UMM, un’avventura memorabile

Block - Block
“Block” di Block, primo disco pubblicato dalla Flying Records nel 1988

Napoli, 1988: la Flying Records, con la sede al 25 di Via Santo Strato, a Posillipo, pubblica “Block” dell’artista omonimo, un brano a metà strada tra house e hip hop sul modello marrsiano proveniente dal catalogo della britannica Vinyl Solution e prodotto da Jonathan Saul Kane. È il primo tassello di un’incredibile avventura imprenditoriale che durerà circa un decennio e lascerà un profondo solco del proprio passaggio nella scena musicale italiana e non solo. Fondata da Flavio Rossi e Angelo Tardio, la società in accomandita semplice Flying Records opera inizialmente come distributore, importando musica dall’estero e ripubblicando in Italia alcuni titoli stranieri per cui nutre interesse, le “licenze”, allora strategiche e determinanti perché in grado, da un lato, di garantire prestigio, dall’altro, potenziali riscontri economici importanti. Il team della Flying Records brillerà presto sotto questo profilo rivelandosi scaltro nell’individuare con tempismo musica e artisti nuovi su cui scommettere e trasformare il tutto in opportunità di crescita. È il caso di “Let’s Play House” dei Kraze, giunto dopo la hit “The Party”, “Let There Be House” di Deskee, “Wiggle It” dei 2 In A Room e “3 Feet High And Rising”, primo album dei De La Soul. L’attività poi si consolida attraverso la produzione di musica inedita di artisti messi sotto contratto come Joy Salinas, Dino Lenny e Digital Boy, di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui: in breve Flying Records diventa una sorta di polo industriale, organizzato sul modello di grandi realtà estere e mosso da una vocazione che intreccia imprenditoria e creatività.

Tardio nel deposito Flying Records di Posillipo (intro)
Angelo Tardio nella prima sede della Flying Records a Posillipo (1989 circa)

I tempi per la musica da discoteca sono propizi, il mercato è letteralmente invaso da produzioni house e techno e i numeri lasciano intravedere un più che roseo futuro. Ciò permette la nascita e la proliferazione di un numero indefinito di etichette messe nella condizione di poter esprimere il proprio potenziale anche senza cercare necessariamente il consenso del grande pubblico. Questo avviene in virtù della fitta rete di DJ sparsi nel mondo disposti a supportare quel tessuto connettivo che si autoalimenta grazie a continue novità, nomi nuovi e inedite traiettorie stilistiche. La musica underground brulica nel sottosuolo e non ha affatto bisogno di essere gestita come quella delle multinazionali con ingenti investimenti in attività promozionali, tournée nazionali e internazionali o costosi videoclip. Gran parte dei mix è priva persino della copertina, rimpiazzata da generiche bianche o nere col buco centrale, economiche ma pratiche perché consentono ai DJ di consultare istantaneamente i titoli. In buona sostanza si tratta di musica che nasce e vive di passione, senza sovrastrutture legate al divismo da stadio pop/rock, immessa sul mercato talvolta macinando poche centinaia di copie ma a volte svariate migliaia, a seconda di particolari condizioni. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il nome degli autori è celato dietro alter ego di fantasia, totalmente anonimi, e questo rende il tutto ancora più viscerale perché disconnesso da fidelizzazioni di sorta, ma del resto la storia di generi come house e techno è ancora agli inizi e sono davvero pochi gli artisti a vantare repertori discografici di rilievo. Proprio in questa dimensione nel 1991, tra le mura della Flying Records, nasce UMM, acronimo di Underground Music Movement, l’etichetta che Angelo Tardio, ex DJ in discoteca, nelle radio private e con qualche esperienza sul piccolo schermo, crea con lo scopo di dare voce alla musica che più gli piace, non tenendo conto delle classifiche, delle esigenze e delle richieste del mercato mainstream, coperte invece dal brand omonimo del gruppo campano, Flying Records per l’appunto.

UR feat. Yolanda
“Living For The Nite” di Underground Resistance Feat. Yolanda, prima licenza messa a segno da UMM nel 1991

1991, fiammata rave
A tagliare il nastro inaugurale della UMM è un disco prodotto tra Perugia e Londra dai D.B.M., apparente duo formato da Kurt D.J. e Giulio Benedetti. Il brano si intitola “Real Dream” e pesca a piene mani dal repertorio ravey, con spezzettamenti ritmici breakbeat, voci campionate, pianate e qualche stab ad acuire la tensione. Simili le coordinate entro cui è inscritto “The Voice Of Rave” del progetto omonimo dietro cui armeggia il ligure Luca Pretolesi, giunto da poco alla Flying Records come Digital Boy. In rilievo uno dei pezzi sul lato b, “Raveology”, dove pulsa un groviglio di ritmo e bassline rivelando la sua potenza insieme a voci gutturali, probabilmente quelle dell’MC di Pretolesi stesso, l’americano Ronnie Lee, il futuro Ronny Money ed MC Rage di cui parliamo qui. Dopo una doppietta italiana sul piatto arriva la prima licenza messa a segno da Angelo Tardio, “Living For The Nite” degli Underground Resistance, un disco proveniente da Detroit dalle matrici house interpretato vocalmente da Yolanda Reynolds che riporta ai grandi successi ottenuti pochi anni prima da Kevin Saunderson e Paris Grey come Inner City. Tra i remix pubblicati a distanza di qualche settimana, oltre alla Deep In The Nite Mix approntata dallo stesso Tardio sotto l’alias Funk Master Sweat, due sono firmati da Digital Boy che così ripaga quello che gli Underground Resistance realizzano per la sua “This Is Mutha F**ker!”. Detroit è una parola di riferimento per chi ai tempi opera in ambito house/techno come Ivan Iacobucci, da Bologna: il suo EP, intitolato “Detroit 909” e firmato KGB, è un anello di congiunzione tra l’italo house sognante e più agitate partiture ritmiche. Alla delicatezza della title track si contrappone la ruvida “Scream (Wake Up!)” che riagguanta il mood rotolante di “Theme From S-Express” di S’Express con un graffiante vocal (di A Bitch Named Johanna?), e la percussiva “Bondage” sul lato b, con slanci technoidi. Chiari riferimenti al modello della musica rave si incontrano anche nell’EP di Tony Carrasco intitolato, per l’appunto, “Selections From The Rave”: il DJ newyorkese, con esperienze maturate al mitico Studio 54, mette a segno pezzi di estrazione eterogenea, dalla sinuosa “Trip City” alla rilassata “Funky-Ology” passando per l’ossessiva “Time Bomb (I Can’ttt Wait)” e la deliziosa “Swiss Chocolate” scritta insieme al sassofonista Nicola Calgari con cui continua a collaborare per “The System” di The Faust, a cui mette mano anche Andrea Panigada. Maggiormente proiettato nel cosmo technoide, il disco vede l’inserimento di parti rappate di Fausto Guio, da Brooklyn, seppur il suo nome non figuri tra i crediti. Il medesimo team appronterà nel Bips Studio di Milano un secondo disco che UMM pubblica nel corso dell’anno, “Buckwild”.

A metà strada tra house e techno è anche “Angel Of Love” di Jo Smith, cantante britannica diventata nota anni dopo interpretando pezzi eurodance (su tutti “Wonder” di Cerla & Moratto) per l’occasione prodotta da Paolo Casa col supporto del citato Elvio Moratto e Fulvio Zafret e remixata a Roma da Luca Cucchetti. Viene proprio dalla Capitale “Secret Doctrine” di The True Underground Sound Of Rome Featuring Stefano Di Carlo, collettivo fondato da Chicco Furlotti e animato dai DJ Leo Young e il compianto Mauro Tannino. Messo inizialmente in circolazione dalla Male Productions in formato promozionale, viene ripubblicato da UMM con l’ambizione di diffonderlo più capillarmente oltremanica e oltreoceano. Proviene giusto dagli States “These Are My People” dei Members Of The House, un disco house/garage partito dalla Shockwave Records (la stessa sulla quale, poco tempo dopo, debuttano i mitologici Drexciya con “Deep Sea Dweller”) e prodotto dagli Underground Resistance, lieti di riapparire sulla label di Tardio a poca distanza da “Living For The Nite”. Torna pure Iacobucci, questa volta come DJ Ivan, con “All Night” prodotta insieme a Enrico Mantini, a cui fa seguito “Your Body” con cui Iacobucci stringe la collaborazione con Nicola Dragani e Andrea Cosma. Seppur ascritto ancora a quella (club) house italica, riscaldata da fiati ed eterei pad, in “Carbonized (You Gotta Put Me On)” vibrano linee ruvide che lambiscono l’acid, contestualmente a balbettanti frammenti vocali. A produrlo, dietro il nome Aspro Marinetti, è il torinese Stefano Righi meglio noto come Johnson Righeira e passato alla storia con l’amico Stefano Rota coi Righeira. A bazzicare contemporaneamente house e techno è pure Emanuele Luzzi alias Onirico col suo “Stolen Moments” a cui abbiamo dedicato qui un ampio approfondimento. Tra i più ricercati del catalogo, l’EP è stato ristampato un paio di volte, l’ultima nel 2022. Le porte di UMM si aprono anche per Lino Lodi e Stefano Mango che nel loro S.MA.L.L. Studio di Maniago, in provincia di Pordenone, assemblano “Check It Out” di Eighteenhours, avvalendosi di un remixer d’eccezione, Mr. Marvin, che cura le due versioni dai toni sensuali sul lato b. Lodi e Mango proseguiranno la carriera prediligendo un suono crossover (Face The Bass, Pan Position, Express Of Sound tra i loro act più noti) e lasciando nel dimenticatoio Eighteenhours. Dal Veneto arrivano i fratelli Gianni e Paolo Visnadi con “NOFutureNOPast”, quasi un mini album tante le tracce racchiuse all’interno, ben sei, con divagazioni tribaleggianti (“Hunts Up”), luccichii trance (“Asaid Asaid”), affondi downtempo (“Dreams”, “The Good Place”). Romana invece la provenienza del disco dei G.M. (G per Giancarlino – Battafarano, M per Micioni – i fratelli Pietro e Paolo), un quattro tracce da cui emergono l’estatica “L.O.V.E. Ambient” e “You Got Your Love” in cui fa capolino la voce di Giulia Puzzo alias Julie P., pure lei dalla Città Eterna. La prima annata di UMM, dunque, rivela un’attività tentacolare: Tardio ha le idee chiare su che musica investire denaro e risorse, sia quella importata dall’estero, sia quella prodotta entro i confini nazionali, e questo ribalta la sua posizione da sfegatato esterofilo emersa ai tempi di Musical Soup su Telepartenope nel 1981, quando poco più che ventenne viene definito “Il Mister Fantasy del Vesuvio” paragonato a Carlo Massarini e passa in tv i pezzi di Adam And The Ants e di altri gruppi new wave britannici.

1992-1993, esplosione underground
I fratelli Visnadi dimostrano di avere un mucchio di frecce al proprio arco e tirano fuori un altro EP da sei tracce che firmano CYB, “Snake Bit”, trainato dal brano omonimo, una serpentina ipnotica spinta a lambire il bleep e l’acid. Poi stab nervosi (“Ovverture”), un’altra scorribanda all’interno di un suono gommoso ed elastico (“Five”) e una visione deep house velocizzata (“Unisound”). Spietata techno hooveristica si ritrova in “Fury” degli Underground Resistance, un’altra licenza tratta dal catalogo dell’etichetta detroitiana che sul lato b vede l’altrettanto ciclonica “Cyclone”. Provenienti dall’estero sono pure “Endangered Music” di Endangered Species, un disco particolare ai confini tra jazzdance e deep house partito dalla britannica V4 Visions, e “Strong To Survive / Fuck You Up” di Blake Baxter, originariamente sulla Incognito di Detroit. Completamente italiana invece la produzione di “Desafinado” a firma Rhythm 3 Request, team veneto in cui figurano Paolo Verlanzi e Vic Palminteri che nello Yellow Studio di Jesolo approntano un dolciastro anthem italo house issato su un pattern tribaleggiante, forse ispirato da “Koro-Koro” di No Smoke. Romana invece la produzione del primo volume di Progetto Tribale, nuova avventura di Giancarlino Battafarano e dei fratelli Micioni alle prese con un sound che, come annuncia il nome stesso, attinge a piene mani dalla musica africana. È sufficiente ascoltare “Tribal Makossa” per capire quanto fossero in ritardo coloro che, almeno dieci anni più tardi, si sono illusi di aver creato la corrente tribal house. Suadenti fiati si rincorrono in “Don’t You Ever Stop” di Tranquil, act one shot del newyorkese ma di chiare origini italiane Dino “Blade” Bellafiore. Sul lato b “Smoke Signals” remixata da un altro statunitense figlio di immigrati italiani, Ralph D’Agostino noto come Ralphie Dee. Sono rave techno, con flessioni breaks e urla da stadio, sia le matrici di “F.U.C.K.” di M.A.S.E.R., un’altra produzione proveniente dalla Capitale a cui mette mano pure il compianto Stefano Facchielli alias D. Rad, sia quelle di “Elevator EP” dei Noisee Boyz, da cui si ergono bene pezzi come “Most Illogical” o “Quadra Wave”, ricolmi di suoni a onda quadra collocati in stesure cervellotiche. I Visnadi riappaiono con la dream house di “Don’t Make Me Wait” di EDN a cui segue “Chrystol Dance” di Nu-World, pezzo venato di funk con un sample all’interno tratto da “Crystal World” dei Crystal Grass e preso in licenza dalla Tom-Tom Club d’oltremanica. Verlanzi e soci ritornano col secondo disco di Rhythm 3 Request, “Form The Pages Of Our Mind” (ma è plausibile che per un refuso il “from” sia diventato “form”), un EP in c’è dolcezza (“Feel The Rhythm”, “Delicious”) ma anche energia percussiva (“Back Frog”). Secondo atto per i capitolini Progetto Tribale intitolato, semplicemente, “Volume 2”, ed è spiccatamente tribaleggiante anche la vena di “Baa. Daa. Laa.” degli A.T.S., (acronimo di African Tribal System) dietro cui si celano i fratelli Maurizio e Michele Divito e Antonio Ursi. A distanza di qualche mese il brano riappare attraverso un paio di remix dei Visnadi. Più aderente al suono soffuso e “foggy” tipico della house prodotta in quel periodo per i club sono i sei pezzi racchiusi nel “Volume 1” dei Transitive Elements, nome che tiene insieme l’asse creativo di Argentino Mazzarulli ed Enrico Mantini. Su tutti spicca la radiosità di “Octivation (Zone Dub)”, ripescata nel 2017 nel secondo volume della compilation olandese “Welcome To Paradise”, e “Artico”, un metti e togli tra ritmo e vocalità. L’utilizzo delle percussioni afro è predominante anche in “Let The Bongos Sing” degli Home-Grown (Miles Morgan e Sean Casey), proveniente dalla Tomato Records. Giunge d’oltralpe (dall’olandese Natural Records) pure “Pot Of Gold” dei Chestnut, house solidificata intorno a slanciate vene percussive e rivista in più remix tra cui quello di Frank De Wulf. È il primo doppio mix per la UMM.

L’attenzione che Angelo Tardio riserva alla sua etichetta è tangibile. Perennemente intento ad ascoltare musica nuova proveniente da ogni angolo del globo, individua un nuovo gruppo britannico, i Lionrock, prodotti dal DJ Justin Robertson, che vuole su UMM con “Roots ‘N’ Culture (Part 1)” e “Lionrock”, per l’appunto, e a ruota “Set Me Free” dei Nightmares On Wax, proveniente dal catalogo Warp Records, e “Life / This” dei Tribal Technology / MAD @ Chris (questi ultimi col supporto vocale di Tori Amos), individuati in una raccolta della t:me di Nottingham. Ralphie Dee & Dino Blade nuovamente in azione con “Calypso Interlude”, altra parentesi aperta sulle infinite potenzialità offerte dalla combinazione tra house e afrobeat. Il brano verrà ripescato l’anno seguente con due remix provenienti dai Paesi Bassi, uno di Maarten van der Vleuten alias DJ G-Spot, l’altro di Hole In One, spinto dal successo di “X-Paradise”. Come un autentico fiume in piena, la UMM intercetta “Nush” dei debuttanti Nush (Danny Harrison e Danny Matlock) e “Samba” con cui Todd Terry avvia un nuovo act, House Of Gypsies. Il DJ newyorkese, tra i guru della house, riappare poco dopo con “Can You Feel It” di CLS, pubblicato prima su un doppio e poi su un singolo destinato ai remix di Giuseppe ‘MAN-D.A.’ Manda, ai tempi venditore per Flying Records, e i Fresh n’ Funk ovvero Carmine Tortora (partner in crime di Tardio nel progetto Kwanzaa Posse) e Roberto Masi dei Blast.

Visnadi - Four Journeys
La copertina di “Four Journeys” dei Visnadi

Tardio continua a credere nelle facoltà compositive dei Visnadi pubblicando “Four Journeys” (all’interno pure una traccia dai riflessi techno prodotta con Floriano Fusato, “Transpassage”), supporta Maurizio Verbeni con “Pump The Voice”, scandito da un esotico xilofono, e il team dei Submission (Ivan Iacobucci, Ennio Carusillo e Sergio Macciocu) che per la loro prima (e unica) apparizione sfoderano un piacevolissimo pezzo garage, “Trouble”. Altrettanto convincente l’esordio degli Statement (tra gli autori i DJ Fernando Opera e Patrizio Squeglia, ai tempi grafico per Flying Records) con “Our Concept”, in cui i confini tra house music, jazz e funk diventano labili. Un altro colpaccio messo a segno da Tardio è rappresentato da “Work In Progress EP” dei britannici Rejuvination (Glenn Gibbons e Jim Muotune), preso in licenza dalla neonata Soma. È il cinquantesimo mix dell’etichetta partenopea. A seguire arriva “Naked” di Alessandro Tognetti, inciso nel Bass Recording Studio di Alex Neri e Marco Baroni. Il brano galleggia sulle classiche atmosfere della italo (deep) house di quel periodo. A spiccare è la Carol Version, scandita da un sax e una suadente voce femminile erroneamente scambiata per quella di Carolina Damas, la venezuelana diventata nota qualche anno prima per “Sueño Latino”. A sgombrare ogni dubbio è lo stesso Tognetti in questa intervista: «La voce era tratta da un’acappella inglese. Optammo per Carol Version perché, banalmente, in quel periodo la mia fidanzata si chiamava Carol». Tardio è sempre sul pezzo: dalla britannica Guerilla prende in licenza “Land Of Oz” degli Spooky e dalla newyorkese One Records “The Conversation” degli Orchestra 7 prodotto da un vero fuoriclasse della house d’oltreoceano, Roger Sanchez. Il materiale accumulato è talmente tanto da riempire una compilation, edita sia su doppio vinile in formato gatefold che CD, intitolata “The Remixes”. All’interno, come è facile presumere dal titolo, solo remix, da Progetto Tribale a KGB e Visnadi passando per House Of Gypsies, Underground Resistance Feat. Yolanda e Blake Baxter. In copertina, sulla vista aerea della costa campana, si rinviene un messaggio in cui Tardio alias Funk Master Sweat prima spiega le motivazioni che lo hanno spinto a creare un’etichetta non disposta a sposare le classiche leggi commerciali e poi rimarca come il termine “underground” sia finito con l’identificare altro nel mercato generalista, in netto contrasto coi dettami di UMM. Per l’occasione promette di restare fedele al credo di partenza e lo dimostra subito mandando in stampa “Dreams EP” di The Neverending Dreams, team di produzione in cui, tra gli altri, spicca il nome del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano, “Don’t Give Up” degli Statement, “The Ultimate Result” di Enrico Mantini e “Solution EP Vol. 1” di Stefano Noferini registrato, analogamente a “Naked” di Tognetti, presso lo studio di Neri e Baroni in provincia di La Spezia, da dove proviene pure “Good Time” dei Mantras.

Alex Party - Alex Party
“Alex Party” del progetto omonimo, diventato popolare col titolo “Read My Lips”

Macinando più pubblicazioni al mese, UMM inizia a ritagliarsi un posto di assoluto rilievo tra le etichette house che contano a livello internazionale, e si accaparra altre licenze di pregio, come “Schmoo” degli Spooky (con remix degli Underworld sul lato b), “More Than Just A Dance” di Phantasia alias DJ Pierre, “This Some Bad Weed” dei Soundcraft, “Every Now And Then” di Ralph Falcon e “House Ala Carte” di Jovonn, che di fatto la pongono su un piedistallo e la elevano dal classico fare discografico italiano. La vocazione internazionale è palese, la direzione di Tardio non lascia adito a dubbi di sorta ma senza tradire un certo made in Italy, come quello dei Gradiva con cui i Visnadi allacciano i rapporti col DJ Alex Natale e tirano fuori “To The Funky Beat” che preannuncia lo stile di Alex Party, giunto poco dopo col brano omonimo in cui trovano alloggio uno stralcio vocale preso da “Read My Lips” dei DSK, già riciclato un paio di anni prima dai People In Town, e quello di “Weekend” dei Class Action, coverizzato con successo da Todd Terry nel 1988. Il brano esploderà nel Regno Unito nel 1994 col titolo “Read My Lips”. I Visnadi incidono nuove versioni di “Hunt’s Up” con suoni più elettronici (Christian Zingales, in “Techno”, descrive la Trance Mix come «una psicotica cattedrale sintetica lanciata ad alta velocità verso il nulla dove risuonano a grande effetto le mortali spirali da caduta libera di uno dei sample vocali più letali della storia, quello di “Scream For Daddy” di Ish già usato dagli S-Express in “Theme From S-Express”») e “Moovin’ Groovin'” con cui calano il sipario su EDN. Da Roma si fanno risentire i Progetto Tribale (Giancarlino, D. Rad e i fratelli Micioni) col “Volume 3”, l’ultimo destinato a UMM (il quarto finisce l’anno dopo nel catalogo D:vision). Nel brano di chiusura, “Tribal Thanx”, tributo downtempo a tanti miti della musica, c’è la voce di Marina Restuccia, ai tempi attiva come Jamie Dee e da lì a breve proiettata nella carriera pop come Marina Rei.

Fortemente determinato a proseguire con lo stesso passo, Tardio continua a iniettare linfa vitale nei circuiti della sua etichetta bilanciando produzioni nostrane ad altre importate dall’estero. In rapida sequenza escono “I Know You Can Hear Me”, unica apparizione dei The Miners (Giancarlino, Marco Scocchi e D. Rad), “Pleasures’ EP” dei 2 Guys (apparizione one shot dei Visnadi) trainata dalla estatica “Deep Blue Night”, “The Anixus EP” degli Anixus, richiestissimo sul mercato dell’usato e ristampato pochi anni fa, e “I Want You Now” dei Global Cut (Massimiliano Rovelli, Mimmo Mennito, dipendente Flying Records nel settore import, e Giampiero Mendola). D’oltralpe giungono invece il secondo volume di “Wildtrax” di Wildchild (che un paio di anni dopo spopola con “Renegade Master”), e “I Can’t Get No Sleep” dei Masters At Work Featuring India, originariamente sulla Cutting Records dei fratelli Aldo e Amado Marin e potenziato dal remix di Marc ‘MK’ Kinchen. L’interesse nutrito per la musica di Vega e Gonzalez convince a rilevare anche il loro primo LP intitolato, semplicemente, “The Album”. All’interno pezzi come “Can’t Stop The Rhythm”, “All That” e “The Buff Dance”. Il tutto viene pubblicato sia su vinile (doppio) che CD, scelta condivisa pure per “Gargantuan”, l’album degli Spooky. Doppia è altresì la compilation “Tribute – DJ Collection Vol. 2”, tratta dal catalogo della Hi-Bias Records, riempita con dodici tracce in perenne bilico tra deep house e garage. Dall’etichetta canadese giunge anche “Love Attack” di Groove Sector, progetto del DJ italo svizzero Stéphane Stillavato meglio noto come Willow. “Syxtrax” è un EP che, come promette il titolo, contiene sei tracce erranti tra progressive, trance e techno. A produrle gli infaticabili fratelli mestrini Visnadi che per l’occasione rispolverano il loro progetto più technofilo, CYB. Giungono da Cassino invece, in provincia di Frosinone, i tre amici (Claudio Coccoluto, Savino Martinez e Dino Lenny) che approntano “Friend”. Per l’occasione si fanno chiamare HWW, acronimo di House Without Windows ironizzando sul fatto che il loro studio amatoriale sia talmente piccolo da essere privo di finestre. È un periodo particolarmente florido per i DJ italiani che, sparsi un po’ in tutto lo Stivale, mettono su piccoli studi di registrazione facilitati da prezzi più accessibili delle strumentazioni, alcune tecnologicamente quasi obsolete ma perfette per le nuove forme della musica dance. Da Bologna arrivano i due volumi di “The Grunge EP” degli Underground Ghosts (Ivan Iacobucci e Nick Dragani), da Jesolo “Keep The Children Free”, ultima apparizione per i Rhythm 3 Request probabilmente ispirati dall’ipnotismo di “Plastic Dreams” di Jaydee di cui parliamo dettagliatamente qui, da Palermo i cugini Dario e Mario Caminita con “I Can’t Quite Understand / So Good” di Klaiff, da Pescara Enrico Mantini che, affiancato da Marco Fioritoni, appronta le quattro tracce per il secondo volume di Transitive Elements. Ultima volta su UMM pure per gli Statement con “C’Mon And Get It!”, con un sample carpito a “I Got My Mind Made Up” degli Instant Funk, a cui fa seguito “The Land Of Flux” di 3 Of Us, team perugino che destina tutti i lavori successivi alla SVR – Seven Valley Records. Il brano attinge a piene mani da “Fluxland” dell’omonimo artista olandese (Ramon Roelofs, meglio noto come Charly Lownoise) e conoscerà un successo generalista attraverso un’altra cover messa a segno dagli XL, edita dalla Reflex Records nel 1994.

Fathers Of Sound - Revelation
“Revelation” dei Fathers Of Sound

Tardio non perde mai di vista il mercato estero: dalla Vibe Music di Chicago prende “Strawberry” di Georgie Porgie, impreziosita dai remix di Maurice Joshua e degli UBQ Project (Aaron Smith e Terry Hunter), dalla One Records di New York invece “I Need You” di Nu-Solution, progetto one shot di Roger Sanchez accompagnato dalla voce di Tonya Wynne che conta così tanti remix (tra cui quelli di Ralph Falcon, StoneBridge e del nostro Luca Colombo) da necessitare un doppio mix. Ralphie Dee & Dino Blade approntano il seguito di “Calypso Interlude” ovvero “Deranged EP”, un extended play in cui si intersecano varie traiettorie stilistiche, mentre Maurizio ‘Jazz Voice’ Verbeni inaugura Degression con “Doctor Jazz” in cui, prevedibilmente, scorrono partiture jazzate in un caleidoscopico puzzle di sample. Ai nastri di partenza ci sono i Fathers Of Sound (i toscani Gianni Bini e Fulvio Perniola affiancati da Paolino Bova intervistato qui) con “Revelation”, una traccia che sintetizza le atmosfere nebbiose della prog d’oltremanica con divagazioni detroitiane di UR o Kevin Saunderson. Il disco è un single sided che sul lato b accoglie un disegno inciso per esteso su tutta la facciata, un etched come si dice in gergo. Sono sempre i Fathers Of Sound a occuparsi della produzione sia di “I Can’t Forget You” di Anthony White, cantante originario di Philadelphia che vanta un’apparizione sulla Salsoul Records, “I Can’t Turn You Loose” del ’77, sia di “Inside Out”, brano che segna il debutto discografico di Stefano Noto, affermato DJ fiorentino. Con un flusso produttivo che non conosce soste ed esitazioni, in circa un biennio di attività UMM raggiunge un ambito traguardo, la centesima uscita. Per l’occasione Tardio appronta una raccolta intitolata, per l’appunto, “Cento”, che raduna brani inediti realizzati da artisti che gravitano intorno all’orbita della sua etichetta. Da Alex Neri e Stefano Noferini con “In Progress” a Ivan Iacobucci con “All Right”, da A.T.S. con “Kio Kisinza” a “Love” di MAN-D.A. passando per una nuova versione di “C’Mon And Get It” degli Statement, “Insanity” di Valez remixata dai Fathers Of Sound e “Tribal Acid” di Claudio ‘Cocodance’ Coccoluto. Il tutto viene riversato su doppio vinile e CD, suggellato da una copertina decorata con caratteri argentei in rilievo.

UMM è un marchio consolidato ma il suo fondatore non dorme sugli allori anzi, si pone sempre nuovi obiettivi da raggiungere e questo gli permette di incrementare il catalogo e allargare il roster artistico. Tra i nuovi arrivati ci sono Joy Kitikonti e Francesco Farfa, intervistati rispettivamente qui e qui, uniti come Hoyos Corya: il loro pezzo si intitola “Oyo” e segue la scia della prima ondata progressive toscana, quella che ibrida la house con elementi presi da techno e trance. Un nuovo act è pure quello di Enrico Mantini e Pietro De Rosa, Mood 2 Create, sviluppato su quattro tracce deep house quasi interamente strumentali, riscoperte dall’olandese 4 Lux di Gerd che le ristampa nel 2017. “Victim Of Obsession”, costruita sul campionamento vocale preso da “Set It Out” di Midway, viene pubblicata invece come The White Fluid. La creatività di Mantini è al diapason e poco dopo giunge “The Device EP” con altri cinque brani (tra cui “U Can Use It” e “I Will Be True”) che contribuiscono a definire il filone della house italiana da club dei primi anni Novanta. Non sono da meno Ivan Iacobucci e Nick Dragani che per il “Sea EP” s’inventano un altro pseudonimo, Nottambula, e i fratelli Visnadi che dal cilindro magico tirano fuori “Racing Tracks”, un brano che, come racconta Paolo Visnadi in questa intervista, «fu prodotto di getto, in un pomeriggio, con strumenti come il sintetizzatore Sequential Circuits Prophet-5, un campionatore Kurzweil, un processore di effetti Lexicon PCM 70 e un mixer Soundcraft TS24» aggiungendo che fu suonato dal vivo e tutta la sua struttura venne sviluppata interamente in tempo reale. Contraddistinto da rumori stradali che lanciano un parallelismo con “Autobahn” dei Kraftwerk, “Racing Tracks” viene illuminato di nuova luce nel 2013 da Maceo Plex che lo riedita nel suo “DJ-Kicks” su Studio !K7 per poi essere ristampato nel 2018 dalla romana Mr. Disc Organization. Sul fronte licenze, arrivano “Critical (If You Only Knew)” dei Wall Of Sound (John Ciafone e Lem Springsteen, meglio noti come Mood II Swing), tre nuove versioni di “Little Bullet” degli Spooky, dal citato album “Gargantuan”, “Can’t Stop The Rhythm” e i remix di “When You Touch Me” dei Masters At Work (finiti su un singolo, un doppio e un triplo in edizione limitata), “You Don’t Know” di The Hot Project, con un vocione in stile Louis Armstrong, e “Deep Inside” di Hardrive, una club hit internazionale prodotta da Little Louie Vega, cantata da Barbara Tucker e proveniente dal catalogo Strictly Rhythm poi affidata, per ulteriori tre versioni, ad Alex Natale e i Visnadi. Sono proprio loro ad approntare il nuovo Alex Party trainato da “Nu-Nu-Now” (contenente due brevi campionamenti vocali tratti da “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys e “Let No Man Put Asunder” delle First Choice), rampa di lancio per un suono che nell’arco di qualche anno riesce a conquistare il mainstream. Dal loro 77 Studio di Mestre esce pure “See On” di Roby Sartarelli alias Long Leg. Gianni Bini e Fulvio Perniola si occupano del nuovo di Anthony White, “Love Me Tonight” riproposto un paio di anni dopo con nuovi remix e contenente un campionamento dell’acappella di “Let Me Love You” di Imarri (poi usata dagli Shapeshifters in “Lola’s Theme”), e di “Insanity (The Essence)” di Valez, pregustato in anteprima in “Cento”, poi “Gosp” dei veneti L.W.S. guidati dal DJ Walterino, con un sample trovato in una compilation di musica gospel, e Argentino Mazzarulli che inaugura il moniker A.R.G.E.N.T.I.N.O. con “Keeping Depth EP”, riscaldato di continuo da influssi tribaleggianti. Menzione a parte per “Take You Right” dei Blast, progetto che batte bandiera siciliana portato avanti dal cantante Vito De Canzio alias V.D.C., il DJ Roberto Masi e il tecnico del suono Fabio Fiorentino, destinati a uscire presto dalle tenebre dell’underground.

Blast + CYB
Sopra “Crayzy Man” dei Blast, tra i primi successi internazionali di UMM, sotto “It’s Too Funky” dei CYB, scelto per inaugurare la UMM Progressive

1994/1995, consolidamento ed exploit: il doppio binario di UMM
Il grande boom mainstream dell’eurotechno, scoppiato tra 1991 e 1992, va progressivamente esaurendosi nel 1993. Il pubblico generalista, spesso influenzato dalle programmazioni dei network radiofonici, è in cerca di una nuova tendenza da seguire e la trova nella house music che torna quindi a fare crossover tra i club underground e le maxi discoteche, come avvenuto già alla fine degli anni Ottanta con l’invasione della cosiddetta “spaghetti house”. Un crescente numero di brani nati per un pubblico ristretto di DJ e amatori si ritrovano quindi nelle programmazioni delle radio e persino nelle classifiche di vendita. È il caso di “Crayzy Man” dei Blast che, dopo i tiepidi riscontri di “Take You Right”, vengono proiettati in una scena completamente diversa da quella di partenza. «Buona parte del merito nel successo di “Crayzy Man” va riconosciuto ai Fathers Of Sound che, con la loro F.O.S. In Progress, stravolsero l’originale dotandola di sonorità più aperte e tipiche della house internazionale» afferma il cantante del gruppo, Vito De Canzio, in questa intervista, aggiungendo che i toscani riuscirono a valorizzare le idee «portando il brano a un livello superiore, facendolo uscire dai confini della house da club e traghettandolo nel mondo commerciale con un appeal vendibile e radiofonico». Il successo è tale da richiedere un videoclip girato al Cretto di Burri, vicino ai ruderi di Gibellina: «era un paesaggio lunare reso ancora più alieno dalla fotografia del regista Emanuele Mascioni e dalle idee visionarie di Patrizio Squeglia. Poi ci fu la trovata della palla, un grosso globo dipinto di argento che molti ipotizzarono fosse stato inserito digitalmente in post produzione seppur in quel periodo di digitale c’era ancora ben poco. In realtà si trattò solo di una palla gonfiata spinta dal vento che soffiava quel giorno» conclude De Canzio. Uscito a fine febbraio, “Crayzy Man” conquista un’audience sempre più vasta ed eterogenea. Tra i supporter anche Albertino che, a metà aprile, vuole il brano nella DeeJay Parade settimanale dove resta per cinque settimane. Si fa avanti la multinazionale MCA che lo pubblica negli Stati Uniti e nel Regno Unito con altri remix tra cui quello di Junior Vasquez. Si tratta di uno dei primi dischi targati UMM a raccogliere risultati di questo tipo e, per la gioia delle casse della Flying Records, non l’ultimo. La vocazione di Tardio però non è cercare pezzi che facciano intenzionalmente gola ai programmatori delle radio anzi, per lui certi responsi sono completamente irrilevanti ai fini del leitmotiv della UMM che, per definizione, deve continuare a rappresentare il movimento della musica underground. Il caso vuole però che dopo “Crayzy Man” dei Blast giunga un altro brano capace di sparigliare le carte e incuriosire anche i DJ non specializzati, e a firmarlo sono i fratelli Visnadi nelle vesti di CYB. Il disco, come testimonia il titolo in copertina, nasce in virtù di due remix di “Now”, originariamente incluso in “Syxtrax”, ma ad avere la meglio è la traccia incisa sull’altro lato, “It’s Too Funky”, dove a fare da padrone è l’ipnotico riff di tastiera che corre su un ritmo serrato dal quale, come un geyser, erutta a più riprese un breve ma efficace hook vocale. Le richieste sono tante e giustificano la pubblicazione anche su CD, ai tempi formato secondario e quasi irrilevante per i DJ. Non è propriamente house però, piuttosto un ibrido che si spinge a lambire le sponde progressive e infatti Tardio per occasione vara una sorta di etichetta sussidiaria, la UMM Progressive, ma senza ricorrere a un nuovo logo e numerazione. L’unica indicazione, oltre a un layout grafico marginalmente modificato, è la presenza delle lettere PR accanto al catalogo, monogramma che si rinviene nelle quattro uscite successive: “Spice” di Timeless, ennesima incarnazione artistica dei Visnadi, “State Of Panic” di Sonar (Dino Lenny e Savino Martinez affiancati da Coccoluto come sound engineer nel solito HWW Studio), sviluppato sul campionamento di un pezzo senza titolo di Emmanuel Top uscito l’anno prima, “Context Control EP” dell’olandese Trance Induction e “1/2 Transphunk EP” dei francesi Motorbass. Italianissima invece la produzione di “Let Yourself Go” di L.W.S. Featuring Long Leg, un mosaico di sample afro e funky loopati su base house, e “Locomotive Vocale” dei Lineout, prodotto ancora da Walterino come remake dell’omonimo del compositore francese Hugues Le Bars, sincronizzato in uno spot televisivo del liquore Grand Marnier negli ultimi anni del decennio precedente. A “Crayzy Man” dei Blast UMM aggiunge ora un’altra hit internazionale, presa in licenza con assoluto tempismo dalla newyorkese Strictly Rhythm. Trattasi di “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, progetto lanciato un paio di anni prima da Erick Morillo e Ralph Muniz che ora si afferma grazie a un brano, interpretato da Mark Quashie alias The Mad Stuntman, che incrocia house e raggamuffin. Supportato da un videoclip diretto da Craig K. McCall, “I Like To Move It” vende oltre un milione di copie in tutto il mondo e trova modo di eternarsi nel nuovo millennio col riadattamento per il film d’animazione “Madagascar”. Proveniente da un’altra etichetta newyorkese d’eccezione, la Easy Street, è “Get By” di Gayland che, per la pubblicazione in Italia, viene arricchita dai remix di Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi e Paolo Martini. Importati dall’estero sono pure “Morel’s Grooves Pt. 5” di George Morel, “No Love Lost” di Ce Ce Rogers, “Fall Down / Freedom” dei Punchin’ e “The Frenzy Dance” dei Juzt 2 Brothers, pezzo prodotto dai fratelli Danny e Victor Vargas sulla falsariga di “I Like To Move It” dei Reel 2 Real e affidato, pochi mesi dopo, alle mani di Franco Moiraghi che realizza un incisivo remix. Prodotti “in casa” sono invece “People” dei Degression, il terzo volume (conclusivo) di Transitive Elements e “Ohh-D-Dub” di Frank Ozono, quest’ultimo ad opera dal team L.W.S. composto da Leonardo Bertoncello Brotto, Walterino Biasin e Stefano Amerio, prossimi a un exploit internazionale.

X-Static - I'm Standing
“I’m Standing”, il primo successo degli X-Static

A flirtare con le classifiche che contano sono pure i Visnadi che, insieme a Max Artusi e Ricky Stecca, creano un nuovo (ed ennesimo) progetto, X-Static. Il brano si intitola “I’m Standing”, è cantato da Cristina Dori e viene pubblicato oltremanica dalla Positiva insieme a vari remix tra cui quello dei Kamasutra, edito anche da UMM in un secondo 12″ col centrino viola. A innamorarsi del pezzo, con un pizzico dello stile di StoneBridge nella Velvet Mix e con una linea più aggressiva nella Heavy Organ Mix, sono tanti influenti DJ britannici tra cui Pete Tong, Judge Jules e Jeremy Healy. Percorso inverso, dalla Gran Bretagna all’Italia, per “Best Thing” di Miss Bliss, la DJ londinese Ayalah Bentovim meglio nota come Sister Bliss da lì a breve nella formazione dei Faithless. L’unica versione solcata sul disco, col solito logo inciso sul lato b, è realizzata dai Fathers Of Sound. A seguire, dai Paesi Bassi, c’è “Pepper” di Speedy J, diventato popolare dalle nostre parti per “Pullover” e “Something For Your Mind”, alle prese con un suono più trancey e warpiano, e infatti l’etichetta è UMM Progressive. Sospinta verso lidi simili è anche la raccolta in limited edition, edita su CD e triplo vinile, “UMM In Progress”, selezionata da Francesco Zappalà. All’interno diverse gemme che il DJ promuove nel suo Virtual Sound, da “Heaven” di Moby a “Flex” dei Bandulu, da “Joy” di Quadripart a “Electronique (Live At The Casino Montreux)” di Pink Elln & Atom Heart passando per l’esclusiva “Slave To The Moon” dei Visnadi, “(RE:EVOLUTION) Live At The Warfield” degli Shamen, “State Of Panic” di Sonar e un paio di sue stesse produzioni, “Free Brain” di Virtual Age e “Raggamountain” di The Kosmik Twins, prodotte rispettivamente con Ferdinando ‘Mr. Ferdy’ Colloca e Biagio ‘Baby B’ Lana. Il package è impreziosito dalle fotografie di Emanuele Mascioni effettuate su una scultura di Patrizio Squeglia, “Ettore & Andromeda”, perfettamente calata nel contesto del “suono virtuale” a cui si fa riferimento in copertina. Il Code 1 lascia ipotizzare un seguito che però non arriverà mai.

Nella scia della trance che va diffondendosi sempre più capillarmente in Europa si inseriscono i trevigiani Attraction col brano omonimo mentre decisamente più house oriented sono “Tossin’ N Turnin'” di Darryl Pandy, “Nadir” di Mark Ray Featuring Natalie Mundy, “New York Express” di Hardhead (un’altra “mina” presa dalla Strictly Rhythm e prodotta da Armand Van Helden) e “No Pay Day”, secondo e ultimo brano di Gayland riproposto in seguito coi remix di Paolo Martini e Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi. In mezzo a queste licenze estere c’è anche un made in Italy, “I’m A Bitch”, con cui il team degli L.W.S. fa il giro d’Europa. Ispirato dall’omonimo di quattro anni prima di A Bitch Named Johanna uscito sulla statunitense Project X Records, Biasin, Bertoncello Brotto e Amerio coniano un progetto ex novo chiamato Olga. La versione principale è la House Nation Mix (un nome-tributo per uno dei capisaldi della house chicagoana, “House Nation” di The House Master Boyz And The Rude Boy Of House, Dance Mania, 1986), in cui i vocal di Johanna Jimenez troneggiano su una trascinante base venata da un suono portante simile a quello di un organo, allora particolarmente in auge nei club. «Partimmo proprio dall’acappella di A Bitch Named Johanna a cui sovrapponemmo un groove ritmico e un basso» spiega Biasin in questa intervista. «Optammo per Olga perché ci sembrò un nome adatto a rappresentare la prostituta (bitch, nda) di cui si parlava nel testo. Visto il successo ottenuto anche nel mainstream, affidammo l’immagine del progetto a un’amica, Simona Sessa, che portò “I’m A Bitch” in tutte le discoteche italiane» (e che finisce sulla copertina del singolo pubblicato da UMM oltremanica, nda). Sull’onda dell’entusiasmo, Biasin e soci affidano a UMM un’altra loro produzione, “Afrikaans’ Holiday” di Afrikaans, a metà strada tra house e progressive trance, che fatica però a uscire dall’anonimato. Di tutt’altro regime invece l’andamento dei Reel 2 Real che, dopo i remix di “I Like To Move It” a firma Alex Party, riappaiono sull’etichetta campana con un nuovo brano, “Go On Move”, che in realtà tanto nuovo non è. La prima versione circola dal 1993 su Strictly Rhythm ma è con la Erick ‘More’ 94 Vocal Mix che Morillo riesce a fornire il giusto follow-up ad “I Like To Move It”, escludendo le parti funkeggianti a favore di una linea melodica che fa il verso al precedente e una parte vocale più estesa interpretata da Mad Stuntman. Accompagnato da un videoclip e reintitolato “Go On Move ’94”, il pezzo diventa un successo estivo. Le versioni a disposizione sono tante al punto da spingere UMM a pubblicarle su due mix, il primo col centrino bianco, il secondo nero. A separarle, nel catalogo in costante crescita, è “Just A Little Bit Higher” di Johnny Vicious.

adv Reel 2 Real
L’advertising che nell’autunno ’94 annuncia l’uscita dell’album dei Reel 2 Real su UMM

Dino Lenny e Savino Martinez firmano un nuovo UMM Progressive, “No More Mind Games” di B.O.D., in linea col suono di etichette britanniche come Platipus e Hooj Choons. Dallo scrigno Strictly Rhythm Tardio prende “Congo” che David Morales firma The Boss, un susseguirsi di ritmi latini intrecciati a pianate e organi, e “Las Mujeres (The Women)” di Fiasco, pure questo nato sul crocevia tra house music e percussioni latino americane. Con “The Bang EP” Roberto Carbonero, Marcello Salerno e Roberto Corinaldesi danno avvio al progetto U.S.E., acronimo di Underground Sound Evolution. Come “contorno”, Tardio rileva un altro paio di licenze, “La Fiesta” di The Spanish Society, dalla “solita” Strictly Rhythm, e “Dub It / Set Me Free” di Coco Steel & Lovebomb dalla britannica Warp Records. Ad affiancarle i due remix di “Te Ame Con Salsa” di Hildelgard (il primo realizzato da Carmine ‘KeyB’ Tortora e Beppe ‘MAN-D.A.’ Manda, il secondo da Robert Passera che pochi anni prima incide un piccolo cult, “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo dettagliatamente qui) e quello di “Love Me Or Leave Me” di Armante a firma Fathers Of Sound. In autunno è tempo di un nuovo Reel 2 Real, “Can You Feel It?”, costruito da Morillo ancora sullo schema di “I Like To Move It” e ripubblicato da UMM su due mix, attigui nel catalogo e con un punto in comune, la presenza su entrambi della Erick ‘More’ Club Mix, quella che si sente in radio. Il resto spazia nelle sfaccettature house coi remix di Roger Sanchez, DJ Duke e Jules & Skins sino a toccare, inaspettatamente, l’eurodance con la versione dei Factory Team in uno stile simile a quello dei bortolottiani Cappella mashuppato al telaio ritmico che il team veronese appronta in quei mesi per “Only Saw Today / Instant Karma” e “Sweet Music” del britannico Amos. “Can You Feel It?” è uno dei singoli estratti da “Move It!”, il primo album dei Reel 2 Real che la UMM si aggiudica per l’Italia pubblicandolo su doppio vinile, CD e cassetta. Ispirato proprio al suono dei Reel 2 Real è “I’m A Real Sex Maniac” di Dick, racchiuso in un’ironica copertina (doppiata su un adesivo allegato) che rimanda alle illustrazioni dei test psicologici e tematicamente collegato a Olga da riferimenti sessuali. A produrlo ancora gli L.W.S. con risultati apprezzabili in tutta Europa. Le licenze continuano a iniettare linfa vitale nei circuiti della UMM, seppur non sempre con l’appoggio dei DJ e della critica. Dalla britannica Zoom Records di Billy Nasty e David Wesson arriva “Throwing Caution To The Wind” dei Sourmash, con spinte goane, mentre dall’olandese NANADA Music l’EP di Ethics, trainato dal brano “La Luna” che vivrà una seconda vita a distanza di circa un anno. Passato praticamente inosservato è pure “The New Wave”, tratto dal catalogo della scozzese Soma, contenente tre pezzi (più un edit di uno di essi) di matrice techno (“The New Wave”, “Assault”, “Alive (New Wave Final Mix)”) messi a punto da un esordiente duo francese, i Daft Punk.

Alex Party - Don't Give Me Your Life
“Don’t Give Me Your Life”, una sonora conferma per gli Alex Party

Dopo i remix di “Gosp” di L.W.S. e “Joy” di Quadripart (quest’ultimo in formato doppio), arriva il nuovo degli Alex Party, “Don’t Give Me Your Life”, che ricalca alcuni elementi di “Nu-Nu-Now” (dal precedente “Alex Party 2”) amplificandone la portata pop grazie a una parte vocale interpretata da Robin Campbell alias Shanie. L’effetto è esplosivo e tra i primi a “capitolare” ci sono i britannici: come certificato da BPI (British Phonographic Industry), il brano diventa disco d’oro con 400.000 copie vendute oltremanica. Un gradito ritorno è anche quello dei Blast con “The Princes Of The Night”: a fare la differenza è ancora il remix dei Fathers Of Sound intitolato F.O.S. In Progress, ma le versioni sono tante (incluse quelle di JX e Red Jerry) da occupare due 12″, venduti separatamente e con copertine di colore differente. Bini e Perniola, infaticabili, trovano il tempo per approntare sia “Keep Looking Up” di Rhona Johnson, un pezzo garage portato al Midem di Cannes a inizio ’95, e “Want Me, Love Me”, brano di debutto di una giovane newyorkese di origini italiane che si affermerà nel mondo del piccolo e grande schermo, Justine Mattera. Reduce dal successo britannico di “Cocaine” del ’91, Dino Lenny sposta la sua attenzione verso scenari trance e progressive. Con una mano riattiva, per l’ultima volta, Sonar mediante “Mellow Monday”, lasciandosi affiancare dai fidi Martinez e Coccoluto, con l’altra inaugura S.O.P. con “Esta Buena”. S.O.P. e il citato B.O.D. sono collegati non solo dalla tipologia sonora ma anche da un’ironica linea concettuale promossa dall’artista cassinese: S.O.P. è l’acronimo di Sister Of ♀ (Pussy), B.O.D. di “Brothers Of ♂ (Dick). Si trincerano dietro una sigla pure Pietro De Rosa ed Enrico Mantini che raccolgono tre tracce (tra cui “Use It (… To Eliminate You)”) in un EP firmato DM Construction. In solitaria Mantini realizza invece “What U Want” con la voce di Cameron Borrelli alias X Woman, ristampato proprio di recente su Purism. Batte bandiera olandese “Yell Song” di Clusia Fortal, attorcigliato a suoni forse un po’ datati, e arriva un nuovo singolo dei Reel 2 Real, “Raise Your Hands”, simile ai precedenti ma con minori potenzialità commerciali, ottenuto rimaneggiando “Asuca” che Morillo firma R.A.W. l’anno prima sempre su Strictly Rhythm. Un’altra licenza di indiscusso valore è rappresentata da “Jumpin'” di Todd Terry, incisa su un single sided e con campionamenti presi da “Bostich” degli Yello e “Keep On Jumpin'” dei Musique, brano che l’americano coverizzerà pochi anni dopo con le voci di Martha Wash e Jocelyn Brown.

depliant merchandise
Uno dei primi depliant del merchandise griffato UMM

Su CD arriva “Mixes Collected”, una pregevole raccolta dei Visnadi a cui segue il “Conception EP” degli Alito, progetto one shot romano animato da Massimo Berardi (intervistato qui) e Luca Cucchetti a cui si affianca, per “Take Control”, Paolo Zerla. Colorito da una sezione con un’armonica a bocca è “Everybody Clap Yo Hands”, da “Voices Of Faith EP” di Victor Simonelli, tribaleggiante la linea portante di “Higher (Feel It)”, ultimo pezzo che Erick Morillo firma R.A.W., in bilico tra garage e un suono più ruvido le versioni di “House Music” di MAN-D.A. & Keyb T., proteso in modo chiaro verso la trance è l’EP degli Upgrade One Point Two. Tra le voci più emozionanti della house a stelle e strisce, Ce Ce Rogers approda sull’etichetta napoletana con “Come Together”, Michele Violante e Paolo Martini si uniscono come Old Skool, Alessandra Argentino esordisce con “Work This Pussy” (prodotto da Roberto Ferrante e Vincenzo Bottiglieri e pubblicato anche su CD singolo) che fa il verso alle liriche piccanti di Olga, Paolo Martini, Michele Violante e Roberto Corinaldesi si occupano di “We Got A Love” sviluppata da un’idea di Major Healey, cantata da Sabrynaah Pope e poi data in pasto ai Fathers Of Sound e Alex Neri, Erick Morillo remixa “Them Girls Them Girls” dei pupazzi Zig + Zag facendone quasi un nuovo Reel 2 Real che, nel contempo, riappaiono col quinto singolo estratto da “Move It!”, “Conway”, giunto sul mercato attraverso una miriade di versioni tra cui quelle di Armand Van Helden e dei CYB che UMM pubblicherà in un secondo 12″ nei primi mesi del 1995. L’ottima reputazione dell’etichetta sortisce continue attenzioni internazionali anche in virtù di una ricca linea di abbigliamento e merchandising promossa a partire dal 1993 attraverso semplici depliant inseriti nelle copertine dei dischi. La ricetta pare semplice ma non è facilmente replicabile: «prendiamo ritmi house, li speziamo con melodie italiane e serviamo caldo il risultato» dichiara ironicamente lo schivo Angelo Tardio a David Stansfield di Billboard in un articolo pubblicato il 2 luglio ’94, uno dei pochi in cui è possibile ritrovare le sue testimonianze di allora. E aggiunge: «abbiamo dato in licenza “Crayzy Man” dei Blast a un’etichetta del Regno Unito e ora il pezzo è praticamente in tutte le classifiche d’oltremanica. Ci sono grandi piani anche per i Fathers Of Sound, artefici della versione di punta di “Crayzy Man”. Alla luce di questi strepitosi risultati mi sento di dire che il 1994 sia stato l’anno migliore per la dance targata Flying Records».

The Bucketheads - The Bomb EP
The Bucketheads, successo di proporzioni planetarie portato in Italia da UMM

Diventata con merito un avamposto italiano della house music, la UMM inizia il 1995 tagliando il traguardo delle duecento pubblicazioni e confermando il suo ruolo primario nel segmento underground, tag identificativa di un genere-contenitore che va dalla garage alle dub strumentali dai suoni ombrosi. Arrivano “Mayo” dei Flying Squad (Fabio Locati e Salvo Doria), tra saliscendi di conga afro e striature progressive, “Dance Now” di Franco Moiraghi Feat. Amnesia, dove emerge un canto spiritual, “Swing & Move” di Orbiting Eskimo Dance Society, prodotto da Craig Bevan e remixato dal team degli L.W.S., e “Delicious Poem” dei Delicious Inc. (Nello Nicita, Jamie Lewis, Jose Orellana e René S.) al lavoro sul ritaglio ritmico preso dal brano di Bucketheads edito qualche mese prima sulla newyorkese Henry Street Music di cui si parlerà più avanti. I Visnadi propongono il nuovo CYB, “Come On Boy”, ipnotica marcetta pubblicata anche su CD che non divide nulla con l’omonimo dei modenesi DJ H. Feat. Stefy di qualche anno prima a eccezione del titolo e dell’hook vocale, e un’apprezzata licenza è “Just Can’t Take It” di Reggie Rough Feat. Annette Taylor impreziosita dal remix dei Fathers Of Sound seppur a funzionare di più sia la Club Mix di Joey Moskowitz, già presente nella prima tiratura su E Legal. Aria di remix pure per “Don’t Give Me Your Life” degli Alex Party, ritoccata tra gli altri da Dancing Divaz, ai tempi una sorta di “re Mida” della house d’oltremanica. Dalla Planet Blue arriva “Jungle Dreams” dei Naked Souls e dalla citata Henry Street Music di Johnny “D” De Mairo “The Bomb EP” del citato Bucketheads, progetto di Kenny “Dope” Gonzalez. L’impulso creativo di uno dei due brani inclusi, “These Sounds Fall Into My Mind”, viene espresso mediante il magistrale uso di un sample preso da “Street Player” dei Chicago, e diventa presto una smash hit di dimensioni planetarie, con relativo videoclip a basso costo diretto da Guy Ritchie e Alex De Rakoff girato nel centro di Londra con una super8. Il successo è tale da rendere quasi inutile la presenza del brano finito sul lato b, “I Wanna Know”, pure questo ispirato da un pezzo del passato, “Motivation” degli Atmosfear.

Salerno, Carbonero e Corinaldesi con una mano danno alle stampe il secondo U.S.E. intitolato “Bad Boy”, con l’altra approntano “Danger Zone” di Dangerous Society, Justine Mattera ritorna con “Be Sexy”, ancora prodotto dai Fathers Of Sound ormai consacrati a livello internazionale (nel ’96 mixeranno uno dei volumi della saga “Renaissance”) e riappare pure Ce Ce Rogers con nuove versioni di “Come Together”, preso in licenza dall’americana Groove On di George Morel. Tra i remix, usciti anche all’estero, quello degli L.W.S. e dei New Wave Explorers (Mario Conte e Patrizio Squeglia). Arrivano da oltre i nostri confini la doppia a-side “Juice / The Way” dei portoghesi A. Paul e J Daniel, “Love” di Quadripart (sormontato dal campionamento di “The Visitors” di Gino Soccio) e “The Tribal Recordings” di Kuyoe’s Children in origine su Nervous Records da cui emerge l’afro house di “Mosquito Drums”. Made in Lazio invece “Play House” di Sohante Feat. B.S.J., un pezzo senza troppe pretese prodotto da Claudio Coccoluto, remixato da Dino Lenny e sui mettono le mani pure Enrico ‘BSJ’ Ferrari e Sante Pucello, quest’ultimo trasformatosi da lì a breve in Santos. I Visnadi, nel frattempo, riportano in vita per l’ultima volta il progetto Cool Jack inizialmente coprodotto con Angelino Albanese, partito nel ’92 con “Just Come” e proseguito l’anno dopo con “Try The Feeling” con la voce di Tom Hooker. È proprio il cantante americano, noto per aver interpretato alcuni brani di successo di Den Harrow, a occuparsi di “Get Me Going”. Tra le tante versioni anche il remix degli onnipresenti L.W.S. e di Walterino. Sono sempre i Visnadi a produrre, insieme a un certo Gianfri DJ, il nuovo Gradiva intitolato “I Gotta Know”, una sorta di Alex Party ma con meno potenzialità di airplay radiofonico. Coccoluto e Martinez invece si ribattezzano ironicamente Mimì E Cocò per “Bandit”, una traccia animata dalle percussioni e vari campionamenti funk/disco. Marchiate col catalogo Progressive sono le uscite di Xyrex (Franco Canneto, Enrico Aprico e David Rossato sotto la guida di Zenith), “Heaven” dei già citati New Wave Explorers, “Volume 1” di Esoteric Society (Floriano Fusato, Emanuele Vola e Alberto Guerretta), i remix di “Traum” di Positive & Gianni Parrini, “Los Parajso De Los Locos” di Mediterraneo Feat. Franchino (prodotto da David Togni e Alessandro Del Fabbro con remix annesso di Mario Più) e “You Got To Be There” del team iberico Kadoc. Batte bandiera portoghese invece “Work In Progress” di L.L. Project (Luís Leite e il noto Rui Da Silva) a cui seguono “A Lollipop For You” di Dick, poco fortunato follow-up di “I’m A Real Sex Maniac”, “Justify” dei Bound Beat, “Let Me In” degli Old Skool, “Come Together” dei Double FM, “Don’t Give A Damn” di Vena, “Inner Waterfall” di Positive Shah, “Back To Roots” dei Delicious Inc., “20 Hz” di Channel 3 e diverse licenze estere, “God’s An Astronaut” dei Blunt Funkers (con remix di StoneBridge & Nick Nice), “Black, Sinister, Science EP” dei Kings Of Tomorrow, “Mad House (Volume 1)” di Charlie Casanova trainato da “You Can Have It”, suonatissima nei club house d’oltreoceano, “The Dynamic Cutz Vol. 2” di Johan S., “Dance With Me” di Latin Impact e “Can U Feel It” di The Squad, progetto nato a Miami dalla collaborazione tra il nativo George Acosta e l’italiano, ma trapiantato in Florida, Chicco Secci. Prodotto da Mousse T. per la Peppermint Jam e avvalorato dal remix di StoneBridge & Nick Nice e da una versione di Bini e Perniola, “We’ve Got Love” di Ve Ve Brown è annunciata come una potenziale hit ma nonostante gli ottimi presupposti non riesce a scavalcare la palizzata dell’underground.

Alex Party - Wrap Me Up
“Wrap Me Up”, la hit estiva degli Alex Party

Osannato dalle radio sparse per il globo (in particolare quelle italiane, britanniche, francesi, spagnole e australiane) è invece “Wrap Me Up” con cui gli Alex Party toccano uno dei punti più alti della carriera. Il brano, doverosamente accompagnato da un videoclip, è una sorta di modernizzazione della vecchia italo house di fine anni Ottanta, con pianoforti in evidenza ma senza uso e abuso di campionamenti a favore di una parte vocale cantata ancora da Shanie che lo colloca, di fatto, in contesti eurodance. Tra i successi estivi made in UMM, oltre a The Bucketheads in licenza dagli States, anche il nuovo dei Blast, “Sex And Infidelity”. Sul lato b compare il remix dei Ti.Pi.Cal. ma a fare la differenza è la versione confezionata in Svezia dagli infaticabili StoneBridge & Nick Nice. Per una curiosa coincidenza Alex Party, The Bucketheads e Blast appaiono consecutivamente nella tracklist del secondo volume della “Alba” di Albertino, tra i bestseller italiani della stagione nel settore compilation. Non sottraendosi proprio al redditizio mondo di quel comparto, la UMM pubblica su CD e cassetta “The Bomb Collection”, una raccolta house con tracce prevalentemente tratte dal catalogo (tra le eccezioni “Dance Your Funky” di Pagany Feat. Shaneen e “Planet Funk” di Alex Neri). Il tutto mixato da Paolo Martini. Dopo circa due anni riappare “I Can’t Get No Sleep” dei Masters At Work Featuring India: sul precedente i remix erano di Mark “MK” Kinchen, adesso sono firmati da James Preston e David Morales. Analogamente a quanto avvenuto sullo UMM 072, anche in questo caso la logo side è occupata dal simbolo della Cutting Records da cui, per l’appunto, il brano è preso in licenza. Ulteriori versioni vengono solcate su un secondo mix. Importato dall’estero è anche “It Must Be Love” di Club Freaks interpretato da Angel Williams che, peraltro, firma come artista la versione originale su Herbal House Records. A contraddistinguere la stampa italiana sono due remix dei Kamasutra (Alex Neri, Marco Baroni e Mr. Muzak). Con un frammento preso da “Atom-B” di Atomizer, gli italiani S-Naked costruiscono la loro “Now I Know”. Ad armeggiare dietro le quinte sono Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea, meglio noti come Ti.Pi.Cal., che orchestrano il tutto su una voce che ricorda quella di VDC dei Blast. Progetto nuovo di zecca è pure quello di Gianmarco Silvi, Mimmo Turone e Monia Piazzi, The Grind Company, che consuma la sua unica apparizione col poco noto “When We Grind” scandito da una voce maschile suadente e ammiccante in stile “Men Adore…” dei Fierce Child. Scarsi riscontri per “Just A Groove” di Geetraxx, prodotto a Milano presso il Gianburrasca Studio di Marcello Catalano, intervistato qui, insieme a Walter Bassani. Sul lato b il remix di un certo Alex Gee, salernitano che lavora nel capoluogo lombardo come promoter per la Flying Records e destinato a una rosea carriera con le sue coordinate anagrafiche, Alex Gaudino.

In autunno è tempo del nuovo The Bucketheads che però non riesce a replicare i fasti del precedente. “Come And Be Gone” si muove su coordinate simili, un metti e togli di sample disco/funk su telai house, ma è privo del quid che potrebbe trasformarlo in una hit trasversale. Sul lato b c’è un remix di “These Sounds Fall Into My Mind”, a onor del vero più simile a un re-edit piuttosto che a un remix. Un altro one shot nato e morto su UMM è 123 Prospect: con un occhio allo stile dei morilliani Reel 2 Real, Ciro ‘DJ Bubu’ Sasso e Martin ‘Monster’ Aurelio approntano “Get Loose” con l’intervento vocale di David Lavoy. Insieme a nuove licenze messe a segno da Tardio, “El Cojo” di Boriqua Brothas, “The Thing I Like” di Aaliyah coi remix di Paul Gotel e “Love Rendez Vous” degli M People, arrivano “Heroes” di Gianni Parrini Feat. Principe Maurice (cover del classico di David Bowie), “Neid” di DJ Ginger, il primo volume di “Save The Planet” dei Divine Dance Experience, “Revenge” di Kriminal Elements, il secondo volume di Esoteric Society e nuove versioni di “My House / No More Mind Games” di B.O.D. (tutti su UMM Progressive), i remix di “We Got A Love” di Violante Project e di “Wrap Me Up” degli Alex Party e “Blow” di Ricky Soul Machine & Jackmaster Pez, un doppio mix a cui abbiamo dedicato un articolo qui e impreziosito da una versione di Johnny Vicious. Tocca poi a “Don’t You Want My Love / Disco Boom” di Mauro MBS, un altro collage sampledelico (assemblato con Albino Barbero nel suo Rockhattle Studio di Cavallirio, in provincia di Novara) che attinge a piene mani dall’immenso campionario disco funk degli anni Settanta, “You Can’t Touch” di The Tribute, un single sided realizzato in Svizzera da Dario Mancini alias Djaimin intervistato qui, e “The World Around”, traccia con cui Roberto Carbonero, Marcello Salerno e Roberto Corinaldesi chiudono la trilogia di U.S.E. partita circa un anno prima.

Moiraghi - Feel My Body
“Feel My Body” di Moiraghi Feat. Amnesia garantisce ottimi riscontri nell’autunno ’95

Menzione a parte merita “Feel My Body” di Frank ‘O’ Moiraghi Feat. Amnesia, un pezzo edificato come una specie di mash-up tra la base di “Utopia – Me Giorgio” di Giorgio Moroder e i ritagli vocali di “Feel My Body” di Talena Mix. Il successo, supportato adeguatamente da un videoclip, abbraccia prima i club e poi le discoteche generaliste. Pensata come etichetta destinata ai DJ, la UMM convoglia la quasi totalità delle sue pubblicazioni su 12″ ma di tanto in tanto concedendo spazio anche a qualche raccolta come “100% Rendimento Compilation”: il primo volume esce in autunno, prevede la pubblicazione sia su CD che cassetta, e raccoglie sedici tracce selezionate da Christian Hornbostel (intervistato qui) ed estratte dall’omonimo programma in onda su Radio Italia Network. Pochi mesi dopo è la volta del secondo volume la cui tracklist accoglie (prevedibilmente) alcune tracce del catalogo UMM. Sull’onda di “Feel My Body” Franco Moiraghi e Marco Dalle Luche realizzano “Listen To The Rhythm” come Manumission ma con risultati diversi. Alessandra Argentino torna (per l’ultima volta) sulla label campana con “Love 2 Love”, ancora prodotta da Roberto Ferrante e Vincenzo Bottiglieri e contando su un remixer come Don Carlos che con “Alone”, di cui parliamo qui, aveva dato una nuova spinta alla house nostrana a inizio decennio, Positive Shah sgancia il suo “The Shah EP” su due dischi di cui uno single sided, Violante e Corinaldesi si reinventano come VHC e il pezzo “You” che vola sulle ali della garage più sognante, i Visnadi (all’opera su uno dei remix della rediviva “Deep Inside” di Hardrive) e Massimo Zennaro dei Fishbone Beat e Paraje, intervistato qui, confezionano “No Smoking” come Ashman. Sono sempre i Visnadi, in compagnia di Roberto ‘Long Leg’ Sartarelli e la cantante Cristina Dori, ad approntare il nuovo X-Static, “Move Me Up” di cui parliamo qui, pensato per replicare i fasti di “I’m Standing” ma con risultati meno dirompenti sul fronte internazionale, analogamente a quanto accade a “Lick It Up” di Olga, questa volta realizzato dal team L.W.S. con Johanna Jimenez giunta appositamente in Italia dagli States. Successo quasi esclusivamente italiano è anche quello raccolto da “I Try” degli Activa, team di produzione in cui figurano Andy Mathee, Paolo Reverdy, Gino Cavazzana e Gabriele Pastori. La voce è di Kimberly Lawson mentre il remix di Alex Gee (Alex Gaudino). Durante l’ultimo scorcio del ’95, tra gli anni maggiormente prolifici per UMM, escono “It’s Time To Come” dei CYB, che un po’ ricorda “Petal” dei Wubble-U, “Eau De Chanté” dei Delicious Inc., “Atmosphere” di House Culture che Marcello Salerno produce con Moreno Pezzolato, “Sam Traxx EP” di Sam Traxx alias Samuel Paganini, “The Lion And Other Stories” dei Visnadi, “A Forest” degli L.W.S. (cover dell’omonimo dei Cure) e “I Wanna See You Jumpin’ Around” ancora degli L.W.S. ma pubblicato a nome Jack Romer, l’ennesimo dei nom de plume coniati col fine di eludere l’inflazione. Il 1995 è l’anno in cui UMM pubblica più dischi in assoluto, circa un centinaio. La Flying Records ormai è un colosso internazionale con filiali in due Paesi chiave del business discografico, Regno Unito e Stati Uniti e, come afferma Angelo Tardio in un articolo di Mark Dezzani pubblicato da Billboard l’1 luglio, «rappresentiamo la più piccola major e la più grande indipendente ma, a parte le infrastrutture, siamo consapevoli che sia la musica a muovere il mercato». Gli esordi ormai sono lontani, la società conta su un efficiente ramo distributivo e un poderoso parco clienti, tuttavia la situazione sta per ribaltarsi radicalmente.

Future Traxx Vol. 1
Con “Future Traxx Vol. 1” la UMM raggiunge la pubblicazione numero 300

1996, il vento sta cambiando
Con occhiate decise al fortunato stile dei siculi Blast, i The Groovers (Roberto Bajotti e Antonello Ferrari) assemblano “Ride On The Power” avvalendosi della voce di Wayne Lewis, Gianni Parrini invece, spalleggiato da Floriano Fusato, riempie un doppio mix con quattro versioni di “Cosmopolis” oltre a compilare e mixare il terzo volume di “Trance & Progressive”, compilation su CD e cassetta. In copertina una rielaborazione futuristica dell’uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci. UMM raggiunge quindi l’uscita numero 300, “Future Traxx Vol. 1”, compilation edita su triplo vinile, CD e cassetta che, fedele al titolo, raccoglie e anticipa alcune delle pubblicazioni imminenti e future. Un’approfondita lettura dei crediti rivela un importante cambiamento dietro le quinte: Angelo Tardio abbandona la Flying Records lasciando le redini della UMM nelle mani di due nuovi A&R, Giuseppe Manda e Maurizio Clemente. Accanto a loro Paolo D’Alessandro opera nel ruolo di international business affair manager. Frammisto tra trance e progressive è “Dream To The Beat” di I.D.C.C., neo progetto attivato da Floriano Fusato e Gianni Parrini col contributo vocale di Who alias Dr. Felix. Su UMM Progressive confluiscono anche “Tinnitus” di Timelock alias Marcel Franke, “Pianosphera” di DJ Ginger, in chiave smaccatamente dream, “Friends” dei F.E.N., l’EP di Mediterraneo Feat. Franchino, contenente pezzi osannati dai “guerrieri” della progressive toscana come “Viaje” e “C’era Una Volta”, “The Nighttrain” degli spagnoli Kadoc, diventato un successo mainstream, “Age Of White” di Spiritualist, il secondo volume di “Save The Planet” dei Divine Dance Experience (Sergio Datta, Maurizio De Stefani e Michele Generale), le cui vendite vengono alimentate da un paio di tracce finite nell’airplay radiofonico come “To The Piano” (con un innesto melodico ispirato da “Fantasia” di Cosmic Baby) e “To The Rhythm”, e “Bassline” di S.O.P., ennesima produzione generata nell’HWW Studio a Cassino da Dino Lenny, Claudio Coccoluto e Savino Martinez. Una delle prime hit house dell’anno è “Deep In You” di Tanya Louise, pezzo in circolazione sin dal 1994 ma che adesso trova modo di affermarsi grazie al remix di StoneBridge usato per sincronizzare il videoclip. Le versioni a disposizione sono così tante da riempire un doppio e un singolo.

L’attività sul fronte licenze, determinante per l’etichetta, viene debitamente tenuta in vita: arrivano “Do It / It’s Gone / Ball Chains” di Glenn Underground, “I’m So Grateful” dei Kings Of Tomorrow (un doppio che raduna remix prestigiosi di Angel Moraes, Matthias Heilbronn e Joey Negro), “I’ll Take You To Love” di Naked Music NYC, “Treat Me Right” di Temple Of The Groove, anche questo in doppio mix, “Shout-N-Out” dei Lood, triumvirato tra Little Louie Vega e i Mood II Swing, e “In Your Soul” dei Latino Circus. Tra i made in Italy, invece, “Talking About” di Male Force, i remix di “Crayzy Man” dei Blast a firma Kamasutra, l’EP di Roberto Masi e Fabio Fiorentino, “Jam Experience Part 1 EP” di Walterino 4 L.W.S., “One Night” di Saxation, “Odissey” di Mell Ground, “Free Your Mind” dei Funkcyde e “Hold On” di House Tribute. La mole del materiale, come è facile presumere dal numero dei titoli elencati, è ancora tanta, UMM mette sul mercato più dischi al mese ma qualcosa sta iniziando a cambiare. In primis c’è da considerare l’ondata progressive che domina il mercato italiano e conquista la priorità. Il successo di “Children” di Robert Miles, di cui parliamo qui, apre di fatto una tendenza che finisce col penalizzare la house music, specialmente quella sul versante garage. Gli effetti non tardano a palesarsi: Frank ‘O Moiraghi prova a bissare “Feel My Body” con “Baby Hold Me”, attingendo gli elementi vocali ancora da “Feel My Body” di Talena Mix, ma non riuscendoci, e obiettivi falliti sono pure quelli dei The Groovers con “You’re My Woman” e di Tanya Louise con “Lovely Day”, pubblicata speranzosamente anche su CD. Giungono nuove versioni di “Read My Lips” degli Alex Party che aiutano a tenere alte le quotazioni del brand sul mercato internazionale ma con poca presa su quello domestico rapito, per l’appunto, dalle formule della dream progressive. Vale davvero la pena ricordare però che i Visnadi, nel frattempo, spopolano con “Don’t Stop Movin'” di Livin’ Joy, progetto partito nel ’94 con “Dreamer” che macina oltre un milione di copie oltremanica ma viene snobbato in Italia, con la voce di Janice Robinson poi sostituita da Tameka Starr e sotto la guida della Undiscovered che, tra i fondatori, annovera Angelo Tardio, ex honcho della UMM.

Sunset People - Dreaming Ain't Enough
“Dreaming Ain’t Enough” dei Sunset People è l’unico UMM a essere pubblicato in formato 10″

Dall’estero Manda e Clemente prendono in licenza “Where Love Lives” di Alison Limerick, con remix di Dancing Divaz, David Morales, Frankie Knuckles, Romanthony e i Perfecto di Paul Oakenfold, “Final” degli Hustlers Convention (meglio noti come Full Intention), “I Love You” di Vicky Martin, “Dreaming Ain’t Enough” dei Sunset People (Andrew “Doc” Livingstone, Victor Simonelli, l’unico del catalogo a essere solcato in formato 10″), “I Wanna Live 4 U” dei Rhythm Of Soul, “Alright Now” di Soul Symphony, “Theme From Circus” di Energy Factor alias Ralphi Rosario e “Love Commandments” di Gisele Jackson che troverà successo l’anno dopo col futuro remix speed garage dei Loop Da Loop. Grandi energie vengono spese per assemblare “Feel The Light” di The Family Presents A Tony Humphries Project, pubblicato anche su CD singolo e anticipato da un doppio promo con vari remix tra cui quelli di Victor Simonelli e Oscar G dei Murk. Confinati ai club restano “Move On Your Body” del trevigiano Lys, “Don’t You Know” del napoletano Corvino Traxx, prodotto insieme a Marco Carola, e “Gimme Love” dei Kasto, nuova incarnazione dei siculi Ti.Pi.Cal. con la voce di John Biancale. I New Wave Explorers si fanno risentire per l’ultima volta con “Whatever”, garage di ottima fattura meritevole di raccogliere più frutti, e un discorso simile spetta anche a “2 Be Free” di Funk Revelation, neo act messo su dai cugini Frank e Max Minoia reduci dall’exploit internazionale ottenuto con Joy Salinas nei primi anni Novanta di cui parliamo qui. In scia arrivano i remix di “Back Home” di Joe Smooth realizzati da Tommy Musto, “Never Again” di The Groove Master, “Be Yourself” di Sawaya, “Do You Want It” di The Sound Of One (alias Lenny Fontana), “4 Your Love” di House Of Taste, “Good Tymz” di Romanthony, “National Groove EP” di Luis Radio & Studio 32 e “Assassin” di Martini, rivisitazione del brano scritto da Peter Nashel per lo spot del noto drink. A firmare le due versioni sono Junior Vasquez e Joe T. Vannelli con la voce di Justine Mattera. Riservata al solo CD la compilation “The Best Of The Best” che setaccia il catalogo raccogliendo poco più di una decina di tracce con particolare predilezione per conclamati successi internazionali come Alex Party, Blast e X-Static. In alcune copie finisce la LSC – Levi’s Stretch Cash, tessera che permette di accedere a iniziative nelle jeanserie del noto marchio statunitense, lo stesso che due anni dopo coinvolge numerosi DJ italiani (da Francesco Farfa a Massimino Lippoli, da Leo Mas a MBG, da Mario Scalambrin a Joe T. Vannelli passando per Francesco Zappalà, Leo Sound, Tony Cosa, Lisa Alison, Killer Faber, Alex Neri, Gigi D’Agostino, Massimo Cominotto e altri ancora) in un’iniziativa legata al modello 417.

CYB - I Love You Darling
“I Love You Darling” dei CYB, un discreto successo commerciale

1997, la disfatta
Nei primi mesi del ’97 la dream progressive, che ha tenuto banco per tutto l’anno precedente, inizia a perdere quota. Il mercato italiano è saturato da prodotti simili o smaccatamente uguali (difficile tenere il conto esatto dei cloni usciti di “Children”) e questo determina anche la veloce parabola discendente di un movimento nato nei club e lontano dalle classifiche di vendita, dalle radio e dal pubblico generalista. Tuttavia l’eclissi non è repentina, nel primo scorcio dell’anno funzionano ancora tracce strumentali o quasi, come “I Love You Darling” di CYB, progetto che i Visnadi riportano per la penultima volta nei negozi con la complicità di Ottorino ‘Ottomix’ Menardi. Convogliato prevedibilmente sul tentacolo Progressive e anche in formato CD, il pezzo, non pretenzioso e forse fin troppo cheesy per apparire su UMM, conquista il favore di Albertino che lo inserisce nella compilation “DeeJay Parade” tornata dopo la pausa occupata dai sei volumi “Alba” usciti tra ’95 e ’96. UMM Progressive pure per il terzo e ultimo volume di Esoteric Society, curato da Floriano Fusato, e per “The Grid EP” degli Upuaut (Steve Battarra e Andrea Bracconi). Solcato su un 12″ rosso è “Desire” di The 3angle, ennesimo progetto proveniente dal team palermitano di Tignino, Piparo e Callea che, nel frattempo, mantengono vivo Ti.Pi.Cal. inaugurando una nuova fase della carriera con la cantante Kimara Lawson.

Alex Party - Simple Things
Con “Simple Things” gli Alex Party non riescono a ripetere il successo dei precedenti

In primavera tornano gli Alex Party: “Simple Things”, cantato ancora da Shanie, riparte lì dove era finita “Wrap Me Up” circa due anni prima ma, forse a causa di un ritornello non efficace, risulta incapace di garantire gli stessi risultati e a poco servono i due remix incisi sul lato b realizzati oltremanica dai Rhythm Masters. Prodotto a Londra da Cricco Castelli è “Time’s Gonna Work” di Lorraine Lowe mentre arriva dagli States “Love Tight” di Victor “Overdose” Sanchez. Assemblato in Liguria da Miki Talarico è “Gost” di Future Bass, dalla Campania giungono “Please Come” di Money System, “Itaparica” di Wigwam e “Test Pressing EP” di The Quartet prodotta da Salvatore Oppio e Salvatore Trinchillo. Su UMM Progressive tocca a “Vibrations” di D.S.P., “Orange” di Lys e “Racing Tracks ’97” dei CYB. Prodotto da Nick Morris e Jamie Lewis al B.S.S. Studio di Messina è “Paradise People” di N.J.P., Daniele Danieli ed Enrico Santacatterina si occupano di “Hold Me Back” di Rosa Garett, Oscar B. & Fabio “Red” Faltoni firmano “Don’t Stop” e i siciliani Tignino, Piparo e Callea tirano fuori dal loro Entroterra Studio “Message Of Love” di S-Naked.

X-Static - True Love
“True Love” di X-Static tira il sipario sulla UMM di casa Flying Records

Sebbene il seguito di “Deep In You” non centri l’obiettivo, UMM pubblica il primo e unico LP di Tanya Louise intitolato, banalmente, “The Album”. Dal lavoro edito su triplo vinile in edizione limitata e in CD, viene estratto anche un singolo, “Tougher”, scritto insieme a Joe Smooth. Limitato a una tiratura su white label è il disco di Key Dopa Feat. Adri, prodotto da Giancarlo Chieco e Donato Settanni, incapace di uscire dall’anonimato. A passare inosservato è pure il nuovo X-Static intitolato “True Love”, prodotto dai Visnadi e Ricky Stecca con evidenti rimandi ad Alex Party e cantato dalla triestina Federica Micheli, già voce per alcune produzioni uscite dal Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto come “Automatik Sex” ed “Elektro Woman” di Einstein Doctor DJ, intervistato qui, ed “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do. È l’ultimo disco che la Flying Records pubblica su UMM: la struttura napoletana, dopo aver vissuto anni memorabili, non riesce a risolvere le criticità gestionali e finanziarie e fallisce schiacciata dai debiti. Ma la storia della UMM non è ancora finita.

grafico uscite UMM
Un grafico che mostra l’attività della UMM dal 1991 al 1997 in relazione al numero di pubblicazioni annue. L’apice nel 1995 quando sul mercato arrivano circa 100 uscite nell’arco di 12 mesi
Abduction - Proud Mary
Con “Proud Mary” di Abduction la Media Records riavvia la UMM nell’autunno ’98

Marchio uguale mood diverso, la UMM del post Flying Records
Brescia, 1998: dopo aver acquisito i diritti per l’utilizzo in ambito discografico, la Media Records di Gianfranco Bortolotti rilancia il marchio UMM. Così, in autunno, il brand nato sette anni prima torna nei negozi di dischi con “Proud Mary” di Abduction, progetto curato da Mario Più e Mauro Picotto. Il brano gira su campionamenti tratti dall’omonimo dei Creedence Clearwater Revival scritto da John Fogerty e annovera una versione di Enrico Rossi e Stefano D’Andrea. Sotto il profilo grafico, l’etichetta si ripresenta con un logo simile a quello originale ma abbinato a immagini dell’iconografia religiosa, in quel periodo usate da Bortolotti per declinare alcuni advertising della Media Records. Sui dischi invece le diciture “this side” e “that side” vengono sostituite da “Jesus Icon” e “Apostles Icon”. Nel 1999 seguono “Keep On” degli House Breaker (Luca Lento, Roberto Terranova e Vincenzo Callea) in scia al cosiddetto french touch che prende piede nel mainstream, e “For Your Love” di Jim De Vitt, arrangiato da Raf Marchesini e Paolo Sandrini. Poi una nuova e lunga pausa sino al 2001, quando la direzione artistica viene affidata a Enrico Ferrari alias Barry Saint Just, reduce dal successo internazionale di “You See The Trouble With Me” di Black Legend. Per Ferrari si tratta di una sorta di ritorno su UMM, per la quale nel 1995 ha già inciso “Play House” di Sohante, insieme ai ragazzi dell’HWW Studio (Coccoluto, Martinez, Lenny). Con Angelo ‘Fun-K’ Raggi realizza “Everybody Everywhere” e “That’s A Trip” di Elephant & Shepherd a cui collabora il tastierista Gianni Abruzzese. Sul fronte remix i due ritoccano “New School Fusion” dei Rhythmcentric, un pezzo preso in licenza dagli States prodotto da DJ Foxx e DJ Sensé che sul lato a annovera due versioni dei Basement Boys. In solitaria invece “Electro Y.A.M.”, che celebra il vibe tribaleggiante degli anni migliori della UMM. Il 2002 è una delle annate più prolifiche del nuovo corso, seppur il cambio di passo rispetto ai tempi più rosei della Flying Records sia ben più che evidente. Arrivano “Shake Da Shake” di Furilla, “No Reason” dei Mambana (con remix di Axwell), “Kiss Me More” di CRW Feat. Veronika, “My Heart” dei redivivi 49ers, “Blow Your Mind (I Am The Woman)” di LP Project alias Lisa Pin-Up, “I Want Your Sex” di Soho Boy, cover dell’omonimo di George Michael prodotto da DJ Pagano con la voce di Alessandro Perrone, “To Me / Time Flies” di Masters, i remix di “Like I Love You” di Justin Timberlake a firma Deep Dish e Basement Jaxx, “Macumba / Voodoo” di Dogon Tribe e “On The Road” di Funky Punk, rimaneggiamento di “On The Road Again” degli spagnoli Barrabas.

Il mercato discografico dei 12″ destinati ai DJ sta per entrare nella crisi più nera, da un lato alimentata dalla diffusione della pirateria informatica e dei software peer-to-peer, dall’altro dai nuovi sistemi messi a disposizione dalle aziende come CDJ più performanti e sistemi digitali tipo Final Scratch. Il disco in vinile non è più l’unico supporto adoperabile dai DJ e questo rivoluziona irreversibilmente il comparto incidendo negativamente sulle vendite che crollano in modo verticale. Le conseguenze emergono presto, con moria generalizzata di etichette indipendenti e chiusura di distributori. Nessuno esce indenne dalla digital storm, neppure le realtà più consolidate come la Media Records costretta a ridurre progressivamente il numero di pubblicazioni annue. Nel 2003 su UMM è la volta di “Good Enough” di Fabio M, “I Won’t Be Waiting” e “Make A Move” di Furilla (la Plastic Dub Mix viene messa in moto dal campionamento di “Lost Angeles” di Giorgio Moroder), “Talk 2 Me” dei K-Klass, “Move Your Feet” dei Junior Senior potenziata dal remix dei Filur, “Get Set” di Masters, le versioni di Furilla di “Let The Sunshine In” dei 49ers, “Number One” di The Cat & Mr Cool e “Gipsy” dei tedeschi Gipsy, ripubblicata anche con remix di Robbie Rivera. Seppur il marchio resti lo stesso, appare evidente una discontinuità col passato, non tanto per la quantità di pubblicazioni la cui soglia viene erosa dalle ragioni economiche legate al mercato non più ricettivo come quello degli anni Novanta, quanto al mood profondamente differente. La UMM rinata a Brescia nel ’98 appare radicalmente diversa rispetto a quella partorita a Napoli nel ’91. Un’operatività portata avanti a fasi alterne sommata a un non chiaro obiettivo finisce con lo smontare l’apparato originario. All’etichetta ripartita in Lombardia manca dunque la visione, la ricerca e soprattutto l’incubazione di nuovi talenti. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila la casa discografica bortolottiana punta quasi tutto su BXR che garantisce risultati di assoluto pregio, così come raccontiamo qui, e probabilmente è anche ciò a determinare un livello di attenzione ridotto per UMM e un’altra storica etichetta house nata tra le sue mura, Heartbeat, a cui abbiamo dedicato qui una monografia, entrambe protagoniste di una parabola in costante flessione. Qualche stimolo in più viene destinato alla Shibuya Records partita nel 2000 e affidata ad Alberto Casella, intervistato qui, sulla quale “atterrano” nomi come Bob Sinclar e Celeda, ma pure quello si rivelerà essere un fuoco di paglia.

La corsa di UMM riprende nel 2004 con “My Mood” ed “Anything Is Mother” di Furilla, “Just Fuck” di Tom Neville, “Essential” di Fabrizio Rubessi, “Fast Driving / Helium” dei finnici Dallas Superstars e “Slip Away” di Mohito Feat. Howard Jones con remix di Steve Angello. La discografia è claudicante e si sta impantanando, Bortolotti ha lasciato la direzione della casa discografica a Filippo Pardini e non c’è più tanta pianificazione o strategia. Alla manciata di uscite anonime del 2005, “You And I” di Junior Brasco e “Fuck Me” di Greg Access & Pawel Labrentz, segue nel 2006 “2K6 EP” di Club House, edificato sulle cover di “Speed Of Sound” e “Don’t Stand So Close To Me” rispettivamente dei Coldplay e dei Police, e nel 2007 una doppia compilation su CD banalmente intitolata “Best Of UMM” che fruga nel catalogo mettendo insieme classici di un passato ormai remoto e nuovi remix usciti poco tempo prima come quello di “Now” dei CYB realizzato dai Cosmic Gate e quello di “I’m Standing” di X-Static approntato da Francesco Diaz. Nel frattempo il brand UMM passa ancora di mano e viene utilizzato dal team della filiale britannica della Media Records diretto da Pete Pritchard e David Louca che lo usa per marchiare una serie di pubblicazioni tipo “Be Free With Your Love” di Miami Dub Machine, “Jus Luv Bass” di Deepgroove, “Moonlight Party” di Fonzerelli e “What You Gonna Do?” di Jonathan Ulysses, musicalmente agli antipodi di quello che erano i contenuti dell’etichetta diretta da Tardio.

UMM last logo
Il logo UMM che accompagna l’ultimo tentativo di rilancio

A gennaio del 2017, dopo dieci anni di silenzio, Gianfranco Bortolotti “riaccende” la fiammella di UMM: nei negozi arrivano due 12″, “Eighteen EP” di Ten Words e “Snow In The Desert EP” di Joy Kitikonti, entrambi annessi alla corrente della “bigroom techno”. Gli scarsi riscontri convincono a tirare i remi in barca e rivedere la strategia per rispondere meglio a un mercato dinamico e in perenne evoluzione e ripartire, questa volta solo in digitale, nel 2018 con un nuovo A&R, Marco Dionigi. «La UMM cambia veste e rotta, del resto sono stato chiamato proprio per cambiare tutte le carte in tavola» afferma il DJ veneto in un comunicato stampa diffuso in Rete. «Bortolotti mi ha interpellato perché voleva dare a UMM una nuova identità. Proprio come me, lui non ama guardare al passato: è un visionario come lo sono io, ed è rimasto molto colpito dalle produzioni nu disco. Mi ha chiesto quindi di prendere in mano la label e costruirci sopra una nuova realtà musicale che mantenga però la posizione di fare musica d’avanguardia e puro clubbing sound». Per l’occasione Dionigi aggiunge che punterà su vari artisti senza dimenticare demo, sia italiane che estere, ma alla fine otto delle nove uscite finite negli store sono firmate da lui. Il sipario si chiude a maggio del 2019 col “Deeper EP” del salernitano Francesco Romano.

La testimonianza di Angelo Tardio

Tardio @ Flying Posillipo
Tardio intento ad ascoltare dischi nella prima sede della Flying Records a Posillipo (1989 circa)

Cosa ricordi dei primi anni di attività della Flying Records?
A Posillipo eravamo in due garage attigui, in uno allestimmo l’ufficio, nell’altro, più simile a uno scantinato, la parte amministrativa. Cominciammo in sordina comprando dischi dai distributori milanesi tipo New Music International, Non Stop, Discomagic e Giucar e vendendo limitatamente ai confini regionali della Campania. Poi, circa un anno dopo, convinti delle nostre capacità, pensammo di espanderci e a quel punto tirai dentro Mario Nicoletti che divenne una persona chiave per l’azienda. Avevamo voglia di crescere e l’ambizione non ci mancava ma non era sufficiente, essere meridionali e nuovi nel settore purtroppo giocò a nostro svantaggio. Tanti negozianti del nord ci chiudevano il telefono in faccia ma, a conti fatti, fu proprio questo atteggiamento a spronarci ulteriormente. Cominciammo a prendere le prime licenze dall’estero e poi a stampare produzioni italiane, anche di successo. Nell’arco di poco tempo proprio quelli che quando dall’altra parte della cornetta sentivano nominare la Flying Records riappendevano il ricevitore senza neanche salutare furono costretti a ricredersi e a fare ordini da noi. Ricordo ancora quando importammo “Bad” di Michael Jackson dal Canada, con copertina in formato gatefold non ancora disponibile in Italia: ne vendemmo migliaia! La Sony, che in quel periodo acquisì la Epic, ci accusò di rovinare il suo fatturato. Insomma, la Flying Records dei primi tempi era un luogo in cui si faceva ricerca continua, con una predilezione per le cose più appetibili che potevano trovare un consenso nel mercato italiano.

Quali motivi ti spinsero a creare la UMM nel 1991?
Mi nutro di musica da sempre e negli anni Settanta ho fatto anche il DJ. Rock, soul, jazz, synth pop, new wave, dub, house, techno, breakbeat, trance, ambient, l’unica distinzione che ho sempre fatto è quella tra musica bella e brutta. Rincorrere le cose commerciali non era ciò che sognavo di fare e, sentendo crescere in me un impulso creativo, avvertii presto l’esigenza di creare qualcosa di completamente mio e di cui avrei potuto sentirmi diretto artefice. La UMM fu il risultato.

UMM Alter
Il fuoristrada Alter, uno dei modelli più noti della casa automobilistica portoghese UMM

Ricordi qualcosa sulla creazione del nome e del logo?
Per l’occasione svelo un dettaglio che non avevo mai raccontato prima di questo momento: il nome dell’etichetta nacque su suggerimento del mio socio di allora, Flavio Rossi, che era un patito di auto fuoristrada. Tra le sue preferite c’era la portoghese UMM (acronimo di União Metalo Mecânica, nda) e lanciò l’idea di usare la medesima sigla. A quel punto studiai un nuovo significato da attribuire alle tre lettere, in linea con quanto avessi in mente. Non mi interessava nulla delle classifiche, avevo semplicemente il desiderio di selezionare la musica che più mi piaceva, anche a rischio di vendere pochissime copie. L’accordo stretto con Rossi prevedeva che nessuno, tranne me, avrebbe dovuto e potuto sindacare sulle scelte legate a UMM. Per quanto riguarda il logo invece, ci pensò Patrizio Squeglia, amico con cui collaboravo sin dal 1983, anno in cui realizzò la copertina del primo disco che produssi, “Come On Closer” di Pineapples Featuring Douglas Roop. Lui creava idee, io vagliavo e proponevo eventuali alternative. In merito al logotipo, ricordo che optammo per un font mai più usato da nessuno in seguito, per quanto concerne il logo invece, la scelta cadde su un globo contraddistinto da una sorta di rete, quasi una connessione internet primordiale, la rappresentazione grafica del movimento della musica underground irradiato sul pianeta.

Cosa ti torna in mente ripensando ai primi mesi di UMM?
Il destino volle che proprio mentre nasceva UMM vivessi un periodo assai doloroso della mia vita dovuto alla malattia e alla prematura morte di mio padre. Per qualche mese fui costretto quindi a trascurare un po’ il lavoro e infatti le prime uscite su UMM furono il frutto di scelte condivise, al 70% mie e al 30% di altri, tra venditori e referenti della sede britannica della Flying Records che aveva aperto da poco a Londra. Alcune pubblicazioni, come “Detroit 909” di K.G.B. ad esempio, vennero pubblicate prima oltremanica e a testimonianza c’è anche il numero di catalogo diverso, 003, che divenne 004 per l’Italia. “Powerful” di Fighting 4 uscì su UMM solo nel Regno Unito, da noi fu deciso di convogliarlo su etichetta Flying Records. Lo 001, “Real Dream” dei D.B.M., venne scelto da Flavio Rossi dopo averlo fatto sentire ai venditori, lo 005 invece uscì solo in white label ed era di Shamal, progetto dietro cui operava il team siciliano formato da Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea (con quella ragione sociale nel 1992 firmeranno “Freedom Party” per la milanese Palmares Records, nda). A volte stampavamo qualche centinaio di copie per capire se il progetto potesse funzionare o meno e quindi vagliavamo se proseguire con la pubblicazione ufficiale. La Flying Records dei primi anni Novanta contava su un team di circa una settantina di persone sparse tra Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti (fra le quali il promoter Claudio Arillotta, intervistato qui, nda), e visto l’importante ruolo che giocava allora la scena britannica, alcune decisioni erano determinate da chi operava a Londra e aveva il polso della situazione. Dopo aver avuto il tempo di organizzarmi però, ebbi il pieno controllo di UMM, etichetta che ho concepito in modo diverso dalle classiche, soprattutto quelle italiane. Per rimarcarlo decisi di sostituire il lato A e B con le indicazioni This Side e That Side. Non volevo seguire il modello della discografia tradizionale abituata a solcare sul lato A il pezzo forte e relegare al B il resto, per me non esisteva quella suddivisione.

Nel corso degli anni alcuni numeri del catalogo sono stati saltati, tra cui il 200. Errori o “buchi” intenzionali?
Difficile dare una spiegazione dopo così tanto tempo. Poteva trattarsi di white label a cui assegnammo il numero di catalogo e poi decidemmo di non pubblicare per qualche ragione, ma anche di banale casualità dovuta alla miriade di vorticosi avvenimenti di allora. In alcuni periodi UMM ha immesso sul mercato più di dieci uscite al mese quindi è legittimo pensare a qualche svista.

Conservi una copia di tutti gli UMM?
No, nemmeno uno. Del resto non ho avuto l’accortezza di conservare neanche una t-shirt o le mie produzioni tipo Kwanzaa Posse.

C’è un brano che avresti voluto prendere in licenza per UMM ma al quale, a causa di accordi non andati in porto, hai dovuto rinunciare?
Certo, più di uno. Il primo che mi viene in mente è “Plastic Dreams” di Jaydee (intervistato qui, nda), originariamente su R&S Records: feci di tutto per averlo ma Giacomo Maiolini offrì una cifra spropositata accaparrandoselo per la sua Downtown. Non mi sono mai piaciute le aste ma quella volta forse avrei fatto meglio a gareggiare, è una spina che mi è rimasta nel fianco. Un altro titolo è legato ancora al gruppo R&S Records di Renaat Vandepapeliere, “Selected Ambient Works 85-92” di Aphex Twin, che però uscì sulla sublabel Apollo. In quel caso non c’entrava il denaro bensì la precisa scelta, di Vandepapeliere, di non licenziarlo a nessuno per mantenere il completo controllo dell’opera. Potrei citarne anche un terzo, “Some Lovin'” dei Liberty City, progetto dei Murk e rilevato per l’Italia dalla D:vision Records. Tuttavia riuscii a coinvolgere ugualmente Oscar Gaetan e Ralph Falcon che vennero nello studio della Flying Records per registrare il remix di “Musika”, un singolo del mio progetto Kwanzaa Posse uscito nel 1993. Proprio in quello studio, allestito sul progetto acustico di Robert Quested ed equipaggiato con un magnifico mixer Amek Angela, qualche tempo dopo giunse Todd Terry e mi fece ascoltare in anteprima “Jumpin'” che presi all’istante per UMM.

Qual è stata la licenza più complicata da acquisire?
Senza ombra di dubbio “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, ma non a causa di ragioni economiche come qualcuno potrebbe pensare, visto che ero in ottimi rapporti con Mark Finkelstein della Strictly Rhythm e questo mi metteva peraltro su una corsia preferenziale rispetto ai competitor. Le problematiche sorsero invece con Erick Morillo che impose una lunga serie di condizioni a cui dovetti sottostare, ma ero talmente convinto delle potenzialità del pezzo da non arrendermi di fronte a tutte quelle difficoltà.

Daft Punk + Blake Baxter
Daft Punk e Blake Baxter, tra le pubblicazioni meno fortunate della UMM

Tra le svariate decine di artisti sbarcati nel nostro Paese attraverso UMM ci sono stati anche i Daft Punk: come ricordi “The New Wave”, ormai diventato un cult sul mercato del collezionismo?
Ascoltai un promozionale a Miami che mi fecero sentire gli amici della Soma, etichetta per cui nutrivo molto rispetto e che pubblicò la musica del duo francese prima di essere messo sotto contratto dalla Virgin. La sensazione che provai dopo aver ascoltato “The New Wave”, “Assault” ed “Alive” fu simile a quella che generò in me l’anno prima “Racing Tracks” dei Visnadi. Era musica che viaggiava su un suono diverso, non paragonabile a nient’altro in circolazione ai tempi. Rimasi fortemente affascinato da quel disco e, da supporter del suono fuori dai canoni tradizionali, lo volli nel catalogo UMM nonostante in Flying Records non piacesse praticamente a nessuno, tranne a me e a Patrizio Squeglia. I risultati purtroppo furono impietosi, vendette forse un centinaio di copie e i resi finirono al macero. Non avevo certamente la pretesa di vederlo in cima alle classifiche di vendita ma ero convinto che, in virtù di quanto fatto sino a quel momento, ci saremmo potuti permettere di pubblicare anche pezzi così particolari ma i fatti non mi diedero ragione. “The New Wave” dei Daft Punk, a malincuore, resta uno dei più grandi flop targati UMM.

Che responsi sortirono invece le uscite degli Underground Resistance e di Blake Baxter del 1991?
Le licenze degli Underground Resistance andarono decisamente meglio rispetto a quella dei Daft Punk, complice il momento d’oro che viveva la musica dei rave. In numeri, credo viaggiassero dalle duemila alle tremila copie, non di più. Di “Strong To Survive / Fuck You Up” di Blake Baxter invece ne vendemmo poche centinaia. Con Jeff Mills e Mike Banks, incontrati al New Music Seminar a New York (come raccontato qui, nda) dove parlammo a lungo di musica, c’era stima e rispetto reciproci. Ai tempi tante cose nascevano così, in modo spontaneo, senza sovrastrutture o pianificazioni a tavolino ma per puro amore nei confronti di ciò che si stava facendo. Credo che gli Underground Resistance capirono subito che dall’altra parte ci fosse un amante della musica e non qualcuno che volesse speculare sulla loro creatività.

Quali sono stati i bestseller del catalogo UMM?
Per quanto riguarda le produzioni italiane, senza dubbio “Alex Party”, successivamente nota come “Read My Lips”, “Don’t Give Me Your Life” e “Wrap Me Up” degli Alex Party e “I’m Standing” degli X-Static. Pure “Crayzy Man” dei Blast (di cui parliamo qui, nda) raccolse ottimi risultati e pochi mesi dopo lo seguì “I’m A Bitch” di Olga (di cui parliamo qui, nda): il successo fu tale da richiedere la presenza di una ragazza a cui affidare l’immagine del progetto e che tenne centinaia di serate nelle discoteche. Sul fronte licenze invece, i primi che mi vengono in mente sono “These Sounds Fall Into My Mind” di Bucketheads, “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, “Jumpin” di Todd Terry e “Deep Inside” di Hardrive, successi conclamati ovunque.

Quale invece il meno fortunato e che, a tuo avviso, avrebbe meritato di più?
“NOFutureNOPast” dei Visnadi, uscito nel ’91, un disco bellissimo, seminale per tante idee racchiuse all’interno, da cui fu estratto “Hunt’s Up” in varie versioni tra cui la memorabile Live Mix registrata in presa diretta con improvvisazioni stranianti, analogamente a quelle che i Visnadi riproposero in “Racing Tracks”, altro pezzo alieno incompreso soprattutto qui in Italia. Solamente venti anni più tardi (2013) se ne iniziò a parlare, grazie a Maceo Plex che ne fece un edit per il suo “DJ-Kicks”, e Richie Hawtin e Ricardo Villalobos che lo hanno ripetutamente inserito nei loro set e questo mi ha gratificato, seppur con immenso ritardo. Non ho rimpianti comunque, sono sempre stato convinto delle mie scelte e l’obiettivo di UMM non era certamente quello di muovere grandi numeri seppur in qualche caso ciò sia avvenuto.

Quanto incideva UMM sul fatturato della Flying Records? Ci sono state annate più floride di altre?
Quando mollai la società, a fine ’95, Flying Records fatturava 43 miliardi di lire annui di cui una quindicina provenienti da UMM. Gli anni d’oro furono quelli compresi tra 1992 e 1995 e a farmelo capire sono stati anche i negozi di dischi più importanti del mondo, sparsi tra Londra, New York e Miami, che destinavano uno scaffale esclusivamente alle uscite UMM. Per me fu davvero appagante.

Nel 1994, con un disco dei CYB, si apre il sentiero parallelo della UMM Progressive. Fu la necessità di trovare un più corretto incasellamento stilistico a spronarti nel creare una variazione del brand?
Esattamente: decisi di avviare UMM Progressive per raccogliere quei brani che finivano in territori differenti dalla house. Da divoratore di musica globale, non accettavo di rinchiudermi in un solo genere o pormi confini di sorta ma piuttosto avevo l’ardente desiderio di abbracciare qualsiasi cosa mi piacesse, che fosse di matrice house o techno. Forse avrei dovuto varare UMM Progressive già l’anno prima, quando pubblicai diversi brani e l’album degli Spooky, dal catalogo della Guerilla di William Orbit. Apprezzavo molto quel nuovo filone, progressive per l’appunto, che nasceva nel Regno Unito e in cui confluivano elementi house, breakbeat, techno, ambient e trance. Poi è capitato che, tra i tanti, ci fossero pure pezzi più commerciali finiti nelle programmazioni radiofoniche e nelle compilation dance, come “It’s Too Funky” dei CYB, ma non fu un’operazione intenzionale anzi, mi stupii nel trovare allineati i gusti del mercato generalista coi miei.

UjaMM'n
Il logo della UjaMM’n

In quello stesso anno, il 1994, tra le mura della Flying Records nasce la UjaMM’n, a posteriori considerata una sublabel o comunque un’etichetta vicina a UMM viste le spiccate analogie del logo. In realtà però di similitudini sul fronte musicale, almeno nel primo periodo, ne correvano ben poche. Esisteva una relazione tra le due?
Flying Records era diventata un ombrello di una moltitudine di generi, incluso l’hip hop (dopo i De La Soul rinsaldammo la partnership con la Tommy Boy e portammo in Italia Naughty By Nature e Queen Latifah), il rock e la musica italiana. UjaMM’n, da pronunciare youjammin’, nacque per coprire il segmento soul, new jazz e fusion, e fu affidata al compianto Francesco Diana che mi teneva aggiornato facendomi puntualmente ascoltare tutto ciò su cui lavorava. Le analogie del logo a cui ti riferisci servivano, banalmente, a far capire che fosse un “satellite” della Flying Records. In assenza di uno strumento potentissimo come internet, ci si ingegnava in altri modi per lanciare messaggi agli acquirenti.

L’attività di UMM ti ha messo in contatto con centinaia di persone, tra musicisti, DJ e case discografiche. Quali sono i nomi che riaffiorano nella tua memoria ripensando a questa avventura?
I fratelli Gianni e Paolo Visnadi, tra coloro che hanno inciso più dischi in assoluto per UMM, da quelli rimasti nell’underground ad altri diventati hit planetarie. Ci conoscemmo nei primi anni Novanta discutendo di artisti che nulla avevano da spartire con la dance come Steve Reich e Brian Eno. Mi dissero che avevano proposto invano i loro pezzi a diverse case discografiche e dopo averne ascoltati alcuni capii immediatamente che fossero cose di spessore, ignorate dagli altri perché incapaci di comprenderne le potenzialità. Pubblicare i loro primi dischi per me fu una scelta coraggiosa, di pancia direi, perché si trattava di musica apparentemente senza mercato, specialmente per l’Italia. Fortunatamente potevo contare su un valido supporto distributivo giacché Flying Records, nel frattempo, aveva consolidato la propria attività e l’apertura di una filiale a Londra e poi una a New York, a Broadway, condividendo lo stesso stabile della Irma, mi aprì le porte del mondo intero. Il nostro rapporto si rinsaldò ulteriormente con “Four Journeys” e “Hunt’s Up”. Dopo aver messo in circolazione quei pezzi iniziò un vero e proprio pellegrinaggio da parte di tantissimi che ambivano a vedere la propria musica stampata su UMM compresi futuri grandi DJ di fama mondiale. Altri due amici con cui ho condiviso il percorso stringendo una relazione duratura sono stati Gianni Bini e Fulvio Perniola ossia i Fathers Of Sound. “Revelation”, del 1993, resta uno dei miei preferiti del catalogo. Quando me lo fecero ascoltare per la prima volta impazzii letteralmente al punto da non chiedere di approntare nuove versioni, quella era sufficiente e infatti il disco era un single sided, inciso solo da un lato, sull’altro c’era una favolosa serigrafia. Al brano è legato anche il ricordo di una UMM Night presso il Warsaw Ballroom di Miami, dove c’erano almeno duemila persone e non si riusciva neanche a camminare. Bini e Perniola aprirono il set proprio con “Revelation” e lasciarono il segno in un locale house per eccellenza, paragonabile al Warehouse di Chicago, mi viene ancora la pelle d’oca a ripensarci. Il resto lo fece un formidabile sound system. Tra i referenti di case discografiche mi tornano in mente i fratelli Marin della Cutting Records da cui presi in licenza il primo album dei Masters At Work: rimasero sorpresi quando si resero conto che stesse vendendo più la stampa italiana di quella americana! Esterrefatto fu pure il citato Finkelstein della Strictly Rhythm nel momento in cui sentì la Heavy Weather Mix di “Deep Inside” di Hardrive che commissionai ai Visnadi. Menzionerei infine Francesco Zappalà per la spettacolare raccolta “UMM In Progress – Code 1” accompagnata da una copertina altrettanto speciale, che immortalava una scultura futuristica realizzata da Patrizio Squeglia allestita in un cubo di vetro. Spero che qualcuno sia riuscito a salvarla dopo la chiusura della Flying Records.

Kwanzaa Posse
Sopra Tardio in consolle, sotto le copertine dei tre 12″ di Kwanzaa Posse usciti tra ’91 e ’93 e impreziositi dai remix di Jam El Mar & Mark Spoon, Massive Attack e Murk

Oltre a ricoprire ruolo di A&R, in quegli anni operavi anche in studio di registrazione come Funk Master Sweat e nel team Kwanzaa Posse. Quali sono i tuoi ricordi più belli legati a questi progetti?
Come Funk Master Sweat firmai diversi remix principalmente per dischi licenziati o prodotti dalla Flying Records come “Feel It” di Adonte, “Soul Magic” di YBU, “Friends” di Amii Stewart e “Living For The Night” di Underground Resistance Featuring Yolanda. Con quello pseudonimo produssi anche delle tracce tra cui “House Of Latin” e “Detroit” finite in un EP in cui ospitammo i KCC (Keith Franklin, Cisco Ferreira e Colin McBean, nda). Kwanzaa Posse invece nacque per dare sfogo a un’altra mia esigenza, miscelare gli stili che programmavo come DJ nel 1976 ovvero disco, rock, funk e tanta musica nera. Sostanzialmente una maniera con cui creare la musica che più mi piaceva senza dover sottostare agli obblighi di mercato, proprio come stavo facendo in parallelo per UMM. Alla base di Kwanzaa Posse (il termine “kwanzaa” lo presi in prestito dal vocabolario Swahili e significa “primizie”) c’era un melting pot di stili, musiche, culture e sonorità, un mix eterogeneo ma ragionato che rappresentava più che bene il mio lato artistico. Ad aiutarmi in studio furono Carmine ‘KeyB’ Tortora, musicista napoletano che conosceva benissimo jazz, funk, folk e musica africana in genere, ed Enzo ‘Soul Fingers’ Rizzo, ingegnere del suono che mise a disposizione la sua esperienza per ottenere il meglio di quel distillato sonoro. Debuttammo nel 1991 con “Wicked Funk”, brano a metà strada tra acid jazz, afro e funk contenente un campionamento (autorizzato, ci tengo a sottolinearlo) di “Sorrow Tears And Blood” di Fela Kuti. Tra i remix quello dei tedeschi Jam El Mar e Mark Spoon: incontrai Mark al New Music Seminar di New York e gli feci sentire il pezzo in albergo, seppur fosse poco più di una demo. Con la sua classica giovialità ed esuberanza, mi disse subito che lo avrebbe voluto pubblicare su Logic Records, etichetta per cui ai tempi ricopriva ruolo di A&R. Ma non era tutto: la traccia gli piacque al punto da volerne fare un remix insieme al suo amico Jam El Mar con cui stava lavorando a un album, “Breaks Unit 1”, e con cui avrebbero dato avvio al progetto Jam & Spoon. “Wicked Funk” vendette diverse migliaia di copie ma ad oggi non è mai stato ristampato. Girava a 104 bpm e questo lo rese assai coraggioso visto che era il periodo in cui la maggior parte dei produttori si lanciava a capofitto nella techno a velocità elevate. Gli ottimi riscontri ci fecero guadagnare parecchie richieste come remixer, specialmente per la Francia. Mettemmo le mani su “Qui Sème Le Vent Récolte Le Tempo” di MC Solaar, “Didi” di Khaled, “Vive Ma Liberté” di Arno, “Maman” di Nina Morato, “Voilà, Voilà…” di Taha, “Sexe Faible” di Jérôme Dahan, “C’est Déjà Ça” di Alain Souchon e diversi brani per la band Les Negresses Vertes che vinsero il disco d’oro e oggi sono considerati evergreen. Nel 1992 mi occupai anche del singolo di debutto dei 99 Posse, “Dì Original Trappavasciamuffin Stailì”, contenente “Rafaniello” e “Salario Garantito”, con cui tagliammo il nastro inaugurale della Crime Squad, l’etichetta hip hop della Flying Records sulla quale poi debuttarono gli Articolo 31, i Sangue Misto, DJ Flash, i Sottotono e tanti altri. A seguire i remix di “Curre Curre Guagliò” ancora dei 99 Posse, “Here Comes Bo Diddley” di Edoardo Bennato & Bo Diddley, “Qui Gatta Ci Cova” di Tullio De Piscopo, “New State” degli scozzesi Hue & Cry, “Señor Matanza” dei Mano Negra e altri ancora. Nel 1994, proprio per i Mano Negra e sempre sotto il moniker Kwanzaa Posse, produssi “Casa Babylon”, l’ultimo album prima del loro scioglimento. Manu Chao, entusiasta del risultato, tornò a Napoli e insieme realizzammo in circa un mese l’album “Radio Bemba”, di cui conservo ancora il master, che però non venne mai pubblicato. Parte di quel lavoro fu riciclato molti anni più tardi in “Radio Bemba Sound System” da cui fummo omessi dai crediti perché, a parere del francese, i pezzi furono completamente trasformati. Nel frattempo Kwanzaa Posse era andato avanti con altri due singoli, “African Vibrations” del 1992, che tra i remix annoverava quelli di MBG e dei Massive Attack realizzato a Napoli, e “Musika” del 1993, impreziosito dalle versioni dei Visnadi e, come dicevo qualche riga sopra, dei Murk.

fax David Byrne
Il fax spedito a Tardio da David Byrne il 21 maggio 1996

A differenza di UMM, Kwanzaa Posse era un progetto di mia proprietà e libero da oneri contrattuali e che potei proseguire anche dopo aver abbandonato la Flying Records. Nel 1996 infatti remixammo “Senza Rimorso” di Zucchero, “Memobox” degli Üstmamò ma soprattutto producemmo il primo album dei King Chango per la Luaka Bop, l’etichetta di David Byrne dei Talking Heads. Conservo ancora il fax che David mi mandò nella primavera di quell’anno. In seguito ci dedicammo alle colonne sonore e musica destinata alle sonorizzazioni televisive. “Visions”, ad esempio, fu utilizzata per circa quattro anni come sigla di testa e coda di un programma di moda della Rai, Oltremoda.

Nel 1996 abbandoni la Flying Records e stringi una collaborazione con la Time Records creando tre nuove etichette, Suntune, Sunlite e Moonlite, che si ritagliano presto spazio nello scenario discografico. A fortunate licenze (“Keep Pushin'” di Boris Dlugosch, “Fever” di Djaimin & Djaybee, “Get Up (Everybody)” di Byron Stingily, “Are You Ready For Some More?” dei Reel 2 Real, “U” di Scot Project, “Guitara Del Cielo” di Barcelona 2000 intervistato qui, “The Lost City” di Graham Gold) si sommano vari made in Italy (“Be (What U Wanna Be)” degli Activa, “Zoe” di Paganini Traxx, “Journey # One” di Nu-Bass alias Bini & Perniola, “The Deep” di Val Weller, “Live EP” di Walterino, “Ye, Ye” di Tribal FM) che, di fatto, innestano su quella triade di marchi bresciani parte dell’aura della UMM. Quali ragioni ti portarono via dalla casa discografica napoletana e come mai, nonostante i rincuoranti risultati, il sodalizio col gruppo guidato da Giacomo Maiolini durò appena un biennio?
Lasciai la Flying Records poiché in netto disaccordo con la politica gestionale del mio socio. Nel primo quinquennio degli anni Novanta l’azienda crebbe in maniera esponenziale, ci eravamo trasferiti da Posillipo ad Agnano, in via Raffaele Ruggiero, dove rilevammo un’immensa parte industriale destinata al deposito, allo studio a cui facevo prima riferimento, agli uffici dell’amministrazione, e al reparto publishing con la società editoriale Blue Flower. Senza ovviamente dimenticare la nascita delle filiali a Milano, in Via Mecenate, a Londra e a New York. Flying Records era diventata una S.p.A. ma poiché socio di minoranza, alla fine si faceva sempre quello che volevano loro. La goccia che fece traboccare il vaso fu il rifiuto di un’allettante proposta da quattro miliardi di lire avanzata da un’importante compagnia discografica olandese intenzionata a rilevare la proprietà. Per principio decisi di andare via, senza prendere un solo centesimo e vedendo tristemente polverizzarsi tutto il mio lavoro nell’arco di pochissimo tempo. A quel punto Maiolini, che mi conosceva già, mi propose di continuare a fare con lui ciò che avevo fatto con UMM. Sulla carta avevo la massima libertà e per circa un anno effettivamente fu così e credo che i risultati si siano visti. Suntune era quella che avrebbe raccolto l’eredità di UMM, Sunlite fu ideata per le ricette più pop e Moonlite l’equivalente della UMM Progressive, destinata quindi a prodotti di matrice trance/techno come ad esempio “Zoe” di Paganini Traxx, un pezzo in stile Underworld che raccolse grande successo all’estero, specialmente nel Regno Unito dove fu ripubblicato da una delle etichette dance della Sony. Il primo anno in Time lo ricordo pieno di passione, diedi anima e cuore a quel progetto per farlo funzionare sottraendo anche energie necessarie ad Undiscovered, etichetta che avevo creato nel ’94. Dopo la prima fase, incoraggiante direi, iniziarono però gli screzi con Maiolini e intuii che non ci fosse la sensibilità per capire che i progetti di successo si costruiscono col tempo, necessario per creare profilo, direzione e personalità. Del resto i primi dischi della UMM vendettero poche centinaia di copie ma a Brescia non avevano nessuna intenzione di attendere anzi, pretendevano tutto e subito. Lì non trovai nessuno spirito da musicofilo ma solo conti da ragioniere. Dopo il mio abbandono Suntune, Sunlite e Moonlite finirono nell’oblio ma Maiolini creò subito un marchio nuovo per proseguire su un percorso simile, Rise, che affidò, ironia della sorte, ancora a un ex dipendente della Flying Records, Alex Gaudino.

Poco fa parlavi della Undiscovered, etichetta nata nel 1994 sull’asse Napoli-Londra dalla sinergia tra te, Angelo Bernardo, Mario Nicoletti e Doug Osborne e trainata dai successi dei Livin’ Joy a partire da “Dreamer”, presto approdata a Top Of The Pops. Perché creasti una realtà parallela mentre eri ancora impegnato con la Flying Records?
I motivi erano i medesimi che mi spinsero a mollare tutto alla fine del 1995. Io puntavo alla sostanza, a coltivare nuovi talenti, a sinergie che avrebbero rivelato i frutti sulle lunghe distanze, Rossi invece spingeva per aumentare il volume di produttività delle compilation e investiva centinaia di milioni di lire in spot televisivi, su imitazione dei classici discografici milanesi e dell’Italia settentrionale in genere. Insomma, nell’aria si respirava già un certo malessere e così cercai di creare un’alternativa in caso di rottura. Ad aprire il catalogo di Undiscovered fu il promo di “Dreamer” dei Livin’ Joy che generò un risultato spiazzante, tutte le grandi compagnie avanzarono delle offerte ma alla fine scegliemmo la MCA dove lavorava una persona che stimavo molto, Steve Wolf, che a sua volta era amico stretto di Pete Tong. Come certificato da BPI, “Dreamer” ha conquistato un disco di platino, uno d’oro e uno d’argento pari a un milione e duecentomila copie vendute solo sul territorio britannico, ma ciò non fu sufficiente a destare l’interesse degli addetti ai lavori italiani che lo ignorarono, forse perché troppo distante dai loro gusti. A remare contro fu anche la totale assenza di promozione, io non potevo certamente sbilanciarmi perché lavoravo ancora in Flying Records. Qualcosa cambiò due anni dopo con “Don’t Stop Movin'”, disco d’oro nel Regno Unito con quattrocentomila copie vendute e arrivato in Italia grazie alla Zac Records che, nel frattempo, aveva stretto una partnership di esclusiva con MCA.

BPI Certificazioni
Le certificazioni BPI (British Phonographic Industry) relative alle vendite oltremanica di “Dreamer” e “Don’t Stop Movin'” dei Livin’ Joy. Si rinviene anche un dato più recente legato a “Don’t Give Me Your Life” degli Alex Party, disco d’oro con 400.000 copie all’attivo

In modo inversamente proporzionale rispetto alle tue interviste e dichiarazioni, tra cui quelle affidate a Billboard e Rossella Rambaldi, UMM ha vantato svariate decine di pubblicazioni annue toccando l’apice nel 1995 quando ne escono circa un centinaio: ritieni di aver peccato di troppa prolificità?
Nel 1995 sapevo che sarei andato via ma ritardai al massimo quella decisione perché nutrivo un vero affetto e amore per UMM. Conscio che la fine fosse comunque vicina, diedi fondo alle energie e il risultato fu avere così tante uscite. Sulle scelte, dunque, non ho rimpianti e rifarei tutto, sulla capacità di gestione, per tutelare il marchio ad esempio, col senno di poi mi sarei sicuramente dato più da fare visto ciò che avvenne dopo il mio abbandono.

Tra ’96 e ’97 la UMM viene guidata da Giuseppe Manda e Maurizio Clemente, dal ’98 in avanti riparte invece sotto l’egida della Media Records: che idea ti sei fatto su quelle fasi?
Sarò schietto: per me tutto quello che è uscito su UMM dal 1996 in avanti non rifletteva più il concept originale, dal logo alla musica. L’unico elemento comune nella gestione Manda/Clemente fu rappresentato da quei progetti che avevo già approntato io e che attendevano solo di essere pubblicati, per il resto mi sembra che ad avere la meglio fosse un riflesso commerciale, aumentato in modo sensibile negli anni a seguire.

UMD
Il logo dell’etichetta milanese UMD

Nel 1993 la milanese Dig It International lancia una nuova etichetta house, la UMD, acronimo di Underground Music Department: era una chiara risposta a UMM?
Più che risposta la definirei uno scimmiottamento totale, al 100%. Si trattò di un progetto partorito dalla tipica scuola milanese che puntava solo al mercato, pensando di poter sfruttare nomi e slogan per raggiungere velocemente i consensi del pubblico, un tipo di ideologia e approccio che non mi appartiene.

Nei primi anni Novanta il termine “underground” finisce con l’identificare un macro genere in cui confluisce un ampio range di house music, dalla solare garage con la vocalità in primo piano a soluzioni che privilegiano il ritmo e suoni più scuri e dub. Credi che a ispirare questo tipo di utilizzo del termine in Italia sia stata anche la UMM?
Il contributo offerto da UMM per collegare quella parola a un genere è sicuramente stato fondamentale. Come ho detto più volte, non ho mai pensato di soddisfare le esigenze commerciali o compiacere il mercato. Il mio intento era, semplicemente, far sentire alla gente quello che io reputavo valido perché in quel momento storico c’era tantissima musica interessante in circolazione. Non ho mai attuato strategie di marketing sotto il profilo di nomi e nomenclature, ho preferito rimarcare il valore che c’era dietro l’underground con la musica stessa e non con le parole come invece hanno fatto altri.

Ad aiutare la diffusione del marchio UMM è stato anche il comparto del merchandising, iniziato in Flying Records e poi proseguito con l’acquisizione da parte della società Moda&Musica dei fratelli Pasquale e Gennaro Cristillo. Che ricordi hai in merito?
L’idea sorse nel 1993 quando stampammo cento t-shirt destinate esclusivamente ai DJ e produttori con cui lavoravamo, dai Visnadi ai Fathers Of Sound passando per Claudio Coccoluto, DJ Pippi e David Morales. Le mandammo anche ai De La Soul visto che fummo noi a licenziare in Italia il loro primo album, “3 Feet High And Rising”, che nel 1989 vendette circa 45.000 copie facendoci guadagnare la stima incondizionata di Tom Silverman della Tommy Boy. L’iniziativa doveva finire lì ma il riscontro fu pazzesco e le richieste crebbero smisuratamente. Alle t-shirt abbinammo bomber, slipmat e borse portadischi ma non volevo separare il merchandising dalla musica, per me non doveva essere il mercato a dirci cosa fare bensì l’esatto opposto. Non mi piaceva l’idea, ad esempio, di inondare i negozi con decine di modelli diversi, era una strategia che non combaciava più con la natura della UMM. Quando Flying Records fallì, nel 1997, i diritti per lo sfruttamento del marchio UMM nel campo dell’abbigliamento, analogamente a quelli discografici passati nelle mani della Media Records, vennero ceduti ad una società campana che diede subito un segno di discontinuità col passato non usando più il font originale. Col rispetto per ciò che hanno fatto i Cristillo prendo però doverosamente le distanze: quella non era certamente la UMM e rimasi indignato per quanto venne riportato dopo la prematura scomparsa di Gennaro sia su Il Mattino, quando venne definito “il fondatore della storica etichetta discografica UMM”, sia su Caserta News che invece ne parlava come “l’ideatore del marchio UMM”.

Quanto Angelo Tardio c’è stato nella UMM?
Tolte alcune delle prime uscite del 1991 che scelsero altri per motivi prima esposti, UMM è stata al 100% mia tra 1992 e 1995. Ero pronto a raccogliere idee e suggerimenti ovviamente, ma a decidere sono stato sempre e solo io.

Se ipoteticamente domani potessi tornare alla guida della UMM, quali sono i brani o gli artisti che pubblicheresti?
Mi piace molto la musica di Henrik Schwarz e Dino Lenny, ma anche le cose più recenti che Paolo Visnadi ha realizzato con Matteo Bruscagin. Visto il fortissimo rigurgito degli anni Novanta che viviamo, tornerei dalle persone con cui ho instaurato un maggiore feeling e intesa proponendo di creare degli edit di alcuni pezzi pubblicati in passato per valorizzare idee non sviluppate a dovere. Inoltre, visto l’amore che nutro per il dub, l’afro e il downbeat, probabilmente creerei una sublabel destinata a questi stili così come feci con UMM Progressive.

Nel 2019 Nick Gordon Brown ha scritto un articolo per il sito della Defected annoverando, tra etichette come Warp, XL Recordings, Soma, Ninja Tune, R&S Records e Kompakt, anche UMM: per quali ragioni credi sia riuscita a lasciare un solco tanto profondo del proprio passaggio?
Forse perché è stata pura, vera e non ha strizzato l’occhio a niente. Contava su un progetto grafico accattivante che procedeva di pari passo alla musica, e poggiava su una logica dell’essenzialità, legata alla musica stessa e non ad altro. La nostra era una missione genuina e artigianale, alimentata dalla passione e non da velleità economiche, e questa onestà alla fine ha dato i suoi frutti. La gente capisce quando qualcosa è sincera e fatta col cuore. Il marchio divenne potente e ad accorgersene furono anche grandi nomi di fama mondiale che fecero ulteriormente crescere la nostra credibilità. Uscire su UMM era “figo”, faceva curriculum, in un periodo in cui house music voleva dire rivoluzione. Oggi invece è un genere come tanti altri, tristemente inghiottito dalla globalizzazione.

Quali sono le tre parole con cui sintetizzeresti l’epopea della UMM?
Ricerca, connessione e unicità.


La testimonianza di Patrizio Squeglia

Patrizio Squeglia alla consolle del My Way di Napoli (1989)
Un giovane Patrizio Squeglia in consolle al My Way di Napoli nel 1989

Come e cosa ricordi del periodo in cui ti venne chiesto di approntare il logo di UMM?
È importante fare qualche premessa. Dal 1988 stavo vivendo un momento magico come DJ. Ero molto popolare nella nightclubbing cosiddetta underground, proponendo musica che mi piaceva senza mediazioni, come avevo fatto già in passato durante le prime esperienze nei club punk e new wave. Questo approccio a un certo tipo di suono non banale, poco pop e per nulla convenzionale, fece sì che la mia visione estetica dell’underground fosse ben chiara e soprattutto molto sentita, senza fare alcuno sforzo mentale per cercare di capire o interpretare cosa stesse per succedere in quegli anni perché io stesso stavo partecipando attivamente al cambiamento. Quando mi fu presentato il progetto della label dedicata alla musica che amavo e proponevo quindi fu abbastanza semplice arrivare a una soluzione efficace, anche perché stavo realizzando qualcosa che piaceva a me e a quelli come me, senza pressioni esterne che potessero condizionarmi nelle proposte. Altra premessa che ritengo importante riguarda il mio metodo di lavoro come creativo. Non so se sia un difetto o un pregio che mi porto dietro dagli studi artistici e che nemmeno i docenti dell’epoca riuscirono a cambiare: non ricorro a bozze o a schizzi cartacei e non realizzo prove materiali su un progetto grafico, ma penso continuamente alla soluzione finale senza stendere giù appunti. Quando nella mia mente visualizzo ciò che mi piace metto in opera il quasi definitivo, e anche con UMM successe esattamente la stessa cosa. Ricordo la pressione del CEO della Flying Records, Flavio Rossi, che giustamente reclamava qualcosa da vedere senza però ottenere nulla da me per il motivo descritto. Poi un giorno, in tarda mattinata, misi insieme tutto quello che avevo in testa e in un’oretta circa buttai giù il logo UMM compreso dell’icona a forma di globo. Unica bozza, unica opzione, lo guardai pochi minuti e senza esitazioni lo presentai esclamando «questo è il logo UMM, per me è giusto così» e dopo un breve silenzio Flavio Rossi e Angelo Tardio approvarono. Pensai subito di aver centrato l’obiettivo. Quelle tre lettere bold così severe e imponenti avevano la giusta intenzione rappresentativa del mondo clubbing che stava scrivendo la storia della musica underground, erano qualcosa di esteticamente massiccio e solido in linea con la musica che dovevano rappresentare.

Come annunciavi poche righe fa, per UMM realizzi, oltre al logotipo, anche un simbolo/logo globoidale, utilizzato principalmente per le logo side dei dischi ma poi finito anche sulle copertine, sia dei mix 12″ che dei CD e cassette. Cosa rappresentava esattamente?
Il globo composto da una griglia imperfetta, dai tratti irregolari e brush, faceva riferimento a quello che era il lato “oscuro e misterioso” del club, fatto da un suono sperimentale per un pubblico che voleva appunto sperimentare qualcosa di nuovo da costruire e vivere liberamente senza porsi limiti.

cataloghi merchandise UMM (1994 e 1996-97)
Altri cataloghi del merchandising UMM: a sinistra quello del ’94, a destra quello del ’96/’97

Quanto fu determinante, nel successo di UMM, la creazione del merchandising e dell’abbigliamento streetwear brandizzato?
Logo e produzioni UMM vivevano in simbiosi correndo sullo stesso binario, uno si nutriva e supportava l’altro e questo rese credibile sia la grafica che i progetti pubblicati. La copertina generica nera, così come la scelta del colore della label che cambiava in base alla produzione, non era mai casuale, c’era una scelta accurata in base al brano che doveva rappresentare. Se l’etichetta avesse improvvisamente pubblicato musica pop non credo che il logo avrebbe avuto lo stesso riscontro nel merchandising, per il semplice motivo che non sarebbe stato credibile, soprattutto in un segmento come quello del club e quando parlo di club non intendo la discoteca generica. Le prime t-shirt con il logo UMM sul fronte e il globo sul retro, rigorosamente in nero con stampa argento (colore identificativo del brand) furono solo cento. Riuscii a farle realizzare dopo aver battagliato contro lo scetticismo della presidenza Flying Records anche perché i pochi esemplari sarebbero andati tutti in regalo ai top DJ internazionali che ricevevano periodicamente i promo dalla nostra distribuzione, quindi non potevamo sapere quale sarebbe stata la reazione, soprattutto degli americani che in quegli anni erano già maestri nel merchandising. Un giorno, uno di questi DJ di cui però non ricordo il nome, ci chiamò chiedendo cosa fosse quella t-shirt trovata nella spedizione insieme ai promozionali (i famosi white label), mostrando molto apprezzamento. A quel punto capii che avevo dato vita a qualcosa che stava andando oltre le aspettative. La prima vera collezione, se così si può definire, la realizzai alla metà del 1993 e da lì in poi fu un crescendo senza freni. Ricordo camion pieni di merchandising UMM che partivano per tutto il Paese e mezzo mondo.

Quello di UMM diventa un marchio talmente crossover da finire anche in posti davvero lontani dall’universo sonoro originario, come a un concerto dei Lùnapop o sulla t-shirt del bassista di Vasco Rossi al Festivalbar 2001 mentre esegue “Stupido Hotel”. Il brand stava contagiando anche chi non aveva la benché minima di idea di cosa fosse originariamente?
Quando avvenne ciò il marchio era stato rilevato da una compagnia di abbigliamento. Credo però che entrambi i casi da te segnalati fossero solo ed esclusivamente operazioni commerciali e non certamente scelte artistiche.

Essendo un’etichetta destinata ai DJ, gran parte delle copertine del catalogo UMM era monocolore col buco centrale. Tuttavia, di tanto in tanto, alcune pubblicazioni venivano accompagnate da artwork creati appositamente, come avviene per “Four Journeys” ed “Hunt’s Up” dei Visnadi, “Syxtrax” e “Come On Boy” dei CYB, “I’m A Real Sex Maniac” di Dick, “The Princes Of The Night” dei Blast, “Be Sexy” di Justine, “Don’t Give Up” e “C’Mon And Get It!” degli Statement, “Wrap Me Up” degli Alex Party e “Heroes” di Gianni Parrini Feat. Principe Maurice giusto per citarne alcune. In base a quale criterio si decideva se dotare un disco di copertina o optare per quella generica?
Solitamente la personalizzazione della copertina era condizionata dagli accordi contrattuali con l’artista e ovviamente obbligata quando il progetto in questione era un album, ma non esisteva una logica precisa. Tra le tante che ho realizzato ricordo con piacere quelle per i Visnadi, sempre attentissimi alla grafica, ma anche “Be Sexy” della giovanissima Justine Mattera che sfiancammo durante lo shooting che la ritraeva come una bambola gonfiabile. Con lei rammento grandi risate e complicità.

UMM In Progress
La scultura Ettore & Andromeda realizzata da Squeglia finita sulla copertina di “UMM In Progress” (1994)

Particolarmente intrigante era anche la copertina di “UMM In Progress”, raccolta selezionata da Francesco Zappalà uscita nel 1994 che ospitava la foto di una tua scultura, Ettore & Andromeda. Esisteva forse qualche nesso con Ettore E Andromaca di Giorgio De Chirico?
No, non c’era alcun riferimento specifico a qualcosa, era una scultura surreale animata da due personaggi inventati che riportavano i nomi della mitologia ellenica, Ettore e Andromeda per l’appunto. Creai quell’opera in maniera istintiva cercando di sposarla col suono proposto da Francesco. La scultura, ahimè, andò distrutta durante un trasloco ma in compenso conservo sia l’LP e il CD che gli scatti originali.

In un’intervista che ti feci diversi anni fa affermasti che «la grafica è stata una componente essenziale della musica, in passato non esisteva la comunicazione e lo scambio globale di informazioni di oggi quindi la scelta di un disco era spesso stimolata in modo sensibile dall’immagine che lo accompagnava». In relazione a questo concetto, credi che il messaggio veicolato dalla musica contemporanea sia parzialmente depotenziato rispetto a quello del passato, in cui l’artwork era chiamato a svolgere un ruolo importante, oppure quel vuoto è stato colmato da altro? La musica senza immagini (stampate), insomma, è assimilata e percepita in modo differente?
Nonostante ci siano diversi creativi molto capaci e propositivi, l’immagine di copertina adesso non riesce più ad avere lo stesso valore di un tempo perché è ridotta ai minimi termini attraverso i quali è impossibile apprezzare né i dettagli né l’impegno profuso per realizzare la stessa opera. La comunicazione su un nuovo progetto oggi parte prima dai numeri e dagli algoritmi, poi arriva tutto il resto, inutile girarci intorno. È il bello e il brutto dell’evoluzione dell’essere umano, nulla di grave.

Oltre a curare lo stile di UMM, hai inciso anche diversi brani confluiti nel suo catalogo coi team di produzione Statement e New Wave Explorers: cosa rammenti in merito?
Ricordo l’assoluta libertà di fantasticare senza pressione, di mettere insieme idee, suoni e sensazioni, di tenere al primo posto la voglia di creare qualcosa che mi piacesse veramente e che sarei stato orgoglioso di proporre nei club. Di questo sarò sempre grato a tutta la Flying Records che mi ha permesso di cimentarmi nelle vesti di produttore.

Analogamente ad Angelo Tardio, anche tu lasci la Flying Records nel 1996 iniziando nuove collaborazioni a partire da quella con la bresciana Time. Quanto fu doloroso abbandonare una realtà in cui avevate profuso così tante energie? E, ancor di più, quanto fu duro assistere al suo progressivo declino?
La scelta di abbandonare la Flying Records fu molto difficile ma inevitabile. La presidenza si era circondata di figure che si vendevano come pseudo manager e cominciavano a soffocare quella che invece era stata la vera forza della compagnia ovvero la libertà artistica, il curiosare, proporre e sperimentare. Si cominciava a parlare di commerciale, di budget, di licenziamenti ed altro simile, insomma si stava delineando quella che voleva essere una vera e propria azienda strutturata ma senza avere né i mezzi e forse tantomeno le figure giuste per diventarlo. I miei timori erano fondati visto che, a poco più di un anno dall’addio, la Flying Records fallì. Il ricordo più amaro che ho è legato ai giorni immediatamente successivi alla chiusura: mi recai presso lo studio di registrazione adiacente l’azienda e con grande rammarico notai sulla strada, accantonati come spazzatura, una montagna di master, pellicole, bobine e stampe fotografiche di quello che un tempo era l’archivio produzione. Stiamo parlando quindi degli originali di Blast, Articolo 31, Alex Party, 99 Posse, Joy Salinas e tantissimi altri.

Dopo il fallimento della Flying Records, la UMM viene riavviata a più riprese dalla Media Records che, dal 1998, la affianca a nuove declinazioni grafiche. Che idea ti sei fatto di quei tentativi?
Che Gianfranco Bortolotti e Diego Leoni siano stati due protagonisti indiscussi della scena dance/house degli anni Novanta, e che la Media Records abbia un posto di rilievo nella storia della musica italiana è fuori discussione, ma entrambi non hanno mai avuto un buon rapporto con la scena underground. Difatti il primo tentativo di rilanciare la UMM sfumò velocemente e, in tutta sincerità, non mi spiego nemmeno perché ci abbiano riprovato a distanza di anni. La magia di UMM ha una data ben precisa di nascita e di fine, pensare di rifare qualcosa che ha avuto successo in un determinato arco di tempo e in circostanze e/o momenti storici che non possono ripetersi non ha alcun senso.

Fanzine Gigantic
La fanzine che Gigantic ha dedicato a UMM nel 2021

Nel 2021 la galleria d’arte milanese Gigantic ha pubblicato, nell’ambito del progetto Night Of The Fanzines, il volume “1991/96 Dal Logo Alla Musica” dedicato proprio a UMM. Un riconoscimento al merito per ciò che ha rappresentato l’etichetta, nel panorama internazionale, negli anni più floridi?
I ragazzi di Gigantic organizzano ogni anno una mostra dedicata al mondo della fanzine. Partecipare per me ha rappresentato una grande gratificazione, soprattutto per il supporto che dovevo usare, una fanzine artigianale e grezza, così come è sempre stato nello spirito di UMM, nulla di patinato insomma. Alla mostra prendono parte vari artisti che presentano contenuti diversi con un unico filo conduttore, la fanzine. È stato molto bello e divertente, il tutto coronato da un grande apprezzamento da parte del pubblico che, in tutta onestà, non mi aspettavo.

Che eredità lascia la UMM?
Nel mio caso è, ad esempio, essere invitati nel 2022 alla presentazione di un album di un collettivo della scena rap milanese, Make Rap Great Again, e scoprire dagli stessi protagonisti di essersi liberamente ispirati al progetto UMM per quelle che sono state le impostazioni grafiche della loro etichetta. Ma potrei citare anche un episodio del 2020, quando la Defected pubblicò un post su Instagram dedicato alle “leggendarie etichette dance”: tra Warp, XL Recordings, Junior Boy’s Own, Soma, R&S Records, Kompakt, Nervous, Nu Groove, Trax Records, D.J. International e altre ancora spiccava benissimo la UMM.


La testimonianza di Giuseppe Manda

Giuseppe Manda alla Flying Records 1991-1992
Giuseppe Manda negli uffici della Flying Records in una foto scattata tra 1991 e 1992

Come ricordi la tua avventura con la Flying Records?
Iniziai a lavorare in Flying Records quando era ancora una piccola distribuzione con gli uffici e magazzini allestiti in un garage di Posillipo. In quel momento per me iniziò un fantastico percorso professionale e personale, eravamo una squadra imbattibile e a confermarlo sono i tanti risultati ottenuti. Qualche tempo dopo ci spostammo in una nuova location ad Agnano dove, insieme a Mimmo Mennito, mi occupavo della vendita sul territorio nazionale delle produzioni Flying Records e della miriade di dischi import che arrivavano dall’estero. Da lì a breve giunse l’ennesima intuizione di Angelo Tardio che aprì un mondo: nasceva UMM, supportata da una forte distribuzione nazionale e internazionale e da uno straordinario apparato grafico concepito da Patrizio Squeglia.

Come si profilò per te, nel 1996, la possibilità di ricoprire il ruolo di A&R della UMM insieme a Maurizio Clemente?
L’uscita di Angelo Tardio dall’assetto societario lasciò un vuoto che necessitava di essere colmato. Poiché negli anni precedenti avevo già collaborato con UMM, la proprietà decise di affidare a me e Maurizio Clemente la direzione di quella label. La Flying Records iniziava però la sua fase calante e questo non facilitò sicuramente le cose nel nostro breve percorso alla guida di una delle etichette italiane più iconiche del panorama mondiale. A Tardio devo tantissimo, grazie a lui iniziai a remixare e produrre musica presso lo studio della Flying Records ed ebbi l’onore di mettere le mani su brani di artisti del calibro di Blake Baxter, Todd Terry, Juan Atkins e Underground Resistance.

The Family - Feel The Light
“Feel The Light” di The Family (1996)

Quali sono le produzioni UMM uscite durante la tua direzione artistica che ricordi con maggior piacere?
Senza dubbio “Feel The Light” di The Family, un progetto di Tony Humphries. Martellai tanto Maurizio Clemente per convincere il DJ statunitense e, dopo un po’ di tentennamenti iniziali, riuscimmo nell’intento. Non fu semplice organizzare la cosa, sia da parte mia che di Maurizio che gestiva il contatto diretto con l’artista. Programmammo tanti remix del brano affidandoli ad Oscar Gaetan, DJ Vibe, Victor Simonelli e allo stesso Humphries ma alcuni uscirono solo su un doppio promo che anticipò la pubblicazione ufficiale. Anche io ebbi l’onore di mettere le mani sul pezzo confezionando la Man-Da Dub. Viste tutte le energie spese però, mi aspettavo che l’iniziativa, così laboriosa, raccogliesse qualche risultato in più.

Rispetto alle annate precedenti, il numero delle pubblicazioni UMM si riduce in modo sensibile tra 1996 e 1997. Certe uscite vengono persino confinate al formato white label, come avviene ad una delle ultime, la 384. Come mai?
Il mercato iniziava a conoscere una netta flessione e la Flying Records non aveva più la forza economica del passato. Alcune uscite furono limitate ai white label per evitare spese inutili e rientrare nei costi di tante compilation andate male e investimenti pubblicitari fallimentari. La chiusura di Flying Records fu un colpo al cuore, seppur per noi dipendenti fosse prevista. Terminava l’era di un’azienda che aveva fatto storia non solo nella dance ma anche nel rock e nell’hip hop. Nel 1997 finiva quindi un ciclo irripetibile della mia vita e di coloro che, come me, diedero l’anima in quegli anni.

Hai avuto modo di seguire la UMM del post Flying Records?
Ad essere onesto ne so ben poco. Dopo il fallimento della Flying Records seppi che i diritti del marchio UMM vennero ceduti a due aziende, una che si occupava di abbigliamento e una intenzionata a proseguire l’iter discografico. Sono sempre stato convinto che il successo di UMM sia stato decretato da un insieme di fattori ma soprattutto dalla collaborazione di persone in grado di far girare nel verso giusto gli ingranaggi della macchina, ma non rinunciando al divertimento. Alla luce di ciò resto del parere che non basta riprodurre un marchio per attribuire la stessa valenza a un prodotto, per giunta non appartenente a un determinato periodo storico.

Onirico repress 2022
La copertina della ristampa più recente di “Stolen Moments” di Onirico (Back To Life, 2022)

In tempi recenti hai creato la Flash Forward e la Back To Life, due etichette nate con lo scopo di ripubblicare brani house/techno del passato tra cui “Stolen Moments” di Onirico (UMM, 1991). Il lavoro svolto per l’etichetta napoletana circa venticinque anni fa ti ha in qualche modo aiutato a gestire una casa discografica, seppur il contesto in cui operi oggi sia profondamente differente da quello del passato?
Sì, senza dubbio. L’esperienza in Flying Records mi ha arricchito di informazioni che mi sono servite nei progetti nati successivamente, a partire da quelli nati quando lavoravo in Karma Distribuzioni e poi quelli di Flash Forward e Back To Life, etichette che guardano artisticamente al passato ma con la consapevolezza che sia tutto totalmente cambiato.

C’è un aneddoto legato alla Flying Records che vorresti raccontare?
Certo, ed è antecedente al periodo in cui svolsi ruolo di A&R. Come ogni anno partimmo per il Midem di Cannes dove la Flying Records aveva solitamente uno stand. La sera, terminata la giornata di lavoro, ci spostavamo in gruppo per seguire i vari eventi organizzati. All’uscita di un locale, appena messe le chiavi nella serratura dell’auto, spuntarono all’improvviso almeno una ventina di poliziotti delle forze speciali armati di pistole, mitra e fucili e, tra mille urla in francese, ci ammanettarono e scaraventarono in diverse auto, così come solitamente fanno coi peggiori criminali. Fummo portati in una grande centrale di polizia e, senza alcuna spiegazione, ci ritrovammo tutti insieme in una megacella di detenzione. A quel punto la paura crebbe a dismisura e iniziammo a nutrire sospetti l’uno dell’altro. Si passava dalla risata isterica del compianto Francesco Diana, che lavorava per il reparto hip hop, ai pianti di un giovane Alessandro Massara, in quel periodo in forze al reparto rock e in seguito diventato presidente della Universal. Trascorremmo circa due ore da incubo terminate con le scuse della polizia che aveva preso un evidente abbaglio, probabilmente dovuto alla targa di una delle nostre auto. La frittata però era fatta, l’indomani tra i corridoi del Midem ci salutavano tutti col sorrisino e mimando il gesto delle manette. Ogni volta che ripenso a quella storia rido come un bambino ma nel contempo mi tornano in mente i momenti terribili di quando mi fecero sdraiare a terra a faccia in giù e mi ammanettarono, proprio come un malvivente.


La testimonianza di Maurizio Clemente

Maurizio Clemente WMC 97
Maurizio Clemente al Winter Music Conference di Miami nel 1997

Tra 1992 e 1994 avevi già lanciato alcune etichette, la Rena Records, la Zippy Records e la Nite Stuff, a cui si aggiunse poi la Equal Records: quanto fu determinante ciò per il ruolo ricoperto in UMM?
Nite Stuff e Zippy Records erano distribuite proprio dalla Flying Records e rappresentavano prove tangibili dei buoni risultati raggiunti. In virtù di questo mi fu offerto il ruolo di A&R insieme a Giuseppe Manda. Fu un’esperienza fantastica dirigere un’etichetta dal profilo così alto e rispettato nell’ambito della dance music internazionale.

Ci sono produzioni UMM uscite durante la tua direzione artistica che ricordi con maggior piacere?
È difficile ricordare i titoli visto che sono trascorsi più di venticinque anni ma sicuramente “Feel The Light” di The Family, progetto di Tony Humphries. Andando un po’ più indietro invece, citerei la compilation “House Underground United” pubblicata nel ’94 su Nite Stuff e che lanciammo in occasione del SIB/Nightwave di Rimini.

Quali invece quelle da cui ti aspettavi risultati migliori?
Su tutti “We Got A Love” di Martini & Hardcorey con la voce di Sabrynaah Pope e remixata, tra gli altri, dai Fathers Of Sound, artefici di un suono che mi piaceva moltissimo.

Rispetto alle annate precedenti, il numero delle pubblicazioni UMM si riduce in modo sensibile tra 1996 e 1997. Alcuni numeri del catalogo sono saltati e certe pubblicazioni diffuse solo in formato white label: come mai?
Negli ultimi tempi puntavamo ai white label sia per risparmiare sul packaging, sia per stampare solo sul venduto. L’aria che si respirava in Flying Records in quel periodo era carica di tristezza, eravamo un team coeso ma sapevamo che le cose non stessero andando per il verso giusto. La maggior parte di noi attribuiva la debacle all’apertura degli uffici all’estero.

adv tour estivo '98
L’adv del tour estivo UMM nell’estate ’98

Nell’estate del 1998, poco prima che la Media Records rilanciasse il marchio, si tenne un tour della UMM in vari locali come l’Echoes, il Momà, l’Aqua Disco Village, il Sottovento e il Fabula con vari DJ tra cui Luca Fares, Lello Mascolo e il compianto Ricci: chi lo organizzò?
Si trattava di una tournée ideata per sensibilizzare i club. La organizzammo facendo leva sui miei contatti di allora intrecciati a quelli messi a disposizione dalla Media Records.

Nell’autunno di quell’anno l’etichetta di Gianfranco Bortolotti rimette sul mercato il marchio UMM. Hai avuto modo di seguire quella fase?
Sono a conoscenza dei vari tentativi nati con l’obiettivo di rilanciare UMM ma nessuno di essi mi sembra abbia dato i risultati sperati.

Che eredità lascia la UMM?
UMM nacque e si sviluppò in un periodo storico in cui le distribuzioni italiane erano in diretta competizione con gli Stati Uniti e riuscirono, con astuzia, a ritagliarsi grosse fette di mercato. A oggi, a detta di tutti, UMM resta l’etichetta italiana all’altezza di colossi d’oltreoceano come Nervous Records e Strictly Rhythm.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Corrado Monti

02 - Monti two
Uno sguardo d’insieme sulla collezione di dischi di Corrado Monti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Risale al 1978 ed è un 45 giri di Rino Gaetano, “Gianna”, brano portato quell’anno al Festival Di Sanremo. Il primo LP invece è stato “Uprising” del mio mito Bob Marley, mentre il primo disco mix “Sweet Little Woman” di Joe Cocker, ascoltato da una cassetta del compianto Riccardo Cioni che mi faceva venire puntualmente la pelle d’oca.

L’ultimo invece?
Uno degli svariati 12″ degli Africanism usciti su Yellow Productions nei primi anni Duemila. Era il periodo in cui iniziai a scaricare musica dal web che poi masterizzavo su CD da infilare nei Pioneer CDJ-100S.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Circa cinquemila.

Dove è collocata e come è organizzata?
Si trova nella mia casa ma ha subito almeno quattro traslochi e qualche vendita, per cui non posso certamente affermare di averla trattata benissimo. Nei primi anni Novanta inoltre, quando mi dedicai ad altri generi musicali, vendetti parte dei dischi del decennio precedente perché ipotizzai che si sarebbero trasformati solo in zavorra inutile. Per quanto riguarda l’indicizzazione, per gli anni Ottanta ho optato per l’ordine alfabetico, sia per i mix che gli LP. Tutto il materiale che va dal 1990 in poi invece è disposto per anno.

Segui particolari accorgimenti per la conservazione?
Non ho mai eseguito lavaggi o usato copertine plastificate, infatti quando mi ritrovo ad ascoltarne alcuni è un dramma, tra scricchiolii e salti della puntina. I miei dischi erano paragonabili ad “attrezzi da lavoro”, l’uso che ne facevo era intenso tra serate doppie/triple ed after hour. A volte, per ovviare a questi problemi tecnici, ci passo sopra un panno imbevuto di alcool che, evaporando, non lascia residui. Probabilmente è giunta l’ora di acquistare una delle tante macchine lavadischi disponibili sul mercato.

Ti hanno mai rubato un disco?
Fortunatamente non ho mai vissuto il furto di dischi ma è capitato di averne prestati alcuni e poi di essermene dimenticato di farmeli restituire, ma forse non erano titoli a cui tenevo particolarmente. Di certi invece, come “The House Of God” di D.H.S., ne ho due copie probabilmente perché le prime si erano irreparabilmente rigate.

03 - i dischi di Marley
Alcuni LP di Bob Marley presenti nella collezione di Monti

C’è un disco a cui tieni di più?
Indistintamente a tutti quelli di Bob Marley, perché il reggae mi scorre delle vene, ma anche agli album di gruppi come Deep Purple, The Doors, Pink Floyd e Police.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Mi piacerebbe possedere “Murder Rap Trap” dei Culture Club in formato 12″ ma anche altre tracce che ascoltavo in vecchie cassette “afro” di fine anni Settanta/inizio Ottanta di cui però non sono mai riuscito a scoprire né il titolo né tantomeno gli autori. Neanche Shazam, in tempi recenti, è stato capace di aiutarmi nell’ardua identificazione. Uno di quelli che ho ricercato ed acquistato invece è “Up All Night” di Claudja Barry, del 1982. Come accennavo prima, ho venduto alcuni dischi che consideravo ormai inutili ma a posteriori è emerso qualche rimorso, come per “Strange” di Interfront.

Quello che regaleresti volentieri?
Nessuno direi, a meno che il riascolto dovesse far riaffiorare qualcosa davvero “indigeribile”.

04 - copertina più bella
“The Bass EP”, il disco di Corrado Monti edito dalla Sushi nel 1999

Quello con la copertina più bella?
Non ho mai comprato dischi per la copertina: seppur questa rappresentasse sicuramente uno stimolo maggiore per l’occhio, alla fine ho sempre lasciato decidere l’orecchio. Le copertine dei dischi di Fausto Papetti, ad esempio, erano particolarmente attraenti perché puntualmente dominate da bellissime donne poco vestite, ma non ne ho mai acquistato nessuno. Trovo bellissimo il retro di “Kaya” di Bob Marley & The Wailers e citerei anche quella del mio “The Bass EP”, pubblicato dalla Sushi nel 1999, che scelsi personalmente da un disegno.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato la carriera da DJ, nel 1982?
Ero cliente assiduo di Magic Sound, un piccolissimo negozio a Pontedera: a differenza di un altro più grande che vendeva dischi patinati ma solo di musica commerciale, quel microscopico punto vendita, forse di appena venti m², era specializzato in prodotti più ricercati tra cui dischi mix destinati ai DJ che, ai tempi, erano decisamente meno di oggi. A volte andavo a Firenze da Disco Mastelloni (gestito dal compianto Roberto Bianchi intervistato in Decadance Extra, nda) o alla Galleria Del Disco. Spesso ordinavo dischi sentiti attraverso qualche cassetta o in programmi radiofonici del citato Cioni che fu il mio ispiratore, almeno sino al 1983/1984. Poi, a partire dal 1987/1988, con l’avvento della house music, cominciai a fare acquisti da Disco Più di Rimini facilitato dai preascolti incisi su cassetta: era bellissimo aspettare il pacco con la cassettina per ascoltare le nuove uscite! Negli anni Novanta, infine, ho fatto qualche puntatina al Black Market Records di Londra.

Che tipo di musica proponevi negli anni Ottanta, prima della nascita di house e techno?
Di alternativo, per noi DJ, c’erano la new wave e la cosiddetta afro, filoni però relegati a piccoli spazi all’interno di una serata. Talvolta erano gli stessi clienti a chiedere determinati titoli che, se non avevo in valigetta, cercavo ed eventualmente acquistavo qualora fossero stati di mio gradimento.

L’avvento di house e techno, in seguito, mutò in qualche modo il pubblico delle discoteche?
Il pubblico si divise presto in base alle proprie preferenze: da un lato chi cercava DJ capaci di proporre musica non trasmessa dalle radio, dall’altro chi invece si accontentava dei DJ “da zibaldone”, che mettevano le hit del momento senza particolari doti tecniche e tantomeno legate alla selezione. Fu allora che, a mio avviso, l’attività del disc jockey conobbe un’ulteriore evoluzione che passò dal semplice mettere a tempo due dischi ad una figura più artistica fatta di gusto musicale e sensibilità. È troppo facile farsi apprezzare dal pubblico proponendo solo successi o, al giorno d’oggi, fare i fenomeni con set assemblati in modo perfetto grazie alla tecnologia.

01 - Monti one
Un recente scatto di Corrado Monti insieme alla sua collezione

In una breve intervista pubblicata a marzo 1997 dalla rivista Tutto Discoteca dichiari di aver raggiunto la popolarità al Concorde di Pistoia, «arrivando al punto di realizzare poster e cartoline come un autentico divo». Ritieni che, sulle lunghe distanze, la figura del “DJ superstar” si sia rivelata un’arma a doppio taglio perché ha giocato a svantaggio delle peculiarità un tempo intrinseche al DJing stesso?
Alla fine è il mercato a decidere. Un DJ può diventare superstar grazie al grande apprezzamento del pubblico, perché dispone di mezzi e conoscenze giuste o se sa vendersi bene. Io ho vissuto un buon periodo culminato, così come raccontavo in quell’intervista di ormai venticinque anni fa, da poster e cartoline, e in virtù di ciò non me la sento di giudicare. Per un certo periodo sono stato considerato un DJ di massa, in grado di riempire le piazze, ma non essendo un animatore non ho avuto vita lunga in tal senso. Non potevo assolutamente competere coi DJ-animatori del genere pop, dal canto mio davo più peso alla tecnica e alla scelta musicale e quando arrivarono nuovi generi mi sentii decisamente più a mio agio. La nascita della figura del vocalist poi mi esonerò dal parlare al microfono ma nel contempo mi fece uscire dalla dimensione del “DJ star” che firmava autografi, cosa che avveniva specialmente nel periodo in cui suonavo al Babylon di Capannoli e mettevo musica a Radio Valdera, ascoltatissima in Toscana. Spesso erano addirittura le mamme a venire sui palchi delle feste in piazza chiedendo il poster per le figlie ed io mi imbarazzavo, forse più di loro. C’è un aneddoto che vorrei raccontare per rendere ancora meglio l’idea di quanto fossi diventato popolare: era il periodo pasquale in cui i preti facevano il giro delle case per le benedizioni. Il parroco venne anche da me e, finito il rito, mi disse: «ma io ti conosco!». Gli risposi che mi sembrava strano, in quanto erano già diversi anni che non frequentavo la chiesa o gli oratori, ma a quel punto mi interruppe: «no no, ti conosco perché nelle camere delle ragazzine al posto dei crocifissi è appeso il tuo poster!».

Hai lavorato in centinaia di discoteche dello Stivale, dall’Insomnia al Covo Di Nord Est, dal Dadarà all’Illiria passando per l’Underground City, La Villa, il Madame Claude, il Domina, il Kama Factory, il Titanic, il Palace e il Mithos, giusto per citarne alcune, nonché in eventi simbolo del clubbing nostrano come Exogroove e Syncopate. Cosa resta oggi di quell’universo multicolore e multisuono? Perché il nuovo millennio ha visto il progressivo decadimento delle discoteche (soprattutto quelle più grandi) nonostante la musica elettronica sia entrata praticamente in ogni ambito?
Non saprei rispondere adeguatamente, sto cercando di rientrare nel giro e la pandemia mi ha impedito, nell’ultimo biennio, di riaffacciarmi al nuovo universo dei locali italiani. Tanti colleghi sostengono che ormai tutto è cambiato ma sono del parere che quell’euforia tipica degli anni Novanta iniziò a svanire già nei primi anni Duemila, non è quindi un fenomeno regressivo iniziato recentemente.

05 - dischi memorabilia
Il “disco trapano”, “Children” di Robert Miles e “Are You Insible” di Amazone

Scegli tre dischi che riportano la tua memoria ad altrettanti locali in cui hai suonato, spiegandone le ragioni.
Il primo era stampato su etichetta nera e vinile bianco. Anche la copertina era priva di qualsiasi riferimento. Quando lo mettevo all’Insomnia di Ponsacco venivano spesso in consolle per capire cosa fosse (“We Have Arrived” di Mescalinum United, Planet Core Productions, 1991, nda). In verità non era niente di così speciale, solo un rumore con cassa techno sotto. Lo ribattezzai “disco trapano” perché il noise sviluppato era davvero simile a quello di un trapano in funzione;
Il secondo è “Are You Invisible” di Amazone, uscito su Nova Zembla nel 1994. Fu il primo pezzo che misi al Kama Kama e quasi tremavo per l’emozione;
Il terzo è “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda): forse fui tra i primi a suonarlo e lo mettevo così spesso al punto che tanti iniziarono a pensare che lo avessi fatto io. Una volta un tizio mi offrì da bere al bar (forse al Madame Claude in Piazza San Babila, a Milano) perché convinto che quel pezzo fosse il mio! Per non deluderlo non gli rivelai la verità ma era talmente su di giri che forse non se lo sarebbe neanche ricordato.

Hai dato avvio alla tua carriera da produttore discografico nel 1992 con “God” di Cody J., sulla Luxus Records, che prima rimaneggiava “The House Of God” di D.H.S. sul minimalismo di una Casio VL-Tone VL-1 (“God”), poi scombinava l’hoover sound di “Dominator” degli Human Resource (“Loose Controll”) ed infine, imprevedibilmente, virava verso paradisiache soluzioni house venate di jazz in “All Right”. Cosa ricordi di questo disco?
Essendo trascorsi ormai trent’anni le memorie sono davvero vaghe. Rammento di essere andato nello studio livornese di Diego Persi Paoli e Luigi Agostini in cui c’erano un campionatore, una tastiera, un computer e un masterizzatore CD della Marantz, forse la “macchina” più all’avanguardia tra tutte. In buona sostanza il disco era frutto di un puzzle di campionamenti da collegare e mischiare, sia per “God” che “Loose Controll”. Persi Paoli era un musicista e quindi, di comune accordo, decidemmo di fare un pezzo suonato dal vivo senza uso del campionatore allo scopo di dare un po’ di “anima” al tutto con un tocco umano, e così nacque “All Right”. Tutte le tracce comunque furono realizzate a mo’ di prove, non pensavo che qualche etichetta le avrebbe potute stampate sul serio. Fu una sorpresa decisamente inaspettata e la presi per tale, difatti con una copia realizzai un orologio da parete.

06 - le produzioni discografiche
Corrado Monti e le sue produzioni discografiche uscite negli anni Novanta

Nel corso degli anni Novanta intensifichi l’attività da produttore incidendo per etichette come Acid Milano, S.O.B., Tuscania Movement, Sushi (una delle label dell’American Records di cui parliamo qui) e Tabloid Trance, oltre a remixare “Everybody” di Ensaime per la Signal del gruppo Media Records. Consideri l’attività discografica un’appendice di quella da DJ? Sono due ruoli che possono viaggiare in parallelo oppure bisognerebbe fare un distinguo netto, perché saper far ballare il pubblico non equivale ad essere un asso in studio e viceversa?
Sono sincero: io e la tecnologia abitiamo da sempre su mondi differenti. I pezzi del mio repertorio nacquero da mie idee ma vennero sviluppati, di volta in volta, da chi sapeva usare le macchine in studio (come spiegato in questo ampio approfondimento, nda). Ritengo comunque che il DJing e l’attività discografica possano procedere di pari passo, non a caso ci sono personaggi diventati DJ solo perché hanno inciso produzioni importanti e, al contrario, ottimi DJ che invece hanno inciso pochissimo o proprio nulla. Adesso, per chi è sconosciuto e non ha alle spalle un background solido o un locale-vetrina, forse quello di buttarsi a capofitto nel mondo delle produzioni è l’unico modo per tentare di emergere dall’anonimato.

Quanto contava, ai tempi, affiancare al DJing l’attività in studio di registrazione? Essere ingaggiato da etichette discografiche di successo poteva fungere da volano per la propria carriera?
Certamente. Incidere un disco che superasse un certo numero di copie vendute dava senza ombra di dubbio uno slancio alla carriera e spesso riusciva persino ad aprire le porte dell’estero.

The Moab
Il disco di The Moab edito da Looking Forward nel ’93

Nel 1993, per la Looking Forward del gruppo LED Records guidato da Luigi Stanga intervistato qui, realizzi “Overtribe” di The Moab in coppia con Joy Kitikonti. Secondo i crediti, il concept fu di Marco Mottoi, a firmarlo per la SIAE invece fu Francesco Farfa. Fu quindi un lavoro di gruppo?
Il “conceived” riportato sul centrino fu oggetto di un qui pro quo: il disco avrebbe dovuto raccogliere anche una traccia tribale di un mio carissimo amico sardo, Marco Mottoi per l’appunto, ma alla fine quel pezzo fu escluso dalla stampa. Poiché le grafiche erano state già approntate, fu deciso di lasciarle così. Farfa (intervistato qui, nda) invece firmò i pezzi in SIAE perché, banalmente, né io né tantomeno Joy e Marco eravamo iscritti.

L’anno seguente, sempre con Kitikonti intervistato qui, remixi “I’m In Heaven” di Candice destinato ancora alla Looking Forward. Ci sono brani sui quali ti sarebbe piaciuto mettere le mani o produrre in quel periodo?
Non ho dubbi, in quei memorabili anni mi sarebbe piaciuto essere l’artefice di “Children” di Robert Miles, un successo planetario.

Hai mai remixato o composto musica con l’unico fine di proporla nelle tue serate senza pubblicarla in modo ufficiale?
Sì, seppur abbia iniziato piuttosto in ritardo rispetto ad altri colleghi, intorno ai primi anni Duemila quando andai a vivere in Sardegna e l’amico Marco Mottoi installò Reason sul mio PC. Con quel software realizzai qualche demo che poi suonai durante le serate.

L’ultimo tassello della tua carriera discografica risale al 2002, anno in cui la Presslab Records di Omar Neri pubblica “She Loves Sunshine” di Moody Mas. Hai accantonato l’attività in studio per qualche particolare ragione?
Fondamentalmente mollai perché mi trasferii in Sardegna, intenzionato a rimanerci per il resto della vita. Poi le vicissitudini mi hanno riportato in Toscana ma ormai avevo perso i contatti con amici e studi di registrazione. In seguito la morte di mia mamma e la nascita di mio figlio mi allontanarono del tutto dal mondo delle produzioni, volevo dedicarmi solo alla famiglia. Colgo però l’occasione per annunciare un possibile ritorno discografico in un futuro non lontano.

Escludendo il profilo tecnico soggetto ad ovvi upgrade, quanto e come è cambiato il DJing negli ultimi due decenni? Te la senti di fare previsioni sul prossimo futuro?
Io vengo dalla generazione che ha visto nascere i giradischi con la regolazione dei giri, quando iniziai avevo due Lenco con la rotella. Poi, per due decenni, non cambiò quasi nulla, sino all’avvento dei CDJ, seguiti dal “finto vinile” collegato al PC e dagli MP3. È stato tutto talmente veloce che non sono stato in grado di stare al passo coi tempi e sono rimasto al primo scalino, quello dei CDJ. Non nego che andare a suonare con una chiavetta USB sia decisamente meno faticoso e più pratico rispetto agli ingombranti e pesanti flight case ma in questo quadro manca tutta la poesia e il fascino che avevano i dischi, insieme alla memoria fotografica legata alla copertina o all’etichetta centrale. Adesso si fa davvero fatica a ricordarsi titoli ed autori, escono migliaia di tracce ogni settimana e fare ricerche è oggettivamente assai complicato. Futuro? Visti i tempi che viviamo spero solo ci sia la salute.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato.

The Police - Reggatta De BlancThe Police – Reggatta De Blanc
Un LP del 1979 che include vari brani di reggae bianco. Tra i miei preferiti “The Bed’s Too Big Without You”, l’arcinota “Message In A Bottle” e “Walking On The Moon” trainata da quel bassone ed atmosfere dark, un pezzo che mi faceva venire i brividi e continua a farmi impazzire ancora adesso.

Sugarhill Gang - Rapper's DelightSugarhill Gang – Rapper’s Delight
Ancora un pezzo risalente alla fine degli anni Settanta. “Rapper’s Delight” è stato il 45 giri che accese in me la passione per l’hip hop che ascolto regolarmente ancora oggi. Ai tempi del liceo facevo francese così cercai qualche amico che, studiando invece la lingua inglese, potesse scrivermi il testo. Lo imparai a memoria senza conoscerne il significato, tranne qualche parola. Quando lo mettevo in discoteca spesso mi armavo di microfono e lo rappavo dal vivo. Nonostante siano trascorsi più di quarant’anni me lo ricordo ancora.

Pink Floyd - The WallPink Floyd – The Wall
Conoscevo già i dischi precedenti della band ma questo è irresistibile. Quando capita di ascoltarlo mi viene la pelle d’oca e certamente non a caso ne possiedo due copie. Rimasi affascinato dal fatto che tutti i brani della tracklist fossero legati tra loro con varie storie all’interno, come un’unica traccia. All’epoca vidi anche il film (“The Wall”, diretto nel 1982 da Alan Parker, nda) ed infatti appena arrivò eMule, una ventina di anni fa circa, uno dei primi file che scaricai fu proprio quello. Possiedo anche il 7″ di “Another Brick In The Wall” che suonavo in discoteca negli anni Ottanta perché in quella versione partiva con la cassa, soprattutto a fine serata nel cosiddetto “momento revival”, e con quello non rischiavo mai di deludere il pubblico. Mi piace tutto di quel disco, il basso, la chitarra, il cantato, i cori… e poi inevitabilmente nella mia memoria riappaiono le scene del film.

Tangerine Dream - ExitTangerine Dream – Exit
Grazie ai Tangerine Dream, nei primi anni Ottanta, partì il mio amore per la musica elettronica, spronato tanto da melodie ed armonie quanto dai suoni spaziali. “Exit” fu il primo LP che comprai della band fondata da Edgar Froese, Conrad Schnitzler e Klaus Schulze. Alcuni brani racchiusi all’interno, come “Choronzon” e l’omonimo “Exit”, li mettevo quando suonavo il sabato pomeriggio al Paco ma sul finire della serata, per i pochi afecionados ed amanti della cosiddetta “afro”. Curiosità: ad aprire il disco era la traccia intitolata “Kiew Mission” che sembra scritta oggi. La citazione dei vari continenti nasceva per scongiurare la minaccia nucleare che si temeva durante la Guerra Fredda. Gli stessi timori continuiamo a provarli ancora adesso, purtroppo.

Yellowman - Nobody Move Nobody Get HurtYellowman – Nobody Move Nobody Get Hurt
Un LP che mi fece scoprire ed appassionare al raggamuffin e che ho cercato a lungo dopo aver ascoltato alcune tracce di esso in una cassetta afro, probabilmente di TBC. In seguito ho ampliato la conoscenza ed ho acquistato altri album del giamaicano Winston Foster alias Yellowman che si prestavano perfettamente al DJing perché essendo incisi a 33 giri potevano essere suonati a 45. Aumentandone la velocità, i pezzi risultavano più accattivanti e funzionavano meglio in pista.

The Cure - Standing On A BeachThe Cure – Standing On A Beach
Uscita nel 1986, questa è una raccolta dei singoli più venduti durante la prima decade della carriera dei Cure. Menzione particolare per “A Forest”, uno dei miei brani preferiti da sempre, che peraltro mi ha ispirato nella produzione di una traccia contenuta nel mio “Triaxis” su Acid Milano ossia la Nocturnal Vibe In After Version. I Cure rientravano nella rosa di quelle band rock, new wave e punk, come Cult, Siouxsie & The Banshees, Smiths, U2 o Clash, a cui ricorrevo a fine serata per far pogare il pubblico, specialmente quello composto dai più scalmanati. La pista si apriva, la gente si metteva in cerchio ed apparivano i dark seguiti dai punk, ed era il finimondo.

Bruce & Bongo - GeilBruce & Bongo ‎- Geil
Un mix che comprai quasi per scommessa dopo uno scherzoso battibecco nato nel sopraccitato Magic Sound di Pontedera con un altro DJ e i titolari dello stesso negozio che ne dicevano peste e corna. Non che a me piacesse così tanto ma ero convinto che avrebbe funzionato alla grande. Alla fine la pista mi ha dato ragione e la stessa cosa avvenne anche per un singolo di Spagna, forse “Easy Lady”. Nessuno dei due ha conquistato il mio gusto personale ma non nego che servivano entrambi per riempire la pista.

Frankie Knuckles - Your LoveFrankie Knuckles – Your Love
Mi risulta difficile non citare Knuckles con uno dei brani che hanno fatto parte della mia carriera da DJ. “Your Love” mi piaceva perché era trasversale tra house ed elettronica, e fu il disco che usavo maggiormente per iniziare la serata dopo il preascolto. Da lì in poi partivo con l’house ma anche con la new beat e le prime cose techno che arrivavano in Europa. Mi è sempre piaciuto mescolare i vari generi, chiaramente lì dove la situazione lo permetteva, ed infatti nel corso degli anni Novanta amavo propormi sia in serate house che techno. Questo giovò non poco alle mie finanze, visto che non relegarmi esclusivamente ad un filone musicale mi diede la possibilità di moltiplicare il numero delle serate mensili.

Jaydee - Plastic DreamsJaydee – Plastic Dreams
Un altro disco che ho sfruttato davvero tanto è stato “Plastic Dreams” (di cui parliamo qui, nda). Lo amavo per le atmosfere che riusciva a creare e forse, inconsciamente, anche perché la tastiera suonata in quel modo mi ricordava il tocco di Ray Manzarek dei Doors, altra band a me particolarmente cara, col suo mitico Vox Continental.

Massive Attack - ProtectionMassive Attack ‎- Protection
Intorno alla metà degli anni Novanta si affacciò un nuovo genere musicale che mi investì come un tir in discesa senza freni, il trip hop. Rimasi ammaliato dai Portishead e da Tricky ma a stregarmi letteralmente furono i Massive Attack, prima con “Protection” e poi con “Mezzanine”. Quando abitavo a Milano andai ad un loro concerto che è rimasto indelebilmente impresso nella mia memoria. Da allora mi hanno accompagnato nei pre e nei post serate, la loro musica mi svuotava la mente e mi rilassava le orecchie. Da “Protection” e “Mezzanine”, tra l’altro, ho preso alcuni spunti che ho inserito in un paio di tracce del mio “The Bass EP”: campionai “Weather Storm” e “Dissolved Girl” rispettivamente per “Mental Bass” e “Massive Bass”.

(Giosuè Impellizzeri)

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Flavio Vecchi – DJ chart gennaio 1992

Flavio Vecchi, Tutto Disco, gennaio 1992

DJ: Flavio Vecchi
Fonte: Tutto Disco
Data: gennaio 1992


1) Masters At Work – Our Mute Horn
Pur essendo uno dei primi dischi che Vega e Gonzalez realizzano come Masters At Work, la vocazione è già ben evidente, tutta ad appannaggio di un sound ballabile ma cucito a doppio filo col mondo del jazz e del soul. In “Our Mute Horn”, incisa sul lato b e dedicata a Miles Davis scomparso poco tempo prima dell’uscita del 12″, campeggia la tromba di Ray Vega che si insinua perfettamente negli snodi ritmici da cui riaffiora, quasi in sordina, un frammento di “The Music Got Me” dei Visual prodotti dall’altrettanto indimenticato Boyd Jarvis. Oltre ad un bonus beat di una manciata di minuti, sul mix c’è anche un’Ambient Dubb particolarmente suadente. A pubblicare il disco è la Cutting Records dei fratelli Aldo e Amado Marin, quella che nel 1983 mette in circolazione “Al-Naafiysh (The Soul)” di Hashim e ricordata anche come rampa di lancio del compianto Nitro Deluxe (si sentano “Journey To Cybotron”, “On A Mission” e il più noto “Let’s Get Brutal”) e soprattutto dei 2 In A Room, protagonisti negli anni Novanta della seconda ondata hip house con hit come “Wiggle It”, “El Trago (The Drink)”, “Ahora! (Now!)”, “Giddy Up” e “Carnival”.

2) Basil Hardhaus – Make Me Dance
“Make Me Dance” è il secondo dei due dischi che Basil Thomas destina alla newyorkese Nu Groove. Operativo come DJ in club della Grande Mela passati ormai alla storia come il Nell’s, il Red Zone e il Sound Factory, l’artista fonde nella title track le matrici del periodo pre house (Paradise Garage, The Choice) con le sollecitazioni deep che vanno delineandosi nei primi anni Novanta. Il brano è cantato dai fratelli Rheji e Ronald Burrell ai quali si aggiungono i lead vocal di Sylvia Simone, campionati nel ’93 dagli italiani Mars Plastic in “Find The Way”. Sul 12″ presenzia pure una dub intitolata Hard For The D.J. in cui scorrono i nomi di tanti eroi della house a stelle e strisce di quegli anni, da John Robinson a Bobby Konders, da Tony Humphries a Kenny Carpenter, da DJ Disciple a Ralphi Rosario passando per Pal Joey, Frankie Knuckles, David Morales, Dave Camacho, Roger Sanchez ed altri ancora. Di Thomas, oggi attivo come Brutha Basil, vale davvero la pena rammentare anche la parentesi artistica vissuta nella seconda metà degli anni Novanta quando, spalleggiato dalla King Street Sounds, firma struggenti brani come “All True (African)” e “Sex”, entrambi dedicati alla memoria del suo mentore Larry Levan.

3) Riviera Traxx – Vol. 1
Trattasi del primo atto di una serie andata avanti sino al 1997 e risvegliata dal letargo giusto pochi mesi addietro attraverso il quinto volume contenente, tra le altre, tracce di Cirillo, Memoryman aka Uovo, Bartolomeo e Vecchi affiancato da Peter Kharma. “Parfume 1” accarezza le orecchie dell’ascoltatore con un delicato quanto gustoso appetizer a base di deep house rivierasca, composta tenendo bene a mente le esigenze del pubblico dell’Ethos Mama menzionato in copertina e tra i crediti. Parecchio simile la ricetta di “Parfume 2”, spassionata italo (deep) house strumentale tornata in gran spolvero negli ultimi anni. Meno squadrato e provvisto di più sinuosità il suono di “Hey Hey”, in cui pare sia celato un vocalizzo di Mariah Carey abilmente campionato da “Someday”, mentre “Love” chiude ricamando graziosi gorgoglii della deep house nostrana di circa trent’anni or sono. Artefici di tutto sono Flavio Vecchi e Ricky Montanari (da lì a breve uniti anche in Love Quartet di cui abbiamo parlato qui), affiancati dal ginevrino Patrick Duvoisin e dal londinese Kid Batchelor. A pubblicare il disco invece è la Antima Records del gruppo Irma, tra le portavoci più credibili e rispettate di quella particolare fase creativa in cui gli italiani diedero grande segno di maturità espressiva. A ripubblicarlo, nel 2014, ci pensa la Flash Forward.

4) Omniverse – Venere
Rispetto a “Never Get Enough” dell’anno prima, con un’anima balearica, “Venere”, secondo (ed ultimo) disco che Ricky Montanari e Claudio “Moz-Art” Rispoli firmano Omniverse, vanta un istinto più dichiaratamente deep house seppur all’interno fioriscano piccoli accorgimenti tendenti ad atmosfere chillout. “Antares”, sul lato b, si immerge in una soluzione sonica altrettanto dolciastra dove uno stralcio vocale tratto da “For The Same Man” di B Beat Girls diventa un elemento decorativo e di raccordo tra due blocchi ritmici intervallati da un break centrale di stasi illuminata da luce diafana. Analogamente a Riviera Traxx, “Venere” viene pubblicato dalla sopramenzionata Antima Records e ristampato nel 2016 dalla Flash Forward che, rispettando i canoni estetici dell’originale, duplica pure l’artwork a firma Kekko Montefiori.

5) Michael Watford – Holdin’ On
È il disco di debutto per Michael Watford, una delle voci maschili più rappresentative della house degli anni Novanta. A produrlo, per l’Atlantic, è Roger Sanchez che qualche tempo dopo coinvolgerà lo stesso Watford, Jay Williams e Colonel Abrams nel progetto The Brotherhood Of Soul per “I’ll Be Right There”. “Holdin’ On” è un tripudio della garage newyorkese, house abbracciata fraternamente al soul e al gospel in quello che è diventato un inno anthemico nei circuiti più elitari. La carriera di Watford si anima grazie ad un sostanzioso repertorio di cui si evidenziano il fortunato “So Into You”, “Come Together” in coppia con Robert Owens ed “Understand Me” interpretata per gli italiani I-D (Ivan Iacobucci e Danny Vitale, di cui parliamo qui) ma pure un album, l’unico, uscito nel 1994 e considerato un must per i seguaci del genere.

6) Disciples Ov Gaia – The Key
Nato da una costola degli Psychick Warriors Ov Gaia, il progetto Disciples Ov Gaia, qui ulteriormente celato dietro l’acronimo D.O.G., debutta con un pezzo eccelso ma passato inosservato. Nella versione coi vocalizzi di una certa Mary.Lou, “The Key” appare come un distillato tra gli echi jazzy à la “Plastic Dreams” di Jaydee e il seducente lirismo di Jamie Principle. Molto simile la Lunar Dub mentre la Intention Mix muove verso ricalibrature technoidi tirandosi dietro hammer filo industriali. Artefici di tutto ciò sono Robbert Heynen e Tim Freeman mentre l’etichetta è la belga Zazaboem, sublabel della nota KK.

7) Don Carlos – ?
In assenza del titolo non è possibile identificare il disco in questione ma è plausibile ipotizzare che si tratti di “Alone”, brano con cui Carlo Troja, da Varese, riavvia la propria carriera discografica dopo la fugace e poco fortunata esperienza in ambito italo disco risalente al 1986. Come dettagliatamente raccontato qui con le testimonianze dello stesso autore, “Alone” è un paradisiaco ed estatico trip che rappresenta più che bene la scuola deep house italiana, con inflessioni ambient e qualche immancabile rimando al suono imperante del pianoforte, iconico per quello che alcuni giornalisti, specialmente anglosassoni, definirono sprezzantemente “spaghetti house”.

8) Jamie Principle – You’re All I’ve Waited 4
Principle è autore di uno dei brani più simbolici dell’house music, “Your Love”, giunto sul mercato nel 1986 sulla Persona Records ma passato alla storia grazie alla versione prodotta da Frankie Knuckles uscita solo nel 1987. Considerato uno dei pionieri della scena house chicagoana e coadiuvato da un altro pilastro della dance della città del vento, Steve “Silk” Hurley, Principle oltrepassa presto i confini patri sbarcando dall’altra parte dell’Atlantico con brani che finiscono nelle classifiche come “Baby Wants To Ride” preso in licenza dalla britannica FFRR. È proprio Hurley a produrre “You’re All I’ve Waited 4”, pezzo che anticipa l’uscita dell’album “The Midnite Hour” in cui peraltro è incluso, che arride ad un ascolto trasversale in virtù della song structure e per cui viene girato anche un video. Oltre ad una Dubstrumental dello stesso Hurley, sul 12″ edito dalla Smash Records (che in quel periodo pubblica un altro successo internazionale, “People Are Still Having Sex” di LaTour) finiscono pure i remix di E-Smoove e Maurice Joshua.

9) J.T. – Let Me Groove U
Il ventiduenne Jordan Tepper, nato nel quartiere di Forest Hills, a New York, molla gli studi universitari ad un anno dalla laurea per intraprendere la carriera musicale. Irresistibilmente attratto dall’hip hop, incide alcune demo che un amico di famiglia manda a Gary Baker, avvocato dell’Atlantic. È proprio Baker a consegnare quei nastri a Sylvia Rhone, CEO della EastWest Records America, sussidiaria della stessa Atlantic. Così parte la sua (breve) carriera con “Swing It”, per cui la casa discografica fa realizzare un videoclip. Segue “Let Me Groove U” traghettato nel mondo delle discoteche grazie al remix dei Masters At Work che ne ricavano un buon compromesso a metà strada tra garage house ed hip house. Sembra andare tutto per il verso giusto e Tepper, in questo articolo pubblicato dal New York Times il 28 luglio 1991, viene indicato come un possibile nuovo Vanilla Ice. Poco meno di un mese prima esce l’album “Kick The Funk”, rimasto però l’ultimo tassello di un’esperienza interrotta pare a causa di risultati deludenti. Le lusinghiere affermazioni su personalità e talento fatte su quel quotidiano statunitense acquistano allora un valore diverso e si trasformano in banali frasi di circostanza tipiche del marketing.

10) Mood Swing – Do It Right
Da non confondere col quasi omonimo duo Mood II Swing formato da John Ciafone e Lem Springsteen, Mood Swing è il progetto solista di Marco Rosales, inaugurato proprio attraverso “Do It Right”. La Layed Back è riccamente agghindata da virtuosismi jazzy, la Rhythm Mix è più essenziale e diretta, inchiodata su una sequenza di stab. Maggiormente trippy la Obscure Mix a cui segue, in chiusura, la spirituale Jazz Mix che fa il verso a “The New Age Of Faith” di The Prince Of Dance Music (Nu Groove Records, 1989). Rosales userà per l’ultima volta lo pseudonimo Mood Swing per l’intenso “Inspiration Point”, finito nel catalogo della Nervous Records nel 1992, la stessa che proprio quell’anno pubblica uno dei primi dischi che Ciafone e Springsteen firmano Mood II Swing. Chissà, magari esiste un nesso in ciò, analogo a quello che lega Masters At Work a Todd Terry.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Daniele Baldelli

Daniele Baldelli
Daniele Baldelli ed una minuscola parte della sua collezione di dischi

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo in assoluto non riesco proprio a ricordarmelo ma rammento che quando avevo undici anni, per vedere la tv, andavo al bar della stazione e lì ascoltavo classici della canzone nostrana come “Fatti Mandare Dalla Mamma A Prendere Il Latte” di Gianni Morandi, “Viva La Pappa Col Pomodoro” di Rita Pavone o “Tintarella Di Luna” di Mina che poi compravo e sentivo sul mio primo giradischi ovvero la fonovaligia della Lesa, la Defral DF-1. Successivamente emerse la mia esterofilia ed acquistai un 45 giri di Marie Laforêt che in televisione veniva presentata come “la cantante dagli occhi d’oro” (omonimo del suo primo album del 1964, nda). A seguire altri come “With A Girl Like You” dei Troggs, “A Whiter Shade Of Pale” dei Procol Harum, “Mr. Tambourine Man” di Bob Dylan e uno di Sandie Shaw detta “la cantante scalza”, ma anche “Bikini Beat” dei Pooh. Era musica che si ballava nelle festicciole private in casa, arrangiandosi con un mangiadischi. Nel ’68 impazzii letteralmente per “Hey Jude” dei Beatles: avevo un registratore della Sanyo e con quello registrai il brano su un intero lato della cassetta per almeno una decina di volte in modo da poterlo ascoltare senza sosta.

L’ultimo invece?
Sono diversi, tutti presi nel negozio veronese Le Disque circa due mesi fa: dal box set “Fragments” pubblicato dalla spagnola Hivern Discs di cui evidenzio “Waterfall” di Samo DJ in puro cosmic sound style, a “Love Is The Only Way”, l’EP di Bep Kororoti e Akin in cui la mia preferita è “Epomuyeñ” che sicuramente troverà posto in uno dei miei prossimi DJ set grazie ad una buona ritmica ed un cantato africano accompagnato da una tromba. Ho comprato pure “Oimachi EP” di Imre Kiss, col sequencer ossessivo ed un’atmosfera spaziale, ed un album del 2017 che mi ero lasciato sfuggire al momento dell’uscita, “Obakodomo” di Fantastic Twins in cui c’è il brano “Construire Un Igloo” incentrato su un bel gioco di marimba ed altre percussioni abbinate ad un flauto. Per finire “Fantasia” di Nuel alias Manuel Fogliata, fatto da sette tracce in cui si sente un po’ di funk, qualcosa di oscuro ed elettronico ed un pizzico di balearic, insomma, tutto adatto per il mio cosmic sound.

Quanti dischi hai in collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Calcolando quelli contenuti in un solo mobile e moltiplicandoli per il numero di librerie presenti nel mio seminterrato, dovrei rasentare o superare i settantamila. Pertanto, sempre in modo approssimativo, direi di aver speso circa un milione e quattrocentomila euro, ma probabilmente molto di più.

alcuni cassettoni
Alcuni cassettoni che Daniele Baldelli ha fatto realizzare appositamente da un falegname per sistemare i suoi dischi

Come è organizzata?
Quando comprai il mio primo PC mi feci preparare da un amico esperto un programmino per la catalogazione. Era necessario compilare parecchi campi per inserire ogni disco: autore, titolo, genere, etichetta, anno di pubblicazione, note e collocazione. Feci stampare subito anche delle etichette adesive dal numero uno al ventimila. Precedentemente avevo commissionato parecchi mobili su misura ad un falegname, molti dei quali muniti di ruote al fine di poterli spostare più facilmente. Altri invece sono a parete con cassettoni nella parte bassa e scansie aperte sino al soffitto. Se, per esempio, volessi cercare un disco di Bob James, me ne compaiono ben quindici dopo aver digitato il suo nome nel programma di cui parlavo. Vedo che quello intitolato “Foxie”, su Columbia, è del 1983 e contiene il brano “Calaban” (evidentemente quello che mi interessava di più). Nelle note trovo specificato che potrei suonarlo a 45 giri invece che a 33. La collocazione, infine, mi riporta B-22 / 11260 ovvero mobile B, cassetto n. 22 e disco etichettato col numero 11260. Quando cominciai a catalogare i miei dischi mi resi subito conto che l’impresa fosse decisamente ardua. Il primo giorno, dalle ore 21 alle 24, riuscii a catalogarne appena una ventina! Fui costretto pertanto ad ingaggiare una segretaria e col suo aiuto, in tre ore, riuscimmo a sistemarne oltre duecento, ma non ho ancora finito…

Presumo che con una mole tale di dischi avrai pure svariatissimi flight case.
Già nel 1983, seppur fossi resident al Cosmic, cominciai ad avere richieste da altri locali ed ogni volta, prima di partire per raggiungere i nuovi club, avveniva il rito della preparazione dei dischi da portare. Per trasportarli usavo casse di legno autocostruite, dipinte di nero e ricoperte di adesivi, oppure uno dei cassettoni che prelevavo direttamente dai miei mobili a cui facevo cenno qualche riga fa. Per fare una serata sarebbero certamente bastati un centinaio di dischi ma puntualmente scattava la paranoia: questo sì, questo no, questo magari può servirmi, quest’altro non lo suono di sicuro ma meglio portarlo… Insomma, per farla breve, mi ritrovavo con due o tre casse di dischi da sollevare di peso e portare fino alla consolle. Poi una volta, in occasione di una serata, vidi arrivare il collega Claudio Stella con un bel baule nero provvisto di rotelline. Wow! Gli chiesi subito dove l’avesse preso e mi rispose che un suo amico aveva una piccola azienda in cui ne producevano di ogni tipo e genere. Così mi feci accompagnare a Rosà, in provincia di Vicenza, dove c’era la sede di quell’azienda, l’Amabilia, tuttora in attività. Commissionai subito due flight case su misura per i miei giradischi Technics SP-15 ed uno per il mixer Teac Model 3, oltre ovviamente ad alcune valigette per i dischi. Da lì cominciarono la produzione in larga scala rifornendo negozi specializzati come il Disco Inn di Modena e il Disco Più di Rimini dove, nel corso degli anni, ne ho acquistati davvero tanti, di tutte le misure, materiali e colori.

Baldelli flight case
Baldelli e i suoi numerosi flight case

Segui particolari procedure per la conservazione?
Più del 50% dei miei dischi è protetto da buste di plastica. Giorno per giorno provvedo ad imbustare quelli a cui mancano, acquistando di tanto in tanto mille/duemila buste trasparenti. Quando scopro che qualcuno mostra segni di umidità lo lavo a mano con un batuffolo di cotone ed acqua distillata. Con un movimento circolare seguo i solchi e poi li asciugo con un panno morbido, sempre in modo circolare. Il risultato è perfetto.

Oltre ai 12″/LP conservi anche 7″, acetati o flexi-disc?
Ho parecchi 7″ ma non catalogati, dovrebbero essere circa duemila. Se ne prendo alcuni a caso da una cassetta di legno autocostruita che ritengo il mio primo flight case escono “I Didn’t Know I Loved You (Till I Saw You Rock And Roll)” di Gary Glitter, del 1972, “Dikalo” di Manu Dibango, del 1974 sulla Philips italiana (che qualcuno vende a ben 70 € su Discogs!), “Street Fighting Man” dei Rolling Stones, del 1971 sulla Decca tedesca, e “Follow The Wind” dei Midnight Movers Unlimited, 1972. Gli ultimi due hanno sulla copertina una piccola etichetta blu con su scritto Radio Columbia – Lugano: qualche volta il proprietario del Tabù Club di Cattolica mi portava con la sua Porsche verde in Svizzera per comprare dischi che da noi non si trovavano. Su un altro invece c’è scritto Importation, con una bandiera americana ed una britannica e sotto, impresso con un timbro, il titolo e il nome dell’autore, “Here For The Party” dei Bottom & Company. All’interno c’è appunto il 45 giri della Motown, del ’75, e sul retro della copertina si legge testualmente: Lido Musique – Paris, Avenue Des Champs Elysees 68. Era uno dei primi record store ad importare dischi dagli States personalizzandoli con le proprie copertine.

i 45 giri
Una panoramica sui 7″ di Baldelli, descritti nella precedente risposta

Ti hanno mai rubato un disco?
Sì, credo fosse il 1974 quando mi trovavo al citato Tabù Club. Durante l’inverno il locale era aperto sabato sera, domenica pomeriggio e domenica sera quindi lasciavo i miei dischi lì. Qualcuno entrò dopo la chiusura portandosi via due giradischi Lenco, un microfono ed una decina di faretti, ma pure tutti i miei dischi. Tra 33 e 45 giri saranno stati almeno trecento. Super avvilito, terrorizzato ma anche incazzato, non sapevo davvero cosa fare. Mi si avvicinò un tizio che ovviamente faceva parte della banda e fingendosi un mediatore mi fece riavere tutto pagando un riscatto di cinquecentomila lire. Un’altra volta invece avvenne al Fura di Desenzano del Garda, tra 1997 e 1998: a tarda notte, finita la serata, trovai il finestrino rotto del mio Ford Transit in cui avevo lasciato una valigia piena di dischi che non c’era più. Purtroppo non li ho mai ritrovati. Ho cercato, con non poca fatica, di ricordare i titoli uno per uno e molti li ho pazientemente ricomprati. Una decina di anni più tardi, durante un serata, un fan si avvicinò chiedendomi di autografargli l’album del Cosmic del 1984 pubblicato da Il Discotto (registrato e mixato presso il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian ed arrangiato da Maurizio ‘Sangy’ Sangineto dei Firefly, intervistati rispettivamente qui e qui, nda). Con stupore mi accorsi che fosse una copia che usavo io, riconoscendola dai segni che facevo con una biro sull’etichetta e da alcuni piccoli adesivi arancioni che attaccavo sulla copertina per individuare più velocemente i titoli. A quel punto gli feci notare che quello fosse un mio disco che mi avevano rubato anni prima e lui si mostrò subito disposto a restituirmelo. Io invece lo autografai dicendogli di custodirlo bene perché valeva di più. Quel ragazzo non aveva alcuna colpa avendolo comprato ad un mercatino dell’usato.

C’è un disco a cui tieni di più?
Non posso rispondere a questa domanda, farei un torto almeno ad altri duemila dischi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Dovrei avere una ventina di dischi sui quali ho attaccato un’etichetta con su scritto “merda”. Probabilmente li comprai per sbaglio: mentre ascoltavo i nuovi arrivi in negozio devo averli erroneamente messi tra quelli scelti e non tra quelli scartati.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Non so mai quello che cerco: quando mi imbatto in un disco mai visto e sentito prima decido se sia da avere o meno.

le copertine più belle
Baldelli mostra alcuni dei dischi con copertine che annovera tra le più intriganti

Quello con la copertina più bella?
Anche in questo caso è impossibile limitarmi a citarne solo uno. Trovo stupenda quella apribile di “Happy Children” degli Osibisa, e che dire di quelle sofisticate degli Ohio Players e di quelle metafisiche dei Passport? Mi viene in mente anche quella di “Sticky Fingers” dei Rolling Stones (realizzata da Andy Warhol, nda) con una chiusura lampo vera attaccata alla foto dei jeans, e non posso non menzionare quelle dei Weather Report, quelle minimaliste della ECM e quella di “In Search Of The Lost Chord” dei Moody Blues. Poi quelle in stile cartoons tipo “On The Corner” di Miles Davis o “Cheap Thrills” di Big Brother & The Holding Company. Mi piaceva tanto pure quella di “Heads Or Tails” degli HOT R.S. perché figurava la modella Veruschka, quella di “In The Court Of The Crimson King” dei King Crimson e “Deep Purple” dei Deep Purple che nel ’69 mi fece scoprire l’arte del pittore olandese Hieronymus Bosch. Infine, senza falsa modestia, vorrei spendere qualche parola anche sulle sei copertine del mio progetto “Cosmic Temple” edito da Mondo Groove nel 2017, che unite creano un’immagine inedita del marchio Cosmic. L’ispirazione è mia mentre a realizzarla è stato Aldo Drudi, grafico e designer di Valentino Rossi.

le copertine del progetto Cosmic Temple
Il mosaico creato con le copertine di “Cosmic Temple”, edito nel 2017 da Mondo Groove

Qual è il primo disco che ti torna in mente pensando alla Baia Degli Angeli?
La prima volta che entrai lì dentro fui subito fulminato dal brano che Bob Day e Tom Sison stavano suonando in quel momento, “Ask Me” della Love Childs Afro Cuban Blues Band seguito da “Once You Get Started”, inciso in sequenza sullo stesso disco, l’LP “Out Among ‘Em”. Poco tempo dopo rimasi ammaliato pure da “Hit And Run” di Loleatta Holloway di cui conservo la copia che mi fu regalata ed autografata proprio da Bob e Tom.

Se ripensi al Cosmic invece?
Il Cosmic aprì nel 1979 e lì portai con me tutte le influenze disco, funk e philly della Baia Degli Angeli. Poi, nel 1980, si aprì un nuovo panorama musicale con tanti pezzi di provenienze diverse. Potrei citarne svariati come “Ultradeterminanten” dei Kowalski, un brano a 101 BPM che usavo per iniziare, “Time Actor” di Richard Wahnfried, diventato ormai un must per ogni serata remember, e “Rocks, Pebbles And Sand” di Stanley Clarke, che non ha smesso ancora di emozionarmi. Tra gli altri cavalli di battaglia invece, “Underwater” di Harry Thumann, da suonare rigorosamente a 33 giri anziché 45, “Plastic Bamboo” di Ryuichi Sakamoto e “Screaming Jets” di Johnny Warman a 45 giri.

C’è un pezzo con cui hai svuotato la pista?
È capitato che qualche brano, magari troppo particolare, strano o incomprensibile ai più, provocasse smarrimento, ma anziché desistere mi impuntavo cercando di riproporlo il più possibile per farlo entrare nella testa del mio pubblico. “Big Man Restless” dei Kissing The Pink, ad esempio, mi è sempre piaciuto ma le prime volte che lo programmai nei miei set non venne gradito molto. Insistendo però è andato tutto a buon fine.

Baldelli con altri dischi della collezione
Baldelli insieme ai suoi dischi ordinatamente riposti

Quale invece quello che hai scartato al momento dell’uscita e che hai rivalutato nel corso degli anni?
Non saprei indicarlo ma mi capita frequentemente di scoprire, su dischi comprati magari quarant’anni fa, tracce mai suonate che propongo oggi rendendomi conto, con grande soddisfazione, di quanto certa musica possa essere attuale anche a distanza di decenni.

Hai messo piede in centinaia (o forse migliaia) di negozi di dischi: quali sono quelli che preferivi frequentare?
Effettivamente di negozi ne ho visitati davvero parecchi. Non potendo elencarli tutti, cito alcuni che per me sono stati fondamentali come Da Angelo, a Cattolica, attivo nei primi anni Settanta. Vendeva televisori, lavatrici, lampadine e piccoli elettrodomestici ma aveva un angolo dedicato in prevalenza ai 45 giri; poi la Dimar di Rimini, un negozio multipiano dove compravo tutti i possibili LP immaginabili, dal pop al jazz, dal rock al funk passando per musica classica, discomusic, folk, Crosby, Stills, Nash & Young e tutti i dischi della Arion e della Lyrichord. Sempre alla Dimar presi tutti gli album degli Oregon e di Ravi Shankar. Per anni il mio punto di riferimento principale è stato anche Disco Più, sempre a Rimini, fondato da Gianni Zuffa e nato dalle ceneri del New Rels di Mario Boncaldo. Menzione finale per Le Disque, a Verona (di cui parliamo dettagliatamente in Decadance Extra con l’aiuto del proprietario, Paolo Tescaroli, nda), aperto dal 1988 e che frequento in prevalenza tuttora.

Baldelli con Sequential Circuits Prophet 2000
Una vecchia foto in cui Baldelli è intento a suonare il suo Sequential Circuits Prophet 2000 durante una serata

In questa intervista di Giacomo Stefanini pubblicata da Vice il 13 settembre 2018, dichiari di usare ormai solo il CD in consolle, seppur non possa sottrarti al fascino del vinile, supporto che continui a comprare e ad utilizzare come artista ma non ad idolatrare, e a tal proposito una tua dichiarazione di qualche anno fa sbeffeggia sonoramente la totemizzazione del disco in tempi moderni. Ad onor del vero però, già in una breve intervista realizzata da Fred.j., pubblicata sulla rivista Jocks Mag a giugno 2000, non facesti mistero di continuare a comprare dischi ma non a suonarli. «Una buona soluzione è masterizzarli su CD per farli vivere in “eterno”» dicevi, aggiungendo che «in questa maniera è possibile personalizzarli cambiando la loro struttura, allungando le parti musicali migliori. La tecnologia è utilissima anche per potenziare la qualità del suono di alcune vecchie incisioni e per togliere scricchiolii e rumori molesti». La digitalizzazione del formato è stata parecchio demonizzata nell’ultimo decennio: secondo un’idea assai diffusa, il CD (prima) e i file (poi) sono state le cause primarie della banalizzazione del DJing. Sino a pochi decenni fa il digitale però godeva di tutt’altra nomea, basti pensare a chi si portava dietro un campionatore per colorire la propria performance ed uscire dallo steccato del tradizionale beatmatching suscitando l’approvazione del pubblico ma pure l’ammirazione dei colleghi. Forse sono pochi quelli che oggi riescono ad utilizzare con creatività la tecnologia digitale? Ho impressione che delle infinite potenzialità ottenibili dai moderni strumenti dedicati ai disc jockey, spesso venga utilizzata solo una minuscola percentuale e tanti(ssimi) DJ paiono arenati nelle banalità trite e ritrite, cristallizzati in una dimensione molto vicina a quella del jukebox umano. Cosa pensi in merito?
Quel video a cui fai riferimento purtroppo è stato usato dai miei detrattori tagliando la parte finale, e ai tempi seguirono massacranti commenti negativi sul mio conto, ovviamente caldeggiati dai soliti idioti. In un secondo momento però in tanti sono intervenuti in mia difesa. Compro dischi da cinquant’anni, sono circondato, anzi sommerso, da dischi, respiro vinile ogni giorno nel mio studio e nonostante tutto devo sopportare le critiche di chi si erge ad estremo giudice pur avendo cominciato a fare il DJ ieri, dopo avermi “shazammato” per lungo tempo ed aver comprato appena una cinquantina di mix. Ormai il concetto dovrebbe essere chiaro: se la musica che suoni è scadente, resta tale a prescindere dalla sorgente, che sia un CD, una chiavetta USB o un disco. Io non rinuncio al vinile, continuo a comprarlo e a collezionarlo ma, come dicevo già in quell’intervista del 2000 da te citata, preferisco usare il CD per salvaguardare i dischi, perché è più comodo da trasportare e pure per proporre le mie tracce ancora inedite e tutti i miei re-edit personali che non verranno mai commercializzati. Riguardo l’uso della tecnologia, io vivevo nel mio mondo e non so cosa facessero gli altri. Già al Cosmic usavo una batteria elettronica Korg KR55 per generare ritmi su cui mixare dischi, abbinata ad una tastiera Yamaha CS-10 per ricavare effetti “cosmici” in presa diretta. Dal 1989 circa e per tutti gli anni Novanta, in ogni locale in cui andavo mi esibivo principalmente su un palco anziché in consolle. Nel mio Ford Transit caricavo tre reggitastiere: una serviva al mixer, sulle rimanenti mettevo invece due lastre di marmo per creare il piano su cui posizionare due giradischi Technics SP-15 con braccio SME. Mi portavo dietro anche una tastiera Yamaha DX7, due drum machine Roland, TR-909 e TR-727, un campionatore a tastiera Sequential Circuits Prophet 2000, uno in rack ed un Akai S900 (e per creare una sorta di megamix live ero costretto a caricare almeno quattro floppy disk!). A completamento due casse spia ed un amplificatore per pilotarle che pesava ben trenta chili. Oggi ho abbandonato del tutto questo modo di fare. In commercio ci sono numerose macchine che facilitano di gran lunga ciò che io realizzavo ai tempi disponendo di appena venti o trenta secondi di campionamento. Non saprei che risultati possano dare strumenti di allora usati con la musica di oggi. Preferisco lavorare coi brani perché ritengo che la vera alchimia adesso la si possa creare usando tracce suonate, trovando il missaggio giusto tra un brano e l’altro, o quando un pezzo rock s’interseca alla perfezione in uno funky. L’emozione nasce nel momento in cui le percussioni tribali di una traccia etnica viaggiano senza problemi su una elettronica sperimentale e quando la voce di una canzone pare rispondere a quella della successiva.

Baldelli al Cosmic (198x)
Baldelli alla consolle del Cosmic nei primi anni Ottanta

I DJ sono indubbiamente cambiati ma probabilmente anche il pubblico: a tuo avviso, corrono sostanziali differenze tra un clubber del 2020 ed uno degli anni Ottanta o Novanta?
Guardando qualche vecchia foto ho notato come al Cosmic, negli anni Ottanta, la gente fosse letteralmente ammassata davanti alla consolle. Erano tutti giovanissimi, dai diciotto ai venti/venticinque anni d’età. Questi ragazzi ascoltavano Mike Oldfield, Al Di Meola, Jorge Ben, Klaus Schulze, Gilberto Gil, James Brown, Ryuichi Sakamoto, Phil Manzanera, Fela Kuti…musica vera fatta da musicisti veri ed elargita da DJ veri (ride, nda). Oggi invece i ragazzi di quell’età ascoltano prevalentemente una cassa dritta con effetti e rumori, brani che durano una decina di minuti ma tutti uguali dall’inizio alla fine, privi di melodia, senza chitarra, sax, violini, assoli ed un minimo scampolo di tema. Che tipo di cultura viene loro inculcata da un certo tipo di DJ? Fortunatamente qualcuno esce dal branco per aiutare i giovanissimi ad avvicinarsi a ben altre proposte.

Sul fronte discografico, tranne qualche eccezione tipo il già citato “Cosmic LP” del 1984 e “Somebody” dei Video del 1983 per cui svolgesti ruolo di consulente musicale come raccontiamo qui, hai iniziato a produrre nei primi anni Novanta (e a tal proposito mi torna in mente “Tatana’” di Sambo, su Irma, insieme a Danny Losito e Claudio Rispoli, e “Notre Dame” di B.D.J. & Warriors 6.1.0., su Paradise Project Records, realizzato con gli FPI Project) ma usando il tuo nome come artista solo a partire dal 1996 col “Totem EP” sulla Tomahawk del gruppo American Records a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Come mai attendesti così tanto prima di dedicarti alla produzione discografica?
Agli inizi non pensavo affatto alle produzioni, mi ero cimentato ma con scarsi risultati quindi abbandonai l’idea per un po’. Pur di spacciarsi per produttori, in tanti incidevano bootleg prendendo qualche pezzo ricercato e ristampandolo ma senza chiedere autorizzazioni e licenze. Io non volevo rischiare di trovarmi nei guai ma soprattutto volevo essere corretto. Tuttavia realizzai una sorta di bootleg “isolando” circa trenta secondi di un disco francese vagamente jazz, improponibile per la pista. Registrai quella sezione, tratta dalla parte centrale del brano e completamente diversa dal resto della composizione, per una decina di volte su un nastro col Revox e poi, armato di lametta e nastro adesivo, feci un editing. Divenne un brano di quattro minuti che, per la somiglianza, spacciai per il nuovo degli Ozo, quelli di “Anambra”, un pezzo molto gettonato al Cosmic.

A partire dagli anni Duemila hai consolidato sensibilmente la tua posizione da produttore saldando solide collaborazioni con Marco Dionigi, Dario Piana e DJ Rocca (intervistati rispettivamente qui, qui e qui). Come è organizzato il vostro lavoro in studio? Seguite un preciso modus operandi?
Incontrai per la prima volta Dionigi nel 1991. Era un patito del mio sound e conosceva quasi tutte le mie cassette del Cosmic. Per molti anni ci siamo visti a casa sua puntualmente il lunedì ed ogni volta gli portavo uno dei miei cassettoni di dischi, passando tutta la giornata ad ascoltarli e a campionare quello che ci sembrava interessante. In tal maniera accumulammo un sacco di idee: a volte le usavamo per creare pezzi inediti, altre invece per re-edit destinati alle nostre serate. Di questi ultimi arrivammo a farne quasi centocinquanta! Una volta suonai in Belgio e Dirk De Ruyck, ai tempi A&R della Eskimo Recordings, mi raggiunse svariate volte in consolle per chiedermi che pezzo stessi suonando ed io gli rispondevo puntualmente che fosse un re-edit fatto da me e Marco. Il suo entusiasmo a quel punto fu tale da istigare la nascita del progetto “Cosmic Disco ?! Nah… Cosmic Rock!!!”, una raccolta di diciotto tracce in CD di cui sei riversate su due vinili. Quando decidiamo di fare un brano partiamo sempre da qualcosa che abbiamo sentito, un disco appena uscito o un ritrovamento di trent’anni fa. Ricerchiamo lo stesso mood, i suoni e magari imitiamo qualche campione. Poi abbozziamo una melodia e sperimentiamo echi, flanger o vari plugin. Tante volte cancelliamo tutto perché non soddisfatti del risultato ma in altre occasioni invece scatta la vena creativa ed arriviamo a chiudere il pezzo, anche con radicali modifiche rispetto alla matrice di partenza. Ciò ci fa enormemente piacere perché vuol dire che siamo riusciti a fare qualcosa di veramente nostro. Anche con Dario Piana e DJ Rocca il procedimento è lo stesso, con la differenza che di solito ci sentiamo via web con una video telefonata. Mi mandano un abbozzo della traccia, la ascolto e magari consiglio di cambiare il basso o suggerisco un sequencer, un arpeggio o di migliorare la melodia. Andiamo avanti finché siamo entrambi soddisfatti. Qualora ritenessi utile l’intervento di un musicista invece, mi rivolgo ad un bassista, un sassofonista, un chitarrista o, perché no, ad un tastierista.

Conservi almeno una copia di ognuno dei dischi che hai inciso nel corso degli anni?
Certo, li ho tutti anche in doppia copia.

Tanti tuoi colleghi della vecchia guardia hanno ridotto drasticamente o abbandonato del tutto la produzione discografica, ormai non più economicamente vantaggiosa, preferendo dedicarsi alla (ben più remunerativa) attività delle performance. Cosa alimenta invece la tua mai sopita passione per la composizione?
Mi piace, mi appassiona e mi diverte. Nient’altro.

Baldelli nella sala 2
Baldelli in una delle sale del seminterrato in cui è custodita la sua collezione di dischi

Stai lavorando a qualche nuovo brano al momento?
Recentemente è uscito “Oil Painting”, un album realizzato insieme a Marco Fratty per la londinese Leng. Con Dionigi invece ho remixato “La Vita Nuova” di Christine And The Queens. A breve uscirà un EP per una performer australiana chiamata Gaff-E realizzato con Mattia Dallara del Deposito Zero Studios di Forlì. In cantiere ci sono sempre pezzi con DJ Rocca, Dario Piana, Marco Dionigi, Marco Fratty e coi musicisti con cui realizzo i nuovi progetti come Daniele Baldelli.

Dove e come immagini la tua collezione di dischi tra qualche decennio?
Spero sia in buone mani e che mio figlio ne possa usufruire dal punto di vista culturale o economico.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

Weather Report - SweetnighterWeather Report – Sweetnighter
Un album che reputo importante perché mi ha aperto nuovi orizzonti e svelato un modo diverso di recepire la musica. Era il 1973, frequentavo il liceo scientifico e quel giorno decisi di “bigiare” la scuola per paura di un’interrogazione. Passai tutta la mattinata a casa di un amico che mi aveva lasciato le chiavi e nella penombra della stanza, seduto sul divano, ascoltai “Sweetnighter” per quattro volte di seguito. Fu un viaggio indescrivibile.

Smokey Robinson - Big TimeSmokey Robinson – Big Time
Fondatore del gruppo dei Miracles, Robinson realizza questo album come colonna sonora del film “Big Time” uscito nel ’77 e la cui realizzazione fu resa possibile dal budget stanziato dalla Motown che poi, ovviamente, pubblicò anche il disco. Il brano di apertura, “Theme From Big Time”, lungo poco più di otto minuti e che mettevo spesso facendolo partire dal break, mi ha colpito per le sue sonorità e il groove. Suonatissimo alla Baia Degli Angeli e al Cosmic, lo ripropongo ancora oggi nei miei DJ set.

Eberhard Weber Colours - Silent FeetEberhard Weber Colours – Silent Feet
Qui siamo su un altro pianeta, del resto con la ECM Records non potrebbe essere altrimenti. Eberhard Weber al basso, Rainer Brüninghaus al piano e Charlie Mariano al flauto e al sax soprano creano una grande atmosfera. Nel 1981 preparai due cassette da novanta minuti ciascuna da ascoltare in macchina, chiamandole “Cosmic Flying Trip”, volume 1 e 2. Erano fatte entrambe con brani d’ascolto, privi di veri mix ma dissolvenze o al massimo sovrapposizioni o particolari accostamenti. Tra i tanti brani racchiusi lì dentro c’era anche “Silent Feet”.

Kevin Harrison - Ink Man - Views Of The RhineKevin Harrison – Ink Man / Views Of The Rhine
Correva il 1982, pieno periodo Cosmic. Del 12″ electro pop in questione ho usato sia “Ink Man” che “Views Of The Rhine”, quest’ultima specialmente per la sua atmosfera spaziale. “Ink Man” invece appartiene all’infinita lista di re-edit fatti con Marco Dionigi e poi confluiti nel progetto su Eskimo Recordings di cui ho parlato prima. In occasione di una mia serata a Londra ebbi l’opportunità di incontrare personalmente Kevin Harrison e sembrò potesse persino nascere una collaborazione, purtroppo mai concretizzata.

Slave - The ConceptSlave – The Concept
Quando, nel ’78, comprai questo LP degli Slave, ad attirarmi più di tutte fu la prima traccia del lato A, “Stellar Fungk”. In un secondo momento acquistai il 12″ contenente la stessa traccia di otto minuti solcata su entrambi i lati. Groove, funk tagliente, spaziale e travolgente, forse non particolarmente apprezzato dai miei fan di allora ma per me super. Credo sia proprio il caso di farne un remix.

Fluke - Electric GuitarFluke – Electric Guitar
Avrei potuto scegliere altre cento tra tutte le produzioni elettroniche/trance degli anni Novanta, ma per spiegare meglio la mia tendenza ad una ricerca particolare del sound ho optato per questo dei Fluke. Il brano originale va ascoltato a 45 giri e gira a 123 BPM ma non incontra esattamente il mio gusto personale. Se però riduco la velocità a 33 giri e lo aumento col pitch sino a +9,9 (il massimo sul mio giradischi Technics SP-15) il risultato diventa stupendo. “Electric Guitar” si trasforma in un brano a 108 BPM con un suono che si dilata e si espande, riuscendo a far captare sfumature che non si scorgono alla sua velocità originale. Ai tempi dell’uscita del disco, nel 1993, lo mixavo con un pezzo di Alan Parson, e così anche i Fluke divennero “cosmici”.

Passport - Infinity MachinePassport – Infinity Machine
“Infinity Machine” è stato il primo album dei Passport che ho acquistato, nel 1976. Dopo averlo ascoltato non ho potuto fare a meno di ricercare tutti quelli precedenti, usciti sin dal 1971, nonché continuare a comprare i seguenti sino ai giorni nostri. L’imprinting resta ancorato al pezzo di apertura, “Ju-Ju-Man”, ma ogni album di questa formazione fusion/jazz rock fondata da Klaus Doldinger contiene ben più di qualche chicca.

Various - The American Music CompilationVarious – The American Music Compilation
Trattasi di una compilation del 1982 su etichetta Eurock in cui trovai “Alternative Music For The Hindenberg Lounge” di Richard Bone, una traccia aggressiva ed oscura diventata famosa al Cosmic perché la sovrapponevo a “Foreign Affair” di Mike Oldfield. Remixai pure questa, insieme a Dionigi, per il progetto su Eskimo Recordings del 2008. Con grande sorpresa ai tempi ricevetti una email da Richard Bone che, entusiasta del lavoro svolto, ci diede il permesso di remixare tutti i brani del suo repertorio che volevamo. Così, nel 2011, fu la volta di “Adaptors: The Music Of Richard Bone”, su Quantistic Division, un album inciso su CD con tredici delle sue tracce remixate da me e Marco.

Needa - Come On And RockNeeda – Come On And Rock
Un disco del 1979 che propongo ancora oggi. Forse non suona molto bene perché risulta un po’ impastato e grezzo ma è proprio questo a creare una particolare atmosfera. Mi spiace non averlo in doppia copia ma probabilmente ai tempi ne arrivarono poche da Disco Più. Al momento su Discogs la versione col centrino arancione è in vendita a prezzi esorbitanti: dai duecento ai circa novecento euro.

Frankie Knuckles - Your LoveFrankie Knuckles – Your Love
Non mi posso certamente annoverare tra i DJ house non essendo stato partecipe appieno di quella scena. Tuttavia non sono proprio riuscito a sfuggire e a resistere all’intensità lirica di questo immortale brano dell’indimenticato Knuckles.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Gino Woody Bianchi

Woody 1

Parte della collezione di dischi di Gino Woody Bianchi: in mano regge “Get On The Good Foot”, album di James Brown del 1972

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Alla fine degli anni Sessanta andava di moda il cosiddetto mangiadischi per cui casa mia, come del resto tante altre, era letteralmente invasa da dischi. Il mio primo vero disco comunque, un 7″ che allora si chiamava gergalmente 45 giri, è stato “Sex Machine” di James Brown. Lo comprai nel 1970 dopo averlo ascoltato in una delle prime puntate di Alto Gradimento, un programma radiofonico di grande successo con Renzo Arbore e Gianni Boncompagni.

L’ultimo invece?
Pochissimi giorni fa mi è arrivato il 12″ promozionale del remix di “I Thought It Was You” di Herbie Hancock. Inoltre ho appena acquistato un rarissimo 7″ pubblicato dalla Sugar Hill Records nel 1981, “Stronger Than Before” di Just Friends che sul lato b annovera il pezzo disco boogie “Mutsie”.

Quanti dischi ci sono nella tua collezione?
Non li ho mai contati ma credo realistica una stima tra i ventimila e i venticinquemila. Faccio il disc jockey da quarantacinque anni ed ho sempre comprato dischi. Posseggo inoltre dai quattromila ai cinquemila CD, supporto che amo in particolar modo per le edizioni rimasterizzate, quelle con tracce extra, con versioni inedite o con informazioni e testi nei booklet. Ho reinvestito gran parte del denaro guadagnato facendo il DJ proprio nell’acquisto di musica. Ho comprato dischi ovunque, anche all’estero ovviamente, affrontando molteplici viaggi. Senza accorgermene ho costruito una bella collezione. Non so quanto abbia speso per essa e francamente non ci voglio neanche pensare perché mi spaventerei, ma non nutro assolutamente alcun rimpianto.

Woody 2

Bianchi e una piccola parte della sua collezione. Dall’omogeneità cromatica delle costole delle copertine si evince l’ordine scrupoloso con cui il DJ romano ha sistemato i suoi dischi

Come è organizzata?
Sono una persona ordinata sia mentalmente che praticamente quindi ho suddiviso i 12″ per etichette, generi ed anno a seconda delle esigenze. Quelli con copertine uguali delle label ad esempio, tipo Salsoul, Prelude, West End, Columbia, Epic, AVI, Casablanca, TK etc, sono tutti allocati in alcuni scaffali mentre la house music la ho incasellata per annate. Gli album invece sono divisi per generi: disco, funk, soul, r&b, jazz, latin, soundtracks, elettronica e rock. I War, James Brown, Roy Ayers, B.T. Express e Charles Earland, di cui ho quasi tutta la discografia, si trovano nello stesso scompartimento. Insomma, ho seguito una logica personale che facilita la ricerca.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Nella mia collezione “accetto” solo dischi in ottime condizioni. Ogni tanto pulisco alcuni con un liquido tedesco per togliere le ditate. Utilizzo inoltre le foderine in plastica per salvaguardare le copertine. Laddove il disco sia troppo usurato invece lo riacquisto.

Ti hanno mai rubato un disco?
Nel 1994, dopo aver completato il set in occasione del live degli Incognito, mi recai in un altro locale lasciando incautamente una borsa con circa trenta/quaranta dischi nel portabagagli della mia auto. Al ritorno purtroppo quella borsa non c’era più. Persi cose abbastanza rare che nel corso del tempo ho fortunatamente ritrovato, forse tre/quattro dovrei ancora ricomprarle ma comunque non sono titoli fondamentali. Ad alcuni amici invece ho prestato qualche disco che non mi è stato più restituito ma va bene ugualmente, il piacere della musica va condiviso e a volte regalato.

Qual è il disco a cui tieni di più?
È difficile rispondere. Tengo tantissimo ad ogni disco che posseggo perché rappresenta un suo momento e una sua storia. Uno di quelli che mi emoziona sempre quando lo riascolto è “Universal Love” degli MFSB ma provo sensazioni analoghe anche col capolavoro di Stevie Wonder, “Songs In The Key Of Life”, con “Shaft” di Isaac Hayes o con “Gratitude” degli Earth, Wind & Fire. Insomma, non saprei proprio indicarne solo uno. Ad ogni disco sono legati aneddoti, attimi, ricordi, emozioni…una vita intera.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Sono diversi i dischi acquistati erroneamente nella mia carriera da disc jockey, magari importanti solo per la gestione di una serata (si pensi, ad esempio, ai successi del momento). Qualche esempio? “Live Is Life” degli Opus o “Yes Sir, I Can Boogie” delle Baccara. Grazie ad essi però ho riempito i dancefloor e questo non lo nascondo, quindi alla fine sono stati comunque acquisti utili. Un disco “serio” che ha deluso le mie aspettative invece è stato “Electric Universe” degli Earth, Wind & Fire, uscito nel 1983.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Sono davvero tanti i dischi della mia wantlist, non riesco mai a saziare del tutto l’ego del desiderio. Uno di questi è “Le Roc “Move Your Body”” di Le Cop, un 12″ del 1979 molto ricercato che rincorro ormai da anni. Purtroppo è difficile trovarlo in buone condizioni e soprattutto ad un prezzo abbordabile (nel 2016 una copia è stata venduta su Discogs per poco meno di 1500 €, nda). Un altro invece è “Introducing – The Brief Encounter” dei Brief Encounter, un LP del 1977 venduto a prezzi impossibili e fuori da ogni logica, ma la lista che potrei stilare è davvero infinita.

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“A Tribute To Muhammad Ali (We Crown The King)” di Le Stim (Nacnudah International Records, 1980) è il disco per cui Bianchi, ad oggi, ha speso la cifra più alta

Quello per cui hai speso la somma più alta?
Non ritengo giusto investire somme esagerate. Sono riuscito ad accaparrarmi molti dischi che hanno acquisito valore ed importanza nella mia lunga ricerca in giro per il mondo attraverso mercatini, negozietti e fiere, ma devo ammettere che a volte il desiderio ha superato il buon senso e quindi sono cascato nella rete dei prezzi importanti. In merito a ciò cito “A Tribute To Muhammad Ali (We Crown The King)” di Le Stim, un 12″ del 1980 ristampato recentemente dalla Melodies International per cui ho speso circa seicento dollari. Il disco e la copertina erano in buone condizioni e credo di essere uno dei pochi possessori al mondo di questo cimelio.

Quello con la copertina più bella?
Una delle copertine che ho sempre ammirato è quella di “Slave To The Rhythm” di Grace Jones, realizzata dal francese Jean-Paul Goude, ma mentirei se non citassi pure quella di “Aladdin Sane” di David Bowie, a firma Brian Duffy e Celia Philo, e quella di “I Want You” di Marvin Gaye, illustrata da Ernie Barnes ricordato per altre splendide cover di Donald Byrd, Rose Royce, Curtis Mayfield e The Crusaders.

Come e cosa ricordi dei primi negozi di dischi che hai iniziato a frequentare?
Nel periodo adolescenziale sono stato l’incubo di molti negozietti. Erano gli anni in cui venivano pubblicati tantissimi 7″ che però non potevo acquistare visto il budget limitato della mia paghetta settimanale, per cui trascorrevo interi pomeriggi ad ascoltare le nuove uscite col fine di essere informato. A volte cercavo di convincere mia madre a sovvenzionare qualche acquisto extra. In particolare ricordo un mega negozio a Roma che si chiamava Consorti, nei pressi del Vaticano, non molto distante da casa mia. Almeno un paio di volte alla settimana prendevo la bici ed andavo lì ad ascoltare e comprare due/tre dischi tra le novità. Correva il 1973 e non avevo nemmeno dodici anni. Un altro negozio che frequentavo era La Cicala, a circa un chilometro da casa. La figlia del proprietario era compagna di scuola di mia sorella. Lì dentro ho trascorso davvero tanto tempo ed ho comprato un mucchio di dischi come i primi album della Love Unlimited Orchestra e le novità della serie Soul Explosion affiliata alla RCA. Nel ’76 a Roma aprì i battenti il primo negozio di dischi d’importazione, Sam Goody poi trasformato in Goody Music, che cambiò la mia visione nello scegliere i dischi. Lì dentro era possibile imbattersi in cose uniche che non si ascoltavano in radio o che sarebbero state pubblicate in Italia solo a distanza di diversi mesi. Lavoravo da circa un anno in un piccolo locale, il Clash Club, nel cuore della città, e ciò mi garantì un discreto budget per comprare i dischi che mi piacevano.

Continui a preferire i negozi classici all’e-commerce?
Sì, senza dubbio. Acquistare nei negozi tradizionali contribuisce a tenere vive l’emozione, l’ansia e l’adrenalina che provavo da ragazzo. Quando sapevo che nei miei negozi preferiti, come Sam Goody/Goody Music, Best Record e Città 2000, avrei potuto trovare certi dischi provavo gioia già per strada. Talvolta però quella gioia si trasformava in delusione, laddove non fossero ancora arrivati o già terminati. Nei negozi inoltre incontravo colleghi coi quali condividere idee e parlare di musica, cosa per me importantissima visto che mi piace il contatto fisico. Ad alimentare la mia passione è ancora la ricerca e la valutazione, sia del disco che della copertina. Un aneddoto? A maggio del 1982 partii da Roma insieme ad un amico per cercare titoli introvabili in stile Baia Degli Angeli. Andammo da Disco Fantasia, il negozio a Falconara Marittima che il disc jockey Kruger Agostinelli aprì l’anno prima. Di quel posto me ne parlò Marco Trani, suggerendomelo perché pieno di dischi particolari e difficili da trovare altrove. Arrivammo intorno all’ora di pranzo e trascorremmo almeno tre/quattro ore alla ricerca spasmodica del disco impossibile, della bella musica e delle rarità. Tornammo a casa esausti, messi a dura prova da un viaggio nauseante viste le tante curve dell’itinerario, ma contenti e soddisfatti per il bottino che ci eravamo assicurati. Reperire copie sigillate uscite qualche anno prima fu un’autentica goduria.

Woody 4

Un’altra foto di Bianchi, questa volta con “Man-Child” di Herbie Hancock (1975)

Quali sono i primi tre dischi che ti vengono in mente ripercorrendo la tua carriera da DJ?
Il remix di “Let No Man Put Asunder” delle First Choice realizzato da Shep Pettibone nel 1983 (l’originale risale al ’77, sempre su Salsoul Records). Sul lato b dello stesso 12″, peraltro, era incisa la versione di Frankie Knuckles, alla sua prima esperienza come remixer. Fu un disco importante che continuo a riproporre nelle mie serate e che considero precursore di ciò che sarebbe diventata la house music qualche anno più tardi, e non a caso Steve “Silk” Hurley utilizzò la stessa partitura di basso per la sua “Jack Your Body” nel 1985;
“I Am”, l’album del 1979 degli Earth, Wind & Fire, la mia band preferita di sempre. Un disco che sancì la fine della disco con “Boogie Wonderland”, provvisto di arrangiamenti pazzeschi e ballads emozionanti. L’ho ascoltato migliaia di volte senza mai stancarmi;
“Man-Child” di Herbie Hancock, album risalente al 1975 dal sound innovativo e sperimentale che contava sulla partecipazione di artisti del calibro di Stevie Wonder, Harvey Mason, Wayne Shorter e Louis Johnson, per citarne alcuni. Un LP pazzesco che mi ha fatto conoscere ed apprezzare il mix tra funk e jazz.
A questi tre ne aggiungerei tanti altri come “Curtis” di Curtis Mayfield, “Masterpiece” dei Temptations, “Back Stabbers” degli O’Jays, “The Man-Machine” dei Kraftwerk, gli album prodotti dai fratelli Larry e Fonce Mizell e poi tutto di Marvin Gaye, Patrice Rushen, Michael Jackson e Stevie Wonder, oltre all’infinito mondo dell’house music.

Woody 5

Gino Woody Bianchi con un paio di 12″ targati Salsoul Records

Più di qualche DJ ha affermato di prestare particolare attenzione al primo e all’ultimo disco del proprio set, perché sono quelli che il pubblico potrebbe ricordare di più. Se dovessi esibirti domani in un club, quali brani sceglieresti per aprire e chiudere la tua selezione?
Il primo pezzo determina le “intenzioni” e in un certo senso preannuncia la direzione che si prenderà. Uno che mi viene subito in mente è “Life On Mars” di Dexter Wansel, del 1976, con una partenza mistica, un intro magico che poi si trasforma in un incalzante jazz funk solare ed energico. Per chiudere la serata invece opterei per un disco importante, da “baldoria”, come ad esempio il “II° Coro Delle Lavandaie” del Maestro Roberto De Simone con la Nuova Compagnia Di Canto Popolare, o più semplicemente un anthem della disco come “Don’t You Want My Love” di Debbie Jacobs.

Oltre ad aver fatto girare migliaia di dischi come disc jockey, ne hai realizzati tantissimi come produttore sin dagli anni Ottanta. Cosa significava incidere musica per un DJ quando la house era alle battute iniziali?
Le mie prime esperienze discografiche sono state particolarmente precoci. Già nel 1980, insieme agli amici Corrado Rizza ed Emilio Bonelli, mi cimentai in un medley missato ed editato contenente le cose più belle di quel periodo, ovviamente autoprodotto in maniera clandestina. Impiegammo un paio di settimane per provare i missaggi e poi registrammo tutto in uno studio professionale con l’aiuto dell’amico fraterno Paolo Micioni e Gary Low che invece suonò le percussioni nel multitraccia. Il titolo del progetto era “Boneribian 1”. Desideravo entrare nel mondo della discografia e negli studi di registrazione, così imparai a fare l’editing su nastro e a modificare le versioni dei brani, inizialmente per uso personale e in seguito per varie compagnie discografiche. Intorno alla metà degli anni Ottanta iniziarono a spuntare i primi dischi house ma, in tutta franchezza, trovai improponibile la maggior parte di essi. Il sound era troppo scarno e nonostante molti pezzi contenessero chiari riferimenti alla disco, risultavano poco efficaci in pista, fatte alcune eccezioni come “Can You Feel It” dei Fingers Inc. o “Move Your Body” di Marshall Jefferson. Tuttavia restai affascinato da quel nuovo modo di fare musica e cominciai a lavorare con diversi produttori e musicisti importanti del circuito romano partecipando ad arrangiamenti, missaggi e realizzando editing per stesure di vari brani (come raccontato in questo reportage, nda). Fu una scuola importante perché approcciai alla programmazione ritmica, alla scelta dei suoni e capii come sviluppare una versione. Fui molto fortunato a collaborare con un’etichetta come la X-Energy Records. Alvaro Ugolini, co-proprietario insieme a Dario Raimondi Cominesi, mi diede fiducia e così potei sperimentare e pubblicare le mie idee, remix, edit e produzioni usando i primi campionatori. Provai una sensazione unica ed impareggiabile nel creare musica moderna ma intrisa del mio passato e da ascolti maniacali del philly sound e della disco.

Woody nello studio blue della Wax Production (1996)

Gino Woody Bianchi nello studio blue della Wax Production (Roma, 1996)

Nel ’94, insieme a Corrado Rizza e Dom Scuteri, fondi la Wax Production al cui interno operano due etichette, la Lemon Records, su cui esce la fortunata “Rhythm” di Black Connection poi diventata “Give Me Rhythm” di cui parliamo qui, e la Evidence. Come e cosa ricordi di quel periodo?
Il team della Wax Production nasce già alla fine del 1990 per la realizzazione di remix e produzioni destinate ad etichette come la Flying Records e la X-Energy tra cui “Colour Me” di Paradise Orchestra e “Tomorrow” di Daybreak. Dopo quattro anni di lavoro volevamo dare una svolta al progetto, intenzionati a sperimentare di più e desiderosi di quella libertà che ci avrebbe permesso di pubblicare ciò che ritenevamo più opportuno senza attendere giudizi e consensi altrui. Aprimmo quindi due studi di registrazione (il blue e il green) in una nuova location dotata anche di ufficio, e varammo la Lemon Records col supporto della Flying Records in veste di distributore. L’aspetto economico non ci ha mai condizionato perché io e Corrado lavoravamo come DJ e ciò ci mise nella condizione di realizzare dischi di qualità senza subordinarci ad aspetti commerciali. Vennero fuori tanti brani tra cui successi di alto profilo proprio come Black Connection, nato per utilizzare un sample del philly sound che mi “tormentava” da molti anni abbinato ad un cantato ispirato da un pezzo dei Basement Boys. In tal senso il featuring vocale di Orlando Johnson risultò fondamentale e grazie al tocco magico di Victor Simonelli e dei Full Intention divenne un anthem dei dancefloor entrando in poco tempo nella classifica nazionale britannica. Ricordo la Wax Production con molto piacere, ci divertimmo confrontandoci e collaborando con varie etichette discografiche di rilievo oltre ad incontrare i produttori e i remixer più blasonati al mondo, soprattutto in occasioni speciali come il Midem di Cannes. Fu un sogno che divenne realtà con ottimi riscontri economici.

Per circa un quindicennio vendere dischi è stata la mission principale delle label indipendenti legate alla musica dance. La “liquefazione” dei formati dopo il Duemila però ha stravolto la metodologia di lavoro quasi azzerando, di fatto, gli introiti. In tantissimi hanno chiuso battenti, altri hanno proseguito cercando di barcamenarsi nelle nuove dinamiche di un “mercato” forse non più tale (download prima, streaming poi). Ritieni che la perdita di un comparto come il disco in vinile, un tempo determinante, abbia contribuito ad alimentare quel processo di narcosi creativa in cui oggi versano house, techno e derivati? Sapere di non poter vendere più di trecento o cinquecento copie, per chi investe ancora in questa attività – che sia un artista o un produttore -, ha smorzato la passione e la voglia di fare che invece fu particolarmente accesa negli anni Novanta?
Il passaggio al CD ha innescato un mutamento irreversibile. Il resto è avvenuto col download e streaming che hanno sancito quasi del tutto la scomparsa del vinile. Nel decennio 2000-2010 le produzioni potevano contare ancora sul supporto delle compilation in CD con vendite importanti in tutto il mondo. Per i produttori c’era ancora la possibilità di guadagnare bene e realizzare cose nuove. Col cambio dei tre formati però (vinile, CD e digitale) è emerso un numero sempre più rilevante di chi si è letteralmente improvvisato DJ senza investire denaro in musica come si faceva invece ai tempi dei dischi, e ciò ha determinato il calo dei cachet per i resident e degli investimenti dei club. Con la sensibile riduzione del mercato del vinile, dovuta al progresso e alla tecnologia incalzante, le entrate economiche dei produttori sono diminuite ma, innegabilmente, anche i costi. Qualche decennio fa per realizzare una produzione era necessario avere uno studio quindi disporre e stanziare somme importanti, adesso invece è tutto molto più semplice ed economico. Chi realizza produzioni, la maggior parte delle volte lo fa a basso costo anche perché è difficile investire su qualcosa che non garantisce alcun ritorno economico. Qualcuno lo fa per alimentare la propria immagine e quindi aumentare il numero delle serate come DJ. Probabilmente ciò influisce anche sulla creatività. Nel mio repertorio da produttore ci sono dischi che hanno venduto molto bene come ad esempio il già citato “Give Me Rhythm” di Black Connection, che ha totalizzato circa cinquantamila copie del 12″ e tre milioni di compilation su CD. La soglia si abbassò leggermente col follow-up “I’m Gonna Get Ya’ Baby” ma conquistando ugualmente prestigiosi riconoscimenti come l’ingresso nella classifica di Billboard, allora considerata il top per la musica. Ottimi risultati sono legati pure a produzioni che realizzai successivamente, come “Music” di Disconnection Featuring Sabrynaah Pope e “Stand Up (If You’re Ready)” di Electroluv. Tra singoli, compilation e licenze nel mondo non posso proprio lamentarmi. Continuo ancora oggi a realizzare remix e produzioni con la stessa passione di sempre, divertendomi ed ottenendo buoni risultati, sia in vinile che digitale, ma ovviamente il vinile resta il mio formato preferito, continuo a comprarlo fedelmente e a fare serate coi dischi.

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La copertina dell’ottavo volume di “Under The Influence”, la raccolta recentemente pubblicata dalla Z Records di Joey Negro e curata da Bianchi

Da poche settimane è uscito, sulla prestigiosa Z Records di Joey Negro, l’ottavo volume della serie “Under The Influence” per l’occasione affidato a te. La compilation rivela quanto sia consistente e poderoso il tuo background mentre la copertina promette una “collezione di boogie e disco rara”: puoi raccontare il lavoro svolto per concretizzare questa ambiziosa pubblicazione, mettendo in evidenza i contenuti, le problematiche e le tempistiche necessarie per la finalizzazione?
Tutto è nato casualmente in virtù della bella amicizia di lunga data con Dave Lee alias Joey Negro, uno dei miei producer e music selector preferiti. Ogni tanto mi diverto a postare su Facebook foto di dischi rari quanto introvabili, aggiungendo rispettive info. Una di quelle foto ha incuriosito Dave che un giorno mi manda un messaggio chiedendomi se mi andasse di curare un nuovo capitolo di “Under The Influence”. Quell’invito mi ha reso molto contento ma sapevo già che sarebbe stato un lavoro arduo e particolarmente lungo perché nel corso degli anni sono uscite moltissime compilation di quel genere che hanno saccheggiato le rarità, quindi avrei dovuto selezionare molte tracce considerando che la politica della Z Records è pubblicare brani mai inseriti in raccolte già edite da altri. Dopo una prima cernita, abbiamo selezionato venti tracce tratte dalla mia collezione di dischi (ed alcune di esse consigliate dallo stesso Dave) per valutarne la reperibilità e la fattibilità della licenza. Spesso è difficile se non impossibile rintracciare il produttore originale di un disco uscito negli anni Settanta e altrettanto frequente è non ricevere alcuna risposta oppure richieste economiche esagerate. Nell’attesa che giungessero eventuali responsi, ho sottoposto all’attenzione di Dave altre venti rarità di cui prendere in esame, allo stesso modo, la disponibilità. Su quaranta pezzi totali abbiamo avuto l’ok solo per quindici pertanto avevo bisogno di altro e la ricerca è proseguita. Alla fine siamo riusciti nell’impresa di raccogliere venticinque brani (per la versione su CD) di cui quattordici solcati sul doppio vinile. Tra i tanti segnalo una meravigliosa versione di “Mexico” di Sammy Barbot, parecchio ricercata, l’introvabile “Come On, Everybody” di Coco York, dall’Australia, e la rara “Springtime” di Arlana. In questo “Under The Influence” figurano inoltre un paio di miei edit, per “Rio De Janeiro” di Ipanema Brothers (divisa in due parti sul 7″ originale edito dalla Barclay nel 1978), e “Disco Break” dei Circle che invece era troppo corta. A tutto si aggiungono importanti liner notes con informazioni in merito ad artisti di cui non si conosce davvero niente ed aneddoti legati a come io sia riuscito ad entrare in possesso di quei dischi. Per effettuare il mastering finale ho portato personalmente tutto il materiale a Londra. Insomma, parliamo di almeno un anno di lavoro, coronato da una grafica meravigliosa. È stata una esperienza strepitosa, un sogno che si è realizzato e che mi ha dato la possibilità di far conoscere e rendere reperibili per altri DJ e selector cose introvabili senza spendere cifre proibitive. Alla base di tutto c’è la condivisione di musica.

Estrai dalla tua collezione almeno dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

Lil Louis - French KissLil Louis – French Kiss
Un disco che ha cambiato il mio modo di vedere l’house music e non solo. Lo scoprii a New York nel 1989, durante una serata al Sound Factory dove c’era Junior Vasquez come resident. Andai lì insieme a Wendy Puff, segretaria della Criminal Records di Arthur Baker, e fummo ospiti della mega consolle del locale. Ad un certo punto Vasquez tirò fuori dal cilindro questo capolavoro incastrandolo in un’acappella di Gloria Gaynor perfettamente in tonalità. Il sound mi lasciò senza fiato, è un pezzo talmente avanti che, a distanza di oltre un trentennio, riesce ancora ad infiammare qualsiasi dancefloor. Un plauso quindi al DJ producer di Chicago.

Loose Joints - Tell You (Today)Loose Joints – Tell You (Today)
Ho sempre amato le cose di Arthur Russell, un genio sregolato sin dai tempi di “Kiss Me Again” di Dinosaur (1978). La sorpresa giunse già col primo Loose Joints, “Is It All Over My Face? / Pop Your Funk” del 1980 e “Tell You (Today)” fu una conferma. Le due versioni incise sul lato b, (New Shoes) Part I e (New Shoes) Part II, sono incredibili, ipnotiche e molto dub, con trombette in stile Jamaica, percussioni à la “I Love Music” degli O’Jays e un basso simile a quello di “Jazz Carnival” degli Azymuth. La produzione di Steve D’Acquisto, infine, fa di questo 4th & Broadway uscito nel 1983 un autentico must, impreziosito ulteriormente dalla perfetta registrazione. Il raro 12″ è una chicca che continuo a proporre nelle mie serate.

Family Tree - Skye - Family Tree - Aint No NeedFamily Tree / Skye – Family Tree / Ain’t No Need
Un meraviglioso 12″ double face (ovvero con due tracce di artisti differenti) pubblicato dalla Anada Records nel 1976. Mi aggiudicai il promo white label su eBay una quindicina di anni fa per circa duecento euro, ma oggi il suo valore è più che raddoppiato. Scoprii “Family Tree” in una cassetta della Baia Degli Angeli di Bob e Tom e ne rimasi ammaliato. Il pezzo, con un bel tiro funk e spunti disco, era cantato da una giovanissima Sharon Brown. Il lato b invece, con “Ain’t No Need” di Skye, è altrettanto coinvolgente e raffinato, disco funk in stile Paradise Garage.

Giorgio Farina - DiscocrossGiorgio Farina – Discocross
Un LP che comprai ai tempi dell’uscita ossia nel 1978 visto che ero un fan di Farina, DJ che l’anno prima curava il programma Discocross mandato in onda da una delle prime televisioni private laziali, S.P.Q.R. (Società Produzioni Quotidiane Radiotelevisive), presentando le novità disco d’importazione. A colpirmi in modo particolare fu la lunga traccia sul lato a, “Farina’s Suite” della durata di circa quindici minuti in stile Moroder, arrangiata egregiamente dai Goblin che la resero un capolavoro della disco underground nostrana. Il grande Simonetti alle tastiere strizzava l’occhiolino alle produzioni francesi di Cerrone e Don Ray mentre una voce richiamava “I Feel Love” di Donna Summer. Il disco suona molto bene e gode di un’ottima dinamica. Venne registrato negli studi della RCA e riproporlo oggi garantisce l’ottima resa anche nei dancefloor più esigenti. Al momento è abbastanza quotato ma sconsiglio la ristampa non ufficiale che circolava qualche anno fa, è davvero una pessima incisione.

Moodymann - I Can't Kick This Feelin When It HitsMoodymann – I Can’t Kick This Feelin When It Hits
Un altro artista che amo e stimo molto è Kenneth Dixon Jr. alias Moodymann. Riesce sempre a sorprendermi con le sue produzioni bizzarre ed originali mischiando funk, disco, jazz, gospel ed house in una miscela unica. Sono tante le cose che prediligo del suo repertorio ma questo pezzo su KDJ è decisamente speciale, tra quelli a conservare un tiro unico sebbene faccia leva su ingredienti piuttosto semplici come una ritmica, un basso ipnotico ed un sample vocale, tratto da “I Want Your Love” degli Chic, che fa veramente infiammare la pista. Risale al 1996 ma sembra prodotto oggi. Il disco è piuttosto facile da reperire, tempo fa ho comprato la seconda copia su Discogs che trova sempre spazio nel mio flightcase.

Charles Earland - Coming To You LiveCharles Earland – Coming To You Live
Earland è stato un grande organista soul-jazz di Philadelphia. Comprai l’LP “Coming To You Live” nell’ottobre del 1980 da Goody Music proprio per la traccia omonima scandita da un potente arrangiamento di fiati a firma Tom ‘Tom Tom 84’ Washington (Earth, Wind & Fire, The Dells, The Jacksons, Rodney Franklin, Phil Collins, giusto per citarne alcuni coi quali ha collaborato) ed un bel groove di chitarra di Doc Powell e Melvin Sparks. Alla versione dell’album, che non suona un granché, preferisco però quella incisa sul 12″ promozionale che trovai in uno dei miei viaggi a New York a metà degli anni Novanta. Earland resta tra i miei musicisti preferiti e a tal proposito citerei anche il suo “Perceptions” del ’78, prodotto da Randy Muller e contenente tre bombe come “Let The Music Play”, “Over And Over” ed “I Like It”.

Harvey - The Light (Harvey Version)Harvey – The Light (Harvey Version)
Da molti anni cerco il raro “Find Your Light” di Claude Jay del 1983 ma purtroppo senza esito così nel 2019 ho dovuto accontentarmi di un bootleg editato comunque ottimamente da DJ Harvey. In pratica ha esteso l’intro ed ha valorizzato la parte cantata ripetendo l’inciso di un formidabile disco boogie della durata di quasi quindici minuti. Piuttosto veloce a livello di bpm, il brano dà molta energia quando lo propongo e sprigiona allegria e felicità nel pubblico. Merito anche di un’ottima incisione e dinamica sonora.

Various - Philadelphia ClassicsVarious – Philadelphia Classics
Diversi motivi mi legano moltissimo a questa doppia compilation, forse perché possiedo tutta la collezione della Philadelphia International Records insieme alla TSOP ed etichette derivanti da questo sound. Nella primavera del ’77 un amico mi regalò una cassetta Stereo 8 con su incisa una serie di meravigliose tracce (un suo conoscente possedeva un registratore adatto a quel formato, un’autentica rarità nonché un lusso per l’epoca). Tra quelle anche un paio di long version tratte proprio dalla compilation in questione. Qualche giorno dopo andai dal sopracitato Consorti per cercarla e la trovai. Consultando i crediti di copertina capii che il tutto fosse stato remissato da Tom Moulton ovvero colui che inventò l’extended version. La traccia che cercavo era “I Love Music” degli O’Jays, poco meno di dieci minuti di goduria arrangiata da Norman Harris che continuo a proporre ininterrottamente nei miei set, ma sul doppio vinile c’erano altre sette autentiche mine come “Bad Luck” di Harold Melvin And The Blue Notes o “I’ll Always Love My Mama” degli Intruders in cui si possono ascoltare i breakdown e parti mai adoperate nella versione contenuta nell’album “Save The Children” del ’73. Conservo gelosamente due copie di “Philadelphia Classics” ed anche la ristampa in CD visto che è incisa molto bene.

Clyde Alexander & Sanction - Got To Get Your LoveClyde Alexander & Sanction – Got To Get Your Love
Ho conosciuto questo disco grazie alla compilation britannica “Boogie Tunes 2″ del 1988 che acquistai in un negozio a Novara. In quel periodo partivo da Roma il giovedì per lavorare al Diva, un locale della città piemontese, e tornare la domenica. Molti anni più tardi invece ho comprato il 12” del 1980 su eBay. Il sound è molto “grezzo”, poco curato come la maggior parte delle produzioni di Peter Brown che, essendo anche un imprenditore discografico, stampava su diverse etichette a basso costo e questo lo si può notare nelle numerose uscite P&P condivise con Patrick Adams. Tuttavia “Got To Get Your Love” è un pezzo allegro e che fa ballare, nei suoi dieci minuti non molla mai il tiro, sempre in continuo cambiamento melodico con una voce sensuale ed un bel groove incalzante. Chi non può permettersi la stampa originale può tranquillamente optare per la ristampa del 2016, sempre su Heavenly Star Records, che suona discretamente bene.

James Brown - Get On The Good FootJames Brown – Get On The Good Foot
Non è sicuramente il miglior album di James Brown ma per me rappresenta l’inizio di un percorso che mi ha fatto capire cosa fosse il funky di un certo tipo e soprattutto comprendere la grandezza di questo artista. Nel 1972 i miei genitori mi portarono in un paesino vicino Roma, Segni, in un negozio dove avrebbero dovuto acquistare dei mobili da mettere nell’appartamento ristrutturato da poco. Oltre ai mobili però quel negozio vendeva un po’ di dischi sistemati in un paio di scaffali. Quel giorno la noia mi fece stare così buono che alla fine, per premiarmi, i miei mi invitarono a scegliere un album come regalo. Presi il doppio “Get On The Good Foot”, memore della folgorazione avvenuta tempo prima con “Sex Machine”. Lo consumai letteralmente, imparando un inglese ciancicato e farfugliando parole inesistenti. Lo conoscevo a memoria, tutto, ma la traccia che amavo di più era proprio “Get On The Good Foot”, coi suoi circa sei minuti di energia ed urletti, seguita da “My Part / Make It Funky (Parts 3 & 4)” ed “I Got A Bag My Own”. Avevo da poco compiuto undici anni e questo disco cambiò radicalmente la mia visione musicale e mi aprì la mente spronandomi a cercare musica di artisti come Rufus Thomas, Joe Tex e Stevie Wonder e comprendere il soul e la musica afroamericana che mi ha accompagnato per tutta la vita.

The Blackbyrds - Happy MusicThe Blackbyrds – Happy Music
Ho iniziato la mia avventura nel mondo della musica come disc jockey nel marzo del 1975 proprio grazie a questo disco. Comprai la stampa italiana (a cui in seguito ho aggiunto pure quella americana) di “City Life”, il terzo album dei Blackbyrds, in un negozio nel centro di Roma. Amavo già i precedenti LP di questa band prodotti da Donald Byrd e “Flying Start” del ’74, in particolare, segnò insieme a “Do It (‘Til You’re Satisfied)” dei B.T. Express, le mie future scelte musicali. Tempo dopo trovai il 12″ promozionale in versione remix con un intro di chitarra più lungo e magico, supportato da una dinamica pazzesca perché girava a 45 giri. Ogni volta che lo propongo il risultato è sempre brillante: fedele al titolo, “Happy Music” riesce a mettere il sorriso al dancefloor.

(Giosuè Impellizzeri)

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1987-1988: la house music arriva in Italia

1987: uno sguardo d’insieme
La musica che i DJ propongono nella maggior parte delle discoteche italiane nel 1987 è legata prevalentemente all’italodisco e al synth pop per i locali di stampo più commerciale, alla new wave, EBM ed industrial per quelli rivolti invece ad un pubblico più settoriale ed incline al rock alternativo. Sull’onda della cosiddetta “afro” lanciata molti anni prima in locali-culto come Baia Degli Angeli, Cosmic, Typhoon, Melody Mecca e Ciak, giusto per citare alcuni dei più noti, non mancano quelli che continuano a selezionare funk, soul e disco ma il panorama appare piuttosto stagnante perché improntato in sostanza sul recupero di materiale datato. Sul fronte rock/pop c’è chi, come Lorenzo Zacchetti in questo articolo, parla del 1987 come «un anno straordinariamente fertile sia sul piano della qualità che su quello della quantità, con le uscite di tutti i più grandi artisti del periodo, di figure emergenti e di diverse meteore». Il singolo più venduto dell’anno, secondo le statistiche di Hit Parade Italia è “La Bamba” dei Los Lobos. Undicesima si piazza Spagna con “Call Me”, prodotta da Larry Pignagnoli, ventiduesimi i tedeschi Off (i futuri Snap! ed un giovane Sven Väth che canta e presta l’immagine pubblica) con “Electrica Salsa (Baba Baba)” seguiti dalla prorompente Sabrina Salerno con “Boys”. Poco più giù “Respectable” di Mel & Kim, col tocco della premiata ditta Stock, Aitken & Waterman, e “Take Me Back” di un’altra bellezza della scuderia cecchettiana, Tracy Spencer. In ordine sparso poi Madonna, Nick Kamen, Rick Astley, Samantha Fox, Pet Shop Boys, Boy George, Level 42, Eighth Wonder, Depeche Mode, Duran Duran e Spandau Ballet. Solo settantaduesimo Den Harrow con “Don’t Break My Heart”, ennesimo singolo messo a segno dalla coppia Miki Chieregato – Roberto Turatti che quell’anno sforna anche “Meet My Friend” ed “Up & Down” di Eddy Huntington. L’italodisco nostrana pare essere giunta però al capolinea, il periodo più ricco di intuizioni, quello che va dal 1983 al 1985 circa, è ormai lontano e la formula di quel filone, ripetuta migliaia di volte e sdoganata in infinite salse, inizia a rivelarsi stantia. Sbirciare in altre classifiche di riferimento dei tempi non rivela grandi differenze: a giugno 1987 i posti più alti della “Superclassifica Show” condotta da Maurizio Seymandi (e dal virtuale DJ Super X) vede artisti come U2, Edoardo Bennato, Vasco Rossi, Zucchero e Whitney Houston. Tra le chart più consultate ai tempi c’è anche quella di TV Sorrisi E Canzoni diretto dal compianto Gigi Vesigna che, proprio nel 1987, tocca la tiratura record di oltre tre milioni di copie settimanali, ma anche lì non si rinviene nulla che riconduca alla “nuova dance music” che pulsa, da circa un biennio, in alcune discoteche statunitensi. Nella DeeJay Parade di Radio DeeJay invece, “Pump Up The Volume”, considerata alla stregua di una traccia spartiacque, entra il 24 ottobre e raggiunge la vetta il 7 novembre per rimanerci un mese.

DJ Parade 7 novembre 1987 (courtesy Maurizio Santi)

La DeeJay Parade del 7 novembre 1987 vede in vetta “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., considerato uno dei primi brani house prodotti in Europa. Foto su gentile concessione di Maurizio Santi

Per buona parte del 1987 quello della house music è un mondo ancora profondamente sotterraneo per gli stessi disc jockey, fatta eccezione per coloro che si tengono aggiornati leggendo riviste estere. Il fatto che ad inizio febbraio “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley conquisti la vetta della chart britannica dei 45 giri (giunta da noi attraverso le pagine del Radiocorriere Tv) non significa molto, neanche nello stesso Regno Unito dove a Top Of The Pops giungono, già l’anno prima, Farley “Jackmaster” Funk e il compianto Darryl Pandy con “Love Can’t Turn Around”, ripubblicata oltremanica dalla London Records. In appena un paio di anni però in Europa cambia tutto, a partire proprio dalla Gran Bretagna dove i M.A.R.R.S., incrociano la sampledelia dell’hip hop coi beat in 4/4 della house e danno la spinta necessaria con “Pump Up The Volume” (a tal proposito si veda questo approfondimento). La house, che all’inizio viene scambiata per una moda passeggera, arriverà a conquistare milioni di giovani e non solo. Cederanno persino gli Style Council di Paul Weller che a febbraio del 1989 portano sul palco di Top Of The Pops “Promised Land”, cover dell’omonimo di Joe Smooth edito nel 1987 dalla D.J. International Records di Rocky Jones, tra i primi brani house prodotti a Chicago a fare fortuna nel Vecchio Continente.

Radiocorriere, classifica 1 ed 8 febbraio 1987

Le classifiche dei 45 giri giunte in Italia attraverso il Radiocorriere (1 ed 8 febbraio 1987): In prima posizione, nel Regno Unito, c’è “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley

La “disco nera degli anni Ottanta” sbarca in Italia
È molto complesso stabilire chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese. La scarsissima reperibilità di fonti impedisce di collocare nomi e date in un contesto preciso e le informazioni tramandate per via orale purtroppo non sempre rispettano e rispecchiano la reale cronologia degli eventi. Comunque, per sommi capi, si può asserire quasi con tranquillità che nella prima metà del 1987 i mass media generalisti (televisioni, radio e giornali) non si siano ancora accorti di quella grande rivoluzione in arrivo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Sarà “Pump Up The Volume” dei britannici M.A.R.R.S., uscito ad agosto, a cambiare lo status quo e a spalancare nuove prospettive, introducendo anche in Italia per il grande pubblico il termine house music, genere che però, come si vedrà più avanti, necessiterà di circa due anni per assumere una personalità più definita. Inizialmente la house è considerata, come scrive Michele Monti in un articolo apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno ’87 (presumibilmente a novembre) «l’ultima moda che soppianta il rap, l’electro funk e il go-go, cioè tutti i ritmi esotici approdati sulla pista da ballo negli ultimi tempi. A colpi di mezz’ora o di serate intere, la house music sta impazzando in ogni locale che si rispetti e non c’é DJ che non abbia in scaletta i suoi bei dieci minuti di house». Intesa come una sorta di diversivo, la house music è ancora ad uso e consumo di una ristrettissima fascia di DJ che peraltro fatica non poco a reperirla perché gli unici dischi disponibili sono quelli d’importazione, prevalentemente statunitense. Dislocati a macchia di leopardo lungo la penisola ci sono però gruppi di appassionati, DJ e ricercatori di nuove tendenze musicali, che intercettano il movimento house con abbondante anticipo rispetto all’affermazione commerciale e lo supportano in locali o eventi dedicati espressamente. È il caso del Devotion, che prende il nome dal brano omonimo dei Ten City, e de I Ragazzi Terribili a Roma, di cui si parla approfonditamente in questo articolo a cura di Luca Lo Pinto e Valerio Mannucci, dell’Ethos Mama a Gabicce, dove Flavio Vecchi, che allora si fa chiamare Double J. Flash, e Wayne Brown alternano la house all’hip hop e all’r&b come testimonia questo documento audio, o del Macrillo, locale ubicato sull’altopiano di Asiago e diretto dal compianto Vasco Rigoni, dove Leo Mas ed Alfredo Fiorito, reduci di una esaltante stagione estiva all’Amnesia di Ibiza – di cui si parla anche in Decadance Extra -, propongono house per un pubblico che accorre da tutta la penisola. Mas avrebbe poi continuato al Movida di Jesolo, diretto da Enzo Bellinato, fiancheggiato da Fabrice ed Andrea Gemolotto con cui dà avvio a “La Magica Triade”. Un certo interesse è mostrato pure dalle riviste di settore, come Fare Musica, dove appare un’intervista a Larry Levan, o Rockstar, dove invece trova spazio una rubrica di Luca De Gennaro, come scrive Andrea Benedetti nel suo libro “Mondo Techno”. Paolo Di Nola del citato Devotion ricorda altresì un articolo sul Messaggero e una breve intervista mandata in onda la domenica su Rai 3.

Deejay Show (presumibilmente novembre 1987) courtesy of Maurizio Santi

L’articolo di Michele Monti apparso sulla rivista DeeJay Show nell’autunno del 1987 (presumibilmente a novembre), tra i primi dedicati alla house music apparsi in Italia. Su gentile concessione di Maurizio Santi

Il successo spiazzante dei M.A.R.R.S. nell’autunno ’87 però, se da un lato aiuta la diffusione nazionale di questo nuovo genere, dall’altro finisce col falsare e compromettere la percezione che il pubblico italiano ha per l’house music che a quel punto viene spacciata come prodotto nato esclusivamente dal campionamento di pezzi altrui. Secondo i detrattori più accaniti, campionare equivale a rubare e la house diventa conseguentemente simile ad un riassemblaggio raffazzonato ad opera di non musicisti messi in condizione, dalla tecnologia, di poter fare musica anche a casa. Emerge così pure il parallelismo tra “house” e “casa” che secondo alcuni si presterebbe in modo inequivocabile a chiarire le origini di quel nuovo genere. A tal proposito, in quelle due pagine apparse su DeeJay Show, il citato Monti si riallaccia a quanto scritto dalla rivista anglosassone Mixmag spiegando che «dietro ogni pezzo house, più o meno famoso, si nascondono i ritmi e le melodie di brani di vecchia disco o di recente dance», elencando pure diversi esempi: «“Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders non è altro che un remix di “I Can’t Turn Around” di Isaac Hayes, “Dum-Dum” dei Fresh “rubacchia” frammenti di “One Nation Under A Groove” dei Funkadelic e di “The Glamorous Life” di Sheila E., “Move” dei Farm Boy ricorda molto “Slave To The Rhythm” di Grace Jones, “Like This” di Chip E. è la copia carbone di “Moody” degli ESG». Poi prosegue dicendo che «le canzoni più saccheggiate in assoluto dalla house music sono “Love Is The Message” degli MFSB, “Let No Man Put Asunder” dei First Choice, “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Moskow Diskow” dei Telex e, incredibilmente, “Happy Children” dell’italianissimo P. Lion». Il ruolo ricoperto specificamente dall’italodisco comunque è fondamentale tanto nella house di Chicago quanto nella techno di Detroit, per ammissione degli stessi artefici e probabilmente ad insaputa della maggior parte dei produttori (e giornalisti) italiani di allora, ma ridurre la house music a qualcosa di passivamente ed ingenerosamente derivativo, così come viene descritto ai tempi, è ingiusto, non solo sotto il profilo creativo ma pure sotto quello tecnico. “Rubacchiare” a destra e a manca e ricollocare con estrema semplicità su telai ritmici programmati da drum machine ree di aver svilito il ruolo dei batteristi in carne ed ossa è solamente una verità apparente, istigata inconsapevolmente dal collage dei M.A.R.R.S. a cui, comunque, va riconosciuto il merito di essere riusciti a creare un brano-patchwork talmente dirompente da diventare una pietra miliare in un particolare momento storico che offre nuove opportunità. Monti include una dichiarazione di Chip E. particolarmente significativa a tal riguardo: «prendere idee da altri dischi non è considerato furto, dopotutto il lavoro del DJ è sempre stato questo, usare pezzi vecchi per creare un sound nuovo e personale». È interessante constatare, ad esempio, che non sia emersa altrettanta indignazione da parte di critici e stampa quando nel 1980 i Queen pubblicano “Another One Bites The Dust” che gira su un basso davvero simile a quello di “Christmas Rappin'” di Kurtis Blow uscito l’anno prima, o quando negli anni Sessanta proliferano decine di cover in italiano di brani angloamericani. Si può forse parlare di rifacimenti di serie A e di serie B, in virtù della funzione da essi esercitata? Le musiche destinate in modo specifico ai locali da ballo sono implicitamente meno valide di altre per il loro uso ludico? L’impressione, quindi, è che si usino due pesi e due misure, così come avviene per gli eccessi del rock/pop, tollerati ed assai meno demonizzati rispetto a quelli di altre culture musicali. A pagina 289 dei libro “Last Night A DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton, la house viene definita come «disco music realizzata da dilettanti. Era l’essenza della disco (ritmi, giri di basso, spirito) ricreata su macchine che erano una via di mezzo tra giocattoli e strumenti musicali da ragazzi, più clubber che musicisti. I DJ, che aspiravano a preservare una musica dichiarata morta, ne avevano creata un’altra dalle sue ceneri». Tale descrizione risulta senza dubbio più appropriata rispetto a tante altre emerse ai tempi, probabilmente indotte anche da un forte e radicato scetticismo nei confronti della novità.

La house nei club dello Stivale: le testimonianze

Lazio
Il grande pubblico scopre la house coi M.A.R.R.S. ma in Italia esistono luoghi in cui quel tipo di musica viene proposta già da qualche tempo, seppur senza particolar clamore. Il più delle volte l’unico modo con cui scoprire tali “raduni” è il semplice passaparola. Roma, ricordata più frequentemente per il suo ruolo primario nella fase rave giunta qualche anno dopo con l’esplosione della techno, ha ricoperto una posizione altrettanto importante per la house specialmente in riferimento al Devotion, nato come associazione culturale su iniziativa di un gruppo di amici tra cui Alessandro Gilardini, oggi giornalista per il TG5, e Paolo Di Nola, DJ, che racconta: «L’house entrò molto presto nel mio mondo, direi anche prima che ci fosse un termine per definirla in Italia, considerando l’ascolto di dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Hypnotic Tango” di My Mine o “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, tutti incorporati nelle scalette dei DJ che sono passati alla storia dell’house music. Nell’inverno del 1981 trascorsi un periodo dell’ultimo anno di liceo a New York, nel quartiere di Canarsie a Brooklyn per l’esattezza, prevalentemente popolato dalla comunità italoamericana e dove risiedeva parte della mia famiglia paterna che ebbe la possibilità di ospitarmi. Furono i miei compagni di scuola, quelli più intraprendenti che passavano le notti dei weekend in città facendo breakdance, ad introdurmi ai dancefloor dei club di New York dove si potevano già ascoltare esempi di proto house e musica dance prodotta prevalentemente mediante strumenti elettronici, ma con una radice più soul e disco rispetto alla new wave europea. I primi dischi house li acquistai a New York negli anni successivi in negozi come Vinylmania e Rock And Soul, veri e propri templi del vinile dove lo staff era incredibilmente ferrato musicalmente ed addirittura in grado di riconoscere pezzi da me fischiati o a malapena canticchiati nel tentativo di riprodurli, non conoscendone i titoli. Le prime tracce house da me collezionate furono gli ormai diventati classici della Trax Records come “Washing Machine” di Mr. Fingers, “Acid Tracks” dei Phuture e “Baby Wants To Ride” di Frankie Knuckles a cui si aggiunsero le prime cose su Easy Street Records come “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe nonché i dischi su State Street Records tra cui “Face It” di Master C & J e “Can’t Get Enough” di Liz Torres. Oltre a tantissima disco, tipo “Is It All Over My Face” dei Loose Joints ed altre stampe su West End Records, Salsoul Records e Prelude Records. L’impatto e la successiva infinita storia d’amore con quella che per definizione viene chiamata house music si consumò nei club gay di New York come Paradise Garage, The Choice, Tracks, Roxy, The Loft, Sound Factory ed anche in locali londinesi come l’Heaven. I primi DJ da me seguiti, propugnatori dell’house music, furono black, latino, gay e lesbian, ma gli stessi club erano spesso gestiti da personale LGBTQ e il dancefloor era quello che oggi viene definito “safe space” ovvero uno spazio in cui poter esistere liberi da ogni discriminazione. Tutti questi elementi, per me, sono inscindibilmente legati alla radice della house music. Questa è stata la scena che mi ha forgiato e a cui tuttora porto massimo rispetto e dedizione.

il pubblico del Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Il pubblico del Devotion (Roma, 1987) in una foto scattata da Federico Del Prete, gentilmente concessa da Paolo Di Nola. A sinistra c’è Vincenzo Viceversa

Per quanto riguarda l’Italia, nel 1987 c’era sicuramente l’intero pubblico del Devotion ad apprezzare quelle sonorità tra cui moltissimi DJ noti della scena romana che venivano a ballare. Noi, col nostro club, fummo i primi a proporre quel tipo di programmazione after hour nella capitale e nell’intera regione, con un’intera scaletta fatta esclusivamente di house music e disco, nonché ad introdurre un certo tipo di “attitude” nella vita notturna, slegata dal solito modello delle VIP room, tavoli riservati e bottiglie di alcolici in vendita per centinaia di migliaia di lire. La nostra fu una scelta talmente radicale per quegli anni che l’unico club che ci aprì le porte fu il Life 85, la cui capienza raggiungeva le appena duecento persone ed era fuori da ogni circuito. Nell’arco di un paio di settimane appena il successo della serata fu talmente eclatante che per la seconda stagione ci spostammo al Parco del Turismo in una mega tenda geodetica che, puntualmente ogni weekend, si riempiva di gente fino all’orlo. Io e i miei colleghi DJ, Marco Militello ed Alessandro Gilardini, viaggiavamo a turno per comprare i dischi direttamente a New York, assicurandoci così musica non ancora uscita in Europa, cosa che ci permetteva di mantenere uno standard alto nell’esclusività musicale. Poi molti DJ seguirono le nostre orme, alcuni con enorme successo, ma credo che Marco Moreggia con I Ragazzi Terribili sia quello che abbia preservato meglio la purezza e lo spirito di ciò che intendevamo fare noi.

la tessera del Devotion (courtesy Paolo Di Nola)

La tessera del Devotion (1987). Su gentile concessione di Paolo Di Nola

Al di fuori del Lazio, l’unico altro posto in cui sentii suonare per intero un set di house music ad inizio ’87 fu Napoli, dove c’erano alcuni ragazzi di colore che svolgevano il servizio militare nelle basi NATO limitrofe e si dilettavano a fare i DJ. Sfortunatamente non ho mai avuto il piacere di incontrarli, li avrei ringraziati personalmente per gli splendidi set. Ricordo con affetto anche il contingente umbro, con Vincenzo Viceversa e Ralf che, sulle orme del Devotion, lanciarono serate house a Perugia e dintorni. Io stesso fui ospite in un’occasione allo storico locale Norman durante una serata chiamata “Big Party”. Come raccontavo prima, in quel periodo compravo la maggior parte dei dischi a New York e Londra. Mi recavo lì solo per comprare vinile, partivo con valigie vuote che tornavano strapiene. Il mio budget però era talmente scarso che passavo intere settimane mangiando solo barrette di cioccolata o al massimo un trancio di pizza una volta al giorno, pur di risparmiare soldi per comprare dischi. Credo fossi uno dei DJ più magri al mondo ma in realtà la cosa funzionava a mio vantaggio perché in quegli anni per fare clubbing ci si vestiva in spandex e lycra come i ciclisti. Quando poi arrivarono dischi house a Roma cominciai a comprare pure nei negozi specializzati per DJ nella capitale. Spesso però la disponibilità era legata a poche copie e puntualmente con un paio di settimane di ritardo rispetto al resto d’Europa, per cui bisognava darsi da fare velocemente per trovare i pezzi nuovi ed era fondamentale fare amicizia coi negozianti altrimenti si restava a mani vuote. Eravamo abbastanza competitivi e quando alcuni dei titoli che suonavamo al Devotion divennero reperibili, li compravamo in blocco. Credo di avere ancora copie sigillate di “Devotion” dei Ten City nella mia collezione, alcune le ho regalate durante qualche serata nel corso degli anni.

Il Devotion mi diede la possibilità di fare il salto da “bedroom DJ” a “professional DJ”, fu la piattaforma e il momento ideale per proporre quel tipo di suono. Il nostro pubblico era estremamente eterogeneo ma il nucleo di chi ci seguiva religiosamente era un gruppo di persone, prevalentemente LGBTQ, provenienti dal mondo dell’arte e della moda, e questo facilitò l’introduzione del nostro concetto essendo loro già esposti a quel tipo di sonorità e modo di fare clubbing più internazionale. Dal primo istante in cui poggiai la puntina sul disco capii che questo suono avrebbe conquistato la mia città, la reazione fu a dir poco euforica, come se tutti finalmente avessero trovato il groove ideale per esprimersi liberamente. I pochi increduli cambiarono velocemente opinione e finirono anche loro sul nostro dancefloor. Nel 1987 il termine “house” era comunque un’assoluta novità, i mass media a copertura nazionale solitamente aspettavano (ed aspettano) lunghi periodi prima di convalidare un nuovo fenomeno. Dare spazio a linguaggi diversi comporta dei cambiamenti e in Italia l’introduzione di nuove idee non è necessariamente premiata. Forse ora le cose sono cambiate, non saprei dirlo con certezza perché ho lasciato l’Italia oltre venti anni fa, ma in quel momento l’insieme dei mezzi di comunicazione di massa era un circolo chiuso. La stampa musicale italiana in quegli anni era ancora prevalentemente interessata al rock e la maggioranza delle radio passava dischi da classifica, in molti casi ancora italodisco ed eurodisco. Solo in seguito al grande successo commerciale l’house suscitò attenzione nel nostro Paese, altrimenti sarebbe restata un fenomeno marginale. Io ascoltavo Radio Città Futura che trasmetteva a Roma e nel Lazio, e fu proprio così che conobbi Marco Militello, mio collega DJ e cofondatore del Devotion insieme ad Alessandro Gilardini che conduceva una trasmissione insieme a Marco Boccitto in cui proponevano un repertorio disco, soul, afrobeat e, occasionalmente, proto house. La maggior parte del pubblico comunque è arrivata alla house music tramite “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. o “Ride On Time” dei Black Box, pezzi che personalmente ho trovato banali ma che hanno formato l’orecchio dozzinale della grande maggioranza della gente.

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (foto di Federico Del Prete) courtesy Paolo Di Nola

Paolo Di Nola e Joe al Devotion (Roma, 1987) in uno scatto di Federico Del Prete

Comunque è risaputo che le masse non siano depositarie di gusti sofisticati, e questo avviene non solo in Italia. La prima house, per definizione, venne coniata a Chicago, ed è quella a rappresentare la matrice originale del genere musicale. Racchiude in sé lo zeitgeist della propria generazione e il linguaggio del tessuto sociale da cui proveniva. Nella composizione dei primi brani non erano presenti molti campionamenti perché in quegli anni avere un campionatore a disposizione in un home studio non era così comune. Le tracce erano scarne ma era proprio questa l’innovazione e la forza sonora dell’estetica house, l’impatto di quel suono minimale ad alto volume era molto più diretto ed efficace rispetto alla dance prodotta precedentemente. La musica concepita dai DJ, inoltre, deriva spesso dalla sovrapposizione di suoni, ritmi e melodie, che poi è quanto accade in fase di mixaggio. L’uso del campionamento non è altro che il “riadattamento” della stessa tecnica in studio di registrazione. L’importante è la creatività applicata al metodo e Steve Reich ha cambiato il concetto di musica proprio tramite questo procedimento. Ora come ora, con l’uso del computer, ci sono intere generazioni di musicisti che usano solo manipolazioni audio con risultati eccellenti, l’importante è mantenere sempre una mente aperta rispetto all’innovazione, credo sia proprio ciò ad aver alimentato e mantenuto vivo lo spirito della house nella miriade di mutazioni a cui è andata incontro. Da non dimenticare un altro fattore: la house fu un fenomeno importato nel nostro Paese e come spesso accade in queste situazioni, gran parte della radice culturale viene persa durante l’assimilazione o reinterpretata non sempre nella maniera più corretta. Fu difficile replicarne fedelmente l’essenza perché la house non era solo una tipologia di musica ma un universo e stile di vita per intere comunità di persone. Inoltre, come in tutti i casi in cui si manifesta un grande ed immediato successo economico, entrarono in gioco gli imitatori nel tentativo di replicarne la formula magica. Poi c’era anche il problema degli studi: fare musica non era accessibile come oggi, bisognava avere un equipaggiamento tecnico difficile da reperire, costoso, si doveva conoscere il linguaggio MIDI e bisognava fare i conti con ingegneri del suono che raramente lasciavano carta bianca agli artisti. L’onda creativa avvenne dopo l’impatto commerciale, quando i DJ house italiani si dedicarono a suoni più deep, parallelamente all’avvento della techno, e ciò spinse l’house verso territori più underground e più melodici. Fu proprio tramite il vocabolario più familiare della melodia che gli italiani riuscirono spesso a distinguersi, trovando il giusto terreno per reinterpretare e fare proprio questo stile di musica».

Tra i DJ del Devotion, insieme a Paolo Di Nola, c’è anche il citato Marco Moreggia, uno dei fondatori de I Ragazzi Terribili, un gruppo di giovani attivisti che crea eventi a base di musica dance alternativa: «Iniziai ad organizzare serate nel 1985 ma frequentavo i locali sin dal 1978 e credo di aver vissuto la parte migliore della dance» racconta oggi. «La nuova “ventata musicale” per me giunse alla fine del 1986 e brani come “Move Your Body” di Marshall Jefferson o “Work It To The Bone” dei LNR mi fecero scorgere un mondo del tutto inedito. L’unico posto dove ebbi occasione di ascoltare un intero set di quel nuovo sound fu al Life 85, durante una serata del Devotion. In quel posto riecheggiavano pezzi come “Bring Down The Walls” di Robert Owens, “Taste My Love” di House To House, “I’m A Lover” di Kym Mazelle, “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, “In The City” di Master C & J, “Someday” di Ce Ce Rogers, “Mystery Of Love” di Mr. Fingers, “If You Should Need A Friend” dei Blaze e “Devotion” dei Ten City, giusto per citarne alcuni. Parallelamente al Devotion, nell’estate del 1987, con I Ragazzi Terribili allestimmo il parcheggio del Castello di Maccarese trasformandolo in un club house all’aperto, tutti i sabato. Con orgoglio posso affermare che le prime serate a base di house music, unite all’esigenza di trovare nuovi spazi che non fossero le classiche discoteche, partirono da Roma. Nonostante sia durato per solo due stagioni, il Devotion ha lasciato un segno molto forte. Al citato Life 85 facevano una selezione assai ferrea, la gente che voleva entrare era tantissima e quindi l’organizzazione si spostò presto all’Euritmia, una location dalla capienza maggiore e il primo spazio a prendere le distanze dai soliti club del centro della città, con particolare cura dell’impianto, delle luci, del bar e di tutto il resto, al punto da spronare le persone a macinare un bel po’ di chilometri per raggiungere il posto (in un periodo in cui spostarsi era tutt’altro che usuale) e vivere la serata in modo diverso. Poi, purtroppo, la situazione sfuggì di mano.

line up (I Ragazzi Terribili)

Documento di una delle serate organizzate da I Ragazzi Terribili

Noi, come I Ragazzi Terribili, prendemmo un vecchio dancing creando un pre-serata, altra cosa del tutto nuova perché in quel periodo se non erano minimo le 2:00 non si andava da nessuna parte. Il periodo della Riviera nacque pochi anni dopo ed affini al nostro stile c’erano DJ come Ralf e Flavio Vecchi coi quali ho poi instaurato un lungo rapporto sia d’amicizia che professionale. Personalmente ho cominciato a fare il DJ nel 1988 al Dream nato dalle ceneri del Saint James, primo locale gay in Italia, gestito poi da I Ragazzi Terribili. Mi considero un privilegiato perché entrai in quel mondo da una porta prioritaria, essendo una serata che curavo insieme al mio team. Il pubblico mi conosceva come organizzatore ma non era scontato che mi accettasse, come poi fortunatamente è successo, nel ruolo di DJ che in quel periodo era una figura molto territoriale. Il Dream era un piccolo club ma nonostante ciò lanciò i “fuori orario”, detti anche after hour, perché apriva alle 23:00 e chiudeva alle 11:00 (e a volte persino alle 12:00!) del mattino seguente. Ogni sabato, quindi, mettevo musica per circa dodici ore consecutive. Allora compravo i dischi a New York, da Vinylmania, Dance Tracks ed altri negozi nel Village dove mi recavo regolarmente diverse volte l’anno. A Roma arrivava poco e niente, solo i titoli più commerciali, quindi se volevi un certo suono te lo dovevi letteralmente andare a prendere, investendo parecchi soldi. A New York andavo per comprare i dischi e per farmi avvolgere da quella energia che solo lì potevi cogliere andando nei club a sentire dal vivo quei DJ che poi erano i produttori dei dischi stessi che mettevo alle mie serate. Ebbi la fortuna di assistere all’ultima performance di Larry Levan al The Choice insieme ad altre cinquanta persone, fu una serata memorabile. Nel biennio ’87-’88 gran parte della stampa italiana cominciò ad interessarsi all’house music, ma per molti giornalisti fu solo un modo per parlare di ecstasy e non di musica e della rivoluzione che quella stava portando nel mercato discografico. Da un certo punto in poi, quindi, ho proibito l’ingresso con macchine fotografiche e videocamere alle mie feste, per evitare che gli ospiti si ritrovassero coinvolti in articoli compromettenti. È giusto ricordare però che non tutti i giornalisti volevano fare notizia sbandierando l’uso di droghe. A tal proposito feci una lunga intervista con Enrico Lucherini che rappresentava in modo eccelso l’ufficio stampa del cinema sulle pagine de Il Messaggero. A seguire una rubrica sulla stessa testata di Pietro D’Ottavi ed un’altra, neonata, sul Trovaroma curata da Stefano Cillis, i quali seguivano tutto con molto interesse e professionalità. Le radio invece arrivarono dopo.

Marco Moreggia al Coliseum (1990)

Marco Moreggia in consolle al Coliseum (1990)

A cavallo degli stessi anni a Chicago nacque l’acid house che prese presto piede a Londra ma anche noi a Roma, con I Ragazzi Terribili, la proponemmo con molto successo. Nel 1988 Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito, bandì dalle radio la programmazione di brani acid house ed era persino proibito indossare indumenti che avessero il simbolo dello smile perché rievocava l’uso di ecstasy e degli acidi. Proprio quell’anno tornai a Londra (dove avevo vissuto sino al 1985, quando la musica era focalizzata sul dark, new wave e new romantic) e all’uscita di un locale vidi un gruppetto di amici. Gli andai incontro per salutarli e da lontano mi fecero gesti per bloccare il mio entusiasmo perché nelle immediate vicinanze c’era una camionetta della polizia. I poliziotti erano lì per controllare se qualcuno rivelasse, col proprio atteggiamento, di aver assunto sostanze stupefacenti. In tal caso lo avrebbero portato in caserma. Da lì a breve, come reazione a questo clima di repressione, nacquero i rave. Inizialmente l’house non venne presa sul serio da molti e solo una ristretta nicchia di persone capì il grande potenziale di quel nuovo genere. I giudizi ricorrenti erano sempre gli stessi, come “ma che musica è questa?” o “sembra tutta uguale!”, e l’attenzione di molti si limitò giusto ai brani più commerciali. Mancava insomma il voler approfondire la vastità delle produzioni, la ricerca del suono e la presenza di grandi voci emerse in quel momento storico. Purtroppo lo snobismo musicale che prima toccò altri generi fu riservato anche alla house, c’era addirittura chi ne decretò la morte già nel 1990, facendoci subito dopo la propria fortuna. Ci volle qualche anno prima che i produttori nostrani iniziassero a produrla, io stesso necessitai di tempo per assimilarla. Mi sentii pronto per fare il primo passo in discografia solo nel 1991, quando uscì “I Know Love’s On Earth” del mio progetto Three-Bu. Tra i maggiori impedimenti senza dubbio quello dell’assenza cronica di cantanti, tuttavia sono convinto che quella italiana resti una grande scuola di DJing che ha mantenuto una forte dignità artistica e che non è seconda a nessuno».

Emilia-Romagna
La house music viene irradiata con tempismo anche in Emilia-Romagna, una delle regioni cardine del clubbing italiano. Autorevole testimonianza giunge da uno dei DJ capostipiti, Flavio Vecchi: «Non rammento esattamente il momento preciso in cui entrai in contatto con la house music, ricordo che correva il 1986 e suonavo al Kinki di Bologna. Conobbi quel nuovo genere attraverso delle musicassette che un amico mi spediva da New York. Erano registrazioni di un programma radiofonico, credo su Kiss FM, che si collegava in diretta col club Zanzibar a Newark, in New Jersey, dove suonava Tony Humphries. Insieme ad un ristretto gruppo di amici, iniziai quindi ad ascoltare house music e da lì a breve cominciò la caccia ai titoli. Il primo disco house che comprai fu “Ma Foom Bey” di Cultural Vibe, a seguire quelli della Trax Records come “Move Your Body” di Marshall Jefferson, “Let’s Let’s Let’s Dance” di Keynotes, “Tell Me (That You Want Me)” di West Phillips, “House Ain’t Givin Up” di BnC e “Go Bang” di Dinosaur L. Nel negozio che frequentavo, il Disco D’Oro di Bologna, arrivava un magazine quindicinale chiamato Echoes sul quale venivano pubblicate le prime underground house chart: consultavo con attenzione quelle classifiche insieme ad Achille ‘Aki Tune’ Franceschi (che lavora ancora lì!) il quale ordinava tre o quattro copie di quei titoli che ci parevano i più interessanti. Poi aspettavamo con ansia che arrivassero per poterli proporre durante le serate. I miei primi dischi house li comprai proprio al Disco D’Oro ma quando, nell’estate del 1986, iniziai a suonare in riviera cominciai ad andare pure al Disco Più di Rimini. Non mancavano viaggi a Londra, da dove tornavo con dischi non ancora reperibili in Italia. Non ero certamente l’unico DJ in Emilia-Romagna ad interessarsi di house music ai tempi, ma come dicevo prima il gruppo era veramente circoscritto a cinque o sei persone. Non conoscevo la realtà al di fuori della mia regione perché la mia attività da DJ non mi consentiva ancora di viaggiare per l’Italia, ma quando aprimmo le porte dell’Ethos Mama di Gabicce, nel 1987, mi resi conto di essere assolutamente un pioniere di quella nuova musica, come del resto lo era l’Emilia-Romagna. Lo capii perché nell’arco di breve tempo all’Ethos Mama veniva a ballare gente proveniente da tutto il Paese.

Ethos Mama Club

L’ingresso dell’Ethos Mama Club

Iniziai a suonare i primi dischi house nel 1986 al Kinki di Bologna e qualcosa alla Villa Delle Rose di Riccione, durante l’estate dello stesso anno, dove proponevo anche soul, r&b ed hip hop visto che in circolazione non c’era ancora molta house che mi piaceva. Ricordo reazioni positive da parte del pubblico e a tal proposito rammento un pensiero che feci: una volta che il pubblico “assaggiò” il nuovo tipo di cassa, dimostrando di gradirla, non sarebbe più stato possibile non offrirgliela più. Era una specie di punto di non ritorno e in effetti è stato proprio così visto che dopo pochi anni anche artisti pop iniziarono a pubblicare remix realizzati da DJ e produttori provenienti dal mondo house. Tra 1987 e 1988 comunque le uniche informazioni sulla house underground le reperivo sempre e solo al Disco D’Oro dove Achille riusciva a far arrivare con regolarità diverse riviste musicali inglesi ed americane dove venivano riportati nuovi titoli e nomi di produttori e DJ da tenere d’occhio. L’Italia ci mise un po’ per capire cosa fosse l’house music, semplicemente perché si trattava di un genere non nato entro i nostri confini. La mia prima collaborazione in una produzione house risale al 1990 (“House Of Calypso” di Key Tronics Ensemble Featuring Double J. Flash, nda) a cui seguirono parecchi dischi tra ’91 e ’92 alcuni dei quali sono ora considerati dei classici (cito fra tutti il Vol.1 e il Vol. 2 di Riviera Traxx, prodotti e composti insieme a Ricky Montanari e Kid Batchelor). Conservo ancora trafiletti di riviste britanniche e statunitensi in cui vennero citate le nostre produzioni, e recentemente alcuni nostri brani sono stati ristampati o inseriti in nuove compilation, a testimonianza che noi italiani imparammo presto e bene a comporre house music di buon livello».

Il citato Achille Franceschi (meglio noto come Aki Trax o Aki Tune) è un altro dei primi DJ, in Emilia-Romagna, a proporre house music. «La scoprii per caso. L’assoluta scarsità di informazioni in merito non permetteva infatti di capire esattamente cosa fosse» racconta oggi Franceschi. «Nella tarda primavera del 1986 iniziai a comprare dischi da Groove Records, a Londra, e la maggior parte riportava la scritta “house of Chicago” in copertina. La cosa mi incuriosì e da lì a poco mi resi conto che stessi suonando, inconsapevolmente, house music. Nell’arco di pochi mesi acquistai decine di quei mix, quasi tutti provenienti da Chicago. I miei preferiti? “Mystery Of Love” di Fingers Inc., “Your Love” di Frankie Knuckles, “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Free Yourself” di Virgo. Iniziai a proporli al Lilì Marleen di Misano Adriatico (poi trasformato in Vae Victis ed Echoes) e al Graffio di Modena, supportato dall’entusiasmo del pubblico. In Emilia-Romagna c’erano anche altri DJ interessati come me a quel fenomeno musicale, Maurizio Tangerini, Flavio Vecchi, Pier Del Vega e Renzo Master Funk. In quel periodo la house era un fermento totalmente sotterraneo. Il successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. poi aprì la strada a produzioni più commerciali che nel giro di un paio di anni, a mio parere, snaturarono del tutto l’essenza della stessa house music».

Concerto di Afrika Bambaataa, foto di Marinella Mattioli

Il biglietto del concerto di Afrika Bambaataa organizzato da Il Graffio (dall’archivio personale di Marinella Mattioli)

Un paio di anni prima che la house music giungesse in Italia, a Modena apre un locale “di educazione all’intrattenimento”, così come lo descrive uno dei fondatori, Alessandro “Jumbo” Manfredini, in questo breve articolo di Laura Solieri del 3 settembre 2012. Appartenente al circolo Arci, il Graffio diventa in breve un ritrovo giovanile dove sperimentare allestimenti, proiettare film e proporre musiche alternative come hip hop ed house. «”Devotion” dei Ten City era uno dei pezzi che riempiva di più la pista del Graffio» ricorda oggi Manfredini, che in quel periodo milita nella band dei Ciao Fellini. «Fu la mia palestra coi maestri Maurizio Tangerini ed Achille Franceschi alias Aki Trax, un posto per anime libere e scevre da ogni preconcetto nei confronti di nuovi sound, che rappresentava una situazione abbastanza anomala almeno in Emilia, visto che in riviera alcuni DJ, come Renzo Master Funk, avevano già dato il loro contributo alla causa house. Ai tempi attivammo i contatti anche con altre realtà attraverso la sigla O.N.U. (acronimo di One Nation Underground) creando un circuito di locali “alternativi” dove poter trovare un’offerta musicale diversa dal mainstream. La house però era ancora per pochi, e dischi di quel genere ne arrivavano in quantità ridotta. I miei punti di riferimento erano l’American Records di Roberto Attarantato e il Disco Inn di Fabietto Carniel. Nel 1987 l’uscita di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. aprì sicuramente gli orizzonti a molte persone seppur la culla della house fosse Chicago e non Londra, ma all’inizio in pochi capirono l’importanza di questo genere nato in America. Probabilmente vi era un’incapacità diffusa di interpretare la portata e la potenza culturale che poi quella musica avrebbe avuto. Non a caso per prendere dimestichezza con la house, i produttori italiani impiegarono del tempo perché non era in linea col percorso, sia creativo che di business, dell’italodisco che in quel momento imperava ancora».

Il Graffio (1986), allestimento dedicato al surrealismo, foto di Ernesto Tuliozi

L’allestimento dedicato al surrealismo allestito al Graffio nel 1986. Foto di Ernesto Tuliozi, gentilmente concessa da Alessandro Manfredini

Originario dell’Emilia-Romagna, seppur trapiantato da anni nel Lazio, è pure Maurizio Clemente, produttore del documentario “Italo House Story” (di cui si è fatto cenno qui) che mette ordine, in tempi non sospetti, nella storia della cosiddetta spaghetti house nostrana. «Conobbi la musica house nel 1987 circa, grazie agli amici DJ Ricky Montanari e Cirillo e alle registrazioni in cassetta di vari radio show newyorkesi, come quello di Tony Humphries allo Zanzibar. Un paio di anni più tardi approcciai anche alla discografia grazie all’amicizia con Kid Batchelor e Giorgio Canepa alias MBG. Lavorare nel campo della musica è sempre stato il mio sogno quindi fui coinvolto praticamente all’istante sia grazie a Batchelor, col quale andai negli studi londinesi della Warriors Dance (dove, tra l’altro, i Soul II Soul incisero la loro hit “Keep On Movin”), sia grazie ad MBG che aveva un piccolo studio di registrazione, pilotato dal Commodore 64, con cui alimentava una label distribuita da Severo Lombardoni, la MBG International Records. Su quella label nel ’90 uscì “The Chance” di Optik, un disco realizzato a quattro mani dallo stesso MBG e Montanari a cui collaborai pure io, in un secondo momento, come business manager. Conclusi una licenza esclusiva in Belgio con la Dancyclopaedia negoziandola con Rudy De Waele, oggi autorevole figura della cultura digitale.

Cirillo e Ricky Montanari (1989) courtesy Maurizio Clemente

Cirillo e Ricky Montanari nel 1984 a Berlino, durante un viaggio all’estero per comprare dischi (foto gentilmente concessa da Maurizio Clemente)

Col tempo la mia attività si irrobustì: nel ’92 fondai la Causa Effetto Italia e le etichette Zippy Records e Rena Records a cui fece seguito, nel 1994, la Nite Stuff, col supporto della Flying Records di Napoli. La società campana poi mi affidò pure il ruolo di A&R della UMM, affiancando Angelo Tardio e Giuseppe Manda. Facendo un passo indietro rispetto a tutto ciò però, ritengo che il citato Lombardoni della Discomagic sia stato un personaggio chiave per la house made in Italy di quegli anni. Senza di lui non ci sarebbe stata la diffusione della piano house in Europa e nel mondo intero. In Emilia-Romagna la prima House Convention venne organizzata al Tino di Massa Lombarda nel 1987, poi ripetuta all’Ethos Mama di Gabicce Mare. I primi underground house party, che non erano neanche organizzati in discoteca, però risalgono al periodo 1989-1990.

House Sound Convention II (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer della seconda House Convention svoltasi al Tino di Massa Lombarda (provincia di Ravenna) l’11 novembre 1987 (su gentile concessione di Maurizio Clemente)

A Rimini c’erano diversi giovani DJ che cercavano di emergere da quel sottobosco perché non trovavano spazio nei generi musicali in auge allora promossi dalle radio. Nel movimento underground era in voga anche la “afro” del Cosmic di Verona (oggi associato erroneamente all’italodisco) e de La Mecca. I DJ di riferimento erano Peri, T.B.C. (Claudio Tosi Brandi), Daniele Baldelli, Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli, Rubens, L’Ebreo e Spranga. I primi party in assoluto che organizzammo con la house però erano vuoti, ma la gente cominciò presto a capire questa musica e ad apprezzarla fino a riempire anche i club della collina di Riccione che all’inizio erano piuttosto riluttanti. Dopo le difficoltà iniziali noi appassionati e promotori cavalcammo questo genere musicale come un cavallo di Troia per entrare nel mercato dei club mediante i DJ resident dei locali più famosi di Rimini, visto che la house iniziò ad essere richiesta dal pubblico in tutte le discoteche e non più solo in quelle specializzate. I primi DJ che ho fatto ingaggiare a Londra, ad esempio, suonavano all’Echoes di Gabicce. Ai tempi non era facile seguire i trend di tutto il mondo e per questo ero spesso in viaggio per conto dei proprietari ed art director delle discoteche con cui collaboravo (Gianluca Tantini dell’Ethos, Gianni Nistico del Peter Pan, Gianni Fabbri e Renato Ricci del Paradiso, Pascià e Pineta, Luca Carrieri del Cellophane) proprio per intercettare nuove tendenze musicali. Allora non c’era internet, le uniche fonti di informazione erano il telefono e la stampa di settore, principalmente straniera. Sapevamo che a Roma ci fosse un movimento house intorno al Devotion di cui si parlava tanto anche perché gli organizzatori invitavano artisti come guest dagli Stati Uniti. Noi li seguivamo sperando di poter replicare, un giorno, quelle proposte artistiche internazionali anche in provincia, magari organizzando un unico tour nazionale ed agganciandoci a Roma per dividere le spese, visti soprattutto gli alti costi dei biglietti aerei. A dare spazio alla house music prima dell’esplosione commerciale furono diverse emittenti radiofoniche locali che riuscivano ad avere ospiti in esclusiva come ad esempio i Ten City che io stesso portai in una piccola radio di Riccione di cui non ricordo più il nome.

House Sound Convention III (1987) courtesy of Maurizio Clemente

Il flyer (gentilmente concesso da Maurizio Clemente) della terza House Convention svoltasi presso l’Ethos Mama Club il 24 dicembre 1987. In evidenza, al centro, un motivo grafico già apparso sul precedente che rimanda alla serie “The House Sound Of Chicago” varata dalla D.J. International Records nel 1986

Uno dei brani che fece uscire la house dal territorio prettamente underground fu “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S.: pur non essendo ancora musica da classifica radiofonica, quel genere iniziò a riempire le mega discoteche di allora e ritengo fu molto positivo. Non mancò ovviamente chi accusò la house di essere “falsa” perché fondata sull’uso di campionamenti, ma credo che ciò dipenda dall’annosa questione legata all’utilizzo del computer per produrre musica. A tal proposito ricordo di cantanti, più o meno famosi, che interpretarono dei pezzi house e che si arrabbiarono molto quando si resero conto di essere stati rimpiazzati negli eventi live dai DJ. Dal punto di vista della produzione invece i musicisti venivano ingaggiati perlopiù come turnisti, a volte senza neanche nessun riconoscimento tra i credit (a tal proposito si rimanda a questo approfondimento, nda). Il computer e la house music fecero in modo che un brano fosse interamente prodotto da una sola persona, il DJ, e questo ribaltò gli equilibri già allora in bilico e che oggi, con internet, sono sconvolti ancora di più. Noi italiani comunque fummo secondi solo rispetto all’Inghilterra nella produzione di musica house, in quanto avevamo alle spalle una storia di disco ed italodisco che aprì le porte all’import-export, e questo ne facilitò la divulgazione. Per tale ragione l’italo house fu importante per la scena internazionale, così come lo furono i club italiani che per primi iniziarono ad ingaggiare DJ guest internazionali dando maggiore visibilità alla nostra nazione e al settore dell’intrattenimento di allora».

Umbria
Anche il “cuore verde” dello Stivale, l’Umbria, ricopre un ruolo importante nella diffusione della house. La vicinanza con il Lazio ha generato una specie di ping pong tra alcune realtà da diventare determinante per futuri sviluppi. Nome statuario è quello di Antonio Ferrari noto come Ralf, nato a Bastìa Umbra, in provincia di Perugia, che racconta: «Sono curioso ed attento di natura ma nei primi anni Ottanta non frequentavo le discoteche, erano posti in cui passava musica a mio avviso indigesta. Preferivo di gran lunga i club del rock alternativo, dove peraltro iniziai a lavorare selezionando cose molto eterogenee, da Stevie Wonder a Barry White e i Clash passando per roba ska, punk, funk e il primo hip hop. Ci fu un periodo in cui feci incetta del repertorio funk/soul specialmente statunitense e britannico, con titoli per me completamente sconosciuti. Alla house invece arrivai attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders: era il 1986 e per me fu una vera e propria illuminazione. Ad aprirmi quel mondo nuovo furono le riviste estere che acquistavo regolarmente, New Musical Express, The Face, Melody Maker e i-D, sempre molto attente alle nuove tendenze. Parallelamente a mostrare interesse per la house fu l’amico Vincenzo Viceversa che veniva da un background di musica parecchio dura come industrial, EBM e punk. Non ricordo altri in Umbria. Al di fuori dei confini regionali invece c’erano i ragazzi del Devotion, a Roma, ed anche alcuni DJ in Emilia-Romagna come Aki Trax, Renzo Master Funk, Flavio Vecchi, Ricky Montanari e Wayne Brown. All’inizio però era dura. Iniziai in un piccolo locale a Lacugnano, lì dove facevo coppia con Viceversa, ma le reazioni del pubblico furono negative. Scommisi tutto sulla house facendo incetta di dischi e realizzando set interamente basati su quel genere ma nell’arco di poche settimane mi ritrovai senza stipendio, la gente non apprezzava affatto. Le cose cambiarono quando approdai all’Ultra Violet, un posto che mi garantì un bel successo. In seguito sarei approdato al Matmos di Milano, al Plegine di Firenze, all’Ethos Mama di Gabicce e al Matis di Bologna, praticamente i templi house italiani. I primi dischi house li comprai da Musica Musica, un negozio di Ponte San Giovanni. A seguire da Mipatrini e da DJ News. Erano tutti abbastanza forniti e con le mie continue richieste credo di aver stimolato, in qualche modo, anche i negozianti a richiedere quel tipo di musica. Nel momento in cui cominciai a lavorare al di fuori dei confini regionali, iniziai a frequentare il Disco Più di Rimini e il Disco Inn di Modena, i due negozi più forniti d’Italia. Non mancavano però viaggi a Londra, dove mi fiondavo da Catch A Groove e Black Market Records, e a New York, dove invece andavo da Hard To Get e Vinylmania, dove si potevano incrociare tantissimi DJ della Grande Mela. Ricordo però che una volta da Vinylmania (la cui storia si può leggere qui, nda) accadde una cosa singolare: chiesi dischi di musica house ma non comprendevano affatto cosa volessi. Per loro quella era semplicemente “dance music”, analogamente a quanto avveniva in Italia, sin dai tempi dell’italodisco. Non c’era ancora una grande consapevolezza di ciò che stesse avvenendo, e prima del successo di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., ad esempio, da noi praticamente nessuno mostrò interesse per la house, sia a livello locale che nazionale, se non qualche sparuta realtà. Quando emerse il fenomeno del sampling il campionatore divenne lo strumento principe della house e molti la sposarono per moda ed interesse economico. Seppur nata negli States però, il fenomeno venne pilotato dalla Gran Bretagna, autentico volano del movimento house come fu la Germania per la techno. Noi italiani, comunque, non siamo stati da meno e ci facemmo ben notare, con neanche tanto ritardo rispetto ad altre nazioni. Non a caso oggi si parla di italo house come filone identificativo e rispettato anche oltre i confini».

Un altro nome preponderante della scena umbra è quello di Vincenzo Viceversa, già citato da Ralf poche righe fa ed intervistato qui qualche anno addietro. Ricontattato oggi, il DJ rammenta il suo primo contatto con la house music che avvenne «tra il 1986, anno di chiusura del Svbvrbia, e il 1987, attraverso riviste internazionali come The Face, i-D e New Musical Express, di cui ero assiduo lettore, che segnalavano questo nuovo “trend” con recensioni ed articoli di costume. I primi dischi house che mi folgorarono realmente e mi fecero sposare la causa furono “House Nation” di The Housemaster Boyz & The Rude Boy Of House, “Let’s Get Brutal” di Nitro Deluxe e “The Morning After” dei Fallout (ma anche il remix di “Behind The Wheel” dei Depeche Mode realizzato da Shep Pettibone, con un lungo intro simil-acid), in qualche modo mi ricordavano “Metal On Metal” dei Kraftwerk, “Planet Rock” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force, alcuni remix dei Front 242 ed altre cose electro dell’epoca come “Egypt, Egypt” di Egyptian Lover, “Breaker’s Revenge” di Arthur Baker o capolavori visionari come “Metal Dance” degli SPK e varie cose dei Cabaret Voltaire e di Chris & Cosey, tutti pezzi di matrice elettronica che già proponevo al menzionato Svbvrbia. Per me avvicinarmi a quel genere, nuovo e nero che si stava creando oltreoceano, fu una naturale evoluzione. Tracce elettroniche realizzate interamente con macchine e cantate esistevano già ed erano prodotte principalmente in Europa, ma quando le periferie americane dissero la loro cambiò tutto. Condivisi l’attrazione per la house inizialmente con Ralf, col quale ero in stretto contatto in quanto collaboratore degli stessi locali in cui lavorava come il Norman a Lacugnano, dove organizzammo i primi venerdì house underground della regione. In seguito si aggiunse Sauro Cosimetti. Ralf si avvicinò alla house perché appassionato di musica nera, io in virtù dell’amore per l’elettronica e la sperimentazione, Sauro invece per la via “afro”. Gettando uno sguardo al di fuori dei confini regionali, credo che tutto nacque a Roma col Devotion che adottò un concept praticamente contemporaneo con una location alternativa, un sound system potente, proiezioni visual (attraverso l’uso di diapositive) e musica house pura al 100% dato che i vari Militello, Di Nola e Gilardini in quel periodo vissero o frequentarono New York e locali come il Paradise Garage, oltre ad avere rapporti diretti con David Piccioni del Black Market di Londra. Le preziosissime copie dei primi dischi house americani arrivarono a Perugia proprio grazie a loro. Gilardini inoltre scriveva per il giornale Fare Musica e ricordo una sua intervista a Larry Levan. Attraverso la sua intercessione, realizzai pure io alcuni articoli per la stessa testata, tra cui uno sull’evoluzione EBM/new beat, ed uno su Fela Kuti per cui feci il DJ in after show nel 1988 al Quasar. Così come Ralf, anche io andavo da Musica Musica ma per fare vero shopping discografico era necessario volare a Londra. Ricordo, ad esempio, che di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. ne arrivò solo una copia a Perugia. La comprai ma attratto dall brano inciso sull’altro lato, “Anitina (The First Time I See She Dance)”. Solo in seguito la band esplose per “Pump Up The Volume”, un pezzo fatto per gioco in una notte con l’intento di riempire la facciata del disco, testando il nuovo campionatore acquistato dallo studio di registrazione della 4AD usufruendo dei dischi a portata di mano. I M.A.R.R.S. furono fondamentali per la diffusione europea della house, ma senza dimenticare il successo mondiale di “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e di “Respectable” di Mel & Kim. Il campionatore divenne uno strumento a tutti gli effetti e venne aggiunto all’equipment in uso negli studi di incisione. In Italia la house fu di fatto una evoluzione dell’italodisco che, a sua volta, si rivelò fonte d’ispirazione per la scena americana, basti pensare a “Dirty Talk” di Klein & MBO o a “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick. Quando Di Nola mi disse che “Problèmes D’Amour” era un cult nel circuito di New York e Chicago, mi venne l’idea di fare un remix e mi recai alla sede della Materiali Sonori, a San Giovanni Valdarno, ma lì mi dissero che non avevano né DAT, né nastri e tantomeno una copia del 12″. Credo che i fratelli Bigazzi allora ignorassero quanto quel disco fosse speciale, per loro era solo un vecchio pezzo che non aveva venduto molto. Le mie prime serate house le feci al citato Norman, ma all’inizio il pubblico in Umbria era schifato da quella musica, solo pochi eletti si rivelarono estaticamente entusiasti. Roma invece era al top grazie al Devotion».

Lombardia / Veneto
Una parte del cuore del settentrione nostrano inizia a battere presto per la house music. Operativo tra Lombardia e Veneto, seppur le sue prime incursioni house, come si vedrà tra poco, avvengano prevalentemente ad Ibiza, è il citato Leo Mas che racconta: «Scoprii la house nel 1985 attraverso dischi come “Trapped” di Colonel Abrams, “Music Is The Key” di J.M. Silk, “Jam Tracks” di Kenny “Jammin” Jason e “Funkin With The Drums” di Farley “Jackmaster” Funk. Non ricordo in che modo giunsi ad essi, forse dopo aver letto qualche articolo relativo alla scena di Chicago sulla rivista The Face, la mia fonte d’informazione per tutti gli anni Ottanta. I primi dischi li trovai da Non Stop, il più grosso importatore d’Italia, in Via Quintiliano, a Milano, dove comunque erano disponibili poche copie ed ovviamente non di tutte le uscite. In quel momento il genere non era ancora definito, conosciuto ed etichettato, e quel tipo di produzioni, ai meno attenti, potevano sembrare frutto e parte del mondo electro o, nel caso di Colonel Abrams, persino del pop. Il fenomeno house iniziò a raccogliere una certa importanza solo nel 1986, tra Gran Bretagna ed Ibiza. Iniziarono a circolare più produzioni di quel nuovo sound e la compilation “The House Sound Of Chicago”, edita dalla D.J. International Records, a mio avviso fotografò perfettamente il genere con una tracklist di future mega hit (da “Jack Your Body” di Steve “Silk” Hurley a “Mystery Of Love” di Fingers Inc. passando per “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders e “Move Your Body (The House Music Anthem)” di Marshall Jefferson, nda), senza dimenticare le pubblicazioni della Trax Records e di altre svariate etichette nate proprio quell’anno. Fino all’estate del 1987 i centri di irradiamento, come dicevo prima, furono Ibiza e Regno Unito, poi la diffusione del genere iniziò ad allargarsi al mondo intero. Per lungo tempo le mie fonti restarono sempre e solo le riviste musicali britanniche, oltre al menzionato The Face anche i-D, New Musical Express e Record Mirror. Che io sappia, nessuna testata giornalistica nostrana affrontò l’argomento house music prima del successo internazionale di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., che fu determinante per far conoscere il genere al grande pubblico seppur fosse una produzione inglese che non rispecchiava affatto quella che invece era la house di Chicago, pur possedendo alcuni elementi di quel filone, come i campionamenti. A “Pump Up The Volume” peraltro è legato un divertente aneddoto: poco prima dell’uscita del disco dei M.A.R.R.S., scelsi come nome d’arte Leo Mars, variazione del mio cognome anagrafico, Marras, a cui tolsi le lettere doppie. Da amante della conquista dello spazio e di tutto ciò che riguarda la space age, Leo Mars mi parve davvero perfetto, ma dopo l’uscita di “Pump Up The Volume” chiunque avrebbe potuto pensare che avessi copiato Mars dai M.A.R.R.S., e quindi a quel punto decisi di eliminare anche la R e diventai Leo Mas.

La prima volta che ho proposto house music fu nell’estate del 1985, all’Amnesia di Ibiza, con Alfredo. La alternavo a pezzi come “(I Like To Do It In) Fast Cars” di Z Factor, “Problèmes D’Amour” di Alexander Robotnick, “Al-Naafiysh (The Soul)” di Hashim, “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Clear” di Cybotron, tutti del 1983, che comprai quando non facevo ancora il DJ. Replicai nello stesso posto l’estate successiva, contando su più dischi a disposizione, anche se alla fine restavano insufficienti per reggere l’intera serata giacché mettevamo musica per ben nove ore quotidiane, da mezzanotte alle nove del mattino seguente, senza ospiti, che invece iniziarono a giungere solo nel 1990, per appena uno o due party stagionali (e a tal proposito ricordo il compianto Paul “Trouble” Anderson e Pete Heller). Quei brani quindi finivano irrimediabilmente nel mezzo del programma musicale. Poi di comune accordo con Alfredo, nell’estate ’87, quando la quantità delle produzioni aumentò sensibilmente, suonammo musica house da 116 a 127/130 bpm per ben tre ore consecutive, in cui la tensione sonora raggiungeva l’apice, e fummo i primi a farlo in Europa. Consumato quello sprint di energie, il ritmo tornava a calare per raggiungere i 110 (ed anche meno) bpm, e pure quel momento era assai speciale ed emotivamente coinvolgente, complice la struttura stessa del locale. L’Amnesia infatti era un club open air, fino al 1990 anno in cui venne chiuso (analogamente al Ku) perché non fu più permessa l’attività di discoteche all’aperto sull’isola. Nell’estate del 1987 arrivarono i DJ britannici come Paul Oakenfold, Danny Rampling, Nicky Holloway e Johnny Walker che portarono oltremanica praticamente tutto quello che noi suonammo in quei mesti estivi. Da ricordare anche Nancy Noise, nostra cliente già dall’estate ’86, poi al fianco di Oakenfold al Future, uno dei primi club house/balearic londinesi insieme allo Shoom di Rampling. Poiché Londra rappresentava un “faro” per tutto il mondo, specialmente nell’ambito delle tendenze musicali, da quel momento l’house music cambiò le dancefloor e il modo di vivere la notte a livello planetario, innescando di fatto un’autentica rivoluzione senza precedenti. Ci terrei anche a ricordare che nel genere house, fino all’uscita sulla 10 Records, sublabel della Virgin, della compilation “Techno! The New Dance Sound Of Detroit”, rientravano anche le produzioni made in Detroit, su Transmat, Metroplex, KMS ed altre etichette indipendenti della motor city. Si trattava insomma di un genere unico, non esisteva alcuna distinzione tra i dischi di Chicago e quelli di Detroit. Solo dopo l’uscita di quella compilation, a metà estate del 1988, la seconda “Summer Of Love”, la musica che proveniva da Detroit sarebbe stata etichettata come techno.

Leo Mas e Vasco Rigoni del Macrillo

Leo Mas e Vasco Rigoni, art director del Macrillo

Provai una grande emozione quando all’Amnesia, nel 1987, suonavamo “House Nation” di The Housemaster Boyz And The Rude Boy Of House, vidi l’intera dancefloor con le mani in alto e in quell’istante percepii che stesse accadendo qualcosa di grande ed epocale. L’entusiasmo del pubblico fu sempre in crescendo, tra 1985 e 1986, ma nel 1987 divenne davvero devastante. Quell’anno iniziai a fare il DJ anche in Italia (dopo precedenti occasionali esperienze in qualche club in Emilia-Romagna) ed approdai al Macrillo di Asiago, diretto da Vasco Rigoni. A suggerirgli il mio nome e quello di Alfredo fu Mauro Bondi che organizzava le feste ibizenche al Pineta di Milano Marittima dopo la stagione estiva sull’Isla Blanca, e che poi aprì il Pascià a Riccione. Rigoni coinvolse anche gran parte dell’animazione del Pacha e del Ku. Molti clienti del Macrillo quindi conoscevano già il nostro sound perché frequentavano Ibiza, e mostrarono fortissimo entusiasmo quando si resero conto che non serviva più né attendere l’estate per ballare quella musica, né tantomeno volare nell’isola balearica. Era una situazione eccitante ma soprattutto unica perché, sino al 1987 circa, nelle discoteche italiane i DJ raramente superavano i 116/118 bpm. Come tutti i generi musicali che hanno innescato delle rivoluzioni, anche la house music era legata ad una sostanza stupefacente, l’MDMA, giunta ad Ibiza a fine ’86 da New York e poi prodotta in Olanda dal 1987, anno in cui il consumo aumentò esponenzialmente nell’isola proprio con l’avvento della rivoluzione house in atto (mentre in Italia non si sapeva ancora nulla, l’MDMA entrò nella tabella delle droghe solo nel 1989 dopo un mega arresto avvenuto al Movida di Jesolo). La combinazione house-droga amplificò ulteriormente l’esplosione del genere nei club. Per quanto riguarda le produzioni, noi italiani abbiamo dato presto la nostra interpretazione riuscendo a creare una “nostra house”, amata e riconosciuta ancora oggi da svariati DJ internazionali».

Piemonte
Dopo l’esperienza discografica nei Talk Of The Town di cui abbiamo già parlato qui, Roberto Pezzetti, da Novara, scopre la house music e si trasforma in Jackmaster Pez, cavalcando da protagonista buona parte degli anni Novanta. «Sino a poco tempo prima ascoltavo prevalentemente rock psichedelico e le cose appartenenti alla coda finale della new wave, inclusi brani di gruppi come A.R. Kane e Colourbox, dalla cui collaborazione poi nacquero i M.A.R.R.S.» racconta oggi. «Tolti Michael Jackson, Madonna e Prince, nel 1987 in Italia imperava ancora l’italodisco a cui mi ero avvicinato attraverso il progetto Talk Of The Town prodotto nel Logic Studio dei fratelli La Bionda. Alla house giunsi attraverso “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk (dal quale “presi in prestito” un pezzo del mio pseudonimo), uscito nel 1986. Da lì iniziò l’invasione della house di Chicago (D.J. International Records, Trax Records), poi Detroit rispose con la techno, senza dimenticare i paralleli fenomeni acid e garage, ma all’inizio tutti questi generi trovarono parecchia resistenza, almeno nella mia regione, il Piemonte. I primi confronti coi colleghi di studio, coi discografici e con gli altri membri dei Talk Of The Town furono decisamente deludenti. Nessuno di loro provava lo stesso feeling emozionale che percepivo io ascoltando quelle tracce, e mi gelarono con commenti tranchant tipo “ma questa non è musica, è solo una combinazione elementare tra drum machine e synth!”. La svolta, per me del tutto inaspettata, avvenne nel 1988, precisamente ad agosto quando mi trovavo all’Isola d’Elba, durante una pausa del tour dei Talk Of The Town. Andai in una discoteca dove si ballava house music, programmata e mixata dall’amico Miki The Dolphin, e quella serata accese in me la miccia. Tornato a Milano, conobbi Leo Mas che suonava al Macrillo di Asiago, in una “dodici ore non stop” organizzata dall’indimenticabile Vasco Rigoni. Lì, insieme a lui, anche i primi DJ guest ibizenchi. Da quel momento per me sarebbe stato un costante crescendo. A settembre ’88 iniziai a comprare dischi house con regolarità, prima dai distributori e da negozi occasionali, poi dal Disco Più di Rimini che mi spediva settimanalmente delle cassette coi demo delle nuove uscite per facilitare gli ordini a distanza. In seguito il mio fornitore divenne, per almeno un decennio, Fabietto Carniel del Disco Inn di Modena. Ai primi dischi house è legato un ricordo indelebile: dopo una serata trascorsa al Macrillo con l’amico Johnson Righeira, acquistai in un piccolo negozio di dischi “Strings Of Life” di Rhythim Is Rhythim (Derrick May), e rimanemmo entrambi folgorati. Ancora oggi, dopo oltre trent’anni, quel disco lo ho ancora nel flight case. Giusto pochi giorni fa proprio Johnson mi ha fatto scoprire l’opening del Weather Festival a Parigi, con la versione orchestrale di “Strings Of Life” di Francesco Tristano (ex Aufgang) eseguita dalla Philharmonic Orchestra Lamoureux diretta da Dzijan Emin. Mi sono venute le lacrime agli occhi per l’emozione, consiglio davvero di guardare la clip.

flyer Clinica (1988)

Flyer de La Clinica (1988) su gentile concessione di Jackmaster Pez

Nell’autunno del 1988, sull’onda dell’entusiasmo, iniziai ad organizzare piccoli house party a casa mia. Così nacque la Clinica che, in teoria, era riservata a pochi intimi amici conosciuti all’Elba invece ci ritrovammo in cinquecento provenienti da Roma, Firenze, Genova, Milano, Torino … Tutto crebbe in modo spontaneo e col passaparola (in un periodo in cui internet non era neanche ipotizzabile) generando una tribù di seguaci molto ricettivi per quel nuovo fenomeno musicale all’interno di una cornice radicalmente inedita e meravigliosamente magica. Ricky Pannuto, mio partner ai tempi dei Talk Of The Town all’inizio fortemente scettico nei confronti della house, cambiò idea ed insieme producemmo, nel 1990, “Life Is An Illusion” di Sound Of Clinica, in puro genere “paradise”. In Italia però giornali, televisioni ed emittenti radiofoniche giunsero alla house solo dopo “Pump Up The Volume”, peraltro prestando più attenzione ai primi acid house party londinesi che altro. La house era musica di nicchia e vista di traverso perché legata all’uso dell’ecstasy. Inoltre sia discografia che distribuzione nostrana non erano ancora pronte a voltare pagina, perché inizialmente le soglie di vendita della house erano talmente esigue da non creare alcun interesse per i manager discografici che continuavano a vendere milioni di copie con altri generi. Non a caso la house music si è diffusa attraverso piccole etichette indipendenti, quelle che avevano meno paura di osare. Non dimenticherò mai l’espressione di un discografico dopo aver ascoltato un mio demo house. Aspettava che succedesse qualcosa e alla fine mi guardò stranito dicendomi “mah, mi sembra un jingle per uno spot pubblicitario”».

I primi dischi house made in Italy
Se è arduo indicare chi abbia parlato per primo di house music nel nostro Paese è altrettanto problematico stabilire con esattezza chi abbia prodotto il primo pezzo house in Italia. Quel che pare certo è che a dedicarsi discograficamente a questo nuovo sound è, in principio, solo chi ha già carriere pregresse alle spalle in ambito italodisco e con una certa dimestichezza sia in processi tecnici che trafile burocratiche e, non meno importante, con uno studio di registrazione a disposizione, allora requisito essenziale per incidere dischi. Si ha inoltre l’impressione che la maggior parte dei primi italiani a buttarsi nella produzione di musica house sia allettata in primis da possibili introiti economici più che dallo stile in sé, ed infatti sul mercato giungono diverse riproposizioni, piuttosto pedestri, della formula portata al successo dai M.A.R.R.S. con “Pump Up The Volume”, a dimostrazione che inizialmente la house venga considerata più come mezzo per lucrare velocemente che esprimere la propria vocazione artistica e creativa. Il campionatore viene adoperato per generare frullati citazionistici ma attingendo da fonti prevalentemente riconoscibili anche dal pubblico generalista. Non c’è ancora traccia del minuzioso lavoro dei cosiddetti “crate digger” che passano al setaccio materiale oscuro facendo leva sulla propria sensibilità per individuare i giusti frammenti da trasformare in cose nuove. A differenza di quanto avviene oltremanica inoltre, da noi inizialmente mancano produttori che prendono le mosse da Chicago, e i pochi DJ a volerlo fare non hanno la forza economica sufficiente per approntare prodotti adatti alla stampa, se non qualche demo registrato alla meno peggio. Negli studi che si usa prendere a nolo invece non c’è ancora personale specializzato in house music e a dirla tutta i turnisti mostrano più di qualche riserva nel prendere parte a progetti in cui la musica viene composta in modo del tutto diverso rispetto a quanto fosse avvenuto sino a quel momento. Non mancano neppure produttori infastiditi dal fatto che i DJ inizino a conquistare indipendenza emancipandosi dai musicisti qualificati per realizzare i propri brani. Inoltre non esistono case discografiche, tranne piccole e piccolissime indipendenti, disposte a pubblicare senza riserve pezzi di quel tipo, preferendo puntare ancora sull’italodisco che, nel frattempo, raggiunge la fase creativa più deludente. Si delinea pertanto un quadro in cui i DJ italiani che amano sperimentare nuove fogge stilistiche sono costretti a ripiegare esclusivamente su materiale discografico proveniente dall’estero perché non esiste ancora un equivalente prodotto in patria. Qui di seguito una carrellata (in ordine alfabetico) di produzioni italiane edite nel 1987, candidate ad essere considerate tra le prime prove “friendly house” nostrane. La gallery non ha però la pretesa di essere completa ed esaustiva, pertanto in futuro potrebbe essere oggetto di aggiornamenti.

Alexander Robotnick - C'est La VieAlexander Robotnick – C’est La Vie (Fuzz Dance)
“C’est La Vie” è il brano con cui Maurizio Dami torna a vestire i panni di Alexander Robotnick, personaggio franco-sovietico scaturito dalla sua fantasia e materializzatosi per la prima volta nel 1983 con la seminale “Problèmes D’Amour” a cui abbiamo dedicato un ampio articolo qui. Il pezzo, per cui viene realizzato anche un videoclip, non è esattamente house almeno nella versione principale. Cantata ancora in lingua francese e con gli inserimenti di sax ad opera di Stefano Cantini che giusto l’anno prima partecipa a “Love Supreme” dei Giovanotti Mondani Meccanici, team in cui figura lo stesso Dami, “C’est La Vie” è destinata al pubblico mainstream e alle radio. Più filo house risulta essere però la versione incisa sul lato b intitolata, piuttosto banalmente, Another Version, privata di quasi tutte le parti vocali e contraddistinta da un telaio percussivo più rigido. Nonostante venga licenziato in Francia dalla Sire, il pezzo non raccoglie il successo sperato e spinge l’autore toscano ad “ibernare” il suo alter ego sino al 1991, anno in cui ci riprova ancora con la house attraverso “Les Vacances” edito da Los Cuarenta/Expanded Music ed arrangiato da Claudio Collino ed Elvio Moratto. La nuova delusione sembra tale da infliggere a Robotnick il colpo di grazia. Le cose cambiano però nei primi anni Duemila, quando scoppia l’electroclash e il revivalismo connesso alla “80s dance”: influenti personaggi esteri riconoscono a Maurizio Dami il merito di aver gettato con “Problèmes D’Amour” (ma pure con altri brani meno noti del suo repertorio come “Dance Boy Dance”), i semi della proto house specialmente a Chicago, lì dove il suo primo singolo è considerato un’autentica pietra miliare.

Cappella - BauhausCappella – Bauhaus (Media Record)
Con le mani in pasta nella discografia sin dal 1983, Gianfranco Bortolotti conia il progetto Cappella nell’autunno del 1987 per questo brano-emulo di “Pump Up The Volume” realizzato da Francesco Bontempi, affermatosi in epoca italodisco come Lee Marrow e futuro produttore delle hit di Corona di cui abbiamo parlato qui. «Ero in vacanza negli States ed ascoltai il pezzo dei M.A.R.R.S. che mi colpì al punto da voler creare qualcosa di simile» spiega l’imprenditore bresciano in questa intervista. La vicenda ricorda quanto avvenuto esattamente un anno prima a Ian Levine che tornato a Londra da New York replica “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders attraverso “On The House” di Midnight Sunrise (per tutti i dettagli si rimanda a questo approfondimento). Autentico spirito di emulazione transcontinentale insomma. «“Bauhaus” fu realizzato con tecnologia primitiva» prosegue Bortolotti, «avevamo cinque o sei campionatori Akai tra cui l’S612, ma non disponendo del MIDI tre persone erano costrette a spingere un pulsantino nello stesso istante. Registravamo su nastro a 24 piste per poi editare con la taglierina ed attaccare con lo scotch. Le tastiere erano al 99% analogiche come del resto l’effettistica della Lexicon che costò un occhio della testa. Tra le poche macchine digitali di cui disponevamo c’era la Yamaha DX7. Il pezzo venne realizzato in una cantina dove era allestito lo studio (il 24th Street Studio in Via Sant’Emiliano, a Brescia, nda) di cui sarei diventato socio e che poi avrei spostato in Via Martiri Della Libertà». “Bauhaus” macina licenze sparse in tutto il mondo, Svezia, Paesi Bassi, Germania, Francia, Spagna, Grecia e persino Australia. In Canada e Regno Unito viene pubblicato con un titolo diverso, “Push The Beat” perché, come rivela Bortolotti contattato per l’occasione, «chi rilevò la licenza tentò di fregarci il 50% dei diritti di master e d’autore, cercando di far passare il pezzo per un medley con “Push The Beat”, un campione che figura solo sulle prime copie britanniche. Ovviamente sistemammo la questione». La scarsità sul mercato di materiale di quel tipo, dovuta alla difficoltà tecnica nel replicare il risultato considerati gli esorbitanti costi per allestire uno studio, determina la fortuna di “Bauhaus”, sostanzialmente la risposta italiana a “Pump Up The Volume”, e a tal proposito Bortolotti dice, sempre in quell’intervista del 2015, che «fu la chiave di volta nella mia carriera da produttore, il successo continentale da cui germogliò l’elemento determinante per la nascita della Media Records e che iniziò a lanciare lo stile italiano in Europa». Oggi aggiunge: «Credo che “Bauhaus” abbia venduto circa un milione di copie e pensarci mi riporta alla memoria qualche aneddoto: quando lo pubblicai in Italia ormai l’italodisco era agli sgoccioli e i titoli vendevano mediamente duecento/trecento copie, lasciando emergere un malessere generale nella discografia. Le richieste del pezzo però furono straordinarie, così alte da non poter sostenere da solo i costi della stamperia. Quando ordinai la prima tiratura di oltre trentamila copie il buon Antonio Cagnola della Microwatt, che ormai ci ha lasciati, si spaventò e mi disse che era necessario versare almeno il 50% in anticipo. Fui costretto a farmi prestare il denaro da Diego Leoni, in cambio di quote della Media Records. Alla fine ne stampai quasi centomila, e così fu per tutte le nostre hit sino al 2004, quando lasciai. Sia la Microwatt che la Ariston di Alfredo Rossi, per quindici anni, mi inviavano puntualmente ogni Natale mazzi giganteschi di fiori (rose o gardenie) e champagne per ringraziarmi del lavoro che gli passavamo. Rossi inoltre mi mandò suo figlio a “scuola”, a Roncadelle, per due o tre anni, chiedendomi di crescerlo adeguatamente». “Bauhaus” esce su Media Record (senza s finale), brand che il produttore bresciano crea nel 1986 in seno all’italodisco e quando è ancora affiliato alla Discomagic di Severo Lombardoni. Ci vorrà ancora del tempo prima di giungere alla Media Records (il primo ad uscire col nuovo marchio è “Shadows” di 49ers, 1989). Nel frattempo Cappella continua ad essere il nome con cui Bortolotti scommette sulla house filobritannica, a partire dal fortunato “Helyom Halib” del 1988 (con un campionamento di “Work It To The Bone” degli LNR), “Get Out Of My Case” ed “House Energy Revenge”, entrambi del 1989, sino a “Be Master In One’s Own House” del 1990. Nel 1991, sull’onda della compenetrazione tra suoni techno e ritmiche house in stile Bizarre Inc (“Such A Feeling”, “Playing With Knives”), escono “Everybody” e “Take Me Away”, prima della svolta eurodance con hit milionarie (“U Got 2 Know”, “U Got 2 Let The Music”, “Move On Baby”, “U & Me”, “Move It Up”, “Tell Me The Way”, “I Need Your Love”) che legheranno Cappella sia ad un nuovo volto sonoro che fisico visto che il ballerino/body builder Ettore Foresti, già coinvolto in Superbowl tra ’85 e ’87, lascia spazio a Rodney Bishop, Kelly Overett ed Alison Jordan che contribuiscono a mantenere alte le quotazioni del progetto per diversi anni.

DJ Lelewel - House MachineDJ Lelewel – House Machine (Renata Edizioni Musicali)
Trainato da sezioni di pianoforte sincronizzate su una base in 4/4, “House Machine” è il brano di Daniele Davoli alias DJ Lelewel, disc jockey di Reggio Emilia e tra i primi ad incidere musica house nel nostro Paese. «Ai tempi c’erano già dei sentori di house music, spesso mischiata a rimasugli dell’electro usata per la breakdance come ad esempio “19” di Paul Hardcastle, del 1985, che conteneva qualche elemento che si sarebbe poi ritrovato nella house» spiega oggi Davoli. «Allora lavoravo al Marabù di Reggio Emilia e in particolare ricordo la serata del giovedì dedicata agli studenti, in cui proponevo la cosiddetta “afro”, quella che per intenderci passavano DJ come Daniele Baldelli, Moz-Art, L’Ebreo, Spranga, emittenti come la bresciana Radio Azzurra e locali come il Chicago di Baricella di Bologna. Era un filone intorno al quale c’era un forte interesse specialmente nella zona del lago di Garda, a Lazise e a Verona. Le prime influenze che emersero quando divenni un produttore infatti richiamavano più l’afro che altro. Comunque il pezzo che mi fece capire quanto fosse forte la house fu “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders, del 1986. L’anno dopo giunse “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. con cui tutti capirono che la house era arrivata e sarebbe rimasta. Ricordo però che ad avere la meglio da noi era ancora la dance hi NRG in stile Stock, Aitken & Waterman, specialmente nei locali di provincia come il citato Marabù. Seppur fosse gestito molto bene e meta di un corposo pubblico, non era il luogo più adatto per sperimentare nuovi stili tranne il giovedì, quando non scendevo a nessun compromesso con le hit da classifica e facevo un programma afro che, verso la fine, includeva qualche pezzo house. Partivo molto lento, intorno agli 85 bpm, tirando dentro un mucchio di cose eterogenee, da James Brown alla new age». A produrre “House Machine” è il compianto Stefano Cundari, co-fondatore della Memory Records che ai tempi inizia a prendere le misure di un nuovo segmento di mercato, quello della house per l’appunto. «Il grande Cundari, espertissimo in tecnologia, mi insegnò tanto, fu lui a spiegarmi come realizzare i remix col Revox ad 1/4 di pollice, a tagliare, duplicare ed incollare il nastro» prosegue Davoli. «Prima di diventare un produttore di fama internazionale inoltre, Cundari era un DJ e per questo capiva benissimo la mentalità di noi disc jockey, anche se quando ci conoscemmo aveva smesso già da tempo di mettere i dischi nei locali preferendo dedicarsi esclusivamente alla produzione discografica. Aveva una struttura avviatissima, un’etichetta di successo e due studi di registrazione che erano ad appena cinquecento metri da casa mia. Grazie a questa vicinanza potevo andare a trovarlo spesso perché condividevamo la passione per le auto d’epoca. Paradossalmente parlavamo poco di musica perché a me non piaceva molto il genere con cui lui fece fortuna, l’italodisco, che cercavo di evitare nelle mie serate fatta eccezione per le hit da classifica che non potevo proprio esimermi dal passare. Un giorno, durante uno dei nostri incontri, gli dissi che la house music stava prendendo piede in Europa e lui annuì sostenendo che anche altri gli avessero riferito la stessa cosa. A quel punto mi propose di provare a fare un brano, non con l’intento di incidere una hit ma giusto per tenere un piede nel futuro. La musica che gli dava da mangiare era ancora l’italodisco ma Cundari mostrò la curiosità e la volontà di sondare le potenzialità di quel nuovo genere e per farlo avremmo potuto usare gli strumenti in suo possesso come il campionatore Akai S900 e vari sintetizzatori (Prophet-5, Minimoog, PPG). Per “House Machine”, nello specifico, adoperammo un sequencer Roland programmato da Stefano perché ai tempi non ci capivo davvero niente, l’Akai S900 (o forse due), un Korg M1 con cui eseguimmo la parte di pianoforte, e un PPG Wave 2.3 per il basso. La batteria invece era un misto tra campioni e percussioni prese dalla mitica Linn LM-1. Per finalizzare il tutto impiegammo un paio di settimane circa ma lavorando quattro/cinque ore per volta in qualche serata. Durante il giorno infatti Stefano si occupava degli artisti del suo catalogo, si dedicava a me solo dopo le 18, rimanendo in studio sino alle 21/22. Il brano non fu un successo, vendette 1500 copie che poi, probabilmente, furono destinate quasi tutte all’export, ma fece anche una manciata di licenze, in Olanda e in Germania, seppur non vidi mai i rendiconti (il socio di Stefano, Alessandro Zanni, non era tra i più solerti nel mandarli). Le perplessità di Cundari sorsero nel 1988 quando avremmo dovuto preparare il follow-up. Nonostante non fosse un fiasco, “House Machine” non raggiunse i risultati che si aspettava o sperava. Siccome vendeva ancora molte copie di italodisco, fu titubante a dedicarmi del tempo per un disco house. Mi chiese innanzitutto di pensare ad un pezzo con più musica, a suo avviso per ottenere buoni risultati non bastava incidere una traccia adatta solo ai disc jockey, il rischio era di vendere di nuovo troppo poco. Né io, né Stefano però eravamo musicisti, capivamo la musica ma mettersi davanti ad un pianoforte e suonarlo è un altro paio di maniche. Avevamo bisogno di coinvolgere un musicista e Stefano interpellò Mirko Limoni che, di tanto in tanto, collaborava con lui a cottimo. In mente avevo una vaga idea di ciò che avrei voluto realizzare ma dopo appena un paio di pomeriggi Cundari si demoralizzò e ci disse che era costretto a mettere il progetto “in freezer” per dedicarsi ad altro. Aggiunse che lo avremmo potuto riprendere più avanti, qualora la voglia non fosse scemata del tutto. Delusi per quella decisione, uscimmo affranti dallo studio ma Mirko si mostrò subito dubbioso. Secondo lui le idee buttate giù erano buone e mi propose di raggiungerlo nello studiolo che aveva allestito con alcuni amici tra cui Valerio Semplici. Lì potevamo dedicarci senza limiti di tempo perché lui usciva dal lavoro a mezzogiorno ed avremmo avuto tutto il pomeriggio e parte della sera per strimpellare e fare quello che ci pareva, senza alcuna costrizione. Nove/dieci mesi dopo il pezzo era pronto, si trattava di “Numero Uno” che pubblicammo come Starlight, omonimo del locale estivo in cui lavoravo. I direttori della discoteca si offrirono di pagare le spese della copertina stanziando un milione di lire per il grafico. In cambio noi avremmo dovuto inserire il nome del locale da qualche parte. Nessuno avrebbe potuto immaginare che “Numero Uno” (con un sample preso da “Beyond The Clouds” dei Quartz, pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni ed oggetto di una ricchissima serie di licenze in tutto il mondo, nda) fosse il follow-up di “House Machine”. A sua volta Starlight fu il predecessore di “Ride On Time” dei Black Box. Alla luce di tutto ciò quindi posso affermare che “House Machine” mi incoraggiò ad intraprendere l’attività di produttore discografico oltre a fornirmi aiuto per farmi conoscere nell’ambiente. Da lì a breve infatti cominciarono a giungere le prime richieste di remix come quello di “Happy Children” di P. Lion che mi commissionò Lombardoni. Cose italiote, senza dubbio, ma che mi garantirono comunque una certa esposizione. Allora non riuscivo neanche ad immaginare di poter conquistare le classifiche straniere, soprattutto quelle inglesi, esisteva solo una flebile speranza contrapposta alla consapevolezza di non poter riuscire in quella impresa. “House Machine” mi fece capire come e cosa fare per creare l’arrangiamento di un disco, mi fece conoscere prima Mirko e poi Valerio, insomma proprio con quel pezzo si aprì la porta della mia carriera da produttore». Nel 1989 Davoli darà vita ad uno dei capisaldi della italo house, “Ride On Time” di Black Box, che sommato al menzionato “Numero Uno” di Starlight, “Do-Do-Don’t Stop” di Rosso Barocco, “Airport 89” di Wood Allen e “Grand Piano” di The Mixmaster costituisce l’ossatura dell’affiatato team della Groove Groove Melody creato insieme a Mirko Limoni e Valerio Semplici.

DJ System - Animal HouseDJ System – Animal House (Discomagic Records)
DJ System è il team project messo su da Stefano Secchi, Maurizio Pavesi e Marcello Catalano con l’intento di cavalcare l’esplosione della house music dopo il successo di “Pump Up The Volume”. La loro “Animal House” è annodata in modo inequivocabile al disegno creativo dalla hit dei britannici, con sample piazzati qua e là, alcuni dei quali ben noti come quello di “Thriller” di Michael Jackson, e qualche immancabile scratch. Il titolo è ispirato dal latrato di un cane incastrato nelle pieghe ritmiche insieme al nome del progetto fatto balbettare così come si usa fare a Chicago. Nel 1989 Secchi e Pavesi ci riprovano con la poco nota “Party Time” su Rolls Record, ma si rifaranno entrambi con gli interessi negli anni a seguire. La Discomagic Records di Severo Lombardoni riprende invece il brand DJ System nel 1992 per “Yeah!” prodotto da Maurizio Braccagni quando la tendenza commerciale in Italia si è spostata sui suoni derivati dalla techno dei rave britannici, tedeschi ed olandesi.

Fun Fun - Gimme Some Loving (House Mix)Fun Fun – Gimme Some Loving (House Mix) (X-Energy Records)
Le Fun Fun spopolano tra 1983 e 1984 coi singoli “Happy Station” e “Color My Love”, ispirati entrambi dalla disco hi NRG di Bobby Orlando. Nel corso degli anni vengono ingaggiate diverse vocalist, tra cui Ivana Spagna, ed altrettante frontwomen a rappresentare l’immagine pubblica del duo secondo una modalità lavorativa ampiamente rodata nell’ambiente dell’italodisco nostrana (a tal proposito si rimanda a questo reportage). “Gimme Some Loving” è la cover, arrangiata da Paolo Gianolio, dell’omonimo di Spencer Davis Group, ma l’uso del termine House Mix è decisamente fuorviante. È vero che c’è un beat costruito con la TR-909 e qualche inserto pianistico ma, contrariamente a quanto forse pensano i produttori allora, ciò non è sufficiente a farne un brano house, e basta un veloce ascolto per sfatare ogni dubbio. Una “House Mix” realizzata dall’olandese Ben Liebrand figura pure nel successivo “Could This Be Love”, ma di house se ne sente davvero poca pure in questo caso, a testimonianza di quanta confusione ed approssimazione ci fosse intorno al termine “house” nel 1987.

Glance - Turas Open LegsGlance – Turas / Open Legs (Les Folies Records)
Ad orchestrare il lavoro dietro lo sconosciuto progetto Glance è Tony Carrasco, DJ americano di origini italiane che alle spalle ha un successo di proporzioni epocali, “Dirty Talk” di Klein & M.B.O., uscito nel 1982 e considerato una specie di proto house. Ad affiancare Carrasco sono Sergio Pisano, i fratelli Nicolosi (Giuseppe, Lino e Rossana) e la vocalist Dora Carofiglio, altri nomi ben noti nella discografia nostrana (Novecento, Valerie Dore). Delle varie versioni incise sul 12″ spicca meglio la Sexy Piano che, come promette il titolo, sfoggia un assolo di pianoforte incastrato a dovere in un basso slappato di matrice funk derivato dall’omonimo brano originale, edito dalla Proto Records nel 1983 e firmato Amnésie. Il tutto su un beat “dritto” a garantire una sorta di “effetto Paradise Garage”. Il disco viene pubblicato sulla Les Folies Records che all’attivo ha solamente un’altra uscita, “Limit” di True Colors, prodotta da Pisano nel 1984 ed oggi ben quotata sul mercato dell’usato.

L.A.N.D.R.O. & Co. - Get Up, Get On UpL.A.N.D.R.O. & Co. – Get Up, Get On Up (New Music International)
Prodotto da Pippo Landro, ex membro dei Gens e titolare di uno dei negozi di dischi più noti di Milano, il Bazaar Di Pippo, Maurizio Macchioni e il sopraccitato Sergio Pisano presso il Les Folies Studio, “Get Up, Get On Up” è uno dei primi 12″ del catalogo New Music International, etichetta che lo stesso Landro fonda nel 1987. Il brano è costruito in maniera semplice, con assoli di tastiera jazzati, un breve messaggio vocale, una parte pseudo rap, un sample preso da “Kiss” di Prince e la chiusura con un virtuosismo di tromba. Dal 1988 L.A.N.D.R.O. & Co. ospita nuovi autori: a “Belo E Sambar” mettono mano Massimino Lippoli ed Angelino Albanese mentre “Hey Mr. D.J.” viene prodotto da Fabrizio Rizzolo, Franco Diaferia e Marco Martina. Con “I’ve Got Your Love”, “Un Otro” e “Zodiac Lady” l’attenzione si sposta progressivamente verso il downtempo.

MBO - M.B.O. Liverpool ThemeMBO – M.B.O. Liverpool Theme (Limited Edition Records)
Il successo internazionale raccolto con “Dirty Talk” di Klein & M.B.O. (nato da un’idea di Davide Piatto dei N.O.I.A. seppur il suo nome non figuri tra i credit – si legga questo reportage per tutti i dettagli) galvanizza il compianto Mario Boncaldo che nel 1987 avvia il progetto MBO lasciandosi affiancare da Elio Crociani. “M.B.O. Liverpool Theme” ricalca lo schema di “Dirty Talk” sfruttando più incisivamente la rhythm section di una Roland TR-808, elemento che stuzzica l’attenzione oltreoceano negli anni immediatamente precedenti alla nascita della house. In “M.B.O. Liverpool Theme”, ad onor del vero, di house non c’è granché, fatta eccezione proprio per il telaio della batteria analogamente a “Don’t Stop The Music” di Lee Marrow, ma Boncaldo era convinto che la house fosse una sua invenzione. A tal proposito qualche anno fa scrive sul suo sito: «Nel 1985 Rocky Jones, patron della celebre etichetta D.J. International Records, prese spunto da “Dirty Talk” e continuò il trend chiamandolo impropriamente The House Of Chicago. “La Casa di Forlì” sarebbe andata certamente poco lontano! Rifiutai, diverse volte, proposte accorate e suppliche di Rocky che mi voleva con lui a Chicago. Non sempre nella vita si fanno le cose giuste e purtroppo lo si capisce col senno di poi». Intervistato dallo scrivente nel 2011, Rocky Jones dichiara però di non aver mai sentito parlare di Boncaldo a Chicago, e che in realtà fu l’amico Benji Espinoza, commesso presso il negozio di dischi DJ Records, a segnalargli quel pezzo. «Incontrai Boncaldo tempo dopo in Francia, dove era insieme a Tony Carrasco» spiega, «mi sarebbe piaciuto lavorare con loro per traghettarli in una dimensione più vicina alla house che alla disco. “Dirty Talk” resta un gran pezzo, avanguardista nell’uso della batteria ed ispiratore per chi in seguito si è dedicato alla house, ma il mondo intero sa che la genesi della house spetta ai creativi di Chicago. La disco e la house non vanno assolutamente confuse perché non sono la stessa cosa, e il pezzo di Boncaldo appartiene più alla disco visto che fu prodotto nel 1982 quando la house, di fatto, non esisteva ancora». Da abile uomo d’affari, Boncaldo cerca comunque di tirare acqua al suo mulino facendo scrivere sul centrino del disco “the original house sound of M.B.O.” parodiando, anche graficamente, il “the house sound of Chicago” che si ritrova sull’omonima compilation della D.J. International Records uscita nel 1986. Un secondo 12″ marchiato con la sigla MBO viene commercializzato, pure in formato picture disc, attraverso la lombardoniana Technology su cui, sempre nel 1987, esce “War… No More” assemblato insieme a David Sabiu. Analogamente a “M.B.O. Liverpool Theme”, la title track incrocia stilemi house a impostazioni eurobeat, “Theme For Peace” è un restyling piuttosto raffazzonato di “Dirty Talk” mentre “House Nation” suona come la versione tarocca dell’omonimo di The House Master Boyz And The Rude Boy Of House, un classico di Farley Jackmaster Funk pubblicato l’anno prima dalla Dance Mania di Chicago.

Midas - One O OneMidas – One O One (DFC)
Dietro il nomignolo Midas si celano Riccardo Persi, Davide Sabadin, Claudio Collino ed Andrea Gemolotto che ritroveremo più avanti in altri progetti. “One O One” sintetizza certe sfumature della house sampledelica britannica con suoni e costruzioni che risentono ancora dell’influsso italodisco specialmente nella Extended Dance Mix. Più filo-house risulta la Reaction Drums Mix, in cui presenzia ancora il sample dell’arcinota “Long Train Running” dei Doobie Brothers ma combinato insieme al suono di quello che pare un organo hammond. Persi & co. incideranno ancora come Midas pubblicando “Nummer Een” nel 1988 e il meglio riuscito “You Make Me Feel So Good” nel 1989, quando la house italiana acquista più personalità e carattere.

PPG - Jack The BeatP/P/G – Jack The Beat (DFC)
P/P/G sta per Persi Previsti Gemolotto, i tre che uniscono le forze per creare il disco in questione. Intervistato anni fa in Decadance Extra, Riccardo Persi racconta il modo in cui giunge alla house, lasciandosi alle spalle l’esperienza coi Krisma e con l’italodisco. «Le major erano ancora legate al concetto di album, io puntavo invece ad incidere dischi mix con etichette indipendenti che velocizzavano molto l’iter, bypassando burocrazia ed attese interminabili dovute al passaggio del pezzo di scrivania in scrivania. Dopo aver creato i Premio Nobel con Claudio Collino e Davide Sabadin, decidemmo di prendere le distanze da quello che era l’andazzo generale della dance italiana. Volevamo uscire dagli schemi, fare più tendenza e magari abbracciare da vicino il mondo dei DJ, così nel 1987 fondammo un’etichetta nuova di zecca, la DFC, acronimo di Dance Floor Corporation, ammiccando pure alla sigla simile DMC. Non a caso proprio in quel periodo conoscemmo Andrea Gemolotto che ai campionati DMC si faceva chiamare Cutmaster-G». Il catalogo della DFC è inaugurato da “Jack The Beat”, prodotto nello studio di Gemolotto ad Udine e a cui partecipa Fulvio Zafret come tecnico del suono. Il pezzo segna la fusione tra house ed italodisco: da una parte la classica costruzione ritmica con kick/hihat in levare, snare e qualche vocione a declamare il titolo ammiccando al jack di estrazione chicagoana e ai successi dei J.M Silk, dall’altra un bassline che pare citare quello di “Moskow Diskow” dei Telex, pianate jeffersoniane e qualche scorcio melodico classicamente disco/funk a richiamare “Dancer” di Gino Soccio. Tra ’88 e ’89 il brano viene pubblicato anche all’estero ma il follow-up, “Funky Domanuva”, rimane nell’anonimato. Persi e Gemolotto si rifaranno a partire dal 1989, quando realizzano “Sueño Latino” del progetto omonimo a cui seguiranno svariate altre hit (Atahualpa, Glam, Ramirez) che renderanno la DFC uno dei capisaldi della dance made in Italy negli anni Novanta.

The Jam Machine - Funky (Let's Go)The Jam Machine – Funky (Let’s Go) (X-Energy Records)
Prodotto da Dario Raimondi ed Alvaro Ugolini per la loro X-Energy Records, “Funky (Let’s Go)” mette insieme alcune delle caratteristiche primarie della house diffusasi ai tempi in Europa, un beat in 4/4, un basso avvolgente, qualche breve sample vocale giocato col campionatore ed un paio di elementi melodici. Ad arrangiarlo è Paolo Gianolio, che ha già maturato esperienze in ambito dance collaborando con musicisti di prim’ordine come Celso Valli, Claudio Simonetti (nell’album dei Crazy Gang) e Mauro Malavasi. «Conobbi Dario Raimondi qualche anno prima in uno studio di Cremona dove ci incrociammo in occasione di un lavoro che poi portammo avanti insieme, credo fossero alcuni brani per le Fun Fun» ricorda oggi Gianolio. «Da lì nacque la collaborazione che andò avanti per un bel periodo in cui producemmo diversi progetti, proprio come The Jam Machine, uno di quelli nati davvero per caso. La costruzione di “Funky (Let’s Go)” era basata sul puro divertimento e su idee da cui ne sbocciavano altre. Andavamo avanti a ruota libera, senza alcuna tensione o ansia per il risultato. In quegli anni la tecnologia aiutava fino ad un certo punto, a seconda delle necessità ed esigenze ricorrevamo a trucchi ed artifici. Erano tempi in cui ci si poteva esprimere attraverso varie tipologie di dance ma l’influenza della house mi attrasse per i suoi contenuti. Nonostante le drum machine e i sequencer fossero già molto usati, la house manteneva di fondo una cosa fondamentale, lo swing e il “nervo” musicale che faceva ballare anche le sedie». Non è mistero che in quel periodo più di qualche musicista riserva alla house giudizi tutt’altro che lusinghieri in virtù del fatto che fosse una musica realizzabile anche da chi non in grado di leggere lo spartito. A tal proposito Gianolio sostiene che «leggere lo spartito non significa saper costruire un brano musicale. La dance si è creata il proprio pubblico indirizzando il ritmo sulla semplicità scelta anche da chi, pur non avendo preparazione musicale, ha saputo inventare melodie ripetitive ma accattivanti su ritmi al servizio del ballo. Le buone idee non tengono conto da dove vengono». Nel passato di Gianolio c’è anche la collaborazione con la Goody Music di Jacques Fred Petrus (assassinato proprio nel 1987) in progetti come Change, Silence e The Brooklyn, Bronx & Queens Band – meglio noti come B. B. & Q. Band. Probabilmente una prova più che utile per ciò che avviene in seguito con la X-Energy Records. «L’esperienza che un musicista acquisisce nel suo cammino gli servirà sempre da base per sviluppare il proprio gusto secondo il proprio carattere. Silence ad esempio, che mi portò a collaborare con Celso Valli, mi aprì il mondo della melodia e dell’armonia applicate alle canzoni. Change invece mi ha fatto capire, grazie a grandi musicisti come Davide Romani e Mauro Malavasi, come avvicinarsi alla musica in modo che la musica stessa ti si avvicinasse. La mia vita è trainata dalla musica, l’importante è viverla come mezzo per esprimerla. L’anima è, con o senza sapere, il tramite, il ponte che permette di esprimere al mondo la sensibilità di ognuno di noi» conclude Gianolio. “Funky (Let’s Go)” viene registrato presso il Pick-Up Studio di Reggio Emilia e licenziato all’estero (Canada, Stati Uniti, Spagna, Paesi Bassi) conquistando la presenza in diverse compilation. Dal 1988 il progetto The Jam Machine ospiterà autori a rotazione: a “Graffiti House” lavorano Julio Ferrarin e Gino Woody Bianchi, in “Everyday”, del 1989, figurano invece Corrado Rizza e i cugini Frank e Max Minoia. L’ultimo è “Move On Up” del ’93, cover dell’omonimo di Curtis Mayfield, prodotto dal team della Lemon Records (di cui abbiamo parlato qui) col supporto vocale di Orlando Johnson e Karen Jones.

Yagmur - Ali BabaYagmur – Ali Baba (DFC)
A poca distanza da “Jack The Beat” di P/P/G di cui si è parlato più sopra, Persi, Collino e Sabadin incidono un pezzo contraddistinto da linee melodiche orientaleggianti. All’interno un sample vocale tratto da “Electrica Salsa (Baba Baba)” dei tedeschi Off ed assoli di scratch, “tag” sonora di Gemolotto che allora bazzica il mondo del mixing acrobatico del DMC. L’Extended Dance Mix è più connessa alla new beat che alla house, la Percussion Mix invece lavora meglio il ritmo, anticipando la formula che gli Yagmur presentano in “Woo-Alli-Alli” del 1988, battendo ancora itinerari esotici ed adoperando un sample vocale che si ritroverà più avanti in “We Are Going On Down” dei Deadly Sins.

1988, un anno spartiacque
Dal 1988 in poi la produzione va intensificandosi ma l’impressione è che la house, in Italia, continui ad essere ancora discograficamente battuta con scarsa o inesistente cognizione di causa a supporto di parodie, cloni di successi esteri e brani ironico-demenziali come “C’è Da Spostare Una Macchina” di Francesco Salvi che ricicla la base di “The Party” di Kraze, “Checca Dance” di Gay Forse Featuring D.J. Roby, che canzona Claudio Cecchetto in un quadro di continui riferimenti all’omosessualità, ed “Inno Del Corpo Sciolto” di Toilet Paper, che campiona l’omonimo di Roberto Benigni e semina citazioni per “È Qui La Festa?” di Jovanotti. Per diversi discografici nostrani la house pare una parentesi stilistica più che un ceppo culturale, qualcosa a cui approdare adoperando certi suoni ma ignorandone le origini. Ed ecco sfilare le presunte house version di “Just An Illusion” degli Imagination a firma Marco Martina (arrangiata da Franco Diaferia) e quella di “Jesahel” dei Delirium. Persino la blasonata Irma Records ha, come racconta Vittorio “Vikk” Papa su Orrore A 33 Giri uno scheletro nell’armadio: “Tombao Meravigliao”, brano che ironizza sullo sciatore Alberto Tomba in una delle sue stagioni più fortunate, facendo il verso al “Cacao Meravigliao” di Renzo Arbore (dal programma tv “Indietro tutta!”). Nulla di house al suo interno ma vale la pena soffermarsi su uno degli autori, Cesare Collina, un paio di anni dopo all’opera con Kekko Montefiori e Flavio Vecchi su Key Tronics Ensemble, diventato uno dei vessilli della italo house. Il 1988 è anche l’anno in cui Lorenzo Cherubini conduce, su Italia 1, il programma “1, 2, 3 Jovanotti”, imponendosi al pubblico dei giovanissimi grazie al primo album, “Jovanotti For President”, un mix tra hip hop all’italiana, pop e qualche riferimento house. Il mercato però necessita ancora di tempo, e a testimonianza di ciò è utile ricordare che uno dei top seller italiani del 1988 è “Faccia Da Pirla” di Carlo Marchino alias Charlie. Segue l’analisi di produzioni nostrane targate 1988, a cui se ne potrebbero aggiungere altre in futuro.

49ers - Die Walküre49ers – Die Walküre (Media Record)
Sulle ali dell’entusiasmo per il successo internazionale raccolto con “Bauhaus” di Cappella, Gianfranco Bortolotti lancia un altro progetto che farà la fortuna della sua casa discografica. Col nome ispirato dalla squadra di football americano, i San Francisco 49ers, crea i 49ers che traghettano nuovamente la Media Record, prossima a trasformarsi nella definitiva Media Records, all’attenzione generale. A livello di concept, 49ers potrebbe essere considerata l’evoluzione di un altro progetto bortolottiano di qualche anno prima, Superbowl, anch’esso intrecciato al mondo del football. Indizi evidenti si palesano sulla copertina del singolo “Oé – Ooh” del 1985, dove il nome 49ers appare su uno dei due elmetti, insieme alla ristilizzazione del logo della squadra stessa con le iniziali del produttore bresciano. «Effettivamente tra Superbowl e 49ers c’era una certa continuità dettata dalla mia passione per il football americano» rivela oggi Bortolotti. «Dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti dell’Ovest, tornai talmente entusiasta per le prodezze di Joe Montana, quarterback dei San Francisco 49ers originario di Brescia e coi parenti che vivevano poco distanti dalla casa dei miei genitori, da dedicare un disco al Super Bowl. La mia passione per il football americano non si spense in tempi brevi, continuai a seguire per anni le avventure dei San Francisco 49ers e quando possibile, durante i miei viaggi negli States, cercavo di non mancare mai alle loro partite. Quando scoprii l’origine del nome della squadra, che rimandava ai cercatori d’oro del ’49 del secolo precedente, pensai di adottarlo per un nuovo progetto. Immaginando che una grande hit discografica fosse la mia miniera d’oro, ne auspicai lo stesso vantaggio». “Die Walküre”, assemblato insieme a Pierre Feroldi, mescola parecchi sample presi da brani più o meno noti, come “I.O.U.” dei Freeez e “Papa’s Got A Brand New Pigbag” dei Pigbag, e viene pubblicato in numerosi Paesi, anche extraeuropei. Tra i risultati più esaltanti l’ingresso nella top 20 dei singoli in Francia. «Effettivamente lì funzionò particolarmente bene ma lo licenziammo, più o meno, in tutto il mondo. L’house music stava esplodendo. Da sempre feroce ascoltatore di musica classica ed opera, presi in prestito il titolo in lingua tedesca da uno dei quattro drammi di Richard Wagner di cui ammiravo lo stile innovativo, sempre orientato al nuovo e all’eccezione. Sentendomi in qualche modo (ovviamente con le super dovute distanze e rispetto!) come Wagner, per l’innovazione che sostenevo con la house music, “Die Walküre” mi sembrò il titolo più adatto allo scopo». A supporto del brano viene girato un videoclip in cui l’immagine del gruppo è rappresentata da Josy Gil Persia, che però non copre alcun ruolo all’interno del progetto. «All’inizio dell’avventura eravamo ancora impreparati nella ricerca del talento e, come avveniva solitamente negli anni Ottanta, “usammo” anche noi una artista col solo scopo di sostenere la canzone in un video. Qualche anno dopo iniziai a scommettere sui DJ con la Heartbeat, strategia per supplire alla mancanza di rockstar nel territorio della musica da discoteca» conclude Bortolotti. La storia dei 49ers prosegue l’anno seguente con “Shadows” e soprattutto “Touch Me”, dove elementi dell’omonimo di Alisha Warren ne incrociano altri presi da “Rock-A-Lott” di Aretha Franklin e contribuiscono a rendere l’italo house un fenomeno d’esportazione, insieme a gruppi come Black Box, FPI Project, Double Dee e Sueño Latino. Sarà la britannica Ann-Marie Smith, che sostituisce la temporanea presenza di Dawn Mitchell, a dare voce al resto della discografia e a rappresentare l’immagine del gruppo negli anni a venire, quando il successo sarà altalenante ma arricchito da un ricco parterre di blasonati remixer house tra cui Masters At Work, E-Smoove e Maurice Joshua.

Abel Kare - AllallaAbel Kare – Allalla (Out)
Roberto Zanetti, che brilla nel ruolo di interprete nel firmamento italodisco come Savage, è il Robyx che produce il pezzo in questione per la Out di Severo Lombardoni. La versione principale è la Afro-Acid Version che è una summa di influenze new beat ed house. All’interno l’artista sovrappone ritagli vocali e ritmici assemblandoli con la metodologia sdoganata dai britannici. In mezzo a varie citazioni (l’urlo di “Jesus Loves The Acid” di Ecstasy Club, un bassline che ricorda il riff di “It’s More Fun To Compute” dei Kraftwerk) piazza anche una pianata che strizza l’occhio a quella di “The Party” dei newyorkesi Kraze, brano che Zanetti coverizza proprio nello stesso anno per un’altra etichetta della Discomagic di Lombardoni, la Technology, firmandola Rubix. In parallelo incide “Me Gusta” nelle vesti di Raimunda Navarro, lasciandosi affiancare dalla cantante Paola Bonini (la Paula Evans di “Ciao”, 1989). Il tutto prodotto nel Casablanca Recording Studio a Massa Carrara, lì dove nasceranno le molteplici hit milionarie della sua DWA.

Amadhouse - Shock Me AmadhouseAmadhouse – Shock Me Amadhouse (Memory Records)
Affiancato da Alessandro Cardini, Damiano Prosperi realizza questo brano per la Memory Records di Parma che riesce a licenziarlo in Svezia, Germania e Grecia. “Shock Me Amadhouse” è fondato su ingenui strimpellamenti sampledelici sequenziati su una linea di basso ispirata da “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jesse Saunders. Il titolo e l’alias sono un gioco fonetico che rimanda ad una delle più note sonate di Wolfgang Amadeus Mozart, il rondò “alla turca”, risuonato all’interno della traccia in uno smaccato “Bontempi style”.

B.C. - HousebadB.C. – Housebad (Soundtrack Record)
“Housebad” è una traccia che nella sua essenzialità rammenta molto la schematizzazione della house prima maniera di Chicago, con quell’asciutto minimalismo tra ritmi programmati con drum machine ed il virtuoso basso funzionale nei club. Un altro rimando alla house d’oltreoceano pare rimarcato pure dal titolo di una delle due versioni, Bam Bam, omonima del Bam Bam (Chris Westbrook) della Westbrook Records. Non mancano ovviamente dei sample tra cui quelli di “Bad Girls” di Donna Summer e “Le Freak” degli Chic. Ad assemblare il tutto sono Andrea Baratella ed Orlando Bragante che per la loro prima esperienza discografica decidono, come si è soliti fare allora, di inglesizzare i loro nomi in Andrew Bratley e Roland Brant. «Tradurre in inglese i nostri riferimenti anagrafici servì sia a dare una parvenza estera al prodotto, sia ad evitare di “bollinare” tutti i dischi col marchio SIAE, giacché ai tempi i vinili provenienti dall’estero erano esenti da tale procedura» rivela oggi Bragante. «La Soundtrack Record, di mia esclusiva proprietà, fu la prima etichetta che creai, nata esclusivamente per la produzione di musica dance appartenente al cosiddetto circuito di “tendenza”. La utilizzai per una decina di produzioni e rimase attiva per soli tre anni. Registrammo “Housebad” con un otto piste della Fostex e lo masterizzammo sul classico Revox a due piste. I suoni provenivano da un Roland JX-8P, un Ensoniq Mirage (il primo campionatore disponibile sul mercato ad un prezzo abbordabile) ed una Yamaha DX7. A questi si aggiunsero due drum machine, una Roland TR-909 ed una Yamaha RX7. Il tutto pilotato da un sequencer Roland MSQ-700 fatta eccezione per la parte della RX7, non quantizzata ma suonata live tramite i pad e registrata su due tracce separate del Fostex per dare una maggiore sensazione di batteria reale. Il brano piacque molto ai DJ e venne suonato parecchio nei club ma ai tempi la house era un genere ancora di nicchia quindi non vendette molto, dalle duemila alle tremila copie circa. Poiché non riscosse il successo desiderato, decisi di abbandonare il progetto B.C. e dedicarmi ad altro: avevo già intrapreso il viaggio verso nuove “frontiere” nell’ambito dell’allora nascente techno». Bragante infatti si ritaglierà spazio nel corso degli anni Novanta con la musica dream/progressive, filone di cui diventa uno dei principali portabandiera.

Beat Kick - Claro Que SiBeat Kick – Claro Que Si (Sunset)
Con un piglio aggressivo quasi new beat, Luca Marci realizza “Claro Que Si” per la Sunset, etichetta affiliata alla Renata Edizioni Musicali di Parma di cui si è già parlato più sopra. Gli elementi che si rincorrono sono gli stessi che compaiono in praticamente tutte le produzioni house del periodo, beat in 4/4 usati come traino per un carico di sample carpiti, senza un filo conduttore ben preciso, da vari dischi noti (come “Situation” di Yazoo) e non, con l’aggiunta di melodie pianistiche appena abbozzate. La formula, chiaramente, non può garantire successo a tutti ma in tanti si buttano nella mischia tentando il grande salto.

Co-Mix Featuring Y-10 - RelaxCo-Mix Featuring Y-10 – Relax (X-Energy Records)
A metà strada tra eurodisco e il tipico “fare house” dei tempi, “Relax”, prodotta dai fratelli Paolo e Pietro Micioni, è la cover dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood del 1983. Con la velocità aumentata rispetto all’originale e con l’aggiunta di una parte rappata realizzata dall’enigmatica Y-10 (un possibile rimando all’omonima automobile della Autobianchi, assai popolare in quel periodo?), il brano gira sulla linea del basso moroderiano carpito ad “I Feel Love” di Donna Summer a cui i fratelli romani intersecano una pianata e qualche velato rimando ad “High Energy” di Evelyn Thomas. A curare l’editing è Gino “Woody” Bianchi che oggi racconta: «In quel periodo lavoravo molto con la X-Energy Records, il mio ruolo principale era fare gli edit in post produzione nel piccolo studio che avevo allestito a casa, con un registratore Revox B77 ad alta velocità ed un paio di multieffetto. In pratica mi portavano i nastri con le registrazioni del pezzo ed io sceglievo le parti “ristesurando” e tagliando il nastro, creando in editing sezioni inesistenti sia su ritmiche che su bassi (un esempio di ciò che facevo lo si può sentire nella compilation “Garage Classics Volume 1”, uscita nel 1989 sempre su X-Energy Records e di cui è disponibile un estratto qui). Anche su Co-Mix il mio intervento avvenne in post production. L’inciso fu campionato paro paro mentre il rap venne registrato lento per poi essere ricampionato, velocizzato ed armonizzato con un effetto. A produrre il tutto furono i fratelli Micioni e il DJ Angelino. Il disco andò abbastanza bene, dai rendiconti appresi che vendette tremila copie, non male per una cover. Nel 1988 uscì pure “Graffiti House” di The Jam Machine (progetto nato l’anno prima e di cui abbiamo parlato più sopra, nda), un pezzo partorito da una mia idea mentre collaboravo con Giulio Ferrarin. Era uscito da poco “The Opera House” di Jack E Makossa e, da amante del sound di Arthur Baker, pensai di rifarmi a quello “schema” con altri sample stile anni Sessanta. Grazie alla bravura di Ferrarin realizzammo il brano in una notte appena. Poi dedicai un’altra giornata al mix e all’editing. Nel mondo discografico stava cambiando tutto radicalmente e velocemente. A tal proposito, un anno particolarmente importante fu il 1987: le ritmiche della LinnDrum e della Alesis HR-16 iniziarono a dare spazio a quelle della Roland e dei campionatori Akai ed E-mu Emulator, mentre i bassi divennero ripetitivi e molto gommosi. Si sviluppò forte interesse intorno ad etichette americane come D.J. International e Trax Records ma un ruolo decisivo lo svolse pure la prima house britannica tipo Yazz, Bomb The Bass e soprattutto la serie di campionamenti su S’Express. Da lì partirono le idee e si sperimentò inserendo il piano ispirato a “Going Back To My Roots” di Lamont Dozier che diede origine alla prima italo house. “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S., poi, fu un’assoluta genialata, credo sia stato il brano ad aver aperto la strada ad un sound europeo oltre a sdoganare un modo diverso di utilizzare le macchine (sample e drum machine). Ai tempi la house americana risultava troppo underground per le radio ma i britannici sfruttarono abilmente il concetto di “canzone” inserendolo nel sound house. Forse senza il movimento europeo (Gran Bretagna, Olanda, Italia) l’house music non avrebbe mai preso corpo in maniera consistente ed importante come è effettivamente avvenuto».

Cutmaster-G & The Plastic Beats - Rock On!Cutmaster-G & The Plastic Beats – Rock On! (DFC)
“Rock On!” è l’unico brano (remix a parte) che Andrea Gemolotto firma come Cutmaster-G, nickname con cui ai tempi si fa largo ai campionati DMC. Autentico mosaico di scratch e campionamenti (tra cui l’assolo di chitarra rallentato di “Ain’t Talkin’ ‘Bout Love” dei Van Halen, ripreso tempo dopo dagli Apollo 440 in “Ain’t Talkin’ ‘Bout Dub”), il pezzo pare girare sulla base di “Beat Dis” di Bomb The Bass ed attinge il main vocal da “Rock Party/Smoke On The Water” dei Da Rock, un brano che circola parecchio negli ambienti del turntablism e che a sua volta seziona “Smoke On The Water” dei Deep Purple e dal quale qualche anno dopo il britannico Tinman estrarrà uno dei sample per la sua hit “Eighteen Strings”.

Dalu - Do You Like HouseDalu – Do You Like House? (Memory Records)
La parmense Memory Records di Alessandro Zanni e del compianto Stefano Cundari continua a sondare il terreno della house con questo “Do You Like House?” prodotto dal citato Damiano Prosperi sul modello marrsiano, assemblando un alto numero di sample di estrazione eterogenea (incluso un frammento di “Don’t Let Me Be Misunderstood” dei Santa Esmeralda) sonori e vocali, farcendo il tutto con immancabili tastierate di pianoforte.

DJ Atkins & Sharada House Gang - Let's Down The HouseDJ Atkins & Sharada House Gang – Let’s Down The House (Media Record)
Con “Let’s Down The House” Gianfranco Bortolotti rinnova la direzione stilistica di un progetto partito nel 1984 in seno all’italodisco, Paul Sharada. Al personaggio che presta voce ed immagine ai tempi di “Florida (Move Your Feet)”, “Dancing All The Night” o “Boxers”, Lamott Eugene Atkins (nel 1985 finito nel cast del film “Lui È Peggio Di Me” con Adriano Celentano e Renato Pozzetto) viene ora attribuito il ruolo di DJ. Il lavoro in studio è di Pieradis Rossini e Pierre Feroldi che realizzano due versioni, House Side ed Acid Side, nelle quali montano vari sample (tra cui quello di “Reach Up” di Toney Lee e quello di “Last Night A D.J. Saved My Life” degli Indeep) ed un basso di moroderiana memoria. Nonostante sia l’ennesimo dei pezzi col sampling in stile M.A.R.R.S., Bortolotti lo piazza comunque in tutta Europa, tra Paesi Bassi, Francia, Spagna, Germania, Portogallo e persino nel lontano Giappone. La storia di Sharada House Gang continuerà per i dieci anni successivi con successo alterno. Tra i vari singoli si ricordano “House Legend”, in stile Technotronic, “Life Is Life”, una sorta di cover di “Mary Had A Little Boy” degli Snap!, “It’s Gonna Be Alright”, cantata da Valerie Etienne dei Galliano, “Dancing Through The Night”, col featuring di Ann-Marie Smith dei 49ers, “Keep It Up”, con la voce di Zeitia Massiah, e “Gipsy Boy” a cui abbiamo dedicato un articolo qui.

Don Pablo's Animals - IbizaDon Pablo’s Animals – Ibiza (Meal Power)
Ideato e sviluppato da Christian Hornbostel, “Ibiza” è il primo singolo del progetto Don Pablo’s Animals in cui l’autore mescola e sovrappone tutti gli elementi che in quel periodo portano ad incanalare automaticamente un brano nel calderone della house. Scratch, sample raccattati a mani basse da fonti di varia estrazione (tra cui Chic, James Brown, LNR e Run-DMC) senza ovviamente dimenticare inevitabili pianate. «Appena tornato da Ibiza, totalmente devastato per tutto quello che vidi e vissi – qualcosa di assolutamente rivoluzionario ed avanguardistico per l’epoca, sia dal punto di vista musicale che da quello della moda e del modo stesso di vivere -, pensai di dedicare all’Isla Blanca il disco» racconta oggi Hornbostel. «Lo realizzai al 90% con un campionatore Akai S1000 rubando, saccheggiando ed editando materiale musicale ben oltre il limite della legalità. Se ben ricordo, vendette diecimila copie, un risultato più che ottimo ai tempi per quel tipo di produzioni». “Ibiza” è il preludio di un successo ancora più grande, quello raccolto con “Venus” del 1989 con cui il terzetto della BHF Production (Paul Bisiach, Christian Hornbostel e Mauro Ferrucci) riprende l’omonimo degli Shocking Blue, rinverdito tre anni prima dalle Bananarama, e raggiunge l’ambito palco di Top Of The Pops, lì dove peraltro viene accolto a braccia aperte anche per “Moments In Soul” di J.T. And The Big Family a cui segue, qualche tempo dopo, “I Need You” di Nikita Warren che abbiamo analizzato qui nel dettaglio. «Credo sia necessario puntualizzare un aspetto cronologico importante riguardante i brand Don Pablo’s Animals e J.T. And The Big Family» dice Hornbostel. «Entrambi furono creati da me prima della nascita del team BHF ed inglobati in esso solo successivamente. L’ispirazione per i nomi venne da un famoso negozio padovano di dischi, al tempo di proprietà di Paolo ‘Don Pablo’ Turiaco e del figlio Giovanni. Da qui l’iniziale inglesizzata nella prima lettera, J.T., che stava appunto per il suo nome e cognome. Quasi tutti i DJ dell’epoca fissarono come punto di riferimento il Dischi Arcella, formando quella che loro stessi definirono una “grande famiglia” (Big Family appunto). Qualche anno più tardi, quando fondai la Shadow Productions con Mr. Marvin (di cui abbiamo parlato qui, nda), Giovanni Turiaco tornerà a collaborare con me nei progetti Hortuma (“The Fantastic Bongo Dream”, 1994) e Sacro Cosmico (“Yattosan”, 1995)». A supportare discograficamente “Ibiza” è la Meal Power del gruppo veronese S.A.I.F.A.M. che continua a sfruttare commercialmente il nome quando si trasforma in New Meal Power affidando svariati nuovi singoli di Don Pablo’s Animals (“Birmania”, “Dreadlock Holiday”, “Ganja Party”, “Walking In The Rain”, giusto per citarne alcuni) a produttori differenti. «Se da un lato c’era un’ingenuità positiva che rese possibili azioni folli e coraggiose nell’editing e nel campionamento, cosa comunque di moda ovunque in quel periodo, dall’altro quella stessa ingenuità generò una pessima gestione dei diritti dei cosiddetti “marchi di servizio”, e ciò avvenne da parte della maggioranza dei produttori di allora. È altresì vero che la Meal Power fece semplicemente e legittimamente il proprio interesse, anche perché non mostrammo più intenzione di produrre ancora musica con quel marchio o in quella direzione. Qualche mese più tardi infatti sarebbe partita l’avventura Interdance, sempre con Ferrucci e Bisiach e il contributo di altri produttori come Marco “Lys” Lisei e i fratelli Visnadi» conclude Hornbostel.

El Chico - D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.El Chico – D.I.N.D.O.N.D.E.R.O. (Out)
“D.I.N.D.O.N.D.E.R.O.” è il primo disco che Marco Bresciani firma come El Chico. Supportato dalla Out di Severo Lombardoni, il noto DJ toscano realizza un autentico potpourri di sample in stile “Pump Up The Volume”, talmente serrato da sembrare più un megamix che un brano vero e proprio. Con la stesso piglio pochi mesi più tardi incide “House Party” a cui segue, nel 1989, “House Music Lovers”, in cui emerge chiaramente l’influenza di altri act italiani che raccolgono successo internazionale (49ers, Black Box, FPI Project). Bresciani, già coinvolto nel progetto italodisco Radiorama, torna a vestire i panni di El Chico per “Brisa Latina” del ’90, sui binari di una house ormai virata euro.

Gino Latino - comboGino Latino – Welcome (Yo Productions) / Gino Latino – È L’ Amore (Time Records)
A cimentarsi in una manciata di pezzi ammiccanti alla house post M.A.R.R.S. è pure un giovane Lorenzo Cherubini, prodotto da Claudio Cecchetto sulla sua Yo Productions: “Welcome” prima e “Yo” poi bazzicano suoni e ritmi che allora segnano una cesura dalla più classica italodisco, portando avanti un collage tra hip hop, funk, new beat ed hip house. Entrambi vengono licenziati all’estero (Gran Bretagna e Stati Uniti compresi, rispettivamente dalla blasonata FFRR e dalla Harbor Light Records) e sono firmati come Gino Latino, pseudonimo usato contemporaneamente da un artista “house friendly” di una casa discografica diversa, la Time Records di Giacomo Maiolini (per tutti i dettagli in merito si veda qui).

Horn & Art - Action! (The Cock)Horn & Art – Action! (The Cock) (Meal Power)
Lasciata alle spalle l’esperienza nell’italodisco/rock dei Fard (“Chiamami Da Tokyo”, 1984, “Flash, Running Into The Night”, 1986, entrambi editi dalla EMI) , Christian Hornbostel approda alla house che, tra 1987 e 1988, inizia a scardinare le certezze che le compagnie discografiche ripongono ancora nella canonica “disco dance all’italiana”. «Per me il passaggio dall’italodisco alla house avvenne in modo molto naturale, conseguentemente allo sviluppo della musica da discoteca e alla mia attività da DJ» ricorda oggi Hornbostel. «Le prime “club edit” presenti sui dischi furono uno stimolo ed un’ispirazione molto forte per iniziare ad interpretare la produzione musicale in un modo inedito, con suoni ed arrangiamenti orientati verso il genere house, allora del tutto nuovo». “Action! (The Cock)”, prodotto insieme a Max Artusi (artefice, qualche anno più tardi, di “What’s Up” di DJ Miko), è una traccia-collage con cui i due si cimentano nel sampling assemblando funk e disco a matrici house, usando come collante sia un campione vocale di “Get Up Action!” degli olandesi Digital Emotion, sia il canto di un gallo, cinque anni prima rispetto ad “El Gallinero” di Ramirez. Ecco spiegata quindi la ragione del titolo. «A quel tempo ero spesso in studio da Artusi col quale lavoravo in una radio regionale. Lui era un esperto di campionatori (parliamo dell’era dell’Akai S1000) e un giorno mi fece sentire delle cose divertenti ed interessanti che stimolarono la mia curiosità goliardica in modo così determinante da mettermi subito a cercare qualcosa di sorprendente, un suono che potesse colpire con violenza l’attenzione dell’ascoltatore. Optai per il chicchirichì del gallo, ovviamente circondato con suoni house». Il 12″ esce sulla veronese Meal Power, la stessa che pubblica altri dischi di Hornbostel e dei suoi soci della BHF Production come “Ibiza” di Don Pablo’s Animals di cui si è parlato poche righe fa.

House Force - Pig HouseHouse Force – Pig House (S.P.Q.R.)
Sebbene Discogs riporti il 1986 come data di pubblicazione, il disco in questione esce due anni più tardi su una delle tante etichette affiliate alla Best Record di Claudio Casalini. Lo stile anticipa gli stilemi che diventeranno classici dell’italo house, con assoli di piano in evidenza corredati da sample vocali. Autore è Giovanni Cinaglia, meglio noto come Cinols, che oggi racconta: «Cominciai a mettere i dischi nelle radio locali nel 1977. Il periodo storico era meraviglioso per funk e disco ma con l’avvento dell’elettronica, ad inizio degli anni Ottanta, la qualità e soprattutto la carica emozionale della dance cominciò a perdere colpi. Evidentemente questa sensazione si diffuse anche e soprattutto negli States tant’è che, già nel 1985, in alcune discoteche i DJ iniziarono a suonare musica “fatta in casa” con le drum machine della Roland. Il fenomeno prese piede velocemente e l’anno successivo uscirono tantissimi dischi house che fortunatamente arrivarono anche in Italia. Per me fu la svolta ma era ancora presto per proporre al pubblico un’intera serata di house music che vedrà la sua totale affermazione nel nostro Paese durante il 1987. Ad attrarre la mia attenzione furono specialmente DJ/produttori americani come Todd Terry, Ralphi Rosario, Marshall Jefferson, Farley Jackmaster Funk, Steve ‘Silk’ Hurley ma pure alcuni britannici come Coldcut e Simon Harris. In quel periodo diversi DJ nostrani si misero in gioco per produrre un disco. Nel 1988 volli provare pure io e così realizzai “Pig House”. Ai tempi non possedevo campionatori, sequencer e tastiere, avevo solamente una batteria elettronica Roland TR-909, quindi fui costretto ad affidarmi ad uno studio di registrazione esponendo le mie idee al tecnico di turno che fino al nostro incontro non aveva mai sentito parlare di house music. Non fu facile entrare in sintonia con lui. Insieme alla mia TR-909, ruolo di protagonista lo giocò l’Akai MPC60: oltre ad essere utilizzato come sequencer, ebbe la funzione di campionatore con cui elaborammo sample di batterie elettroniche, bassi e voci. Quelle femminili le registrammo in studio ma non rammento da dove fu estrapolato l’eins zwei drei vier. Per i suoni usammo un Roland D-50 e un paio di expander tra cui il Roland D-550. Era presente anche un bel Lexicon 480L, appena giunto sul mercato, destinato alla riverberazione. Il mixer invece era un Soundcraft di cui non ricordo più il modello. Per completare il pezzo impiegammo circa quindici giorni. Non so esattamente quante copie abbia venduto ma ricordo che riuscii ad andare quasi in pari con le spese sostenute per la sua realizzazione. Adottai come nome House Force per dare subito l’idea di cosa si trattasse ma da lì a breve, visto l’uso esasperato che si fece della parola “house”, decisi di abbandonarlo. Tutte le produzioni che seguirono a “Pig House” furono interamente prodotte presso lo studio che ho allestito alla fine del 1988 e che nel corso degli anni ha subito regolarmente cambiamenti ed aggiornamenti». Dal 1991 Cinols inizia a collaborare con la Media Records per cui produce diversi dischi tra cui “Divin’ In The Beat” degli East Side Beat, “Congo Bongo” di The African Juice, “The Only One” di Base Of Dreams e “Rock House Party” di Theorema.

J.M.B.I. - Snoopy's Count HouseJ.M.B.I. – Snoopy’s Count House (American Records)
Dedicato alla nota discoteca modenese Snoopy Countdown a cui allude chiaramente il titolo e dove, pare, nei primi anni Settanta fece il suo debutto come DJ Vasco Rossi, il brano è l’ennesimo dei “figli” di “Pump Up The Volume”. Ad occuparsi degli arrangiamenti e degli scratch sono i disc jockey Max Gavioli ed Ivan Delisi mentre la produzione è affidata a Roberto Attarantato che pubblica il 12″ sulla sua American Records a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Il tutto registrato presso il B.M.S. Recording Studio di Modena. Sembra che l’idea di partenza sia venuta a Filiberto Degani, ai tempi titolare del locale ed anni dopo coinvolto in guai giudiziari per il fallimento dello stesso come si può leggere qui. In circolazione ci sono almeno tre tirature con altrettante copertine, tutte dedicate all’indimenticata discoteca di Piazza Cittadella di cui si possono scorgere interessanti dettagli tra cui la consolle e parte degli esterni. Nonostante non sia diventato una hit, il brano viene licenziato in diversi Paesi esteri (Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Francia, Canada) e ciò alimenta l’entusiasmo degli autori che, facendo leva sui medesimi elementi, approntano altri due singoli, “Rat In The Movie’s House” e “Snoopy’s Makes 3° (Bloody Hell?)”.

Kekkotronix - It's Time To ReliveKekkotronix – It’s Time To Relive (Top Line Productions)
Edito dalla milanese Top Line Productions, “It’s Time To Relive” è un brano non propriamente ascrivibile alla house in senso stretto, seppur contenga alcuni elementi che ai tempi lo rendono appetibile per coloro che prediligono programmazioni inclini alla house con dilatazioni afro/baleariche. Le tre versioni sul 12″ derivano pressoché dallo stesso materiale ma è la Dangerous Version a rendere meglio l’idea del disegno stilistico effettuato da Kekkotronix ossia Francesco Montefiori, pare coadiuvato in studio da Claudio “Moz-Art” Rispoli. Entrambi vivranno da protagonisti la fase successiva della italo house, quando navigheranno a bordo di una moltitudine di progetti (Omniverse, Outphase, Soft House Company, Key Tronics Ensemble, Soft & Loud Music Enterprise, TFM, Jestofunk, Double Dee) supportati dalla bolognese Irma Records. La stessa etichetta pubblica un’altra manciata di dischi che Montefiori firma come Kekkotronics (e non più Kekkotronix) in coppia con Luca ‘LTJ’ Trevisi, “First Job” e “Gimme The Funk”.

Koxo' Club Band - ParadhouseKoxo’ Club Band – Paradhouse (Di-Gei Music)
Registrato presso il B.M.S. Recording Studio e dedicato ad un altro storico locale del capoluogo emiliano, il Koxo’, “Paradhouse” è frutto del lavoro di un team di produzione in cui spiccano due nomi che si faranno ben notare negli anni Novanta, quelli di Lino Lodi e Stefano Mango (Face The Bass, Masoko, Pan Position, Express Of Sound etc). Gli elementi sono i soliti: pianate, bassline meccanico, campionamenti ed ovviamente un trascinante beat che però si ferma ai 110 BPM. Il brano è oggetto di diverse licenze in Germania, Spagna e Regno Unito, aiutato dal remix di Roberto ‘Bob One’ Attarantato che nel 1989 lo ristampa sulla sua American Records. Il singolo successivo, “Makes You Blind”, uscirà proprio sulla American Records. Il sample è tratto dall’omonimo della Glitter Band alternato a frammenti di celebri artisti e compositori (Michael Jackson, Mike Leander, Mory Kanté). Sul lato b trova spazio la pianistica “Drive House” coi sample vocali del paninaro di Drive In, Enzo Braschi.

Ocean In Red - Relax In HouseOcean In Red – Relax In House (Many Records)
Arrangiato da Pasquale Scarfì che matura diverse esperienze discografiche sin dai primi anni Ottanta, “Relax In House” è il brano con cui due DJ dall’identità sconosciuta svuotano un calderone di campionamenti eterogenei su una base di house semplificata e ridotta a pochissimi elementi. Con squarci aperti verso classici pop/rock come “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, “Another One Bites The Dust” dei Queen ed “(I Can’t Get No) Satisfaction” dei Rolling Stones, la Many Records di Stefano Scalera inizia quindi ad esplorare la house music, prendendo parallelamente in licenza brani come “The Party” di Kraze e “Night Moves” di Rickster.

Piero Fidelfatti - Baila Chico (Acid Version)Piero Fidelfatti – Baila Chico (Acid Version) (Out)
DJ di lungo corso, Fidelfatti incide un megamix bootleg intitolato “Baila Chico Mix” sulla fittizia Easy Dance ideata per parodiare la newyorkese Easy Street. All’interno, tra gli altri, anche Mantronix, M.A.R.R.S. e J.M. Silk. L’ottimo riscontro lo spinge a realizzare anche un singolo, questa volta a suo nome, in scia a “Pump Up The Volume”. Il brano viene assemblato nel Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto, ad Udine, e pubblicato dalla Out di Severo Lombardoni. Due le versioni, arrangiate col musicista/illustratore Franco Storchi e l’ingegnere del suono Fulvio Zafret: la Acid Version, che a dispetto del nome di acid non ha davvero nulla, allineata ai suoni di “The Party” di Kraze e “Jack To The Sound Of The Underground” del compianto Hithouse, e la Piano Version che prevedibilmente mette in evidenza assoli pianistici. Fidelfatti raccoglierà successo internazionale l’anno seguente con “Just Wanna Touch Me” di cui abbiamo parlato nel dettaglio qui.

Raff Todesco - I Got My MindRaff Todesco – I Got My Mind (RA – RE Productions)
Produttore sin dalla fine degli anni Settanta, Raff Todesco vive in pieno sia l’exploit dell’italodisco, sia quello della house e dell’eurodance. “I Got My Mind”, edito sulla sua RA – RE Productions, è un omaggio/tributo al quasi omonimo degli Instant Funk, “I Got My Mind Made Up” del 1978, di cui vi è un sample all’interno insieme ad un frammento preso da “Hit It Run” dei Run-DMC, del 1986. Il resto è un susseguirsi ritmico affine a quel nuovo genere musicale che arriva dagli States e dalla Gran Bretagna, ben rimarcato dal nome di una delle tre versioni presenti sul 12″, Hause-Hause Version, oltre ad immancabili assoli di piano. «Verso la fine del 1987 le vendite delle produzioni italodisco cominciarono a non essere più soddisfacenti per chi, come me, frequentava il Sandy’s Recording Studio di Sandy Dian, a Gambellara, in provincia di Vicenza» racconta oggi Todesco. «Anche per coloro che avevano la fortuna di produrre in continuazione, lo storico studio della dance col mixer MCI 600 a 32 piste e con strumentazioni d’avanguardia iniziò a pesare non poco per gli elevati costi. Tuttavia a settembre del 1987 decisi di avviare lì un progetto musicalmente innovativo, sull’onda di ascolti maturati attraverso produzioni alternative rispetto alle cose che ero abituato a fare, come “Your Love” di Frankie Knuckles e le pubblicazioni sulla Trax Records. Non avevo ancora le idee chiare sulla strada da seguire musicalmente ma sentivo la necessità di abbandonare sia l’italodisco che l’eurodisco, fino ad allora i capisaldi del mio autorato, e cominciare una nuova avventura musicale e produttiva. Il primo risultato di quella svolta fu proprio “I Got My Mind”, realizzata col vecchio sistema analogico e senza ausilio del computer. Il progetto si fondava sul disegno strumentale creato con la tastiera su cui vennero inseriti vari campionamenti, “suonati” come se fossero uno strumento, attraverso la Korg DSS-1 grazie all’aiuto di Michele Paciulli, ai tempi dimostratore della stessa azienda. Il tema principale del piano invece, che doveva rappresentare un ideale volo nello spazio, fu eseguito con una Korg DW-8000 polifonica. Fu l’unico disco a portare il mio nome come artista sulla copertina e il mio ultimo lavoro ad essere registrato nello studio di Sandy Dian, tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1987. Lo avrei terminato e mixato in autunno inoltrato presso il Summit Studio. Per continuare l’attività da produttore infatti mi trasferii a Milano e in un nuovo studio, il citato Summit Studio di Antonio Summa, a Villa d’Almè, in provincia di Bergamo, i cui costi erano notevolmente inferiori rispetto a quello di Dian. Oltre a Summa, tecnico e bassista, lì conobbi anche il tastierista Sergio Bonzanni col quale avrei collaborato negli anni a seguire. Il Summit Studio era uno studio tradizionale che si poggiava ancora su tecnologia analogica ma in Italia praticamente nessuno, ai tempi, registrava in digitale. All’inizio del 1988 feci veramente una pazzia: tentai di sostituirmi al lavoro del DJ e costruii una song basata su soli campionamenti legati tra loro da una brevissima melodia strumentale. Si trattava di “Magnetic Dance” di T.V.M. (acronimo di Todesco Vaccari Maini), pubblicato dalla On The Road, etichetta che avevo creato qualche tempo prima proprio con Francesco Vaccari e Gigi Maini. Il brano si fondava su una ventina di campionamenti, i più rilevanti erano tratti dal film “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick e da un brano dei Jackson 5, che emergevano più volte durante la stesura. Nonostante le buone vendite, per fortuna non avemmo conseguenze legali. A posteriori la considero una vera follia aver inciso un disco con sample di quel tipo senza regolari autorizzazioni! Nel 1988 uscirono anche “Foot Stompin’ Music / Funnyhouse”, ancora insieme a Vaccari e Maini, ed “I Am” dei Time, un nome risorto dai periodi più rosei della italodisco (quelli di “Can’t You Feel It”, di cui abbiamo parlato qui, nda). In quel caso presi a modello “No UFO’s” di Model 500: usai la Roland TR-808 per la drum e Summa incise il basso col suo Fender Precision. La voce invece era di Eleonor, una cantante di un gruppo rock, e non mancavano vari campionamenti, scratch e clap così come voleva la tipologia house di allora. La melodia però era tipica del modello disco, imprinting della nostra italica memoria musicale. Soltanto alla fine del 1989 incominciai, nel nuovo studio allestito da Sergio Bonzanni, le produzioni digitali con la tecnologia computeristica».

Rhythm Station - Let's Clean Up The GhettoRhythm Station – Let’s Clean Up The Ghetto (Technology)
Cover dell’omonimo dei Philadelphia International All Stars, il brano in questione viene approntato nel Lumiere Studio di Milano dai componenti della Big Business Orchestra (tra cui si cela il poliedrico Fred Ventura) che nello stesso anno incidono “Big Business”. Nel 1990 nei negozi arriva il secondo singolo, “Don’t Stop”, registrato presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. Il tutto supportato da Severo Lombardoni.

Risen From The Rank - Sampler '83Risen From The Rank – Sampler ’83 (Media Record)
Nato nel 1985 con “AIDS” (la cui base viene riadattata per “America” due anni dopo), Risen From The Rank è uno dei tanti progetti scaturiti dalla fervida immaginazione di Gianfranco Bortolotti. Sull’onda di “Bauhaus” di Cappella e “Die Walküre” dei 49ers, di cui si è già detto più sopra, l’imprenditore bresciano pubblica “Sampler ’83”, altro collage di sample in stile “Pump Up The Volume”, in cui spiccano frammenti di “Last Night A DJ Saved My Life” degli Indeep, ma con meno potenzialità commerciali. «Era uno dei brani che facevano parte, insieme ai menzionati Cappella e 49ers, alle prime esperienze della house music, del campionamento, dell’organizzazione di una nuova metodologia di lavoro nei nuovi home studio che mi inventai e che poi furono perfezionati e copiati in tutto il mondo. Un gradino che ci avrebbe portato in cielo, proiettati verso il successo mondiale» dice oggi Bortolotti. «Seppur molto simile a “Bauhaus”, le vendite furono inferiori ma lo scopo non era eguagliare i risultati economici bensì testare nelle discoteche prodotti di quel tipo e cercare la formula giusta per il nuovo Cappella». Sempre nel 1988 esce “Ecstasy”, prodotto da Pieradis Rossini e Pierre Feroldi, poi diventato “Fantasy” per il mercato estero. «Non volevamo correre il rischio di farlo passare per un’incitazione all’uso della nota droga sintetica. Per noi era un semplice sample e chi mi conosce sa che non ho mai fatto uso di droghe e questo posso giurarlo» conclude Bortolotti. Dal 1990 Risen From The Rank riapparirà solo con l’acronimo R.F.T.R. attraverso vari singoli in bilico tra suoni techno ed house, tra cui “I Need A Fix” (col featuring di Simone Baldo, pochi anni dopo coinvolto nel progetto televisivo TSD) e “Rock Oops”, entrambi prodotti a Padova negli studi della Prisma Records da Valter Cremonini e dal team che da lì a breve crea gli U.S.U.R.A. di “Open Your Mind”. Meritevole di citazione anche il più fortunato “Extrasyn”, arrangiato da Max Persona con la consulenza artistica di Francesco Zappalà.

Rusty - Rusty AcidRusty – Rusty Acid (Dance And Waves)
Mentre esplodono in Giappone come Green Olives con “Jive Into The Night” agganciato agli stereotipi stilistici eurodisco/hi NRG, David Sion, Fulvio Zafret e Sergio Portaluri iniziano a tastare il terreno della house sia come Big House e il poco noto “Don’t Stop The Party”, sia come Rusty, pseudonimo con cui firmano “Rusty Acid”. Il brano raccoglie gli input dei tipici collage sampledelici, con brevi passaggi vocali alternati a qualche melodia bleepy e ai graffi degli scratch, vero leimotiv del DJismo di quel periodo. A pubblicarlo è la Dance And Waves del gruppo bolognese Expanded Music. Più fortunato risulta il singolo seguente, “Everything’s Gonna Change”, edito dalla DFC nel 1989 e licenziato oltremanica dalla Stress Records di Dave Seaman che affida il remix ad una figura chiave della progressive house britannica degli anni Novanta, Sasha. Da lì a poco Sion, Zafret e Portaluri creano il team di produzione De Point con cui mettono a segno diversi successi come “Your Love Is Crazy” di Albertino (a cui abbiamo dedicato un articolo qui) ma soprattutto i brani con cui Afrika Bambaataa aderisce, inaspettatamente e per molti inspiegabilmente, all’italodance, “Just Get Up And Dance”, “Feeling Irie”, “Pupunanny” e “Feel The Vibe”.

Surprise - 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle)Surprise – 7.6.5.4.3.2.1 (Blow Your Whistle) (X-Energy Records)
A metà strada tra l’italodisco virata pop/hi NRG e scorci house, il disco riporta in vita l’omonimo dei Gary Toms Empire del 1975. Artefice è Giulio Ferrarin, che qualche anno più tardi fonda la MKS Records, affiancato da Gino “Woody” Bianchi. Maggiormente aderente all’universo house è la traccia incisa sul lato b, “Don’t Stop The Music”. A chiarirlo è il nome stesso della versione, Acid House Mix. «A proporci di coverizzare il brano dei Gary Toms Empire (già rifatto con successo dai Rimshots) fu Alvaro Ugolini, uno dei proprietari della X-Energy Records, e devo ammettere che ci divertimmo molto a realizzarlo. Utilizzammo un piano della Roland ma per poter guadagnare sui diritti d’autore dovevamo produrre una traccia inedita e quindi pensammo di aggiungere qualcosa in stile Trax Records. Prendendo spunto da “Are You Ready” di Rich Martinez e “Don’t Stop The Music” dei Bay City Rollers, un classico per il pubblico della Baia Degli Angeli, il gioco era fatto. Dopo un paio di whisky il chitarrista Marco Scainetti si lanciò a cantare il brano e in appena due giorni completammo il tutto. La X-Energy Records investì molto nei progetti italo house e dopo poco tempo mi avrebbe affidato il remix/rework di “Notice Me” di Sandee. Da lì a breve, inoltre, fui invitato in studio dai cugini Minoia e da Corrado Rizza (mio futuro socio nella Lemon Records/Wax Production) per remixare “Satisfy Your Dream” di Paradise Orchestra ed “Everyday” di The Jam Machine, usciti entrambi nel 1989 e che, a mio avviso, hanno scritto la storia della italo house».

The Hardsonic Bottoms 3 - Do It Anyway You WannaThe Hardsonic Bottoms 3 – Do It Anyway You Wanna (BBAT)
Nati da una costola dei Pankow, gruppo fiorentino che aderisce al movimento industrial, gli Hardsonic Bottoms 3 debuttano col singolo “Do It Anyway You Wanna” che, è bene chiarirlo, non è propriamente house bensì un mix tra EBM e new beat, generi che in quel periodo iniziano però ad essere riadattati dai produttori house europei vista la loro spiccata ballabilità. Tra ’89 e ’90 escono altri due 12″, “Disco Inferno” e la doppia a-side “Jailhouse Shock / Stompxnxtorr” che chiude la breve parentesi danzereccia di Maurizio Fasolo, Enzo Regi e Sergio Pani, supportata discograficamente dalla BBAT, sublabel della Contempo Records.

Considerazioni finali
Sono ormai trascorsi più di trent’anni da quando la house music ha messo piede in Italia. Quello che era un foglio bianco, tutto da scrivere, adesso è diventato un libro, con molteplici capitoli ricchissimi di avvenimenti, nomi, passioni, vite e, purtroppo, anche morti. La house è diventata la colonna sonora di intere generazioni dando vita ad una visione “house-centrica” della musica da ballo. L’housecentrismo come nucleo da cui irradiare idee, soluzioni, intuizioni, emozioni. Per alcuni i primi dischi house prodotti in Italia svilirono pesantemente la sacralità della stessa house music, profanandola e minandone la credibilità con un approccio tipicamente consumistico tanto da restare ai margini della conoscenza collettiva e scarsamente considerati. Per altri invece quelle produzioni, molto spesso dai caratteri oggettivamente naïf, servirono eccome perché gettarono le basi per lo sviluppo della personalizzazione del genere, giunta nel 1989 quando si delineano i caratteri somatici intrinsechi dell’italo house che emerge con forza facendosi notare pure in quei mercati sino a poco prima apparentemente inavvicinabili, come il britannico e lo statunitense. L’Italia avrebbe mostrato i muscoli dimostrando al mondo intero di avere voce in capitolo. Ma questa è un’altra storia.

Giosuè Impellizzeri

* le testimonianze esclusive di questo reportage sono state raccolte tra novembre 2018 ed aprile 2019.

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Ivan Iacobucci – DJ chart marzo 1998

ivan iacobucci, disco mix marzo 1998
DJ: Ivan Iacobucci
Fonte: Disco Mix
Data: marzo 1998

1) D. Funk Era – Spring
Quella dei D. Funk Era (i fratelli pugliesi Daniele e Diego Vitale) è una delle tantissime vicende sommerse dell’underground italiano, dove ardente passione ed intraprendenza giovanile giocano un ruolo primario. Ritrovare nella chart di Iacobucci uno dei pezzi più noti e meglio riusciti della discografia dei brindisini offre la giusta occasione per gettare luce sulla loro storia: «L’interesse per la musica “non tradizionale” nasce negli anni Ottanta, quando in Italia arrivano i primi riflessi dell’hip hop attraverso film come “Beat Street” e “Footloose” in cui c’erano scene di breakdance di cui mi innamorai» racconta oggi Daniele ‘Danny’ Vitale. «In assenza di internet non era facile approfondire ma le cose cambiarono quando conobbi degli americani che vivevano nella base NATO a San Vito dei Normanni, vicino Brindisi. Lì, sia io che mio fratello, entrammo in contatto con la cultura statunitense, parlando l’americano e riuscendo a mettere le mani su qualche cassetta con pezzi hip hop. Ci venne spontaneo iniziare a fare degli esperimenti tentando di creare dei beat da cui sviluppare basi per ballare breakdance. Per fare ciò usavamo piastre di registrazione alternando i tasti pause e rec. In quello stesso periodo Diego iniziò a specializzarsi in una disciplina tipicamente hip hop, lo scratch. Entrare in possesso di dischi hip hop però era davvero difficile, era un genere relegato quasi al ghetto e scarsamente preso in considerazione nei canali ufficiali. Inoltre non avevamo budget a disposizione e mio fratello, piuttosto bravo a smanettare con l’elettronica, modificò un giradischi a cinghia dotandolo di un variatore di velocità per iniziare a fare i primi mixaggi. Solo in seguito riuscimmo a comprare i Technics SL-1200 ed allora ad averli nella nostra città eravamo solo noi, oltre alle radio. Facemmo un finanziamento per acquistarli, ognuno costava un milione e duecentomila lire, un vero sproposito per le nostre possibilità economiche. Cominciammo a fare i DJ nelle case quando la musica che funzionava di più era il pop rock degli U2, la “Lambada” dei Kaoma e cose simili, ma nei nostri programmi cercavamo di inserire qualche pezzo hip hop ed house, un genere che scoprimmo quando alcuni rapper iniziarono a fare freestyle sui 4/4, come i Jungle Brothers o il compianto Kool Rock Steady. Poi, col boom di S’Express, Bomb The Bass o Lil’ Louis, ci innamorammo completamente della house continuando a fare i DJ.

Incidemmo il primo disco nel ’92, una white label supportata da una nota radio locale, Ciccio Riccio. Il pezzo si intitolava “Let Me Live”, seguiva lo stile del remix di “Show Me Love” di Robin S. e fu programmatissimo dalle radio italiane. Per l’occasione ci chiamavamo Hyperground. Realizzammo quel brano nello studio di Nanni Surace (che anni dopo comprai rimontandolo a casa mia) con una tastiera/sampler Casio SK-8 che però offriva pochissimi secondi di campionamento. Salvavamo i suoni su floppy disc e il sequencer era installato su un computer Atari ST 1040. Niente di eccelso ma per noi rappresentò comunque un traguardo visto che incidere un disco con mezzi talmente scarsi (seppur all’avanguardia e costosi) era praticamente impossibile. Col tempo ci siamo evoluti acquistando altri strumenti che costavano un patrimonio, imparammo ad usare il MIDI e nuove tecniche di composizione ma con grande difficoltà perché non esistevano tutorial da scovare gratuitamente in Rete. Al massimo si poteva ricorrere ai guru degli studi di registrazione ai quali chiedere consigli e suggerimenti. Insomma, la nostra cultura è stata costruita pazientemente con tempo e dedizione.

Poi avvenne un episodio veramente singolare: poiché dalle nostre parti era difficile trovare certi dischi, un amico di New York appassionato di house e che lavorava alla base NATO, mi propose di ordinare un 12″ dagli States, presso un negozio che frequentava quando era a casa, credo fosse Downtown di New York. Mentre mi apprestavo a completare l’ordine fornendo il mio indirizzo mi sento chiamare: dall’altro capo della cornetta c’era Teddy Esposito. Una coincidenza assurda, fare una telefonata intercontinentale ad un negozio e sentirsi rispondere da un vecchio amico che viveva da tempo negli States e che, messo a conoscenza della nostra attività di produttori, volle ascoltare le tracce prodotte chiedendocene alcune per una delle sue label, la Groovin’ Records. Gli mandai “Follow Me To The Promised Land” cantato da Robert Crawford, un ragazzo americano che si trovava in Italia. Il brano venne pubblicato nel 1995 in un EP intitolato “The Gemini Project”. Teddy commissionò il remix a Iacobucci.

Da quel momento io e Diego iniziammo a produrre tantissimi brani come “Move That Body” di Hyperground e “Sex Or Love” per la UMD (Underground Music Department) che pochi anni dopo venne campionato illegalmente dai Tamperer per la nota “Feel It”. Quella volta riuscimmo a bloccare le vendite del disco (ripubblicato successivamente senza il sample vocale in questione, “is it sex or is it love”, nda) visto che non ci venne riconosciuto alcun diritto. Ad usare quel campione fu anche il bresciano Pierre Feroldi per “I Feel Love” ma includendomi tra gli autori. A plagiarci fu pure il tarantino DJ Flash, ricordato per “Un Lorenzo C’è Già”, che usò la Soul Mix di “Let Me Live” per “Nessuno T’Aiuta”.

d. funk era (londra, 1996)

I fratelli Danny e Diego Vitale in una foto scattata a Londra nel 1996

Poi giunse “Spring”, nato da un impulso creativo di mio fratello che provò a campionare “Off Broadway” di George Benson, artista che seguiva sin da piccolo. Avendo un background hip hop, per noi fu naturale usare i sample in quel modo, spezzettando il brano originale e ricostruirlo attraverso influenze house britanniche. Lo realizzammo con vari expander come il Roland U-110, Korg e Yamaha ma il fulcro principale era il campionatore, un Akai S5000, con cui prelevammo e trattammo diverse parti. Il sequencer invece era Cubase. Solitamente le idee nascevano di getto, poi serviva qualche giorno per perfezionarle e fare il mixaggio finale. Per “Spring” optammo per un mixing estemporaneo, con tutti i filtri che si aprivano e chiudevano registrati al momento. Essendo in due ci sincronizzammo a ruotare le varie manopole».

Quel modus operandi poi sarebbe diventato uno dei segni distintivi nel cosiddetto “french touch”, ma a tal proposito Vitale chiarisce: «ai tempi di “Spring” il french touch non era ancora riconosciuto come un fenomeno anzi, nel circuito che frequentavamo noi non se ne faceva proprio cenno. I francesi erano bravi ma non abbastanza da riuscire ad invadere il mercato. Riadoperare frammenti di pezzi del passato era un’espressione tipica dell’hip hop, si pensi ai Mantronix che facevano un uso smisurato del campionatore, e la nostra influenza derivava da artisti come Todd Terry o Mousse T. ma certamente non dai francesi. “Spring” fu uno dei brani che firmammo come D. Funk Era, dove la D stava per Danny e Diego. Foneticamente con quel nome volevamo ammiccare sia al p funk dei Funkadelic e Parliament, viste le componenti funk, sia al g funk, per sottolineare le nostre origini hip hop traslate nella house. Alcuni amici che erano a Miami per il Winter Music Conference ci raccontarono che “Spring” venne suonato da Little Louie Vega che fece letteralmente saltare il pubblico. Ottenemmo ottimi riscontri di vendita, oggi inimmaginabili, non tali da farci diventare ricchi ma quel giusto che abbiamo reinvestito in nuove strumentazioni. Vennero realizzati anche diversi remix da Pastaboys, Enrico ‘BSJ’ Ferrari, Spellband ed Half Tone. Una versione la facemmo pure noi aggiungendo un sample di “Got To Be Free” di Zoo Experience Feat. Bryan Chambers, rendendola più aggressiva e potente.

lo studio londinese di danny vitale (1995)

Lo studio allestito a Londra da Danny Vitale (1995)

Il disco venne pubblicato dalla Hole di Iacobucci e proprio a lui è legato un altro aneddoto dei tempi: dopo aver suonato per l’ultimo dell’anno in un locale sui monti di San Luca, vicino Bologna, Ivan mi propose di fare un salto a Londra grazie al piccolo gruzzoletto che avevo in tasca. Non ero mai stato nella capitale inglese, me la immaginavo punk così come era solitamente ritratta sui libri di scuola e non black. Quel viaggio mi fulminò al punto tale da farmi cambiare vita. Tornato in Italia infatti, vendetti l’auto ed altro per raggranellare denaro sufficiente e mi avventurai per due anni nella vita londinese. Lì conobbi Bobby & Steve che nel 1996 mi ospitarono nel loro programma radiofonico su Kiss Fm, Paul “Trouble” Anderson che purtroppo ci ha prematuramente lasciati poche settimane fa, Ricky Morrison e molti altri DJ. Per sbarcare il lunario lavoravo come “corrispondente” del Disco Inn di Modena di Fabietto Carniel, in un periodo in cui esisteva ancora la caccia ai white label.

Come D. Funk Era in quel periodo incidemmo diverse altre cose tra cui il “Da Tribute EP”, che seguiva ancora i percorsi funk e philly sound di “Spring”, e “The Roof Is On Fire” cantata da Stella Jones, con inserti jazzati, oltre a remixare “Dancin'” di Erick Morillo, cantato da Barbara Tucker. Tornai in Italia nel 1997 e continuai a fare il DJ in discoteca ma col passare degli anni mi resi conto che le cose stavano radicalmente cambiando. Abbandonai progressivamente i club, orfani delle atmosfere degli anni Novanta, a favore dei disco pub ma mi accorsi che l’interesse del pubblico per la musica scemava vistosamente e l’ambiente non era più lo stesso. Iniziai mettendo i dischi alle feste (ai tempi la qualifica di DJ nemmeno esisteva e la gente ti pregava per farlo), poi con l’era del “siamo tutti DJ” è mutato tutto. Assistere alla decadenza di qualcosa che avevo visto ai livelli massimi mi ha persuaso ad abbandonare il settore per dedicarmi ad un’altra passione che coltivavo sin da piccolo parallelamente alla musica, seppur emersa in percentuale differente, quella per l’archeologia e la paleontologia».

2) Green Fridge – You2nite (Duke’s Move)
Luke McCarty alias Green Fridge costruisce il suo brano intorno ad un sample vocale tratto da “I Want You (All Tonight)” di Curtis Hairston, prematuramente scomparso nel ’96 ad appena 34 anni. La versione selezionata da Iacobucci, la Duke’s Move, è dolciastra garage ma sul 12″ edito dalla londinese Estereo trova spazio pure l’amorevole deep house della Africa Sunset oltre a due remix, quello di Danny Jones e quello di Phil Asher, ulteriori sviluppi ad appannaggio di un suono che ha scandito la house music negli anni Novanta, quando il genere si ritrova in netta antitesi con la techno.

3) J.D. Braithwaite – Use Me
Giunto al successo intorno al 1985 insieme a Delroy Murray con cui forma il duo disco/boogie/soul dei Total Contrast (“Hit And Run”, “Takes A Little Time” e “The River” sono alcuni dei singoli di maggior fama), J.D. Braithwaite entra in contatto con la house attraverso i Tongue N Cheek (“Tomorrow” viene remixata da Frankie Knuckles). Corre il 1990 e l’artista è ancora ignaro che la sua sarebbe diventata una delle grandi voci maschili della house/garage di quel decennio, seppur mai troppo celebrata. Featuring per un personaggio d’eccezione come Marshall Jefferson che gli affida la sua “I Found You” nel ’94, Braithwaite trova la giusta dimensione grazie al supporto dell’etichetta tedesca Caus-N’-ff-ct che pubblica diversi singoli e che nel ’98 offre in licenza “Use Me” alla statunitense Strictly Rhythm. Oltre all’Original Mix trovano spazio due versioni di Byron Burke dei Ten City ed una del nostro Enrico Delaiti. I punti di contatto tra Braithwaite e l’Italia, in quel periodo, sono diversi: “Higher” viene pubblicata dalla Milanese Zac International, per Ciro Sasso alias Jackie Reverse interpreta “Let Yourself Go” e soprattutto scrive il testo e canta “Feel The Same” dei Triple X, uno dei tanti successi europei partito da Brescia.

4) Half Tone – My Love
Sono scarsissime le notizie relative ad Half Tone. A rivelare dettagli e retroscena inediti è uno degli artefici, Ivan Iacobucci, che contattato per l’occasione racconta: «Half Tone era un progetto creato con Daniele Vitale col quale, in quel periodo, collaborai a diverse produzioni. Non c’era nessuna motivazione particolare sull’uso di quel nome, foneticamente lo trovammo accattivante e decidemmo quindi di usarlo. Sono passati oltre venti anni ma credo che per “My Love” adoperammo un drum kit Alesis DM Pro, un sintetizzatore rack Orbit V2 e forse anche un E-mu Morpheus. Eravamo piuttosto veloci, in una settimana completammo il tutto. Oltre a curare la parte suonata, Marco Vallin ci diede una mano dal punto di vista tecnico. Vendemmo circa settecento copie che per quel periodo non erano molte. Vista la presenza di numerose versioni, decisi di stamparlo su doppio mix, formato sempre rischioso, ma quando le tracce sono valide per me ciò non dovrebbe impensierire più di tanto, ben venga anche un cofanetto».

iacobucci insieme ad ennio carusillo e sergio macciocu con cui firma submission su umm (1993)

Ivan Iacobucci in una foto del 1993. Insieme a lui Ennio Carusillo e Sergio Maccioccu coi quali realizza “Trouble” di Submission per la napoletana UMM

Gli Half Tone tornano nel ’99 per “Deep My Soul”, house rigata di funk e scandita ancora dalla voce di Stella Jones. «Il pezzo piacque molto nel circuito house ma le vendite erano sempre volutamente limitate» prosegue Iacobucci. «Fu l’ultimo disco inciso come Half Tone ma con Vitale realizzai molte altre cose tra cui “Understand Me” di I-D (le nostre iniziali), col pregevole featuring di Michael Watford. Non andammo avanti negli anni successivi perché non amo molto le collaborazioni a lungo termine». L’etichetta su cui finisce tutto questo materiale è ovviamente la Hole Records: «La fondai nel 1991 grazie al supporto della Flying Records con cui collaboravo (in particolare per una delle sue etichette, la UMM). Proposi un EP a mio parere molto interessante ma che risultò non facilmente vendibile per i loro standard. Decisi così di stamparlo autonomamente, poggiandomi a Flying Records solo come distributore. Il disco in questione era “Saxample” di Anxious, che vendette tremila copie ed ottenne recensioni positive ovunque. Ci presi gusto e continuai per la mia strada con Hole, nome ispirato da un party organizzato in un “buco” a Bologna, un anno prima. Tra i brani più apprezzati del catalogo sicuramente “It’s Gonna Be All Right” di The Loveground e il doppio “SP12”, che ho realizzato con la collaborazione di Nick Dragani» conclude Iacobucci.

5) Loleatta Holloway – ?
A causa di un errore il titolo del brano alla quarta posizione viene duplicato per la seguente, e ciò impedisce di stabilire a cosa si riferisse Iacobucci. La Holloway riappare comunque in nona piazza.

6) Black Connection – Give Me Rhythm
Inizialmente pubblicata come “Rhythm”, la traccia dei Black Connection (Corrado Rizza, Dom Scuteri e Gino Woody Bianchi) diventa “Give Me Rhythm” quando Alex Gold dell’Xtravaganza Recordings intende licenziarla nel Regno Unito e gli autori la fanno ricantare da Orlando Johnson «col fine di renderla più pop, inserendo una strofa e migliorando l’inciso» come racconta Rizza qui. Il brano, remixato dai Full Intention e Victor Simonelli e finito nell’orbita della VCI Recordings del gruppo Virgin, entra nelle grazie di Pete Tong e diventa un tormentone ibizenco nell’estate ’98 garantendo al team romano della Lemon Records ottimi riscontri economici oltre che grandi soddisfazioni in termini artistici.

7) Kronik Trilogy – Free

ivan iacobucci alla consolle del casbah, a foggia (1992)

Ivan Iacobucci impegnato alla consolle del Casbah (Foggia) nel 1992

“Free”, interpretato da Darryl D’Bonneau, è l’unico brano che Victor Sanchez firma come Kronik Trilogy, solcato dalla Kult Records di Lilla Vietri su un doppio 12″ con diversi remix tra cui quello di Ivan Iacobucci che spiega: «Ero letteralmente innamorato di quella traccia tanto da realizzare due versioni: la Ivan’s Dub destinata alla newyorkese Kult, la Ivan Iacobucci Mix finita invece sulla mia Hole Records». Quest’ultima, finalizzata con l’ausilio del tastierista Marco Vallin, è house striata di riferimenti funk e disco. Sul lato b trova spazio il remix, quasi del tutto strumentale, dei Pasta Boys. «Lo fecero in una sola giornata nel mio studio a Bologna» aggiunge Iacobucci.

8) Presence – Better Day
Charles Webster è un veterano della house d’oltremanica: nel 1987 realizza, con Mark Gamble e Delroy Joseph, “House Reaction” di T-Cut-F, che finisce sulla 10 Records col remix di Derrick May. Proprio con Joseph scrive “Better Day” firmata con uno dei suoi pseudonimi più noti, Presence. Il brano dondola dolcemente tra house e deep house e si avvale del sostegno vocale di un cantante che si farà ben notare negli anni a venire, Steve Edwards. La Pagan, diretta da Richard Breeden che matura esperienze manageriali con la Tribal United Kingdom, stamperà poi un secondo 12″ coi due remix dei Salt City Orchestra.

9) Fire Island Featuring Loleatta Holloway – Shout To The Top
Già noti come Roach Motel e reduci del successo ottenuto con “Ultra Flava” nel 1996, Terry Farley e Pete Heller portano avanti collateralmente il progetto Fire Island col prezioso supporto della Junior Boy’s Own. Ai featuring di spessore collezionati sino a quel momento (Ricardo Da Force, Junior Vasquez, Mark Anthoni degli Incognito) ne segue un altro, ancor più pregevole, con una delle dive mondiali della soul/disco, Loleatta Holloway. In “Shout To The Top” esplodono esattamente gli elementi che ci si aspetta di sentire sulla voce della cantante di Chicago legata a doppio filo col mondo della house a partire dai nostrani Black Box. La Fire Island Extended Mix è la versione “housizzata” dell’omonimo degli Style Council di Paul Weller, uscito nel 1984. Seppur si tratti di un pezzo made in UK, gli elementi della classica disco à la Salsoul, con rimandi al philly sound, ci sono davvero tutti. La Junior Boy’s Own, vista la caratura dell’ospite, affida i remix a due colonne granitiche della house accomunate dalla prematura scomparsa, Frankie Knuckles (affiancato da David Morales), e Peter Rauhofer alias Club 69. Ad onor del vero ne figura anche un terzo, con meno rimandi disco, realizzato dagli Industry Standard. Il brano conquista la prima posizione della classifica dance statunitense e viene accompagnato da un videoclip in cui appaiono per un cameo vari DJ della vecchia guardia di Chicago, Steve Silk Hurley, Maurice Joshua e Ralphi Rosario, oltre a Gary Wilkinson, partner di Farley ed Heller in 2 Stupid Dogz, e Thad Holloway, fratello di Loleatta, passata a miglior vita nel 2011. Nonostante il grande successo, “Shout To The Top” resta l’ultimo disco che il duo britannico incide come Fire Island.

10) Carinhoso Project – Baianihas / Hypnose
Doppia a-side per Carinhoso Project, collettivo francese durato giusto il tempo di questo 12″. “Baianihas” è un piacevole appetizer a base di house dal gusto funky/jazzy, “Hypnose” staziona sulle stesse latitudini ma tirandosi dietro percussioni più marcate. Tra gli artefici vale la pena sottolineare la presenza di DJ Gregory e dei Romatt. L’etichetta che pubblica il disco è invece la Yellow Productions di Alain ‘DJ Yellow’ Ho e Christophe ‘Bob Sinclar’ Le Friant in quegli anni uniti come The Mighty Bop.

(Giosuè Impellizzeri)

si ringrazia Marco Sapiens

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Don Carlos – Alone (Calypso Records)

Don Carlos - AloneTra il 1989 e i primissimi anni Novanta, dopo il boom dell’italo house ribattezzata piano house per la sua caratteristica intrinseca probabilmente debitrice a “Move Your Body” di Marshall Jefferson del 1986 (“il primo pezzo house con una linea melodica di pianoforte”, come scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”), i compositori e produttori italiani si attivano per generare una variante di quel suono. Occorre sia prendere le distanze da un filone ormai commercializzato a livello internazionale (e quindi sulla via dell’inflazione), sia accontentare gli avventori dei locali considerati “di tendenza” nonché i DJ attratti dal materiale d’importazione. La deep house che fiorisce da noi non certamente a caso attinge spunti dal suono proposto dalle etichette di New York e di Londra, le due città che prendono le redini del controllo della scena house dopo il (veloce) declino di Chicago dove comunque affondano le radici, i seminali esperimenti e il luogo da cui partono le prime hit transatlantiche come “Love Can’t Turn Around” di Farley ‘Jackmaster’ Funk & Jesse Saunders, “Jack Your Body” di Steve ‘Silk’ Hurley e “Promised Land” di Joe Smooth.

A cavallo tra Ottanta e Novanta quindi in Italia avviene qualcosa che era già accaduto in modo analogo circa dieci anni prima con l’italo disco: la rivisitazione di stilemi ed espressioni estere crea i presupposti e le basi di un neo genere prevalentemente strumentale, oggi in gran spolvero specialmente sulla piazza internazionale. Tra i primi a dedicarsi con dedizione a quel suono, che al suo interno ingloba riferimenti jazzistici ed ambient, è Carlo Troja, da Varese, meglio noto come Don Carlos. DJ sin dalla fine degli anni Settanta, incide il primo 12″ nel 1986 con la Discomagic di Severo Lombardoni, “Disco Halloween” di Forbidden Fruits, arrangiato con Manlio Cangelli ed interpretato vocalmente da Jimmy Mc Foy. Il mancato successo lo trasforma in un cult ottimamente quotato sul mercato collezionistico e ristampato proprio poche settimane addietro dalla finlandese Wishing Well Records. «Quella di Forbidden Fruits fu la mia prima esperienza discografica che condivisi con un altro DJ, l’amico Massimo Scarpati» racconta oggi Troja. «Lo realizzammo in un grosso studio sui navigli milanesi, il Regson Studio, affidandoci a chi ai tempi faceva italo disco».

Tra 1987 e 1988 lo scenario musicale e discografico italiano vede una radicale trasformazione. Al declino inesorabile dell’italo disco, ai tempi gergalmente chiamata “disco dance”, si sostituisce progressivamente la house, specialmente grazie alla decisiva spinta dei britannici, tra i primi a fare “da ponte” con le realtà d’oltreoceano. È una fase entusiasmante sotto il profilo creativo ed imprenditoriale ma Troja ricorda pure un risvolto diverso della faccenda: «La musica viveva un periodo nero, c’era voglia di suonare bei dischi nei locali ma le produzioni lasciavano un po’ di amaro in bocca. Iniziai così a proporre solo classici del passato ma mai finendo nel revival più banale. Poi cominciai a comprare i primi mix provenienti d’oltreoceano ed oltremanica che cambiarono radicalmente la mia visione delle cose. In quei brani sentivo pulsare un sound che mi appagava sia ritmicamente che per i suoni». Nel 1991, a cinque anni da quel timido tentativo non andato molto bene, il DJ ci riprova presentandosi al pubblico con un nuovo pseudonimo, Don Carlos, con cui firma “Alone”, un paradisiaco ed estatico trip che rappresenta bene la scuola deep house italiana, con inflessioni ambient e qualche immancabile rimando al suono imperante del pianoforte, iconico per quello che alcuni giornalisti, specialmente anglosassoni, definiscono sprezzantemente “spaghetti house”.

mentre suona ad un rave a Zurigo nel 1992. Si esibisce come Don Carlo

Don Carlos si esibisce ad un rave a Zurigo nel 1992

«Facevo il DJ da anni ma il mio sogno restava quello di produrre musica mia, specialmente dopo l’arrivo sulla scena dei grandi DJ statunitensi, artefici dei remix che mettevo nei set sin dalla fine degli Ottanta. Cercai quindi un musicista che mi assistesse ed accompagnasse la mia voglia di produrre musica house e trovai Luca Martegani, ancora oggi al mio fianco in studio. Le cose che iniziammo a fare erano discrete ma prive di quella marcia in più che invece aveva “Alone”. Impiegammo circa un anno prima di ottenere un prodotto degno di essere pubblicato! Ricordo ancora quel pomeriggio in cui, dopo una bella lite con Luca, dal pianoforte emerse la melodia del brano. Poi creammo la linea armonica e a quel punto capii che si trattava del pezzo giusto su cui insistere. Mettemmo altri suoni insieme usando una Yamaha DX7, una Roland TR-808, un Moog ed alcuni effetti. Lo registrammo e nell’arco di pochi giorni lo mixammo. Quando aggiungemmo il sax parve crearsi un alone intorno al tutto e quindi optai per “Alone” come titolo, da leggere però con pronuncia inglese. “Solo” perché quel disco rappresentava la mia anima, quello che avrei voluto suonare nei club da quel momento in poi. Per iniziare l’avventura scelsi un nuovo nome ed optai per Don Carlos, volevo che le mie origini italiane fossero chiare a chiunque».

Sono tre le versioni di “Alone”: la Paradise, la Flute House e la Sax Ambient, derivate pressoché dalla stessa idea. A pubblicare il 12″ è la Calypso Records del gruppo bolognese Irma di Umbi Damiani e Massimo Benini. «Feci ascoltare il demo di “Alone” a molte etichette milanesi ma la risposta era sempre la stessa. I vari A&R lo apprezzarono per i suoni ma lamentavano l’assenza del cantato e mi consigliavano puntualmente di aggiungere alla stesura un inserto vocale, un rap o un campione preso da qualche vecchio disco, come fecero i Black Box. A me però quelle modifiche non convincevano affatto e quindi chiamai Damiani della Irma e presi un appuntamento. Ascoltammo insieme il pezzo e poco dopo Umbi mi disse che gli piaceva e che lo avrebbe voluto pubblicare sulla Calypso Records. Qualche mese più tardi mi telefonò annunciandomi che “Alone” stava scalando le club chart e che DJ del calibro di Frankie Knuckles e Tony Humphries lo stessero inserendo regolarmente nei loro set».

Don Carlos con un'amica al Paradiso di Rimini nel 1993

Don Carlos in compagnia di un’amica, al Paradiso di Rimini nel 1993

I galvanizzanti risultati irrorano di energia la vena creativa di Don Carlos che nel 1992 firma, sempre per la Calypso, il mini album “Mediterraneo” (recentemente ristampato dalla Flash Forward) contenente brani rimasti impressi nella memoria di una generazione come la title track, “Paranoia” o “Play It Again”. Seguono l’album “Aqua”, vari EP e svariatissimi remix (tra cui quelli per Gazzara, Adolfo, Argentino, Blacknuss, Byron Stingily, Karen Ramirez e persino Alex Britti col tormentone estivo del 1998 “Solo Una Volta (O Tutta La Vita)” ) che mettono in chiaro le sue inclinazioni stilistiche localizzate su un canovaccio di soluzioni deep house, jazz ed ambient. Da progetti paralleli condivisi con Stefano Tirone, come Antigua Managua e Montego Bay, emerge inoltre una vena funky che rende quelle annate pregne di una creatività imbattuta e forse imbattibile. «Era difficile creare qualcosa uguale ad “Alone” ed io non volevo affatto rovinare quel pezzo, così prese vita “Mediterraneo” per palesare a tutti da dove venivo e soprattutto che noi italiani eravamo perfettamente in grado di scrivere ancora belle melodie e che possedevamo eccome un’anima musicale. Per quel disco cercai sfumature più jazz, fondendo percussioni funk unite a parti elettroniche, insomma, la “spaghetti fusion” che tanti continuano ad invidiarci. Montego Bay invece nacque da un’idea di Umbi Damiani che mi presentò Stefano Tirone, già coinvolto in altri progetti della Irma. Cercammo un punto di contatto che non fu difficile trovare giacché lui aveva un’anima più funky ed io facevo il DJ sin dalla fine degli anni Settanta. Venne fuori un mix tra house, disco e funk che si concretizzò prima in “Everything…” del 1992 e poi si sviluppò in “Saturday Night EP” del 1993».

Qualche anno più tardi, nel 1996 per la precisione, Don Carlos approda alla statunitense Guidance Recordings per cui firma una trilogia come The Aquanauts che sottolinea ulteriormente il poderoso background con cui l’artista realizza opere di ampio spessore. Al netto di banale nostalgia, probabilmente alla maggior parte dei produttori odierni mancano proprio le radici solide da cui attingere la linfa vitale per creare il proprio stile ed evitare di uniformarsi passivamente a quello più in voga al momento. «La Guidance Recordings che stava nascendo era in cerca del meglio della deep house mondiale. Mi chiesero un EP e quindi inventai il progetto The Aquanauts che avanzò in modo parallelo alla mia attività come Don Carlos. In quei brani cercai di mettermi in gioco con suoni adesso ben rodati ma allora pure innovazioni, oltre a tanti sample che giravano in loop sopra le melodie. Era la trasposizione discografica di quello che facevo in consolle, ovvero mixare due brani saldandoli con una acappella ed ottenerne uno nuovo».

Nel 2001 è tempo del terzo album dal titolo esplicativo, “The Music In My Mind”, in cui Troja ha modo di collaborare con cantanti d’eccezione come Kym Mazelle, Michelle Weeks e Taka Boom. L’italo house dei primi anni Novanta è ormai lontana, i tempi iniziano a cambiare tecnologicamente e culturalmente e il DJing, da lì a breve, non sarebbe più stato lo stesso. «In quel periodo ero alla ricerca di suoni nuovi, latini, afro e brasiliani. Oltre a Martegani e Stefano Lucato (quest’ultimo giunto per “Love & Devotion” di Don Carlos Unlimited, sulla Subliminal Soul, in cui figura anche la chitarra di Beppe Pini), al team si unì Ricky D.T., un “mostro” alle tastiere, tecnicamente spaventoso e con un gusto comune a pochi altri. Intendevo uscire dalle solite cose che proponeva la house music, specialmente quelle con la ritmica ossessiva, così volli a tutti i costi vocalist del calibro di Kym Mazelle, che personalmente metto allo stesso livello di Chaka Khan, Michelle Weeks e Kevin Bryant. Desideravo incidere un album da cui emergesse in modo più evidente la mia artisticità, cercando prima il sound e il soul rispetto al classico tool da ballare in discoteca. In particolar modo fu il pubblico giapponese ad apprezzare quel disco. La Mazelle poi mi disse che Knuckles se ne era letteralmente innamorato ed avrebbe voluto realizzare il remix di “Someone Gotta Found Love” ma, un po’ per il budget della Irma, insufficiente a coprire la sua richiesta, e un po’ per la tempistica di realizzazione, purtroppo restò un sogno irrealizzato di cui comunque vado orgoglioso».

Don Carlos a Miami nel 1999

Don Carlos a Miami nel 1999, seduto sul suo flight case

Gli anni trascorrono e la deep house battente tricolore italiano, così come accaduto ad altri generi rivalutati nel corso del tempo, si ritrova a vivere di luce nuova. “Alone” viene recentemente ricommercializzato dalla milanese Groovin Recordings e sul mercato piomba una vera e propria invasione di ristampe, forse un campanello d’allarme che indica una fase inventiva stagnante. Anche molte produzioni nuove, peraltro, vengono create sulla falsariga di quelle di venti/venticinque anni or sono, decretando una non evoluzione connessa ad una voglia di emulazione forte e radicata specialmente nelle nuove generazioni che anagraficamente non hanno nemmeno vissuto gli anni per cui provano una strana forma di nostalgia. Fatto sta che italo house e deep (italo) house vivono un ritorno di fiamma dopo l’oblio che pareva infinito. Nel 2014 Joey Negro assembla la compilation “Italo House” sulla sua Z Records (aperta proprio da “Alone”), nel 2017 Young Marco e Christiaan Macdonald di Rush Hour creano la serie “Welcome To Paradise” dedicata alla cosiddetta dream house. Tenere il conto dei repress però, ufficiali e non, è veramente impossibile. «La italo house generò alcuni talenti ancora presenti sul mercato. Era un filone stilistico dalla spiccata “freschezza”, destinato ad una nicchia di ascoltatori seppur ci fu un periodo in cui divenne particolarmente popolare. Adesso la tecnologia aiuta ma limita il talento. Quasi chiunque può produrre musica a casa, con strumentazione dal costo irrisorio. Può essere un vantaggio ma anche l’esatto opposto. Noi realizzammo “Alone” in uno studio professionale. Tutte le tracce furono suonate e mixate manualmente. La versione Paradise la tagliai dal nastro, è un collage di pezzettini uniti che avevo pre-registrato su un 24 piste. Il computer difficilmente riesce a preservare quel suono caldo. Insomma, i limiti che sussistevano all’epoca si sono rivelati la nostra forza. Era necessario ingegnarsi per ottenere particolari risultati, adesso invece il mercato si limita a cercare cose che suonano ancora attuali. A testimonianza di ciò, il prossimo 20 ottobre sarò ad Amsterdam per una serata nell’ambito dell’ADE dedicata proprio alla italo house. Insieme a me artisti come Elbee Bad, System Of Survival ed Akira».

Giusto un paio di mesi fa è uscita la compilation “Paradise House” che Don Carlos ha curato per la Irma, praticamente una summa di tutto quel periodo realizzata setacciando i cataloghi della label bolognese che quest’anno taglia il trentennale d’attività. «”Paradise House” è nata da una mia idea poi condivisa con Umbi. Volevo scavare a fondo negli archivi di quella storica etichetta di cui orgogliosamente faccio parte, inserendo cose che a mio parere sono ancora proponibili. È come quando ti imbatti nelle b side di vecchi 7″ occupate da pezzi bellissimi ma sconosciuti. Ecco, secondo me c’è ancora tanto da scoprire nell’enorme catalogo della Irma. Prossimamente uscirà su vinile “The Cool Deep”, il mio quarto album del 2010 ai tempi edito solo su CD, a cui seguirà la ristampa di “Aqua” del 1993. In cantiere c’è anche un nuovo album, il quinto della mia carriera, che racchiuderà tracce inedite prodotte ai tempi, l’Original Version di “Alone” e due Extended di “Paranoia”. Insomma, un LP nuovo ma vecchio, che conterrà ciò che ero, che sono e che vorrò essere in futuro». (Giosuè Impellizzeri)

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Claudio Coccoluto – DJ chart marzo 1996

Disco Mix marzo 1996
DJ: Claudio Coccoluto

Fonte: Disco Mix
Data: marzo 1996

1) Rosie Gaines – Closer Than Close
È presumibile che Coccoluto facesse riferimento all’album della cantante californiana, pubblicato nel 1995 dalla Motown e costruito su itinerari funk, soul, hip hop ed r&b. In tracklist c’è pure un contributo di Prince (per “My Tender Heart”), artista con cui la Gaines collabora anni prima figurando nella formazione dei New Power Generation. Il brano che dà il titolo al disco, “Closer Than Close”, viene estratto come singolo solamente nel 1997 quando diventa una hit nel Regno Unito e vende, almeno stando a quanto si legge qui, oltre otto milioni di copie grazie al remix dei Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza), a cui si aggiungono pure quelli dei Tuff Jam e di Frankie Knuckles. La versione house garage dei Mentor, in circolazione in formato white label sin dall’autunno del 1996, garantisce a Rosie Gaines una visibilità inaspettata nel mondo dei DJ e delle discoteche, tanto da finire pure nei circuiti generalisti ed essere ripresa più volte negli anni a seguire in svariati nuovi remix.

Precisazione: dopo aver letto l’articolo, Claudio Coccoluto ci fa sapere che suonava un acetato col remix realizzato dai Mentor per “Closer Than Close”, proponendolo pertanto con circa un anno di anticipo rispetto all’uscita ufficiale. «Sono orgoglioso di aver contribuito al successo del brano» scrive su Facebook il 19 aprile.

2) Century Falls Feat. Philip Ramirez – It’s Music
Erroneamente attribuita al solo Crispin J. Glover che comunque produce il tutto per la Sound Proof Recordings, “It’s Music” è la cover dell’omonimo di Damon Harris risalente al 1978. Il brano lascia rivivere suoni funk/disco all’interno della house/garage tipica di metà anni Novanta, non dimenticando neanche influssi jazz. Sul doppio vinile trovano spazio pure i remix di 95 North, Idjut Boys & Laj e Black Science Orchestra, che sviluppano ulteriori diramazioni tangenti la house e la disco.

3) Groove Collective – I Want You (She’s So Heavy)
I Groove Collective sono un ensemble di musica acid jazz/funk fondato nel 1992. Il brano della chart viene estratto dal secondo album, “We The People”, e dato in pasto a Jazz Moses ed Eric Kupper che lo rileggono in chiave deep house. Sul doppio mix edito dalla Giant Step Records c’è anche la versione originale in cui la band di musicisti mette ampiamente in mostra stile e capacità artistiche.

4) Yellow Sox – Flim Flam
Prodotto da Darren House per la Nuphonic di David Hill e Sav Remzi, “Flim Flam” mette insieme house e referenze disco in una modalità che sarà abilmente commercializzata qualche tempo dopo sotto forma di french touch ma che, è bene ricordarlo, viaggia nell’oscurità del clubbing (soprattutto britannico) già da diversi anni. A riverberare la componente funk in tre reinterpretazioni ci pensano i Faze Action (i fratelli Simon & Robin Lee, tra i primi a ricollegare disco ed house). Il brano viene ripresentato nel 2000 attraverso la Yoshitoshi Recordings dei Deep Dish che pubblica un doppio mix con nuove versioni di Christian Smith & John Selway, Olav Basoski ed David Alvarado alle quali si aggiunge pure l’inedita Unreleased Mix con sprazzi di philly sound, probabilmente esclusa dalla stampa su Nuphonic quattro anni prima.

5) Davidson Ospina – The Chronicles
È la newyorkese Henry Street Music di Johnny “D” De Mairo a pubblicare il progetto “The Chronicles”. L’EP consta di quattro brani, “Strings”, “Get On Up”, “Key Of D’s” e “Shadow” attraverso cui il DJ/remixer mostra deep house dai riflessi jazzati sino a toccare ritmi più marcati decorati con brevi campioni vocali tra cui uno forse tratto da “Reach Up” di Toney Lee. Nel corso del 1996 la Henry Street Music pubblica pure “Chronicles II” e “Chronicles III” con cui Ospina continua a battere percorsi sonori analoghi contraddistinti da una particolare predilezione per gli strumenti a fiato.

6) Lectroluv Feat. Stephanie McKay – Oo La La
Frederick Jorio alias Lectroluv, ai tempi impegnato su etichette di tutto rispetto come Tribal America ed Eightball Records, incide sulla britannica Produce Records un brano garage in formato “canzone” interpretato dalla vellutata voce della cantante newyorkese Stephanie McKay che dona al tutto un tocco r&b. House lontana anni luce dalle tante pacchianerie odierne a base di striminziti loop, suoni precotti e voci tratte da librerie da una manciata di euro.

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Claudio Coccoluto sulla copertina della rivista Tutto Club, n. 5, 1994

7) Lo-Tech – It’s Clear To Me
Quella di “It’s Clear To Me” è house riscaldata da una voce femminile, dotata di un groove “rotondo” e qualche frammento funk sullo sfondo. A produrre, per l’italiana D:vision, è lo stesso Coccoluto affiancato dall’amico Savino Martinez. I due collaborano già da tempo (si senta “Bandit” di Mimi’ E Coco’ su UMM, 1995) e da lì a breve creano The Dub Duo approdando su NRK Sound Division (con un album che, in qualche modo, si riaggancia proprio al concetto di tecnologia destinata all’archiviazione, “Back To Lo-Tech”) e sulla Pronto Recordings di Leo Young ma soprattutto The Heartists che con “Belo Horizonti”, reinterpretazione di “Celebration Suite” di Airto Moreira, sbanca oltremanica dove viene licenziato dalla Virgin e remixato da David Morales e Basement Jaxx. Forte di questi risultati, nel 1997 Coccoluto conquista la copertina della rivista britannica DJ Mag e si piazza all’88esimo posto della Top 100 DJs. Nel frattempo la house latina à la The Heartists viene traghettata nel mainstream da brani come “2 The Night” di La Fuertezza, “Samba De Janeiro” dei tedeschi Bellini (che riprendono il medesimo pezzo di Moreira per ragioni specificate qui), “Spiller From Rio” di Laguna ed “Another Star” di Coimbra (remake dell’omonimo di Stevie Wonder) che consta peraltro di un remix a firma degli stessi Coccoluto e Martinez. La coppia è in azione pure su alcune versioni di “King Of Snake” degli Underworld pubblicate nel 1999 dalla Junior Boy’s Own e registrate presso l’HWW Studio di Cassino, omonimo del progetto HWW (House Without Windows) apparso sulla citata UMM nel 1993 con “Friend”. L’HWS riportato nella classifica è quindi da considerarsi un refuso.

8) The O’Jays – I Love Music (Disco-Tex Remix)
Il brano targato 1975 del gruppo americano di musica soul, r&b e disco viene trascinato nel mondo house attraverso un remix dei Disco-Tex, meglio noti come Full Intention. Preservando le atmosfere originali ma contestualizzandole in una nuova dimensione, emerge una versione perfettamente calata tra disco, funk ed house. Il brano è inciso sul doppio “Remix Culture 158″ edito dalla DMC insieme ad altri interessanti remix per Gusto, Babylon Zoo, Inner City e Deborah Cox ma viene inserito pure su un 12” della Disco-Tex Records, un altro di quei prodotti che testimoniano come la disco house non sia stata il frutto di un’intuizione esclusiva dei francesi seppur questi ultimi abbiano dato ad essa un’impronta personalizzata ed adatta(bile) al mercato mainstream.

9) Nu Colours – Desire
Estratto dall’album “Nu Colours” trainato dal singolo “Special Kind Of Lover”, “Desire” mette in forte evidenza inclinazioni soul, funk ed r&b. Seppur non sia scritto, è plausibile che Coccoluto suonasse uno dei ben quattro remix firmati dai Masters At Work, pubblicati in Italia dalla Impulse, etichetta della bresciana Media Records. Sul doppio mix c’è spazio per due ulteriori versioni, quella dei Mindspell e di Nutopia.

10) Daniel Wang – The Morning Kids
«La house è la rivincita della disco» diceva Frankie Knuckles nel 1990, e un parere molto simile è quello di Daniel Wang, californiano di origini cinesi che nel 1993 riavvicina la disco e il funk alla house attraverso la sua Balihu Records. “The Morning Kids” è il quarto 12″ di un catalogo cresciuto con netta discontinuità ma con altrettanta vitalità espressiva. Quattro i brani racchiusi al suo interno, “In A Golden Haze”, “Rooftop Boogie”, “Baby Powder Dementia” e “Free Lovin’ (Housedream)”, tutti straripanti di sample e citazioni che rimandano al repertorio Salsoul Records e alla disco anti nazionalpopolare. Wang e la sua Balihu Records, di cui abbiamo già parlato dettagliatamente qui, restano tra i primi nomi da menzionare quando si parla della genesi di un filone oggi fatto confluire nell’immenso calderone chiamato nu disco.

(Giosuè Impellizzeri)

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Franco Falsini: rigenerazione sonica senza fine

franco-falsiniNon è facile essere trasversali, soprattutto con risultati che non siano solo la somma disordinata di esperienze ed ispirazioni plurime. Uno a cui l’impresa è riuscita più volte è Franco Falsini, musicista toscano che alla fine degli anni Sessanta emigra negli Stati Uniti dove mette su la band dei Sensations’ Fix, attiva tra prog rock ed evanescenze kraut in grado di attirare l’attenzione di una major, la Polydor italiana, anche se come si legge in un articolo di Giorgio Rivieccio apparso sulla rivista Ciao 2001 nel 1975, era loro intenzione incidere autonomamente i propri dischi «per distribuirli a prezzo inferiore del normale durante i concerti ed eliminando così tutte le strutture commerciali». Nei primi anni Ottanta, dopo essersi trasferito a New York per lavorare come tecnico del suono, si affaccia un po’ casualmente al mondo dance, ed altrettanto casualmente incide un brano che finisce di diritto negli annali della house, “Feels Good (Carrots & Beets)” di Electra, a cui si ispira Jamie Principle per la sua “Your Love” portata al successo da Frankie Knuckles nel 1987. Negli anni Novanta si reinventa ancora e col fratello Riccardo fonda la Interactive Test, etichetta-piattaforma dedita ad house e techno che accoglie molti dei DJ che, in quel decennio, diventano particolarmente popolari in Toscana come Miki, Francesco Farfa, Andrea Giuditta, Mario Più e Gabry Fasano. Assoluto protagonista di una vita avventurosa che lo rende cittadino del mondo, Franco Falsini è tra quei musicisti indiscutibilmente “open minded”, che non hanno timore di rimettersi in discussione e reinventarsi abbracciando nuove tecnologie e nuove prospettive senza riserve e pregiudizi, ma non sacrificando un obiettivo ben preciso, la conoscenza sonica.

Come e quando scopri la musica elettronica? Ci fu qualcuno o qualcosa che accese in te la passione per il suono generato da strumenti non convenzionali?
La passione per l’elettronica nasce con l’apprendimento e la costruzione di amplificatori e casse, la modifica di registratori a nastro e tutto ciò che nell’agosto del 1969, quando arrivai negli Stati Uniti, ne evocava il termine. In quegli anni vivevo col resto di una band chiamata Sally Duck in una grande casa nella contea di Arlington, in Virginia. Con me abitavano Keith Edwards, che poi sarebbe diventato il batterista dei Sensations’ Fix, e James Wilson, bassista, esperto in elettronica e riparatore presso il Washington Music Center. Un giorno James, che spesso aiutavo come apprendista, mi chiamò dal lavoro e mi invitò a raggiungerlo nel negozio dove si sarebbe tenuta la dimostrazione di uno strumento nuovo e completamente elettronico, anche se usava la classica tastiera per generare il suono. Gli chiesi spiegazioni e per la prima volta nelle mie orecchie giunsero parole come “sintetizzatore” e “Moog” e descrizioni tipo “può fare tutti i suoni, molti mai sentiti prima d’ora”. Saltai in auto e lo raggiunsi al Music Center in tempo per la fatidica dimostrazione del Moog Model D. C’eravamo solo io, James e mia moglie che volle accompagnarmi. Rimasi emotivamente sconvolto ma convinto che quello fosse lo strumento giusto da aggiungere allo studio di registrazione amatoriale che avevo allestito con l’aiuto di James nello scantinato della casa ad Arlington. Grazie a Keith che sapeva dove trovare praticamente ogni tipo di sostanza, quel giorno ci calammo diversi acidi e quindi eravamo in una condizione mentale dove tutto ci sembrava collegato in maniera profetica. Il dimostratore mi chiese cosa ne pensassi ed io gli risposi che quell’oggetto sarebbe uscito da lì solo nelle mie mani. Credo che ciò lo spaventò non poco, pensando che in preda al nostro furore mistico avremmo potuto portargli via lo strumento con la forza. Poi gli chiesi quanto costasse e gli confidai di essere interessato a comprarlo, ma lo volevo subito, non potevo attendere che raggiungesse i canali di vendita. Quel tipo di dimostrazione infatti era riservata ai negozi, e mediamente bisognava pazientare almeno sei mesi per vedersi recapitare l’ambito strumento. Il prezzo era fissato a 1100 dollari. Mentre io e James “tenevamo in ostaggio” il dimostratore con una serie di domande spingendolo a telefonare in azienda per ottenere l’ok all’operazione di prevendita, mia moglie Lavinia andò in banca a prelevare i soldi per l’eventuale acquisto. Al suo ritorno, dopo la frase “I got the money”, giunse la risposta che sbloccò la vendita, e questo avvenne anche per merito di James che convinse i responsabili aziendali dicendo loro che avremmo potuto aiutare il lancio del Moog nella nostra zona. Per persuaderli gli raccontò di una modifica che apportammo ad un quattro piste, uscito sul mercato poco tempo prima, per registrare in sovraincisione, e di quanto ciò giovò alla Teac che vendette centinaia di quei registratori ai musicisti del posto.

Ai tempi avevi già inciso l’album “Noi Tre” del gruppo omonimo, registrato nel dicembre 1968 anche se esce nel 1989.
A dire il vero quell’album non mi rappresenta affatto. Ricordo con più piacere invece alcune tracce registrate per un 45 giri che doveva uscire per la Settimana Enigmistica proprio nel 1968. Per me quello fu solo il tentativo della casa discografica di sfruttare i nomi delle persone coinvolte, note per altri meriti, ma senza riconoscere loro nulla in termini economici. Proprio per questo motivo uscì oltre venti anni dopo, nel 1989, facendo leva su alcune gabole del diritto d’autore che esistevano ai tempi.

Quindi Il punto d’inizio è “Fragments Of Light” dei Sensations’ Fix in cui, come scriveva il citato Rivieccio su Ciao 2001 nel 1975, «vibrazioni e suoni si rincorrono nello spazio, le note si contraggono, si estendono e preludono l’apparizione del basso, della batteria e della chitarra. Poi quest’ultima esplode seguita dagli altri strumenti, il sintetizzatore sottolinea, appoggia e dilata i suoni che si mescolano tra loro, una guerra nucleare nel cervello. Frammenti di luce che spezzano l’oscura energia dei generatori elettronici». C’era il desiderio di aderire agli stilemi germanici del krautrock o forse l’intento era imbastire il suono rock con elementi elettronici senza necessariamente dover assomigliare ai “corrieri cosmici”?
Non sento molta aderenza al krautrock nel senso stretto del termine. Senza dubbio il nostro fu un tentativo di uscire dal suono rock omologato di stampo anglo-americano per trovare una propria identità. L’album fu interamente registrato nel nostro studio ad Arlington. Non conoscevo i gruppi tedeschi di elettronica ma mi piaceva Mort Garson che si era convertito al Moog. Il suo “Black Mass” firmato Lucifer era tra i dischi che ascoltavo traendo ispirazione, come del resto “Gandharva” di Beaver & Krause e “Wonderwall Music” di George Harrison. Il progetto Sensations’ Fix nacque al mio ritorno in Italia. La vita nella casa di Arlington stava diventando troppo pericolosa, la polizia locale, insospettita da una moltitudine di hippie che venivano a trovarci a qualsiasi ora del giorno e della notte, ci teneva sotto osservazione speciale. La situazione degenerò quando la casa accanto alla nostra fu affittata a dei ragazzi che spacciavano psilocibina in polvere in grande quantità. Nello stesso periodo Keith andò a lavorare da Trucker Stop, un negozio che vendeva pipe, cartine per rollare canne ed oggetti simili, e fu arrestato perché trovato vicino ad un sacchetto con un pound di marijuana che non era neanche suo. Io e mia moglie pagammo la cauzione per farlo uscire dal carcere e lo aiutammo a trovare un buon avvocato che non ebbe problemi nel dimostrare che quel sacchetto non fosse il suo. Ai tempi avevamo un figlio piccolo, Jeyon, e per evitare altre noie decidemmo di tornare a Firenze dove ci eravamo incontrati e sposati, ma il trasferimento non fu affatto una cosa semplice. Un grande aiuto giunse da tre architetti della città, Fabrizio Fiumi, Carlo Caldini e Paolo Galli, artefici di una ristrutturazione che trasformò un enorme garage a due piani nel centro di Firenze in un locale che stava andando alla grande fra i giovani, lo Space Electronic, col suo light show in stile Pink Floyd, che sarebbe presto diventato meta dei concerti rock più belli. Grazie a loro riuscii a sdoganare dal porto di Genova il container contenente tutti gli strumenti che mi ero portato dagli States. Me lo fecero recapitare a Firenze, presso una casa in Piazza Santo Spirito che mi avevano trovato sempre loro. Allo Space Electronic suonavo due volte a settimana col nome Paolo Uccello (in riferimento al noto pittore fiorentino del XV secolo) usando una doppia tastiera per string e tappeti Eminent che comprai in Italia, oltre naturalmente alla strumentazione che portai da Arlington comprendente il Moog, un quattro piste su cui facevo partire suoni registrati, una batteria, una chitarra, un microfono ed una serie di effetti come un distorsore ed un Echoplex. Il tutto veniva mandato in diretta sull’impianto del locale. Molti dei pezzi che eseguivo erano tracce che sarebbero finite in “Fragments Of Light” anche se in quel momento la Polydor e il contratto discografico erano ancora ben lontani e, paradossalmente, giunsero solo quando il mio rapporto con lo Space Electronic era già finito. Lì conobbi il compianto Filippo Milani, un fotografo di moda già abbastanza conosciuto che mi propose di fare una società con lui per produrre musica, investendo in nuovi strumenti e soprattutto in viaggi per contattare e portare avanti trattative con le case discografiche che a Firenze non esistevano. La prima tappa fu Londra dove Milani aveva amici tra cui un produttore italiano che organizzò un meeting con una piccola etichetta che stava facendo parlare di sé per aver acquistato a prezzo stracciato un maniero in disuso, il Manor, per trasformarlo in studio di registrazione con uffici annessi. Stava nascendo la Virgin Records portando avanti un discorso musicale molto più ampio rispetto alle canoniche case discografiche. Per la prima volta artisti non inglesi venivano promossi e lanciati sul mercato discografico anglosassone. In quell’occasione conobbi Mike Oldfield, Robert Wyatt, altri della “Canterbury scene”, i Faust e i Can. Fu solo allora che ascoltai il primo krautrock grazie alla cordialità dello staff Virgin che mi portò a sentire i loro concerti. Nei giorni seguenti incontrai Simon Draper, co-fondatore dell’etichetta, che ascoltò i nastri e mi fece capire quanto sarebbe stata importante l’uscita di quella musica su un’etichetta italiana. Così, aiutato dallo stesso produttore responsabile di quel meeting, mi fermai a Milano alla Polydor per lasciare le cassette con su incisa la musica di “Fragments Of Light”.

Cosa accadde alla Polydor? Immagino che accolsero la musica incisa su quelle cassette con entusiasmo visto che i Sensations’ Fix furono messi sotto contratto per ben sei album.
I pezzi generarono immediatamente interesse ma l’accordo si concluse solo dopo un lungo anno di incontri e trattative.

Perché l’album “Sensation’s Fix” (scritto in modo errato) fu pubblicato solo in formato promozionale?
Dopo essermi iscritto in SIAE ed essere diventato ufficialmente un autore, arrivò il primo contratto con una casa di edizioni collegata alla Polydor che propose di stampare un numero limitato di copie promozionali del disco da spedire alle radio che avrebbero usato le tracce come sottofondo al parlato. Con tale operazione guadagnai un po’ di soldi come autore in attesa dell’uscita del primo album ufficiale dei Sensations’ Fix. Molti anni più tardi quel disco finì nel giro dei collezionisti ed oggi risulta particolarmente costoso (su Discogs ha sforato la quota di 900 euro, nda). Non lo possiedo neanche io ma conservo i nastri dei multitraccia e dei mix finali, sebbene i mix originali per la stampa adesso siano di proprietà della Universal a seguito di una lunga querelle legale risoltasi positivamente sia per loro che per me. La confusione è stata provocata dal contratto molto atipico che la Polydor mi fece in quel periodo.

Gli strumenti che utilizzavate in studio erano pressoché gli stessi di quelli usati negli States?
Si, ma ne aggiungemmo altri acquistati a Londra e in Italia. Le registrazioni venivano effettuate nel mio studio sulle colline senesi in un vecchio cascinale isolato, in cui il quattro piste fu sostituito con un otto piste ma niente di più. “Boxes Paradise”, del 1977, invece fu registrato negli studi che usava la Polydor, e solo in quell’occasione le mie incisioni furono usate come provini invece che master.

Perché ad un certo punto i Sensations’ Fix cambiano nome in Sheriff?
A fine anni Settanta ritornai negli Stati Uniti dove iniziai a lavorare in uno studio di registrazione. Al proprietario, Gilbert Jullien, piaceva molto la musica che producevo e ciò lo convinse ad aiutarmi economicamente nei modi più disparati. Il mio lavoro era pressoché tecnico, solitamente assemblavo una serie di studi di registrazioni per i militari o cose simili per il governo americano. Secondo Jullien però il nome Sensations’ Fix non era adatto a quella musica, e ad onor del vero non era il primo a farmelo notare. Bruce Springsteen era già “The Boss” e da lì a breve sarebbero decollati i Police, così ci propose Sheriff come nome della band e del disco stesso. A stamparlo fu l’etichetta da lui fondata, la Observatory Records. Ormai il contratto con la Polydor era in via di scadenza.

È vero che nella formazione degli Sheriff figurava un secondo chitarrista chiamato Frank Filfoyt, come riportato qui? Pensavo fosse solo un tuo alias “americanizzato”, come si usava fare ai tempi per sprovincializzare la musica italiana.
Frank Filfoyt era solo un alias, il mio alter ego che si materializzava quando erano assenti i sintetizzatori. Lo riadoperai (leggermente modificato in Franco Fylfoyt, nda) anche negli anni Novanta, quando su Interactive Test cominciai a produrre musica techno, un genere perfetto per pseudonimi e progetti di fantasia. Mi trasformai anche in Frank Bellotti e Fred Banchina, ma la sprovincializzazione non è mai stato il fattore scatenante. A livello artistico c’era un vero fermento, era bello cambiare nome e crearsi nuove personalità e nuove identità, era sinonimo di libertà artistica.

Ad un certo punto molli di nuovo la Virginia e ti trasferisci nella Grande Mela.
Il periodo degli Sheriff stava finendo e mi sentivo come se fossi in clinica. Inoltre emersero altri problemi: il bassista Richard Ursillo decise di tornare in Italia e divenne difficile trovare nuove date per i live. Era necessario spostarsi in un posto che potesse offrire più occasioni, e pensai che Manhattan fosse la soluzione ideale per uscire da uno stile di vita in netta antitesi con l’energia che sentivo dentro. Tra l’altro a New York andai per cercare un gruppo che mi rubò la pedaliera durante una performance al Bayou, un locale molto amato nei dintorni di Washington. Naturalmente non ritrovai mai quella pedaliera ma un colpo di fortuna mi permise di prendere in affitto un loft pazzesco dove portai tutta la mia strumentazione. Senza gli strumenti era difficile far conoscere la propria abilità e così iniziai ad usare quello spazio per creare “connessioni” col mondo musicale della città. Lì conobbi Silvio Tancredi, un personaggio fondamentale per la mia trasformazione (quasi radicale) che seguirà negli anni successivi. Silvio era nato in America da genitori italiani che lavoravano all’ambasciata italiana. Aveva un loft a Manhattan che voleva usare come studio per gli artisti che avevano necessità di registrare i propri brani. Preparare i demo in quel piccolo spazio casalingo avrebbe fatto risparmiare ore e soprattutto dollari che invece sarebbero stati necessari per affittare gli studi professionali ben più attrezzati. Silvio mi propose di lavorare con lui come tecnico del suono ma mi spiegò subito che la musica che avremmo prodotto lì dentro sarebbe stata completamente differente dalla mia e quasi interamente legata alla comunità nera. Accettai. La prima session al Northcott Studio andò bene ed iniziò il periodo che avrebbe deviato il mio gusto musicale. Lo studio era situato a 25 West 38th Street, fra la quinta e la sesta Avenue, ed una stanza era affittata ad un certo Chico che importava e distribuiva musica italo disco a New York. I tempi stavano cambiando e le vendite del rock tradizionale non erano più le stesse. Diversi negozi di dischi chiusero battenti ed altri si dedicarono esclusivamente ad un nuovo genere, non più fatto di sole produzioni anglo-americane. Tanti pezzi arrivavano dalla Germania ed anche l’Italia faceva la sua parte insieme a molti artisti di colore, tutti dediti a variazioni di questo neo genere da ballo, tra electrofunk, boogie e disco sintetica. Da quel posto passarono personaggi come John “Jellybean” Benitez con cui facevo sessioni registrando su un Tascam ad otto piste per i vinili che lui suonava sul suo giradischi Thorens (foderato in madreperla). Solitamente si partiva da un blocco ritmico, poi si sovraincidevano loop di altre tracce mettendole in sync ed infine si passava al mix, accendendo e spegnendo le varie piste. L’effetto era fantastico. Poi grazie ad Arthur Baker, noto per il suo lavoro con Afrika Bambaataa, le mie session divennero prevalentemente di splicing tapes. Veniva in studio con dei mix su bobina da cui avrebbe ottenuto dei remix eliminando le parti non desiderate. Per fare ciò bisognava trovare il punto esatto dove tagliare fisicamente il nastro. In alcuni casi le parti venivano allungate ottenendo un loop che veniva successivamente registrato con la lunghezza desiderata. Era un lavoro di grande precisione che in quel periodo, a New York, in pochi sapevano fare in maniera perfetta. Baker sentì parlare di un italiano capace di effettuare tagli del nastro in modo inudibile, e fissò una session, convincendosi a fine lavoro che quelle voci sul mio conto fossero vere. Un personaggio altrettanto importante di quel periodo fu Mic Murphy. Il progetto The System nacque proprio in quello studio. Gli insegnai a far funzionare le macchine e veniva spesso per produrre artisti del panorama black. Ma con lui non si facevano semplicemente registrazioni, nascevano autentiche session per programmare la drum machine DX e sintetizzatori Oberheim. Con Mic c’era un bel rapporto basato sul reciproco rispetto e sull’ironia delle nostre diversità culturali. Con lui condivisi anche una serata al Paradise Garage dove registrammo un video. In una delle tante session di programmazione (come questa, da me immortalata con una preistorica Sony Betamax) giungemmo a conclusione che “the system is the solution” e così nacque il nome del progetto che Mic avrebbe portato avanti con successo insieme a David Frank. Mi propose di entrare a far parte del team ma in quel momento non ero ancora pronto per un cambiamento di tale portata.

Punto cruciale della tua discografia è “Feels Good (Carrots & Beets)” di Electra, pubblicato nel 1982 dalla newyorkese Emergency Records di Sergio Cossa e passato alla storia non solo per essere considerato a Chicago uno dei brani proto house ma anche perché il suo giro di basso viene ripreso da Jamie Principle in “Your Love”, portata al successo da Frankie Knuckles e a cui fu peraltro accreditata in seguito.
Sergio Cossa, un italiano che viveva nell’East Village stampando dischi per la sua etichetta, la Emergency Records, veniva spesso nel Northcott Studio di Tancredi. Un giorno programmavo alcune linee di basso e Cossa entrò nella control room dicendomi che con una di quelle avremmo potuto fare un disco. Seguii il suo consiglio e finalizzammo il pezzo in uno studio super professionale dove suonai altre parti. Pur sapendo che Sergio mi avrebbe risposto negativamente, cercai di convincerlo ad inserire anche una chitarra, ma non ci fu modo per fargli cambiare idea. In quell’occasione conobbi Tara Butler che avrebbe cantato sopra la mia base. Aveva una voce bellissima ed era una tipa piuttosto selvaggia, una macchina sessuale inestinguibile. Cercò di sedurmi in tutti i modi ma senza riuscirci, e dopo il successo del pezzo tentò di convincermi persino a sposarla, nonostante avessi già una famiglia che però era rimasta in Virginia dove mia moglie lavorava. Credo che Sergio produsse quel disco anche per indicarmi la via su cui dovessi indirizzare il mio talento, ottenendo buoni risultati economici. Nessuna delle persone che incontrai sino a quel momento conosceva i Sensations’ Fix, nonostante i numerosi album incisi con la Polydor. Ho sempre apprezzato Sergio Cossa e Silvio Tancredi: sebbene non fossimo sempre d’accordo, mi hanno fatto capire che i risultati sono importanti quanto le idee e la loro realizzazione. Conservo diverse registrazioni video in loro compagnia, risalenti ai tempi di Electra e del Northcott Studio, come questa e questa.

Nel corso degli anni Ottanta evolvi ancora la tua musica in nuovi progetti come The Antennas, in cui riecheggiano elementi synth pop.
Già, proprio così. The Antennas era fatto di sintetizzatori che seguivano bassline, batterie elettroniche, chitarre e voce. La formula riuscì a trovare uno sbocco discografico con la Polydor francese.

Nel 1990 ti reinventi ancora, questa volta imboccando la house e la techno che declini in progetti come Open Spaces, Ashram’s Tales, Agent Fylfoyt e Man Myth Magic. Il 1991 segna invece la nascita della Interactive Test, etichetta che crei con tuo fratello Riccardo e che in catalogo annovera molte gemme ispirative per la corrente progressive firmate da futuri protagonisti del clubbing toscano e non solo, da Miki al compianto Roby J. passando per Mario Più, Andrea Giuditta, Gabry Fasano e Francesco Farfa. Come ricordi quella fase?
La creazione della Interactive Test, resa possibile anche dall’aiuto di Silvio Tancredi, fu fondamentale. Era un periodo di transizione e, come già avvenuto negli anni precedenti, mi ritrovai ad un bivio. Rimanere in Italia o tornare a New York? La nostalgia ebbe il sopravvento e dentro me crebbe il desiderio di cercare di fare in Italia ciò che avrei fatto a New York. Il mondo del rock mi aveva profondamente deluso, la nuova musica era negazionista, come se il rock non fosse mai esistito se non in modo marginale, e non ero il solo a pensarla così. Mi accorsi che il rock non era considerato rilevante né a Detroit né a Chicago, perché era nato da e per bianchi anglosassoni. Sulla base di queste convinzioni misi in piedi un piccolo studio digitale molto rudimentale ma perfetto per ciò che avremmo dovuto creare. Avevamo un Amiga ed un Tracker e triggeravamo due campionatori con otto uscite ciascuno che, sincronizzati in MIDI con tastiere e drum machine, ci permettevano di creare tracce dai loop e suoni che i DJ avevano precedentemente campionato. Il play finale era mixato su un Soundcraft e registrato in diretta su un DAT della Sony. Stampavamo solo vinile anche se il mercato stava già inesorabilmente spostandosi sul CD. Nelle stamperie iniziavano a circolare voci su una possibile crisi. Ero convinto che piccoli indipendenti (come noi) sarebbero diventati gli eroi delle pressing plant, visto che con la nostra attività rendevamo più sostenibile quella crisi che effettivamente scoppiò qualche anno dopo. In Italia non è mai facile fare qualcosa, e dove le anomalie rappresentano la normalità, trovare il modo per farcela è già una forma d’arte.

Mediamente quanto vendevano i dischi della Interactive Test? Perché la sua attività dura appena un biennio?
Le prime stampe erano di un migliaio di copie ad uscita e andavano in sold out nell’arco di pochi giorni. Si prospettava un futuro più che roseo ma purtroppo la stamperia a cui commissionavamo i lavori chiuse. Ricordo molto bene le scene di disperazione delle persone che persero il lavoro. Dovevamo ripartire da zero e passammo alla Discomagic di Lombardoni che avrebbe curato la distribuzione del nostro catalogo. Non avendo certezze sull’esito dell’operazione optammo per una tiratura molto bassa in modo da limitare le perdite derivate da eventuali vendite non andate a buon fine.

La democratizzazione imposta dal web e dalla tecnologia a basso costo è stata un pro o un contro per la musica?
Nelle mutazioni la valutazione diventa sempre soggettiva. Per l’industria discografica la rivoluzione è stata terribile, soprattutto nell’aspetto economico, ma quell’economia poteva essere già una bolla speculativa o un’anomalia dovuta al divario tecnologico che ora si è assottigliato. Oggi guardo il mondo e lo sento mio, coi soliti problemi da risolvere come accade da sempre in fin dei conti. La sfida rimane la stessa: come usare il mondo?

Nel 2002 DJ Shadow ha campionato “Strange About The Hands” dei Sensations’ Fix (da “Portable Madness”, 1974) per un paio di brani finiti nel suo album “The Private Press”, “Mongrel…” e “…Meets His Maker”: ti è piaciuto il modo in cui il guru dell’hip hop sperimentale ha rielaborato le vostre idee?
Non solo mi è piaciuto ma mi ha fatto capire come la musica dei Sensations’ Fix poteva essere ancora “usata” e come i dischi del passato necessitavano di essere ristampati, pratica che ho cercato di portare avanti anche se i collezionisti continuano a preferire gli originali alle copie, seppur ben realizzate. Posso anche comprenderli, visto che il momento in cui un disco viene stampato è fondamentale, i solchi hanno un’energia propria. Comunque il concetto che un’opera (o un’idea) venga rimodulata, attualizzata, modificata (soprattutto se si è ancora in possesso delle sorgenti sonore) lo considero altrettanto interessante. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila suonavo principalmente ad eventi illegali ed ho il sospetto che DJ Shadow mi abbia sentito proprio ad uno di questi, forse quando occupammo il campeggio di Arezzo Wave coi nostri sound system Orbital Tribe. Mi esibivo coi Pioneer CDJ-100 mixando musica techno da me realizzata durante la settimana e che poi incidevo su CD e vendevo per tirare avanti. Avendo accumulato tante denunce, tale risorsa cominciò ad essere problematica. Dopo il rimaneggiamento di Shadow però, l’assegno semestrale della SIAE relativo ai diritti d’autore maturati giunse con uno zero in più e ciò risolse i miei problemi finanziari che avrebbero potuto portarmi in pericolosi guai legali. Pertanto posso dire “a DJ saved my life!” anche se Joshua non è semplicemente un DJ ma un sensitivo, e il suono è l’espressione perfetta per i sensitivi.

Credi sia importante conoscere la teoria musicale in un ambito così vasto come l’elettronica? Talvolta attenersi fermamente alle regole potrebbe risultare un limite alla creatività?
Mi ha sempre affascinato l’idea che un suono fuori dal pentagramma possa evocare una sensazione, o un rumore possa fare paura come un accordo di chitarra o di pianoforte. Ho sempre seguito gli esperimenti fatti con l’elettronica anche con sonorità radicali perché generano emozioni. Compongo musica proprio per trasferire emozioni, questa è la finalità sonora che voglio raggiungere da sempre. Nel contratto che firmai con la Polydor ero definito “portatore di suono”. Strano ma vero. Avendolo riletto di recente, rivelo un’altra curiosità: prevedendo modalità fisiche e virtuali diverse per erogare musica, la casa discografica si proteggeva da eventuali nuovi sistemi per usufruire di essa, facendolo presente nello stesso contratto. Tornando al rapporto tra teoria musicale e musica elettronica, secondo me la techno parte da un concetto sonico che oltrepassa la composizione intesa come scrittura su uno spartito. Iniziò ad essere così quando un’opera veniva registrata in modo magnetico, e per questo i dischi hanno una loro proprietà sonica, dopo che tutte le parti suonate e le varie sorgenti audio passano dal mixer e diventano un’onda unica. La precisione nella creazione di questa onda è fondamentale e la tecnologia ora permette il controllo sempre più peculiare, offrendo all’esecutore la possibilità di analizzare accuratamente le varie performance.

Oggi si registra una forte tendenza al ripescaggio di materiale raro e poco conosciuto, come avvenuto recentemente al tuo album “Cold Nose” del 1975, ristampato dall’austriaca Spectrum Spools nel 2012, o a “Music Is Painting In The Air (1974 – 1977)” dei Sensations’ Fix apparso nello stesso anno sull’americana Rvng Intl. Come giudichi questa costante ed apparentemente inesauribile voglia di passato? Il nuovo millennio ci ha riservato una dose incessante di nostalgia?
Le ristampe hanno permesso ai collezionisti di completare le loro raccolte ad un prezzo abbordabile, in linea di massima il costo del disco non è aumentato come invece accaduto ad altri beni. Nonostante il crollo delle vendite, la musica ora ha un prezzo più che ragionevole ma la nostalgia ha spinto le case discografiche a ristampare anche i dischi di gruppi i cui contratti sono scaduti da tempo, senza pagar loro le royalties dovute. Insomma, si cerca di sfruttare la voglia di passato e renderla economicamente fruttuosa nel presente. In molti casi l’invasione delle ristampe non ha garantito guadagni ai musicisti però ha permesso loro di tornare a suonare dal vivo dinanzi ad una platea. In fin dei conti, prima che Edison gli sconvolgesse la vita, il musicista nasceva per esibirsi davanti ad un pubblico.

A proposito del sopraccitato “Cold Nose”: il film “Naso Freddo” di Filippo Milani, per cui creasti la soundtrack, pare non venne mai ufficialmente distribuito e proiettato nelle sale. Cosa accadde?
Il cortometraggio durava trenta minuti, non era un film tradizionale quindi di difficile collocazione. Milani, che è morto poco tempo fa, aveva una grande passione per il cinema e trovò qualcuno per finanziare il progetto da realizzare con una 16 mm Beaulieu. In quel periodo non esistevano ancora i videotape e girare con pellicola non era semplice e molto costoso. La storia descriveva un giorno nella vita di un cocainomane in stile freudiano. C’erano solo tre attori, due dei quali rappresentavano le paranoie dell’unico personaggio, Miguel, uno spagnolo che viveva come accompagnatore di fotomodelle. Milani era un maestro nei ritratti fotografici in bianco e nero, di conseguenza il film non era d’azione ma basato su fotografie in movimento, con molti primi piani che avevano le stesse caratteristiche delle sue foto. Ciò, con l’assenza di dialoghi, rese la colonna sonora fondamentale. La lentezza delle immagini doveva avere l’equivalente in musica, e sincronizzare il tutto non fu facile. Il suono doveva essere registrato su pellicola in una banda audio specifica per essere usato nel montaggio del film allo stesso modo delle immagini. Tutto era analogico e i tagli dei nastri venivano fatti a mano. La pellicola fece da trampolino al disco che fu apprezzato particolarmente dalla Polydor, ma finì in cenere dopo una lite tra la casa di produzione e Milani sulla proprietà della stessa opera. Credo che tale vicenda fece capire alle case discografiche che immagine e musica avevano una capacità comunicativa pari a quella dei film classici, infatti quando la tecnologia lo permise nacquero MTV e i videoclip. Video killer the radio star!

Chi credi abbia dato maggiori stimoli e lustro alla scena techno/house a partire dagli anni Novanta?
Con la techno è stato ribaltato il concetto di musicista. Gli altoparlanti sono diventati il prodotto finale, ciò che esce dal sound system il messaggio. In quel periodo seguivo attentamente varie label: mi piacevano la Plus 8 Records, la R&S, le scene di Detroit, Chicago e New York ma devo ammettere che anche gli italiani non scherzavano affatto, come la napoletana UMM. Aphex Twin era già un nome da seguire con attenzione insieme ad Underground Resistance, KLF, Leftfield, Orb, 808 State, Underworld e Future Sound Of London, giusto per citare alcuni che hanno fatto conoscere nel mondo questo tipo di musica. Per quel che riguarda l’Italia invece, credo che personaggi come Miki e Francesco Farfa abbiano dato moltissimo alla scena. Hanno attratto tanta audience con le loro serate mentre altri, come Andrea Gemolotto, si impegnavano a fondo in studio anche se, come spesso accade nella musica, alla fine sono gli inglesi o gli americani a mettere la propria firma su tutto, anche quando le novità passano prima da Berlino che da Londra. La loro potenzialità mediatica è tale perché i rispettivi mercati musicali sono enormi. Negli anni Novanta in Germania la Love Parade divenne la Woodstock della techno, in Italia nacquero le figurine Panini dei DJ: furono chiari segnali di generazioni che cambiavano modo di esprimersi.

Oggi invece? Chi ti attrae particolarmente con le sue produzioni?
Tengo d’occhio chi può aiutarmi a rimanere in onda, quindi è un impegno giornaliero: non solo artisti ma anche programmatori e creatori di software musicali come Robert Henke, ideatore di Ableton e produttore sonoro del progetto Monolake. Seguo diversi generi, dall’ambient di Geir Jenssen alias Biosphere all’elettronica modulare di Richard Devine, per allargare gli orizzonti dell’EDM, il movimento elettronico che balla. Mi considero un compositore elettronico e cerco di dare profondità alla musica anche se a volte serve solo per ballare. Simon Posford degli Sphongle e Merv Pepler degli Eat Static mi piacciono parecchio e fanno un genere in cui recentemente mi sono cimentato spesso. Seguo anche il rock psichedelico dei God Is An Astronaut, di Steven Wilson dei Porcupine Tree e di Thom Yorke dei Radiohead. In particolare i progetti di questi ultimi due, I.E.M. (Incredible Expanding Mindfuck) e Atoms For Peace, mi hanno intrigato molto.

Stai lavorando a qualche nuovo disco?
In cantiere ho diversi progetti, alcuni del tutto nuovi come Kabbalist Is Wired, altri basati su ristampe di lavori passati. Sto collaborando con DJ Tennis (Manfredi Romano) e coi Marvin & Guy (Marcello Giordani ed Alessandro Parlatore) su diversi brani che uscirono negli anni Novanta su Interactive Test. Ci sono diverse ristampe dei Sensations’ Fix da completare e il fatto che su Discogs alcuni dischi di quel periodo abbiano raggiunto cifre pazzesche alimenta non poco le richieste.

Come sono organizzate le tue recenti live performance? Ti ho visto in alcune foto dietro una consolle da DJ …
Sin dagli anni Novanta mi sono organizzato in modo ben preciso per suonare dal vivo, sia da solo che con altri. All’inizio disponevo di due campionatori Roland pilotati da due Amiga 1000. In seguito, quando la Pioneer mi diede in uso per un po’ di tempo la sua prima consolle, ho sostituito i campionatori coi CDJ. La loro comparsa ha mutato radicalmente la scena dei “mixatori”, non tanto per la tecnica quanto per la riproducibilità e l’infinita combinazione che ne può scaturire. I CD si possono preparare autonomamente magari digitalizzando i vinili, cosa che invece prima era impossibile, dovevi materialmente stampare il disco (o al massimo l’acetato) per poterlo suonare. Adesso la tecnologia ha fatto un ulteriore passo in avanti, e la gamma di strumenti per il “mixatore” si è arricchita con velocità automatiche, controlli dell’intonazione che rendono possibile qualsiasi mix, il sync per automatizzare la velocità. Per usufruire di questa flessibilità uso Ableton collegato a diversi controller, un sintetizzatore ed una chitarra con cui inserisco le parti su loop ricavati live o su sezioni registrate precedentemente e selezionate con la tecnica del preascolto. Anche la selezione avviene in tempo reale ma adesso non è più nella nostra memoria ma in un enorme contenitore digitale.

Le collaborazioni con altri musicisti non sono mai mancate durante la tua lunga carriera: c’è qualcuno con cui vorresti (o avresti voluto) condividere lo studio?
Sono molti i musicisti e i tecnici del suono con cui vorrei suonare o semplicemente condividere uno spazio. Oltre che un insegnamento, rappresenterebbe un’esposizione mediatica non indifferente ma la ragione principale resta la conoscenza sonica di cui ho bisogno per vivere, legata alla mia anima che sto cercando di perfezionare col suono. Probabilmente mi troverò a collaborare con chi sta facendo un percorso simile anche se con un genere musicale diverso. Alla fine racconterò tutto ai miei nipotini.

(Giosuè Impellizzeri)

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