La discollezione di Corrado Monti

02 - Monti two
Uno sguardo d’insieme sulla collezione di dischi di Corrado Monti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Risale al 1978 ed è un 45 giri di Rino Gaetano, “Gianna”, brano portato quell’anno al Festival Di Sanremo. Il primo LP invece è stato “Uprising” del mio mito Bob Marley, mentre il primo disco mix “Sweet Little Woman” di Joe Cocker, ascoltato da una cassetta del compianto Riccardo Cioni che mi faceva venire puntualmente la pelle d’oca.

L’ultimo invece?
Uno degli svariati 12″ degli Africanism usciti su Yellow Productions nei primi anni Duemila. Era il periodo in cui iniziai a scaricare musica dal web che poi masterizzavo su CD da infilare nei Pioneer CDJ-100S.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Circa cinquemila.

Dove è collocata e come è organizzata?
Si trova nella mia casa ma ha subito almeno quattro traslochi e qualche vendita, per cui non posso certamente affermare di averla trattata benissimo. Nei primi anni Novanta inoltre, quando mi dedicai ad altri generi musicali, vendetti parte dei dischi del decennio precedente perché ipotizzai che si sarebbero trasformati solo in zavorra inutile. Per quanto riguarda l’indicizzazione, per gli anni Ottanta ho optato per l’ordine alfabetico, sia per i mix che gli LP. Tutto il materiale che va dal 1990 in poi invece è disposto per anno.

Segui particolari accorgimenti per la conservazione?
Non ho mai eseguito lavaggi o usato copertine plastificate, infatti quando mi ritrovo ad ascoltarne alcuni è un dramma, tra scricchiolii e salti della puntina. I miei dischi erano paragonabili ad “attrezzi da lavoro”, l’uso che ne facevo era intenso tra serate doppie/triple ed after hour. A volte, per ovviare a questi problemi tecnici, ci passo sopra un panno imbevuto di alcool che, evaporando, non lascia residui. Probabilmente è giunta l’ora di acquistare una delle tante macchine lavadischi disponibili sul mercato.

Ti hanno mai rubato un disco?
Fortunatamente non ho mai vissuto il furto di dischi ma è capitato di averne prestati alcuni e poi di essermene dimenticato di farmeli restituire, ma forse non erano titoli a cui tenevo particolarmente. Di certi invece, come “The House Of God” di D.H.S., ne ho due copie probabilmente perché le prime si erano irreparabilmente rigate.

03 - i dischi di Marley
Alcuni LP di Bob Marley presenti nella collezione di Monti

C’è un disco a cui tieni di più?
Indistintamente a tutti quelli di Bob Marley, perché il reggae mi scorre delle vene, ma anche agli album di gruppi come Deep Purple, The Doors, Pink Floyd e Police.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Mi piacerebbe possedere “Murder Rap Trap” dei Culture Club in formato 12″ ma anche altre tracce che ascoltavo in vecchie cassette “afro” di fine anni Settanta/inizio Ottanta di cui però non sono mai riuscito a scoprire né il titolo né tantomeno gli autori. Neanche Shazam, in tempi recenti, è stato capace di aiutarmi nell’ardua identificazione. Uno di quelli che ho ricercato ed acquistato invece è “Up All Night” di Claudja Barry, del 1982. Come accennavo prima, ho venduto alcuni dischi che consideravo ormai inutili ma a posteriori è emerso qualche rimorso, come per “Strange” di Interfront.

Quello che regaleresti volentieri?
Nessuno direi, a meno che il riascolto dovesse far riaffiorare qualcosa davvero “indigeribile”.

04 - copertina più bella
“The Bass EP”, il disco di Corrado Monti edito dalla Sushi nel 1999

Quello con la copertina più bella?
Non ho mai comprato dischi per la copertina: seppur questa rappresentasse sicuramente uno stimolo maggiore per l’occhio, alla fine ho sempre lasciato decidere l’orecchio. Le copertine dei dischi di Fausto Papetti, ad esempio, erano particolarmente attraenti perché puntualmente dominate da bellissime donne poco vestite, ma non ne ho mai acquistato nessuno. Trovo bellissimo il retro di “Kaya” di Bob Marley & The Wailers e citerei anche quella del mio “The Bass EP”, pubblicato dalla Sushi nel 1999, che scelsi personalmente da un disegno.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato la carriera da DJ, nel 1982?
Ero cliente assiduo di Magic Sound, un piccolissimo negozio a Pontedera: a differenza di un altro più grande che vendeva dischi patinati ma solo di musica commerciale, quel microscopico punto vendita, forse di appena venti m², era specializzato in prodotti più ricercati tra cui dischi mix destinati ai DJ che, ai tempi, erano decisamente meno di oggi. A volte andavo a Firenze da Disco Mastelloni (gestito dal compianto Roberto Bianchi intervistato in Decadance Extra, nda) o alla Galleria Del Disco. Spesso ordinavo dischi sentiti attraverso qualche cassetta o in programmi radiofonici del citato Cioni che fu il mio ispiratore, almeno sino al 1983/1984. Poi, a partire dal 1987/1988, con l’avvento della house music, cominciai a fare acquisti da Disco Più di Rimini facilitato dai preascolti incisi su cassetta: era bellissimo aspettare il pacco con la cassettina per ascoltare le nuove uscite! Negli anni Novanta, infine, ho fatto qualche puntatina al Black Market Records di Londra.

Che tipo di musica proponevi negli anni Ottanta, prima della nascita di house e techno?
Di alternativo, per noi DJ, c’erano la new wave e la cosiddetta afro, filoni però relegati a piccoli spazi all’interno di una serata. Talvolta erano gli stessi clienti a chiedere determinati titoli che, se non avevo in valigetta, cercavo ed eventualmente acquistavo qualora fossero stati di mio gradimento.

L’avvento di house e techno, in seguito, mutò in qualche modo il pubblico delle discoteche?
Il pubblico si divise presto in base alle proprie preferenze: da un lato chi cercava DJ capaci di proporre musica non trasmessa dalle radio, dall’altro chi invece si accontentava dei DJ “da zibaldone”, che mettevano le hit del momento senza particolari doti tecniche e tantomeno legate alla selezione. Fu allora che, a mio avviso, l’attività del disc jockey conobbe un’ulteriore evoluzione che passò dal semplice mettere a tempo due dischi ad una figura più artistica fatta di gusto musicale e sensibilità. È troppo facile farsi apprezzare dal pubblico proponendo solo successi o, al giorno d’oggi, fare i fenomeni con set assemblati in modo perfetto grazie alla tecnologia.

01 - Monti one
Un recente scatto di Corrado Monti insieme alla sua collezione

In una breve intervista pubblicata a marzo 1997 dalla rivista Tutto Discoteca dichiari di aver raggiunto la popolarità al Concorde di Pistoia, «arrivando al punto di realizzare poster e cartoline come un autentico divo». Ritieni che, sulle lunghe distanze, la figura del “DJ superstar” si sia rivelata un’arma a doppio taglio perché ha giocato a svantaggio delle peculiarità un tempo intrinseche al DJing stesso?
Alla fine è il mercato a decidere. Un DJ può diventare superstar grazie al grande apprezzamento del pubblico, perché dispone di mezzi e conoscenze giuste o se sa vendersi bene. Io ho vissuto un buon periodo culminato, così come raccontavo in quell’intervista di ormai venticinque anni fa, da poster e cartoline, e in virtù di ciò non me la sento di giudicare. Per un certo periodo sono stato considerato un DJ di massa, in grado di riempire le piazze, ma non essendo un animatore non ho avuto vita lunga in tal senso. Non potevo assolutamente competere coi DJ-animatori del genere pop, dal canto mio davo più peso alla tecnica e alla scelta musicale e quando arrivarono nuovi generi mi sentii decisamente più a mio agio. La nascita della figura del vocalist poi mi esonerò dal parlare al microfono ma nel contempo mi fece uscire dalla dimensione del “DJ star” che firmava autografi, cosa che avveniva specialmente nel periodo in cui suonavo al Babylon di Capannoli e mettevo musica a Radio Valdera, ascoltatissima in Toscana. Spesso erano addirittura le mamme a venire sui palchi delle feste in piazza chiedendo il poster per le figlie ed io mi imbarazzavo, forse più di loro. C’è un aneddoto che vorrei raccontare per rendere ancora meglio l’idea di quanto fossi diventato popolare: era il periodo pasquale in cui i preti facevano il giro delle case per le benedizioni. Il parroco venne anche da me e, finito il rito, mi disse: «ma io ti conosco!». Gli risposi che mi sembrava strano, in quanto erano già diversi anni che non frequentavo la chiesa o gli oratori, ma a quel punto mi interruppe: «no no, ti conosco perché nelle camere delle ragazzine al posto dei crocifissi è appeso il tuo poster!».

Hai lavorato in centinaia di discoteche dello Stivale, dall’Insomnia al Covo Di Nord Est, dal Dadarà all’Illiria passando per l’Underground City, La Villa, il Madame Claude, il Domina, il Kama Factory, il Titanic, il Palace e il Mithos, giusto per citarne alcune, nonché in eventi simbolo del clubbing nostrano come Exogroove e Syncopate. Cosa resta oggi di quell’universo multicolore e multisuono? Perché il nuovo millennio ha visto il progressivo decadimento delle discoteche (soprattutto quelle più grandi) nonostante la musica elettronica sia entrata praticamente in ogni ambito?
Non saprei rispondere adeguatamente, sto cercando di rientrare nel giro e la pandemia mi ha impedito, nell’ultimo biennio, di riaffacciarmi al nuovo universo dei locali italiani. Tanti colleghi sostengono che ormai tutto è cambiato ma sono del parere che quell’euforia tipica degli anni Novanta iniziò a svanire già nei primi anni Duemila, non è quindi un fenomeno regressivo iniziato recentemente.

05 - dischi memorabilia
Il “disco trapano”, “Children” di Robert Miles e “Are You Insible” di Amazone

Scegli tre dischi che riportano la tua memoria ad altrettanti locali in cui hai suonato, spiegandone le ragioni.
Il primo era stampato su etichetta nera e vinile bianco. Anche la copertina era priva di qualsiasi riferimento. Quando lo mettevo all’Insomnia di Ponsacco venivano spesso in consolle per capire cosa fosse (“We Have Arrived” di Mescalinum United, Planet Core Productions, 1991, nda). In verità non era niente di così speciale, solo un rumore con cassa techno sotto. Lo ribattezzai “disco trapano” perché il noise sviluppato era davvero simile a quello di un trapano in funzione;
Il secondo è “Are You Invisible” di Amazone, uscito su Nova Zembla nel 1994. Fu il primo pezzo che misi al Kama Kama e quasi tremavo per l’emozione;
Il terzo è “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda): forse fui tra i primi a suonarlo e lo mettevo così spesso al punto che tanti iniziarono a pensare che lo avessi fatto io. Una volta un tizio mi offrì da bere al bar (forse al Madame Claude in Piazza San Babila, a Milano) perché convinto che quel pezzo fosse il mio! Per non deluderlo non gli rivelai la verità ma era talmente su di giri che forse non se lo sarebbe neanche ricordato.

Hai dato avvio alla tua carriera da produttore discografico nel 1992 con “God” di Cody J., sulla Luxus Records, che prima rimaneggiava “The House Of God” di D.H.S. sul minimalismo di una Casio VL-Tone VL-1 (“God”), poi scombinava l’hoover sound di “Dominator” degli Human Resource (“Loose Controll”) ed infine, imprevedibilmente, virava verso paradisiache soluzioni house venate di jazz in “All Right”. Cosa ricordi di questo disco?
Essendo trascorsi ormai trent’anni le memorie sono davvero vaghe. Rammento di essere andato nello studio livornese di Diego Persi Paoli e Luigi Agostini in cui c’erano un campionatore, una tastiera, un computer e un masterizzatore CD della Marantz, forse la “macchina” più all’avanguardia tra tutte. In buona sostanza il disco era frutto di un puzzle di campionamenti da collegare e mischiare, sia per “God” che “Loose Controll”. Persi Paoli era un musicista e quindi, di comune accordo, decidemmo di fare un pezzo suonato dal vivo senza uso del campionatore allo scopo di dare un po’ di “anima” al tutto con un tocco umano, e così nacque “All Right”. Tutte le tracce comunque furono realizzate a mo’ di prove, non pensavo che qualche etichetta le avrebbe potute stampate sul serio. Fu una sorpresa decisamente inaspettata e la presi per tale, difatti con una copia realizzai un orologio da parete.

06 - le produzioni discografiche
Corrado Monti e le sue produzioni discografiche uscite negli anni Novanta

Nel corso degli anni Novanta intensifichi l’attività da produttore incidendo per etichette come Acid Milano, S.O.B., Tuscania Movement, Sushi (una delle label dell’American Records di cui parliamo qui) e Tabloid Trance, oltre a remixare “Everybody” di Ensaime per la Signal del gruppo Media Records. Consideri l’attività discografica un’appendice di quella da DJ? Sono due ruoli che possono viaggiare in parallelo oppure bisognerebbe fare un distinguo netto, perché saper far ballare il pubblico non equivale ad essere un asso in studio e viceversa?
Sono sincero: io e la tecnologia abitiamo da sempre su mondi differenti. I pezzi del mio repertorio nacquero da mie idee ma vennero sviluppati, di volta in volta, da chi sapeva usare le macchine in studio (come spiegato in questo ampio approfondimento, nda). Ritengo comunque che il DJing e l’attività discografica possano procedere di pari passo, non a caso ci sono personaggi diventati DJ solo perché hanno inciso produzioni importanti e, al contrario, ottimi DJ che invece hanno inciso pochissimo o proprio nulla. Adesso, per chi è sconosciuto e non ha alle spalle un background solido o un locale-vetrina, forse quello di buttarsi a capofitto nel mondo delle produzioni è l’unico modo per tentare di emergere dall’anonimato.

Quanto contava, ai tempi, affiancare al DJing l’attività in studio di registrazione? Essere ingaggiato da etichette discografiche di successo poteva fungere da volano per la propria carriera?
Certamente. Incidere un disco che superasse un certo numero di copie vendute dava senza ombra di dubbio uno slancio alla carriera e spesso riusciva persino ad aprire le porte dell’estero.

The Moab
Il disco di The Moab edito da Looking Forward nel ’93

Nel 1993, per la Looking Forward del gruppo LED Records guidato da Luigi Stanga intervistato qui, realizzi “Overtribe” di The Moab in coppia con Joy Kitikonti. Secondo i crediti, il concept fu di Marco Mottoi, a firmarlo per la SIAE invece fu Francesco Farfa. Fu quindi un lavoro di gruppo?
Il “conceived” riportato sul centrino fu oggetto di un qui pro quo: il disco avrebbe dovuto raccogliere anche una traccia tribale di un mio carissimo amico sardo, Marco Mottoi per l’appunto, ma alla fine quel pezzo fu escluso dalla stampa. Poiché le grafiche erano state già approntate, fu deciso di lasciarle così. Farfa (intervistato qui, nda) invece firmò i pezzi in SIAE perché, banalmente, né io né tantomeno Joy e Marco eravamo iscritti.

L’anno seguente, sempre con Kitikonti intervistato qui, remixi “I’m In Heaven” di Candice destinato ancora alla Looking Forward. Ci sono brani sui quali ti sarebbe piaciuto mettere le mani o produrre in quel periodo?
Non ho dubbi, in quei memorabili anni mi sarebbe piaciuto essere l’artefice di “Children” di Robert Miles, un successo planetario.

Hai mai remixato o composto musica con l’unico fine di proporla nelle tue serate senza pubblicarla in modo ufficiale?
Sì, seppur abbia iniziato piuttosto in ritardo rispetto ad altri colleghi, intorno ai primi anni Duemila quando andai a vivere in Sardegna e l’amico Marco Mottoi installò Reason sul mio PC. Con quel software realizzai qualche demo che poi suonai durante le serate.

L’ultimo tassello della tua carriera discografica risale al 2002, anno in cui la Presslab Records di Omar Neri pubblica “She Loves Sunshine” di Moody Mas. Hai accantonato l’attività in studio per qualche particolare ragione?
Fondamentalmente mollai perché mi trasferii in Sardegna, intenzionato a rimanerci per il resto della vita. Poi le vicissitudini mi hanno riportato in Toscana ma ormai avevo perso i contatti con amici e studi di registrazione. In seguito la morte di mia mamma e la nascita di mio figlio mi allontanarono del tutto dal mondo delle produzioni, volevo dedicarmi solo alla famiglia. Colgo però l’occasione per annunciare un possibile ritorno discografico in un futuro non lontano.

Escludendo il profilo tecnico soggetto ad ovvi upgrade, quanto e come è cambiato il DJing negli ultimi due decenni? Te la senti di fare previsioni sul prossimo futuro?
Io vengo dalla generazione che ha visto nascere i giradischi con la regolazione dei giri, quando iniziai avevo due Lenco con la rotella. Poi, per due decenni, non cambiò quasi nulla, sino all’avvento dei CDJ, seguiti dal “finto vinile” collegato al PC e dagli MP3. È stato tutto talmente veloce che non sono stato in grado di stare al passo coi tempi e sono rimasto al primo scalino, quello dei CDJ. Non nego che andare a suonare con una chiavetta USB sia decisamente meno faticoso e più pratico rispetto agli ingombranti e pesanti flight case ma in questo quadro manca tutta la poesia e il fascino che avevano i dischi, insieme alla memoria fotografica legata alla copertina o all’etichetta centrale. Adesso si fa davvero fatica a ricordarsi titoli ed autori, escono migliaia di tracce ogni settimana e fare ricerche è oggettivamente assai complicato. Futuro? Visti i tempi che viviamo spero solo ci sia la salute.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato.

The Police - Reggatta De BlancThe Police – Reggatta De Blanc
Un LP del 1979 che include vari brani di reggae bianco. Tra i miei preferiti “The Bed’s Too Big Without You”, l’arcinota “Message In A Bottle” e “Walking On The Moon” trainata da quel bassone ed atmosfere dark, un pezzo che mi faceva venire i brividi e continua a farmi impazzire ancora adesso.

Sugarhill Gang - Rapper's DelightSugarhill Gang – Rapper’s Delight
Ancora un pezzo risalente alla fine degli anni Settanta. “Rapper’s Delight” è stato il 45 giri che accese in me la passione per l’hip hop che ascolto regolarmente ancora oggi. Ai tempi del liceo facevo francese così cercai qualche amico che, studiando invece la lingua inglese, potesse scrivermi il testo. Lo imparai a memoria senza conoscerne il significato, tranne qualche parola. Quando lo mettevo in discoteca spesso mi armavo di microfono e lo rappavo dal vivo. Nonostante siano trascorsi più di quarant’anni me lo ricordo ancora.

Pink Floyd - The WallPink Floyd – The Wall
Conoscevo già i dischi precedenti della band ma questo è irresistibile. Quando capita di ascoltarlo mi viene la pelle d’oca e certamente non a caso ne possiedo due copie. Rimasi affascinato dal fatto che tutti i brani della tracklist fossero legati tra loro con varie storie all’interno, come un’unica traccia. All’epoca vidi anche il film (“The Wall”, diretto nel 1982 da Alan Parker, nda) ed infatti appena arrivò eMule, una ventina di anni fa circa, uno dei primi file che scaricai fu proprio quello. Possiedo anche il 7″ di “Another Brick In The Wall” che suonavo in discoteca negli anni Ottanta perché in quella versione partiva con la cassa, soprattutto a fine serata nel cosiddetto “momento revival”, e con quello non rischiavo mai di deludere il pubblico. Mi piace tutto di quel disco, il basso, la chitarra, il cantato, i cori… e poi inevitabilmente nella mia memoria riappaiono le scene del film.

Tangerine Dream - ExitTangerine Dream – Exit
Grazie ai Tangerine Dream, nei primi anni Ottanta, partì il mio amore per la musica elettronica, spronato tanto da melodie ed armonie quanto dai suoni spaziali. “Exit” fu il primo LP che comprai della band fondata da Edgar Froese, Conrad Schnitzler e Klaus Schulze. Alcuni brani racchiusi all’interno, come “Choronzon” e l’omonimo “Exit”, li mettevo quando suonavo il sabato pomeriggio al Paco ma sul finire della serata, per i pochi afecionados ed amanti della cosiddetta “afro”. Curiosità: ad aprire il disco era la traccia intitolata “Kiew Mission” che sembra scritta oggi. La citazione dei vari continenti nasceva per scongiurare la minaccia nucleare che si temeva durante la Guerra Fredda. Gli stessi timori continuiamo a provarli ancora adesso, purtroppo.

Yellowman - Nobody Move Nobody Get HurtYellowman – Nobody Move Nobody Get Hurt
Un LP che mi fece scoprire ed appassionare al raggamuffin e che ho cercato a lungo dopo aver ascoltato alcune tracce di esso in una cassetta afro, probabilmente di TBC. In seguito ho ampliato la conoscenza ed ho acquistato altri album del giamaicano Winston Foster alias Yellowman che si prestavano perfettamente al DJing perché essendo incisi a 33 giri potevano essere suonati a 45. Aumentandone la velocità, i pezzi risultavano più accattivanti e funzionavano meglio in pista.

The Cure - Standing On A BeachThe Cure – Standing On A Beach
Uscita nel 1986, questa è una raccolta dei singoli più venduti durante la prima decade della carriera dei Cure. Menzione particolare per “A Forest”, uno dei miei brani preferiti da sempre, che peraltro mi ha ispirato nella produzione di una traccia contenuta nel mio “Triaxis” su Acid Milano ossia la Nocturnal Vibe In After Version. I Cure rientravano nella rosa di quelle band rock, new wave e punk, come Cult, Siouxsie & The Banshees, Smiths, U2 o Clash, a cui ricorrevo a fine serata per far pogare il pubblico, specialmente quello composto dai più scalmanati. La pista si apriva, la gente si metteva in cerchio ed apparivano i dark seguiti dai punk, ed era il finimondo.

Bruce & Bongo - GeilBruce & Bongo ‎- Geil
Un mix che comprai quasi per scommessa dopo uno scherzoso battibecco nato nel sopraccitato Magic Sound di Pontedera con un altro DJ e i titolari dello stesso negozio che ne dicevano peste e corna. Non che a me piacesse così tanto ma ero convinto che avrebbe funzionato alla grande. Alla fine la pista mi ha dato ragione e la stessa cosa avvenne anche per un singolo di Spagna, forse “Easy Lady”. Nessuno dei due ha conquistato il mio gusto personale ma non nego che servivano entrambi per riempire la pista.

Frankie Knuckles - Your LoveFrankie Knuckles – Your Love
Mi risulta difficile non citare Knuckles con uno dei brani che hanno fatto parte della mia carriera da DJ. “Your Love” mi piaceva perché era trasversale tra house ed elettronica, e fu il disco che usavo maggiormente per iniziare la serata dopo il preascolto. Da lì in poi partivo con l’house ma anche con la new beat e le prime cose techno che arrivavano in Europa. Mi è sempre piaciuto mescolare i vari generi, chiaramente lì dove la situazione lo permetteva, ed infatti nel corso degli anni Novanta amavo propormi sia in serate house che techno. Questo giovò non poco alle mie finanze, visto che non relegarmi esclusivamente ad un filone musicale mi diede la possibilità di moltiplicare il numero delle serate mensili.

Jaydee - Plastic DreamsJaydee – Plastic Dreams
Un altro disco che ho sfruttato davvero tanto è stato “Plastic Dreams” (di cui parliamo qui, nda). Lo amavo per le atmosfere che riusciva a creare e forse, inconsciamente, anche perché la tastiera suonata in quel modo mi ricordava il tocco di Ray Manzarek dei Doors, altra band a me particolarmente cara, col suo mitico Vox Continental.

Massive Attack - ProtectionMassive Attack ‎- Protection
Intorno alla metà degli anni Novanta si affacciò un nuovo genere musicale che mi investì come un tir in discesa senza freni, il trip hop. Rimasi ammaliato dai Portishead e da Tricky ma a stregarmi letteralmente furono i Massive Attack, prima con “Protection” e poi con “Mezzanine”. Quando abitavo a Milano andai ad un loro concerto che è rimasto indelebilmente impresso nella mia memoria. Da allora mi hanno accompagnato nei pre e nei post serate, la loro musica mi svuotava la mente e mi rilassava le orecchie. Da “Protection” e “Mezzanine”, tra l’altro, ho preso alcuni spunti che ho inserito in un paio di tracce del mio “The Bass EP”: campionai “Weather Storm” e “Dissolved Girl” rispettivamente per “Mental Bass” e “Massive Bass”.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di Alessio Bertallot

1) Una parte della raccolta di Bertallot
Uno scorcio della raccolta di dischi di Alessio Bertallot

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo “The Freewheelin’ Bob Dylan”, un LP che ha la mia età. Lo consumai a furia di sentirlo e risentirlo, seduto davanti alle casse dello stereo a leggere e ricantare i testi delle canzoni. Le so tutte a memoria ancora adesso. Anni fa, quando visitai New York, andai in Jones Street lì dove Dylan appare fotografato in copertina, abbracciato sorridente alla sua fidanzata di allora, Suze. La strada era molto cambiata e non si vedeva un fiocco di neve. Lì vicino il cantautore prendeva in fitto un appartamento, un basement. Se ricordo bene, ora c’è un sexy shop. Credo sia stata l’unica volta che abbia fatto un “pellegrinaggio” e per un po’ mi ha divertito.

L’ultimo invece?
L’hai voluto tu: “Coro No. 14 – Venid A Ver La Sangre”, “Coro No. 19, – It Is So Nice” e “Coro No. 20 – Your Eyes Are Red… El Día Pálido Se Asoma”. Sono tre parti di “Coro / Cries Of London” di Luciano Berio che mi servono per uno spettacolo teatrale che dovrei portare in scena insieme a Lucilla Giagnoni in cui l’arte del DJ si unirà al testo dell’Inferno di Dante. Si chiamerà “Disco Inferno”. Uso il condizionale perché, come tutti sanno, l’arte, il teatro, lo spettacolo e la musica sono stati definiti “non essenziali” quindi anche sotto questo punto di vista l’Italia è un Paese morto e non so cosa troveremo se un giorno usciremo dalla condizione di emergenza in cui ci troviamo ora.

Quanti dischi possiedi? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essi?
Per rispondere alla prima domanda ho provato ad ipotizzare una specie di metodo per la parte del materiale fisico, calcolando il volume di spazio occupato da vinili e CD in casa e dividendolo per il volume medio di un singolo disco e CD. In tutto credo di avere dai 23.000 ai 25.000 dischi, tra LP, EP e singoli. Altrettanti sono stati regalati o buttati via perché inviati da promoter, uffici stampa o musicisti ma senza che fossero nella mia “cup of tea”. Altrettanto difficile capire quanto abbia speso per metter su quella che non ritengo propriamente una collezione (perché non sono un collezionista) bensì un’attrezzatura di lavoro. Se escludo le spese per i collaboratori che ho retribuito e quelle dei viaggi fatti, credo di aggirarmi intorno ai 70.000 euro. Per quanto riguarda i file invece, ne ho più di 15.000.

Come è organizzata la tua raccolta? Usi un metodo per ordinarla?
Hai presente il deposito di Zio Paperone? È tutto ammassato ma so come muovermi, analogamente ad Uncle Scrooge che quando si tuffa riconosce ogni singola moneta e ricorda la storia che c’è dietro. Per un certo periodo ho avuto una fidanzata con la pazienza dei musicisti classici che ha provato pietà per me ed ha sistemato tutti i CD in ordine alfabetico e da allora non li tocco più. Per non turbare quell’ordine miracoloso cerco le stesse cose sulle piattaforme di streaming.

2) ordine raccolta
Uno scatto che immortala altre parti della raccolta di Bertallot

Segui particolari procedure per la conservazione?
Una volta ho spolverato gli scaffali delle librerie destinate ai dischi ma avevo fatto un trasloco e nel caos generale mi sembrò una cosa carina da fare. Alcuni dischi hanno avuto un’esistenza molto vissuta: portati in discoteca in valigie che tornavano a casa intossicate di fumo di sigaretta ed altro (io non fumo e non mi drogo), copertine annegate nei mojito rovesciati in consolle, esposti alla pioggia, caduti nel fango alle cinque di mattina davanti al baule dell’auto, senza più copertine perché perse nel caos di un cambio in consolle, frantumati dalla gentilezza degli operatori di carico del bagaglio di stiva (li ho visti coi miei occhi dal finestrino dell’aereo gettare le mie valigie appositamente in alto per farle ruotare in aria prima che si abbattessero sul nastro trasportatore!). Non tengo molto ai dischi, io amo la musica.

Hai mai subito il furto di un disco?
Alitalia perse, alle quattro del pomeriggio, un’intera valigia di dischi, quella che mi serviva alle undici della sera per salire in consolle ad un festival all’Eur, a Roma. È incredibile come un viaggio di una banalità sconcertante, ovvero andare da Milano a Roma, possa diventare un’odissea per protocollo. Si fanno infinite code per verificare l’attendibilità dei passeggeri quando in Italia gli unici attentati ai mezzi di trasporto sono stati compiuti dalle cosiddette frange deviate dei servizi segreti. Per i passeggeri sarebbe più logico fare le code per verificare l’attendibilità di chi li vorrebbe controllare con le relative inefficienze nelle procedure di carico e scarico. Quella volta tornai in aeroporto perché fortunatamente recuperarono la valigia e la misero sull’ultimo aereo della sera. Arrivai in consolle un minuto dopo l’orario stabilito col primo disco già in mano.

3) il tarocco di Aeroplanitaliani
Il confronto tra la copia originale e quella falsificata di “Sei Felice?”, secondo album degli Aeroplanitaliani edito nel 2005

Qual è il titolo a cui tieni di più?
La copia tarocca su CD del secondo album del mio gruppo, gli Aeroplanitaliani, che acquistai dopo una lunga trattativa al tavolino del bar dal marocchino, credo originario proprio del Marocco, che lo “spacciava” per strada. Ero con amici e i soci del gruppo e il ragazzo si ostinava a non riconoscere che quello ritratto sulla copertina falsificata fossi proprio io. Nell’ilarità alcolica generale, iniziai la contrattazione al contrario e alla fine glielo pagai come una copia originale. Se ne andò coi soldi barcollando dalla perplessità. Lo conservo ancora adesso perché ritengo che quando qualcuno ti falsifica vuol dire che sei diventato famoso. Provai a condividere questo pensiero con la nostra discografica, Caterina Caselli, ma lei non ci trovò nulla di ilare in quel falso della sua produzione.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che non esiteresti a regalare?
Non riesco a trovare nulla del genere. In realtà tutti dischi che ho comprato, e quindi anche quelli brutti, li ho acquistati per documentazione, quindi non avevo particolari aspettative. Un disco orrendo che ho preso recentemente è “Kick I” di Arca. Non l’ho neanche classificato per delicatezza nei confronti degli altri, ma non sarei mai tanto crudele da regalare un disco così a nessuno.

Quello che cerchi da anni e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Devo ammettere che non mi è mai successo di rincorrere dischi, non nutro quel tipo di feticismo. Se cerco un pezzo e lo trovo su Spotify, mi sta benissimo. Al massimo pompo il volume per esorcizzare la pessima qualità e compressione che hanno i brani presenti sulla maggior parte delle piattaforme di streaming. Mi sono passati fra le mani, nella mente e nel cuore talmente tanti dischi che ritorno a dire: non mi interessano i dischi ma la musica.

4) La copertina di Wish You Were Here
La copertina di “Wish You Were Here” dei Pink Floyd, 1975. Il design è del team Hipgnosis

Quello con la copertina più intrigante?
La copertina esterna ma soprattutto quella interna di “Wish You Were Here” dei Pink Floyd. Fu, credo, il mio primo contatto col surrealismo. Solo molti anni dopo scoprii che l’assurdo lago immortalato esiste davvero, il Mono Lake in California.

A quali negozi di dischi leghi maggiormente i tuoi ricordi?
Tutto il quartiere di Soho, a Londra, era pieno di negozi di dischi che frequentavo. Molti tra quelli erano i primi a smerciare le white label che anticipavano successi e tendenze, dischi senza neanche copertina con alcuni crediti scritti col pennarello. In D’Arblay Street c’era Black Market dove, al piano di sotto, Nicky teneva il volume della drum n bass talmente alto da non poter neanche parlare e quindi eri costretto a spiegarti a gesti. Lui ti faceva sentire un disco e se dalla faccia capiva che non ti interessava, ti metteva la mano davanti e la rovesciava come a dire «sentiamo l’altro lato?». In fondo alla stanza solitamente si raggruppavano i ragazzi che non avevano soldi per comprare dischi e si accontentavano di fare da pubblico ai DJ intenti a fare acquisti. In quel modo parassitavano gli ascolti. Chissà se tra loro c’era qualcuno che poi è diventato produttore di qualche successo.

Nelle decadi passate quanto denaro spendevi al mese in musica? La tua professione da DJ e conduttore radiofonico ti ha mai garantito particolari privilegi o bonus da parte dei negozianti?
Ho fatto di tutto e credo di aver acquistato musica in ogni negozio importante d’Italia e in tutti quelli di Londra. Per corrispondenza invece mi affidavo a grandi distributori internazionali. Ho frequentato regolarmente i grossisti e i distributori specializzati in Italia, le case discografiche, grandi e piccole, ed ho incaricato persone di farlo per me. Ho ricevuto migliaia di promo dai promoter e questo sicuramente è stato un privilegio. I negozianti al massimo mi hanno fatto sconti ma mi sembrava il minimo date le cifre che spendevo. Quelli inglesi erano i meno generosi perché forti di una clientela internazionale. In un certo periodo credo di essere arrivato a spendere anche 1000 – 1500 euro al mese. Ad incidere molto però era il viaggio che facevo oltremanica, andata e ritorno in aereo magari nello stesso giorno, per suonare la sera i dischi che erano usciti la mattina a Londra.

5) Il retro copertina di Zitti Zitti
Il retro della copertina di “Zitti Zitti”

Sono trascorsi quasi trent’anni da quando ti esibisti con gli Aeroplanitaliani al Festival di Sanremo con “Zitti Zitti”, passato alla storia per ragioni ormai ben note. Sul retro della copertina del disco, edito dalla bolognese Irma e registrato presso i Vallemania Recording Studios a Genga, in provincia di Ancona (da dove esce pure “Found Love” dei Double Dee di cui parliamo qui), si legge “realizzato esclusivamente con Akai S1000 ed S1100”. Quanto influì il campionatore nella musica di quegli anni, spesso basata sul riciclo creativo e sul crate digging?
Noi iniziammo ad usare il campionatore già molto prima, credo fosse una tastiera che aveva un sampler incorporato con circa quattro secondi di memoria per il campionamento, poi eri costretto a cambiare dischetto. Non ricordo il modello, forse era un Ensoniq Mirage. Doveva essere il 1985 o il 1986 e stavano cominciando ad essere messi in commercio i primi campionatori a basso costo, e quello fu un momento cruciale. Fu una rivoluzione perché prima esistevano solo campionatori costosissimi come il Fairlight CMI che potevano essere acquistati solo da personaggi del calibro di Trevor Horn, Herbie Hancock, Quincy Jones e Stevie Wonder che ne comprò persino due per fare dispetto ad Hancock. L’avvento della tecnologia a basso costo ebbe due effetti: creare una nuova estetica data la grande diffusione commerciale di quelle macchine, e cambiare la visione che si aveva del campionamento fino a quel momento. Se prima lo si usava per sostituire i musicisti (si pensi agli stab di orchestra campionata che si sentono nei pezzi degli Art Of Noise o le sezioni di fiati degli Yes), con l’allargamento dell’utilizzo di quella tecnica si cominciò una sperimentazione che portò ad un’estetica nuova. I produttori iniziarono a campionare dai dischi degli anni Settanta intere frasi di esecuzioni di band che poi mettevano in loop. Tale pratica, importata dal beat juggling dei DJ, cambiò letteralmente il suono della musica. Non c’era più la rigidità senza dinamica dei synth e batterie elettroniche degli anni Ottanta ma fluidità, groove e non quantizzazione degli ensemble di musicisti, i cui groove venivano copiati ed incollati in serialità. Per fare la prova basta mettere a confronto un pezzo rap degli anni Ottanta con “3 Feet High And Rising” dei De La Soul. Quel disco accumulava moltissimi campionamenti e suonava completamente diverso dal rap precedente. Un precursore in tal senso fu Trevor Horn che produsse “Slave To The Rhythm” di Grace Jones: fece suonare i musicisti ma li campionò per scegliere poi le migliori cellule di groove. Era il 1985 ma lui se lo poteva permettere perché aveva il Fairlight CMI.

Dal 1996 al 2010 è andato in onda B Side con cui hai portato sulle frequenze di Radio DeeJay musica che avrebbe difficilmente trovato collocazione nel palinsesto di un’emittente di quel tipo. Tra trip hop, drum n bass, jungle, breakbeat ed harddance – così come veniva indicata nella celebre Pagellina settimanale – , B Side diventa il crocevia di artisti come Aloof, Fluke, DJ Shadow, Tricky, Future Sound Of London, 808 State, Morcheeba, Alex Reece, Sneaker Pimps, Portished, Adam F, Goldie, Roni Size, Propellerheads, Massive Attack, Aphex Twin, Grooverider, Underworld, Freestylers e 4 Hero, giusto per citarne alcuni inseriti con frequenza nelle prime annate di programmazione. Come iniziò l’avventura in Via Massena?
Il progetto nacque in modo molto spontaneo. Ero nell’ufficio di Linus, un pomeriggio di luglio, mi pare del 1996. Era la seconda volta che parlavamo di un mio programma a Radio DeeJay ma, incredibilmente, la prima volta mi ero permesso di rifiutare una sua offerta perché con tempismo demoniaco Radio 105 aveva concretizzato una proposta in cui neanche credevo più. Stranamente Linus, che all’epoca non aveva ancora quelle matite tutte uguali nei bicchieri sul tavolo, mi disse: «Beh, torna qui quando hai finito col tuo impegno a 105 che parliamo di una cosa da fare a settembre». E così rieccomi seduto davanti a lui: «Potresti fare un programma di bella musica la sera, sai quelle cose tipo Sade, Lisa Stansfield…». «Ah, la sera. Bella musica, eh. Bello, mi piace, mah…». E lui: «Ma?». «Ma la musica la scelgo io?» domandai. Mi guardò per un attimo sospettoso, aggrottando le sopracciglia. Poi si rasserenò: «Ma sì». Nessuno dei due immaginava cosa stesse per cominciare.

6) Bertallot intento a cercare dischi nel suo flight case
Bertallot mentre scartabella dischi: a sinistra si riconoscono “Zodiac/Basic” dei Total Science e “Decksandrumsandrockandroll” dei Propellerheads

Quali sono i primi tre dischi che ti tornano in mente ripensando all’ossatura iniziale di B Side?
“Blue Lines” dei Massive Attack. È stato il trigger di tutto il Bristol Sound, la fase di maturità inglese del grande cambiamento estetico di cui parlavo prima a proposito dell’avvento dei campionatori e della cultura dei DJ. I Massive Attack furono uno dei primi “collettivi di produttori” e non una band di musicisti, un “wild bunch” di creativi che di volta in volta interpellavano cantanti o musicisti a cui affidavano una canzone. Una novità per l’epoca;
“Exit Planet Dust” dei Chemical Brothers. Fu la crasi tra dance e rock, una cosa che potevano fare solo gli Inglesi. Coi Chemical Brothers e i Prodigy cadde la distinzione fra pubblico da discoteca e rave e pubblico da concerto, e partì una nuova wave dove coesistevano l’attitudine rock e la cultura della musica black, con bianchi e neri insieme;
“Timeless” di Goldie. Fu la prima opera jungle che spostò un nuovo genere dall’underground all’overground. In questi decenni postmoderni vittime del manierismo del passato non si sente più parlare di overground e Goldie fu uno dei primi a cavalcare quell’onda. Una notte al Leoncavallo, mentre mettevo i dischi prima di lui, salì sul palco per rompere i coglioni facendo cadere apposta il suo flight case sulle assi di legno e far saltare le puntine. Il mattino dopo venne in radio dove si rese altrettanto antipatico. Gli dissi che potevamo fare a meno di lui e si comportò come un bambino sgridato. Qualche ora dopo mi incontrò in Corso Vittorio Emanuele e, come se fosse il mio migliore amico, mi abbracciò e mi chiese dove fosse lo showroom della Diesel, brand che ai tempi lo sponsorizzava convintamente. Credo che il direttore dello showroom ricordi ancora con terrore la razzia che seguì alla venuta di Goldie a Milano.

Hai mai ricevuto proposte legate alla payola quando lavoravi a Radio DeeJay?
Credo di essere stato uno dei pochi ad avere avuto un’esperienza di anti-payola. Un giorno un promoter di una major mi confessò che quando arrivavo io in ufficio nascondeva i promo dei dischi che avrei potuto suonare perché se li avessi programmati in B Side avrei creato le premesse di una potenziale economia che a loro avrebbe portato solo lavoro e non necessariamente guadagni. Producevo interesse ma il mercato non generava altrettanto profitto. Per quanto l’Italia sia stato il Paese incuriosito da B Side, rimane pur sempre il Paese raccontato da Alberto Sordi.

Come illustrato da Ubaldo Ferrini nel suo recente libro “La Radio Libera, La Radio Prigioniera” recensito qui, oggi i network hanno omologato le proposte con un’offerta molto simile a quella della televisione in nome di un presunto quasi totale disinteresse del pubblico per cose diverse dal gossip o dal trash. Certi contenuti sono inevitabilmente spariti e costretti ad emigrare su internet, un mondo appassionante, inventivo e ricco di opportunità, e in tal senso Casa Bertallot, la web radio da te lanciata nel 2013, ne è testimonianza perfetta. In Italia la radio che trasmette solo in streaming però pare ricoprire ancora una valenza subordinata a quella in FM, analogamente a quanto avveniva sino a poco tempo fa coi giornali cartacei e i digitali. È una questione culturale? Col tempo le cose cambieranno?
Per me aprire una web radio è stato un gesto di indipendenza, ma la cosa forse più importante che ho fatto è accaduta a gennaio scorso, quando ho deciso di consentire l’accesso ai miei contenuti solo a chi è disposto a sostenere un abbonamento. Se questo creerà un modello di business e di sostenibilità alla mia divulgazione musicale, indipendente e coerente, sarà grazie alla forza dei singoli ascoltatori, illuminati e sensibili, e non grazie ad un sistema. Sto cercando di capire se la disintermediazione totale tra produttore di contenuti e fruitore, resa possibile dalle nuove tecnologie, sia una strada percorribile. Per chi volesse partecipare può cliccare su http://www.patreon.com/alessiobertallot

7) Alessio Bertallot e la radio
Bertallot tra dischi, libri e il microfono della radio, un amore mai sopito

Un numero sempre più consistente di artisti dichiara di essere insoddisfatto per i proventi derivati dallo streaming e alla lista si è recentemente aggiunto Gary Numan, come riportato da NME in questo articolo di poche settimane fa. Ritieni che società tipo Spotify stiano speculando sulla creatività dei musicisti/compositori di tutto il mondo? Quanti creatori ci saranno in futuro qualora tramontasse del tutto la prospettiva di vedere le proprie opere adeguatamente ricompensate e remunerate?
La situazione è molto complicata. Spotify e le altre piattaforme non pagano direttamente gli artisti, diciamo che remunerano “le case discografiche” che sono un’eterogenea moltitudine di detentori di quel tipo specifico di diritto sullo sfruttamento dell’opera dell’artista. Questa eterogenea moltitudine va dall’artista che si è fatto la sua etichetta personale alle grandi major discografiche che detengono buona parte di tutti i brani presenti su Spotify & co. Gli artisti vengono pagati poco, è vero, ma questo dipende dal tipo di contratto che l’artista stesso ha stipulato con la casa discografica. Forse anche in questo caso la disintermediazione fra creatore e fruitore migliorerebbe le cose. Si potrebbe parlare anche di una “visione” civile di quali giusti margini di guadagno debbano avere le parti in causa, ma ciò significherebbe fare i conti con la legge di mercato. Preferisco fermarmi qui perché si aprirebbe un vaso di pandora di argomentazioni.

Gli artisti della vecchia guardia hanno spesso mostrato una decisa insofferenza nei confronti del nuovo approccio alla musica decretato dall’evoluzione tecnologica. In merito a ciò Jon Bon Jovi dichiarò, in un’intervista risalente al marzo del 2011 (di cui si trova traccia qui o qui) che «i giovani non riescono a capire la bellezza di investire tutta la paghetta in un album scelto per la copertina di cui non si conosce ancora nessun pezzo. Ai miei tempi bastava guardare un paio di foto per immaginarsi tutto. Poi è arrivato Steve Jobs che ha distrutto il business della musica». Al netto di nostalgia e passatismo, pensi che la Generazione Z o la Generazione Alpha, accusate di troppa superficialità, stiano realmente sminuendo e depotenziando il valore un tempo attribuito alla musica? Cosa può provocare questo atteggiamento ed approccio sulle lunghe distanze?
Questo purtroppo non ha interessato solo la musica ma l’informazione, i consumi quotidiani, l’istruzione… Ormai è fatta. Abbiamo imboccato una strada in una nuova società che richiederebbe una nuova etica, una nuova educazione ai valori e ai nuovi strumenti che abbiamo per gestire i beni e la qualità della vita.

La pandemia da covid-19 ha cristallizzato l’attività sul fronte live che, a conti fatti, è rimasta la principale fonte di guadagno per chi vive di musica a livello professionale. Qualcuno sta cercando di fare leva su aspetti complementari della propria creatività come ad esempio Legowelt, che da qualche tempo a questa parte ha messo in vendita quadri ed illustrazioni da lui stesso realizzati (si veda qui), ma la situazione che si prospetta nel prossimo futuro è tutt’altro che rosea. A tal proposito hai varato NecessAria che, come recita il comunicato stampa, «oltre a rappresentare un esperimento di art-radio collettiva, vuole essere una risposta in chiave artistica alla marginalizzazione sociale e politica subita, in questo periodo difficile, da chi lavora nell’arte, nello spettacolo e nella musica. Una marginalizzazione divenuta purtroppo esplicita nella definizione di attività “non essenziali” con la quale questi comparti della cultura italiana – e coloro che ci lavorano – sono stati inquadrati in tutti i recenti DPCM». Puoi spiegare dettagliatamente su cosa verte tale iniziativa e come si svilupperà nei mesi a venire?
Come scrivevo prima, nel 2020 anche le attività musicali sono state definite “non essenziali” e tutti conosciamo le comprensibili ragioni. Tuttavia non si può non provare un brivido constatando che sia stata fatta una categorizzazione brutale fra chi è utile e chi non è utile alla società, e stiamo parlando di persone che con la musica pagavano i loro conti e che tuttora, ad un anno di distanza, non hanno neanche avuto un progetto sul futuro. Chiusi ed impediti a lavorare. Può darsi che la musica non sia essenziale ma non credo non sia necessaria. Per elaborare il lutto di questa morte civile ed economica che ci è stata imposta mi sono inventato NecessAria, un processo (inteso in senso artistico) dove un medium, la radio, normalmente usato per mettere in mostra riproduzioni di opere grazie al software che si usa per regolare i palinsesti, produce un’installazione sonora accostando in maniera sempre diversa due elementi, le voci di una collettività che racconta di un’emozione vissuta con la musica e la musica d’ambiente. Molti ascoltatori ed altrettanti musicisti, tra cui Paolo Fresu e Frankie Hi-Nrg Mc, mi hanno già mandato messaggi vocali. In definitiva si tratta di un oceano di calma e pensieri riservato ai sostenitori del mio progetto su Patreon che si rinnova ogni sera alle 21:30 su www.bertallot.com o sull’app Radio Casa Bertallot e che indica una profondità che sfugge alla pretesa di quantificare l’importanza della musica. Sono giunti messaggi anche da alcuni poeti italiani come Lello Voce, Gabriele Frasca, Monica Matticoli e Filippo Balestra che mi stanno facendo pensare ad una nuova possibilità ossia includere nel progetto un’altra arte sonora, la poesia.

8) Bertallot ed altri dischi
Bertallot alle prese con altri dischi della sua raccolta

Ormai le chiusure di negozi di dischi e librerie non fanno più notizia. Il fenomeno, affrontato poco meno di dieci anni fa da Pip Piper nel documentario “Last Shop Standing” ispirato dall’omonimo libro di Graham Jones e recensito qui, è destinato purtroppo ad intensificarsi. Perdere potenziali punti di incontro, confronto e scambio di cultura è qualcosa che penalizza la società contemporanea? Come ti poni rispetto a chi liquida gli amanti del disco o del libro in carta come banali nostalgici affetti da kainotetofobia? Il mondo del futuro potrebbe invece essere phygital?
Se quando aspettavo anche due mesi affinché arrivasse il disco ordinato in un negozio di provincia mi avessero detto che un giorno avrei avuto tutta la musica a portata di clic, avrei pensato ad un racconto di fantascienza. Le statistiche dicono che le vendite del disco fisico calano ed aumentano gli streaming, ma la maggior parte della gente ascolta le stesse quattro canzoni che sente alla radio o “vede” su YouTube. Così eccoci qua ad «avere il mondo in tasca e non amare niente» per citare Diego Mancino che a sua volta cita Tenco. Il problema non è il supporto ma quanto amore si attribuisce alla musica.

Qualche decennio fa sulle copertine di molti LP (editi prevalentemente nei Paesi latini come Perù, Messico o Colombia) compariva lo slogan “El Disco Es Cultura”. Ritieni che oggi si possa considerare il disco in vinile, ormai uscito dall’ordinario consumismo quotidiano, una forma di cultura e resistenza? Ovviamente non mi riferisco alle banali ristampe dei classici pop/rock e tantomeno all’utenza passivamente onnivora che considera il disco un complemento d’arredo e simbolo di modernariato e neanche a chi trasforma il supporto in un feticcio usandolo con fini commerciali e promozionali bensì alle realtà indipendenti che, in quello che potrebbe essere considerato quasi un atto eroico, continuano ad investire tempo e denaro per tenere in vita un medium economicamente ormai ben poco redditizio.
Siamo ormai avviati verso un futuro dove saremo costretti ad «inseguire sempre, inseguire ancora, fino ai laghi bianchi del silenzio» come canta Paolo Conte. Hanno inventato i CD e li hanno imposti come supporto e descritti come miglioramento. Poi si è scoperto che era meglio il pratico MP3 ed abbiamo dovuto rifarci la libreria da capo. In seguito sono arrivati i servizi di streaming in cui non possiedi né un disco, né un CD né tantomeno un file ma accedi alla musica, ed andrebbe comunque benissimo, ma ho il sospetto che anche questo, prima o poi, sarà sostituito da un altro modello. Il tutto per farci spendere sempre, spendere ancora fino ai laghi bianchi del silenzio. I formati nuovi diventano obsoleti mentre i dischi diventano solo vecchi. Io me li terrei stretti, insieme ad un Technics SL-1200 funzionante.

Estrai dalla tua collezione dieci brani a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Azzido Da Bass - Dooms Night (Remix)Azzido Da Bass – Dooms Night (Timo Maas Remix)
Come trasformare una tamarrata (in riferimento all’originale di Azzido Da Bass) in un capolavoro ed arma da distrazione di massa nel dancefloor? Annullando la retorica di un disco da autoscontro, levando la cassa in quattro, aggiungendo un rullante ed usando in terzine il noise che nella versione di partenza viene usato in maniera ovvia. Il remix di “Dooms Night” (realizzato in circa quattro ore come spiega Timo Maas in questa intervista, nda) arrivava in pista come un tornado su un campo di grano.

Goldie - TimelessGoldie – Timeless
Una suite jungle. Dura 21 minuti perché Goldie riascoltava i demo dei pezzi prodotti in studio in auto, tornando a casa di notte. Impiegava 21 minuti per compiere quel tragitto, doveva essere quindi esattamente la soundtrack del suo viaggio. In realtà fu un “viaggio” che, come dicevo prima, traghettò la jungle dall’underground all’overground grazie alla presunzione di Goldie, al lavoro del produttore Rob Playford nonché alla voce della cantante Diane Charlemagne, scomparsa prematuramente nel 2015.

Massive Attack - Blue LinesMassive Attack – Blue Lines
Fu la prima volta che anziché presentarsi una band con tutti gli strumenti al loro posto (batteria, chitarra etc) arrivò un mucchio selvaggio di gente che non si capì bene cosa facesse. Erano tutti produttori e fu palese che fosse qualcosa di nuovo. Troppo lento, un suono sfocato, rap sottovoce quando tutti i rapper invece gridavano. Fu l’inizio del Bristol Sound.

John Luther Adams - Become OceanJohn Luther Adams – Become Ocean
Poco più di 40 minuti di orchestra che suona come se non avesse una partitura ma fosse un magma che cambia continuamente forma e colore. La musica diventa materia, la rappresentazione sonora dell’essere immersi nell’Oceano. Adams raccontò che l’ispirazione gli venne quando abitava in California, in una casa isolata che davanti aveva il mare e dietro il deserto. «Di notte tenevo le finestre aperte, ecco perché».

John Cage - 433John Cage – 4’33”
Come dimostrare con un silenzio che il silenzio non esiste. Forse la musica più rivoluzionaria mai scritta, talmente tanto da non potersi scrivere. Una cesura di 4 minuti e 33 secondi che è una cesura nella razionalità come un taglio sulla tela di Fontana. L’idea che ispirò la performance degli Aeroplanitaliani al Festival di Sanremo nel 1992: 30 secondi di silenzio in diretta tv. Un vuoto che viene sempre riempito.

DJ Shadow - Endtroducing.....DJ Shadow – Endtroducing…..
Un album, come scrive lo stesso DJ Shadow, fatto senza suonare una nota. Lo realizzò assemblando i pezzi di un puzzle di citazioni prese da altri dischi. Un metodo applicato in maniera concettuale per la prima volta. Fu la manifestazione dell’avverarsi della profezia di Brian Eno sull’avvento dei non-musicisti. L’inquietante sensazione che la memoria e la cultura stiano sopravvivendo nel presente non più grazie ai neuroni ma ai bit. Evoluzione della specie?

Alva Noto + Ryuichi Sakamoto - Logic MoonAlva Noto + Ryuichi Sakamoto – Logic Moon
L’esempio migliore di equilibrio fra elettronica ed acustica. In questo brano tratto dall’album “Insen” del 2005, si rincorrono brevi frasi di piano impresse con l’immediatezza di un gesto di calligrafia giapponese e messe in vibrazione dalla matrix della visione elettronica. Non è né musica ambient, né musica elettronica e tantomeno new age. «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Bob Dylan - Murder Most FoulBob Dylan – Murder Most Foul
È uscito nel 2020, in piena pandemia e mentre noi volgo disperso, eravamo chiusi nei nostri “atrii muscosi, nei nostri Fori cadenti”, questo pezzo di 17 minuti in cui Dylan rievoca l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy. Dalla metà in poi la celebrazione diventa un viaggio vertiginoso in una serie interminabile di citazioni di canzoni americane. Titoli, frammenti di testi, nomi di musicisti …non le ho ancora scoperte tutte. Ci sono rimasto dentro, sono ancora nell’America di quegli anni.

John Cage - OrganASLSPJohn Cage – Organ² / ASLSP
L’organo di una chiesa di Halberstadt, in Germania, suona una nota di una partitura di Cage risalente al 1987 ogni sei mesi, più o meno. L’agogica da lui indicata chiede esattamente di eseguirla “il più lentamente possibile”. Si stima che l’esecuzione dovrebbe durare 649 anni. Ecco un altro salto concettuale, illuminante. Chi mai potrà avere una vera consapevolezza di questa opera? Forse un essere per cui il tempo e lo spazio hanno completamente un altro significato rispetto al nostro.

Giacomo Puccini - Madama ButterflyGiacomo Puccini – Madama Butterfly
Dell’opera pucciniana segnalo in particolare il “Coro A Bocca Chiusa”, probabilmente alla base di tutta la canzone Italiana.


Giosuè Impellizzeri

si ringrazia Fabio De Luca per la preziosa collaborazione

© Riproduzione riservata

La discollezione di Manu Archeo

Manu Archeo 1
Manu Archeo ed una parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Non ricordo esattamente il primo ma da bambino mia madre, o qualche altro familiare, mi comprava vari 7″ con le sigle dei cartoni animati. A casa inoltre c’era la collezione di dischi di mamma che annoverava, tra gli altri, album di Tony Esposito, Lucio Dalla, Pino Daniele, Antonio Infantino e Peter Gabriel. Intorno al 1985/1986 (ai tempi della prima e seconda media) cominciai a sentire musica con gli amici, alle prime feste o su MTV ed iniziai a comprare le cassette che poi ascoltavo nel mangianastri, nel Walkman Sony WM-11D o nell’autoradio della nostra Fiata Panda 45 color crema. Di quei titoli desideravo anche la versione su vinile che chiedevo di comprare sempre a mia madre. Qualche esempio? “Thriller” di Michael Jackson, artista che adoravo seppur quando uscì quell’album avessi solo otto anni. Rimasi completamente estasiato dal videoclip, per la musica e gli effetti. Il balletto con gli zombi era all’avanguardia ed ogni volta provavo un sentimento in bilico tra lo stupore e la paura quando la musica si fermava e lui si trasformava in un morto vivente. A quel punto volli a tutti i costi il giubbotto rosso e nero che Jackson indossava e riuscii ad averne uno simile, seppur di bassa fattura, che mi regalarono con immensa gioia. A scandire la mia giovinezza furono pure “Diamond Life” di Sade, compagno dei viaggi nella Panda, “So” di Peter Gabriel” (il video di “Big Time” con le animazioni in plastilina mi rapì letteralmente, era qualcosa di unico ed innovativo per l’epoca), “Revenge” degli Eurythmics, che andai a vedere al PalaEur di Roma nel 1989 – impazzivo per “Missionary Man”, “When Tomorrow Comes”, “The Miracle Of Love” e soprattutto “Take Your Pain Away” -, e “Blue’s” di Zucchero, immancabile nelle ingenue ed impacciate feste alle scuole medie. Il primo 12″ che ho acquistato con un’attitudine più “professionale” invece è stato “Buddy / The Magic Number” dei De La Soul, nel 1989. Per prenderlo feci una lunga pedalata con la mia BMX gialla e rossa da casa ad un piccolo negozio di dischi in periferia e rimasi molto soddisfatto dell’acquisto, non solo per la musica ma anche per la copertina così magica.

L’ultimo invece?
Ne ho presi diversi a partire dall’imperdibile doppio “Claremont Editions Two” sulla mitica ed infallibile Claremont 56 dell’amico Paul ‘Mudd’ Murphy. Questa etichetta non sbaglia un colpo e possiedo praticamente tutte le sue uscite. Una grande label di riferimento sin dal debutto, nel 2007, che annovera pubblicazioni innovative, di qualità e, cosa rara ma per me fondamentale, di grande coerenza. A seguire un altro various, “Buena Onda Balearic Beats” sull’italiana Hell Yeah Recordings del buon Marco “PeeDoo” Gallerani. Si tratta di una raccolta di perle baleariche contenente uno dei miei pezzi preferiti in assoluto dell’ultima decade, “Find Another Breeze” di J-Walk remixato da Matteo Gallerani alias Gallo, fratello dello stesso Marco. Conobbi PeeDoo a Bologna nel 2014 quando organizzava le serate Buena Onda in cui invitava alcuni dei DJ della scena balearica che rispetto di più, e da allora ci sentiamo spesso. Lo stimo molto, è un ragazzo veramente simpatico, un emiliano doc, un compagnone amante del buon cibo e della bella vita, oltre ad essere un grande DJ di esperienza e gusto. A fine settembre 2018 fu ospite al Pikes di Ibiza per il programma radiofonico di Andy Wilson in onda su Ibiza Sonica: ascoltando il suo set rimasi folgorato da una traccia fantastica, onirica e sospesa. Gli scrissi subito per sapere il titolo di quella meraviglia e mi svelò che si trattava del remix realizzato da suo fratello per “Find Another Breeze” di J-Walk. Passarono i mesi e in primavera contattai nuovamente Marco auspicando avesse novità sulla possibile uscita ma purtroppo la cosa era ancora in alto mare. A giugno 2019 ci siamo ritrovati al Music On Top di Firenze col nostro banchino di dischi e in lista per il DJ set del pomeriggio. Il discorso finì inevitabilmente su quella traccia da me adorata e PeeDoo, esasperato, finalmente me la passò su una chiavetta USB. In quel caldo giorno di inizio estate aprii il mio set proprio col remix di “Find Another Breeze”, da lì divenuta per me una traccia fondamentale. Io e Marco continuiamo ad incontrarci spesso. Ad ottobre 2019 lo ho invitato a dividere la consolle con me, a Firenze, per celebrare i cinque anni di Archeo Recordings. Non ho perso occasione per “martellarlo” nuovamente col remix di J-Walk. Ora finalmente è solcato su vinile che naturalmente fa parte della mia collezione. Un altro various che ho preso poche settimane fa è stato “Music For Dance & Theatre Volume Two” sull’olandese Music From Memory, un’altra etichetta di grande culto di cui possiedo tutte le uscite. Jamie Tiller e Tako Reyenga hanno un vero talento nel digging e la loro label lo testimonia appieno. Poi “Just A Little Lovin'” di Okinawa Delays, un 12″ sull’Archipelago Records dell’amico Takeo. Uno dei due remix inclusi, il Light And Love Vocal dei Seahawks, è qualcosa che lascia senza fiato, colpisce al cuore e allo stomaco e porta veramente in alto. Ho preso anche un 7″, “Summer Madness” dei Park Rangers, su Parktone Records, rifacimento dell’omonimo dei Kool & The Gang in chiave reggae nipponico, una vera chicca. Last but not least cito un altro meraviglioso 7″ di recente pubblicazione, “Los Claveles 36” di Pablo Color, su cui figura pure un remix del mitico Lexx. Il disco mi è stato regalato dallo stesso Pablo, un caro amico nonché talentuoso musicista svizzero che vive a Zurigo. Siamo in contatto fin dall’inizio della sua carriera ed adoro tutto quello che ha fatto. Ogni tanto ci sentiamo su WhatsApp e facciamo lunghe chiacchierate. Pablo parla abbastanza bene la nostra lingua, è cresciuto guardando la tv italiana ed ascoltando la migliore musica nostrana ma tradisce un evidente accento straniero che suscita in me molta simpatia. Gli ho detto che vorrei fare una release su Archeo Recordings usando la sua voce ma non so ancora bene come sviluppare l’idea. Inoltre abbiamo messo in cantiere una collaborazione e a breve uscirà un suo remix sulla mia label e di questo ne sono molto contento.

Quanti dischi annovera la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Ho inserito tutti i titoli in Discogs e il risultato indica poco più di 6200 tra dischi, in prevalenza, CD e cassette, e direi che la quantità sia approssimativamente corretta. In merito al valore medio riportato, sempre da Discogs, la mia collezione varrebbe più di 100.000 euro. Ho avuto la fortuna di ricevere in eredità da mia madre tante rarità oggi particolarmente costose, altre invece le ho comprate, con lungimiranza, anni addietro quando non avevano ancora raggiunto il valore attuale. Qualora mi interessasse particolarmente un disco, sarei disposto a spendere una cifra abbastanza ragguardevole per accaparrarmelo. Sinora il più costoso che ho acquistato valeva 140 euro. I titoli che sono nella mia wantlist vanno dai 60/80 euro ai 300/400 euro.

Dove è collocata e come è organizzata?
La mia collezione è sparsa un po’ per tutta la casa. Una parte è ospitata nel salotto in una grande libreria Kallax bianca dell’Ikea da 5×5. Lì ci sono i dischi più pregiati e ai quali tengo maggiormente. Poi ho altre due Kallax delle stesse dimensioni in mansarda, dove invece ho sistemato i dischi che ascolto ed uso con meno frequenza. A ciò si aggiungono altre cinque/sei Kallax da una o due file sparse ovunque, e scaffali più piccoli destinati ai CD. Sono abbastanza preciso e meticoloso, per questo ho suddiviso il materiale secondo criteri che possano favorire e facilitare la ricerca e l’utilizzo. Alcuni dischi sono divisi per etichette, per generi o stili. Un’altra parte invece segue la collocazione legata al Paese di provenienza tipo Italia, Giappone, Africa … Una sezione è destinata ovviamente ad Archeo Recordings con le varie uscite e i test pressing. Ogni tanto, con enorme fatica e giorni di lavoro, riordino ed aggiorno la disposizione di tutto. Nel lockdown primaverile, ad esempio, mi sono dato parecchio da fare. Sopra la libreria principale di dischi, infine, c’è un soppalco che ospita il mio “ufficio”, l’headquarter di Archeo Recordings insomma. Per accedere bisogna salire su una scala di legno che a sua volta è una libreria in cui ho sistemato dischi, CD e libri. A disegnarla è stato mio padre, architetto, mentre a realizzarla un caro amico falegname/artista, Andrea Fradiani.

Manu Archeo 3
Nella foto a sinistra la Kallax coi dischi a cui Manu Archeo tiene maggiormente, in quella a destra si scorge il soppalco sul quale è stato ricavato l’ufficio della sua Archeo Recordings a cui si accede attraverso una scala di legno, anch’essa “scrigno” di dischi, CD e libri

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ormai da anni uso le buste di plastica trasparenti che metto regolarmente a tutti i dischi che entrano in casa mia. Ho anche un piccolo kit per la pulizia del vinile con uno spray e il suo pannetto che uso per pulire quelli più sporchi. Funziona benissimo.

Ti hanno mai rubato un disco?
Fortunatamente no ma nel lontano 1991 (o forse era il 1992?) prestai una borsa piena di 12″ ad un amico DJ che, purtroppo, non me l’ha mai restituita perché si trasferì all’estero e qualcuno della sua famiglia buttò tutti i dischi rimasti nell’abitazione. Non oso immaginare ad una tale sventura! Nel corso degli anni ho riacquistato alcuni titoli che mi venivano in mente e che avevo voglia di possedere in vinile come ad esempio “Mismoplastico” dei Virtualmismo (di cui parliamo qui, nda) seppur dubito che si presenterà mai l’occasione per risuonarlo. Ripensare a quel brano fa riaffiorare dalla memoria, con affetto e piacere, il periodo 1991-1993 in cui iniziai a fare le prime esperienze da DJ nei locali fiorentini. Affiancavo spesso DJ Pini (Francesco Pineider) con cui facevo serate a Firenze e trascorrevo interi pomeriggi e nottate a registrare cassette coi nostri set.

Manu Archeo 2
Manu Archeo con alcuni dischi della sua raccolta tra cui “Too Shy” dei Kajagoogoo, “Josephine” di Chris Rea ed “Obsession” di Guy Cuevas. Alla sua sinistra invece “Tropic” degli ORM, “Na Zapadu Ništa Novo” dei Boomerang ed infine “Ortodossia” dei CCCP – Fedeli Alla Linea

Qual è il disco a cui tieni di più?
Non posso proprio indicarne solo uno, tuttavia potrei citare lo stile a cui sono maggiormente affezionato, il synth pop / balearic / pop rock / disco anni Ottanta. Questi sono alcuni brani sempre presenti nel mio flight case: “Lovely Day” di Mike Francis, “T.V. Scene” di Linda Di Franco, “Obsession” di Guy Cuevas (nella Nassau Mix di François Kevorkian), “Isadora Duncan (A Quoi Tu Penses Quand Tu Danses)” di Pierre Eliane, “Lipstick (Shout !)” di J.M. Black, “Rêves Noirs” di Bandolero, “Na Zapadu Ništa Novo” di Boomerang e “Tropic” degli ORM. Ed ancora: “Too Shy” dei Kajagoogoo e “Too Much” degli Hongkong Syndikat (rispettivamente la Midnight Mix e la Cola-Banana-Mix), “King-Kong” dei Primates, la Flesh & Blood Version di “The Word Girl” degli Scritti Politti, ottimamente re-editata nel 2018 da Haners in “Girl”, “Discomix” di Danny Boy, “Pump” di He Said, “Double” dei Double ed infine la Longue Version di “Sage Comme Une Image” di Lio.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
“Tron: Legacy” dei Daft Punk, acquistato nel 2011 sotto suggerimento di mio figlio Niccolò che allora aveva dodici anni ed era in fissa coi due film, quello storico del 1982 e il più recente del 2010, davvero brutto a mio avviso, come il disco del resto. C’è un punto a mio favore però: ho scoperto che in questi anni ha raggiunto ottime quotazioni quindi in futuro lo rivenderò per comprare un disco della mia wantlist della stessa cifra.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
“Après-Midi” del duo Testpattern, un LP giapponese del 1982 prodotto ed arrangiato dal geniale Haruomi Hosono della Yellow Magic Orchestra. Un disco con un sound che adoro e che sarei fiero di avere nella mia collezione, semplicemente strepitoso.

Manu Archeo 4
Manu Archeo mima ironicamente la posa di Robson Jorge sulla copertina dell’album del 1982

Quello con la copertina più bella?
È difficile limitarmi a menzionarne solo uno ma direi l’LP “Robson Jorge & Lincoln Olivetti” del compianto duo omonimo, uscito nel 1982. Mi piace molto ciò che si vede sul fronte, gli autori sembrano così allegri, alla moda, perfettamente “anni Ottanta” nelle pose. Idem per la maglietta indossata da Olivetti con la scritta Lazy Shirts 82. Sul retro ci sono ancora loro, intenti a giocare e scherzare con le maschere dei propri volti, lasciando emergere tanta autoironia. Per quanto riguarda l’audio invece, per me è sufficiente ascoltare il brano “Eva”. Un disco fenomenale.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
A Firenze andavo da Black Out, gestito dal mitico Riccardo Golini alias Riccardino, e da Disco Mastelloni in Piazza Del Mercato Centrale, dove il titolare era il grande ed indimenticato Roberto Bianchi (intervistato in Decadance Extra, nda), una persona super competente nonché vero punto di riferimento a livello nazionale negli anni Novanta. Non mancavano incursioni al Disco D’Oro di Achille Franceschi, a Bologna, e qualche capatina da Goody Music a Roma (ad entrambi abbiamo dedicato spazio ed interviste nel citato Decadance Extra, nda). Da Disco Mastelloni compravo cassette artigianali registrate da Roberto tra 1991 e 1993 con tutti i singoli di successo del momento mixati ad arte che all’epoca mi ispirarono non poco per l’acquisto di tanti dischi. Il clima che si respirava lì dentro era molto fervido, ogni volta che mettevo piede potevo incontrare amici o DJ famosi con cui scambiare qualche chiacchiera e conoscere gossip e retroscena sul cosiddetto “mondo della notte”. Prendevo la mia pila di dischi per ascoltarli pazientemente in cuffia ed era fantastico immergersi in quell’atmosfera, mi dava una gioia immensa, ed infatti è una cosa che continuo a fare oggi. Adesso frequento Danex Records dell’amico Daniele, sempre a Firenze. Oltre ad essere il mio negozio di fiducia, è un punto di incontro e ritrovo in cui parlare di musica ed altro con colleghi DJ.

Credi che l’e-commerce, evoluzione tecnologica della vendita per corrispondenza, abbia favorito o penalizzato il comparto discografico? C’è chi considera un pro il fatto di poter acquistare quasi qualsiasi cosa standosene seduti comodamente nella propria abitazione ma c’è anche chi vede le cose da una prospettiva diversa, evidenziando come questa nuova pratica commerciale entrata ormai nella routine quotidiana abbia messo in ginocchio le realtà locali.
Forse all’inizio l’e-commerce ha decretato la crisi del settore discografico e di tutto l’entourage ma adesso, a mio avviso, la faccenda è in via di stabilizzazione anzi, credo che le due realtà si influenzino positivamente. Per quanto mi riguarda, mi avvalgo di entrambe: magari compro un disco raro su Discogs o eBay ma allo stesso tempo continuo a girare per i mercatini e i negozi della mia città o di altre in cui capito spesso. Ritengo che il mondo dei digger, dei DJ e dei professionisti abbia ben chiara questa dinamica e si comporti allo stesso modo.

Nel 2014 hai creato la tua etichetta, la Archeo Recordings, specializzata in ristampe di tesori del passato e di cui abbiamo parlato dettagliatamente in questa intervista pubblicata su Soundwall il 14 marzo 2017. A distanza di oltre un triennio, è mutato qualcosa nel tuo modus operandi? Continui a pubblicare cinquecento copie ad uscita?
Archeo Recordings sta andando molto bene e per questo non posso che essere felice e grato a chi la supporta. Non è cambiato molto nella modalità di lavoro, a parte il fatto di aver acquisito ulteriore esperienza, sicurezza e credibilità. Ciò mi permette di rapportarmi con artisti e major con più facilità per chiedere ed ottenere le licenze. Ultimamente la tiratura varia tra le trecento, cinquecento e mille copie, a seconda di quello che ritengo giusto per ogni singola pubblicazione.

Devozioni Dialettali
Il remix di “Devozioni Dialettali” di Enzo Avitabile realizzato da Leo Mas, Fabrice ed Andrea Gemolotto, edito da Archeo Recordings in sole duecento copie nel 2017

Nell’estate del 2017 su Archeo Recordings esce il remix di “Devozioni Dialettali” di Enzo Avitabile realizzato da Leo Mas, Fabrice ed Andrea Gemolotto, ma in una tiratura promozionale di sole duecento copie numerate a mano. Scelta intenzionale o condizionata da qualche fattore esterno? Seppur recente, il disco è già diventato un cult e su Discogs le quotazioni toccano la punta dei 150 euro.
Quella di “Devozioni Dialettali” è un’uscita stupenda e a cui tengo molto. Rappresenta la collaborazione instaurata con Leo Mas, un grande amico ma pure un enorme punto di riferimento, un autentico faro nel mondo della musica in virtù della sua enorme conoscenza, esperienza e generosità. La pubblicazione di quel remix avvenne molto velocemente, avevamo appena avuto conferma di licenza e Leo aveva realizzato una meravigliosa versione con Fabrizio ed Andrea. Non vedevamo l’ora di condividere quella chicca con amici DJ di tutto il mondo e per questo optai per la tiratura promozionale. La release ufficiale è ancora nel cassetto ed includerà nuove versioni di “Devozioni Dialettali” e di un altro straordinario pezzo di Avitabile.

Pensi che l’emergenza sanitaria possa creare serie ripercussioni a lungo termine in un settore come quello in cui opera Archeo Recordings?
Il 2020 è stato un anno strano, oserei dire l’inizio di una nuova era. Come avvenuto alla maggior parte delle persone, ho avuto più tempo per fare le cose con calma, e questo è fantastico. Non credo che il coronavirus costituirà intoppi nella discografia, a meno che non si rivelino pesanti risvolti economici mondiali, ma voglio rimanere positivo e pensare che riusciremo ad uscire da questo incubo entro l’estate del 2021.

Nel 2020 Archeo Recordings ha messo in circolazione solo un’uscita, “Sfumature” di Fulvio Maras, Alfredo Posillipo e Luca Proietti. Effetto dettato dal coronavirus o altro?
Purtroppo in questi mesi di pandemia ho dovuto modificare le date di pubblicazione di alcune uscite che venivano valorizzate maggiormente grazie a live e DJ set più che dall’ascolto privato e casalingo. Allo stesso tempo mi sono concentrato di più su un certo tipo di release, direi più da ascolto e da collezione, ma di cui vado pienamente orgoglioso. Ho portato avanti tantissimi nuovi progetti anche se è stato piuttosto faticoso a causa delle licenze e del rapporto con artisti e musicisti diventato più difficile a causa della distanza. Giocoforza sono stato costretto a rallentare la frequenza delle uscite ma va bene così, d’altronde cerco sempre di dare il giusto respiro e corso alla fase di creazione di una nuova pubblicazione, dalla licenza alla grafica, dalla scelta del remixer alla confezione finale.

Alicudi
Il mixtape intitolato “Alicudi” recentemente realizzato da Manu Archeo per la Paesaggi Records

Il 2020 ha visto anche la pubblicazione di “Alicudi”, il tuo mixtape edito da Paesaggi Records su cassetta in appena cinquanta copie. Come è nata la collaborazione con questa label?
Sono amico dei ragazzi che gestiscono la Paesaggi Records, un collettivo composto da Stefano e Gianlu nel Valdarno, in Toscana, Zeno (alias Gropina) ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, ed Ale (alias Wutu) a Berlino, in Germania. Stimo molto la label e il loro lavoro. Circa un paio di anni fa mi parlarono di una serie di mixtape intitolata Cosmic Empathy, compilata da diversi artisti col fine di rappresentare un racconto attraverso un’accurata selezione di dischi e foto, senza alcuno stile o regola. Il primo, curato da Wutu, era già uscito e mi chiesero se fossi disposto ad occuparmi del secondo. Il progetto mi è sembrato unico ed infatti ho accettato subito, anche per l’importante parte visiva che si incrocia con la mia attività di fotografo. Ho lavorato a lungo sulla selezione delle tracce, volevo sviluppare l’idea di un viaggio e di un racconto molto personale ed intimo. Dal 1989, anno in cui sbarcai per la prima volta sull’isola di Alicudi, nelle Eolie, fino al 2010, ho fotografato luoghi e persone di quel paradiso. Ho scelto così delle tracce che reputo fondamentali e che spesso mi accompagnano nei momenti più profondi ma pure nei DJ set maggiormente raffinati e da ascolto. Sono molto entusiasta del risultato e del prodotto finale inciso su cassetta, oggetto vintage e retrò accompagnato per l’occasione da un libretto di otto pagine stampato su carta di riso e provvisto di un’accurata grafica che include alcune mie foto fatte naturalmente sull’isola di Alicudi.

Che progetti prevedi di concretizzare su Archeo Recordings nel 2021?
Una manciata di uscite per la serie Tonyism, dedicata a Tony Esposito, e Balearic, una serie inaugurata col meraviglioso rework di “Rosso Napoletano” a firma Mushrooms Project che andrà avanti con un paio di artisti italiani che ammiro moltissimo: Colossius, di Firenze, e il duo perugino Hear & Now composto da Ricky L e Marcoradi che non necessitano di presentazioni specialmente grazie ai due album strepitosi usciti su Claremont 56 tra 2018 e 2020, “Aurora Baleare” ed “Alba Sol”. Adoro il loro sound, etereo, sognante e magico. Colgo l’occasione per annunciare anche il lancio di una nuova serie di compilation, sempre su Archeo Recordings, dedicate a digger, DJ, produttori e musicisti, con perle rare da riscoprire. A seguire altre uscite “classiche” tra cui “Il Canto Dell’Arpa E Del Flauto” di Pepe Maina, di cui ho già ristampato, nel 2019, l’LP “Scerizza”. Maina è un artista unico e talentuoso ma allo stesso tempo umile. Amo il suo stile lo-fi, estremamente accurato e sempre attuale, e sorrido quando leggo la sua biografia: “nessun diploma di conservatorio, nessuna laurea, nessun premio, insomma niente che possa farti credere che fin da piccolo sarebbe potuto diventare qualcuno”. Non ci siamo ancora incontrati di persona e in questo periodo credo sia arduo che ciò possa avvenire. Vive isolato sulle colline fuori Milano ma facciamo regolarmente lunghe e piacevoli chiacchierate via email. È un vero signore ed amo davvero la sua musica. In cantiere ci sono pure un paio di progetti e collaborazioni col caro amico Leo Mas, attualmente sospesi ma a cui tengo molto, una raccolta di materiale inedito tratto dall’archivio degli anni Ottanta e Novanta di Fulvio Maras con un remix (finalmente!) del bravissimo Lexx, un’altra raccolta di brani privati del sopraccitato Pepe Maina con relativi remix, e il 12″ di Sara Loreni intitolato “Neve A Maggio” che includerà quattro remix, due dei Mushrooms Project ed altrettanti a firma Deep88 ed Almunia. Infine il raro e ricercato “Ettika” degli Ettika, affiancato da nuove versioni tra cui una di Craig Christon di Joe’s Bakery. Insomma, sarà un 2021 ricco ed entusiasmante.

Manu Archeo 5
Un ultimo scatto della collezione di dischi di Manu Archeo

È ormai arduo stimare il numero delle cosiddette “etichette di salvataggio”, così come le definisce Simon Reynolds in “Retromania”. Ci sarà un momento in cui l’abnorme serbatoio di musiche del passato risulterà esaurito? Per quanto tempo si potrà andare avanti con operazioni di reissue?
Per me non c’è un limite, si procederà all’infinito. A prescindere da ciò che dice Reynolds, noto con piacere che nascono di continuo nuove “etichette di salvataggio”, e la maggior parte di esse rivela grande qualità e coerenza. Penso che questo sia un punto di forza fondamentale per ognuno di noi e non credo che il repertorio di musiche del passato possa esaurirsi a breve, ci sono così tante perle ancora da riscoprire e valorizzare. L’importante è fare le cose per bene e dare un senso compiuto ad ogni uscita.

L’invasione massiccia di cult di ogni tipo, per decenni fuori catalogo ed ora resi nuovamente disponibili, sta forse alimentando la disaffezione del pubblico per la musica nuova?
No, assolutamente. Sono due settori che vanno di pari passo. Io amo comprare sia ristampe di album o singoli rari del passato, sia nuove uscite. Il mio “serbatoio” ormai è quello balearico quindi rivolgo l’attenzione a questo mondo e ad etichette come le citate Music From Memory, Claremont 56 e Hell Yeah Recordings a cui se ne sommano tante altre del calibro di Music For Dreams, Be With Records, Balearic Social Records, Emotional Rescue, Growing Bin Records, Highwood Recordings, Light In The Attic, Phantom Island, NuNorthernSoul, Séance Centre, Spacetalk e Stroom, giusto per citare le mie preferite. Di queste non mi sfugge mai nulla, le adoro per l’ottima qualità e la profonda ricerca su cose vecchie e nuove.

Ci sono artisti e/o produttori contemporanei capaci di tenere alto il livello creativo come quello che si rimpiange spesso delle decadi passate?
Sì, certo. Non sono un nostalgico incallito e non fatico ad ammirare artisti e produttori contemporanei, validi ed innovativi, in grado di essere al passo coi tempi. Tuttavia credo che nessun musicista di oggi possa essere paragonato a Tony Esposito o Tullio De Piscopo.

C’è una ragione dietro la presunta o reale eclissi di inventiva a cui assistiamo in questi anni? È legata o connessa in qualche modo al calo di introiti della discografia e alla smaterializzazione dei supporti?
Credo che il calo di introiti della discografia riguardi una fetta più di nicchia e legata alla sperimentazione. Per gli artisti più commerciali non è mutato granché.

Estrai dalla tua collezione una serie di dischi a cui sei particolarmente legato aggiungendo per ognuno di essi un’accurata descrizione.

Lucio Dalla - Lucio Dalla LPLucio Dalla – Lucio Dalla
Un album che reputo assolutamente fondamentale, per l’artista (adoro davvero tutto di Dalla), per l’album in sé (contenente alcune delle mie canzoni preferite, in primis “La Signora” seguita da “L’Ultima Luna” e “Stella Di Mare”), e per la copertina: quest’estate sono arrivato al punto di farmi stampare una maglietta con la faccia di Lucio, uguale a quella dell’LP, sognante, enigmatico ed un po’ malinconico. Era un disco che figurava nella collezione di mia madre quindi posso affermare di essere davvero cresciuto insieme ad esso. Un paio di anni fa ho avuto il piacere di visitare la casa di Dalla in via D’Azeglio, ora diventata un museo, nella mia città natale, Bologna. È stata un’emozione unica. Ero con un gruppo di persone sconosciute giacché si trattava di una visita su prenotazione, ma mi sono goduto appieno quel viaggio immergendomi nel mondo musicale e nella quotidianità dell’artista, uno dei più grandi di sempre, come se una parte di lui fosse ancora lì a soffiare la magia della sua poesia. Quando è morto sentivo spesso (e sento ancora oggi) la sua mancanza, come se fosse un componente della famiglia, seppur non l’abbia mai incontrato in vita. “La Signora” è una delle canzoni che mi accompagna praticamente da sempre, la ascoltavo da bambino, da adolescente ed ora da adulto, ed ogni volta mi trasmette qualcosa di unico. Per me sarebbe un sogno poter disporre della licenza di questo capolavoro per farne un’uscita su Archeo Recordings con vari remix. Ci proverò, chissà…

Lucio Battisti - Il Nostro Caro AngeloLucio Battisti – Il Nostro Caro Angelo
Si tratta di un altro disco imprescindibile per la mia crescita, per l’artista ma pure per la copertina. Ci sono altri album di Battisti che metto alla pari di questo, con così tante canzoni fondamentali, ma la copertina de “Il Nostro Caro Angelo” resta eccezionale, forse una delle mie preferite in assoluto, così stravagante e nel contempo essenziale, quasi ghirriana per citare il mio fotografo preferito. A tal proposito suggerisco l’ascolto dello Spazio Palazzo Edit de “La Canzone Della Terra”.

Toni Esposito - Toni EspositoToni Esposito – Toni Esposito
Tra poco potrò affermare di aver pubblicato ben cinque dischi di Esposito sui ventuno totali che sinora conta la mia Archeo Recordings. Se non dicessi di amarlo alla follia mentirei clamorosamente. Ho scelto questo LP edito dalla Numero Uno ma potrei tranquillamente optare per altri due tra i suoi primi lavori, perché lo considero un disco cardine. Fu la colonna sonora della mia fanciullezza, quando imparai a suonare la batteria, dagli otto ai tredici anni, della mia adolescenza e della mia maturità. Adoro le percussioni ed Esposito è il re indiscusso a livello mondiale. In particolare in questo album ci sono alcune delle sue canzoni più belle e significative, a partire da “Rosso Napoletano”, un viaggio di diciassette minuti solcato per intero sul lato A che ti porta su un altro pianeta. “L’Eroe Di Plastica” era (ed è) uno dei miei preferiti, da ragazzo la ascoltavo in loop per ore cercando di capire come Esposito suonasse la batteria per poi provare ad imitarlo con la mia Yamaha nera di allora. L’album uscì nel ’74, anno in cui sono nato. Una coincidenza o una connessione?

Andreas Vollenweider - Caverna Magica - (...Under The Tree - In The Cave...)Andreas Vollenweider – Caverna Magica – (…Under The Tree – In The Cave…)
Scoperto intorno al 1991 grazie alla copia su cassetta che mi fece un caro amico, il suono di questo LP risalente al 1982 mi parve subito familiare, come se fosse sempre esistito. Trascorrevo interi pomeriggi ad ascoltarlo come sottofondo rigenerante delle mie attività giornaliere. “Caverna Magica – (…Under The Tree – In The Cave…)” inoltre mi lega al genere new age / ambient che adoro e seguo con attenzione. “Caverna Magica”, “Mandragora”, “Lunar Pond” ed “Huiziopochtli” sono quelle che preferisco tra tutte. Quanti ricordi, che viaggi dell’anima! Ancora oggi, quando ho bisogno di concentrarmi e far sedimentare un progetto, faccio lunghe passeggiate nella natura ascoltando in cuffia la dolce arpa del Maestro Vollenweider.

Susumu Yokota – SakuraSusumu Yokota – Sakura
Impazzisco per questo album e per tutta l’opera del prematuramente scomparso Yokota. “Sakura”, del ’99, è stato uno scalino essenziale nella mia vita, che mi ha aperto ad un genere nuovo e per me poco approfondito all’epoca ossia l’ambient. Da lì ho sviluppato sempre di più l’orecchio a questa corrente musicale che, recentemente, si è ampliata a tanti sottogeneri ed affini quali organic, meditative, floating o spiritual. Dietro “Sakura” inoltre, risiede tutto il minimalismo giapponese che trovo unico e che ascolto spesso per rilassarmi e fare bei viaggi con la mente e col cuore. “Uchu Tanjyo”, “Gekkoh”, “Kodomotachi”, “Hisen” e “Shinsen” sono tra le mie preferite ma se dovessi ridurre la lista ad una sola forse sceglierei “Uchu Tanjyo”: la uso frequentemente per i mixati commissionati o i radio show nonché nei DJ set “morbidi”.

Peter Gabriel - Passion (Music For The Last Temptation Of Christ)Peter Gabriel – Passion (Music For The Last Temptation Of Christ)
Non c’è molto da dire, il film di Martin Scorsese lo vidi al cinema con mia madre quando, forse, ero ancora troppo piccolo per apprezzarlo appieno. Senza dubbio però mi piacque la sua colonna sonora. Il mio pezzo preferito resta “Of These, Hope – Reprise”, brividi! Di Gabriel adoro pure l’LP eponimo del 1982 con pezzi come “The Rhythm Of The Heat” e “Shock The Monkey” che non mi stancherò mai di ascoltare.

The Cure - FaithThe Cure – Faith
I Cure erano una delle band che preferivo fin da ragazzo e che hanno rappresentato la colonna sonora della mia adolescenza. Questo album del 1981, che avevo su cassetta, annovera “All Cats Are Grey” che per me è basilare. Tra 2006 e 2010 ero DJ resident il giovedì sera al Dolce Vita di Firenze, ed iniziavo a suonare intorno alle 19 andando avanti sino alle 2 del mattino mettendo musica con dischi e CD visto che non era ancora possibile mixare con le chiavette USB. Spesso chiudevo la serata proprio con “All Cats Are Grey” ed era un momento magico.

Bryan Ferry - Slave To LoveBryan Ferry – Slave To Love
Ho selezionato questo 7″ risalente al 1985 perché è uno dei miei preferiti del filone synth pop anni Ottanta (seppur potrei facilmente sostituirlo con un’infinità di altri titoli dell’epoca), ma pure perché per me è il simbolo di tutta quella musica e delle feste a cui partecipavo da ragazzo, in cui ballavamo sfrenati e sudati per intere ore consecutive, senza mai fermarci ed essere stanchi. Negli anni mi è capitato di fare il DJ in feste private tra amici, occasioni in cui non venivo ovviamente pagato ma tornavo a casa felicemente appagato. Era divertimento allo stato puro. Avveniva spesso che nei giorni seguenti al “party casalingo” io e i miei amici, ancora esaltati, ci raccontassimo piccoli episodi avvenuti quella sera, trovandoci tutti d’accordo nell’affermare che fosse stata la “festa perfetta”. Quel raro e non troppo frequente tipo di festa riuscita benissimo derivava da un mix di varie cose come le persone, l’atmosfera ed ovviamente la musica, e il ricordo che mi ha lasciato è indelebile. Gli anni Ottanta restano strabilianti.

Sade - Cherish The DaySade – Cherish The Day
Per me questa canzone da brividi del 1993 è molto importante perché legata al periodo dell’adolescenza e della scoperta del mondo degli amici, della prima fidanzata, delle prime vacanze estive senza genitori e di tutto il filone smooth jazz / downtempo / leftfield. Adoro la voce di Sade, così calda, sensuale ed avvolgente. “Cherish The Day” mi ha sempre fatto pensare ad un essere superiore ed angelico che, volando, accarezza il mondo con la sua voce e ci culla in una morbida ballata. Il sottofondo coi bassi prominenti ed esaltati da Pal Joey nel suo remix poi fa da perfetto contrappunto alla voce e il risultato è sublime e sembra davvero che dica “cherish the day!” (ossia “goditi il momento!”).

Girls On Pills - Vhelade (Ricky Birickyno Update)Girls On Pills – Vhelade (Ricky Birickyno Update)
Acquistato nel 1992 da Riccardino (ho ancora il vinile col mitico timbrino Black Out), questo disco edito dalla Interactive Test di Franco Falsini (intervistato qui, nda) è legato alla mia scoperta del mondo del clubbing e dei DJ, quindi a tutto il filone house e dream house dei primi anni Novanta che mi ha permesso di avvicinarmi all’arte del DJing e di “mettere i dischi” alle prime feste. Ho avuto la fortuna di aver iniziato nell’era del vinile, quando dovevi imparare necessariamente la tecnica del mixaggio oltre a curare la ricerca stilistica dei brani che potevano stare bene insieme.

Kruder & Dorfmeister - The K&D Sessions™Kruder & Dorfmeister – The K&D Sessions™
Questa compilation del 1998 su Stud!o K7 è rappresentativa della mia crescita musicale. Ascoltandola ho realizzato che si potesse fare tutto con la musica, esplorare ed unire terreni diversi ma legati sentimentalmente nel profondo, campionare, tagliare, cucire ed ottenere strepitosi risultati, e in questo Kruder & Dorfmeister sono autentici maestri. A “The K&D Sessions™” collego poi tutto il filone downtempo e trip hop al quale sono legatissimo, con artisti come Tosca, Massive Attack, Tricky e label del calibro di Mo Wax e Ninja Tune. Che innovazione e svolta epocale! Pure la copertina è meravigliosa, così intima ed onirica. Appare chiaro che Kruder & Dorfmeister abbiano fatto le cose che più gli piacessero sin dall’inizio, e i risultati non possono essere che questi. Piccolo aneddoto di cui vado fiero: a novembre 2019 pubblico, su Archeo Recordings, l’EP di Mario Acquaviva. A gennaio 2020 ricevo il solito messaggio di Bandcamp che mi indica l’acquisto del disco e, con grande gioia ed incredulità, scopro che l’acquirente è Richard Dorfmeister. Gli scrivo subito una email in cui gli confesso di essere un suo grande fan facendogli i complimenti per tutto il lavoro svolto. Lui ricambia e mi rivela di aprire spesso i DJ set con “Fortuna”, tratto proprio da quell’EP di Acquaviva. Che onore, una soddisfazione unica per me.

Ozric Tentacles - ErplandOzric Tentacles – Erpland
Mi considero un fan sfegatato (quasi a livello da nerd) della band space rock degli Ozric Tentacles. Scoperti nel 1989 e mai più lasciati, hanno condiviso la mia parte più ribelle, hippie e trasgressiva dell’adolescenza legata ad un periodo di simpatici spinelli condivisi con gli amici. Iniziai ad ascoltare ossessivamente il gruppo britannico sentendolo dal vivo in concerto al Flog di Firenze in più occasioni, ma pure al Livello 57 di Bologna, al Leoncavallo di Milano, a Roma e a Lugano. È sempre stato un viaggio meraviglioso. A novembre del 2010 tornarono in concerto a Firenze al Viper Theatre, quando ero ormai un trentaseienne fatto e finito. Provai a radunare i miei amici “ozrichiani” di un tempo ma con una scusa o l’altra tutti declinarono l’invito. A quel punto pensai: «beh, chi se ne frega, ci vado lo stesso!» e feci bene. Portai con me alcuni dischi nel flight case da DJ per farmeli autografare dai membri della band. L’atmosfera era piacevole e il luogo non troppo affollato, la situazione perfetta per godersi un concerto degli Ozric Tentacles. C’era il banchino con un tizio dello staff che vendeva CD e merchandising vario. Mi avvicinai e con titubanza, prima che lo show iniziasse, tirai fuori i dischi chiedendo se fosse possibile farmeli firmare. Quel ragazzo, estasiato dalla rarità dei miei vinili, mi promise che mi avrebbe portato da loro a fine concerto per conoscerli, e così fu. Scesi nelle stanze degli addetti ai lavori e, aperta una porta, mi si presentarono gli Ozric Tentacles avvolti in una nube di fumo d’erba. Mi firmarono i dischi e mi chiesero il parere sul concerto terminato da pochi minuti. Confessai che avevano eseguito tre o quattro dei miei pezzi preferiti, che meraviglia! Il loro repertorio è pieno di canzoni straordinarie, come “There’s A Planet Here” e “Yog-Bar-Og” (da “Arborescence”, 1994), “It’s A Hup Ho World” (da “At The Pongmasters Ball”, 2002), “Space Between Your Ears” (da “Strangeitude”, 1991), “Feng Shui” (da “Jurassic Shift”, 1993), “Ahu Belahu” e “Plurnstyle” (da “Become The Other”, 1995), “Curious Corn” (dall’album omonimo del 1997), “Sultana Detrii” (da “Waterfall Cities”, 2000), “Waldorfdub” (da “Swirly Termination”, 2000), “Tight Spin” (da “The Hidden Step”, 2000) ed ancora “Slinky” (da “Spirals In Hyperspace”, 2004), “Etherclock” (da “The Floor’s Too Far Away”, 2006), “Oddweird” e “YumYum Tree” (da “The YumYum Tree”, 2009), oltre ovviamente ad “Eternal Wheel” e “Crackerblocks” inclusi in “Erpland” del 1990. Poi le copertine sono uniche, coi disegni di mondi fantastici popolati da strane creature di forma umanoide. Ho praticamente tutto di loro, su vinile e CD (inclusa una maglietta da me disegnata), ed è rimasta l’unica band di cui continuo a comprare ogni disco. Durante il lockdown primaverile ho scoperto che l’amico Alex Egan di Phonica Records, a Londra, – DJ, produttore, musicista nonché boss della Utter – è il figlio di John Egan, storico componente della prima e mitica formazione del gruppo. Gli ho chiesto di salutarmelo come se fosse uno di famiglia e di dirgli che gli Ozric Tentacles li porterò sempre nel cuore.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata



La discollezione di Bottin

Bottin nel suo studio. Tra i 7″ che stringe tra le mani si scorge quello di “Musica Spaziale” di Patrizia Pellegrino (CGD, 1982) diventato un cult per i collezionisti – foto di Enrico Gandolfi


Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?

Escludendo la musica per bambini, il primo è stato “Arena” dei Duran Duran. È uscito nel 1984 quindi avrò avuto sette-otto anni. Ricordo di averlo visto in vetrina in uno storico negozio di Padova, il Ventritré Dischi, piuttosto noto per il grande assortimento ed i prezzi sempre scontati. Il gestore, Maurizio Boldrin, è batterista della scena Bacchiglione Beat (il Bacchiglione è un fiume nel padovano e l’espressione faceva il verso al Mersey Beat di Liverpool). Chiaramente queste sono storie che ho scoperto più tardi, da adolescente, quando ho continuato a frequentare il negozio negli anni Novanta per comprare jazz, acid jazz ed hip hop, in particolare il filone dei De La Soul e Digable Planets. Fu proprio grazie ai campionamenti dell’hip hop che entrai in contatto con la musica degli anni Settanta. Sono nato nel 1977, troppo tardi per aver vissuto direttamente l’epoca degli Steely Dan e degli Earth, Wind & Fire.

L’ultimo invece?
Da tempo non compro più dischi nuovi. Gli ultimi sono stati l’LP degli Zement, un gruppo krautrock tedesco che ho sentito in un locale a Berlino e che mi ricordava i migliori Neu!, e la compilation “Witchcraft & Black Magic In The United Kingdom”, edita dalla Eighth Tower Records. Continuo però a comprare parecchi dischi vecchi, su Discogs, eBay e, più volentieri, ai mercatini. Non frequento negozi di dischi (a Venezia non ce ne sono quasi più) né fiere. Lo facevo tempo fa ma, tra confusione ed entusiasmo, spesso finivo per comprare tante cose di cui avrei potuto fare a meno.

Quanti dischi conta la tua raccolta?
Non sono un collezionista. Inizialmente ho visto i dischi come meri “strumenti di lavoro” per le serate da DJ ma anche e soprattutto per registrare campionamenti. Dischi perché molte cose in digitale e su CD non si trovavano ed ancora oggi parecchie sono di difficile reperimento, ma vale per tutti i supporti fisici come per i file. Rispetto a molti DJ non ho molti dischi e in confronto ai collezionisti ne ho davvero pochi, circa duemila. Non saprei dire però quanto mi siano costati. Alcuni mi sono stati regalati da amici ed ex DJ, parecchi li ho presi a mercatini e negozi non specializzati quindi per pochi spiccioli. Altri ancora li ho pagati a prezzo pieno (se non gonfiato) a fiere del disco o su internet. Controllando su Discogs, risulta che il valore mediano della mia raccolta sia di circa otto euro al pezzo. Mi sembra tanto, rispetto ai miei ricordi di acquisto. Ho sempre cercato di trattare i dischi come una partita di giro, rivendendo i titoli appena un po’ costosi. Se scopro di avere un disco che vale più di trenta/quaranta euro lo metto volentieri in vendita per comprarne quattro o cinque nuovi. Non mi sono mai affezionato troppo ai dischi, come oggetti in sé non hanno mai esercitato un grande fascino su di me. Banalmente mi interessa la musica che contengono anche se anch’io sono legato a certi artwork. Ma quella è grafica, fotografia, e il suo habitat principale è la carta. La musica invece esiste davvero solo nell’aria, quella sugli scaffali o negli archivi digitali è merce. Bella anche, ma di tutt’altra natura dalla musica.

Bottin 2
Uno sguardo sulla raccolta di dischi di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Usi un metodo per ordinarla ed indicizzarla?
Ho un inventario aggiornato tramite Discogs. Mi piace poter ritrovare un disco a colpo sicuro e senza perdere troppo tempo. Questo è importante soprattutto per registrare un campionamento al volo durante una produzione: se ci metto troppo a trovarlo rischio quasi di dimenticarmi cosa stavo cercando. Comunque, nonostante l’organizzazione, capita lo stesso di perdermi e finire per ascoltare tutt’altro. Ho un unico grande scaffale così diviso: le mie produzioni nella prima fila in alto (la più scomoda da raggiungere) e sotto, nella parte centrale, ho tutta la disco music e il funk (fino al 1980-81 circa) in ordine alfabetico per artista. Poi la musica dance anni Ottanta, separata tra produzioni italiane ed estere. C’è quindi una piccola sezione compilation e dischi con brani di più autori, ambient, library, re-edit e una manciata di titoli techno ed house anni Novanta. Poi il pop italiano ed estero e i promo che mi sono stati regalati da artisti ed etichette. In basso, infine, ho due cassette da latteria in cui tengo i 7″ e poi altre due coi dischi non ancora ordinati o di scarso gradimento da cui però talvolta spuntano delle sorprese. Anche il gusto personale cambia col tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione? Esegui lavaggi periodici ed utilizzi copertine plastificate per scongiurare problemi di umidità?
Quasi nulla di tutto ciò. Utilizzo qualche busta trasparente per alcuni 12″ ma spesso le trovo già al momento dell’acquisto. Certi 7″ li tengo in bustine di cartoncino, separati dalla copertine perché quest’ultime tendono a strapparsi. Ho pochissime esperienze di lavaggio e tutte molto artigianali, senza prodotti speciali, giusto per togliere un po’ di sporco prima di passare qualcosa in digitale. Ripeto: non sono un collezionista e non ho passione per la conservazione maniacale. Ci sono persone molto competenti su questi aspetti che non approverebbero le mie pratiche.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Sono stato fortunato nel periodo in cui giravo il mondo con la borsa dei dischi, mai uno smarrimento aeroportuale, mai un furto. L’episodio che si avvicina di più ad una perdita avvenne in occasione di una serata al Club To Club di Torino. Il driver lasciò l’auto in divieto di sosta nei pressi del ristorante e alla fine della cena ci accorgemmo che era passato il carro attrezzi portandosi via la macchina e i miei dischi. Per fortuna fu possibile rintracciare il deposito e farci dare le cose in tempo per la serata. Da quella volta, anche se ormai suono quasi sempre da hard disk o USB, porto sempre con me, oltre a un drive di emergenza, anche due CD con l’indispensabile per fare comunque un DJ set di due ore. Non si sa mai.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno in particolare, non essendo un collezionista né amante della merce e della “roba”, nel senso verghiano della parola. Capita che certi collezionisti mi chiedano di poter comprare qualche disco. Vengono in studio e lascio loro spulciare liberamente nel mio materiale, sono disposto a liberarmi di qualsiasi titolo. È accaduto per esempio con l’amico Lorenzo Sannino di Napoli Segreta che si è portato a casa alcuni dei miei dischi preferiti in assoluto, ma sono stato contento perché sono finiti in buone mani e in fondo io li avevo già ascoltati a sufficienza. La cosa che mi piace di più dei dischi è che, oltre a girare sul piatto, girano anche il mondo, passando di mano in mano. È questa la loro forza, sopportare viaggi, traslochi e resistere nel tempo, anche se abbandonati in una cantina. Prima o poi qualcuno li riscopre e ricomincia la passione anche per generi o artisti minori ormai dati per dispersi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessun gran pentimento. Se un disco non mi piace lo metto nella scatola degli “indesiderati” e non ci penso più.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Quelli che vorrei avere ormai sono quasi tutti a portata di Discogs. Se qualcuno dovesse diventare davvero irrinunciabile lo comprerò a prezzo di mercato.

Bottin 3
Bottin con “One Black Dot” dei Mothmen (1982) – foto di Enrico Gandolfi

Quello con la copertina più bella?
Nella mia lista c’è una sola sottocategoria, quella dei keepers. Sono poco meno di duecento titoli che vorrei tenermi anche se riuscissi a vendere tutto il resto della mia raccolta (se qualcuno fosse interessato si faccia avanti, l’idea di alleggerirmi è sempre presente). Tra questi keepers, molti hanno una copertina particolare come ad esempio “One Black Dot” dei Mothmen.

Quello che non venderesti per nessuna ragione?
Non cederò mai, neppure sotto la minaccia delle armi, il 7″ degli Avida, “A Fumme Mariuà / La Bustina” (1982) perché me l’ha donato l’autore, il caro amico Maurizio Dami aka Alexander Robotnick.

Nutri una particolare attenzione per i 7″, molti dei quali legati a sigle televisive. Da cosa nasce tale interesse?
Quella per i 7″ è una mezza passione sbocciata negli ultimi anni. Quando capito in un negozio o in un mercatino ormai guardo solo i 45 giri. Trovo siano bistrattati sia dai DJ, sia dai collezionisti (a parte ovviamente gli amanti del reggae). Proprio per questo motivo si possono scoprire ancora tesori in materia di funk, disco e colonne sonore. Molte sigle televisive, ad esempio, sono uscite solo in quel formato. Avviene inoltre che alcune buone stampe su 7″ suonino meglio degli LP, specie se nell’album il brano interessato è tra gli ultimi della facciata. In generale lo trovo un formato comodo e leggero. Mi è capitato di fare dei set a feste di amici solo con 7″ usando come flight case le scatole di latta dei Baicoli, i celebri biscottini veneziani.

i 45 giri di Bottin
Alcuni dei 7″ di Bottin – foto di Enrico Gandolfi

Da ascoltatore a compositore: c’è stato qualcosa o qualcuno a spingerti all’attività in studio di registrazione?
Ho iniziato a produrre musica all’inizio degli anni Novanta, con un Amiga della Commodore. A quattordici anni ero parte della demo scene dell’epoca, una faccenda tutta nerd, animata da sparuti gruppi di programmatori, grafici e musicisti. Ci scambiavamo i rispettivi lavori per posta, inviando e ricevendo floppy disc da tutta Europa. Filippo De Fassi, attuale titolare di Phonopress, condivideva la stessa passione. In quegli anni da lui ho imparato parecchie cose sulla musica in generale. Si usava un software chiamato Soundtracker che gestiva quattro tracce mono su cui si programmavano pattern di brevi campioni a sedici bit. Poi sono passato alle band di funk/acid jazz in cui suonavo le tastiere. Intorno al 1997-1998 ho cominciato ad usare Cubase e a frequentare lo studio di un amico, Alberto Roveroni, e lì ho realizzato le primissime produzioni poi distribuite su CD e cassetta.

Credo che una delle tue primissime pubblicazioni sia stata “Chill Reception” di Bluecat, album pubblicato dalla bolognese Irma nel 2001.
Bluecat fu interamente realizzato con un sintetizzatore Kurzweil K2000 ed un campionatore Akai S2000. Le mie prime produzioni erano una specie di drum’n’bass, jungle e trip hop sopra cui suonavo la tromba con la sordina. Un paio di quei brani sono finiti nel citato LP per la Irma. Prima di quello avevo prodotto, sempre per Irma, alcune tracce di cocktail music. Un altro mio mentore è stato (ed è tuttora) Bob Benozzo, fu lui a consigliarmi sin dall’inizio l’uso di alcuni strumenti e software. Ancora oggi mi aiuta nei mixaggi che non mi fido a chiudere da solo. Sono molto contento di sapere che molti tra i giovani musicisti che ho conosciuto da ragazzino stiano lavorando con la musica ancora oggi, ognuno a suo modo e senza aver avuto particolari agganci e facilitazioni. Penso di essere stato fortunato a conoscere e ad imparare da persone diventate poi dei bravi professionisti. Non vengo da una famiglia musicale e, fatta eccezione per qualche anno di pianoforte, i miei maestri sono stati i dischi e questi amici.

Bottin - I Love Me Vol. 1
La copertina di”I Love Me Vol. 1″, del 2004

Nel 2004 esce “I Love Me Vol. 1” che, tra le altre cose, contiene un remake di “Lunedì Cinema” degli Stadio & Lucio Dalla ricantata da quest’ultimo, con cui peraltro collabori per portare in scena l’opera teatrale “Speak Truth To Power: Voices From Beyond The Dark” come spiegato qui. A quel Vol. 1 però non darai mai seguito, tornando discograficamente operativo solo nel 2009 con l’album “Horror Disco”. Come mai per cinque anni non incidesti più nulla?
“I Love Me Vol. 1” fu il primo di una lunga serie di tentativi (più o meno falliti) di emancipazione dalle etichette discografiche. Fu autoprodotto da me con Irma e Sony limitati al ruolo di distributori. La distribuzione fu infatti capillare ma sostanzialmente sbagliata: finì in tutti i negozi ma nella sezione di rock estero, in ordine alfabetico tra Bon Jovi e David Bowie. Temo di averne ancora uno scatolone nel garage dei miei genitori. Iniziai a lavorare con Lucio Dalla già un paio d’anni prima. Per un grande concerto in occasione dell’anniversario di Tazio Nuvolari riarrangiai l’intero album “Automobili” di Dalla/Roversi, mettendo insieme una band “futurista” di ben dieci elementi (tra cui B C Manjunath alle percussioni indiane, il turntablist Rock Drive e il videomaker Francesco Meneghini) che rimaneggiavano dal vivo materiali audio e video d’epoca concessi da Istituto Luce. Con Dalla sono diventato amico quasi subito ed ho continuato a collaborare su progetti speciali e produzioni teatrali. In quei cinque anni prima di “Horror Disco” in realtà ho realizzato un album uscito successivamente, quello di Tinpong con la vocalist Joy ‘Oy’ Frempong. Anche un remix per Donatella Rettore, poi diventato sigla di MTV Italia, oltre a tanti lavori di sound design, pubblicità ed installazioni. Bene o male, è stato un periodo in cui ero sempre in studio anche se non come artista in prima persona.

Bottin - Horror Disco
La copertina di “Horror Disco” (Bear Funk, 2009)

Come nacque, invece, “Horror Disco”?
Inizialmente “Horror Disco” doveva essere un’etichetta. Avevo realizzato parecchi brani in bilico tra disco music e colonne sonore. Stevie Kotey, il DJ dei Chicken Lips a cui mandai due CD pieni di quel materiale, pensò che Horror Disco potesse diventare una sublabel della sua Bear Funk. Era un’idea relativamente nuova all’epoca, antecedente e forse anche ispiratrice delle varie Giallo Disco, Voodoo, Discorror, etc. Poi il progetto fu (giustamente) ridimensionato a due EP su 12″ e ad un album su CD e doppio LP. Al momento della release ero già entrato come producer nella scena space disco col singolo “Fondamente Nove” per Eskimo Recordings e soprattutto con “No Static” su Italians Do It Better a cui devo l’inizio della mia esperienza come DJ internazionale.

Fatte poche eccezioni, la tua discografia è cresciuta attraverso etichette estere, dalle britanniche Bear Funk, Z Records e Nang alle statunitensi Italians Do It Better, 2MR e Chit Chat Records passando per la belga Eskimo Recordings e l’olandese Bordello A Parigi. Caso fortuito o scelta intenzionale?
All’epoca in Italia non c’erano label disposte a pubblicare quei generi e a dire il vero anche oggi ce ne sono poche. Mandavo i miei brani a quelle che mi sembravano potessero essere ricettive e che già stampavano dischi che mi appassionavano. Un paio mi hanno risposto e pubblicato. Su Eskimo Recordings in quel momento usciva il materiale di Lindstrøm & Prins Thomas che mi piacevano, Italians Do It Better invece aveva un’estetica visiva che mi sembrava compatibile al mio immaginario. Nessuna scelta esterofila quindi, non ho mai creduto molto ai confini ed alle identità nazionali, con qualche piccola eccezione. Mi sembra una specie di astrologia: siccome si è nati sotto una costellazione o sopra un territorio nazionale, allora si dovrebbero avere un’identità e un destino con caratteristiche predefinite? Non ne sono affatto convinto.

L’italo disco è uno dei tuoi generi di riferimento. Bistrattata e in alcuni casi persino rinnegata da chi la produsse, è tornata in vita una ventina di anni fa ma su iniziativa di DJ, collezionisti ed appassionati esteri, soprattutto nordeuropei. Perché, secondo te, i primi a non accorgersi del valore e della portata rivoluzionaria di certi pezzi sono paradossalmente proprio gli italiani? Banale esterofilia che ci affligge da tempo immemore?
Secondo me l’italo disco non è propriamente un genere musicale ma include tutta la musica dance prodotta in Italia tra il 1977 e il 1987 circa. Dentro c’è di tutto, i Tantra, i Change, Rago & Farina, Alexander Robotnick, Baltimora, Tipinifini, Albert One, Raf e Raffaella Carrà. Un mondo vastissimo fatto di tante musiche quasi tutte di matrice pop ma parecchio eterogenee. Quanto all’esterofilia, certamente è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. A causa dell’esterofilia molti artisti italiani non fanno tante serate in patria giacché è più cool mettere in cartellone artisti di provenienza estera. Sempre per esterofilia, alcuni italiani girano il mondo perché appare cool (o almeno così pareva) per i non-italiani chiamare un DJ italiano, anche se magari è meno bravo di alcuni resident del posto. Sto esagerando, chiaramente è anche la musica che si produce ad attecchire in certi contesti più che in altri. In Italia, nella musica da ballo, siamo quasi sempre stati al seguito di stili che avevano già avuto successo altrove, ma alcune produzioni italiane si spingevano oltre l’imitazione assumendo una propria identità e in qualche caso riuscendo ad imporsi all’estero come “suono italiano”. Tutta l’italo disco nasce come scimmiottamento di musica dance anglosassone. Ora, magari, certi anglosassoni scimmiottano l’italo disco. Questi cicli di influenze reciproche sono perfettamente normali, appartengono a quell’accumulo di strati di cui è fatta ogni cultura.

Cristalli Liquidi
Buona parte della discografia di Cristalli Liquidi

Nel 2010 crei Artifact, piccola etichetta che si fa notare coi dischi di Cristalli Liquidi accompagnati da ironiche parodie grafiche che rimandano ad un’industria ormai scomparsa e quasi del tutto dimenticata (Discomagic, Numero Uno, Discotto). Quali ragioni ti hanno spinto all’autoproduzione piuttosto che ad affidarti ad altre label?
Come accennavo prima, ogni tanto cerco di emanciparmi dalle label. A volte va piuttosto male, altre invece meglio come con Cristalli Liquidi. Doveva essere un progetto di un solo singolo, “Volevi Una Hit”, autoprodotto perché nessuno intendeva pubblicarlo, nemmeno la Italians Do It Better che temeva problemi con gli LCD Soundsystem a cui il brano è largamente ispirato visto che nasce come cover di “You Wanted A Hit” anche se poi tanto cover non è, ha una sua identità, un suo ritornello e un testo che esulano dall’originale. Ricevuta l’approvazione direttamente da James Murphy, l’ho pubblicato senza indugi. Artifact però non è proprio la mia label e non è nemmeno un’etichetta vera. Più che altro è un accordo di P&D (press & distribution) stretto con un broker olandese. Serve a pubblicare Cristalli Liquidi, i miei re-edit e ultimamente anche brani a mio nome. Forse, in un vicino futuro, anche pezzi di altri artisti. Per questi motivi non la considero un’etichetta, non ha un’identità né tantomeno un’immagine. È solo un modo di uscire sul piccolo mercato della distribuzione fisica di dischi.

Ad Artifact si affianca, nel 2012, pure una seconda “etichetta”, la Tin. Corrono sostanziali differenze tra le due?
Nessuna. Tin è stata semplicemente una serie di 12″ monofacciata coloratissimi con le versioni estese dei singoli dell’album “Punica Fides”. Pure in questo caso parlerei di un tentativo di emancipazione, in parte riuscito ma poi rientrato con la successiva pubblicazione del citato album su Bear Funk. Ora Tin è sostanzialmente inattiva ma resta Artifact.

Ormai le tirature dei 12″ destinati al DJing si sono assottigliate sino a raggiungere la media delle appena trecento copie, soglia risibile se confrontata a quelle dei decenni pre-millennio. Insomma, oggi incidere dischi è tutto fuorché economicamente incentivante e redditizio, gli introiti devono essere recuperati da altri ambiti connessi come le sincronizzazioni (cinema, tv), lo streaming e il download (può essere preso in considerazione sotto una certa soglia?) ed intrattenimento che però, al momento, è messo fuori gioco dal coronavirus. Ritieni che tutto ciò, per chi ha vissuto l’epoca in cui i limiti tecnologici relegavano la musica alla tattilità, abbia logorato la creatività? Per un artista è demoralizzante sapere di non poter più contare su un pubblico disposto a spendere del denaro per acquistare la sua musica?
Un po’ lo è ma contemporaneamente l’abbassamento qualitativo delle produzioni fa sì che ci voglia poco a produrre dischi appena migliori della media, avendone le capacità. Certo, bisogna essere un po’ musicisti, saper scrivere delle linee di basso interessanti, delle melodie anche minime ma comunque efficaci, non basta assemblare loop ed attivare arpeggiatori software. È altrettanto possibile fare buoni lavori di puro sampling o re-editing estremo e creativo. Visti gli introiti minimi di streaming e download, oggi si distribuiscono tanti re-edit e si usano campionamenti in modo piuttosto disinvolto, a volte fin troppo. Quanto al mercato dello streaming, non bisogna dimenticare che si tratta di un’industria sostenuta in buona parte dai grandi dischi registrati nel passato. Con l’economia discografica attuale sarebbe letteralmente impossibile produrre e promuovere musica così come si faceva una volta contando sui volumi di vendita dell’epoca. Inoltre la musica liquida dei servizi di streaming non è posseduta da chi la ascolta e nemmeno da chi paga un abbonamento. Se un giorno le piattaforme dovessero chiudere battenti o andare offline, gli utenti perderebbero tutta la loro raccolta di brani, album e playlist. Cadrebbe il silenzio. Invece i dischi e i CD che si possiedono restano, anche nel futuro per figli, nipoti, pronipoti o per chi li potrà ritrovare in un negozio dell’usato.

Che futuro prevedi per la musica incisa su supporto fisico? Per quanto tempo il disco in vinile potrà continuare ad alimentare l’interesse degli appassionati?
Penso durerà quasi per sempre, magari in quantità ulteriormente ridotte. Oggi c’è perfino un piccolo mercato di stampe per dischi a 78 giri destinati al grammofono. La forza del disco, come dicevo prima, è offerta dalla resistenza a lunghi transiti nello spazio e nel tempo. Un disco passa di mano in mano, di generazione in generazione e, anche se per qualche anno finisce abbandonato, prima o poi viene riscoperto da qualcuno, recuperato in un mercatino, poi recensito ed incensato, suonato anche decine di anni dopo essere stato prodotto. Un disco può avere tante vite e questo coi file, per ora, non succede o comunque accade molto meno. Un artista dovrebbe avere l’obiettivo di essere ascoltato ancora tra mille anni e non solo di entrare nella playlist della settimana o nella chat del selector di moda. Un produttore sa intimamente sa se ha fatto un bello o cattivo lavoro, se ha copiato una formula o se ha aggiunto almeno qualche ingrediente personale, questo al di là del successo o dell’insuccesso ottenuto. Poi è chiaro che bisogna anche cercare di vivere con la musica e questo richiede dei compromessi, degli adattamenti, un allineamento con lo spirito dei tempi. Ma le necessità, per così dire, “alimentari” non dovrebbero mai dettare tutta la linea, a maggior ragione se un disco si pubblica ormai in appena trecento copie. Perché scendere a compromessi col mercato per quantità così basse? Eppure escono ancora tanti dischi tutti uguali. Il disco, bello o brutto, originale o banale, continua a farsi perché gli artisti continuano a volerlo, accollandosi sempre più spesso le spese di produzione e di stampa. Alcune etichette ormai chiedono all’artista di partecipare ai costi, del resto avviene da tempo per le case editrici e per le mostre d’arte di seconda categoria. Poi ci sono label che campano quasi esclusivamente di ristampe più o meno legali di dischi desiderabili (magari perché rari) che hanno un potenziale di acquirenti già assodato. Quelle sono operazioni di mercato che da un lato rispetto perché proteggono dall’oblio certi titoli e li rendono di più facile reperimento, dall’altro però non si può ignorare che ogni ristampa venduta è un disco di musica nuova invenduto e magari nemmeno distribuito. Vale anche per i re-edit, genere che frequento attivamente, pur conscio di quanto sia in diretta concorrenza con le produzioni originali. Ed è una concorrenza un po’ sleale, almeno artisticamente, però gli edit vendono facilmente e con quelli magari ci si fa conoscere prima di uscire con un disco “vero” o si finanza la stampa di un disco più difficile da smerciare.

Tra i tuoi collaboratori più ricorrenti ci sono Maurizio Dami, Roberto ‘Bob’ Benozzo (intervistati rispettivamente qui e qui) e Rodion ma val la pena ricordare anche gli interventi vocali dell’indimenticato Douglas Meakin in “Disco For The Devil” (da “Horror Disco”) e di Lavinia Claws. Ci sono artisti del presente o del passato con cui ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto condividere l’attività in studio?
Con Robotnick la collaborazione nasce dall’amicizia, con Rodion ho realizzato diverse produzioni in passato ma poi ci siamo persi quando si è trasferito all’estero. Mi piacerebbe lavorare ancora con lui, ci siamo sempre divertiti facendo cose che ritengo belle. Ho collaborato pure con Francesco De Bellis (Francisco, L.U.C.A.) per “BFR (Space)” e “Zombie Erotic”, e proprio in queste settimane stiamo ultimando due nuovi brani. Da poco ho coprodotto un EP con Fabrizio Mammarella ed ho registrato una canzone in italiano con Debora Petrina. C’è inoltre un nuovo progetto personale che uscirà presto sotto uno pseudonimo. Non ho molti sogni nel cassetto, forse perché ho sempre avuto tante cose in cantiere. Mi è anche capitato di incontrare alcuni di quelli che erano stati i miei miti musicali ma che, senza fare nomi, in alcuni casi si sono rivelati mezze delusioni. Forse avevano perso lo smalto di un tempo oppure li avevo idealizzati troppo. Certi dischi, soprattutto quelli del passato, non sono il frutto di una sola persona ma il risultato di una squadra fatta di tanti talenti, magari passati in secondo piano.

Ragazza Madre EP
“Ragazza / Madre” è l’EP più recente di Cristalli Liquidi. Appena quaranta le copie del 10″ pubblicato da Industrie Discografiche Lacerba

In questa intervista di Fabio De Luca, pubblicata da Rockit il 17 gennaio 2018, sveli molte curiosità su una delle tue “creature” meglio riuscite, Cristalli Liquidi. Pochi mesi fa la tua “band/non band” è tornata con “Ragazza / Madre”, un EP pubblicato questa volta in CD dalla fiorentina Industrie Discografiche Lacerba, di cui esiste una limitatissima tiratura di appena 40 (!) copie in formato 10″. Puoi raccontare, anche dettagliatamente, il contenuto?
Cristalli Liquidi è un progetto strano, per certi versi imprevisto. Come raccontavo prima, doveva essere un unico disco, misterioso ed anonimo, poi sono diventati due, tre, quattro ed addirittura un album con alcuni brani scritti e prodotti insieme a Robotnick ed altri nati in collaborazione coi Polosid. Fino ad allora ero rimasto dietro le quinte. Poi con “Tubinga” (rivisitazione dell’omonimo di Lucio Battisti, dall’album “Hegel”) mi sono “rivelato” in un video performativo, un unico take realizzato con la performer Laura Pante e la fotografia di Giovanni Andreotta. Si è tenuto anche un piccolo tour in cui mi sono esibito come cantante (non l’avrei mai immaginato di farlo!) accompagnato alla batteria dall’amico Frank Agrario. È successo tutto così, senza progettarlo. Potrebbe essere già finito oppure ricominciare. Da qualche tempo collaboro con Lapo Belmestieri di Lacerba, è un grafico di pregio e cura bene ogni cosa. Così è nato “Ragazza/Madre” che vuole essere la conclusione della liason col repertorio di Lucio Battisti e Pasquale Panella. La scelta di fare quaranta copie su vinile 10″ è di Lacerba, ma esiste anche il digitale.

Estrai dalla tua raccolta dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Marisa Interligi - Occhio Di SerpenteMarisa Interligi – Occhio Di Serpente
Malcelata cover o un mezzo plagio ai danni degli Earth, Wind &Fire? Comprai il 7″, edito dalla Arc nel 1982, ad un mercatino senza sapere a cosa sarei andato
incontro.

Riz Ortolani - Quei Giorni Insieme A TeRiz Ortolani – Quei Giorni Insieme A Te
Un pezzo tratto dalla colonna sonora di “Non Si Sevizia Un Paperino”, un bel film del 1972 diretto da Lucio Fulci. Lo presi esclusivamente per la meravigliosa copertina che ritrae una Florinda Bolkan furente in una classica grafica di stampo cinematografico.

Giusto Pio - Auto-MotionGiusto Pio – Auto-Motion
Un brano del 1984 utilizzato come sigla del programma televisivo di proto informatica Chips, storpiato in Clips sulla copertina. Una distopia tra l’apocalittico e il fantascientifico cantata da Franco Battiato.

Jenny Nevasco - Crazy MusicJenny Nevasco – Crazy Music
Discreto brano funk un po’ esotico, pubblicato nel 1977. La copertina è di Mati Klarwein, lo stesso che ha illustrato, tra gli altri, “Bitches Brew” e “Live-Evil” di Miles Davis, “Abraxas” di Santana, “Last Days And Time” degli Earth, Wind &Fire e “Dream Theory In Malaya” di Jon Hassell. Chissà come è finito su questo 7″ della Yep Record.

MA.GI.C. - ShampooMA.GI.C. – Shampoo
Un pezzo che mi mette sempre di buon umore, cantato dal grande Douglas Meakin sulla musica dei fratelli MA(rio) e GI(useppe) C(apuano), i MA.GI.C. per l’appunto. A pubblicarlo è la Mr. Disc Organization nel 1981.

Umberto Balsamo - CrepuscoloUmberto Balsamo – Crepuscolo
“Crepuscolo” è un altro di quei dischi che ho comprato per la copertina, molto elegante. Il brano del ’78, arrangiato da Gian Piero Reverberi, è stato comunque una gradevole scoperta, pare ispirato da “Amarsi Un Po'” di Lucio Battisti.

Colorado - Space Lady LoveColorado – Space Lady Love
Una ruspante produzione space disco in cui appare il nome di Red Canzian dei Pooh nel ruolo di produttore. Lo comprai un mattino al mercatino di Porta Portese e nel pomeriggio era già campionato ed usato nell’EP “Galli” realizzato con Rodion per la Eskimo Recordings.

Alberto Camerini - Computer CapriccioAlberto Camerini – Computer Capriccio
Il brano era contenuto in una compilation su audiocassetta che i distributori di benzina regalavano col cambio d’olio del motore. Fu la colonna sonora di un lungo viaggio coi miei genitori fino a Dubrovnik, in una Fiat 127 lungo tortuose strade costiere cosparse di buche. Una canzone manifesto della generazione elettronica, la prima ad avere un computer in casa. Qualche anno fa ho avuto la possibilità di farmi autografare il disco da Alberto Camerini.

Ayx - Ayx TecaAyx – Ayx Teca
Anche questo 7″ del 1979 è frutto di una pesca miracolosa a Porta Portese, una decina di anni fa. Lo ri-editai subito in una extended version pubblicata solo su vinile nel 2010 su Artifact intitolata “Aextacy”, anagramma del titolo originale. All’epoca ci fu una specie di gara tra i fanatici della disco music italiana per indovinare cosa fosse e chi lo cantasse (sembra la Bertè ma è Gloria Nuti). Oggi è abbastanza noto giacché ripubblicato anche in digitale ma il primo incontro non si scorda mai.

Daniel Sentacruz Ensemble - Uffa Domani È LunedìDaniel Sentacruz Ensemble – Uffa Domani È Lunedì
Un pezzo scoperto nei meandri della discografia di Mara Cubeddu, prodotto da Vince Tempera nel 1978. Ne ho fatto un re-edit lo scorso anno con cui ho rianimato la serie su Artifact, da qualche tempo assopita. Ha però un grosso limite: si può suonare solo di domenica.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di DJ Rocca

DJ Rocca 1

DJ Rocca e parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primissimo, tutto per me, lo ebbi a circa nove/dieci anni ed era il 7″ con la sigla dello sceneggiato televisivo Sandokan con Kabir Bedi, ma essendo un regalo di mia madre non fu un acquisto fatto con consapevolezza. Considero invece il primo “vero” disco della mia vita da collezionista un altro 7″, “Beyond” di Herb Alpert che comprai quando avevo quindici anni, in occasione della prima gita al mare con gli amici, senza genitori. Ricordo ancora che tornammo a Reggio Emilia da Riccione in treno ed avevo il sacchetto, con dentro il disco, legato al passante dei pantaloni.

L’ultimo invece?
La ristampa del singolo “Look Into My Eyes” del gruppo brit funk 52nd Street. Un bel disco boogie jazzato, uscito sulla mitica Factory di Manchester nel 1982.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Non li ho mai contati ma la stima a spanne mi porta intorno ai dodicimila, cento più, cento meno. La quantificazione di quello che ho speso invece mi spaventa parecchio ma in aiuto viene Discogs in cui ho inserito almeno la metà di quelli che posseggo. Il valore emerso mi fa capire che è meglio non pensarci.

Come è organizzata?
È sistemata in due stanze. Nella prima ci sono tutti i dischi accumulati nel periodo della mia residenza al Maffia, quindi drum n bass, breakbeat e trip hop, a cui si aggiungono tre scomparti per la raccolta di dischi jazz classici (John Coltrane, Charlie Parker, Miles Davis, Bill Evans, Charles Mingus, Thelonious Monk etc), quelli MPB (musica popolare brasiliana), quelli italo disco e quelli jazz funk. Il grosso della collezione è nella seconda stanza dove accumulo i dischi che considero dance e da cui attingo quando faccio la valigia per i miei DJ set. In questo luogo ho azzardato la catalogazione: dischi suddivisi per autore, per genere o per etichetta, quindi tutti quelli di James Brown, Roy Ayers, Herbie Hancock, Fela Kuti, Azymuth, Gil Scott-Heron, Kraftwerk…o tutti quelli usciti su T.K. Disco, AVI Records o 99 Records e così via. Ho tenuto uno scomparto per le colonne sonore, uno per il dub e reggae ed uno per il krautrock. Sostanzialmente c’è una parvenza di ordine ma non riguarda la totalità dei miei dischi. Direi che un 50% sia riposto con un senso, il resto, purtroppo, è ancora alla rinfusa.

DJ Rocca 2

Un paio di scatti che rendono l’idea dell’entità della raccolta di Roccatagliati

Segui particolari procedure per la conservazione?
Certamente. Ho la fortuna di vantare nel mio quartiere un favoloso negozio di dischi usati, Planet Music, gestito da un caro amico che dispone di una macchina lavadischi professionale. È lui a fornirmi anche le migliori buste in plastica trasparente. Il 70% dei miei dischi è custodito nella busta protettiva e lavato all’occorrenza.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Per fortuna o forse perché sono un maniaco della sicurezza. I pochissimi che non trovo più, giusto un paio, sono spariti per mia colpa, smarriti nel buio di chissà quale consolle e in chissà quale club.

DJ Rocca 3

DJ Rocca con “Brown Rice” di Don Cherry, il disco a cui tiene maggiormente

Qual è il disco a cui tieni di più?
Senza dubbio “Brown Rice” di Don Cherry. Lo acquistai circa trentacinque anni fa ma mi sorprende ancora, dandomi le stesse emozioni di quando posai la puntina sui solchi per la prima volta. Ne possiedo diverse copie in vari formati.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Sono diversi ma fortunatamente già spariti. Il negozio del mio amico di cui parlavo prima ha “ritagliato” una sezione coi titoli di cui mi voglio disfare e sembra che un acquirente lo trovino sempre.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
La wantlist è molto lunga nonostante non mi sia quasi mai fatto mancare nulla. C’è però un 12″ del periodo disco funk super raro che costa troppo e che nessuno ha ancora ristampato ufficialmente, “Come On And Rock” di Needa. Sono almeno quindici anni che staziona nella wantlist ed è una cosa piuttosto insolita.

Quello di cui potresti o vorresti disfarti senza troppe remore?
Per fortuna Planet Music smaltisce le “scorie” della mia collezione. Per entrare nel particolare, ho approfittato di questo lusso per vendere buona parte dei singoli drum n bass e breakbeat senza alcuno spessore musicale ricevuti anni addietro in copia promozionale.

DJ Rocca 4

DJ Rocca considera “Life On Mars” di Dexter Wansel il disco con la copertina più bella

Quello con la copertina più bella?
Senza ombra di dubbio “Life On Mars” di Dexter Wansel: quel corridoio illuminato da neon azzurri su sfondo blu, che genera una piacevole sensazione di retrofuturismo, mi riporta alla mente un immaginario sci-fi fluttuante di suoni emozionali, come del resto avviene col contenuto dello stesso album. Ogni volta che riguardo quella copertina mi risale la stessa eccitazione. Esistono ovviamente altre magnifiche cover ma non hanno quel potere.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
I negozi di dischi sono sempre stati un luogo un po’ particolare, specialmente quando si è adolescenti e si incomincia ad affacciarsi nel mondo degli adulti “che sanno”. La maggior parte dei negozi che frequentavo erano quelli della mia città, Reggio Emilia, e tutti noi clienti facevamo affidamento al commesso più anziano il quale, quasi sempre, si considerava un semidio. Potevi incontrare quello con atteggiamenti paternalistici, quello con l’aura del vero esperto o quello con la faccia da schiaffi che poi amavi per tutta la vita. Il rapporto commesso/cliente è una costante obbligatoria che mi è sempre saltata all’occhio e che ha avvolto di fascino il luogo stesso. I negozi di dischi erano come un tempio in cui potevi abbeverarti al sapere ma il Gran Maestro Shaolin capiva, tramite il suo atteggiamento severo, se meritavi di avere accesso ad una porta o ad un’altra. Nel momento in cui ti si apriva quella giusta, il Maestro Shaolin diventava il tuo educatore musicale per sempre, consigliere dei migliori dischi per i tuoi gusti o per farti scoprire nuove religioni sonore. Con l’età e la patente della Vespa, mi spingevo in negozi sempre più grandi come i Magazzini Nannucci a Bologna, Peecker Sound a Formigine o Dimar Dischi a Rimini, veri e propri antesignani degli attuali megastore, dove il rapporto morboso commesso/cliente si diluiva ma, di contro, potevi lanciarti nel rischio di scelte personali visto che riuscivi ad ascoltare in autonomia i dischi scelti e i prezzi erano convenienti. Sarò un malato o un nostalgico ma i pochi negozi che frequento, sia in Italia che all’estero, sono quelli che hanno mantenuto la stessa austera suggestione e che mi danno l’impressione di entrare ancora nel tempio del sapere dove, con deferenza, mi lascio guidare dal Gran Maestro dei Vinili.

Sei tra coloro che apprezzano o che demonizzano l’e-commerce?
Sono favorevole. Se non fosse stato per l’allargamento di offerta su scala mondiale, non avrei mai potuto mettere le mani su articoli che cercavo da sempre. In più l’e-commerce ha dato la possibilità di essere venditori, quindi trovare potenziali acquirenti in ogni dove. Ovviamente il calore e la seduzione del negozio fisico non potranno mai essere sostituiti da quelli virtuali ma un giusto equilibrio tra le due situazioni è ciò che mi auguro. Suppongo occorra un’educazione differente per chi compra.

I negozi di dischi che riescono a sopravvivere alla globalizzazione sono sempre meno (giusto poche settimane fa ha abbassato definitivamente la saracinesca anche Mariposa, a Milano) e le prospettive future non sono delle più rosee. Il “colpevole” è l’e-commerce o la disaffezione che il grande pubblico nutre ormai per la musica, un “bene” da ascoltare e consumare online e non più da possedere materialmente?
Ho la sensazione che si stia affrontando ogni cosa, tra cui la musica, con crescente approssimazione. Io per primo ho maggiore difficoltà a concentrarmi, meno voglia di approfondire, di finire un libro o di ascoltare un intero album. Sento la smania di accumulare materiale come se equivalesse ad interiorizzarlo. L’ascolto streaming è molto più agevole e meno vincolante. Chi si spinge a comprare un disco va controcorrente, decide di possedere una cosa impegnativa che va ascoltata per intero, un oggetto che dura per molto tempo e che va preservato. La debacle dei negozi di dischi è relegata a quelli che non si specializzano. Garantisco che gli amici gestori di negozi di dischi usati hanno visto, al contrario, un’impennata delle loro vendite.

Sei tra coloro che continuano ad incidere dischi senza sosta: per gli artisti e le etichette che scommettono ancora sul prodotto fisico, che sia un 12″ o LP, un CD e talvolta una cassetta, esiste ancora un, seppur minimo, riconoscimento economico o il motore di questa attività è unicamente alimentato dalla passione?
Il riconoscimento economico sopravvive. Il disco è come un libro, un’opera che incomincia dal contenitore e si allarga fino al contenuto. La copertina, l’artwork, il formato, la carta… ancora prima di ascoltare il suono che uscirà da quel pezzo di plastica o nastro, tra le mani si stringe un’opera artistica che offre emozioni e lancia un messaggio. Più che una scelta di business, oggi stampare un disco è un’espressione corale, un’opera d’ingegno che coinvolge il musicista, il grafico e il proprietario della stessa etichetta. Tutti insieme fanno arte, aggregando idee che portano ad un risultato. L’abilità e la passione di questo team fa si che il riconoscimento economico sia soddisfacente. In altri termini: i dischi buoni vendono ancora.

Seppur attivo come DJ, hai iniziato ad armeggiare in studio di registrazione relativamente tardi, intorno al 1998 nel progetto/collettivo Maffia Sound System. Come mai non provasti prima a “buttarti” nella discografia?
Effettivamente sono stato “tardivo” per svariate ragioni. Prima tra tutte la discordanza indotta tra il musicista che esercita con uno strumento convenzionale e il musicista che utilizza invece attrezzature elettroniche per creare suoni. Nascendo come flautista e poi come aspirante jazzista, al conservatorio mi hanno (male) educato a considerare merda tutte le altre forme di espressione musicale definendole inferiori. Figuriamoci quella del DJ, che produce musica da ballo. Poi, nei primi anni Novanta, l’apertura mentale mi ha permesso di percepire qualche indizio nel cambiamento e, al contrario di quello che pensavo sino a poco tempo prima, scoprii che con le apparecchiature elettroniche si potesse essere non solo un flautista ma anche un pianista, un batterista, un arrangiatore, un fonico e, in linea generale, uno sperimentatore. Le possibilità di espressione diventavano infinite. Già gli anni Ottanta furono ricchi di autorità elettroniche ma la tecnologia sempre più accessibile ad un prezzo progressivamente più umano mi ha fatto avvicinare a quel mondo fino a quando, grazie al Maffia, ho capito in modo chiaro che il futuro della musica sarebbe stato proprio quello. Finalmente mi sentivo bene e senza più sensi di colpa. I primi tempi furono senza dubbio naïf, con produzioni generate da un PC scassato ed un sampler Akai. Campioni su campioni e suoni mixati male ma con la consapevolezza di trattare una materia grezza che più avrei plasmato e più sarebbe diventata duttile. Sebbene mai contento delle prime creazioni, alcune coraggiose etichette iniziarono a stampare i miei brani. Da quel momento, come quando mi convinsi a prendere lezioni di improvvisazione jazz dopo lo studio della musica classica, decisi che mi sarei dovuto istruire di più andando negli studi dei miei produttori preferiti. Così, con armi e bagagli, mi trasferivo per settimane intere in Gran Bretagna nelle sale di registrazione degli amici Pressure Drop, Zed Bias e Ian Simmonds, per comprendere bene la nuova “forma” di musicista che sarei voluto diventare.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando al Maffia?
“Higher State Of Consciousness” di Josh Wink, un pezzo che ci travolse completamente. Ritmi spezzati, una bassline Roland e tanta attitudine punk quanto techno. Una formula che ogni volta creava sulla pista un clima da rito sciamanico. Il titolo mi fu suggerito da un amico che frequentava la scena londinese nel 1995 e diventò il super classico del Maffia per tutti gli anni a venire, fino alla chiusura nel 2009; “Brown Paper Bag” di Roni Size / Reprazent, una traccia che, come la prima serata al Maffia con DJ Krust nel 1996, ci fece arrivare in modo chiaro e limpido il messaggio che la musica stesse cambiando per una nuova era. Non è un caso che l’album “New Forms”, in cui quel pezzo era contenuto, sia stato premiato col Mercury Prize nel ’97, soffiato a musicisti militanti in scene più tradizionali. Quando la band eseguì il brano, live, nel concerto del ’98 al Vox di Nonantola, noi del Maffia eravamo gli italiani con cui i componenti del gruppo erano in confidenza perché fummo il primo club a dare la residenza alla label di Roni Size, la Full Cycle. Non dimenticherò mai quando Krust, Die e Suv scesero dal palco e vennero subito ad abbracciarci, entusiasti come noi e certi di essere nel futuro; “138 Trek” di DJ Zinc, ossia il prodromo del genere UK garage, l’anello di congiunzione tra il breakbeat, il drum n bass e quello che sarà il dubstep. Quando Zinc veniva al Maffia solitamente suonava drum n bass ma la sera che, come Maffia Sound System, aprimmo il suo set decidendo di passare quel brano, ci fu il black out in tutta Italia (era la notte tra il 27 e il 28 settembre 2003, nda).

Conservi tutti i dischi/CD incisi nella tua carriera?
Certo. Ho sia l’archivio dei CD (anche quelli con un solo mio brano, che ho mixato oppure che ho masterizzato per terzi) fino alla doppia o tripla copia di una mia uscita su vinile. Mi mancano giusto un paio di compilation su CD che contengono mie tracce, una giapponese curata da Dimitri From Paris ed una balearica della Stereo De Luxe. Ma prima o poi le comprerò su Discogs.

C’è un disco (o un brano) nella tua discografia che ritieni possa rappresentare in toto il tuo stile e la tua attitudine?
Io stesso non conosco il mio stile e la mia attitudine, sono tuttora alla scoperta di tanti infiniti linguaggi musicali interessanti e di conseguenza non riesco ad individuare nel mio repertorio un’opera tale da racchiudere tutto ciò che avrei voluto dire. Se dividiamo per generi, la mia attitudine krautrock mi fa amare “Prospective”, il primo album di Crimea X, in merito alla disco invece citerei “Erodiscotique”, l’album prodotto con Dimitri From Paris. Per l’attitudine balearic invece i due album condivisi con Daniele Baldelli, “Podalirius” e “Quagga”, per quella jazz i dischi realizzati con Franco D’Andrea, e potrei andare avanti. Forse però c’è un album particolarmente identificativo che mi riporta agli esordi e mi fa sembrare che fosse già tutto lì: si tratta di “Light Transmission” del progetto creato con l’amico Enrico Marani alias Samora (quello de Le Forbici Di Manitù) ossia 2Blue, che autoproducemmo nel 2003 con la label legata al Maffia, la Kom-Fut Manifesto Records. È possibile ascoltarlo su Spotify cliccando qui.

DJ Rocca @ Maffia (tra 1998 e 2000)

DJ Rocca in consolle al Maffia di Reggio Emilia, in una foto scattata tra 1998 e 2000

Nelle righe precedenti è stato citato più volte il Maffia, club a Reggio Emilia che pionieristicamente smosse le acque in una zona musicalmente dominata dal rock. Come tu stesso dichiari in questa intervista di Robert Baravelli pubblicata il 19 agosto 2015, cercaste di portare un pizzico di quella «musica suonata che incontrava linguaggi moderni più vicini all’elettronica e alle esperienze dei rave e dei club che in Gran Bretagna, Germania e Olanda erano frequentatissimi». La vostra proposta fu interessante quanto coraggiosa, degna del migliore “intrattenimento illuminato” con ospitate di vero pregio, da Ed Rush a Keith Tenniswood, da Les Rythmes Digitales ai Plaid, da Nitin Sawhney a Will White dei Propellerheads passando per Grooverider e Photek, giusto per citarne solo alcuni. Ritieni ci siano ancora i presupposti per fare cultura con l’intrattenimento in Italia? In tanti lamentano una scena ormai allo sbando, con pochissime realtà degne di competere con quelle di venticinque/trent’anni fa rimaste impresse a fuoco nella memoria di un’intera generazione, forse non solo per banale nostalgia. Cosa è cambiato, in negativo, in questo ambiente e quali potrebbero essere le soluzioni? Lo stop forzato dalla pandemia sarà, come più di qualcuno sostiene e si augura, lo stimolo per ripartire con nuove progettualità ed intenti?
È una domanda molto impegnativa, solo un team di sociologi, promoter, storici e musicisti riuscirebbe a dare una risposta adeguata. Io posso cercare di muovermi tra alcune sensazioni personali. Non sono un reazionario ma la prima cosa da tenere presente è il periodo storico incompatibile. Il decennio 1990-2000 è stato denso di cose, di avvenimenti, di progressi, di modi di vivere completamente discordi dai due decenni che oggi ci distanziano da quell’era. La curiosità e la qualità, ad esempio, erano imperativi che oggi stanno evaporando e creano un assoluto divario di approccio se vuoi occuparti di cultura. Altro fattore importante è la distribuzione della ricchezza: vuoi mettere la condizione economica di un medio cittadino tra i venti e i quarant’anni nel 2020, pandemia a parte, e del suo omologo di venti/venticinque anni fa? Di conseguenza la società di oggi non può sostenere modelli obsoleti di intrattenimento. Sta di fatto che è veramente cambiato molto, ma non solo in negativo. Per la mia esperienza, al di là di tutti i fattori temporali, sociali ed economici, mi sento di dire che la testardaggine, la conoscenza approfondita di quello che fai, la volontà di proporre cose interessanti e un pizzico di positività mista ad entusiasmo, possono fare miracoli in tutte le epoche, qualsiasi portafoglio si abbia a disposizione. Magari negli anni Novanta l’intrattenimento culturale innovativo passava per ciò che definiamo club culture ed oggi si affaccia con differenti forme espressive. Non dimentichiamoci che la musica dance oggi è adulta tanto quanto il rock o il jazz, e non offre ottimi segni di celere rinnovamento come invece avvenne nel suo periodo “adolescenziale”. Mi astengo infine dal lanciare ipotesi su ciò che avverrà dopo la pandemia. È già diventato uno sport nazionale fare previsioni, preferisco avere elementi di giudizio certi che, ad oggi, ancora non disponiamo.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

Project Democracy Feat. China - Is This Dream For RealProject Democracy Feat. China – Is This Dream For Real?
Quando compro un disco cerco sempre di scegliere un’opera particolare. Questo è il singolo house della mia collezione che più esprime l’urgenza creativa e la voglia di sperimentare con un linguaggio agli albori. Ho rincorso il vinile per mesi, poi finalmente me lo sono potuto permettere ad un prezzo ancora nei limiti. Non sempre ci sono i presupposti per utilizzarlo nei miei set ma quando arrivo a suonarlo il pezzo sprigiona tutta la malinconia intrisa di ritmo e piacevole alterazione. Ovviamente uso la Psychedub.

Expansives - Life With You ....Expansives – Life With You ….
Anche questo è stato un salasso ma comprare certi dischi è come investire nell’oro. Possiedo la copia promozionale col titolo scritto in modo sbagliato, dove You si trasforma in Jou. Un articolo come questo avrà sempre valore per i collezionisti e per chi, come me, è un appassionato dell’italo disco più ingenua e primitiva. Resta un must. Cerco di proporlo sempre, è un pezzo che sembra fatto ieri, veramente posizionabile in qualsiasi contesto. La registrazione era perfetta e tutte le ristampe giunte negli ultimi anni non ne hanno mai eguagliato la qualità.

Phill & Friends Band - This ManPhill & Friends Band – This Man
Trattasi di un retaggio “baldelliano”, un pezzo che ascoltavo sempre nelle cassette del Cosmic o del Chicago. Naturalmente possiedo la tiratura originale, su Rio Records, perché le ristampe di qualsiasi disco raro ne alterano in negativo la registrazione. “This Man” è una traccia magnifica in bilico tra punk, new wave, disco e funk, che tengo sempre in valigia quando devo suonare in contesti diurni o in particolari notturni. Uno di quei dischi che si ricollega alla domanda sui vantaggi dell’e-commerce e di come il mercato allargato oggi permetta di avvicinarsi a chicche peculiari.

Jiraffe - Out'A The BoxJiraffe – Out’A The Box
Un disco che ho scoperto tramite un caro amico, Marco Febbraro, che mi diede la possibilità di ascoltare un DJ che passò questa gemma nel suo set. Una traccia esemplificativa dello stile che ho studiato con Dimitri From Paris per il nostro repertorio ossia quella post disco/boogie che si stava trasformando in altro, in una specie di genere che definirei proto house. Forse è uno dei dischi a generare maggiore interesse nel pubblico che viene puntualmente a domandarmi il titolo. Lo comprai su eBay da un commerciante che sicuramente non sapeva cosa stesse vendendo: lo pagai meno di cinquanta euro, in copia originale e nuova (a ristamparlo, nel 2016, è proprio il citato Febbraro sulla sua etichetta specializzata in reissue, la Omaggio, nda)

Peshay - Piano TunePeshay – Piano Tune
Un artista indiscusso ed una traccia dirompente. Acquistavo praticamente tutto ciò che usciva per la label di LTJ Bukem, la Good Looking Records, e quasi tutti i singoli pubblicati nei primi anni di attività restano magici. “Piano Tune” però ha quel quid in più: la perfezione della jungle malinconica con un sapiente utilizzo dell’amen break. Ogni volta che lo suono la pista si immerge nel clima che voglio ottenere. Ho conosciuto personalmente Paul Pesce alias Peshay, figlio di immigrati italiani in terra d’Albione, sono stato anche a casa sua. Insieme realizzammo un singolo in tandem utilizzando uno studio allestito per l’occasione al Maffia. Ora che c’è il recupero del drum n bass della prima ora noto che il 12″, risalente al 1995, si piazza tra i più desiderati, e non è certamente un caso.

Frak - Börft EPFrak – Börft EP
A pubblicare questo EP è una label a dir poco bizzarra, la norvegese Sex Tags Mania, che osa sempre nella ricerca di prodotti unici. “Börft” mi ha introdotto al progetto Frak, al loro lessico sincero, privo di fronzoli, diretto e primitivo. In “Synthfrilla” una drum machine, un arpeggio ed una bassline vengono utilizzate da qualcuno che ha da dire la sua. Un fantastico tool per infiammare la pista, rimanendo su un suono moderno quanto antico. Purtroppo scoprii l’esistenza di questo disco in ritardo e quindi fui costretto a pagarlo un prezzo più alto rispetto a quando giunse nei negozi, nel 2012.

Clara Mondshine - Luna AfricanaClara Mondshine – Luna Africana
Sono particolarmente legato a questo album del 1981, uno dei primi di musica elettronica su cui misi le mani in età adolescenziale. L’etichetta che lo stampò, la Innovative Communication di Klaus Schulze, fu una manna dal cielo, con un repertorio di titoli strabilianti di elettronica ritmata e di ricerca. “Die Drachentrommler” lo suonava DJ Pery in un club che segnò il mio gusto musicale dell’epoca, il Melodj Mecca. Inimmaginabile pensare di far ballare il pubblico di oggi con un brano come questo a velocità rallentata ma per un set in particolari luoghi, o un warm up ambient, la sua presenza è assicurata.

Patrice Rushen - What's The Story (Disco Version)Patrice Rushen – What’s The Story (Disco Version)
Ammetto di essere un fan sfegatato della Rushen che considero la versione femminile di Herbie Hancock, il mio idolo assoluto. Nel suo periodo da enfant prodige le permisero di registrare due album sulla Prestige, etichetta su cui incisero capolavori sia John Coltrane che Miles Davis. Le formazioni di questi LP sono stellari e in “What’s The Story” la nostra Patrice si esibisce, oltre che al piano elettrico, anche alla voce sperimentando la formula che in seguito le diede le maggiori soddisfazioni. Il 12″ estratto a cui faccio riferimento rappresenta una mezza rivoluzione, pensando che una label tradizionalmente jazz sfornasse un singolo per le discoteche nel 1976. Come ogni DJ saprà, il 12″ suona molto più “forte” e la versione è quindi indicata per la pista da ballo. La Prestige aveva visto bene ed anche molto lontano: quello di “What’s The Story” è un funk senza tempo, potente, venato di jazz, che strizza l’occhio al broken beat corredato di clap e hats in levare, tanto da avere una grammatica che rimanda alla house music ma con un groove decisamente primordiale ed irresistibile.

La Funk Mob - Casse Les Frontières, Fou Les Têtes En L'AirLa Funk Mob – Casse Les Frontières, Fou Les Têtes En L’Air
L’apertura mentale di James Lavelle e la sua operazione Mo Wax rimarranno nella storia della discografia dance. In questo doppio in formato 10″ edito nel 1994 si stava cavalcando l’onda del trip hop ma con la voglia di rompere i suoi stessi confini, infatti Carl Craig e Richie Hawtin si prodigano per abbattere anche i propri firmando due remix, rispettivamente per “Ravers Suck Our Sound” e “Motor Bass Get Phunked Up”. È proprio l’Electrofunk Remix di quest’ultima, ad opera di Hawtin, il mio preferito, suonato allo sfinimento ed ancora oggi nella valigia dei dischi. Probabilmente arriverò a comprare una seconda copia, rigorosamente su Mo Wax. Un must anche per le favolose grafiche che fecero scuola.

Pressure Drop - UnifyPressure Drop – Unify
Un disco senza tempo, un altro titolo che mi vengono tuttora a domandare quando lo propongo. Pure questo ha un valore affettivo perché mi fu regalato dagli stessi artefici, anche loro amici fraterni e maestri della mia educazione alla produzione. Dave Henley e Justin Langlands si stavano emancipando dal periodo acid jazz utilizzando linguaggi percussivi ed arrangiamenti più vicini alla grammatica house e techno ma orchestrando e mantenendo l’attenzione alla pista da ballo con un piglio dub. Ne uscì un classico che per me rimarrà sempre fondamentale. Nei miei set la Rip Up Instrumental porta la situazione latina senza sfacciatamente “sbragare” ma rimanendo su quel confine che offre facoltà di proseguire in ogni genere.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

La discollezione di Fred Ventura

Fred Ventura (1)Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
“Just Another Way To Say I Love You” di Barry White. Ai tempi ascoltavo la neonata Radio Milano International dedita soprattutto a disco e funky, e Barry White era onnipresente nella programmazione, come Donna Summer del resto. Acquistai quell’album d’istinto.

L’ultimo invece?
“Dub Tunes” di Tommy Guerrero e Trevor Jackson. Da sempre sono appassionato di sonorità reggae/dub virate post punk e di conseguenza ogni occasione è buona per acquistare qualche titolo di tale genere, sia old school che contemporaneo, proprio come questo mini album concepito con mezzi limitati. In virtù di ciò lo trovo molto affascinante e primordiale.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Credo di possederne almeno 20.000, forse anche di più. Meglio riascoltarli che perdere tempo a ricontarli.

Fred Ventura (2)

Fred Ventura e parte della sua collezione di dischi. In mano uno degli album iconici di David Bowie, “Heroes” del 1977

Come è organizzata?
È divisa in due sezioni, purtroppo sistemate in altrettanti luoghi distanti tra loro. Non adopero un solo metodo di classificazione: una parte è indicizzata per epoca (80s, post 80s, house, techno, etc), una per nazionalità (artisti francesi, tedeschi, britannici, etc). Un sistema certosino ma per me congeniale visto che non amo il rigoroso ordine alfabetico.

Segui particolari procedure per la conservazione?
No perché la mia collezione è al 90% mint. I dischi che non versano in condizioni ottimali li accetto per quello che sono. I più importanti sono infilati in buste di plastica protettive che, a conti fatti, rappresentano una sorta di investimento visto il costo delle stesse buste e il numero importante di dischi.

Ti hanno mai rubato un disco?
Molti anni fa ho subito un furto di un porta CD da viaggio con un bel po’ di materiale raro e di difficile reperibilità. Purtroppo, di quei CD, sono riuscito a recuperarne ben pochi perché troppo costosi ed introvabili. Uno era “Trixie Stapleton 291 Se Taire Pour Une Femme Trop Belle” dei Fille Qui Mousse, oggi alquanto facile da trovare grazie a Discogs che però, ai tempi del furto, non esisteva ancora.

C’è un disco a cui tieni di più?
Non è affatto facile sceglierne uno, devo barare e ne nomino almeno tre: “God Save The Queen” dei Sex Pistols, per avermi spronato ad essere sempre me stesso, “Unknown Pleasures” dei Joy Division, per le emozioni, ed infine “Blue Monday” dei New Order, per ciò che per me ha rappresentato in veste di musicista.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e di cui potresti sbarazzarti senza remore?
Anche in questo caso è difficile fare solo un titolo perché gli acquisti inutili sono stati troppi, soprattutto quelli legati al breakbeat nei primi anni Novanta, in cui si faceva uso ed abuso di campionamenti e che oggi suonano obsoleti come poche altre cose. In virtù di ciò potrei portare direttamente in discarica qualche centinaio di dischi, tra singoli ed album.

Quello che cerchi da anni e che non hai ancora trovato?
Devo ammettere di essere riuscito a coronare la maggior parte dei miei desideri, soprattutto quelli legati alle mie band ed artisti preferiti: Marquis De Sade, Joy Division, New Order, The Human League, John Foxx, Patrick Cowley, Portishead, Hard Corps, Heaven 17, Etienne Daho, D.A.F., Kraftwerk, Dopplereffekt, Model 500, Larry Heard… insomma, non mi sono fatto mancare niente.

Fred Ventura (3)

Ventura ancora insieme ai suoi dischi. In mano regge “Stinky Toys” del gruppo omonimo (1979)

Quello con la copertina più bella?
“Computer World” dei Kraftwerk, senza dubbio.

Conservi una copia di ognuno dei dischi che hai inciso, sia come artista che come autore e produttore?
Sì, ho davvero tutto, un tempo persino in doppia copia. Oggi in singola per questioni di spazio.

Nel 2012 hai dato avvio alla Disco Modernism, etichetta che in circa sette anni di attività ha messo sul mercato oltre venti pubblicazioni, tutte incise su vinile. Dove trovi l’energia per andare avanti in un periodo in cui gli introiti derivati dalla vendita di musica sono infinitamente ridotti rispetto al passato e con guadagni prossimi allo zero?
Per me il disco oggi è uno strumento promozionale fondamentale. Seppur prodotto in edizione limitata, mi permette di essere presente in un mercato ormai quasi del tutto liquido. Chi mi segue fedelmente da anni vuole possedere il supporto fisico, solo i più giovani si accontentano del digitale, ufficiale o pirata che sia. Per me la cosa più importante resta offrire un prodotto di qualità anche dopo trentasei anni di attività. Non è affatto semplice stare sempre sul pezzo ma sino ad oggi credo di esserci riuscito egregiamente. Ho superato indenne tanti cambiamenti epocali e credo di doverne affrontare ancora molti altri visto che non ho nessuna intenzione di mollare.

Come vedi il futuro delle piccole etichette indipendenti come Disco Modernism? Il ritrovato interesse delle multinazionali nei confronti del disco rema a favore o contro?
Le major mi sembrano davvero assai lontane dalle realtà indipendenti. Sono troppo impegnate a monitorare le classifiche di Spotify per capire la strada da seguire o per scoprire se ci sia qualche nuovo artista da mettere sotto contratto, ma solitamente arrivano quando il buzz è già partito in forma indipendente e se ne appropriano con il loro forte potere finanziario. Nulla da eccepire in questo sistema, ma gli A&R di una volta non esistono più. Il futuro delle label indipendenti è e sarà sempre legato all’entusiasmo ed alla passione di chi le dirigerà. Il mercato è affollato e lo spazio per emergere è, per ovvie ragioni, minore. Bisogna saper sgomitare ma soprattutto evitare di pubblicare musica inutile e poco originale. Lo pseudo boom del vinile non significa necessariamente pubblicare qualsiasi cosa, è fondamentale essere selettivi e in grado di capire il valore di una produzione. Il digitale è una vera e propria giungla in cui è ancora più complicato districarsi, per questo apprezzo molto le piccole realtà che svolgono ancora un gran lavoro di ricerca.

Fred Ventura (4)

Ventura in un ultimo scatto in cui mostra “Dantzig Twist” dei Marquis De Sade (1979)

Estrai dalla tua collezione dei dischi a cui sei particolarmente legato per varie ragioni.

Kraftwerk - Computer WorldKraftwerk – Computer World
Semplicemente la mia soundtrack dal 1981 ad oggi. Un disco senza tempo che ci ha raccontato con assoluto anticipo come e cosa sarebbe stato il futuro.

Sex Pistols - Never Mind The BollocksSex Pistols – Never Mind The Bollocks
Il disco che ha acceso la miccia ed ha motivato la mia adolescenza da ribelle vissuta nell’hinterland milanese, nella classica periferia senza futuro.

Marquis De Sade - Rue De SiamMarquis De Sade – Rue De Siam
La new wave francese non è mai stata apprezzata abbastanza. Credo di aver ascoltato questo album almeno mille volte, ne possiedo tre copie in vinile ed una in CD. È stato essenziale anche per crescere culturalmente.

D.A.F. - Alles Ist GutD.A.F. – Alles Ist Gut
Il disco da ballo perfetto per il 1981, ipnotico e potente, che ha inventato un genere che solo pochi altri hanno saputo minimamente eguagliare. Body music for smart people.

Joy Division - Unknown PleasuresJoy Division – Unknown Pleasures
Questo non è solamente un disco ma un manifesto esistenziale, un’anima irrequieta ed introspettiva raccontata senza paura, un suono ancora oggi unico ed irripetibile che ci ha guidato fuori dal pantano punk del 1979.

Hard Corps - Metal + FleshHard Corps – Metal + Flesh
Una band arrivata forse troppo tardi per ritagliarsi un momento di gloria nella scena synth pop britannica dei primi anni Ottanta, ma che a distanza di ben trentacinque anni dal debutto con “Dirty”, suona ancora perfetta.

Etienne Daho - EdenEtienne Daho – Eden
Uno dei miei artisti preferiti da ormai oltre trent’anni, una sorta di cantautore pop sempre al passo coi tempi che ha saputo evolversi senza mai suonare scontato. Recentemente ho avuto il piacere di remixare un suo brano (“Le Jardin”, nda) col mio progetto Italoconnection, ed incontrarlo di persona mi ha confermato tutto il suo valore, sia di artista che di uomo. One of a kind!

ABC - The Lexicon Of LoveABC – The Lexicon Of Love
Questo è stato il disco della mia svolta pop. Lo acquistai nello storico negozio Tape Art in Corso di Porta Vigentina, a Milano, nell’estate del 1982, ed ha rappresentato la mia soundtrack durante la preparazione degli esami di maturità e degli anni a venire. La produzione perfetta di Trevor Horn e la scrittura originalissima e fortemente pop me lo ha fatto letteralmente consumare.

Portishead - DummyPortishead – Dummy
Il 1994 per me è stato un anno abbastanza buio e “Dummy” mi ha accompagnato in quei momenti in modo perfetto. Bristol sound di livello eccelso e sempre attuale.

Electribe 101 - Electribal MemoriesElectribe 101 – Electribal Memories
Un album perfetto che mi ha fatto compagnia nel tormentato passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta. Influenze house e texture sonore di altissimo livello messe al servizio della ineguagliabile voce di Billie Ray Martin. Perfetto in ogni ambiente, sia nei club o semplicemente a casa.

A Certain Ratio - The Graveyard And The BallroomA Certain Ratio – The Graveyard And The Ballroom
Uscito in cassetta con un packaging particolare per la Factory Records di Manchester nel lontano 1980, questo album mi ha fatto scoprire come il funk potesse essere proposto con un’attitudine post punk, glaciale ma assolutamente groovy ed innovativo. Un ascolto essenziale per tutti i membri della mia band new wave attiva in quegli anni, State Of Art.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Hard Wax – chart settembre 1997

Hardwax Raveline, settembre 1997
Negozio: Hard Wax
Fonte: Raveline
Data: settembre 1997

1) Push Button Objects – Cash
Edgar Farinas, da Miami, è Push Button Objects. Debutta sull’etichetta dei Phoenecia, la Schematic, con questo EP che vaga tra l’hip hop sperimentale e l’IDM raschiato dal glitch. Quattro i brani racchiusi al suo interno, “Lockligger”, “Striffle”, “Trot” e “Maercs”, inseriti nell’album “Dirty Dozen” uscito tre anni dopo e contraddistinti da broken beat, suoni segmentati e qualche scratch a rimarcare l’appartenenza ad un mondo allora fortemente legato all’arte del turntablism. La prima tiratura viene commercializzata con una copertina di plastica trasparente di tipo ziplock.

2) Monolake – Occam / Arte
Dietro Monolake, ai tempi, operano in due, Gerhard Behles e Robert Henke, che da lì a breve daranno vita ad uno dei software più celebri e rivoluzionari, Ableton Live (per approfondire si veda qui). Alfieri della minimal techno ben prima che questa divenisse uno specchietto per le allodole e rappresentasse una presunta novità da offrire al pubblico del nuovo millennio proprio mentre impazza la “Ableton generation”, i tedeschi qui elaborano due brani per la DIN dell’amico Torsten “T++” Pröfrock, entrato per un periodo a far parte dello stesso team. “Occam”, registrata live il 28 dicembre 1996 a Lucerna, in Svizzera, viaggia su taglienti minimalismi tangenti il dub in stile Basic Channel, “Arte”, prodotta in studio a Berlino, mostra scenari simili ma riducendo l’apporto ritmico ed avvicinandosi all’ambient. Da qualche anno in Rete si dibatte sulla velocità alla quale dovrebbe essere suonato il disco: c’è chi sostiene sia meglio a 33 giri, chi parteggia per i 45, chi ritiene di alternare 33 per un lato e 45 per l’altro. Sul disco non è riportata alcuna indicazione chiarificatrice ma nell’album “Hongkong”, pubblicato dalla Chain Reaction dei sopracitati Basic Channel, “Arte” suona a 33 giri mentre “Occam” a 45.

3) Luke Vibert – Big Soup
“Big Soup” è il primo album che Vibert firma col suo nome anagrafico ma giunto dopo altri ammirevoli lavori sotto pseudonimo (Wagon Christ, Plug) con cui mette a soqquadro il mondo drum n bass e trip hop. Pubblicato dalla Mo Wax, “Big Soup” potrebbe essere paragonato ad un altro album epocale presente nel catalogo della label di James Lavelle ossia “Endtroducing…..” di DJ Shadow. I beat si accartocciano come se fossero fogli di carta appallottolati, i sample sono assemblati secondo una fantasia funambolica che ad un orecchio poco allenato potrebbe suonare come disordine ma che in realtà segna le tappe di una ulteriore evoluzione dell’elettronica. Tra le più convincenti “Reality Check”, “C.O.R.N.” ed “Am I Still Dreaming?”, con un tiro à la Propellerheads, “Stern Facials” con tessiture di jazz destrutturato, e “2001 Beats”, piacevolmente accelerata e lanciata verso sponde drum n bass.

4) Plug – Cut (’97 Remix)
Inciso sul 12″ intitolato “Me & Mr. Sutton” e pubblicato dalla britannica Blue Planet Recordings, il remix ’97 di “Cut” (la versione originale si trova nell’album “Drum’N’Bass For Papa” uscito circa un anno prima) è virtuosa drum n bass con cui l’autore, Luke Vibert, di cui si è già detto poc’anzi, dimostra la genialità assoluta nel ricontestualizzare un campione preso da “Love Won’t Let Me Wait” di Major Harris. Soul del 1974 che dopo poco più di venti anni muta e si ripresenta come nessuno avrebbe mai potuto immaginare.

5) Robert Henke – Floating.Point
I sette brani racchiusi in “Floating.Point” sono stati prodotti nel quinquennio 1992-1997: Henke, affiancato dall’amico Gerhard Behles con cui allora anima il progetto Monolake (si veda posizione 2), scava nell’inconscio ed ottiene un incredibile tunnel ambientale lungo poco più di 52 minuti in cui di tanto in tanto fanno capolino suoni tratti dalla natura ricavati forse da registrazioni sul campo.

6) Jeswa – Skone
Joshua Kay dei già citati Phoenecia è Jeswa. “Skone”, l’unico disco che firma con questo pseudonimo, fa scricchiolare i glitch su patine di IDM intellettualoide, con frequenti controtempi e suoni dub. Quello di Kay è un suono ascrivibile all’IDM sperimentale ed astrattista, paragonabile a quello di artisti come Autechre, Jan Jelinek o Vladislav Delay.

7) Various – From Beyond
“From Beyond” è il mega progetto che l’Interdimensional Transmissions vara nel 1997 e che, per il formato vinilico, si compone di quattro volumi, l’ultimo dei quali pubblicato nel 1998 quando il tutto viene raccolto anche su CD ma senza i vari locked groove e loop caratteristici dell’etichetta degli Ectomorph. La chart non specifica a quale qui si faccia riferimento, ma per inquadrare il contesto è sufficiente menzionare qualche nome degli artisti coinvolti come DJ Godfather, Mike Paradinas, Le Car, Phoenecia, Flexitone, Sluts’n’Strings & 909 e Will Web. Di matrice marcatamente electro, “From Beyond” viene ricordata anche per aver incluso nella tracklist “Space Invaders Are Smoking Grass” dell’olandese I-f, presa in licenza dalla originaria Viewlexx e debitamente pubblicata negli States come singolo nel ’98, seppur raccolga il meritato successo solo diversi anni più tardi quando in Europa scoppia il fenomeno electroclash.

8) Bochum Welt – Feelings On A Screen
Si narra che nel 1994 un giornalista del magazine britannico NME attribuì erroneamente la paternità di “Scharlach Eingang” ad Aphex Twin. A programmare le immaginose tracce di quel disco fu invece l’italiano Gianluigi Di Costanzo, entrato nelle grazie di Richard D. James e Grant Wilson-Claridge che da quell’anno lo arruolano nella squadra della Rephlex. L’EP della chart, stampato sia su vinile che CD shape, si muove su un suono a metà strada tra geometrismi electro (“Greenwich”, “Feelings On A Screen”) e più rilassate deviazioni ambient (“Fortune Green”, “La Nuit (Slumber Mix)”), con qualche assonanza melodica orientale a fare da collante.

9) Various – Plug Research & Development
Nel 1997 la Plug Research, oggi di base a Los Angeles, in California, lancia un progetto analogo a quello dell’Interdimensional Transmissions descritto poche righe più sopra. “Plug Research & Development” raccoglie al suo interno un buon numero di tracce techno (otto sul doppio vinile, dieci sul CD) realizzate da artisti poco noti al grande pubblico e per questo ingiustamente passate inosservate. Da Smyglyssna a Phthalocyanine, dai Wrench a Ravens Over Venice passando per l’australiano Voiteck, Lucid Lung, R.E.A.L.M. e i Mannequin Lung. Da segnalare anche la presenza dei Nine Machine (Mark Broom e Steve Pickton) e di Mr. Hazeltine, tra i primi alias di John Tejada rispolverato proprio recentemente.

10) Kotai – Back At Ten
Il brano in questione si presenta in due versioni: la Slow, che si inerpica su un percorso electro in battuta rallentata, e la Fast che prevedibilmente pigia sul pedale dell’acceleratore avvicinandosi alla minimal techno più ammaliante. A programmare le sequenze insieme al viennese Klaus Kotai (quello di “Sucker DJ”) c’è Gabriele ‘Mo’ Loschelder, ai tempi nell’organico di Hard Wax e con cui Kotai fonda l’Elektro Music Department, piccola etichetta in attività dal 1995 e che circa un anno fa ha pubblicato “Reat”, l’album postumo di Mika Vainio.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Ivan Iusco e la Minus Habens Records: una rara anomalia italiana

Ivan_Iusco“Il Paese della pizza, pasta e mandolino” recita uno dei più vecchi luoghi comuni sull’Italia. Per certi versi è vero ma non bisogna dimenticare che più di qualcuno si è dato attivamente da fare per azzerare o almeno ridurre i soliti pregiudizi. Tra questi Ivan Iusco che alla fine degli anni Ottanta, appena diciassettenne, diventa produttore discografico e crea un’etichetta per musica completamente diversa da quella che il nostro mercato interno prediligeva. Un ribollire di elettronica intellettualista, ambient, dark, industrial, quella che qualche tempo dopo sarebbe stata raccolta sotto la dicitura IDM (acronimo di Intelligent Dance Music) o braindance. Questa era la Minus Habens dei primi anni di intrepida sperimentazione, di registrazioni su cassetta vendute per corrispondenza ed effettuate da artisti che quasi certamente qui da noi non avrebbero trovato molti discografici disposti ad incoraggiare e supportare la propria creatività. Se oltralpe l’IDM viene consacrato da realtà come Warp Records, Apollo, Rephlex e Planet Mu, in Italia la Minus Habens pare non temere rivali. Dalla sua sede a Bari, tra le città probabilmente meno adatte ad alimentare il mito della musica sperimentale, irradia a ritmo serrato la musica di un foltissimo roster artistico che annovera anche band statuarie come Front 242 e Front Line Assembly. Iusco poi nel 1992 vara una sublabel destinata ad incidere a fondo nel sottobosco produttivo dei tempi, la Disturbance, approdo per italiani “molto poco italiani” sul fronte stilistico (Doris Norton, X4U, The Kosmik Twins, Baby B, Monomorph, Astral Body, The Frustrated, Xyrex, Dynamic Wave, T.E.W., Iusco stesso nascosto dietro la sigla It) e lido altrettanto felice per esteri destinati a lasciare il segno, su tutti Aphex Twin, Speedy J ed Uwe Schmidt. I Minus Habens e i Disturbance di quegli anni rappresentano il lato oscuro dell’Italia elettronica, quella adorata e rispettata dagli appassionati e che si presta più che bene per la locuzione latina “nemo propheta in patria”. Nel corso del tempo nascono altri marchi (QBic Records, Lingua, Casaluna Productions, Noseless Records, Betaform Records) che servono a rimarcare nuove traiettorie inclini a trip hop, nu jazz, funk, downtempo e lounge in senso più ampio destinato alla cinematografia anche con episodi cantautorali a cui Minus Habens Records, ormai vicina al trentennale d’attività, ha legato stabilmente la sua immagine. Al contrario di quanto suggerisce il nome (i latini indicavano sarcasticamente minus habens chi fosse dotato di scarsa intelligenza), la label di Ivan Iusco «è rimasta in piedi per un arco di tempo incredibilmente lungo, in cui numerose altre esperienze discografiche indipendenti, anche prestigiose, sono nate, cresciute e decedute», come si legge nel libro “Minus Habens eXperYenZ” del 2012 curato da Alessandro Ludovico, co-fondatore insieme allo stesso Iusco della rivista Neural, magazine pubblicato per la prima volta a novembre 1993 e dedicato a realtà virtuali, tecnologia, fantascienza e musica elettronica. Un’altra di quelle atipiche quanto meravigliose anomalie italiane.

Come e quando scopri la musica elettronica?
La musica elettronica iniziò a sedurmi verso la metà degli anni Ottanta in un percorso che mi portò rapidamente dai Depeche Mode ai Kraftwerk verso i Tangerine Dream, mentre esploravo parallelamente territori più oscuri con l’ascolto di gruppi come Virgin Prunes, Christian Death e Bauhaus per arrivare alle sperimentazioni dei Current 93, Nurse With Wound, Coil, Laibach, Diamanda Galás, Einstürzende Neubauten, Steve Reich, Arvo Pärt, Salvatore Sciarrino e tantissimi altri. Galassie musicali che ho scandagliato a fondo ascoltando migliaia di produzioni sotterranee. Acquistai il mio primo synth all’età di sedici anni.

Come ti sei trasformato da appassionato in compositore?
Non ho mai considerato la musica una passione o un amore ma una ragione di vita, un’entità magica, indispensabile e salvifica. Quando da bambino ascoltai per la prima volta il tema della colonna sonora “Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto” di Ennio Morricone rimasi letteralmente ipnotizzato. Avevo sei anni e quella musica scatenò un terremoto nella mia testa, infatti ricordo ancora con chiarezza dov’ero in quel momento e cosa indossavo. Sono anche certo che aver avuto una nonna pianista e compositrice, oggi 94enne, contribuì a porre la musica al centro di tutto.

La tua prima produzione fu “Big Mother In The Strain” dei Nightmare Lodge, inciso su cassetta nel 1987. Come fu realizzato quell’album?
Considero quel lavoro un’eruzione di idee nebulose, frutto della collaborazione con due amici: Beppe Mazzilli (voce) e Gianni Mantelli (basso elettrico). Non eravamo ancora maggiorenni ma intendevamo valicare barriere innanzitutto culturali. Il nostro approccio era piuttosto anarchico, pur essendo seriamente intenzionati a produrre qualcosa di concreto. Registrammo il nastro nell’estate del 1987 in un piccolissimo studio in una via malfamata di Bari. In quel locale c’era un registratore a quattro tracce, un microfono, due casse, un amplificatore e nient’altro, se non la foto della fidanzata tettona del fonico. Le registrazioni durarono una settimana. Noi portammo un sintetizzatore, un basso elettrico ed una serie di nostre sperimentazioni sonore su nastro effettuate nei mesi precedenti. Gli interventi vocali di Beppe furono registrati nella toilette dello studio, unico ambiente al riparo dal caos proveniente dalla strada. Pubblicai la cassetta nel dicembre del 1987, utilizzando per la prima volta il marchio Minus Habens, in una micro-edizione di cento copie vendute attraverso il passaparola ed una serie di annunci su fanzine specializzate, la via di mezzo fra gli attuali blog e i web magazine.

L’album dei Nightmare Lodge segna anche la nascita della Minus Habens Records, inizialmente una “ghost label” come tu stesso la definisci in questa intervista del marzo 1998. Come ti venne in mente di fondare un’etichetta discografica? Il nome si ispirava a qualcosa in particolare?
In primis l’obiettivo fu diffondere la mia musica ma subito dopo intuii la possibilità di far luce su alcuni artisti italiani e stranieri che meritavano decisamente più attenzione, così cominciai a pubblicare lavori inediti di Sigillum S, Gerstein e i primi album di Teho Teardo. I budget erano molto limitati: 500.000 lire per ogni pubblicazione su cassetta e circa 3.000.000 di lire per il vinile, denaro che agli inizi mi procurai attraverso piccoli prestiti e lavorando nello showroom di una nota clothing company europea. Ero così giovane da non potermi permettere una sede indipendente quindi trasformai una camera della casa dei miei genitori in “quartier generale”. Il nome Minus Habens per me rappresenta la condizione dell’uomo rispetto alla conoscenza: un orizzonte inarrivabile che lo rende eternamente affamato e che svela al tempo stesso l’immensità e forse l’irrilevanza di un percorso senza meta. Lo spazio incolmabile che separa l’uomo dalla conoscenza.

Minus Habens nasce a Bari, città che non compare su nessuna “mappa” quando si parla di un certo tipo di musica elettronica, e che non è neppure alimentata dal mito come Detroit, Chicago, Berlino o Londra. Come organizzasti il tuo lavoro lontano dai canonici punti nevralgici della discografia italiana, in un periodo in cui internet non esisteva ancora? Risiedere in Italia, e in particolare nel meridione, ha mai costituito un problema o impedimento?
Non saprei dire in che misura la mia città natale abbia contribuito al concepimento della Minus Habens. Sono quasi certo che il grande vuoto nell’ambito della musica elettronica offerto da Bari e più in generale dal meridione negli anni Ottanta mi aiutò a covare un sogno e ad avvertire fin da subito un senso di responsabilità, ponendomi davanti ad una missione molto ambiziosa: cambiare le cose. A quei tempi tutto era più lento e macchinoso, i rapporti di corrispondenza avvenivano solo e soltanto attraverso le poste. Giorni e giorni di attesa per il viaggio di lettere scritte a mano o a macchina e pacchi da e verso l’Italia e il mondo. Ma ne valeva la pena: tutto questo alimentava inconsapevolmente il desiderio. Scoprivo di volta in volta le musiche e l’identità di gruppi e musicisti da produrre attraverso cassette, DAT, minidisc, foto, flyer e fanzine che arrivavano con quei pacchi. Era una cultura che si consumava a fuoco lento. Ricordo però che già nei primi anni Novanta una rivista intitolò uno dei suoi articoli sulla nostra attività “Bari capitale cyberpunk!”. E comunque non sono stato il solo a muovermi con costanza e caparbietà da queste parti. Bari vanta infatti da trent’anni la presenza di uno dei più interessanti festival al mondo di musiche d’avanguardia, parlo di Time Zones che ha portato nella città nomi come David Sylvian, Philip Glass, Brian Eno, Steve Reich, Einstürzende Neubauten ed alcuni dei nostri: Paolo F. Bragaglia, Synusonde, Dati aka Elastic Society e i Gone di Ugo De Crescenzo e Leziero Rescigno (La Crus).

Le primissime pubblicazioni di Minus Habens erano solo su cassetta. Chi curò la distribuzione?
Nei primi due anni di attività mi affidai alla storica ADN di Milano, alla tedesca Cthulhu Records e ad alcuni store specializzati statunitensi. All’epoca occorreva avere dei radar al posto delle orecchie. Internet era agli albori mentre oggi siamo sommersi da dispositivi che ci permettono di accedere a qualsiasi informazione in tempo reale ed ovunque ci troviamo.

Nel 1989 inizi a pubblicare musica anche su vinile. Quante copie stampavi mediamente per ogni uscita? Quale era il target di riferimento?
Le prime pubblicazioni uscirono in tirature di 500/1000 copie, distribuite in Italia e nel mondo soprattutto da Contempo International, nota label e distribuzione di Firenze che vantava nel suo roster gruppi come Clock DVA e Pankow. Non ho mai avuto un’idea definitiva del nostro pubblico ma nel tempo ho constatato con piacere che i nostri clienti e sostenitori abbracciano fasce d’età e gruppi sociali sorprendentemente eterogenei.

Il catalogo di Minus Habens cresce con la musica di molti italiani (Sigillum S, Iugula-Thor, Red Sector A, Kebabträume, Pankow, Capricorni Pneumatici, Tam Quam Tabula Rasa, Brain Discipline, DsorDNE, Ultima Rota Carri) ma anche di esteri come Lagowski, Principia Audiomatica e persino miti dell’industrial e dell’EBM come Clock DVA, Front 242 e Front Line Assembly. Come riuscisti a metter su una squadra di questo tipo? Insomma, se tutto ciò fosse accaduto all’estero probabilmente Minus Habens oggi verrebbe paragonata a Warp, Rephlex o Apollo.
È avvenuto tutto molto gradualmente. Piccoli passi, giorno dopo giorno, fino ad arrivare a pubblicare album come quelli di Dive (Dirk Ivens) in 15/20mila copie o compilation come “Fractured Reality” con ospiti illustri tra cui Brian Eno, Depeche Mode, William Orbit, Laurent Garnier, Susumu Yokota e molti altri. Se la Minus Habens ti ha portato alla mente etichette come Warp, Rephlex o Apollo è perché in Italia non sono esistiti altri riferimenti di quel tipo, così la mia etichetta è diventata l’unico modello vagamente assimilabile a quelle realtà. È un’associazione ricorrente ma ci siamo distinti in modo inedito anche per aver raggiunto il cinema con numerose colonne sonore originali e pubblicazioni di artisti di rilievo come Angelo Badalamenti. Negli ultimi anni inoltre abbiamo avviato importanti collaborazioni nell’ambito dell’arte contemporanea tra le quali spiccano quelle con Cassandra Cronenberg e Miazbrothers.

Con quali finalità, nel 1992, crei la Disturbance?
L’idea seminale fu ibridare i suoni e le soluzioni concepite dai musicisti del circuito Minus Habens coi ritmi ipnotici della techno. Negli anni Novanta abbiamo pubblicato su Disturbance alcune decine di singoli in vinile con una discreta distribuzione internazionale in Germania, Francia, Benelux, Stati Uniti e Giappone.

Così come per Minus Habens, anche Disturbance vanta in catalogo gemme che meriterebbero di essere riscoperte, da Atomu Shinzo (Uwe Schmidt!) ai The Kosmik Twins (Francesco Zappalà e Biagio Lana), da Monomorph (i fratelli D’Arcangelo) ad altri estrosi italiani come Astral Body, Xyrex e Dynamic Wave. In termini di vendite, come funzionava questa musica? La costanza delle pubblicazioni mi lascia pensare che il mercato fosse vivo.
Significava insediarsi in un mercato fortemente influenzato da mode e tendenze. Ciononostante abbiamo raggiunto buoni risultati anche in quell’ambito. Ricordo che Mr. C degli Shamen e Miss Kittin suonavano spesso le nostre produzioni, mentre per una festa a Milano in occasione del Fornarina Urban Beauty Show coinvolgemmo Timo Maas ed Ellen Allen. Col marchio Disturbance abbiamo creato un repertorio davvero interessante con un’attenzione particolare al made in Italy.

Chi, tra i DJ, giornalisti e critici italiani, seguiva con più attenzione le tue etichette?
I giornalisti storici della stampa musicale italiana ci hanno sempre seguito con molto interesse: Vittore Baroni, Aldo Chimenti, Nicola Catalano, Luca De Gennaro, Paolo Bertoni e tanti altri. Fortunatamente negli anni abbiamo goduto della stessa attenzione anche da parte di numerosi giornalisti stranieri.

Hai mai investito del denaro in promozione?
Investiamo in promozione fin dagli esordi, anche se dal 1987 ad oggi abbiamo adeguato le nostre strategie al mutare dei media. Non ho mai pagato recensioni però, e dubito che esistano riviste che operano in questo modo e comunque lo troverei eticamente scorretto.

A proposito di riviste, nel 1993 hai fondato Neural con Alessandro Ludovico. Come nacque l’idea di creare un magazine con quel taglio avanguardista?
Anche nel caso di Neural cercammo di creare una pubblicazione che potesse rompere il silenzio editoriale in territori culturali che ci interessavano da vicino: tecnologie innovative come la realtà virtuale, hacktivism, new media art e musica d’avanguardia naturalmente. I primi numeri di Neural furono pubblicati in poche migliaia di copie diffuse da un distributore torinese, successivamente la rivista svegliò l’interesse dell’editore dello storico mensile Rockerilla e così, in seguito ad un accordo di licenza, Neural uscì in una tiratura di 15.000 copie distribuite nelle edicole italiane. Questa diffusione capillare catturò un pubblico ben più vasto ma dopo due anni la crisi dell’intero settore ci costrinse a scegliere un distributore alternativo. Atterrammo così nella catena Feltrinelli. Neural da allora, grazie all’impegno di Alessandro, non si è mai fermata. Esce tutt’oggi in versione cartacea ma si avvale anche di un sito costantemente aggiornato che offre ulteriori contenuti.

Recentemente ho letto questo articolo in cui si parla della scomparsa del pubblico delle recensioni. La diffusione e la democratizzazione di internet ha, in un certo senso, tolto valore ed autorevolezza a chi parla criticamente di musica? Insomma, così come proliferano i “produttori” pare nascano come funghi anche i “giornalisti”. Cosa pensi in merito?
Come per la musica e l’arte in genere, anche il giornalismo si manifesta attraverso la voce di autori che possono essere più o meno dotati di talento e capacità. Quando si leggono articoli deboli, senza fondamenta, noiosi e a volte dannosi, diventa difficile arrivare fino in fondo. Penso semplicemente che la curiosità culturale dei fruitori crei nel tempo gli strumenti necessari per scremare il meglio in ogni ambito.

Tra il 1993 e il 1997 su Disturbance compaiono i quattro volumi di “Outer Space Communications”, compilation che annoverano nomi come Nervous Project (Holger Wick, artefice della serie in dvd Slices per Electronic Beats), il citato Uwe Schmidt (come Atomu Shinzo e Coeur Atomique), la prodigiosa Doris Norton, Pro-Pulse (Cirillo e Pierluigi Melato), i QMen (i futuri Retina.it) Speedy J, Planet Love (Marco Repetto, ex Grauzone), Exquisite Corpse (Robbert Heynen dei Psychick Warriors Ov Gaia), i romani T.E.W., Le Forbici Di Manitù e persino Richard D. James travestito da Caustic Window (con “The Garden Of Linmiri”, finito nello spot della Pirelli con Carl Lewis) e da Polygon Window. Insomma, una manna per chi ama l’elettronica ad ampio raggio.
Fu l’apice di un enorme lavoro di relazioni e networking. In quel periodo nacque anche un bel rapporto di collaborazione e stima reciproca con Rob Mitchell (RIP), co-fondatore della Warp Records. Vista la mole dei brani contenuti e l’importanza degli artisti che vi presero parte, i quattro volumi della serie diventarono immediatamente oggetti da collezione. Le compilation includevano uno spaccato del roster Disturbance affiancato da grandi artisti della scena elettronica internazionale. All’interno dei booklet inserivamo anche piccoli riferimenti a culture nascenti o comunque underground come la realtà virtuale, la robotica, il cybersex, i rituali, le brain-machines e la crionica.

Come entrasti in contatto con gli artisti sopraccitati? Usavi già le comunicazioni via internet?
Il primo indirizzo email di Minus Habens risale al 1993, in quegli anni eravamo in pochissimi ad utilizzare internet mentre il fax raggiunse la sua massima diffusione. Abbiamo sempre adoperato qualsiasi mezzo di comunicazione pur di raggiungere i nostri interlocutori.

Nell’advertising di Minus Habens apparso sul primo numero di Neural si anticipavano alcuni nomi del secondo volume di “Outer Space Communications” tra cui Biosphere che però in tracklist non c’era. Cosa accadde? La presenza di Geir Jenssen era prevista ma qualcosa non andò per il verso giusto?
Quando richiesi la licenza di pubblicazione del brano “Novelty Waves” di Biosphere l’etichetta mi rispose che era stato appena dato in esclusiva ad una nota agenzia pubblicitaria internazionale per essere utilizzato come colonna sonora dello spot dei jeans Levi’s (in Italia il pezzo verrà poi licenziato dalla Downtown, etichetta della bresciana Time Records, nda).

A metà degli anni Novanta Disturbance accoglie Nebula (Elvio Trampus), che si piazza in posizione intermedia tra techno e trance, connubio che viene battuto pure dalla QBic Records, rimasta in attività per soli tre anni, dal 1996 al 1999. Come ricordi quel periodo in cui un certo tipo di musica iniziò il processo di “mainstreamizzazione”?
Non essendo il mainstream uno dei nostri obiettivi, non abbiamo mai inseguito il fantasma del successo. I risultati sono giunti soprattutto grazie alla costanza, alla continua ricerca ed alla qualità delle pubblicazioni. Più di una volta i brani del catalogo Disturbance sono arrivati ai primi posti di classifiche dance italiane (come quella della storica Radio Italia Network) e straniere, mentre le produzioni Minus Habens hanno trovato terreno fertile in ambito cinematografico (in numerosi film con distribuzione nazionale) e televisivo (in trasmissioni come Le Iene, Report, Target e tante altre). Inoltre abbiamo partecipato a decine di festival e proprio quest’anno il trio Il Guaio, del nostro marchio Lingua, è stato candidato alle selezioni ufficiali di Sanremo.

Nei primi anni Duemila, proprio dopo gli ultimi lavori di Nebula, Disturbance vira radicalmente direzione e registro, passando al downtempo, al trip hop e al future jazz, facendo l’occhiolino alla Compost Records di Michael Reinboth. Forse l’elettronica con derive dance o sperimentali ti aveva stancato?
Come ben sai credo profondamente nell’evoluzione e nella diversità della musica e dei suoni. All’inizio del nuovo millennio la techno e la drum’n’bass raggiunsero il loro picco evolutivo terminando in un cul-de-sac. Successivamente sono emerse nuove declinazioni come la minimal techno o il dubstep ma nulla di radicalmente innovativo. Ecco il motivo per cui ho sentito la necessità di proseguire verso altre direzioni creando un incubatore in cui abbiamo sviluppato progetti musicali come Pilot Jazou, Gone, Dati, Appetizer o la più recente collaborazione fra il producer Andrea Rucci e il pianista jazz Alessandro Galati. Le produzioni musicali più interessanti emerse in questi primi quindici del nuovo millennio sono il frutto di incontri e collaborazioni di musicisti con esperienze negli ambiti più diversi, e pare che l’elettronica sia diventata il tessuto connettivo privilegiato.

La tua collaborazione con Sergio Rubini comincia proprio in quel periodo, lavorando alle colonne sonore di suoi film come “L’Anima Gemella” e “L’Amore Ritorna”. Come nacquero tali sinergie?
Incontrai Sergio una sera in un bar. Grazie a quell’incontro casuale nacque il nostro rapporto lavorativo che si concretizzò prima con la composizione del tema principale del film “L’Anima Gemella” e successivamente con la colonna sonora del film “L’Amore Ritorna”, le musiche addizionali di “Colpo D’Occhio”, fino al suo progetto filmico “6 Sull’Autobus” in collaborazione con sei giovani registi e prodotto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Facendo qualche passo indietro, prima della collaborazione con Rubini, fui chiamato dal regista Alessandro Piva che mi commissionò le musiche dei film “LaCapaGira” (1999) e “Mio Cognato” (2003) con cui iniziai a raggiungere un pubblico più ampio anche grazie all’ottenimento di alcuni premi in Italia e all’estero.

Qualche sprazzo di dance elettronica torna a farsi sentire su Minus Habens tra 2005 e 2007, quando pubblichi anche una compilation di Alex Neri. Si rivelò solo una toccata e fuga però. Avevi già preso la decisione di dedicarti ad altro?
In quel periodo Minus Habens fu scelta dal festival Elettrowave (sezione elettronica di Arezzowave) per pubblicare le loro compilation ufficiali. Mi occupai personalmente della selezione degli artisti presenti nei diversi album. Considerando gli ospiti del festival, ebbi il piacere di ospitare grandi nomi fra cui Cassius, Modeselektor, Kalabrese, Stereo Total, Cassy, Mike Shannon, Zombie Zombie e molti altri. La musica elettronica è sempre stato il filo rosso della mia ricerca. È un universo dalle infinite possibilità e la missione della Minus Habens è quella di esplorarlo.

Il 2017 segnerà il trentennale di attività per Minus Habens Records. Avresti mai immaginato, nel 1987, di poter tagliare un così ambizioso traguardo?
È un sogno che si avvera, pur non avendolo mai immaginato come un traguardo.

Nel corso degli anni hai mai pensato di mollare tutto e dedicarti ad altro?
No, immagino da sempre le evoluzioni possibili della nostra attività cercando di incarnare soltanto le più ambiziose.

La sede è ancora in via Giustino Fortunato, nel capoluogo pugliese?
La sede e lo studio sono ancora a Bari anche se rispettivamente in zone diverse della città, ma proprio quest’anno abbiamo posto le basi per alcuni grandi cambiamenti.

Stai pensando già a qualcosa per festeggiare e celebrare i trent’anni di Minus Habens?
Stiamo lavorando ad un progetto che sta prendendo forma in queste settimane di cui però sarebbe prematuro parlarne adesso. Ci sono ancora troppi aspetti da sviscerare. Sarà una forma di condivisione celebrativa volta ad amplificare il concetto di collaborazione e di network. Naturalmente coinvolgeremo anche i musicisti che si sono uniti all’etichetta negli ultimi tempi come Andrea Senatore, Christian Rainer e Il Guaio.

Come vorresti che fosse ricordata la tua etichetta e la tua attività artistica, tra qualche decennio?
Sarebbe già davvero tanto se tutto questo fosse ricordato nel tempo. In fondo il libro Minus Habens eXperYenZ di 224 pagine pubblicato nel 2012 in occasione del venticinquesimo anniversario dell’etichetta ambiva proprio a questo: documentare, o come afferma nello stesso libro Dino Lupelli – fondatore di Elettrowave ed Elita Festival – “produrre per non dimenticare” le esperienze multiformi di un laboratorio che ha portato alla luce inusuali sperimentatori. Un’avventura alla ricerca di territori musicali inesplorati.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Questo slideshow richiede JavaScript.