N.O.I.A. – The Rule To Survive (Looking For Love) (Italian Records)

N.O.I.A. - The Rule To Survive (Looking For Love)Cervia, 1978. Bruno Magnani e Davide Piatto fondano i N.O.I.A., uno dei primi gruppi italiani a rivelarsi come punto di incontro e vicendevole scambio tra meccanicismo sintetico e vocalità new wave, capace di generare un suono-meticciato tra Kraftwerk e Devo. Insieme a loro, sino al 1983, quando la band è tendenzialmente attiva solo sul fronte live, ci sono Giorgio Giannini, Jacopo Bianchetti e Giorgio Facciani, ma nel momento in cui Oderso Rubini li mette sotto contratto con l’Italian Records cambia tutto. La propensione ad esibirsi dal vivo viene meno, sostituita dal lavoro in studio. La musica dei Talking Heads, Ultravox, Can e Neu! forgia il gusto dei romagnoli che si spingono avanti sino a lambire sponde no wave e proto house.

«Iniziammo nel ’78 quando non eravamo altro che punk diciassettenni» ricorda oggi Magnani. «La tecnica non era importante anzi, allora si scoprì che l’assenza di questa non precludeva il fatto di poter scrivere bei pezzi. Ciò che rammento principalmente dei primi tempi è che ad ogni nostra esibizione si scatenava una rissa nel pubblico, tra quelli che ci amavano e quelli che, al contrario, ci odiavano. Non esistevano mezze misure. Le spillette con su il messaggio “Energia nucleare? Sì grazie!” che tiravamo sulla gente contribuivano a far crescere quello strano mix tra amore ed odio. Come nome artistico optammo per la sigla N.O.I.A. che poteva rappresentare ben 125 significati diversi, ai tempi conosciuti ma tenuti segreti, oggi banalmente dimenticati. Ricordo però che in parecchie di quelle 125 permutazioni la “A” stava per “Automazione”. La formazione a cinque elementi era molto più efficace dal vivo, quando rimanemmo in tre (Magnani, Piatto e Giannini, nda) invece privilegiammo troppo il lavoro in studio e smettemmo quasi del tutto l’attività live. I due che uscirono, peraltro, erano quelli fisicamente più belli e che facevano la loro figura, quindi a posteriori direi che fu un errore ridimensionarci».

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Una foto scattata presumibilmente nel 1979 in occasione di un’esibizione dei N.O.I.A. alla Nuite Blanche di Cesenatico. Da sinistra: la ballerina Sara, un amico che non faceva parte del gruppo, il chitarrista Jacopo Bianchetti, Giorgio Giannini, Marino Sutera in tuta blu con uno strumento autocostruito chiamato Noiatron, Davide Piatto e Bruno Magnani.

Nel 1981 i N.O.I.A. sono sul palco della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” organizzata a Bologna. Lì li vede (e sente) Oderso Rubini che li porta all’Italian Records, nata dalle ceneri della Harpo’s Music. Da quel momento le priorità cambiano, prima del suonare live c’è il voler incidere dischi, avvalendosi pure di strumenti elettronici che ai tempi sono spesso oggetto di demonizzazione negli ambienti del pop/rock tradizionale. «Ad onor del vero avremmo voluto incidere dischi anche prima ma preferimmo rifiutare le proposte di etichette microscopiche ed aspettare l’occasione giusta» spiega Magnani. «Ai tempi era tutto analogico, le autoproduzioni erano piuttosto scadenti e per allestire o prendere a nolo gli studi di registrazione professionali occorreva molto denaro. Ci voleva assolutamente una casa discografica. Per l’utente medio l’uso di apparecchiature elettroniche era qualcosa che riguardava nello specifico la musica disco. Il grande pubblico, soprattutto nelle esibizioni live, continuava ad aspettarsi batteristi tradizionali ed assoli di chitarra distorta».

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Davide Piatto immortalato nel 1982 durante una delle session casalinghe di Klein & MBO mentre armeggia con un sintetizzatore Roland SH-1 ed una batteria elettronica Roland TR-808

È proprio con una chitarra ed una Roland TR-808 che Davide Piatto contribuisce significativamente alla realizzazione di uno dei brani considerati seminali per la house music di Chicago, “Dirty Talk” di Klein & MBO, seppur il suo lavoro non venga ufficialmente riconosciuto attraverso i credit in copertina, come già ampiamente descritto in questo reportage di qualche anno fa con la sua testimonianza esclusiva. «In quel periodo Davide era parecchio prolifico e scrisse moltissime basi» ricorda Magnani a tal proposito. «Su una cassetta che mi diede c’erano sia la base di quella che sarebbe diventata la nostra “The Rule To Survive (Looking For Love)”, sia quella che invece si sarebbe trasformata in “Dirty Talk”. A noi piacque di più la prima».

Il singolo di debutto dei N.O.I.A. è proprio “The Rule To Survive (Looking For Love)”, pubblicato nei primi mesi del 1983. Nonostante venga fatto confluire convenzionalmente nell’italo disco, il brano si muove in realtà lungo coordinate diverse, più aderenti alla new wave abbinate ad una carica ritmica definibile proto house, la stessa che caratterizza la citata “Dirty Talk” e un altro evergreen prodotto in Italia quello stesso anno, “Problèmes D’Amour” del toscano Alexander Robotnick (di cui abbiamo parlato qui) che coi N.O.I.A., peraltro, divide la passione per il rock alternativo, il punk ed una certa elettronica anti mainstream. Sul lato b trova invece spazio “Night Is Made For Love”, dall’impronta nettamente funk. I crediti rivelano che il disco viene registrato presso lo Studio T2 di Bologna ma mixato da Tony Carrasco al Regson Studio di Milano. Emergono inoltre altri nomi (Massimo Sutera al basso, Cesare Collina dei Key Tronics Ensemble alle percussioni, Luca Orioli al sintetizzatore, Joanna Maloney e Lita Munich come coriste) e ciò lascia pensare ad un lavoro di gruppo orchestrato da Oderso Rubini. Sulla copertina finiscono invece due ragazze, Alessandra e Carolina. «I nostri dischi hanno sempre avuto una realizzazione un po’ travagliata» spiega Magnani. «I demo erano piuttosto minimali a base di Roland TR-808 e Roland SH-1. Per avere un’idea di ciò basta ascoltare la prima versione di “The Rule To Survive (Looking For Love)” finita nella compilation “The Sound Of Love EP – Released & Unreleased Classics 1983-87” edita dalla Spittle Depandance nel 2012. Per l’incisione definitiva del pezzo andammo con Rubini allo studio T2 di Bologna. Fu proprio lo stesso Rubini a coinvolgere Luca Orioli come tastierista, visto che disponeva di parecchi sintetizzatori e sequencer che avrebbero reso le nostre sonorità meno minimali. Ai tempi Orioli lavorava già con sequencer MIDI, protocollo che per noi invece era un’assoluta novità. Sino a quel momento infatti lavoravamo ancora con CV/gate per controllare i nostri strumenti. Per le parti di basso e percussioni “umane” contattammo due nostri amici di Cervia, Cesare Collina e Massimo Sutera. Quest’ultimo aveva suonato con me in un gruppo formato ai tempi delle scuole medie, quando facevamo persino le serate di liscio negli alberghi, durante l’estate. In seguito è diventato un rinomato batterista professionista. A lavoro ultimato però non fummo soddisfatti del mixaggio fatto al T2 e così ci rivolgemmo al milanese Regson. A quel punto Rubini ci chiese di coinvolgere Tony Carrasco, col quale Davide aveva già collaborato per “Dirty Talk”. Per la realizzazione di “Night Is Made For Love”, invece, Oderso contattò delle coriste. Tra gli strumenti che usammo ricordo il Prophet-5 di Luca Orioli. Effettivamente il brano aveva un’impronta più funk rispetto a quello inciso sul lato opposto, ma secondo me era un carattere distintivo che traspariva un po’ dappertutto nei nostri pezzi, anche in quelli più rigorosamente elettronici. “The Rule To Survive (Looking For Love)” venne licenziato anche all’estero, tra Paesi Bassi, Germania e Stati Uniti. Se ben ricordo vendette 12.000 copie, ma non mi pare che l’etichetta attuò qualche strategia promozionale per raggiungere tale esito. Il follow-up, uscito qualche mese più tardi, era “Stranger In A Strange Land” e riprendeva lo stile del precedente ma questo non bastò a garantirci lo stesso risultato. Le vendite infatti furono un po’ più basse, e in linea generale ogni nuovo disco dei N.O.I.A. vendette sempre un po’ meno del precedente. Tuttavia ricordo “Stranger In A Strange Land” con molto piacere perché quella volta Luca Orioli portò in studio il Bass Line Roland TB-303, strumento che non conoscevamo nonostante fossimo fissati con la Roland. Fu amore a prima vista e lo utilizzammo subito, praticamente in tutto il pezzo. Per la ricerca di un suono più “pesante” invece, doppiammo il rullante della TR-808 con quello di una batteria vera».

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Una foto estratta dal servizio fotografico realizzato nel 1984 per la promozione del singolo “Do You Wanna Dance?” La donna è una modella di cui non sono note le generalità, seduto è Giorgio Giannini, dietro di lui Bruno Magnani e a destra Davide Piatto.

Dopo “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, nel 1984 i N.O.I.A. incidono sia il Mini-Album “The Sound Of Love”, aperto dal brano omonimo venato ancora di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk, sia il 12″ “True Love”, proiettato su echi moroderiani. Il poco che esce tra 1985 e 1988, appena tre singoli, allontanerà progressivamente la band romagnola dalle atmosfere di partenza. “Try And See” del 1985, l’ultimo su Italian Records, risente in modo evidente del lato più cheesy dell’italo disco che ormai esplode a livello commerciale, “Umbaraumba” del 1987, su Rose Rosse Records, contribuisce ulteriormente a prendere le distanze con una formula synth pop, mentre “Summertime Blues” del 1988, su CBS, cover dell’omonimo di Eddie Cochran e prodotto da Jay Burnett, accantona i suoni elettronici a favore delle chitarre elettriche. L’attenzione di Piatto (che nel contempo inizia l’avventura Rebels Without A Cause con Luca Lonardo, Carlo Lastrucci e Filippo Lucchi, prodotti dal giornalista Claudio Sorge) e Magnani insomma pare spostarsi in direzione di lidi musicali differenti. «Muoverci verso pezzi più “commerciali” fu una scelta indotta un po’ dalla casa discografica ma anche da noi stessi» spiega Magnani. «Non ci sarebbe dispiaciuto guadagnare qualcosa, ma col senno di poi ammetto che quasi sicuramente avremmo incassato di più rimanendo fedeli al sound iniziale e magari proseguendo ad esibirci dal vivo. Le vendite, invece, continuarono a calare e ciò spiega la ragione per cui dedicammo sempre meno tempo ai N.O.I.A. ed alcuni di noi crearono nuovi gruppi».

N.O.I.A. - Unreleased Classics '78-'82

La copertina di “Unreleased Classics ’78-’82”, il disco edito dalla Ersatz Audio che nel 2003 riporta in attività i N.O.I.A. dopo quindici anni di silenzio

Dopo “Summertime Blues”, infatti, dei N.O.I.A. si perdono le tracce. Il silenzio è rotto solo quindici anni più tardi, nel 2003, quando la Ersatz Audio, etichetta fondata e gestita dagli ADULT., pubblica “Unreleased Classics ’78-’82”, una raccolta di inediti rimasti nel cassetto per un arco lunghissimo di tempo. «Praticamente tutta la parte iniziale della nostra produzione, che andava dal 1978 al 1982, non era mai stata pubblicata, ed era davvero molto differente da ciò che invece emerse poi dalla discografia» racconta ancora Magnani. «Con l’Italian Records avevamo sempre pubblicato pezzi nuovi senza mai attingere dall’archivio. A me invece sarebbe piaciuto molto vedere stampate quelle vecchie tracce esattamente com’erano state concepite, utilizzando gli stessi strumenti e il medesimo hardware. Principalmente l’equipment era composto da drum machine Roland CR-78, Boss DR-55 e Korg KR-33, sintetizzatori Roland SH-1 e Korg M500 SP, una chitarra elettrica filtrata da un Electro Harmonix Micro Synth (quest’ultimo citato nel testo di “Korova Milk Bar”, nda) e davvero poco altro. Registrammo e mixammo i pezzi nel nostro studio con l’intento di autoprodurci il disco ma alla fine accantonammo tutto». Quando la Ersatz Audio di Detroit riabilita il nome e la musica dei N.O.I.A., nel progetto figura anche il fratello minore di Davide Piatto, Alessandro, che aggiunge: «Nel 2000 spedii una decina di CD ad altrettante etichette che mi sembravano stilisticamente in linea con quanto avevamo approntato. L’unico a rispondere, ma solo molti mesi dopo, fu Adam Lee Miller degli ADULT., che conosceva già i N.O.I.A. e ci propose subito di pubblicare l’album, ma escludendo dalla tracklist due brani, “Europe”, forse per questioni politiche legate al testo, ed “Italian Robots”. Non esitammo. Tutti i pezzi finiti in “Unreleased Classics ’78-’82”, come diceva Bruno, furono composti prima di firmare il contratto con l’Italian Records. L’unico ad essere stato già pubblicato era “Hunger In The East” che finì, insieme all’esclusa “Europe”, nella compilation “Rocker ’80” edita dalla EMI nel 1980 per l’appunto. Era il premio per aver vinto il 1º Festival Rock Italiano, svoltosi a Roma».

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I N.O.I.A. (da sinistra Jacopo Bianchetti, Bruno Magnani, la ballerina Sara e Davide Piatto) sul palco della prima edizione del Festival Rock, a Roma, tra 1979 e 1980.

Nel 2006, quando l’interesse per la musica del passato continua ad intensificarsi, la Irma Records realizza la raccolta “Confuzed Disco” per celebrare l’epopea dell’Italian Records. Dentro finiscono, ovviamente, pure i N.O.I.A., riportati in superficie anche attraverso nuove versioni commissionate a produttori contemporanei come Fabrizio Mammarella e Franz & Shape che mettono rispettivamente le mani su “Do You Wanna Dance” e “Stranger In A Strange Land”. Sono gli anni in cui, dopo l’esplosione massiva dell’electroclash, cresce l’attenzione per tutto ciò che è retrò o suona intenzionalmente tale. Centinaia di curatori animati dalla voglia di riscoprire (o scoprire per la prima volta) suoni del passato danno avvio alla stagione, tuttora in corso, delle ristampe. Per i N.O.I.A. ciò porta, oltre al citato best of della Spittle Depandance, “A.I.O.N.”, edito nel 2016 da J.A.M. Traxx e fondato su una serie di rework e remix (tra cui quelli di The Hacker ed Hard Ton) di tracce precedentemente su Ersatz Audio. L’attenzione per il passato è continua ed incessante, alimentata da una storia ormai pluriquarantennale che pare aver messo all’angolo la musica contemporanea che vende sempre meno delle ristampe. «Credo che in circolazione ci sia molta musica nuova interessante ma ad essere cambiato (in peggio) è il rapporto col pubblico, e questo disorienta e non incoraggia gli artisti ad esprimere le loro potenzialità, se non replicando qualcosa che abbia già funzionato, alla ricerca di una gratificazione immediata» dice a tal proposito Alessandro Piatto. «In merito alla “Confuzed Disco” invece, non fummo coinvolti se non per una sorta di party di lancio a Bologna. Cercai di mettermi in contatto con l’A&R della Mantra Vibes (Marco ‘Peedoo’ Gallerani, nda) ma non fu interessato a collaborare con noi. In genere tutte le volte che ho proposto a varie label di pubblicare cose nuove non c’è stato alcun interesse, e questo si ripete dal 2000 ad oggi. Probabilmente ciò dipende dal feticismo del passato e dall’idea che i brani di quel periodo siano una sorta di evergreen e non usa e getta come gran parte delle produzioni contemporanee».

The Rule To Survive (31th Anniversary)

La copertina del 12″ pubblicato dalla N.O.I.A. Records che nel 2014 celebra i trentuno anni di “The Rule To Survive” attraverso inedite versioni remix

Nel 2008 nasce la N.O.I.A. Records che, dopo qualche anno trascorso in balia di sole pubblicazioni digitali, si reinventa iniziando un nuovo corso con inedite versioni di “The Rule To Survive”. Per celebrare i trentuno anni dall’uscita, nel 2014 sul mercato giungono i remix di Prins Thomas, Baldelli & Dionigi e Kirk Degiorgio. Seguono una manciata di release di Francesco Farias dei Jestofunk, quelle dei TenGrams (nuovo progetto-tandem dei fratelli Piatto) ed ovviamente dei N.O.I.A. che tornano nel 2018 con “Forbidden Planet” contenente i remix di Francisco ed Ali Renault. «La N.O.I.A. Records, purtroppo, ha subito una serie di diverse problematiche» spiega Piatto. «La prima, in ordine di importanza, è stata causata dalla mia incapacità di renderla “hype” o comunque sufficientemente interessante per conquistare una base di fan che garantisca un minimo di vendite per la gestione ordinaria del catalogo. Dal punto di vista economico, la pubblicazione in vinile è stata piuttosto fallimentare e i rapporti coi distributori si sono rivelati complessi e svantaggiosi. In questo contesto il tempo che riesco a dedicare ad essa è poco e non riuscendo a promuoverla con performance tipo DJ set o live, la label rimane ai margini. Ad oggi comunque sono programmate delle nuove uscite di artisti reclutati recentemente. Usciranno in digitale su Bandcamp e forse qualche vinile di TenGrams. Anche in questo caso, comunque, non mi reputo un buon A&R e fare marketing non è proprio il mio mestiere. Per quanto riguarda invece i nuovi brani dei N.O.I.A., il materiale c’è ma il tempo per finalizzarlo è poco e, per eccesso di autocritica, facciamo fatica a dire “ok, questo è buono, partiamo!”. Personalmente per certi versi sento la mancanza di una figura nella produzione, come era quella di Oderso Rubini negli anni Ottanta. L’ultimo pezzo dei N.O.I.A. è stato “Morning Bells”, una vecchia traccia persa nel tempo realizzata in collaborazione col fantomatico Rubicon, della quale si è ritrovata solo la versione dell’olandese Rude 66. Proprio Rubicon la ha proposta a Timothy J. Fairplay che ha ritenuto fosse idonea per la pubblicazione sulla Crimes Of The Future. Oggi i N.O.I.A. sono quelli di ieri ma con trentacinque anni in più».

Non è mistero che adesso la scena indipendente soffra un periodo di magra forse senza precedenti. Se da un lato un certo mainstream che cavalca la moda dei “DJ star” nuota letteralmente nel denaro, dall’altro piccoli artisti ed altrettanto piccole etichette, legate ancora ad una sorta di artigianato, arrancano non poco. Le piattaforme di streaming come Spotify, a cui alcuni attribuiscono forse immeritatamente il ruolo di “salvatrici della musica” dopo la disintegrazione dei supporti fisici, in realtà sembrano più palliativi, specialmente per coloro che non contano su fanbase di una certa consistenza. Visti i presupposti, è lecito domandarsi se i tempi che verranno riusciranno a creare e forgiare personalità forti almeno quanto quelle delle decadi trascorse. «Alle condizioni attuali credo che quel che è successo nel passato non possa più essere replicato» afferma sentenzioso Alessandro Piatto. «Ciò che succederà in futuro invece è davvero un mistero vista la continua evoluzione del modo di percepire e fruire la musica. Adesso convivono artisti a me sconosciuti, che collezionano milioni di visualizzazioni e streaming, con altri, in teoria molto popolari, che però non riescono a superare poche centinaia di play sul web. Ogni volta che affronto il discorso mi viene puntualmente ricordato che è necessario creare il cosiddetto “engagement”, ossia coltivare relazioni e collaborazioni strategiche. Insomma, un sacco di roba che divide ben poco con la musica e molto col peggio della vecchia industria discografica. Qualche settimana fa, girovagando su YouTube, sono finito su canali di artisti synthwave e retrowave con numerosissime visualizzazioni e musica assolutamente dozzinale seppur molto ben confezionata. Un altro mondo che sembra essere più funzionale rispetto alle trecento copie in vinile che tanti oggi consacrano come successo. Chi ne capisce qualcosa è davvero bravo! Personalmente ho compreso che vale tutto e non ci sono più regole certe. I miei video, ad esempio, non superano le poche centinaia di visualizzazioni nonostante abbia almeno un paio di migliaia di fan sui social. Da qualche parte sbaglio, dove non l’ho ancora capito o forse sì, magari anche troppo».(Giosuè Impellizzeri)

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Leo Young – From Russia With Funk (Pronto Recordings)

LeoYoungLeo Zagami alias Leo Young è uno dei prime mover della rave age romana nei primi anni Novanta: è tra gli organizzatori de L’Impero Dei Sensi, nel luglio 1989, ritenuto il primo rave in assoluto ad essersi svolto in Italia (il The Rose Rave che si tenne ad Aprilia, a cui solitamente si fa riferimento nelle ricostruzioni storiche, è datato giugno 1990, quasi un anno più tardi). Esaurita quella incredibile fase creativa Zagami inizia a prendere le distanze dall’Italia, flirtando prima con l’Inghilterra e poi con la Germania, ed allontanandosi dalla techno che marchiò i rave capitolini. Particolarmente emblematico risulta a tal proposito “From Russia With Funk”, un 12″ con cui l’artista inaugura il catalogo della sua etichetta, la Pronto Recordings, col quartier generale fissato a Londra.

«L’Italia non mi meritava, in ballo c’erano troppi compromessi che non avevano nulla da spartire con la musica ma solo con l’opportunismo ed interessi economici di gente che oggi sicuramente si ritrova lauti conti in banca ma che artisticamente non ha mai contato nulla, soprattutto a livello internazionale» spiega Zagami. «Ricordo bene le facce di certi DJ italiani che a metà degli anni Novanta mi davano per spacciato e fallito, ma dopo appena tre anni mi rividero in tutte le migliori discoteche del nord Europa. Alcuni di loro mettono ancora i dischi ma altri (la maggior parte) sono disoccupati o fanno gli elettricisti o i baristi, con tutto il rispetto per queste due categorie ovviamente. La Pronto Recordings nacque da un’idea condivisa con l’amico Toni Rossano degli Stryker, inizialmente impegnato con la Phuture Trax di Nicky Trax, che a metà degli anni Novanta curava la promozione del Tresor e di importanti artisti del panorama house e techno. Tutto fu molto naturale ed idealistico: andai in uno studio di amici e partimmo, senza fare troppi calcoli. Dopo il terzo disco però Toni abbandonò per via del suo nuovo lavoro con la Strut, ma siamo rimasti sempre grandi amici. La Pronto Recordings nacque in un momento per me particolarmente produttivo dal punto di vista musicale. Finalmente riuscii ad affermarmi in Inghilterra, dopo tre anni di sforzi e sacrifici per aprire le porte del difficilissimo mondo della musica. Farcela a Londra, allora più che mai al centro della scena musicale, significava farcela nel mondo. Ero andato via dall’Italia nel 1994, dopo essere stato sabotato in ogni modo possibile ed immaginabile sia dai miei colleghi DJ che dai vari PR delle discoteche con cui non andavo sempre d’accordo per via delle loro scellerate scelte musicali e non solo. Fui uno degli istigatori della scena rave romana, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, oltre ad essere uno dei primi resident all’Imperiale di Tirrenia ed uno dei promotori di quella scena underground romana che coi venerdì del Uonna lanciò un modo diverso di fare clubbing house in Italia, non più esclusiva della solita “lobby gay” capitolina e riccionese a cui si affidavano quelli che divennero i grandi nomi della scena nostrana. Ma, come già detto prima, i compromessi non facevano per me, soprattutto quelli di natura sessuale. Preferisco non dire altro per evitare di sputtanare più di qualcuno.

A Londra feci la gavetta e divenni il primo DJ della famosa chiesa sconsacrata di Brixton che prese il nome Mass. Le chiese sconsacrate sono la mia specialità: già a Roma organizzai un after hour presso una chiesa sconsacrata nella zona dei Castelli Romani (ma intervenne la polizia bloccandolo), e pure a Londra il mio primo after si tenne in una chiesa sconsacrata nelle Docklands. Giunsi al successo globale due anni dopo, grazie alla residenza al Tresor di Berlino, che iniziai nella notte tra sabato 22 e domenica 23 giugno 1996. Credo di essere stato uno dei pionieri italiani del clubbing berlinese, coi miei “set-maratona” di ben dodici ore che tenevo mentre Sven Väth suonava al piano interrato del mitico club. Il proprietario del locale, Dimitri Hegemann, che aveva anche un’importante etichetta discografica, la Interfisch Records (“mamma” della nota Tresor) investì molto nella promozione della mia figura e mi diede la possibilità di incidere un triplo album intitolato “Cosmic Land” sulla KTM, sublabel house gestita da sua figlia. Fui fortemente raccomandato ad Hegemann da uno dei fautori della house di Chicago, Marshall Jefferson, per cui avevo fatto precedentemente un disco. La figlia di Dimitri, tra l’altro, era fidanzata con un mio caro amico, il DJ Frankie Valentine. Dimitri amava portare i DJ di colore in Germania, come tutti quelli di Detroit ed anche Frankie, di cui si innamorò la figlia. Arrivai a Berlino in concomitanza della visita di Giovanni Paolo II e, finito il set, mi recai alla Porta di Brandeburgo dove il Papa stava facendo il suo discorso. Fu l’inizio di una grande avventura che negli anni successivi mi ha proiettato in Scandinavia e in Russia e che mi ha dato la possibilità di continuare il mio sogno, lavorare con la musica almeno fino a quando ho scelto di dedicarmi ad altro. A Londra però non me la passavo molto bene, in quegli anni riuscivo a stento a mettere insieme il pranzo con la cena se volevo comprare i dischi. I locali londinesi, è risaputo, pagano pochissimo e per arrivare con tutti quei dischi all’aeroporto per il mio primo “viaggio della speranza” in direzione Berlino nel lontano 1996 fui costretto a (s)vendere, per poche sterline, un campionatore al Music And Video Exchange di Notting Hill per potermi permettere un taxi. Però ne valse la pena e la mia vita cambiò per sempre quando DJ Mag, Mixmag e tutti gli altri giornali di settore cominciarono, da lì a poco, a parlare di me e della mia residenza al Tresor, oltre che delle mie produzioni discografiche».

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Tra i nomi presenti sulla copertina di DJ Mag c’è anche quello di Leo Young che approda al Tresor (aprile 1997)

“From Russia With Funk” è un fantastico mosaico di disco, funk ed house, ricco di percussioni afro e fiati “presi in prestito” dagli anni Settanta, oggi perfetto per una classica selezione nu disco ma ai tempi piuttosto anacronistico e quasi demodé (tra i primi a seguire tali commistioni ci fu Daniel Wang sulla sua Balihu Records, sin dal 1993). «Il 12″ vendette circa 1800 copie e forse avrebbe potuto raggiungere risultati migliori ma purtroppo il distributore, la Global Export, fallì improvvisamente e per questo motivo non vedemmo mai i soldi che ci spettavano. Era iniziata la crisi del vinile che negli anni successivi avrebbe decimato l’industria lasciando in piedi pochi fortunati. Comunque a supportare il disco furono Claudio Coccoluto e tutti quei DJ che avevo convertito al mio sound “cosmico” ispirato da Baldelli & co., come Faze Action, Idjut Boys ed ovviamente l’amico Harvey. Tra i locali italiani invece, solo il romano Goa ebbe il coraggio di promuovere la Pronto Recordings, ed infatti Giancarlino, in quel periodo, incise dei pezzi  finiti sul Pronto 005, “House In Motion Project EP”.

Lavorai con vari strumenti live incluse percussioni e basso, tutto rigorosamente vero, ma non posso aggiungere specifiche tecniche perché usai quello studio, lo Stonesthrow Recording Studio che si trovava nei pressi del vecchio Truman Brewery in Brick Lane, solo una volta, proprio in quella occasione. Ad affiancarmi nella produzione furono Richard WaterHouse e Steve “Bongo” Young, collaboratori occasionali che conobbi tramite un DJ londinese che si occupava di speed garage. Erano molto capaci ma non collaborai più con loro perché legati allo studio che non riuscii a pagare, visto il fallimento della distribuzione. A loro si aggiunse pure Giò Mari, chitarrista e bassista di grande talento, originario di Subiaco e trapiantato come me a Londra, molto amico di Cat Stevens. Purtroppo fu colto da un male improvviso e venne a mancare pochi anni dopo, lasciando moglie e figli. La sua musica però rimane immortale, come la chitarra nel Pronto 003, “The Subiaco Project”. Tornando a “From Russia With Funk”, all’interno del brano c’è un sample tratto da un rarissimo 33 giri di un’orchestra russa che suonava disco music ai tempi dell’Unione Sovietica. Me lo regalò l’amico Rhythm Doctor, che conosceva bene i miei gusti e la mia passione per la Russia».

Sul lato b c’è invece “Frozen Youghurt” che riprende ancora classici suoni funk, con wha wha ed un piano rhodes: «quel brano fu realizzato coi campioni afro/cosmic che mi portò l’amico Severino Panzetta degli Horse Meat Disco, che ai tempi lavorava con Fabio Carniel del Disco Inn di Modena. Non mi ispirai a nessuno ma feci affidamento solo alla mia vasta cultura musicale che mi rese una delle massime autorità del settore a Londra, in un momento in cui in Italia si facevano solo canzonette e musica banale sperando in un remix di Frankie Knuckles. Io invece volevo andare oltre la house o la techno, dirigermi nella sperimentazione più assoluta, e lo feci grazie alle cene conviviali in cui invitavo tutti i produttori musicali del momento facendo ascoltare cose dell’altro mondo in nome della cultura e non dello sballo o della noia. Nacque così il movimento nu funk che poi sfociò per alcuni in nu disco e successivamente in cosmic/afro ancora oggi in auge e in parte farina del mio sacco. Sfido chiunque a dire il contrario anche perché ci sono fior fiore di articoli scritti in merito, a partire dal ’95, il primo su The Face».

La Pronto Recordings pubblica musica sino al 2000 mettendo in circolazione undici uscite, talvolta in formato white label, sempre a cavallo tra house, funk e disco, stemperando, come fanno i Daft Punk rivolgendosi ad un pubblico immensamente più grande, la rigida separazione a cui techno ed house erano soggette negli anni Novanta. Nel 2001 Leo Young incide il secondo album realizzato tra Roma ed Oslo, dove si trasferisce per un periodo e dove getta le basi di una nuova scena. “The Magickal Childe” esce sulla Tummy Touch di Tim “Love” Lee ed è ricolmo di infinite citazioni funk, soul e disco (provate ad ascoltare il brano “A True American Hero”, estratto come singolo). Le intuizioni erano giuste ma dopo qualche anno, anche grazie a campagne promozionali più efficaci e persuasive, giungono i nordici (Lindstrøm & Prins Thomas in primis) per raccogliere le idee ed essere additati da certa stampa, abbastanza distratta, come primi motori della nu disco.

Flyer (31 agosto 2001)

Il flyer di una serata in Norvegia in cui viene presentato l’album “The Magickal Childe”. Tra i DJ supporter Prins Thomas (agosto 2001)

«Per anni Lindstrøm & Prins Thomas lavorarono come miei secondi nei migliori locali norvegesi quindi furono musicalmente ispirati da me, ma ormai faccio altro, non ho bisogno di lodarmi per promuovere la mia attuale attività. Faccio lo scrittore di successo da diverso tempo ed ho smesso di lavorare professionalmente con la musica nel 2005. Ho sempre fatto cultura musicale ed è per questo che ero e sarò sempre avanti a tutti, fare cultura purtroppo significa non scendere mai a compromessi di nessun tipo. Compromessi che mi avrebbero sicuramente reso più ricco ma senza fare la storia, cosa che per me è fondamentale in qualsiasi campo si stia lavorando. Spero che un giorno certi DJ che in Italia mi sono “debitori” dal punto di vista artistico, mi riconoscano almeno questo merito, come hanno già fatto alcuni ex colleghi stranieri. A breve potrei ritornare in studio e vi garantisco che sarei un innovatore, ma questo, se Dio vuole, lo dimostrerò coi fatti e non con le chiacchiere, come ho sempre fatto in tutta la vita». (Giosuè Impellizzeri)

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