piano economico, quanto reggevano quelle scelte artistiche in un mercato discografico come quello italiano ai tempi dominato dal cantautorato?
Con le sole produzioni dell’Italian Records l’attività non era sostenibile, serviva allargare il catalogo. Non essendo direttamente coinvolto nella direzione artistica dell’Italian Records, campo esclusivo di Oderso Rubini, mi ritagliai un mio spazio. Conoscevo abbastanza bene l’inglese e dopo il DAMS mi iscrissi a giurisprudenza studiando diritto privato e diritto d’autore. Con questi strumenti mi avventurai in giro per il mondo ad acquisire licenze di dischi da pubblicare in Italia. Ai tempi prendere un disco in licenza costava molto meno che produrlo. Distribuendo quei prodotti riuscivamo a finanziare le produzioni dell’Italian Records.

Dal 1983 in poi, analogamente a quanto avviene per Italian Records, anche l’Expanded Music si apre progressivamente a generi musicali ballabili, italo disco in primis. È vero che ai tempi la dance era vista di traverso nel nostro Paese, specialmente dalla stampa e dalle radio?
L’italo disco rappresenta uno dei periodi d’oro della produzione indipendente italiana. Parafrasando “Destra – Sinistra” di Giorgio Gaber, se fare il bagno nella vasca è di Destra e far la doccia invece è di Sinistra, per gran parte della stampa specializzata italiana l’italo disco era di Destra e non degna di attenzione come la new wave che invece era di Sinistra. Nel 1983 i Gaznevada pubblicarono “I.C. Love Affair” che, nella versione remixata da Claudio Ridolfi, faceva l’occhiolino all’italo disco. Per la prima volta un brano dell’Italian Records finiva in classifica e veniva pubblicato anche all’estero. Attenzione però: “I.C. Love Affair” era ben lontano dall’essere un successo internazionale dell’italo disco ma fece scorgere comunque all’Expanded Music una luce in fondo al tunnel. Ovviamente non tutti furono d’accordo con quella svolta dance e la complicità tra i soci iniziò a vacillare. Le produzioni che seguirono furono un tentativo interessante di coniugare la new wave con la dance ma, come ho imparato in seguito, la musica dance ha delle regole e se non le rispetti i dischi non possono funzionare. Così il successo di “I.C. Love Affair” non si ripeté e l’Expanded Music precipitò in una nuova crisi economica. Il feeling tra i soci si consumò ulteriormente fino alla definitiva separazione. Iniziò quindi una nuova storia per l’Expanded Music e se oggi il repertorio dell’Italian Records è ancora vivo (si vedano le recenti ristampe degli album dei Gaznevada e dei Confusional Quartet) è anche grazie a quella scelta.

03 - Natale e Gaznevada
Una recente foto che immortala Natale e due componenti dei Gaznevada, Marco Bongiovanni (a sinistra) e Ciro Pagano (a destra), scattata in occasione della ristampa dell’album “Sick Soundtrack” avvenuta nel 2020

A partire dal 1987 Expanded Music, attraverso la DFC (prima) e Dance And Waves (poi), inizia a sondare le potenzialità della house music come dettagliatamente illustrato in questo reportage. L’affermazione mondiale arriva due anni dopo con “Sueño Latino” del progetto omonimo, successivamente impreziosita dai remix di Derrick May e riconosciuta pietra miliare di un momento probabilmente irripetibile per creatività e dinamismo. Cosa voleva dire investire denaro nella house music in Italia in quel periodo?
Alla fine degli anni Ottanta l’italo disco era ormai in declino e, con la diffusione del campionatore, nasceva e proliferava la musica house. Nella filosofia della DFC c’era molto dell’esperienza maturata con le pubblicazioni internazionali dell’Expanded Music e della stessa Italian Records: non cercare il commerciale ad ogni costo ed avere una grafica riconoscibile. A tal proposito vorrei ricordare che Anna Persiani realizzò per l’Italian Records alcune delle più belle copertine pubblicate in Italia. In quella fase Ricky Persi fu il mio principale collaboratore. Oltre a conoscere bene la musica dance, aveva la capacità di scovare e far lavorare insieme persone con qualità complementari. La DFC aveva un obiettivo preciso, far ballare. Non importava se un disco fosse commerciale o meno, i DJ dovevano riconoscere dalla copertina che fosse un DFC e comprarlo a scatola chiusa con la certezza di usarlo in pista. Il successo arrivò nel 1989 con “Sueño Latino” per cui va riconosciuto il merito principale a Massimino Lippoli che ebbe l’idea ed ovviamente a Manuel Göttsching perché senza il sample tratto dal suo “E2-E4” non ci sarebbe mai stato “Sueño Latino”.

04 - Natale e Manuel Göttsching
Giovanni Natale e Manuel Göttsching, autore di “Ruhige Nervosität” (incluso nell’album “E2-E4” del 1984) da cui cinque anni dopo verrà tratto il sample utilizzato in “Sueño Latino” del progetto omonimo

Dal 1990 in poi la strada sembra in discesa per la musica da discoteca, sino a poco tempo prima genericamente detta “disco-dance” visto che ai tempi le numerosissime categorizzazioni a cui oggi siamo abituati non esistono ancora. Che ricordi conservi dei primi anni Novanta quando Expanded Music diventa una delle protagoniste di quella fase?
Proprio nel 1990 raggiungemmo il primo posto in classifica con “Ultimo Imperio” degli Atahualpa, nel 1991 arrivò “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, il 1992 e il 1993 furono gli anni di Ramirez con pezzi come “Orgasmico”, “Terapia” ed “El Gallinero”, per il 1994 mi limito a citare “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (al numero uno delle classifiche europee) ma nello stesso anno dei cento singoli più venduti in Italia quattordici erano dell’Expanded Music. Successivamente abbiamo contato sulla fortunata serie di Floorfilla e “Camels” di Santos.

Parimenti ai grossi gruppi discografici attivi allora, anche Expanded Music conta su un ricco roster di etichette per declinare generi disparati. Dalle già citate DFC e Dance And Waves (dalla quale decollano i Mato Grosso partiti come Neverland come spiegato qui) alla B4, da Audiodrome a Plastika passando per PRG (inaugurata con “Mismoplastico” di Virtualmismo, di cui parliamo qui), Steel Wheel, Mantra Vibes ed altre ancora tra cui le poco prolifiche Creative Label e Full Motion Records. Utilizzare un numero così elevato di marchi poteva essere in qualche modo fuorviante?
Creare tante etichette fu un errore dovuto all’indecisione della strada da prendere. Ogni DJ/produttore pensava di potersi distinguere solo se avesse avuto un’etichetta sulla quale non pubblicassero altri ma, come imparammo presto, non è l’etichetta a fare il DJ. Al contrario invece, sono i buoni dischi a decretare il successo di una label e di un DJ.

Quali sono i cinque best seller di Expanded Music?
In ordine di uscita e non per valori effettivi delle vendite, “Sueño Latino” di Sueño Latino, “Just Get Up And Dance” di Afrika Bambaataa, “El Gallinero” di Ramirez, “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do e “Camels” di Santos.

Cosa ti viene in mente ripensando ad ognuno di essi?
Prima hai già detto tu cosa rappresenta oggi “Sueño Latino”, la sua storia è tutta un aneddoto tanto che nel 2015 l’abbiamo pubblicata sul fronte della copertina della ristampa in occasione del venticinquesimo anniversario.
Per “Just Get Up And Dance”, la cosa più difficile fu convincere Bambaataa, leader della Zulu Nation, a cantare un testo non suo. Comunque avemmo ragione e il testo, scritto da David Sion, si dimostrò perfetto.
A proposito di “El Gallinero”, c’è un video su YouTube che conta oltre nove milioni di visualizzazioni ed intitolato “Gallinazo y la Bolsa de Coca” in cui i protagonisti sono Paco Stanley e Mario Bezares, ai tempi gli uomini di spettacolo più famosi in Messico, che per l’appunto ballano il pezzo di Ramirez. Stanley fu ucciso nel 1999 a colpi di mitra all’uscita di un ristorante, si dice per mano dei narcos, e proprio questo video apparso su YouTube molti anni dopo fece riaprire le indagini sull’omicidio. Mentre in televisione ballava “El Gallinero”, a Bezares cadde dalla tasca una bustina bianca, forse “la bolsa de coca”?
Su “Eins, Zwei, Polizei” ricordo che Fabio Frittelli alias Mo-Do, doveva registrare un’altra canzone e in studio, invece di dire al microfono il solito “uno, due, tre, prova” se ne uscì con “eins, zwei, polizei”. Gli chiesero cosa fosse e a quel punto lui recitò di getto la filastrocca che gli cantava la nonna quando era bambino.
Infine Santos con la sua “Camels”, inizialmente incisa sul retro di “The Riff”. Di quel disco ne vendemmo solo una decina di copie. Tempo dopo però, ad Ibiza, Judge Jules cominciò a suonare “Camels” e in poche settimane piovvero richieste da ogni parte del mondo. Dopo lunghe trattative (battemmo il record per l’anticipo più alto pagato per un singolo nel Regno Unito) ci incontrammo per stipulare il contratto a Bologna ma proprio all’ultimo momento Santos andò in paranoia e non voleva più firmare. Sembrava l’episodio “Il Matrimonio Temuto” di “Appartamento Al Plaza” con la sposa chiusa in bagno il giorno del matrimonio…

05 - Collage Expanded Music
Un collage di copertine di fortunate produzioni marchiate Expanded Music uscite tra 1989 e 1994

Quali invece i brani in cui vedesti del potenziale ma che, per qualche motivo, non riuscirono a sortire i risultati sperati?
“Bye Baby”, “All Aboard” e “Yeh Yoh” di Ava & Stone, tutti prodotti da Graziano ‘Tano’ Pegoraro, un amico scomparso prematuramente che mi manca ancora tantissimo (per approfondire si rimanda a questo articolo, nda). Andarono tutti in classifica in Italia però mi aspettavo di più dall’estero.

Negli anni Novanta gli esiti di tanti artisti dance erano direttamente proporzionali al supporto offerto dai network radiofonici e, in parte, dalle tv in occasione di programmi come Festivalbar, Un Disco Per L’Estate o Mio Capitano. Come si muoveva Expanded Music in tal senso? Quanto “pesava” sul rendimento di una produzione il passaggio nell’FM o sul piccolo schermo?
In verità ho sempre creduto più alla pista che alla radio o televisione. Non che i media non fossero importanti, sia chiaro, ma servivano quando il disco era già un successo. La musica dance è così, la definisco “democratica” perché se un pezzo non funziona in discoteca non c’è promozione che tenga e non potrà mai avere successo. Al contrario, se è valido in pista, anche senza il supporto della radio potrà essere scovato dalle migliaia di DJ sempre a caccia di novità. Se è veramente forte emergerà da solo, seppur firmato dall’artista più sconosciuto al mondo e di esempi se ne potrebbero fare tanti, da “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda) a “Satisfaction” di Benny Benassi al già citato “Camels” di Santos.

06 - Albertino e DFC
Albertino a Radio DeeJay in uno scatto risalente ai primi mesi del 1995. Sul giradischi c’è lo slipmat della DFC

«Se Albertino non lo passa, anche un gruppo che ha venduto cinque milioni di copie in sei mesi come i Rednex rischia di passare inosservato in Italia. Motivo? Altri dischi devono avere un posto assicurato nella DeeJay Parade» scriveva il compianto Salvatore Cusato sulla rivista Disk Jockey New Trend a giugno 1995. Polemiche a parte su ipotetici favoritismi, ritieni che il mercato dance domestico nostrano sia stato eccessivamente influenzato, suo malgrado, dal noto speaker di Radio DeeJay?
Senza togliere nulla ad Albertino, ci sono tanti dischi che non ha trasmesso ma che sono diventati ugualmente delle hit. L’influenza di Radio DeeJay finiva in Italia, da Lugano in poi i dischi vendevano solo se piacevano e non perché in Italia erano suonati da una radio in particolare. Nei primi anni Novanta Albertino ha sicuramente avuto un effetto positivo sulle produzioni italiane, selezionava pezzi interessanti ed era uno stimolo per chi lavorava in studio. Io non ho mai fatto parte della corte dei questuanti, le mie visite a Radio DeeJay si contano sulle dita di una mano, eppure non era raro per l’Expanded Music avere più titoli contemporaneamente nella famosa Pagellina. Dalla seconda metà degli anni Novanta in poi il “tocco vincente” della dance italiana andò perdendosi e, se le scelte di Albertino non sono più state le migliori, era dovuto anche al fatto che la qualità media delle produzioni nostrane diminuì, ad iniziare da quelle della stessa Expanded Music.

Gli anni Ottanta e i Novanta furono economicamente redditizi per la discografia dance ma oggi ad essere rimpianta è anche una ricchezza di tipo creativo, quella di cui si lamenta spesso la cronica assenza. C’era qualcuno, tra i competitor italiani, che a tuo avviso lanciò modelli ispirativi?
In tutta franchezza non ho mai cercato ispirazione nelle produzioni dei miei colleghi, gli stimoli venivano piuttosto da chi collaborava con noi come il DFC Team ad esempio, che operava tra Udine e Trieste, una posizione piuttosto defilata rispetto a Milano, l’Emilia e Roma. La creatività si nutriva delle diverse professionalità ma principalmente del divertimento che si provava nel fare insieme le cose. Oltre al già menzionato Ricky Persi, è impossibile pensare alla DFC senza ricordare Andrea Gemolotto (intervistato qui, nda), la tecnica straordinaria di Davide Rizzatti, le capacità musicali di Elvio Moratto (intervistato qui e qui, nda) e Claudio Collino e il fiuto di Ricci DJ. Non posso dimenticare neanche Claudio Zennaro alias Einstein Doctor DJ (intervistato qui, nda) che mi ha dato, tra i vari successi, anche “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do, ed altrettanto importanti sono stati Sergio Portaluri, Fulvio Zafret e David Sion del team De Point (di cui parliamo qui, nda) con “Just Get Up And Dance” e tutti i pezzi di Afrika Bambaataa di quegli anni. Infine, come non citare l’intelligenza di Cerla alias Floorfilla o la “follia” di Santos? Per mestiere non ho fatto altro che tirare fuori il meglio da ognuno di loro e credo sia proprio questo il lavoro di un discografico e non suggerire di copiare i competitor.

07 - Natale, Frittelli, Zennaro, consegna disco d'oro in Germania
Giovanni Natale, Claudio Zennaro e il compianto Fabio Frittelli ricevono il disco d’oro in Germania per le vendite di “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do (1994)

In barba alle aspettative, il nuovo millennio fa segnare un cambio di marcia negativo per il comparto dance tricolore. «La scarsa cultura imprenditoriale e la fuga centrifuga di molti produttori che pensavano di poter raggiungere gli stessi risultati avviando label autonome hanno impedito il consolidamento del settore» dichiarasti nell’intervista finita in Decadance Extra qualche anno fa, aggiungendo che «mentre i produttori di tutto il mondo si ispiravano ed imparavano dalle produzioni italiane, i nostri artisti implodevano creativamente e sembravano vergognarsi dei propri successi inseguendo sperimentalismi spesso fini a se stessi ed alimentando un mercato che non ha lasciato quasi nessun segno». A conti fatti, la chiusura di quel ciclo oggi ricordato con infinita malinconia e rimpianti dai protagonisti fu innescato dagli stessi italiani, incapaci di misurarsi con un mercato globalizzato?
Confermo in toto quanto mi hai ricordato in queste righe ed aggiungerei che a penalizzarci sia stato anche il ritardo strutturale dell’Italia per quanto riguarda sia la cultura imprenditoriale che le infrastrutture digitali. Questo spiega il fatto che, nonostante le etichette italiane siano state tra le migliori al mondo per creatività, professionalità e capacità economiche, nessuna abbia saputo cavalcare il mercato digitale come hanno fatto, ad esempio, Ultra, Spinnin’ o Kontor.

In un editoriale apparso sulla rivista Jocks Mag a marzo 2002 puntasti il dito contro la SIAE, non ricorrendo a giri di parole per dichiarare quanto gli editori italiani, te compreso, ci abbiano rimesso in proporzione ai propri successi. «Il totale riportato semestralmente è solo il 50% di quanto la SIAE ha effettivamente incassato dal nostro repertorio. A differenza di ogni altro genere musicale, la SIAE non ci paga tutto quello che ha incassato per l’utilizzo delle nostre musiche nei locali da ballo, ma solo la metà! Il restante 50% viene distribuito ad altre classi di opere che nulla, o quasi, hanno a che vedere con queste esecuzioni. Non correte nei loro uffici a chiedere di più, non vi daranno retta, e non sperate neanche in una trattativa privata. Si parla di decine di miliardi di lire che per tanti anni hanno rimpinguato le tasche di altre persone che ovviamente ora non hanno alcun interesse a rinunciarci». A distanza di quasi un ventennio, è cambiato qualcosa?
Confermo che questo fosse quanto accadeva, con un’aggravante che mi coinvolge direttamente. Nel 2002 mi lamentavo del comportamento e delle regole della SIAE, ma tra il 2003 e il 2010 sono stato un membro del CdA della stessa SIAE e, in tanti anni, non sono stato capace di contribuire a migliorare la situazione. È stata un’esperienza iniziata con molto orgoglio ed ottimismo ma conclusasi con una grande delusione. Sicuramente la responsabilità è da cercarsi nei limiti della mia azione ma non ha aiutato l’atteggiamento di alcuni colleghi che, più pragmaticamente, hanno scelto di adeguarsi alle interferenze politiche. Alla fine ho preferito dimettermi da ogni incarico e dalle associazioni di categoria. Ognuno vive la coerenza come vuole e non è detto che il mio sia il modo più giusto. La situazione oggi è peggiorata e non mi riferisco solo alla SIAE. Con la smaterializzazione del mercato musicale, i diritti si sono vaporizzati e per calcolarli e gestirli occorre la matematica infinitesimale. I vecchi modelli di business sono implosi, ormai i nuovi padroni del mercato sono Google, Amazon e Spotify che hanno deciso come distribuire la musica, come e quanto retribuirla. C’è una distorsione del mercato nota come “value gap”, inaccettabile. Puoi rifiutarti di lavorare con queste piattaforme ma in quel caso smetti di esistere. Che ruolo quindi devono avere oggi le vecchie società d’autore come la SIAE? Come recuperare la differenza tra il valore economico dell’utilizzo online di un brano musicale e l’incasso riconosciuto ad editori e produttori? Non sono problemi solo italiani ma, come dicevo, ormai sono fuori dalla vita associativa di categoria, non ho proposte e sono prossimo alla pensione. Sicuramente c’è chi ne sa più di me.

In questa intervista a cura di Andrea De Sotgiu pubblicata il 31 gennaio 2019, sostieni che uno dei maggiori problemi con cui ti sei ritrovato a fronteggiare sia il campionamento illegale. «È una battaglia continua trovare questi brani su piattaforme come iTunes o Spotify e toglierli dal mercato. Se la tecnologia ci consentirà di essere remunerati correttamente, cosa che oggi non avviene, per il reale valore che i nostri repertori hanno apportato al mercato digitale, allora la rivoluzione tecnologica premierà tutti». Credi che il campionamento selvaggio sia un fenomeno in qualche modo arginabile? Si pensi pure alle migliaia di brani riversati in Rete da quelle etichette dedite al re-edit che forse fanno anche peggio visto che utilizzano, senza alcuna autorizzazione, brani altrui opportunamente re intitolati, rendendo ancora più difficile l’identificazione.
Il problema non è solo scovarli ma difendersi dal danno che arrecano al repertorio. Faccio due esempi: di recente ho concluso un accordo con l’etichetta Anjunabeats per l’uso di un sample tratto da “Hazme Soñar” di Morenas in “Moment In Time”, una nuova produzione di Icarus e Jamie N Commons, una trattativa soddisfacente che valorizza il pezzo originale e il nostro catalogo. Al contrario due anni fa negoziavo con una multinazionale francese che avrebbe voluto usare una parte di “Funky Heroes” di Afrika Bambaataa in un nuovo ed importante progetto discografico. Avevamo stabilito ottime condizioni ma quando hanno visto quante volte lo stesso sample fosse presente illegalmente online hanno rinunciato. L’abuso dei campionamenti impoverisce il valore dei repertori. Si può continuare ad inseguire i file pirata ma non basta eliminarli. Amazon, Spotify ed altre piattaforme dovrebbero essere responsabili per i danni che subiscono musicisti e case discografiche. Sembra una battaglia persa ma non lo è, su questo fronte sono molto attivo.

Cosa vuol dire occuparsi di discografia nel 2021? Ci sono ancora i margini di crescita in un settore ormai irriconoscibile se paragonato a quello di qualche decennio fa? Servono ancora intuito, vocazione imprenditoriale e background musicale?
Intuito, vocazione imprenditoriale e background occorrono ancora e più di prima. Lo dimostrano i traguardi raggiunti dalle etichette dance straniere che ho menzionato sopra. Credo pure che ci siano grandi margini di crescita ma è un mondo completamente diverso rispetto a quello degli anni Ottanta e Novanta. Al di là delle critiche, è pur vero che i giganti del web hanno apportato una rivoluzione che apre ampi spazi al consumo della musica ma è necessario riequilibrare il potere tra i vari operatori.

08 - Uffici-studi dell'Expanded Music
Uno scorcio degli attuali uffici e studi dell’Expanded Music

Expanded Music esiste da più di quarant’anni: qual è stato il momento più emozionante e gratificante che hai vissuto?
Quando “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do raggiunse il primo posto della classifica in Germania ricevetti un fax (che conservo ancora!) da Bernhard Mikulski, fondatore della ZYX, che recitava più o meno così: «dopo tanti anni e successi della ZYX, questa è la prima volta che conquistiamo il vertice, è qualcosa che abbiamo fatto insieme».

Quale invece quello più difficile?
La separazione dai miei soci iniziali: ero senza soldi e solo con debiti, un futuro incerto da affrontare e tutto sotto la mia responsabilità. Ma alla fine è andata bene.

Ad oggi quante pubblicazioni conta l’intero catalogo Expanded Music?
Non so quantificare in titoli ma in numero di master sono circa quattromila.

C’è un pezzo che ti sarebbe piaciuto annoverare nel repertorio della Expanded Music?
“Satisfaction” di Benny Benassi. Un pezzo che è pura creatività senza nessuna concessione al commerciale ma che è riuscito ugualmente a convincere tutti i DJ del mondo.

Qual è invece il brano che ha sancito lo stato di grazia della tua etichetta?
“Sueño Latino”. Non è stato il successo commerciale più grosso ma il primo disco che ci ha dato credibilità internazionale e fatto entrare nel club dei migliori.

Se avessi la possibilità di cavalcare il tempo a ritroso, quali errori non commetteresti più?
Di errori ce ne sono stati ma ormai è inutile rivangarli.

Hai mai sbagliato la valutazione di un pezzo giunto sulla tua scrivania?
Direi di no, non ho mai avuto la sfortuna di rifiutare un brano che poi è diventato un successo, a parte “Vamos A La Playa” dei Righeira. Quando ascoltai il provino di Johnson (Stefano Righi, nda) lo chiamai subito per dirgli che era una bomba ma qualcun’altro decise che fosse troppo commerciale per l’Italian Records. Comunque non saremmo stati capaci di realizzare l’impeccabile produzione dei fratelli La Bionda e per Johnson, quindi, è stato meglio così.

Per concludere, quali sono le tre parole che sintetizzano al meglio la tua avventura pluridecennale nella musica?
Incoscienza, fortuna e professionalità. “Incoscienza” perché senza quella avrei cercato un lavoro da dipendente, “fortuna” perché serve sempre, “professionalità” perché un colpo fortunato capita a tutti ma quando arriva devi avere gli strumenti per coglierlo.

(Giosuè Impellizzeri)

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Milano 84 – Monochromatic (Lost Generation Records)

Milano 84 - MonochromaticNel 1984 Milano è già la “Milano Da Bere” nonostante lo spot da cui deriva tale slogan, ideato dal compianto Marco Mignani, risalga all’anno successivo. Un’espressione che, come scrive Filippo Minonzio qui l’8 marzo 2019 «indicava un’idea di vivacità e modernità» […] e tendeva a definire i milanesi «una classe all’avanguardia, di yuppies laboriosi e dinamici, devoti alla competizione e alla scalata sociale». Dopo Tangentopoli della Milano Da Bere non resta più niente ma l’idea della vivacità e modernità rimane indelebile nella memoria di tantissimi, persino in quella di coloro che non l’hanno vissuta in modo diretto ma che, in qualche modo, la considerano una fonte d’ispirazione e alla stregua di prezioso custode delle sensibilità del passato. I Milano 84, ad esempio, non sono né di Milano né tantomeno del 1984, ma optano per uno pseudonimo dietro cui si cela un preciso immaginario che pesca a piene mani proprio da lì.

«Effettivamente non siamo milanesi e nel 1984 eravamo ancora imberbi, ma forse proprio per tale ragione su di noi, romani, la metropoli lombarda ha sempre esercitato un notevole fascino, evocando qualcosa di “altro”» dice Fabio Di Ranno, uno dei componenti del duo. «Milano era la città della musica che mi piaceva, del design, della moda, dello sport (ai tempi tifavo Milan!) e del glamour, insomma, la metropoli intorno alla quale ruotava il mio immaginario, molto più di Roma. Tutto questo, senza volerlo, ha finito per riversarsi in ciò che oggi realizzo, che si tratti di un film, di un videoclip, di una canzone finanche di un podcast. Nel caso specifico di Milano 84, tutti questi input vengono però rielaborati secondo la sensibilità di uomo contemporaneo. Non è la nostalgia a guidare la mia ricerca artistica, tutt’altro. Milano 84 ricorda ma non copia, trasforma gli anni Ottanta in suoni ed immagini piacevoli da fruire oggi e soprattutto guarda avanti». Gli fa eco Fabio Fraschini, l’altra metà del duo: «Il punto di partenza di Milano 84 è stato il pop elettronico degli anni Ottanta quindi Gazebo, Den Harrow, Fred Ventura o Albert One ma anche artisti e band estere come Pet Shop Boys, Bronski Beat, Human League e Madonna. Poi ci siamo avvicinati con stupore alla scena new italo scoprendo delle realtà artistiche notevoli come Killme Alice, Vincenzo Salvia e Listanera. Negli anni Ottanta Milano era la città che ha rappresentato meglio la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, per questo abbiamo scelto un nome così evocativo che ci riporta alla metropoli che in quegli anni immaginavamo, da adolescenti romani, essere il centro assoluto del mondo».

Milano 84 A
I Milano 84 fotografati da Claudio D’Aloia presso la Contemporary Cluster, galleria d’arte romana, con l’allestimento di Poltronova

I Milano 84 dunque attingono stilisticamente dal passato ma non limitandosi alla mera replica e riproposizione di filoni stilistici già noti. L’impressione è che stiano provando a forare il muro che separa due epoche lontane eoni come gli anni Ottanta e quelli che viviamo, provando a collegarle attraverso una vena dichiaratamente retrofuturepop. «Quando ci chiedono che musica facciamo, solitamente rispondiamo “italopop”, una formula che mescola elementi in apparenza poco solubili» risponde Di Ranno. «Una sorta di bricolage musicale e visivo eclettico e, per quel che riguarda la comunicazione, anche ironico. Un modo per riscoprire e riformulare il passato, lanciarlo nel futuro e vedere l’effetto che fa. Milano 84 è un po’ come una macchina del tempo o una sfera di cristallo, a seconda dello sguardo che si preferisce dare, con cui vorremmo sorprendere piacevolmente attraverso le nostre canzoni. Che poi, in questi anni, finiscano quasi per essere percepite come “rivoluzionarie” o persino “di nicchia” rispetto a quelli che gli spin doctor immaginano essere i gusti di chi fruisce musica, è qualcosa che non dipende strettamente da noi. Certo, ci piacerebbe moltissimo arrivare al grande pubblico in Italia, e di questa vena retrofuturepop, per ora presente nel microcosmo indie elettronico, dovrebbero incominciare ad accorgersene anche le major. Se il dubbio è quello della domanda e dell’offerta, la domanda c’è e noi potremmo essere l’offerta». «Dell’esperienza sonora degli Ottanta ci attrae in particolar modo la radicalizzazione di alcune scelte» prosegue Fraschini. «Ci piace immaginare i produttori dell’epoca come dei bambini che hanno ricevuto un giocattolo nuovo a Natale e che hanno abbandonato tutto il resto per dedicarsi solo a quello. L’uso sfrenato delle batterie elettroniche e dei sintetizzatori li portarono a reinventare il modo di fare musica perciò l’accelerazione tecnologica fu spesso accompagnata da un entusiastico pionierismo».

“Monochromatic”, ormai prossimo all’uscita, raccoglie alcuni brani già assaporati in formato liquido nel recente passato come “Fanatic”, ubicato tra romanticherie italo disco e sgroppate hi-nrg a rafforzare le paratie ritmiche, “Suspiria On TV”, intenso quanto malinconico, e l’emozionale “Play”, con armonie e vocalizzi che rimandano a “Tango” dei Matia Bazar, costruito nel 1983 in buona parte con strumentazioni elettroniche (Alpha Syntauri TM, Yamaha, Oberheim DMX etc). C’è anche “Awesome” interpretata da Killme Alice, una sorta di proiezione moderna di Valerie Dore intrecciata a Kim Wilde ma con un suono meno polveroso e più splendente, saturo di colori e radioso, e due inediti, “Milano, L’Amore”, sorretto da un beat à la Black Strobe nei giorni migliori dell’electroclash, e “Lola”, cover dell’omonimo dei Chrisma poi trasformati in Krisma, con un imprinting che paga il tributo ai Visage e ai Roxy Music. La scrittura è intenzionalmente pop, è chiaro che la vocazione del duo sia fare più di un tool da usare sotto le strobo ed andare oltre il pedestre scimmiottamento di suoni d’antan mitizzati troppo spesso in modo smodato. «”Monochromatic” è il frutto del lavoro di tre anni» afferma a tal proposito Di Ranno, sconfessando subito chiunque possa considerare Milano 84 l’ennesimo esperimento modaiolo nato per cavalcare l’onda del bric-à-brac sonoro legato al cosiddetto “decennio di plastica”. «La pubblicazione dei sei pezzi su 12″ era già stata programmata per l’autunno inoltrato del 2020 ma gli eventi legati alla pandemia ci hanno costretto a rivedere i nostri piani. Prima l’uscita era slittata a gennaio, poi definitivamente a giugno. Nel frattempo, durante le prove in studio, abbiamo ripreso alcuni brani non ancora pubblicati in digitale e lavorato ad un paio di inediti. Da qui l’idea di pubblicare, in bundle col vinile, un CD in tiratura limitata contenente diverse bonus track, remix già usciti ed altri nuovi. È stato un modo per non lasciarsi sopraffare, rimanere in contatto con gli amici ed approfittare dell’attesa forzata per realizzare qualcosa insieme. Alla fine è venuto fuori un corpus di sedici pezzi totali, ci sembra un bel modo per farci conoscere e ringraziare chi, in questi due anni di pubblicazioni solo digitali, ci ha seguiti con entusiasmo sostenendoci. Anche per questo motivo abbiamo tenuto il prezzo dell’accoppiata disco/CD assolutamente accessibile, fissandolo ai 14,85 euro».

Milano 84 B
Un’altra recente foto dei Milano 84

Agendo in un determinato contesto, quello che in gergo si identifica con la sineddoche “anni Ottanta”, i Milano 84 lanciano occhiate profonde a più correnti di quel momento storico e lo fanno con coscienza, determinazione e soprattutto con capacità compositiva che mira ad oltrepassare lo stereotipo e i limiti della musica da ballo odierna. «Volevamo trovare una parola che ben sintetizzasse il nostro approccio musicale e la griglia monocromatica, sia in arte che in grafica, racchiude sfumature, tonalità e gradazioni di uno stesso colore» chiarisce Di Ranno. «Con “Monochromatic” abbiamo fatto lo stesso, declinando in sfumature differenti un certo sound che identifica gli 80s facendolo nostro, manipolando e giocando con l’italo disco, il synth pop e la new wave. Il colore che abbiamo scelto per simboleggiare tutto questo è il rosso, quello che campeggia in copertina. Ad impreziosire il tutto sono gli ospiti, dalla regina dell’italo disco Killme Alice, al secolo Alice Castagnoli, a Vanessa Elly, da Laura Serra ad Eleonora Cardellini sino ad Alice Silvestrini, la cantante che ci accompagnerà negli spettacoli dal vivo, appena sarà possibile riprenderli ovviamente. Poi abbiamo contato sull’apporto di musicisti che ci hanno aiutato con strumenti “veri”, Gianluca Divirgilio degli Arctic Plateau alle chitarre, Luciano Orologi al sax, Isabella Cananà ai cori, il Maestro Fabio Liberatori (già collaboratore di Lucio Dalla e Stadio) che ha impreziosito “The Lie” coi suoi interventi al piano e ai sintetizzatori, ed infine Andy Bartolucci che, su “Lola”, ha suonato una batteria vera sullo stile delle produzioni di Trentemøller. Ad interpretare vocalmente “Lola” invece è stato Eugene, musicista che vanta innumerevoli collaborazioni, da Garbo a Gazebo sino a Luca Urbani». «Un simpatico aneddoto è legato proprio a “Lola”» racconta Fraschini: «disponevamo sia di una parte demo che Eugene aveva reinterpretato alla sua maniera e in un modo stupefacente, sia di un vocoder fatto da me al volo con un microfono da PC, giusto per dare un’idea di ciò che intendevamo realizzare. Dopo una serie di innumerevoli tentativi fatti con mezzi ben più prestigiosi, non siamo riusciti a riottenere quello stesso effetto e, con grande stupore di tutti, abbiamo ripristinato la versione “casalinga” registrata nella mia cucina. Siamo fortunati a disporre di un nostro studio di registrazione in cui realizzare le idee con una certa libertà e senza limitazioni di tempo. Usiamo principalmente strumenti virtuali, una scelta che deriva soprattutto dalla facilità con cui si possono trasferire le sessioni di lavoro da casa allo studio e viceversa. Come qualunque altro produttore di musica elettronica però, siamo appassionati di sintetizzatori e personalmente ne ho posseduti parecchi nel corso degli anni. I risultati sonori raggiunti dalla virtualizzazione di tali macchine, oltre alla praticità prima descritta, ci porta comunque a preferire il loro utilizzo quasi esclusivo».

“Monochromatic” verrà pubblicato a breve dalla Lost Generation Records. Come si legge sull’home page della stessa, «viviamo in un’epoca in cui a livello di imprenditoria musicale indipendente sono saltati quasi tutti gli schemi: i nuovi mezzi di fruizione non hanno fatto altro che portare alla luce decenni di declino culturale in cui la musica è stata percepita sempre e solo come “tappezzeria” o, nella migliore delle ipotesi, come estemporaneo divertimento, qualcosa per cui – dal punto di vista del pubblico – non vale la pena spendere del denaro. D’altra parte, sussiste una visione culturale antica per cui la musica che un tempo si sarebbe definita “leggera” è relegata ad una posizione culturale subalterna nei confronti della musica altrettanto impropriamente definita “colta” ed è quindi immeritevole di sostegno. Avere un bel beat non significa non esprimersi artisticamente. In un certo senso la raison d’être di Lost Generation Records è – nel suo piccolo – ridare alla musica ciò che alla musica è stato tolto». Ci si chiede allora la ragione per cui un certo tipo di musica sia oggetto, praticamente da sempre, di una visione sommaria, superficiale e figlia di radicati pregiudizi. «Milano 84 è un progetto musicale ma anche concettuale, perché fonde diversi spunti di riflessione e suggestioni» sostiene Di Ranno. «Nulla di troppo intellettualistico chiaramente, parliamo pur sempre di pop e il pop, per definizione, non è mai elitario, però quando diventa rivelatore di qualcosa di più profondo sa essere rivoluzionario, ed è proprio questa la sua forza. Quando ciò si verifica, il pop lascia un segno e resiste nel tempo. La produzione musicale di oggi, ma più in generale di contenuti, sembra però temere questo aspetto potente, ed è sempre la stessa. Tutto è veloce, dimenticabile e sostituibile. Ecco, a noi piacerebbe invece essere contemporaneamente il passato e il futuro della musica che amiamo, e vorremmo che restasse traccia dei nostri brani, al di là dello streaming, dei social e di tutto il resto». «La filosofia che sta dietro la Lost Generation Records non può che essere sposata in pieno da Milano 84» prosegue Fraschini. «Il proprietario, Matteo ‘Zar’ Gagliardi, fa dischi che piacciono prima di tutto a lui e questo è un approccio che mi ricorda le esperienze di etichette che hanno fatto la storia della musica come la Mute o la 4AD. Certo, i tempi sono cambiati, ma a maggior ragione porre l’accento sul gusto personale e sulla qualità di quello che si produce per noi rappresenta un valore. Con Gagliardi, che mi contattò qualche anno fa per completare le registrazioni della sua band, Søren, più vicina all’indie rock e new wave nonostante i miei trascorsi metal, ci siamo subito trovati in sintonia. Quando ha deciso di fondare l’etichetta ci è sembrato naturale proporgli Milano 84: la sua dedizione, preparazione ed entusiasmo erano proprio quello che cercavamo».

A distribuire “Monochromatic” invece sarà l’olandese Bordello A Parigi, ormai da un decennio tra i poli maggiormente attrattivi per gli amanti della musica retrò, soprattutto quella di fascinazione italica. Forse un’occasione persa proprio per l’Italia, l’ennesima, ma è bene ricordare che i primi a non credere nella neo italo disco, nata oltre venti anni fa, sono stati paradossalmente proprio gli italiani, poco attenti al proprio bagaglio storico e più attratti dal ciclo infinito delle tendenze temporanee mosse quasi esclusivamente da Paesi esteri. «Sarebbe facile parlare di complesso d’inferiorità o cavarsela con un “nemo propheta in patria” dal retrogusto consolatorio» sostiene Di Ranno. «Del resto ad inventare il termine “italo disco” non furono neanche gli italiani ma i tedeschi, e fu peraltro un’invenzione commerciale: noi facevamo la musica, loro trovarono ad essa un nome per venderla ed oggi gli olandesi la distribuiscono. Questione di pragmatismo. Se è vero che l’italo disco ha fotografato un momento storico ed una particolare lettura delle istanze musicali in atto (synth pop, new romantic, new wave) filtrandole attraverso la sensibilità tutta italiana legata alla melodia, è anche vero che oggi italo e new italo sono considerate ovunque e a tutti gli effetti un genere musicale meno che, forse, proprio in Italia. Probabilmente questo dipende dal fatto che l’italo disco sia musica codificata e molto amata dagli appassionati. Merita rispetto ma rischia di calcificarsi, specialmente se la si lascia in una teca. Bisognerebbe invece cercare di tenerla in vita, anche a costo di stravolgerla. Noi ogni tanto ci proviamo, anche con alcuni esperimenti o collaborazioni più estreme, riteniamo sia giusto farlo. Conoscere la storia dell’italo disco ed amarla ci consente di tentarne con riguardo una nuova definizione e di interpretarla sotto una luce contemporanea. Nulla finisce, tutto si trasforma, anche l’italo disco».

Fabio Di Ranno e Fabio Fraschini in studio

Come prima anticipato, la musica dei Milano 84 sinora è apparsa solo in formati liquidi divisi tra Bandcamp e Spotify. L’uscita di un 12″ abbinato ad un CD però testimonia che c’è ancora voglia di tattilità in un mondo in cui l’inesorabile smaterializzazione pare non avere fine. «Il vinile è un supporto in ascesa anzi, direi che sia l’unico supporto fisico rimasto in piedi dopo il definitivo declino del CD» risponde Fraschini. «Il fascino che esercita ancora sui fan degli anni Ottanta e la particolare resa sonora che lo stesso genere ha su vinile ci ha convinti che fosse la via da percorrere. Con esso contiamo inoltre di stabilire un contatto più “reale” con chi ci segue. Se compri il vinile significa che sei realmente interessato alla nostra proposta e che il tutto non resta confinato ad un like sui social o ad un ascolto, spesso superficiale, in streaming. Per noi questa è una prova molto importante attraverso cui intendiamo costruire una fanbase appassionata ed attenta. Secondo il mio punto di vista, a Spotify spetta il merito di aver legalizzato e regolarizzato la fruizione della musica in streaming. Certo, le royalties sono misere e molte cose andrebbero riviste anche dal punto di vista del diritto d’autore, ma costituisce comunque un passo avanti rispetto allo scampato pericolo di una diffusione gratuita e totalmente fuori controllo».

A circa venti anni di distanza dalla prima fase revivalistica che trovò l’apice nell’electroclash, l’italo disco, il synth pop e un po’ tutto il bagaglio stilistico di quegli anni oggi vive una nuova esposizione commerciale con artisti tipo Purple Disco Machine, The Weeknd ed altri che, forse più per interesse che devozione, ne ricalcano prevedibilmente le orme. L’ennesimo trend stagionale o qualcosa che potrebbe evolversi sulle lunghe distanze? «Per modernizzare qualcosa devi uscire dalla comfort zone e pensare diversamente dagli altri» sostiene Di Ranno. «Progetti musicali come quello di The Weeknd o Purple Disco Machine sono lì a dimostrare che c’è un mondo mainstream (quindi non solo appassionati o nostalgici) in grado di apprezzare proposte che sentiamo concettualmente vicine alla nostra. Ci si chiede piuttosto se altrove le major siano più attente o disposte ad investire di quanto non lo siano qui. Nessuno può dire con assoluta certezza se questo trend durerà ma la magia degli anni Ottanta, per quanto stiano provando a sostituirla con l’immaginario dei Novanta, sembra destinata a reggere ancora. Chi ha detto che gli anni Ottanta sono un decennio mai finito probabilmente ha visto giusto». Grandi interrogativi riguardano anche il post pandemia. Si auspica che tutte le attività possano tornare alla regolarità anche se qualcuno sostiene che il “dopo” non riprenderà lì dove il “prima” è stato interrotto. «I tempi sono innegabilmente difficili, tuttavia noi abbiamo davvero tante novità in cantiere» annuncia Di Ranno. «A nuove canzoni a cui stiamo lavorando si aggiungerà un nuovo orizzonte, quello cinematografico, in cui spingere Milano 84. La nostra proposta ha il vantaggio di avere una forte ed eclettica identità che la rende credibile. Milano 84 è vecchio e nuovo, retrò e contemporaneo, heritage ma non nostalgico, molto romantico ed un pizzico malinconico. C’è poi una cifra più arty ed è quella che ci guida appunto nelle proposte per il cinema e l’audiovisivo. In questo senso la nostra cover di “Lola” dei Chrisma può essere considerata la prima pietra di tale percorso che, in futuro, se ne avremo l’opportunità, svilupperemo ancora di più». «I nuovi brani accoglieranno ospiti che faranno di Milano 84 un progetto ancora più aperto e in grado di reinventare di volta in volta il suo suono» aggiunge Fraschini. «Una delle guest con cui avremmo desiderato collaborare, un vero big degli 80s, ha già dato l’ok con entusiasmo. Per quanto riguarda il futuro, ci piacerebbe fare qualcosa con gli Altar Boy, abbiamo scoperto che sono di Roma e che battono un percorso per certi versi affine al nostro, ma tra i sogni ci sono pure collaborazioni con Alexander Robotnick e Gazebo (in Italia) e Trentemøller e Paul Kalkbrenner (all’estero). Al momento stiamo preparando un live set con Alice Silvestrini in cui cercheremo di interagire il più possibile con le macchine. Suoneremo sintetizzatori, chitarre, un Bass VI (strano incrocio tra una chitarra ed un basso) e drumpad. Miriamo ad un vero live e non a banali playback su basi lanciate da un software». (Giosuè Impellizzeri)

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Italian Records, quando punk, new wave e italo disco si incrociano

«Tra il 1977 e il 1982 la musica italiana ebbe una capitale indiscussa, Bologna. È là che nascevano tutti gli spunti e i sodalizi destinati finalmente a rinnovare un panorama immobile e stantio. Alcuni nomi sarebbero entrati nella leggenda del rock italiano: Skiantos, Gaznevada, Confusional Quartet, Stupid Set, Hi-Fi Brothers. Ma Bologna Rock non era solo musica, era la politica di organizzazione extraparlamentare, dei cani sciolti, della controcultura. Era l’arte emergente del fumetto, della performance, era l’informazione rinnovata delle radio libere e delle fanzine. Era la nuova istruzione possibile nelle aule del DAMS. Insomma, una città laboratorio sul margine pretecnologico di un’Italia del tutto diversa da quella di oggi». Recita così la premessa di “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo” a cura di Oderso Rubini ed Andrea Tinti (Arcanapop, 2003), un libro che, in quasi quattrocento pagine, ben tratteggia la stagione creativa vissuta nella città dei portici in un periodo seminale per gran parte di ciò che avviene in seguito. Sono gli anni in cui emergono il punk e la new wave con le prime collisioni tra musica suonata a mano con strumenti tradizionali e quella invece programmata attraverso macchine elettroniche. Proprio su questo particolare snodo sorge Italian Records.

Il logo di Harpo’s Music e il furgone usato dai membri della cooperativa (fonte bibliotecasalaborsa.it)

Un breve passo indietro, gli anni di Harpo’s Music (1977-1979)
Partita nel ’77 con “Inascoltable” degli Skiantos, Harpo’s Music è l’etichetta discografica nata in seno alla cooperativa culturale Harpo’s Bazaar costituita da alcuni studenti del DAMS e del Conservatorio Giovanni Battista Martini tra cui Oderso Rubini, Carlo ‘Cialdo’ Capelli, Anna Persiani, Lella Leporati e Giovanni Natale. Harpo’s Bazaar opera nel ramo grafico, musicale e cinematografico, ed è collegata ad un piccolo studio di registrazione, l’Harpo’s Studio, allestito col minimo indispensabile in via San Felice. Il nome della società, come riportato qui, è ispirato dal saggio “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx” di Gianni Celati, professore di letteratura inglese al DAMS, anche se Wikipedia riconduce la scelta del nome all’attore comico statunitense Harpo Marx il cui volto era disegnato sulle fiancate di un furgone che Rubini e gli altri prendono in fitto per filmare il Convegno Nazionale Contro La Repressione, svoltosi a Bologna tra il 23 e il 25 settembre 1977. «Armati, ma di una telecamera super 8, scanzonati, alternativi quanto basta per non prendersi sul serio e pieni di idee nuove, filmarono il convegno sulla repressione cercando nuove forme di comunicazione» si legge in un articolo di Luca Sancini su Repubblica, risalente al 25 marzo 2007 quando, a distanza di un trentennio, quelle registrazioni vengono restaurate da un gruppo di ex videomaker di uno studio di New York, donate alla cineteca comunale e proiettate in due giorni al cinema Lumière. Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Oltre ai già menzionati Skiantos si ricordano altre band che prendono parte al progetto come Luti Chroma, Windopen, Naphta, Sorella Maldestra e Gaznevada. L’ultima pubblicazione è la compilation “Bologna Rock”, omonima del festival tenutosi il 2 aprile del ’79 presso il Palasport del capoluogo emiliano ed organizzato dai membri della cooperativa col fine di lanciare nuovi gruppi della scena rock e new wave locale. In quella compilation, allegata al numero zero di Harpo’s Bulletin, fanzine di Harpo’s Bazaar, oltre a Gaznevada, Skiantos, Luti Chroma, Windopen, Naphta ed Andy J. Forest figurano altri nomi rimasti pressoché “congelati” in quell’esperienza come i Cheaters, i Rüsk Und Brüsk e i Bieki. Due pezzi, intitolati “Orinoco Blues” e “Woytila’s Rock’N’Roll”, sono firmati dai Confusional poi diventati Confusional Quartet. A quel punto l’interesse mostrato da una grossa casa discografica cambia il corso degli eventi. Come lo stesso Rubini racconta nel citato libro del 2003, la Ricordi propone un contratto di distribuzione triennale con un anticipo sulle royalties, e in virtù di quell’accordo la Harpo’s Music «si trasforma in una vera etichetta discografica passando dalle cassette al vinile». Nasce l’Italian Records.

La copertina di “Hello I Love You” degli Stupid Set

Il debutto punk (1980-1982)
Corre il 1980 quando Italian Records esordisce ufficialmente sul mercato anche se il suo nome è già filtrato attraverso varie incisioni della Demo City, mini piattaforma sperimentale relegata ancora al formato cassetta. Il primo 7″ è “Hello I Love You” degli Stupid Set nati da un’idea di Giampiero Huber, ex Gaznevada, affiancato da Paolo Bazzani, Giorgio Lavagna e Fabio Sabbioni che canta. La title track è la rilettura dell’omonimo dei Doors effettuata con strumenti elettronici che asciugano il tutto liberando un effetto mimimalista tipico delle produzioni do it yourself a basso costo di allora. «Gli Stupid Set dovevano essere una band con una caratteristica di base, l’utilizzo della batteria elettronica» dichiara Huber in “Non Disperdetevi”. «Non ero contro il sudore del batterista ma volevo arrivare ad un dispendio fisico meno pesante nel fare musica». Viene realizzato pure un video da cui emerge il desiderio di rompere la ritualità della presenza scenica del rock piazzando un televisore al posto dei volti dei membri della band, facendo così il verso ai Residents di San Francisco. Altrettanto sperimentale risulta il punk dei Gaznevada, una band che, come scrive Susanna La Polla De Giovanni in questo interessante articolo/intervista edito da Soundwall il 29 gennaio 2021, «attua una rivoluzione prima importando e mutuando l’attitudine e l’irruenza del punk rock dei Ramones e poi facendo propria l’urgenza di sperimentazione della scena post punk e no wave statunitense e britannica. Suicide, Talking Heads, Devo, Contortions e Brian Eno sono le band e gli artisti dal cui serbatoio attinsero per rielaborarne le sonorità in modo assolutamente personale, contaminandole con il loro broken english e le appassionate letture e visioni condivise di fumetti, sci-fi movies e noir americani, cimentandosi inoltre in sperimentazioni elettroniche avanti anni luce per una scena musicale allora dominata dai cantautori».

Il loro primo 7″ è “Nevadagaz” affiancato sul lato b da “Blue TV Set”. L’unico nome che si rinviene sul disco, oltre ad Oderso (Rubini) nella veste di produttore, è quello di Ciro Pagano, chitarrista della band destinato ad una brillante carriera nella scena dance del decennio successivo con Datura e numerosi altri progetti trasversali tra cui Dreams Unlimited, Do It! e XOR di cui parliamo qui. Destino analogo per un altro membro del gruppo, il bassista Marco Bongiovanni, artefice tra le altre cose di DJ H. Feat. Stefy, Kaliya e Skuba con Enrico ‘DJ Herbie’ Acerbi intervistato qui. Alla citata cover degli Stupid Set ne seguono altre: “La Bambolina” di Michel Polnareff, incisa sul retro di “Siamo Tutti Dracula” dei Luti Chroma, “Ho In Mente Te” dell’Equipe 84 – già remake di “You Were On My Mind” dei canadesi Ian & Sylvia – realizzato dai 451, e “Volare” con cui i Confusional Quartet ricostruiscono “Nel Blu, Dipinto Di Blu” di Domenico Modugno. Menzione a parte per “Bianca Surf / Photoni”, singolo d’esordio di Johnson Righeira, pochi anni dopo diventato popolarissimo in coppia con Stefano Rota nel duo Righeira prodotto dei fratelli La Bionda. Diversi pure gli album, da “No Autostop” della Band Aid (gruppo leccese in cui suona il noto trombettista Francesco ‘Frank’ Nemola e solo omonimo di quello creato qualche anno dopo da Bob Geldof con fini umanitari) a “Crollo Nervoso” dei Magazzini Criminali, da “Confusional Quartet” dei Confusional Quartet a “I Luoghi Del Potere” degli Art Fleury passando per “The List” di Andy J. Forest And The Stumblers, “Sick Soundtrack” dei Gaznevada e la compilation “Pordenone / The Great Complotto”.

Alcuni dischi licenziati dall’estero

Dal 1981 Italian Records inizia ad ampliare il proprio raggio d’azione pubblicando musica di artisti esteri a cominciare dai DNA, gruppo statunitense fondato da Arto Lindsay e Robin Lee Crutchfield, a cui seguono Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. A rimarcare la vocazione internazionale è il marchio Italian Records From The World. Sul fronte italiano invece c’è tutta una schiera di produzioni che rompono gli schemi della musica rock tradizionale, dai beat elettronici di Maurizio Marsico alias Monofonic Orchestra, a cui Christian Zingales – intervistato qui – ha dedicato un libro nel 2019, alle schegge d’avanguardia spennellate da una dose di umorismo dei Confusional Quartet, dalla new wave dei Pale TV a quella dei citati Gaznevada passando per gli Hi.Fi Bros, inizialmente prodotti dal citato Lindsay che suona la chitarra nel remake di “Stranger In The Night”, il compianto Freak Antoni degli Skiantos e la compilation “Ref.907” che raduna pezzi di band già proiettate nella musica del futuro, Eurotunes, Ipnotico Tango, Metal Vox, Absurdo e Kerosene. Nel 1981 escono pure “Tapes Of Darkness” dei Neon (da Firenze, altro centro nevralgico per quel fermento artistico come ben descritto da Pierpaolo De Iulis nel documentario “Crollo Nervoso” qui recensito) e “Kirlian Camera” del gruppo omonimo parmense capeggiato da Angelo Bergamini. Oggi sono considerati dischi cult della new wave italiana.

La copertina di “I.C. Love Affair”, uno dei primi brani ballabili pubblicati da Italian Records

Chitarre elettriche, sintetizzatori e batterie elettroniche (1983-1984)
Sino a questo momento l’imprinting dell’Italian Records è legato a matrici punk/rock ed adesioni new wave e no wave ma l’uscita di “I.C. Love Affair” dei Gaznevada, singolo estratto dal terzo album “Psicopatico Party”, rimette tutto in discussione. In bilico tra reminiscenze disco con tanto di urletti à la Bee Gees e snodi ritmici elettronici ascrivibili all’hi nrg/italo disco riverberati nella Chinese Version, il brano funziona più che bene nelle discoteche incluse le estere nonostante a trainarlo sia una parte vocale in inglese sfacciatamente maccheronico così come accade nella maggior parte delle produzioni nostrane di quel periodo. Ciò non impedisce di conquistare un paio di licenze oltralpe inclusa quella sulla tedesca ZYX di Bernhard Mikulski che ai tempi è in visibilio per la dance made in Italy al punto da coniare un termine che la identificherà per sempre, italo disco, dando ad essa credibilità sul piano internazionale. Ritoccato da Claudio Ridolfi in una Special Mix chiamata Italian Version, “I.C. Love Affair” viene accompagnato da un video promozionale realizzato nella capitale: «all’epoca fummo invitati come ospiti in un programma televisivo della RAI ed era richiesto il videoclip del brano ma c’era un problema, non esisteva alcun videoclip di “I.C. Love Affair”. Con la collaborazione di un cameraman e di un regista della RAI allora, lo girammo per le strade di Roma, “buono alla prima” e in una sola mattinata» racconta il gruppo in questo post su Facebook del 30 dicembre 2020. “I.C. Love Affair”, con cui i Gaznevada partecipano al Festivalbar del 1983, fa da apripista ad altri brani filo dance come “Hear The Rumble” degli Stupid Set ed Enrico Serotti ma soprattutto “The Rule To Survive (Looking For Love)” dei N.O.I.A., scoperti da Rubini nel 1981 in occasione della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” e a cui abbiamo dedicato un approfondito articolo/intervista qui. Non c’è ancora però un distacco netto dalle matrici punk rock e new wave e a testimoniarlo sono le nuove uscite di Diaframma e Kerosene e la compilation “iV3SCR”.

L’Italian Records percorre insomma due itinerari in modo parallelo ma che presto convergeranno sotto il segno dell’ideale laboratorio collettivo a cielo aperto in atto tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta quando creare musica pigiando tasti e ruotando manopole anziché suonando strumenti tradizionali è considerata una forma di ribellione analoga a quella del punk. In diverse parti del mondo questo nuovo approccio alla composizione, reso possibile dall’avvento di strumenti dal costo più abbordabile, innesca un processo seminale per ciò che avviene in futuro. A San Francisco si sviluppa una nuova forma di disco music meccanizzata di matrice moroderiana detta hi nrg, a New York l’intersezione tra l’hip hop e dettami kraftwerkiani genera l’electro, nel Regno Unito un numero crescente di band prende le distanze dal rock classico utilizzando sintetizzatori e vivacizzando le proprie canzoni con ritmi ballabili raccolte sotto l’ombrello new wave e synth pop, in Germania aumentano gli adepti della neue deutsche welle, in Belgio gli impulsi dell’industrial generano l’EBM dai tratti militareschi, a Chicago vengono gettate le basi della house music mentre a Detroit le teorie toffleriane ispirano la techno. In Italia, nel frattempo, si fa incetta di plurime ispirazioni estere fondendole inconsapevolmente in un nuovo filone-patchwork ribattezzato oltre i confini, come si è detto prima, italo disco. C’è ancora poca intenzionalità e soprattutto scarsissima malizia commerciale, le etichette indipendenti stampano qualche migliaio di copie con l’auspicio di poterle piazzare oltralpe, specialmente in Germania dove la “musica delle macchine” pare funzionare meglio rispetto ad altri Paesi. Diversi musicisti si lasciano coinvolgere, attratti anche dalla possibilità di incassare denaro con sforzi relativamente contenuti, e tentano di fornire un continuum alla disco ormai in declino coi nuovi mezzi che la tecnologia di allora mette a disposizione, specialmente quelli prodotti da aziende nipponiche. Poi, per affrancarsi dal provincialismo e darsi un tono più internazionale, iniziano ad usare pseudonimi in lingua inglese foneticamente appetibili per un mercato non solo domestico.

Altra dance su Italian Records, N.O.I.A., Kirlian Camera e Fawzia

A partire dal 1983, a posteriori diventato l’annus mirabilis dell’italo disco, l’Italian Records pubblica con più frequenza dischi ballabili come “Stranger In A Strange Land” dei N.O.I.A., che ritmicamente tratteggia e prefigura con lungimiranza già il post italo, “The Line” degli Hi.Fi Bros, “A Tour In Italy” di Band Aid e “Special Agent Man” dei Gaznevada, quest’ultimo mixato presso gli Stone Castle Studios a Carimate e circoscritto ad una base ed arrangiamenti simili a quelli di “Just An Illusion” degli Imagination. A ciò si aggiunge la licenza di “Waterloo Sunset” degli Affairs Of The Heart, band di Bristol che coverizza l’omonimo dei Kinks in chiave synth pop strizzando l’occhio a Depeche Mode, Yazoo e Human League. Ora distribuita dalla EMI, l’etichetta bolognese individua nella musica prodotta (anche) con sintetizzatori e batterie elettroniche la nuova fonte a cui abbeverarsi e dal 1984 le distanze con la dance si accorciano. I N.O.I.A., fondati nel ’78 da Bruno Magnani e Davide Piatto sull’incrocio tra Kraftwerk e Devo, tornano con “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, mentre i Gaznevada propongono “Ticket To Los Angeles” scandita da rintocchi new romantic e con cui tornano sul palco del Festivalbar. I debuttanti Dens Dens (una velata incitazione al ballo?) sfoderano il primo e unico 12″ contenente “Life Got No Sense (Without Love)” e “Meaning Of Words” di chiara ispirazione new wave. Tra i membri della band si segnalano il tastierista Piero Balleggi, entrato a far parte dei fiorentini Neon, e il bassista Ricky Rinaldi, in futuro negli Aeroplanitaliani di Alessio Bertallot (intervistato qui) e nel team dei Souled Out. Solo uno pure il singolo di Fawsia Selama, già coinvolta come corista in brani degli Hi.Fi Bros e Gaznevada: coadiuvata dagli arrangiamenti di Roberto Costa firma “Please, Don’t Be Sad” col nome Fawzia e si guadagna una licenza in Germania dove la Bellaphon lo commercializza sbandierando un bel “original italo disco” in copertina. Esattamente dieci anni dopo intonerà “The 7th Hallucination” dei Datura. Persino i Kirlian Camera di Bergamini si cimentano in qualcosa più danzereccio del solito, “Edges”, pur preservando una certa algida marzialità, la stessa che si ritrova nella partitura di “Communicate” pubblicato l’anno prima dalla Memory Records di Alessandro Zanni e Stefano Cundari a cui, pare, Bergamini si fosse avvicinato attraverso “Pulstar” di Hipnosis. Tony Carrasco, DJ statunitense ai tempi residente in Italia, incide con un certo Charlie Owens “Thailand Seeds” di A.I.M. ma con risultati ben diversi rispetto a quelli ottenuti con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., pubblicata due anni prima dalla Zanza Records e prodotta con Mario Boncaldo e Davide Piatto dei N.O.I.A., seppur quest’ultimo non figuri nei credit come spieghiamo qui. Ad affiancarlo nel successivo “So Evil (Close To The Edge)”, sospinto da un’anima più marcatamente pop, è il compianto Graziano Pegoraro, da lì a breve produttore di Miko Mission, Taffy e Silver Pozzoli e in seguito dietro a numerosi act italodance, su tutti Ava & Stone e Mato Grosso di cui parliamo qui e qui. Nel 1984 “Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, prodotta da Carrasco con l’intervento, tra gli altri, di Manlio Cangelli degli Scotch e dei fratelli Nicolosi dei Novecento, apre il catalogo della Third Label, “sussidiaria” di Italian Records più dichiaratamente dance oriented. Al brano, l’anno dopo coverizzato con successo da Cheyne per la MCA Records, segue “Funky Is On” di Funky Family, oggi un cult nell’ambiente collezionistico, e poi tutta una serie di produzioni di stampo ballabile. Sempre nel 1984 i N.O.I.A., poc’anzi citati, incidono pure un Mini-Album, “The Sound Of Love”, a cui avrebbe dovuto far seguito, come dichiara Magnani in un’intervista del 2014, un vero e proprio LP che doveva racchiudere “Time Is Over Me” rimasto nel cassetto per ben trent’anni. Ad aprire “The Sound Of Love” invece è il pezzo omonimo, venato di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk. Seguono “True Love”, studiato su arpeggi moroderiani, e “Try And See”, l’ultimo che la band di Cervia destina alla label di Rubini in cui le spinte avanguardiste dei primi singoli spariscono sotto una coltre di synth pop piuttosto incolore e insapore.

Paul Sears e Soul Boy, tra gli ultimi dischi prodotti da Rubini

Gli ultimi anni di attività (1985-1988)
Dal 1985 in avanti l’italo disco inizia a non essere più il contenitore di musiche eterogenee che gli italiani creano ispirandosi a stili esteri e facendoli inconsapevolmente propri bensì un calderone, dalle dimensioni sempre più grandi e difficilmente stimabili, in cui riversare quasi esclusivamente brani ballabili in formato canzone, composti ed arrangiati secondo una rodata e consolidata metodologia (strofa-ponte-ritornello) ma soprattutto prodotti con l’ambizione di centrare il successo pop. Gli esperimenti effervescenti iniziali si trasformano in una disco potabilizzata per le grandi platee e ciò influisce in negativo sul livello di sperimentazione, progressivamente scemato sino ad eclissarsi del tutto. L’annata non è tra le più prolifiche per l’Italian Records che però dalla sua parte ha i Kirlian Camera, autentici fuoriclasse del darkwave prossimi a firmare un contratto con la Virgin. La loro “Blue Room”, interpretata da Simona Buja, si muove sui versanti più gelidi del suono di matrice new wave ottenuto con una drum machine LinnDrum e sintetizzatori Roland, Korg e PPG Wave. Chitarra ed effetti sono di Paul Sears che proprio per Italian Records incide “The Spirit Of The Age”, singolo di matrice pop registrato al Regson Studio di Milano con l’ausilio di vari musicisti ma che, nonostante gli sforzi, raccoglie pochi consensi. Risultati analoghi per “Baby Blue” di Soul Boy, prodotto da Luigi Macchiaizzano e dal già menzionato Maurizio Marsico, approdato sulle sponde dell’italo sound con “Rap ‘N’ Roll” di Frisk The Frog (Jumbo Records, 1983) e “Funk Sumatra” (Discomagic, 1984, con copertina a firma Tanino Liberatore e Massimo Mattioli). Quello di Sears è uno degli ultimi dischi su cui appare il nome di Rubini.

Nel 1986, dopo il suo abbandono, viene varata l’Italian Records Junior per coprire il segmento della musica per bambini. Il progetto si concretizza attraverso alcuni 7″ ed un LP della fiorentina Susy Bellucci, scomparsa nel luglio del 2018. Un altro debutto che si consuma su Italian Records è quello dei Premio Nobel, precedentemente noti come Flexi Cowboys, formati da Claudio Collino, Davide Sabadin e Caterina Sinigo. “Baby Doll” è un pezzo tipicamente italo post ’85, non pretenzioso ed arrangiato sullo stile dell’eurodisco / hi nrg di Stock, Aitken & Waterman. A produrlo è Ricky Persi, ex bassista dei Krisma che ha maturato già qualche esperienza discografica tra cui “Tarzan Loves The Summer Nights” di Big Ben Tribe, da cui forse i Chromeo carpiscono uno spunto per “Night By Night”, e soprattutto “Tenax” di Diana Est scritta, come lui stesso racconta nell’intervista racchiusa in Decadance Extra, con Stefano Previsti ed Enrico Ruggeri. Nel 1987 a “Baby Doll”, licenziato in buona parte d’Europa, fanno seguito i meno noti “White Flame” e “Sugar Love” (quest’ultimo sull’Ibiza Records di Claudio Cecchetto), poco consistenti per tessitura creativa. «Ci stancammo presto di seguire quello che era l’andazzo generale della dance italiana» sostiene Persi nell’intervista sopraccitata. «Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation (sulla quale nel ’92 esce una cover di “I.C. Love Affair” a nome Dial 77, nda) ma ad onor del vero il nome ammiccava pure al DMC. Non a caso in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che per le gare ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Per Ricky Persi, analogamente a Collino e Sabadin, le nuove forme di dance elettronica diventano autentici filoni auriferi da cui estrarre una miriade di pepite alcune delle quali trasformate in preziosi monili come Sueño Latino, Glam, Ramirez, Steam System, Atahualpa, Fishbone Beat e Paraje, quasi tutti sotto il marchio Expanded Music.

Marco Bellini immortalato sulla copertina di Céyx

È sempre Persi, affiancato da Maurizio Preti, a curare la produzione di “Monnalisa” e “Mon Amour” di Lucio Burolo Deblanc noto semplicemente come Deblanc, nato ad Ottawa, in Canada, ma residente a Trieste. Tra gli ingegneri del suono del primo, registrato al Watermelon Studios e mixato al Rimini Studio da Mario Flores, ci sono Sergio Portaluri e Fulvio Zafret, futuri artefici insieme a David Sion del prolifico team De Point di cui parliamo qui. Il secondo invece viene interamente realizzato a Trieste presso il Palace Recording Studio di Gemolotto, lì dove nasce un altro disco edito dall’Italian Records nel 1987, “Ma-La-Vi-Ta” di Céyx. Ibridando ciò che resta dell’italo frammista a stab orchestrali ad una base quasi new beat a 115 BPM, Persi e Previsti scrivono un brano che raccoglie discreti risultati all’estero. A produrlo, come riportato tra i credit, sono i P/P/G, acronimo di Persi Previsti Gemolotto, che proprio quell’anno incidono “Jack The Beat” sulla neonata DFC. A cantarlo invece un giovanotto triestino poco più che ventenne immortalato in copertina, Marco Bellini, divenuto un noto DJ negli anni Novanta per residenze in locali come Aida ed Area City. Il team dei P/P/G si ripresenta con “Plaza De Toros” firmato Invidia, italo virata in chiave spagnoleggiante quando i Gipsy Kings si impongono in tutto il mondo con “Bamboleo”. La collaborazione tra Italian Records e il Palace Recording Studio prosegue con “Quibos” dei Quibos, prodotto da Tano Lanza e Mario Percali e supervisionato da Massimo Bassani, in quel periodo coinvolto in diverse produzioni edite dall’Expanded Music su varie etichette. Dallo studio di Gemolotto esce pure “High Energy Boy” delle Moulin Rouge, progetto sloveno che si inserisce nell’infinita cordata hi nrg ormai popolarizzata su scala mondiale, e “Nei Sogni Tu Ci Sei / Pensiero Lontano” di Elio che, insieme ad “One Day Lovers / Love Me Too Much” di Samuel, tira il sipario puntando ad un genere davvero agli antipodi rispetto a quello con cui tutto è iniziato circa otto anni prima.

Frammenti post 2000 per Italian Records

Tra ripescaggi ed una breve nuova vita (2006-2015)
A partire dai tardi anni Novanta molti generi musicali del passato vengono riscoperti e vivono una seconda vita proprio come accade all’italo disco. Su iniziativa di personaggi sparsi tra Europa e Stati Uniti, la vecchia dance italiana, morta, sepolta e dimenticata ormai da circa un decennio, si ritrova inaspettatamente a ricoprire un ruolo tutt’altro che marginale nella scena contemporanea. Nell’arco di pochi anni sul mercato piomba un numero crescente di ristampe, ufficiali e non, di dischi sino a quel momento rintracciabili principalmente nei mercatini, nelle aste su eBay o siti specializzati come GEMM (il marketplace di Discogs arriverà solo intorno al 2002). Il movimento revivalistico abbraccia anche il marchio Italian Records che nel 2006, a circa diciotto anni di distanza dall’ultima apparizione, ritorna nei negozi per mezzo di una raccolta, “Confuzed Disco”. Edita su CD e vinile, si configura come una vera e propria retrospettiva dedicata alla label bolognese ed è caratterizzata da ripescaggi e numerosi remix realizzati da una nuova generazione di artisti. Nella tracklist è inclusa pure una manciata di tracce estrapolate dal catalogo Third Label (“Call Me Mr. Telephone” di Answering Service, “Funky Is On” di Funky Family). Il vecchio si unisce al nuovo e crea un inedito standard stilistico destinato a rafforzarsi negli anni a seguire.

Vari brani relativi alle prime annate di attività di Italian Records finiscono invece in “Mutazione (Italian Electronic & New Wave Underground 1980-1988)”, un’altra compilation nata col fine di radunare gemme dimenticate della new wave italiana. A pubblicarla, nel 2013, è la britannica Strut. Quello stesso anno la Spittle Records mette in circolazione “Italian Records – The Singles 7” Collection (1980-1984)”, box set di cinque CD che, come annuncia il titolo stesso, accorpa i singoli editi da Italian Records nel quadriennio 1980-1984. Il package include pure un booklet di ben 112 pagine. La raccolta fotografa, come scrive Pierfrancesco Pacoda in un articolo pubblicato sulla rivista DJ Mag Italia ad agosto 2013, «il neo rock indipendente che lambisce la seduzione dell’italo disco, opere nate da un lavoro collettivo in piccoli studi di registrazione casalinghi dove il produttore Oderso Rubini porta tantissimi giovani talenti di una scena che, mai come allora, credeva davvero in una comunicazione artistica fatta di linguaggi differenti». Nel 2014, su iniziativa della stessa Expanded Music, prende avvio il progetto volto a rilanciare il marchio Italian Records nel mercato contemporaneo. Sotto la guida di Ricky Persi escono dieci dischi, tra inediti (“Generation 83” di Leo Mas & Fabrice, “J’Adore La Musique” di Lineki, “Destination To The Sun” di DJ Rocca, “Waiting For The Heaven” di Shambok Feat. David Sion) e ristampe avvalorate da nuovi remix (Funky Family, Gaznevada, N.O.I.A., Kirlian Camera). Nonostante i buoni propositi, l’operazione si arena nel 2015. Ultimo in ordine di apparizione è il reissue di “Gaznevada”, primo album dei Gaznevada in origine su Harpo’s Music rimesso in circolazione a gennaio 2021 attraverso una limited edition ambita dai collezionisti.

La testimonianza di Oderso Rubini

In che ambiente sociale e culturale germoglia l’idea di fondare Harpo’s Bazaar?
Erano gli anni del Movimento bolognese, di una città ricca di tensioni sociali e politiche ma anche innervata da una dimensione creativa sviluppata in maniera del tutto spontanea grazie a diverse componenti: DAMS, Conservatorio, radio libere, concerti, etc.

Perché optaste per il nome Harpo?
Gianni Celati, docente di letteratura inglese al DAMS, stava scrivendo un libro intitolato per l’appunto “Harpo’s Bazaar – Teatro Comico Dei Fratelli Marx”. Alcuni suoi allievi erano tra i soci fondatori della cooperativa e quindi, un po’ perché suonava bene, un po’ perché lo spirito di Harpo incarnava in qualche modo le nostre ambizioni, optammo per quel nome, e fu una scelta abbastanza facile e felice direi.

“Inascoltable” degli Skiantos (1977)

Harpo’s Music resta operativa per circa un biennio pubblicando quasi esclusivamente musica su cassetta venduta in prevalenza per corrispondenza. Cosa voleva dire ai tempi gestire un’etichetta indipendente come quella?
Non avevamo né le risorse, né la struttura per pubblicare dischi essendo lontani da Roma e Milano, ma sentivamo la necessità di esternare in qualunque modo le nostre voglie e quelle degli artisti che ci stavano intorno. Avevamo lo studio dove registrare, e già quello era un privilegio in termini economici, e non ci mancava lo spirito creativo per inventare e diffondere la nostra musica tramite i concerti (tra cui il Bologna Rock), utilizzando il circuito delle radio indipendenti e la vendita per corrispondenza. A contraddistinguere Harpo’s Music fu l’incoscienza, la spontaneità e quel giusto grado di presunzione dell’essere giovani legato all’inesperienza e all’ingenuità di chi non è ancora un professionista smaliziato.

In Rete corre voce che tra i fondatori di Harpo’s Music ci fosse anche Red Ronnie: è vero?
No, Red Ronnie è stato un amico e fiancheggiatore della nostra avventura da esterno.

Qualcuno ricopriva il ruolo di A&R e quindi decideva cosa pubblicare?
Delle scelte artistiche me ne occupavo principalmente io pur condividendole, soprattutto per ciò che riguardava il cosiddetto “marketing”, con gli altri soci della cooperativa.

Quanto budget fu investito in quell’avventura?
Di fatto i costi erano legati esclusivamente alla produzione e distribuzione delle cassette (in tirature di 500 copie) e alle operazioni per promuoverle ossia spedizioni, grafica e pubblicità.

Italian Records debutta ufficialmente nel 1980 seppur il nome appaia già attraverso le cassette della Demo City. Perché optaste per Italian Records? Era forse un modo patriottico/nazionalistico per evidenziare un’anelata riconoscibilità?
Demo City era una collana sperimentale, sempre relegata al formato cassetta, che attraversò il passaggio dalla cooperativa Harpo’s Bazaar alla Expanded Music Srl segnando quindi la transizione dall’età dell’innocenza a quella di una maggiore consapevolezza economico/industriale. Italian Records è stato il primo marchio di produzione dell’Expanded Music Srl che poi, a sua volta, divenne marchio per le ristampe di dischi presi in licenza da tante etichette internazionali (Rough Trade, 4AD, Industrial Records, Slash, Beggars Banquet, EG Records ed altre ancora). Dietro la scelta del nome c’era ovviamente una palese dichiarazione d’intenti: doveva essere evidente la nostra origine italiana e volevamo aprirci ad un mercato internazionale.

Rubini insieme a Nino Iorfino ed Anna Persiani nei primi anni Ottanta

All’inizio il logo è rappresentato dal tricolore nostrano, poi sostituito dallo stivale geografico e quindi dalla sagoma di un volto stilizzato. Da chi furono realizzati?
L’intera produzione grafica era a cura di Anna Persiani che coordinava tutte le sollecitazioni e le idee che dovevano supportare la nostra immagine.

Come tu stesso dichiari nel libro “Non Disperdetevi – 1977-1982: San Francisco, New York, Bologna: Le Zone Libere Del Mondo”, a decretare la nascita dell’Italian Records è stata la Ricordi con un contratto di distribuzione triennale ed un anticipo sulle royalties. Come riusciste ad attirare l’attenzione della celebre casa discografica fondata nel 1958 da Nanni Ricordi e Franco Crepax? Ci fu un disco o una band in particolare a fare da detonatore?
Uno dei nostri soci, Gianni Gitti, incontrò casualmente ad un concerto, dove si occupava del suono, i responsabili artistici della Ricordi, Mara Maionchi e Giampiero Scussel. Allora eravamo un gruppo di lavoro molto coeso e penso sia stato più il contesto che un artista in particolare ad incuriosirli. Dopo una loro visita nel nostro piccolo studio in via San Felice, ci proposero un contratto di distribuzione come etichetta.

Il primo biennio di attività dell’Italian Records è legato a doppio filo a punk, post punk e new wave, generi che i musicisti nostrani elaborano in scene regionali parecchio parcellizzate (si pensi alla Mask Productions di Fulvio Guidarelli, alla Tidico o alla miriade di gruppi mirabilmente raccolti dalla Spittle Records nel progetto “Voyage Through The Deep 80s Underground In Italy”). Che riscontri raccoglieste, sia dalla critica che dal pubblico?
Nei primi anni riuscimmo a diventare una sorta di punto di riferimento per la costruzione di una scena punk/rock italiana indipendente. Sia la critica che il pubblico ci seguirono con attenzione e rispetto, fiduciosi in qualcosa di nuovo per il nostro Paese. Ancora oggi ricevo testimonianze di grande affetto per il lavoro fatto allora e questo continua ad inorgoglirmi.

Il brand Italian Records From The World

Oltre a patrocinare una serie di gruppi italiani, Italian Records ha veicolato anche alcuni album di band estere come DNA, Throbbing Gristle, Clock DVA, Tuxedomoon e Virgin Prunes. Cosa implicavano operazioni simili? Erano particolarmente onerose dal punto di vista economico?
Ad un certo punto, per stabilire rapporti economicamente più produttivi e possibili relazioni per i nostri dischi, inventammo il brand Italian Records From The World. Volevamo produrre non solo artisti italiani ma anche stranieri, con progetti specifici e in esclusiva, ma che costassero relativamente poco.

È vero che “Rafters” dei Throbbing Gristle era un bootleg non autorizzato, così come indicato su Discogs?
No, assolutamente, nessuna delle nostre produzioni era considerabile come bootleg, erano tutte legali.

“I.C. Love Affair” dei Gaznevada è uno dei primi brani ballabili pubblicati dall’Italian Records, uscito quando iniziano a delinearsi le caratteristiche di quella che in Germania verrà ribattezzata italo disco. L’adesione a quel fermento fu intenzionale o casuale?
Frequentando le discoteche per i concerti di alcuni dei nostri artisti, Gaznevada in particolare, si percepì chiaramente una tensione positiva verso il fenomeno “ballo”. Inizialmente l’idea era introdurre anche nell’ambito della musica dance degli elementi che fossero in qualche maniera provocatori ed insoliti per quel genere, soprattutto per i testi, mai banali o superficiali, come già avvenne in “(Black Dressed) White Wild Boys” sempre dei Gaznevada ed antecedente ad “I.C. Love Affair”. Anche quella del ballo era una forma di espressione e sembrò poter aprire ai musicisti altre possibilità per provare a vivere di musica.

A cosa era dovuta l’impostazione “orientaleggiante” dell’artwork? Quante copie vendette il mix e perché coinvolgeste Claudio Ridolfi come remixer?
La copertina del disco voleva evidenziare l’origine del testo, nato da un vero fatto di cronaca che raccontava le disavventure di un ambasciatore occidentale innamorato di una ragazza cinese. Ai tempi dell’uscita vendemmo qualche migliaio di copie ma non saprei quantificare con precisione tenendo conto di tutte le ristampe commercializzate in tanti Paesi del mondo. La cosa più interessante di quel brano è che decidemmo di realizzarlo solo sulla base di un riff di basso. Poi lo sostituimmo con un sintetizzatore Minimoog che era casualmente in studio e nel giro di quattro ore appena era già perfettamente compiuto. Apparve subito chiaro che avesse grandi potenzialità ma bisognava dare ad esso una maggiore ballabilità rispetto alla versione originale. Per fare ciò solitamente ai tempi si coinvolgeva qualcuno che fosse esperto di tecniche per i remix destinati alle discoteche, nel nostro caso Claudio Ridolfi.

Nonostante l’avvento delle prime tecnologie a basso costo, allora incidere un disco era una cosa tutt’altro che improvvisabile e i crediti sulle copertine lo testimoniano. Come fu recepito l’arrivo di sintetizzatori e batterie elettroniche negli ambienti del rock in cui regnava uno scetticismo, più o meno radicato, nei confronti della musica “programmata” e non “suonata”?
Ovviamente le persone più intelligenti percepirono l’avvento di synth e drum machine come un arricchimento delle possibilità espressive. Alla fine dipende sempre da come si usano le cose. Oggi c’è chi sostiene che il suono analogico dei vecchi nastri sia migliore di quello digitalizzato, esattamente come avveniva quarant’anni fa con gli strumenti elettronici e quelli tradizionali.

Dal 1983 a distribuire Italian Records fu la EMI: emersero sostanziali cambiamenti rispetto ai tempi di Ricordi?
Idealmente avevamo un contributo più meditato ed incisivo sulla parte promozionale ma per il resto non ci furono grandi differenze.

Uno scorcio della sede dell’Italian Records (198x)

Inizialmente l’italo disco è un genere-non genere fondato sull’ibridazione di stili eterogenei che i musicisti italiani assemblano anche in modo naïf. Poi si trasforma in qualcosa di predefinito e prevedibile, fatto di dance costruita sulla song structure che etichette/grossisti milanesi come Discomagic o Il Discotto impiegano intensivamente. A differenza delle realtà lombarde però, Italian Records non ha mai sfruttato a pieno regime quel ciclo economico toccando la prolificità tipica della musica “usa & getta”. A posteriori avresti voluto produrre più materiale?
Noi volevamo mantenere il più possibile una nostra identità, sia sonora che a livello di immagine. Le priorità non erano ancora i risultati economici bensì quelli espressivi. L’attività delle etichette e dei grossisti milanesi, lo dico senza cattiveria, si basava su un alto numero di produzioni perché statisticamente sapevano che ogni dieci progetti uno avrebbe venduto bene. Io invece ho prodotto solo quello che mi piaceva davvero.

Cosa ricordi delle produzioni convogliate sulla Third Label, etichetta più dichiaratamente dance sin dal suo esordio?
Francamente molto poco perché ero già proiettato altrove.

“The Spirit Of The Age” di Paul Sears e “Baby Blue” di Soul Boy sono tra gli ultimi dischi su cui appare il tuo nome: perché ad un certo punto abbandoni Italian Records?
Perché venne meno lo spirito che ci aveva accompagnato sino ad allora e, come è successo a tanti, il gruppo di lavoro coeso dell’inizio si stava declinando in ambizioni individuali poco conciliabili tra di loro.

Nel 1986 nasce Italian Records Junior dedicata a musiche per bambini e in seguito Italian Records diventa piattaforma per dischi piuttosto cheesy che suonano un po’ come il necrologio del progetto iniziale. Cosa pensi in merito a quella brusca virata?
Rispetto le scelte che furono prese dopo la mia uscita dall’Expanded Music, ma è evidente che a livello emotivo non mi coinvolsero affatto.

A proposito di sotto etichette e marchi correlati: cosa puoi raccontare in merito a MMMH Records e Nice Label? Erano affiliate ad Italian Records?
Entrambe facevano parte dell’idea di costruzione di una scena rock/new wave italiana. Volevamo aumentare la quantità di gruppi di produzione autonomi, sostenuti dall’Italian Records che a sua volta ne alimentava l’identità e ne era garante per l’immagine che si era costruita. Nello specifico la MMMH Records nacque per gli Stupid Set mentre la Nice Label fu gestita in collaborazione con Red Ronnie.

C’era un particolare significato dietro la scelta della sigla Exit (e talvolta in reverse Tixe) abbinata al numero di catalogo, o era banalmente la traduzione maccheronica di “uscita” intesa nel gergo discografico?
Stava proprio per “uscita”. Anche Dischi Italiani, in qualche modo, era maccheronico o banale.

Esisteva una ragione precisa invece dietro MXM Musica Ex Machina, l’editore che affiancava Italian Records?
Quel nome proveniva dal titolo del libro omonimo di Fred K. Prieberg che raccontava del nuovo tempo che prima o poi avrebbe accompagnato la produzione musicale.

Nino Iorfino ed Oderso Rubini

Quanto tocco e sensibilità di Oderso Rubini c’erano nelle uscite Italian Records?
Non dovrei essere io a dirlo, ma sicuramente nella maggior parte delle pubblicazioni la mia sensibilità ebbe un ruolo importante, per le scelte, per l’uso dei suoni, per la costruzione delle singole identità. Un buon produttore, a mio avviso, è quello che amplifica al massimo le caratteristiche insite dell’artista per esaltarne appunto l’identità e la singolarità. Che senso ha produrre per assomigliare a cose che esistono già?

Oggi il ruolo del produttore o dell’A&R è stato di gran lunga ridimensionato anzi, c’è chi, in virtù della tecnologia semplificatrice, si autoproclama artista facendo a meno di tutto e tutti. Credi che ciò stia facendo più bene o male alla musica?
Con l’uso sempre più diffuso delle tecnologie si sono globalizzati anche i suoni e le modalità di produzione e quindi ora è molto difficile far emergere identità forti. Sono parecchio cambiate inoltre anche le modalità di fruizione della musica e a parte pochissimi casi, spesso chi suona non riesce ad avere una visione d’insieme neutra di una canzone o di un disco, per presunzione o per superficialità. Sono convinto quindi della necessità di un orecchio esterno capace di dare un senso estetico ed espressivo ad un progetto.

In quale fase dell’Italian Records ti rivedi meglio?
Dall’inizio fino al 1982. Sono molto orgoglioso del lavoro fatto come gruppo. Poi si ruppe qualcosa e non riuscimmo più a dare un senso, anche economico, alla nostra avventura.

Quali sono i bestseller del catalogo? Mediamente quante copie vendevate per ogni pubblicazione?
Ovviamente Skiantos e Gaznevada che hanno avuto esiti decisamente positivi vendendo dalle 5000 alle 6000 copie. Altri titoli invece viaggiavano tra le 3000 e le 1000 copie.

Nel 2014 l’Italian Records è tornata in attività, seppur per un breve periodo, attraverso ristampe, remix ed inediti. Hai seguito ed apprezzato quella parentesi?
In qualche modo ne ho fatto parte e mi ha fatto piacere che le ristampe siano nate da una richiesta del mercato e non da un delirio personale. L’aspetto negativo è rappresentato dall’uso che oggi si fa delle ristampe a cui si attribuisce un valore principalmente collezionistico.

Ci sono errori che non rifaresti o rimpianti che ti porti dietro?
È mancato, più per inesperienza che per altro, un approccio più manageriale a tutta la passione che abbiamo messo nel nostro lavoro. Il rimpianto? Non essere riusciti a fare dell’Italian Records la più grande etichetta rock italiana (risate).

Per quali ragioni o meriti vorresti fosse ricordata Italian Records?
Per le emozioni che, anche se alle volte ad una sola persona, siamo riusciti a trasmettere, e che forse trasmettiamo ancora oggi.

(Giosuè Impellizzeri)

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Fabrizio Gatto, una storia di successo dall’italo disco all’eurodance

L’attività nella sfera discografica di Fabrizio Gatto inizia nei primi anni Ottanta, quando la musica dance nostrana assume una nuova connotazione sulla spinta di influssi provenienti dall’estero (new wave, synth pop, hi nrg, eurodisco etc). Il primo pezzo, “Take A Chance” di Bizzy & Co., lo incide nel 1982 e da quel momento in poi non si ferma più. Con l’energia straripante tipica di quel periodo e in coppia col musicista Aldo Martinelli, realizza dozzine di brani destinandoli prevalentemente ad una delle roccaforti italiane dell’italo disco, Il Discotto. Da Doctor’s Cat a Martinelli passando per Raggio Di Luna, Topo & Roby e Cat Gang: i risultati, ottenuti pure oltralpe, sono galvanizzanti. Con la fine dell’epopea dell’italo disco, la dance si evolve ulteriormente in nuove ramificazioni e Gatto prosegue la corsa: il 1989 lo vede tra i fondatori di Musicola, struttura che cavalca l’esplosione della house music contando su nomi come FPI Project, Bit-Max, JT Company e licenze tipo Nomad e Rozalla. La solidità di Musicola è però minata da circostanze che ne determinano il fallimento. Dalle sue ceneri nasce la Dancework con cui Gatto e il socio Claudio Ridolfi troveranno ancora successo sino ai primi anni Duemila riuscendo a piazzare la propria bandiera sulle vette delle classifiche eurodance internazionali.

Con che artisti e band cresci durante l’adolescenza?
Sino ai tredici anni la musica non era così tanto importante. Il gioco faceva da padrone quindi la mia formazione era legata perlopiù ai brani trasmessi in radio e in televisione. Il primo disco che comprai coi miei risparmi fu “Cuore Matto” di Little Tony ed era il 1967. In seguito, sino ai sedici anni circa, iniziai ad ascoltare, grazie ad amici più grandi, gruppi come Jethro Tull, Genesis, Emerson, Lake & Palmer, Deep Purple, Led Zeppelin ed altri di quel tipo. A diciassette misi piede per la prima volta in discoteca, un mondo fantastico assai lontano dal mio quotidiano, fatto di volumi esagerati, ritmi incalzanti e balli sfrenati. A quel punto la disco music prevalse su tutto.

Sotto il profilo compositivo invece, hai maturato studi di qualche strumento?
No assolutamente, nessun tipo di studio accademico.

01) Bizzy & Co - Take A Chance
“Take A Chance” di Bizzy & Co. è il primo disco inciso da Gatto. A pubblicarlo, nel 1982, la DeeJay di Claudio Cecchetto accompagnata dallo stesso logo di Radio DeeJay nata ufficialmente l’1 febbraio di quell’anno

Chi ti introdusse al mondo della discografia? Cosa voleva dire dedicarsi alla musica da ballo, in Italia, nei primi anni Ottanta?
A darmi una mano per realizzare il primo disco furono Mario Boncaldo e Tony Carrasco, reduci del successo di “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., che si impegnarono a venire in studio per seguire il mixaggio e procurare le cantanti che lo avrebbero interpretato, Naimy Hackett ed una esordiente Rossana Casale. Dedicarsi alla dance in quegli anni era una cosa di poco conto almeno secondo certi ambienti musicali accademici. Quella non era “vera musica” ma soltanto un surrogato e, in tutta franchezza, credo che per alcuni sia ancora così. I comuni mortali invece ritenevano la musica da discoteca sinonimo di gioia e spensieratezza.

La tua prima produzione a cui fai riferimento sopra è “Take A Chance” di Bizzy & Co. pubblicata nel 1982 dall’etichetta di Claudio Cecchetto, la DeeJay, e scelta come sigla di apertura (come si vede qui) di Premiatissima, programma televisivo di Canale 5 presentato dallo stesso Cecchetto ed Amanda Lear. Con quale spirito ed approccio giungesti a quel sound poi definito italo disco, parzialmente illuminante per chi dall’altra parte dell’Atlantico getta le basi di house e techno pochi anni dopo?
Erano lo spirito e l’approccio di chi riusciva ad incidere un disco per la prima volta, nient’altro. Non conoscevo davvero nulla di quel mondo, le modalità, i tempi, le difficoltà e i risultati. La fortuna giocò un ruolo rilevante per “Take A Chance” e l’emozione che ne scaturì fu grandissima. Sentirlo in radio ed addirittura in televisione fu qualcosa che non aveva prezzo.

02) Gatto e Martinelli @ Discoring, 1985
Aldo Martinelli (a sinistra) e Fabrizio Gatto (a destra) ospiti a Discoring nel 1985. Al centro il conduttore del programma, Sergio Mancinelli

Oggi l’italo disco è ricordata oggi in virtù dell’utilizzo intensivo di personaggi-immagine, scelti per copertine, spettacoli dal vivo ed apparizioni televisive così come descritto accuratamente in questo reportage ma svelato in qualche occasione pure ai tempi (si veda questa clip del 1985 che immortala la tua ospitata insieme ad Aldo Martinelli a Discoring condotto da Sergio Mancinelli). Talvolta capitava persino che gli autori figurassero solo nelle retrovie lasciando ad altri il ruolo di frontman/frontwoman, proprio come accadde in questa performance del 1983 sempre a Discoring, dove tu ed Aldo Martinelli mimate di suonare rispettivamente sax e tastiera. A tuo avviso tutto ciò penalizzò l’italo disco agli occhi della critica?
No, non credo, anzi fu un pro. Ai tempi bisognava far sognare il pubblico («le persone apparivano felici e si aspettavano ragionevolmente di diventarlo ancora di più», da “Per Il Potere Di Greyskull” di Alessandro “DocManhattan” Apreda, Limited Edition Books, 2014, nda) mostrando un mondo migliore di quello reale e per farlo si ricorse a personaggi di bella presenza, tutto qui. Oggi questo fenomeno è di gran lunga circostanziato, ci sono molti più cantanti bravi e nel contempo belli ma è inutile negarlo, l’occhio vuole sempre la sua parte. In quegli anni scarseggiavano i cantanti validi e capaci. I pochi sulla piazza venivano ingaggiati in molti progetti gestiti anche da etichette concorrenti. Per evitare problematiche legate ad esclusive quindi, preferivano prestare solo la propria voce alla stregua di musicisti turnisti. Il loro nome, in tal modo, rimaneva relegato allo studio di registrazione. Sarebbe stato impossibile essere cantanti ed interpreti allo stesso tempo, ciò avrebbe generato tantissima confusione per il pubblico ma anche per gli stessi addetti ai lavori.

Dal 1981 al 1986 gli Hot Mix 5 (“un quintetto multirazziale di DJ”, dal libro “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton) diffondono musica mixata attraverso l’emittente WBMX, prevalentemente synth pop e new wave europea ma anche tanta italo disco nostrana. Tra i brani più suonati, oltre a “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick” di cui parliamo qui, pare ci fossero proprio quelli di Doctor’s Cat e qua, ad esempio, c’è un set del 1985 di Mickey “Mixin” Oliver in cui figura “Watch Out! insieme ad altre tracce che tengono alto il nostro tricolore firmate dai Baricentro, My Mine e Fun Fun. Eravate consci dell’influenza esercitata oltreoceano? Hai mai avuto modo di interfacciarti con qualcuno di Detroit e Chicago, come Benji Espinoza intervistato qui, che ha riconosciuto i meriti all’italo disco delle prime annate?
Ai tempi c’era una davvero scarsa conoscenza di quello che accadeva all’estero. Ho appreso queste notizie soltanto molti anni dopo, leggendole su internet, e mentirei se dicessi che scoprire ciò non mi abbia regalato piacevoli sensazioni. Sarebbe stato davvero interessante allacciare rapporti con chi seguiva attentamente la nostra musica dall’altra sponda dell’Atlantico ma purtroppo non ho mai avuto modo di scambiare opinioni con nessuno dei personaggi da te menzionati.

03) Gatto e Martinelli, 198x
Fabrizio Gatto e Aldo Martinelli in una foto scattata negli anni Ottanta

La citata “Take A Chance” viene scritta da Tony Carrasco ed Aldo Martinelli. Con quest’ultimo instauri una proficua collaborazione che si traduce in moltissimi brani anche di clamoroso successo, su tutti quelli di Doctor’s Cat (“Feel The Drive”, “Watch Out!”), Martinelli (“Cenerentola”, “O. Express”, “Revolution”, “Victoria”, “Voice (In The Night)”, Topo & Roby (“Under The Ice”), e Raggio Di Luna (“Comanchero”, “Viva”, “Tornado Shout”) per la maggior parte cantati dall’italoamericana Simona Zanini. Come era organizzato il lavoro in studio? Chi faceva cosa?
Conosco Aldo sin da piccolo, siamo nati nello stesso quartiere. Lui, ottimo musicista ed insegnante di musica alle scuole medie, possedeva l’attrezzatura necessaria per imbastire provini e dare un’idea compiuta di ciò che poi avremmo ottenuto registrando in un vero studio perché, non lo nascondo, non disponevamo mica di una sala di incisione, facevamo tutto a casa sua. Ci incontravamo mediamente due o tre giorni a settimana e mettevamo a punto le varie idee ritmiche e le melodie in provini incisi su nastro a due piste. Provvedevamo inoltre a fornire ai cantanti la melodia del brano e le linee di canto con varie parole-chiave da inserire nel testo. Quando tutto era pronto ci ritrovavamo in uno studio professionale che, ai tempi, si prendeva a nolo e costava un occhio della testa, circa un milione di lire al giorno. Per tale ragione era necessario arrivare lì preparatissimi e soprattutto dopo aver ottimizzato il lavoro per ridurre al massimo i tempi morti. Completata la registrazione delle parti, si passava alla fase di mixaggio, la più lunga ma per me anche la più costruttiva e fantasiosa, in cui si poteva stravolgere letteralmente la canzone, invertire le sezioni, inserire effetti ed altro. Allora si registrava su nastro magnetico e per aggiungere effetti, oggi ottenibili in appena una manciata di secondi, potevano servire anche diverse ore. Durante il mixing io e Aldo discutevamo spesso e chi ci conosce non faticherà a rammentare le nostre diatribe: lui, da musicista, tendeva a privilegiare la fase musicale mentre io, avendo a che fare ogni giorno coi DJ, puntavo più al tiro. Alla fine ci incontravamo sempre a metà strada ottenendo una mediazione tra le parti. I risultati, fortunatamente, si sono rivelati spesso vincenti. Con gli aneddoti di quel periodo potrei riempire un libro intero ma forse uno dei più simpatici riguarda “Comanchero”. Il brano non piaceva a nessuno e secondo molti addetti ai lavori a cui lo facemmo ascoltare non avrebbe venduto nulla. «Al massimo intrigherà i tamarri che ascoltano l’autoradio col volume a palla, coi finestrini abbassati e il gomito fuori!» dicevano. Noi però, convinti della forza del brano, insistemmo e riuscimmo a spuntarla. Il pezzo venne pubblicato ad agosto, periodo peggiore per far uscire un disco visto che tutti erano in ferie, ma il risultato ci diede ragione. Ad oggi abbiamo venduto circa cinque milioni di copie di “Comanchero”. A questo punto ben vengano i tamarri.

Con Aldo Martinelli fondi la Moonray Record, attiva nel triennio 1985-1988: come la ricordi?
Costituimmo la Moonray Record principalmente per ragioni fiscali, fatturazioni, acquisti, noleggi e via dicendo, oltre che per stipulare contratti con le varie compagnie discografiche, sia italiane che estere, ed avere potere decisionale sulle scelte finali relative alle nostre pubblicazioni. Le cose andarono particolarmente bene e non incontrammo problemi di sorta.

04) Il Discotto
Il logo de Il Discotto, tra le etichette più rappresentative nel panorama italo disco

Molte delle tue produzioni dei primi anni Ottanta vengono pubblicate da una delle etichette nostrane più emblematiche nel panorama italo disco, Il Discotto di Roberto Fusar-Poli, che in quel periodo rivaleggia con la Discomagic di Severo Lombardoni. Come arrivasti lì? Com’era il tuo rapporto con Fusar-Poli?
Nel 1979 aprii un negozio di dischi in Veneto, inizialmente generalista perché trattava un po’ tutti i generi musicali. Negli anni seguenti frequentare le discoteche mi convinse a dare ad esso un indirizzo più specializzato in dance, italiana e d’importazione. Per soddisfare le richieste di una clientela fatta principalmente da DJ quindi mi avvicinai a vari grossisti ed importatori attivi all’epoca come Discomagic, Gong e Il Discotto per l’appunto. Il mio rapporto con Fusar-Poli era normale, sia da cliente che da produttore, ma una volta conclusa la collaborazione non ho più avuto modo di rivederlo o risentirlo. In quel periodo i discografici non impartivano grandi insegnamenti su come perseguire obiettivi e mantenere vivi eventuali successi. La dance era una cosa nuova per tutti ed esplose inaspettatamente lasciandoci spiazzati. A fare la differenza erano le vendite consistenti, in caso contrario eri solo uno dei tanti che ci provavano.

Da essere un mercato rivolto quasi esclusivamente ai DJ, quello della gergalmente detta “dance” divenne qualcosa di ben più rilevante, anche a livello internazionale. Come fecero le etichette indipendenti italiane a dare filo da torcere alle multinazionali?
Le multinazionali erano focalizzate esclusivamente sul pop. La dance music inizialmente rappresentava solo una piccola fetta di mercato non appetibile per le major che quindi non mostrarono alcun interesse. Le indipendenti inoltre erano molto più veloci e scaltre nella produzione e soprattutto non subivano le lungaggini burocratiche che invece caratterizzavano le multinazionali, e per questo ebbero la meglio.

Come raccontiamo in questo reportage, con l’arrivo della house music, tra 1987 ed 1988, l’italo disco implode, e ciò è alimentato peraltro dal cul-de-sac creativo in cui il genere si infila nella seconda metà del decennio. Analogamente a tanti altri, tu prosegui esplorando nuove direzioni stilistiche. Come ricordi quel particolare momento?
Il biennio 1987-1988 fu effettivamente difficile per l’italo disco. Di fatto si produceva poco e niente e senza riscontri importanti di vendite, il tuo nome finiva inesorabilmente nel dimenticatoio. Da parte dei discografici non giunse mai nessun consiglio e suggerimento su come diversificare o vivacizzare l’italo disco che aveva dato splendore e gloria a tanti. Per mia fortuna, grazie alla frequentazione mai interrotta di DJ e discoteche, entrai in contatto con un nuovo genere chiamato house. Muoveva bene le folle e non mi dispiaceva affatto anzi, lo trovavo interessante ed adatto a progetti futuri. La musica continuava a stupirmi.

05) In studio, 1991
Joe T. Vannelli, Claudio Ridolfi, Albertino, Fabrizio Gatto e Molella immortalati in uno studio di registrazione nel 1991 quando Musicola è all’apice del successo

Nel 1989, anno in cui l’italo house si afferma sulla piazza internazionale, nasce Musicola di cui sei co-fondatore. Al suo interno varie etichette tra cui la Beat Club Records che in catalogo vanta dischi di Bit-Max (di cui parliamo qui), JT Company ed FPI Project nonché importanti licenze di Rozalla e Nomad, oltre alla No Name Records, la Stil Novo Records e la Oversky Records. Quanto fu esaltante quel periodo?
Dopo qualche anno di pausa la dance nostrana tornò finalmente protagonista nelle classifiche mondiali e quello fu un momento più che memorabile. Proprio nel 1989 vide luce Musicola, società editoriale e discografica nata dalla ripartizione in parti uguali tra me, Claudio Ridolfi e il proprietario della distribuzione Non Stop SpA. Partimmo alla grande, lavoravo anche quindici ore al giorno dividendomi tra ufficio, studio di registrazione e discoteche ma non provavo affaticamento, era tutto molto appagante. Inizialmente i produttori riservarono un po’ di scetticismo nei nostri confronti. L’idea di una casa discografica nata all’interno di un distributore, ai tempi il più grosso d’Italia, non andava particolarmente giù. Il pensiero comune era che quest’ultimo avrebbe favorito la stessa penalizzando gli esterni ma pian piano, mostrando la nostra vera indole, le cose presero forma e giunsero produttori da ogni parte del Paese con risultati a dir poco eclatanti. Si vendeva e licenziava tantissimo e Ridolfi, occupandosi dell’estero, era in continuo fermento, subissato da richieste non solo per gli artisti più noti ma pure per quelli sconosciuti in Italia ma che vantavano un grosso riscontro oltre le Alpi. In circa due anni riuscimmo a diventare, anche grazie alla collaborazione della quasi totalità dei produttori dance italiani, una delle più belle realtà indipendenti dello Stivale. Tra i primi ad arrivare ci furono gli FPI Project. Uno di loro ci portò “Rich In Paradise” chiedendoci se fossimo interessati ed affermando che gli sarebbe bastato venderne anche solo mille copie. Coincidenza volle che in quel periodo fossi in studio per realizzare la cover dello stesso brano, “Going Back To My Roots” di Lamont Dozier. Cosa fare? Avremmo potuto pubblicare entrambi, con due nomi diversi ovviamente. La loro versione la sentivo un po’ vuota, la mia era molto più sviolinata ed orchestrata a mo’ di canzone. Forse troppo prevenuto, preferivo la mia ma la prova definitiva avveniva in auto che consideravo il mio secondo ufficio, dove mi relazionavo alla musica senza distrazioni. Quella sera ascoltai un paio di volte il pezzo degli FPI Project e subito dopo il mio. In seguito ad una mezzora di silenzio e riflessione giunsi alla conclusione che il loro fosse venti volte più strepitoso del mio! Con poche cose avevano realizzato una bomba. Il piano in stile Richie Havens (che incide una cover di “Going Back To My Roots” nel 1980, nda) calzava a pennello, la voce impostata del conduttore radiofonico Paolo Dini era accattivante e il loop col sample di James Brown era puro spettacolo. Io invece mi ero fermato più allo stile dell’originale di Dozier, elegante ma in pista non c’era paragone, la loro versione era quella vincente ed infatti decisi di non pubblicare più la mia. Poco tempo dopo giunse Joe T. Vannelli, che non conoscevo ancora, con un suo brano. Lo ascoltai e non era male ma a mio giudizio necessitava di essere perfezionato. A quel punto lui mi confidò di averlo già fatto sentire ad altri a cui però non era piaciuto. Due giorni dopo, in uno studio amatoriale allestito in un garage per auto con luce praticamente inesistente, un mixer Mackie e pochissime altre cose, riarrangiammo e re-mixammo tutto. Risultato? “Don’t Deal With Us” di JT Company, licenziato dalla EastWest in tutto il mondo. Poi però, così come accade in tante favole, l’incantesimo si ruppe.

Cosa successe di preciso?
I tempi erano più che propizi per vendere dischi e noi stavamo andando alla grandissima quando avvenne l’imprevedibile. La Non Stop era da tempo in sofferenza e lo sapevano più o meno tutti. Noi eravamo solo distribuiti dalla stessa visto che stampavamo dischi a nostre spese ed avanzavamo davvero un mucchio di soldi. Tuttavia gli affari andavano talmente bene da riuscire ad essere in positivo e non di poco. I produttori però iniziarono a preoccuparsi e ci chiedevano continuamente a quali rischi andavano incontro. Noi li rassicuravamo: qualora la Non Stop avesse malauguratamente chiuso battenti, noi saremmo stati comunque in grado di pagare le royalty ma soprattutto di proseguire l’attività giacché eravamo creditori di parecchio denaro dall’estero per le licenze stipulate e in banca eravamo più che coperti. Una mattina però ricevemmo la telefonata di un fornitore che lamentava una fattura non pagata. Mi recai subito in banca per chiedere spiegazioni e, con immenso stupore, scoprii che i nostri conti correnti erano stati prosciugati. Com’era possibile? Chi aveva preso il denaro? Era stato il terzo socio, proprietario di Non Stop che, nel contempo, era parte attiva di Musicola. Gli chiedemmo subito ragguagli ma senza mai ricevere risposta. Ci recammo allora dal notaio che aveva redatto gli atti per la costituzione della società con le partecipazioni dei soci e lì subimmo un’altra doccia fredda: asseriva di non conoscerci e di non averci mai visto prima. Solo a distanza di anni siamo venuti a sapere che sono stati giudicati e condannati, notaio compreso, per vari reati, ma servì a ben poco. Musicola aveva perso e non esisteva più.

06) Premiazione Gam Gam Compilation, 1994
Da sinistra: Max Monti, Fabrizio Gatto, Mauro Pilato, Claudio Ridolfi e, alle spalle, Roberto Delle Donne. La foto viene scattata in occasione della premiazione col disco di platino della “Gam Gam Compilation” nel 1994

Nonostante tutto però tu e Ridolfi ci riprovate e nel 1993 dalle ceneri di Musicola nasce la Dancework, questa volta con risultati più continuativi. Il successo non si fa attendere: Dynamic Base, Gam Gam, Indiana, Two Cowboys (di cui parliamo rispettivamente qui e qui), Nikita, Brainbug ed importanti licenze come Marvin Gardens (a cui abbiamo dedicato un articolo qui), Celvin Rotane, New Atlantic, Fifty Fifty e Milk Incorporated sono solo alcuni dei nomi apparsi su numerose label che la società incorpora tra cui Volumex, Welcome, Strike Force, @rt Records, Joyful e Mammut. C’erano sostanziali differenze rispetto all’attività precedente in Musicola e Moonray Record?
Ripartire dopo quella batosta non fu affatto facile. A causa di ciò che avvenne con Musicola, perdemmo la maggior parte dei produttori e gli abituali fornitori stentavano a fornirci il materiale, alcuni pensavano (e forse lo pensano ancora oggi) che fossimo d’accordo col fallimento. Per fortuna qualcuno credette nella nostra innocenza e buona fede e, con un pizzico di fortuna, ricominciammo a lavorare. Tra Musicola e Dancework non sussistevano particolari differenze ma con Moonray Record sì perché quella non era una società editoriale. Inizialmente in Dancework lavoravamo solo io e Ridolfi: lui continuava ad occuparsi principalmente dell’estero (acquisizione master e contrattualistica) mentre io di produzione e promozione. Confrontarci sempre su tutto rese vincente la nostra collaborazione e giovò all’operatività dell’azienda, più o meno come avvenne negli anni precedenti in Musicola. Pian piano abbiamo assunto una segretaria ed un promoter, abbiamo allestito gli studi di incisione ed ingaggiato un team di produzione. Le soddisfazioni furono davvero tantissime. Una su tutte? “Gam Gam” di Mauro Pilato & Max Monti, uscito a gennaio del 1994 ma esploso solo a giugno. In quei sei mesi aveva venduto appena cinquecento copie, un’inezia. Le radio (compresi i network) non avevano alcuna intenzione di trasmetterlo e aver fatto realizzare dei remix da vari DJ noti dell’epoca non sortì alcun risultato. Poi, come d’incanto, esplose, proprio con la versione originale, quella che non piaceva a nessuno, e di colpo divenimmo bravi. Piovevano richieste per decine e decine di compilation, tutte le emittenti lo inserirono nelle playlist e se ne interessarono persino stampa e televisione. Fu appagante ma che fatica!

Nel corso degli anni Novanta il tuo nome finisce su centinaia di dischi come “Dance The Night Away” di Nina, “All I Need Is Love” di Indiana (costretta a cambiare nome in Diana’s) per cui realizzi la versione più nota, ed “Eterna Divina” di Nikita. Oggi ti riascolti e rivedi con più piacere nell’italo disco o nell’eurodance/italodance?
Seppur con modalità e tempi differenti, per certi versi ho vissuto entrambi i periodi col medesimo entusiasmo. Durante la fase dell’italo disco c’era molta più inesperienza, approcciavo ad una cosa nuova e mai fatta prima di quel momento, avevo mille dubbi e mi assaliva spesso la paura di sbagliare. Negli anni dell’eurodance invece avevo ormai acquisito la competenza che mi permetteva di osare di più. Certo, i dubbi e la paura di fare passi falsi permanevano ma l’obiettivo restava lo stesso, lavorare divertendosi e sperare che altri giovassero di ciò che stavo facendo. Riuscire a conquistare l’attenzione della gente col tuo pensiero, la tua fantasia, il modo di porti e il tuo gusto musicale è motivo di una inimmaginabile soddisfazione. Per me ogni cosa che ho fatto ha il suo valore, che sia italo disco o eurodance. Rappresenta un passaggio di vita reale di quel preciso momento.

07) Gatto e Michel Chacon, 2009
Gatto e Michael Chacon a Roma, nel 2009, ospiti nel programma televisivo di Rai 1 “I Migliori Anni” condotto da Carlo Conti

Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, quando Dancework raccoglie ancora consensi con brani tipo “Rain” di Brainbug, “Tonight I’m Dreaming” dei Fifty Fifty, “Indian Summer” di B1 Feat. Maverick e il tormentone latino di Michael Chacon, “La Banana”, il comparto discografico dance italiano subisce radicali trasformazioni e ne esce come un piccolo arenile dopo uno tsunami. Nulla è più lo stesso e a rimetterci le penne sono innumerevoli etichette e distributori ma pure emittenti radiofoniche e personaggi che da star si trasformano in sconosciuti. Ad ormai venti anni di distanza, credi che le ragioni siano attribuibili alla poca flessibilità/capacità di adattamento alle nuove dinamiche, alla chiusura di un ciclo, all’esponenziale aumento della concorrenza o ad altro ancora?
La flessione negativa della discografia dance italiana è indubbia. A mio avviso i motivi sono attribuibili all’aumento della concorrenza estera ma anche alla chiusura immotivata del nostro mercato nei confronti di un genere di immediato riscontro. Da un certo punto in poi tutto mi è sembrato improvvisato, privo di idee reali e basato solo su similitudini, abusate al punto tale da precludere qualsiasi sbocco verso i più redditizi mercati esteri.

Pensi ci possa essere un nuovo momento dorato per la dance italiana, così come accadde con l’italo disco e l’italodance?
Sarebbe bello (ri)vedere di nuovo gli italiani in cima alle classifiche di tutto il mondo ma la vedo dura. Nel panorama musicale attuale non ricopriamo alcun tipo di rilevanza se non in casi sporadici e fortuiti. Le nuove generazioni puntano subito al grosso bersaglio, alla fama, al denaro, alla notorietà e al prestigio. Poco importa conoscere ed approfondire la storia della musica e capire ciò che c’è stato prima e che ci ha rappresentati per anni. È necessario intraprendere un percorso di apprendimento e soprattutto fare la gavetta ma adesso, con la sovrapproduzione mondiale di musica non ha più senso neanche cosa componi. Le idee e le melodie passano in secondo piano, la cosa più importante è affermarsi nel minor tempo possibile. I migliori risultati, purtroppo per noi, arrivano solo dall’estero, dalle major, dai nomi famosi e dalle etichette importanti gestite da personaggi potenti che influenzano il mercato. Poi, sotto tutto ciò, esiste una fascia di musica pubblicata senza alcun tipo di filtro. Ormai tutti possono comporre, è un concetto democraticamente corretto ma c’è un rovescio della medaglia e lo abbiamo sotto gli occhi ormai da anni.

08) Gatto e Bob Sinclar, 2018
Gatto e Bob Sinclar, nel 2018. Quando al DJ francese dicono che tra il pubblico c’è Fabrizio Gatto lui canticchia immediatamente “Comanchero”

Qual è il bestseller del tuo repertorio, sia da compositore che produttore?
Prendendo in considerazione il livello di vendite il bestseller resta, senza ombra di dubbio, “Comanchero” di Raggio Di Luna. Seguono “Feel The Drive” di Doctor’s Cat, “Cenerentola” di Martinelli, “Under The Ice” di Topo & Roby, “Take A Chance” di Bizzy & Co. ed altri ancora. Ci sono anche pezzi che, per vari motivi, non hanno raccolto risultati eclatanti ma a cui sono legato in particolar modo come “In Zaire” di African Business, “Please Don’t Go” di Another Class Featuring KC & The Sunshine Band, i remix italiani di “Faith (In The Power Of Love)” di Rozalla, di “This Is Your Life” dei Banderas e di “My Body And Soul” dei Marvin Gardens. Senza dimenticare “Eterna Divina” di Nikita e “Dance The Night Away” di Nina, ma fosse per me li citerei tutti perché li considero alla stregua di miei bambini, fortunati e meno che siano stati.

Qual è stato invece il flop inaspettato, nonostante il potenziale?
Forse “All I Need Is Love” di Indiana: la FFRR aveva investito moltissimo nel progetto stampando circa ventimila copie promozionali. Il brano iniziò a girare nelle discoteche e sembrava piacere molto ma fu fermato dalla causa legale legata al nome (come spiegammo in Decadance già nel 2008 e pure qui, nda). Quando, diversi mesi più tardi, tornò sul mercato con un nuovo pseudonimo non diede più i risultati sperati.

09) Linda Jo Rizzo, Christa Mikulski, Gatto, settembre 2019
Linda Jo Rizzo, Christa Mikulski della ZYX e Fabrizio Gatto a Milano nel 2019

Qual è la carognata più grossa che hai subito nella tua carriera?
Aver perso Musicola in modo così vigliacco.

La Dancework è ancora attiva: a cosa stai lavorando al momento?
Opero su svariati fronti ma pianificare cose adesso è davvero difficile. Diversi motivi personali mi hanno allontanato dalla musica per un periodo piuttosto lungo e nell’era del digitale, degli aggregatori e dei social network ho perso parecchio terreno. Ci sto riprovando cercando di valorizzare l’esperienza acquisita negli anni con nuove idee oppure riciclandone di vecchie attraverso sviluppi diversi più consoni ai tempi che viviamo. Sono cosciente che tutto ciò non basti ma sono pronto a rimettermi in discussione come ho sempre fatto per cercare soluzioni che mi appaghino e mi facciano stare bene. Per me la musica serve proprio a questo.

(Giosuè Impellizzeri)

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Two Cowboys – Everybody Gonfi-Gon (Welcome)

Two Cowboys - Everybody Gonfi-GonCome raccontato in plurime occasioni nei libri della trilogia di Decadance ed anche su queste pagine virtuali, tanti artisti che si sono distinti negli anni Novanta cominciano la loro avventura già nel decennio precedente. È il caso di Roberto Gallo Salsotto che debutta nel mondo discografico nel 1986 quando incide, per l’Ibiza Records di Claudio Cecchetto, “Different Generation” di Toyboys, un progetto condiviso col fratello Enzo nato sulle coordinate più pop dell’italo disco e per cui viene girato anche un videoclip. «Intorno alla metà del dicembre 1985 ci presentammo a Radio DeeJay con una cassetta con su inciso il provino (in realtà una versione quasi definitiva) di “Different Generation”» racconta oggi il compositore. «Parlammo con l’allora direttore artistico, Massimo Carpani, che pur trovando il brano interessante ci congedò con un classico “vi faremo sapere”. Tre giorni dopo fummo convocati da Cecchetto nel suo studio: entusiasta del pezzo, aveva già deciso nome del progetto, copertina del disco e look. A metà gennaio ’86 entrammo nel Rimini Studio per rifare il master ed arricchire la produzione con l’ausilio di un arrangiatore, Marco Sabiu. A maggio venne pubblicato il singolo che, contemporaneamente, fu utilizzato come sigla estiva del famoso programma televisivo trasmesso da Italia 1, DeeJay Television. Arrivammo a Cecchetto senza alcun background, fu quella la nostra prima esperienza discografica. Fortunatamente lui badava al sodo e non a chi eri o da dove venivi. Successivamente ci fu chiesto di lavorare ad un album. Cominciammo a scrivere alcuni pezzi ma qualche mese dopo, purtroppo, Cecchetto decise di “vendere” i contratti di tutti i suoi artisti (Sandy Marton, Tracy Spencer, Taffy, Via Verdi, Tipinifini etc) a varie major, si dice per problemi di tipo finanziario. A noi toccò la CGD, nota etichetta specializzata in musica italiana che però aveva ben poco a che fare col nostro genere. Per tale ragione rescindemmo il contratto nel 1987 e quella bella avventura finì».

Toyboys, Kris Tallow
Le prime produzioni dei fratelli Gallo Salsotto: in alto “Different Generation” di Toyboys, in basso “Emotions Game” di Kris Tallow

I fratelli Gallo Salsotto non demordono. Proprio nel 1987, per la Rolls Record, realizzano “Emotion’s Game” di Kris Tallow (ironica inglesizzazione in scia a Den Harrow, Joe Yellow o Jock Hattle) oggi diventata una rarità sul mercato del collezionismo. L’italo disco però è ormai quasi al capolinea. Il brano, realizzato presso lo studio di Bruno Palumbo, raccoglie un discreto successo in Francia, ma è l’ultimo che i fratelli incidono insieme, sospendendo la collaborazione per circa un decennio. Roberto insiste con la musica dance e negli anni Novanta produce brani filo house (“Inside My Brain” di Colored, “Read My Lips” di People In Town e “Burn In His Hands” di P. Lion). Poi, con l’arrivo della prima ondata italodance, sforna insieme a Max Boscolo, Gianni Drigo e Maurizio Braccagni, i tre singoli di Dynamic Base, “Africa”, con una citazione di “New Year’s Day” degli U2, “Make Me Wonder”, con le chitarre di “Ghostdancing” dei Simple Minds, ed “All Of My Life”. In Italia sta per esplodere il fenomeno dance insieme ad un non trascurabile indotto legato alle radio, alle performance in discoteca e alle migliaia di compilation immesse settimanalmente sul mercato. «Dopo l’uscita di Kris Tallow passò qualche anno prima che tornassi a pubblicare musica perché dovetti imparare a produrre da solo visto che era molto difficile trovare etichette disposte ad investire sulla realizzazione di progetti. Era consuetudine delle label infatti acquisire brani già finiti e pronti per la stampa» prosegue Salsotto. «Nel periodo che va dal ’91 al ’93 le tendenze cambiavano di continuo, era essenziale produrre velocemente, prima che quei suoni passassero di moda. L’indotto prima citato, molto importante, era però riservato ai brani dei pochi “eletti” che passavano in radio, una su tutte Radio DeeJay e in particolare nel DeeJay Time di Albertino che, di fatto, condizionò pesantemente l’intero mercato discografico italiano. I dischi si vendevano ancora quindi se eri in grado di lavorare bene, qualcosa riuscivi sempre a portarla a casa».

Nel 1994 Roberto Gallo Salsotto stringe una partnership col citato Maurizio Braccagni che si rivela proficua e genera un vero fiume di pubblicazioni, più e meno note. «A presentarci furono i titolari della Dancework, Fabrizio Gatto e Claudio Ridolfi, etichetta con cui lavoravo già da diverso tempo» spiega a tal proposito il compositore. «Braccagni cercava qualcuno che avesse uno studio di registrazione per realizzare vari progetti. Durante i primi tempi lavoravamo insieme nel mio studio ma mi accorsi che in lui crescesse la voglia di indipendenza. Avevamo stili differenti e spesso le mie scelte, seppur da lui avallate, non lo rappresentavano pienamente. Poco tempo dopo infatti aprì un suo studio e cominciammo a lavorare separatamente su progetti condivisi. Ognuno, insomma, elaborava le proprie versioni e da quando adottammo questo metodo le differenze stilistiche a cui facevo riferimento divennero piuttosto evidenti». Tra le produzioni più fortunate nate sull’asse Braccagni/Salsotto c’è “Everybody Gonfi Gon” di Two Cowboys, apparsa nel 1994 sulla Welcome del gruppo Dancework. Registrato presso lo Stockhouse Studio di Salsotto, a Muggiò, a pochi chilometri da Monza, il brano gira su festose atmosfere country, rimarcate dalla grafica in copertina, che pochi mesi dopo vengono traghettate nuovamente nella dance dagli svedesi Rednex nella fortunata “Cotton Eye Joe”, dai britannici Grid dell’ex Soft Cell Dave Ball in “Swamp Thing” (preceduto da “Texas Cowboys” del ’93 già parzialmente immerso in quella salsa) e dal team bresciano DJ Creator nella meno nota “Talk About”. A dirla tutta, quell’accoppiata stilistica è già stata testata nelle discoteche nel 1992, ma senza particolari riscontri, attraverso “Mu-Sika” di Lost Tribe, un progetto in cui c’è lo zampino di Albertino. «”Everybody Gonfi Gon” fu il primo disco con cui io e Braccagni riuscimmo nell’impresa di arrivare alla quinta posizione della classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito» rammenta con comprensibile orgoglio Salsotto. «Partecipammo in prima persona, nelle vesti di artisti, ad importanti manifestazioni d’oltremanica, su tutte quella ad Hyde Park, a Londra, dove si tenne un evento paragonabile al nostro Festivalbar, e Top Of The Pops, in televisione. Finalmente anche per noi si prospettò la possibilità di entrare tra gli “eletti” a cui accennavo prima. Non avremmo potuto sognare un esordio migliore di quello. Realizzammo il pezzo di getto in appena ventiquattro ore (l’indomani curammo solo le rifiniture). Maurizio mi portò un disco promozionale spagnolo sconosciuto che conteneva un giro di violino in chiave western. Lui sosteneva che fosse fortissimo e che avremmo dovuto rifarlo con una base più “tamarra”. Una volta accesi gli strumenti fu facile perché, in effetti, quel giro di violino richiamò da solo i giusti arrangiamenti. Braccagni aveva proprio ragione sulle sensazioni provate sentendo quel violino. Il resto è storia. Gli strumenti che utilizzammo all’epoca erano due campionatori Akai S1000, sintetizzatori Roland JV-1080, Oberheim Matrix 1000, Korg 03R/W e qualche expander di minor importanza, oltre ad un registratore digitale a quattro tracce per i master, un Akai DR4. Il tutto pilotato dal noto Atari ST Mega 4 e il software Cubase che utilizzo ancora oggi».

“Everybody Gonfi Gon” diventa un successo internazionale, trainato da un videoclip e licenziato in buona parte d’Europa ma pure in Messico, Giappone ed Australia. Il clima euforico però, come accennato proprio da Gallo Salsotto nell’intervista finita in Decadance Appendix, viene rovinato da una battaglia legale andata avanti per quasi un decennio, mossa dall’etichetta iberica Clik, detentrice dei diritti del poco noto “Western (Everybody Go See Go)” di Falkon Krest, a cui i due italiani si ispirano campionando il giro di violino e il breve hook vocale da cui deriva il titolo foneticamente simile. «A gestire internazionalmente il disco fu la major britannica London Records» spiega Salsotto. «Arrivare così in alto nella UK sales chart fece da volano al lancio in molti altri Paesi. Vendette davvero tanto ma non sono in grado di fornire numeri ufficiali perché, nonostante la valanga di 12″ e compilation sparse per il mondo, non abbiamo mai avuto accesso ai rendiconti per motivi di carattere legale. Citati in giudizio per plagio per quel giro di violino che, ahimè, non ci apparteneva, non potemmo beneficiare dei proventi generati dal successo di “Everybody Gonfi Gon”. Perdemmo clamorosamente la causa civile, durata ben otto anni, e gli incassi andarono agli autori originali. Provammo a trovare un accordo con la controparte ma non ci riuscimmo. Comunque, nonostante ciò, per noi “Everybody Gonfi-Gon” rappresentò un importante trampolino di lancio per lavorare ad alti livelli. Realizzammo un secondo singolo di Two Cowboys, sfruttando un nuovo giro di violino questa volta originale, ma non vide mai luce a causa del parere negativo espresso della London Records, contraria ad usare ancora quello strumento. La previsione si rivelò sbagliata visto che poco tempo dopo arrivarono i Rednex con “Cotton Eye Joe”. Sfruttando la nostra idea, gli svedesi ricavarono un successo mondiale ben superiore a quello dei Two Cowboys.

New Atlantic - The Sunshine After The Rain
Il nome Two Cowboys torna per un fortunatissimo remix che trasforma “The Sunshine After The Rain” dei New Atlantic in una hit europea

Non riuscendo a bissare il risultato, decidemmo di non utilizzare più quel nome riprendendolo solo su espressa volontà della 3 Beat Records di Liverpool per “marchiare” la realizzazione del remix del brano “The Sunshine After The Rain” di New Atlantic Feat. Berri. Quella versione (costruita su un basso di moroderiana memoria ed usata anche per il videoclip, nda) la produssi da solo ma poiché il nome Two Cowboys era di proprietà congiunta con Maurizio, lui venne coinvolto comunque nei crediti. Il risultato fu clamoroso e il pezzo finì nella top ten britannica. Ricevetti dalla 3 Beat pure una targa che certificava il raggiungimento di 120.000 copie vendute solo oltremanica, targa che ho appeso orgogliosamente nel mio studio. Di Two Cowboys restano altri remix (“All I Need Is Love” di Indiana, di cui parliamo qui, “Dance The Night Away” di Nina, nda) prodotti quando lanciammo il duo di produzione MBRG (acronimo delle nostre iniziali) lavorando a svariati progetti di seconda fascia pubblicati da Discomagic e moltissimi remix per la Energy Production per artisti come J.K. e Whigfield».

DJ Dado - X-Files
“X-Files” di DJ Dado, pubblicato dalla Subway nel 1996, è il primo brano di DJ Dado a raccogliere successo dopo vari singoli passati inosservati

Ancor prima di creare Two Cowboys, di cui viene annunciato un nuovo singolo, mai uscito, a dicembre ’95, Salsotto avvia un’altra collaborazione destinata a lasciare il segno nella pop dance degli anni Novanta, quella con DJ Dado che affianca sin dal disco d’esordio, “Peace & Unity” del 1993. Inizialmente l’Italia pare non essere particolarmente interessata (pezzi come “The Same” e “Face It” passano del tutto inosservati) ma con “X-Files”, cover dell’omonimo di Mark Snow composto per la celebre serie televisiva, cambia tutto. Da quel momento per DJ Dado si apre una stagione più che fortunata costellata di successi come “Metropolis (The Legend Of Babel)” (remake dell’omonimo di Giorgio Moroder scritto per la versione del 1984 del film “Metropolis” di Fritz Lang), “Revenge” o la reinterpretazione di “Shine On You Crazy Diamond” dei Pink Floyd che confluisce nella sigla DD Pink. Senza omettere sia la lunghissima lista di remix (da Molella ad Alexia, da Bibi Schön a Datura passando per Jean-Michel Jarre, Vasco Rossi e Boy George che, con “When Will You Learn” si aggiudica la nomination ai Grammy Awards per la miglior registrazione di musica dance), sia la deviazione pop partita nel 1997 con “Coming Back” e proseguita con “Give Me Love” e “Forever”, cantati da Michelle Weeks, e “Ready Or Not” in coppia con Simone Jay. «Nei primi anni Novanta ero particolarmente attivo, nonostante dividessi il tempo tra un lavoro full time in un negozio di hi-fi/video (lasciato nel ’94 per dedicarmi esclusivamente alla produzione discografica) e l’attività in studio effettuata solo durante le ore notturne» racconta ancora Salsotto. «Realizzavo, prevalentemente da solo, molte produzioni e tra quelle ne destinai alcune ad un progetto che un mio caro amico voleva proporre al titolare di un negozio di dischi di Viale Monza, a Milano, un tal Flavio D’Addato. Ai tempi D’Addato cercava qualcuno che gli realizzasse dei dischi su cui potesse apporre il proprio nome in copertina. Fu così che nacque il percorso artistico di DJ Dado. Ci volle qualche anno prima che arrivasse al successo che tutti conoscono, partendo da “Rhythm Of Pleasure” che firmò come Flavio Dado nel ’93. Solo nel 1996 la dea bendata bussò alla porta di questo progetto che, nonostante non avesse beneficiato della “spinta” di Albertino (che ad “X-Files” preferisce “The Truth” di Trinity, prodotta dal britannico Ian Anthony Stephens, nda) riuscì ad imporsi pesantemente in Italia e all’estero. Così, per il terzo anno di fila, fui capace di piazzare un singolo nella top ten del Regno Unito, dopo Two Cowboys del 1994 e New Atlantic del 1995, impresa quasi impossibile per un italiano. “X-Files” resta il disco che, a livello internazionale, ha dato maggiori soddisfazioni, almeno in termini numerici. In studio lavoravo sempre da solo, sia sulle produzioni che su tutti gli innumerevoli remix marchiati DJ Dado, eccezion fatta per i brani prodotti dal 1997 in poi che videro l’inserimento nel team di Charlie Aiello e Miki Giorgi, noti come Antiqua, che portarono a quel cambiamento di sonorità, più pop, sostenuto dalle voci di Michelle Weeks e Simone Jay. In merito alla gestione dei ruoli, io ho sempre curato interamente la parte musicale, D’Addato invece si occupava esclusivamente della parte gestionale del “brand”, oltre alla sua attività da DJ decollata ovviamente grazie al successo discografico. Senza voler urtare la sensibilità dei numerosi fan di DJ Dado che ora si chiederanno cosa facesse concretamente per “meritarsi” il successo ottenuto, ricordo che nel mondo della dance è stata una consuetudine produrre musica a cui dare successivamente un volto rappresentativo, quasi sempre diverso da chi realmente partecipava alla creazione della stessa. Mi vengono in mente Den Harrow negli anni Ottanta, Corona nei Novanta e Billy More nei Duemila, ma ne esistevano davvero tantissimi altri (e a tal proposito si rimanda a questo ampio reportage, nda). Nel 1999 decisi di interrompere la collaborazione con Flavio D’Addato per problemi interpersonali. Nonostante la notorietà raggiunta, volli ricominciare con altri progetti e nuove collaborazioni che, fortunatamente, non tardarono ad arrivare».

Fabrica, D.E.A.R.
Due produzioni che Gallo Salsotto realizza per la Dance Pool del gruppo Sony, Fabrica e D.E.A.R.

Un altro successo di Salsotto risalente agli anni Novanta è “I’m Missing You” di Fabrica, che strizza l’occhio ad “Offshore” di Chicane (ma una delle versioni, la Nothin’ But Mix, ammicca anche agli Everything But The Girl remixati da Todd Terry che quell’anno, il 1997, ispira pure Kortezman e Marascia per “Obsession” di Obsession, poi diventato ufficialmente un singolo di Chase). A pubblicare Fabrica è la Dance Pool del gruppo Sony, la stessa che l’anno dopo manda in stampa il follow-up “I Believe” e nel 1999 “Talk To Me” di D.E.A.R., interpretato da Melody Castellari. «Il progetto Fabrica sancì il ritorno alla collaborazione con mio fratello dopo oltre un decennio» spiega Salsotto. «”I’m Missing You” segnò anche la sinergia con una major che, assicuro, non era impresa facile. Nonostante avessi la fortuna di essere amico dell’A&R della Dance Pool, Mauro Bonasio, che certamente creò un vantaggio nell’approccio, arrivare a pubblicare un disco con Sony fu del tutto inaspettato e sorprendente. Ad un’etichetta indipendente ci si presentava col master confrontandosi direttamente con chi decideva mentre in una multinazionale c’era tutta una scala gerarchica da risalire, con visioni di mercato e metodologie di lavoro molto più complesse che purtroppo, nella maggior parte dei casi, non portavano a nulla di concreto. Alla luce di ciò, era più piacevole lavorare con le indipendenti seppur le major abbiano sempre rappresentato un punto di arrivo maggiormente prestigioso. Fortunatamente nella mia carriera ho lavorato sia con major che indipendenti».

Sals8 - Downtown
Con “Downtown” nel 2000 Roberto Gallo Salsotto esce allo scoperto nella veste di artista firmandosi Sals8

Il 2000 vede Salsotto ancora protagonista con Sally Can Dance (insieme ad Alessandro Viale, Davide Scarpulla ed Emanuele Cozzi alias Paps N Skar, con cui peraltro collabora a singoli di successo come “Turn Around”, “You Want My Love (Din Don Da Da)”, “Get It On” e “Loving You”), Dema-J, superEva, Billy More, 5 Elements e Souvenir D’Italie, giusto per citarne alcuni. Sono pure gli anni in cui decide, insieme al fratello, di uscire allo scoperto col cognome anagrafico dopo decine di fantasiosi pseudonimi, incidendo brani come “Downtown”, “No Time For Lies”, “No Control” e “Remains The Same”, in cui si registra la presenza di un’impronta eurotrance à la Alice Deejay. Fu un periodo di radicale trasformazione, non solo a livello stilistico ma anche (e soprattutto) tecnologico. In ambito musicale è rimesso praticamente tutto in discussione e l’Italia, a detta di tanti, pare si sia lasciata cogliere piuttosto impreparata. Svariate etichette e quasi tutti i distributori chiudono battenti, persino storiche emittenti cessano di esistere (su tutte Radio Italia Network) o prendono le distanze da quello che per anni era sembrato un filone aurifero inesauribile. Mentre le possibilità di rilancio si azzerano, la dance nostrana finisce col perdere appeal sul fronte internazionale e la seconda ondata italodance, specialmente quella che abbraccia i primi anni Duemila, non riesce a raccogliere gli stessi risultati di circa dieci anni prima quando detona l’italo house. Si era semplicemente chiuso un ciclo?

Salsotto oggi
Un recente scatto di Roberto Gallo Salsotto nel suo studio di registrazione

«Le difficoltà che la discografia mondiale stava per affrontare da lì a poco derivarono principalmente dalla carenza di nuove mode e sonorità, oltre che dalla trasformazione tecnologica in atto» sostiene Salsotto. «Alle nuove leve di produttori mancò l’educazione musicale che i precedenti decenni avevano dato invece a quelli della mia generazione. Scherzosamente amo definire i nati negli anni Ottanta come “vittime di Gigi D’Agostino”, artista talmente geniale ed unico da togliere spazio ed ispirazione ai ragazzi di quel periodo. Analizzando il sound pop dance italiano dal 2000 in poi, ci si imbatte in un genere nato dalla fusione dell’hands up tedesca, il basso in levare di D’Agostino ed una tarantella napoletana, il tutto sapientemente frullato dall’estro di personaggi come Gabry Ponte e i suoi “seguaci” che hanno dato vita all’italodance che per qualche tempo ha monopolizzato il mercato italiano (fortunatamente solo quello!). Unica e doverosa menzione spetta al grande Benny Benassi che riuscì ad esportare nel mondo un sound che nulla divideva con le “tarantelle”, filone di cui non sono mai stato un estimatore. In Europa, nel frattempo, i generi cambiavano, si spaziava dalla trance alla nuova eurodance (che ha anticipato l’EDM in stile Avicii) e alla techno commerciale dei dischi della Kontor, tutti splendidi prodotti che, salvo poche eccezioni di chi decise di importarli, da noi non trovarono spazio. Dopo la fine del sodalizio con DJ Dado, cominciai la stretta collaborazione con Alessandro Viale che a sua volta mi diede la possibilità di incrociare i destini di altri importanti compositori coi quali ho realizzato parecchie produzioni come Roby Santini (Billy More e Souvenir D’Italie), Davide Scarpulla ed Emanuele Cozzi (Paps N Skar, Sally Can Dance, D.E.A.R.). Con loro i risultati sono stati notevoli nonostante il periodo davvero irto di problemi. Parallelamente provai a fare musica con un taglio più internazionale con un progetto che per la prima volta portava il mio cognome in copertina, Sals8, ottenendo ottimi risultati in giro per il mondo tranne che in Italia. “Downtown”, ad esempio, fu particolarmente apprezzato in Francia e in Sud America. A quel punto tentai di internazionalizzare il sound di alcuni dischi, e a testimonianza ci sono le versioni che realizzai per “Love Is Love” e “Che Vuoto Che C’è” di Paps N Skar o il remix di “Looking 4 A Good Time” di Hotel Saint George intitolato Doccia Energizzante Tonificante. Il tentativo, seppur apprezzato, non sortì alcun effetto.

A questa penuria di offerta stilistica si aggiunse la vera mazzata portata da internet che in breve tempo cambiò la fruizione della musica in tutto il mondo. Con l’avvento delle linee ADSL, la diffusione del formato MP3, di Napster e di altri sistemi di file sharing che seguirono il medesimo modello dello scambio gratuito di musica tra soggetti privati, i prezzi più accessibili dei masterizzatori CD nonché la totale assenza di legislazioni atte a tutelare il comparto musicale, assistemmo in brevissimo tempo alla morte del supporto fisico (CD e soprattutto vinile), allo sgretolamento dei fatturati, al conseguente impoverimento dei budget stanziati per nuove produzioni, alla chiusura di molte etichette indipendenti e non, la fine di tanti negozi di dischi e, conseguentemente, dei distributori. Importanti programmi radiofonici, come il DeeJay Time e la DeeJay Parade, vennero sospesi ed alcune emittenti, come Italia Network e Discoradio, furono persino smantellate. Insomma, abbiamo assistito alla capitolazione di tutti coloro che facevano parte di questo comparto da cui è nata una spirale negativa che ancora oggi non si è interrotta. Penso che le responsabilità che hanno portato il music business a questo punto siano molteplici. Forse la scintilla che ha dato inizio al cambiamento la si deve ricercare nella nascita delle radio libere, nella seconda metà degli anni Settanta, e al loro esponenziale moltiplicarsi negli anni a venire. Prima, se volevi ascoltare il pezzo di un artista, dovevi comprare il suo disco alimentando il meccanismo. Con le radio invece non era più obbligatorio acquistare nulla se non un dispositivo hi-fi casalingo o portatile (su tutti il Walkman della Sony). Quello, a mio avviso, doveva essere considerato il primo campanello d’allarme su ciò che il futuro ci avrebbe riservato ossia un’offerta musicale che supera di gran lunga la domanda. In passato eravamo noi a cercare la musica, ora è lei che cerca noi, e le conseguenze le stiamo vivendo ormai da tempo».

In un quadro simile si fatica parecchio a trovare novità autentiche dal punto di vista creativo. Si ritiene ormai consolidato credere che di musica che si riascolterà volentieri tra qualche decennio ne esista sempre meno. «In ambito dance direi che nessuno stia facendo nulla di memorabile» afferma senza tergiversare Salsotto. «In tempi recenti, l’ultimo “fenomeno” in grado di lasciare un segno indelebile degno di entrare a far parte dei libri di storia è stato Avicii che, pur non avendo inventato nulla di nuovo, ha saputo modernizzare e plasmare a suo gusto uno stile riconoscibile e, visto il consenso mondiale ottenuto, direi unico. A causa di tutto quello che è avvenuto in questo settore, dal 2012 ho abbandonato la produzione discografica dance dedicandomi al pop/rock e siglando un ritorno alle mie origini musicali giovanili. Da un paio di anni a questa parte però curo corsi personalizzati per tutti coloro che vogliono apprendere nel minor tempo possibile l’arte della produzione di musica dance/elettronica, mettendo a disposizione i trucchi del mestiere appresi in tantissimi anni di fortunata carriera. Con questo impegno didattico consento agli allievi di saltare il superfluo ed andare dritti al sodo, risparmiando tempo ed energie» conclude il compositore. (Giosuè Impellizzeri)

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