Francesco Farfa – DJ chart marzo 1998

Francesco Farfa, DiscoiD marzo 1998



DJ: Francesco Farfa
Fonte: DiscoiD
Data: marzo 1998

1) Basic Implant – Reform EP Vol. 1
Prodotto dal tedesco Sven Dedek e pubblicato dall’allora debuttante Touch Tone Recordings, l’EP in questione raccoglie tre tracce di techno minimale, intagliata nei loop che grondano energia e sudore specialmente in riferimento a “Evoke”, tool agghindato da tutta una serie di micro percussioni e tom impazziti. Medesima metodologia di elaborazione per “Feinrasur”, intricato groviglio di loopismi millsiani. Più rilassata invece risulta essere “Meek Deep”, dove la circolarità e la ripetizione ossessiva viene sostituita da immersioni dub e deep per l’appunto, seppur resti intatto l’ipnotico minimalismo, indiscusso fil rouge del disco a cui, poco tempo dopo, segue il secondo volume.

2) Jammin’ Unit – Deaf Dub And Blind
Archiviate le prime fibrillanti scorribande acid sparse su Structure, DJ.Ungle Fever e Force Inc. Music Works, Cem Oral degli Air Liquide si rimette in discussione apportando significative variazioni alla sua tavolozza stilistica, emerse già nel primo album “Jammin’ Unit Discovers Chemical Dub” del 1995. “Deaf, Dub And Blind” rappresenta la prosecuzione di quel modo personale di intendere la techno che poi non è più solo techno, perché intersecata di volta in volta a riferimenti diversi. Sul doppio vinile c’è spazio per ben tredici tracce che diventano quattordici sul CD (con l’aggiunta di “The Remoteman” affogata nelle irregolarità ritmiche) in cui l’autore fa sfoggio del suo eclettismo: da partiture dub (“Dub Is In The Air”, “Thirst At Dawn”) a deviazioni filo reggae (“32° In The Shade”, “Over The Jordan”) passando per cyberbeat in slow motion (“Blind Television”), punteggiature minimali (“Handbagdub”) ed effervescenti scheletrismi ottenuti con una TR-808 (“Life On The Balkon”). Il doppio LP, pubblicato dalla britannica Blue Planet Recordings, è piuttosto raro e costoso per l’odierno mercato collezionistico.

3) Danny Tenaglia – Elements
Primo singolo estratto dall’album “Tourism”, “Elements” è uno dei pezzi con cui Tenaglia spopola nei club di tutto il mondo alla fine degli anni Novanta e che lo aiuta ad affrancarsi discograficamente dopo tanti lavori rimasti ad appannaggio dei soli DJ specializzati, da Deep State a The King Street Crew, da Soulboy ad Hambone passando per Code 718. Il doppio mix su Twisted America, commercializzato a fine ’97, conta due versioni, The DTour e The Chant (con un frammento vocale preso da “Hills Of Katmandu” di Tantra, arrangiato da Celso Valli), dalle quali emerge un suono intriso di tribalismi e sviluppi inattesi che mettono in crisi chi ai tempi pensa alla house music come genere esclusivamente antitetico alla techno. In aggiunta ci sono tre tool tra cui un’acappella usata a più riprese in svariati contesti. Tenaglia toccherà il cielo con un dito nel corso del ’98 grazie a un altro pezzo tratto da “Tourism”, “Music Is The Answer (Dancin’ And Prancin’)”, accompagnato dalla voce di Celeda.

4) Marco Dionigi – No Sense
“No Sense” è uno dei tre pezzi che il prolifico Dionigi inserisce in “Box Position”, EP edito da un’etichetta diretta in quel periodo da lui stesso, la Tube, caratterizzata da un logo e un nome che suonano come tributo alla copertina di “Tubular Bells” di Mike Oldfield. Ai tempi Dionigi inventa il proprio stile miscelando influenze più disparate e attualizzando quella che una volta veniva gergalmente chiamata “afro”, ma non curandosi però di ideare un nome che potesse, in qualche maniera, identificarlo. «La domanda peggiore che potessero farmi allora era quella di definire la mia musica, non sapevo mai cosa rispondere» racconta in questa intervista qualche anno fa. «Poteva essere una continuazione della cosiddetta afro anche se per stile, comprensibilmente, eravamo su un altro pianeta».

5) Lexicon – The Lessons
Quello dei Lexicon (Len Faki e Jon Silva) è un suono che nella seconda metà degli anni Novanta affonda le radici in territori meticci, con un approccio che cerca di andare oltre la convenzionalità. Questo si apprezza particolarmente in “The Lessons”, il primo dei due album che i tedeschi realizzano tra ’97 e ’98 per la Plastic City: “The Question” e “Kolt Silvers (Rolling Jeep Mix)” incrociano minimalismo techno a rotondità house, “Sexy Thang” tira fuori una chitarra in loop stile french touch su un frammento vocale balbettante, “Superstar” e “Phrunky” sparigliano le carte con innesti breaks e venature funkeggianti, “The Life Saver” è disco trafitta e velocizzata, “The Ryker” sposta il baricentro verso sponde electro cibernetiche con uncinate acide, “Summer Madness” centrifuga suoni acustici a digitali in una spirale sampledelica e psichedelica. Sul CD trovano spazio altre tre tracce (“Funk Corner”, “Placenta” e “Jazz Field”, oltre a una versione differente di “Sexy Thang”, più disco funk oriented) che sfondano ulteriormente le paratie tra i generi.

6) Joe Smooth – Disco Acid EP
Non è specificato ma è presumibile che Farfa facesse riferimento al primo volume della saga Disco Acid uscito a fine ’97 sulla londinese Nepenta. Quattro le tracce incluse al suo interno tra cui, è bene chiarirlo, non si scorge alcun riferimento acid al contrario di quelli disco, sfoggiati con disinvoltura in “Come On Everybody”, take di “Everybody Dance” dei Bumblebee Unlimited giocato coi filtri e spezzettato in tessere shakerate come fa un bartender con gli ingredienti di un cocktail. Ai due cuscini garage (“Oxygen” e “Change”), con melodie pianistiche in primo piano e tenere sofficità deep, si somma infine “Universal Nation”, tappeto ritmico venato di percussioni sul quale l’autore posa il celebre discorso di Martin Luther King. Passato alla storia per “Promised Land” del 1987, intorno alla metà degli anni Novanta Smooth registra comparsate su etichette italiane come UMM, V.O.T.U. e la Active Bass Music di Claudio Donato con cui stringe tra l’altro un rapporto di collaborazione. Nel contempo va avanti coi Disco Acid sino al 2004, quando affida il quinto e ultimo volume alla Trax Records di Chicago sulla quale torna dopo circa dieci anni di assenza.

7) Girl Eats Boy – Cool Disco (Remix)
Dietro Girl Eats Boy opera Lol Hammond, produttore che tra le altre cose vanta una collaborazione con Charlie Hall degli Spiral Tribe marchiata Drum Club e sviluppata attraverso tre album e parecchi singoli (su tutti “U Make Me Feel So Good” e “Sound System” remixata dal nostro Coccoluto). Come solista parte nel ’97 col supporto della Hydrogen Dukebox che manda in stampa prima “Thrilled By Velocity & Distortion” e poi “Comin’ In Loaded” da cui viene estratta “Cool Disco”, una specie di mix tra Propellerheads e Chemical Brothers. I tre remix solcati sul 12″ puntano più alla ballabilità, soprattutto quello dei System 7 dove un metti e togli strumentale fa quadrato intorno al breve messaggio vocale che ripete il titolo. Spassionato chemical beat nella reinterpretazione dei Chamber mentre gli A1 People ne ricavano qualcosa che suona come una sorta di house mutante con granulosità e rastremature electroidi.

8) Beroshima – Deebeephunky
“Deebeephunky” è uno dei primi dischi che Frank Müller destina alla sua nuova etichetta, la Müller Records, fondata dopo la chiusura della Acid Orange. Mollati gli istinti animaleschi dell’acid più tagliente e sfibrante, il berlinese si lancia in una techno muscolare e ricca di passaggi armonici e variazioni ritmiche da cui si innalzano cortine fumogene proprio come in “Deebeephunky (Just Money Is Honey)”, con astrattismi sullo sfondo a iniettare ulteriori vampate di energia. Effetti zigzaganti in reverse guidano “The Prisoner” mentre una sega circolare arroventata taglia come burro la massicciata di beat di “Seduction”. Nel nuovo millennio Beroshima virerà verso un suono con porzioni maggiori di melodia e riferimenti EBM per poi tornare alla techno con movenze dubbeggianti in tandem con l’amico Ulrich Schnauss.

9) Mr. Message – Let Me Take “U” Up
Uscita allo scoperto nell’autunno del 1997, Audio Esperanto è la piccola etichetta nata dalla sinergia tra Francesco Farfa e la Media Records. «Bortolotti creò una squadra di DJ molto ampia, schierata come l’Invincibile Armata spagnola, e aveva tutte le potenzialità per realizzare un grande progetto alternativo aggiungendolo ai numerosi successi collezionati negli anni passati» racconta Farfa in questa intervista. «Sia a lui che al socio Mauro Picotto piacque l’idea di Audio Esperanto perché spiccatamente alternativa a tutto ciò che girava in Media Records in quel periodo, e così iniziai a collaborare con loro». “Let Me Take “U” Up” è il brano con cui il DJ toscano, trincerato dietro lo pseudonimo Mr. Message, dà quindi avvio al progetto mettendo subito nero su bianco le sue intenzioni. Tre le versioni: la Long Train Mix, sul lato a, brulica di suoni prog techno marciando sotto un cielo plumbeo e scenari distopici tratteggiati da un break sospeso in atmosfere bladerunneriane. Sull’altro lato la Catch On Mix, in battuta spezzata con un pizzico di sound à la Fluke e scratch nell’alveo ritmico, e la Smile Vibe Mix, che chiude con evoluzioni tipiche del cosiddetto “sound of Tirreno” di cui Farfa viene ricordato tra gli iniziatori insieme a Miki Il Delfino. Con la ripubblicazione in Germania, “Let Me Take “U” Up” viene ulteriormente riletta in un remix da Toni Rios e WJ Henze in cui vanno dispersi però i caratteri originali a favore di una formula più generalista.

10) Freak Alliance – Mono Culture
Freak Alliance è solo una delle ragioni sociali con cui Klaus Krumme e Frank Thelen firmano musica negli anni Novanta. La loro techno è rocciosa, granitica, ritmicamente monolitica e geometrica come rivela “Reliance”. “Mono Culture” è una corsa su un rettilineo col pedale dell’acceleratore pigiato a fondo, “Outland” gioca coi doppiaggi incrociati dei suoni su una base saltellante. Il tutto sulla Overdrive di Andy Dux che crede nei Freak Alliance al punto da pubblicare anche un album su CD, “Division 1”, in cui gli autori esplorano vie meno danzerecce ai confini con l’ambient.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Marcello Giordani

1) discollezione Giordani
Marcello Giordani e parte della sua collezione di dischi. Tra le altre cose si scorgono un giradischi Technics SL-1210, un ghettoblaster ed uno Speak & Spell della Texas Instruments, in Italia commercializzato come Il Grillo Parlante

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
La stampa italiana su UMM di “Deep Inside” di Hardrive. A consigliarmelo fu mio cugino, tre anni più grande di me, che già faceva il DJ. A distanza di quasi un trentennio rimane un anthem della house music.

L’ultimo invece?
“Ways” di Robert Viger ed Alan Shearer, un disco economico ma di grande qualità annesso alla library music, pubblicato nel 1986. Sono innamorato di entrambe le versioni del brano “Champs Elysées” in esso contenute. Attualmente sto comprando parecchie library e sonorizzazioni di quel periodo, mi servono come ispirazione per il mio progetto Arredo destinato a musica in stile night club di periferia anni Ottanta.

Quanti dischi conta la tua collezione? Quanto hai speso per essa?
Ad oggi possiedo circa 6000 dischi ma ne ho venduti almeno 4000 prima di trasferirmi in Spagna, nel 2015. Ho deciso di tenere solo quelli che mi piace ascoltare dividendoli in quattro distinte categorie: italo disco, disco funk, house e boogie disco. Non saprei però quantificare il denaro speso, ma non penso tantissimo visto il valore attuale. Dal 2002 ho iniziato ad acquistare blocchi di dischi abbastanza grossi e ciò mi ha aiutato sensibilmente ad ampliare la mia raccolta scoprendo titoli nuovi (Discogs non era quello di oggi e YouTube non esisteva ancora) pagandoli pochissimo, dai trenta ai cinquanta centesimi l’uno. Tenevo quelli che mi piacevano, gli altri li ho venduti su eBay e, in seguito, su Discogs.

2) uno dei dischi di Giordani (1985)
“Working Overtime” di Goldie Alexander (1985), uno dei dischi presenti nella collezione di Giordani

Dove è sistemata e come è organizzata?
Si trova in una stanza a casa di mia madre, ho preferito non spostarla mai da lì, ed è indicizzata per stile musicale, così come spiegavo prima, o raggruppando i dischi appartenenti alla medesima etichetta.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Tutti i miei dischi sono imbustati dopo un accurato lavaggio con acqua, dischetti di cotone e sapone neutro. Non effettuo lavaggi periodici perché non credo sia necessario.

Ti hanno mai rubato un disco?
Me ne rubarono ben venti in un colpo solo mentre stavo suonando. Se non ricordo male era il 1996 e mettevo i dischi nella sala piccola della sede estiva del Marabù di Reggio Emilia chiamata Tempietto, durante i venerdì sera del Goldie Privée organizzati da Les Folies De Pigalle. Avevo la valigia super pressata di dischi così ne tirai fuori una ventina poggiandoli davanti alla stessa per facilitare la consultazione. Ad un certo punto mi girai e mi accorsi che erano spariti. Sguinzagliai immediatamente gli amici ma non trovarono nulla. Ancora oggi non riesco a spiegarmi come abbiano fatto a fregarmeli sotto il naso. Tra quei dischi ce n’era uno a cui tenevo particolarmente e che ho ricomprato, per soli due dollari, ad aprile del 2019 in un negozio ad Orlando, in Florida, durante un tour negli States.

3) MAW - To Be In Love
“To Be In Love” di MAW Featuring India, il disco a cui Giordani tiene maggiormente

Qual è il disco a cui tieni di più?
“To Be In Love” di MAW Featuring India perché, oltre ad essere a mio avviso la canzone house/garage più bella di sempre, penai a livelli assurdi per trovarlo. Credo di averlo sentito per la prima volta su Italia Network e me ne innamorai all’istante ma in radio evidentemente avevano un promo o un acetato perché nei negozi non c’era. Un paio di mesi dopo mi trovai a suonare al citato Goldie Privée dove ero resident mentre nella main room c’era Mauro Ferrucci. Lui chiese di iniziare nel privée mentre aspettava il suo turno da guest nell’altra sala e mise sul piatto un test pressing. A quel punto partì “To Be In Love”, non ci potevo credere! Chiesi subito a Mauro dove lo avesse trovato e mi disse di averlo preso in licenza per la sua etichetta, la Airplane! Records, anche se oggi ritengo fosse più banalmente un’incisione bootleg, sia perché era la Radio Edit, sia perché su Discogs non vi è traccia di quella stampa. Poco tempo dopo Dino Angioletti mi rivelò in una chiacchierata che quel brano si trovava su un CD di musica latina di Tito Puente (“Jazzin'”, del 1996, nda), visto che India era la nipote. Sino a quel momento non avevo mai comprato un CD anche perché non sapevo come suonarlo in discoteca. Tuttavia andai in un negozio della mia città e lo ordinai e dopo qualche giorno arrivò. Chiesi quindi in prestito a mio zio il lettore CD che, il venerdì seguente, collegai al mixer del Marabù. Ad un certo punto della serata “switchai” su CD e feci partire “To Be In Love”, finalmente lo suonavo anche io! Quello è stato l’unico CD che ho comprato nella mia vita. Quando il brano uscì ufficialmente ne presi due copie e da quel momento, ogni volta che ne trovo uno usato, lo compro senza battere ciglio. Credo di averne almeno quindici versioni di cui cinque della prima stampa su MAW Records.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una somma di rilievo?
“Night Fly/Shake It On” di The Clean – Hands Group: se mi capitasse a tiro potrei fare una pazzia. Però non l’ho mai visto in vendita da nessuna parte, ormai inizio a nutrire seri dubbi sulla sua reale esistenza.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti senza remore?
Migliaia. Fino al 2000 ho acquistato solo dischi nuovi (a parte qualcosa legata a disco e funk scovata alle fiere) ed ogni sabato andavo al Disco Inn di Modena. Per giustificare il viaggio che, tra andata e ritorno da Parma, contava 120 chilometri, compravo in media almeno dieci dischi di cui tre veramente belli e sette semplici tracce da “zero a zero” che suonavo una volta e poi finivano nel dimenticatoio. Ho svenduto tutto quel materiale in blocco nel 2015.

Quello con la copertina più bella?
“Magical Shepherd” di Miroslav Vitous, un LP del 1976.

4) altri dischi di Giordani
Un’altra foto di Giordani coi suoi dischi

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica e DJing?
Come anticipavo prima, solitamente andavo al Disco Inn di Modena che, insieme al Discopiù di Rimini, deteneva la leadership tra i meglio forniti in Italia. Essendo frequentato da praticamente tutti i DJ più famosi dell’epoca, l’aria che si respirava all’interno, per uno sbarbato come me, era di profonda sudditanza nei riguardi di Fabio Carniel, il “padrone della baracca”. Pur spendendo un sacco di soldi raccattati qua e là tra serate da 50.000 lire, paghetta settimanale e qualche 10.000 lire elargita sottobanco da mia nonna (avevo solo diciassette anni!), non venivo trattato da cliente ma piuttosto da semplice ragazzino che voleva emergere al cospetto di mostri sacri come Coccoluto, Massimino o DJ di quel tipo che ti ritrovavi sempre di fianco ad ascoltare dischi, quei dischi che però a me non facevano vedere neanche col cannocchiale. Ogni volta che entravo lì provavo un misto tra adrenalina e tensione ansiogena. Un giorno Daniele Mad, il commesso del Disco Inn, salì dal magazzino con venti copie di un 12″ appena arrivato e le distribuì a tutti i DJ importanti presenti in negozio curandosi però che io non la ricevessi. Mi misi quindi ad ascoltare quelli che mi avevano dato quando un tizio che mi stava di fianco me lo passò perché a lui non piaceva. Lo comprai solo per la soddisfazione di portare a casa un 12″ che in quel momento avevano solo i top DJ. Quando andai a pagare alla cassa, a farmi il conto fu Fabio e credo che il totale si aggirasse intorno alle 200.000 lire, per me davvero un sacco di soldi all’epoca. Nel momento in cui vide quel disco lo alzò e disse testualmente: «Daniele, ma chi cazzo ha dato ‘sto disco a questo qua?».

Internet ha stravolto i vecchi equilibri favorendo la diffusione libera di informazioni ma anche della musica. Ritieni che la gratuità abbia minato e distrutto il valore che le vecchie generazioni attribuivano alla musica? Cosa implicherà ciò in prospettiva futura?
Credo che la tecnologia sia una cosa buona se usata nel modo giusto. Sicuramente internet ha facilitato non poco, sia le nuove generazioni che quelle più vecchie. Io stesso, grazie al web, ho scoperto migliaia di brani che non avrei mai potuto conoscere recandomi semplicemente nei negozi di dischi, vedi tutta la scena nigeriana ed africana degli anni Ottanta per esempio. D’altro canto questa iper informazione super veloce e gratuita porta molte persone a non apprezzare realmente ciò che ascolta e a fare molta confusione. Ritengo però che, per merito di internet, sia aumentata parecchio la vendita dei dischi in vinile. Tutto sommato non la vedo così negativa.

Le tavolette cerate degli antichi romani o i papiri egiziani sono giunti sino a noi perché oggetti fatti da atomi, ma la conservazione della memoria potrebbe risentirne qualora la digitalizzazione prendesse il sopravvento? Si dice che in un futuro non troppo lontano esisteranno biblioteche/discoteche composte solo da ebook o file musicali, la cui esistenza sarà strettamente legata ad un backup archiviato su qualche nuvola informatica. In tal senso, la “cultura liquida” costituisce un pericolo per la tramandabilità ai posteri?
Dagli anni Settanta ad oggi la musica underground di qualità viene ancora stampata in vinile, fortunatamente direi. Quindi, prendendo in considerazione certa musica, rimarrà sicuramente anche un archivio di tipo “solido”. L’archivio digitale invece, piazzato su un server, potrebbe essere eliminato interamente dalla storia con un colpo solo o meglio con un semplice click. L’archivio solido, a differenza, è sparso in tutto il mondo e quindi, a meno che non arrivi un meteorite che disintegri l’intero pianeta, non potrà mai sparire da un giorno all’altro. Ma laddove dovessimo trovarci a fronteggiare una situazione simile, la musica sarebbe davvero l’ultimo dei nostri problemi.

5) L'home studio di Giordani
Uno scorcio dell’home studio di Marcello Giordani: si vedono, tra gli altri, un Sequential Circuits Prophet 600, un Roland Juno-106, una Yamaha TQ5 ed una Yamaha RX11

Una delle tue prime produzioni discografiche risale al 1999, “The Raw Show” di Jordany, sulla Hole Subaltern di Ivan Iacobucci. Come ricordi quell’esperienza e quali ragioni ti spinsero a cimentarti nell’attività compositiva?
All’epoca già esisteva il profilo del DJ producer quindi per me fu un passo abbastanza naturale. Nel 1999 avevo ventitré anni e già suonavo in posti famosi come il Kinki, Les Folies De Pigalle o l’Echoes ed avevo acquisito una sorta di credibilità tipo “questo emergente è bravino”. Conobbi Iacobucci grazie a Dino Angioletti di cui sono amico stretto da venticinque anni e gli proposi un EP mandandogli un CD con su incisi ben ventotto demo. Ne scelse tre, “Electro Stiff”, “Fully Loop” e “Funk Bandit”, finiti per l’appunto in “The Raw Show”. All’inizio in studio ero piuttosto inconcludente, non mi piaceva mai quello che facevo quindi ero sempre restio a mandare demo in giro. Per questa ragione la mia vera carriera da producer la considero a partire dal 2007.

Nel corso degli anni hai progressivamente intensificato il numero di produzioni, sia in solitaria che con altri artisti, ma con una costante ossia quella della pubblicazione “fisica”. C’è un livello emozionale, o qualcosa simile, che per te continua a contraddistinguere le uscite su 12″ rispetto a quelle digitali?
Assolutamente. Per me un’uscita solo in digitale non vale nulla, sia per il motivo che ho spiegato sopra ma anche perché il digitale, visto il costo di produzione praticamente nullo, ha contribuito ad immettere sul mercato una quantità massiccia di musica che, se qualcuno avesse dovuto investirci del denaro (tra master, transfer, stampa, artwork, promozione etc) non sarebbe mai uscita. Oggi ci si sveglia la mattina, si inventa un’etichetta, si carica un EP con tre tracce e si contatta una delle innumerevoli agenzie di promo pool che con 200 € le spammeranno ovunque. Per questa ragione ho preferito cancellarmi da quasi tutte le mailing list. In conclusione: se esce un disco “fisico” vuol dire che il tuo prodotto ha un potenziale che merita un investimento.

In un’intervista che ti feci nel 2012 parlammo di quei personaggi che si definiscono DJ pur non avendo mai tenuto un disco in mano. Il futuro, anche in relazione al difficile momento causato dalla pandemia, sarà dei file jockey che magari si esibiranno via streaming in club virtuali? Se sarà effettivamente così, si potrà ancora parlare di clubbing e di DJing?
Penso che il DJ set in streaming sia una delle cose più annoianti che possano esistere. Il DJing non è e non deve essere, a mio avviso, uno show spettacolare. In passato il DJ rimaneva in alto, vedeva la pista da una prospettiva borderline, spesso la cabina era addirittura chiusa col vetro come al Cosmic. Ora invece basta andare su Twitch per imbattersi in personaggi che, proponendo musica di dubbio gusto, si inventano i format più disparati pur di attirare l’attenzione del pubblico. C’è la DJ tettona, il DJ mascherato, il DJ col gattino, quello che ha la cameretta che pare voglia fare concorrenza al laser show del Tomorrowland… Non discuto il fatto che la tecnologia abbia facilitato l’avvento di nuovi DJ ma non digerisco che venga snaturata completamente l’etica di questo mestiere da chi, sprovvisto di talento, sfrutti la facilità che adesso permette di “sembrare” un DJ e lo faccia solo per la voglia di apparire.

Scegli tre brani che meglio si abbinano a tre momenti particolari della tua carriera: gli inizi come DJ, l’avvio del blog Italo Deviance e l’affermazione internazionale come Marvin & Guy insieme ad Alessandro Parlatore.
Riguardo i miei esordi nei primi anni Novanta citerei ancora “To Be In Love” di MAW Featuring India, il disco che più mi ha fatto capire come la musica house, se fatta bene, non abbia davvero nulla in meno rispetto a qualsiasi altro genere pop. Poi, solo a pensare quando lo mettevo a venti anni, mi viene ancora la pelle d’oca. Del periodo Italo Deviance invece direi “Dirty Talk” di Klein & MBO, il brano che mi ha convinto che l’house music sia nata in Italia e che noi italiani non abbiamo nulla da invidiare agli americani o agli inglesi. Riguardo Marvin & Guy, infine, sono legatissimo a “Meet Me At TOPAZdeluxe” di Rebolledo: oltre ad essere un pezzo stupendo, è stato uno dei brani che più ci ha ispirati quando siamo passati dal suono puramente disco a quello più elettronico che chiamavamo “groovy techno”. Il titolo fa riferimento al Topaz, un club di Monterrey, in Messico, dove abbiamo tenuto due/tre gig. L’ultima volta che ci siamo stati lo abbiamo messo ed è stato veramente magico: quando uscì, nel 2011, non ci conosceva nessuno ma in quel momento eravamo lì come ospiti.

6) Giordani con Plastic Love di Zed (Fuzz Dance, 1983)
Marcello Giordani ed un altro cult della sua raccolta, “Plastic Love” di Zed (Fuzz Dance, 1983)

Il tuo blog Italo Deviance, connesso all’omonima etichetta discografica, ha offerto una miriade di gemme del passato. Perché ad un certo punto hai mollato?
Il blog nacque per puro caso nel 2008 quando mi misi a digitalizzare i miei vinili italo disco. Pensai che sarebbe stato divertente proporre le rarità della collezione e le versioni strumentali che praticamente erano introvabili in Rete. Nel giro di un annetto l’iniziativa ebbe un successo inaspettato seppur non mi avesse mai sfiorato l’idea di intraprendere una carriera in quella direzione. Quando iniziarono ad ingaggiarmi per mettere dischi in tutto il mondo capii che, involontariamente, avevo fatto centro. Nel 2011 cominciai ad organizzare un party a Parma chiamato Apartment con Alessandro e l’anno dopo decidemmo di lavorare insieme in studio. Le cose andarono piuttosto bene ma visto che il progetto Marvin & Guy necessitava di parecchie energie, ho dovuto sacrificare il tempo che prima dedicavo al blog. Il progetto si è arenato del tutto quando mi sono trasferito in Spagna, da quel momento mi era impossibile reperire nuovo materiale da inserire.

Conti di incidere un nuovo album, dopo “Respect Yourself” del 2013 ed “Orizzonti” del 2018?
Lo ho completato giusto un mesetto fa: conterrà dodici tracce, si intitolerà “Advanced Process” ed uscirà a settembre su un doppio 12″ sempre su Slow Motion Records.

Nell’intervista del 2012 prima citata parlammo anche dell’immobilismo musicale italiano. «Il nostro Paese non è mai riuscito a farsi rispettare, non solo in ambito musicale» affermasti. Aggiungendo però che «la nuova generazione di DJ e produttori italiani si sta coalizzando, e invece di farsi la guerra come succedeva negli anni Ottanta, si supporta a vicenda. Ciò ha cambiato la percezione di chi vive all’estero, e i risultati si vedono». A quasi dieci anni di distanza, la situazione si è evoluta ulteriormente, nel bene o nel male? Cosa prevedi per il futuro, soprattutto dopo la fine dell’incubo covid-19?
Come stiamo assistendo in questi mesi, il popolo italiano è diviso più che mai su tutto e la scena musicale non fa eccezione. C’è comunque un progetto molto forte, ancora in fase di sviluppo, che punta a creare una scena italiana potente e compatta a livello mondiale, ma per ora non posso dire di più. Riguardo il mondo dei club post covid non saprei, a me stanno arrivando parecchie offerte ma è tutto talmente incerto che faccio fatica solo a tenerle in considerazione. Il sogno è quello di tornare liberi prima possibile ma non vorrei illudermi troppo.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegando le ragioni.

Nu Colours - DesireNu Colours – Desire
Penso che questo sia stato il disco, dopo “To Be In Love” di MAW Featuring India, ad avermi fatto penare di più. Era il periodo in cui frequentavo assiduamente (spesso suonando all’apertura) i più famosi club di Bologna e Riccione. Il posto che prediligevo su tutti era il New York Bar, il primo after tea italiano che partiva alle cinque del pomeriggio e si concludeva a mezzanotte, in cui il DJ resident superstar era Ivan Iacobucci. Durante la seconda stagione Ivan iniziò a proporre “Desire” attraverso un acetato e il pezzo divenne immediatamente l’inno di quel club a San Luca. Ogni settimana andavo a Modena al Disco Inn chiedendo se fosse uscito ma dovetti armarmi di pazienza ed aspettare la stampa italiana (su licenza Impulse del gruppo Media Records, nda) che arrivò quasi un anno dopo. Senza possedere il disco non potevo neanche ascoltarlo ed era davvero tragico per me. Una sera uscii con un amico e tornando a casa, verso le tre del mattino, mi addormentai in macchina. Mi svegliai sulle note della Full Chorus London dei Masters At Work e in quel momento credetti di sognare ma invece era tutto vero, il mio amico stava ascoltando una cassetta di Ralf del programma mixato su Radio DeeJay, Zerodue, registrato qualche giorno prima. Doppiai quel nastro ascoltandolo in loop per mesi fino al giorno dell’uscita ufficiale del disco. Adesso credo di possedere tutte le stampe esistenti compreso il test pressing.

Wanexa - The Man From ColoursWanexa – The Man From Colours
Per tutti i cultori dell’italo disco ritengo sia il most wanted per eccellenza. Oltre ad essere molto raro però “The Man From Colours” a mio parere rappresenta, attraverso arrangiamento e voce, il suono più puro degli albori dell’italo. Curiosamente a dispetto del prezzo ormai altissimo della stampa originale su Discomagic risalente al 1982, il disco suona veramente male. Una volta ne parlai con gli autori, Franco Rago e Gigi Farina che conosco molto bene, e mi dissero, ridendo, che venne registrato attraverso una comune piastra per cassette per giunta malfunzionante e che perdeva i giri. L’ho mancato un paio di volte nei mercatini dell’usato ma finalmente, dopo sedici anni, l’ho trovato in un blocco di dischi comprati su eBay pagandolo appena due euro. Così come si dice nel gergo di noi collezionisti, “prima o poi i dischi arrivano”. Keep on diggin’!

Caroline Crawford - My Name Is CarolineCaroline Crawford – My Name Is Caroline
Intorno al 1998 trovai un disco con un brano per lato ed etichetta verde senza scritte. Capii subito che si trattava di un bootleg stampato ai tempi della musica afro funky degli anni Ottanta ma riuscii a scoprire solo il titolo di una traccia, “J’Ouvert” di John Gibbs With The Jam Band, l’altra invece rimase avvolta nel mistero. Anni dopo presi, per puro caso, “My Name Is Caroline” di Caroline Crawford, corista di Hamilton Bohannon: una delle canzoni incluse nell’LP, “Riding On Your Love”, era proprio la seconda traccia di quel bootleg! Ps: per identificare brani ignoti, quando non esistevano ancora YouTube, Spotify, Discogs e tantomeno Shazam, andavo alle fiere del disco con walkman e cassette di Larry Levan e Ron Hardy facendo sentire i pezzi a cui ero interessato ad un venditore specializzato in discomusic in modo da acquistare, qualora fossero stati disponibili, i dischi in questione.

Kashif - KashifKashif – Kashif
C’è poco da dire qui, Kashif è e rimarrà per sempre il mio artista preferito. Il suo è un suono unico, con groove ed arrangiamenti impeccabili, sexy, funk, con inserti di sintetizzatore e voce angelica. Insomma, non ha rivali. Questo album del 1983 edito dalla Arista è il suo primo disco inciso da solista dopo aver lasciato i B.T. Express ed entra a pieno titolo nella mia personale top 5 di tutta la vita.

Giorgio Farina - DiscocrossGiorgio Farina – Discocross
Dal 1995 frequento il negozio di dischi Planet Music di Reggio Emilia, lì dove ho trovato parecchie chicche in occasione di “missioni” dalla durata esagerata (talvolta anche quattro ore!) svolte in un magazzino che conteneva 30.000 dischi. Un giorno mi misi ad ascoltare materiale appena arrivato e tra i tanti c’era un promo della RCA Italiana intitolato “Discocross”. All’epoca il mio gusto non era ancora molto formato a livello di discomusic, per me esisteva solo quella americana tipo Salsoul Records, West End, T.K. Disco etc. Lo ascoltai e fui subito attratto dal basso della traccia “Tawawa’s” ma essendo un disco italiano nutrivo parecchi pregiudizi a riguardo e non lo comprai seppur costasse appena cinquemila lire. Quella notte, a casa, continuava a frullarmi in testa così il giorno dopo tornai apposta a Reggio Emilia per riascoltarlo ma lo lasciai nuovamente lì. Qualche giorno dopo mi decisi dicendo, tra me e me, «vado e lo compro». Ovviamente non c’era più. Lo ritrovai diversi anni più tardi ed adesso è uno dei miei album preferiti di disco italiana.

Gwen Guthrie - PadlockGwen Guthrie – Padlock
Penso sia uno dei migliori mini album della scena post disco, uscito nel 1983 sulla Garage Records e mixato da Larry Levan. Contiene sette brani, uno letteralmente più bello dell’altro. Non ho aneddoti in particolare ma so per certo che non potrei farne a meno.

May Ervin - What Is ItMay Ervin – What Is It
Nel 2001 iniziai a seguire uno dei primi blog legati alla divulgazione di musica dance underground, www.danceclassics.net. Non esistevano ancora piattaforme attraverso cui scoprire nuova musica (l’alternativa era ascoltare i dischi, se li trovavi ovviamente), quindi affidarsi ai guru che pubblicavano brani assolutamente sconosciuti anche ai digger più incalliti era praticamente la scelta migliore. Quel tipo di blog, più avanti, ispirò pure il mio Italo Deviance. Danceclassics era orientato alla musica boogie disco anni Ottanta: non permetteva di scaricare file MP3 ma metteva a disposizione clip della durata di un minuto. Facendo tesoro di quell’ascolto si poteva andare su eBay, GEMM o MusicStack, tutti precursori di Discogs, e comprare il disco. A patto di trovarlo e di avere denaro a sufficienza ovviamente, visto che la maggior parte di quei titoli erano incisi su 12″ estremamente rari e spesso editi su private pressing prodotti da band di quartiere in quantità limitatissime. Tra le tante scoperte fatte su quel portale c’è “What Is It” di May Ervin, pubblicato anche col nome Maye Ervin e lo stesso brano in versione Dance Mix. Il bassline è incredibile, sicuramente fu suonato da un tastierista jazz perché è un virtuosismo che dura sei minuti, da pelle d’oca. La voce e l’arrangiamento super deep rendono questo pezzo un mix tra boogie disco e proto house music. Un brano difficile ma se ti conquista non smetti più di ascoltarlo, così come è successo a me.

Fascination - Shine My LoveFascination – Shine My Love
“Shine My Love” è un altro di quei dischi che ho posseduto parecchie volte sottostimandolo nettamente. L’ho venduto, scambiato, regalato…Mi è ricapitato tra le mani giusto qualche mese fa e lo ho riascoltato con attenzione rendendomi conto di come a volte essere prevenuti possa giocare nettamente a sfavore della scoperta compromettendo alcune esperienze. Sono un fan di Mauro Malavasi e di tutte le sue produzioni a partire dai Change e questo pezzo sembra recare proprio la sua firma. In realtà a scriverlo, nel 1984, furono David Sion ed Elvio Moratto, proprio quel Moratto che esplose con la techno commerciale negli anni Novanta.

Paul Russaw - Thoughts Of YouPaul Russaw – Thoughts Of You
Tra il 1995 e il 1996 la musica che andava di più nei club house in Italia era la garage ed io, ovviamente, suonavo quella. Essendo uno “sbarbo”, come ho raccontato prima molti dischi non me li facevano neanche vedere nei negozi ma tante cose me le perdevo anche perché non avevo abbastanza soldi per comprarle. Tre anni fa ho iniziato a fare incetta su Discogs di tutti i dischi di garage house americana, facilitato dal motore di ricerca del sito che permette di passare al setaccio le pubblicazioni in maniera capillare. Adesso posso vantare di possedere tutti i dischi che mi piacciono di quel genere, pagati veramente poco, ma anche di aver scoperto nel frattempo cose incredibili tra cui questo disco di Paul Russaw. Uscì in due versioni su Kult Records ma a colpirmi direttamente al cuore è quella che contiene la H. Squared Mix. Una voce incredibile abbinata ad un arrangiamento semplice ed ipnotico. Compratelo se siete amanti del genere.

Powerline - Watching YouPowerline – Watching You
Ad un certo punto, dopo anni ed anni di ricerche anche online, mi convinsi che questo disco non esistesse e che fosse solo una leggenda, ma poi, quando l’ho visto in vendita su Discogs ad un prezzo altissimo, mi sono dovuto ricredere. Tenuto in wantlist per un biennio circa, la pazzia l’ha fatta la mia fidanzata durante la cena del mio compleanno nel 2020: eravamo entrambi ubriachi e mi disse: «dai, questo te lo regalo io!».

(Giosuè Impellizzeri)

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100 dischi estratti dal flight case di Claudio Coccoluto

È trascorso esattamente un mese dalla prematura dipartita di Claudio Coccoluto, da anni fedele sostenitore di questo blog. Di lui abbiamo parlato in ben più di qualche occasione: in archivio c’è un episodio di Dentro Le Chart, che ripesca una sua top ten del 1996, un articolo/intervista dedicato a “Belo Horizonti”, il brano più noto del suo repertorio, ed una monografia su Heartbeat, l’etichetta house che lo ha visto tra i primi protagonisti trent’anni or sono. Si possono rintracciare altre citazioni sparse attraverso la relativa tag https://decadancebook.wordpress.com/tag/claudio-coccoluto
In cantiere, sin dal marzo 2020, c’era una lunga intervista destinata alla rubrica “Discollezioni” ma il destino ha voluto che rimanesse un lavoro incompiuto.

Claudio Coccoluto, 1997
Coccoluto immortalato in uno scatto del 1997, tra gli anni più fortunati della sua carriera specialmente sotto il profilo discografico

In sua memoria arriva quindi questo speciale che raccoglie dieci selezioni della rubrica “Global Beats” curata da Coccoluto per il Disco Mix, il free magazine nato tra le mura del Disco Inn di Modena di Fabietto Carniel a cui l’artista era legato dal rapporto di collaborazione lavorativa ma anche e soprattutto da una fraterna amicizia. Il periodo di riferimento copre il quinquennio 1996-2001, forse creativamente il più galvanizzante per l’eroe sonico originario di Gaeta. A differenza dei consueti episodi di “Dentro Le Chart” però, qui lo spazio dei testi è stato intenzionalmente soppresso col fine di privilegiare unicamente la musica, autentico cibo per l’anima. La vera protagonista è quindi la selezione da cui filtra la sensibilità, il gusto, l’eclettismo e la poliedricità di Coccoluto che proprio in quegli anni inizia a parlare con insistenza di “global house” (primo payoff della citata Heartbeat) per indicare un contenitore eterogeneo di stili, culture e ramificazioni col fine di uscire dal contrasto dicotomico tra generi considerati distanti ed incomunicabili. «Oggi è necessario distinguersi nella ricerca musicale e il DJ alternativo o d’avanguardia deve sbattersi parecchio e questo è un segnale positivo» affermava in un’intervista a cura di Massimo Cominotto apparsa sulla rivista Trend Discotec ad agosto 1999. Aggiungendo: «Per farsi notare il DJ deve impostare una ricerca a 360 gradi. Dopo la cultura del promo, cerco vecchi dischi da inserire nel mio set, anche di generi diversi, dal funk all’elettronica. Viviamo un appiattimento generale ed ormai anche gli americani che hanno inventato la house hanno esaurito le idee. Chi produce musica lo fa scopiazzando i suoni della hit del momento. I Daft Punk sono esplosi perché hanno portato una ventata di novità con un prodotto suonabile indistintamente dai DJ house e da quelli techno».

Il DJ di cui parla Coccoluto è una sapiente guida ed attento conoscitore di musica e non un trascinatore di folle che asseconda passivamente il gusto generalista, a mo’ di jukebox umano nella migliore delle ipotesi ma a volte ai confini con un imbonitore da fiera. Del resto vedere riconosciuta la dignità di questa professione è stata anche la missione dello stesso Coccoluto durante una carriera lunga oltre tre decenni. «Negli anni Settanta fare il DJ significava riprodurre in una stanza i successi del momento per condividerli con un gruppo di amici» scriveva nel libro “Io, DJ”, realizzato col critico musicale Pierfrancesco Pacoda (Einaudi, 2007). «Era una figura marginale, stava nascosto in un angolo buio del locale e gli veniva richiesto soltanto di cambiare dischi. Sostituiva la macchina offrendo una sequenza di brani ai quali non aggiungeva la sua personalità». Poi le cose, per fortuna, sono cambiate ma chi sceglie di essere un DJ non dovrebbe mai dimenticare due parole chiave, “intuito” e “passione”, le stesse che Claudio citava nel suo C.O.C.C.O. sul numero d’esordio dell’edizione italiana della rivista Trax a giugno 2005.

Dai cento pezzi presenti in questa lunga carrellata pazientemente ricostruita emerge nitidamente la sua cifra stilistica identitaria unita alla propensione di scavalcare i confini e mettere insieme cose apparentemente inconciliabili così come vorrebbe il DJing inteso nel senso più alto del termine, quello a cui lui teneva più di tutto e che se oggi esiste è anche per merito suo. Ciao Claudio. (Giosuè Impellizzeri)

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1) Digs, Woosh & Mr Ski – Rumpfunk

2) Neil Sparkes & The Last Tribe – Achtung Salaam!

3) Russ Gabriel – Back In Charge

4) DJ Harvey – I Am A Man

5) Spank Da Monkey – Why Things Change

6) Straight Life – The Message

7) Superstars Of Rock – Up All Night (Won’t Make The Gym)

8) Nu World Braves – Monkey Shins

9) Afrikan Jazz – Stubborn Problems

10) Bitch Kreek – Future Sex

11) Monsieur D – Hot Love

12) Presence – Unreleased Stuff Vol. 1/2

13) Funky N.A.S.A. – Flutopia

14) Basement Jaxx – Sleazycheeks EP

15) Mato – Tribe / Drifting

16) Daphreephunkateerz – Get Pissed On Brooklyn Bridge

17) Moodymann – Music Is … Moodymann

18) Dimitri From Paris – Dirty Larry

19) Holy Alliance – Precious Love (The Ages Of Love)

20) Cooly’s Hot Box – We Don’t Have To Be Alone

21) Daft Punk – Around The World

22) Jori Hulkkonen – It’s All Over Now

23) Faze Action – Plans & Designs

24) Dubtribe Sound System – The Momentito Por Favor EP

25) Fandango Widewheels & Huggy Bear – Eighties-Nineties

26) Gemini – On The North Star With Gemini

27) Crash Control – Henny’s Keys

28) First Choice – Armed And Extremely Dangerous (1997 Remixes)

29) The Papp / Preston Project – Everybody

30) 70’s Freaks – Love & Life EP

31) The Glenn Turner Project – Power

32) Finness – Waterfalls

33) Disco Dub Band – For The Love Of Money

34) The Space Invaders – Calypso Madness

35) Sarah H.B. + G-Force – Extra Suave

36) Street Corner Symphony – The Fifth Symphony

37) Plus – Triple Journey

38) Ulfuls – Guts! Remix

39) Claudio Coccoluto – It’s New Funky

40) Leo Young And Richard Waterhouse Featuring Steve “Bongo” Young – From Russia With Funk

41) The Ballistic Brothers – A Love Supreme

42) Sesso Matto – Experience

43) Johnny Fiasco – Defacto

44) Leo Young – The Subiaco Project

45) DJ Hiro – Koté Moun Yo

46) Lemon Jaxx – Lemon Jaxx EP

47) DJ Q – Face The Music

48) Drum Headz – Come On Baby

49) The World Famous Martinez Orchestra – Grand Hotel Las Palmas

50) Dimitri From Paris – Jazzin The House (Claudio Coccoluto Remixes)

51) Oddworx – Body Language EP

52) Future Homosapiens – Keep On Rollin’

53) Elektric Suedehead – Micklefield Skyline

54) Joey Negro Presents The Sunburst Band – Atlantic Forest

55) Eric K.J. Wesenberg – Egocentric

56) Propellerheads – Decksandrumsandrockandroll

57) Blakkat – Mo Fear

58) Bob Sinclar – Super Funky Brake’s Volume 1

59) Organic Audio – The Oddstep EP

60) Bronx Dogs – Tribute To Jazzy Jay

61) Brother Of Soul – Celebration Of Life

62) Organic Audio – Back To My Roots

63) Hell – Munich Machine

64) Armand Van Helden – 2 Future 4 U

65) Marschmellows – Comprende?

66) Lexicon – Lexicon

67) Brothers’ Vibe – Dub Plates 4

68) Peace Division – Over & Over

69) Tutto Matto – Irresistable Bitch

70) Super_Collider – Darn (Cold Way O’ Lovin’)

71) Idjut Boys – Turntable Turbulance

72) Various – Glasgow Underground Volume Two

73) Maurice Fulton – Up

74) Men From The Nile Featuring Peven Everett – Watch Them Come!!!

75) Nick Holder – I Once Believed In U

76) Tutto Matto – Do What You Want

77) Celeda – This Is It

78) Everything But The Girl – Five Fathoms

79) Interfearence – All Day

80) Claudio Coccoluto – Uno Nuovo Remix

81) Les Rythmes Digitales – Jacques Your Body (Make Me Sweat)

82) Monday Michiru – Cruel 2 Be Kind (Basement Jaxx Remix)

83) Habana Electric – Return To Cuba

84) DJ Q – Optimum Thinking

85) Underworld – King Of Snake (Remix)

86) Kruton – Cac

87) Syrup – Sweat Shop

88) The Aztec Mystic A.K.A DJ Rolando – Knights Of The Jaguar EP

89) Ballistic Mystic – Imperial Cruise EP

90) Disco Vampires – Every Body Have A Good Times

91) Stylophonic – Vinylstyloz

92) Adam Smasher Vs. Hawke – Party People

93) Los Chicharrons – The Feeling’s Right

94) Wuz – Wuz / Keep On Dancin’

95) Llorca With Nicole Graham – Indigo Blues

96) Jeff Mills – The Electrical Experience

97) Various – Nu Afro Latin

98) Unit K – Mindless Boogie

99) Röyksopp – Poor Leno

100) Maurice Fulton – Why Put Me Through It

Jack Floyd – Move Your Feet (Ocean Trax/Epic)

Jack Floyd - Move Your Feet

Da adolescente Giacomo Petroni, classe ’79, vive il boom che la musica dance conosce negli anni Novanta, sia quella di largo consumo che più settoriale. Come tanti ragazzini di allora è attratto da uno dei mass media che ricoprono una posizione più rilevante sino all’avvento di internet, la radio. «In quel decennio erano molteplici le emittenti a “passare” musica da discoteca ed alcune di esse avevano in palinsesto anche programmi dedicati a generi meno commerciali (house, deep, progressive, techno)» racconta oggi Petroni. «Una mia vicina di casa, Vania, più grande di me di un paio d’anni, ascoltava ogni sabato la DeeJay Parade ed io seguii il suo esempio. Fu sempre lei a convincere i miei genitori a mandarmi in discoteca una domenica pomeriggio, quando avevo solo quattordici anni. Era il locale che frequentava ogni settimana e pure la discoteca in cui, tempo dopo, suonai per la prima volta davanti al grande pubblico, nel 1995, proprio la domenica pomeriggio. Si chiamava Pianeta Rosso (ma noto anche più semplicemente come Il Pianeta) e quando ci misi piede per la prima volta rimasi folgorato dal DJ e da tutto quello che faceva. Però non mi affidarono la consolle ad occhi chiusi. Ad insegnarmi pazientemente la tecnica del mixaggio con musica funky, suonata a mano, dove non c’era niente di elettronico, fu Edoardo, un amico più grande di me purtroppo mancato prematuramente pochi anni fa. Era uno dei clienti del distributore di benzina che gestivano i miei genitori e viveva sulle colline, non distante da casa mia. Faceva il disc jockey in una nota discoteca della provincia così gli chiesi di andare a casa sua per vedere l’impianto che aveva (giradischi, mixer, casse). Ero davvero curiosissimo e mosso da quel tipico entusiasmo spasmodico di un adolescente. Una volta imparato a mixare col funky, avrei potuto fare altrettanto con la musica moderna anche senza l’uso delle cuffie! In seguito ho avuto altri “maestri” che ho seguito e dai quali ho imparato molto, ma tutto è avvenuto con naturalezza e senza alcun obiettivo di raggiungere la notorietà. Trascorrevo ore ed ore appoggiato alla consolle per osservare ed apprendere la tecnica dai veri professionisti».

“Fare il DJ”, ai tempi, è ancora considerato alla stregua di un hobby sebbene potenzialmente trasformabile in una professione. A differenza di adesso però, quella del disc jockey non era una figura che godeva di una conoscenza generalizzata e trasversale anzi, certi ambienti la vedevano un’attività di second’ordine. «”Fare il DJ” voleva dire tante cose» afferma laconicamente l’artista toscano. «Innanzitutto conoscere la musica, e non solo quella da discoteca, poi saper scegliere il genere da suonare ed essere impeccabile nella tecnica per evitare di essere fischiato. Bisognava inoltre saper gestire una serata spesso incrociando generi differenti seppur simili. Io riuscii a comprarmi due giradischi (a cui poi aggiunsi un terzo) ed un mixer ma non nell’immediato perché avevano un costo non trascurabile e non potevo permettermeli. Pur non disponendo di un impianto, spendevo i soldi che avevo in dischi, ascoltandoli a casa di amici che magari possedevano un giradischi dei genitori. La tecnica però, una volta imparata, non l’ho più dimenticata. Nel momento in cui ebbi la possibilità di acquistare il minimo indispensabile iniziai a passare ore sul mixer, un po’ come fanno oggi le nuove generazioni coi videogiochi. Da lì cominciai a mettere musica nelle varie festicciole di paese che pullulavano di pubblico. Era divertentissimo. Prima di comprare il terzo Technics SL-1200 me ne feci prestare uno da un amico per un po’ di tempo perché avevo il desiderio di provare a mixare con tre piatti. Il sogno divenne realtà e devo ammettere che mi riusciva piuttosto benino. Quando si prospettò la possibilità di suonare in discoteca, facevo set di musica techno/progressive di circa un paio d’ore con tre giradischi, un’assoluta novità per un locale di provincia dove c’erano in media almeno duemila persone ogni domenica. Fu un vero successo col pubblico in delirio. Il Pianeta Rosso di Antraccoli, nel tempo trasformato in Kuku, solitamente chiudeva alle 19 ma una volta continuai quasi sino alle 20:30. A quel punto il direttore, arrabbiatissimo, staccò la corrente dalla consolle. Il problema poi fu convincere ad uscire le persone che continuavano ad urlare “ultimo, ultimo!”».

Jack FLoyd @ Pianeta Rosso (1996)
Sopra due vecchie foto che ritraggono Jack Floyd in consolle al Pianeta Rosso nel 1996, sotto, da sinistra, il logo della discoteca di Antraccoli e un vecchio flyer su cui il nome del locale è Il Pianeta

A livello tecnologico le cose sono radicalmente mutate ma anche sotto il profilo motivazionale il DJing ha cambiato pelle con l’arrivo della globalizzazione. «L’approccio al mondo dei DJ e dei club oggi è totalmente diverso» prosegue Petroni. «Noi avevamo la fortuna di non avere ancora troppi “miti” proprio perché quelli che sono diventati guru della consolle stavano ancora nascendo. L’unica nostra aspettativa era essere bravi tecnicamente e in grado di proporre una buona selezione musicale. Ora invece, nella maggior parte dei casi, la competenza tecnica non è più indispensabile e potendo reperire tutta la musica che si vuole con una spesa minima o persino pari a zero, tutti possono spacciarsi per DJ. Molti però hanno un approccio da influencer con l’unico obiettivo di diventare famosi. A noi delle vecchie generazioni invece questa metodologia non interessava affatto. La “magia” che fortunatamente abbiamo vissuto adesso si è eclissata o quantomeno ridotta. Credo che tutto ciò abbia finito con lo sminuire la figura del DJ. Resto dell’idea che, seppur oggi chiunque possa mixare, i veri DJ siano pochi e quando salgono in consolle la differenza si vede e, soprattutto, si sente».

Spotlight Avenue - Get Together
La copertina di “Get Together”, il disco d’esordio di Petroni pubblicato dalla Ocean Trax nel 1999 e firmato come DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue. Opportunamente rielaborato, due anni dopo diventerà il più noto “Move Your Feet”

Già negli anni Ottanta molti disc jockey si cimentano come produttori ma questo avviene in maniera ancora più evidente e sistematica nei Novanta, decennio che elegge la figura del “DJ-produttore”. Favorito da tecnologia dal costo più abbordabile ed attratto da allettanti potenzialità economiche, un numero sempre più corposo di “fantini del disco” non si limita più a selezionare e mixare musica altrui ma crea la propria come avviene per Petroni che continua a raccontare: «Misi il primo piede in studio del 1997. Era di Alberto Bambini che avevo conosciuto tramite un amico DJ. Abitava a pochi chilometri da casa ed aveva allestito lo studiolo con PC, mixer e qualche sintetizzatore. In quel periodo produceva musica italodance (era dietro a “Disco Disco” di Mabel di cui parliamo qui, nda) e cercava un DJ che lo affiancasse per scegliere i groove migliori da campionare o risuonare nei suoi pezzi. In quel momento si aprì un nuovo mondo, nonostante quello non fosse proprio il genere che prediligessi. Mi piaceva stare in studio e pian piano imparai ad usare Cubase, sequencer che uso tuttora, e a costruire un brano da zero, dall’idea iniziale allo sviluppo delle ritmiche, dalla scelta dei suoni ai sintetizzatori e ai vocal». La prima produzione di Petroni, firmata DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue, viene pubblicata nel 1999 dalla Ocean Trax, blasonata etichetta house di Gianni Bini e Paolo Martini. Si intitola “Get Together” e gira su un sample tratto da un classico della disco, “Lady Bug” dei Bumblebee Unlimited, del 1978. «Vedere stampato un mio disco fu una cosa stratosferica a livello emotivo» ammette candidamente l’autore. «Arrivai a Gianni Bini attraverso David Togni, un suo amico DJ che mi ha insegnato tutto quello che c’era da sapere su come gestire una serata. Un giorno, forse in occasione di una cena, dissi a Bini che avevo iniziato a fare qualcosa in studio così quando la ultimai mi venne naturale proporla proprio a lui. Il pezzo gli piacque al punto da stamparlo su Ocean Trax, una delle etichette italiane più in voga all’epoca (con successi come “Makes Me Love You” di Eclipse, “Disco Down” di House Of Glass Featuring Giorgio Giordano e “Soul Heaven” di The Goodfellas, nda). Siccome l’iscrizione come autore/compositore in SIAE richiedeva ancora l’esame e, di conseguenza, mesi di attesa, decisi di far firmare Togni come autore del brano. Non avevo tempo poiché la pubblicazione del disco era prevista a breve. “Get Together” non vendette moltissimo per l’epoca ma rimase una soddisfazione immensa».

Nel 2001, dopo aver partecipato in veste di autore e remixer ad altre produzioni di Alberto Bambini come “Mabel” di Melba, “Hell Or Heaven” di Aural, “Bye Bye” di Rabanne e “Give Me More” di 4 Factory, “Get Together” si trasforma in “Move Your Feet” che ad oggi resta la maggiore hit del repertorio petroniano. Il rimaneggiamento si rivela provvidenziale al punto da trasformare un brano passato inosservato al grande pubblico in un autentico successo che coinvolge platee immense e radio generaliste. «”Get Together” era un disco “dub” suonato in vari club ed eventi da DJ di settore ma con una grossa presa sulla pista» spiega a tal proposito il DJ toscano. «Qualche tempo dopo la sua uscita Mauro Bonasio, allora A&R della Epic, etichetta del gruppo Sony, mi contattò dicendomi che se avessi trovato una buona linea vocale e riarrangiato/stesurato meglio la traccia strumentale, sarebbe stato interessato a ripubblicarlo perché a suo avviso era davvero forte ed aveva un grosso potenziale inespresso. Così tornai in studio e buttai giù un po’ di linee vocali. Dopo un paio di pomeriggi di prove inviai le demo a Bonasio a cui piacquero. Da quel momento iniziò il lavoro per la produzione finale. Mi richiusi in studio per qualche giorno, sempre con Alberto Bambini. Ai tempi avevamo un mixer Yamaha 01V, qualche synth rack, un paio di tastiere e due monitor Yamaha NS-10, ma per “Move Your Feet” servirono ben pochi strumenti perché il sample di “Lady Bug”, ben lavorato e supportato da una ritmica incalzante, era più che sufficiente. Il problema che si prospettò riguardava proprio il campionamento del brano dei Bumblebee Unlimited che decidemmo di risuonare dal vivo con vari strumenti. Ad occuparsi delle chitarre fu Vincenzo Bramanti mentre il basso era di Anacleto Orlandi. Fu un lavoro piuttosto impegnativo, considerando che non avevo molta dimestichezza nell’ambito delle produzioni discografiche, ma l’esperienza fu utile e portò buoni frutti». Per l’occasione Petroni modifica graficamente lo pseudonimo DJ-@K Floyd regolarizzandolo in Jack Floyd (ed omaggiando ancora il gruppo di cui è un grande estimatore, i Pink Floyd), e diventa autore di un pezzo che si inserisce nella scia disco house, fusione iniziata già nei primi anni Novanta (si veda, ad esempio, Daniel Wang di cui parliamo qui) e poi continuata per mano di tutta una serie di artisti (come gli italiani Tutto Matto o Leo Young, intervistati qui e qui) sino a sfociare nella mainstreamizzazione europea del french touch. L’aggiunta di un cantato ad un brano strumentale, formula atta a potenziare l’aspetto commerciale, è del tutto coerente con quanto avviene tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila visti i casi di “Needin’ U” di The Face, “Horny” di Mousse T., “Right On!” dei Silicone Soul o “Groovejet” di Spiller, a cui si aggiungerà pure “Universal Love” di Francesco Farfa, edito proprio da Ocean Trax nel 2004.

Scott Foster
Un primo piano del compianto Scott Foster, cantante di “Move Your Feet” nonché immagine pubblica di Jack Floyd nell’estate 2001

«Quando dovemmo scegliere chi avrebbe cantato il pezzo, proposi una mia conoscente, Lara Turio, cantante professionista già attiva in vari gruppi, con una voce molto soul ma parecchio potente» rivela Petroni. «Iniziammo a registrare e durante le session mi venne l’idea, poi rivelatasi vincente, di farla cantare due toni sopra la tonalità originale e poi “pitchare” il risultato tornando a quella di partenza. Da lì vennero fuori le voci ricantate da Scott Foster (già coinvolto in qualche produzione discografica minore tra cui “Let You Go” e i featuring per “Give A Nigga Little Room” di Booster Brown e “Close To You” di The Real Note, nda) che alla fine divenne il protagonista del videoclip e delle esibizioni live come quella al Festivalbar 2001. Purtroppo ci ha lasciati pochi anni fa per una brutta malattia, era un grande artista ed una brava persona. Ottimo performer oltre ad essere un valido cantante ed attore, Foster in quel periodo viveva a Milano e lavorava per un’agenzia di spettacolo. A suggerirmi il suo nome fu Bonasio. Dopo averlo conosciuto, provammo a fargli ricantare il pezzo. Boom! Le voci erano fortissime e stavano alla perfezione sulla nuova base che avevamo approntato. I backing vocal invece, come preannunciato, erano di Lara Turio alias Aguan. Riguardo il video, correvano ancora i tempi in cui, specialmente le grandi case discografiche, tendevano a creare un personaggio identificativo del progetto (così come illustrato in questo reportage, nda). In quel caso visto che Foster era un cantante di bella presenza, alla Epic decisero di puntare su di lui come unica immagine da abbinare al brano. Col senno di poi, non si rivelò una scelta a mio favore ma non avevo alcun potere decisionale in merito. Come spiegato, facevo il DJ già da diversi anni ed avrei preferito che il progetto Jack Floyd venisse promosso come DJ che aveva realizzato una produzione forte e non come uno dei tanti progetti di studio anche perché Jack Floyd non era affatto un progetto studiato a tavolino bensì una persona, io! Per il grande pubblico è naturale associare una canzone ad un viso ed è spontaneo pensare che il cantante sia anche l’artista che abbia composto il brano, ma nel mio caso non fu così. Si creò una confusione a livello di immagine che poteva essere evitata se gestita meglio. Sarebbe bastato anche un semplice “featuring”. Il pubblico che seguiva abitualmente i miei DJ set mi riconosceva come autore di “Move Your Feet” sebbene il mio volto non figurasse sulla copertina del disco o in tv. Purtroppo la gestione lacunosa della promozione sul piano artistico mi fece perdere diverse serate importanti. Mi servirono anni per far capire sia al pubblico che agli addetti ai lavori chi fossi in realtà. Considerando poi che tutta la promozione dell’epoca fosse cartacea visto che la diffusione di internet era ancora all’inizio, la comunicazione col resto del mondo divenne ancora più difficoltosa. Comunque, nonostante tutto, il pezzo andò benissimo. Tra dischi, CD singolo e compilation, “Move Your Feet” (che la Epic fa remixare da Riccardo Piparo dei Ti.Pi.Cal. e dalla coppia Donati & Amato, nda) vendette qualche centinaio di migliaio di copie».

Paradossalmente, pur ritrovandosi con una hit in tasca, Jack Floyd si scontra ancora con l’anonimato a causa delle discutibili strategie discografiche adottate, ma del resto la stagione dei cosiddetti “DJ rockstar” è ancora lontana. Sino a quel momento i disc jockey artefici di importanti successi vengono ingaggiati perlopiù come mimi. In tv pigiano randomicamente tastiere spente o simulano mixaggi su consolle non collegate e posizionate sui palchi di grosse manifestazioni a mo’ di scenografie. Tuttavia i rapporti tra Jack Floyd e la Epic proseguono e nel 2002 esce il secondo singolo, “Follow Your Feeling”, che stilisticamente segue fedelmente le orme del primo non deragliando dai binari della disco/funk trapiantata nella house (ancora con l’ausilio di diversi musicisti come il bassista Andrea Cozzani e il chitarrista Antonello Pudva) ma non riuscendo a bissarne il successo. «A mio avviso era il follow-up perfetto e tra l’altro neanche particolarmente studiato, nato e sviluppato in modo istintivo» dice in merito Petroni. «Era già pronto quando nei negozi arrivò “Move Your Feet”, nell’aprile del 2001, e sarebbe dovuto uscire a settembre ma non fu così. Posticiparono la pubblicazione rimandandola sino al 2002 quando ormai le tendenze erano cambiate e “Follow Your Feeling” non raccolse il successo che meritava». Nel corso degli anni sono svariati gli artisti, tra cui Felix, Robert Miles, Roberto Gallo Salsotto o White Town di cui parliamo rispettivamente qui, qui, qui e qui, ad ammettere di non aver vissuto esperienze rincuoranti con le multinazionali, più attratte dallo sfruttamento del successo del momento che dal supportare attivamente facoltà creative. «All’epoca, poco più che ventenne e con una smania di fare musica che usciva da tutti i pori, non ebbi remore a firmare con Epic/Sony» ammette Petroni. «Inoltre non avevo alcun tipo di esperienza nella contrattazione discografica ma non penso mi abbiano “fregato”, hanno curato semplicemente i loro interessi, magari non proprio nella maniera più sincera possibile, ma alla fine ero io a non essere ancora in grado di sostenere una contrattazione in un mondo, quello discografico, che sino a quel momento avevo visto solo come “artista”. E, si sa, gli errori si pagano, ed anche alla grande, ma servono pure a maturare anzi, credo siano quasi indispensabili per progredire, nell’arte come nella vita. L’importante è non ripeterli».

Jack Floyd @ Epidemic Festival, San Paolo (Brasile) 2007
Jack Floyd si esibisce all’Epidemic Festival a San Paolo, in Brasile, nel 2007

Archiviata la collaborazione con la major, Jack Floyd torna con le indipendenti ed incide altri pezzi house per la Beside Music di Paolino Bova dei T-Move Experience (di cui parliamo qui) come “Freedom”, “Before You” e “Fast Baby, Faster”. I tempi per la discografia però stanno radicalmente cambiando, quelle che erano certezze sino a pochi anni prima si sgretolano una dietro l’altra (etichette, distributori, emittenti radiofoniche). Dal comparto nostrano emergono veloci tutte le tare rimaste nascoste nel decennio precedente ed in breve è quasi tabula rasa. «Furono anni in cui il mercato discografico andò drasticamente giù» sintetizza l’artista lucchese. «I fattori che hanno influenzato quel trend negativo credo siano stati diversi ma coincidenti tra loro e a livello globale anche se in Italia ne abbiamo risentito un po’ di più rispetto ad altre nazioni. Le major iniziarono a chiudere i dipartimenti dance mentre le radio sottrassero progressivamente spazio alla musica da discoteca. Dagli inizi degli anni Duemila anche le trasmissioni che proponevano quel genere sposarono una linea stilistica opinabile, supportando produzioni a mio avviso scarsamente interessanti e di basso spessore creativo. L’avvento del digitale, giunto qualche tempo dopo, fu una “soluzione” abbastanza degradante per il commercio discografico. Il mercato, di fatto, si è ridotto a dimensioni microscopiche. Tanti pseudo DJ ormai neanche comprano più i file sui portali ufficiali pensando di far bene a scaricare illegalmente ma non rendendosi conto che, come in tutte le attività, il produttore ha bisogno di introiti per continuare a svolgere quella professione. Sostanzialmente è stato un periodo di rovesciamento quasi totale riguardo la metodologia di lavoro a cui tutti erano abituati sino a quel momento».

due uscite di JaCk
Due produzioni che Petroni firma col nuovo alias Ja:ck: sopra “Above & Beyond” (Fahrenheit Music, 2017), sotto “Paprika/Balearia” (Cocoon Recordings, 2018)

Se da un lato Petroni tiene vivo Jack Floyd (nel 2014, ad esempio, esce “About Reality And Fantasy” realizzata con Carlo Toma e cantata da Raphael Gualazzi), dall’altro prova a reinventarsi modificando parzialmente l’alias in Ja:ck approdando nel 2017 alla Cocoon Recordings di Sven Väth che pubblica la sua “Nattura” su un 10″ condiviso con lo svedese Joel Mull. L’anno dopo tocca invece a “Paprika/Balearia”. «La mia non è stata proprio una reinvenzione» dice. «Dopo anni mi sono reso conto che Jack Floyd fosse artisticamente troppo legato a “Move Your Feet” (rispolverato nel 2009 mediante nuovi remix sempre su Ocean Trax, nda) e tutti continuavano ad aspettarsi una produzione che funzionasse al pari di quella. Io però non ho mai composto musica con l’obiettivo di incidere una hit. Un successo è fatto da tanti tasselli che devono coincidere, non solo a livello artistico, quindi se arriva è il benvenuto ma non è mai stata una mia prerogativa. Così una mattina mi sono svegliato ed ho deciso di botto di porre fine a quello pseudonimo che mi aveva accompagnato per tanto tempo. Avevo bisogno di iniziare a produrre musica in piena libertà, priva di “paletti” di genere e tantomeno discografici. Musica che piacesse in primis a me, senza nessun obiettivo di conquistare il mercato. Quindi nuovi stimoli e totale libertà artistica. Ho mantenuto solo parte del nome, Jack, intervallandolo dai due punti (Ja:ck). Prodotte le prime quattro tracce, le ho fatte sentire a Mario Più che le ha pubblicate sulla sua Fahrenheit Music. Appena completate altre due, le ho inviate all’attenzione di un personaggio che ho sempre seguito nelle varie serate ma con cui non avevo mai avuto occasione di parlare, Sven Väth. Dopo circa un mese ho ricevuto una email dall’ufficio di Cocoon Recordings con cui mi informavano che a Väth sarebbe piaciuto pubblicare “Nattura”. La mia felicità era alle stelle: sapere che il DJ che preferivo su tutti voleva un mio pezzo su una label che ho sempre considerato all’avanguardia mi spiazzò. Insomma, tutto è avvenuto senza alcun accordo precostruito. La mia musica, quella che volevo produrre da tempo, è giunta sul mercato in virtù della stessa, senza conoscenze, intermediazioni o altro. È stata una cosa abbastanza magica. Da quel momento ho iniziato a frequentare il team Cocoon più da vicino e a trascorrere momenti particolari che mi hanno fatto crescere ulteriormente. Un anno dopo è uscito anche il 12″ “Paprika/Balearia” che Sven Väth ha supportato tantissimo nelle sue serate in tutto il mondo. La cosa che ho apprezzato di più, sia di Sven che della Cocoon, è la dedizione per la musica e l’atmosfera che si crea ogni volta che ci troviamo. È sempre una festa e questo non preclude affatto il lavoro, anzi. Nel frattempo sono sbarcato su altre label come Family Piknik Music, Loot e Natura Viva. Questa visibilità dal respiro più internazionale mi ha dato modo di conoscere un bel po’ di gente nuova tra DJ, produttori, organizzatori e manager. Sto aspettando la riapertura dei locali con trepidazione! Al momento ho diverse tracce pronte, due delle quali usciranno prossimamente su Cocoon Recordings. Nel contempo lavoro anche su altre idee ma col massimo relax e senza pressioni. Ho prodotto pure due pezzi con Luis Bertman, il DJ resident dello Spazio Novecento a Roma ed ho realizzato un remix che uscirà sulla spagnola Kulto. Al momento sto vagliando diverse proposte di management per quando tutto ripartirà, spero il prima possibile. Questa emergenza sanitaria ha cambiato in maniera irreversibile tante nostre abitudini, atteggiamenti e comportamenti. Le menti sono mutate, le persone pensano ed agiscono diversamente, anche nella vita quotidiana. Il club, purtroppo, non è rimasto escluso da tale cambiamento, era inevitabile. Ci sarà bisogno di ripartire da zero, quando sarà fattibile. Ritengo che se tutti gli addetti ai lavori, nessuno escluso, non faranno un passo indietro e torneranno a lavorare per il club così come avveniva negli anni Novanta, con la stessa dedizione, divisione di ruoli, professionalità e passione, sarà assai difficile ambire ad una vera ripresa del mondo della notte. Nel corso dell’ultimo decennio tutto è stato appiattito e confuso ad uso e consumo di pochi per la rovina di molti lavoratori del settore, forse troppi. Quindi, secondo me, quello che viviamo ora può essere davvero un periodo da sfruttare per la rinascita della scena dance, ed è quello che mi auguro avvenga. A livello discografico, le etichette non legate ad una promozione che passa principalmente dai club ma dal mondo digitale e/o radiofonico hanno registrato un calo ma continuano a lavorare ancora bene, quelle legate alle discoteche invece se la stanno passando peggio perché manca del tutto la promozione connessa ai DJ e alle loro serate. Ma, come già detto, se il mondo della notte si impegnerà tornando in qualche modo alle origini, potremo avere una buona chance di fare anche meglio di prima». (Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Daniele Baldelli

Daniele Baldelli
Daniele Baldelli ed una minuscola parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo in assoluto non riesco proprio a ricordarmelo ma rammento che quando avevo undici anni, per vedere la tv, andavo al bar della stazione e lì ascoltavo classici della canzone nostrana come “Fatti Mandare Dalla Mamma A Prendere Il Latte” di Gianni Morandi, “Viva La Pappa Col Pomodoro” di Rita Pavone o “Tintarella Di Luna” di Mina che poi compravo e sentivo sul mio primo giradischi ovvero la fonovaligia della Lesa, la Defral DF-1. Successivamente emerse la mia esterofilia ed acquistai un 45 giri di Marie Laforêt che in televisione veniva presentata come “la cantante dagli occhi d’oro” (omonimo del suo primo album del 1964, nda). A seguire altri come “With A Girl Like You” dei Troggs, “A Whiter Shade Of Pale” dei Procol Harum, “Mr. Tambourine Man” di Bob Dylan e uno di Sandie Shaw detta “la cantante scalza”, ma anche “Bikini Beat” dei Pooh. Era musica che si ballava nelle festicciole private in casa, arrangiandosi con un mangiadischi. Nel ’68 impazzii letteralmente per “Hey Jude” dei Beatles: avevo un registratore della Sanyo e con quello registrai il brano su un intero lato della cassetta per almeno una decina di volte in modo da poterlo ascoltare senza sosta.

L’ultimo invece?
Sono diversi, tutti presi nel negozio veronese Le Disque circa due mesi fa: dal box set “Fragments” pubblicato dalla spagnola Hivern Discs di cui evidenzio “Waterfall” di Samo DJ in puro cosmic sound style, a “Love Is The Only Way”, l’EP di Bep Kororoti e Akin in cui la mia preferita è “Epomuyeñ” che sicuramente troverà posto in uno dei miei prossimi DJ set grazie ad una buona ritmica ed un cantato africano accompagnato da una tromba. Ho comprato pure “Oimachi EP” di Imre Kiss, col sequencer ossessivo ed un’atmosfera spaziale, ed un album del 2017 che mi ero lasciato sfuggire al momento dell’uscita, “Obakodomo” di Fantastic Twins in cui c’è il brano “Construire Un Igloo” incentrato su un bel gioco di marimba ed altre percussioni abbinate ad un flauto. Per finire “Fantasia” di Nuel alias Manuel Fogliata, fatto da sette tracce in cui si sente un po’ di funk, qualcosa di oscuro ed elettronico ed un pizzico di balearic, insomma, tutto adatto per il mio cosmic sound.

Quanti dischi hai in collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Calcolando quelli contenuti in un solo mobile e moltiplicandoli per il numero di librerie presenti nel mio seminterrato, dovrei rasentare o superare i settantamila. Pertanto, sempre in modo approssimativo, direi di aver speso circa un milione e quattrocentomila euro, ma probabilmente molto di più.

alcuni cassettoni
Alcuni cassettoni che Daniele Baldelli ha fatto realizzare appositamente da un falegname per sistemare i suoi dischi

Come è organizzata?
Quando comprai il mio primo PC mi feci preparare da un amico esperto un programmino per la catalogazione. Era necessario compilare parecchi campi per inserire ogni disco: autore, titolo, genere, etichetta, anno di pubblicazione, note e collocazione. Feci stampare subito anche delle etichette adesive dal numero uno al ventimila. Precedentemente avevo commissionato parecchi mobili su misura ad un falegname, molti dei quali muniti di ruote al fine di poterli spostare più facilmente. Altri invece sono a parete con cassettoni nella parte bassa e scansie aperte sino al soffitto. Se, per esempio, volessi cercare un disco di Bob James, me ne compaiono ben quindici dopo aver digitato il suo nome nel programma di cui parlavo. Vedo che quello intitolato “Foxie”, su Columbia, è del 1983 e contiene il brano “Calaban” (evidentemente quello che mi interessava di più). Nelle note trovo specificato che potrei suonarlo a 45 giri invece che a 33. La collocazione, infine, mi riporta B-22 / 11260 ovvero mobile B, cassetto n. 22 e disco etichettato col numero 11260. Quando cominciai a catalogare i miei dischi mi resi subito conto che l’impresa fosse decisamente ardua. Il primo giorno, dalle ore 21 alle 24, riuscii a catalogarne appena una ventina! Fui costretto pertanto ad ingaggiare una segretaria e col suo aiuto, in tre ore, riuscimmo a sistemarne oltre duecento, ma non ho ancora finito…

Presumo che con una mole tale di dischi avrai pure svariatissimi flight case.
Già nel 1983, seppur fossi resident al Cosmic, cominciai ad avere richieste da altri locali ed ogni volta, prima di partire per raggiungere i nuovi club, avveniva il rito della preparazione dei dischi da portare. Per trasportarli usavo casse di legno autocostruite, dipinte di nero e ricoperte di adesivi, oppure uno dei cassettoni che prelevavo direttamente dai miei mobili a cui facevo cenno qualche riga fa. Per fare una serata sarebbero certamente bastati un centinaio di dischi ma puntualmente scattava la paranoia: questo sì, questo no, questo magari può servirmi, quest’altro non lo suono di sicuro ma meglio portarlo… Insomma, per farla breve, mi ritrovavo con due o tre casse di dischi da sollevare di peso e portare fino alla consolle. Poi una volta, in occasione di una serata, vidi arrivare il collega Claudio Stella con un bel baule nero provvisto di rotelline. Wow! Gli chiesi subito dove l’avesse preso e mi rispose che un suo amico aveva una piccola azienda in cui ne producevano di ogni tipo e genere. Così mi feci accompagnare a Rosà, in provincia di Vicenza, dove c’era la sede di quell’azienda, l’Amabilia, tuttora in attività. Commissionai subito due flight case su misura per i miei giradischi Technics SP-15 ed uno per il mixer Teac Model 3, oltre ovviamente ad alcune valigette per i dischi. Da lì cominciarono la produzione in larga scala rifornendo negozi specializzati come il Disco Inn di Modena e il Disco Più di Rimini dove, nel corso degli anni, ne ho acquistati davvero tanti, di tutte le misure, materiali e colori.

Baldelli flight case
Baldelli e i suoi numerosi flight case

Segui particolari procedure per la conservazione?
Più del 50% dei miei dischi è protetto da buste di plastica. Giorno per giorno provvedo ad imbustare quelli a cui mancano, acquistando di tanto in tanto mille/duemila buste trasparenti. Quando scopro che qualcuno mostra segni di umidità lo lavo a mano con un batuffolo di cotone ed acqua distillata. Con un movimento circolare seguo i solchi e poi li asciugo con un panno morbido, sempre in modo circolare. Il risultato è perfetto.

Oltre ai 12″/LP conservi anche 7″, acetati o flexi-disc?
Ho parecchi 7″ ma non catalogati, dovrebbero essere circa duemila. Se ne prendo alcuni a caso da una cassetta di legno autocostruita che ritengo il mio primo flight case escono “I Didn’t Know I Loved You (Till I Saw You Rock And Roll)” di Gary Glitter, del 1972, “Dikalo” di Manu Dibango, del 1974 sulla Philips italiana (che qualcuno vende a ben 70 € su Discogs!), “Street Fighting Man” dei Rolling Stones, del 1971 sulla Decca tedesca, e “Follow The Wind” dei Midnight Movers Unlimited, 1972. Gli ultimi due hanno sulla copertina una piccola etichetta blu con su scritto Radio Columbia – Lugano: qualche volta il proprietario del Tabù Club di Cattolica mi portava con la sua Porsche verde in Svizzera per comprare dischi che da noi non si trovavano. Su un altro invece c’è scritto Importation, con una bandiera americana ed una britannica e sotto, impresso con un timbro, il titolo e il nome dell’autore, “Here For The Party” dei Bottom & Company. All’interno c’è appunto il 45 giri della Motown, del ’75, e sul retro della copertina si legge testualmente: Lido Musique – Paris, Avenue Des Champs Elysees 68. Era uno dei primi record store ad importare dischi dagli States personalizzandoli con le proprie copertine.

i 45 giri
Una panoramica sui 7″ di Baldelli, descritti nella precedente risposta

Ti hanno mai rubato un disco?
Sì, credo fosse il 1974 quando mi trovavo al citato Tabù Club. Durante l’inverno il locale era aperto sabato sera, domenica pomeriggio e domenica sera quindi lasciavo i miei dischi lì. Qualcuno entrò dopo la chiusura portandosi via due giradischi Lenco, un microfono ed una decina di faretti, ma pure tutti i miei dischi. Tra 33 e 45 giri saranno stati almeno trecento. Super avvilito, terrorizzato ma anche incazzato, non sapevo davvero cosa fare. Mi si avvicinò un tizio che ovviamente faceva parte della banda e fingendosi un mediatore mi fece riavere tutto pagando un riscatto di cinquecentomila lire. Un’altra volta invece avvenne al Fura di Desenzano del Garda, tra 1997 e 1998: a tarda notte, finita la serata, trovai il finestrino rotto del mio Ford Transit in cui avevo lasciato una valigia piena di dischi che non c’era più. Purtroppo non li ho mai ritrovati. Ho cercato, con non poca fatica, di ricordare i titoli uno per uno e molti li ho pazientemente ricomprati. Una decina di anni più tardi, durante un serata, un fan si avvicinò chiedendomi di autografargli l’album del Cosmic del 1984 pubblicato da Il Discotto (registrato e mixato presso il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian ed arrangiato da Maurizio ‘Sangy’ Sangineto dei Firefly, intervistati rispettivamente qui e qui, nda). Con stupore mi accorsi che fosse una copia che usavo io, riconoscendola dai segni che facevo con una biro sull’etichetta e da alcuni piccoli adesivi arancioni che attaccavo sulla copertina per individuare più velocemente i titoli. A quel punto gli feci notare che quello fosse un mio disco che mi avevano rubato anni prima e lui si mostrò subito disposto a restituirmelo. Io invece lo autografai dicendogli di custodirlo bene perché valeva di più. Quel ragazzo non aveva alcuna colpa avendolo comprato ad un mercatino dell’usato.

C’è un disco a cui tieni di più?
Non posso rispondere a questa domanda, farei un torto almeno ad altri duemila dischi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Dovrei avere una ventina di dischi sui quali ho attaccato un’etichetta con su scritto “merda”. Probabilmente li comprai per sbaglio: mentre ascoltavo i nuovi arrivi in negozio devo averli erroneamente messi tra quelli scelti e non tra quelli scartati.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Non so mai quello che cerco: quando mi imbatto in un disco mai visto e sentito prima decido se sia da avere o meno.

le copertine più belle
Baldelli mostra alcuni dei dischi con copertine che annovera tra le più intriganti

Quello con la copertina più bella?
Anche in questo caso è impossibile limitarmi a citarne solo uno. Trovo stupenda quella apribile di “Happy Children” degli Osibisa, e che dire di quelle sofisticate degli Ohio Players e di quelle metafisiche dei Passport? Mi viene in mente anche quella di “Sticky Fingers” dei Rolling Stones (realizzata da Andy Warhol, nda) con una chiusura lampo vera attaccata alla foto dei jeans, e non posso non menzionare quelle dei Weather Report, quelle minimaliste della ECM e quella di “In Search Of The Lost Chord” dei Moody Blues. Poi quelle in stile cartoons tipo “On The Corner” di Miles Davis o “Cheap Thrills” di Big Brother & The Holding Company. Mi piaceva tanto pure quella di “Heads Or Tails” degli HOT R.S. perché figurava la modella Veruschka, quella di “In The Court Of The Crimson King” dei King Crimson e “Deep Purple” dei Deep Purple che nel ’69 mi fece scoprire l’arte del pittore olandese Hieronymus Bosch. Infine, senza falsa modestia, vorrei spendere qualche parola anche sulle sei copertine del mio progetto “Cosmic Temple” edito da Mondo Groove nel 2017, che unite creano un’immagine inedita del marchio Cosmic. L’ispirazione è mia mentre a realizzarla è stato Aldo Drudi, grafico e designer di Valentino Rossi.

le copertine del progetto Cosmic Temple
Il mosaico creato con le copertine di “Cosmic Temple”, edito nel 2017 da Mondo Groove

Qual è il primo disco che ti torna in mente pensando alla Baia Degli Angeli?
La prima volta che entrai lì dentro fui subito fulminato dal brano che Bob Day e Tom Sison stavano suonando in quel momento, “Ask Me” della Love Childs Afro Cuban Blues Band seguito da “Once You Get Started”, inciso in sequenza sullo stesso disco, l’LP “Out Among ‘Em”. Poco tempo dopo rimasi ammaliato pure da “Hit And Run” di Loleatta Holloway di cui conservo la copia che mi fu regalata ed autografata proprio da Bob e Tom.

Se ripensi al Cosmic invece?
Il Cosmic aprì nel 1979 e lì portai con me tutte le influenze disco, funk e philly della Baia Degli Angeli. Poi, nel 1980, si aprì un nuovo panorama musicale con tanti pezzi di provenienze diverse. Potrei citarne svariati come “Ultradeterminanten” dei Kowalski, un brano a 101 BPM che usavo per iniziare, “Time Actor” di Richard Wahnfried, diventato ormai un must per ogni serata remember, e “Rocks, Pebbles And Sand” di Stanley Clarke, che non ha smesso ancora di emozionarmi. Tra gli altri cavalli di battaglia invece, “Underwater” di Harry Thumann, da suonare rigorosamente a 33 giri anziché 45, “Plastic Bamboo” di Ryuichi Sakamoto e “Screaming Jets” di Johnny Warman a 45 giri.

C’è un pezzo con cui hai svuotato la pista?
È capitato che qualche brano, magari troppo particolare, strano o incomprensibile ai più, provocasse smarrimento, ma anziché desistere mi impuntavo cercando di riproporlo il più possibile per farlo entrare nella testa del mio pubblico. “Big Man Restless” dei Kissing The Pink, ad esempio, mi è sempre piaciuto ma le prime volte che lo programmai nei miei set non venne gradito molto. Insistendo però è andato tutto a buon fine.

Baldelli con altri dischi della collezione
Baldelli insieme ai suoi dischi ordinatamente riposti

Quale invece quello che hai scartato al momento dell’uscita e che hai rivalutato nel corso degli anni?
Non saprei indicarlo ma mi capita frequentemente di scoprire, su dischi comprati magari quarant’anni fa, tracce mai suonate che propongo oggi rendendomi conto, con grande soddisfazione, di quanto certa musica possa essere attuale anche a distanza di decenni.

Hai messo piede in centinaia (o forse migliaia) di negozi di dischi: quali sono quelli che preferivi frequentare?
Effettivamente di negozi ne ho visitati davvero parecchi. Non potendo elencarli tutti, cito alcuni che per me sono stati fondamentali come Da Angelo, a Cattolica, attivo nei primi anni Settanta. Vendeva televisori, lavatrici, lampadine e piccoli elettrodomestici ma aveva un angolo dedicato in prevalenza ai 45 giri; poi la Dimar di Rimini, un negozio multipiano dove compravo tutti i possibili LP immaginabili, dal pop al jazz, dal rock al funk passando per musica classica, discomusic, folk, Crosby, Stills, Nash & Young e tutti i dischi della Arion e della Lyrichord. Sempre alla Dimar presi tutti gli album degli Oregon e di Ravi Shankar. Per anni il mio punto di riferimento principale è stato anche Disco Più, sempre a Rimini, fondato da Gianni Zuffa e nato dalle ceneri del New Rels di Mario Boncaldo. Menzione finale per Le Disque, a Verona (di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra con l’aiuto del proprietario, Paolo Tescaroli, nda), aperto dal 1988 e che frequento in prevalenza tuttora.

Baldelli con Sequential Circuits Prophet 2000
Una vecchia foto in cui Baldelli è intento a suonare il suo Sequential Circuits Prophet 2000 durante una serata

In questa intervista di Giacomo Stefanini pubblicata da Vice il 13 settembre 2018, dichiari di usare ormai solo il CD in consolle, seppur non possa sottrarti al fascino del vinile, supporto che continui a comprare e ad utilizzare come artista ma non ad idolatrare, e a tal proposito una tua dichiarazione di qualche anno fa sbeffeggia sonoramente la totemizzazione del disco in tempi moderni. Ad onor del vero però, già in una breve intervista realizzata da Fred.j., pubblicata sulla rivista Jocks Mag a giugno 2000, non facesti mistero di continuare a comprare dischi ma non a suonarli. «Una buona soluzione è masterizzarli su CD per farli vivere in “eterno”» dicevi, aggiungendo che «in questa maniera è possibile personalizzarli cambiando la loro struttura, allungando le parti musicali migliori. La tecnologia è utilissima anche per potenziare la qualità del suono di alcune vecchie incisioni e per togliere scricchiolii e rumori molesti». La digitalizzazione del formato è stata parecchio demonizzata nell’ultimo decennio: secondo un’idea assai diffusa, il CD (prima) e i file (poi) sono state le cause primarie della banalizzazione del DJing. Sino a pochi decenni fa il digitale però godeva di tutt’altra nomea, basti pensare a chi si portava dietro un campionatore per colorire la propria performance ed uscire dallo steccato del tradizionale beatmatching suscitando l’approvazione del pubblico ma pure l’ammirazione dei colleghi. Forse sono pochi quelli che oggi riescono ad utilizzare con creatività la tecnologia digitale? Ho impressione che delle infinite potenzialità ottenibili dai moderni strumenti dedicati ai disc jockey, spesso venga utilizzata solo una minuscola percentuale e tanti(ssimi) DJ paiono arenati nelle banalità trite e ritrite, cristallizzati in una dimensione molto vicina a quella del jukebox umano. Cosa pensi in merito?
Quel video a cui fai riferimento purtroppo è stato usato dai miei detrattori tagliando la parte finale, e ai tempi seguirono massacranti commenti negativi sul mio conto, ovviamente caldeggiati dai soliti idioti. In un secondo momento però in tanti sono intervenuti in mia difesa. Compro dischi da cinquant’anni, sono circondato, anzi sommerso, da dischi, respiro vinile ogni giorno nel mio studio e nonostante tutto devo sopportare le critiche di chi si erge ad estremo giudice pur avendo cominciato a fare il DJ ieri, dopo avermi “shazammato” per lungo tempo ed aver comprato appena una cinquantina di mix. Ormai il concetto dovrebbe essere chiaro: se la musica che suoni è scadente, resta tale a prescindere dalla sorgente, che sia un CD, una chiavetta USB o un disco. Io non rinuncio al vinile, continuo a comprarlo e a collezionarlo ma, come dicevo già in quell’intervista del 2000 da te citata, preferisco usare il CD per salvaguardare i dischi, perché è più comodo da trasportare e pure per proporre le mie tracce ancora inedite e tutti i miei re-edit personali che non verranno mai commercializzati. Riguardo l’uso della tecnologia, io vivevo nel mio mondo e non so cosa facessero gli altri. Già al Cosmic usavo una batteria elettronica Korg KR55 per generare ritmi su cui mixare dischi, abbinata ad una tastiera Yamaha CS-10 per ricavare effetti “cosmici” in presa diretta. Dal 1989 circa e per tutti gli anni Novanta, in ogni locale in cui andavo mi esibivo principalmente su un palco anziché in consolle. Nel mio Ford Transit caricavo tre reggitastiere: una serviva al mixer, sulle rimanenti mettevo invece due lastre di marmo per creare il piano su cui posizionare due giradischi Technics SP-15 con braccio SME. Mi portavo dietro anche una tastiera Yamaha DX7, due drum machine Roland, TR-909 e TR-727, un campionatore a tastiera Sequential Circuits Prophet 2000, uno in rack ed un Akai S900 (e per creare una sorta di megamix live ero costretto a caricare almeno quattro floppy disk!). A completamento due casse spia ed un amplificatore per pilotarle che pesava ben trenta chili. Oggi ho abbandonato del tutto questo modo di fare. In commercio ci sono numerose macchine che facilitano di gran lunga ciò che io realizzavo ai tempi disponendo di appena venti o trenta secondi di campionamento. Non saprei che risultati possano dare strumenti di allora usati con la musica di oggi. Preferisco lavorare coi brani perché ritengo che la vera alchimia adesso la si possa creare usando tracce suonate, trovando il missaggio giusto tra un brano e l’altro, o quando un pezzo rock s’interseca alla perfezione in uno funky. L’emozione nasce nel momento in cui le percussioni tribali di una traccia etnica viaggiano senza problemi su una elettronica sperimentale e quando la voce di una canzone pare rispondere a quella della successiva.

Baldelli al Cosmic (198x)
Baldelli alla consolle del Cosmic nei primi anni Ottanta

I DJ sono indubbiamente cambiati ma probabilmente anche il pubblico: a tuo avviso, corrono sostanziali differenze tra un clubber del 2020 ed uno degli anni Ottanta o Novanta?
Guardando qualche vecchia foto ho notato come al Cosmic, negli anni Ottanta, la gente fosse letteralmente ammassata davanti alla consolle. Erano tutti giovanissimi, dai diciotto ai venti/venticinque anni d’età. Questi ragazzi ascoltavano Mike Oldfield, Al Di Meola, Jorge Ben, Klaus Schulze, Gilberto Gil, James Brown, Ryuichi Sakamoto, Phil Manzanera, Fela Kuti…musica vera fatta da musicisti veri ed elargita da DJ veri (ride, nda). Oggi invece i ragazzi di quell’età ascoltano prevalentemente una cassa dritta con effetti e rumori, brani che durano una decina di minuti ma tutti uguali dall’inizio alla fine, privi di melodia, senza chitarra, sax, violini, assoli ed un minimo scampolo di tema. Che tipo di cultura viene loro inculcata da un certo tipo di DJ? Fortunatamente qualcuno esce dal branco per aiutare i giovanissimi ad avvicinarsi a ben altre proposte.

Sul fronte discografico, tranne qualche eccezione tipo il già citato “Cosmic LP” del 1984 e “Somebody” dei Video del 1983 per cui svolgesti ruolo di consulente musicale come raccontiamo qui, hai iniziato a produrre nei primi anni Novanta (e a tal proposito mi torna in mente “Tatana’” di Sambo, su Irma, insieme a Danny Losito e Claudio Rispoli, e “Notre Dame” di B.D.J. & Warriors 6.1.0., su Paradise Project Records, realizzato con gli FPI Project) ma usando il tuo nome come artista solo a partire dal 1996 col “Totem EP” sulla Tomahawk del gruppo American Records a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Come mai attendesti così tanto prima di dedicarti alla produzione discografica?
Agli inizi non pensavo affatto alle produzioni, mi ero cimentato ma con scarsi risultati quindi abbandonai l’idea per un po’. Pur di spacciarsi per produttori, in tanti incidevano bootleg prendendo qualche pezzo ricercato e ristampandolo ma senza chiedere autorizzazioni e licenze. Io non volevo rischiare di trovarmi nei guai ma soprattutto volevo essere corretto. Tuttavia realizzai una sorta di bootleg “isolando” circa trenta secondi di un disco francese vagamente jazz, improponibile per la pista. Registrai quella sezione, tratta dalla parte centrale del brano e completamente diversa dal resto della composizione, per una decina di volte su un nastro col Revox e poi, armato di lametta e nastro adesivo, feci un editing. Divenne un brano di quattro minuti che, per la somiglianza, spacciai per il nuovo degli Ozo, quelli di “Anambra”, un pezzo molto gettonato al Cosmic.

A partire dagli anni Duemila hai consolidato sensibilmente la tua posizione da produttore saldando solide collaborazioni con Marco Dionigi, Dario Piana e DJ Rocca (intervistati rispettivamente qui, qui e qui). Come è organizzato il vostro lavoro in studio? Seguite un preciso modus operandi?
Incontrai per la prima volta Dionigi nel 1991. Era un patito del mio sound e conosceva quasi tutte le mie cassette del Cosmic. Per molti anni ci siamo visti a casa sua puntualmente il lunedì ed ogni volta gli portavo uno dei miei cassettoni di dischi, passando tutta la giornata ad ascoltarli e a campionare quello che ci sembrava interessante. In tal maniera accumulammo un sacco di idee: a volte le usavamo per creare pezzi inediti, altre invece per re-edit destinati alle nostre serate. Di questi ultimi arrivammo a farne quasi centocinquanta! Una volta suonai in Belgio e Dirk De Ruyck, ai tempi A&R della Eskimo Recordings, mi raggiunse svariate volte in consolle per chiedermi che pezzo stessi suonando ed io gli rispondevo puntualmente che fosse un re-edit fatto da me e Marco. Il suo entusiasmo a quel punto fu tale da istigare la nascita del progetto “Cosmic Disco ?! Nah… Cosmic Rock!!!”, una raccolta di diciotto tracce in CD di cui sei riversate su due vinili. Quando decidiamo di fare un brano partiamo sempre da qualcosa che abbiamo sentito, un disco appena uscito o un ritrovamento di trent’anni fa. Ricerchiamo lo stesso mood, i suoni e magari imitiamo qualche campione. Poi abbozziamo una melodia e sperimentiamo echi, flanger o vari plugin. Tante volte cancelliamo tutto perché non soddisfatti del risultato ma in altre occasioni invece scatta la vena creativa ed arriviamo a chiudere il pezzo, anche con radicali modifiche rispetto alla matrice di partenza. Ciò ci fa enormemente piacere perché vuol dire che siamo riusciti a fare qualcosa di veramente nostro. Anche con Dario Piana e DJ Rocca il procedimento è lo stesso, con la differenza che di solito ci sentiamo via web con una video telefonata. Mi mandano un abbozzo della traccia, la ascolto e magari consiglio di cambiare il basso o suggerisco un sequencer, un arpeggio o di migliorare la melodia. Andiamo avanti finché siamo entrambi soddisfatti. Qualora ritenessi utile l’intervento di un musicista invece, mi rivolgo ad un bassista, un sassofonista, un chitarrista o, perché no, ad un tastierista.

Conservi almeno una copia di ognuno dei dischi che hai inciso nel corso degli anni?
Certo, li ho tutti anche in doppia copia.

Tanti tuoi colleghi della vecchia guardia hanno ridotto drasticamente o abbandonato del tutto la produzione discografica, ormai non più economicamente vantaggiosa, preferendo dedicarsi alla (ben più remunerativa) attività delle performance. Cosa alimenta invece la tua mai sopita passione per la composizione?
Mi piace, mi appassiona e mi diverte. Nient’altro.

Baldelli nella sala 2
Baldelli in una delle sale del seminterrato in cui è custodita la sua collezione di dischi

Stai lavorando a qualche nuovo brano al momento?
Recentemente è uscito “Oil Painting”, un album realizzato insieme a Marco Fratty per la londinese Leng. Con Dionigi invece ho remixato “La Vita Nuova” di Christine And The Queens. A breve uscirà un EP per una performer australiana chiamata Gaff-E realizzato con Mattia Dallara del Deposito Zero Studios di Forlì. In cantiere ci sono sempre pezzi con DJ Rocca, Dario Piana, Marco Dionigi, Marco Fratty e coi musicisti con cui realizzo i nuovi progetti come Daniele Baldelli.

Dove e come immagini la tua collezione di dischi tra qualche decennio?
Spero sia in buone mani e che mio figlio ne possa usufruire dal punto di vista culturale o economico.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

Weather Report - SweetnighterWeather Report – Sweetnighter
Un album che reputo importante perché mi ha aperto nuovi orizzonti e svelato un modo diverso di recepire la musica. Era il 1973, frequentavo il liceo scientifico e quel giorno decisi di “bigiare” la scuola per paura di un’interrogazione. Passai tutta la mattinata a casa di un amico che mi aveva lasciato le chiavi e nella penombra della stanza, seduto sul divano, ascoltai “Sweetnighter” per quattro volte di seguito. Fu un viaggio indescrivibile.

Smokey Robinson - Big TimeSmokey Robinson – Big Time
Fondatore del gruppo dei Miracles, Robinson realizza questo album come colonna sonora del film “Big Time” uscito nel ’77 e la cui realizzazione fu resa possibile dal budget stanziato dalla Motown che poi, ovviamente, pubblicò anche il disco. Il brano di apertura, “Theme From Big Time”, lungo poco più di otto minuti e che mettevo spesso facendolo partire dal break, mi ha colpito per le sue sonorità e il groove. Suonatissimo alla Baia Degli Angeli e al Cosmic, lo ripropongo ancora oggi nei miei DJ set.

Eberhard Weber Colours - Silent FeetEberhard Weber Colours – Silent Feet
Qui siamo su un altro pianeta, del resto con la ECM Records non potrebbe essere altrimenti. Eberhard Weber al basso, Rainer Brüninghaus al piano e Charlie Mariano al flauto e al sax soprano creano una grande atmosfera. Nel 1981 preparai due cassette da novanta minuti ciascuna da ascoltare in macchina, chiamandole “Cosmic Flying Trip”, volume 1 e 2. Erano fatte entrambe con brani d’ascolto, privi di veri mix ma dissolvenze o al massimo sovrapposizioni o particolari accostamenti. Tra i tanti brani racchiusi lì dentro c’era anche “Silent Feet”.

Kevin Harrison - Ink Man - Views Of The RhineKevin Harrison – Ink Man / Views Of The Rhine
Correva il 1982, pieno periodo Cosmic. Del 12″ electro pop in questione ho usato sia “Ink Man” che “Views Of The Rhine”, quest’ultima specialmente per la sua atmosfera spaziale. “Ink Man” invece appartiene all’infinita lista di re-edit fatti con Marco Dionigi e poi confluiti nel progetto su Eskimo Recordings di cui ho parlato prima. In occasione di una mia serata a Londra ebbi l’opportunità di incontrare personalmente Kevin Harrison e sembrò potesse persino nascere una collaborazione, purtroppo mai concretizzata.

Slave - The ConceptSlave – The Concept
Quando, nel ’78, comprai questo LP degli Slave, ad attirarmi più di tutte fu la prima traccia del lato A, “Stellar Fungk”. In un secondo momento acquistai il 12″ contenente la stessa traccia di otto minuti solcata su entrambi i lati. Groove, funk tagliente, spaziale e travolgente, forse non particolarmente apprezzato dai miei fan di allora ma per me super. Credo sia proprio il caso di farne un remix.

Fluke - Electric GuitarFluke – Electric Guitar
Avrei potuto scegliere altre cento tra tutte le produzioni elettroniche/trance degli anni Novanta, ma per spiegare meglio la mia tendenza ad una ricerca particolare del sound ho optato per questo dei Fluke. Il brano originale va ascoltato a 45 giri e gira a 123 BPM ma non incontra esattamente il mio gusto personale. Se però riduco la velocità a 33 giri e lo aumento col pitch sino a +9,9 (il massimo sul mio giradischi Technics SP-15) il risultato diventa stupendo. “Electric Guitar” si trasforma in un brano a 108 BPM con un suono che si dilata e si espande, riuscendo a far captare sfumature che non si scorgono alla sua velocità originale. Ai tempi dell’uscita del disco, nel 1993, lo mixavo con un pezzo di Alan Parson, e così anche i Fluke divennero “cosmici”.

Passport - Infinity MachinePassport – Infinity Machine
“Infinity Machine” è stato il primo album dei Passport che ho acquistato, nel 1976. Dopo averlo ascoltato non ho potuto fare a meno di ricercare tutti quelli precedenti, usciti sin dal 1971, nonché continuare a comprare i seguenti sino ai giorni nostri. L’imprinting resta ancorato al pezzo di apertura, “Ju-Ju-Man”, ma ogni album di questa formazione fusion/jazz rock fondata da Klaus Doldinger contiene ben più di qualche chicca.

Various - The American Music CompilationVarious – The American Music Compilation
Trattasi di una compilation del 1982 su etichetta Eurock in cui trovai “Alternative Music For The Hindenberg Lounge” di Richard Bone, una traccia aggressiva ed oscura diventata famosa al Cosmic perché la sovrapponevo a “Foreign Affair” di Mike Oldfield. Remixai pure questa, insieme a Dionigi, per il progetto su Eskimo Recordings del 2008. Con grande sorpresa ai tempi ricevetti una email da Richard Bone che, entusiasta del lavoro svolto, ci diede il permesso di remixare tutti i brani del suo repertorio che volevamo. Così, nel 2011, fu la volta di “Adaptors: The Music Of Richard Bone”, su Quantistic Division, un album inciso su CD con tredici delle sue tracce remixate da me e Marco.

Needa - Come On And RockNeeda – Come On And Rock
Un disco del 1979 che propongo ancora oggi. Forse non suona molto bene perché risulta un po’ impastato e grezzo ma è proprio questo a creare una particolare atmosfera. Mi spiace non averlo in doppia copia ma probabilmente ai tempi ne arrivarono poche da Disco Più. Al momento su Discogs la versione col centrino arancione è in vendita a prezzi esorbitanti: dai duecento ai circa novecento euro.

Frankie Knuckles - Your LoveFrankie Knuckles – Your Love
Non mi posso certamente annoverare tra i DJ house non essendo stato partecipe appieno di quella scena. Tuttavia non sono proprio riuscito a sfuggire e a resistere all’intensità lirica di questo immortale brano dell’indimenticato Knuckles.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Bottin

Bottin nel suo studio. Tra i 7″ che stringe tra le mani si scorge quello di “Musica Spaziale” di Patrizia Pellegrino (CGD, 1982) diventato un cult per i collezionisti – foto di Enrico Gandolfi


Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?

Escludendo la musica per bambini, il primo è stato “Arena” dei Duran Duran. È uscito nel 1984 quindi avrò avuto sette-otto anni. Ricordo di averlo visto in vetrina in uno storico negozio di Padova, il Ventritré Dischi, piuttosto noto per il grande assortimento ed i prezzi sempre scontati. Il gestore, Maurizio Boldrin, è batterista della scena Bacchiglione Beat (il Bacchiglione è un fiume nel padovano e l’espressione faceva il verso al Mersey Beat di Liverpool). Chiaramente queste sono storie che ho scoperto più tardi, da adolescente, quando ho continuato a frequentare il negozio negli anni Novanta per comprare jazz, acid jazz ed hip hop, in particolare il filone dei De La Soul e Digable Planets. Fu proprio grazie ai campionamenti dell’hip hop che entrai in contatto con la musica degli anni Settanta. Sono nato nel 1977, troppo tardi per aver vissuto direttamente l’epoca degli Steely Dan e degli Earth, Wind & Fire.

L’ultimo invece?
Da tempo non compro più dischi nuovi. Gli ultimi sono stati l’LP degli Zement, un gruppo krautrock tedesco che ho sentito in un locale a Berlino e che mi ricordava i migliori Neu!, e la compilation “Witchcraft & Black Magic In The United Kingdom”, edita dalla Eighth Tower Records. Continuo però a comprare parecchi dischi vecchi, su Discogs, eBay e, più volentieri, ai mercatini. Non frequento negozi di dischi (a Venezia non ce ne sono quasi più) né fiere. Lo facevo tempo fa ma, tra confusione ed entusiasmo, spesso finivo per comprare tante cose di cui avrei potuto fare a meno.

Quanti dischi conta la tua raccolta?
Non sono un collezionista. Inizialmente ho visto i dischi come meri “strumenti di lavoro” per le serate da DJ ma anche e soprattutto per registrare campionamenti. Dischi perché molte cose in digitale e su CD non si trovavano ed ancora oggi parecchie sono di difficile reperimento, ma vale per tutti i supporti fisici come per i file. Rispetto a molti DJ non ho molti dischi e in confronto ai collezionisti ne ho davvero pochi, circa duemila. Non saprei dire però quanto mi siano costati. Alcuni mi sono stati regalati da amici ed ex DJ, parecchi li ho presi a mercatini e negozi non specializzati quindi per pochi spiccioli. Altri ancora li ho pagati a prezzo pieno (se non gonfiato) a fiere del disco o su internet. Controllando su Discogs, risulta che il valore mediano della mia raccolta sia di circa otto euro al pezzo. Mi sembra tanto, rispetto ai miei ricordi di acquisto. Ho sempre cercato di trattare i dischi come una partita di giro, rivendendo i titoli appena un po’ costosi. Se scopro di avere un disco che vale più di trenta/quaranta euro lo metto volentieri in vendita per comprarne quattro o cinque nuovi. Non mi sono mai affezionato troppo ai dischi, come oggetti in sé non hanno mai esercitato un grande fascino su di me. Banalmente mi interessa la musica che contengono anche se anch’io sono legato a certi artwork. Ma quella è grafica, fotografia, e il suo habitat principale è la carta. La musica invece esiste davvero solo nell’aria, quella sugli scaffali o negli archivi digitali è merce. Bella anche, ma di tutt’altra natura dalla musica.

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Uno sguardo sulla raccolta di dischi di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Usi un metodo per ordinarla ed indicizzarla?
Ho un inventario aggiornato tramite Discogs. Mi piace poter ritrovare un disco a colpo sicuro e senza perdere troppo tempo. Questo è importante soprattutto per registrare un campionamento al volo durante una produzione: se ci metto troppo a trovarlo rischio quasi di dimenticarmi cosa stavo cercando. Comunque, nonostante l’organizzazione, capita lo stesso di perdermi e finire per ascoltare tutt’altro. Ho un unico grande scaffale così diviso: le mie produzioni nella prima fila in alto (la più scomoda da raggiungere) e sotto, nella parte centrale, ho tutta la disco music e il funk (fino al 1980-81 circa) in ordine alfabetico per artista. Poi la musica dance anni Ottanta, separata tra produzioni italiane ed estere. C’è quindi una piccola sezione compilation e dischi con brani di più autori, ambient, library, re-edit e una manciata di titoli techno ed house anni Novanta. Poi il pop italiano ed estero e i promo che mi sono stati regalati da artisti ed etichette. In basso, infine, ho due cassette da latteria in cui tengo i 7″ e poi altre due coi dischi non ancora ordinati o di scarso gradimento da cui però talvolta spuntano delle sorprese. Anche il gusto personale cambia col tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione? Esegui lavaggi periodici ed utilizzi copertine plastificate per scongiurare problemi di umidità?
Quasi nulla di tutto ciò. Utilizzo qualche busta trasparente per alcuni 12″ ma spesso le trovo già al momento dell’acquisto. Certi 7″ li tengo in bustine di cartoncino, separati dalla copertine perché quest’ultime tendono a strapparsi. Ho pochissime esperienze di lavaggio e tutte molto artigianali, senza prodotti speciali, giusto per togliere un po’ di sporco prima di passare qualcosa in digitale. Ripeto: non sono un collezionista e non ho passione per la conservazione maniacale. Ci sono persone molto competenti su questi aspetti che non approverebbero le mie pratiche.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Sono stato fortunato nel periodo in cui giravo il mondo con la borsa dei dischi, mai uno smarrimento aeroportuale, mai un furto. L’episodio che si avvicina di più ad una perdita avvenne in occasione di una serata al Club To Club di Torino. Il driver lasciò l’auto in divieto di sosta nei pressi del ristorante e alla fine della cena ci accorgemmo che era passato il carro attrezzi portandosi via la macchina e i miei dischi. Per fortuna fu possibile rintracciare il deposito e farci dare le cose in tempo per la serata. Da quella volta, anche se ormai suono quasi sempre da hard disk o USB, porto sempre con me, oltre a un drive di emergenza, anche due CD con l’indispensabile per fare comunque un DJ set di due ore. Non si sa mai.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno in particolare, non essendo un collezionista né amante della merce e della “roba”, nel senso verghiano della parola. Capita che certi collezionisti mi chiedano di poter comprare qualche disco. Vengono in studio e lascio loro spulciare liberamente nel mio materiale, sono disposto a liberarmi di qualsiasi titolo. È accaduto per esempio con l’amico Lorenzo Sannino di Napoli Segreta che si è portato a casa alcuni dei miei dischi preferiti in assoluto, ma sono stato contento perché sono finiti in buone mani e in fondo io li avevo già ascoltati a sufficienza. La cosa che mi piace di più dei dischi è che, oltre a girare sul piatto, girano anche il mondo, passando di mano in mano. È questa la loro forza, sopportare viaggi, traslochi e resistere nel tempo, anche se abbandonati in una cantina. Prima o poi qualcuno li riscopre e ricomincia la passione anche per generi o artisti minori ormai dati per dispersi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessun gran pentimento. Se un disco non mi piace lo metto nella scatola degli “indesiderati” e non ci penso più.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Quelli che vorrei avere ormai sono quasi tutti a portata di Discogs. Se qualcuno dovesse diventare davvero irrinunciabile lo comprerò a prezzo di mercato.

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Bottin con “One Black Dot” dei Mothmen (1982) – foto di Enrico Gandolfi

Quello con la copertina più bella?
Nella mia lista c’è una sola sottocategoria, quella dei keepers. Sono poco meno di duecento titoli che vorrei tenermi anche se riuscissi a vendere tutto il resto della mia raccolta (se qualcuno fosse interessato si faccia avanti, l’idea di alleggerirmi è sempre presente). Tra questi keepers, molti hanno una copertina particolare come ad esempio “One Black Dot” dei Mothmen.

Quello che non venderesti per nessuna ragione?
Non cederò mai, neppure sotto la minaccia delle armi, il 7″ degli Avida, “A Fumme Mariuà / La Bustina” (1982) perché me l’ha donato l’autore, il caro amico Maurizio Dami aka Alexander Robotnick.

Nutri una particolare attenzione per i 7″, molti dei quali legati a sigle televisive. Da cosa nasce tale interesse?
Quella per i 7″ è una mezza passione sbocciata negli ultimi anni. Quando capito in un negozio o in un mercatino ormai guardo solo i 45 giri. Trovo siano bistrattati sia dai DJ, sia dai collezionisti (a parte ovviamente gli amanti del reggae). Proprio per questo motivo si possono scoprire ancora tesori in materia di funk, disco e colonne sonore. Molte sigle televisive, ad esempio, sono uscite solo in quel formato. Avviene inoltre che alcune buone stampe su 7″ suonino meglio degli LP, specie se nell’album il brano interessato è tra gli ultimi della facciata. In generale lo trovo un formato comodo e leggero. Mi è capitato di fare dei set a feste di amici solo con 7″ usando come flight case le scatole di latta dei Baicoli, i celebri biscottini veneziani.

i 45 giri di Bottin
Alcuni dei 7″ di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Da ascoltatore a compositore: c’è stato qualcosa o qualcuno a spingerti all’attività in studio di registrazione?
Ho iniziato a produrre musica all’inizio degli anni Novanta, con un Amiga della Commodore. A quattordici anni ero parte della demo scene dell’epoca, una faccenda tutta nerd, animata da sparuti gruppi di programmatori, grafici e musicisti. Ci scambiavamo i rispettivi lavori per posta, inviando e ricevendo floppy disc da tutta Europa. Filippo De Fassi, attuale titolare di Phonopress, condivideva la stessa passione. In quegli anni da lui ho imparato parecchie cose sulla musica in generale. Si usava un software chiamato Soundtracker che gestiva quattro tracce mono su cui si programmavano pattern di brevi campioni a sedici bit. Poi sono passato alle band di funk/acid jazz in cui suonavo le tastiere. Intorno al 1997-1998 ho cominciato ad usare Cubase e a frequentare lo studio di un amico, Alberto Roveroni, e lì ho realizzato le primissime produzioni poi distribuite su CD e cassetta.

Credo che una delle tue primissime pubblicazioni sia stata “Chill Reception” di Bluecat, album pubblicato dalla bolognese Irma nel 2001.
Bluecat fu interamente realizzato con un sintetizzatore Kurzweil K2000 ed un campionatore Akai S2000. Le mie prime produzioni erano una specie di drum’n’bass, jungle e trip hop sopra cui suonavo la tromba con la sordina. Un paio di quei brani sono finiti nel citato LP per la Irma. Prima di quello avevo prodotto, sempre per Irma, alcune tracce di cocktail music. Un altro mio mentore è stato (ed è tuttora) Bob Benozzo, fu lui a consigliarmi sin dall’inizio l’uso di alcuni strumenti e software. Ancora oggi mi aiuta nei mixaggi che non mi fido a chiudere da solo. Sono molto contento di sapere che molti tra i giovani musicisti che ho conosciuto da ragazzino stiano lavorando con la musica ancora oggi, ognuno a suo modo e senza aver avuto particolari agganci e facilitazioni. Penso di essere stato fortunato a conoscere e ad imparare da persone diventate poi dei bravi professionisti. Non vengo da una famiglia musicale e, fatta eccezione per qualche anno di pianoforte, i miei maestri sono stati i dischi e questi amici.

Bottin - I Love Me Vol. 1
La copertina di”I Love Me Vol. 1″, del 2004

Nel 2004 esce “I Love Me Vol. 1” che, tra le altre cose, contiene un remake di “Lunedì Cinema” degli Stadio & Lucio Dalla ricantata da quest’ultimo, con cui peraltro collabori per portare in scena l’opera teatrale “Speak Truth To Power: Voices From Beyond The Dark” come spiegato qui. A quel Vol. 1 però non darai mai seguito, tornando discograficamente operativo solo nel 2009 con l’album “Horror Disco”. Come mai per cinque anni non incidesti più nulla?
“I Love Me Vol. 1” fu il primo di una lunga serie di tentativi (più o meno falliti) di emancipazione dalle etichette discografiche. Fu autoprodotto da me con Irma e Sony limitati al ruolo di distributori. La distribuzione fu infatti capillare ma sostanzialmente sbagliata: finì in tutti i negozi ma nella sezione di rock estero, in ordine alfabetico tra Bon Jovi e David Bowie. Temo di averne ancora uno scatolone nel garage dei miei genitori. Iniziai a lavorare con Lucio Dalla già un paio d’anni prima. Per un grande concerto in occasione dell’anniversario di Tazio Nuvolari riarrangiai l’intero album “Automobili” di Dalla/Roversi, mettendo insieme una band “futurista” di ben dieci elementi (tra cui B C Manjunath alle percussioni indiane, il turntablist Rock Drive e il videomaker Francesco Meneghini) che rimaneggiavano dal vivo materiali audio e video d’epoca concessi da Istituto Luce. Con Dalla sono diventato amico quasi subito ed ho continuato a collaborare su progetti speciali e produzioni teatrali. In quei cinque anni prima di “Horror Disco” in realtà ho realizzato un album uscito successivamente, quello di Tinpong con la vocalist Joy ‘Oy’ Frempong. Anche un remix per Donatella Rettore, poi diventato sigla di MTV Italia, oltre a tanti lavori di sound design, pubblicità ed installazioni. Bene o male, è stato un periodo in cui ero sempre in studio anche se non come artista in prima persona.

Bottin - Horror Disco
La copertina di “Horror Disco” (Bear Funk, 2009)

Come nacque, invece, “Horror Disco”?
Inizialmente “Horror Disco” doveva essere un’etichetta. Avevo realizzato parecchi brani in bilico tra disco music e colonne sonore. Stevie Kotey, il DJ dei Chicken Lips a cui mandai due CD pieni di quel materiale, pensò che Horror Disco potesse diventare una sublabel della sua Bear Funk. Era un’idea relativamente nuova all’epoca, antecedente e forse anche ispiratrice delle varie Giallo Disco, Voodoo, Discorror, etc. Poi il progetto fu (giustamente) ridimensionato a due EP su 12″ e ad un album su CD e doppio LP. Al momento della release ero già entrato come producer nella scena space disco col singolo “Fondamente Nove” per Eskimo Recordings e soprattutto con “No Static” su Italians Do It Better a cui devo l’inizio della mia esperienza come DJ internazionale.

Fatte poche eccezioni, la tua discografia è cresciuta attraverso etichette estere, dalle britanniche Bear Funk, Z Records e Nang alle statunitensi Italians Do It Better, 2MR e Chit Chat Records passando per la belga Eskimo Recordings e l’olandese Bordello A Parigi. Caso fortuito o scelta intenzionale?
All’epoca in Italia non c’erano label disposte a pubblicare quei generi e a dire il vero anche oggi ce ne sono poche. Mandavo i miei brani a quelle che mi sembravano potessero essere ricettive e che già stampavano dischi che mi appassionavano. Un paio mi hanno risposto e pubblicato. Su Eskimo Recordings in quel momento usciva il materiale di Lindstrøm & Prins Thomas che mi piacevano, Italians Do It Better invece aveva un’estetica visiva che mi sembrava compatibile al mio immaginario. Nessuna scelta esterofila quindi, non ho mai creduto molto ai confini ed alle identità nazionali, con qualche piccola eccezione. Mi sembra una specie di astrologia: siccome si è nati sotto una costellazione o sopra un territorio nazionale, allora si dovrebbero avere un’identità e un destino con caratteristiche predefinite? Non ne sono affatto convinto.

L’italo disco è uno dei tuoi generi di riferimento. Bistrattata e in alcuni casi persino rinnegata da chi la produsse, è tornata in vita una ventina di anni fa ma su iniziativa di DJ, collezionisti ed appassionati esteri, soprattutto nordeuropei. Perché, secondo te, i primi a non accorgersi del valore e della portata rivoluzionaria di certi pezzi sono paradossalmente proprio gli italiani? Banale esterofilia che ci affligge da tempo immemore?
Secondo me l’italo disco non è propriamente un genere musicale ma include tutta la musica dance prodotta in Italia tra il 1977 e il 1987 circa. Dentro c’è di tutto, i Tantra, i Change, Rago & Farina, Alexander Robotnick, Baltimora, Tipinifini, Albert One, Raf e Raffaella Carrà. Un mondo vastissimo fatto di tante musiche quasi tutte di matrice pop ma parecchio eterogenee. Quanto all’esterofilia, certamente è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. A causa dell’esterofilia molti artisti italiani non fanno tante serate in patria giacché è più cool mettere in cartellone artisti di provenienza estera. Sempre per esterofilia, alcuni italiani girano il mondo perché appare cool (o almeno così pareva) per i non-italiani chiamare un DJ italiano, anche se magari è meno bravo di alcuni resident del posto. Sto esagerando, chiaramente è anche la musica che si produce ad attecchire in certi contesti più che in altri. In Italia, nella musica da ballo, siamo quasi sempre stati al seguito di stili che avevano già avuto successo altrove, ma alcune produzioni italiane si spingevano oltre l’imitazione assumendo una propria identità e in qualche caso riuscendo ad imporsi all’estero come “suono italiano”. Tutta l’italo disco nasce come scimmiottamento di musica dance anglosassone. Ora, magari, certi anglosassoni scimmiottano l’italo disco. Questi cicli di influenze reciproche sono perfettamente normali, appartengono a quell’accumulo di strati di cui è fatta ogni cultura.

Cristalli Liquidi
Buona parte della discografia di Cristalli Liquidi

Nel 2010 crei Artifact, piccola etichetta che si fa notare coi dischi di Cristalli Liquidi accompagnati da ironiche parodie grafiche che rimandano ad un’industria ormai scomparsa e quasi del tutto dimenticata (Discomagic, Numero Uno, Discotto). Quali ragioni ti hanno spinto all’autoproduzione piuttosto che ad affidarti ad altre label?
Come accennavo prima, ogni tanto cerco di emanciparmi dalle label. A volte va piuttosto male, altre invece meglio come con Cristalli Liquidi. Doveva essere un progetto di un solo singolo, “Volevi Una Hit”, autoprodotto perché nessuno intendeva pubblicarlo, nemmeno la Italians Do It Better che temeva problemi con gli LCD Soundsystem a cui il brano è largamente ispirato visto che nasce come cover di “You Wanted A Hit” anche se poi tanto cover non è, ha una sua identità, un suo ritornello e un testo che esulano dall’originale. Ricevuta l’approvazione direttamente da James Murphy, l’ho pubblicato senza indugi. Artifact però non è proprio la mia label e non è nemmeno un’etichetta vera. Più che altro è un accordo di P&D (press & distribution) stretto con un broker olandese. Serve a pubblicare Cristalli Liquidi, i miei re-edit e ultimamente anche brani a mio nome. Forse, in un vicino futuro, anche pezzi di altri artisti. Per questi motivi non la considero un’etichetta, non ha un’identità né tantomeno un’immagine. È solo un modo di uscire sul piccolo mercato della distribuzione fisica di dischi.

Ad Artifact si affianca, nel 2012, pure una seconda “etichetta”, la Tin. Corrono sostanziali differenze tra le due?
Nessuna. Tin è stata semplicemente una serie di 12″ monofacciata coloratissimi con le versioni estese dei singoli dell’album “Punica Fides”. Pure in questo caso parlerei di un tentativo di emancipazione, in parte riuscito ma poi rientrato con la successiva pubblicazione del citato album su Bear Funk. Ora Tin è sostanzialmente inattiva ma resta Artifact.

Ormai le tirature dei 12″ destinati al DJing si sono assottigliate sino a raggiungere la media delle appena trecento copie, soglia risibile se confrontata a quelle dei decenni pre-millennio. Insomma, oggi incidere dischi è tutto fuorché economicamente incentivante e redditizio, gli introiti devono essere recuperati da altri ambiti connessi come le sincronizzazioni (cinema, tv), lo streaming e il download (può essere preso in considerazione sotto una certa soglia?) ed intrattenimento che però, al momento, è messo fuori gioco dal coronavirus. Ritieni che tutto ciò, per chi ha vissuto l’epoca in cui i limiti tecnologici relegavano la musica alla tattilità, abbia logorato la creatività? Per un artista è demoralizzante sapere di non poter più contare su un pubblico disposto a spendere del denaro per acquistare la sua musica?
Un po’ lo è ma contemporaneamente l’abbassamento qualitativo delle produzioni fa sì che ci voglia poco a produrre dischi appena migliori della media, avendone le capacità. Certo, bisogna essere un po’ musicisti, saper scrivere delle linee di basso interessanti, delle melodie anche minime ma comunque efficaci, non basta assemblare loop ed attivare arpeggiatori software. È altrettanto possibile fare buoni lavori di puro sampling o re-editing estremo e creativo. Visti gli introiti minimi di streaming e download, oggi si distribuiscono tanti re-edit e si usano campionamenti in modo piuttosto disinvolto, a volte fin troppo. Quanto al mercato dello streaming, non bisogna dimenticare che si tratta di un’industria sostenuta in buona parte dai grandi dischi registrati nel passato. Con l’economia discografica attuale sarebbe letteralmente impossibile produrre e promuovere musica così come si faceva una volta contando sui volumi di vendita dell’epoca. Inoltre la musica liquida dei servizi di streaming non è posseduta da chi la ascolta e nemmeno da chi paga un abbonamento. Se un giorno le piattaforme dovessero chiudere battenti o andare offline, gli utenti perderebbero tutta la loro raccolta di brani, album e playlist. Cadrebbe il silenzio. Invece i dischi e i CD che si possiedono restano, anche nel futuro per figli, nipoti, pronipoti o per chi li potrà ritrovare in un negozio dell’usato.

Che futuro prevedi per la musica incisa su supporto fisico? Per quanto tempo il disco in vinile potrà continuare ad alimentare l’interesse degli appassionati?
Penso durerà quasi per sempre, magari in quantità ulteriormente ridotte. Oggi c’è perfino un piccolo mercato di stampe per dischi a 78 giri destinati al grammofono. La forza del disco, come dicevo prima, è offerta dalla resistenza a lunghi transiti nello spazio e nel tempo. Un disco passa di mano in mano, di generazione in generazione e, anche se per qualche anno finisce abbandonato, prima o poi viene riscoperto da qualcuno, recuperato in un mercatino, poi recensito ed incensato, suonato anche decine di anni dopo essere stato prodotto. Un disco può avere tante vite e questo coi file, per ora, non succede o comunque accade molto meno. Un artista dovrebbe avere l’obiettivo di essere ascoltato ancora tra mille anni e non solo di entrare nella playlist della settimana o nella chat del selector di moda. Un produttore sa intimamente sa se ha fatto un bello o cattivo lavoro, se ha copiato una formula o se ha aggiunto almeno qualche ingrediente personale, questo al di là del successo o dell’insuccesso ottenuto. Poi è chiaro che bisogna anche cercare di vivere con la musica e questo richiede dei compromessi, degli adattamenti, un allineamento con lo spirito dei tempi. Ma le necessità, per così dire, “alimentari” non dovrebbero mai dettare tutta la linea, a maggior ragione se un disco si pubblica ormai in appena trecento copie. Perché scendere a compromessi col mercato per quantità così basse? Eppure escono ancora tanti dischi tutti uguali. Il disco, bello o brutto, originale o banale, continua a farsi perché gli artisti continuano a volerlo, accollandosi sempre più spesso le spese di produzione e di stampa. Alcune etichette ormai chiedono all’artista di partecipare ai costi, del resto avviene da tempo per le case editrici e per le mostre d’arte di seconda categoria. Poi ci sono label che campano quasi esclusivamente di ristampe più o meno legali di dischi desiderabili (magari perché rari) che hanno un potenziale di acquirenti già assodato. Quelle sono operazioni di mercato che da un lato rispetto perché proteggono dall’oblio certi titoli e li rendono di più facile reperimento, dall’altro però non si può ignorare che ogni ristampa venduta è un disco di musica nuova invenduto e magari nemmeno distribuito. Vale anche per i re-edit, genere che frequento attivamente, pur conscio di quanto sia in diretta concorrenza con le produzioni originali. Ed è una concorrenza un po’ sleale, almeno artisticamente, però gli edit vendono facilmente e con quelli magari ci si fa conoscere prima di uscire con un disco “vero” o si finanza la stampa di un disco più difficile da smerciare.

Tra i tuoi collaboratori più ricorrenti ci sono Maurizio Dami, Roberto ‘Bob’ Benozzo (intervistati rispettivamente qui e qui) e Rodion ma val la pena ricordare anche gli interventi vocali dell’indimenticato Douglas Meakin in “Disco For The Devil” (da “Horror Disco”) e di Lavinia Claws. Ci sono artisti del presente o del passato con cui ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto condividere l’attività in studio?
Con Robotnick la collaborazione nasce dall’amicizia, con Rodion ho realizzato diverse produzioni in passato ma poi ci siamo persi quando si è trasferito all’estero. Mi piacerebbe lavorare ancora con lui, ci siamo sempre divertiti facendo cose che ritengo belle. Ho collaborato pure con Francesco De Bellis (Francisco, L.U.C.A.) per “BFR (Space)” e “Zombie Erotic”, e proprio in queste settimane stiamo ultimando due nuovi brani. Da poco ho coprodotto un EP con Fabrizio Mammarella ed ho registrato una canzone in italiano con Debora Petrina. C’è inoltre un nuovo progetto personale che uscirà presto sotto uno pseudonimo. Non ho molti sogni nel cassetto, forse perché ho sempre avuto tante cose in cantiere. Mi è anche capitato di incontrare alcuni di quelli che erano stati i miei miti musicali ma che, senza fare nomi, in alcuni casi si sono rivelati mezze delusioni. Forse avevano perso lo smalto di un tempo oppure li avevo idealizzati troppo. Certi dischi, soprattutto quelli del passato, non sono il frutto di una sola persona ma il risultato di una squadra fatta di tanti talenti, magari passati in secondo piano.

Ragazza Madre EP
“Ragazza / Madre” è l’EP più recente di Cristalli Liquidi. Appena quaranta le copie del 10″ pubblicato da Industrie Discografiche Lacerba

In questa intervista di Fabio De Luca, pubblicata da Rockit il 17 gennaio 2018, sveli molte curiosità su una delle tue “creature” meglio riuscite, Cristalli Liquidi. Pochi mesi fa la tua “band/non band” è tornata con “Ragazza / Madre”, un EP pubblicato questa volta in CD dalla fiorentina Industrie Discografiche Lacerba, di cui esiste una limitatissima tiratura di appena 40 (!) copie in formato 10″. Puoi raccontare, anche dettagliatamente, il contenuto?
Cristalli Liquidi è un progetto strano, per certi versi imprevisto. Come raccontavo prima, doveva essere un unico disco, misterioso ed anonimo, poi sono diventati due, tre, quattro ed addirittura un album con alcuni brani scritti e prodotti insieme a Robotnick ed altri nati in collaborazione coi Polosid. Fino ad allora ero rimasto dietro le quinte. Poi con “Tubinga” (rivisitazione dell’omonimo di Lucio Battisti, dall’album “Hegel”) mi sono “rivelato” in un video performativo, un unico take realizzato con la performer Laura Pante e la fotografia di Giovanni Andreotta. Si è tenuto anche un piccolo tour in cui mi sono esibito come cantante (non l’avrei mai immaginato di farlo!) accompagnato alla batteria dall’amico Frank Agrario. È successo tutto così, senza progettarlo. Potrebbe essere già finito oppure ricominciare. Da qualche tempo collaboro con Lapo Belmestieri di Lacerba, è un grafico di pregio e cura bene ogni cosa. Così è nato “Ragazza/Madre” che vuole essere la conclusione della liason col repertorio di Lucio Battisti e Pasquale Panella. La scelta di fare quaranta copie su vinile 10″ è di Lacerba, ma esiste anche il digitale.

Estrai dalla tua raccolta dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Marisa Interligi - Occhio Di SerpenteMarisa Interligi – Occhio Di Serpente
Malcelata cover o un mezzo plagio ai danni degli Earth, Wind &Fire? Comprai il 7″, edito dalla Arc nel 1982, ad un mercatino senza sapere a cosa sarei andato
incontro.

Riz Ortolani - Quei Giorni Insieme A TeRiz Ortolani – Quei Giorni Insieme A Te
Un pezzo tratto dalla colonna sonora di “Non Si Sevizia Un Paperino”, un bel film del 1972 diretto da Lucio Fulci. Lo presi esclusivamente per la meravigliosa copertina che ritrae una Florinda Bolkan furente in una classica grafica di stampo cinematografico.

Giusto Pio - Auto-MotionGiusto Pio – Auto-Motion
Un brano del 1984 utilizzato come sigla del programma televisivo di proto informatica Chips, storpiato in Clips sulla copertina. Una distopia tra l’apocalittico e il fantascientifico cantata da Franco Battiato.

Jenny Nevasco - Crazy MusicJenny Nevasco – Crazy Music
Discreto brano funk un po’ esotico, pubblicato nel 1977. La copertina è di Mati Klarwein, lo stesso che ha illustrato, tra gli altri, “Bitches Brew” e “Live-Evil” di Miles Davis, “Abraxas” di Santana, “Last Days And Time” degli Earth, Wind &Fire e “Dream Theory In Malaya” di Jon Hassell. Chissà come è finito su questo 7″ della Yep Record.

MA.GI.C. - ShampooMA.GI.C. – Shampoo
Un pezzo che mi mette sempre di buon umore, cantato dal grande Douglas Meakin sulla musica dei fratelli MA(rio) e GI(useppe) C(apuano), i MA.GI.C. per l’appunto. A pubblicarlo è la Mr. Disc Organization nel 1981.

Umberto Balsamo - CrepuscoloUmberto Balsamo – Crepuscolo
“Crepuscolo” è un altro di quei dischi che ho comprato per la copertina, molto elegante. Il brano del ’78, arrangiato da Gian Piero Reverberi, è stato comunque una gradevole scoperta, pare ispirato da “Amarsi Un Po'” di Lucio Battisti.

Colorado - Space Lady LoveColorado – Space Lady Love
Una ruspante produzione space disco in cui appare il nome di Red Canzian dei Pooh nel ruolo di produttore. Lo comprai un mattino al mercatino di Porta Portese e nel pomeriggio era già campionato ed usato nell’EP “Galli” realizzato con Rodion per la Eskimo Recordings.

Alberto Camerini - Computer CapriccioAlberto Camerini – Computer Capriccio
Il brano era contenuto in una compilation su audiocassetta che i distributori di benzina regalavano col cambio d’olio del motore. Fu la colonna sonora di un lungo viaggio coi miei genitori fino a Dubrovnik, in una Fiat 127 lungo tortuose strade costiere cosparse di buche. Una canzone manifesto della generazione elettronica, la prima ad avere un computer in casa. Qualche anno fa ho avuto la possibilità di farmi autografare il disco da Alberto Camerini.

Ayx - Ayx TecaAyx – Ayx Teca
Anche questo 7″ del 1979 è frutto di una pesca miracolosa a Porta Portese, una decina di anni fa. Lo ri-editai subito in una extended version pubblicata solo su vinile nel 2010 su Artifact intitolata “Aextacy”, anagramma del titolo originale. All’epoca ci fu una specie di gara tra i fanatici della disco music italiana per indovinare cosa fosse e chi lo cantasse (sembra la Bertè ma è Gloria Nuti). Oggi è abbastanza noto giacché ripubblicato anche in digitale ma il primo incontro non si scorda mai.

Daniel Sentacruz Ensemble - Uffa Domani È LunedìDaniel Sentacruz Ensemble – Uffa Domani È Lunedì
Un pezzo scoperto nei meandri della discografia di Mara Cubeddu, prodotto da Vince Tempera nel 1978. Ne ho fatto un re-edit lo scorso anno con cui ho rianimato la serie su Artifact, da qualche tempo assopita. Ha però un grosso limite: si può suonare solo di domenica.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di DJ Rocca

DJ Rocca 1

DJ Rocca e parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primissimo, tutto per me, lo ebbi a circa nove/dieci anni ed era il 7″ con la sigla dello sceneggiato televisivo Sandokan con Kabir Bedi, ma essendo un regalo di mia madre non fu un acquisto fatto con consapevolezza. Considero invece il primo “vero” disco della mia vita da collezionista un altro 7″, “Beyond” di Herb Alpert che comprai quando avevo quindici anni, in occasione della prima gita al mare con gli amici, senza genitori. Ricordo ancora che tornammo a Reggio Emilia da Riccione in treno ed avevo il sacchetto, con dentro il disco, legato al passante dei pantaloni.

L’ultimo invece?
La ristampa del singolo “Look Into My Eyes” del gruppo brit funk 52nd Street. Un bel disco boogie jazzato, uscito sulla mitica Factory di Manchester nel 1982.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Non li ho mai contati ma la stima a spanne mi porta intorno ai dodicimila, cento più, cento meno. La quantificazione di quello che ho speso invece mi spaventa parecchio ma in aiuto viene Discogs in cui ho inserito almeno la metà di quelli che posseggo. Il valore emerso mi fa capire che è meglio non pensarci.

Come è organizzata?
È sistemata in due stanze. Nella prima ci sono tutti i dischi accumulati nel periodo della mia residenza al Maffia, quindi drum n bass, breakbeat e trip hop, a cui si aggiungono tre scomparti per la raccolta di dischi jazz classici (John Coltrane, Charlie Parker, Miles Davis, Bill Evans, Charles Mingus, Thelonious Monk etc), quelli MPB (musica popolare brasiliana), quelli italo disco e quelli jazz funk. Il grosso della collezione è nella seconda stanza dove accumulo i dischi che considero dance e da cui attingo quando faccio la valigia per i miei DJ set. In questo luogo ho azzardato la catalogazione: dischi suddivisi per autore, per genere o per etichetta, quindi tutti quelli di James Brown, Roy Ayers, Herbie Hancock, Fela Kuti, Azymuth, Gil Scott-Heron, Kraftwerk…o tutti quelli usciti su T.K. Disco, AVI Records o 99 Records e così via. Ho tenuto uno scomparto per le colonne sonore, uno per il dub e reggae ed uno per il krautrock. Sostanzialmente c’è una parvenza di ordine ma non riguarda la totalità dei miei dischi. Direi che un 50% sia riposto con un senso, il resto, purtroppo, è ancora alla rinfusa.

DJ Rocca 2

Un paio di scatti che rendono l’idea dell’entità della raccolta di Roccatagliati

Segui particolari procedure per la conservazione?
Certamente. Ho la fortuna di vantare nel mio quartiere un favoloso negozio di dischi usati, Planet Music, gestito da un caro amico che dispone di una macchina lavadischi professionale. È lui a fornirmi anche le migliori buste in plastica trasparente. Il 70% dei miei dischi è custodito nella busta protettiva e lavato all’occorrenza.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Per fortuna o forse perché sono un maniaco della sicurezza. I pochissimi che non trovo più, giusto un paio, sono spariti per mia colpa, smarriti nel buio di chissà quale consolle e in chissà quale club.

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DJ Rocca con “Brown Rice” di Don Cherry, il disco a cui tiene maggiormente

Qual è il disco a cui tieni di più?
Senza dubbio “Brown Rice” di Don Cherry. Lo acquistai circa trentacinque anni fa ma mi sorprende ancora, dandomi le stesse emozioni di quando posai la puntina sui solchi per la prima volta. Ne possiedo diverse copie in vari formati.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Sono diversi ma fortunatamente già spariti. Il negozio del mio amico di cui parlavo prima ha “ritagliato” una sezione coi titoli di cui mi voglio disfare e sembra che un acquirente lo trovino sempre.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
La wantlist è molto lunga nonostante non mi sia quasi mai fatto mancare nulla. C’è però un 12″ del periodo disco funk super raro che costa troppo e che nessuno ha ancora ristampato ufficialmente, “Come On And Rock” di Needa. Sono almeno quindici anni che staziona nella wantlist ed è una cosa piuttosto insolita.

Quello di cui potresti o vorresti disfarti senza troppe remore?
Per fortuna Planet Music smaltisce le “scorie” della mia collezione. Per entrare nel particolare, ho approfittato di questo lusso per vendere buona parte dei singoli drum n bass e breakbeat senza alcuno spessore musicale ricevuti anni addietro in copia promozionale.

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DJ Rocca considera “Life On Mars” di Dexter Wansel il disco con la copertina più bella

Quello con la copertina più bella?
Senza ombra di dubbio “Life On Mars” di Dexter Wansel: quel corridoio illuminato da neon azzurri su sfondo blu, che genera una piacevole sensazione di retrofuturismo, mi riporta alla mente un immaginario sci-fi fluttuante di suoni emozionali, come del resto avviene col contenuto dello stesso album. Ogni volta che riguardo quella copertina mi risale la stessa eccitazione. Esistono ovviamente altre magnifiche cover ma non hanno quel potere.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
I negozi di dischi sono sempre stati un luogo un po’ particolare, specialmente quando si è adolescenti e si incomincia ad affacciarsi nel mondo degli adulti “che sanno”. La maggior parte dei negozi che frequentavo erano quelli della mia città, Reggio Emilia, e tutti noi clienti facevamo affidamento al commesso più anziano il quale, quasi sempre, si considerava un semidio. Potevi incontrare quello con atteggiamenti paternalistici, quello con l’aura del vero esperto o quello con la faccia da schiaffi che poi amavi per tutta la vita. Il rapporto commesso/cliente è una costante obbligatoria che mi è sempre saltata all’occhio e che ha avvolto di fascino il luogo stesso. I negozi di dischi erano come un tempio in cui potevi abbeverarti al sapere ma il Gran Maestro Shaolin capiva, tramite il suo atteggiamento severo, se meritavi di avere accesso ad una porta o ad un’altra. Nel momento in cui ti si apriva quella giusta, il Maestro Shaolin diventava il tuo educatore musicale per sempre, consigliere dei migliori dischi per i tuoi gusti o per farti scoprire nuove religioni sonore. Con l’età e la patente della Vespa, mi spingevo in negozi sempre più grandi come i Magazzini Nannucci a Bologna, Peecker Sound a Formigine o Dimar Dischi a Rimini, veri e propri antesignani degli attuali megastore, dove il rapporto morboso commesso/cliente si diluiva ma, di contro, potevi lanciarti nel rischio di scelte personali visto che riuscivi ad ascoltare in autonomia i dischi scelti e i prezzi erano convenienti. Sarò un malato o un nostalgico ma i pochi negozi che frequento, sia in Italia che all’estero, sono quelli che hanno mantenuto la stessa austera suggestione e che mi danno l’impressione di entrare ancora nel tempio del sapere dove, con deferenza, mi lascio guidare dal Gran Maestro dei Vinili.

Sei tra coloro che apprezzano o che demonizzano l’e-commerce?
Sono favorevole. Se non fosse stato per l’allargamento di offerta su scala mondiale, non avrei mai potuto mettere le mani su articoli che cercavo da sempre. In più l’e-commerce ha dato la possibilità di essere venditori, quindi trovare potenziali acquirenti in ogni dove. Ovviamente il calore e la seduzione del negozio fisico non potranno mai essere sostituiti da quelli virtuali ma un giusto equilibrio tra le due situazioni è ciò che mi auguro. Suppongo occorra un’educazione differente per chi compra.

I negozi di dischi che riescono a sopravvivere alla globalizzazione sono sempre meno (giusto poche settimane fa ha abbassato definitivamente la saracinesca anche Mariposa, a Milano) e le prospettive future non sono delle più rosee. Il “colpevole” è l’e-commerce o la disaffezione che il grande pubblico nutre ormai per la musica, un “bene” da ascoltare e consumare online e non più da possedere materialmente?
Ho la sensazione che si stia affrontando ogni cosa, tra cui la musica, con crescente approssimazione. Io per primo ho maggiore difficoltà a concentrarmi, meno voglia di approfondire, di finire un libro o di ascoltare un intero album. Sento la smania di accumulare materiale come se equivalesse ad interiorizzarlo. L’ascolto streaming è molto più agevole e meno vincolante. Chi si spinge a comprare un disco va controcorrente, decide di possedere una cosa impegnativa che va ascoltata per intero, un oggetto che dura per molto tempo e che va preservato. La debacle dei negozi di dischi è relegata a quelli che non si specializzano. Garantisco che gli amici gestori di negozi di dischi usati hanno visto, al contrario, un’impennata delle loro vendite.

Sei tra coloro che continuano ad incidere dischi senza sosta: per gli artisti e le etichette che scommettono ancora sul prodotto fisico, che sia un 12″ o LP, un CD e talvolta una cassetta, esiste ancora un, seppur minimo, riconoscimento economico o il motore di questa attività è unicamente alimentato dalla passione?
Il riconoscimento economico sopravvive. Il disco è come un libro, un’opera che incomincia dal contenitore e si allarga fino al contenuto. La copertina, l’artwork, il formato, la carta… ancora prima di ascoltare il suono che uscirà da quel pezzo di plastica o nastro, tra le mani si stringe un’opera artistica che offre emozioni e lancia un messaggio. Più che una scelta di business, oggi stampare un disco è un’espressione corale, un’opera d’ingegno che coinvolge il musicista, il grafico e il proprietario della stessa etichetta. Tutti insieme fanno arte, aggregando idee che portano ad un risultato. L’abilità e la passione di questo team fa si che il riconoscimento economico sia soddisfacente. In altri termini: i dischi buoni vendono ancora.

Seppur attivo come DJ, hai iniziato ad armeggiare in studio di registrazione relativamente tardi, intorno al 1998 nel progetto/collettivo Maffia Sound System. Come mai non provasti prima a “buttarti” nella discografia?
Effettivamente sono stato “tardivo” per svariate ragioni. Prima tra tutte la discordanza indotta tra il musicista che esercita con uno strumento convenzionale e il musicista che utilizza invece attrezzature elettroniche per creare suoni. Nascendo come flautista e poi come aspirante jazzista, al conservatorio mi hanno (male) educato a considerare merda tutte le altre forme di espressione musicale definendole inferiori. Figuriamoci quella del DJ, che produce musica da ballo. Poi, nei primi anni Novanta, l’apertura mentale mi ha permesso di percepire qualche indizio nel cambiamento e, al contrario di quello che pensavo sino a poco tempo prima, scoprii che con le apparecchiature elettroniche si potesse essere non solo un flautista ma anche un pianista, un batterista, un arrangiatore, un fonico e, in linea generale, uno sperimentatore. Le possibilità di espressione diventavano infinite. Già gli anni Ottanta furono ricchi di autorità elettroniche ma la tecnologia sempre più accessibile ad un prezzo progressivamente più umano mi ha fatto avvicinare a quel mondo fino a quando, grazie al Maffia, ho capito in modo chiaro che il futuro della musica sarebbe stato proprio quello. Finalmente mi sentivo bene e senza più sensi di colpa. I primi tempi furono senza dubbio naïf, con produzioni generate da un PC scassato ed un sampler Akai. Campioni su campioni e suoni mixati male ma con la consapevolezza di trattare una materia grezza che più avrei plasmato e più sarebbe diventata duttile. Sebbene mai contento delle prime creazioni, alcune coraggiose etichette iniziarono a stampare i miei brani. Da quel momento, come quando mi convinsi a prendere lezioni di improvvisazione jazz dopo lo studio della musica classica, decisi che mi sarei dovuto istruire di più andando negli studi dei miei produttori preferiti. Così, con armi e bagagli, mi trasferivo per settimane intere in Gran Bretagna nelle sale di registrazione degli amici Pressure Drop, Zed Bias e Ian Simmonds, per comprendere bene la nuova “forma” di musicista che sarei voluto diventare.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando al Maffia?
“Higher State Of Consciousness” di Josh Wink, un pezzo che ci travolse completamente. Ritmi spezzati, una bassline Roland e tanta attitudine punk quanto techno. Una formula che ogni volta creava sulla pista un clima da rito sciamanico. Il titolo mi fu suggerito da un amico che frequentava la scena londinese nel 1995 e diventò il super classico del Maffia per tutti gli anni a venire, fino alla chiusura nel 2009; “Brown Paper Bag” di Roni Size / Reprazent, una traccia che, come la prima serata al Maffia con DJ Krust nel 1996, ci fece arrivare in modo chiaro e limpido il messaggio che la musica stesse cambiando per una nuova era. Non è un caso che l’album “New Forms”, in cui quel pezzo era contenuto, sia stato premiato col Mercury Prize nel ’97, soffiato a musicisti militanti in scene più tradizionali. Quando la band eseguì il brano, live, nel concerto del ’98 al Vox di Nonantola, noi del Maffia eravamo gli italiani con cui i componenti del gruppo erano in confidenza perché fummo il primo club a dare la residenza alla label di Roni Size, la Full Cycle. Non dimenticherò mai quando Krust, Die e Suv scesero dal palco e vennero subito ad abbracciarci, entusiasti come noi e certi di essere nel futuro; “138 Trek” di DJ Zinc, ossia il prodromo del genere UK garage, l’anello di congiunzione tra il breakbeat, il drum n bass e quello che sarà il dubstep. Quando Zinc veniva al Maffia solitamente suonava drum n bass ma la sera che, come Maffia Sound System, aprimmo il suo set decidendo di passare quel brano, ci fu il black out in tutta Italia (era la notte tra il 27 e il 28 settembre 2003, nda).

Conservi tutti i dischi/CD incisi nella tua carriera?
Certo. Ho sia l’archivio dei CD (anche quelli con un solo mio brano, che ho mixato oppure che ho masterizzato per terzi) fino alla doppia o tripla copia di una mia uscita su vinile. Mi mancano giusto un paio di compilation su CD che contengono mie tracce, una giapponese curata da Dimitri From Paris ed una balearica della Stereo De Luxe. Ma prima o poi le comprerò su Discogs.

C’è un disco (o un brano) nella tua discografia che ritieni possa rappresentare in toto il tuo stile e la tua attitudine?
Io stesso non conosco il mio stile e la mia attitudine, sono tuttora alla scoperta di tanti infiniti linguaggi musicali interessanti e di conseguenza non riesco ad individuare nel mio repertorio un’opera tale da racchiudere tutto ciò che avrei voluto dire. Se dividiamo per generi, la mia attitudine krautrock mi fa amare “Prospective”, il primo album di Crimea X, in merito alla disco invece citerei “Erodiscotique”, l’album prodotto con Dimitri From Paris. Per l’attitudine balearic invece i due album condivisi con Daniele Baldelli, “Podalirius” e “Quagga”, per quella jazz i dischi realizzati con Franco D’Andrea, e potrei andare avanti. Forse però c’è un album particolarmente identificativo che mi riporta agli esordi e mi fa sembrare che fosse già tutto lì: si tratta di “Light Transmission” del progetto creato con l’amico Enrico Marani alias Samora (quello de Le Forbici Di Manitù) ossia 2Blue, che autoproducemmo nel 2003 con la label legata al Maffia, la Kom-Fut Manifesto Records. È possibile ascoltarlo su Spotify cliccando qui.

DJ Rocca @ Maffia (tra 1998 e 2000)

DJ Rocca in consolle al Maffia di Reggio Emilia, in una foto scattata tra 1998 e 2000

Nelle righe precedenti è stato citato più volte il Maffia, club a Reggio Emilia che pionieristicamente smosse le acque in una zona musicalmente dominata dal rock. Come tu stesso dichiari in questa intervista di Robert Baravelli pubblicata il 19 agosto 2015, cercaste di portare un pizzico di quella «musica suonata che incontrava linguaggi moderni più vicini all’elettronica e alle esperienze dei rave e dei club che in Gran Bretagna, Germania e Olanda erano frequentatissimi». La vostra proposta fu interessante quanto coraggiosa, degna del migliore “intrattenimento illuminato” con ospitate di vero pregio, da Ed Rush a Keith Tenniswood, da Les Rythmes Digitales ai Plaid, da Nitin Sawhney a Will White dei Propellerheads passando per Grooverider e Photek, giusto per citarne solo alcuni. Ritieni ci siano ancora i presupposti per fare cultura con l’intrattenimento in Italia? In tanti lamentano una scena ormai allo sbando, con pochissime realtà degne di competere con quelle di venticinque/trent’anni fa rimaste impresse a fuoco nella memoria di un’intera generazione, forse non solo per banale nostalgia. Cosa è cambiato, in negativo, in questo ambiente e quali potrebbero essere le soluzioni? Lo stop forzato dalla pandemia sarà, come più di qualcuno sostiene e si augura, lo stimolo per ripartire con nuove progettualità ed intenti?
È una domanda molto impegnativa, solo un team di sociologi, promoter, storici e musicisti riuscirebbe a dare una risposta adeguata. Io posso cercare di muovermi tra alcune sensazioni personali. Non sono un reazionario ma la prima cosa da tenere presente è il periodo storico incompatibile. Il decennio 1990-2000 è stato denso di cose, di avvenimenti, di progressi, di modi di vivere completamente discordi dai due decenni che oggi ci distanziano da quell’era. La curiosità e la qualità, ad esempio, erano imperativi che oggi stanno evaporando e creano un assoluto divario di approccio se vuoi occuparti di cultura. Altro fattore importante è la distribuzione della ricchezza: vuoi mettere la condizione economica di un medio cittadino tra i venti e i quarant’anni nel 2020, pandemia a parte, e del suo omologo di venti/venticinque anni fa? Di conseguenza la società di oggi non può sostenere modelli obsoleti di intrattenimento. Sta di fatto che è veramente cambiato molto, ma non solo in negativo. Per la mia esperienza, al di là di tutti i fattori temporali, sociali ed economici, mi sento di dire che la testardaggine, la conoscenza approfondita di quello che fai, la volontà di proporre cose interessanti e un pizzico di positività mista ad entusiasmo, possono fare miracoli in tutte le epoche, qualsiasi portafoglio si abbia a disposizione. Magari negli anni Novanta l’intrattenimento culturale innovativo passava per ciò che definiamo club culture ed oggi si affaccia con differenti forme espressive. Non dimentichiamoci che la musica dance oggi è adulta tanto quanto il rock o il jazz, e non offre ottimi segni di celere rinnovamento come invece avvenne nel suo periodo “adolescenziale”. Mi astengo infine dal lanciare ipotesi su ciò che avverrà dopo la pandemia. È già diventato uno sport nazionale fare previsioni, preferisco avere elementi di giudizio certi che, ad oggi, ancora non disponiamo.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

Project Democracy Feat. China - Is This Dream For RealProject Democracy Feat. China – Is This Dream For Real?
Quando compro un disco cerco sempre di scegliere un’opera particolare. Questo è il singolo house della mia collezione che più esprime l’urgenza creativa e la voglia di sperimentare con un linguaggio agli albori. Ho rincorso il vinile per mesi, poi finalmente me lo sono potuto permettere ad un prezzo ancora nei limiti. Non sempre ci sono i presupposti per utilizzarlo nei miei set ma quando arrivo a suonarlo il pezzo sprigiona tutta la malinconia intrisa di ritmo e piacevole alterazione. Ovviamente uso la Psychedub.

Expansives - Life With You ....Expansives – Life With You ….
Anche questo è stato un salasso ma comprare certi dischi è come investire nell’oro. Possiedo la copia promozionale col titolo scritto in modo sbagliato, dove You si trasforma in Jou. Un articolo come questo avrà sempre valore per i collezionisti e per chi, come me, è un appassionato dell’italo disco più ingenua e primitiva. Resta un must. Cerco di proporlo sempre, è un pezzo che sembra fatto ieri, veramente posizionabile in qualsiasi contesto. La registrazione era perfetta e tutte le ristampe giunte negli ultimi anni non ne hanno mai eguagliato la qualità.

Phill & Friends Band - This ManPhill & Friends Band – This Man
Trattasi di un retaggio “baldelliano”, un pezzo che ascoltavo sempre nelle cassette del Cosmic o del Chicago. Naturalmente possiedo la tiratura originale, su Rio Records, perché le ristampe di qualsiasi disco raro ne alterano in negativo la registrazione. “This Man” è una traccia magnifica in bilico tra punk, new wave, disco e funk, che tengo sempre in valigia quando devo suonare in contesti diurni o in particolari notturni. Uno di quei dischi che si ricollega alla domanda sui vantaggi dell’e-commerce e di come il mercato allargato oggi permetta di avvicinarsi a chicche peculiari.

Jiraffe - Out'A The BoxJiraffe – Out’A The Box
Un disco che ho scoperto tramite un caro amico, Marco Febbraro, che mi diede la possibilità di ascoltare un DJ che passò questa gemma nel suo set. Una traccia esemplificativa dello stile che ho studiato con Dimitri From Paris per il nostro repertorio ossia quella post disco/boogie che si stava trasformando in altro, in una specie di genere che definirei proto house. Forse è uno dei dischi a generare maggiore interesse nel pubblico che viene puntualmente a domandarmi il titolo. Lo comprai su eBay da un commerciante che sicuramente non sapeva cosa stesse vendendo: lo pagai meno di cinquanta euro, in copia originale e nuova (a ristamparlo, nel 2016, è proprio il citato Febbraro sulla sua etichetta specializzata in reissue, la Omaggio, nda)

Peshay - Piano TunePeshay – Piano Tune
Un artista indiscusso ed una traccia dirompente. Acquistavo praticamente tutto ciò che usciva per la label di LTJ Bukem, la Good Looking Records, e quasi tutti i singoli pubblicati nei primi anni di attività restano magici. “Piano Tune” però ha quel quid in più: la perfezione della jungle malinconica con un sapiente utilizzo dell’amen break. Ogni volta che lo suono la pista si immerge nel clima che voglio ottenere. Ho conosciuto personalmente Paul Pesce alias Peshay, figlio di immigrati italiani in terra d’Albione, sono stato anche a casa sua. Insieme realizzammo un singolo in tandem utilizzando uno studio allestito per l’occasione al Maffia. Ora che c’è il recupero del drum n bass della prima ora noto che il 12″, risalente al 1995, si piazza tra i più desiderati, e non è certamente un caso.

Frak - Börft EPFrak – Börft EP
A pubblicare questo EP è una label a dir poco bizzarra, la norvegese Sex Tags Mania, che osa sempre nella ricerca di prodotti unici. “Börft” mi ha introdotto al progetto Frak, al loro lessico sincero, privo di fronzoli, diretto e primitivo. In “Synthfrilla” una drum machine, un arpeggio ed una bassline vengono utilizzate da qualcuno che ha da dire la sua. Un fantastico tool per infiammare la pista, rimanendo su un suono moderno quanto antico. Purtroppo scoprii l’esistenza di questo disco in ritardo e quindi fui costretto a pagarlo un prezzo più alto rispetto a quando giunse nei negozi, nel 2012.

Clara Mondshine - Luna AfricanaClara Mondshine – Luna Africana
Sono particolarmente legato a questo album del 1981, uno dei primi di musica elettronica su cui misi le mani in età adolescenziale. L’etichetta che lo stampò, la Innovative Communication di Klaus Schulze, fu una manna dal cielo, con un repertorio di titoli strabilianti di elettronica ritmata e di ricerca. “Die Drachentrommler” lo suonava DJ Pery in un club che segnò il mio gusto musicale dell’epoca, il Melodj Mecca. Inimmaginabile pensare di far ballare il pubblico di oggi con un brano come questo a velocità rallentata ma per un set in particolari luoghi, o un warm up ambient, la sua presenza è assicurata.

Patrice Rushen - What's The Story (Disco Version)Patrice Rushen – What’s The Story (Disco Version)
Ammetto di essere un fan sfegatato della Rushen che considero la versione femminile di Herbie Hancock, il mio idolo assoluto. Nel suo periodo da enfant prodige le permisero di registrare due album sulla Prestige, etichetta su cui incisero capolavori sia John Coltrane che Miles Davis. Le formazioni di questi LP sono stellari e in “What’s The Story” la nostra Patrice si esibisce, oltre che al piano elettrico, anche alla voce sperimentando la formula che in seguito le diede le maggiori soddisfazioni. Il 12″ estratto a cui faccio riferimento rappresenta una mezza rivoluzione, pensando che una label tradizionalmente jazz sfornasse un singolo per le discoteche nel 1976. Come ogni DJ saprà, il 12″ suona molto più “forte” e la versione è quindi indicata per la pista da ballo. La Prestige aveva visto bene ed anche molto lontano: quello di “What’s The Story” è un funk senza tempo, potente, venato di jazz, che strizza l’occhio al broken beat corredato di clap e hats in levare, tanto da avere una grammatica che rimanda alla house music ma con un groove decisamente primordiale ed irresistibile.

La Funk Mob - Casse Les Frontières, Fou Les Têtes En L'AirLa Funk Mob – Casse Les Frontières, Fou Les Têtes En L’Air
L’apertura mentale di James Lavelle e la sua operazione Mo Wax rimarranno nella storia della discografia dance. In questo doppio in formato 10″ edito nel 1994 si stava cavalcando l’onda del trip hop ma con la voglia di rompere i suoi stessi confini, infatti Carl Craig e Richie Hawtin si prodigano per abbattere anche i propri firmando due remix, rispettivamente per “Ravers Suck Our Sound” e “Motor Bass Get Phunked Up”. È proprio l’Electrofunk Remix di quest’ultima, ad opera di Hawtin, il mio preferito, suonato allo sfinimento ed ancora oggi nella valigia dei dischi. Probabilmente arriverò a comprare una seconda copia, rigorosamente su Mo Wax. Un must anche per le favolose grafiche che fecero scuola.

Pressure Drop - UnifyPressure Drop – Unify
Un disco senza tempo, un altro titolo che mi vengono tuttora a domandare quando lo propongo. Pure questo ha un valore affettivo perché mi fu regalato dagli stessi artefici, anche loro amici fraterni e maestri della mia educazione alla produzione. Dave Henley e Justin Langlands si stavano emancipando dal periodo acid jazz utilizzando linguaggi percussivi ed arrangiamenti più vicini alla grammatica house e techno ma orchestrando e mantenendo l’attenzione alla pista da ballo con un piglio dub. Ne uscì un classico che per me rimarrà sempre fondamentale. Nei miei set la Rip Up Instrumental porta la situazione latina senza sfacciatamente “sbragare” ma rimanendo su quel confine che offre facoltà di proseguire in ogni genere.

(Giosuè Impellizzeri)

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Adrian Morrison – DJ chart ottobre 1996

Adrian Morrison, DiscoiD, ottobre 1996
DJ: Adrian Morrison
Fonte: DiscoiD
Data: ottobre 1996

1) Dimitri From Paris – Sacrebleu
Edito nel 1996 dalla Yellow Productions di Bob Sinclar e DJ Yellow, “Sacrebleu” è il primo album di Dimitri Yerasimos, meglio noto come Dimitri From Paris. All’interno si palesa il mondo musicale di riferimento del francese nato ad Istanbul, fatto in prevalenza di downtempo, soul, jazz, funk ed easy listening, ad anticipare quella grande onda chiamata lounge che conquisterà il mainstream qualche anno più tardi. Tuttavia non mancano parentesi che si aprono verso materie ballabili, come “Dirty Larry” (estratto come singolo), “La Rythme Et Le Cadence” e “Le Moody Reggae” altrettanto ricche di digressioni latin e brazil a testimonianza di quale sia la direzione stilistica dell’artista quello stesso anno impegnato col citato Sinclar nel progetto La Yellow 357. A mixare il disco è Philippe Cerboneschi alias Zdar (Cassius, Motorbass, La Funk Mob) scomparso tragicamente pochi mesi fa.

2) Lionrock – Fire Up The Shoesaw
Ricordato per la hit “Packet Of Peace” del 1993, il progetto Lionrock orchestrato da Justin Robertson vede accrescere la fama negli anni Novanta, col costante supporto della Deconstruction. “Fire Up The Shoesaw”, uno dei singoli estratti dall’album “An Instinct For Detection”, si inserisce a pieno titolo in quel filone che la stampa ribattezza chemical beat, allora battuto da Chemical Brothers, Prodigy, Fatboy Slim, Fluke, Apollo 440 o Propellerheads. Il brano fruga con perizia in discografie di artisti stilisticamente lontani dal mondo dell’elettronica (Nancy Sinatra, John Barry e Bram Tchaikovsky), come avviene sovente nel segmento big beat, rivelando poderoso background culturale ed abilità tecnica degli autori. Sul lato b trovano spazio due versioni ritmicamente più lineari, la Discotheque Mix e la Discotheque Dub.

3) Mateo & Matos – Shades Of Time
La coppia di DJ newyorkesi è tra le più prolifiche negli anni Novanta, decade in cui la house music assume nuove forme e declinazioni. In questo 12″, pubblicato dalla Spiritual Life Music di Joe Claussell, jazz e vibe danzereccio vengono sapientemente bilanciati: in “Loft Sensations” (con un probabile rimando tematico al Loft di Dave Mancuso) si lascia spazio agli strumenti acustici, poi è tempo di ancheggiare sul canovaccio percussivo di “New York Style” che, come il titolo stesso lascia supporre, intende rappresentare la house music della Grande Mela.

4) DJ Afid – Wild Bass
Si conosce ben poco di questo disco, stampato dalla Wax Records di Losanna, Svizzera. Praticamente nulle le informazioni anche sull’autore, un tal DJ Afid, che incide due brani, “Wild Bass” e “Maracaibo”, rivisti in altrettante versioni ciascuno.

5) Street Corner Symphony – Symphony For The Devil (The Harvey Remixes)
A realizzare i remix è uno dei maggiori agitatori della club scene londinese degli anni Novanta, DJ Harvey. Sia la Obligatory Mix che la 95% Live Mix risentono in modo evidente di influenze funk, soul e disco, tracciando la via che avrebbe seguito, anni dopo, la nu disco. Autori del brano originale sono Petar Zivkovic e Glen Gunner che, nel 2000, daranno vita ai Block 16 insieme a Ray Mang, appoggiati da un’etichetta d’eccezione come la Nuphonic.

6) Jephté Guillaume – Lakou-A
“Lakou-A” è il singolo di debutto per questo poliedrico artista nativo di Haiti, in grado di incrociare il folk originario della sua terra con la deep house. La combinazione non sfugge al radar di Joe Claussell che lo mette sotto contratto sulla propria Spiritual Life Music. Da “Lakou-A” si schiude un mondo in cui Guillaume orchestra sapientemente un percussionista, un pianista e un trombettista per raggiungere la sublimazione. All’afro house dell’Original Vocal si sommano le toccanti vibrazioni della Frédo’s Jazzy Fingers e della Live Bass Vocal, a cui si aggiungono vari tool destinati ai DJ più creativi.

7) Sunship – Come True
Prolifico artista britannico ed ex membro dei Brand New Heavies, Ceri Evans si fa largo nella scena house/future jazz come Sunship. “Come True”, che lo porta sulla londinese Filter, fa contemporaneamente leva sullo spezzettamento ritmico del broken beat e sulla soavità dei lead che si levano come tappeti onirici. La Sun Dub e la True Dub proseguono nello stesso solco, la prima semplificando i pattern della batteria, la seconda continuando a svolazzare su frammenti di materia grigia dondolati in un dolce sogno. A mo’ di bonus appare infine il remix di “The 13th Key”, un brano edito nel 1992 ora rimaneggiato dai Black Science Orchestra capeggiati da Ashley Beedle che si lasciano andare a virtuosismi jazzy di straordinaria fattura.

8) Reel Houze – The Chance
Sviluppato su un sample preso da “Go Bang!” dei Dinosaur L, “The Chance” è un altro di quei pezzi che, nella Londra di metà anni Novanta, determinano il fermento del cosiddetto nu funk a cui aderisce anche l’italiano Leo Young di cui abbiamo parlato qui e qui. A produrlo sono due vecchie conoscenze della scena britannica, Dominic Dawson e Rob Mello. A stamparlo invece la Zoom Records, nata nel retrobottega dell’omonimo negozio di dischi a Camden.

9) Brooklyn Funk Essentials – ?
In assenza del titolo non è possibile identificare quale sia il pezzo dei Brooklyn Funk Essentials in questione. Peraltro nel 1996, anno di pubblicazione della classifica, il collettivo pare non abbia inciso nulla. È presumibile dunque che Adrian Morrison facesse riferimento all’album “Cool And Steady And Easy”, uscito a fine ’93 e prodotto dal sommo Arthur Baker, o a qualche singolo estratto in seguito, “The Creator Has A Master Plan”, “Dilly Dally” o “Big Apple Boogaloo”.

10) Tri Spiritual Experience – Platform City
Trattasi di un disco presente nel ridottissimo catalogo della Üzziel Records, etichetta apparentemente californiana che conta appena tre pubblicazioni, tutte del ’96 e firmate dal trio Tri Spiritual Experience. “Platform City” è deep house che stringe l’ascoltatore in un fraterno abbraccio ma degna di menzione è pure “Phunktuary”, incisa sul lato opposto, in cui Twister, Heather e DJ Loic flirtano col breakbeat e continui inviluppi di filtri.

(Giosuè Impellizzeri)

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N.O.I.A. – The Rule To Survive (Looking For Love) (Italian Records)

N.O.I.A. - The Rule To Survive (Looking For Love)Cervia, 1978. Bruno Magnani e Davide Piatto fondano i N.O.I.A., uno dei primi gruppi italiani a rivelarsi come punto di incontro e vicendevole scambio tra meccanicismo sintetico e vocalità new wave, capace di generare un suono-meticciato tra Kraftwerk e Devo. Insieme a loro, sino al 1983, quando la band è tendenzialmente attiva solo sul fronte live, ci sono Giorgio Giannini, Jacopo Bianchetti e Giorgio Facciani, ma nel momento in cui Oderso Rubini li mette sotto contratto con l’Italian Records cambia tutto. La propensione ad esibirsi dal vivo viene meno, sostituita dal lavoro in studio. La musica dei Talking Heads, Ultravox, Can e Neu! forgia il gusto dei romagnoli che si spingono avanti sino a lambire sponde no wave e proto house.

«Iniziammo nel ’78 quando non eravamo altro che punk diciassettenni» ricorda oggi Magnani. «La tecnica non era importante anzi, allora si scoprì che l’assenza di questa non precludeva il fatto di poter scrivere bei pezzi. Ciò che rammento principalmente dei primi tempi è che ad ogni nostra esibizione si scatenava una rissa nel pubblico, tra quelli che ci amavano e quelli che, al contrario, ci odiavano. Non esistevano mezze misure. Le spillette con su il messaggio “Energia nucleare? Sì grazie!” che tiravamo sulla gente contribuivano a far crescere quello strano mix tra amore ed odio. Come nome artistico optammo per la sigla N.O.I.A. che poteva rappresentare ben 125 significati diversi, ai tempi conosciuti ma tenuti segreti, oggi banalmente dimenticati. Ricordo però che in parecchie di quelle 125 permutazioni la “A” stava per “Automazione”. La formazione a cinque elementi era molto più efficace dal vivo, quando rimanemmo in tre (Magnani, Piatto e Giannini, nda) invece privilegiammo troppo il lavoro in studio e smettemmo quasi del tutto l’attività live. I due che uscirono, peraltro, erano quelli fisicamente più belli e che facevano la loro figura, quindi a posteriori direi che fu un errore ridimensionarci».

N.O.I.A. (2)

Una foto scattata presumibilmente nel 1979 in occasione di un’esibizione dei N.O.I.A. alla Nuite Blanche di Cesenatico. Da sinistra: la ballerina Sara, un amico che non faceva parte del gruppo, il chitarrista Jacopo Bianchetti, Giorgio Giannini, Marino Sutera in tuta blu con uno strumento autocostruito chiamato Noiatron, Davide Piatto e Bruno Magnani.

Nel 1981 i N.O.I.A. sono sul palco della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” organizzata a Bologna. Lì li vede (e sente) Oderso Rubini che li porta all’Italian Records, nata dalle ceneri della Harpo’s Music. Da quel momento le priorità cambiano, prima del suonare live c’è il voler incidere dischi, avvalendosi pure di strumenti elettronici che ai tempi sono spesso oggetto di demonizzazione negli ambienti del pop/rock tradizionale. «Ad onor del vero avremmo voluto incidere dischi anche prima ma preferimmo rifiutare le proposte di etichette microscopiche ed aspettare l’occasione giusta» spiega Magnani. «Ai tempi era tutto analogico, le autoproduzioni erano piuttosto scadenti e per allestire o prendere a nolo gli studi di registrazione professionali occorreva molto denaro. Ci voleva assolutamente una casa discografica. Per l’utente medio l’uso di apparecchiature elettroniche era qualcosa che riguardava nello specifico la musica disco. Il grande pubblico, soprattutto nelle esibizioni live, continuava ad aspettarsi batteristi tradizionali ed assoli di chitarra distorta».

N.O.I.A. (3)

Davide Piatto immortalato nel 1982 durante una delle session casalinghe di Klein & MBO mentre armeggia con un sintetizzatore Roland SH-1 ed una batteria elettronica Roland TR-808

È proprio con una chitarra ed una Roland TR-808 che Davide Piatto contribuisce significativamente alla realizzazione di uno dei brani considerati seminali per la house music di Chicago, “Dirty Talk” di Klein & MBO, seppur il suo lavoro non venga ufficialmente riconosciuto attraverso i credit in copertina, come già ampiamente descritto in questo reportage di qualche anno fa con la sua testimonianza esclusiva. «In quel periodo Davide era parecchio prolifico e scrisse moltissime basi» ricorda Magnani a tal proposito. «Su una cassetta che mi diede c’erano sia la base di quella che sarebbe diventata la nostra “The Rule To Survive (Looking For Love)”, sia quella che invece si sarebbe trasformata in “Dirty Talk”. A noi piacque di più la prima».

Il singolo di debutto dei N.O.I.A. è proprio “The Rule To Survive (Looking For Love)”, pubblicato nei primi mesi del 1983. Nonostante venga fatto confluire convenzionalmente nell’italo disco, il brano si muove in realtà lungo coordinate diverse, più aderenti alla new wave abbinate ad una carica ritmica definibile proto house, la stessa che caratterizza la citata “Dirty Talk” e un altro evergreen prodotto in Italia quello stesso anno, “Problèmes D’Amour” del toscano Alexander Robotnick (di cui abbiamo parlato qui) che coi N.O.I.A., peraltro, divide la passione per il rock alternativo, il punk ed una certa elettronica anti mainstream. Sul lato b trova invece spazio “Night Is Made For Love”, dall’impronta nettamente funk. I crediti rivelano che il disco viene registrato presso lo Studio T2 di Bologna ma mixato da Tony Carrasco al Regson Studio di Milano. Emergono inoltre altri nomi (Massimo Sutera al basso, Cesare Collina dei Key Tronics Ensemble alle percussioni, Luca Orioli al sintetizzatore, Joanna Maloney e Lita Munich come coriste) e ciò lascia pensare ad un lavoro di gruppo orchestrato da Oderso Rubini. Sulla copertina finiscono invece due ragazze, Alessandra e Carolina. «I nostri dischi hanno sempre avuto una realizzazione un po’ travagliata» spiega Magnani. «I demo erano piuttosto minimali a base di Roland TR-808 e Roland SH-1. Per avere un’idea di ciò basta ascoltare la prima versione di “The Rule To Survive (Looking For Love)” finita nella compilation “The Sound Of Love EP – Released & Unreleased Classics 1983-87” edita dalla Spittle Depandance nel 2012. Per l’incisione definitiva del pezzo andammo con Rubini allo studio T2 di Bologna. Fu proprio lo stesso Rubini a coinvolgere Luca Orioli come tastierista, visto che disponeva di parecchi sintetizzatori e sequencer che avrebbero reso le nostre sonorità meno minimali. Ai tempi Orioli lavorava già con sequencer MIDI, protocollo che per noi invece era un’assoluta novità. Sino a quel momento infatti lavoravamo ancora con CV/gate per controllare i nostri strumenti. Per le parti di basso e percussioni “umane” contattammo due nostri amici di Cervia, Cesare Collina e Massimo Sutera. Quest’ultimo aveva suonato con me in un gruppo formato ai tempi delle scuole medie, quando facevamo persino le serate di liscio negli alberghi, durante l’estate. In seguito è diventato un rinomato batterista professionista. A lavoro ultimato però non fummo soddisfatti del mixaggio fatto al T2 e così ci rivolgemmo al milanese Regson. A quel punto Rubini ci chiese di coinvolgere Tony Carrasco, col quale Davide aveva già collaborato per “Dirty Talk”. Per la realizzazione di “Night Is Made For Love”, invece, Oderso contattò delle coriste. Tra gli strumenti che usammo ricordo il Prophet-5 di Luca Orioli. Effettivamente il brano aveva un’impronta più funk rispetto a quello inciso sul lato opposto, ma secondo me era un carattere distintivo che traspariva un po’ dappertutto nei nostri pezzi, anche in quelli più rigorosamente elettronici. “The Rule To Survive (Looking For Love)” venne licenziato anche all’estero, tra Paesi Bassi, Germania e Stati Uniti. Se ben ricordo vendette 12.000 copie, ma non mi pare che l’etichetta attuò qualche strategia promozionale per raggiungere tale esito. Il follow-up, uscito qualche mese più tardi, era “Stranger In A Strange Land” e riprendeva lo stile del precedente ma questo non bastò a garantirci lo stesso risultato. Le vendite infatti furono un po’ più basse, e in linea generale ogni nuovo disco dei N.O.I.A. vendette sempre un po’ meno del precedente. Tuttavia ricordo “Stranger In A Strange Land” con molto piacere perché quella volta Luca Orioli portò in studio il Bass Line Roland TB-303, strumento che non conoscevamo nonostante fossimo fissati con la Roland. Fu amore a prima vista e lo utilizzammo subito, praticamente in tutto il pezzo. Per la ricerca di un suono più “pesante” invece, doppiammo il rullante della TR-808 con quello di una batteria vera».

N.O.I.A. (1)

Una foto estratta dal servizio fotografico realizzato nel 1984 per la promozione del singolo “Do You Wanna Dance?” La donna è una modella di cui non sono note le generalità, seduto è Giorgio Giannini, dietro di lui Bruno Magnani e a destra Davide Piatto.

Dopo “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, nel 1984 i N.O.I.A. incidono sia il Mini-Album “The Sound Of Love”, aperto dal brano omonimo venato ancora di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk, sia il 12″ “True Love”, proiettato su echi moroderiani. Il poco che esce tra 1985 e 1988, appena tre singoli, allontanerà progressivamente la band romagnola dalle atmosfere di partenza. “Try And See” del 1985, l’ultimo su Italian Records, risente in modo evidente del lato più cheesy dell’italo disco che ormai esplode a livello commerciale, “Umbaraumba” del 1987, su Rose Rosse Records, contribuisce ulteriormente a prendere le distanze con una formula synth pop, mentre “Summertime Blues” del 1988, su CBS, cover dell’omonimo di Eddie Cochran e prodotto da Jay Burnett, accantona i suoni elettronici a favore delle chitarre elettriche. L’attenzione di Piatto (che nel contempo inizia l’avventura Rebels Without A Cause con Luca Lonardo, Carlo Lastrucci e Filippo Lucchi, prodotti dal giornalista Claudio Sorge) e Magnani insomma pare spostarsi in direzione di lidi musicali differenti. «Muoverci verso pezzi più “commerciali” fu una scelta indotta un po’ dalla casa discografica ma anche da noi stessi» spiega Magnani. «Non ci sarebbe dispiaciuto guadagnare qualcosa, ma col senno di poi ammetto che quasi sicuramente avremmo incassato di più rimanendo fedeli al sound iniziale e magari proseguendo ad esibirci dal vivo. Le vendite, invece, continuarono a calare e ciò spiega la ragione per cui dedicammo sempre meno tempo ai N.O.I.A. ed alcuni di noi crearono nuovi gruppi».

N.O.I.A. - Unreleased Classics '78-'82

La copertina di “Unreleased Classics ’78-’82”, il disco edito dalla Ersatz Audio che nel 2003 riporta in attività i N.O.I.A. dopo quindici anni di silenzio

Dopo “Summertime Blues”, infatti, dei N.O.I.A. si perdono le tracce. Il silenzio è rotto solo quindici anni più tardi, nel 2003, quando la Ersatz Audio, etichetta fondata e gestita dagli ADULT., pubblica “Unreleased Classics ’78-’82”, una raccolta di inediti rimasti nel cassetto per un arco lunghissimo di tempo. «Praticamente tutta la parte iniziale della nostra produzione, che andava dal 1978 al 1982, non era mai stata pubblicata, ed era davvero molto differente da ciò che invece emerse poi dalla discografia» racconta ancora Magnani. «Con l’Italian Records avevamo sempre pubblicato pezzi nuovi senza mai attingere dall’archivio. A me invece sarebbe piaciuto molto vedere stampate quelle vecchie tracce esattamente com’erano state concepite, utilizzando gli stessi strumenti e il medesimo hardware. Principalmente l’equipment era composto da drum machine Roland CR-78, Boss DR-55 e Korg KR-33, sintetizzatori Roland SH-1 e Korg M500 SP, una chitarra elettrica filtrata da un Electro Harmonix Micro Synth (quest’ultimo citato nel testo di “Korova Milk Bar”, nda) e davvero poco altro. Registrammo e mixammo i pezzi nel nostro studio con l’intento di autoprodurci il disco ma alla fine accantonammo tutto». Quando la Ersatz Audio di Detroit riabilita il nome e la musica dei N.O.I.A., nel progetto figura anche il fratello minore di Davide Piatto, Alessandro, che aggiunge: «Nel 2000 spedii una decina di CD ad altrettante etichette che mi sembravano stilisticamente in linea con quanto avevamo approntato. L’unico a rispondere, ma solo molti mesi dopo, fu Adam Lee Miller degli ADULT., che conosceva già i N.O.I.A. e ci propose subito di pubblicare l’album, ma escludendo dalla tracklist due brani, “Europe”, forse per questioni politiche legate al testo, ed “Italian Robots”. Non esitammo. Tutti i pezzi finiti in “Unreleased Classics ’78-’82”, come diceva Bruno, furono composti prima di firmare il contratto con l’Italian Records. L’unico ad essere stato già pubblicato era “Hunger In The East” che finì, insieme all’esclusa “Europe”, nella compilation “Rocker ’80” edita dalla EMI nel 1980 per l’appunto. Era il premio per aver vinto il 1º Festival Rock Italiano, svoltosi a Roma».

N.O.I.A. (4)

I N.O.I.A. (da sinistra Jacopo Bianchetti, Bruno Magnani, la ballerina Sara e Davide Piatto) sul palco della prima edizione del Festival Rock, a Roma, tra 1979 e 1980.

Nel 2006, quando l’interesse per la musica del passato continua ad intensificarsi, la Irma Records realizza la raccolta “Confuzed Disco” per celebrare l’epopea dell’Italian Records. Dentro finiscono, ovviamente, pure i N.O.I.A., riportati in superficie anche attraverso nuove versioni commissionate a produttori contemporanei come Fabrizio Mammarella e Franz & Shape che mettono rispettivamente le mani su “Do You Wanna Dance” e “Stranger In A Strange Land”. Sono gli anni in cui, dopo l’esplosione massiva dell’electroclash, cresce l’attenzione per tutto ciò che è retrò o suona intenzionalmente tale. Centinaia di curatori animati dalla voglia di riscoprire (o scoprire per la prima volta) suoni del passato danno avvio alla stagione, tuttora in corso, delle ristampe. Per i N.O.I.A. ciò porta, oltre al citato best of della Spittle Depandance, “A.I.O.N.”, edito nel 2016 da J.A.M. Traxx e fondato su una serie di rework e remix (tra cui quelli di The Hacker ed Hard Ton) di tracce precedentemente su Ersatz Audio. L’attenzione per il passato è continua ed incessante, alimentata da una storia ormai pluriquarantennale che pare aver messo all’angolo la musica contemporanea che vende sempre meno delle ristampe. «Credo che in circolazione ci sia molta musica nuova interessante ma ad essere cambiato (in peggio) è il rapporto col pubblico, e questo disorienta e non incoraggia gli artisti ad esprimere le loro potenzialità, se non replicando qualcosa che abbia già funzionato, alla ricerca di una gratificazione immediata» dice a tal proposito Alessandro Piatto. «In merito alla “Confuzed Disco” invece, non fummo coinvolti se non per una sorta di party di lancio a Bologna. Cercai di mettermi in contatto con l’A&R della Mantra Vibes (Marco ‘Peedoo’ Gallerani, nda) ma non fu interessato a collaborare con noi. In genere tutte le volte che ho proposto a varie label di pubblicare cose nuove non c’è stato alcun interesse, e questo si ripete dal 2000 ad oggi. Probabilmente ciò dipende dal feticismo del passato e dall’idea che i brani di quel periodo siano una sorta di evergreen e non usa e getta come gran parte delle produzioni contemporanee».

The Rule To Survive (31th Anniversary)

La copertina del 12″ pubblicato dalla N.O.I.A. Records che nel 2014 celebra i trentuno anni di “The Rule To Survive” attraverso inedite versioni remix

Nel 2008 nasce la N.O.I.A. Records che, dopo qualche anno trascorso in balia di sole pubblicazioni digitali, si reinventa iniziando un nuovo corso con inedite versioni di “The Rule To Survive”. Per celebrare i trentuno anni dall’uscita, nel 2014 sul mercato giungono i remix di Prins Thomas, Baldelli & Dionigi e Kirk Degiorgio. Seguono una manciata di release di Francesco Farias dei Jestofunk, quelle dei TenGrams (nuovo progetto-tandem dei fratelli Piatto) ed ovviamente dei N.O.I.A. che tornano nel 2018 con “Forbidden Planet” contenente i remix di Francisco ed Ali Renault. «La N.O.I.A. Records, purtroppo, ha subito una serie di diverse problematiche» spiega Piatto. «La prima, in ordine di importanza, è stata causata dalla mia incapacità di renderla “hype” o comunque sufficientemente interessante per conquistare una base di fan che garantisca un minimo di vendite per la gestione ordinaria del catalogo. Dal punto di vista economico, la pubblicazione in vinile è stata piuttosto fallimentare e i rapporti coi distributori si sono rivelati complessi e svantaggiosi. In questo contesto il tempo che riesco a dedicare ad essa è poco e non riuscendo a promuoverla con performance tipo DJ set o live, la label rimane ai margini. Ad oggi comunque sono programmate delle nuove uscite di artisti reclutati recentemente. Usciranno in digitale su Bandcamp e forse qualche vinile di TenGrams. Anche in questo caso, comunque, non mi reputo un buon A&R e fare marketing non è proprio il mio mestiere. Per quanto riguarda invece i nuovi brani dei N.O.I.A., il materiale c’è ma il tempo per finalizzarlo è poco e, per eccesso di autocritica, facciamo fatica a dire “ok, questo è buono, partiamo!”. Personalmente per certi versi sento la mancanza di una figura nella produzione, come era quella di Oderso Rubini negli anni Ottanta. L’ultimo pezzo dei N.O.I.A. è stato “Morning Bells”, una vecchia traccia persa nel tempo realizzata in collaborazione col fantomatico Rubicon, della quale si è ritrovata solo la versione dell’olandese Rude 66. Proprio Rubicon la ha proposta a Timothy J. Fairplay che ha ritenuto fosse idonea per la pubblicazione sulla Crimes Of The Future. Oggi i N.O.I.A. sono quelli di ieri ma con trentacinque anni in più».

Non è mistero che adesso la scena indipendente soffra un periodo di magra forse senza precedenti. Se da un lato un certo mainstream che cavalca la moda dei “DJ star” nuota letteralmente nel denaro, dall’altro piccoli artisti ed altrettanto piccole etichette, legate ancora ad una sorta di artigianato, arrancano non poco. Le piattaforme di streaming come Spotify, a cui alcuni attribuiscono forse immeritatamente il ruolo di “salvatrici della musica” dopo la disintegrazione dei supporti fisici, in realtà sembrano più palliativi, specialmente per coloro che non contano su fanbase di una certa consistenza. Visti i presupposti, è lecito domandarsi se i tempi che verranno riusciranno a creare e forgiare personalità forti almeno quanto quelle delle decadi trascorse. «Alle condizioni attuali credo che quel che è successo nel passato non possa più essere replicato» afferma sentenzioso Alessandro Piatto. «Ciò che succederà in futuro invece è davvero un mistero vista la continua evoluzione del modo di percepire e fruire la musica. Adesso convivono artisti a me sconosciuti, che collezionano milioni di visualizzazioni e streaming, con altri, in teoria molto popolari, che però non riescono a superare poche centinaia di play sul web. Ogni volta che affronto il discorso mi viene puntualmente ricordato che è necessario creare il cosiddetto “engagement”, ossia coltivare relazioni e collaborazioni strategiche. Insomma, un sacco di roba che divide ben poco con la musica e molto col peggio della vecchia industria discografica. Qualche settimana fa, girovagando su YouTube, sono finito su canali di artisti synthwave e retrowave con numerosissime visualizzazioni e musica assolutamente dozzinale seppur molto ben confezionata. Un altro mondo che sembra essere più funzionale rispetto alle trecento copie in vinile che tanti oggi consacrano come successo. Chi ne capisce qualcosa è davvero bravo! Personalmente ho compreso che vale tutto e non ci sono più regole certe. I miei video, ad esempio, non superano le poche centinaia di visualizzazioni nonostante abbia almeno un paio di migliaia di fan sui social. Da qualche parte sbaglio, dove non l’ho ancora capito o forse sì, magari anche troppo».(Giosuè Impellizzeri)

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Leo Young – The Unreleased Projects Of Pronto Recordings (New Interplanetary Melodies)

Leo Young - The Unreleased Projects Of Pronto RecordingsDegli esaltanti trascorsi di Leo Zagami alias Leo Young, protagonista prima della rave age romana ed istigatore poi della nu funk / nu cosmic disco in tempi assolutamente non sospetti, abbiamo già parlato qui nel 2016, occasione in cui l’artista annunciò un possibile ritorno in studio. Di inediti, ad oggi, purtroppo non se ne sono ancora visti e sentiti ma in compenso tra poche settimane uscirà un 12″ che romperà il silenzio discografico quasi ventennale del DJ/produttore capitolino. “The Unreleased Projects Of Pronto Recordings” lascia però intendere che il contenuto fosse destinato alla Pronto Recordings e, per qualche ragione, finito nel cassetto per un paio di decenni circa. L’attività dell’etichetta fondata dallo stesso Leo Young a Londra nel 1997, nonostante gli ottimi presupposti, va progressivamente scemando sino ad arenarsi del tutto nel 2003.

«Ai tempi si produceva parecchio ma non sempre si arrivava al traguardo della stampa su vinile che, già dalla seconda metà degli anni Novanta, entrò in crisi a causa dei CD e della pirateria legata a tale formato» spiega oggi Zagami. «L’intensificazione della crisi nel mondo discografico e del vinile portò all’inevitabile fallimento di svariate distribuzioni e, conseguentemente, alla chiusura di altrettante etichette che non furono più pagate nei tempi prestabiliti dai relativi distributori. Esistono diverse produzioni ancora inedite della Pronto Recordings tra cui una realizzata con Petar Zivkovic, ex tastierista dei Block 16 ai tempi attivi su Nuphonic, ed un’altra con Philippe Lussan e Rhythm Doctor della Mama Records. Magari in futuro potranno essere pubblicate pure quelle, anche se il recupero e il trasferimento dai DAT non è sempre facile».

I pezzi tratti dall’archivio Pronto Recordings e finiti sul disco sono due: “The Frascati Project” (possibile rimando al “The Subiaco Project” del 1997?), un estatico trip in crescendo tra rovente funk e serpeggiante jazz mantrico e tantrico, immerso in salsa house per circa quattordici minuti d’inarrestabile groove, ed una versione inedita di “4 The Emperor” (l’originale era in “The Magickal Childe” del 2001), afrobeat del nuovo millennio in balia di ipnosi ed onirismo. A questi si aggiunge la reinterpretazione di “4 The Emperor” realizzata nel 2019 da Daniele Tomassini alias Feel Fly, promettente DJ nostrano che squarcia l’atmosfera nebbiosa di partenza con un tappeto strumentale da cui si levano retaggi italo house. «”The Frascati Project” nacque quasi per gioco dopo una serata in discoteca a Frascati, vicino Roma, con alcuni musicisti di grande spessore e l’amico Massimo Spaziani alias DJ Space» prosegue Zagami. «Tecnicamente lo realizzai con l’aiuto del purtroppo scomparso Luigi Pulcinelli dei Tiromancino, e si configurava come progetto di scambio con la citata Nuphonic di Londra, leggendaria etichetta con cui stava nascendo un’intensa e proficua collaborazione anche in relazione ai miei DJ set tenuti in giro per il mondo. “4 The Emperor” invece sbocciò ad Oslo, in Norvegia, come bonus track di “The Magickal Childe” che uscì sulla Tummy Touch di Tim “Love” Lee.

Leo Young - Cosmic Land

La copertina di “Cosmic Land”, il primo album di Leo Young edito nel 1997 dalla KTM, etichetta “sorella” della più nota Tresor

L’eccentrico Tim era un amico intimo e compaesano di DJ Harvey che, col musicista Thomas Bullock, altro conoscente di vecchia data, ha creato i Map Of Africa. Con lui ho condotto in qualche occasione il programma radiofonico House Machine. Una sua foto appare pure nel collage fotografico del mio album “Cosmic Land” edito nel 1997 dalla KTM, etichetta “sorella” della Tresor. Tutti facevano parte di un nutrito gruppo di artisti provenienti da Cambridge molto influenti nella scena londinese di quegli anni e successivamente anche in quella statunitense. I tre infatti, tempo dopo, si trasferirono negli States per cercare ulteriori stimoli culturali e musicali. Il loro ruolo nell’abbracciare la mia causa “cosmica” e poi promuoverla fin dall’inizio è stato sicuramente molto importante. Di quegli anni ricordo con piacere anche gli Idjut Boys e Laj con quali lavorai in studio a lungo e il cui ruolo fu centrale nel farmi scoprire da Marshall Jefferson che mi fece poi ottenere il ruolo di DJ resident al Tresor e il contratto discografico con la label house del gruppo Interfisch, la citata KTM. In tutto questo non posso non spendere qualche parola anche sul mio carissimo amico Chris Long alias Rhythm Doctor che conobbi grazie a Marco Funari, nipote del presentatore televisivo Gianfranco Funari, che in quegli anni fu un improbabile mecenate delle nostre aspirazioni discografiche. Con Chris nacque subito un’amicizia ed una collaborazione artistica molto forte, dovuta anche alla sua storia che inizia nei lontani anni Settanta e che lo vede creare nel 1980 il famoso Rhythm Clinic. Credo possa essere considerato una sorta di Daniele Baldelli inglese, molto bravo anche tecnicamente. Intuendo il mio potenziale artistico, mi aiutò da subito a trovare lavoro come DJ e ad affermarmi a livello internazionale. Senza Chris, a cui sono tuttora legato da una fraterna amicizia, forse non avrei potuto lanciare il mio “cosmic sound” nel mondo.

Pasta Party 1995

Due scatti del 1995 che immortalano i pasta party domestici londinesi di Zagami: in alto Leo Young e Danny “Buddha” Morales, in basso Leo Young e DJ Harvey con l’assistente di quest’ultimo al centro.

In quegli anni creai anche i leggendari “pasta party” con cui ospitavo nel mio modesto appartamento londinese di appena sessanta metri quadrati fino a quaranta persone per cucinare i miei (altrettanto leggendari) piatti di pasta. Quasi tutti gli ospiti erano DJ e produttori discografici, troppi per nominarli tutti. Da Luca Colombo al compianto David Camacho passando per Danny “Buddha” Morales, il quasi sempre presente Harvey e l’amico Sauro del Red Zone di Perugia, ma senza dimenticare i Faze Action, i DJ del Cream, i Prodigy e molti altri che sarebbe davvero impossibile ricordare. Insomma, l’arte culinaria mista alla buona musica aiutarono parecchio il mio processo creativo tanto che ad un certo punto alcuni DJ e produttori giunsero persino dal Giappone, armati di macchina fotografica per immortalare cosa stessimo facendo. La consolle storica usata in quelle occasioni era custodita in un armadio di proprietà della mia famiglia, costruito nel lontano 1777 e che mi fu donato al mio arrivo a Londra dopo la morte di un lontano cugino omosessuale ucciso dall’AIDS. Ricordo ancora la faccia di Claudio Coccoluto quando gli mostrai per la prima volta l’appartamento in cui si tenevano queste feste. Lui viveva in Italia e dati i numerosi impegni non poteva partecipare ai miei eventi musical-culinari come avrebbe voluto, ma ne aveva sentito parlare da molti amici ed una sera volle venire a vedere di persona quel posto così tanto chiacchierato. Salimmo le scale per giungere al secondo piano, al 18 di Church Street, a pochi passi da Abbey Road, e dopo essersi girato intorno mi disse, quasi sbigottito: “Leo, ma come fai ad ospitarli tutti qui? È un buco, questi inglesi sono tutti pazzi!” Cominciai a ridere e gli risposi, in romanesco: “A Clà, ricordati che qui è tutta “gran fragranza”. E lui: “Geniale Leo, davvero geniale”.

Ma torniamo al disco. Purtroppo sono trascorsi troppi anni per poter ricordare tutti i dettagli che animarono quelle due produzioni di cui ricordo, in particolare, gli input creativi da parte di coloro che ne furono coinvolti, anche se la direzione finale del progetto spettava sempre a me giacché dovevo rendere il prodotto appetibile per eventuali distributori o etichette interessate ad una eventuale coproduzione. Alla stesura del brano, quindi, potevano partecipare più persone ma l’editing e la produzione finale erano sempre frutto delle mie mani. Oggi sarebbe davvero arduo realizzare un prodotto del genere per i notevoli investimenti che feci sia nello studio di Oslo che in quello di Roma, in via Gradoli, per l’affitto di alcuni strumenti e il contributo dei turnisti. C’erano strumenti base che non mancavano quasi mai durante le mie session di registrazione come il sintetizzatore analogico Prophet-5, uno dei miei preferiti in assoluto, o il Roland Juno-106, senza dimenticare le mitiche drum machine Roland TR-808 e TR-909. Ma in questi due inediti c’è molto di più. In “4 The Emperor”, ad esempio, figurano alcuni elementi percussivi provenienti da una batteria di seconda mano appartenuta a Stewart Copeland dei Police, acquistata per l’occasione dal mio batterista di Oslo, oltre al Minimoog e l’organo Hammond che prendemmo a nolo ed usammo nel menzionato album uscito su Tummy Touch. Senza dubbio “The Frascati Project” intendeva creare, nel nome, un ideale collegamento col “The Subiaco Project”, ma mi preme sottolineare anche la presenza di un’intera sezione di fiati all’interno ispirata a Fela Kuti, eseguita con grande passione e cura da musicisti di spiccato talento. Ci divertimmo un sacco e non lo facevamo affatto per i soldi visto che allora questa musica era davvero per pochi appassionati. A volte gli anticipi ricevuti da etichette o distributori venivano interamente investiti in musicisti e studi di registrazione di alta qualità, senza pensare al profitto che sarebbe eventualmente giunto tramite le serate e il lavoro da DJ e di certo non con la vendita dei dischi, seppur in quel periodo il vinile fosse un formato che poteva economicamente rendere ancora parecchio».

artwork folder Leo Young

Il folder illustrato di quattro pagine all’interno della copertina di “The Unreleased Projects Of Pronto Recordings”. A realizzarlo è Andrea Guardiani del Budai Studio.

A pubblicare “The Unreleased Projects Of Pronto Recordings” è la New Interplanetary Melodies di Simona Faraone, un’etichetta «dall’impronta sonora sperimentale, libera, trasversale e contaminata, affidata ad artisti non convenzionali e dalle differenti sensibilità capaci di creare una dimensione parallela nel mondo dei suoni indipendenti moderni» come spiegava la stessa Faraone qui qualche tempo fa. «Stima ed amicizia che durano dall’ormai lontano 1987 mi hanno portato ad affidare la mia musica a Simona» spiega in merito Zagami. «La incontrai per la prima volta mentre lavoravo occasionalmente da Goody Music, a Roma, attività che svolgevo quando facevo “sega” a scuola. Scoprimmo immediatamente di avere alcuni amici in comune in Toscana dove iniziai professionalmente la carriera da DJ e produttore con l’aiuto di Franco Presta, fratello del noto Agostino Presta alias Ago – tra i principali fautori dell’italo disco – che conobbi a Londra mentre, ancora giovanissimo, lavoravo al famoso Legends. La collaborazione con Simona, dunque, dura da oltre trent’anni. È una persona splendida che considero quasi una sorella ma nel contempo una grande professionista del settore, sempre in cerca di qualità ed innovazione e che non si ferma mai alle apparenze».

Oggi viviamo un’epoca di continui contrasti. Se da un lato persone come la Faraone non se ne stanno con le mani in mano adoperandosi per contrastare il dilagante pressapochismo nella sfera musicale, dall’altro molti DJ e produttori che in passato hanno fatto epoca e scuola sono fermi al palo e vivono praticamente di rendita, contando solo sulla popolarità acquisita e capitalizzandola con moderni ed efficaci espedienti di marketing. Come se non bastasse tanti newcomer, illusi di poterne replicare il successo, ne emulano le gesta alimentando senza sosta la retromania teorizzata da Simon Reynolds e segnando di fatto una fase creativa quasi del tutto stagnante. Ci si domanda quindi se esistano ancora i presupposti per generare una stagione autenticamente nuova, in grado di spingere in avanti house e techno, o se la sbornia tecnologica democratizzante finirà davvero con l’omologare tutto in modo irreversibile. «Ci troviamo in un momento in cui quasi tutto è statico per colpa della cultura attuale» afferma Zagami. «La musica è da sempre il frutto di un milieu culturale, ma se un artista, che sia visivo o musicale, non trova più spunti reali per alimentare la propria arte, non ci potrà mai essere un’evoluzione dell’espressione, e questo non dipende solo dalla cosiddetta sbornia tecnologica. La creatività può essere effettivamente incentivata dalle nuove soluzioni tecnologiche ma dovrebbe andare di pari passo con un movimento culturale di più ampio respiro per arrivare al pubblico. In un corposo documento presentato giovedì 4 aprile 2019 alla Galleria Nazionale di Roma, i due gruppi oggetto dell’indagine (i millennials, dai 18 ai 32 anni, e i centennials, dai 15 ai 17 anni) hanno mostrato di avere un rapporto molto più articolato con la cultura. Mentre i primi mostrano di essere soprattutto “custodi” di supposti valori tradizionali (la famiglia, la salute, l’amore e non certo musica elettronica o discoteche) i secondo sono più affini a pilastri come l’amicizia e soprattutto a categorie della trasformazione come la curiosità e la creatività. Spero quindi che questa creatività li porti ad osare e a combattere negli anni a venire, perché senza un briciolo di sofferenza ed incoscienza non potrà mai nascere una nuova fase creativa che, a mio avviso, arriverà tra qualche anno come rivolta analogica alla digitalizzazione e al transumanesimo. L’arte fine a se stessa non porta da nessuna parte».

Restringendo il discorso alla sola l’Italia invece, le cose sono mutate in meglio o in peggio negli ultimi venticinque/trent’anni? «Oggi la scena nostrana è molto più variegata e ricca rispetto agli anni Ottanta e Novanta» afferma Zagami. «In tanti si stanno imponendo con la loro spasmodica ricerca musicale e meritevoli di citazione sono le numerose etichette che si dedicano costantemente alla ristampa di vecchie chicche ormai dimenticate. Però, purtroppo, non ci sono più i locali di un tempo, dove suonare tutta questa bella musica che viene sempre più spesso apprezzata più all’estero che in Italia, dove di base si è rimasti esterofili provinciali e dove le leggi draconiane dei vari governi che si sono succeduti hanno completamente distrutto un’industria incentivata in posti come Barcellona o Berlino. L’italiano dovrebbe vantare un orgoglio maggiore per la sua identità musicale che ha dato vita a fenomeni come l’italo disco o il cosmic sound e ai suoi DJ che sono tra i migliori al mondo. Si progredirà solo quando la discoteca ritornerà ad essere, come un tempo, il principale luogo di aggregazione dei giovani, in maniera molto più significativa degli stadi, dei teatri, dei cinema e dei centri commerciali. Ma questo potrà accadere soltanto quando ritornerà ad essere l’emanazione di un movimento culturale ben più ampio, capace di rinunciare all’uso continuo degli smartphone e all’appiattimento voluto con essi dalla civiltà moderna governata da forze malvagie e senza scrupoli. I giornalisti di una volta erano pronti a scendere in campo e a fare del vero giornalismo investigativo alla ricerca del nuovo e diventando, a volte, partecipi della rivoluzione musicale in atto e non semplici spettatori. Ricorderò sempre con piacere le tante giornate trascorse col compianto Dino D’Arcangelo de La Repubblica o Riccardo Luna, che mi insegnarono le basi del vero giornalismo investigativo. Non vorrei però essere scambiato per un nostalgico. Con la mia attuale carriera di scrittore e giornalista sono sempre proiettato in avanti e non mi guardo mai indietro, convinto che il meglio debba ancora venire. Ho iniziato a muovere i primi passi da DJ all’età di dieci anni, nel 1980, con l’acquisto di un boombox provvisto di doppio lettore di cassette. Era un oggetto meraviglioso che mi permise di creare le prime compilation grazie all’inserimento di effetti speciali tra un brano e l’altro. Nel dicembre del 1983 iniziai DJ Music, il mio primo programma radiofonico trasmesso da Radio Valle Dell’Aniene, grazie al noto prete mediatico Monsignor Mario Pieracci. Due anni dopo cominciai in discoteca, alla Lucciola di Marano Equo, in provincia di Roma. Insomma, è necessario fare la gavetta e chi sostiene il contrario è solo un cialtrone».

Se la Pronto Recordings si è, seppur temporaneamente, rimaterializzata grazie a questo 12″ di imminente uscita, la LY Recordings, nata nel 2017 col reissue di Angela Werner in collaborazione con Marco Salvatori e Claudio Casalini, pare non possa conoscere più alcuno sviluppo. «Purtroppo sono sorti problemi con Salvatori che è molto bravo nel settore dei reissue ma non abbastanza ferrato nella creazione di nuovi prodotti e a volte combina veri e propri disastri contrattuali, proprio come nel caso di Angela Werner. Salvatori aveva preparato un contratto con un sedicente rappresentante legale della Werner che poi si è dimostrato non essere tale, quindi il progetto è stato immediatamente abbandonato per evitare ulteriori problemi. Salvatori è giovane e a volte tradisce inesperienza, quindi ho preferito interrompere ogni collaborazione con la Best Record. Tuttavia nutro molta stima per il mio vecchio amico e collega Claudio Casalini che conosco da una vita e considero il vero padre dell’italo disco. Nel frattempo mi sono trasferito in California dove ho messo su un ottimo team di musicisti sia a Los Angeles che a Sacramento, coi quali sto creando un progetto culturale/musicale. Probabilmente verrà pubblicato ancora dalla New Interplanetary Melodies nei mesi a venire». (Giosuè Impellizzeri)

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