La discollezione di Bottin

Bottin nel suo studio. Tra i 7″ che stringe tra le mani si scorge quello di “Musica Spaziale” di Patrizia Pellegrino (CGD, 1982) diventato un cult per i collezionisti – foto di Enrico Gandolfi


Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?

Escludendo la musica per bambini, il primo è stato “Arena” dei Duran Duran. È uscito nel 1984 quindi avrò avuto sette-otto anni. Ricordo di averlo visto in vetrina in uno storico negozio di Padova, il Ventritré Dischi, piuttosto noto per il grande assortimento ed i prezzi sempre scontati. Il gestore, Maurizio Boldrin, è batterista della scena Bacchiglione Beat (il Bacchiglione è un fiume nel padovano e l’espressione faceva il verso al Mersey Beat di Liverpool). Chiaramente queste sono storie che ho scoperto più tardi, da adolescente, quando ho continuato a frequentare il negozio negli anni Novanta per comprare jazz, acid jazz ed hip hop, in particolare il filone dei De La Soul e Digable Planets. Fu proprio grazie ai campionamenti dell’hip hop che entrai in contatto con la musica degli anni Settanta. Sono nato nel 1977, troppo tardi per aver vissuto direttamente l’epoca degli Steely Dan e degli Earth, Wind & Fire.

L’ultimo invece?
Da tempo non compro più dischi nuovi. Gli ultimi sono stati l’LP degli Zement, un gruppo krautrock tedesco che ho sentito in un locale a Berlino e che mi ricordava i migliori Neu!, e la compilation “Witchcraft & Black Magic In The United Kingdom”, edita dalla Eighth Tower Records. Continuo però a comprare parecchi dischi vecchi, su Discogs, eBay e, più volentieri, ai mercatini. Non frequento negozi di dischi (a Venezia non ce ne sono quasi più) né fiere. Lo facevo tempo fa ma, tra confusione ed entusiasmo, spesso finivo per comprare tante cose di cui avrei potuto fare a meno.

Quanti dischi conta la tua raccolta?
Non sono un collezionista. Inizialmente ho visto i dischi come meri “strumenti di lavoro” per le serate da DJ ma anche e soprattutto per registrare campionamenti. Dischi perché molte cose in digitale e su CD non si trovavano ed ancora oggi parecchie sono di difficile reperimento, ma vale per tutti i supporti fisici come per i file. Rispetto a molti DJ non ho molti dischi e in confronto ai collezionisti ne ho davvero pochi, circa duemila. Non saprei dire però quanto mi siano costati. Alcuni mi sono stati regalati da amici ed ex DJ, parecchi li ho presi a mercatini e negozi non specializzati quindi per pochi spiccioli. Altri ancora li ho pagati a prezzo pieno (se non gonfiato) a fiere del disco o su internet. Controllando su Discogs, risulta che il valore mediano della mia raccolta sia di circa otto euro al pezzo. Mi sembra tanto, rispetto ai miei ricordi di acquisto. Ho sempre cercato di trattare i dischi come una partita di giro, rivendendo i titoli appena un po’ costosi. Se scopro di avere un disco che vale più di trenta/quaranta euro lo metto volentieri in vendita per comprarne quattro o cinque nuovi. Non mi sono mai affezionato troppo ai dischi, come oggetti in sé non hanno mai esercitato un grande fascino su di me. Banalmente mi interessa la musica che contengono anche se anch’io sono legato a certi artwork. Ma quella è grafica, fotografia, e il suo habitat principale è la carta. La musica invece esiste davvero solo nell’aria, quella sugli scaffali o negli archivi digitali è merce. Bella anche, ma di tutt’altra natura dalla musica.

Bottin 2
Uno sguardo sulla raccolta di dischi di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Usi un metodo per ordinarla ed indicizzarla?
Ho un inventario aggiornato tramite Discogs. Mi piace poter ritrovare un disco a colpo sicuro e senza perdere troppo tempo. Questo è importante soprattutto per registrare un campionamento al volo durante una produzione: se ci metto troppo a trovarlo rischio quasi di dimenticarmi cosa stavo cercando. Comunque, nonostante l’organizzazione, capita lo stesso di perdermi e finire per ascoltare tutt’altro. Ho un unico grande scaffale così diviso: le mie produzioni nella prima fila in alto (la più scomoda da raggiungere) e sotto, nella parte centrale, ho tutta la disco music e il funk (fino al 1980-81 circa) in ordine alfabetico per artista. Poi la musica dance anni Ottanta, separata tra produzioni italiane ed estere. C’è quindi una piccola sezione compilation e dischi con brani di più autori, ambient, library, re-edit e una manciata di titoli techno ed house anni Novanta. Poi il pop italiano ed estero e i promo che mi sono stati regalati da artisti ed etichette. In basso, infine, ho due cassette da latteria in cui tengo i 7″ e poi altre due coi dischi non ancora ordinati o di scarso gradimento da cui però talvolta spuntano delle sorprese. Anche il gusto personale cambia col tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione? Esegui lavaggi periodici ed utilizzi copertine plastificate per scongiurare problemi di umidità?
Quasi nulla di tutto ciò. Utilizzo qualche busta trasparente per alcuni 12″ ma spesso le trovo già al momento dell’acquisto. Certi 7″ li tengo in bustine di cartoncino, separati dalla copertine perché quest’ultime tendono a strapparsi. Ho pochissime esperienze di lavaggio e tutte molto artigianali, senza prodotti speciali, giusto per togliere un po’ di sporco prima di passare qualcosa in digitale. Ripeto: non sono un collezionista e non ho passione per la conservazione maniacale. Ci sono persone molto competenti su questi aspetti che non approverebbero le mie pratiche.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Sono stato fortunato nel periodo in cui giravo il mondo con la borsa dei dischi, mai uno smarrimento aeroportuale, mai un furto. L’episodio che si avvicina di più ad una perdita avvenne in occasione di una serata al Club To Club di Torino. Il driver lasciò l’auto in divieto di sosta nei pressi del ristorante e alla fine della cena ci accorgemmo che era passato il carro attrezzi portandosi via la macchina e i miei dischi. Per fortuna fu possibile rintracciare il deposito e farci dare le cose in tempo per la serata. Da quella volta, anche se ormai suono quasi sempre da hard disk o USB, porto sempre con me, oltre a un drive di emergenza, anche due CD con l’indispensabile per fare comunque un DJ set di due ore. Non si sa mai.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno in particolare, non essendo un collezionista né amante della merce e della “roba”, nel senso verghiano della parola. Capita che certi collezionisti mi chiedano di poter comprare qualche disco. Vengono in studio e lascio loro spulciare liberamente nel mio materiale, sono disposto a liberarmi di qualsiasi titolo. È accaduto per esempio con l’amico Lorenzo Sannino di Napoli Segreta che si è portato a casa alcuni dei miei dischi preferiti in assoluto, ma sono stato contento perché sono finiti in buone mani e in fondo io li avevo già ascoltati a sufficienza. La cosa che mi piace di più dei dischi è che, oltre a girare sul piatto, girano anche il mondo, passando di mano in mano. È questa la loro forza, sopportare viaggi, traslochi e resistere nel tempo, anche se abbandonati in una cantina. Prima o poi qualcuno li riscopre e ricomincia la passione anche per generi o artisti minori ormai dati per dispersi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessun gran pentimento. Se un disco non mi piace lo metto nella scatola degli “indesiderati” e non ci penso più.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Quelli che vorrei avere ormai sono quasi tutti a portata di Discogs. Se qualcuno dovesse diventare davvero irrinunciabile lo comprerò a prezzo di mercato.

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Bottin con “One Black Dot” dei Mothmen (1982) – foto di Enrico Gandolfi

Quello con la copertina più bella?
Nella mia lista c’è una sola sottocategoria, quella dei keepers. Sono poco meno di duecento titoli che vorrei tenermi anche se riuscissi a vendere tutto il resto della mia raccolta (se qualcuno fosse interessato si faccia avanti, l’idea di alleggerirmi è sempre presente). Tra questi keepers, molti hanno una copertina particolare come ad esempio “One Black Dot” dei Mothmen.

Quello che non venderesti per nessuna ragione?
Non cederò mai, neppure sotto la minaccia delle armi, il 7″ degli Avida, “A Fumme Mariuà / La Bustina” (1982) perché me l’ha donato l’autore, il caro amico Maurizio Dami aka Alexander Robotnick.

Nutri una particolare attenzione per i 7″, molti dei quali legati a sigle televisive. Da cosa nasce tale interesse?
Quella per i 7″ è una mezza passione sbocciata negli ultimi anni. Quando capito in un negozio o in un mercatino ormai guardo solo i 45 giri. Trovo siano bistrattati sia dai DJ, sia dai collezionisti (a parte ovviamente gli amanti del reggae). Proprio per questo motivo si possono scoprire ancora tesori in materia di funk, disco e colonne sonore. Molte sigle televisive, ad esempio, sono uscite solo in quel formato. Avviene inoltre che alcune buone stampe su 7″ suonino meglio degli LP, specie se nell’album il brano interessato è tra gli ultimi della facciata. In generale lo trovo un formato comodo e leggero. Mi è capitato di fare dei set a feste di amici solo con 7″ usando come flight case le scatole di latta dei Baicoli, i celebri biscottini veneziani.

i 45 giri di Bottin
Alcuni dei 7″ di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Da ascoltatore a compositore: c’è stato qualcosa o qualcuno a spingerti all’attività in studio di registrazione?
Ho iniziato a produrre musica all’inizio degli anni Novanta, con un Amiga della Commodore. A quattordici anni ero parte della demo scene dell’epoca, una faccenda tutta nerd, animata da sparuti gruppi di programmatori, grafici e musicisti. Ci scambiavamo i rispettivi lavori per posta, inviando e ricevendo floppy disc da tutta Europa. Filippo De Fassi, attuale titolare di Phonopress, condivideva la stessa passione. In quegli anni da lui ho imparato parecchie cose sulla musica in generale. Si usava un software chiamato Soundtracker che gestiva quattro tracce mono su cui si programmavano pattern di brevi campioni a sedici bit. Poi sono passato alle band di funk/acid jazz in cui suonavo le tastiere. Intorno al 1997-1998 ho cominciato ad usare Cubase e a frequentare lo studio di un amico, Alberto Roveroni, e lì ho realizzato le primissime produzioni poi distribuite su CD e cassetta.

Credo che una delle tue primissime pubblicazioni sia stata “Chill Reception” di Bluecat, album pubblicato dalla bolognese Irma nel 2001.
Bluecat fu interamente realizzato con un sintetizzatore Kurzweil K2000 ed un campionatore Akai S2000. Le mie prime produzioni erano una specie di drum’n’bass, jungle e trip hop sopra cui suonavo la tromba con la sordina. Un paio di quei brani sono finiti nel citato LP per la Irma. Prima di quello avevo prodotto, sempre per Irma, alcune tracce di cocktail music. Un altro mio mentore è stato (ed è tuttora) Bob Benozzo, fu lui a consigliarmi sin dall’inizio l’uso di alcuni strumenti e software. Ancora oggi mi aiuta nei mixaggi che non mi fido a chiudere da solo. Sono molto contento di sapere che molti tra i giovani musicisti che ho conosciuto da ragazzino stiano lavorando con la musica ancora oggi, ognuno a suo modo e senza aver avuto particolari agganci e facilitazioni. Penso di essere stato fortunato a conoscere e ad imparare da persone diventate poi dei bravi professionisti. Non vengo da una famiglia musicale e, fatta eccezione per qualche anno di pianoforte, i miei maestri sono stati i dischi e questi amici.

Bottin - I Love Me Vol. 1
La copertina di”I Love Me Vol. 1″, del 2004

Nel 2004 esce “I Love Me Vol. 1” che, tra le altre cose, contiene un remake di “Lunedì Cinema” degli Stadio & Lucio Dalla ricantata da quest’ultimo, con cui peraltro collabori per portare in scena l’opera teatrale “Speak Truth To Power: Voices From Beyond The Dark” come spiegato qui. A quel Vol. 1 però non darai mai seguito, tornando discograficamente operativo solo nel 2009 con l’album “Horror Disco”. Come mai per cinque anni non incidesti più nulla?
“I Love Me Vol. 1” fu il primo di una lunga serie di tentativi (più o meno falliti) di emancipazione dalle etichette discografiche. Fu autoprodotto da me con Irma e Sony limitati al ruolo di distributori. La distribuzione fu infatti capillare ma sostanzialmente sbagliata: finì in tutti i negozi ma nella sezione di rock estero, in ordine alfabetico tra Bon Jovi e David Bowie. Temo di averne ancora uno scatolone nel garage dei miei genitori. Iniziai a lavorare con Lucio Dalla già un paio d’anni prima. Per un grande concerto in occasione dell’anniversario di Tazio Nuvolari riarrangiai l’intero album “Automobili” di Dalla/Roversi, mettendo insieme una band “futurista” di ben dieci elementi (tra cui B C Manjunath alle percussioni indiane, il turntablist Rock Drive e il videomaker Francesco Meneghini) che rimaneggiavano dal vivo materiali audio e video d’epoca concessi da Istituto Luce. Con Dalla sono diventato amico quasi subito ed ho continuato a collaborare su progetti speciali e produzioni teatrali. In quei cinque anni prima di “Horror Disco” in realtà ho realizzato un album uscito successivamente, quello di Tinpong con la vocalist Joy ‘Oy’ Frempong. Anche un remix per Donatella Rettore, poi diventato sigla di MTV Italia, oltre a tanti lavori di sound design, pubblicità ed installazioni. Bene o male, è stato un periodo in cui ero sempre in studio anche se non come artista in prima persona.

Bottin - Horror Disco
La copertina di “Horror Disco” (Bear Funk, 2009)

Come nacque, invece, “Horror Disco”?
Inizialmente “Horror Disco” doveva essere un’etichetta. Avevo realizzato parecchi brani in bilico tra disco music e colonne sonore. Stevie Kotey, il DJ dei Chicken Lips a cui mandai due CD pieni di quel materiale, pensò che Horror Disco potesse diventare una sublabel della sua Bear Funk. Era un’idea relativamente nuova all’epoca, antecedente e forse anche ispiratrice delle varie Giallo Disco, Voodoo, Discorror, etc. Poi il progetto fu (giustamente) ridimensionato a due EP su 12″ e ad un album su CD e doppio LP. Al momento della release ero già entrato come producer nella scena space disco col singolo “Fondamente Nove” per Eskimo Recordings e soprattutto con “No Static” su Italians Do It Better a cui devo l’inizio della mia esperienza come DJ internazionale.

Fatte poche eccezioni, la tua discografia è cresciuta attraverso etichette estere, dalle britanniche Bear Funk, Z Records e Nang alle statunitensi Italians Do It Better, 2MR e Chit Chat Records passando per la belga Eskimo Recordings e l’olandese Bordello A Parigi. Caso fortuito o scelta intenzionale?
All’epoca in Italia non c’erano label disposte a pubblicare quei generi e a dire il vero anche oggi ce ne sono poche. Mandavo i miei brani a quelle che mi sembravano potessero essere ricettive e che già stampavano dischi che mi appassionavano. Un paio mi hanno risposto e pubblicato. Su Eskimo Recordings in quel momento usciva il materiale di Lindstrøm & Prins Thomas che mi piacevano, Italians Do It Better invece aveva un’estetica visiva che mi sembrava compatibile al mio immaginario. Nessuna scelta esterofila quindi, non ho mai creduto molto ai confini ed alle identità nazionali, con qualche piccola eccezione. Mi sembra una specie di astrologia: siccome si è nati sotto una costellazione o sopra un territorio nazionale, allora si dovrebbero avere un’identità e un destino con caratteristiche predefinite? Non ne sono affatto convinto.

L’italo disco è uno dei tuoi generi di riferimento. Bistrattata e in alcuni casi persino rinnegata da chi la produsse, è tornata in vita una ventina di anni fa ma su iniziativa di DJ, collezionisti ed appassionati esteri, soprattutto nordeuropei. Perché, secondo te, i primi a non accorgersi del valore e della portata rivoluzionaria di certi pezzi sono paradossalmente proprio gli italiani? Banale esterofilia che ci affligge da tempo immemore?
Secondo me l’italo disco non è propriamente un genere musicale ma include tutta la musica dance prodotta in Italia tra il 1977 e il 1987 circa. Dentro c’è di tutto, i Tantra, i Change, Rago & Farina, Alexander Robotnick, Baltimora, Tipinifini, Albert One, Raf e Raffaella Carrà. Un mondo vastissimo fatto di tante musiche quasi tutte di matrice pop ma parecchio eterogenee. Quanto all’esterofilia, certamente è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. A causa dell’esterofilia molti artisti italiani non fanno tante serate in patria giacché è più cool mettere in cartellone artisti di provenienza estera. Sempre per esterofilia, alcuni italiani girano il mondo perché appare cool (o almeno così pareva) per i non-italiani chiamare un DJ italiano, anche se magari è meno bravo di alcuni resident del posto. Sto esagerando, chiaramente è anche la musica che si produce ad attecchire in certi contesti più che in altri. In Italia, nella musica da ballo, siamo quasi sempre stati al seguito di stili che avevano già avuto successo altrove, ma alcune produzioni italiane si spingevano oltre l’imitazione assumendo una propria identità e in qualche caso riuscendo ad imporsi all’estero come “suono italiano”. Tutta l’italo disco nasce come scimmiottamento di musica dance anglosassone. Ora, magari, certi anglosassoni scimmiottano l’italo disco. Questi cicli di influenze reciproche sono perfettamente normali, appartengono a quell’accumulo di strati di cui è fatta ogni cultura.

Cristalli Liquidi
Buona parte della discografia di Cristalli Liquidi

Nel 2010 crei Artifact, piccola etichetta che si fa notare coi dischi di Cristalli Liquidi accompagnati da ironiche parodie grafiche che rimandano ad un’industria ormai scomparsa e quasi del tutto dimenticata (Discomagic, Numero Uno, Discotto). Quali ragioni ti hanno spinto all’autoproduzione piuttosto che ad affidarti ad altre label?
Come accennavo prima, ogni tanto cerco di emanciparmi dalle label. A volte va piuttosto male, altre invece meglio come con Cristalli Liquidi. Doveva essere un progetto di un solo singolo, “Volevi Una Hit”, autoprodotto perché nessuno intendeva pubblicarlo, nemmeno la Italians Do It Better che temeva problemi con gli LCD Soundsystem a cui il brano è largamente ispirato visto che nasce come cover di “You Wanted A Hit” anche se poi tanto cover non è, ha una sua identità, un suo ritornello e un testo che esulano dall’originale. Ricevuta l’approvazione direttamente da James Murphy, l’ho pubblicato senza indugi. Artifact però non è proprio la mia label e non è nemmeno un’etichetta vera. Più che altro è un accordo di P&D (press & distribution) stretto con un broker olandese. Serve a pubblicare Cristalli Liquidi, i miei re-edit e ultimamente anche brani a mio nome. Forse, in un vicino futuro, anche pezzi di altri artisti. Per questi motivi non la considero un’etichetta, non ha un’identità né tantomeno un’immagine. È solo un modo di uscire sul piccolo mercato della distribuzione fisica di dischi.

Ad Artifact si affianca, nel 2012, pure una seconda “etichetta”, la Tin. Corrono sostanziali differenze tra le due?
Nessuna. Tin è stata semplicemente una serie di 12″ monofacciata coloratissimi con le versioni estese dei singoli dell’album “Punica Fides”. Pure in questo caso parlerei di un tentativo di emancipazione, in parte riuscito ma poi rientrato con la successiva pubblicazione del citato album su Bear Funk. Ora Tin è sostanzialmente inattiva ma resta Artifact.

Ormai le tirature dei 12″ destinati al DJing si sono assottigliate sino a raggiungere la media delle appena trecento copie, soglia risibile se confrontata a quelle dei decenni pre-millennio. Insomma, oggi incidere dischi è tutto fuorché economicamente incentivante e redditizio, gli introiti devono essere recuperati da altri ambiti connessi come le sincronizzazioni (cinema, tv), lo streaming e il download (può essere preso in considerazione sotto una certa soglia?) ed intrattenimento che però, al momento, è messo fuori gioco dal coronavirus. Ritieni che tutto ciò, per chi ha vissuto l’epoca in cui i limiti tecnologici relegavano la musica alla tattilità, abbia logorato la creatività? Per un artista è demoralizzante sapere di non poter più contare su un pubblico disposto a spendere del denaro per acquistare la sua musica?
Un po’ lo è ma contemporaneamente l’abbassamento qualitativo delle produzioni fa sì che ci voglia poco a produrre dischi appena migliori della media, avendone le capacità. Certo, bisogna essere un po’ musicisti, saper scrivere delle linee di basso interessanti, delle melodie anche minime ma comunque efficaci, non basta assemblare loop ed attivare arpeggiatori software. È altrettanto possibile fare buoni lavori di puro sampling o re-editing estremo e creativo. Visti gli introiti minimi di streaming e download, oggi si distribuiscono tanti re-edit e si usano campionamenti in modo piuttosto disinvolto, a volte fin troppo. Quanto al mercato dello streaming, non bisogna dimenticare che si tratta di un’industria sostenuta in buona parte dai grandi dischi registrati nel passato. Con l’economia discografica attuale sarebbe letteralmente impossibile produrre e promuovere musica così come si faceva una volta contando sui volumi di vendita dell’epoca. Inoltre la musica liquida dei servizi di streaming non è posseduta da chi la ascolta e nemmeno da chi paga un abbonamento. Se un giorno le piattaforme dovessero chiudere battenti o andare offline, gli utenti perderebbero tutta la loro raccolta di brani, album e playlist. Cadrebbe il silenzio. Invece i dischi e i CD che si possiedono restano, anche nel futuro per figli, nipoti, pronipoti o per chi li potrà ritrovare in un negozio dell’usato.

Che futuro prevedi per la musica incisa su supporto fisico? Per quanto tempo il disco in vinile potrà continuare ad alimentare l’interesse degli appassionati?
Penso durerà quasi per sempre, magari in quantità ulteriormente ridotte. Oggi c’è perfino un piccolo mercato di stampe per dischi a 78 giri destinati al grammofono. La forza del disco, come dicevo prima, è offerta dalla resistenza a lunghi transiti nello spazio e nel tempo. Un disco passa di mano in mano, di generazione in generazione e, anche se per qualche anno finisce abbandonato, prima o poi viene riscoperto da qualcuno, recuperato in un mercatino, poi recensito ed incensato, suonato anche decine di anni dopo essere stato prodotto. Un disco può avere tante vite e questo coi file, per ora, non succede o comunque accade molto meno. Un artista dovrebbe avere l’obiettivo di essere ascoltato ancora tra mille anni e non solo di entrare nella playlist della settimana o nella chat del selector di moda. Un produttore sa intimamente sa se ha fatto un bello o cattivo lavoro, se ha copiato una formula o se ha aggiunto almeno qualche ingrediente personale, questo al di là del successo o dell’insuccesso ottenuto. Poi è chiaro che bisogna anche cercare di vivere con la musica e questo richiede dei compromessi, degli adattamenti, un allineamento con lo spirito dei tempi. Ma le necessità, per così dire, “alimentari” non dovrebbero mai dettare tutta la linea, a maggior ragione se un disco si pubblica ormai in appena trecento copie. Perché scendere a compromessi col mercato per quantità così basse? Eppure escono ancora tanti dischi tutti uguali. Il disco, bello o brutto, originale o banale, continua a farsi perché gli artisti continuano a volerlo, accollandosi sempre più spesso le spese di produzione e di stampa. Alcune etichette ormai chiedono all’artista di partecipare ai costi, del resto avviene da tempo per le case editrici e per le mostre d’arte di seconda categoria. Poi ci sono label che campano quasi esclusivamente di ristampe più o meno legali di dischi desiderabili (magari perché rari) che hanno un potenziale di acquirenti già assodato. Quelle sono operazioni di mercato che da un lato rispetto perché proteggono dall’oblio certi titoli e li rendono di più facile reperimento, dall’altro però non si può ignorare che ogni ristampa venduta è un disco di musica nuova invenduto e magari nemmeno distribuito. Vale anche per i re-edit, genere che frequento attivamente, pur conscio di quanto sia in diretta concorrenza con le produzioni originali. Ed è una concorrenza un po’ sleale, almeno artisticamente, però gli edit vendono facilmente e con quelli magari ci si fa conoscere prima di uscire con un disco “vero” o si finanza la stampa di un disco più difficile da smerciare.

Tra i tuoi collaboratori più ricorrenti ci sono Maurizio Dami, Roberto ‘Bob’ Benozzo (intervistati rispettivamente qui e qui) e Rodion ma val la pena ricordare anche gli interventi vocali dell’indimenticato Douglas Meakin in “Disco For The Devil” (da “Horror Disco”) e di Lavinia Claws. Ci sono artisti del presente o del passato con cui ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto condividere l’attività in studio?
Con Robotnick la collaborazione nasce dall’amicizia, con Rodion ho realizzato diverse produzioni in passato ma poi ci siamo persi quando si è trasferito all’estero. Mi piacerebbe lavorare ancora con lui, ci siamo sempre divertiti facendo cose che ritengo belle. Ho collaborato pure con Francesco De Bellis (Francisco, L.U.C.A.) per “BFR (Space)” e “Zombie Erotic”, e proprio in queste settimane stiamo ultimando due nuovi brani. Da poco ho coprodotto un EP con Fabrizio Mammarella ed ho registrato una canzone in italiano con Debora Petrina. C’è inoltre un nuovo progetto personale che uscirà presto sotto uno pseudonimo. Non ho molti sogni nel cassetto, forse perché ho sempre avuto tante cose in cantiere. Mi è anche capitato di incontrare alcuni di quelli che erano stati i miei miti musicali ma che, senza fare nomi, in alcuni casi si sono rivelati mezze delusioni. Forse avevano perso lo smalto di un tempo oppure li avevo idealizzati troppo. Certi dischi, soprattutto quelli del passato, non sono il frutto di una sola persona ma il risultato di una squadra fatta di tanti talenti, magari passati in secondo piano.

Ragazza Madre EP
“Ragazza / Madre” è l’EP più recente di Cristalli Liquidi. Appena quaranta le copie del 10″ pubblicato da Industrie Discografiche Lacerba

In questa intervista di Fabio De Luca, pubblicata da Rockit il 17 gennaio 2018, sveli molte curiosità su una delle tue “creature” meglio riuscite, Cristalli Liquidi. Pochi mesi fa la tua “band/non band” è tornata con “Ragazza / Madre”, un EP pubblicato questa volta in CD dalla fiorentina Industrie Discografiche Lacerba, di cui esiste una limitatissima tiratura di appena 40 (!) copie in formato 10″. Puoi raccontare, anche dettagliatamente, il contenuto?
Cristalli Liquidi è un progetto strano, per certi versi imprevisto. Come raccontavo prima, doveva essere un unico disco, misterioso ed anonimo, poi sono diventati due, tre, quattro ed addirittura un album con alcuni brani scritti e prodotti insieme a Robotnick ed altri nati in collaborazione coi Polosid. Fino ad allora ero rimasto dietro le quinte. Poi con “Tubinga” (rivisitazione dell’omonimo di Lucio Battisti, dall’album “Hegel”) mi sono “rivelato” in un video performativo, un unico take realizzato con la performer Laura Pante e la fotografia di Giovanni Andreotta. Si è tenuto anche un piccolo tour in cui mi sono esibito come cantante (non l’avrei mai immaginato di farlo!) accompagnato alla batteria dall’amico Frank Agrario. È successo tutto così, senza progettarlo. Potrebbe essere già finito oppure ricominciare. Da qualche tempo collaboro con Lapo Belmestieri di Lacerba, è un grafico di pregio e cura bene ogni cosa. Così è nato “Ragazza/Madre” che vuole essere la conclusione della liason col repertorio di Lucio Battisti e Pasquale Panella. La scelta di fare quaranta copie su vinile 10″ è di Lacerba, ma esiste anche il digitale.

Estrai dalla tua raccolta dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Marisa Interligi - Occhio Di SerpenteMarisa Interligi – Occhio Di Serpente
Malcelata cover o un mezzo plagio ai danni degli Earth, Wind &Fire? Comprai il 7″, edito dalla Arc nel 1982, ad un mercatino senza sapere a cosa sarei andato
incontro.

Riz Ortolani - Quei Giorni Insieme A TeRiz Ortolani – Quei Giorni Insieme A Te
Un pezzo tratto dalla colonna sonora di “Non Si Sevizia Un Paperino”, un bel film del 1972 diretto da Lucio Fulci. Lo presi esclusivamente per la meravigliosa copertina che ritrae una Florinda Bolkan furente in una classica grafica di stampo cinematografico.

Giusto Pio - Auto-MotionGiusto Pio – Auto-Motion
Un brano del 1984 utilizzato come sigla del programma televisivo di proto informatica Chips, storpiato in Clips sulla copertina. Una distopia tra l’apocalittico e il fantascientifico cantata da Franco Battiato.

Jenny Nevasco - Crazy MusicJenny Nevasco – Crazy Music
Discreto brano funk un po’ esotico, pubblicato nel 1977. La copertina è di Mati Klarwein, lo stesso che ha illustrato, tra gli altri, “Bitches Brew” e “Live-Evil” di Miles Davis, “Abraxas” di Santana, “Last Days And Time” degli Earth, Wind &Fire e “Dream Theory In Malaya” di Jon Hassell. Chissà come è finito su questo 7″ della Yep Record.

MA.GI.C. - ShampooMA.GI.C. – Shampoo
Un pezzo che mi mette sempre di buon umore, cantato dal grande Douglas Meakin sulla musica dei fratelli MA(rio) e GI(useppe) C(apuano), i MA.GI.C. per l’appunto. A pubblicarlo è la Mr. Disc Organization nel 1981.

Umberto Balsamo - CrepuscoloUmberto Balsamo – Crepuscolo
“Crepuscolo” è un altro di quei dischi che ho comprato per la copertina, molto elegante. Il brano del ’78, arrangiato da Gian Piero Reverberi, è stato comunque una gradevole scoperta, pare ispirato da “Amarsi Un Po'” di Lucio Battisti.

Colorado - Space Lady LoveColorado – Space Lady Love
Una ruspante produzione space disco in cui appare il nome di Red Canzian dei Pooh nel ruolo di produttore. Lo comprai un mattino al mercatino di Porta Portese e nel pomeriggio era già campionato ed usato nell’EP “Galli” realizzato con Rodion per la Eskimo Recordings.

Alberto Camerini - Computer CapriccioAlberto Camerini – Computer Capriccio
Il brano era contenuto in una compilation su audiocassetta che i distributori di benzina regalavano col cambio d’olio del motore. Fu la colonna sonora di un lungo viaggio coi miei genitori fino a Dubrovnik, in una Fiat 127 lungo tortuose strade costiere cosparse di buche. Una canzone manifesto della generazione elettronica, la prima ad avere un computer in casa. Qualche anno fa ho avuto la possibilità di farmi autografare il disco da Alberto Camerini.

Ayx - Ayx TecaAyx – Ayx Teca
Anche questo 7″ del 1979 è frutto di una pesca miracolosa a Porta Portese, una decina di anni fa. Lo ri-editai subito in una extended version pubblicata solo su vinile nel 2010 su Artifact intitolata “Aextacy”, anagramma del titolo originale. All’epoca ci fu una specie di gara tra i fanatici della disco music italiana per indovinare cosa fosse e chi lo cantasse (sembra la Bertè ma è Gloria Nuti). Oggi è abbastanza noto giacché ripubblicato anche in digitale ma il primo incontro non si scorda mai.

Daniel Sentacruz Ensemble - Uffa Domani È LunedìDaniel Sentacruz Ensemble – Uffa Domani È Lunedì
Un pezzo scoperto nei meandri della discografia di Mara Cubeddu, prodotto da Vince Tempera nel 1978. Ne ho fatto un re-edit lo scorso anno con cui ho rianimato la serie su Artifact, da qualche tempo assopita. Ha però un grosso limite: si può suonare solo di domenica.

(Giosuè Impellizzeri)

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N.O.I.A. – The Rule To Survive (Looking For Love) (Italian Records)

N.O.I.A. - The Rule To Survive (Looking For Love)Cervia, 1978. Bruno Magnani e Davide Piatto fondano i N.O.I.A., uno dei primi gruppi italiani a rivelarsi come punto di incontro e vicendevole scambio tra meccanicismo sintetico e vocalità new wave, capace di generare un suono-meticciato tra Kraftwerk e Devo. Insieme a loro, sino al 1983, quando la band è tendenzialmente attiva solo sul fronte live, ci sono Giorgio Giannini, Jacopo Bianchetti e Giorgio Facciani, ma nel momento in cui Oderso Rubini li mette sotto contratto con l’Italian Records cambia tutto. La propensione ad esibirsi dal vivo viene meno, sostituita dal lavoro in studio. La musica dei Talking Heads, Ultravox, Can e Neu! forgia il gusto dei romagnoli che si spingono avanti sino a lambire sponde no wave e proto house.

«Iniziammo nel ’78 quando non eravamo altro che punk diciassettenni» ricorda oggi Magnani. «La tecnica non era importante anzi, allora si scoprì che l’assenza di questa non precludeva il fatto di poter scrivere bei pezzi. Ciò che rammento principalmente dei primi tempi è che ad ogni nostra esibizione si scatenava una rissa nel pubblico, tra quelli che ci amavano e quelli che, al contrario, ci odiavano. Non esistevano mezze misure. Le spillette con su il messaggio “Energia nucleare? Sì grazie!” che tiravamo sulla gente contribuivano a far crescere quello strano mix tra amore ed odio. Come nome artistico optammo per la sigla N.O.I.A. che poteva rappresentare ben 125 significati diversi, ai tempi conosciuti ma tenuti segreti, oggi banalmente dimenticati. Ricordo però che in parecchie di quelle 125 permutazioni la “A” stava per “Automazione”. La formazione a cinque elementi era molto più efficace dal vivo, quando rimanemmo in tre (Magnani, Piatto e Giannini, nda) invece privilegiammo troppo il lavoro in studio e smettemmo quasi del tutto l’attività live. I due che uscirono, peraltro, erano quelli fisicamente più belli e che facevano la loro figura, quindi a posteriori direi che fu un errore ridimensionarci».

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Una foto scattata presumibilmente nel 1979 in occasione di un’esibizione dei N.O.I.A. alla Nuite Blanche di Cesenatico. Da sinistra: la ballerina Sara, un amico che non faceva parte del gruppo, il chitarrista Jacopo Bianchetti, Giorgio Giannini, Marino Sutera in tuta blu con uno strumento autocostruito chiamato Noiatron, Davide Piatto e Bruno Magnani.

Nel 1981 i N.O.I.A. sono sul palco della rassegna “Electra1 – Festival Per I Fantasmi Del Futuro” organizzata a Bologna. Lì li vede (e sente) Oderso Rubini che li porta all’Italian Records, nata dalle ceneri della Harpo’s Music. Da quel momento le priorità cambiano, prima del suonare live c’è il voler incidere dischi, avvalendosi pure di strumenti elettronici che ai tempi sono spesso oggetto di demonizzazione negli ambienti del pop/rock tradizionale. «Ad onor del vero avremmo voluto incidere dischi anche prima ma preferimmo rifiutare le proposte di etichette microscopiche ed aspettare l’occasione giusta» spiega Magnani. «Ai tempi era tutto analogico, le autoproduzioni erano piuttosto scadenti e per allestire o prendere a nolo gli studi di registrazione professionali occorreva molto denaro. Ci voleva assolutamente una casa discografica. Per l’utente medio l’uso di apparecchiature elettroniche era qualcosa che riguardava nello specifico la musica disco. Il grande pubblico, soprattutto nelle esibizioni live, continuava ad aspettarsi batteristi tradizionali ed assoli di chitarra distorta».

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Davide Piatto immortalato nel 1982 durante una delle session casalinghe di Klein & MBO mentre armeggia con un sintetizzatore Roland SH-1 ed una batteria elettronica Roland TR-808

È proprio con una chitarra ed una Roland TR-808 che Davide Piatto contribuisce significativamente alla realizzazione di uno dei brani considerati seminali per la house music di Chicago, “Dirty Talk” di Klein & MBO, seppur il suo lavoro non venga ufficialmente riconosciuto attraverso i credit in copertina, come già ampiamente descritto in questo reportage di qualche anno fa con la sua testimonianza esclusiva. «In quel periodo Davide era parecchio prolifico e scrisse moltissime basi» ricorda Magnani a tal proposito. «Su una cassetta che mi diede c’erano sia la base di quella che sarebbe diventata la nostra “The Rule To Survive (Looking For Love)”, sia quella che invece si sarebbe trasformata in “Dirty Talk”. A noi piacque di più la prima».

Il singolo di debutto dei N.O.I.A. è proprio “The Rule To Survive (Looking For Love)”, pubblicato nei primi mesi del 1983. Nonostante venga fatto confluire convenzionalmente nell’italo disco, il brano si muove in realtà lungo coordinate diverse, più aderenti alla new wave abbinate ad una carica ritmica definibile proto house, la stessa che caratterizza la citata “Dirty Talk” e un altro evergreen prodotto in Italia quello stesso anno, “Problèmes D’Amour” del toscano Alexander Robotnick (di cui abbiamo parlato qui) che coi N.O.I.A., peraltro, divide la passione per il rock alternativo, il punk ed una certa elettronica anti mainstream. Sul lato b trova invece spazio “Night Is Made For Love”, dall’impronta nettamente funk. I crediti rivelano che il disco viene registrato presso lo Studio T2 di Bologna ma mixato da Tony Carrasco al Regson Studio di Milano. Emergono inoltre altri nomi (Massimo Sutera al basso, Cesare Collina dei Key Tronics Ensemble alle percussioni, Luca Orioli al sintetizzatore, Joanna Maloney e Lita Munich come coriste) e ciò lascia pensare ad un lavoro di gruppo orchestrato da Oderso Rubini. Sulla copertina finiscono invece due ragazze, Alessandra e Carolina. «I nostri dischi hanno sempre avuto una realizzazione un po’ travagliata» spiega Magnani. «I demo erano piuttosto minimali a base di Roland TR-808 e Roland SH-1. Per avere un’idea di ciò basta ascoltare la prima versione di “The Rule To Survive (Looking For Love)” finita nella compilation “The Sound Of Love EP – Released & Unreleased Classics 1983-87” edita dalla Spittle Depandance nel 2012. Per l’incisione definitiva del pezzo andammo con Rubini allo studio T2 di Bologna. Fu proprio lo stesso Rubini a coinvolgere Luca Orioli come tastierista, visto che disponeva di parecchi sintetizzatori e sequencer che avrebbero reso le nostre sonorità meno minimali. Ai tempi Orioli lavorava già con sequencer MIDI, protocollo che per noi invece era un’assoluta novità. Sino a quel momento infatti lavoravamo ancora con CV/gate per controllare i nostri strumenti. Per le parti di basso e percussioni “umane” contattammo due nostri amici di Cervia, Cesare Collina e Massimo Sutera. Quest’ultimo aveva suonato con me in un gruppo formato ai tempi delle scuole medie, quando facevamo persino le serate di liscio negli alberghi, durante l’estate. In seguito è diventato un rinomato batterista professionista. A lavoro ultimato però non fummo soddisfatti del mixaggio fatto al T2 e così ci rivolgemmo al milanese Regson. A quel punto Rubini ci chiese di coinvolgere Tony Carrasco, col quale Davide aveva già collaborato per “Dirty Talk”. Per la realizzazione di “Night Is Made For Love”, invece, Oderso contattò delle coriste. Tra gli strumenti che usammo ricordo il Prophet-5 di Luca Orioli. Effettivamente il brano aveva un’impronta più funk rispetto a quello inciso sul lato opposto, ma secondo me era un carattere distintivo che traspariva un po’ dappertutto nei nostri pezzi, anche in quelli più rigorosamente elettronici. “The Rule To Survive (Looking For Love)” venne licenziato anche all’estero, tra Paesi Bassi, Germania e Stati Uniti. Se ben ricordo vendette 12.000 copie, ma non mi pare che l’etichetta attuò qualche strategia promozionale per raggiungere tale esito. Il follow-up, uscito qualche mese più tardi, era “Stranger In A Strange Land” e riprendeva lo stile del precedente ma questo non bastò a garantirci lo stesso risultato. Le vendite infatti furono un po’ più basse, e in linea generale ogni nuovo disco dei N.O.I.A. vendette sempre un po’ meno del precedente. Tuttavia ricordo “Stranger In A Strange Land” con molto piacere perché quella volta Luca Orioli portò in studio il Bass Line Roland TB-303, strumento che non conoscevamo nonostante fossimo fissati con la Roland. Fu amore a prima vista e lo utilizzammo subito, praticamente in tutto il pezzo. Per la ricerca di un suono più “pesante” invece, doppiammo il rullante della TR-808 con quello di una batteria vera».

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Una foto estratta dal servizio fotografico realizzato nel 1984 per la promozione del singolo “Do You Wanna Dance?” La donna è una modella di cui non sono note le generalità, seduto è Giorgio Giannini, dietro di lui Bruno Magnani e a destra Davide Piatto.

Dopo “Do You Wanna Dance?”, ispirato nella parte rap da “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, nel 1984 i N.O.I.A. incidono sia il Mini-Album “The Sound Of Love”, aperto dal brano omonimo venato ancora di funk e contenente una parodistica citazione vocale di “I Got My Mind Made Made Up” degli Instant Funk, sia il 12″ “True Love”, proiettato su echi moroderiani. Il poco che esce tra 1985 e 1988, appena tre singoli, allontanerà progressivamente la band romagnola dalle atmosfere di partenza. “Try And See” del 1985, l’ultimo su Italian Records, risente in modo evidente del lato più cheesy dell’italo disco che ormai esplode a livello commerciale, “Umbaraumba” del 1987, su Rose Rosse Records, contribuisce ulteriormente a prendere le distanze con una formula synth pop, mentre “Summertime Blues” del 1988, su CBS, cover dell’omonimo di Eddie Cochran e prodotto da Jay Burnett, accantona i suoni elettronici a favore delle chitarre elettriche. L’attenzione di Piatto (che nel contempo inizia l’avventura Rebels Without A Cause con Luca Lonardo, Carlo Lastrucci e Filippo Lucchi, prodotti dal giornalista Claudio Sorge) e Magnani insomma pare spostarsi in direzione di lidi musicali differenti. «Muoverci verso pezzi più “commerciali” fu una scelta indotta un po’ dalla casa discografica ma anche da noi stessi» spiega Magnani. «Non ci sarebbe dispiaciuto guadagnare qualcosa, ma col senno di poi ammetto che quasi sicuramente avremmo incassato di più rimanendo fedeli al sound iniziale e magari proseguendo ad esibirci dal vivo. Le vendite, invece, continuarono a calare e ciò spiega la ragione per cui dedicammo sempre meno tempo ai N.O.I.A. ed alcuni di noi crearono nuovi gruppi».

N.O.I.A. - Unreleased Classics '78-'82

La copertina di “Unreleased Classics ’78-’82”, il disco edito dalla Ersatz Audio che nel 2003 riporta in attività i N.O.I.A. dopo quindici anni di silenzio

Dopo “Summertime Blues”, infatti, dei N.O.I.A. si perdono le tracce. Il silenzio è rotto solo quindici anni più tardi, nel 2003, quando la Ersatz Audio, etichetta fondata e gestita dagli ADULT., pubblica “Unreleased Classics ’78-’82”, una raccolta di inediti rimasti nel cassetto per un arco lunghissimo di tempo. «Praticamente tutta la parte iniziale della nostra produzione, che andava dal 1978 al 1982, non era mai stata pubblicata, ed era davvero molto differente da ciò che invece emerse poi dalla discografia» racconta ancora Magnani. «Con l’Italian Records avevamo sempre pubblicato pezzi nuovi senza mai attingere dall’archivio. A me invece sarebbe piaciuto molto vedere stampate quelle vecchie tracce esattamente com’erano state concepite, utilizzando gli stessi strumenti e il medesimo hardware. Principalmente l’equipment era composto da drum machine Roland CR-78, Boss DR-55 e Korg KR-33, sintetizzatori Roland SH-1 e Korg M500 SP, una chitarra elettrica filtrata da un Electro Harmonix Micro Synth (quest’ultimo citato nel testo di “Korova Milk Bar”, nda) e davvero poco altro. Registrammo e mixammo i pezzi nel nostro studio con l’intento di autoprodurci il disco ma alla fine accantonammo tutto». Quando la Ersatz Audio di Detroit riabilita il nome e la musica dei N.O.I.A., nel progetto figura anche il fratello minore di Davide Piatto, Alessandro, che aggiunge: «Nel 2000 spedii una decina di CD ad altrettante etichette che mi sembravano stilisticamente in linea con quanto avevamo approntato. L’unico a rispondere, ma solo molti mesi dopo, fu Adam Lee Miller degli ADULT., che conosceva già i N.O.I.A. e ci propose subito di pubblicare l’album, ma escludendo dalla tracklist due brani, “Europe”, forse per questioni politiche legate al testo, ed “Italian Robots”. Non esitammo. Tutti i pezzi finiti in “Unreleased Classics ’78-’82”, come diceva Bruno, furono composti prima di firmare il contratto con l’Italian Records. L’unico ad essere stato già pubblicato era “Hunger In The East” che finì, insieme all’esclusa “Europe”, nella compilation “Rocker ’80” edita dalla EMI nel 1980 per l’appunto. Era il premio per aver vinto il 1º Festival Rock Italiano, svoltosi a Roma».

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I N.O.I.A. (da sinistra Jacopo Bianchetti, Bruno Magnani, la ballerina Sara e Davide Piatto) sul palco della prima edizione del Festival Rock, a Roma, tra 1979 e 1980.

Nel 2006, quando l’interesse per la musica del passato continua ad intensificarsi, la Irma Records realizza la raccolta “Confuzed Disco” per celebrare l’epopea dell’Italian Records. Dentro finiscono, ovviamente, pure i N.O.I.A., riportati in superficie anche attraverso nuove versioni commissionate a produttori contemporanei come Fabrizio Mammarella e Franz & Shape che mettono rispettivamente le mani su “Do You Wanna Dance” e “Stranger In A Strange Land”. Sono gli anni in cui, dopo l’esplosione massiva dell’electroclash, cresce l’attenzione per tutto ciò che è retrò o suona intenzionalmente tale. Centinaia di curatori animati dalla voglia di riscoprire (o scoprire per la prima volta) suoni del passato danno avvio alla stagione, tuttora in corso, delle ristampe. Per i N.O.I.A. ciò porta, oltre al citato best of della Spittle Depandance, “A.I.O.N.”, edito nel 2016 da J.A.M. Traxx e fondato su una serie di rework e remix (tra cui quelli di The Hacker ed Hard Ton) di tracce precedentemente su Ersatz Audio. L’attenzione per il passato è continua ed incessante, alimentata da una storia ormai pluriquarantennale che pare aver messo all’angolo la musica contemporanea che vende sempre meno delle ristampe. «Credo che in circolazione ci sia molta musica nuova interessante ma ad essere cambiato (in peggio) è il rapporto col pubblico, e questo disorienta e non incoraggia gli artisti ad esprimere le loro potenzialità, se non replicando qualcosa che abbia già funzionato, alla ricerca di una gratificazione immediata» dice a tal proposito Alessandro Piatto. «In merito alla “Confuzed Disco” invece, non fummo coinvolti se non per una sorta di party di lancio a Bologna. Cercai di mettermi in contatto con l’A&R della Mantra Vibes (Marco ‘Peedoo’ Gallerani, nda) ma non fu interessato a collaborare con noi. In genere tutte le volte che ho proposto a varie label di pubblicare cose nuove non c’è stato alcun interesse, e questo si ripete dal 2000 ad oggi. Probabilmente ciò dipende dal feticismo del passato e dall’idea che i brani di quel periodo siano una sorta di evergreen e non usa e getta come gran parte delle produzioni contemporanee».

The Rule To Survive (31th Anniversary)

La copertina del 12″ pubblicato dalla N.O.I.A. Records che nel 2014 celebra i trentuno anni di “The Rule To Survive” attraverso inedite versioni remix

Nel 2008 nasce la N.O.I.A. Records che, dopo qualche anno trascorso in balia di sole pubblicazioni digitali, si reinventa iniziando un nuovo corso con inedite versioni di “The Rule To Survive”. Per celebrare i trentuno anni dall’uscita, nel 2014 sul mercato giungono i remix di Prins Thomas, Baldelli & Dionigi e Kirk Degiorgio. Seguono una manciata di release di Francesco Farias dei Jestofunk, quelle dei TenGrams (nuovo progetto-tandem dei fratelli Piatto) ed ovviamente dei N.O.I.A. che tornano nel 2018 con “Forbidden Planet” contenente i remix di Francisco ed Ali Renault. «La N.O.I.A. Records, purtroppo, ha subito una serie di diverse problematiche» spiega Piatto. «La prima, in ordine di importanza, è stata causata dalla mia incapacità di renderla “hype” o comunque sufficientemente interessante per conquistare una base di fan che garantisca un minimo di vendite per la gestione ordinaria del catalogo. Dal punto di vista economico, la pubblicazione in vinile è stata piuttosto fallimentare e i rapporti coi distributori si sono rivelati complessi e svantaggiosi. In questo contesto il tempo che riesco a dedicare ad essa è poco e non riuscendo a promuoverla con performance tipo DJ set o live, la label rimane ai margini. Ad oggi comunque sono programmate delle nuove uscite di artisti reclutati recentemente. Usciranno in digitale su Bandcamp e forse qualche vinile di TenGrams. Anche in questo caso, comunque, non mi reputo un buon A&R e fare marketing non è proprio il mio mestiere. Per quanto riguarda invece i nuovi brani dei N.O.I.A., il materiale c’è ma il tempo per finalizzarlo è poco e, per eccesso di autocritica, facciamo fatica a dire “ok, questo è buono, partiamo!”. Personalmente per certi versi sento la mancanza di una figura nella produzione, come era quella di Oderso Rubini negli anni Ottanta. L’ultimo pezzo dei N.O.I.A. è stato “Morning Bells”, una vecchia traccia persa nel tempo realizzata in collaborazione col fantomatico Rubicon, della quale si è ritrovata solo la versione dell’olandese Rude 66. Proprio Rubicon la ha proposta a Timothy J. Fairplay che ha ritenuto fosse idonea per la pubblicazione sulla Crimes Of The Future. Oggi i N.O.I.A. sono quelli di ieri ma con trentacinque anni in più».

Non è mistero che adesso la scena indipendente soffra un periodo di magra forse senza precedenti. Se da un lato un certo mainstream che cavalca la moda dei “DJ star” nuota letteralmente nel denaro, dall’altro piccoli artisti ed altrettanto piccole etichette, legate ancora ad una sorta di artigianato, arrancano non poco. Le piattaforme di streaming come Spotify, a cui alcuni attribuiscono forse immeritatamente il ruolo di “salvatrici della musica” dopo la disintegrazione dei supporti fisici, in realtà sembrano più palliativi, specialmente per coloro che non contano su fanbase di una certa consistenza. Visti i presupposti, è lecito domandarsi se i tempi che verranno riusciranno a creare e forgiare personalità forti almeno quanto quelle delle decadi trascorse. «Alle condizioni attuali credo che quel che è successo nel passato non possa più essere replicato» afferma sentenzioso Alessandro Piatto. «Ciò che succederà in futuro invece è davvero un mistero vista la continua evoluzione del modo di percepire e fruire la musica. Adesso convivono artisti a me sconosciuti, che collezionano milioni di visualizzazioni e streaming, con altri, in teoria molto popolari, che però non riescono a superare poche centinaia di play sul web. Ogni volta che affronto il discorso mi viene puntualmente ricordato che è necessario creare il cosiddetto “engagement”, ossia coltivare relazioni e collaborazioni strategiche. Insomma, un sacco di roba che divide ben poco con la musica e molto col peggio della vecchia industria discografica. Qualche settimana fa, girovagando su YouTube, sono finito su canali di artisti synthwave e retrowave con numerosissime visualizzazioni e musica assolutamente dozzinale seppur molto ben confezionata. Un altro mondo che sembra essere più funzionale rispetto alle trecento copie in vinile che tanti oggi consacrano come successo. Chi ne capisce qualcosa è davvero bravo! Personalmente ho compreso che vale tutto e non ci sono più regole certe. I miei video, ad esempio, non superano le poche centinaia di visualizzazioni nonostante abbia almeno un paio di migliaia di fan sui social. Da qualche parte sbaglio, dove non l’ho ancora capito o forse sì, magari anche troppo».(Giosuè Impellizzeri)

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