Discommenti (novembre 2023)

Andy Romano - Monday

Andy Romano – Monday (Bordello A Parigi)
Andy Romano si fece notare tra 2008 e 2010 con una serie di produzioni di taglio italo disco, tutte finite nei cataloghi di etichette estere. MySpace stava per cedere il passo a Facebook e il movimento che gravitava intorno al revivalismo dance degli anni Ottanta era ancora perlopiù relegato a piccole case discografiche indipendenti guidate da collezionisti incalliti desiderosi di ridare linfa vitale alle musiche che contraddistinsero la loro giovinezza. Poi, improvvisamente, di Romano si perdono le tracce e di lui non si è saputo più nulla. L’ennesima delle meteore insomma, ma rimpianta perché in studio ci sapeva fare davvero. Alla musica l’artista preferisce il lavoro di character designer nel settore dei videogiochi, del cinema e dell’editoria. A distanza di tredici anni dall’ultima apparizione però il nome del capitolino rispunta fuori, forse istigato dalla recente ristampa di “Every Time Feel Allright” su Cold Blow, con un EP destinato all’olandese Bordello A Parigi che sembra provenire da un vecchia bobina incisa nel biennio 1982-1983. “Monday” incrocia il tiro hi nrg di Bobby Orlando a tradizionali ouverture melodiche italo, e “Cyber Black Spaceship” ne segue la scia evidenziandone il lato cosmico. “Loredane” infine si cala del tutto nel classico stilema italo attraverso una canzoncina d’amore cantata (intenzionalmente) in un inglese stentato e immersa in zuccherose melodie: a venirne fuori è una specie di “Galactic Reaction” dei Milkways sovrapposta alla giocosità di “Amoureux Solitaires” di Lio con l’aggiunta di una spruzzata del romanticismo di Savage e Felli.

Robotron, The Egyptian Lover -Pornographix

Robotron Feat. The Egyptian Lover – Pornographix (Skynet Cybersonix)
Adalbert Kupietz torna a vestire i panni di Robotron e per l’occasione vanta al suo fianco un partner d’eccezione, il mitologico Egyptian Lover, con cui realizza il terzo episodio su Skynet Cybersonix. “Pornographix” nasce come riadattamento di un vecchio brano intitolato “Pornographics” che lo stesso Kupietz firma in solitaria come Interfunk nel 2009. La V1.0, sul lato a, intreccia schemi robotici dalle tinte fredde che accentuano l’atmosfera cupa a classiche ansimate e vocal dell’artista losangelino innamorato della Terra dei faraoni, la V2.0, sul b, avanza su una velocità di crociera più sostenuta, con geometrismi ritmici controbilanciati da effettistica spaziale e contrappunti melodici che omaggiano il remix che Heinrich Mueller realizza nel 2001 per “What Use” dei Tuxedomoon su International Deejay Gigolo Records. Come di consueto per Skynet Cybersonix, sono appena duecento gli esemplari, numerati a mano con annesso un cartoncino illustrato. Una parte della tiratura è stampata su vinile di colore argento marmorizzato ma solo cinquanta copie annoverano un ulteriore bonus diventato già ambito dai collezionisti, un poster.

Break 3000 - Emolotion EP

Break 3000 – Emolotion EP (Mondo Phase Rec.)
Così come avvenuto per Christian Gleinser (si veda Discommenti di settembre 2023), anche l’olandese Peter Gijselaers finisce nelle maglie della retromania. Il suo progetto Break 3000, partito in sordina nel 1999, si ritaglia spazio durante il boom dell’electroclash. Per Gijselaers, tuttavia, risulta decisiva la partnership con Felix B Eder con cui dà avvio ai Dirt Crew, cavalcando la moda della minimal house e in tal senso “808 Lazerbeam” resta un piccolo classico degli anni in cui i DJ iniziano a mixare senza cuffia con il laptop al posto dei giradischi. L’esperienza come Break 3000 finisce inevitabilmente nel dimenticatoio, arenandosi in mezzo alla giungla di produzioni che a inizio millennio giocano a riavvolgere il nastro, flirtando coi suoni new wave, synth pop e italo disco. Adesso però è tempo di riscoperta e al recente “The Rise Of Poseidon I” sull’argentina Calypso’s Dream segue questo EP che ripesca quattro brani del repertorio dell’artista nativo dei Paesi Bassi. Investire su musica vecchia, del resto, pare essere la grande vocazione dell’industria discografica contemporanea. «Sono due le ragioni che mi hanno spinto a credere in pezzi già editi» spiega Matteo Pepe alias Uabos, fondatore della neonata Mondo Phase Rec.: «la prima è strettamente personale, perché quello di Break 3000 è un disco che amo da sempre, fisso nelle mie prime serate da DJ e che mi distingueva a quel tempo visto che nel 2003 la scena milanese offriva raramente musica di questo genere. Mi sono sentito subito rappresentato da quei suoni, semplici, d’impatto, graffianti, con un’inclinazione punk che sposava l’electroclash oltre a reminiscenze italo disco; la seconda ragione è rappresentata dal fatto che questo tipo di suono risulta essere quanto mai attuale: i DJ più giovani amano cose simili e i produttori ne prendono spunto. Ho provato a cercare nuovi artisti disposti a produrre electroclash ma, nonostante ci siano tantissime cose valide in circolazione, mi pare che l’attitudine con cui vengano prodotte non sia proprio la stessa. Per far partire la mia etichetta invece avevo bisogno proprio di quel suono e approccio, non volevo lasciare spazio a diverse interpretazioni. Con la stampa di “Emolotion EP” quindi ritengo di aver lanciato un messaggio chiaro e preciso».

“Emolotion” è tratta da un various edito su Meuse Muzique Records nell’autunno 2003, “Plastique People” e “C’Mon Girl” provengono da “The Electronic Kingdom EP” mentre “Follow” è un inedito, prodotto ai tempi ma mai dato alle stampe. Anello di congiunzione di tutte è un suono meccanico retrò segnato da curvature melodiche un filo ingenue e voci robotiche. L’ispirazione paga il tributo ad artisti come David Carretta, The Hacker e l’Anthony Rother che, proprio in quel momento storico, riesce a rendere più accessibile la sua musica attraverso le pubblicazioni su Datapunk partite con “Back Home”. Al momento le reazioni del mercato paiono più che buone: «ho stampato 350 copie e il disco è quasi sold out» spiega Pepe. «Non credo però di far uscire la versione digitale dei brani (operazione già portata a termine da Gijselaers il 15 marzo 2023 attraverso Bandcamp , nda) ma non escludo che possa essere una possibilità da applicare alle prossime pubblicazioni. Nonostante i pezzi suonassero già bene, mi è sembrato logico rinfrescarli ricorrendo al remastering di Emanuel Geller presso il Salz Mastering Studio, a Colonia, con cui Peter lavora di solito. Il suono è assolutamente fedele all’originale, gli ha dato solo una “spintarella” per allinearlo allo standard attuale. Peter è davvero una persona fantastica ed estremante cordiale e gentile, possiede ancora quell’approccio positivo che a volte si perde col tempo. Non confidavo troppo in una suo assenso e invece nell’arco di appena ventiquattro ore mi ha risposto positivamente. Dopo aver chiuso l’accordo, la finalizzazione dell’EP è stata rapida: abbiamo discusso della tracklist ma lui si è sempre rivelato propositivo e ha riposto fiducia in una persona come me, nonostante non avessi maturato altre esperienze in ambito discografico ad eccezione di quelle come artista. Probabilmente l’unico dettaglio che ci ha impegnati di più è stato il nome da dare all’EP. Inizialmente non era d’accordo nell’intitolarlo come il suo cavallo di battaglia, “Emolotion”, ma poi ha capito che quella era la scelta giusta per fini commerciali. Attualmente stiamo ragionando su un possibile ritorno dietro la consolle come Break 3000, visto che gran parte della sua carriera è legata al progetto Dirt Crew. A breve pubblicheremo sul canale Soundcloud di Mondo Phase Rec. un suo vecchio mixato riproposto su Radio Raheem che trovo fantastico».

La retromania teorizzata da Simon Reynolds nell’omonimo libro del 2010 sta probabilmente toccando il suo apice: tutto è commemorativo, anche nella musica che un tempo puntava al futuro e non certamente al passato. Credere più in ciò che è stato piuttosto che in ciò che sarà è forse sintomo della perdita di fiducia nel domani? Nella musica dance elettronica, questo procedimento mentale rischia di limitare possibili nuove sollecitazioni artistiche? «Penso che in qualsiasi epoca ci sia stata una rivisitazione del passato, probabilmente ci aiuta a comprendere ciò che è stato prima e ci sprona nella ricerca del nuovo rispetto a qualsiasi ambito culturale» risponde Pepe in merito. «È anche vero però che viviamo un periodo in cui la società ci spinge a non avere grande fiducia per il futuro, e questo ovviamente si ripercuote in tutti gli ambiti della vita e probabilmente stimola meno a indagare strade non battute invitando, al contrario, a guardare con nostalgia il passato e rimanere stanziati in una zona di comfort. Che venti, trenta o quarant’anni fa ci fossero più stimoli nello sperimentare penso sia indubbio, ma in che tipo di società vivevamo? La paura di Reynolds che questa ossessione per il retrò predomini rispetto alla volontà di ricercare nuove forme penso sia fondata, tuttavia mi sembra di vedere comunque un progresso delle cose e la nostra evoluzione è ovviamente figlia di ciò che c’è stato prima, nel bene e nel male. Evocare e reinterpretare il passato può portare alla creazione di opere uniche, e connettere il presente col passato può aiutare a trovare nuove strade. Insomma, se gestita con equilibrio la retromania può arricchire la cultura contemporanea e rappresentare un ponte positivo e un collante generazionale».

Dopo Break 3000 la Mondo Phase Rec. proseguirà nel solco delle ristampe o scommetterà su qualche nuovo talento? «Ho voglia di battere il ferro finché è caldo» afferma Uabos. «Le prossime tre pubblicazioni sono praticamente pronte ma non svelo i nomi per pura scaramanzia. Colgo l’occasione per invitare a mandare dei demo a mondophase@gmail.com, a patto che siano in linea con la direzione musicale intrapresa. Il nostro è un collettivo che abbraccia varie forme creative. Ho avviato, ad esempio, una collaborazione col fotografo Alessandro Sorci con cui per anni abbiamo creato le immagini dei flyer delle nostre serate, foto che ora sono sulle cartoline all’interno della copertina del disco. Mi piacerebbe stringere più sinergie di questo tipo, correlate a discipline differenti rispetto alla musica, ma al momento è difficile a causa di budget molto bassi. Per ora, quindi, spingerò solo sulla musica. Dopo aver trascorso vent’anni dietro la consolle, ho sentito l’esigenza di dare una mia visione personale al mondo del clubbing contemporaneo, scegliendo la direzione da prendere, da quella musicale alla visiva e grafica. Per me il Mondo Phase richiama connessioni con diverse fasi e aspetti, rispecchia le diversità delle esperienze globali, il cambiamento attraverso il tempo e le fasi di crescita e sviluppo. Ogni fase ha contribuito a definire il mondo in cui viviamo oggi ed esprime concetti legati all’evoluzione e alla mutevolezza».

Livio Improta - Fondamentalismi

Livio Improta – Fondamentalismi (Tiella Sound)
Dopo aver inaugurato il catalogo con Daniele Tomassini alias Vaisa, che frugava negli interstizi ambient/IDM facendo leva su ritmi destrutturati ascritti a tragitti warpiani, la giovane etichetta fondata da Luca ‘Bigote’ Evangelista prosegue il cammino con la musica del DJ Livio Improta. Sono dieci i pezzi, prodotti parecchi anni fa ma rimasti nel cassetto per alcune vicissitudini, con cui l’artista campano arpiona stili complementari e li mescola facendoli palpitare e muovere in varie direzioni per ricavarne qualcosa che assomiglia a un patchwork audio in grado di riservare più di qualche sorpresa. Da tracce erranti tra dolci carezze e ruvide spigolosità (“Posidone”, “80123”, “Intransigenza”), a pulsazioni irregolari intrecciate a spasmi di glitch (“Fondamentalismi”), da vivaci contrasti tra luci e ombre (“Comunicando”, “Alpha”) sino a soluzioni ballabili (“Cuma, “Iblis”, da cui affiora una sorta di acid virata dub in salsa low-fi, “Marechiaro”) per atterrare infine su tessiture noise intrecciate a un metafisico spoken word in italiano (“Omega”). Un LP con cui Improta abbraccia un astrattismo che disorienta l’ascoltatore ed elude il facile incasellamento stilistico a favore di una totale libertà creativa, propensione che oggi purtroppo manca alla stragrande maggioranza di coloro che si dedicano alla composizione di musica elettronica. L’LP uscirà il prossimo 8 dicembre e sarà limitato alle 200 copie.

Bosconi Stallions III

Various – Bosconi Stallions Vol.III (Bosconi Records)
È un itinerario polimorfico quello riservato dal terzo atto della “Bosconi Stallions”, compilation che celebra i quindici anni di attività dell’etichetta fiorentina mettendo insieme dodici pezzi di altrettanti artisti, accomunati dalla nazionalità italiana e dalla propensione a esplorare varie sfaccettature della dance elettronica. All’interno si toccano molteplici lidi stilistici giocati sia sulle sfumature che sui contrasti, rimbalzando dalla techno alla house passando per l’electro, tutto con un piglio ballabile che a conti fatti risulta essere il leitmotiv dell’intera raccolta. Si transita, tra gli altri, dalle spigolosità ritmiche dei Minimono ai ventagli melodici di Feel Fly e Lucretio, dalla sgroppata di Queen Of Coins, che paga il tributo a tanti eroi dell’epopea electroclash con tinte vivaci e brillanti, al lancio nell’iperspazio di Twovi e Data Memory Access. Nota di merito per due colonne statuarie della scena nostrana, Marco Passarani e Alexander Robotnick che, rispettivamente con “Bungy Bungy Bungy” e “It’s So Easy”, annodano house e matrici italo disco con la loro riconosciuta padronanza e consapevolezza. A coronare il tutto è l’artwork di Niro Perrone, in bilico tra realtà e immaginazione, un confine che gli artisti coinvolti nel progetto valicano più volte.

MG Project - Friends

MG Project Feat. Miss Dee – Friends (Three-Bù Records)
Un gradito ritorno sulle scene discografiche quello di Marco Moreggia, tra i primi DJ a portare la house music a Roma a metà degli anni Ottanta come lui stesso racconta qui. Dai tempi del Devotion e de I Ragazzi Terribili è cambiato davvero tutto, mondo compreso, ma l’artista non ha perso la voglia di produrre house per i club, seppur l’attività in studio non sia mai rientrata tra le sue priorità. In questo pezzo prodotto con Stefano Guerra e la newyorkese Miss Dee, al momento disponibile solo in formato digitale, si sente odore di sound britannico, forse per i ghirigori progressive o per le aperture melodiche morbidamente accarezzate dalla luce che un po’ ricordano “Right On!” dei Silicone Soul (Curtis Mayfield docet). A condire il tutto una patina tribaleggiante, fraseggi jazzati di sax e un vocal hook preso da “Never Be Alone” dei Simian, ma meglio noto per la versione dei francesi Justice. Ulteriore rimando al passato è offerto dal nome dell’etichetta stessa, omonima di un progetto di Moreggia che prende vita tra 1991 e 1992 attraverso un paio di fugaci apparizioni sulla Mystic Records. «Ho voluto far rivivere Three-Bù, mantenendo senza variazioni lo storico logo disegnato a mano da Luigi Bonavolontà, perché per me rappresenta un momento molto importante legato a I Ragazzi Terribili» spiega il DJ in un post su Facebook dello scorso 6 novembre. «Three-Bù Records sará un’etichetta aperta a tutti quegli artisti che hanno qualcosa da dire e a quelli che non si adeguano ai soliti cliché. Ci impegneremo a costruire passo dopo passo la nostra storia non identificandoci in un genere preciso e saremo aperti a tutta la musica di qualità che fa ballare ma anche sognare». Annunciato giusto un paio di giorni fa è “Paradise” di Stefano Di Carlo Feat. S. Minnozzi, la cui uscita è attesa per la fine del mese in corso.

Skatebård - Spektral

Skatebård – Spektral (Digitalo Enterprises)
Arriva dalla fredda Norvegia questo album assemblato con una serie di inediti scritti e prodotti tra 2001 e 2005. L’Intro apre le porte del regno degli Asi mandando l’ascoltatore in compagnia di mostri della mitologia nordica ma ciò avviene per appena quaranta secondi perché “Vaskemaskin” trascina immediatamente sulla pista coi suoi turbinii incontrollati madidi di sudore che girano come lame roventi. L’effetto è simile in “Den Anarkistiske Anode”, rivista da DJ Sotofett, un sinuoso serpente di loopismi techno sporcati dal distorsore, e “Seventh”, che riaggancia ipnotismi in stile Maurizio. Con “Bassi” l’artista placa momentaneamente gli impeti più animaleschi adagiandosi su un fondo catramoso fatto di punteggiature housy in stile Chicago della prima ora. Sulle stesse coordinate si colloca “Ei Anna Framtid”, un take beatless di “Future” pubblicata dalla finlandese Keys Of Life nel 2003 che ora diventa un glaciale arabesco ambient techno a cui segue “Strengje”, house mutante scandita dai blip. La chiusura fa nuovamente calare la pressione: “Spektral-Electro” lambisce oscure galassie electroidi mentre in lontananza lampeggiano colori fluo tra nuvole minacciose. Bård Aasen Lødemel continua a toccare con disinvoltura più generi musicali marchiandoli puntualmente con la tipica impronta nordica di atmosfere tristi e riflessive, probabilmente derivata dalla cronica latitanza di sole nella Terra dei vichinghi.

Ma Spaventi & Demuro - La Molecola Del Tempo

Ma Spaventi / Demuro – La Molecola Del Tempo (New Interplanetary Melodies)
“Anno Domini 1987. La Grande Guerra Nucleare è terminata senza vincitori. Enormi nembi giallastri vagano tra i continenti a oscurarne il cielo. Il pianeta è amorfo, il suolo pregno di esalazioni tossiche. La bellezza, bandita dalla realtà, sopravvive solo nei ricordi di pochi scampati. Nessuna megalopoli, nessun parlamento, nessuna famiglia: tutto ciò che l’uomo aveva eretto al centro ora è periferico, sporadico, incerto. La distruzione dello spazio ha dissipato anche il tempo. Dell’uno e dell’altro non restano che frammenti sparsi, destinati a sgretolarsi sotto l’impeto di venti sulfurei e depressioni caustiche. La Società Degli Ultimi Esseri, nelle rare isole di terra fertile, vive stretta intorno all’estrema speranza. Rimangono solo pochi giorni per ingabbiare la molecola del tempo: presto l’ultimo nocciolo di energia sarà spento. L’esperimento finale è appena iniziato: troppo fantasiosi gli esiti per essere previsti, troppo confuse le probabilità per essere calcolate”: si legge così sul retro della copertina di questo avventuroso disco, l’incipit da cui (ri)parte il viaggio di MarcoAntonio Spaventi ed Enrico Demuro, a poco più di un anno di distanza da “The Great Walk”. “La Molecola Del Tempo” è un album intriso di pathos e intensità emotive che viaggiano speditamente da un pezzo all’altro disegnando prima atmosfere accomodanti e benevole, poi scure, con suoni minacciosi che si stagliano su un cielo livido e plumbeo, imperscrutabile, a incorniciare il tramonto della civiltà su scenari di inconsolabile devastazione. Un’immagine distopica, tipica della narrativa fantascientifica e cinematografica d’antan (si veda, ad esempio, la serie “Ora Zero E Dintorni” prodotta in Italia nel 1980) ma via via sempre più temibilmente contemporanea a giudicare dalla situazione attuale in cui versa la Terra. È legittimo pensare che a ispirare gli autori sia stato un evento in particolare, e il fatto che il disco sia stato composto, arrangiato e prodotto tra la fine di agosto 2019 e marzo 2021, abbracciando buona parte del periodo pandemico, avvalora l’ipotesi che il Covid-19 possa avere ricoperto un ruolo centrale nel processo creativo. A fugare i dubbi sono proprio gli artefici, contattati per l’occasione: «Verso la fine del 2019 la mia vita personale ha subito diversi cambiamenti molto importanti che mi hanno portato a lasciare quella comfort zone a cui ero abituato negli anni precedenti» spiega Spaventi. «L’arrivo del Covid-19 subito dopo ha certamente contribuito ad aumentare il senso di insicurezza e di crisi. La musica però, ancora una volta, mi ha dato la possibilità di trovare un momento di riposo mentale, di creatività che alimenta la rinascita. Le ambientazioni e, più in generale, la sonorità del disco, sono frutto proprio di questo particolare equilibrio. La ricerca sonora da una parte, che porta soddisfazione e senso di comfort, il sapore amaro e di disagio del mondo attuale dall’altro». Simile la prospettiva di Demuro: «La lunga parentesi della pandemia, i periodi di “reclusione domestica”, le nuove problematiche e le incertezze hanno influito nella fase creativa della musica e del concept. Nel mio caso a giocare un ruolo sono state anche le letture che ho affrontato in quel periodo. Ritengo ci sia una grande difficoltà a leggere con lucidità il nostro presente storico e costruire il futuro rimediando, in maniera consistente, alle falle del sistema capitalistico neoliberista e alla crisi crescente dei nostri sistemi democratico-liberali. Nel frattempo si sono aperti e riaperti nuovi scenari bellici attorno a noi, quindi mi sembra tutto di grande attualità».

Nonostante ci siano diversi anni a separare il concepimento dalla pubblicazione dell’album, “La Molecola Del Tempo” risulta essere perfettamente contemporaneo, proprio per la persistente fase di difficoltà che il nostro Pianeta si trova ad affrontare. Cambiare qualcosa forse avrebbe potuto dare un valore aggiunto? «Per me è perfetto così» afferma lapidario Spaventi. «Finire un disco è un’impresa colossale proprio perché non si vuole lasciare nulla al caso e si cura tutto nei minimi dettagli per creare un’opera che possa sostenere il passare del tempo». Pure Demuro è contento del risultato finale, «ma mi sarebbe piaciuto aggiungere parti di batteria e di percussioni suonate» dice «per renderlo un po’ meno sintetico/programmato e più suonato insomma. Auspico che questa possa essere la direzione del nostro prossimo disco, capiremo come fare». “La Molecola Del Tempo” garantisce all’ascoltatore un’autentica avventura verso “Nuovi Orizzonti”, per poi spingersi “Nel Vortice Di Una Vertigine” e toccare “Il Punto Di Fusione”, prendendo in prestito alcuni dei titoli in tracklist. Un sogno che diventa un incubo, atmosfere rasserenanti che si trasformano in severe, a tratti ansiogene con un filo di mestizia: davvero nulla si ripete meccanicamente, è un flusso emozionale che prima ti accarezza e poi ti fa gelare il sangue, forse un parallelo alla vita terrena che dà e toglie, purtroppo non sempre in modo bilanciato.

Per raggiungere questo risultato gli autori hanno adoperato una lista lunghissima di strumenti, di vecchia e nuova generazione. «Poco importa che una macchina sia vecchia o nuova se il suono e il prodotto che ne ricavo soddisfano le mie esigenze» afferma Spaventi. «La tecnologia mi affascina da sempre analogamente alla ricerca sonora». A supporto dell’intreccio tra ieri e oggi è anche Dimuro il quale sostiene che «l’interazione tra vintage e nuove tecnologie può aprire a nuove soluzioni sonore. Noi abbiamo privilegiato sintetizzatori di ieri abbinati a sequencer moderni che rendono la produzione più veloce e compressa. Abbiamo bisogno di nuove tecnologie per correggere i nostri errori ma il discrimine è nell’utilizzo, l’etica e le modalità d’impiego. La tecnologia senza etica è rovinosa perché procede eternamente in modo acefalo ma a me onestamente pare ormai troppo tardi per cambiare la sua dinamica evolutiva, e forse non è mai stato possibile farlo». Aver creato l’album in un periodo particolare come quello pandemico, ha per forza di cose inciso sul modus operandi con cui è stato realizzato. «Siamo stati costretti a lavorare per lo più a distanza ma qualche volta, soprattutto nella fase finale, ci siamo incontrati in studio» racconta Spaventi. «Ci si rimbalzava le sessioni fino a quando il materiale non era completo per essere missato. Un aneddoto particolare riguarda “Molecolare”, tra i pezzi più vecchi del disco. La sessione iniziale venne creata da me nel 2019, tra le ultime nel mio studio di allora. Ho sperimentato tantissimo con effetti e missaggio ma il tutto è maturato a dovere solo quando Enrico ha aggiunto le sue particolarissime linee di basso. Per scambiare materiale facevamo spesso ricorso al cosiddetto “bounce” che non consisteva in tutta la sessione ma solo di un file stereo, risultato del missaggio parziale del brano. Su questa base Enrico ha aggiunto, più o meno, tutti i suoi bassi. Quando ho importato le sue takes nella mia sessione originale però, il groove e il modo in cui il basso si appoggiava al ritmo non stavano più su. È un problema comune a chi produce col computer dovuto alla “latenza” del sistema. Sono millisecondi che il computer aggiunge via via per gestire tutto il calcolo del prodotto audio. Niente, il basso di Demo non ne voleva proprio sapere di starci dentro, neanche dopo tentativi di aggiustamenti manuali. Soluzione? Usare il missaggio parziale e sistemarlo in mastering: la fase finale del pezzo è proprio il premix originale che aveva un groove unico. Questo per dire che non importa di come si arriva al risultato, l’importante è che suoni nel modo giusto».

Uno dei pezzi che simboleggiano meglio il messaggio di Spaventi e Demuro è “Cadetti Dello Spazio-Tempo”, accompagnato anche da un videoclip girato tra Castelfiorentino e Marghera nel 2023 da Sabina Ismailova ma altrettanto convincente risulta “Cinematica Terrestre”, destinato a essere la bonus track del formato digitale uscito lo scorso 26 maggio. Con “Elettromagnetica” si alzano venti che spazzano via i nembi giallastri di cui si diceva all’inizio. Ma purtroppo è solo la sensazione suscitata dalla musica, le condizioni in cui versa la Terra continuano a non essere delle migliori e più di qualcuno probabilmente oggi vorrebbe trovarsi altrove. Chiedersi che volto avrà il nostro pianeta tra qualche decina d’anni è più che comprensibile, ma anche domandarsi che fine farà la musica. «Il passato non ha mai regalato epoche in cui tutto era perfetto» sostiene Spaventi. «Si stava meglio all’età della pietra, o quando ci si ammazzava per un tozzo di pane, si moriva di peste o inceneriti al rogo? O, ancora, alla fine dell’Ottocento quando le industrie pompavano fumo nero di carbone senza filtri o quando tutto il mondo era in guerra, meno di cento anni fa? Certo, al giorno d’oggi si potrebbe fare sicuramente meglio, vista la conoscenza accumulata dall’umanità dall’inizio della nostra storia. Tutto sommato però sono contento di vivere negli anni Duemila piuttosto che nel Duecento. Tra dieci anni sarà lo stesso, forse un po’ più caldo, un po’ più arido, un po’ più costoso e con tecnologia AI sempre più invadente. Ma sono certo che la musica sopravviverà insieme ai sintetizzatori vintage, perché ci sono quelli come noi che vivono e si nutrono di cose belle». Di opinione diversa è Dimuro il quale ammette candidamente che gli piacerebbe vivere nel Medioevo, un periodo storico affascinante, o militare tra le fila del Terzo Stato durante la Rivoluzione Francese o ancora scoprire il Nuovo Mondo imbarcato con Amerigo Vespucci: «oggi non ci sono, a livello globale, reali politiche di cambiamento radicali. Forse ci troviamo su una barca che affonda e cerchiamo solo di tapparne le piccole falle» aggiunge. «Ovviamente la Terra sopravvivrà e si trasformerà, magari senza gli esseri umani. Spero che in qualche modo la musica riesca a cavarsela, è la più grande forma di bellezza umana artificiale». Adatto a sonorizzare una pellicola catastrofica o un videogame survivalista, il disco di Spaventi e Demuro, prodotto da Simona Faraone (intervistata qui) sulla sua New Interplanetary Melodies, è la soundtrack calzante per restituire all’ascoltatore l’immagine di una Terra andata quasi tutta in pezzi, a un passo dall’essere inghiottita dal buio e dal silenzio eterno. Probabilmente un mondo perfetto non è mai esistito e mai ci sarà, ma nessuno ci impedisce di sognarlo ancora.

Noamm - Electroporation EP

Noamm – Electroporation EP (Tiger Weeds)
Batte bandiera ellenica questo EP sull’ateniese Tiger Weeds. A firmarlo il talentuoso Noamm, che negli ultimi anni ha dimostrato in molteplici occasioni di essere un abile intagliatore di materie electro. La partenza è diretta e senza fronzoli con la severa e minimalista “Electroporation” seguita da “Science We Trust” ed “Exobiology Radiation Assembly”, entrambe intrise di sequenze cybermeccaniche sovrapposte a brevi porzioni melodiche. La medesima andatura da androide si ritrova in “Electroporation II” e “Tele-Vision” probabilmente le più convincenti del disco, dove l’autore sfodera dal taschino il tesserino di adesione al club dopplereffektiano. Per “Intuition”, infine, pigia il pedale dell’acceleratore e riagguanta stilemi industrial / wave con l’aiuto della magnetica voce di Angelique Noir. Nel complesso è un extended play diligentemente prodotto, seppur non offra particolari guizzi estrosi perché si attiene a un modello creativo largamente battuto nell’ultimo ventennio.

Sonic Transmutations

Various – Sonic Transmutations (Clone Records)
Se la fiorentina Bosconi Records compie quindici anni – si legga qualche riga più sopra -, le candeline che spegne l’olandese Clone Records sono poco più del doppio, trentuno. Per festeggiare l’importante traguardo dunque, l’etichetta-distributore di Serge Verschuur mette sul mercato una compilation decisamente maxi visto che il box set racchiude ben otto dischi per un totale di 33 tracce. All’headquarter di Rotterdam parlano di un cofanetto “che riunisce talenti veterani ed emergenti iconoclasti” e, a leggere la tracklist, è difficile sconfessare tale definizione. Tra i veterani Anthony Rother, Dopplereffekt, Legowelt, Dexter, Detroit In Effect, E.R.P., The Exaltics e Alden Tyrell, tra gli emergenti invece Lenson, Alberta Balsam, Alex Ranzino, Dim Garden, PRZ e l’italiano Kreggo, tutti accomunati da una notevole forza espressiva e uniti nel credo della techno e dell’electro. Un possibile regalo da farsi o da fare, in previsione delle ormai non lontane strenne natalizie.

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (maggio 2023)

Intergalactic Gary

Intergalactic Gary – Industrial Models (Viewlexx)
Per l’etichetta di I-f, gli ultimi anni sono trascorsi sotto il segno del ritrovato legame con le tinte gotiche e industriali che in questo caso vedono come protagonista John Scheffer alias Intergalactic Gary, DJ dalla poderosa preparazione e partner in crime proprio di I-f in act come The Parallax Corporation e The Conservatives che, nei primi anni Duemila, ridisegnarono le traiettorie italo disco in una salsa più scura. Non particolarmente prolifico sotto il profilo compositivo, Scheffer assembla quattro tracce che scrutano nelle tenebre contraddistinte da distorsioni e subitanee variazioni ritmiche. “Industrial Model” è la più appetibile per la pista, il resto si contorce sotto la spinta di pistoni e bracci idraulici che provocano scintille (“The ELKA Experiment”, “Remodel”) sino alla funerea “Elements And Space”. La colonna sonora di uno scenario distopico, con giganteschi poli industriali abbandonati sotto un cielo plumbeo carico di pioggia. Per certi versi, la musica più adatta ai tempi bui che viviamo.

Let's Go Into Space 7

Various – Let’s Go Into Space 7 (Private Records)
Settimo atto per la compilation tematica promossa da Private Records, tra le “etichette di salvataggio” più attive e propositive nell’ultimo decennio circa. Per l’occasione il fondatore/curatore Janis Nowacki mette insieme otto pezzi tratti dall’archivio della cecoslovacca Supraphon: filo conduttore, oltre al genere musicale, tendenzialmente synth disco, è l’ardua reperibilità sul mercato dell’usato. «Materiale che non ha nulla da invidiare all’italo disco in termini di rarità e valore collezionistico» afferma con sicurezza Nowacki, invitando a sincerarsi delle quotazioni su Discogs, fatta eccezione giusto per una manciata di titoli abbordabili a costi irrisori. Da “Digi – Digi” delle Filigrán, una specie di risposta cecoslovacca alle Flirts di Bobby Orlando, a “Jupiter” di Odysseus, da “Módní-Líbezná” di Magda Malá e Allegro a “Kolik Týdnů Ještě Zbývá” e “Báječně Spát” di Kamila Olšaníková & Sirius, da “Hodili Mě Do Vody” dei Maximum Petra Hanniga a “Den Co Den” di Arnošt Pátek per finire su “Diskotango” di Arašid. Una collection di pregio per i collezionisti, con qualche inevitabile deriva kitsch, ma che con molta probabilità è destinata a diventare a sua volta una rarità anche in virtù della tiratura limitata alle 500 copie.

Gina Breeze

Gina Breeze Ft. Ted Rogers – Freak (DJ Hell Queer Rave Retouch 2023) (The DJ Hell Experience)
Originariamente pubblicata nel 2020 sulla Me Me Me (era in “Live For Love”), “Freak” rivive in una versione di Hell che inietta energia nei circuiti ritmici e spinge verso sponde techno EBM con un imprinting abrasivo e graffiante che fa il verso a quello del Fixmer di inizio carriera che proprio Hell supportò dal 1999 in avanti. Un buon punto a vantaggio della DJ britannica di stanza a Manchester, new entry per The DJ Hell Experience, l’etichetta che il noto DJ tedesco ha lanciato pochi anni fa e che sembra aver preso definitivamente il posto dell’indimenticata International DeeJay Gigolo, inattiva ormai dal 2019.

Italcimenti

Italcimenti – Under Construction (Bosconi Records)
Un album che proprio nuovo non è visto che risale al 2005, quando viene pubblicato solo in formato CD. Diciotto anni più tardi ci pensa la fiorentina Bosconi Records a solcare l’LP di Maurizio Dami e Lapo Lombardi per l’occasione nascosti dietro lo pseudonimo Italcimenti, ironica parodia di Italcementi con trasformazione annessa dei due musicisti in operai con tanto di pala e piccone, intenti a prendere la vecchia italo disco e strapazzarla aggiornandola coi suoni dell’electro house che a metà anni Duemila vive il suo momento dorato. Tanti i pezzi racchiusi all’interno, tutti opportunamente rimasterizzati da Niccolò Caldini del suo Tea Room Mastering, da “Trigger Happy”, rigato da melodie cinematografiche, a “Disco Tamarro”, ancorato a un mood squisitamente pfunk, dal sinuoso “Bencio” (in circolazione dal 2004, si veda la raccolta “Pop Fiction” sulla francese Hot Banana di Kiko) a “Bela Lugosi Is Dead”, cover synth technoide del classico dei Bauhaus sino a “Like A Dreamer”, una sorta di take della pietra miliare che Dami realizza nel 1983 come Alexander Robotnick, “Problèmes D’Amour”, di cui parliamo approfonditamente qui. All’appello rispondono pure due inediti, l’Italo Club Mix di “Beyond The Mind” (l’unico che vide luce su 12″ nel 2005), e “Somewhat You Need” che i più attenti però conoscono già visto che su YouTube, dal 2008, c’è un divertente videoclip home made che a oggi conta più di cinquantamila visualizzazioni.

Speakwave

Speakwave – Cartographic Venture (Bordello A Parigi)
L’artista originario di Strasburgo affida alla prolifica Bordello A Parigi questo EP con cui rimaterializza l’alter ego Speakwave. Nel complesso pare una summa delle declinazioni stilistiche che il francese convoglia, da ormai un ventennio a questa parte, nei suoi due progetti, il più noto Dynarec, ricco di influssi e diramazioni drexciyani, e Chris Kalera, attraverso il quale dà sfogo alla passione per l’electro pop in stile Pet Shop Boys, band di cui è accanito fan. Questo lo capiamo subito da “Coming On Monday” con una sezione vocale, da lui stesso interpretata, che suona come chiaro omaggio a Neil Tennant. “Exposition To Revolution” si lancia a capofitto in atmosfere incantate mentre “Cartographic Venture” galleggia su un materasso di nuvole e fioriture melodiche poi sospinte sui declivi stereofonici di un sogno scandito da interventi vocali che un po’ ricordano “Konfektion” di Heckmann ed Henze.

Art P

Art P/Die Synthetische Republik – Genscher Pull ‘N’ Push/Der Böse Osten (The Outer Edge)
La retromania teorizzata da Simon Reynolds nell’omonimo libro del 2011 è ormai diventata parte integrante del nostro presente, basti pensare al retro marketing attraverso il quale un numero crescente di aziende fa leva sul passato e sulla nostalgia per catturare l’attenzione del pubblico. In questo momento storico il passato offre un’idea di certezza che controbilancia con efficacia le tante incognite del presente, tra pandemia, crisi economica, conflitti bellici e preoccupanti cambiamenti climatici. L’ambito discografico, nello specifico, ha registrato un aumento esponenziale delle realtà interamente dedite al recupero di materiale vintage, edito e non, e nel 2022 alla lista si è aggiunta la berlinese The Outer Edge, diretta da DJ Scientist, che per l’occasione torna a riabilitare la musica degli Art P dopo “No Message” dello scorso autunno. Creato a Brema nel 1982 dall’incontro tra Jens-Markus Wegener e Frank Grotelüschen, il progetto resta confinato per ben quarant’anni in nastri di cassette autoprodotte su una pseudo etichetta, la P.A.P., acronimo di Programming Art Productions. Ora è giunto il tempo di una diffusione maggiore e soprattutto non più legata ai confini geografici, difficilmente valicabili ai tempi in assenza di una casa discografica ben organizzata. Sul 12″ finiscono “Genscher Pull ‘N’ Push”, registrato nell’ottobre ’82 e contenente un testo politico rivolto ad Hans-Dietrich Genscher, allora ministro federale degli affari esteri della Germania Ovest, una versione remix di “Polaroid” ritoccata dal citato Scientist e “Der Böse Osten” di Die Synthetische Republik (Wegener e Olav Neander), recuperata da un nastro del 1984. Nelle note introduttive la Outer Edge parla di proto techno ma fondamentalmente si tratta di minimal synth, «un filone apparentemente inesauribile di elettronica do-it-yourself dei primi anni Ottanta, low budget e di norma pubblicata in proprio spesso solo su cassetta, da gruppi che sarebbero diventati i Depeche Mode o i Soft Cell se fossero stati capaci di scrivere una canzone, oppure cloni dei Suicide, DAF e Fad Gadget» come descrive Reynolds nel sopraccitato libro. Vista la presenza di testi in tedesco, appare sensato parlare più di Neue Deutsche Welle che di techno. In un futuro non lontano potremmo forse aspettarci i reissue di Dual Frequency, Eiskalte Engel, Die Hornissen o Partner Eins?

Giano Electronics Vol. 1

Various – Giano Electronics Vol. 1 (Giano Electronics)
Partenza esaltante per la romana Giano Electronics che mette nero su bianco le sue intenzioni con un ricco extended play composto da cinque tracce. T/Error sfodera beat taglienti in “Neuromancer” che incorniciano sussulti electro e graffiate acide, JFrank, con “Premeditatio Malorum”, si cala in cervellotiche poliritmie, Akkaelle batte sull’incudine la materia di “Capacitor Discharge” spappolandola in mille frammenti che volano via come lapilli vulcanici. Poi gli Anywave con “Cphrigyan Acid”, decorata da riccioli di 303 e un metti e togli di elevazioni breaks, e a chiudere “A Few Thoughts Away” di Heinrich Dressel che intaglia con maestria synth music dall’imprinting cinematografico, sospesa in atmosfere tenebrose, a tratti spettrali, sotto le quali si dipana un’algida marzialità meccanica.

Ekman

Ekman – The Strange Vice Of.. Ekman – Part 1/2 (Crème Organization)
Uscirà tra poche settimane questa raccolta di inediti suddivisa in due 12″ che colloca al centro la musica dell’olandese Ekman e riporta in attività l’etichetta di DJ TLR, destandola dal torpore in cui era piombata negli ultimi anni. Facendo leva su un suono che vaga tra electro scarnificata e dark ambient con qualche piacevole deriva acid, Roel Dijcks merita di essere accostato a connazionali come Rude 66, Legowelt, I-f o Ra-X ai quali, probabilmente, si è ispirato per creare la sua musica ma senza correre il rischio di essere liquidato come l’ennesimo dei copycat. La sua visione genera tracce che eludono l’epigonismo, e l’ascolto di alcuni dei pezzi qui radunati come “A Way Home”, “How Deep The Grooves”, “Witching World”, “The Remains Of Zion” e “Devil Birds Of Deimos” depongono pienamente a suo favore.

Obergman

Obergman – Invariant Hyperbola (Infiltrate)
Destinato a una delle sublabel della londinese Constant Sound di James ‘Burnski’ Burnham, questo nuovo EP conferma le doti di Ola Bergman alias Obergman. Partito nel 2001 dalla Skam con un suono fortemente connesso all’IDM britannica più astrattista, lo svedese si è progressivamente avvicinato all’electro di matrice donaldiana che ha messo a punto nell’ultimo decennio attraverso una serrata serie di pubblicazioni su etichette come Abstract Forms, Brokntoys e soprattutto la Stilleben Records di Luke Eargoggle. Qui è alle prese con quattro tracce dalle venature cibernetiche, accomunate sia dalla ciclicità meccanica delle parti, sia dal minimalismo della tavolozza sonora come si evince da “Norma Cluster”, spinta da un disegno di basso robotico. Pad quasi romantici scandiscono “Dragonfly44” mentre “Sterile Neutrino” (forse un’allusione a “Sterilization” e “Myon-Neutrino” di Dopplereffekt?) riproduce lo sferragliare di androidi. Infine la title track, “Invariant Hyperbola”, probabilmente la più riuscita del disco, ideale soundtrack per un viaggio interspaziale che porta sul pianeta Nettuno: dopo aver macinato milioni di chilometri però lo sconcerto nello scoprire che qualcuno ha misteriosamente impiantato lì delle ciclopiche pale eoliche.

Komakino

Komakino – Outface (30 Yrs Jubilee Edition) (Esprit De La Jeunesse)
Nel mare magnum infinito di ripescaggi, remix, cover e reissue finiscono pure i Komakino (i tedeschi Ralph Fritsch, meglio noto come Fridge, e Detlef Hastik) con uno dei brani più noti del loro repertorio che quest’anno taglia il traguardo dei trent’anni. Incluso in “Energy Trance EP” edito nel ’93 dalla Suck Me Plasma di Talla 2XLC, “Outface” polarizza l’attenzione europea due anni più tardi quando viene rimesso in circolazione dalla Maddog in una nuova versione, la Full Size, diventata un classico dell’hard trance e accompagnata da un videoclip che aiuta a guadagnare una platea più ampia e trasversale (da noi lo mette spesso Molella nella prima edizione di “Molly 4 DeeJay”, come descritto qui, e un paio di comparsate le registra persino nel DeeJay Time di Albertino). Anticipato a febbraio dalla reinterpretazione dell’italiano Dusty Kid in battuta spezzata e con un frammento pare carpito da “Technotronic” di The Pro 24’s (poi diventata “Pump Up The Jam” dei Technotronic), il pacchetto messo sul mercato dalla Esprit De La Jeunesse, etichetta del gruppo Systematic capeggiato da Marc Romboy, codificato come Jubilee Edition e accompagnato da un artwork che riadatta quello del menzionato “Energy Trance EP”, conta tre remix: Egbert trapianta senza particolare inventiva frammenti dell’originale in una nuova base ritmica che pecca di anonimato, Robert Babicz plana tra luccicanti riflessi melodici e intrecciature acide, e infine Petar Dundov ondeggia tra paratie armoniche e incantate sequenze di arpeggi che poi precipitano in un gorgo impetuoso. Curiosità: sul vinile è finita la Full Size nonostante titolo e durata in copertina facciano riferimento alla G60 Mix ossia la versione del ’93 che però è stata diffusa in digitale.

(Giosuè Impellizzeri)

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Thomas Barnett, tra gli alfieri dimenticati della techno di Detroit

Come ogni altro genere musicale, anche la techno ha i suoi protagonisti non celebrati a sufficienza e Thomas Barnett potrebbe essere uno di questi. Nativo di Detroit, debutta quando è solo diciannovenne al fianco di Derrick May per “Nude Photo” di Rythim Is Rythim, secondo disco della Transmat a cui segue, pochi mesi dopo, “I Can Feel It” che realizza nello studio della Metroplex di Juan Atkins a nome Paris. Incomprensioni ed estromissioni autoriali, descritte qui, lo allontanano da May e probabilmente non remano a suo favore, soprattutto sul fronte promozionale. Barnett riappare nel 1992 sulla britannica Infonet di Chris Abbot con “Liquid Poetry” con cui inaugura il moniker Subterfuge, entrato presto nell’orbita di un’altra etichetta europea, l’olandese Prime che pubblica vari 12″ e anche l’album “Synthetic Dream”. Nel ’96 per il detroitiano è tempo di varare la propria label, la Visillusion. Seguono altre produzioni su etichette tedesche, Climax Records, Psycho Thrill, Dreamhunter e Audiomatique Recordings, che traghettano l’artista nel nuovo millennio quando si reinventa ancora come Groove Slave e dà alle stampe nuovi EP con cui tiene viva l’attenzione per la techno che resta, indiscutibilmente, il suo riferimento primario.

01) Thomas Barnett (198x)
Un giovane Barnett negli anni Ottanta

Quando e come la musica è diventata parte integrante della tua vita?
La musica gravita intorno a me fin da bambino. Mio padre mi fece conoscere tutti i generi esistenti ai tempi e in famiglia ballavamo brani come “Love Rollercoaster” e “Fire” degli Ohio Players, “For The Love Of Money” e “I Love Music” degli O’Jays e “Fight The Power (Part 1 & Part 2)” degli Isley Brothers. Earth, Wind & Fire, Harold Melvin & The Blue Notes e Commodores erano praticamente in “alta rotazione” tra le mura di casa Barnett, così come Electric Light Orchestra, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Foreigner e Gary Wright, giusto per citarne alcuni. Poi, quando iniziai a scoprire cose per conto mio, mi imbattei nella musica di Yellow Magic Orchestra, Kraftwerk, Giorgio Moroder, Prince, Cameo, P-Funk All Stars, Rick James e The Gap Band, solo alcuni degli artisti che entrarono nella mia testa negli anni Settanta.

Come hai recentemente rivelato in un post su Facebook, la tua prima esperienza da DJ si consumò nel 1983 presso la Greg & Bud’s Video Arcade, a Detroit: «c’erano lunghe pause tra una canzone e l’altra e visto che ero un frequentatore abituale di quella sala giochi, chiesi di poter selezionare e cambiare la musica. Mi accordarono il permesso e fui pagato in partite gratuite ai videogiochi». Che musica facevi girare? Ricordi pure quali erano i tuoi videogame preferiti?
Quello a cui giocavo di più in assoluto era Robotron mentre sorseggiavo una Faygo Red Pop e mangiavo patatine Better Made aromatizzate alla salsa barbecue. Poi correvo nel retro e mettevo cose tipo “Wordy Rappinghood” e “The Genius Of Love” dei Tom Tom Club, “Let’s Work”, “Sexy Dancer” e “Controversy” di Prince, “Funkytown” dei Lipps Inc., “Private Idaho”, “Rock Lobster” e “Mesopotamia” dei B-52’s, “Trans-Europe Express” e “Numbers” dei Kraftwerk, “Flashlight” dei Parliament, “One Nation Under A Groove” dei Funkadelic…

Nasci e cresci a Detroit, un luogo dove, a detta di tantissimi, l’italo disco ha ricoperto un ruolo centrale per i DJ e i produttori della città, analogamente a quanto avviene a Chicago negli anni immediatamente precedenti alla nascita di house e techno. Anche tu hai stretto un rapporto con la musica dance esportata ai tempi dai confini italiani?
In quegli anni ero ancora giovanissimo, i miei genitori non mi permettevano di uscire di casa durante le ore notturne o frequentare le discoteche. L’unica connessione che avevo con quel tipo di musica derivava dalle cassette registrate che ci si passava tra amici e dai programmi mixati trasmessi in radio, tipo quelli degli Hot Mix 5. Tra gli artisti che apprezzavo di quel filone c’erano Gino Soccio, Alexander Robotnick (intervistato qui, nda), Klein & MBO, A Number Of Names e ovviamente Giorgio Moroder. Mi piaceva molto quel suono perché per me colmava il divario che si era creato tra la disco e l’elettronica che amavo in quel periodo.

Quando inizi invece a creare la tua musica, e che tipo di strumenti hai adoperato per ricavare le prime demo?
Cominciai a dilettarmi nella prima adolescenza con tastiere Casio e batterie Synsonics prima di passare a strumenti tipo Korg Poly-800 e Roland SH-101, quando avevo circa sedici anni. Si trattava dell’attrezzatura condivisa con Russell Rice, un amico che viveva nel mio stesso quartiere e col quale avevo allestito un piccolo studio nel seminterrato dei suoi genitori. In un primo momento potemmo contare sul supporto di un batterista un po’ più grande noi ma quando si iscrisse all’Università fummo costretti a procurarci una drum machine. Non ricordo quale fosse esattamente ma senza ombra di dubbio qualcosa di davvero basico e soprattutto priva di suoni che ci piacessero davvero.

2) Paris - I Can Feel It
“I Can Feel It” di Paris, il brano che Barnett realizza nello studio della Metroplex di Juan Atkins e pubblica nel 1987 pochi mesi dopo “Nude Photo” su Transmat

Nel 1987 esce “I Can Feel It” che firmi con lo pseudonimo Paris affiancato da Juan Atkins come ingegnere del suono. Cosa ricordi di quel disco, recentemente ristampato dall’italiana Omaggio?
Conobbi Juan Atkins attraverso Derrick May che gli affidò il lavoro di editing di “Nude Photo”. Juan mi informò che stava noleggiando lo studio della Metroplex e ne approfittai per lavorare lì su alcuni demo: “I Can Feel It” di Paris fu uno di quelli. Una volta pronto, mi proposero di pubblicarlo su Metroplex ma decisi di provarci in modo autonomo con un marchio creato per l’occasione, Tomorrow, perché ritenevo di aver capito come fare dopo l’uscita di “Nude Photo” su Transmat. Probabilmente avrei dovuto lasciare che Atkins e la Metroplex si occupassero di tutto, col senno di poi non avevo la benché minima idea di cosa stessi facendo. Avevo appena diciannove anni ed ero molto inesperto quindi commisi tanti errori in fase di promozione. L’equipment usato per “I Can Feel It” era decisamente elementare, una tastiera Yamaha DX7 II FD per il basso, i suoni di sintetizzatore e i gli archi, batterie Roland TR-808 e TR-909 per le ritmiche. Scelsi di chiamarmi Paris perché, banalmente, mi sembrò un nome cool.

Curiosamente il numero di catalogo del disco in questione era TB 002, che fine fece lo 001?
Non è mai esistito: volevo si generasse un po’ di curiosità e interesse per quella pubblicazione laddove qualcuno si fosse accorto di quel piccolo dettaglio.

03) Nude Photo
I “Nude Photo” su Prime (’93) e Finale Sessions Limited (’18), due tentativi per rivendicare la paternità del brano da cui Barnett viene esautorato

Pochi mesi prima di “I Can Feel It” di Paris, su Transmat esce il citato “Nude Photo” di Rythim Is Rythim che realizzi insieme a Derrick May. Che relazione c’era col “Nude Photo” edito a tuo nome dalla Prime nel ’93, utilizzato anche per veicolare in copertina tutta una serie di ricordi e avvenimenti legati alla genesi della traccia del 1987?
Quel disco conteneva due nuove versioni, My Nude Photo e Your Nude Photo, che realizzai nel 1991. A completamento c’era “Death Of Love (The Nude Photo Opera)” (finita anche nella tracklist di “Synthetic Dream”, album che Barnett firma Subterfuge e di cui si parla nel dettaglio più avanti, nda) nata con l’intento di offrire una visione più trippy e poco ortodossa del tema della traccia originale.

Nel 2018 invece la Finale Sessions Limited ha pubblicato un nuovo “Nude Photo” che contiene pure un remix di Chez Damier.
Mi convinsi a lavorare col compianto Michael Zucker della Finale Sessions per approntare un’uscita che finì per l’appunto su Finale Sessions Limited. Lì dentro, tra le altre, c’erano “Original Day” ispirata dagli albori dell’uomo e al lontano passato della Terra, e “Berlin Nights In Paris / Made In Detroit“.

Come mai dopo le uscite del 1987 hai interrotto la creazione di musica per qualche anno?
In realtà non mi sono mai fermato, ho continuato costantemente a comporre musica ma non pubblicandola. La situazione si sbloccò nel momento in cui Eddie Fowlkes mi diede alcuni consigli e così, a partire dal 1992, approdai su etichette europee come la britannica Infonet e l’olandese Prime.

Perché ricominciasti dal Vecchio Continente?
Le etichette di Detroit non disponevano del denaro sufficiente per pagare gli anticipi, cosa che invece erano solite fare quelle europee, così cedetti la mia musica a chi potesse retribuirmi il giusto compenso.

Sono in tanti (me compreso) a considerarti uno degli eroi della techno di Detroit non celebrati abbastanza. Oltre a Blake Baxter, James Pennington, Art Forest e Cliff Thomas che menzionasti in questa intervista del dicembre 2020, credi ci siano altri pionieri che possano rientrare nella categoria dei cosiddetti “unsung heroes”?
Di sicuro Detroit ha i suoi eroi non celebrati ma per me è difficile fare nomi non sapendo chi si stia facendo notare e chi no. Un vecchio proverbio afferma che “ogni cane ha il suo giorno”, sono certo che tutti coloro che si impegnano a fare qualcosa, prima o poi verranno ricompensati dalla vita.

04) Thomas Barnett (1993)
Thomas Barnett in uno scatto del 1993

Proprio negli anni in cui inizi a collaborare con le etichette europee, la techno esplode come fenomeno commerciale e ciò genera inevitabilmente una pletora di produzioni. Molte di queste però perdono l’imprinting iniziale e finiscono per andare ben oltre il concetto originario di techno contribuendo alla creazione di un nuovo ceppo stilistico basato perlopiù sulla codificazione sonora. Ritieni dunque esista una techno “vera” e una “falsa”? È giusto, come alcuni asseriscono, parlare di techno solo in riferimento a quella prodotta a Detroit?
Secondo me la techno non ha mai perso nulla anzi, continua a crescere contagiando un numero sempre più grande di persone in tutto il mondo. Non mi lascerei ingannare da chi sostiene ci sia un “vero” e un “falso”, è sempre esistita la musica che ci piace e quella che invece preferiamo evitare. Piuttosto, vedo la techno come un linguaggio universale da cui ci nutriamo, indipendentemente dal luogo in cui essa viene creata.

Nel 1996 fondi la Visillusion sulla quale pubblichi la tua musica e quella di colleghi come DJ Reggie e Joshua Harrison. C’è una ragione dietro la scelta del nome?
Visillusion nasce dalla fusione tra le parole “visual” e “illusion” per creare il concetto che descrive uno degli effetti che vorremmo trasmettere con la nostra musica. In tempi più recenti su Visillusion ho ospitato anche altri artisti come l’indonesiano Ecilo, il francese Cloudmasterweed, il detroitiano NVNTR e l’olandese Native 97.

05) Subterfuge - Synthetic Dream
La copertina di “Synthetic Dream”, l’album che Barnett firma Subterfuge nel ’93

“Frequencies From The Abyss” è stato il primo e sinora unico album a tuo nome, pubblicato nel ’99 dalla tedesca Dreamhunter solo su CD. Hai mai pensato di dare un seguito a quel lavoro oppure oggi non ha più molto senso elaborare formati di questo tipo, poco presi in considerazione dalla Spotify generation?
A onor del vero si trattò di un’operazione non ufficiale, “Frequencies From The Abyss” non sarebbe mai dovuto uscire. Il mio primo e unico album, a nome Subterfuge, resta quindi “Synthetic Dream”, edito dalla Prime nel 1993. Avevo quasi ultimato il follow-up ma, in seguito a un furto, trafugarono tutti gli strumenti dal mio studio che purtroppo contenevano in memoria i brani del secondo album. A causa di ciò il disco venne rinviato a tempo indeterminato. Negli anni a seguire ho pubblicato altre cose in varie compilation (come “Let There Be Light” finita in “Trance Atlantic”, sulla Volume del compianto Rob Deacon, nda), singoli ed EP. Ho scritto tanta musica per diversi LP ma non pubblicandola, probabilmente in un futuro non lontano farò uscire qualcosa sulla mia pagina Bandcamp.

I tuoi brani sono apparsi in pubblicità, pellicole cinematografiche e persino in film per adulti: scelte intenzionali o casuali?
Ho semplicemente cercato di far conoscere la mia musica in quanti più modi possibili. Non nutro riserve, quel che mi interessa è far arrivare ciò che faccio a un pubblico più vasto, non importa se con metodi alternativi ai tradizionali.

In passato si poteva guadagnare vendendo i propri dischi, oggi le edizioni limitate di trecento copie sono ormai uno standard e gli affari legati al mercato (o a ciò che resta di esso) risultano piuttosto inconsistenti. Pensi che tutto ciò possa, in qualche maniera, cambiare l’approccio degli artisti, specialmente nell’underground dove acquirenti e sostenitori sono sempre meno?
Gli artisti non smetteranno di comporre la loro musica. La tecnologia rende molto più facile la creazione per cui mi aspetto nuove persone in grado di fare magie sia con apparecchiature ordinarie che con quelle provenienti da studi professionali. In ogni caso quindi, la musica continuerà ad arrivare da qualche parte.

Durante la scorsa primavera hai remixato “About Damn Time” di Lizzo: la scena pop ha forse catturato la tua attenzione?
No anzi, non sono particolarmente attento a ciò che avviene nel pop contemporaneo. Ho deciso di realizzare quel remix dopo aver ascoltato, del tutto casualmente, il pezzo di Lizzo che mi ha colpito per diverse caratteristiche, hook in primis. Ho aggiunto alcune parti di batteria per rinforzarne la struttura per poi velocizzarla e riarrangiarla ottenendo un sapore diverso dall’originale. È stato molto divertente.

Da qualche anno a questa parte molti artisti pop/rock (inclusi gli italiani) hanno iniziato a usare con regolarità pattern ritmici filo dance e suoni di sintetizzatore al posto di strumenti tradizionali come chitarre, pianoforti o sassofoni. I confini tra pop e dance dunque si stanno talmente assottigliando che è difficile stabilire dove finisca uno e inizi l’altro, anche perché tutto suona “elettronico”. È forse un segno della globalizzazione?
Sì, credo che essere più “elettronici” faccia parte di una naturale evoluzione. Però gli stili e mode vanno e vengono, non penso che la musica basata su uno strumento classico tipo la chitarra possa scomparire del tutto, seppur i suoni elettronici prenderanno sempre più piede a livello commerciale, su questo non ho dubbi.

Ha ancora senso parlare di underground nel 2023, o internet sta uccidendo questo tipo di cultura?
Non ne sono sicuro, in un certo senso, forse, l’underground è diventato molto più grande rispetto a ciò che era una volta. La Rete non ha ucciso l’idea di underground ma l’ha fatta evolvere. Gli artisti commerciali esistono ancora e visto che quello che facciamo noi non sarà mai uguale a ciò che fanno loro, l’underground continuerà a vivere in una forma o in un’altra.

06) Low Tech Funk EP (2022, artwork by Abdul Qadim Haqq)
“Low Tech Funk EP”, tra le uscite più recenti su Visillusion. A realizzare la copertina è Abdul Qadim Haqq

Qualche anno fa hai pubblicato una manciata di dischi come Groove Slave, pensi di tornare a usare questo pseudonimo in futuro?
Sì assolutamente, in cantiere ho un progetto per cui riapparirò come Groove Slave. Sarà l’occasione adatta per presentare le mie nuove tracce house.

Per quanto riguarda Visillusion invece, cosa avverrà nel 2023 da poco iniziato?
Ho programmato varie pubblicazioni per quest’anno, diversi remix e pure qualche uscita in vinile.

Da ragazzino consideravo la techno la colonna sonora dei sogni del futuro, per me era il genere più adatto a descrivere l’accelerazione tecnologica, la musica perfetta per tutti gli scenari utopici che ci ha proposto di volta in volta la fantascienza. Oggi viviamo nel futuro e in un mondo dominato da macchine, algoritmi e intelligenze artificiali, ma paradossalmente la techno ha perso energia e visione per mostrare ciò che non esisteva ancora. Dobbiamo legittimamente pensare che il futuro e la techno fossero ieri?
C’è una gamma davvero ampia di techno al giorno d’oggi, credo non ci sia mai stata così tanta varietà nello scenario musicale. Ritengo si stia ancora producendo musica fantastica e ci siano ancora artisti entusiasmanti capaci di creare roba forte.

Qual è il pezzo techno che ti ha mostrato il futuro per l’ultima volta?
È difficile rispondere, c’è così tanta musica in circolazione che ogni settimana sento di avere nuovi artisti preferiti. Alcune tracce ovviamente spiccano su altre. Qualche esempio? “Panoramic Eggnog” di Steffrey Yan, “State Transition” di Olan! e “Bionic Jellyfish” di Ken Ishii.

(Giosuè Impellizzeri)

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Milano 84 – Monochromatic (Lost Generation Records)

Milano 84 - MonochromaticNel 1984 Milano è già la “Milano Da Bere” nonostante lo spot da cui deriva tale slogan, ideato dal compianto Marco Mignani, risalga all’anno successivo. Un’espressione che, come scrive Filippo Minonzio qui l’8 marzo 2019 «indicava un’idea di vivacità e modernità» […] e tendeva a definire i milanesi «una classe all’avanguardia, di yuppies laboriosi e dinamici, devoti alla competizione e alla scalata sociale». Dopo Tangentopoli della Milano Da Bere non resta più niente ma l’idea della vivacità e modernità rimane indelebile nella memoria di tantissimi, persino in quella di coloro che non l’hanno vissuta in modo diretto ma che, in qualche modo, la considerano una fonte d’ispirazione e alla stregua di prezioso custode delle sensibilità del passato. I Milano 84, ad esempio, non sono né di Milano né tantomeno del 1984, ma optano per uno pseudonimo dietro cui si cela un preciso immaginario che pesca a piene mani proprio da lì.

«Effettivamente non siamo milanesi e nel 1984 eravamo ancora imberbi, ma forse proprio per tale ragione su di noi, romani, la metropoli lombarda ha sempre esercitato un notevole fascino, evocando qualcosa di “altro”» dice Fabio Di Ranno, uno dei componenti del duo. «Milano era la città della musica che mi piaceva, del design, della moda, dello sport (ai tempi tifavo Milan!) e del glamour, insomma, la metropoli intorno alla quale ruotava il mio immaginario, molto più di Roma. Tutto questo, senza volerlo, ha finito per riversarsi in ciò che oggi realizzo, che si tratti di un film, di un videoclip, di una canzone finanche di un podcast. Nel caso specifico di Milano 84, tutti questi input vengono però rielaborati secondo la sensibilità di uomo contemporaneo. Non è la nostalgia a guidare la mia ricerca artistica, tutt’altro. Milano 84 ricorda ma non copia, trasforma gli anni Ottanta in suoni ed immagini piacevoli da fruire oggi e soprattutto guarda avanti». Gli fa eco Fabio Fraschini, l’altra metà del duo: «Il punto di partenza di Milano 84 è stato il pop elettronico degli anni Ottanta quindi Gazebo, Den Harrow, Fred Ventura o Albert One ma anche artisti e band estere come Pet Shop Boys, Bronski Beat, Human League e Madonna. Poi ci siamo avvicinati con stupore alla scena new italo scoprendo delle realtà artistiche notevoli come Killme Alice, Vincenzo Salvia e Listanera. Negli anni Ottanta Milano era la città che ha rappresentato meglio la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, per questo abbiamo scelto un nome così evocativo che ci riporta alla metropoli che in quegli anni immaginavamo, da adolescenti romani, essere il centro assoluto del mondo».

Milano 84 A
I Milano 84 fotografati da Claudio D’Aloia presso la Contemporary Cluster, galleria d’arte romana, con l’allestimento di Poltronova

I Milano 84 dunque attingono stilisticamente dal passato ma non limitandosi alla mera replica e riproposizione di filoni stilistici già noti. L’impressione è che stiano provando a forare il muro che separa due epoche lontane eoni come gli anni Ottanta e quelli che viviamo, provando a collegarle attraverso una vena dichiaratamente retrofuturepop. «Quando ci chiedono che musica facciamo, solitamente rispondiamo “italopop”, una formula che mescola elementi in apparenza poco solubili» risponde Di Ranno. «Una sorta di bricolage musicale e visivo eclettico e, per quel che riguarda la comunicazione, anche ironico. Un modo per riscoprire e riformulare il passato, lanciarlo nel futuro e vedere l’effetto che fa. Milano 84 è un po’ come una macchina del tempo o una sfera di cristallo, a seconda dello sguardo che si preferisce dare, con cui vorremmo sorprendere piacevolmente attraverso le nostre canzoni. Che poi, in questi anni, finiscano quasi per essere percepite come “rivoluzionarie” o persino “di nicchia” rispetto a quelli che gli spin doctor immaginano essere i gusti di chi fruisce musica, è qualcosa che non dipende strettamente da noi. Certo, ci piacerebbe moltissimo arrivare al grande pubblico in Italia, e di questa vena retrofuturepop, per ora presente nel microcosmo indie elettronico, dovrebbero incominciare ad accorgersene anche le major. Se il dubbio è quello della domanda e dell’offerta, la domanda c’è e noi potremmo essere l’offerta». «Dell’esperienza sonora degli Ottanta ci attrae in particolar modo la radicalizzazione di alcune scelte» prosegue Fraschini. «Ci piace immaginare i produttori dell’epoca come dei bambini che hanno ricevuto un giocattolo nuovo a Natale e che hanno abbandonato tutto il resto per dedicarsi solo a quello. L’uso sfrenato delle batterie elettroniche e dei sintetizzatori li portarono a reinventare il modo di fare musica perciò l’accelerazione tecnologica fu spesso accompagnata da un entusiastico pionierismo».

“Monochromatic”, ormai prossimo all’uscita, raccoglie alcuni brani già assaporati in formato liquido nel recente passato come “Fanatic”, ubicato tra romanticherie italo disco e sgroppate hi-nrg a rafforzare le paratie ritmiche, “Suspiria On TV”, intenso quanto malinconico, e l’emozionale “Play”, con armonie e vocalizzi che rimandano a “Tango” dei Matia Bazar, costruito nel 1983 in buona parte con strumentazioni elettroniche (Alpha Syntauri TM, Yamaha, Oberheim DMX etc). C’è anche “Awesome” interpretata da Killme Alice, una sorta di proiezione moderna di Valerie Dore intrecciata a Kim Wilde ma con un suono meno polveroso e più splendente, saturo di colori e radioso, e due inediti, “Milano, L’Amore”, sorretto da un beat à la Black Strobe nei giorni migliori dell’electroclash, e “Lola”, cover dell’omonimo dei Chrisma poi trasformati in Krisma, con un imprinting che paga il tributo ai Visage e ai Roxy Music. La scrittura è intenzionalmente pop, è chiaro che la vocazione del duo sia fare più di un tool da usare sotto le strobo ed andare oltre il pedestre scimmiottamento di suoni d’antan mitizzati troppo spesso in modo smodato. «”Monochromatic” è il frutto del lavoro di tre anni» afferma a tal proposito Di Ranno, sconfessando subito chiunque possa considerare Milano 84 l’ennesimo esperimento modaiolo nato per cavalcare l’onda del bric-à-brac sonoro legato al cosiddetto “decennio di plastica”. «La pubblicazione dei sei pezzi su 12″ era già stata programmata per l’autunno inoltrato del 2020 ma gli eventi legati alla pandemia ci hanno costretto a rivedere i nostri piani. Prima l’uscita era slittata a gennaio, poi definitivamente a giugno. Nel frattempo, durante le prove in studio, abbiamo ripreso alcuni brani non ancora pubblicati in digitale e lavorato ad un paio di inediti. Da qui l’idea di pubblicare, in bundle col vinile, un CD in tiratura limitata contenente diverse bonus track, remix già usciti ed altri nuovi. È stato un modo per non lasciarsi sopraffare, rimanere in contatto con gli amici ed approfittare dell’attesa forzata per realizzare qualcosa insieme. Alla fine è venuto fuori un corpus di sedici pezzi totali, ci sembra un bel modo per farci conoscere e ringraziare chi, in questi due anni di pubblicazioni solo digitali, ci ha seguiti con entusiasmo sostenendoci. Anche per questo motivo abbiamo tenuto il prezzo dell’accoppiata disco/CD assolutamente accessibile, fissandolo ai 14,85 euro».

Milano 84 B
Un’altra recente foto dei Milano 84

Agendo in un determinato contesto, quello che in gergo si identifica con la sineddoche “anni Ottanta”, i Milano 84 lanciano occhiate profonde a più correnti di quel momento storico e lo fanno con coscienza, determinazione e soprattutto con capacità compositiva che mira ad oltrepassare lo stereotipo e i limiti della musica da ballo odierna. «Volevamo trovare una parola che ben sintetizzasse il nostro approccio musicale e la griglia monocromatica, sia in arte che in grafica, racchiude sfumature, tonalità e gradazioni di uno stesso colore» chiarisce Di Ranno. «Con “Monochromatic” abbiamo fatto lo stesso, declinando in sfumature differenti un certo sound che identifica gli 80s facendolo nostro, manipolando e giocando con l’italo disco, il synth pop e la new wave. Il colore che abbiamo scelto per simboleggiare tutto questo è il rosso, quello che campeggia in copertina. Ad impreziosire il tutto sono gli ospiti, dalla regina dell’italo disco Killme Alice, al secolo Alice Castagnoli, a Vanessa Elly, da Laura Serra ad Eleonora Cardellini sino ad Alice Silvestrini, la cantante che ci accompagnerà negli spettacoli dal vivo, appena sarà possibile riprenderli ovviamente. Poi abbiamo contato sull’apporto di musicisti che ci hanno aiutato con strumenti “veri”, Gianluca Divirgilio degli Arctic Plateau alle chitarre, Luciano Orologi al sax, Isabella Cananà ai cori, il Maestro Fabio Liberatori (già collaboratore di Lucio Dalla e Stadio) che ha impreziosito “The Lie” coi suoi interventi al piano e ai sintetizzatori, ed infine Andy Bartolucci che, su “Lola”, ha suonato una batteria vera sullo stile delle produzioni di Trentemøller. Ad interpretare vocalmente “Lola” invece è stato Eugene, musicista che vanta innumerevoli collaborazioni, da Garbo a Gazebo sino a Luca Urbani». «Un simpatico aneddoto è legato proprio a “Lola”» racconta Fraschini: «disponevamo sia di una parte demo che Eugene aveva reinterpretato alla sua maniera e in un modo stupefacente, sia di un vocoder fatto da me al volo con un microfono da PC, giusto per dare un’idea di ciò che intendevamo realizzare. Dopo una serie di innumerevoli tentativi fatti con mezzi ben più prestigiosi, non siamo riusciti a riottenere quello stesso effetto e, con grande stupore di tutti, abbiamo ripristinato la versione “casalinga” registrata nella mia cucina. Siamo fortunati a disporre di un nostro studio di registrazione in cui realizzare le idee con una certa libertà e senza limitazioni di tempo. Usiamo principalmente strumenti virtuali, una scelta che deriva soprattutto dalla facilità con cui si possono trasferire le sessioni di lavoro da casa allo studio e viceversa. Come qualunque altro produttore di musica elettronica però, siamo appassionati di sintetizzatori e personalmente ne ho posseduti parecchi nel corso degli anni. I risultati sonori raggiunti dalla virtualizzazione di tali macchine, oltre alla praticità prima descritta, ci porta comunque a preferire il loro utilizzo quasi esclusivo».

“Monochromatic” verrà pubblicato a breve dalla Lost Generation Records. Come si legge sull’home page della stessa, «viviamo in un’epoca in cui a livello di imprenditoria musicale indipendente sono saltati quasi tutti gli schemi: i nuovi mezzi di fruizione non hanno fatto altro che portare alla luce decenni di declino culturale in cui la musica è stata percepita sempre e solo come “tappezzeria” o, nella migliore delle ipotesi, come estemporaneo divertimento, qualcosa per cui – dal punto di vista del pubblico – non vale la pena spendere del denaro. D’altra parte, sussiste una visione culturale antica per cui la musica che un tempo si sarebbe definita “leggera” è relegata ad una posizione culturale subalterna nei confronti della musica altrettanto impropriamente definita “colta” ed è quindi immeritevole di sostegno. Avere un bel beat non significa non esprimersi artisticamente. In un certo senso la raison d’être di Lost Generation Records è – nel suo piccolo – ridare alla musica ciò che alla musica è stato tolto». Ci si chiede allora la ragione per cui un certo tipo di musica sia oggetto, praticamente da sempre, di una visione sommaria, superficiale e figlia di radicati pregiudizi. «Milano 84 è un progetto musicale ma anche concettuale, perché fonde diversi spunti di riflessione e suggestioni» sostiene Di Ranno. «Nulla di troppo intellettualistico chiaramente, parliamo pur sempre di pop e il pop, per definizione, non è mai elitario, però quando diventa rivelatore di qualcosa di più profondo sa essere rivoluzionario, ed è proprio questa la sua forza. Quando ciò si verifica, il pop lascia un segno e resiste nel tempo. La produzione musicale di oggi, ma più in generale di contenuti, sembra però temere questo aspetto potente, ed è sempre la stessa. Tutto è veloce, dimenticabile e sostituibile. Ecco, a noi piacerebbe invece essere contemporaneamente il passato e il futuro della musica che amiamo, e vorremmo che restasse traccia dei nostri brani, al di là dello streaming, dei social e di tutto il resto». «La filosofia che sta dietro la Lost Generation Records non può che essere sposata in pieno da Milano 84» prosegue Fraschini. «Il proprietario, Matteo ‘Zar’ Gagliardi, fa dischi che piacciono prima di tutto a lui e questo è un approccio che mi ricorda le esperienze di etichette che hanno fatto la storia della musica come la Mute o la 4AD. Certo, i tempi sono cambiati, ma a maggior ragione porre l’accento sul gusto personale e sulla qualità di quello che si produce per noi rappresenta un valore. Con Gagliardi, che mi contattò qualche anno fa per completare le registrazioni della sua band, Søren, più vicina all’indie rock e new wave nonostante i miei trascorsi metal, ci siamo subito trovati in sintonia. Quando ha deciso di fondare l’etichetta ci è sembrato naturale proporgli Milano 84: la sua dedizione, preparazione ed entusiasmo erano proprio quello che cercavamo».

A distribuire “Monochromatic” invece sarà l’olandese Bordello A Parigi, ormai da un decennio tra i poli maggiormente attrattivi per gli amanti della musica retrò, soprattutto quella di fascinazione italica. Forse un’occasione persa proprio per l’Italia, l’ennesima, ma è bene ricordare che i primi a non credere nella neo italo disco, nata oltre venti anni fa, sono stati paradossalmente proprio gli italiani, poco attenti al proprio bagaglio storico e più attratti dal ciclo infinito delle tendenze temporanee mosse quasi esclusivamente da Paesi esteri. «Sarebbe facile parlare di complesso d’inferiorità o cavarsela con un “nemo propheta in patria” dal retrogusto consolatorio» sostiene Di Ranno. «Del resto ad inventare il termine “italo disco” non furono neanche gli italiani ma i tedeschi, e fu peraltro un’invenzione commerciale: noi facevamo la musica, loro trovarono ad essa un nome per venderla ed oggi gli olandesi la distribuiscono. Questione di pragmatismo. Se è vero che l’italo disco ha fotografato un momento storico ed una particolare lettura delle istanze musicali in atto (synth pop, new romantic, new wave) filtrandole attraverso la sensibilità tutta italiana legata alla melodia, è anche vero che oggi italo e new italo sono considerate ovunque e a tutti gli effetti un genere musicale meno che, forse, proprio in Italia. Probabilmente questo dipende dal fatto che l’italo disco sia musica codificata e molto amata dagli appassionati. Merita rispetto ma rischia di calcificarsi, specialmente se la si lascia in una teca. Bisognerebbe invece cercare di tenerla in vita, anche a costo di stravolgerla. Noi ogni tanto ci proviamo, anche con alcuni esperimenti o collaborazioni più estreme, riteniamo sia giusto farlo. Conoscere la storia dell’italo disco ed amarla ci consente di tentarne con riguardo una nuova definizione e di interpretarla sotto una luce contemporanea. Nulla finisce, tutto si trasforma, anche l’italo disco».

Fabio Di Ranno e Fabio Fraschini in studio

Come prima anticipato, la musica dei Milano 84 sinora è apparsa solo in formati liquidi divisi tra Bandcamp e Spotify. L’uscita di un 12″ abbinato ad un CD però testimonia che c’è ancora voglia di tattilità in un mondo in cui l’inesorabile smaterializzazione pare non avere fine. «Il vinile è un supporto in ascesa anzi, direi che sia l’unico supporto fisico rimasto in piedi dopo il definitivo declino del CD» risponde Fraschini. «Il fascino che esercita ancora sui fan degli anni Ottanta e la particolare resa sonora che lo stesso genere ha su vinile ci ha convinti che fosse la via da percorrere. Con esso contiamo inoltre di stabilire un contatto più “reale” con chi ci segue. Se compri il vinile significa che sei realmente interessato alla nostra proposta e che il tutto non resta confinato ad un like sui social o ad un ascolto, spesso superficiale, in streaming. Per noi questa è una prova molto importante attraverso cui intendiamo costruire una fanbase appassionata ed attenta. Secondo il mio punto di vista, a Spotify spetta il merito di aver legalizzato e regolarizzato la fruizione della musica in streaming. Certo, le royalties sono misere e molte cose andrebbero riviste anche dal punto di vista del diritto d’autore, ma costituisce comunque un passo avanti rispetto allo scampato pericolo di una diffusione gratuita e totalmente fuori controllo».

A circa venti anni di distanza dalla prima fase revivalistica che trovò l’apice nell’electroclash, l’italo disco, il synth pop e un po’ tutto il bagaglio stilistico di quegli anni oggi vive una nuova esposizione commerciale con artisti tipo Purple Disco Machine, The Weeknd ed altri che, forse più per interesse che devozione, ne ricalcano prevedibilmente le orme. L’ennesimo trend stagionale o qualcosa che potrebbe evolversi sulle lunghe distanze? «Per modernizzare qualcosa devi uscire dalla comfort zone e pensare diversamente dagli altri» sostiene Di Ranno. «Progetti musicali come quello di The Weeknd o Purple Disco Machine sono lì a dimostrare che c’è un mondo mainstream (quindi non solo appassionati o nostalgici) in grado di apprezzare proposte che sentiamo concettualmente vicine alla nostra. Ci si chiede piuttosto se altrove le major siano più attente o disposte ad investire di quanto non lo siano qui. Nessuno può dire con assoluta certezza se questo trend durerà ma la magia degli anni Ottanta, per quanto stiano provando a sostituirla con l’immaginario dei Novanta, sembra destinata a reggere ancora. Chi ha detto che gli anni Ottanta sono un decennio mai finito probabilmente ha visto giusto». Grandi interrogativi riguardano anche il post pandemia. Si auspica che tutte le attività possano tornare alla regolarità anche se qualcuno sostiene che il “dopo” non riprenderà lì dove il “prima” è stato interrotto. «I tempi sono innegabilmente difficili, tuttavia noi abbiamo davvero tante novità in cantiere» annuncia Di Ranno. «A nuove canzoni a cui stiamo lavorando si aggiungerà un nuovo orizzonte, quello cinematografico, in cui spingere Milano 84. La nostra proposta ha il vantaggio di avere una forte ed eclettica identità che la rende credibile. Milano 84 è vecchio e nuovo, retrò e contemporaneo, heritage ma non nostalgico, molto romantico ed un pizzico malinconico. C’è poi una cifra più arty ed è quella che ci guida appunto nelle proposte per il cinema e l’audiovisivo. In questo senso la nostra cover di “Lola” dei Chrisma può essere considerata la prima pietra di tale percorso che, in futuro, se ne avremo l’opportunità, svilupperemo ancora di più». «I nuovi brani accoglieranno ospiti che faranno di Milano 84 un progetto ancora più aperto e in grado di reinventare di volta in volta il suo suono» aggiunge Fraschini. «Una delle guest con cui avremmo desiderato collaborare, un vero big degli 80s, ha già dato l’ok con entusiasmo. Per quanto riguarda il futuro, ci piacerebbe fare qualcosa con gli Altar Boy, abbiamo scoperto che sono di Roma e che battono un percorso per certi versi affine al nostro, ma tra i sogni ci sono pure collaborazioni con Alexander Robotnick e Gazebo (in Italia) e Trentemøller e Paul Kalkbrenner (all’estero). Al momento stiamo preparando un live set con Alice Silvestrini in cui cercheremo di interagire il più possibile con le macchine. Suoneremo sintetizzatori, chitarre, un Bass VI (strano incrocio tra una chitarra ed un basso) e drumpad. Miriamo ad un vero live e non a banali playback su basi lanciate da un software». (Giosuè Impellizzeri)

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Various – Ciao Italia, Generazioni Underground (Rebirth)

Ciao Italia, Generazioni Underground

Da qualche tempo a questa parte sul mercato sono piombate varie raccolte riepilogative legate all’italo house, un segmento stilistico nato in Italia a fine anni Ottanta (dopo un biennio di “training”, come raccontiamo qui) in risposta al fermento creativo statunitense e britannico. Una visione autoctona di quello che ai tempi è la house music, contraddistinta da peculiari tratti identificativi oggi imitati ma allora motivo di biasimo e talvolta denigrazione. Grazie a compilation e ristampe quindi, giovani ed adulti ora si ritrovano in un sol colpo a disporre di vaste ed accurate playlist di gemme dimenticate, talvolta persino dalle stesse case discografiche che le commercializzarono. Già, perché non bisogna omettere che davvero tanti dei titoli oggi ambiti, ai tempi della pubblicazione furono invece oggetto di scarsa considerazione e risultati deludenti di vendita che non oltrepassarono qualche migliaio di copie o, in taluni casi, qualche centinaio appena. Ciò chiarisce bene la ragione per cui alcuni mix abbiano visto salire vertiginosamente le quotazioni sul mercato dell’usato. Brutti anatroccoli trasformati in bellissimi cigni insomma, volendo fare un parallelo con la fiaba di Andersen. Analogamente un movimento pressoché nazionale, fatta eccezione per alcuni successi intercontinentali, è inaspettatamente mutato in oggetto di ricerca ed interesse globale. Di conseguenza si è sviluppata una cura diligente ed attenta per quella che fu sprezzantemente definita “spaghetti house”, specie da influenti testate giornalistiche d’oltremanica. Basti pensare ad “Italo House” di Joey Negro (2014) e “Welcome To Paradise” di Young Marco e Christiaan Macdonald (2017), ma anche a pubblicazioni nostrane come “Paradise House (Deep Ambient Dream Paradise Garage House From 90’s) (2018) o “Echoes Of House (Italo House Foundamentals Tracks)” (2019) per avere un’idea su cosa sia diventato quell’enorme calderone musicale a cui adesso si aggiunge “Ciao Italia, Generazioni Underground”.

Ideatore e curatore del progetto atteso su Rebirth è Daniele ‘Shield’ Contrini il quale, contattato per l’occasione, afferma che con molta probabilità, a far scatenare l’interesse per quello che era un fenomeno morto e sepolto, sia stato qualche DJ importante a livello internazionale che ha iniziato a suonare nei propri set alcuni brani dei tempi. «Da qualche tempo a questa parte una certa scuola di DJ, perlopiù inglesi, tedeschi ed olandesi, ha cominciato a proporre generi quasi dimenticati e a fare della ricerca nel passato il proprio cavallo di battaglia» spiega a tal proposito. «Prima è toccato all’italo disco e poi all’italo house o dream house che dir si voglia, avendo la conferma che si tratta di generi capaci di far ballare ancora oggi e che continuano ad essere fonti d’ispirazione. Ad eccezione di qualche piccolo club in cui la musica fa ancora cultura però, in Italia, adesso, se suoni qualcosa che ha più di tre anni sei automaticamente bollato come un DJ di vecchio stampo, incapace di stare al passo coi tempi. Lo stesso approccio all’estero invece è considerato cool e di tendenza. Mi auguro che l’Italia torni presto a creare, a produrre qualcosa di “proprio” e ad avere una personalità per poter ambire a fare scuola, e smetta di inseguire mode e tendenze che arrivano dall’estero».

Daniele 'Shield' Contrini
Un primo piano di Daniele ‘Shield’ Contrini, a capo di Rebirth ed ideatore/curatore del progetto “Ciao Italia, Generazioni Underground”

Il concept alla base di “Ciao Italia, Generazioni Underground” mira dunque a fotografare il momento in cui la scena house del nostro Paese, ma non quella che ha come obiettivo le classifiche di vendita, si scrolla di dosso definitivamente ogni retaggio degli anni Ottanta e si tuffa in qualcosa di sorprendentemente unico dal punto di vista creativo. «È un progetto a cui lavoro da più di un anno ma l’idea iniziale risale a metà 2019» prosegue Contrini. «Era il periodo in cui lanciavo Tempo Dischi, etichetta nata per riscoprire e ristampare classici e gemme rare della scena italo disco, e frugare in vecchi cataloghi mi ha fatto venire l’idea di prendere in considerazione quello stile musicale, spesso identificato con termini tipo dream house, italo house, piano house o, più semplicemente, underground, che ha lasciato il segno e che ancora oggi continua ad essere vivo tra DJ, clubber e cultori di nuove generazioni. Dedicare una raccolta all’Italia inoltre avrebbe fatto sicuramente bene a Rebirth: se da un lato le collaborazioni con artisti affermati e nuovi talenti provenienti da ogni parte del mondo ci assicuravano una prestigiosa internazionalità dall’altro ci avevano, in un certo senso, un po’ allontanato dalla nostra terra e dalle nostre origini. Finalizzare “Ciao Italia, Generazioni Underground” però non è stato facile: al lungo e meticoloso lavoro di ricerca musicale si è aggiunto quello di tipo burocratico, volto a scoprire i proprietari dei diritti dei brani selezionati, alcuni dei quali hanno declinato la richiesta per l’uso degli stessi, seppur in forma non esclusiva. In certi casi purtroppo non sono nemmeno riuscito a risalire agli editori e ciò, lo ammetto, è stato parecchio frustrante. Purtroppo anche sul lato prettamente tecnico sono sorti problemi poiché i produttori o gli editori dei pezzi inclusi non sempre disponevano del master originale. Siamo stati costretti quindi a ricavare l’audio da copie perfette dei 12″ usciti all’epoca. In ogni caso i file sono stati tutti rimasterizzati da me nello studio di Rebirth, ottenendo poi l’approvazione dagli stessi artisti. Degno di menzione anche l’importante lavoro di direzione artistica curato da Stupefacente Studio che ha base a Brescia e che lavora a trecentosessanta gradi tra creatività, design e comunicazione. Senza dimenticare l’apporto del nostro grafico Luca Sanchezlife: l’idea di connettere quel periodo musicale alla figura rielaborata del Ciao, mascotte dei mondiali di calcio del 1990, mi è piaciuta subito e penso sia davvero vincente a livello comunicativo. La raccolta contiene inoltre un inserto editoriale curato dal giornalista Elia Zupelli che ricostruisce l’affresco di un’epoca attraverso le voci dei protagonisti, fotografie e rarità varie. Un contenuto davvero prezioso, unico direi, che fa bene coppia col packaging speciale e particolarmente oneroso».

Il doppio mix conta tredici pezzi quasi tutti risalenti agli anni in cui la piano house si ritrae, ormai inflazionata, per lasciare spazio a forme più deepeggianti, sognanti ed oniriche: da “Desire” di Aural ad “Elements” di Leo Anibaldi, da “Cuando Brilla La Luna” di Morenas a “The Wizard” di Alex Neri, da “Save Me” di Underground Nation Undertour Sensation a “Feel The Rhythm” di Blue Zone, da “Ore: Nove Nove (Open Rmx)” di MBG a “A4 (A Tribute To The Highway)” di Dalì passando per “Music Harmony And Rhythm” di Optik, “Free” di Stonehenge, “Da Lord” di Ralf, “WS Gordon”, un inedito dei Frame (Andrea Benedetti ed Eugenio Vatta, intervistati qui) e la versione di Andrea ‘Cutmaster-G’ Gemolotto dell’eterna “Sueño Latino” che resta l’inno totemico del movimento dream house. «Così come accennavo prima, a malincuore alcuni brani sono rimasti esclusi dalla playlist» prosegue Contrini. «Tra questi “Un Beso No Mata” dei Love Quartet (di cui parliamo qui, nda) e “Don’t Hold Back The Feeling” di U-N-I prodotto da Claudio Coccoluto, entrambi editi dalla Heartbeat (etichetta a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda) i cui diritti sono ora di proprietà della tedesca ZYX che purtroppo ha rifiutato la concessione di licenza. Per ovviare al problema, Claudio mi ha suggerito una traccia che produsse nel 1998 ma stilisticamente era troppo distante dalla linea musicale della raccolta. Un’altra manciata di pezzi, come “Nocturne Seduction” dei Night Communication (Leo Mas ed Andrea Gemolotto, anche questo dal catalogo Heartbeat) ed “Entity” di Mr. Marvin, sarebbero stati perfetti ma erano già stati inseriti in altre raccolte in tempi recenti. Un aneddoto particolare riguarda “Key To Heaven” di Sasha, finito tra i bonus in digitale: dopo aver parlato per mesi con uno degli autori, che mi ha indirizzato all’editore, ho scoperto che il produttore, Biagio Gambardella, è scomparso anni fa senza lasciare traccia. Anche la Irma Records, una delle etichette di riferimento del periodo e che vanta un catalogo letteralmente pieno di gemme, ha preferito non cedere i diritti dei propri brani. Altri nomi come Franco Falsini, Ivan Iacobucci e The True Underground Sound Of Rome (di cui si parla qui, qui e qui, nda) erano nella mia lista ma non siamo riusciti a raggiungere un accordo. Colgo invece l’occasione per ringraziare la disponibilità di tutti gli artisti coinvolti e di label come la DFC del gruppo Expanded Music e la MBG International Records».

Ciao Italia, il contenuto
Il contenuto di “Ciao Italia, Generazioni Underground” visto attraverso le etichette dei dischi originali

La tracklist del 2×12″ attinge musica da etichette-simbolo di quel periodo storico come Creative Label, ACV, le sopraccitate MBG International Records e DFC, Pin Up, Palmares ed American Records (a cui abbiamo dedicato una monografia qui) ma gradite sorprese sono riservate anche al formato digitale (disponibile dal 25 giugno) in cui si rinvengono, tra gli altri, gli inediti di Key Tronics, Don Carlos, Massimo Zennaro, Paramour & Adrian Morrison e dell’enigmatico Sasha a cui prima si faceva cenno. Ci si chiede però la ragione per cui Rebirth abbia optato per il formato liquido anziché fare un secondo doppio mix, innegabilmente preferito dai cultori. «Sarebbe stato bello estendere la raccolta e fare un quadruplo oppure due doppi» risponde a tal proposito Contrini. «Ad essere sincero ad un certo punto mi era venuta l’idea di coinvolgere anche i produttori italiani emergenti della nuova generazione che sono stati ispirati ed influenzati dalla musica elettronica italiana di inizio anni Novanta, ma il processo sarebbe stato ancora più lungo e dispendioso. Penso comunque che la raccolta “Ciao Italia, Generazioni Underground”, per come è stata concepita, porti con sé già tanti spunti ed idee su cui riflettere e poter lavorare. Poi nulla vieta di sviluppare un nuovo progetto in un prossimo futuro».

Un po’ come accade da circa un ventennio a tutti i generi musicali, anche l’italo house è diventata oggetto di un processo di revamping, talvolta finalizzato a somigliare quanto più possibile agli stilemi originari. Lo spirito di imitazione ed emulazione, troppo spesso mascherato da voglia di tributare qualcosa e qualcuno, però forse sta remando contro la creatività che ai tempi alimentava il settore. Se prima si pescava dal passato per proiettare cose nuove nel presente, in primis attraverso il sampling, adesso si ha l’impressione che si fugga nel passato per duplicarlo quanto più fedelmente possibile nella speranza di poterlo rivivere in qualche modo. «Credo sia rimasto ben poco di tutto quello che è stato prodotto nella musica elettronica nell’ultimo ventennio» afferma lapidario Contrini. «È come se il tempo si fosse fermato e la musica venisse (ri)prodotta (ri)pescando e (ri)adattando generi e filoni musicali antecedenti, prima gli anni Settanta, poi gli anni Ottanta e recentemente gli anni Novanta. Oggi esiste un numero abissale di produttori ma a mio avviso la parola “artista” si addice a ben pochi di essi. Certo, anche chi produceva musica house o techno in Italia nei primi anni Novanta non creava tutto da zero ma cercava di avvicinarsi alle atmosfere di Chicago, Detroit o New York però rielaborando e ricostruendo il tutto con un gusto ed un sapore tipico della nostra cultura, facendo leva su robuste linee di basso, melodie accattivanti e sensuali vibrazioni. Non è necessario essere strani o diversi a tutti i costi, l’importante è ripartire tornando a divertirsi in studio e fare ciò che piace di più, senza pressioni o condizionamenti di sorta. In tal contesto “Ciao Italia, Generazioni Underground” non vuole affatto avere una connotazione nostalgica e commemorativa ma piuttosto imprimere uno stimolo per una possibile evoluzione, dare un segnale positivo e cercare di trasmettere quell’atmosfera e senso di empatia e creatività che si respirava trent’anni fa. Magari rivivere ciò per qualche istante può aiutare a fornire una spinta propulsiva per un nuovo corso proiettato nel futuro».

A “Ciao Italia, Generazioni Underground”, che uscirà il prossimo 12 giugno in occasione del Record Store Day, si aggiungerà pure qualche novità su Tempo Dischi che sinora conta quattro pubblicazioni (Steel Mind, Automat, Contact Music e Logic System). «Il prossimo, previsto sempre a giugno, è “Computer Sourire” di Alexander Robotnick (intervistato qui, nda), uno degli artisti italiani più influenti a livello internazionale» annuncia Contrini. «Il disco, licenziato dalla Fuzz Dance e distribuito sempre da Rush Hour, includerà pure la ricercata versione remix, sinora mai ristampata. Analogamente sul fronte Rebirth sono in arrivo uscite di grosso spessore. Il lavoro di ricerca è sempre presente nella mia vita. Ideare progetti, anche lunghi e difficili, e portare avanti nuove sfide discografiche andando controcorrente è tra gli aspetti che mi legano con più passione a questo lavoro e continuano a tenermi vivo» conclude l’instancabile DJ bresciano che neanche la pandemia è riuscito a fermare. (Giosuè Impellizzeri)

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Fabrizio Gatto, una storia di successo dall’italo disco all’eurodance

L’attività nella sfera discografica di Fabrizio Gatto inizia nei primi anni Ottanta, quando la musica dance nostrana assume una nuova connotazione sulla spinta di influssi provenienti dall’estero (new wave, synth pop, hi nrg, eurodisco etc). Il primo pezzo, “Take A Chance” di Bizzy & Co., lo incide nel 1982 e da quel momento in poi non si ferma più. Con l’energia straripante tipica di quel periodo e in coppia col musicista Aldo Martinelli, realizza dozzine di brani destinandoli prevalentemente ad una delle roccaforti italiane dell’italo disco, Il Discotto. Da Doctor’s Cat a Martinelli passando per Raggio Di Luna, Topo & Roby e Cat Gang: i risultati, ottenuti pure oltralpe, sono galvanizzanti. Con la fine dell’epopea dell’italo disco, la dance si evolve ulteriormente in nuove ramificazioni e Gatto prosegue la corsa: il 1989 lo vede tra i fondatori di Musicola, struttura che cavalca l’esplosione della house music contando su nomi come FPI Project, Bit-Max, JT Company e licenze tipo Nomad e Rozalla. La solidità di Musicola è però minata da circostanze che ne determinano il fallimento. Dalle sue ceneri nasce la Dancework con cui Gatto e il socio Claudio Ridolfi troveranno ancora successo sino ai primi anni Duemila riuscendo a piazzare la propria bandiera sulle vette delle classifiche eurodance internazionali.

Con che artisti e band cresci durante l’adolescenza?
Sino ai tredici anni la musica non era così tanto importante. Il gioco faceva da padrone quindi la mia formazione era legata perlopiù ai brani trasmessi in radio e in televisione. Il primo disco che comprai coi miei risparmi fu “Cuore Matto” di Little Tony ed era il 1967. In seguito, sino ai sedici anni circa, iniziai ad ascoltare, grazie ad amici più grandi, gruppi come Jethro Tull, Genesis, Emerson, Lake & Palmer, Deep Purple, Led Zeppelin ed altri di quel tipo. A diciassette misi piede per la prima volta in discoteca, un mondo fantastico assai lontano dal mio quotidiano, fatto di volumi esagerati, ritmi incalzanti e balli sfrenati. A quel punto la disco music prevalse su tutto.

Sotto il profilo compositivo invece, hai maturato studi di qualche strumento?
No assolutamente, nessun tipo di studio accademico.

01) Bizzy & Co - Take A Chance
“Take A Chance” di Bizzy & Co. è il primo disco inciso da Gatto. A pubblicarlo, nel 1982, la DeeJay di Claudio Cecchetto accompagnata dallo stesso logo di Radio DeeJay nata ufficialmente l’1 febbraio di quell’anno

Chi ti introdusse al mondo della discografia? Cosa voleva dire dedicarsi alla musica da ballo, in Italia, nei primi anni Ottanta?
A darmi una mano per realizzare il primo disco furono Mario Boncaldo e Tony Carrasco, reduci del successo di “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., che si impegnarono a venire in studio per seguire il mixaggio e procurare le cantanti che lo avrebbero interpretato, Naimy Hackett ed una esordiente Rossana Casale. Dedicarsi alla dance in quegli anni era una cosa di poco conto almeno secondo certi ambienti musicali accademici. Quella non era “vera musica” ma soltanto un surrogato e, in tutta franchezza, credo che per alcuni sia ancora così. I comuni mortali invece ritenevano la musica da discoteca sinonimo di gioia e spensieratezza.

La tua prima produzione a cui fai riferimento sopra è “Take A Chance” di Bizzy & Co. pubblicata nel 1982 dall’etichetta di Claudio Cecchetto, la DeeJay, e scelta come sigla di apertura (come si vede qui) di Premiatissima, programma televisivo di Canale 5 presentato dallo stesso Cecchetto ed Amanda Lear. Con quale spirito ed approccio giungesti a quel sound poi definito italo disco, parzialmente illuminante per chi dall’altra parte dell’Atlantico getta le basi di house e techno pochi anni dopo?
Erano lo spirito e l’approccio di chi riusciva ad incidere un disco per la prima volta, nient’altro. Non conoscevo davvero nulla di quel mondo, le modalità, i tempi, le difficoltà e i risultati. La fortuna giocò un ruolo rilevante per “Take A Chance” e l’emozione che ne scaturì fu grandissima. Sentirlo in radio ed addirittura in televisione fu qualcosa che non aveva prezzo.

02) Gatto e Martinelli @ Discoring, 1985
Aldo Martinelli (a sinistra) e Fabrizio Gatto (a destra) ospiti a Discoring nel 1985. Al centro il conduttore del programma, Sergio Mancinelli

Oggi l’italo disco è ricordata oggi in virtù dell’utilizzo intensivo di personaggi-immagine, scelti per copertine, spettacoli dal vivo ed apparizioni televisive così come descritto accuratamente in questo reportage ma svelato in qualche occasione pure ai tempi (si veda questa clip del 1985 che immortala la tua ospitata insieme ad Aldo Martinelli a Discoring condotto da Sergio Mancinelli). Talvolta capitava persino che gli autori figurassero solo nelle retrovie lasciando ad altri il ruolo di frontman/frontwoman, proprio come accadde in questa performance del 1983 sempre a Discoring, dove tu ed Aldo Martinelli mimate di suonare rispettivamente sax e tastiera. A tuo avviso tutto ciò penalizzò l’italo disco agli occhi della critica?
No, non credo, anzi fu un pro. Ai tempi bisognava far sognare il pubblico («le persone apparivano felici e si aspettavano ragionevolmente di diventarlo ancora di più», da “Per Il Potere Di Greyskull” di Alessandro “DocManhattan” Apreda, Limited Edition Books, 2014, nda) mostrando un mondo migliore di quello reale e per farlo si ricorse a personaggi di bella presenza, tutto qui. Oggi questo fenomeno è di gran lunga circostanziato, ci sono molti più cantanti bravi e nel contempo belli ma è inutile negarlo, l’occhio vuole sempre la sua parte. In quegli anni scarseggiavano i cantanti validi e capaci. I pochi sulla piazza venivano ingaggiati in molti progetti gestiti anche da etichette concorrenti. Per evitare problematiche legate ad esclusive quindi, preferivano prestare solo la propria voce alla stregua di musicisti turnisti. Il loro nome, in tal modo, rimaneva relegato allo studio di registrazione. Sarebbe stato impossibile essere cantanti ed interpreti allo stesso tempo, ciò avrebbe generato tantissima confusione per il pubblico ma anche per gli stessi addetti ai lavori.

Dal 1981 al 1986 gli Hot Mix 5 (“un quintetto multirazziale di DJ”, dal libro “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton) diffondono musica mixata attraverso l’emittente WBMX, prevalentemente synth pop e new wave europea ma anche tanta italo disco nostrana. Tra i brani più suonati, oltre a “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick” di cui parliamo qui, pare ci fossero proprio quelli di Doctor’s Cat e qua, ad esempio, c’è un set del 1985 di Mickey “Mixin” Oliver in cui figura “Watch Out! insieme ad altre tracce che tengono alto il nostro tricolore firmate dai Baricentro, My Mine e Fun Fun. Eravate consci dell’influenza esercitata oltreoceano? Hai mai avuto modo di interfacciarti con qualcuno di Detroit e Chicago, come Benji Espinoza intervistato qui, che ha riconosciuto i meriti all’italo disco delle prime annate?
Ai tempi c’era una davvero scarsa conoscenza di quello che accadeva all’estero. Ho appreso queste notizie soltanto molti anni dopo, leggendole su internet, e mentirei se dicessi che scoprire ciò non mi abbia regalato piacevoli sensazioni. Sarebbe stato davvero interessante allacciare rapporti con chi seguiva attentamente la nostra musica dall’altra sponda dell’Atlantico ma purtroppo non ho mai avuto modo di scambiare opinioni con nessuno dei personaggi da te menzionati.

03) Gatto e Martinelli, 198x
Fabrizio Gatto e Aldo Martinelli in una foto scattata negli anni Ottanta

La citata “Take A Chance” viene scritta da Tony Carrasco ed Aldo Martinelli. Con quest’ultimo instauri una proficua collaborazione che si traduce in moltissimi brani anche di clamoroso successo, su tutti quelli di Doctor’s Cat (“Feel The Drive”, “Watch Out!”), Martinelli (“Cenerentola”, “O. Express”, “Revolution”, “Victoria”, “Voice (In The Night)”, Topo & Roby (“Under The Ice”), e Raggio Di Luna (“Comanchero”, “Viva”, “Tornado Shout”) per la maggior parte cantati dall’italoamericana Simona Zanini. Come era organizzato il lavoro in studio? Chi faceva cosa?
Conosco Aldo sin da piccolo, siamo nati nello stesso quartiere. Lui, ottimo musicista ed insegnante di musica alle scuole medie, possedeva l’attrezzatura necessaria per imbastire provini e dare un’idea compiuta di ciò che poi avremmo ottenuto registrando in un vero studio perché, non lo nascondo, non disponevamo mica di una sala di incisione, facevamo tutto a casa sua. Ci incontravamo mediamente due o tre giorni a settimana e mettevamo a punto le varie idee ritmiche e le melodie in provini incisi su nastro a due piste. Provvedevamo inoltre a fornire ai cantanti la melodia del brano e le linee di canto con varie parole-chiave da inserire nel testo. Quando tutto era pronto ci ritrovavamo in uno studio professionale che, ai tempi, si prendeva a nolo e costava un occhio della testa, circa un milione di lire al giorno. Per tale ragione era necessario arrivare lì preparatissimi e soprattutto dopo aver ottimizzato il lavoro per ridurre al massimo i tempi morti. Completata la registrazione delle parti, si passava alla fase di mixaggio, la più lunga ma per me anche la più costruttiva e fantasiosa, in cui si poteva stravolgere letteralmente la canzone, invertire le sezioni, inserire effetti ed altro. Allora si registrava su nastro magnetico e per aggiungere effetti, oggi ottenibili in appena una manciata di secondi, potevano servire anche diverse ore. Durante il mixing io e Aldo discutevamo spesso e chi ci conosce non faticherà a rammentare le nostre diatribe: lui, da musicista, tendeva a privilegiare la fase musicale mentre io, avendo a che fare ogni giorno coi DJ, puntavo più al tiro. Alla fine ci incontravamo sempre a metà strada ottenendo una mediazione tra le parti. I risultati, fortunatamente, si sono rivelati spesso vincenti. Con gli aneddoti di quel periodo potrei riempire un libro intero ma forse uno dei più simpatici riguarda “Comanchero”. Il brano non piaceva a nessuno e secondo molti addetti ai lavori a cui lo facemmo ascoltare non avrebbe venduto nulla. «Al massimo intrigherà i tamarri che ascoltano l’autoradio col volume a palla, coi finestrini abbassati e il gomito fuori!» dicevano. Noi però, convinti della forza del brano, insistemmo e riuscimmo a spuntarla. Il pezzo venne pubblicato ad agosto, periodo peggiore per far uscire un disco visto che tutti erano in ferie, ma il risultato ci diede ragione. Ad oggi abbiamo venduto circa cinque milioni di copie di “Comanchero”. A questo punto ben vengano i tamarri.

Con Aldo Martinelli fondi la Moonray Record, attiva nel triennio 1985-1988: come la ricordi?
Costituimmo la Moonray Record principalmente per ragioni fiscali, fatturazioni, acquisti, noleggi e via dicendo, oltre che per stipulare contratti con le varie compagnie discografiche, sia italiane che estere, ed avere potere decisionale sulle scelte finali relative alle nostre pubblicazioni. Le cose andarono particolarmente bene e non incontrammo problemi di sorta.

04) Il Discotto
Il logo de Il Discotto, tra le etichette più rappresentative nel panorama italo disco

Molte delle tue produzioni dei primi anni Ottanta vengono pubblicate da una delle etichette nostrane più emblematiche nel panorama italo disco, Il Discotto di Roberto Fusar-Poli, che in quel periodo rivaleggia con la Discomagic di Severo Lombardoni. Come arrivasti lì? Com’era il tuo rapporto con Fusar-Poli?
Nel 1979 aprii un negozio di dischi in Veneto, inizialmente generalista perché trattava un po’ tutti i generi musicali. Negli anni seguenti frequentare le discoteche mi convinse a dare ad esso un indirizzo più specializzato in dance, italiana e d’importazione. Per soddisfare le richieste di una clientela fatta principalmente da DJ quindi mi avvicinai a vari grossisti ed importatori attivi all’epoca come Discomagic, Gong e Il Discotto per l’appunto. Il mio rapporto con Fusar-Poli era normale, sia da cliente che da produttore, ma una volta conclusa la collaborazione non ho più avuto modo di rivederlo o risentirlo. In quel periodo i discografici non impartivano grandi insegnamenti su come perseguire obiettivi e mantenere vivi eventuali successi. La dance era una cosa nuova per tutti ed esplose inaspettatamente lasciandoci spiazzati. A fare la differenza erano le vendite consistenti, in caso contrario eri solo uno dei tanti che ci provavano.

Da essere un mercato rivolto quasi esclusivamente ai DJ, quello della gergalmente detta “dance” divenne qualcosa di ben più rilevante, anche a livello internazionale. Come fecero le etichette indipendenti italiane a dare filo da torcere alle multinazionali?
Le multinazionali erano focalizzate esclusivamente sul pop. La dance music inizialmente rappresentava solo una piccola fetta di mercato non appetibile per le major che quindi non mostrarono alcun interesse. Le indipendenti inoltre erano molto più veloci e scaltre nella produzione e soprattutto non subivano le lungaggini burocratiche che invece caratterizzavano le multinazionali, e per questo ebbero la meglio.

Come raccontiamo in questo reportage, con l’arrivo della house music, tra 1987 ed 1988, l’italo disco implode, e ciò è alimentato peraltro dal cul-de-sac creativo in cui il genere si infila nella seconda metà del decennio. Analogamente a tanti altri, tu prosegui esplorando nuove direzioni stilistiche. Come ricordi quel particolare momento?
Il biennio 1987-1988 fu effettivamente difficile per l’italo disco. Di fatto si produceva poco e niente e senza riscontri importanti di vendite, il tuo nome finiva inesorabilmente nel dimenticatoio. Da parte dei discografici non giunse mai nessun consiglio e suggerimento su come diversificare o vivacizzare l’italo disco che aveva dato splendore e gloria a tanti. Per mia fortuna, grazie alla frequentazione mai interrotta di DJ e discoteche, entrai in contatto con un nuovo genere chiamato house. Muoveva bene le folle e non mi dispiaceva affatto anzi, lo trovavo interessante ed adatto a progetti futuri. La musica continuava a stupirmi.

05) In studio, 1991
Joe T. Vannelli, Claudio Ridolfi, Albertino, Fabrizio Gatto e Molella immortalati in uno studio di registrazione nel 1991 quando Musicola è all’apice del successo

Nel 1989, anno in cui l’italo house si afferma sulla piazza internazionale, nasce Musicola di cui sei co-fondatore. Al suo interno varie etichette tra cui la Beat Club Records che in catalogo vanta dischi di Bit-Max (di cui parliamo qui), JT Company ed FPI Project nonché importanti licenze di Rozalla e Nomad, oltre alla No Name Records, la Stil Novo Records e la Oversky Records. Quanto fu esaltante quel periodo?
Dopo qualche anno di pausa la dance nostrana tornò finalmente protagonista nelle classifiche mondiali e quello fu un momento più che memorabile. Proprio nel 1989 vide luce Musicola, società editoriale e discografica nata dalla ripartizione in parti uguali tra me, Claudio Ridolfi e il proprietario della distribuzione Non Stop SpA. Partimmo alla grande, lavoravo anche quindici ore al giorno dividendomi tra ufficio, studio di registrazione e discoteche ma non provavo affaticamento, era tutto molto appagante. Inizialmente i produttori riservarono un po’ di scetticismo nei nostri confronti. L’idea di una casa discografica nata all’interno di un distributore, ai tempi il più grosso d’Italia, non andava particolarmente giù. Il pensiero comune era che quest’ultimo avrebbe favorito la stessa penalizzando gli esterni ma pian piano, mostrando la nostra vera indole, le cose presero forma e giunsero produttori da ogni parte del Paese con risultati a dir poco eclatanti. Si vendeva e licenziava tantissimo e Ridolfi, occupandosi dell’estero, era in continuo fermento, subissato da richieste non solo per gli artisti più noti ma pure per quelli sconosciuti in Italia ma che vantavano un grosso riscontro oltre le Alpi. In circa due anni riuscimmo a diventare, anche grazie alla collaborazione della quasi totalità dei produttori dance italiani, una delle più belle realtà indipendenti dello Stivale. Tra i primi ad arrivare ci furono gli FPI Project. Uno di loro ci portò “Rich In Paradise” chiedendoci se fossimo interessati ed affermando che gli sarebbe bastato venderne anche solo mille copie. Coincidenza volle che in quel periodo fossi in studio per realizzare la cover dello stesso brano, “Going Back To My Roots” di Lamont Dozier. Cosa fare? Avremmo potuto pubblicare entrambi, con due nomi diversi ovviamente. La loro versione la sentivo un po’ vuota, la mia era molto più sviolinata ed orchestrata a mo’ di canzone. Forse troppo prevenuto, preferivo la mia ma la prova definitiva avveniva in auto che consideravo il mio secondo ufficio, dove mi relazionavo alla musica senza distrazioni. Quella sera ascoltai un paio di volte il pezzo degli FPI Project e subito dopo il mio. In seguito ad una mezzora di silenzio e riflessione giunsi alla conclusione che il loro fosse venti volte più strepitoso del mio! Con poche cose avevano realizzato una bomba. Il piano in stile Richie Havens (che incide una cover di “Going Back To My Roots” nel 1980, nda) calzava a pennello, la voce impostata del conduttore radiofonico Paolo Dini era accattivante e il loop col sample di James Brown era puro spettacolo. Io invece mi ero fermato più allo stile dell’originale di Dozier, elegante ma in pista non c’era paragone, la loro versione era quella vincente ed infatti decisi di non pubblicare più la mia. Poco tempo dopo giunse Joe T. Vannelli, che non conoscevo ancora, con un suo brano. Lo ascoltai e non era male ma a mio giudizio necessitava di essere perfezionato. A quel punto lui mi confidò di averlo già fatto sentire ad altri a cui però non era piaciuto. Due giorni dopo, in uno studio amatoriale allestito in un garage per auto con luce praticamente inesistente, un mixer Mackie e pochissime altre cose, riarrangiammo e re-mixammo tutto. Risultato? “Don’t Deal With Us” di JT Company, licenziato dalla EastWest in tutto il mondo. Poi però, così come accade in tante favole, l’incantesimo si ruppe.

Cosa successe di preciso?
I tempi erano più che propizi per vendere dischi e noi stavamo andando alla grandissima quando avvenne l’imprevedibile. La Non Stop era da tempo in sofferenza e lo sapevano più o meno tutti. Noi eravamo solo distribuiti dalla stessa visto che stampavamo dischi a nostre spese ed avanzavamo davvero un mucchio di soldi. Tuttavia gli affari andavano talmente bene da riuscire ad essere in positivo e non di poco. I produttori però iniziarono a preoccuparsi e ci chiedevano continuamente a quali rischi andavano incontro. Noi li rassicuravamo: qualora la Non Stop avesse malauguratamente chiuso battenti, noi saremmo stati comunque in grado di pagare le royalty ma soprattutto di proseguire l’attività giacché eravamo creditori di parecchio denaro dall’estero per le licenze stipulate e in banca eravamo più che coperti. Una mattina però ricevemmo la telefonata di un fornitore che lamentava una fattura non pagata. Mi recai subito in banca per chiedere spiegazioni e, con immenso stupore, scoprii che i nostri conti correnti erano stati prosciugati. Com’era possibile? Chi aveva preso il denaro? Era stato il terzo socio, proprietario di Non Stop che, nel contempo, era parte attiva di Musicola. Gli chiedemmo subito ragguagli ma senza mai ricevere risposta. Ci recammo allora dal notaio che aveva redatto gli atti per la costituzione della società con le partecipazioni dei soci e lì subimmo un’altra doccia fredda: asseriva di non conoscerci e di non averci mai visto prima. Solo a distanza di anni siamo venuti a sapere che sono stati giudicati e condannati, notaio compreso, per vari reati, ma servì a ben poco. Musicola aveva perso e non esisteva più.

06) Premiazione Gam Gam Compilation, 1994
Da sinistra: Max Monti, Fabrizio Gatto, Mauro Pilato, Claudio Ridolfi e, alle spalle, Roberto Delle Donne. La foto viene scattata in occasione della premiazione col disco di platino della “Gam Gam Compilation” nel 1994

Nonostante tutto però tu e Ridolfi ci riprovate e nel 1993 dalle ceneri di Musicola nasce la Dancework, questa volta con risultati più continuativi. Il successo non si fa attendere: Dynamic Base, Gam Gam, Indiana, Two Cowboys (di cui parliamo rispettivamente qui e qui), Nikita, Brainbug ed importanti licenze come Marvin Gardens (a cui abbiamo dedicato un articolo qui), Celvin Rotane, New Atlantic, Fifty Fifty e Milk Incorporated sono solo alcuni dei nomi apparsi su numerose label che la società incorpora tra cui Volumex, Welcome, Strike Force, @rt Records, Joyful e Mammut. C’erano sostanziali differenze rispetto all’attività precedente in Musicola e Moonray Record?
Ripartire dopo quella batosta non fu affatto facile. A causa di ciò che avvenne con Musicola, perdemmo la maggior parte dei produttori e gli abituali fornitori stentavano a fornirci il materiale, alcuni pensavano (e forse lo pensano ancora oggi) che fossimo d’accordo col fallimento. Per fortuna qualcuno credette nella nostra innocenza e buona fede e, con un pizzico di fortuna, ricominciammo a lavorare. Tra Musicola e Dancework non sussistevano particolari differenze ma con Moonray Record sì perché quella non era una società editoriale. Inizialmente in Dancework lavoravamo solo io e Ridolfi: lui continuava ad occuparsi principalmente dell’estero (acquisizione master e contrattualistica) mentre io di produzione e promozione. Confrontarci sempre su tutto rese vincente la nostra collaborazione e giovò all’operatività dell’azienda, più o meno come avvenne negli anni precedenti in Musicola. Pian piano abbiamo assunto una segretaria ed un promoter, abbiamo allestito gli studi di incisione ed ingaggiato un team di produzione. Le soddisfazioni furono davvero tantissime. Una su tutte? “Gam Gam” di Mauro Pilato & Max Monti, uscito a gennaio del 1994 ma esploso solo a giugno. In quei sei mesi aveva venduto appena cinquecento copie, un’inezia. Le radio (compresi i network) non avevano alcuna intenzione di trasmetterlo e aver fatto realizzare dei remix da vari DJ noti dell’epoca non sortì alcun risultato. Poi, come d’incanto, esplose, proprio con la versione originale, quella che non piaceva a nessuno, e di colpo divenimmo bravi. Piovevano richieste per decine e decine di compilation, tutte le emittenti lo inserirono nelle playlist e se ne interessarono persino stampa e televisione. Fu appagante ma che fatica!

Nel corso degli anni Novanta il tuo nome finisce su centinaia di dischi come “Dance The Night Away” di Nina, “All I Need Is Love” di Indiana (costretta a cambiare nome in Diana’s) per cui realizzi la versione più nota, ed “Eterna Divina” di Nikita. Oggi ti riascolti e rivedi con più piacere nell’italo disco o nell’eurodance/italodance?
Seppur con modalità e tempi differenti, per certi versi ho vissuto entrambi i periodi col medesimo entusiasmo. Durante la fase dell’italo disco c’era molta più inesperienza, approcciavo ad una cosa nuova e mai fatta prima di quel momento, avevo mille dubbi e mi assaliva spesso la paura di sbagliare. Negli anni dell’eurodance invece avevo ormai acquisito la competenza che mi permetteva di osare di più. Certo, i dubbi e la paura di fare passi falsi permanevano ma l’obiettivo restava lo stesso, lavorare divertendosi e sperare che altri giovassero di ciò che stavo facendo. Riuscire a conquistare l’attenzione della gente col tuo pensiero, la tua fantasia, il modo di porti e il tuo gusto musicale è motivo di una inimmaginabile soddisfazione. Per me ogni cosa che ho fatto ha il suo valore, che sia italo disco o eurodance. Rappresenta un passaggio di vita reale di quel preciso momento.

07) Gatto e Michel Chacon, 2009
Gatto e Michael Chacon a Roma, nel 2009, ospiti nel programma televisivo di Rai 1 “I Migliori Anni” condotto da Carlo Conti

Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, quando Dancework raccoglie ancora consensi con brani tipo “Rain” di Brainbug, “Tonight I’m Dreaming” dei Fifty Fifty, “Indian Summer” di B1 Feat. Maverick e il tormentone latino di Michael Chacon, “La Banana”, il comparto discografico dance italiano subisce radicali trasformazioni e ne esce come un piccolo arenile dopo uno tsunami. Nulla è più lo stesso e a rimetterci le penne sono innumerevoli etichette e distributori ma pure emittenti radiofoniche e personaggi che da star si trasformano in sconosciuti. Ad ormai venti anni di distanza, credi che le ragioni siano attribuibili alla poca flessibilità/capacità di adattamento alle nuove dinamiche, alla chiusura di un ciclo, all’esponenziale aumento della concorrenza o ad altro ancora?
La flessione negativa della discografia dance italiana è indubbia. A mio avviso i motivi sono attribuibili all’aumento della concorrenza estera ma anche alla chiusura immotivata del nostro mercato nei confronti di un genere di immediato riscontro. Da un certo punto in poi tutto mi è sembrato improvvisato, privo di idee reali e basato solo su similitudini, abusate al punto tale da precludere qualsiasi sbocco verso i più redditizi mercati esteri.

Pensi ci possa essere un nuovo momento dorato per la dance italiana, così come accadde con l’italo disco e l’italodance?
Sarebbe bello (ri)vedere di nuovo gli italiani in cima alle classifiche di tutto il mondo ma la vedo dura. Nel panorama musicale attuale non ricopriamo alcun tipo di rilevanza se non in casi sporadici e fortuiti. Le nuove generazioni puntano subito al grosso bersaglio, alla fama, al denaro, alla notorietà e al prestigio. Poco importa conoscere ed approfondire la storia della musica e capire ciò che c’è stato prima e che ci ha rappresentati per anni. È necessario intraprendere un percorso di apprendimento e soprattutto fare la gavetta ma adesso, con la sovrapproduzione mondiale di musica non ha più senso neanche cosa componi. Le idee e le melodie passano in secondo piano, la cosa più importante è affermarsi nel minor tempo possibile. I migliori risultati, purtroppo per noi, arrivano solo dall’estero, dalle major, dai nomi famosi e dalle etichette importanti gestite da personaggi potenti che influenzano il mercato. Poi, sotto tutto ciò, esiste una fascia di musica pubblicata senza alcun tipo di filtro. Ormai tutti possono comporre, è un concetto democraticamente corretto ma c’è un rovescio della medaglia e lo abbiamo sotto gli occhi ormai da anni.

08) Gatto e Bob Sinclar, 2018
Gatto e Bob Sinclar, nel 2018. Quando al DJ francese dicono che tra il pubblico c’è Fabrizio Gatto lui canticchia immediatamente “Comanchero”

Qual è il bestseller del tuo repertorio, sia da compositore che produttore?
Prendendo in considerazione il livello di vendite il bestseller resta, senza ombra di dubbio, “Comanchero” di Raggio Di Luna. Seguono “Feel The Drive” di Doctor’s Cat, “Cenerentola” di Martinelli, “Under The Ice” di Topo & Roby, “Take A Chance” di Bizzy & Co. ed altri ancora. Ci sono anche pezzi che, per vari motivi, non hanno raccolto risultati eclatanti ma a cui sono legato in particolar modo come “In Zaire” di African Business, “Please Don’t Go” di Another Class Featuring KC & The Sunshine Band, i remix italiani di “Faith (In The Power Of Love)” di Rozalla, di “This Is Your Life” dei Banderas e di “My Body And Soul” dei Marvin Gardens. Senza dimenticare “Eterna Divina” di Nikita e “Dance The Night Away” di Nina, ma fosse per me li citerei tutti perché li considero alla stregua di miei bambini, fortunati e meno che siano stati.

Qual è stato invece il flop inaspettato, nonostante il potenziale?
Forse “All I Need Is Love” di Indiana: la FFRR aveva investito moltissimo nel progetto stampando circa ventimila copie promozionali. Il brano iniziò a girare nelle discoteche e sembrava piacere molto ma fu fermato dalla causa legale legata al nome (come spiegammo in Decadance già nel 2008 e pure qui, nda). Quando, diversi mesi più tardi, tornò sul mercato con un nuovo pseudonimo non diede più i risultati sperati.

09) Linda Jo Rizzo, Christa Mikulski, Gatto, settembre 2019
Linda Jo Rizzo, Christa Mikulski della ZYX e Fabrizio Gatto a Milano nel 2019

Qual è la carognata più grossa che hai subito nella tua carriera?
Aver perso Musicola in modo così vigliacco.

La Dancework è ancora attiva: a cosa stai lavorando al momento?
Opero su svariati fronti ma pianificare cose adesso è davvero difficile. Diversi motivi personali mi hanno allontanato dalla musica per un periodo piuttosto lungo e nell’era del digitale, degli aggregatori e dei social network ho perso parecchio terreno. Ci sto riprovando cercando di valorizzare l’esperienza acquisita negli anni con nuove idee oppure riciclandone di vecchie attraverso sviluppi diversi più consoni ai tempi che viviamo. Sono cosciente che tutto ciò non basti ma sono pronto a rimettermi in discussione come ho sempre fatto per cercare soluzioni che mi appaghino e mi facciano stare bene. Per me la musica serve proprio a questo.

(Giosuè Impellizzeri)

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George Hysteric, il culto per l’italo disco in Australia

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George Hysteric, autentico patito dell’italo disco

Può esistere una connessione tra l’italo disco, genere ballabile nato in Italia circa quarant’anni fa che si è riscattato dall’oblio diventando un nuovo punto di riferimento anche per le nuove generazioni, e il continente dei canguri? Sì, a giudicare dall’operato di George Hysteric, profondo conoscitore della dance nostrana d’antan. Da autentico appassionato, setaccia in lungo e in largo lo sconfinato repertorio discografico lasciato dalle etichette un tempo operative nel nostro Paese scoprendo gemme dimenticate e riproponendole ad un pubblico eterogeneo anche attraverso una vivace attività creativa basata sul re-edit. L’obiettivo di personaggi come Hysteric non è attrarre folle di nostalgici con le hit nazionalpopolari bensì solleticare la curiosità mediante piccoli tesori sepolti, magari ritenuti kitsch ai tempi della pubblicazione ed oggi diventati trendy. Attraverso la sua Mothball Record, inoltre, fa incetta di artisti e dischi ignoti ed anonimi, riabilitandone la memoria e consegnando ai più giovani musiche che sarebbero inesorabilmente finite nel dimenticatoio.

Quando hai scoperto la musica elettronica?
Da bambino ascoltavo principalmente gli album dei Beatles e dischi rock n roll degli anni Cinquanta. A me e mio fratello era concesso acquistare dischi ad una bancarella presso la chiesa, dove costavano pochi centesimi l’uno. In mezzo a tanto materiale trovammo “Space Invaders” di Player [1] e credo che fu quello il primo brano di musica elettronica che ascoltai attraverso un disco in vinile, oltre ad alcune sigle di cartoni animati come “Astro Boy” e “Battle Of The Planets”. I dischi che non ci piacevano, come quelli di Enya ad esempio, li riutilizzavamo come frisbee.

L’Australia è parecchio lontana dall’Italia. Nel nostro immaginario collettivo è considerato un luogo esotico, sconosciuto e perlopiù legato ai soliti luoghi comuni (canguri, il Natale al mare in piena estate, squali, serpenti, coccodrilli, didgeridoo, Ayers Rock, giusto per citarne alcuni). Sotto il profilo musicale invece, appare un Paese decentralizzato rispetto ai punti focali a cui si riconduce la produzione di musica e in particolar modo quella elettronica, seppur non manchino certamente DJ e produttori degni di nota. Che tipo di scena musicale esiste oggi in Australia?
Probabilmente non sono la persona più adatta per descriverla perché piuttosto distante da essa. Adoro i primi dischi di DJ HMC (Carmelo Bianchetti, di origini italiane) che tra l’altro suono ancora spesso nei miei set in discoteca. Il mio preferito resta il “Southern Cross EP” del 1995. Ciò che realizza ora come Late Nite Tuff Guy però non fa proprio al caso mio ma sono felice che sia riuscito a reinventarsi con successo godendosi una seconda carriera. La musica australiana a cui mi ispiro invece è più vicina al post punk e al minimal synth, oltre a talune pop band degli anni Ottanta. Qualche esempio? Informatics, The Reels, Machinations, Peter Westheimer, Severed Heads, The Metronomes, David Chesworth e pochi altri. In questo mix ho raccolto esclusivamente musica australiana ed una manciata di titoli neozelandesi. Ascoltarlo può aiutare meglio a capire a cosa faccio riferimento.

Cybotron - Cybotron
La copertina di “Cybotron” pubblicato nel 1976

Pensando alla scena australiana del passato, uno dei primi nomi che mi vengono in mente è quello di Steven Maxwell von Braund, fondatore dei Cybotron. Ti piacciono?
Sono piuttosto noti ma solo ad un certo tipo di pubblico, mi sembra che il mainstream continui ad ignorare del tutto la loro musica. Ciò però non deve stupire, l’Australia è un Paese costruito sul modello del classico pub rock. Ho comprato un mucchio di dischi dei Cybotron, quando era ancora possibile farlo a prezzi accessibili. Confesso di non ascoltarli da anni ma questa tua domanda mi ha spinto a riprendere alcuni LP dall’archivio e devo ammettere che il loro album omonimo del ’76 è incredibile.

Tenebre
George Hysteric indica la colonna sonora di “Tenebre” di Dario Argento come il suo primo punto di contatto con l’italo disco

Come hai scoperto la dance elettronica prodotta in Italia negli anni Ottanta?
Ad alimentare le mie conoscenze è stata l’ossessione, quasi folle oserei dire, di scoprire cose sconosciute legate alla musica, dai dischi più difficili da trovare a quelli più costosi. Nella mia vita ho provato la stessa ossessione anche per altri generi musicali ma l’italo disco è quello che mi ha rapito più di tutti in assoluto. Sono grande abbastanza per aver sentito “Boys” di Sabrina Salerno e “Boom Boom (Let’s Go Back To My Room)” di Paul Lekakis quando uscirono per la prima volta, ma credo che il mio primo punto di contatto con l’italo disco coincida con la colonna sonora di “Tenebre”, il film di Dario Argento del 1982. Da ragazzino guardavo tanti film horror su VHS insieme al mio migliore amico e tra quelli c’era proprio “Tenebre”. Scambiato spesso per un disco dei Goblin, in realtà venne firmato da Claudio Simonetti, Fabio Pignatelli e Massimo Morante. Qualcuno potrebbe avere qualcosa da ridire sul fatto che sia davvero un pezzo italo disco, ma secondo me sia “Tenebre” che “Flashing”, le due tracce stampate pure in Extended Version, sono al 100% italo. Ho sempre amato le colonne sonore dei film, specialmente quelli horror e di fantascienza. Ogni volta che ne sentivo una che mi piaceva, cercavo immediatamente di trovare il disco ma non era molto facile in quegli anni e spesso ero costretto a chiedere aiuto a negozi specializzati in goth e metal. Credo che l’italo disco abbia ricoperto un ruolo significativo nella musica da club, influenzandola in modo determinante. L’attenzione per questo genere ora è più viva che mai, specialmente perché molti sono stufi della monotonia house o techno e cercano alternative, qualcosa più vicino alla melodia o comunque un suono con più sentimento. D’altro canto però mi capita anche di ascoltare molti nuovi pezzi spacciati per italo disco ma che in realtà non sono affatto italo. Pur essendo realizzati con sintetizzatori vintage e dividendo qualche somiglianza nell’apparato melodico, pagano l’assenza di quel quid che fa di un pezzo italo disco, qualcosa di indefinibile e misterioso.

Chi sono, a tuo avviso, i produttori che hanno conferito un’identità più spiccata all’italo disco?
Per me la golden age dell’italo va rintracciata nel periodo 1983-1987. Tra i migliori citerei Sandro Oliva, Raff Todesco (intervistato qui, nda), Raffaele Fiume, Silvio Puzzolu, Riccardo Cioni, Franco Rago & Gigi Farina, Roberto Zanetti alias Savage (di cui parliamo qui, nda), Lino e Giuseppe Nicolosi, Maurizio Dami (intervistato qui, nda), Claudio Simonetti, Ennio Tricomi, Pierluigi Giombini, Bruno Tavernese, Massimo Noè, Miki Chieregato, Franco Scopinich (intervistato qui, nda) ed Oderso Rubini, ma pure tanti altri che ora sto distrattamente dimenticando.

Hysteric tattoo
La devozione provata da George Hysteric nei confronti della Discomagic è tale da farsi tatuare il logo sul proprio corpo

Quali invece le cinque etichette top del genere?
Al primo posto senza ombra di dubbio la Discomagic, mi sono fatto persino tatuare il logo col mago sul braccio! Per me l’etichetta di Severo Lombardoni rappresenta il classico suono italo disco, semplicemente perfetto per rappresentare il cliché degli anni Ottanta. Non riesco proprio ad immaginare di suonare un set italo disco senza avere almeno un mix Discomagic nella borsa. Varrebbe la pena menzionare anche la Out Records, sublabel che rappresentava il lato più bizzarro e low budget della Discomagic. È davvero arduo scegliere una delle due. Tra i pezzi dell’immenso catalogo Discomagic che amo di più ci sono “Rose Of Tokyo” di City-O’, “It Isn’t Changed” di Michael Maltese, “Music & War” di D.J.F.T. Band, “Never Mind” di Colors, “Pinball Dance On” di Instant, “Miss You” di Stylóo (di cui parliamo qui, nda) e davvero moltissimi altri. Al secondo posto metto la Bootlegs: gli incredibili pezzi di Bagarre e Nemesy sono un motivo più che sufficiente per includerla in questa lista. Amo pure l’unica uscita di Maracaibo Sliders intitolata “The Last Butterfly / Holiday To Hell”. Quello della Bootlegs non è un catalogo vasto e a dirla tutta include pure qualche mediocrità ma ben compensata da gemme come quelle menzionate. Sul terzo gradino del podio piazzo invece la Sensation Records che ha pubblicato pezzi terribili ma anche alcune delle tracce più belle ed ormai rare. Tra le mie preferite ci sono “Another Love” di Marylin Love, “China Time” di Sunshine e “Caballeros” di Venus. La Sensation Records è annoverata tra le etichette per cui i collezionisti più incalliti sono disposti a spendere centinaia e centinaia di euro per un solo 12″, ma devo ammettere che nel catalogo ci sono pezzi grandiosi. Alla quarta posizione inserisco la Disco In, la cui scoperta in tempi recenti mi ha veramente sconvolto e credo di non essere stato l’unico a provare una sensazione simile. Su questa etichetta è possibile trovare alcune ballate pop/romantic, LP di library music ed alcuni incredibili 7″ italo disco. La qualità del suono è piuttosto bassa e tutto sembra provenire dallo stesso studio, probabilmente ad opera di Luigi Mosello e Beppe Aleo. In più di un’occasione sembra che i cantanti abbiano registrato le parti dopo aver alzato il gomito al bar. Anche i dischi pop sono permeati di una strana atmosfera. Le pubblicazioni italo disco della Disco In purtroppo sono impossibili da trovare, io ne ho giusto un paio nella mia collezione. Lo stile delle copertine di gran parte delle uscite è stato di grande ispirazione per me. Alcuni dei pezzi che preferisco? “If You Want” di Laura Angel, “Don’t Set Me Free” di Riccelli, “Impero Di Sensi” di The Style ed ovviamente “Walking In The Night” di Giusy Dej che ho ripubblicato su Mothball. Infine, in quinta piazza, la Cruisin’ Records, che mi ha influenzato sensibilmente col suo sound divertente ed accattivante, e non nascondo di aver editato alcune tracce del catalogo inclusa “My Man” dei Cruisin’ Gang. Credo abbiano tratto alcune influenze dal rock n roll degli anni Cinquanta e ciò deve aver alimentato la mia attenzione visto che, come spiegavo all’inizio, sono cresciuto con quella musica. Non mancano uscite di media caratura o proprio deludenti ma di tanto in tanto esploro il catalogo attraverso Discogs trovando sempre qualcosa di interessante che mi era sfuggita. Alcuni dei miei preferiti sono “One Hit Parade” di Ennio Manuel And The Cruisin’ Gang, “Save The Fire” di Giusy Ravizza e “Don’t Believe In Love” di Tabù D’Apache. La lista delle etichette italo disco che potrei stilare però potrebbe essere ben più lunga e a tal proposito menzionerei la Full Time Records, la Fuzz Dance, la Eyes, l’Italian Records, Il Discotto, la Superradio Records e la City Record (di quest’ultima parliamo qui, nda).

CBS, 20 novembre 2003
Uno screenshot, risalente al 20 novembre 2003, del sito della web radio Cybernetic Broadcasting System, vera mecca degli appassionati di italo disco di tutto il mondo

Intorno agli ultimi anni Ottanta l’italo disco viene completamente chiusa nel dimenticatoio, non solo in Italia. Nessuno vuole più ascoltare quel sound nel momento in cui si prospettano intriganti novità come la new beat ma soprattutto la house e la techno. Dieci anni più tardi però cambia tutto. Attraverso l’azione congiunta di personaggi sparsi tra Paesi Bassi e Germania, come I-f, Alden Tyrell o DJ Hell, l’italo disco risorge dalle sue ceneri ma non come un trend temporaneo mosso da ascoltatori attempati come spesso accade nella musica, e il fatto che se ne parli e produca ancora adesso lo testimonia. Cosa pensi sulla resurrezione dell’italo disco, ora diventata un punto di riferimento persino per le giovani generazioni?
Per me i responsabili del ritorno di fiamma dell’italo disco sono stati I-f e i personaggi della sua radio CBS – Cybernetic Broadcasting System (oggi Intergalactic FM), artisti come Legowelt e DJ TLR, i frequentatori del forum Global Darkness e in parte Hell e la sua International DeeJay Gigolo. In quegli anni frequentavo la scuola d’arte ed utilizzavo la linea internet ad alta velocità dell’istituto per scaricare più facilmente i set mixati di CBS. Fu un momento particolarmente emozionante che vide un’esposizione improvvisa di musica “nuova” di cui mi innamorai immediatamente. Ho trascorso tanto tempo nel forum CBS, lì ho imparato moltissimo sul mondo del collezionismo italo. Fu proprio Cybernetic Broadcasting System a farmi conoscere Flemming Dalum (intervistato qui, nda) ed altri amici che mi avrebbero aiutato ed influenzato sensibilmente negli anni a seguire. L’italo disco gode di una rinnovata popolarità almeno da quindici anni a questa parte ma non credo possa accadere qualcosa di diverso rispetto a quanto sia capitato ad inizio Duemila. Ormai è stato sviscerato quasi tutto dagli archivi e non voglio sentire “Hypnotic Tango” di My Mine, “Take A Chance” di Mr. Flagio o “Spacer Woman” di Charlie almeno sino al 2030! (per approfondire sugli ultimi due si rimanda qui e qui, nda)

Quali sono le etichette che operano nel cosiddetto frangente “new italo” che a tuo parere stanno seminando bene?
Ne esistono davvero tantissime ma tra le più ammirevoli cito Bordello A Parigi, Freak Out Disko, I Venti d’Azzurro Records (e la sublabel I.D. Limited), Around My Dream Records, Flashback Records (e la sublabel Rebirth Records), Fresh Colour e la Disco Segreta.

I tuoi primi remix/edit appaiono sulla M Division Recordings intorno al 2008 tra cui “Iceman” de I Signori Della Galassia, band di cui parliamo qui, ed altri di pezzi italiani poco noti come quelli degli Strada e Chris Keane. In che modo hai scoperto simili rarità?
In quegli anni ero disoccupato e trascorrevo le mie giornate su internet alla ricerca spasmodica di italo disco oscura e scarsamente reperibile, provando a recuperare almeno i file MP3 (curiosamente adesso, a causa del coronavirus, mi ritrovo nuovamente senza lavoro e per impegnare il tempo ho ripreso proprio quel tipo di ricerche). Prima che YouTube fosse invaso da milioni di video di qualsiasi cosa, esistevano molti forum in cui chiedevi informazioni su un pezzo e qualche utente ti aiutava uploadando i relativi file. Conobbi quei pezzi in tale maniera. Rammento ancora l’eccitazione mentre effettuavo il download. Da lì a breve avrei ascoltato musica mai sentita prima, contrassegnata da nomi strani quanto esotici. Provavo una sensazione incredibile che oggi mi manca tantissimo.

Nel 2011 dai avvio alla carriera di produttore discografico come George Hysteric. Buona parte delle tue pubblicazioni, edita da etichette europee, è diventata materiale prezioso ed ambito per i collezionisti ma è basata su re-edit di vecchi brani, una pratica ormai diffusissima. Pensi sia legittimo appropriarsi di musica altrui, privandola peraltro dei crediti degli autori originali, spacciandola per propria?
Inizio col dire che non mi considero affatto un produttore, al massimo un artista del collage o qualcosa di simile. Quello dei re-edit è indubbiamente un campo minato. Nel mio caso, sono tutte cose che ho fatto per me, per i miei amici, per i miei set o semplicemente per divertimento. Non ho mai pensato di mettermi a fare re-edit con l’intenzione di incidere una hit e i risultati di alcuni mi hanno colto davvero di sorpresa, come ad esempio quello di “Amoureuse” di Anita (incluso in “Amour” su Violette Szabo, 2016, nda). Negli ultimi tempi ho inciso meno vinili preferendo rendere disponibile più roba su Soundcloud o Bandcamp, gratuitamente. Credo sia un approccio migliore. La cosa positiva di tutte queste pubblicazioni di re-edit comunque è che ora sono riuscito a mettermi al lavoro su una ristampa ufficiale della musica che più amo. Il disco inedito di cui vado maggiormente fiero è invece “Temple / Tranquil”, un 7″ edito da Magic Lantern nel 2018 in cui si può sentire il mio tocco personale.

Hot Girls Of Italo
“Hot Girls Of Italo Disco”, prima pubblicazione su 12″ della Mothball Record, raccoglie i brani di Patrizia Pellegrino e Daniela Poggi. La prima tiratura di colore rosa, risalente al 2013, è particolarmente ricercata dai collezionisti

Il 2011 è stato l’anno che ha visto pure nascere la tua etichetta, la Mothball Record (è un caso che inizi anch’essa per M o c’è forse una connessione con la M Division Recordings?). Il catalogo è pieno di gemme, dai mix di Flemming Dalum a ristampe di pezzi di artisti italiani come Manuel, Katia, Giusy Dej, Quinn Martin ma pure Deca, Raffaele Fiume, Ruins e R°A, senza dimenticare Patrizia Pellegrino e Daniela Poggi che qui sono più note per la loro carriera televisiva rispetto a quella musicale. Insomma, ci sono tutti gli estremi per considerare la Mothball Record una “etichetta di salvataggio”. La hai creata proprio con questa finalità?
La M Division Recordings di Melbourne, per cui ho realizzato solo qualche edit in formato digitale, è stata fondata dall’amico Jan M e non divide nulla quindi con la mia Mothball Record, nonostante la stessa iniziale che potrebbe far sorgere il dubbio. Ho scelto il nome Mothball (naftalina, nda) pensando a vecchi dischi chiusi nell’armadio per molti anni che finiscono con l’emanare lo stesso odore di datati vestiti stipati insieme alle palline bianche usate per tenere lontane tarme ed insetti. Nel 2011, quando realizzai il CD mixato “Italo City”, non pensavo a Mothball Record come un’etichetta vera e propria ma semplicemente come un progetto divertente seppur curato nei minimi dettagli. Con l’aiuto di Flemming Dalum ho fatto altri CD (“Italo Gemms”, “Lost Treasures Of Italo-Disco”, “Italo Estate”) per poi finalmente stampare, nel 2013, il primo disco su vinile rosa con un doppio poster incluso, “Hot Girls Of Italo Disco”, coi brani di Patrizia Pellegrino e Daniela Poggi. Per certi versi è stato un grande successo ma nel contempo un disastro economico poiché molte copie sono state distrutte dal sole in seguito ad un imprevisto. Tuttavia è stato più che utile mettere in circolazione un disco di debutto in grado di attrarre così tanta attenzione. Ho diverse nuove uscite pronte per essere stampate ma sto attendendo che le cose tornino alla normalità dopo l’emergenza sanitaria che ha letteralmente scombussolato i piani.

Hysteric 1
George Hysteric e parte della sua collezione di dischi

Sei anche un collezionista: quanti dischi possiedi? In che modo ti procuri vecchi 12″ e 7″ italiani? Discogs, eBay o mercatini dell’usato?
Ho cominciato a raccogliere dischi nei primi anni dell’adolescenza. Non era proprio un’attività collezionistica a tutti gli effetti ma trascorrevo i fine settimana nei negozi rapito dalle copertine. Credo di essere giunto ormai alla soglia dei diecimila dischi ma non mi sono mai preso la briga di contarli. In passato ho speso cifre folli ma ora non più, preferisco materiale economico ma intrigante e che soddisfi ugualmente i miei gusti. Gran parte degli acquisti la ho fatta attraverso Discogs. Su eBay è più facile imbattersi in prezzi più bassi ma nel contempo faccio fatica ad ammortizzare i costi di spedizione. È possibile trovare vinili italo disco in Australia ma nella maggior parte dei casi si tratta di materiale ordinato oltreoceano da collezionisti che ora intendono vendere a prezzi piuttosto alti.

Su Discogs sei particolarmente attivo anche come recensore: come si può vedere qui, hai scritto oltre quattrocento commenti. Pensi che la piattaforma ideata da Kevin Lewandowski sia la migliore per connettere gli appassionati di musica di tutto il mondo?
Senza ombra di dubbio Discogs rappresenta il posto ideale per scoprire musica ma forse non per mettere in comunicazione gli utenti. Sotto questo aspetto credo che Facebook sia più indicato. Trovo che l’approccio a Discogs di alcune persone sia piuttosto negativo. Ho il compito di moderare il gruppo Italo-Disco e a volte è davvero difficile. Bisognerebbe ricordarsi che questo è un hobby e che lo facciamo tutti per divertirci. Su Discogs, inoltre, non mancano gli “squali” che alzano sensibilmente il prezzo del disco, anche di cinque volte quando si accorgono che c’è gente interessata. Questo però non avviene solo nell’ambito dell’italo disco. Da un lato c’è chi vende i propri dischi ricavandone sino all’ultimo centesimo del loro valore, dall’altro collezionisti con copie immacolate ed ancora incellofanate riposte sugli scaffali. Rispetto ad essi mi vedo in una posizione mediana. Sento una sorta di responsabilità nel preservare certa musica ma nel contempo amo suonarla dai dischi.

Occasionalmente lavori come DJ. Hai mai suonato in una discoteca italiana?
Sono stato in Italia in più di un’occasione, amo l’arte, il cibo, la gente e la cultura del posto, oltre alla musica ovviamente. Ho visitato Roma, Firenze e Venezia. Purtroppo ho avuto modo di suonare solo una volta, con Otto Kraanen di Bordello A Parigi. Fu un party bellissimo in un club sulla spiaggia di Pescara. Spero di poter tornare a suonare nuovamente in Italia in un futuro non lontano.

Qual è la tua top five?
È davvero difficile rispondere. Le cinque tracce che seguono rappresentano solo la punta di un iceberg composto da almeno duecentocinquanta pezzi italo che considero essenziali.

Bagarre - LemonsweetBagarre – Lemonsweet (VIP, 1982)
Uno dei primi dischi italo il cui possesso mi ha praticamente ossessionato. Ero arrivato a sognare di trovarlo in strani ed inesistenti negozi di antiquariato. Alla fine uscii di casa per un appuntamento e trovai una scusa per andarmene in un net cafè da dove feci un’offerta ad un’asta in corso su eBay. “Lemonsweet” è una traccia pazzesca dalle tinte psichedeliche che non mi stancherò mai di sentire. Consiglio di ascoltare anche gli altri pezzi del repertorio dei Bagarre.

Camomilla - Queen Of The NightCamomilla – Queen Of The Night (Magnum, 1985)
Quando ho iniziato a fare il DJ collezionavo soprattutto dischi techno di etichette come R&S, Drumcode, Tresor ed Axis. Circa sette anni fa ebbi la possibilità di vendere molti di quei dischi per un dollaro l’uno e poiché avevo necessità di spazio, non ho esitato. Il giorno dopo ho speso tutto quello che avevo guadagnato per accaparrarmi una copia di “Queen Of The Night”. Non nascondo di avere qualche rimpianto perché alcuni di quei dischi techno adesso valgono molto denaro ma se potessi tornare indietro probabilmente rifarei tutto.

City-O' - Rose Of TokyoCity-O’ – Rose Of Tokyo (Discomagic Records, 1984)
Uno dei primi dischi appartenenti al “santo graal” dell’italo che ho acquistato attraverso il vecchio ed indimenticato forum di Cybernatic Broadcasting System. La TR-808 suona potentissima e ci sono momenti in cui sembra prendere il sopravvento sull’intero pezzo. Mi piace anche perché il testo gira su un significato profondo e non sulle solite amenità legate alla vita notturna e al banale romanticismo: si parla infatti di Tokyo Rose, nome con cui le truppe alleate indicarono, durante la Seconda Guerra Mondiale, le presentatrici radiofoniche capitanate dalla ormai compianta Iva Toguri D’Aquino che propagandavano il disfattismo attraverso Radio Tokyo. Il pezzo ha acceso il mio interesse per i temi asiatici affrontati nell’italo disco a cui ho dedicato una lista su Discogs consultabile qui.

Daniela Poggi - Cielo Break-UpDaniela Poggi – Cielo / Break-Up (Polydor, 1985)
Un disco che reputo importante per varie ragioni. Innanzitutto credo abbia segnato una sorta di punto di congiunzione tra la prima ondata italo (“Penguins’ Invasion” degli Scotch, “Catch” di Sun-La-Shan e “Robot Is Systematic” di ‘Lectric Workers, giusto per citarne alcune) e la seconda, contraddistinta da pezzi diventati più noti. “Cielo” e la versione in inglese chiamata “Break Up”, inoltre, ha dato una forte spinta a DJ e collezionisti a rovistare nel materiale ormai dimenticato (primariamente 7″ e compilation) col fine di trovare tracce nuove ed intriganti. Daniela Poggi (intervistata qui, nda) è conosciuta primariamente come modella ed attrice ma non per la breve carriera musicale, pertanto i suoi dischi sono piuttosto sconosciuti dal grande pubblico. A “Break-Up”, infine, sono particolarmente legato perché ha rappresentato la prima uscita su vinile di Mothball che peraltro includeva un mio edit.

Mya & The Mirror - HesitationMya & The Mirror – Hesitation (Fuzz Dance, 1984)
È il primo disco che ho ordinato attraverso Discogs, oltre undici anni fa. Ai tempi mi sembrò un sogno poterlo comprare e stringerlo tra le mani dopo tre settimane, fui completamente rapito dall’emozione. Si tratta di uno dei tanti favolosi pezzi prodotti da Maurizio Dami alias Alexander Robotnick e pubblicati dalla Fuzz Dance. Adoro la combinazione perfetta tra la new wave e l’italo disco scaturita da “Hesitation”. C’è chi odia i sassofoni nell’italo ma credo che qui siano perfetti. Ascoltare questo pezzo mi fa tornare immediatamente alla memoria un fantastico film newyorkese, “Liquid Sky”.

Come vorresti che fosse l’italo disco delle prossime decadi?
Giunti a questo punto è diventato piuttosto difficile prevedere quale sarà l’impatto finale del Covid-19 sulle discoteche e, di conseguenza, sulla musica dance. Da ciò dipenderà anche quanto la gente sarà disposta a spendere per serate nei club e per dischi. A differenza della techno però, la scena italo non è particolarmente legata alle attività sociali anzi, in alcuni casi offre una prospettiva esattamente opposta. Personalmente sento l’assenza di un lato più strano, “nerdy” oserei dire in mancanza di un termine migliore, che riesca a dare una personalità più viva all’italo disco. Intendo tracce più stravaganti, meno prevedibili, create con un’estetica fai da te ed altro ancora che possa elevare e differenziare il prodotto dalla serialità degli ormai tantissimi in circolazione. Su Instagram tutto ciò che è taggato come #italodisco rivela come e quanto il termine venga applicato a sproposito. C’è davvero un mucchio di lavoro da fare per educare il pubblico su questo incredibile genere, purtroppo elaborato in modo assai approssimativo dal mainstream.

C’è qualcosa che vorresti aggiungere per concludere?
Ringrazio tutti gli amici che mi hanno aiutato durante questi anni, per le serate, per l’etichetta e per tutto ciò di cui mi occupo e che mi piace fare. Non faccio i nomi solo perché sarebbero troppi e non vorrei dimenticarne qualcuno.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Bottin

Bottin nel suo studio. Tra i 7″ che stringe tra le mani si scorge quello di “Musica Spaziale” di Patrizia Pellegrino (CGD, 1982) diventato un cult per i collezionisti – foto di Enrico Gandolfi


Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?

Escludendo la musica per bambini, il primo è stato “Arena” dei Duran Duran. È uscito nel 1984 quindi avrò avuto sette-otto anni. Ricordo di averlo visto in vetrina in uno storico negozio di Padova, il Ventritré Dischi, piuttosto noto per il grande assortimento ed i prezzi sempre scontati. Il gestore, Maurizio Boldrin, è batterista della scena Bacchiglione Beat (il Bacchiglione è un fiume nel padovano e l’espressione faceva il verso al Mersey Beat di Liverpool). Chiaramente queste sono storie che ho scoperto più tardi, da adolescente, quando ho continuato a frequentare il negozio negli anni Novanta per comprare jazz, acid jazz ed hip hop, in particolare il filone dei De La Soul e Digable Planets. Fu proprio grazie ai campionamenti dell’hip hop che entrai in contatto con la musica degli anni Settanta. Sono nato nel 1977, troppo tardi per aver vissuto direttamente l’epoca degli Steely Dan e degli Earth, Wind & Fire.

L’ultimo invece?
Da tempo non compro più dischi nuovi. Gli ultimi sono stati l’LP degli Zement, un gruppo krautrock tedesco che ho sentito in un locale a Berlino e che mi ricordava i migliori Neu!, e la compilation “Witchcraft & Black Magic In The United Kingdom”, edita dalla Eighth Tower Records. Continuo però a comprare parecchi dischi vecchi, su Discogs, eBay e, più volentieri, ai mercatini. Non frequento negozi di dischi (a Venezia non ce ne sono quasi più) né fiere. Lo facevo tempo fa ma, tra confusione ed entusiasmo, spesso finivo per comprare tante cose di cui avrei potuto fare a meno.

Quanti dischi conta la tua raccolta?
Non sono un collezionista. Inizialmente ho visto i dischi come meri “strumenti di lavoro” per le serate da DJ ma anche e soprattutto per registrare campionamenti. Dischi perché molte cose in digitale e su CD non si trovavano ed ancora oggi parecchie sono di difficile reperimento, ma vale per tutti i supporti fisici come per i file. Rispetto a molti DJ non ho molti dischi e in confronto ai collezionisti ne ho davvero pochi, circa duemila. Non saprei dire però quanto mi siano costati. Alcuni mi sono stati regalati da amici ed ex DJ, parecchi li ho presi a mercatini e negozi non specializzati quindi per pochi spiccioli. Altri ancora li ho pagati a prezzo pieno (se non gonfiato) a fiere del disco o su internet. Controllando su Discogs, risulta che il valore mediano della mia raccolta sia di circa otto euro al pezzo. Mi sembra tanto, rispetto ai miei ricordi di acquisto. Ho sempre cercato di trattare i dischi come una partita di giro, rivendendo i titoli appena un po’ costosi. Se scopro di avere un disco che vale più di trenta/quaranta euro lo metto volentieri in vendita per comprarne quattro o cinque nuovi. Non mi sono mai affezionato troppo ai dischi, come oggetti in sé non hanno mai esercitato un grande fascino su di me. Banalmente mi interessa la musica che contengono anche se anch’io sono legato a certi artwork. Ma quella è grafica, fotografia, e il suo habitat principale è la carta. La musica invece esiste davvero solo nell’aria, quella sugli scaffali o negli archivi digitali è merce. Bella anche, ma di tutt’altra natura dalla musica.

Bottin 2
Uno sguardo sulla raccolta di dischi di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Usi un metodo per ordinarla ed indicizzarla?
Ho un inventario aggiornato tramite Discogs. Mi piace poter ritrovare un disco a colpo sicuro e senza perdere troppo tempo. Questo è importante soprattutto per registrare un campionamento al volo durante una produzione: se ci metto troppo a trovarlo rischio quasi di dimenticarmi cosa stavo cercando. Comunque, nonostante l’organizzazione, capita lo stesso di perdermi e finire per ascoltare tutt’altro. Ho un unico grande scaffale così diviso: le mie produzioni nella prima fila in alto (la più scomoda da raggiungere) e sotto, nella parte centrale, ho tutta la disco music e il funk (fino al 1980-81 circa) in ordine alfabetico per artista. Poi la musica dance anni Ottanta, separata tra produzioni italiane ed estere. C’è quindi una piccola sezione compilation e dischi con brani di più autori, ambient, library, re-edit e una manciata di titoli techno ed house anni Novanta. Poi il pop italiano ed estero e i promo che mi sono stati regalati da artisti ed etichette. In basso, infine, ho due cassette da latteria in cui tengo i 7″ e poi altre due coi dischi non ancora ordinati o di scarso gradimento da cui però talvolta spuntano delle sorprese. Anche il gusto personale cambia col tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione? Esegui lavaggi periodici ed utilizzi copertine plastificate per scongiurare problemi di umidità?
Quasi nulla di tutto ciò. Utilizzo qualche busta trasparente per alcuni 12″ ma spesso le trovo già al momento dell’acquisto. Certi 7″ li tengo in bustine di cartoncino, separati dalla copertine perché quest’ultime tendono a strapparsi. Ho pochissime esperienze di lavaggio e tutte molto artigianali, senza prodotti speciali, giusto per togliere un po’ di sporco prima di passare qualcosa in digitale. Ripeto: non sono un collezionista e non ho passione per la conservazione maniacale. Ci sono persone molto competenti su questi aspetti che non approverebbero le mie pratiche.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Sono stato fortunato nel periodo in cui giravo il mondo con la borsa dei dischi, mai uno smarrimento aeroportuale, mai un furto. L’episodio che si avvicina di più ad una perdita avvenne in occasione di una serata al Club To Club di Torino. Il driver lasciò l’auto in divieto di sosta nei pressi del ristorante e alla fine della cena ci accorgemmo che era passato il carro attrezzi portandosi via la macchina e i miei dischi. Per fortuna fu possibile rintracciare il deposito e farci dare le cose in tempo per la serata. Da quella volta, anche se ormai suono quasi sempre da hard disk o USB, porto sempre con me, oltre a un drive di emergenza, anche due CD con l’indispensabile per fare comunque un DJ set di due ore. Non si sa mai.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno in particolare, non essendo un collezionista né amante della merce e della “roba”, nel senso verghiano della parola. Capita che certi collezionisti mi chiedano di poter comprare qualche disco. Vengono in studio e lascio loro spulciare liberamente nel mio materiale, sono disposto a liberarmi di qualsiasi titolo. È accaduto per esempio con l’amico Lorenzo Sannino di Napoli Segreta che si è portato a casa alcuni dei miei dischi preferiti in assoluto, ma sono stato contento perché sono finiti in buone mani e in fondo io li avevo già ascoltati a sufficienza. La cosa che mi piace di più dei dischi è che, oltre a girare sul piatto, girano anche il mondo, passando di mano in mano. È questa la loro forza, sopportare viaggi, traslochi e resistere nel tempo, anche se abbandonati in una cantina. Prima o poi qualcuno li riscopre e ricomincia la passione anche per generi o artisti minori ormai dati per dispersi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessun gran pentimento. Se un disco non mi piace lo metto nella scatola degli “indesiderati” e non ci penso più.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Quelli che vorrei avere ormai sono quasi tutti a portata di Discogs. Se qualcuno dovesse diventare davvero irrinunciabile lo comprerò a prezzo di mercato.

Bottin 3
Bottin con “One Black Dot” dei Mothmen (1982) – foto di Enrico Gandolfi

Quello con la copertina più bella?
Nella mia lista c’è una sola sottocategoria, quella dei keepers. Sono poco meno di duecento titoli che vorrei tenermi anche se riuscissi a vendere tutto il resto della mia raccolta (se qualcuno fosse interessato si faccia avanti, l’idea di alleggerirmi è sempre presente). Tra questi keepers, molti hanno una copertina particolare come ad esempio “One Black Dot” dei Mothmen.

Quello che non venderesti per nessuna ragione?
Non cederò mai, neppure sotto la minaccia delle armi, il 7″ degli Avida, “A Fumme Mariuà / La Bustina” (1982) perché me l’ha donato l’autore, il caro amico Maurizio Dami aka Alexander Robotnick.

Nutri una particolare attenzione per i 7″, molti dei quali legati a sigle televisive. Da cosa nasce tale interesse?
Quella per i 7″ è una mezza passione sbocciata negli ultimi anni. Quando capito in un negozio o in un mercatino ormai guardo solo i 45 giri. Trovo siano bistrattati sia dai DJ, sia dai collezionisti (a parte ovviamente gli amanti del reggae). Proprio per questo motivo si possono scoprire ancora tesori in materia di funk, disco e colonne sonore. Molte sigle televisive, ad esempio, sono uscite solo in quel formato. Avviene inoltre che alcune buone stampe su 7″ suonino meglio degli LP, specie se nell’album il brano interessato è tra gli ultimi della facciata. In generale lo trovo un formato comodo e leggero. Mi è capitato di fare dei set a feste di amici solo con 7″ usando come flight case le scatole di latta dei Baicoli, i celebri biscottini veneziani.

i 45 giri di Bottin
Alcuni dei 7″ di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Da ascoltatore a compositore: c’è stato qualcosa o qualcuno a spingerti all’attività in studio di registrazione?
Ho iniziato a produrre musica all’inizio degli anni Novanta, con un Amiga della Commodore. A quattordici anni ero parte della demo scene dell’epoca, una faccenda tutta nerd, animata da sparuti gruppi di programmatori, grafici e musicisti. Ci scambiavamo i rispettivi lavori per posta, inviando e ricevendo floppy disc da tutta Europa. Filippo De Fassi, attuale titolare di Phonopress, condivideva la stessa passione. In quegli anni da lui ho imparato parecchie cose sulla musica in generale. Si usava un software chiamato Soundtracker che gestiva quattro tracce mono su cui si programmavano pattern di brevi campioni a sedici bit. Poi sono passato alle band di funk/acid jazz in cui suonavo le tastiere. Intorno al 1997-1998 ho cominciato ad usare Cubase e a frequentare lo studio di un amico, Alberto Roveroni, e lì ho realizzato le primissime produzioni poi distribuite su CD e cassetta.

Credo che una delle tue primissime pubblicazioni sia stata “Chill Reception” di Bluecat, album pubblicato dalla bolognese Irma nel 2001.
Bluecat fu interamente realizzato con un sintetizzatore Kurzweil K2000 ed un campionatore Akai S2000. Le mie prime produzioni erano una specie di drum’n’bass, jungle e trip hop sopra cui suonavo la tromba con la sordina. Un paio di quei brani sono finiti nel citato LP per la Irma. Prima di quello avevo prodotto, sempre per Irma, alcune tracce di cocktail music. Un altro mio mentore è stato (ed è tuttora) Bob Benozzo, fu lui a consigliarmi sin dall’inizio l’uso di alcuni strumenti e software. Ancora oggi mi aiuta nei mixaggi che non mi fido a chiudere da solo. Sono molto contento di sapere che molti tra i giovani musicisti che ho conosciuto da ragazzino stiano lavorando con la musica ancora oggi, ognuno a suo modo e senza aver avuto particolari agganci e facilitazioni. Penso di essere stato fortunato a conoscere e ad imparare da persone diventate poi dei bravi professionisti. Non vengo da una famiglia musicale e, fatta eccezione per qualche anno di pianoforte, i miei maestri sono stati i dischi e questi amici.

Bottin - I Love Me Vol. 1
La copertina di”I Love Me Vol. 1″, del 2004

Nel 2004 esce “I Love Me Vol. 1” che, tra le altre cose, contiene un remake di “Lunedì Cinema” degli Stadio & Lucio Dalla ricantata da quest’ultimo, con cui peraltro collabori per portare in scena l’opera teatrale “Speak Truth To Power: Voices From Beyond The Dark” come spiegato qui. A quel Vol. 1 però non darai mai seguito, tornando discograficamente operativo solo nel 2009 con l’album “Horror Disco”. Come mai per cinque anni non incidesti più nulla?
“I Love Me Vol. 1” fu il primo di una lunga serie di tentativi (più o meno falliti) di emancipazione dalle etichette discografiche. Fu autoprodotto da me con Irma e Sony limitati al ruolo di distributori. La distribuzione fu infatti capillare ma sostanzialmente sbagliata: finì in tutti i negozi ma nella sezione di rock estero, in ordine alfabetico tra Bon Jovi e David Bowie. Temo di averne ancora uno scatolone nel garage dei miei genitori. Iniziai a lavorare con Lucio Dalla già un paio d’anni prima. Per un grande concerto in occasione dell’anniversario di Tazio Nuvolari riarrangiai l’intero album “Automobili” di Dalla/Roversi, mettendo insieme una band “futurista” di ben dieci elementi (tra cui B C Manjunath alle percussioni indiane, il turntablist Rock Drive e il videomaker Francesco Meneghini) che rimaneggiavano dal vivo materiali audio e video d’epoca concessi da Istituto Luce. Con Dalla sono diventato amico quasi subito ed ho continuato a collaborare su progetti speciali e produzioni teatrali. In quei cinque anni prima di “Horror Disco” in realtà ho realizzato un album uscito successivamente, quello di Tinpong con la vocalist Joy ‘Oy’ Frempong. Anche un remix per Donatella Rettore, poi diventato sigla di MTV Italia, oltre a tanti lavori di sound design, pubblicità ed installazioni. Bene o male, è stato un periodo in cui ero sempre in studio anche se non come artista in prima persona.

Bottin - Horror Disco
La copertina di “Horror Disco” (Bear Funk, 2009)

Come nacque, invece, “Horror Disco”?
Inizialmente “Horror Disco” doveva essere un’etichetta. Avevo realizzato parecchi brani in bilico tra disco music e colonne sonore. Stevie Kotey, il DJ dei Chicken Lips a cui mandai due CD pieni di quel materiale, pensò che Horror Disco potesse diventare una sublabel della sua Bear Funk. Era un’idea relativamente nuova all’epoca, antecedente e forse anche ispiratrice delle varie Giallo Disco, Voodoo, Discorror, etc. Poi il progetto fu (giustamente) ridimensionato a due EP su 12″ e ad un album su CD e doppio LP. Al momento della release ero già entrato come producer nella scena space disco col singolo “Fondamente Nove” per Eskimo Recordings e soprattutto con “No Static” su Italians Do It Better a cui devo l’inizio della mia esperienza come DJ internazionale.

Fatte poche eccezioni, la tua discografia è cresciuta attraverso etichette estere, dalle britanniche Bear Funk, Z Records e Nang alle statunitensi Italians Do It Better, 2MR e Chit Chat Records passando per la belga Eskimo Recordings e l’olandese Bordello A Parigi. Caso fortuito o scelta intenzionale?
All’epoca in Italia non c’erano label disposte a pubblicare quei generi e a dire il vero anche oggi ce ne sono poche. Mandavo i miei brani a quelle che mi sembravano potessero essere ricettive e che già stampavano dischi che mi appassionavano. Un paio mi hanno risposto e pubblicato. Su Eskimo Recordings in quel momento usciva il materiale di Lindstrøm & Prins Thomas che mi piacevano, Italians Do It Better invece aveva un’estetica visiva che mi sembrava compatibile al mio immaginario. Nessuna scelta esterofila quindi, non ho mai creduto molto ai confini ed alle identità nazionali, con qualche piccola eccezione. Mi sembra una specie di astrologia: siccome si è nati sotto una costellazione o sopra un territorio nazionale, allora si dovrebbero avere un’identità e un destino con caratteristiche predefinite? Non ne sono affatto convinto.

L’italo disco è uno dei tuoi generi di riferimento. Bistrattata e in alcuni casi persino rinnegata da chi la produsse, è tornata in vita una ventina di anni fa ma su iniziativa di DJ, collezionisti ed appassionati esteri, soprattutto nordeuropei. Perché, secondo te, i primi a non accorgersi del valore e della portata rivoluzionaria di certi pezzi sono paradossalmente proprio gli italiani? Banale esterofilia che ci affligge da tempo immemore?
Secondo me l’italo disco non è propriamente un genere musicale ma include tutta la musica dance prodotta in Italia tra il 1977 e il 1987 circa. Dentro c’è di tutto, i Tantra, i Change, Rago & Farina, Alexander Robotnick, Baltimora, Tipinifini, Albert One, Raf e Raffaella Carrà. Un mondo vastissimo fatto di tante musiche quasi tutte di matrice pop ma parecchio eterogenee. Quanto all’esterofilia, certamente è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. A causa dell’esterofilia molti artisti italiani non fanno tante serate in patria giacché è più cool mettere in cartellone artisti di provenienza estera. Sempre per esterofilia, alcuni italiani girano il mondo perché appare cool (o almeno così pareva) per i non-italiani chiamare un DJ italiano, anche se magari è meno bravo di alcuni resident del posto. Sto esagerando, chiaramente è anche la musica che si produce ad attecchire in certi contesti più che in altri. In Italia, nella musica da ballo, siamo quasi sempre stati al seguito di stili che avevano già avuto successo altrove, ma alcune produzioni italiane si spingevano oltre l’imitazione assumendo una propria identità e in qualche caso riuscendo ad imporsi all’estero come “suono italiano”. Tutta l’italo disco nasce come scimmiottamento di musica dance anglosassone. Ora, magari, certi anglosassoni scimmiottano l’italo disco. Questi cicli di influenze reciproche sono perfettamente normali, appartengono a quell’accumulo di strati di cui è fatta ogni cultura.

Cristalli Liquidi
Buona parte della discografia di Cristalli Liquidi

Nel 2010 crei Artifact, piccola etichetta che si fa notare coi dischi di Cristalli Liquidi accompagnati da ironiche parodie grafiche che rimandano ad un’industria ormai scomparsa e quasi del tutto dimenticata (Discomagic, Numero Uno, Discotto). Quali ragioni ti hanno spinto all’autoproduzione piuttosto che ad affidarti ad altre label?
Come accennavo prima, ogni tanto cerco di emanciparmi dalle label. A volte va piuttosto male, altre invece meglio come con Cristalli Liquidi. Doveva essere un progetto di un solo singolo, “Volevi Una Hit”, autoprodotto perché nessuno intendeva pubblicarlo, nemmeno la Italians Do It Better che temeva problemi con gli LCD Soundsystem a cui il brano è largamente ispirato visto che nasce come cover di “You Wanted A Hit” anche se poi tanto cover non è, ha una sua identità, un suo ritornello e un testo che esulano dall’originale. Ricevuta l’approvazione direttamente da James Murphy, l’ho pubblicato senza indugi. Artifact però non è proprio la mia label e non è nemmeno un’etichetta vera. Più che altro è un accordo di P&D (press & distribution) stretto con un broker olandese. Serve a pubblicare Cristalli Liquidi, i miei re-edit e ultimamente anche brani a mio nome. Forse, in un vicino futuro, anche pezzi di altri artisti. Per questi motivi non la considero un’etichetta, non ha un’identità né tantomeno un’immagine. È solo un modo di uscire sul piccolo mercato della distribuzione fisica di dischi.

Ad Artifact si affianca, nel 2012, pure una seconda “etichetta”, la Tin. Corrono sostanziali differenze tra le due?
Nessuna. Tin è stata semplicemente una serie di 12″ monofacciata coloratissimi con le versioni estese dei singoli dell’album “Punica Fides”. Pure in questo caso parlerei di un tentativo di emancipazione, in parte riuscito ma poi rientrato con la successiva pubblicazione del citato album su Bear Funk. Ora Tin è sostanzialmente inattiva ma resta Artifact.

Ormai le tirature dei 12″ destinati al DJing si sono assottigliate sino a raggiungere la media delle appena trecento copie, soglia risibile se confrontata a quelle dei decenni pre-millennio. Insomma, oggi incidere dischi è tutto fuorché economicamente incentivante e redditizio, gli introiti devono essere recuperati da altri ambiti connessi come le sincronizzazioni (cinema, tv), lo streaming e il download (può essere preso in considerazione sotto una certa soglia?) ed intrattenimento che però, al momento, è messo fuori gioco dal coronavirus. Ritieni che tutto ciò, per chi ha vissuto l’epoca in cui i limiti tecnologici relegavano la musica alla tattilità, abbia logorato la creatività? Per un artista è demoralizzante sapere di non poter più contare su un pubblico disposto a spendere del denaro per acquistare la sua musica?
Un po’ lo è ma contemporaneamente l’abbassamento qualitativo delle produzioni fa sì che ci voglia poco a produrre dischi appena migliori della media, avendone le capacità. Certo, bisogna essere un po’ musicisti, saper scrivere delle linee di basso interessanti, delle melodie anche minime ma comunque efficaci, non basta assemblare loop ed attivare arpeggiatori software. È altrettanto possibile fare buoni lavori di puro sampling o re-editing estremo e creativo. Visti gli introiti minimi di streaming e download, oggi si distribuiscono tanti re-edit e si usano campionamenti in modo piuttosto disinvolto, a volte fin troppo. Quanto al mercato dello streaming, non bisogna dimenticare che si tratta di un’industria sostenuta in buona parte dai grandi dischi registrati nel passato. Con l’economia discografica attuale sarebbe letteralmente impossibile produrre e promuovere musica così come si faceva una volta contando sui volumi di vendita dell’epoca. Inoltre la musica liquida dei servizi di streaming non è posseduta da chi la ascolta e nemmeno da chi paga un abbonamento. Se un giorno le piattaforme dovessero chiudere battenti o andare offline, gli utenti perderebbero tutta la loro raccolta di brani, album e playlist. Cadrebbe il silenzio. Invece i dischi e i CD che si possiedono restano, anche nel futuro per figli, nipoti, pronipoti o per chi li potrà ritrovare in un negozio dell’usato.

Che futuro prevedi per la musica incisa su supporto fisico? Per quanto tempo il disco in vinile potrà continuare ad alimentare l’interesse degli appassionati?
Penso durerà quasi per sempre, magari in quantità ulteriormente ridotte. Oggi c’è perfino un piccolo mercato di stampe per dischi a 78 giri destinati al grammofono. La forza del disco, come dicevo prima, è offerta dalla resistenza a lunghi transiti nello spazio e nel tempo. Un disco passa di mano in mano, di generazione in generazione e, anche se per qualche anno finisce abbandonato, prima o poi viene riscoperto da qualcuno, recuperato in un mercatino, poi recensito ed incensato, suonato anche decine di anni dopo essere stato prodotto. Un disco può avere tante vite e questo coi file, per ora, non succede o comunque accade molto meno. Un artista dovrebbe avere l’obiettivo di essere ascoltato ancora tra mille anni e non solo di entrare nella playlist della settimana o nella chat del selector di moda. Un produttore sa intimamente sa se ha fatto un bello o cattivo lavoro, se ha copiato una formula o se ha aggiunto almeno qualche ingrediente personale, questo al di là del successo o dell’insuccesso ottenuto. Poi è chiaro che bisogna anche cercare di vivere con la musica e questo richiede dei compromessi, degli adattamenti, un allineamento con lo spirito dei tempi. Ma le necessità, per così dire, “alimentari” non dovrebbero mai dettare tutta la linea, a maggior ragione se un disco si pubblica ormai in appena trecento copie. Perché scendere a compromessi col mercato per quantità così basse? Eppure escono ancora tanti dischi tutti uguali. Il disco, bello o brutto, originale o banale, continua a farsi perché gli artisti continuano a volerlo, accollandosi sempre più spesso le spese di produzione e di stampa. Alcune etichette ormai chiedono all’artista di partecipare ai costi, del resto avviene da tempo per le case editrici e per le mostre d’arte di seconda categoria. Poi ci sono label che campano quasi esclusivamente di ristampe più o meno legali di dischi desiderabili (magari perché rari) che hanno un potenziale di acquirenti già assodato. Quelle sono operazioni di mercato che da un lato rispetto perché proteggono dall’oblio certi titoli e li rendono di più facile reperimento, dall’altro però non si può ignorare che ogni ristampa venduta è un disco di musica nuova invenduto e magari nemmeno distribuito. Vale anche per i re-edit, genere che frequento attivamente, pur conscio di quanto sia in diretta concorrenza con le produzioni originali. Ed è una concorrenza un po’ sleale, almeno artisticamente, però gli edit vendono facilmente e con quelli magari ci si fa conoscere prima di uscire con un disco “vero” o si finanza la stampa di un disco più difficile da smerciare.

Tra i tuoi collaboratori più ricorrenti ci sono Maurizio Dami, Roberto ‘Bob’ Benozzo (intervistati rispettivamente qui e qui) e Rodion ma val la pena ricordare anche gli interventi vocali dell’indimenticato Douglas Meakin in “Disco For The Devil” (da “Horror Disco”) e di Lavinia Claws. Ci sono artisti del presente o del passato con cui ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto condividere l’attività in studio?
Con Robotnick la collaborazione nasce dall’amicizia, con Rodion ho realizzato diverse produzioni in passato ma poi ci siamo persi quando si è trasferito all’estero. Mi piacerebbe lavorare ancora con lui, ci siamo sempre divertiti facendo cose che ritengo belle. Ho collaborato pure con Francesco De Bellis (Francisco, L.U.C.A.) per “BFR (Space)” e “Zombie Erotic”, e proprio in queste settimane stiamo ultimando due nuovi brani. Da poco ho coprodotto un EP con Fabrizio Mammarella ed ho registrato una canzone in italiano con Debora Petrina. C’è inoltre un nuovo progetto personale che uscirà presto sotto uno pseudonimo. Non ho molti sogni nel cassetto, forse perché ho sempre avuto tante cose in cantiere. Mi è anche capitato di incontrare alcuni di quelli che erano stati i miei miti musicali ma che, senza fare nomi, in alcuni casi si sono rivelati mezze delusioni. Forse avevano perso lo smalto di un tempo oppure li avevo idealizzati troppo. Certi dischi, soprattutto quelli del passato, non sono il frutto di una sola persona ma il risultato di una squadra fatta di tanti talenti, magari passati in secondo piano.

Ragazza Madre EP
“Ragazza / Madre” è l’EP più recente di Cristalli Liquidi. Appena quaranta le copie del 10″ pubblicato da Industrie Discografiche Lacerba

In questa intervista di Fabio De Luca, pubblicata da Rockit il 17 gennaio 2018, sveli molte curiosità su una delle tue “creature” meglio riuscite, Cristalli Liquidi. Pochi mesi fa la tua “band/non band” è tornata con “Ragazza / Madre”, un EP pubblicato questa volta in CD dalla fiorentina Industrie Discografiche Lacerba, di cui esiste una limitatissima tiratura di appena 40 (!) copie in formato 10″. Puoi raccontare, anche dettagliatamente, il contenuto?
Cristalli Liquidi è un progetto strano, per certi versi imprevisto. Come raccontavo prima, doveva essere un unico disco, misterioso ed anonimo, poi sono diventati due, tre, quattro ed addirittura un album con alcuni brani scritti e prodotti insieme a Robotnick ed altri nati in collaborazione coi Polosid. Fino ad allora ero rimasto dietro le quinte. Poi con “Tubinga” (rivisitazione dell’omonimo di Lucio Battisti, dall’album “Hegel”) mi sono “rivelato” in un video performativo, un unico take realizzato con la performer Laura Pante e la fotografia di Giovanni Andreotta. Si è tenuto anche un piccolo tour in cui mi sono esibito come cantante (non l’avrei mai immaginato di farlo!) accompagnato alla batteria dall’amico Frank Agrario. È successo tutto così, senza progettarlo. Potrebbe essere già finito oppure ricominciare. Da qualche tempo collaboro con Lapo Belmestieri di Lacerba, è un grafico di pregio e cura bene ogni cosa. Così è nato “Ragazza/Madre” che vuole essere la conclusione della liason col repertorio di Lucio Battisti e Pasquale Panella. La scelta di fare quaranta copie su vinile 10″ è di Lacerba, ma esiste anche il digitale.

Estrai dalla tua raccolta dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Marisa Interligi - Occhio Di SerpenteMarisa Interligi – Occhio Di Serpente
Malcelata cover o un mezzo plagio ai danni degli Earth, Wind &Fire? Comprai il 7″, edito dalla Arc nel 1982, ad un mercatino senza sapere a cosa sarei andato
incontro.

Riz Ortolani - Quei Giorni Insieme A TeRiz Ortolani – Quei Giorni Insieme A Te
Un pezzo tratto dalla colonna sonora di “Non Si Sevizia Un Paperino”, un bel film del 1972 diretto da Lucio Fulci. Lo presi esclusivamente per la meravigliosa copertina che ritrae una Florinda Bolkan furente in una classica grafica di stampo cinematografico.

Giusto Pio - Auto-MotionGiusto Pio – Auto-Motion
Un brano del 1984 utilizzato come sigla del programma televisivo di proto informatica Chips, storpiato in Clips sulla copertina. Una distopia tra l’apocalittico e il fantascientifico cantata da Franco Battiato.

Jenny Nevasco - Crazy MusicJenny Nevasco – Crazy Music
Discreto brano funk un po’ esotico, pubblicato nel 1977. La copertina è di Mati Klarwein, lo stesso che ha illustrato, tra gli altri, “Bitches Brew” e “Live-Evil” di Miles Davis, “Abraxas” di Santana, “Last Days And Time” degli Earth, Wind &Fire e “Dream Theory In Malaya” di Jon Hassell. Chissà come è finito su questo 7″ della Yep Record.

MA.GI.C. - ShampooMA.GI.C. – Shampoo
Un pezzo che mi mette sempre di buon umore, cantato dal grande Douglas Meakin sulla musica dei fratelli MA(rio) e GI(useppe) C(apuano), i MA.GI.C. per l’appunto. A pubblicarlo è la Mr. Disc Organization nel 1981.

Umberto Balsamo - CrepuscoloUmberto Balsamo – Crepuscolo
“Crepuscolo” è un altro di quei dischi che ho comprato per la copertina, molto elegante. Il brano del ’78, arrangiato da Gian Piero Reverberi, è stato comunque una gradevole scoperta, pare ispirato da “Amarsi Un Po'” di Lucio Battisti.

Colorado - Space Lady LoveColorado – Space Lady Love
Una ruspante produzione space disco in cui appare il nome di Red Canzian dei Pooh nel ruolo di produttore. Lo comprai un mattino al mercatino di Porta Portese e nel pomeriggio era già campionato ed usato nell’EP “Galli” realizzato con Rodion per la Eskimo Recordings.

Alberto Camerini - Computer CapriccioAlberto Camerini – Computer Capriccio
Il brano era contenuto in una compilation su audiocassetta che i distributori di benzina regalavano col cambio d’olio del motore. Fu la colonna sonora di un lungo viaggio coi miei genitori fino a Dubrovnik, in una Fiat 127 lungo tortuose strade costiere cosparse di buche. Una canzone manifesto della generazione elettronica, la prima ad avere un computer in casa. Qualche anno fa ho avuto la possibilità di farmi autografare il disco da Alberto Camerini.

Ayx - Ayx TecaAyx – Ayx Teca
Anche questo 7″ del 1979 è frutto di una pesca miracolosa a Porta Portese, una decina di anni fa. Lo ri-editai subito in una extended version pubblicata solo su vinile nel 2010 su Artifact intitolata “Aextacy”, anagramma del titolo originale. All’epoca ci fu una specie di gara tra i fanatici della disco music italiana per indovinare cosa fosse e chi lo cantasse (sembra la Bertè ma è Gloria Nuti). Oggi è abbastanza noto giacché ripubblicato anche in digitale ma il primo incontro non si scorda mai.

Daniel Sentacruz Ensemble - Uffa Domani È LunedìDaniel Sentacruz Ensemble – Uffa Domani È Lunedì
Un pezzo scoperto nei meandri della discografia di Mara Cubeddu, prodotto da Vince Tempera nel 1978. Ne ho fatto un re-edit lo scorso anno con cui ho rianimato la serie su Artifact, da qualche tempo assopita. Ha però un grosso limite: si può suonare solo di domenica.

(Giosuè Impellizzeri)

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N.O.I.A. – The Rule To Survive (Looking For Love) (Italian Records)

N.O.I.A. - The Rule To Survive (Looking For Love)Cervia, 1978. Bruno Magnani e Davide Piatto fondano i N.O.I.A., uno dei primi gruppi italiani a rivelarsi come punto di incontro e vicendevole scambio tra meccanicismo sintetico e vocalità new wave, capace di generare un suono-meticciato tra Kraftwerk e Devo. Insieme a loro, sino al 1983, quando la band è tendenzialmente attiva solo sul fronte live, ci sono Giorgio Giannini, Jacopo Bianchetti e Giorgio Facciani, ma nel momento in cui Oderso Rubini li mette sotto contratto con l’Italian Records cambia tutto. La propensione ad esibirsi dal vivo viene meno, sostituita dal lavoro in studio. La musica dei Talking Heads, Ultravox, Can e Neu! forgia il gusto dei romagnoli che si spingono avanti sino a lambire sponde no wave e proto house.

«Iniziammo nel ’78 quando non eravamo altro che punk diciassettenni» ricorda oggi Magnani. «La tecnica non era importante anzi, allora si scoprì che l’assenza di questa non precludeva il fatto di poter scrivere bei pezzi. Ciò che rammento principalmente dei primi tempi è che ad ogni nostra esibizione si scatenava una rissa nel pubblico, tra quelli che ci amavano e quelli che, al contrario, ci odiavano. Non esistevano mezze misure. Le spillette con su il messaggio “Energia nucleare? Sì grazie!” che tiravamo sulla gente contribuivano a far crescere quello strano mix tra amore ed odio. Come nome artistico optammo per la sigla N.O.I.A. che poteva rappresentare ben 125 significati diversi, ai tempi conosciuti ma tenuti segreti, oggi banalmente dimenticati. Ricordo però che in parecchie di quelle 125 permutazioni la “A” stava per “Automazione”. La formazione a cinque elementi era molto più efficace dal vivo, quando rimanemmo in tre (Magnani, Piatto e Giannini, nda) invece privilegiammo troppo il lavoro in studio e smettemmo quasi del tutto l’attività live. I due che uscirono, peraltro, erano quelli fisicamente più belli e che facevano la loro figura, quindi a posteriori direi che fu un errore ridimensionarci».

N.O.I.A. (2)

Una foto scattata presumibilmente nel 1979 in occasione di un’esibizione dei N.O.I.A. alla Nuite Blanche di Cesenatico. Da sinistra: la ballerina Sara, un amico che non faceva parte del gruppo, il chitarrista Jacopo Bianchetti, Giorgio Giannini, Marino Sutera in tuta blu con uno strumento autocostruito chiamato Noiatron, Davide Piatto e Bruno Magnani.

Nel 1981 i N.O.I.A. sono sul palco della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” organizzata a Bologna. Lì li vede (e sente) Oderso Rubini che li porta all’Italian Records, nata dalle ceneri della Harpo’s Music. Da quel momento le priorità cambiano, prima del suonare live c’è il voler incidere dischi, avvalendosi pure di strumenti elettronici che ai tempi sono spesso oggetto di demonizzazione negli ambienti del pop/rock tradizionale. «Ad onor del vero avremmo voluto incidere dischi anche prima ma preferimmo rifiutare le proposte di etichette microscopiche ed aspettare l’occasione giusta» spiega Magnani. «Ai tempi era tutto analogico, le autoproduzioni erano piuttosto scadenti e per allestire o prendere a nolo gli studi di registrazione professionali occorreva molto denaro. Ci voleva assolutamente una casa discografica. Per l’utente medio l’uso di apparecchiature elettroniche era qualcosa che riguardava nello specifico la musica disco. Il grande pubblico, soprattutto nelle esibizioni live, continuava ad aspettarsi batteristi tradizionali ed assoli di chitarra distorta».

N.O.I.A. (3)

Davide Piatto immortalato nel 1982 durante una delle session casalinghe di Klein & MBO mentre armeggia con un sintetizzatore Roland SH-1 ed una batteria elettronica Roland TR-808

È proprio con una chitarra ed una Roland TR-808 che Davide Piatto contribuisce significativamente alla realizzazione di uno dei brani considerati seminali per la house music di Chicago, “Dirty Talk” di Klein & MBO, seppur il suo lavoro non venga ufficialmente riconosciuto attraverso i credit in copertina, come già ampiamente descritto in questo reportage di qualche anno fa con la sua testimonianza esclusiva. «In quel periodo Davide era parecchio prolifico e scrisse moltissime basi» ricorda Magnani a tal proposito. «Su una cassetta che mi diede c’erano sia la base di quella che sarebbe diventata la nostra “The Rule To Survive (Looking For Love)”, sia quella che invece si sarebbe trasformata in “Dirty Talk”. A noi piacque di più la prima».

Il singolo di debutto dei N.O.I.A. è proprio “The Rule To Survive (Looking For Love)”, pubblicato nei primi mesi del 1983. Nonostante venga fatto confluire convenzionalmente nell’italo disco, il brano si muove in realtà lungo coordinate diverse, più aderenti alla new wave abbinate ad una carica ritmica definibile proto house, la stessa che caratterizza la citata “Dirty Talk” e un altro evergreen prodotto in Italia quello stesso anno, “Problèmes D’Amour” del toscano Alexander Robotnick (di cui abbiamo parlato qui) che coi N.O.I.A., peraltro, divide la passione per il rock alternativo, il punk ed una certa elettronica anti mainstream. Sul lato b trova invece spazio “Night Is Made For Love”, dall’impronta nettamente funk. I crediti rivelano che il disco viene registrato presso lo Studio T2 di Bologna ma mixato da Tony Carrasco al Regson Studio di Milano. Emergono inoltre altri nomi (Massimo Sutera al basso, Cesare Collina dei Key Tronics Ensemble alle percussioni, Luca Orioli al sintetizzatore, Joanna Maloney e Lita Munich come coriste) e ciò lascia pensare ad un lavoro di gruppo orchestrato da Oderso Rubini. Sulla copertina finiscono invece due ragazze, Alessandra e Carolina. «I nostri dischi hanno sempre avuto una realizzazione un po’ travagliata» spiega Magnani. «I demo erano piuttosto minimali a base di Roland TR-808 e Roland SH-1. Per avere un’idea di ciò basta ascoltare la prima versione di “The Rule To Survive (Looking For Love)” finita nella compilation “The Sound Of Love EP – Released & Unreleased Classics 1983-87” edita dalla Spittle Depandance nel 2012. Per l’incisione definitiva del pezzo andammo con Rubini allo studio T2 di Bologna. Fu proprio lo stesso Rubini a coinvolgere Luca Orioli come tastierista, visto che disponeva di parecchi sintetizzatori e sequencer che avrebbero reso le nostre sonorità meno minimali. Ai tempi Orioli lavorava già con sequencer MIDI, protocollo che per noi invece era un’assoluta novità. Sino a quel momento infatti lavoravamo ancora con CV/gate per controllare i nostri strumenti. Per le parti di basso e percussioni “umane” contattammo due nostri amici di Cervia, Cesare Collina e Massimo Sutera. Quest’ultimo aveva suonato con me in un gruppo formato ai tempi delle scuole medie, quando facevamo persino le serate di liscio negli alberghi, durante l’estate. In seguito è diventato un rinomato batterista professionista. A lavoro ultimato però non fummo soddisfatti del mixaggio fatto al T2 e così ci rivolgemmo al milanese Regson. A quel punto Rubini ci chiese di coinvolgere Tony Carrasco, col quale Davide aveva già collaborato per “Dirty Talk”. Per la realizzazione di “Night Is Made For Love”, invece, Oderso contattò delle coriste. Tra gli strumenti che usammo ricordo il Prophet-5 di Luca Orioli. Effettivamente il brano aveva un’impronta più funk rispetto a quello inciso sul lato opposto, ma secondo me era un carattere distintivo che traspariva un po’ dappertutto nei nostri pezzi, anche in quelli più rigorosamente elettronici. “The Rule To Survive (Looking For Love)” venne licenziato anche all’estero, tra Paesi Bassi, Germania e Stati Uniti. Se ben ricordo vendette 12.000 copie, ma non mi pare che l’etichetta attuò qualche strategia promozionale per raggiungere tale esito. Il follow-up, uscito qualche mese più tardi, era “Stranger In A Strange Land” e riprendeva lo stile del precedente ma questo non bastò a garantirci lo stesso risultato. Le vendite infatti furono un po’ più basse, e in linea generale ogni nuovo disco dei N.O.I.A. vendette sempre un po’ meno del precedente. Tuttavia ricordo “Stranger In A Strange Land” con molto piacere perché quella volta Luca Orioli portò in studio il Bass Line Roland TB-303, strumento che non conoscevamo nonostante fossimo fissati con la Roland. Fu amore a prima vista e lo utilizzammo subito, praticamente in tutto il pezzo. Per la ricerca di un suono più “pesante” invece, doppiammo il rullante della TR-808 con quello di una batteria vera».

N.O.I.A. (1)

Una foto estratta dal servizio fotografico realizzato nel 1984 per la promozione del singolo “Do You Wanna Dance?” La donna è una modella di cui non sono note le generalità, seduto è Giorgio Giannini, dietro di lui Bruno Magnani e a destra Davide Piatto.

Dopo “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, nel 1984 i N.O.I.A. incidono sia il Mini-Album “The Sound Of Love”, aperto dal brano omonimo venato ancora di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk, sia il 12″ “True Love”, proiettato su echi moroderiani. Il poco che esce tra 1985 e 1988, appena tre singoli, allontanerà progressivamente la band romagnola dalle atmosfere di partenza. “Try And See” del 1985, l’ultimo su Italian Records, risente in modo evidente del lato più cheesy dell’italo disco che ormai esplode a livello commerciale, “Umbaraumba” del 1987, su Rose Rosse Records, contribuisce ulteriormente a prendere le distanze con una formula synth pop, mentre “Summertime Blues” del 1988, su CBS, cover dell’omonimo di Eddie Cochran e prodotto da Jay Burnett, accantona i suoni elettronici a favore delle chitarre elettriche. L’attenzione di Piatto (che nel contempo inizia l’avventura Rebels Without A Cause con Luca Lonardo, Carlo Lastrucci e Filippo Lucchi, prodotti dal giornalista Claudio Sorge) e Magnani insomma pare spostarsi in direzione di lidi musicali differenti. «Muoverci verso pezzi più “commerciali” fu una scelta indotta un po’ dalla casa discografica ma anche da noi stessi» spiega Magnani. «Non ci sarebbe dispiaciuto guadagnare qualcosa, ma col senno di poi ammetto che quasi sicuramente avremmo incassato di più rimanendo fedeli al sound iniziale e magari proseguendo ad esibirci dal vivo. Le vendite, invece, continuarono a calare e ciò spiega la ragione per cui dedicammo sempre meno tempo ai N.O.I.A. ed alcuni di noi crearono nuovi gruppi».

N.O.I.A. - Unreleased Classics '78-'82

La copertina di “Unreleased Classics ’78-’82”, il disco edito dalla Ersatz Audio che nel 2003 riporta in attività i N.O.I.A. dopo quindici anni di silenzio

Dopo “Summertime Blues”, infatti, dei N.O.I.A. si perdono le tracce. Il silenzio è rotto solo quindici anni più tardi, nel 2003, quando la Ersatz Audio, etichetta fondata e gestita dagli ADULT., pubblica “Unreleased Classics ’78-’82”, una raccolta di inediti rimasti nel cassetto per un arco lunghissimo di tempo. «Praticamente tutta la parte iniziale della nostra produzione, che andava dal 1978 al 1982, non era mai stata pubblicata, ed era davvero molto differente da ciò che invece emerse poi dalla discografia» racconta ancora Magnani. «Con l’Italian Records avevamo sempre pubblicato pezzi nuovi senza mai attingere dall’archivio. A me invece sarebbe piaciuto molto vedere stampate quelle vecchie tracce esattamente com’erano state concepite, utilizzando gli stessi strumenti e il medesimo hardware. Principalmente l’equipment era composto da drum machine Roland CR-78, Boss DR-55 e Korg KR-33, sintetizzatori Roland SH-1 e Korg M500 SP, una chitarra elettrica filtrata da un Electro Harmonix Micro Synth (quest’ultimo citato nel testo di “Korova Milk Bar”, nda) e davvero poco altro. Registrammo e mixammo i pezzi nel nostro studio con l’intento di autoprodurci il disco ma alla fine accantonammo tutto». Quando la Ersatz Audio di Detroit riabilita il nome e la musica dei N.O.I.A., nel progetto figura anche il fratello minore di Davide Piatto, Alessandro, che aggiunge: «Nel 2000 spedii una decina di CD ad altrettante etichette che mi sembravano stilisticamente in linea con quanto avevamo approntato. L’unico a rispondere, ma solo molti mesi dopo, fu Adam Lee Miller degli ADULT., che conosceva già i N.O.I.A. e ci propose subito di pubblicare l’album, ma escludendo dalla tracklist due brani, “Europe”, forse per questioni politiche legate al testo, ed “Italian Robots”. Non esitammo. Tutti i pezzi finiti in “Unreleased Classics ’78-’82”, come diceva Bruno, furono composti prima di firmare il contratto con l’Italian Records. L’unico ad essere stato già pubblicato era “Hunger In The East” che finì, insieme all’esclusa “Europe”, nella compilation “Rocker ’80” edita dalla EMI nel 1980 per l’appunto. Era il premio per aver vinto il 1º Festival Rock Italiano, svoltosi a Roma».

N.O.I.A. (4)

I N.O.I.A. (da sinistra Jacopo Bianchetti, Bruno Magnani, la ballerina Sara e Davide Piatto) sul palco della prima edizione del Festival Rock, a Roma, tra 1979 e 1980.

Nel 2006, quando l’interesse per la musica del passato continua ad intensificarsi, la Irma Records realizza la raccolta “Confuzed Disco” per celebrare l’epopea dell’Italian Records. Dentro finiscono, ovviamente, pure i N.O.I.A., riportati in superficie anche attraverso nuove versioni commissionate a produttori contemporanei come Fabrizio Mammarella e Franz & Shape che mettono rispettivamente le mani su “Do You Wanna Dance” e “Stranger In A Strange Land”. Sono gli anni in cui, dopo l’esplosione massiva dell’electroclash, cresce l’attenzione per tutto ciò che è retrò o suona intenzionalmente tale. Centinaia di curatori animati dalla voglia di riscoprire (o scoprire per la prima volta) suoni del passato danno avvio alla stagione, tuttora in corso, delle ristampe. Per i N.O.I.A. ciò porta, oltre al citato best of della Spittle Depandance, “A.I.O.N.”, edito nel 2016 da J.A.M. Traxx e fondato su una serie di rework e remix (tra cui quelli di The Hacker ed Hard Ton) di tracce precedentemente su Ersatz Audio. L’attenzione per il passato è continua ed incessante, alimentata da una storia ormai pluriquarantennale che pare aver messo all’angolo la musica contemporanea che vende sempre meno delle ristampe. «Credo che in circolazione ci sia molta musica nuova interessante ma ad essere cambiato (in peggio) è il rapporto col pubblico, e questo disorienta e non incoraggia gli artisti ad esprimere le loro potenzialità, se non replicando qualcosa che abbia già funzionato, alla ricerca di una gratificazione immediata» dice a tal proposito Alessandro Piatto. «In merito alla “Confuzed Disco” invece, non fummo coinvolti se non per una sorta di party di lancio a Bologna. Cercai di mettermi in contatto con l’A&R della Mantra Vibes (Marco ‘Peedoo’ Gallerani, nda) ma non fu interessato a collaborare con noi. In genere tutte le volte che ho proposto a varie label di pubblicare cose nuove non c’è stato alcun interesse, e questo si ripete dal 2000 ad oggi. Probabilmente ciò dipende dal feticismo del passato e dall’idea che i brani di quel periodo siano una sorta di evergreen e non usa e getta come gran parte delle produzioni contemporanee».

The Rule To Survive (31th Anniversary)

La copertina del 12″ pubblicato dalla N.O.I.A. Records che nel 2014 celebra i trentuno anni di “The Rule To Survive” attraverso inedite versioni remix

Nel 2008 nasce la N.O.I.A. Records che, dopo qualche anno trascorso in balia di sole pubblicazioni digitali, si reinventa iniziando un nuovo corso con inedite versioni di “The Rule To Survive”. Per celebrare i trentuno anni dall’uscita, nel 2014 sul mercato giungono i remix di Prins Thomas, Baldelli & Dionigi e Kirk Degiorgio. Seguono una manciata di release di Francesco Farias dei Jestofunk, quelle dei TenGrams (nuovo progetto-tandem dei fratelli Piatto) ed ovviamente dei N.O.I.A. che tornano nel 2018 con “Forbidden Planet” contenente i remix di Francisco ed Ali Renault. «La N.O.I.A. Records, purtroppo, ha subito una serie di diverse problematiche» spiega Piatto. «La prima, in ordine di importanza, è stata causata dalla mia incapacità di renderla “hype” o comunque sufficientemente interessante per conquistare una base di fan che garantisca un minimo di vendite per la gestione ordinaria del catalogo. Dal punto di vista economico, la pubblicazione in vinile è stata piuttosto fallimentare e i rapporti coi distributori si sono rivelati complessi e svantaggiosi. In questo contesto il tempo che riesco a dedicare ad essa è poco e non riuscendo a promuoverla con performance tipo DJ set o live, la label rimane ai margini. Ad oggi comunque sono programmate delle nuove uscite di artisti reclutati recentemente. Usciranno in digitale su Bandcamp e forse qualche vinile di TenGrams. Anche in questo caso, comunque, non mi reputo un buon A&R e fare marketing non è proprio il mio mestiere. Per quanto riguarda invece i nuovi brani dei N.O.I.A., il materiale c’è ma il tempo per finalizzarlo è poco e, per eccesso di autocritica, facciamo fatica a dire “ok, questo è buono, partiamo!”. Personalmente per certi versi sento la mancanza di una figura nella produzione, come era quella di Oderso Rubini negli anni Ottanta. L’ultimo pezzo dei N.O.I.A. è stato “Morning Bells”, una vecchia traccia persa nel tempo realizzata in collaborazione col fantomatico Rubicon, della quale si è ritrovata solo la versione dell’olandese Rude 66. Proprio Rubicon la ha proposta a Timothy J. Fairplay che ha ritenuto fosse idonea per la pubblicazione sulla Crimes Of The Future. Oggi i N.O.I.A. sono quelli di ieri ma con trentacinque anni in più».

Non è mistero che adesso la scena indipendente soffra un periodo di magra forse senza precedenti. Se da un lato un certo mainstream che cavalca la moda dei “DJ star” nuota letteralmente nel denaro, dall’altro piccoli artisti ed altrettanto piccole etichette, legate ancora ad una sorta di artigianato, arrancano non poco. Le piattaforme di streaming come Spotify, a cui alcuni attribuiscono forse immeritatamente il ruolo di “salvatrici della musica” dopo la disintegrazione dei supporti fisici, in realtà sembrano più palliativi, specialmente per coloro che non contano su fanbase di una certa consistenza. Visti i presupposti, è lecito domandarsi se i tempi che verranno riusciranno a creare e forgiare personalità forti almeno quanto quelle delle decadi trascorse. «Alle condizioni attuali credo che quel che è successo nel passato non possa più essere replicato» afferma sentenzioso Alessandro Piatto. «Ciò che succederà in futuro invece è davvero un mistero vista la continua evoluzione del modo di percepire e fruire la musica. Adesso convivono artisti a me sconosciuti, che collezionano milioni di visualizzazioni e streaming, con altri, in teoria molto popolari, che però non riescono a superare poche centinaia di play sul web. Ogni volta che affronto il discorso mi viene puntualmente ricordato che è necessario creare il cosiddetto “engagement”, ossia coltivare relazioni e collaborazioni strategiche. Insomma, un sacco di roba che divide ben poco con la musica e molto col peggio della vecchia industria discografica. Qualche settimana fa, girovagando su YouTube, sono finito su canali di artisti synthwave e retrowave con numerosissime visualizzazioni e musica assolutamente dozzinale seppur molto ben confezionata. Un altro mondo che sembra essere più funzionale rispetto alle trecento copie in vinile che tanti oggi consacrano come successo. Chi ne capisce qualcosa è davvero bravo! Personalmente ho compreso che vale tutto e non ci sono più regole certe. I miei video, ad esempio, non superano le poche centinaia di visualizzazioni nonostante abbia almeno un paio di migliaia di fan sui social. Da qualche parte sbaglio, dove non l’ho ancora capito o forse sì, magari anche troppo».(Giosuè Impellizzeri)

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La house e l’italodisco a Chicago: i ricordi di Benji Espinoza della D.J. International

Benji EspinozaLa house music nata negli States è una sorta di disco music realizzata con strumenti contrassegnati da numeri palindromi in larga parte ignorati dai musicisti perché considerati alla stregua di giocattoli o poco più. All’inizio quel filone interessa solo ristrette comunità ma nell’arco di un paio di anni cambia tutto. Da essere un sound edificato con mezzi di fortuna e in modo pressoché amatoriale, la house si trasforma in un affare colossale che da un lato macina creatività e rilevanti intuizioni e dall’altro genera fiumi di denaro. A spingerla, sin dall’inizio, verso le classifiche di vendita enfatizzandone le potenzialità crossover è la D.J. International Records, etichetta indipendente fondata a Chicago da Rocky Jones e dal braccio destro Benji Espinoza. Dalla prima sede, al 1158 W in Chicago Ave, vengono messi in circolazione brani diventati punti cardine del movimento, da “Music Is The Key” dei J.M. Silk a “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders, da “Move Your Body” di Marshall Jefferson a “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley passando per “Promised Land” di Joe Smooth e l’hip house di Fast Eddie e Tyree Cooper. Da esperto e navigato venditore di dischi, Espinoza ripercorre l’esperienza nella D.J. International Records, sette anni decisamente pregni di storia.

Quando e come ti sei avventurato nel mondo della musica?
Nell’inverno del 1983 iniziai a lavorare come commesso da Babyo’s, un negozio nella zona nord-ovest di Chicago. Babyo’s era uno dei reporting store di Billboard, quindi ogni settimana le principali case discografiche ci mandavano il materiale promozionale dei loro artisti, come Madonna o Prince. Lì maturai le prime esperienze in marketing e promozione, attività che mi tornarono particolarmente utili un paio di anni più tardi quando uscirono i primi dischi house. Proprio tra le mura del Babyo’s incontrai Julian “Jumpin” Perez che ai tempi curava un programma radiofonico su WRRG. Sponsorizzammo il suo show e diventammo buoni amici. Fu lui a convincermi ad incontrare Rocky Jones anche perché vivevo, da circa un anno e mezzo, un rapporto particolarmente conflittuale col mio capo. A qualche mese da quel meeting, io e Rocky lanciammo la D.J. International Records e da quel momento in poi la house music avrebbe cominciato la sua ascesa. Il primo disco che pubblicammo, “Music Is The Key” dei J.M. Silk, raggiunse la nona posizione nella classifica di Billboard: era la prima volta che il mondo conosceva la musica house.

JM Silk

“Music Is The Key” dei J.M. Silk, primo disco pubblicato dalla D.J. International Records nel 1985 e, secondo Espinoza, anche il primo brano house della storia

A proposito dei primordi discografici della house: nel corso degli anni tantissimi hanno espresso la propria opinione circa il primo disco house pubblicato. C’è chi indica “Music Is The Answer” o “You Got Me Running” del compianto Colonel Abrams, chi “On And On” di Jesse Saunders ed anche chi, invece, opta per “The Music Got Me” dei Visual prodotti da Boyd Jarvis, passato a miglior vita nel 2018. Tu invece?
Non credo si possa parlare di house music in riferimento a pezzi editi prima del 1985, non c’è alcuna documentazione che attesti la nascita del genere prima di quell’anno. Le opinioni che si sono susseguite nel tempo, inoltre, non aiutano ad individuare niente di nuovo perché a parlare sono solo i fatti. “On And On” di Jesse Saunders, “Music Is The Answer” di Colonel Abrams e “The Music Got Me” dei Visual erano tutti brani dance. Il primo disco house invece fu “Music Is The Key” dei J.M. Silk, ed affermo ciò perché venne promosso e marketizzato come disco house sin dall’inizio, riuscendo ad entrare nella classifica di Billboard come dicevo prima. Qualche anno fa domandai a Boyd Jarvis dei Visual se nel 1983 avesse proposto “The Music Got Me” alla Prelude Records come brano house ma mi rispose di no, anche per lui quella era più gergalmente dance music. Jarvis fu gentile con me, sebbene un anno dopo quella domanda mi rimosse dagli amici su Facebook ma non prima di ricevere un suo like su un commento che chiariva proprio l’appartenenza del pezzo dei Visual alla dance e non alla house. La house music nel 1983 non esisteva ancora.

Come ricordi l’avvento della house music a Chicago?
Fu un periodo assolutamente eccitante sotto ogni aspetto. I party, i negozi di dischi, i DJ, gli artisti …davvero tutti furono rapiti da quel nuovo genere musicale che supportarono amorevolmente.

www.marioboncaldo.com

Lo screenshot del sito di Mario Boncaldo in cui il produttore afferma che la house music sia stato “un ennesimo prodotto made in Italy”

Diversi anni fa Mario Boncaldo scrisse sul suo sito: «Nel 1985 da “Dirty Talk” di Klein & MBO Rocky Jones, patron della celebre etichetta D.J. International Records, prese spunto e continuò il trend chiamandolo impropriamente The House Of Chicago. “La Casa di Forlì” sarebbe andata certamente poco lontano! Rifiutai, diverse volte, proposte accorate e suppliche di Rocky che mi voleva con lui a Chicago. Non sempre nella vita si fanno le cose giuste e lo si capisce purtroppo col senno di poi». Nel 2011 però, quando intervistai per la prima volta Jones, mi disse di non aver mai sentito parlare di Boncaldo a Chicago e che a fargli conoscere “Dirty Talk” fosti propri tu. Cosa ricordi di questa vicenda?
Io e Rocky incontrammo per la prima volta Mario Boncaldo al Midem di Cannes, in Francia, nel gennaio del 1987. Venne al nostro stand con l’intento di chiudere qualche accordo e venderci la sua musica, così come ai tempi si usava fare alle fiere di quel tipo. Ci propose diversi brani ma era solo dance/italodisco. Francamente non credo sapesse ancora nulla sulla house music in quel periodo. Gli intenti sono estremamente importanti. Se non c’è niente e nessuno che possa attestare a favore di ciò che, a posteriori, si sostiene di aver fatto, si sta bluffando. “Dirty Talk”, nello specifico, era un pezzo italodisco o dance, Boncaldo non aveva la benché minima intenzione di produrre house music nel 1982 perché la stessa house non era stata ancora inventata.

Molti produttori house di Chicago però, è bene rammentarlo, hanno ripetutamente dichiarato che tra le loro fonti primarie d’ispirazione ci fu anche l’italodisco, ovvero la dance prodotta in Italia sin dai primi anni Ottanta come risposta alla new wave e al synth pop del nord Europa, dopo il declino della disco music. Perché questo genere, piuttosto bistrattato in Italia soprattutto dalla critica, risultò invece seminale sia per la house che per la techno?
Amo l’italodisco! Ascoltai il primo pezzo italo tra la fine del 1980 e l’inizio del 1981, si trattava di “I’m Ready” dei Kano, un autentico successo sia a Chicago che negli States. L’italodisco era un genere molto popolare a Chicago tra il 1982 e il 1986, sia i DJ che i pionieri della house non potevano certamente ignorarla e ne rimasero influenzati. “MB Dance” di Chip E., ad esempio, era una sorta di remix/cover di “MBO Theme” di Klein & MBO.

New York (1986)

Da sinistra: Rob Manley e Mike Sefton della A&M Records insieme a Benji Espinoza e Rocky Jones (New York, 1986)

Quali sono i dieci brani italodisco che, a tuo avviso, hanno inciso maggiormente sui gusti e sull’istinto di coloro che a Chicago si dedicarono alla house dal 1985?
“I’m Ready” dei Kano, “Dirty Talk” ed “MBO Theme” di Klein & MBO, “I Need Love” di Capricorn, “Love-N-Music” di Ris, “Dance Forever” di Gaucho, “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick (a cui abbiamo dedicato un articolo qui, nda), “Feel The Drive” di Doctor’s Cat, “Hypnotic Tango” di My Mine ed “I’m Hungry” di Stopp.

Come dettagliatamente descritto in questo reportage, a partire dal 1987 anche gli italiani iniziano a produrre house music. Alcuni DJ qui, a dire il vero, cominciano a proporla già tra 1985 e 1986 ma i primi dischi house o filo-house made in Italy giungono sul mercato solo dopo il successo europeo di “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S. che già apportano sensibili variazioni allo schema della house statunitense. Come consideri la prima ondata italo house, che tocca l’apice tra 1989 e 1990 con le hit internazionali di 49ers, Sueño Latino, FPI Project, Black Box e Double Dee?
L’italo house, analogamente all’italodisco, ebbe un fortissimo successo qui a Chicago. Nel 1989 Julian “Jumpin” Perez e Bad Boy Bill programmavano tantissima house prodotta in Italia su B96, un’emittente radiofonica pop di Chicago, e personalmente ho venduto centinaia di copie di quei dischi nel mio negozio, il D.J. Store. 49ers, Black Box e Double Dee erano tra i più richiesti. Tra le etichette invece ricordo la Irma Records, una delle più amate dai DJ alla ricerca di deep house underground. Brani di Sueño Latino, Jestofunk o Don Carlos sono ancora suonabilissimi, li amo.

Sbirciando le fotografie postate sul tuo profilo Facebook si scorgono anche altri dischi made in Italy, influenzati più dalla euro techno che dalla house, come “The Music Is Movin'” di Fargetta, “We Gonna Get” di R.A.F e il remix di “Thunder” di Mato Grosso realizzato da Digital Boy. Hai apprezzato quindi anche altre diramazioni stilistiche fiorite in Italia?
Certo: R.A.F., Mato Grosso, Fargetta, Lee Marrow e davvero tanti altri vendettero migliaia di copie a Chicago, grazie soprattutto ai citati Julian “Jumpin” Perez e Bad Boy Bill che passavano quei pezzi nei loro programmi su B96, una radio parecchio influente visto che ai tempi aveva circa due milioni di ascoltatori quotidiani. Gran parte di quelle tracce sono considerate a tutti gli effetti dei classici qui a Chicago.

Hip House

I primi album di Fast Eddie e Tyree Cooper editi dalla D.J. International Records tra 1988 e 1989

Alla fine degli anni Ottanta da Chicago prende avvio un altro trend musicale, quello dell’hip house, che conquisterà anche l’Europa (Italia inclusa), specialmente nel primo lustro dei Novanta con 2 In A Room, KC Flightt e gli Outhere Brothers, questi ultimi provenienti proprio dalla “città del vento”. Secondo quanto riportato in un articolo di Frank Owen sul numero di Spin del dicembre 1989, a coniare il termine “hip house” fu Fast Eddie, artista che seguivi in qualità di manager. Come ricordi quella particolare fusione di generi?
Tra la fine del 1987 e il 1988 ero il manager di Fast Eddie e di un altro artista iconico di quel movimento, Tyree Cooper. All’inizio entrambi producevano solo house ed acid (si sentano “The Whop”, “Acid Over” o “Jack The House”, nda). Eddie, in particolare, risultava particolarmente prolifico e così, per creare un diversivo al fine di dare più carattere alle sue tracce, io e Rocky gli suggerimmo di provare ad aggiungere ad esse una parte vocale. Seguì il consiglio e dopo poco tempo ci portò dei brani inediti che copiai su una cassetta per l’amico Julian Perez. Lui apprezzò immediatamente ed inserì quattro di quei pezzi in un set andato in onda su WBMX, che aveva milioni di ascoltatori. Credo che in quel momento si stesse sancendo la nascita dell’hip house a Chicago. Da lì a breve anche Tyree Cooper, incuriosito, iniziò a produrre hip house.

DJ International (around 1989)

Una foto scattata presumibilmente nel 1989 nella seconda sede della D.J. International Records, al 727 della Randolph Street. Il primo a sinistra è Fast Eddie mentre a destra, con la t-shirt bianca, c’è Martin Luna dei Mix Masters

Quali furono le migliori annate per la house music sotto il profilo creativo ed economico?
Non ho dubbi a proposito, i primi due anni di vita, quindi 1985 e 1986, sono stati memorabili. La nostra hit più importante fu “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley, che nel 1986 vendette tra le 150.000 e le 200.000 copie, solo negli States. Nel 1985 invece di “Music Is The Key” dei J.M. Silk, il primo disco house della storia, ne piazzammo oltre 100.000. È importante però ricordare anche il ruolo centrale della scena newyorkese che avanzava insieme a quella di Chicago. Il mercato discografico di New York era il più rilevante degli Stati Uniti ed aveva già un suo sound, e per questo molti pensarono che la house lì avrebbe difficilmente attecchito ma non fu affatto così, la house music conquistò immediatamente i club della Grande Mela.

Rocky e Benji

Rocky Jones e Benji Espinoza in un recente scatto

Nella seconda metà degli anni Ottanta a Chicago sorsero dozzine di piccole etichette devote alla house, ma le più note ed influenti furono la D.J. International Records e la Trax Records. Come ricordi il dualismo con la struttura di Larry Sherman?
A Chicago si produceva tantissima musica house ma, per ovvi motivi, sia D.J. International Records che Trax Records non avrebbero potuto pubblicarla tutta, quindi sorsero come funghi micro etichette create per dare libero sfogo alla creatività dei produttori. Riguardo l’antagonismo a cui ti riferisci, l’etichetta di Sherman era più orientata ad un sound underground destinato ai club, fatto di house minimale realizzata con pochi elementi, mentre la nostra cercò un approccio maggiormente radiofonico attraverso un suono che potesse diventare globale e quindi abbracciare un pubblico più vasto.

Nonostante entrambe abbiano ricoperto un ruolo centrale nella genesi della house music, sia D.J. International Records che Trax Records collassano pochi anni dopo, quando il business si trasferisce principalmente in Europa, dove è il Regno Unito a fare da traino. A New York resistono solide realtà come Strictly Rhythm, Nu Groove o Nervous Records, ma a Chicago pare che quasi tutto finisca in cenere, fatta eccezione per poche etichette come Dance Mania o House Jam Records. Come mai?
La D.J. International Records si distinse dal 1985 al 1991. Nel corso di quel periodo la house music assunse nuove forme e diramazioni generando sottogeneri come l’acid house, la deep house o l’hip house, ma gli anni Novanta videro la netta ascesa della techno che tolse inesorabilmente spazio e terreno alla house, soprattutto nelle classifiche di vendita. Nel 1991, dopo circa sei anni, iniziai a pensare di lasciare la D.J. International Records, cosa che effettivamente feci tra il 1992 e il 1993, quando non ero più soddisfatto di cosa stessimo facendo. La techno divenne un fenomeno imponente e la house music tornò nell’underground. Fortunatamente non mancò chi, come la Cajual Records di Green Velvet, si adoperò attivamente per riportare la scena di Chicago agli antichi splendori.

Ritieni ci sia stato un artista o un brano in particolare ad aver reso la house music un fenomeno internazionale?
No, penso che la house sia diventata globale in virtù della sua intensità come genere musicale e non grazie ad un artista nello specifico. Certo, ci furono produttori come Farley “Jackmaster” Funk o “Steve “Silk” Hurley che raggiunsero i vertici delle classifiche di vendita europee e questo senza dubbio aiutò non poco la house a consolidarsi a livello planetario, ma resto del parere che ad affermarsi fu il genere piuttosto che un brano o un interprete.

Benji e Maurice Joshua (2013)

Benji Espinoza insieme a Maurice Joshua, altro decano della scena house chicagoana

Riguardo il DJing invece, oggi chi potrebbe rappresentare meglio la figura chiave di questa professione?
È difficile stabilirlo perché esistono migliaia di DJ rappresentativi nel proprio filone. Ralphi Rosario nel tribal, Derrick Carter o Roy Davis Jr. nel suono più underground, Green Velvet nella techno … probabilmente il posto d’onore spetterebbe a Frankie Knuckles, se fosse ancora vivo.

Ci sono anche tanti DJ sottovalutati. Chi meriterebbe di più?
Oggi un DJ deve essere necessariamente anche un produttore ed incidere il pezzo giusto per far valere le proprie qualità. Di talenti sparsi nel mondo e purtroppo ignorati ne esistono tantissimi.

DMC London (1987)

Espinoza (al centro) e Rocky Jones (il primo da sinistra) presso la Royal Albert Hall di Londra dove sono in giuria per i campionati DMC (1987)

Come giudichi il panorama odierno?
Da quando le regole del gioco sono cambiate penso sia nato una sorta di divario tra la house music e i DJ. Mi spiego meglio: prima della nascita della house, il DJ era solo un DJ, ovvero selezionava e mixava musica altrui. Poi divenne anche produttore, creando i propri brani. Adesso invece il DJ è un artista in senso lato più vicino alla figura del performer, e a portarlo verso questo nuovo ruolo credo siano stati i rave dei primi anni Novanta. Nel 1999 Bad Boy Bill mi disse che avrebbe smesso per un po’ di tempo di esibirsi come DJ per concentrarsi maggiormente sulla produzione, attività che avrebbe portato benefici alla sua carriera. Fece la cosa giusta.

Cosa vedi negli anni che verranno?
Già da qualche tempo assistiamo alla rinascita del vinile che sostituirà le vendite dei file digitali perché il disco assicura un margine di guadagno più alto all’artista. Personalmente auspico il ritorno dell’underground che potrebbe aiutare a far riemergere la scena house di Chicago. Le solide basi della house music furono gettate proprio nell’underground, è da lì che bisogna ripartire.

(Giosuè Impellizzeri)

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