Italia, 1986: l’italo disco inizia a mostrare i primi segni di cedimento, almeno a livello creativo. Il successo di Savage, Ryan Paris, Den Harrow, Gazebo, Sandy Marton o P. Lion, giusto per citarne alcuni, galvanizza musicisti, produttori, manager discografici e grossisti, ed alcuni di loro si convincono che basti davvero poco per fare una hit, sbancare le classifiche e diventare milionari. Ma non è affatto così ed infatti esiste un enorme sottobosco “abitato” da produzioni che, per ragioni plurime, sono rimaste lontane dalle luci dei riflettori e sconosciute al grande pubblico e che solo a posteriori hanno suscitato l’attenzione dei collezionisti e dei ricercatori di rarità. Il disco dei Manhattan Project si inserisce proprio in tale contesto.
A creare il progetto, nel periodo della cosiddetta “Milano da bere”, è Riccardo ‘Rikk’ Maggese che oggi racconta: «La mia passione per la musica nacque probabilmente come reazione alla delusione per le aspettative sportive che, già prima dell’adolescenza, vennero incresciosamente disattese a causa delle continue problematiche di salute. Riniti e tonsilliti ricorrenti nonché una tonsillectomia ad appena due anni mi obbligarono ad intraprendere solo sport al chiuso, da svolgere nelle palestre. Mi avvicinai al basket ma la mia altezza mi fermò al minibasket. Per reazione divenni arbitro di quella disciplina ma lasciai perdere dopo essere stato preso in ostaggio e fatto oggetto di stalking durante un allenamento dell’Olimpia Milano nel 1977. All’evento assistette persino la mia fidanzatina di allora. Dopo quell’ennesima delusione atletica mi feci coinvolgere e travolgere da melodie e ritmi, influenzato dal lavoro di tecnico elettronico di mio padre che un giorno mi portò, dalla mitica GBC, un kit di una batteria elettronica. Era qualcosa di galattico e decisamente emozionante per i tempi. Stavano nascendo le prime radio libere e l’ascolto di musica iniziava ad ampliarsi in modo sensibile. Io passavo con disinvoltura dal cantautorato di Battisti, Pooh, Bennato o De Gregori a ciò che sentivo innovativo come Bee Gees, Electric Light Orchestra, Pink Floyd e Jean-Michel Jarre, oltre a tutta la nascente disco. Menzione a parte per i mitici Kraftwerk che mi stupivano ed esaltavano come nessun altro. Gli strumenti con cui amavo circondarmi, sia acustici che elettronici come i primi kit e synth monofonici, in seguito mi spinsero verso l’attività compositiva. Giunsi agli strumenti polifonici da autodidatta (suonavo la batteria, la chitarra da accompagnamento e l’armonica blues) ma con un occhio di riguardo per tutto ciò legato all’innovazione sonora che all’epoca era un autentico turbine inarrestabile. Iniziai a nutrire una venerazione quasi religiosa per le case produttrici giapponesi che spopolavano come Yamaha, Roland, Casio ed Akai, e desideravo capire come veniva concepita e registrata una sessione musicale, che fosse una song o una colonna sonora, approfondendo la conoscenza sugli strumenti utilizzati. Saziai quella grossissima fame di curiosità e ricerca studiando strumenti, effettistiche e metodi di registrazione multitraccia».
Maggese muove il primo passo in discografia nel 1981 quando incide “Radioattività” con la band dei Satan ’81. Il brano punk, edito su 7″ dalla City Record attiva già da circa un ventennio nell’ambito della musica leggera, parla della radioattività come “peste del Duemila”, con liriche tristemente premonitrici (“quando la centrale scoppierà” / “una valanga di radiazioni vi colpirà” / “lentamente si propagherà, ogni forma vivente annienterà” / “centinaia di chilometri quadrati saranno in breve tempo infestati” etc). «Ho sempre vissuto l’espressione sonora come un’innovazione per scardinare le frontiere e gli schemi convenzionali, e il punk e la new wave possedevano tutte le caratteristiche per infrangere modelli musicali barbogi» sostiene Maggese. «Per questa ragione nel 1979 ideai il Satan Group Rock con l’intento di coinvolgere varie espressioni comunicative, dal cinema alla musica passando per grafica e design. Alla fine prevalse risolutamente l’aspetto musicale e canoro con la creazione meno pindarica e più concreta di una band rock adolescenziale formata durante gli anni del liceo, anche se nessuno dei miei compagni di classe di allora (frequentavo lo scientifico Giosuè Carducci, a Milano) ne faceva parte in modo integrale. Di fatto era la manifestazione di un progetto culturale ben più ampio, un’aggregazione che avrebbe dovuto produrre fanzine, documenti, situazioni underground e, ovviamente, un’appendice musicale. E così ecco crearsi gradualmente i Satan ’81 con quel brano citato prima che, immodestamente, definisco tuttora clamoroso ed incredibile. “Radioattività” anticipò profeticamente il disastro di Chernobyl di circa sei anni ma fu sottostimato forse per via della poca influenza che la City Record esercitava sul mercato discografico di allora. Le major spadroneggiavano incontrastate e, al contrario di oggi con internet che offre a chiunque una chance, le occasioni per far ascoltare le proprie cose in giro erano davvero ridotte. Tuttavia “Radioattività” fu un successo su Radio Peter Flowers: raggiungere il secondo posto della classifica di quell’emittente ci fece guadagnare molte interviste e tanti live in tutta la Lombardia. In tempi recenti mi sono giunte richieste del 7″ originale trasmesso ancora da alcune radio».
È la stessa l’etichetta che pubblica i Satan ’81, la City Record di Alessandro Friggieri, a stampare qualche anno più tardi un nuovo disco di Maggese, giunto dopo “California O.K.” di Rich David e “Keep On Dance” di Contact Music coi quali la casa discografica meneghina inizia a bazzicare territori italo disco. Il nome scelto per quella avventura, Manhattan Project, rimanda al programma militare con cui vengono realizzate le prime bombe atomiche durante il secondo conflitto mondiale ma anche all’omonimo film uscito nel 1986 e da noi noto come “Gioco Mortale”. Sul lato a è inciso “That’s Impossible” che ricalca gli stilemi della classica italo disco bilanciando ritmo e melodia, sul b invece “Guinnesmen”, trainata da una vena funky ed un cantato femminile che tradisce, in modo più accentuato rispetto alla precedente, una tara comune a gran parte della dance nostrana di quegli anni, la pronuncia scarsamente anglofona. «Nonostante i Satan ’81 per me rappresentassero una fase ormai superata, la collaborazione con Friggieri non si interruppe» spiega Maggese. «Ai tempi ero totalmente assorbito dallo sviluppo della musica che guardava dritta nella tecnologia, e nelle mie elucubrazioni sonore vi era l’idea di creare un duo d’ispirazione tecno-pop (l’autore adopera intenzionalmente la dicitura “tecno” per non essere confuso con la “techno” che sarebbe giunta da Detroit poco tempo dopo, nda). Ad assicurare la componente pop sarebbe stata una presenza vocale femminile che però non riuscivo a reperire con facilità così i provini li cantai io, in un misto tra Mango e Garbo. Inizialmente la stesura di “That’s Impossible” era più vicina al synth pop con un testo interamente in lingua italiana. Il titolo infatti era “Sembra Impossibile”. Come avvenne qualche anno prima coi Satan ’81, anche in questo caso esisteva un concept di fondo ad alimentare la mia creatività, per l’occasione legato alle imprese umane a cui era davvero impossibile credere, i primati insomma. Ad ispirarmi fu un amico di vecchia data con cui sono ancora in contatto, Antonio ‘Sthal’ Staluppi, conosciuto in una sala prove nel 1979 e col quale condivisi una serata live nel periodo natalizio di quell’anno presso il teatro della parrocchia Sant’Anna, in via Albani, a Milano, coverizzando brani dei Beatles, gruppo di cui lui era ed è tuttora un profondo estimatore. Ai tempi Sthal era uno sportivo sui generis ed incredibile, in grado di marciare per ore ed ore tra Milano, Novara e nel Pavese. Quelle gesta eroiche, che provocarono contrasti all’interno della sua realtà famigliare, per me oltrepassavano la soglia dello sport e così pensai di dedicare una canzone alle imprese impossibili (“That’s Impossible”) ed una agli uomini dei guinness (“Guinnesmen”). Ma non finì lì.
A quei due brani era legato un format televisivo di mia ideazione, incentrato esattamente sul mondo del guinness dei primati, ai tempi praticamente inesplorato se non marginalmente in programmi come Quark con Piero Angela e Jonathan – Dimensione Avventura col compianto Ambrogio Fogar. Io però, più avvezzo agli ambienti discografici che a quelli televisivi e cinematografici, brancolavo letteralmente nel buio. Ero convinto di avere in mano una grande idea ma privo di qualsiasi contatto per realizzarla. Quelle due canzoni, nel mio progetto, dovevano essere le sigle del programma, di apertura e chiusura. Per perfezionarle mi rivolsi ad un maestro di musica che contattò Andrea Majocchi, un grande appassionato di tecno pop che possedeva una corposa strumentazione e che aveva già realizzato un paio di mix (“Firelight” di Ghecko e “Love & War” di 10 To Lunch, nda). Insomma, era la persona giusta per creare professionalmente quelle che sarebbero diventate “That’s Impossible” e “Guinnesmen”, le sigle del format provvisoriamente intitolato Smash. Friggieri era entusiasta di tutto ciò e volle subito prendere parte al progetto dichiarandosi disponibile a stampare il disco. Nel frattempo riuscii ad entrare in contatto con una vocalist, Dorina Salvoldi, che sarebbe stata perfetta anche come immagine del gruppo. Registrammo le tracce al mitico Regson Studio di Milano. Per me era il top, non potevo chiedere di meglio. Nel dicembre del 1985 il primo tassello del format vide finalmente luce. La strumentazione usata era prevalentemente di Majocchi: dalla Yamaha DX7 al Sequential Circuits Prophet-5 passando per la Roland TR-808, un campionatore Akai ed una drum machine Yamaha presa a noleggio. Al Regson c’era il fonico dello studio b, Kevin Harris, un neozelandese che aveva maturato molteplici esperienze internazionali. Tutto filò liscio per la base di “That’s Impossible”, scritta su un nastro Tascam a 24 tracce, ma quando toccò a Dorina iniziarono i dolori. Malgrado l’impegno e le tante prove fatte in precedenza, non riusciva a trovare proprio la tonalità giusta. Mio malgrado invertimmo i ruoli: la parte che avrebbe dovuto interpretare lei la realizzai io, con immensa fatica per il testo in inglese che non avevo studiato (e in soccorso, per fortuna, venne Harris, bilingue) mentre i cori che spettavano a me li fece lei (tutto ciò smentisce completamente i dati riportati da Discogs in seguito a questa discussione che attribuiscono erroneamente la paternità vocale del brano a Steve Eden e Paul James, rispettivamente Stefano Gentili e Paolo Giannini, nda). Non ci aspettavamo un esito simile ma, come mi ripeto da sempre, per far fronte a problematiche inaspettate bisogna ingegnarsi e trovare la soluzione. Riuscimmo a cavarcela tirando fuori due brani che tutti approvarono, Friggieri compreso.
In merito al format televisivo invece, le cose andarono diversamente. Friggieri cercò in tutti i modi di proporlo in Rai facendo leva sulle conoscenze accumulate durante la sua dignitosissima carriera discografica, ma ogni tentativo fu vano. Allora vigeva la più spietata legge partitocratica italica e nelle stanze romane della Rai si poteva accedere solo con grosse spinte politiche. Ricordo bene il viaggio a Roma in compagnia di un collaboratore della City Record, un tal Scardia, che si risolse in una completa disfatta. Dopo la risposta negativa della Rai facemmo altri disperati tentativi e con Riccardo Hugony, mio collaboratore di allora, provammo a proporre l’idea a Telemontecarlo e Polivideo. Contattammo anche Fogar che ci invitò a filmare un’impresa che avrebbe poi sviluppato in un redazionale nel suo programma, cosa che in realtà non fece mai lasciandoci nei garage di Cologno Monzese come dei poveri disperati. Svalutò totalmente l’idea, in modo anche piuttosto sprezzante, affermando che avremmo fatto il botto solo qualora Sthal fosse morto marciando. Era una delle tante logiche vomitevoli delle crescenti tv commerciali che stavano dilagando e spadroneggiando. Dopo quell’incontro mi chiesi se all’inizio delle sue imprese Fogar avesse avuto lo stesso trattamento riservato a noi. Qualche mese più tardi, grazie a Joe Denti, sembrò ci fosse la possibilità di concretizzare l’idea su Rete A nella fascia pomeridiana dedicata ai ragazzi, ma erano necessari gli sponsor che purtroppo non trovammo, io facevo musica e non il piazzista! Quel mio format, esattamente venti anni dopo, è stato realizzato con ottimi risultati da Mediaset. “Lo Show Dei Record” era proprio come lo sognai io, nel 1986. Dopo tutto ciò, parlare di copie vendute del disco diventa puro eufemismo. L’attività promozionale, come una serata organizzata il 24 maggio 1986 presso la videodiscoteca Due Due Due, a Milano, era legata al format tv che però, non sviluppandosi, trascinò il mix verso riscontri medio bassi».
A contraddistinguere il disco dei Manhattan Project è la copertina in tessuto, disponibile in quattro variazioni cromatiche differenti. A disegnarla è Riccardo Naj-Oleari della Naj-Oleari, brand particolarmente noto in quel periodo. Anche in virtù di ciò il 12″ diventa un autentico cimelio sul mercato collezionistico, con quotazioni che ora si aggirano intorno ai 300 €. «La copertina era la ciliegina sulla torta» afferma Maggese. «Dopo aver illustrato l’idea del format, la Naj-Oleari ci diede fiducia e realizzò dei prototipi che abbinammo al disco a cui però Friggieri non diede il giusto peso. Forse sarebbe stato più proficuo contare su una multinazionale come la Emi o la Universal, con maggiori risorse a disposizione. La mia esperienza mi porta ad affermare che per emergere non sia affatto sufficiente avere grandi idee o talento, servono le giuste conoscenze e purtroppo anche gli “intrallazzi”. Il mondo dello spettacolo è stracolmo di situazioni imbarazzanti. C’è chi continua a ripetere che ci voglia tenacia, autostima ed altre sciocchezze simili, pur sapendo che non sia affatto così».
Come anticipato prima, nel corso degli anni il 12″ su City Record si trasforma in un cult ambitissimo per i collezionisti. A ristamparlo nel 2015 è la label francese Vielspaß che commissiona due remix di “That’s Impossible” a Flemming Dalum (intervistato qui) ed Ali Renault. Il disco va a ruba ma in Rete appare più di qualche commento non entusiasta sulla qualità dell’incisione, pare non effettuata dal master originale. «Di quell’uscita ne so davvero poco» dice Maggese. «Diedi semplicemente il nullaosta per la realizzazione delle due nuove versioni di Dalum e Renault che non conoscevo personalmente, erano entrambi in contatto con Majocchi. Non ho mai inviato alcun master raccomandandomi invece che all’uscita seguisse un progetto promozionale adeguato. Alla fine ho capito che a loro interessava semplicemente vendere quelle poche centinaia di mix sfruttando una serata in una discoteca a nord della Francia. Non era ciò che mi aspettavo. Poi ho appreso del sold out del disco, quindi presumo che abbiano raggiunto l’obiettivo che si erano prefissati sin dall’inizio».
A “That’s Impossible / Guinnesmen” non segue più nulla. Manhattan Project si ferma lì, cristallizzato in quel 1986, a causa di un entusiasmo ormai spento dopo la mancata realizzazione del format televisivo incompreso per scarsa lungimiranza. «Se quell’idea fosse andata in porto le circostanze sarebbero cambiate» afferma Maggese. «Di sicuro Dorina non poteva rappresentare il futuro della band ma avremmo trovato comunque il modo per andare avanti. Ultimamente più di qualcuno mi ha chiesto di realizzare nuove produzioni come Manhattan Project. Una di queste proposte, giunta dalla Danimarca, è sfumata pare per via del lavoro della Vielspaß. Un’altra invece, proveniente dalla Finlandia, si è risolta in un nulla di fatto dopo la mia richiesta del codice CAE. Conto comunque di fondare, nel 2021, una nuova etichetta per dare una degna prosecuzione a Manhattan Project, auspicando di recuperare tutti quegli appagamenti mancati nel 1986».
Nel 1990 Maggese ritorna su City Record con l’album intitolato “High Version”, questa volta firmato col suo nome anagrafico. L’LP è un concentrato di retaggi italo disco alternati a deviazioni synth pop e modulazioni downtempo, che ne fanno un possibile lavoro da ristampare e riscoprire in questi anni di continui ripescaggi. «Con “High Version” esordii come sound designer, definizione che più si addice al mio ruolo» spiega a tal proposito Maggese. «Ritengo sia la pietra miliare della mia attività produttiva e ringrazio sempre Friggieri, che in quegli anni mi nominò direttore artistico della sua etichetta seppur senza alcuna retribuzione, per averlo prodotto. La realizzazione avvenne nello studio GM3 di Massimo Magenes. Il brano che apre la tracklist, “Boscima”, credo rimanga un piccolo gioiellino tecno pop degli anni Novanta».
Nel 1989, poco prima di incidere “High Version”, Maggese inventa ed organizza Ventiquattromila Bit, una rassegna musicale rivolta ad artisti che usano il computer per dare corpo alle loro composizioni ed esecuzioni. «Tra le mie molteplici iniziative legate allo sviluppo synth pop della musica, quella del Ventiquattromila Bit resta un’esperienza straordinaria» rammenta il musicista. «Ad aiutarmi, con non poche difficoltà, fu il CRAL del Comune di Milano. Su un palco del centro culturale Rosetum portai per la prima volta band emergenti che utilizzavano esclusivamente computer e sequencer, cosa in quel periodo veramente strabiliante. Purtroppo nessuno dei partecipanti ebbe un riscontro commerciale. Tra i tanti rammento i Fog Vision che si distinsero in modo esemplare ma di cui non si ha più traccia. Il mio eccessivo mecenatismo mi spinse a proporre solo ed unicamente gruppi sconosciuti e ciò, forse, non giovò in termini pubblicitari, ma come prerogativa imposi che tutti venissero remunerati per dare onore al merito. Da quell’evento sono trascorsi oltre trent’anni e l’evoluzione musicale che sembrava inarrestabile ad un certo punto si è fermata. Resta da stabilire quando e dove, e la recente scomparsa di Florian Schneider dei Kraftwerk potrebbe offrire una precisa indicazione. La band tedesca è stata un punto di partenza indiscutibile, a prescindere dalla storiografia della musica futurista precedente. Tuttavia spero che il futuro possa riservarci delle sorprese. Facendo leva sulla mia esperienza, vorrei offrire ancora qualcosa alla musica. In cantiere, oltre al rilancio di Manhattan Project, ho pure alcuni concept album che pubblicherò in futuro sulla Italian Way Music dell’amico John Toso». (Giosuè Impellizzeri)
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