Paolo Martini – DJ chart agosto 1994

Paolo Martini, Tutto Discoteca Dance, agosto 1994

DJ: Paolo Martini
Fonte: TuttoDiscoteca Dance
Data: agosto 1994

1) Patricia Kaas – Reste Sur Moi
Analogamente a quanto avviene ai tempi a tanti colleghi, la cantante e attrice francese Patricia Kaas, attiva nella scena pop nazionale sin dalla seconda metà degli anni Ottanta, si ritrova proiettata nel mondo delle discoteche e della house music grazie ai remix realizzati da un DJ. In questo caso l’artefice è Danny Tenaglia che rilegge “Reste Sur Moi”, dalla tracklist dell’album “Je Te Dis Vous” del 1993, in più versioni. A svettare su tutte è la Blue Velvet Mix in cui l’artista newyorkese trasforma radicalmente il brano originale, velocizzandolo e trapiantandolo in una base deep house da cui si levano seducenti vocalizzi e intriganti assoli pianistici. Tenaglia appronta anche una paradisiaca Stringapella, una Dub Mix dagli effetti chiaroscurali, e una Piano Mix che, come preannuncia il titolo stesso, è dominata da virtuosismi jazzistici al pianoforte. Curiosamente la Columbia commercializza in Europa il 12″ e il CD Maxi Single con l’acronimo PK anziché Patricia Kaas: problemi burocratici irrisolti o una possibile strategia di marketing per alimentare l’interesse dei DJ?

2) X-Press 2 – Rock 2 House
Rock 2 House è uno dei vari pseudonimi adottati da Darren Rock e Darren House (cercate “That Disco Thang” sulla Mousetrap Records) ma anche il titolo di un pezzo pubblicato dalla Junior Boy’s Own che i due firmano X-Press 2. Rocciosa come tanta house music che allora nasce oltremanica, la traccia mescola al suo interno percussività ritmiche e atmosfere noir. A metà stesura fanno ingresso voci che si impastano col resto sino a sfilare in un lungo pad su cui (ri)entrano le tambureggianti presenze per far crescere la tensione sino alla rullata energizzante e la ripartenza con l’aggiunta di fiati. Qualche mese più tardi il pezzo riceve il trattamento di Plastikman che, col suo Acid House Remix, trasforma tutto in un sinuoso serpente di lisergici acidismi.

3) The Look Featuring Franklin Fuentes – March
“March” è il secondo (e ultimo) disco che il sopraccitato Danny Tenaglia e il musicista Peter Daou firmano con lo pseudonimo The Look. Giunto dopo “Glammer Girl”, diventa un inno ballroom nei club grazie all’hook vocale (“march, cmon, I’ll take u there, take u there”) che nella Club Tip Mix funge da vero e proprio traino su una base house rigata da suonini elettronici, inserti percussivi e svuoti funzionali per la pista. Sul lato b la Rave Tip Mix ripesca gli stab che qualche anno prima fanno la fortuna dell’hardcore britannica nell’esposione ravey, sprigionando nuova energia insieme alle incitazioni vocali di Franklin Fuentes.

4) The Good Men – Make Up Your Mind
“Make Up Your Mind” è il tipico tool che i DJ utilizzano per risvegliare la pista nei momenti di stanca. Un pezzo diretto, non troppo elaborato, che punta per l’appunto a far ballare il pubblico facendo leva su pochissimi elementi, in primis una base tribaloide che gira come una ruota arpionando un breve ed efficace frammento vocale e un appena accennato riff melodico. Semplice ma efficace insomma. La traccia finisce sul lato b di “Damn Woman” con cui il duo olandese formato da Gaston Steenkist e René Ter Horst tenta invano di bissare il successo di “Give It Up”, che inietta la batucada nella house music e lancia una vera e propria moda che ispirerà più di qualcuno tra cui i Simply Red che la campioneranno per la loro “Fairground”.

5) Jamiroquai – Emergency On Planet Earth (Masters At Work Remix)
Non è esplicitato ma è plausibile che Paolo Martini non si riferisse affatto all’album di debutto della band britannica bensì ai nuovi remix del pezzo che si sommarono a quelli di Danny Tenaglia usciti già nel ’93. A firmare le nuove versioni sono i Masters At Work che si collocano in un punto mediano tra musica latina e house attraverso la London Rican Mix, scandita dalle linee percussive e l’intensità vocale di Jason Kay. Una variazione sul tema è offerta dalla Rican Dub. Il promo è riservato a pochissimi eletti data la sua esigua tiratura distribuita pare quasi esclusivamente negli Stati Uniti ma la Sony va incontro ai DJ solcando la London Rican Mix anche sul lato b di “Half The Man”.

6) Jodeci – You Got It
Così come avvenuto per Patricia Kaas, anche il quartetto r&b dei Jodeci vive una parentesi all’interno dei club grazie a versioni remix. A rimaneggiare “You Got It”, estratto dall’album del ’93 “Diary Of A Mad Band”, sono due nomi che ai tempi fanno grande la house music del Regno Unito, CJ Mackintosh e il team degli Uno Clio. Il primo, nella Mack Dub, punta diretto a lidi garage, giocando opportunamente i sample vocali in un metti e togli tra suoni gommosi e dilatazioni melodiche; i secondi invece, nella Raise The Roof Dub, rileggono il pezzo in una chiave più solare, con l’inserimento di pianoforti e sax che tagliano vicendevolmente la sezione ritmica. C’è spazio anche per una terza rivisitazione dei Global State. Sul doppio promo ci sono ulteriori due versioni, la Cosmack Dub e la Phat Dub Mix, sempre di CJ Mackintosh e Uno Clio, poi finite sul lato b del primo dei due mix di “Feenin'”.

7) U.N.I.T.E.D. – Mother Mary (Black Madonna Remixes)
La versione originale di “Mother Mary”, pubblicata nel ’93 dalla newyorkese Knockout Records, si perde nella miriade di produzioni garage di quel periodo, nonostante fosse curata nei dettagli. L’anno dopo la Produce Records di Liverpool rimette il brano in circolazione attraverso i remix di Frederick Jorio, che aveva già ricoperto un ruolo nelle versioni iniziali. Balzato sotto i riflettori per una serie di produzioni su Eightball Records firmate Lectroluv, Jorio lavora per sottrazione riducendo gli interventi vocali di Basil Rodericks a favore di strutture più orientate ai club specializzati. Si passa dalle atmosfere nebbiose della XRated Mix alla luminosità della Piano Dub con immancabile organata da Korg M1, sino alla percussiva Underground Depress che in certi punti rivela una vicinanza a “Plastic Dreams”, la mega hit messa a segno dall’olandese Jaydee di cui parliamo dettagliatamente qui. È sempre Fred Jorio a occuparsi di “Sing”, il pezzo che dopo “Revelation” e “Mother Mary” tira il sipario sul progetto U.N.I.T.E.D., commercialmente poco fortunato e per questo, chissà, oggetto di una possibile rivalutazione futura.

8) Alma Latina – To Get Up
Tra i progetti meno noti di Claudio Coccoluto, Alma Latina esce dall’HWW Studio di Cassino con un carico di riferimenti latini che occupano per intero la Cocodeepdub lunga oltre dieci minuti. Sul lato b l’Hard Mix curata da Paolo Martini, affiancato da Ricky Birickyno e Christian Hornbostel, meno intrisa di percussioni ma imbevuta di salsa prog (alcuni elementi del pianale effettistico sembrano riapparire l’anno dopo in “Full Steam Ahead” di Shoot-Proof, su PRG). Chiude le danze la Martinez Dub Mix di Savino Martinez che bazzica la sampledelia in un laborioso mosaico di dinamici start e stop. Il disco, pubblicato dalla Looking Forward, passa inosservato perché prende le distanze «dalla house classica che funzionava per la maggiore in Italia in quel periodo» spiega Martinez in questo articolo.

9) Joe T. Vannelli Featuring Csilla – Voice In Harmony
Con “Voice In Harmony”, giunto dopo “Play With The Voice” del ’93 che vanta, tra gli altri, remix di Masters At Work, Paul Van Dyk e Joey Beltram, Vannelli rinnova il sodalizio artistico con la cantante Csilla Domonkos. Pubblicato su Dream Beat, il brano è mosso da uno spirito dinamico e bilancia sapientemente ritmo e sensualità vocale, così come tramanda la migliore tradizione garage a cui il DJ allora si ispira chiaramente. Le versioni solcate sul doppio mix però sono svariate e diventeranno ancora di più quando il pezzo viene licenziato all’estero da pregevolissime etichette come l’americana Nervous Records e la tedesca MFS che alla già ricca carrellata aggiungono rispettivamente le reinterpretazioni di Frankie Feliciano e del citato Paul Van Dyk.

10) Gayland – No Pay Day (Remix)
Dopo aver preso in licenza “Get By” dalla newyorkese Easy Street Records, Angelo Tardio rinnova l’interesse per il progetto Gayland che con “No Pay Day” aggiunge un altro tassello garage al catalogo UMM a cui abbiamo dedicato una monografia qui. Ricetta vincente non si cambia: così come aveva fatto qualche mese prima, Tardio continua ad affidare i remix a Paolo Martini e Michele Violante che comunicano la loro carica emotiva attraverso due Cut finiti sul lato b, in cui suoni quasi grattugiati incrociano un organo e dolciastri pad generando un piacevole contrasto. Sul lato a la Make Life Easy Mix, versione di un altro personaggio che ai tempi è dedito alla divulgazione della cultura house nel nostro Paese attraverso l’FM, Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi.

(Giosuè Impellizzeri)

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La dance rimasta nel cassetto

Annunciare l’uscita di un disco che poi però resta nel cassetto: capita più volte negli anni Novanta, quando la musica dance vive una delle sue fasi più entusiasmanti. È accaduto per motivi legali, connessi ad esempio all’uso non autorizzato di un campionamento, per scelta dell’autore o, più frequentemente, per un ripensamento della casa discografica.
Per l’occasione Luca Giampetruzzi e Giosuè Impellizzeri, che tornano a scrivere un articolo a quattro mani a distanza di diversi anni, fanno incetta di informazioni d’archivio e le mettono in fila per indagare e raccontare le vicende di brani sconosciuti perché mai pubblicati o usciti dopo decenni a insaputa degli stessi autori. Non manca neanche qualche caso legato a pezzi finiti sul mercato con il nome artistico diverso rispetto a quello dichiarato inizialmente. Il risultato finale è una gallery che conta circa una ventina di titoli legati a storie rimaste nell’ombra, arricchite da dichiarazioni riscoperte su vecchie riviste o raccolte ad hoc.

Aladino – Nasty Rhythm
Forte di una storia lunga ormai quarant’anni, la bresciana Time Records è una delle etichette dance più importanti nei Novanta, con diversi progetti di successo. Tra questi, a partire dal 1993, anche Aladino, nome legato al DJ e produttore Diego Abaribi, che esordisce nell’estate di quell’anno con “Make It Right Now” (di cui parliamo qui) e si conferma qualche mese dopo con “Brothers In The Space”, entrambi scanditi dalla voce di Emanuela Gubinelli meglio conosciuta come Taleesa. Nell’autunno del 1994, su alcune riviste, si parla di un LP per Aladino ma Abaribi, contattato per l’occasione, spiega che «nonostante fossero pronti diversi singoli, tra cui “Promise”, poi uscito come No Name, il progetto dell’album venne accantonato in quanto la Time puntava più al mercato dei singoli. Tra i pezzi già pronti c’era anche “Nasty Rhythm”, che a mio parere sarebbe stato il disco migliore tra quelli usciti a nome Aladino, era davvero forte. In quello stesso periodo decisi di lasciare l’ambiente musicale per dedicarmi all’azienda dolciaria di famiglia, quindi la traccia non venne mai pubblicata». Orfano del bravo produttore bresciano, il progetto Aladino vede un’altra uscita a ottobre 1995 con “Stay With Me”, prodotta dal duo Trivellato-Sacchetto e con la voce di Sandy Chambers.

Albertino Feat. The Outhere Brothers – ?
Speaker di successo e assoluto protagonista della scena radiofonica italiana fin dagli anni Ottanta, Albertino è diventato negli anni Novanta il punto di riferimento per il genere dance, grazie ai suoi programmi DeeJay Time e DeeJay Parade in onda su Radio DeeJay. Significativa anche la sua carriera a livello discografico che l’ha visto protagonista con alcune produzioni come “Your Love Is Crazy”, a cui abbiamo dedicato un articolo qui, e collaborazioni in vari progetti (Do It!, Lost Tribe – di cui parliamo qui – The End, Control Unit), soprattutto a inizio anni Novanta. Nel luglio 1995, come dichiarato dallo stesso Albertino attraverso un’intervista per la rivista di videogiochi The Games Machine realizzata da Stefano Petrullo, era in programma l’uscita di un disco realizzato con gli Outhere Brothers. «Dopo il successo ottenuto all’Aquafan a ferragosto (del 1994, nda) ero impazzito, mi sentii un po’ cantante e volevo fare un disco con gli Outhere Brothers. Loro mi mandarono la base da Chicago, tra l’altro molto bella, ma poi mi sono vergognato e non l’ho fatto… Se questa cosa fosse andata in porto però, penso che sarei arrivato al primo posto delle classifiche». Un disco con la voce di Albertino uscirà anni dopo, nel 2001, e arriva proprio al numero uno della classifica di vendita italiana: “Super”, realizzato insieme a Gigi D’Agostino.

Alex Party – Now It’s Time
Il progetto di Alex Natale e i fratelli Gianni e Paolo Visnadi è, soprattutto tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, uno dei più importanti tra quelli da esportazione, con una posizione numero due raggiunta nella classifica di vendita nel Regno Unito, a febbraio 1995, grazie a “Don’t Give Me Your Life”. Con “Wrap Me Up”, sempre nello stesso anno, diventano profeti in patria, visto che il brano interpretato da Shanie Campbell è uno dei grandi successi estivi per lo Stivale tricolore. Dopo il fallimento della Flying Records però, avvenuto alla fine del 1997 e quindi anche dell’etichetta UMM (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) in cui militavano Natale e i Visnadi, il progetto subisce un repentino stop che pare possa terminare a novembre del 1998 quando sul mercato appare una white label intitolata “Now It’s Time”. Il brano, tuttavia, non vede ufficialmente la luce perché gli autori, a dispetto del titolo, non sono convinti al 100% dell’operazione, e ciò fa calare (temporaneamente) il sipario sul progetto prodotto nel 77 Studio di Mestre. Il ritorno però è solo rimandato, visto che nell’estate del 2000 gli Alex Party ricompaiono con un singolo dal titolo “U Gotta Be” su etichetta Undiscovered, che ottiene ottimi riscontri ed è impreziosito da un remix ad opera degli Eiffel 65.

Claudio Coccoluto – Rio
L’uscita di “Rio” di Coccoluto non è mai stata annunciata pubblicamente ma pare che nel 1998 il pezzo fosse destinato all’etichetta milanese Reshape, tentacolo house del gruppo Dipiù guidato da Pierangelo Mauri. Costruita su campionamenti tratti da “Rio De Janeiro” di Gary Criss uscito su Salsoul Records nel 1977, la traccia nasce nell’HWW Studio di Cassino insieme all’inseparabile Savino Martinez che, come racconta qui, non ricorda nel dettaglio le ragioni per cui rimase chiusa nel cassetto ma ipotizza che la causa fosse legata alla mancata autorizzazione dell’uso del sample. Un paio di minuti di “Rio” finiscono sul canale Soundcloud della thedub: Martinez conserva ancora il DAT nel suo studio.

Countermove - Something
La copertina dell’album dei Countermove diffusa in formato digitale nel 2009

Countermove – Something
Nato alla fine del 1998, Countermove prende le mosse dalla new wave e dal synth pop, generi che gli autori Cristian Camporesi (intervistato qui) e Alberto Frignani conoscono più che bene e a cui puntano con l’aiuto di Davide Marani, cantante dal timbro molto simile a quello di Dave Gahan (è sua la voce di “A Question Of Time” di Tony H, artista di cui si parla più avanti, nonché di altre cover della band di Basildon come “Personal Jesus” dei Bond Street, “Little 15” dei Mustache e “Flexible” dei Miami Dub Machine”). “Myself Free”, uscito nella primavera ’99 e per cui viene girato anche un videoclip, apre la strada con discreti risultati che si cerca di replicare con “Unbelievable” del 2000. L’anima pop alla base del progetto spinge la Do It Yourself a prendere in considerazione l’ipotesi di pubblicare persino un album, “Something”. Alla fine però tutto si arena con l’EP omonimo diffuso solo in formato promozionale. «Quando incontrai Cristian e Alberto, c’erano già diverse canzoni allo stato di demo o poco più» spiega Marani, anni fa, sulle pagine di Decadance Appendix. «L’ingaggio con la Do It Yourself avvenne perché Molella, amico di Cristian, ascoltò un paio di brani probabilmente intravedendo il potenziale commerciale con dei remix ossia “Myself Free” e “Another Day”. Sul primo non si sbagliava affatto e da lì a poco ci chiesero di preparare l’album. Avevamo tempo sino al 10 settembre di quell’anno, il 1999. Nel frattempo uscì il secondo singolo, “Unbelievable”, spinto ancora dal remix di Molella & Phil Jay. Noi ci presentavamo come band pop o techno pop, ma con l’alto airplay radiofonico legato a un’etichetta prettamente dance tutti ci inquadrarono semplicemente come gruppo dance. A emergere fu dunque un’immagine “strozzata” e piuttosto riduttiva per chi, come noi, suonava anche la chitarra acustica ed eseguiva brani unplugged. “Dive” avrebbe dovuto anticipare l’uscita di “Something”, pianificata prima per ottobre, poi per dicembre, poi per gennaio 2000 in occasione del Midem, poi a febbraio … ma alla fine fu chiuso in un cassetto. Forse non era propriamente adatto al pubblico italiano visto che ricalcava gli schemi dei Depeche Mode, la passione che condividevo con Cristian e Alberto. In seguito l’etichetta ci chiese di scrivere qualcosa sulla falsariga di “Myself Free”: preparammo delle bozze ma nessuna andava bene. Il tempo passava e la scadenza del contratto era ormai prossima, non vedevamo l’ora di spedire una raccomandata con ricevuta di ritorno affinché non fosse rinnovato per tacito consenso. A posteriori, credo che finimmo nelle mani sbagliate: noi eravamo pop e facevamo pop ma l’etichetta era dance e vide il lucro solo in un paio di singoli remixati in chiave dance». Il 27 agosto 2009, a sorpresa, la Do It Yourself pubblica in digitale l’album dei Countermove, fortemente intriso di riferimenti derivati dalla band britannica oggi attiva con Martin Gore e Dave Gahan, forse proprio quei riferimenti che contribuirono a farlo naufragare circa dieci anni prima.

Datura & Carol Bailey – I Can Feel It
1997: il suono della dance made in Italy sta attraversando per l’ennesima volta una fase di cambiamento e in primavera le produzioni tornano ad avere un sapore pop, dopo l’abbuffata di dream progressive dei mesi precedenti. Sulle pagine della rivista DiscoiD si parla di un’inedita collaborazione marchiata Time Records, tra i Datura e Carol Bailey (cantante di cui parliamo qui), tra i nomi di maggior spicco dell’etichetta bresciana di Giacomo Maiolini. L’annuncio però cade nel vuoto visto che nei mesi seguenti si perdono le tracce del pezzo intitolato “I Can Feel It”. Tempo dopo Ciro Pagano dei Datura afferma che «si stava pianificando l’uscita, ma poiché il brano non piacque a uno speaker radiofonico di riferimento dell’epoca, si preferì seguire il suo suggerimento e non commercializzarlo, cosa che, a ogni modo, in quegli anni capitava spesso». Relativamente ai Datura, nel cassetto resta pure il remix di “Angeli Domini” realizzato dai tedeschi Scooter. Come spiegano Stefano Mazzavillani e il citato Pagano nell’intervista finita in “Decadance”, la ragione per cui ciò avvenne fu legata a un problema di tempistiche: «quando gli amici Scooter ci consegnarono quel remix, sulla rampa di lancio era già posizionato “Mantra”. All’epoca in Time Records non c’era la mentalità adatta per stampare un singolo nuovo con una traccia uscita in precedenza, seppur in versione inedita. Da lì a breve fu la Media Records di Gianfranco Bortolotti a dare inizio a questo tipo di pratica che permetteva di creare un filo conduttore tra una pubblicazione e l’altra dello stesso artista». Intorno al 1996 si parla anche di un nuovo album per i Datura, il secondo dopo “Eternity” del 1993: «circa un anno fa era pronto l’LP che però abbiamo bloccato perché troppo legato al nostro vecchio sound. Successivamente è nata “Voo-Doo Believe?” e abbiamo voltato del tutto pagina» chiariscono Pagano e Mazzavillani in un’intervista di Paolo Caputo apparsa sulla rivista Future Style nel 1997, aggiungendo che il progetto in tale direzione ormai non fosse più tra le priorità. «Fare un album è un lavoro importante che richiede un grande sforzo di tempo ed energie, sarebbe un peccato sprecarlo con tempi e modi che non sono ideali. Oggi in Italia la situazione commerciale e artistica nel mondo della dance è molto delicata, restiamo quindi in attesa di un segno». Quel segno, evidentemente, non è mai arrivato.

DJ Cerla & Moratto – Baby Love
A metà degli anni Novanta, tra i generi più apprezzati dai fruitori di musica dance, c’è la happy hardcore, caratterizzata da pianoforti sincopati, alti bpm e melodie felici, happy per l’appunto. Nonostante le produzioni di questo stile arrivassero principalmente dai Paesi nordeuropei, ad abbracciarlo sono anche alcuni artisti italiani, con fortune alterne. Tra questi i D-Juno, Tiny Tot (di cui parliamo qui), Russoff e l’accoppiata formata da Gabriele Cerlini, meglio noto come DJ Cerla, e il musicista Elvio Moratto. All’inizio del 1995 i due, accompagnati dalla voce di Jo Smith, scalano le classifiche di vendita con “Wonder” che ripesca la melodia di “Help Me (Get Me Some Help)”, brano del 1971 di Tony Ronald già ricostruito in versione happy hardcore qualche mese prima dagli olandesi Charly Lownoise e Mental Theo per “Wonderfull Days”.

Cerla & Moratto - Baby Love
La compilation in cui finisce “Baby Love”

Il seguito intitolato “Baby Love”, la cui pubblicazione è prevista per l’estate dello stesso anno, stranamente non vede ufficialmente la luce nonostante l’inserimento nella compilation “Festivalbar Superdance ’95”. «La Flying Records, nostra etichetta di quel periodo, ci chiese di realizzare velocemente un brano da destinare a un’importante compilation e così facemmo. Poi però, per l’uscita ufficiale, era necessario elaborarlo adeguatamente ma visto che non fu possibile farlo per vari motivi, non venne ritenuto abbastanza forte per la pubblicazione e quindi accantonato» spiega in merito DJ Cerla.

Freestylers – B Boy Breakers
Non è raro che negli anni Novanta si mettano sul mercato produzioni discografiche in formato white label disponibili in poche centinaia di copie: è una modalità che permette di testare le proprie idee con un investimento economico ridotto al minimo e praticabile anche senza il supporto di un distributore. Avviene più o meno così per il duo britannico dei Freestylers, formatosi nel 1996 dalla collaborazione tra Aston Harvey e Matt Cantor, entrambi reduci di diverse esperienze, anche di successo, come Uno Clio e Strike. In occasione della nuova avventura optano per uno pseudonimo inedito, Freestylers per l’appunto, con cui realizzano un remix di “Do You Wanna Get Funky” dei C+C Music Factory, originariamente del 1994. Lo solcano su un test pressing single sided con l’intenzione di inaugurare la loro nuova etichetta, la Freskanova, ma qualcosa non va per il verso giusto. Per gettare luce sull’accaduto risulta provvidenziale Nico De Ceglia (intervistato qui) che a dicembre ’97, attraverso le pagine di DiscoiD, chiede ragguagli a David Morgan, uno dei manager dell’etichetta: «il disco non è mai uscito per problemi irrisolti legati all’autorizzazione di alcuni samples. Tuttavia è diventato un classico nonostante sia praticamente impossibile trovarlo» spiega Morgan. «Sono ancora molti quelli che ci chiamano per avere informazioni a riguardo ma credo che solo tre o quattro persone ne posseggano una copia, oltre ovviamente agli stessi autori. Non uscirà mai anche se una sua commercializzazione probabilmente lo avrebbe reso un successo». Il primo disco della Freskanova è quindi destinato a rimanere nel cassetto, almeno parzialmente, visto che il secondo brano, “Beat Of The Year”, finisce sulla quinta uscita dell’etichetta firmata Freska Allstars. Qualche copia, nel corso degli anni, è transitata dal marketplace di Discogs subendo peraltro un sensibile incremento nella quotazione che il 26 aprile 2015 ha toccato i 332 €. Per i Freestylers e la loro Freskanova però è solo questione di tempo: nel ’98, grazie al boom commerciale del big beat, spopolano con “B-Boy Stance” col featuring del compianto Tenor Fly e trainato da un videoclip in alta rotazione su MTV. Il pezzo è estratto dall’album “We Rock Hard” da cui vengono prelevati altri singoli come “Ruffneck” e “Here We Go”, pubblicati anche in Italia dalla T.P. del gruppo Dipiù.

Gabry Ponte – Power Of Love
È convinzione generale che il primo singolo ufficiale del noto DJ torinese sia quello uscito nel 2001 intitolato “Got To Get”, che mette insieme “Dance Your Ass Off” dell’olandese R.T.Z. e “Feel That Beat” dei 2 Static. In realtà Gabry Ponte cerca la via solista già a gennaio 1999 con “Always On My Mind” (nulla a che vedere col brano omonimo contenuto nel suo primo album) del progetto The Gang @ Gabry Ponte, con la voce di Jeffrey Jey. Ad onor del vero però il primissimo tentativo risale addirittura al 1997 con una traccia intitolata “Power Of Love” realizzata insieme a Simone Pastore dei Da Blitz di cui parliamo qui, che si aggiungeva ad altri progetti curati da lui stesso all’interno della Bliss Corporation come Sangwara e Blyzart. Il brano non esce ufficialmente ma anni dopo viene inserito all’interno del catalogo di Danceria, portale attraverso cui l’etichetta di Massimo Gabutti (intervistato qui) e Luciano Zucchet vendeva la propria musica in formato digitale e ricercava giovani talenti attraverso un nutrito forum.

Molella & Phil Jay – Don’t You Want Me
Una problematica molto diffusa, fin dalla nascita della house music e dell’utilizzo dei campionatori come strumento per creare musica, è legata all’utilizzo dei sample, parti di altre canzoni già edite e magari di successo adoperati per creare brani inediti. Come visto più sopra nei casi di Claudio Coccoluto e dei Freestylers, non sempre gli autori o gli editori originali permettono l’uso di campionamenti tratti dal proprio repertorio e questo, di fatto, può bloccare l’uscita delle musiche che li contengono. È proprio quanto accaduto a “Don’t You Want Me”, follow-up di “With This Ring Let Me Go”, successo estivo del duo Molella e Phil Jay i quali, dopo aver rispolverato il brano “Let Me Go!” degli Heaven 17, targato 1982, tentano di fare il bis riprendendo una hit degli Human League dello stesso anno, “Don’t You Want Me”. L’operazione non va in porto a causa della mancata autorizzazione del “sample clearance” da parte degli autori come dichiarato dallo stesso Molella in una puntata del 2008 di Samples, programma condotto all’epoca da Paolo Noise e Wender su Radio 105.

Netzwerk - Love Is Alive
Annunciato come il nuovo Netzwerk, “Love Is Alive” esce come Johanna

Netzwerk – Love Is Alive
Progetto di punta della DWA (etichetta a cui abbiamo dedicato qui una monografia) fino a metà degli anni Novanta e passato nel 1997 alla scuderia della Dancework per il poco noto “Dream”, Netzwerk, animato dai toscani Gianni Bini, Fulvio Perniola, Marco Galeotti e Maurizio Tognarelli ha segnato il periodo eurodance grazie a diverse hit, in primis “Passion” (di cui parliamo qui) e “Memories”, entrambi interpretati da Simone Jackson, successivamente nota come Simone Jay come raccontiamo qui. Nel 1999 su Volumex, sublabel dell’etichetta milanese gestita da Fabrizio Gatto (intervistato qui) e Claudio Ridolfi, viene annunciato il nuovo singolo dei Netzwerk intitolato “Love Is Alive”. L’uscita ufficiale avviene però sotto un altro nome, Johanna, dietro il quale si nasconde Karen Jones, cantante precedentemente impegnata col progetto Bit Machine ad opera di Daniele Davoli e i suoi Black Box. Una delle quattro versioni è firmata dal compianto Alberto Bertapelle alias Brainbug, che pochi anni prima spopola a livello internazionale con “Nightmare”.

R.A.F. By Picotto - What I Gotta Do
L’info sheet che accompagna la tiratura promozionale di “What I Gotta Do” su GFB

R.A.F. By Picotto – What I Gotta Do
Per “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto probabilmente sarebbe più corretto parlare di ripensamento giacché il brano, alla fine, viene pubblicato ma con alcune modifiche e soprattutto con un nome d’artista diverso da quello pianificato in prima battuta. Le copie promozionali iniziano a circolare a gennaio del 1994 e contengono quattro versioni tra le quali svetta l’Extended Mix. In buona sostanza il pezzo è un rifacimento eurodance di “Days Of Pearly Spencer” di David McWilliams, un brano del 1967 che forse ispira Cerrone per “Supernature” e che viene coverizzato a più riprese da artisti sparsi per il mondo, tra cui Marc Almond e la nostra Caterina Caselli che lo reintitola in “Il Volto Della Vita”. Ai tempi Mauro Picotto, affiancato in studio da Steven Zucchini, ricorre anche a uno stralcio melodico di “Pure” dei GTO e un paio di frammenti vocali: uno è un campionamento preso da “My Family Depends On Me” di Simone e già usato in “What I Gotta Do” di Antico, l’altro è un rap di Ricardo Overman alias Mc Fixx It (“I love music yeah, can you feel it”) che si ritroverà qualche mese dopo in “Move On Baby” dei Cappella. “What I Gotta Do” finisce proprio nel secondo album di questi ultimi intitolato “U Got 2 Know”. Contattato con la speranza di poter aggiungere dettagli circostanziati, l’artista piemontese purtroppo non rammenta nello specifico le ragioni che spinsero la Media Records a cambiare il nome dell’artista ma ipotizza che ciò avvenne perché sorse l’esigenza di ultimare il nuovo album dei Cappella sottolineando, come peraltro già fatto nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” a cui abbiamo dedicato un articolo qui, come allora ci fosse chi produceva musica e chi invece decideva la modalità con cui pubblicarla, nomi e marchi inclusi. «Più che la traccia in sé, riascoltare il pezzo mi fa pensare a quanti ingredienti eterogenei cercai di incastrare» commenta Picotto. «Oltre alla melodia di “Days Of Pearly Spencer” e il campionamento di Simone, in “What I Gotta Do” c’erano anche un frammento di Herb Alpert e uno preso da un mix hip hop che comprai al Disco Più di Rimini. È pazzesco come un riff o una tonalità inconsueta possano fare riaffiorare ricordi ormai andati persi, ma del resto è questa la magia della musica». Vale la pena sottolineare infine che a “What I Gotta Do” di R.A.F. By Picotto venne abbinato anche un numero del catalogo GFB in previsione di una pubblicazione ufficiale, lo 063, poi riassegnato a “Doop” dell’omonimo duo olandese (formato da Ferry Ridderhof e Peter Garnefski, già artefici del successo “Hocus Pocus”) che la Media Records prende in licenza per il territorio italiano.

Systematic – Upside Down
Una partenza sotto i migliori auspici colloca Systematic, a cui abbiamo dedicato qui un articolo/intervista, tra i progetti italiani meglio riusciti del ’94, anno di grazia dell’eurodance. Dopo lo sprint iniziale ottenuto con “I Got The Music” e “Love Is The Answer” però l’interesse si flette sino a lasciare quasi nell’anonimato “Stay Here (In My Heart)”, cantato da Sandy Chambers, e “Suite #1 D-Minor/Klavier Concert”, entrambi del ’96. Affidato a un nuovo team di produzione composto dal musicista Bruno Guerrini e dal giornalista Riccardo Sada, Systematic risorge nel 2000 con “Everyday”, ispirato dai primi successi messi a segno dagli Eiffel 65. L’interesse mostrato da vari Paesi europei lascia presagire un follow-up che viene effettivamente annunciato a febbraio del 2001 proprio da Riccardo Sada attraverso la sua rubrica Le Fromage sulle pagine del mensile d’informazione discografica DiscoiD.

Systematic - Upside Down
“Upside Down” esce nel 2021, venti anni dopo la sua creazione

Contattato per l’occasione, Sada spiega che l’intenzione era quella di dare un seguito al fortunato “Everyday” ma usando un riff potenzialmente utilizzabile per le suonerie dei telefoni cellulari, un segmento di mercato che in quel periodo iniziava a mostrare interessanti potenzialità e sbocchi commerciali. «Guerrini mi telefonò mentre ero in vacanza in Grecia e mi fece ascoltare un frammento della melodia ma mi resi subito conto che non fosse forte e immediata come quella di “Everyday”» ricorda il giornalista. «Il testo e la voce erano ancora di Ivano Fizio e i riferimenti agli Eiffel 65 non mancavano, tuttavia la Energy Production, proprietaria del marchio Systematic, preferì non investire denaro su “Upside Down”, essenzialmente nato dallo scarto della melodia di “Everyday”». A maggio del 2021, a un ventennio di distanza, l’etichetta di Raimondi e Ugolini pubblica in digitale “Upside Down” inserendolo peraltro nella tracklist di “Love Is The Answer”, un best of che raccoglie il repertorio del progetto Systematic.

Ti.Pi.Cal. - What I Like

Ti.Pi.Cal. – What I Like
Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea sono stati per anni, con il nome Ti.Pi.Cal. e altri, tre dei produttori più prolifici della scena dance italiana. Dopo un decennio costellato di hit legate al loro progetto più importante, Ti.Pi.Cal. per l’appunto, nell’estate del 2001 esce “Is This The Love”, brano che vede il ritorno alla parte vocale del cantante americano Josh Colow. Successivamente arriverà una pausa lunga ben dieci anni intervallata però, nel 2006, dal promo single sided su LUP Records di una traccia cantata da Kimara Lawson e dal titolo “What I Like”, caratterizzata da un insolito stile pop. A tal proposito, Vincenzo Callea chiarisce: «il brano risale al 2000 e doveva sancire il nostro passaggio dalla New Music International alla Time ma poi l’accordo con l’etichetta di Giacomo Maiolini saltò e quindi anni dopo uscì solo come promo, ricevendo qualche passaggio su Radio DeeJay. A dir la verità non sembrava neanche un disco dei Ti.Pi.Cal.». Il successo busserà ancora alla porte dei tre siciliani con “Stars”, tra le hit dance dell’estate 2011.

Tony H – Year 2000 (I Wanna Fly)
Entrato nella scuderia BXR nel 1998, Daniele Tognacca alias Tony H incide per l’etichetta della Media Records (a cui abbiamo dedicato qui una monografia) “Zoo Future”, “Sicilia…You Got It!” e “Tagadà/www.tonyh.com”. A luglio del 2000 su DiscoiD viene annunciata l’uscita di un quarto disco, composto da “due versioni diversissime tra loro, una strumentale, l’altra cantata e dedicata all’estate di Ibiza”. Il trafiletto rimanda anche alla pubblicazione nel Regno Unito prevista a settembre. Di questo pezzo però, intitolato “Year 2000 (I Wanna Fly)” si perdono le tracce.

Tony H - Year 2000 (I Wanna Fly)
Una delle due compilation in cui finisce “Year 2000”

Contattato per l’occasione, Tognacca spiega che non riuscì a finalizzare il progetto per problemi di tempo perché, proprio in quel periodo, lasciò Radio DeeJay, dove era arrivato nel 1989, per approdare a Radio Italia Network che stava cominciando un nuovo percorso editoriale, e gli impegni in quella direzione finirono con l’assorbire tutte le sue energie. La lavorazione del brano non fu quindi portata a termine e si limitò a una sola versione che venne trasmessa come Disco Strobo in “From Disco To Disco”, su Radio DeeJay, nella puntata di sabato 29 aprile 2000. Quella stessa versione finisce nella tracklist del quarto volume della compilation “Collegamento Mentale” mixata dallo stesso Tony H e nel primo di “Maximal.FM” mixata da Ricky Le Roy, dove c’è un altro inedito confinato al CD in questione, “Happy” di Massimo Cominotto. Dal web però affiora una seconda versione di “Year 2000 (I Wanna Fly)” intitolata CRW Mix interpretata da Veronica Coassolo, in quel periodo voce del progetto CRW, che confermerebbe i dettagli emersi dal trafiletto su DiscoiD: a quanto riportato da un lettore del blog, a renderla disponibile anni addietro sul proprio profilo SoundCloud fu proprio Tognacca che però poi decise di rimuoverla. Sul fronte “annunciati ma mai pubblicati”, di Tony H si ricordano pure il mash-up “Hard Spice” del 1997, di cui parliamo qui, e “Delicious” che il DJ originario di Seregno presenta attraverso le pagine di DiscoiD a dicembre 2001 quando sta per partire il suo nuovo programma chillout su Radio Italia Network chiamato provvisoriamente “Delicious” per l’appunto ma poi diventato “Suavis”. Si segnala infine la ripubblicazione della Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” sotto il titolo “Mutation” e l’artista Pivot, su Pirate Records, l’ennesima delle etichette sussidiarie della Media Records. A oggi resta ignota la ragione per cui ciò avvenne.

USURA - Evolution - Magic Fly
L’advertising su cui si fa cenno a “Evolution/Magic Fly” (giugno ’96)

U.S.U.R.A. – Evolution/Magic Fly
Esplosi in tutta Europa tra 1992 e 1993 grazie a “Open Your Mind” che la bresciana Time Records pubblica su Italian Style Production a cui abbiamo dedicato qui una monografia, gli U.S.U.R.A. tentano di mantenere alte le proprie quotazioni per buona parte degli anni Novanta ma riuscendo solo parzialmente nell’impresa. Il team, rappresentato pubblicamente dai veneti Claudio Varola, Michele Comis ed Elisa Spreafichi ma completato, nell’attività in studio, dal produttore Valter Cremonini e dal musicista Alex Gilardi, continua a raccogliere consensi significativi sino al 1995. Nella seconda metà del decennio, quando l’eurodance cede il passo a nuove tendenze, il marchio perde quota. A “Flying High”, cantata dalla britannica Robin Campbell che aveva già interpretato dei brani per gli Alex Party, avrebbe dovuto fare seguito “Evolution/Magic Fly”, come annunciato da una pagina pubblicitaria della Time Records a giugno ’96. In realtà sul mercato, in estate, arriva “In The Bush”, remake house di un classico disco/funk del 1978 degli americani Musique. Contattato per l’occasione, Alex Gilardi rivela di non ricordare nulla in merito a “Evolution”, diversamente da “Magic Fly”, cover dell’omonimo degli Space del 1977. «Lo reinterpretammo in chiave dream progressive, così come voleva la moda del periodo, ma alla fine, su suggerimento di Giacomo Maiolini, rimase nel cassetto» afferma a tal proposito. Per gli U.S.U.R.A. ci sarà una nuova fiammata nel 1997 grazie al remix di “Open Your Mind” realizzato da DJ Quicksilver (e dal fido collaboratore Tommaso De Donatis). Sull’onda di questo risultato Maiolini affida proprio a loro “Trance Emotions” del 1998, rimasta l’ultima tessera del progetto nato a Padova di cui però si ipotizza un ritorno nel nuovo millennio.

Jinny - Don't Stop The Dance
La pagina pubblicitaria che annuncia “Don’t Stop The Dance” di Jinny (maggio ’95)

Nel 2002 infatti la Time distribuisce delle copie promozionali single sided con su inciso “Rage Hard”, rifacimento dell’omonimo dei Frankie Goes To Hollywood. «Purtroppo non riuscimmo ad ottenere l’autorizzazione per l’uso dei sample e ritenemmo inutile proseguire, quindi quel promo venne siglato col nome Arsuu, anagramma di U.S.U.R.A.» spiega ancora Gilardi. Andando indietro negli anni e spulciando nella stampa dell’epoca, si ritrovano altri annunci della Time Records non andati a buon fine, come quelli relativi a possibili follow-up previsti per il 1995 di progetti curati dallo stesso team di produzione degli U.S.U.R.A. ovvero Silvia Coleman, Deadly Sins e Jinny. Per quest’ultimo in particolare, un advertising a maggio 1995 fa cenno a “Don’t Stop The Dance” ma ad uscire, poche settimane più tardi, è invece “Wanna Be With U” interpretata in incognito da Sandy Chambers. «Per un certo periodo eravamo come in fabbrica, la mole di musica che componevamo era talmente grande che divenne difficile se non impossibile tenere traccia di tutto. Non escludo quindi che “Don’t Stop The Dance” di Jinny (act di cui parliamo qui, nda) possa essere stato uno degli innumerevoli provini poi scartato per qualche motivo e magari riciclato, parzialmente o integralmente, per progetti di nome differente» conclude Gilardi.

(Giosuè Impellizzeri & Luca Giampetruzzi)

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L’house di Detroit e la techno di Chicago

No, non si tratta di un errore, seppur possa sembrare tale. L’articolo che segue cerca di ribaltare per qualche minuto il dualismo tra la techno della Città dei Motori e la house della Città del Vento proponendo una prospettiva diversa (e inversa) delle cose, ma non certamente per mettere in discussione passaggi epocali della storia della musica dance dell’ultimo quarantennio circa. L’intento, piuttosto, è porre l’accento sulla massima libertà creativa dei compositori localizzati nelle due metropoli statunitensi che, a conti fatti, non hanno considerato techno e house due realtà antitetiche come invece avvenne in Europa (e specialmente in Italia) negli anni Novanta. Nel Vecchio Continente la produzione dance parve più irreggimentata, da noi non mancò neppure chi ne parlò in termini divisivi e avrebbe voluto erigere un muro tra la techno e l’house asserendo che non si potesse parteggiare per entrambe. I dischi segnalati convergono quindi in due blocchi, indicizzati in ordine alfabetico, che però non hanno la benché minima pretesa di essere esaustivi anzi, non è escluso che in futuro si possano aggiungere nuovi autori e titoli per rendere l’indagine più completa.

L’house di Detroit…

Aaron-Carl - Crucified

Aaron-Carl – Crucified
Come i suoi coetanei, Aaron-Carl Ragland si appassiona di musica da ragazzino e con una tastiera economica e un registratore a quattro piste realizza un demo per Mike Banks che lo scrittura immediatamente per la Soul City. Nel ’96 così esce “Crucified”, un brano garage pieno di sentimento, parecchio newyorkese sotto il profilo stilistico. «Ron Murphy e Mad Mike sono stati i miei mentori in quel periodo» afferma l’artista nella sua biografia. «Mi hanno insegnato a fare grandi dischi dopo aver visto in me il potenziale e non avrebbero accettato nulla che fosse al di sotto delle mie possibilità. Mike era solito fare riunioni con tutti i produttori delle sue etichette, faceva ascoltare i brani più forti in circolazione e poi ci spronava a tornare a casa e fare di meglio». Per la Soul City Ragland realizza altri tre dischi, “Make Me Happy”, soulful made in Detroit, “Midnite Jams Vol. 1” e “Wallshaker”, per poi aprire i battenti della sua personale etichetta, la Wallshaker Music, attraverso la quale affinerà ulteriormente il tiro mettendo a segno una club hit come “My House” e stringendo varie collaborazioni, su tutte quella con gli Scan 7 per “4 Types Of People”. A interrompere tragicamente la sua creatività è un linfoma che gli toglie la vita il 30 settembre 2010 quando ha soli 37 anni.

Andrés - Trues

Andrés – Trues
Humberto Hernandez, figlio di un noto percussionista cubano, cresce nel mondo hip hop militando in gruppi come Da’ Enna C. e 12 Tech Mob e facendosi notare come DJ Dez. Col supporto dalla KDJ di Moodymann di cui si parla più avanti, nel 1997 si trasforma in Andrés e firma “Trues”, solo il primo di una lunga serie di produzioni da cui affiora un suono deep house finemente decorato da riferimenti funk, jazz e soul. Se l’ipnosi ciclica ha la meglio su “Trues” e “And This Club Song”, “Piece Of Mind” veleggia su un percorso più brioso e funkeggiante, con una micro porzione sullo sfondo trapiantata da “Wanna Be Startin’ Somethin'” di Michael Jackson. Hernandez prosegue la carriera sotto l’egida di Moodymann che pubblica, su Mahogani Music, tutti i suoi album, a oggi quattro, nei quali mette a punto una caleidoscopica vena creativa dalla quale emerge “New For U”, costruito sulle atmosfere di “Time Is The Teacher” di Dexter Wansel e diventato bestseller per il marketplace di Discogs nel 2012 con 497 copie.

Blake Baxter - Brothers Gonna Work It Out

Blake Baxter – Brothers Gonna Work It Out
Il “principe della techno” alle prese con un brano che pare provenire da New York o Londra. Non a caso a pubblicarlo nel ’92 è la branch britannica della tedesca Logic Records, che nel “pacchetto” inserisce anche una versione più tagliente, la Black Planet, realizzata da Moritz von Oswald e Thomas Fehlmann. La Red Planet Mix che apre il lato a o la Pump Da Bass Mix sul lato b, però depongono a favore di costrutti house, con suoni orchestrali tagliuzzati e fatti dialogare con brevi parti parlate. Quello stesso anno la Logic Records di Michael Münzing e Luca Anzilotti (meglio noti come 16 Bit, Off e Snap!) immette sul mercato pure “One More Time”, edificato su “Let No Man Put Asunder” di First Choice, uno dei classici più rimaneggiati da chi allora si dedica alla nuova musica dance. Due anni più tardi tocca a un altro pezzo di Baxter dichiaratamente house, “Touch Me”, potenziato dal remix degli X-Press 2, a cui segue “2Gether” firmato con lo pseudonimo Renee.

Bridgett Grace - Love To The Limit

Bridgett Grace – Love To The Limit
Nel settore discografico dalla fine degli anni Ottanta, la Grace balza agli onori della cronaca per aver interpretato “Take Me Away” dei Final Cut (Anthony Srock e Jeff Mills), pubblicato originariamente nel 1989 ma esploso in Europa solo due anni più tardi durante la rave age. È sempre Mills, affiancato da Mike Banks, a produrre per la neonata Happy Records la sua “Love To The Limit”, nel 1992, su tessiture garage, che non sfugge al radar della Network Records di Birmingham guidata da Neil Rushton e Dave Barker, pronta a ripubblicarlo nel Vecchio Continente.

Broad Mix Music - Can't Live Without Your Love

Broad Mix Music – Can’t Live Without Your Love
Prodotto nel 1992 dalla compianta Kelli Hand sulla sua Acacia Records, “Can’t Live Without Your Love” è un pezzo che intreccia classici suoni garage alla solare vocalità di Davina Bussey, vocalist cresciuta a Detroit che negli anni Ottanta tenta la carriera nel pop ma che viene ricordata più per il suo contributo alla house music, come si dirà più avanti. Sul 12″ presenziano vari remix tra cui quelli di Chez Damier e Stacey Pullen a cui se ne aggiungono altri due anni più tardi, quando il brano viene ripubblicato in Europa dalla britannica Other. La Hand, scomparsa prematuramente nel 2021 a soli 56 anni e considerata la “first lady della techno di Detroit”, aveva già bazzicato territori house con “Think About It”, col contributo di Robert Hood come ingegnere del suono, e “Living For Another”, remixato da Stacey ‘Hotwaxx’ Hale, altra primattrice del DJing detroitiano. Pubblicati entrambi nel 1990 a nome Etat Solide, finiscono nel catalogo della UK House Records che subito dopo cambia nome in Acacia Records.

Chez Damier & Stacey Pullen - Forever Mix 1

Chez Damier & Stacey Pullen – Forever Mix 1
Sebbene la produzione di Pullen affondi le radici nella techno, c’è qualche episodio che lo traghetta sulle sponde della house come questo “Forever Mix 1”, realizzato nel 1993 a quattro mani con Chez Damier e racchiuso nel “Classic EP” sulla Serious Grooves di Antonio Echols, fratello di Santonio. L’asse artistico col DJ di Chicago porta a un risultato mosso dalla leggiadria e sofficità di suoni vibranti, inchiodati a una linea ritmica che corre via senza grandi variazioni. Più atmosferica la versione incisa sul lato b, “Forever Mix 2”, coi primi due minuti in modalità beatless. Il brano viene ripubblicato nel ’95 dalla Balance dopo un opportuno remaster di Chez Damier e Ron Trent e col titolo “Forever Monna”, lo stesso che contraddistingue le ristampe più recenti inclusa quella sull’italiana Back To Life del 2021.

D-Ha - Happy Trax Vol. V

D-Ha – Happy Trax Vol. V
Proveniente dal collettivo Members Of The House di cui si parla più avanti, Lawrence Derwin Hall incide sotto la sigla D-Ha diversi brani nei primi anni Novanta, destinandoli alla Happy Records che li disloca in vari volumi della serie “Happy Trax” condivisi insieme all’amico Mike Banks. Il quinto, del 1994, è ad appannaggio del solo Hall e contiene tre tracce ricche di gaudiose melodie pianistiche e frammenti vocali dalla prorompente organicità: “Tuk My Luv”, “Stories” e “Happy’s Theme”. Degne di menzione anche “Rock Ya Body” e “Now’s The Time” (dal volume 4), “Cha Cha” e “Lift Me Up” (dal volume 3) e “Soul Kitchen” (dal volume 2).

Davina - Don't You Want It

Davina – Don’t You Want It
I brani usciti tra 1984 e 1987 non riescono a sortire grandi risultati ma negli anni Novanta per Davina Bussey arriva la rivincita. Determinante risulta l’incontro con Mike Banks che nel 1992 produce “Don’t You Want It” per la citata Happy Records, sublabel house della Underground Resistance, nata per colmare, così come viene chiaramente spiegato attraverso i crediti sul disco, il vuoto lasciato della Motown che aveva spostato il suo quartiere generale a Los Angeles, in California. «Moltissimi musicisti di talento, cantanti, scrittori, vocalist e altre persone associate all’industria musicale sono state abbandonate. Anche le loro speranze e i loro sogni sono stati lasciati morire. Noi di Happy Records siamo determinati a mantenere vivi quei sogni con le nostre produzioni di Detroit, perché senza speranza non siamo nulla. Ci auguriamo possiate sentire l’emozione nei nostri dischi perché per noi questo non è un hobby, è il nostro destino. Grazie per aver acquistato Happy Records». Davina rinnoverà il sodalizio con la house music nel ’93 attraverso “Let Me Be Me” e “Love & Happiness EP”, entrambi sulla Nocturnal Images Records, a cui segue “I’m Ready (For Your Love)” degli italiani M.C.J. (Andrea Gemolotto e Massimino Lippoli) di cui parliamo qui.

DJ Scott - Solid Grooves

DJ Scott – Solid Grooves
Un debutto di pregio per Patrick Scott che ai tempi, per la prima apparizione sulla Soiree Records International di Derrick Thompson, si firma DJ Scott: in “Music Man” è alle prese con un suono vellutato che si dipana tra esili impalcature pianistiche che fanno da contrappunto a frammenti di organo e un messaggio vocale flash, a cui si somma qualche svirgolata funky della Classic Example Mix. Il tutto orchestrato con dovizia su un tappeto ritmico finemente curato, sia nella costruzione percussiva che nei geometrismi degli hi-hat. Sul lato b “The Specialist”, edificata seguendo una procedura analoga al precedente e trovando il giusto equilibrio tra componenti tribaleggianti e lascive vene melodiche abbracciate a un bassline rotondo. Dopo aver inciso una manciata di dischi come Key Statements, per Scott, nel frattempo ribattezzatosi Scott Grooves, si aprono le porte della scozzese Soma sulla quale nel 1998 viene pubblicato il pezzo più noto del suo repertorio, “Mothership Reconnection”, rifacimento di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton eternato da un remix dei Daft Punk. Ps: “Music Man” finisce recentemente in una compilation della Soiree Records International che raduna i brani realizzati da Scott nei primi anni di attività. L’occasione si rivela propizia per tirare fuori dagli archivi anche due inediti, “On My Way” e “Anything 4 You”.

Donnie Mark - Stand Up For The Soul

Donnie Mark – Stand Up For The Soul
Tra i primi dischi della Simply Soul fondata da J.D. Simpson e distribuita dalla Submerge, “Stand Up For The Soul” di Donnie Mark è house di matrice garage, con una nitida impronta soul a caratterizzare l’apparato vocale. Oltre alla dub a opera di D-Ha, ci sono due versioni remix sul lato b, Grand Club Mix ed Explosive Soul Mix, entrambe firmate da Terrence Parker, tra i cantori più ispirati della house music della Città dei Motori. Donnie Mark riappare qualche tempo più tardi sulla Soul City di Mike Banks con “Hold On”, un altro pezzo dalle chiare reminiscenze soul. Per quanto riguarda invece la Simply Soul, val la pena segnalare altri pezzi commercializzati nel primo scorcio degli anni Novanta, da “Love So Good” di Robyn Lynn a “Soul Beats” di Seven Grand Housing Authority passando per “Soul Beats #2” di 2 Sweat Doctors e “Night Creepin'” di Eddie Flashin’ Fowlkes di cui si parla qui sotto.

Eddie Flashin' Fowlkes - Mad In Detroit! EP

Eddie Flashin’ Fowlkes – Mad In Detroit! EP
Contraddistinto da un titolo che gioca con la fonetica e il doppio senso tra mad e made, questo EP di Fowlkes targato ’92 mostra i due volti sonori dell’artista. Il primo è tendenzialmente legato alla house (genere a cui si accosta già nel 1986 con “Goodbye Kiss” su Metroplex) attraverso le due versioni di “Mr. E.”, la Mysterious Mix e la Ficticious Mix, con brevi inserti pianistici e virtuosi assoli di tastiera. Un ribollire di suono funkeggiante lo si sente poi in “Night Creepin'”, sulla citata Simply Soul, e “I’m A Winner Not A Loser” finita nel catalogo della londinese Infonet di Chris Abbot e cantata da Wonder Schneider.

Eddie, Santonio, Art Forest - Detroit Techno Soul

Eddie, Santonio, Art Forest – Detroit Techno Soul
Sono in tre (Eddie Fowlkes, Santonio Echols, che con Saunderson aveva già spopolato in epoca new beat con “Rock To The Beat”, e Arthur Forest) a costruire questo straordinario pezzo designato per tagliare il nastro inaugurale della M.I.D. Records, solo uno tra le dozzine di marchi discografici nati a Detroit tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il titolo pare del tutto fuorviante almeno per gli europei che nel momento in cui esce il disco, nel 1991, sono abituati a identificare ben altro con la parola “techno”. La ALF Mix che apre il lato a è un susseguirsi di spintoni e carezze, asperità e linearità, un continuo contrasto che fa il paio con la 5 A.M. Mix di Santonio e “Visitors”, traccia conclusiva in cui gli autori si divertono a tagliuzzare la voce per poi farla volare come si fa con pezzettini di carta davanti a un ventilatore acceso. Fowlkes ed Echols ci riprovano l’anno dopo con “Turn Me Out”, cantata da Janice Rawley in un duetto (virtuale) con Loleatta Holloway che esegue frammenti campionati di “Love Sensation”. Tra le sei versioni c’è persino una Radio Mix, approntata forse con l’ambizione di approdare al mondo dell’FM, cosa che però non accade. Per la M.I.D. Records è l’ultima apparizione.

Gari Romalis - Fult Tilt Production EP

Gari Romalis – Fult Tilt Production EP
Prodotto da Terrence Parker per la sua Intangible Records & Soundworks, questo extended play del 1995 segna il debutto di Gari Romalis e mette insieme cinque tracce, le ennesime in cui la house ritrova la disco e il funk in un fraterno abbraccio. “N-The Daze” apre il sipario lasciando rivivere frammenti di “Try It Out” di Gino Soccio su ritmiche aggiornate ai tempi, e il discorso prosegue con “Can U Dig It” dove, è chiaro, il modello ispirativo resta quello del passato che si fonde col presente. “Groovin'” vira verso una house più classicheggiante dai richiami latini, “The Game” punta al metti e togli sampledelico, “I’m Tryin’ 2 B Strong” infila nella centrifuga elementi di “Holdin’ On” di Michael Watford per ricavarne un tool prevalentemente strumentale e dalle puntellature ritmiche più solide, quasi saltellanti. Dopo un altro paio di pubblicazioni (tra cui un EP sulla scozzese Soma), Romalis interrompe l’attività in studio di registrazione. Tornerà nel 2012 dando avvio a una ricchissima parata di uscite tuttora in divenire. Ps: per un errore tipografico, sul “Fult Tilt Production EP” il nome dell’artista viene scritto con la y finale. L’imprecisione si ritrova anche sulla ristampa effettuata nel 2014 dalla tedesca Chiwax Classic Edition.

Gary Martin - Bliss

Gary Martin – Bliss
Martin ha i piedi ben saldi nella techno, sia chiaro, ma nel corso della sua trentennale carriera si è mosso anche in direzioni house, seppur attraverso un suono ribelle, mutante e in perenne contrasto con una classificazione radicale. Nel libro “Techno” Christian Zingales descrive il suo suono come un trait d’union tra «il ruggito funk meccanico della techno e la grande passione per l’exotica degli anni Cinquanta e Sessanta, un matrimonio fatto di vivande futuristiche che, opportunamente shakerate, rilasciano quel gioco aromatico di retro e post». È il caso di “Do It”, con sax e piano, contenuto nell’EP “Bliss” che nel ’93 apre il catalogo della Go Girl Records, a cui segue presto “Take Me”, coi vocal di Simone Taylor a incorniciare un reticolo che già spinge verso rive technoidi. Dopo i primi due dischi la Go Girl Records cambia nome in Teknotika e Gary Martin va avanti spedito come un treno pure attraverso il progetto parallelo Gigi Galaxy, ma di tanto in tanto tornando a toccare le sponde della house come ad esempio avviene in alcuni pezzi racchiusi nel suo primo album, “Viva La Difference”.

Juan Atkins - Beat Track

Juan Atkins – Beat Track
Quando nel 1987 esce questo disco, su un’etichetta fittizia chiamata Red Parrot 228, di techno non se ne parla ancora, perlomeno in forma ufficiale. «I suoi creatori», come scrivono Bill Brewster e Frank Broughton in “Last Night A DJ Saved My Life”, «erano felici di farsi etichettare come “house” e gettarsi nella scena di Chicago» e l’ascolto di “Beat Track” palesa come non ci siano ancora sostanziali differenze tra le musiche prodotte nelle due città, fatta eccezione per alcune tracce uscite negli anni precedenti come “No UFO’s”, “Night Drive (Thru-Babylon)”, “Play It Cool” di Model 500, “Triangle Of Love” di Kreem o “Let’s Go” di XRay che, di fatto, preannunciano un nuovo itinerario creativo e concettuale. Da “Beat Track” emerge la sampledelia che shakera sample funky con l’aggiunta di scratch in modalità hip hop, tutti in una gabbia ritmica grezza, come quelle che contraddistinguono la maggior parte delle produzioni chicagoane. Non a caso il brano viene ripubblicato l’anno seguente su un’etichetta della Città del Vento, la House Musik, a nome Red Parrot. Atkins flirterà poco con la house: si ricorda, tra le altre, “You’re My Type (Make Your Body Move)” del progetto One On One condiviso con Rona Johnson (che approda pure su Metroplex con “By Your Side” in modalità downtempo) e Vision di cui si parla dettagliatamente più avanti.

Low Key - Rainforest

Low Key – Rainforest
“Rainforest” è il primo disco che, nel 1992, Claude Young firma Low Key per la Serious Grooves di Antonio Echols, fratello del più noto Santonio, ed è nel contempo anche il primo del catalogo. La traccia che dà il titolo è una fioritura armonica di chord posizionata su un tapis roulant di batteria che si spoglia e poi si agghinda nuovamente di elementi percussivi. Medesime atmosfere si rincorrono nelle due “Lovemagic”, con sussurri vocali in un ventaglio di suoni delicati. Nelle vesti di Low Key, Young inciderà altri due mix, “Try Me Baby”, con spunti scat, e “I Cant Stop” in cui sfoggia una marcata dose di ipnotismo.

Mad Mike - Happy Trax # 1

Mad Mike – Happy Trax # 1
Il repertorio di Mike Banks è imponente. La sterminata lista di produzioni, spesso privata intenzionalmente di coordinate autoriali, riserva più di qualche sorpresa come questo EP del 1992 su Happy Records comprendente tre tracce, “Heartbeat Of A Groove”, “Clap It Up (Happy Claps)” e “Trance Patrol”, in cui pulsa cuore techno su suoni house. Proprio “Trance Patrol” giunge in Italia attraverso la Downtown del gruppo bresciano Time Records che l’affida alle mani degli Unity 3 (Marco Franciosa, Mario Scalambrin e Paolo Chighine) reduci dal successo di “The Age Of Love Suite” pubblicata oltremanica dalla NovaMute. Banks incide altri volumi della serie “Happy Trax” attraverso ganci garage (“Give It To Me”, “Mad Scatter”, “Gotta Gimme Your Love”) e soluzioni percussive (“Take Me Higher”, “Soulnite”, “Work Me”). La sua è una sorta di figura mitologica bicefala, mezza house e mezza techno.

Marcellus Pittman - Come See

Marcellus Pittman – Come See
Seppur discograficamente più giovane rispetto alla maggior parte dei colleghi detroitiani qui elencati, Pittmann opera nello stesso alveo sonoro. In questo disco, con cui inaugura la sua Unirhythm, spennella i beat con delicati fraseggi jazz (“Come See”) per poi decorarli con deliziosi interventi pianistici (“A Mix”). Voluto da Theo Parrish nel collettivo The Rotating Assembly, l’artista vanta un rigoglioso repertorio da cui affiorano diverse collaborazioni proprio con Parrish, suo mentore, e James Curd. Senza omettere l’adesione a 3 Chairs, partito nel ’97 da un’idea di Rick Wilhite, Kenny Dixon Jr. alias Moodymann e Theo Parrish, e T.O.M. Project, ancora con Parrish e Omar S.

Mark Flash - Timbales Calientes - Hot Timbales

Mark Flash – Timbales Calientes – Hot Timbales
Come riportato nella biografia ufficiale, Mark Flash inizia a mettere a punto le sue abilità da produttore musicale per la Soul City di Mike Banks ma restando dietro le quinte (che sia lui uno degli artefici dei pezzi di The Choir Boys e Marc Pharaoh?). Debutta come Mark Flash nel 1998 attraverso la Upstart che manda in stampa un 12″ in cui esprime le doti da percussionista attraverso un percorso tambureggiante (“Timbales Calientes”) poi raggiunto da un buon esempio di tesco (techno disco) che cresce con un breve ma efficace hook vocale e un perdurante filtraggio delle frequenze (“Work”), e completato da “Fight It!” in cui convergono house, funk e disco fatte balbettare con un accurato lavoro di sampling. Metodologia di lavoro analoga si ritrova in “House Ballads Part One” del 2002, sulla britannica Footwork, e in “Soul Power” del 2006, potenziato da un remix del prolifico Mike Monday che rischia di diventare un inno mainstream. Entrato a far parte del collettivo Underground Resistance, Flash mostrerà via via attitudini più intrinsecamente techno.

Members Of The House - Share This House

Members Of The House – Share This House
Il collettivo Members Of The House debutta negli ultimi anni Ottanta su ITM Records con “Share This House” in cui non è difficile individuare diversi punti di contatto con la house chicagoana, presenti altresì nei brani dell’album “Keep Believin'” come “I Can’t Live Without You”, “Summer Nites” e “It’s Not The Same” cantata da Yolanda Reynolds. Prodotto dal compianto Don Davis, il pezzo tartaglia il verbo jack su uno scheletro ritmico fatto di ostinati clap e vorticosi rullanti. Il team, in cui figurano tra gli altri pure Mike Banks e Jeff Mills, incide parecchi pezzi tra cui “Don’t Do It Like Dat” (una specie di risposta a “Love Can’t Turn Around” di Farley “Jackmaster” Funk & Jessie Saunders), “Reach Out For The Love” e “These Are My People” partita dalla Shockwave Records – che nel ’92 tiene a battesimo Drexciya con “Deep Sea Dweller” – e giunta in diversi Paesi del mondo (da noi è un’esclusiva della campana UMM del gruppo Flying Records).

Metro D - What Is A Dancer

Metro D – What Is A Dancer?
Dietro Metro D armeggiano i fratelli Burden (Lawrence, Lenny e Lynell) coadiuvati dal rapper Anthony Terrell Langston e dalla vocalist Armeace Starks: “What Is A Dancer?” prende elementi hip hop e li mescola a delicati fraseggi di pianoforte che avanzano a strappi, intervallati dal suono metallico di un hammer. Edito dalla 430 West nel 1991 e arricchito dalle grafiche del compianto Dan Sicko, il disco annovera pure un remix di Anthony Shakir che enfatizza la tavolozza ritmica, ed “Elevation!”, sul lato b, che batte ancora la traiettoria hip house con qualche svirgolata funky. I Burden, meglio noti come Octave One, danno alle stampe un secondo atto di Metro D, “In The City” del ’92, un EP ancora più house del precedente, contenente griglie ritmiche (“Methodology”) e suadenti sax (“Feel It”, “All The Luv”, “Tomorrow (Like This Dub)”). Nel loro repertorio si rintracciano altre gemme house/garage, come “Jackie’s Theme” e “In The Breeze”, entrambe da “Day By Day” firmato Never On Sunday sempre su 430 West.

Mike Huckaby - Deep Transportation Vol. 1

Mike Huckaby – Deep Transportation Vol. 1
Tra i commessi che nei primi anni Novanta lavorano dietro il bancone del Record Time di Detroit c’è Mike Huckaby, un ventiquattrenne appassionato di musica e tecnologie. Dopo aver curato una manciata di remix (“I Feel Weak” di Eddie Fowlkes e “Work It” di Chris Simmonds) si dedica a creare il suo sound che prende le mosse dalla house quanto dal soul e dal jazz. Il debutto nel ’95 sulla Harmonie Park dell’amico Rick Wade, il primo volume di “Deep Transportation” che, fedele al titolo, trasporta l’ascoltatore nelle profondità di musiche tentacolari come “Luv Time”, che elabora un campionamento carpito dall’intro di “Carry On, Turn Me On” dei francesi Space, o “Disco Time” che invece accoglie nelle rotondità percussive uno scampolo vocale di “Let’s Go Down To The Disco” degli Undisputed Truth. L’anno seguente arriva il secondo volume con cui Huckaby continua a rimaneggiare con destrezza e creatività frammenti di musica del passato (in “We Can Make It” trapianta le voci di “Together Forever” di Exodus mentre in “Love Filter” incastra la chitarra di “Love Rescue” di Project). La sua attività discografica andrà avanti contestualmente al volontariato che lo spinge a insegnare la produzione di musica elettronica a giovani generazioni. Considerato uno dei nomi più granitici della house made in Detroit, Huckaby si spegne ad aprile del 2020 ad appena 54 anni.

MK - Somebody New

MK – Somebody New
Inizia con questo brano, uscito nel 1989 sulla KMS di Kevin Sauderson, la discografia solista di Marc Kinchen che sceglie di firmarsi con la sigla MK. “Somebody New” è una stratificazione tra voci campionate, archi, organi e blocchi ritmici ogni tanto mandati in reverse. Nella Music Institute Goodbye Mix, curata dal fratello di Kinchen, Scott, di cui si parla nel dettaglio più avanti, salgono in superficie le tastiere di pianoforte collocate su piattaforme scorrevoli. Il lato b si apre con le atmosfere più noir di “The Rains” a cui mette mano il citato Saunderson, e si chiude con “Mirror / Mirror”, da cui emerge in modo piuttosto evidente lo stile Inner City. Per Kinchen, che l’anno prima aveva inciso “1st Bass” sulla Express Records di Clifton Thomas incluso nell’EP dei Separate Minds condiviso con Terrence Parker e Lou Robinson, è solo questione di tempo: la hit arriva nel ’91, “Burning”, con la voce di Alana Simon che rinnova la collaborazione per “Always” e un intero album, “Surrender”, spinto a lambire sponde r&b. Nonostante gli ottimi propositi, l’artista non riesce nel difficile compito di creare nuovi successi internazionali ma verrà abbondantemente ricompensato sul fronte remix: senza il suo apporto infatti, “Push The Feeling On” dei Nightcrawlers sarebbe rimasto confinato all’anonimato come raccontato qui.

Moodymann - The Day We Lost The Soul

Moodymann – The Day We Lost The Soul
È arduo scegliere un disco in un repertorio così vasto come quello di Kenneth Dixon Jr., meglio noto come Moodymann. “The Day We Lost The Soul”, pubblicato nel 1995, è tra i primi firmati col suo alter ego più noto e mette subito a fuoco le coordinate entro cui si muove. Devoto da sempre alla house music, il suo è un suono flessuoso che si inerpica nei pertugi del soul, del funk e della disco, mettendo in rilievo un sostanzioso background che lo colloca a una distanza abissale dalla pletora di presunti “house producer”. I campionamenti (“What’s Going On” di Marvin Gaye in “Tribute! (To The Soul We Lost)”, “He’s The Greatest Dancer” delle Sister Sledge in “One Nite In The Disco” e “You Can’t Hide From Yourself” di Teddy Pendergrass in “Shades Of ’78′”) attestano da un lato i suoi riferimenti, dall’altro una inesauribile vivacità creativa. Il disco, tornato in commercio nel 2001 ma privato di “One Nite In The Disco” e “Shades Of ’78′” forse per problemi di mancati clearance, è uno dei primi a essere pubblicato sulla sua KDJ, affiancata in tempi più recenti dalla Mahogani Music. Quasi del tutto refrattario alle interviste, Moodymann inciderà parecchi 12″ e altrettanti album oggetto di spasmodiche ricerche dei collezionisti, oltre a prendere parte a progetti come Urban Tribe, con Anthony Shakir, Carl Craig, e Sherard Ingram, e 3 Chairs in compagnia di Theo Parrish e Rick Wilhite a cui si è poi aggiunto Marcellus Pittman.

Norm Talley - Grove Street Shuffle

Norm Talley – Grove Street Shuffle
Così come recita una biografia in Rete, la dipendenza dalla musica per Norm Talley inizia da tenera età. Consumatore abituale di jazz e disco, viene introdotto al DJing da Ken Collier, resident all’Heaven, che abita a soli tre isolati di distanza. Attivo in consolle dai primi anni Ottanta, si avvicina alla produzione discografica intorno alla fine del decennio successivo. Nel ’97, per la City Boy di Eddie ‘Flashin’ Fowlkes, realizza “Grove Street Shuffle” al cui interno raccoglie tre brani. “Powder”, imperniato sulla ripetizione ciclica di loop, “Grove Street Shuffle”, un saliscendi su scanalature jazzy contenente un campionamento di “Problèmes D’Amour” del nostro Alexander Robotnick, un pezzo di cui parliamo qui e che a Detroit ha lasciato il segno, e “Hold Me”, un’infusione deepeggiante che procede su un serrato groove. Dopo qualche altro disco, Talley si ferma per dedicarsi a progetti paralleli come City Boy Players e The Beatdown Brothers, quest’ultimo in compagnia di Mike Clark e Delano Smith. Tornerà a incidere a proprio nome nel 2009, questa volta prendendoci più gusto e contando sul supporto di numerose etichette tra cui la FXHE Records di Omar S che nel 2017 manda in stampa il primo (e sinora unico), album, “Norm-A-Lize”.

Omar S - Just Ask The Lonely

Omar S – Just Ask The Lonely
Analogamente a Marcellus Pittman, anche Alexander Omar Smith, noto come Omar S, è tra i più giovani di questa carrellata di artisti detroitiani ed è pure un altro capace di veleggiare con assoluta padronanza tra techno e house. La sua discografia, avviata nei primi anni del nuovo millennio e quasi esclusivamente relegata alla propria etichetta, la FXHE Records, è ricolma di musica che il più delle volte sfugge alle definizioni categorizzanti della stampa. Smith infatti passa con disinvoltura dalla disco/house (“Day”) a echi cosmici (“Psychotic Photosynthesis”), da minimalismi sotto effetto lsd (“Blown Valvetrane”) a scheletri ritmici e tappeti volanti nello spazio (“Incognigro” e “Automatic Night”, rispettivamente in coppia con Kai Alcé e Luke Hess). Le sue intenzioni sono chiare sin dal primo album uscito nel 2005, “Just Ask The Lonely”, in cui passa in rassegna un grande campionario, ora delicatamente poggiato su arazzi deep (“I Love U Alex”, “100% House”, “Congaless”), poi spostato su membrane puntute (“A Victim”) e materie granulose con inserti di vecchie drum machine (“Jit”). A guidare Smith è sostanzialmente la totale libertà creativa che se ne infischia delle richieste del mercato e delle tendenze effimere del momento. Quella stessa libertà che nitidamente filtra dalle grafiche che accompagnano la sua musica (Microsoft Paint per Windows 95?) e che si riflette nell’abnegazione all’indipendenza, visto che continua a gestire senza intermediari attraverso il proprio sito web la vendita di dischi, CD, file digitali, merchandising e gli ingaggi da DJ. Una netta presa di posizione contro la mercificazione dell’arte e il “sistema” che regolamenta il mondo della musica, e in tal senso fortemente esplicativo risulta il titolo di un suo album pubblicato nel 2020, “Simply (Fuck Resident Advisor)”.

Paperclip People - Throw

Paperclip People – Throw
Considerato il suo alter ego più house oriented (seppur nato con una tripletta di pezzi non propriamente ascrivibili a tale segmento stilistico, “Oscillator – Electronic Flirtation Device”, “Paper Clip Man” e “Gypsy Man (He’s A Hobo)”), Paperclip People è uno dei tanti volti di Carl Craig. Con “Remake”, del 1994, fa rivivere le atmosfere di “Ruhige Nervosität” di Manuel Göttsching in una sinuosa spirale psichedelica, più impetuosa e meno seducente rispetto a quanto fanno i nostri Sueño Latino qualche tempo prima nel pezzo omonimo. Proprio nel ’94 Craig dà alle stampe “Throw” che il citato Zingales, in “Techno”, descrive come «15 minuti di minimalismo techno-disco, un giro hi-nrg debosciato tipo Moroder in eroina, archi a mezz’aria, tastiere deep, equalizzazioni». Il pezzo sfonda in Europa dove viene licenziato un po’ ovunque e fa circolare il nome dell’autore anche in ambienti trasversali. Da noi è un’esclusiva della D:vision Records che, forse per la presenza di “Remake” sul lato b, affida una versione edit a Massimino Lippoli che dei citati Sueño Latino fu uno degli artefici e istigatori. Di Craig in botta house si ricordano altre prodezze come “Love Is The Message” di FRS, un taglia e cuci di scampoli funk/disco che Sven Van Hees pubblica su Global Cuts, e “The Wonders Of Wishing” di Urban Culture dal lirismo quasi commovente, uscita su Eclipse Records, sublabel della KMS di Kevin Sauderson.

Paris - I Can Feel It

Paris – I Can Feel It
Pochi mesi dopo l’uscita di “Nude Photo” realizzato a quattro mani con Derrick May su Transmat, il giovane Thomas Barnett incide il primo brano da solista siglato con lo pseudonimo Paris. «Juan Atkins, che avevo conosciuto attraverso May il quale gli affidò il lavoro di editing di “Nude Photo”, mi disse che stava noleggiando lo studio della Metroplex e ne approfittai per lavorare lì su alcuni demo» spiega l’artista in questa intervista. «”I Can Feel It” era uno di quelli e una volta pronto mi proposero di pubblicarlo su Metroplex ma declinai l’offerta, volevo provare a fare da solo perché convinto di aver capito come fare. Col senno di poi avrei dovuto lasciare che Atkins e la Metroplex si occupassero di tutto. Avevo appena diciannove anni e commisi tanti errori in fase di promozione». La traccia, realizzata con una tastiera Yamaha DX7 II FD per il basso, i suoni di sintetizzatore e i gli archi, e un paio di batterie Roland (TR-808 e TR-909) per le ritmiche, rivela tutta la primitività tipica della prima ondata di produzioni di Chicago, con strutture ritmiche scheletriche e un pianale di arrangiamenti meccanici che tradisce inesperienza e anche una buona dose di naturale immaturità. Due le versioni, la Radio Mix e l’Extended Mix curata da Juan Atkins, solcate su un 12″ per cui Barnett crea un marchio ad hoc e one shot, Tomorrow. A ripubblicarlo, nel 2020, è l’italiana Omaggio.

Reese - You're Mine

Reese – You’re Mine
Tra i primi pseudonimi adottati da Kevin Saunderson, Reese è ricordato perlopiù in virtù di “Rock To The Beat” e “Inside-Out”. Nel repertorio però c’è pure “You’re Mine”, del 1989, un pezzo che scrive insieme a Chez Damier, Marc Kinchen e Flozelle Crosby. La Techno Hip Mix è un incrocio tra i suoni che fanno la fortuna di Inner City, un campionamento da “Walkin’ On Sunshine” di Rocker’s Revenge e uno stuolo di riferimenti hip house che ai tempi la collocano nel filone europeo trainato dai belgi Technotronic. Sul lato b due versioni remix, Red Zone Mix e Def Mix, a cura di un futuro divo della house music, David Morales. A seguire giungono altri rimaneggiamenti che palpeggiano quella zona grigia tra house e techno. A firmarli Bad Boy Bill, Anthony ‘Shake’ Shakir, Psyche alias Carl Craig e Derrick ‘Mayday’ May.

Rick Wade - Late Night Basix

Rick Wade – Late Night Basix
Nasce a Buchanan, piccolo paese agricolo nel Michigan ai confini con l’Indiana, ma è a Detroit che Rick Wade entra in contatto con la house e la techno, lavorando come commesso in un negozio di dischi della città, il Record Time. L’amico Dan ‘DBX’ Bell, che condivide l’esperienza lavorativa in quel posto, lo incoraggia a pubblicare la sua musica e così nel 1994 esce il primo disco, “Late Night Basix”, su un’etichetta creata per l’occasione, la Harmonie Park. L’apertura con “Nothing To Fear” ad appannaggio di un suono pulsante, tra singhiozzanti fiati, un messaggio vocale che si ripete e pianoforti che si intrufolano riempiendo gli spazi. La prima versione non prevede alcuna linea di basso ma l’autore, come racconta qui, apporta delle modifiche su suggerimento di Mike Huckaby che considera uno dei suoi mentori. A curare il remix di “Nothing To Fear” invece è il citato Bell che gioca col campionatore a frazionare il sample vocale lasciandolo volteggiare in aria con palloncini gonfiati a elio. Sul lato b Wade continua a esprimere il proprio concetto di house music attraverso due brani (“I Do Believe”, “I Can Feel It”) simili nella costruzione e nella scelta dei suoni. Il volume 2 giungerà solamente quattro anni più tardi ma nel frattempo Wade non dorme sugli allori e sfodera altri pezzi venati di jazz (“Angry Pimp”), di atmosfere notturne (“Night Track”) e di collisioni funk/disco (“Discolicious”, firmato come Dr. Low-Tech).

Rick Wilhite - Soul Edge

Rick Wilhite – Soul Edge
Il primo remix lo realizza nella seconda metà degli anni Ottanta per “Time To Party” dei NASA, su Express Records, un altro di quei dischi meticci tra spinte propulsive detroitiane e classicismi ritmici chicagoani. Occorre tempo però per elaborare lo stile in cui si sente proiettato maggiormente, e infatti questo “Soul Edge” arriva praticamente dieci anni più tardi, col benestare di Moodymann che lo vuole sulla propria KDJ. Ad aprire le danze è il remix di “Get On Up!!” di Theo Parrish (non è dato sapere che fine abbia fatto l’originale), un incalzante turbinio di house avvolta su spirali jazz spezzate in più punti da una voce femminile che declama a gran voce il titolo. Sul lato b si srotola il vibe percussivo di “What Do You See?”, edificata sottraendo uno scampolo vocale da “Coming On Strong” di Caroline Crawford, un vecchio pezzo di fine anni Settanta prodotto da Hamilton Bohannon, innestato a sua volta in uno stantuffo in cui scorre un frammento di “Love In C Minor” di Cerrone, stropicciato dai filtri in un metti e togli che i francesi poi sdoganeranno nel mondo pop favoriti dalla stampa (cieca) che chiamerà quel trend “french touch” convinta che la disco/funk in salsa house fosse nata all’ombra della Torre Eiffel. A chiudere è il citato Moodymann che appronta la sua versione di “What Do You See?” non scombinando gli elementi di partenza e ricavandone quindi un potente gancio filtered house pre french touch. Wilhite torna su KDJ coi due volumi di “The Godson EP” in cui prosegue il lavoro di sutura tra disco music e house music (“Drum Patterns & Memories”) e calandosi progressivamente nei meandri di un suono più nebbioso e oscuro (“Good Kiss”). Oltre a militare nel progetto 3 Chairs, vale davvero la pena segnalare il suo primo (e sinora unico) album, “Analog Aquarium”, pubblicato nel 2011 dalla Still Music di Chicago guidata da Jerome Derradji, un lavoro sfaccettato in cui Wilhite esprime al meglio la vocazione stilistica stringendo, di traccia in traccia, alleanze con colleghi come Billy Love, Marcellus Pittman, Calvin Morgan e Osunlade.

Sade - Surrender Your Love Illegal Remixes

Sade – Surrender Your Love (Illegal Remixes)
È il 1995 quando viene messa in circolazione questa white label sulla fittizia Illegal Detroit: a essere solcati sono due remix di “Give It Up” dei britannici Sade (l’originale è nell’album “Stronger Than Pride” del 1988) realizzati da Kenny Larkin e Stacey Pullen. Entrambe le versioni, simili tra loro, ondeggiano su una linea di percussioni tribaleggianti punteggiata dall’inconfondibile voce di Sade Adu, con un sax sussurrato che si insinua dolcemente nelle fenditure. Il lavoro dei due DJ di Detroit però non troverà mai modo di essere ufficializzato e per questo rimane, di fatto, una pubblicazione illegale. A spiegarne le ragioni è proprio Kenny Larkin in un post su Facebook del 25 agosto 2019: «quando pubblicai il bootleg in questione, scoprii molto velocemente che Sade odiava chi remixava la sua musica senza permesso. Durante le prime settimane il 12″ vendette circa ottomila copie, poi ricevetti formalmente dal suo management l’invito a interrompere la distribuzione. Ma come fecero a scoprire che fossi io l’autore, se il disco era una white label con un timbro che recava solo la dicitura Illegal Detroit? A spifferarlo fu il settimanale Mixmag Update che menzionò il mio nome in un articolo. Poco tempo dopo ricevetti la loro lettera con cui mi intimavano di smetterla. È stato divertente finché è durato». Nell’arco di quasi un trentennio il disco si è trasformato in un piccolo feticcio per gli appassionati che oggi sono disposti a spendere anche cifre ragguardevoli per assicurarsene una copia, come testimonia lo storico del marketplace di Discogs.

Scottie Deep - Fathoms

Scottie Deep – Fathoms
Scottie Deep è l’alter ego di Scott Kinchen, detroitiano che debutta nel ’91 con “It’s Dangerous” di 2 The Hard Way in tandem con Kevin Saunderson, una sorta di summa tra i suoni di “The Original Video Clash” di Lil’ Louis e il mood di Inner City. L’anno dopo Kinchen fonda la sua etichetta, la Aztonk, sulla quale darà vita a una serie di produzioni house a partire da “You Can’t Go Wrong” di D.D.S. (sul lato b c’è “I Love The Way” con un sample preso da “There But For The Grace Of God Go I” dei Machine, lo stesso che usa Todd Terry in “Hear The Music” di Gypsymen) a cui segue per l’appunto “Fathoms”, il primo firmato Scottie Deep. Intriso di suoni ovattati come un organo presumibilmente di un Korg M1 ai tempi in praticamente tutti gli studi di registrazione di chi produce house music, il brano coccola l’ascoltatore con un metti e togli ritmico e un breve ma incisivo passaggio vocale. A curare il remix è il fratello di Kinchen, Mark, meglio noto con l’acronimo MK. Scott, sbarcato su Strictly Rhythm nel ’93 con “Soul Searchin'”, intensifica l’attività lanciandosi in diverse avventure parallele (come Tympanum, con Kenny Dickerson e Anthony Shakir, Fathoms NY, che approda sulla nostra Heartbeat, Kitchen Sync, Daddy’s Moods e Time Bomb) ma non riuscendo a eguagliare i risultati del fratello minore seppur, come dichiara in questa intervista di Alexandra Cronin del 24 agosto 2019, sia stato lui a insegnargli tutto. È il tipico caso in cui l’allievo supera il maestro.

Servo Unique - Servo Unique

Servo Unique – Servo Unique
Unica uscita sulla Luxury Records, “Servo Unique” è un disco border line del 1993, che fatica a essere incasellato con precisione nella house o nella techno. Percussioni e un paio di sequenze vocali (vagamente somiglianti a “Let Me Be” di Cajmere) riscaldano di continuo la mistura proto tech house di “Ba’ Dum Bah Da”, un taglio più technoide è invece quello di “Let’s Swing It” sul lato b che però mostra suoni ai tempi sfruttati principalmente in produzioni di matrice house. A distanza di ormai un trentennio ha conquistato valore e richieste sul mercato del collezionismo, probabilmente in virtù della popolarità e credibilità dell’autore, Jeff Mills.

Shake - Club Scam EP

Shake – Club Scam EP
Presente con “Sequence 10” nell’epocale “Techno! (The New Dance Sound Of Detroit)” del 1988, Anthony ‘Shake’ Shakir è uno dei veterani della prima ondata techno di Detroit seppur mai celebrato in pompa magna e per questo finito, insieme ad altri, nell’ombra. È attivo principalmente nella techno e nell’electro tuttavia la sua creatività è in grado di sfondare i confini e raggiungere la house. Basta ascoltare “Club Scam”, il primo EP che nel ’93 firma Shake per la Trance Fusion, costruito su loopismi geometrici (“Thats What I Want”, con un ricamo sampledelico proveniente da “Mesopotamia” dei B-52’s) e ipnotici rendez-vous tra voci e brevi assoli tastieristici. Nel 1997, lasciandosi alle spalle altre gemme housy come “Get A Feeling” ed “Happy To Be Here”, sarà tempo del “Club Scam II”, questa volta sulla Frictional Recordings che fonda con l’amico Claude Young, per cui tira dentro anche retaggi disco/funk velocizzati (“The Floor Filler”) e “Plugged In”, forse costruita sulle parti di “I’m Here Again” di Thelma Houston, la stessa che ispira l’arcinota “What You Need” di Powerhouse Feat. Duane Harden.

Sight Beyond Sight - Good Stuff

Sight Beyond Sight – Good Stuff
Obiettivamente simile ai brani degli Inner City, “Good Stuff” è un pezzo che combina vocalità (di Andrea Gilmore) a riccioli di suono newyorkese intrecciati a stab. Il tutto piazzato su un piedistallo ritmico con qualche bpm in più rispetto alla canonica velocità di crociera della house. A produrlo Keith Tucker, Anthony Horton e Tommy Hamilton, da lì a breve uniti in Aux 88 nel credo dell’electro. Il 12″, edito nel ’93 dalla 430 West, contiene anche un remix degli Octave One che si muove sinuoso su curve deepeggianti e ampie arcate di pad ambientali al cui interno trovano alloggio pochi interventi vocali della Gilmore. Nel 1994 arriva un nuovo pezzo a nome Sight Beyond Sight, “No More Tears”, ancora più house del precedente. Tucker & soci incideranno anche un terzo brano spassionatamente deep house, “R U Sure?”, finito nella compilation “Soul From The City” su Submerge nel 1995, “la collection definitiva sulla house di Detroit” così come recita il sottotitolo in copertina.

Terrence Parker - Hold On

Terrence Parker – Hold On
A differenza della maggior parte dei produttori di Detroit che concentrano le proprie energie sulla musica techno, Terrence Parker è tra coloro che invece si lanciano a capofitto nella house. Le prime prove negli ultimi anni Ottanta (si senta “We Need Somebody” sulla Express Records di Clifton Thomas di cui si è già detto sopra) ma è nei Novanta che dà il meglio di se stesso, a partire proprio da “Hold On” finito nel catalogo Trance Fusion, sublabel della saundersoniana KMS. La title track è rivista in tre versioni, Spiritual Mix, Club Mix e Garage Mix, tutte connesse al suono newyorkese con vocalità e vivace partitura musicale a rivelare una familiarità con gli strumenti che va ben oltre l’assemblaggio di campionamenti ritagliati da pezzi preesistenti. Sul disco c’è spazio anche per un altro brano, “Come With Me”, con frammenti vocali presi da “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys a fare da cornice a un leggiadro tappeto deep. A coadiuvare il lavoro di Parker è Claude Young, altra colonna statuaria del suono detroitiano, con cui stringerà una proficua collaborazione siglata come Younger Than Park che rivelerà solide connessioni tra la house music e la città dei motori attraverso brani come “Woman”, “Ooh Baby” e “Can’t Turn Back”, tutti pubblicati dalla citata Serious Grooves di Antonio Echols. Parker va avanti anche in solitaria incidendo dozzine di tracce sotto pseudonimi: tra le tante si segnalano “Dynamic Audio” di 2 Sweat Doctors (su Simply Soul), “Make It Better” di Madd Phlavor (su KMS) e “Love’s Got Me High” di Seven Grand Housing Authority sulla Intangible Records & Soundworks che lui stesso crea nel 1993.

The Hard Hats - Tear Down The House!

The Hard Hats – Tear Down The House!
Tra le primissime produzioni messe sul mercato nel 1987 dalla Incognito Records di Clifton Thomas, “Tear Down The House!” è un pezzo che affonda le radici in una house profondamente venata di percussioni ma che nel contempo ripesca certe sfumature ai tempi in voga nell’eurodisco. A fungere da motore è il potente disegno di basso funkeggiante incorniciato da un vocal sample opportunamente giocato col campionatore. Un brano semplice quanto ingenuo, che potrebbe essere uscito pure da uno studio di Chicago. I crediti autoriali, completamente omessi, affiorano dalla stampa britannica su Groove & Move Records che consentono di collegare il progetto one shot The Hard Hats ai musicisti David McMurray (che si era già cimentato l’anno prima con una manciata di pezzi house, “Hot Box” e “Get Smart -Prep It Up-“ di The Preps, sempre prodotti da Clifton Thomas per l’Express Records) e Randy Jacobs, entrambi collaboratori della band Was (Not Was).

Underground Resistance Featuring Yolanda - Living For The Nite

Underground Resistance Featuring Yolanda – Living For The Nite
Un altro pezzo, targato ’91, che risente in modo inequivocabile del mood saundersoniano: “Living For The Nite”, prodotto da Jeff Mills e Mike Banks e cantato da Yolanda Reynolds, riprende il discorso lì dove era finito “Your Time Is Up” l’anno prima, che peraltro inaugura il catalogo dell’etichetta omonima del gruppo, Underground Resistance. Diverse le versioni incise sul mix, seppur derivate dalla stessa idea. Il brano sbarca anche in Italia attraverso la napoletana UMM diretta da Angelo Tardio, come raccontato qui, che commissiona un paio di remix a un astro nascente nostrano, Digital Boy. A cedere è persino Albertino che vuole “Living For The Nite” nella DeeJay Parade del sabato pomeriggio dove resta per dieci settimane arrivando a toccare la quinta posizione il 31 agosto. L’anno dopo la Reynolds interpreta un’altra traccia per gli UR, la solare “Children Of The World”, confluita nel catalogo della Happy Records.

Unit 2 - Sunshine

Unit 2 – Sunshine
Gli Unit 2 (i musicisti Niko Marks e Raphael Merriweathers Jr.) debuttano nel 1992 proprio attraverso “Sunshine”, una gemma della house prodotta a Detroit dagli Underground Resistance con pochi elementi (pianoforte, voci, sezione ritmica) e una buona dose di divagazioni jazzy. Il brano è recentemente resuscitato per mano del bulgaro KiNK e degli italiani Tiger & Woods che lo hanno reinterpretato in due versioni per le generazioni del nuovo millennio. Un paio di anni più tardi il duo affida alla 430 West il follow-up “Keep Your Head Up”, co-prodotto con Mike Banks. In parallelo approntano come 365 Black “Home Land” che include un paio di piacevoli alternative alla ricetta, la lisergica “Deliver Me” e la tribaleggiante “Just The Way You Love Me” in cui si riconosce un campionamento di possibile provenienza afro usato l’anno prima e l’anno dopo per due brani italiani agli antipodi l’uno dall’altro, rispettivamente “Gengennarugengè” di Z100 e “Like A Flute” di Cosmic Traveller.

Van Renn - The Real Thang

Van Renn – The Real Thang
Paul Van Buren Randolph debutta nel ’93 sulla Nocturnal Images Records di Davina Bussey attraverso “The Real Thang”, un pezzo attraverso il quale riesce a mettere in evidenza la passione per il soul. A incoraggiarlo in modo incisivo è Mike Banks, con cui tempo prima suona in due band di Detroit, i Mechanix e i Cherubim. «Era convinto che la house e la techno avessero bisogno di musicisti tradizionali ma dalle ampie vedute e soprattutto senza pregiudizi, come me insomma» racconta in questa intervista qualche tempo fa. Il successo per Randolph arriva due anni dopo quando “The Real Thang” diventa “The (Real) Love Thang” e viene (ri)pubblicato nel Vecchio Continente attraverso vari remix tra cui quello di Rob Dougan che, come spiegato qui, fa la differenza e finisce nei circuiti mainstream (la licenza per l’Italia se l’aggiudica il gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che la convoglia su Nitelite Records, subito dopo “Everyone Has Inside” di Gala). Prima dell’exploit europeo Van Renn, nel frattempo diventato L’Homme Van Renn, offre alla 430 West “The Man” contenente un pezzo strepitoso dalle venature gospel, “(Never Will Forget) Love And Affection”. A produrlo è l’amico Mike Banks che lo definisce “il primo uomo dell’underground”. Il seguito giunge nel ’96 sulla Soul City, “Luv + Affection”, occasione in cui Banks si divide il lavoro in studio coi fratelli Burden.

Vision - Other Side Of Life Touch Me

Vision – Other Side Of Life / Touch Me
Nata nel 1990 proprio con questo disco, la Interface Records di Juan Atkins parte con un seducente carico di house music trasognata e rigata dalla sensuale voce di Tracey Amos che ben si accorda col mood malinconico del brano inciso sul lato a, “Other Side Of Life”, ritoccato in una Dub Mix da Anthony ‘Shake’ Shakir che riduce al minimo gli interventi vocali. Sul lato b invece “Touch Me” che innesca un saliscendi emozionale tra lunghe arcate armoniche intrecciate alla vocalità della Amos a vibranti linee di tribalismi percussivi. Due i remix, firmati da Eddie ‘Flashin’ Fowlkes e Jay Denham. Quello che pare esaurirsi in un episodio one shot rivela però un seguito e ciò avviene grazie al supporto di un’etichetta italiana, la Flying Records, che nel 1992 pubblica “Is This Real?” seguito l’anno dopo da “Coming Home”, entrambi cantati da Dianne Lynn e caratterizzati dal moniker con la s finale, un’aggiunta forse involontaria. «Incontrai Juan Atkins al New Music Seminar di New York dove mi fece ascoltare alcuni brani inediti» racconta oggi Angelo Tardio, co-fondatore della casa discografica napoletana e già artefice, come si è visto prima, di alcune licenze Underground Resistance messe a segno su UMM. «Mi piacquero e gli proposi di sviluppare una serie di remix partendo dalle sole acapellas e fu così che uscirono il doppio “Is This Real?” e “Coming Home” (scritti entrambi da Anthony Shakir, nda) di cui la Flying Records deteneva i diritti di esclusiva nel mondo, Stati Uniti esclusi, assicurati per un’inezia, appena 500 dollari a titolo. Decisi di pubblicarli su Flying Records e non su UMM perché l’intento era cercare di fare crossover e uscire dai soli club specializzati, non a caso bypassammo l’uso delle copertine generiche col buco centrale per elaborare degli artwork con tanto di logo realizzato ad hoc da Patrizio Squeglia». Sono parecchi i remix commissionati da Tardio, alcuni dei quali ripubblicati dalla Tribal America insieme alla Juan’s Dub e Shake Dub, inedite sino a quel momento. A realizzarli sono tutti artisti affiliati alla Flying Records: i fratelli Visnadi, Roberto Masi dei Blast, Giuseppe ‘MAN-D.A.’ Manda e Ivan Iacobucci. «Cercavo di creare team di lavoro per spingere quanto più possibile il made in Italy» prosegue Tardio «ma quella volta non mancò un grande nome d’oltreoceano, Danny Tenaglia. Coadiuvato da Kerri Chandler, realizzò due versioni negli studi della Flying Records in occasione di una serata che tenne in Italia. Una si chiamava Dead Horse Dub, titolo scelto per la vicinanza alle scuderie dell’Ippodromo di Agnano, limitrofe alla sede della Flying Records in Via Raffaele Ruggiero. A impazzire per “Coming Home”, tra gli altri, era Claudio Coccoluto e infatti qualche anno dopo uscì pure un suo remix sulla britannica Stress Records» (di cui parliamo qui, nda). La sinergia tra Napoli e Detroit si chiude con “Forever My Sunset” uscito però a nome Dianne Lynn, ancora scritto da Shakir e prodotto da Atkins su licenza Metroplex. «Nessuno di questi tre titoli divenne un successo da classifica ma non disattesero del tutto le aspettative, ne vendemmo parecchi, nell’ordine di diverse migliaia ciascuno» conclude Tardio.

… e la techno di Chicago

326 - Just Like Heaven

3.2.6. – Just Like Heaven (Dance Mania)
Il debutto nel 1989 sulla Muzique Records con “Falling”, spalleggiato da Armando Gallop, che già lascia intravedere un’attitudine techno nell’assemblaggio delle parti. Due anni dopo la conferma su Dance Mania con un ricco EP, comprendente ben sette pezzi, che pare davvero un ipotetico Transmat. Forse ispirato da “Strings Of Life”, Dion Williams si lancia a capofitto di un suono che sembra scendere dal cielo a bordo di un disco volante pilotato da un alieno sotto effetto di anfetamine (“Just Like Heaven”), in “Love Is….” e “Magic Fingers” spennella la tela bianca con colori acidi, “Butterfly” è un ritmo brutale da cui si levano spirali di melodie sbilenche sovrapposte ad archi che tracciano ricordi bladerunneriani. Sconosciuto ai più, il disco diventa un cult per gli estimatori ed è l’ultimo a essere realizzato da Williams che trae lo pseudonimo dal numero civico dello stabile in cui c’era il Music Box guidato da Ron Hardy, al 326 di North Lower Michigan Avenue.

3 Down - Deep Trip

3 Down – Deep Trip
Nato sull’asse collaborativo Chicago-Detroit, “Deep Trip” è un pezzo del 1991 rimasto nell’ombra nonostante avesse tutte le caratteristiche per spopolare negli anni dell’esplosione europea della techno. Le cinque versioni incise sul disco, licenziato nel Regno Unito dalla The One After D legata al gruppo Network Records, derivano pressoché dalla stessa idea e veleggiano su un percorso ritmico di stampo breakbeat punteggiato da vari campionamenti come “Let The Music (Use You)” di The Night Writers e “Pleasure Principle” delle Parlet (gli stessi che si sentono rispettivamente in “DJ’s Take Control” di SL2 e “Tranqi Funky” degli Articolo 31). La Techno Mix è tra le più immediate e avanza sulle rasoiate degli amen break e sugli stab che tracimano gli argini sostenuti da una serie di graffi degli scratch. A coadiuvare il lavoro di Kevin Saunderson che pubblica il brano sulla sua KMS sono Martin Bonds e un amico di Chicago, Anthony Pearson alias Chez Damier che proprio in quegli anni ricopre ruolo di A&R per la stessa etichetta sulla quale pubblica alcuni pezzi come “Can You Feel It”, accompagnato dalla dicitura in copertina “techno disco”.

Boo Williams - A New Beginning

Boo Williams – A New Beginning
Willie Griffin inizia a pubblicare musica a nome Boo Williams nel 1994, spinto dagli amici Glenn Underground e Tim Harper coi quali, in un futuro non lontano, figurerà nella formazione Strictly Jaz Unit. “A New Beginning” esce quell’anno sulla Relief Records di Curtis Alan Jones e parte con la title track in cui si palesa presto la fascinazione techno dei suoni, con cowbell ubriachi e rullanti nervosi tipici della scuola di Chicago. L’effetto viene replicato in “The-B-W-Groove”, una sorta di reprise. Più house oriented il lato b con “Phasis” e “Quicksand”. Le armi di Williams sono affilate e lo si capisce quando su Djax-Up-Beats arriva “New Breed” in cui trovano alloggio altri pezzi di techno squadrata come “Endangered Species” o “Kiss’en Asses”.

DJ Deeon - Induced EP

DJ Deeon – Induced EP
Considerato uno degli iniziatori della ghetto house insieme a DJ Funk, DJ Slugo, Parris Mitchell e DJ Milton, DJ Deeon ha prodotto musica per circa trent’anni. Il suo stile è caratterizzato da strutture ritmiche ad anelli che procedono secondo una formula fondata su minimalismo ed essenzialità. Non è la microhouse teutonica però, la ghetto house di Chicago è meno sexy e più rozza, a volte ai confini con la techno così come testimonia il pezzo di apertura dell'”Induced EP” (Cosmic Records, 1995), “On Da Run”, dall’incedere quasi millsiano rotto qua e là da interventi vocali. “The Funk Electric” è una sbornia di elementi della TR-909, gli stessi che si sentono in “And I Sexxx” e “Sex Part 1”, in quest’ultima con l’aggiunta di una corposa dose di quel tipico suono che definisce la ghetto house che si muove come un ubriaco che cerca di ballare su una scala mobile. A fermare l’infaticabile Deeon, che in piena pandemia si prese la briga di lanciare un’etichetta, la Ghetto Rhythm Composers, è la prematura scomparsa avvenuta il 18 luglio 2023 a 57 anni.

DJ Hyperactive - Chicagoan EP

DJ Hyperactive – Chicagoan EP
Questo extended play del ’94, il secondo che Joseph Manumaleuna alias DJ Hyperactive realizza per la sua Contact, mette immediatamente in risalto le caratteristiche del proprio imprinting. Pochi gli elementi ma elaborati con massima scrupolosità come rivela “Chicago”, dove lo scandire metronomico di un roccioso bassdrum (i Daft Punk prenderanno nota per “Rollin’ & Scratchin'”, e non certamente a caso citeranno Hyperactive in “Teachers”) incornicia un tormentoso hook che ripete il titolo sul quale si inerpica un velenoso serpente di TB-303. La costruzione resta la medesima in “Rhythm In Acid” dove il bassline disegna grandi arabeschi, forse ispiratori di “Post Nasal Acid” di Winx. Il lato b è occupato per intero da “It’s My Life” dove spuntano arcate melodiche ad addolcire la mistura. Sempre nel ’94 Hyperactive approda alla Drop Bass Network con due dischi, “Hard Rhythmic Motions” e “Don’t Fuck With Chicago”, in cui spinge gli acidismi verso lidi hardcore con distorsioni e saturazioni. Seguiranno parecchi altri EP (alcuni dei quali editi dalla britannica Missile) e un album, “I’m Only Buggin'” che la svedese Hybrid di Cari Lekebusch pubblica nel 1996, anno in cui Manumaleuna crea Fuzz Face, il seguito al progetto Sync creato a quattro mani con Woody McBride.

DJ Milton - Scream

DJ Milton – Scream
Parte proprio con “Scream” la carriera discografica di Milton Jones: pubblicato nel 1994 dalla Dance Mania, il disco si articola attraverso sei tracce di suoni ruvidi innestati su schemi ritmici dall’intenzionale minimalismo. Da “Scream”, in cui affiorano urla voluttuose forse prese da qualche vecchia VHS porno, ad “House Clap”, con la base quasi identica alla precedente ma con inserti acidi, da “Saturn”, con schemi percussivi geometrici, a “Ride That M.F.”, chiaro ripescaggio della house balbettante di qualche anno prima ma col pitch della velocità aumentato, sino a “Hit It (Rx)” e “Late Nite Creep”. Prodotto parzialmente col sopraccitato DJ Deeon e masterizzato dal mitologico Mark Richardson, il lavoro segue la ricetta della ghetto house tuttavia tanta techno generata e propagata in Europa nei primi anni Novanta risulterà più debitrice a dischi come questo che a quelli di Detroit. La carriera di Milton si ferma nel 2000 per guai seri con la giustizia, omicidio e rapimento aggravato: viene condannato a poco meno di quarant’anni di reclusione che attualmente sta scontando in un penitenziario dell’Illinois come confermato in questo documento ufficiale.

DJ Rush - Drum Major EP

DJ Rush – Drum Major EP
Isaiah Major produce quintali di musica sin dai primissimi anni Novanta, è complesso quindi identificare un disco rappresentativo in un repertorio talmente vasto. La scelta cade sul primo EP ceduto alla tedesca Force Inc. Music Works nel ’95, riempito con una techno mutante che prima sferraglia lungo binari arroventati dal sole (“Electric Indigo”, forse un tributo all’omonima DJ austriaca?) e poi somministra un cocktail allucinogeno a un ipotetico organista jazz (“Prick Ryder”). La carica ritmica di Rush è inarrestabile e lo si capisce quando parte “Bang Bang” che sembra essere stato programmato sul cratere di un vulcano, nell’attesa di una possibile eruzione. “Punish Me”, infine, spiazza l’ascoltatore con una visione techno funk in cui i bpm calano per lasciare spazio a virtuosismi ritmici. Nel corso degli anni Major velocizzerà la sua musica traghettandola verso il genere schranz che cavalca a inizio millennio anche come Russian Roulette.

DJ Skull - Nuclear Fall Out

DJ Skull – Nuclear Fall Out
“Nuclear Fall Out” è il terzo disco che nel 1994 Ron Maney affida all’olandese Djax-Up-Beats, dopo “Stomping Grounds” e “Met”L”gear”. “Target Kill” avanza con un passo spedito, falciante, pronto a mordere, “Crash Dummy” è un classico scheletro ghetto che lascia ribollire all’interno una strana mistura alchemica, “Get Wicked” è un tripudio di snare ma probabilmente l’apice arriva con la title track, “Nuclear Fall Out”, un ordigno innescato da una serpentina acida che poi deflagra insieme a chiari riferimenti tratti da “Circus Bells” di Robert Armani, un classico della techno chicagoana di cui si parla dettagliatamente più avanti. A differenza di gran parte dei Djax-Up-Beats illustrati da Alan Oldham, questo reca la firma dello stesso Maney.

Ellery Cowles - Glaxy Of Interval

Ellery Cowles – Glaxy Of Interval
Con “Glaxy Of Interval”, giunto dopo “Sonic Control” e co-prodotto col sopraccitato DJ Skull, Cowles conferma la collaborazione con la Djax-Up-Beats di Miss Djax che negli anni Novanta è un ponte tra la Città del Vento e il Vecchio Continente. La title track fluttua su nubi tossiche di layer strumentali phaserizzate, “Planet Sex” s’infila in un corridoio buio e tenebroso, “Playing With Bass” fa salire la temperatura attraverso rullanti arroventati e sgambettanti, “Orbit Syquest 270” chiude con una visione in cui Detroit e Chicago sembrano davvero toccarsi con un dito come avviene nell’opera michelangiolesca nella volta della Cappella Sistina. Lontano dalla prolificità di molti colleghi, Ellery Cowles incide diversi altri dischi alcuni dei quali atterrati su etichette europee come la Hybrid di Cari Lekebusch e le parigine D3 Elements e Technorama.

Gene Farris - Blue Squad 001

Gene Farris – Blue Squad 001
Farris ha ampiamente dimostrato di essere un talento sia nella house che nella techno e questo avviene sin dalle prime battute del suo percorso produttivo in cui si poggia da un lato alla tedesca Force Inc. Music Works di Achim Szepanski e dall’altro alla Relief Records di Curtis Alan Jones. “Blue Squad 001” è il primo scelto nel 1995 dal citato Szepanski, probabilmente attratto dall’intreccio delle linee acide di “Pipe Dream”, una traccia che, come recitano i crediti, è un tributo a DJ Rush, amico e mentore di Farris stesso. Il disco riserva ancora curvilinee acide con “Unholy” oltre a una chiusura ad appannaggio del pungente ipnotismo, “Tribal Warfare”, il cui schema viene riadattato per “Sight ‘n’ Sound” uscita l’anno seguente su Relief Records.

Glenn Underground - The Unborn

Glenn Underground – The Unborn
Dopo “Future Shock” del 1993, Glenn Crocker alias Glenn Underground destina alla Djax-Up-Beats un secondo EP con cui mette in risalto l’abilità nel programmare ritmi non convenzionali, distanti dalla tradizionale costruzione house. Basta poggiare la puntina su “The Unborn” per afferrare il discorso al volo e rendersi conto di quanto possa essere libero da vincoli compositivi il territorio techno. In barba al titolo che lascerebbe presagire qualcosa di ancora più elaborato, “Teck-Na-Logie” vira verso quella che da noi, qualche anno prima, viene definita ambient house, seppur a reggere il tutto sia un possente impianto ritmico. Con “101 Dolmations” la corsa riprende sfociando in una sorta di techno jazzata inviperatissima. La chiusura è (ancora) sotto il segno di suoni ambientali, “New Age Experience”, che fanno bene il paio con quelli di “Teck-Na-Logie”. Val la pena segnalare anche alcuni brani che nel ’95 Crocker firma con lo pseudonimo Jellybean su Relief Records come “Drop Dead Zone” e “Twilight Drone”, ulteriori sviluppi di un suono personale che tiene bene in alto il vessillo della techno made in Chicago.

Green Velvet - Portamento Tracks

Green Velvet – Portamento Tracks
Nato nel 1968, Curtis Alan Jones comincia a incidere musica con la Clubhouse Records e mette presto a segno ottimi risultati, su tutti “Brighter Days” che firma Cajmere e che arriva anche in Italia attraverso la D:vision Records. Quando nel ’93 lancia la Relief Records, come appendice della Cajual Records, esce allo scoperto con un nuovo pseudonimo, Green Velvet, con cui mette da parte le costruzioni vellutate deep house a favore di misture intrise di jackismi di traxxiana memoria, così come si ascolta in questo EP del 1995. I suoni grassi di “I Want To Leave My Body”, poi la cassa rocciosa di “Flash” che dà il via a una serie di trivelle di rullanti in stile “Spastik” di Plastikman e infine le spirali psichedeliche di “Explorer”: Jones inietta suoni e costruzioni technoidi in circuiti house e va oltre con una bonus track senza titolo che fa volteggiare in aria rumorismi e distorsioni insieme a un campione vocale ripetuto con ossessione. Nel 2001 l’ingresso nelle classifiche generaliste con “La La Land” scandita da un tono di voce da pastore protestante e arditamente connessa vicendevolmente ad house e techno, modalità usata dall’artista anche in progetti collaterali come Geo Vogt (“Glitch” che marcia su severità EBM) e Gino Vittori con cui si cimenta in una rivisitazione di “Remember” di Gino Soccio (“Self-Evident”).

Joe Lewis - Funky Disco

Joe Lewis – Funky Disco
Joe Lewis è tra coloro che hanno visto nascere l’house music nonostante il suo nome sia finito nel dimenticatoio o comunque tra quelli secondari, ingiustamente se si pensa a pezzi come “The Love Of My Own”, realizzato con Larry Heard, “Set Me Free” o “Midnight Dancin'”, tutti sulla propria Target Records. Quando nasce il sodalizio con la Relief Records il suo suono si irrigidisce e acquista velocità e una nuova gamma cromatica. “Funky Disco” è uno dei 12″ che Lewis pubblica per l’appunto sull’etichetta di Green Velvet e dai quali emerge questo cambio di registro prima attraverso i ritmi a stantuffo della title track (a dispetto del titolo, di funky e disco non se ne vede l’ombra) e poi dalle stropicciature vocali di “Let Yourself Go” che un po’ suona come versione dopata del suono onirico del citato Heard ricontestualizzato su un frammento preso da “Nude Photo” di Rythim Is Rythim. Tra le altre, non manca la nota acida, “Confusion Land”, una possibile risposta a “Land Of Confusion” di Armando Gallop.

K-Alexi Shelby - All For Lee-Sah

K-Alexi Shelby – All For Lee-Sah
Tra i veterani della house della Windy City, Keith Alexander Shelby inizia ad armeggiare in studio negli anni Ottanta vantando pubblicazioni su etichette passate alla storia come D.J. International Records e la detroitiana Transmat. Proprio quest’ultima, nel 1989, pubblica “All For Lee-Sah”, un pezzo a metà strada tra acid house e techno corroborato da inserti vocali recitati quasi in modalità paranoica. Il lato b si apre con “My Medusa” dove TB-303 e TR-808 viaggiano in parallelo sviscerando le loro rispettive energie (un frammento della micidiale combo viene campionato dai belgi Atomizer per “Atom-B” del ’91). A chiudere è la simile “Vertigo”, dove l’acid line della scatola argentata della Roland continua a dimenarsi. A editare tutti i brani sul 12″ è Derrick May mentre l’artwork è di Alan Oldham che accompagnerà Shelby in una tappa del viaggio in Europa sulla Djax-Up-Beats (“Sex-N-R-001”, 1993).

Kareem Smith - Church Bells

Kareem Smith – Church Bells
È la Djax-Up-Beats a supportare il giovane Kareem Smith nella sua parabola artistica non intensa, iniziata nel ’91 dalla Saber Records in compagnia di Steve Poindexter di cui si parla più avanti. “There’s Some Hoes” è una brutalizzazione del suono ghetto, girata su un breve quanto ossessivo frammento vocale che non molla mai la presa. “Feel The Drums” è un’escursione in compagnia di una TR-909, “Lasertag ’96” è un cubo di Rubik dato alle fiamme, “Church Bells” pare un reprise non celato di “Circus Bells” di Robert Armani, descritta più giù.

L.A. Williams - Jedi Knight

L.A. Williams – Jedi Knight
Abile intagliatore di house e deep house, Lawrence Williams non disdegna affatto la techno che produce a fasi alterne. In questo “Jedi Knight”, mandato in stampa dalla Clashbackk Recordings nel 1996, si apprezzano prima le massicciate ritmiche sotto effetto ipnosi (“Logan’s Run”) e poi gli scontri fotonici tra sensualità e asperità acide (“Vadapod”). Dal ricco e variegato repertorio si evidenzia un piccolo gioiello techno del 1998, “This Is A Test”, e la tripletta destinata all’olandese Djax-Up-Beats tra ’95 e ’97 che Williams realizza in compagnia di Herbert Jackson e Spanky dei Phuture sotto lo pseudonimo Group X.

Lester Fitzpatrick - Frantic Frenzy

Lester Fitzpatrick – Frantic Frenzy
Un ottimo esempio della vena produttiva di Fitzpatrick è offerto da “Frantic Frenzy”, il primo EP che destina alla Relief Records nel 1995. Il brano di apertura, “Frantic Frenzy” per l’appunto, è un rullo compressore che si muove nei meandri del distorsore tirandosi dietro una tempesta di suonini in loop. Segue il sinusoidale “Tone Control” dove l’autore costruisce abilmente labirinti ipnotici. Il carico di intricati loopismi si ritrova sul lato b con “Mental Hardware”, dove i suoni sono tenuti insieme da un reticolo di filo spinato, e “Frequency Response”, continuum del precedente che ondeggia su un beat di impostazione ghetto. Dalla poderosa discografia di Lester Fitzpatrick emergono altre gemme come “Danger Room” sulla britannica Missile Records, con una cassa quasi Rotterdam style, e “Smash Traxx Vol. 1” sulla belga Minimalistix che elabora il ritmo su schemi millsiani.

Lil' Louis - The Original Video Clash

Lil’ Louis – The Original Video Clash
Il ban della BBC a causa di contenuti considerati troppo hot per essere mandati in onda non basta ad arginare il successo di “French Kiss” che, nel 1989, diventa un bestseller di dimensioni ciclopiche: licenziato da FFRR e dalla Epic, vende centinaia di migliaia di copie (tanti siti oggi riportano la cifra stellare di sei milioni ma senza mai specificarne la fonte). Per Marvin Burns, meglio noto come Lil’ Louis, è un tripudio ineguagliabile e ineguagliato. Circa un anno prima di conoscere il grande successo il DJ affida alla Dance Mania un brano in cui taglienti blipperie low-fi si infilano nei meandri di una rete ritmica che deflagra in più punti, lasciando scorrere magma e lapilli. Minimalismo, ciclicità, rotazione, visione techno: queste le linee sulle quali Burns crea “The Original Video Clash” che manda in frantumi i sound system e spinge alcuni concittadini a realizzare delle pseudo cover come Tyree Cooper e Mike Dunn, rispettivamente con “Video Crash” e “Magic Feet”. Molti anni più tardi salta fuori che in realtà anche quello di Louis è un rifacimento di un pezzo realizzato da Marshall Jefferson nel salotto di casa sua, alla presenza di vari amici tra cui Sterling Void, Kym Mazelle (che intona qualcosa sopra, in una sorta di jam session) e lo stesso Louis. «Lil’ insistette affinché dessi una copia su nastro a lui e non a Ron Hardy come ero solito fare, per suonarla in una delle sue feste» rammenta Jefferson in una vecchia intervista. «Una volta tornato a casa però, rimosse la parte vocale, fece delle modifiche e la pubblicò senza il mio nome. A quel punto, visto che in circolazione c’erano diversi dischi derivati dalla stessa idea, decisi di non accodarmi col mio, non volevo che il pubblico pensasse che avessi copiato». Il fatto che Lil’ Louis abbia aggiunto “The Original” nel titolo lascia supporre che la sua sia la versione originale e la perdita del nastro con la registrazione del vero originale di Jefferson (come confermato in questa intervista del 3 agosto 2009) rende inoppugnabile la vicenda. Tuttavia pare che Louis abbia deciso, una quindicina di anni or sono, di riconoscergli i diritti senza esitazione. «Adesso il denaro che genera il pezzo è poco o nullo ma giustizia è fatta» chiosa Jefferson.

Mike Dearborn - Unbalanced Frequency

Mike Dearborn – Unbalanced Frequency
Il debutto nel 1990 insieme a George Perry per “Make The Music” sulla Housetime Records che già lascia intravedere scenari technofili, gli stessi che l’anno dopo si ritrovano in “1991 (A New Age)” sulla Muzique Records di Armando e Steve Poindexter. La conferma arriva nel 1992 con “Unbalanced Frequency” sulla Djax-Up-Beats di Miss Djax con annesso artwork di Alan Oldham. Serpentine incandescenti (“Outer Limits”) e cordami ritmici (“8514”) si alternano alle sgroppate di 909 sul lato b (“Simply Complex”, “Harmonic Distortion”). È solo il primo disco di una lunga serie che Dearborn destina all’etichetta olandese, incluso un album, “Muzikal Journey”, crocevia di lame arroventate e febbricitanti propulsioni in cui c’è spazio pure per il remix di “Move” ad opera dei tedeschi Hardfloor. Gran parte del resto del repertorio convergerà nel catalogo della Majesty Recordings, l’etichetta da lui stesso fondata e gestita.

Paul Johnson - Foreign Music

Paul Johnson – Foreign Music
Ingiustamente ricordato dal grande pubblico solo per “Get Get Down” del ’99, costruito abilmente su un campionamento tratto da “Me And The Gang” di Hamilton Bohannon, il compianto Paul Johnson è stato uno degli assoluti protagonisti della scena di Chicago. La house music ha la meglio nel suo sconfinato repertorio ma non mancano gemme techno tipo quelle racchiuse nel “Foreign Music” (Djax-Up-Beats, 1993) come “Time Warp” o “U.F.O.”, a cui se ne sommano altre confluite nel doppio “Psycho Kong” dell’anno dopo. È sempre Johnson a realizzare, proprio nel 1994, “F_____n Suckin” per il progetto Traxmen su Dance Mania, in cui si recita una filastrocca farcita di parolacce su una base martellante e ipnotica. Inciso sul lato b del secondo volume di “Basement Traxx”, il pezzo parte dalle discoteche specializzate ma pian piano conquista favori nel nostro Paese finendo nel circuito generalista grazie al supporto di Albertino e Radio DeeJay.

Robert Armani - Armani Trax

Robert Armani – Armani Trax
Il suo vero nome è Robert Woods ma si ribattezza Robert Armani pare per tributare lo stilista italiano Giorgio Armani. Il debutto nel 1990 con “Armani Trax”, su Dance Mania, che riagguanta i minimalismi ritmici della house dei primordi per renderli autentici protagonisti e non più solo basi su cui innestare qualcosa. La traccia “Armani Trax” è esplicativa in tal senso, uno scheletro di pochi elementi che si rincorrono per tutta la stesura. Simile il contenuto del pezzo sul lato b destinato a diventare un classico, “Circus Bells”, dove il suono di una campana liquefatta e strisciante diviene una sorta di putrella costruttiva, un elemento portante e di sostegno per tutto il resto. A glorificarla ci penseranno i tedeschi Hardfloor nel 1993 attraverso uno dei primi remix della loro carriera. Sia “Armani Trax” che “Circus Bells” vengono riletti in due versioni da Armando Gallop, indicato altresì come presenter sull’etichetta centrale. Armani bissa la presenza su Dance Mania nel ’91 con “Ambulance” aperto dalla traccia omonima, una marcetta in cui shakera un lancinante suono che pare un sonar impazzito per qualche problema tecnico sopraggiunto negli abissi marini. Il pezzo raccoglie consensi in Europa, Italia compresa, dove giunge attraverso l’Extreme Records del gruppo Energy Production. Proprio in Italia l’artista trova da lì a breve un valido alleato discografico, l’etichetta capitolina ACV, che tra 1992 e 1997 pubblicherà ben sei album a cui si sommano numerosi EP.

Steve Poindexter - Demolition Man

Steve Poindexter – Demolition Man
Poindexter è un altro che assimila i traxismi pre novantiani per fonderli coerentemente coi suoi apporti trasformandoli in qualcosa di più muscolare e lanciarli in circuiti ad alto voltaggio. A venirne fuori è una felice sintesi riscontrabile in questo EP, pubblicato su Djax-Up-Beats nel 1997, in cui le cose appaiono chiare sin dal principio, quando parte “Demolition” che mette l’ascoltatore tra incudine e martello. “Return To The Getto” occhieggia al suono ghetto della Dance Mania, e probabilmente il titolo è un indizio rivelatore. “Express” è una pallina da flipper impazzita che urta contro il vetro lesionandolo, “Bring The Noice” scalpita ancora sui disegni ritmici fatti da clapperie e nervosi rullanti. Poindexter ha inciso anche un album, “Man At Work”, incentrato sulle squadrettature ritmiche tipiche della scuola chicagoana. A pubblicarlo, nel 1996, la romana ACV.

Terrance McDonald - Wreck The Floor

Terrance McDonald – Wreck The Floor
Lasciandosi alle spalle un timido esordio su Saber Records nel ’91, per Terrance McDonald si aprono le porte della Djax-Up-Beats che nel 1994 manda in stampa “Wreck The Floor”, coprodotto con l’amico DJ Skull. Le danze iniziano col brano omonimo, in buona sostanza una versione uptempo della house chicagoana targata ’85-’86 che scommette tutto sull’essenzialità e il minimalismo. Con “Electric Energy” l’autore inietta più elementi nei circuiti della sua musica, dotandola di soffici cuscini ottenuti con lunghi lead. Più ovattata l’edificazione dei suoni di “Pick Up The Pace”, issata da un breve messaggio vocale che ripete meccanicamente il titolo. Chiudono la rotolante “Hokus Pokus” e la seducente “Love Craze”. McDonald affida all’etichetta di Miss Djax un’altra manciata di EP in cui la techno divampa in modo ancora più intenso, “Hyper-Tension” e “X.S. NRG”, usciti entrambi nel 1995 ma sotto lo pseudonimo DJ Metal X.

Timewalkers - Melodic Butterfly

Timewalkers – Melodic Butterfly
Nel 1994, quando la belga Lightning Records (a cui fa capo la Bonzai guidata da Fly intervistato qui) inaugura il catalogo Unique Vinyl Movement con “Melodic Butterfly”, non esiste Discogs per individuare le coordinate autoriali. Sul centrino è riportato il nome di un certo Felix Stallings ma in pochi, specialmente in Italia, sanno chi sia. Il brano si presenta in due versioni, simili tra loro: la Thee Dark Mix lascia ondeggiare corone di fiori su un sequencer dal sapore quasi moroderiano, la Thee Lite Tribal Mix mette da parte le nuances più ombrose a favore di un panorama più cristallino. Dopo qualche mese la Unique Vinyl Movement commercializza un secondo (e ultimo) disco di Timewalkers, “This Is What I Believe In”, con cui l’autore prosegue la missione elaborando accuratamente la programmazione ritmica ed edificando un castello di suoni vaporosi dalle punte filo acide. Stallings concentrerà le energie su altri progetti come Aphrohead e soprattutto Felix Da Housecat con cui sfonderà nel pop nei primi anni del nuovo millennio quando incide l’album “Kittenz And Thee Glitz” trainato dall’arcinota “Silver Screen-Shower Scene” in coppia con la reginetta dell’electroclash, Miss Kittin.

Time For Techno - Get On It

Time For Techno Presents The Unknown – Get On It (Housetime Records)
Il nome che Derrick Carter sceglie per questa apparizione su Housetime Records del 1989 è già indicativo, ma ascoltare i cinque pezzi racchiusi all’interno dell’EP fuga definitivamente ogni dubbio. “Get On It” mostra il punto di avvio rappresentato da frequenze phaserizzate, pattern mandati in reverse, vocalizzi balbettanti, da “Velocity” in avanti si viaggia in dimensioni decisamente techno, “Abstract Expressionism” è una acid svisata con frequenti effetti backwards che diventano una vera e propria gimmick, “Non-Music No. 3” avanza a scatti come un androide pilotato da remoto, “Spirit Of Sound” chiude con annotazioni funk/disco ma fatte ribollire in un blocco ritmico duro come granito. Carter diventa un gigante della house ma non disdegnerà, seppur a tratti, di calarsi ancora in territori confinanti con la techno come avviene ad esempio con “Science Of Numbers” di Symbols & Instruments (KMS, 1989) “Shock Therapy” (Exploding Plastic Inevitable, 1994) o “Limbo Of Vanished Possibilities” di Tone Theory (Plink Plonk, 1995).

(Giosuè Impellizzeri)

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Enrico Mantini: lascio la house e il DJing per nuove sfide

Ingegnere del suono, DJ e compositore: la figura artistica di Enrico Mantini ruota intorno a questi tre ruoli. Il debutto discografico ad appena diciott’anni, nel 1990, quasi nell’anonimato e nel solco della deep house strumentale, un filone emerso dopo il boom commerciale dell’italo house pianistica apparentemente privo di appeal internazionale e ai tempi, pare, incapace di reggere il confronto col suono garage di blasonate realtà discografiche di Londra o New York. Paradossalmente, a distanza di un venticinquennio circa, sono stati proprio influenti DJ esteri a istigarne il ripescaggio e la conseguente rivalutazione che ha condotto a una sorta di riscatto. Mantini, in quella prima fase europeizzante della house music, è un autentico fiume in piena. Incide decine di tracce finite in altrettante pubblicazioni marchiate prima con pseudonimi e poi con le coordinate anagrafiche. Entrare nella scuderia artistica di un’etichetta cardine di quel periodo, la napoletana UMM fondata e diretta da Angelo Tardio, lo aiuta a farsi notare oltre i confini e ad accrescere la reputazione da DJ. Alla fine degli anni Novanta però il sogno sembra dissolversi, l’eclissi di tante stelle lo spingono a reinventarsi e percorrere itinerari differenti. Il proliferare di nuovi formati liquidi e il ritorno in auge del disco in vinile lo convinceranno a tornare sui suoi passi nei primi anni Dieci, complice pure l’interesse nei confronti della sua musica avanzato da etichette italiane e straniere (Traxx Underground, 4 Lux, Wilson Records, Half Baked, Gua Limited, Detroit Side, Assemble Music, giusto per citarne alcune). Mantini si proietta nel futuro senza nascondere il passato anzi, è proprio quest’ultimo a diventare il motore capace di alimentare con rinnovata energia la sua carriera. Passa quasi un decennio, tra ristampe chieste a gran voce dalle nuove generazioni e inediti, ma ora per l’artista pescarese è giunto di nuovo il tempo di voltare (definitivamente?) pagina e iniziare nuove avventure.


Inizi a praticare il DJing nel 1987, anno in cui comincia il percorso di europeizzazione della house music. Da quali presupposti partiva un giovane come te che voleva cimentarsi in quel tipo di attività artistica? Quali sostanziali differenze correvano tra il DJ radiofonico e quello da discoteca?
Iniziai dapprima proprio come DJ radiofonico, un percorso in qualche modo più accessibile nella mia città, Pescara, visto il grande numero di radio libere e la limitata presenza di club. Per me il presupposto è sempre stato legato alla viscerale passione per la musica, di qualsiasi genere. All’età di dieci anni, piuttosto che scendere in strada o andare al parco per giocare coi miei coetanei, preferivo trascorrere i pomeriggi ad ascoltare la radio registrando su nastro Super 8 le canzoni che più mi piacevano. Per il pubblico, il DJ radiofonico non aveva lo stesso appeal di quello che lavorava in discoteca ma non mi importava affatto, da ragazzino ero molto introverso e volevo solamente esprimere me stesso e i miei stati d’animo attraverso la musica quindi era di vitale importanza che potessi farlo anche al di fuori delle mura domestiche.

Sussisteva un forte tessuto connettivo tra la dance degli anni Settanta e quella che poi fu riformulata a Chicago negli Ottanta? In buona sostanza la house fu, come più di qualcuno ha affermato nel corso del tempo, il genere con cui la disco si prese la rivincita?
L’evoluzione della disco in house music fu innescata dall’avvento della tecnologia digitale, basti pensare a brani come “How Far I Go” di Peter Black per capire quanto sottile e labile fosse il confine da valicare. In poco tempo i DJ passarono da realizzare semplici edit di brani disco a comporre complessi remix da suonare nei loro set in cui la componente elettronica, derivata in primis da sintetizzatori e drum machine, ebbe sempre più peso. Agli inizi degli anni Ottanta erano già molti a comporre brani esclusivamente elettronici poi battezzati con il nome house music. Considerato l’impatto che la musica house ebbe negli anni a seguire, la vastità del fenomeno sociale correlato a essa e le persone chiave che ne resero possibile la diffusione, trovo sia corretto affermare che fu esattamente questo il modo in cui la disco music, relegata perlopiù alla comunità afroamericana, si prese la rivincita su scala mondiale.

Come ricordi i primi anni di diffusione in Italia della house music?
Quando ascoltai i primi brani di musica house fu subito chiaro che l’elettronica sarebbe stata la via con cui, anche io, avrei avuto modo di comporre e portare a termine un brano in totale autonomia. Prima iniziai a introdurre il campionatore nei miei DJ set, poi la Roland TR-909 arrivando a suonare di tanto in tanto, da cassetta, tracce interamente composte da me. Il pubblico salutò con entusiasmo la novità, forse perché incuriosito dai DJ alle prese con strumenti nuovi (campionatori, batterie elettroniche) sino a quel momento relegati quasi esclusivamente allo studio di registrazione, ma un ruolo la ricoprì anche la ripetitività degli elementi contenuti in ogni brano house che evocava ritmi ancestrali. Reperire i primi dischi di house music però non fu semplice, almeno fino alla seconda metà degli anni Ottanta, momento in cui cominciarono a essere importati in discrete quantità essendo iniziata la diffusione radiofonica.

Alla fine degli anni Ottanta inizi a cimentarti nelle prime prove da produttore: ci fu qualcosa o qualcuno a spingerti verso l’attività compositiva in studio di registrazione?
A spronarmi nel trovare una strada per esprimermi fu la mia passione, insieme a tenacia e determinazione che mi aiutarono a raggiungere il risultato. Da bambino ero molto attratto dalla stanza in cui mio padre custodiva l’impianto hi-fi e le luci psichedeliche. Lui non era un frequentatore di discoteche, aveva nozioni musicali e suonava la tastiera ma in quanto a gusti si lasciava trasportare dalle mode. Correvano i tardi anni Settanta e alcuni brani disco funk popolavano le classifiche. Ogni qualvolta lui mettesse un disco, mi precipitavo nella stanza a guardare l’esplosione di colori e assorbivo la magia di quei suoni che mi sono lentamente entrati nell’anima al punto che, quando iniziai a comporre, involontariamente e in modo del tutto spontaneo, approdai spesso a soluzioni musicali tipiche di quel genere. Durante l’adolescenza invece strimpellavo il basso elettrico in una band new wave ma era complicato mettere insieme le idee di più persone e soprattutto ottenere un contratto discografico. Lo spiraglio offerto dall’elettronica, anche in considerazione del fatto che mi esibissi come DJ, fu determinante.

707 Boyz
Nel 1990, con l’EP firmato 707 Boyz, si apre la carriera discografica di Enrico Mantini

La tua prima produzione fu siglata 707 Boyz, pseudonimo che ti vide in azione insieme a Fabrizio Cini. In quell’occasione chi fece cosa?
Nel 1989 il mio setup era composto da un sintetizzatore Roland D-5, un campionatore Akai S950 e un sequencer Kawai Q-80. Completai i primi due brani a casa, “Freedom” e “Emotions”, testandoli in discoteca: funzionavano ma le proporzioni tra i volumi necessitavano di essere riviste e al tempo non avevo ancora competenze come sound engineer così, tramite, un amico, entrai in contatto con lo studio di registrazione in cui lavorava Fabrizio Cini, il Bess Studio a Montesilvano. La sua preparazione in termini di fonia era notevole ma soprattutto era un validissimo chitarrista e tastierista. Ci mettemmo subito a lavorare insieme su nuovi brani creando “Track F..K” e “Prototype” coi quali completammo l’EP. In studio a disposizione avevamo un’ampia scelta di sintetizzatori e anche tre batterie elettroniche, nello specifico una Roland R-8, una Roland TR-707 e una Yamaha RX15. Quando dovemmo scegliere un nome di fantasia col quale proporre i brani optammo per 707 Boyz visto che la Roland TR-707 era l’unica tra quelle drum machine di cui non avevamo capito a fondo il funzionamento della sezione di sequencing. Non approfondimmo mai sino al momento in cui in studio arrivò una TR-909.

A pubblicare il disco, oggi ricercato sul mercato dell’usato forse grazie al recente inserimento di “Emotions” in uno dei volumi della raccolta “Welcome To Paradise”, è la DJ Tendance Records la cui esistenza è circoscritta proprio a quell’uscita. Perché un’apparizione episodica?
Una volta completati i quattro brani, iniziammo a contattare varie etichette con l’auspicio di poter firmare presto un contratto discografico. Col nastro a bobina da 1/4 di pollice sotto il braccio, cominciammo il pellegrinaggio a Milano per fare ascoltare i master. Bussammo alla Discomagic di Severo Lombardoni, alla New Music International di Pippo Landro e alla Non Stop dove ci imbattemmo in Fabrizio Gatto (intervistato qui, nda). La strada fu lunga, tortuosa e tutta in salita, la Non Stop ci “rimbalzava” sistematicamente accampando futili scuse. Purtroppo non conoscevamo nessuno nell’ambiente discografico e la situazione era in stallo. A quel punto il compianto Nino D’Angelo, titolare del Bess Studio che aveva già finanziato la produzione dei brani e tutti i viaggi a Milano, alla luce delle spese già sostenute sino a quel momento decise che sarebbe stato meglio, e soprattutto più economico, che il disco lo avessimo pubblicato noi. Non avendo un marchio col quale proporre l’EP, creammo per l’occasione la DJ Tendance Records. Così, con mille copie nel bagagliaio, tornammo alla Non Stop chiedendo solo di distribuire il prodotto. Appena uscito, il disco suscitò l’interesse di Stefano Secchi che inserì “Freedom” nella classifica di Radio 105. Finalmente potevo considerarmi un produttore musicale.

Credo che in Italia la mancanza di voci inglesi madrelingua abbia limitato lo sviluppo della house in direzione garage ma nel contempo, per i produttori nostrani, quella tara rappresentò uno stimolo per elaborare intriganti variazioni strumentali. Concordi con questa interpretazione?
Sono d’accordo con quanto affermi. Il fatto di optare per forme strumentali fu dettato soprattutto dalla mancanza di voci e dall’assenza di budget. Sino a quando un pezzo restava strumentale, era fattibile portare avanti composizione, arrangiamento e missaggio interamente a casa, con spese tutto sommato contenute. Con un investimento pari a qualche decina di milioni di lire si poteva disporre di un proprio studio di registrazione. Per me, nello specifico, avere uno studio personale mi consentì di essere artisticamente molto prolifico e di tradurre di continuo le idee in musica. La scelta dei suoni, nel mio caso, non dipese tanto dall’hardware utilizzato (gran parte li realizzavo all’interno del campionatore) bensì dalla sperimentazione, influenzata dalla fascinazione esercitata dal sound americano.

Smooth Sounds
Il logo della Smooth Sounds

Nel 1992 è tempo dei tuoi primi dischi firmati col nome anagrafico, “Smooth Sound Start One” e “The Maze”, entrambi su Smooth Sounds, etichetta affiliata alla MBG International Records di Giorgio Canepa. Perché il marchio non proseguì il cammino dopo quella doppietta?
Verso la fine del 1991, tramite un amico, conobbi Giorgio Canepa a Rimini e gli feci ascoltare quattro brani che avevo composto con Arnaldo Guido. Gli piacquero molto e decise di pubblicarli sulla sua etichetta, la MBG International Records, in “Brainstorm”, il primo EP di Deep Choice a cui poco tempo dopo seguì “Time + Space” di Nuclear Child. Con quel disco nacque la nostra collaborazione e, vista la mia creatività in continuo fermento che mi permetteva di comporre quotidianamente nuovi brani, decidemmo di fondare insieme una nuova etichetta discografica attraverso la quale avrei potuto pubblicare anche cose un po’ diverse rispetto a quelle che lui convogliava solitamente su MBG International Records. Nacque così la Smooth Sounds, accompagnata da un’idea grafica di Marco Fioritoni alias DJ Dsastro che con me compose parte dei brani confluiti nelle due pubblicazioni. Ero particolarmente stimolato dalle collaborazioni artistiche che mi consentivano di confrontarmi con altri e spaziare nel suono rispetto a quella che era la mia personale visione di musica. Purtroppo il sodalizio con Canepa non durò a lungo a causa di divergenze sul piano economico e così, nell’arco di un paio di anni, il progetto Smooth Sounds venne accantonato.

Uneasy EP
“Uneasy EP” inaugura il catalogo della Groove Sense Records (1993)

Come ricordi invece la Groove Sense Records, partita nel 1993 con “Uneasy EP” e distribuita dalla pugliese Marcon Music? Cosa significava, ai tempi, mandare avanti un’etichetta discografica di quel tipo?
Avviai la Groove Sense Records con Pietro De Rosa, sulla base dell’esperienza fatta con Smooth Sounds. In principio fummo noi a finanziare la stampa dei dischi, con la Flying Records che ne curava la distribuzione. Dovevamo anche occuparci della promozione quindi inviavamo comunicati stampa via fax alle varie testate giornalistiche di settore e ci sinceravamo di persona o al telefono che venissero prese in considerazione. Il lavoro da svolgere era davvero tanto se si considera che io e Pietro eravamo anche artisti di ogni singola pubblicazione. A partire dalla seconda uscita firmammo un fortunato, e per l’epoca pionieristico, contratto di produzione e distribuzione (P&D) con la Marcon Music tramite il quale riuscimmo a concentrarci maggiormente sull’aspetto artistico sgravandoci dagli impegni meramente gestionali, continuando comunque a curare di persona la promozione dell’etichetta. Il sodalizio con la Marcon Music andò avanti sino al 1995, anno in cui l’industria legata al disco in vinile cominciò a rivelare i primi segni di cedimento in Italia mietendo le prime “vittime” tra cui la stessa Marcon Music finita in bancarotta. Decidemmo quindi di stoppare momentaneamente l’etichetta nell’attesa (e speranza) che le sorti del mercato mutassero in meglio.

Il 1992 è l’anno in cui, col primo volume di Transitive Elements, parte la collaborazione con la napoletana UMM. Come rammenti la sinergia stretta con l’etichetta ai tempi guidata artisticamente da Angelo Tardio e a cui abbiamo dedicato qui un’ampia monografia?
Arrivai a UMM tramite Ivan Iacobucci con il quale avevo co-prodotto “All Night” pubblicato per l’appunto dall’etichetta campana nel 1991. Al tempo ero attivo anche come DJ e beatmaker nell’hip hop italiano con artisti come Lou X e C.U.B.A. Cabbal. Proprio attraverso quest’ultimo un giorno mi ritrovai nella sede della Flying Records con l’intento di fare ascoltare delle demo di musica rap. Con me avevo portato anche un DAT pieno di house music così chiesi a chi avrei potuto sottoporre quel tipo di materiale. Mi accompagnarono nell’ufficio di Angelo Tardio che, dopo aver speso un’ora buona a sentire alcuni dei miei pezzi, mi chiese di lasciargli quel DAT perché c’erano troppe cose che gli piacevano e le avrebbe volute ascoltare con calma. Nei giorni successivi quindi scelse sei tracce che confluirono nel primo volume di Transitive Elements (co-prodotto con Argentino Mazzarulli, nda). Da quel momento, in completa sinergia artistica, cominciai a mandargli di continuo brani e tra di noi si instaurò un rapporto di rispetto e fiducia reciproca, al punto che tutta la musica che sottoponevo alla sua attenzione venisse puntualmente stampata su UMM. Vista la quantità di brani, optammo per più alias al fine di evitare di inflazionare le uscite e la stessa etichetta e fu allora che decisi di debuttare col mio nome di battesimo.

In studio hai alternato avventure soliste a progetti tandem, come Mood 2 Create, High Fly, The White Fluid o Stinkingmen. Quali sono i pro di lavorare a quattro mani?
Come anticipavo prima, il maggior vantaggio di collaborare in studio con altre persone è poter varcare i propri confini musicali e aprirsi a nuovi orizzonti compositivi e stilistici. È fondamentale quando si è particolarmente attivi e non si vuole restare intrappolati nelle proprie idee.

È opinione comune pensare agli anni Novanta come il decennio creativamente più prolifico per la dance elettronica nelle sue innumerevoli declinazioni. Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando a quegli anni?
Sono tantissimi ma senza dubbio a lasciare un ricordo indelebile in me sono stati “Waterfalls (3 A.M. Mix)” di After Hours alias Andrew Richardson, una delle tracce deep house più belle di sempre, poi “Stuck In The Middle (Mo’ Deep For Sticky Stewart Mix)” di DJ Duke, col suo elegante e ipnotico riff di organo, e “Music Harmony And Rhythm”, fortunata collaborazione tra Giorgio Canepa e Ricky Montanari siglata con lo pseudonimo Optik, un brano del 1991 che, dopo più di trent’anni, mi fa ancora venire la pelle d’oca.

dalla sessione di What U Want nel 1994
Due scatti che immortalano Enrico Mantini in studio durante la sessione di registrazione di “What U Want”, pubblicato su UMM nel 1994

Lasciandoti alle spalle altre produzioni sulla romana Lemon Records e sulla barese Marcon Music, nella seconda metà degli anni Novanta viri verso la drum n bass col progetto The Fast Runna: forse la house ti aveva stancato e sentisti la necessità di esplorare nuovi territori?
Nel 1996 mi trasferii a Londra per alcuni mesi e lì scoprii il fenomeno della drum n bass. Ne rimasi letteralmente rapito al punto che, al mio rientro in Italia, iniziai a comporre tracce in quel genere e fare saltuariamente serate come DJ proponendo solo drum n bass. Il venir meno di realtà come Marcon Music prima e Flying Records poi, unitamente all’avvento della disco house che non gradivo in modo particolare, mi spinsero a mettere temporaneamente da parte la house per dedicarmi a qualcosa che trovavo più stimolante. Col progetto The Fast Runna entrai in contatto con vari musicisti e gettai le basi per avventure più entusiasmanti e gratificanti. Realizzammo un intero album e lo mandammo alla Irma Records. Umbi Damiani propose di inserire alcuni brani in delle loro compilation jungle per poi pubblicare l’intero LP più avanti, cosa che però non avvenne mai visto che in Italia il fenomeno drum n bass si consumò troppo rapidamente.

Le funkeggianti “Find It/Vibes In Bahia” di Riviera Kids, che realizzi con Alessandro Marini nel 2000, sembrano calare il sipario: tornerai a incidere nuovi brani a tuo nome parecchi anni più tardi, nel 2008, con la Sweetleaf Recordings che fondi e tieni in vita sino al 2012 con l’intenzione di sondare il mercato delle pubblicazioni digitali che, nel frattempo, prendono piede in modo definitivo. Che idea ti sei fatto del mercato (o presunto tale) legato ai download?
Dal 1997 al 2000 lavorai in giro per l’Italia nel ruolo di fonico per artisti come Taglia 42, Biagio Antonacci, Ian Paice e Issac Delgado, mettendo a frutto il diploma di sound engineer conseguito nel 1993. Un giorno incontrai Alessandro Marini, amico di adolescenza, e per gioco provammo a buttare giù le idee per due brani. Era il periodo in cui tornai a dedicarmi allo studio del basso elettrico e infatti in quei pezzi l’elemento portante era proprio quello. Il caso volle che, una volta fatte girare le demo, saltasse nuovamente fuori Fabrizio Gatto che si offrì di pubblicarle su una delle tante etichette del gruppo Dancework, la Clubnoize Records. Il disco iniziò a circolare suscitando molto interesse e guadagnandosi presto il supporto di diversi DJ di rilievo, tra cui David Morales, che di fatto ne fecero un piccolo club anthem negli Stati Uniti. Correva il 2000 e la resa di quella produzione mi convinse a tornare a occuparmi di house music per le etichette britanniche Dirty Blue Records e Rated-X e per l’italiana Sound Division, nascosto dietro vari pseudonimi. Pubblicai pure un paio di bootleg in white label di cui uno di una famosa hit di Sterling Void. Non mi sono mai fermato del tutto insomma e nel 2005, dopo aver conosciuto Davidson Ospina, Hector Romero e Keith Thompson, abbracciai il filone soulful e iniziai a pubblicare in digitale per etichette statunitensi, sondando quello che poi sarebbe diventato lo standard della fruizione discografica. Il periodo che va dal 2005 al 2008 fu determinante per l’acquisizione delle capacità che mi consentono tuttora di gestire con successo la distribuzione in formato digitale. Durante quel triennio ero spesso negli Stati Uniti a esibirmi come DJ ma soprattutto per imparare il modello di business grazie a personaggi chiave come Kevin Green che dalla Gossip Records passò a lavorare in Beatport. Il mercato del download è decollato in modo definitivo nel 2010, supportato da realtà parallele come Bandcamp. La Sweetleaf Recordings venne fondata nel 2008 unitamente a uno studio di registrazione con l’intento di abbracciare il filone minimale che mi vide collaborare nuovamente con Ivan Iacobucci (di cui parliamo qui, nda), ai tempi impegnato pure lui con un’etichetta digitale, la Smoke Joke Records. Negli ultimi anni assistiamo a un’ulteriore virata del mercato verso lo streaming che sta soppiantando l’ormai obsoleto download. L’alternarsi delle tecnologie ha reso sempre più facile la fruizione della musica rendendone però più difficile la monetizzazione da parte di artisti e case discografiche.

Sweetleaf Recordings 001
Col “Changes EP” del 2008 Mantini ricomincia ad apparire sul mercato discografico con regolarità

Da una quindicina di anni a questa parte hai ripreso a pubblicare musica a pieno regime: c’è stato qualcuno o qualcosa a darti la giusta spinta?
Intorno al 2009 ho cominciato a ricevere messaggi tramite i social network da parte di fan intenti a riscoprire la mia discografia degli anni Novanta. Ricordo con piacere un giovanissimo Sammy, poi esploso artisticamente come Brawther, e Jeremy Underground che mi scrissero informandomi che i miei vecchi dischi su UMM fossero tra le loro fonti di ispirazione. Nel 2012 conobbi Thomas Franzmann alias Zip che mi confessò di suonare spesso le mie produzioni. Grazie a un catalogo molto ampio e soprattutto alle tante collaborazioni di quegli anni, il mio repertorio spaziava dalla deep house più classica alla techno, per cui accadde in modo naturale che più DJ attivi in stili completamente differenti, si ritrovassero a supportare i miei vecchi lavori, destando l’interesse del pubblico e delle case discografiche. Le richieste di ristampa non tardarono ad arrivare e mi sono fatto trovare pronto con nuove produzioni vincendo la diffidenza di chi, in un primo momento, non credeva fossi ancora in grado di tenere botta.

I tempi sono propizi anche per lanciare nuove etichette, la Veniceberg Records, la PURISM, la Down Da Mountains e la Bold Choices. Con quali finalità e progettualità porti avanti il loro iter e, soprattutto, oggi quanto è complesso tenere in vita piccole label indipendenti?
Dopo aver ricevuto varie proposte di P&D da parte di alcuni distributori e visto il ritorno in auge del vinile, nel 2014 ho deciso di avviare nuovi progetti discografici. A eccezione di Down Da Mountains e Bold Choices, che sono outlet a esclusivo uso personale, Veniceberg Records promuove il sound del club dando voce a vari artisti mentre PURISM mira esclusivamente a scoprire nuovi talenti che affondano le radici nell’old school. Grazie agli accordi di produzione e distribuzione, il lavoro da svolgere si è decisamente semplificato rispetto a quello di trent’anni fa. Attualmente il mercato del vinile sta subendo una nuova flessione causata dal difficile scenario economico e gran parte dei diggers è alla ricerca di novità su Bandcamp. Anche in questo caso mi sono mosso in anticipo mettendo online il mio vecchio catalogo completamente rimasterizzato già dal 2017.

Parecchie delle tue pubblicazioni più recenti gravitano intorno a tracce prodotte nei primi anni Novanta ma rimaste nel cassetto e a ristampe di EP del tuo repertorio, difficilmente reperibili sul mercato dell’usato. Sembra che la fascinazione della musica retrò oggi stia avendo la meglio, sono tantissimi infatti i giovani che si dedicano alla composizione con lo scopo di somigliare il più possibile ai decani di house/techno di ieri, ricorrendo anche a strumenti che possano rendere più verosimile il risultato finale. Questa perdurante voglia di passato sta forse sottraendo energie per scoprire e immaginare traiettorie nuove come invece avveniva quando hai iniziato tu?
Decisamente sì. L’estrema facilità con cui è possibile fare musica oggi ha impoverito la mente al punto da intaccarne la creatività.

Mantini dj set
Enrico Mantini in consolle pochi anni fa

La retromania teorizzata da Simon Reynolds ha conquistato anche il mercato discografico, sistematicamente inondato da ristampe di ogni genere e tipo: i reissue stanno erodendo spazio e terreno alle nuove uscite?
Sì, l’offerta di ristampe e produzioni ispirate al passato è maggiore rispetto a quella di nuovo materiale originale. L’essere pionieri e il percorrere strade non battute ormai è una prerogativa di pochi. Nel 2012 c’è stato un momento in cui ho fatto fatica a pubblicare materiale nuovo, tutti preferivano andare sul sicuro con le ristampe. A quel punto quindi mi sono imposto negandole e proponendo materiale inedito. In seguito, viste le innumerevoli e continue richieste nonché l’incontenibile retromania dilagata in tutti i settori, mi sono dovuto arrendere. Paradossalmente, utilizzando vecchio materiale inedito che mai avrei creduto di poter pubblicare, ho fatto decollare la mia pagina Bandcamp e ho ceduto in licenza parte degli inediti che hanno poi meritatamente conquistato la stampa su vinile.

Tra gli innumerevoli filoni riscoperti nell’ultimo decennio c’è pure quello della house italiana, glorificata da raccolte come “Italo House” di Joey Negro (2014), la citata “Welcome To Paradise” di Young Marco e Christiaan Macdonald (2017), “Paradise House (Deep Ambient Dream Paradise Garage House From 90’s)” di Don Carlos (2018) ed “Echoes Of House (Italo House Foundamentals Tracks)” di Ricky Montanari (2019), a cui si è aggiunta più recentemente “Ciao Italia – Generazioni Underground” di cui parliamo qui. Quanto era complesso, per la house underground nostrana, imporsi all’estero negli anni Novanta?
Ho avuto la fortuna di approdare in UMM che ha reso credibile la mia musica anche oltre i confini ma ai tempi erano ben poche le etichette italiane in grado di penetrare il mercato straniero a eccezione delle realtà più commerciali. Complice la scena musicale italiana, esterofila da sempre, non siamo mai riusciti a porci nello stesso modo in cui giungevano qui le produzioni estere. A tal proposito, intorno al 1993 scoprii che mentre in Italia la mia musica risultava essere troppo minimale, grezza e poco melodica, gli americani riservavano a essa un ascolto ben più attento, forse anche grazie al fenomeno UMM che stava scoppiando proprio in quel momento. Capitava spesso che DJ come David Camacho, Louie Vega, Kenny “Dope” Gonzalez o Roger Sanchez fossero ospiti in club italiani e proponessero brani miei a differenza dei connazionali che li scartavano dalle proprie selezioni, eccetto Ricky Montanari e Flavio Vecchi (di cui parliamo qui e qui, nda), pionieri e visionari da sempre.

Ha ancora senso parlare di underground nel 2023?
No, e non ha più senso parlarne già da un po’ di anni a questa parte. Le nuove generazioni perseguono obiettivi artistici e fanno musica per target specifici muovendosi all’interno di un sistema ben definito, nulla di più lontano dal concetto di underground.

Circa sei mesi fa hai annunciato l’interruzione dell’attività da DJ e produttore house: quali ragioni ti hanno convinto a smettere?
Non ricevendo più stimoli dall’attuale scena legata al clubbing, ho deciso di abbandonare sia il DJing che la produzione di musica dance per intraprendere una nuova sfida artistica e voltare completamente pagina. La musica house mi ha dato tante soddisfazioni ma non me la sento di insistere in qualcosa che non mi appaga più. Al momento sono impegnato come musicista e produttore in un nuovo progetto che fonde jazz e funk in chiave elettronica, affiancato da musicisti di caratura nazionale.

Il prezzo da pagare per la consacrazione a livello generalista del DJing è stato piuttosto alto visto che per certi versi l’attuale “DJ rock star” è solo una parodia di quello che in origine era il DJ, in primis perché il divismo e il DJing non avevano punti in comune ma oggi sono legati a doppio filo. Al netto della nostalgia e da discorsi facilmente tacciabili di boomerismo, come ti poni rispetto a questa evoluzione o presunta tale?
Sino a quando ho messo dischi come DJ, l’ho fatto alla vecchia maniera, zero divismo e senza prendermi cura del look ma per pura passione e divertimento. Mi rendo conto però, visto il trend generale, che figure come la mia probabilmente suscitano poco interesse nelle generazioni attuali.

Come immagini le discoteche e il relativo pubblico del 2050?
Non mi sono mai soffermato a pensarci, preferisco sia una sorpresa.

E i DJ invece? Esisteranno ancora?
È difficile dirlo. La figura del DJ è fondamentale all’interno del club ma è anche vero che l’avvento dell’intelligenza artificiale sta mettendo in seria discussione tante professioni e il DJing potrebbe essere tra queste. Non essendoci più “anima” nell’attuale musica da club, è probabile che, in un futuro non così lontano, il compito di selezionare brani e miscelarli con successo verrà affidato a un computer.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Alessandro Tognetti

Alessandro Tognetti discollezione 1
Una panoramica della collezione di dischi di Alessandro Tognetti

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
I primi che ho comprato erano dei 45 giri di celebri artisti, Pink Floyd, Renato Zero, Lucio Dalla, John Travolta & Olivia Newton-John. Tra quelli anche “A Me Mi Piace Vivere Alla Grande” del prematuramente scomparso Franco Fanigliulo, un mio compaesano che portò il brano al Festival Di Sanremo nel 1979 suscitando un piccolo scandalo dovuto al testo.

L’ultimo invece?
Per mia figlia ho comprato “Exuvia”, il doppio di Caparezza, per me invece una ventina di mix degli anni Ottanta che mi mancavano.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Ne ho circa dodicimila ma non sono in grado di calcolare l’equivalente speso. Non ho mai pensato a quanti soldi abbia investito in vinile, prima ero un semplice appassionato ascoltatore che comprava dischi per se stesso, poi è diventata una professione ma ho continuato ad acquistarli anche per puro piacere personale e non solo per soddisfare le esigenze lavorative.

Come è organizzata la tua raccolta? La hai indicizzata secondo un metodo?
Ho seguito varie classificazioni, per autore, titolo, anno, etichetta, locale in cui suonavo… ormai conosco la posizione occupata dai dischi di quasi tutta la mia raccolta.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Saltuariamente li spolvero e lavo facendo molta attenzione. Quelli più importanti sono protetti da copertine plastificate.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo sì. Nel 1991 prestai circa settanta dischi a un amico a cui furono rubati. Col tempo li ho ricomprati quasi tutti.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno, per me sono tutti importanti.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti volentieri?
A volte si sbaglia nel fare acquisti ma non li rinnego e li tengo comunque per me.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una somma importante?
Sono in cerca soprattutto di dischi usciti negli anni Ottanta ma non faccio pazzie, posso vivere anche senza.

Quello con la copertina più bella?
“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles.

Credo che Muzak e Good Music, rispettivamente a La Spezia e Genova, siano stati due dei negozi di dischi che hai frequentato più assiduamente. Che ricordi ti riaffiorano ripensando a essi?
A Muzak e Good Music aggiungerei pure Dee Jay Doc a Ponsacco (di cui parliamo qui, nda). Quando arrivavo in negozio trovavo la mia “casella” coi dischi che il rivenditore aveva già scremato per me. Accendevo il piatto e iniziavo la selezione. Per molti anni mi recavo a Londra per fare acquisti, almeno una volta al mese. Dopo l’uscita di “Naked” su UMM, nel 1992, i negozianti d’oltremanica iniziarono ad avere un occhio di riguardo per me visto che il pezzo divenne una hit nei locali più cool della capitale britannica.

Tognetti con le produzioni
Tognetti con le sue prime produzioni discografiche, “Last Day”, “Naked” e “Different Places” di Man Myth Magic

Incidi il tuo primo disco nel 1992, “Last Day”, oggi particolarmente ricercato dai collezionisti. Cosa provava un DJ come te, negli anni in cui la discografia house/techno era ancora legata a una sorta di artigianato, nel vedere il proprio nome abbinato a una produzione discografica?
“Last Day” fu un parto, non finivamo mai di modificarlo. Ero alla mia produzione di debutto quindi un novizio. Lo realizzai nello studio di Leo Rosi a Serricciolo, vicino al Duplè. In quel periodo vivevo la favola di quel locale, Leo invece era un grande musicista dall’imprinting marcato che produceva sin dai tempi dell’italo disco. Rappresentavamo due mondi che si scontravano, campionamenti ossessivi contro melodie. Alla fine uscì un prodotto che a distanza di trent’anni continua a essere ricercato, basti vedere le quotazioni su Discogs. Abbiamo ricevuto parecchie richieste per ristamparlo, analogamente a quanto è avvenuto un anno fa con “Different Places” di Man Myth Magic.

Dopo “Last Day” arriva il citato “Naked”, prodotto nello studio di Alex Neri e Marco Baroni e di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui, che finisce nel catalogo di una delle etichette più importanti del periodo, la napoletana UMM. Incidere per una label di quella caratura cambiò qualcosa nella tua carriera da DJ?
Così come accennavo prima, “Naked” divenne una club hit nel Regno Unito, tuttavia fu snobbato da molti DJ “underground” (ai tempi si chiamavano così). Forse avevano ragione però la versione col sax, la Sax At Work, la suonavano in tanti, anche la domenica. La UMM (a cui abbiamo dedicato qui una monografia, nda) era una label che destò interesse a livello europeo e questo mi aiutò ulteriormente a trovare spazio nel mercato italiano. Poi, il fatto che l’avessi realizzato nello studio di Neri e Baroni, rappresentò un’ulteriore garanzia.

A chiudere l’ideale trilogia di matrice house è “Different Places” di Man Myth Magic, disco che realizzi con Mario Più e Franco Falsini (intervistato qui) per l’etichetta di quest’ultimo, l’Interactive Test, e per il quale, come raccontasti anni fa, si prospettò un remix degli Underworld. A distanza di ormai un trentennio è stato ristampato dalla Chroma, analogamente a una miriade di produzioni passate inosservate al momento della pubblicazione originaria ma trasformate in cult dall’incedere del tempo. La propensione per il recupero di materiale d’antan, ormai sfociata in ossessione a giudicare dalla quantità piombata sul mercato, è forse un segnale che la creatività in generi come house e techno si sia esaurita?
I dischi belli resistono al passare del tempo, non ho dubbi. Non saprei dire però se questa dei recuperi di materiale d’archivio sia solo una moda del momento o se invece durerà, vedremo.

Dal 1995 in avanti proietti l’attività discografica verso dimensioni progressive, un genere che, come tu stesso raccontavi diversi anni fa, era considerato di serie b da riviste e radio. Da cosa derivava tale disprezzo?
La progressive fu un fenomeno nato in contemporanea tra la Toscana e la Gran Bretagna. I DJ che suonavano o producevano quel genere venivano puntualmente snobbati dai fighetti della house ma acclamati dal pubblico che divenne sempre più numeroso. Italia Network, l’emittente che in quel periodo nel nostro Paese faceva il bello e il cattivo tempo per certa musica, difficilmente passava dischi progressive, secondo me sbagliando. Non saprei indicare le ragioni per cui avvenne ciò.

Tognetti dischi
Una parte dei dischi di Tognetti

Negli anni Novanta molti locali italiani creano una forte fidelizzazione del proprio pubblico: c’è chi è disposto a sobbarcarsi centinaia di chilometri pur di sentire il proprio DJ preferito e non manca persino chi organizza trasferte in pullman per raggiungere le agognate mete. A fare la fortuna di queste discoteche sono i DJ resident, soprattutto in Toscana, idolatrati da folle di giovani. Con l’affermazione degli special guest però, provenienti in primis dall’estero, cambia tutto, e tanti DJ resident si ritrovano depauperati del loro ruolo, ridotti a banali “warmuppisti” da avidi booker e dalla “divizzazione” di personaggi la cui notorietà non sempre è pari alla capacità in consolle. Gli imprenditori e gli art director italiani hanno sbagliato qualcosa?
Nel periodo di boom il pubblico andava nei locali per sentire due DJ suonare per cinque ore. Poi i DJ divennero cinque per suonare un’ora a testa. I gestori pensarono di poter aumentare l’affluenza semplicemente raddoppiando o triplicando i nomi sui flyer. Fu un errore madornale che ruppe la magia.

I popolarissimi DJ che si esibiscono di fronte a folle oceaniche con movenze da ballerini, intenti a pigiare continuamente tasti e ruotare manopole senza un apparente valido motivo, sono il risultato di una spettacolarizzazione con cui il DJing in principio non aveva alcun punto di contatto. Il fatto che oggi buona parte del pubblico preferisca riprendere il tutto col proprio smartphone anziché ballare è un segno indicativo che sia cambiato qualcosa nel rapporto con la musica?
Negli ultimi anni vedo bravissimi DJ old school (ne cito due su tutti, Sven Väth e Francesco Farfa) che rimangono tra i top, ma nel contempo sono emersi tanti “DJ ballerini”, sia uomini che donne, e la cosa mi fa sorridere. Il panorama attuale però pare offrire proprio questo tipo di prodotto che sembra funzionare.

Credi ci siano radicali differenze tra coloro che partecipavano alla Love Parade ed eventi simili organizzati negli anni Novanta e quelli che ora vanno in visibilio per il Tomorrowland?
Anche in questo caso è un discorso legato ai tempi che viviamo. Al momento questa formula funziona ma preferisco non commentare.

Tra le centinaia di locali in cui hai lavorato ci sono stati il Duplè, l’Insomnia e l’Imperiale, rimasti impressi a fuoco nella memoria di un’intera generazione che oggi ne parla, con parecchia nostalgia, come fenomeni irripetibili. Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando a ognuno di essi?
Procedo in ordine cronologico partendo dal Duplè nel biennio 1991-1992: “Moog Eruption” di Digital Orgasm, che molti ricordano come “Disco Duplè ’91”. Lo proponeva Roby J nell’estate di quell’anno e alla riapertura del locale, a settembre, lo faceva suonare a me; “Long Wave” di New Latin Age, un capolavoro di Giorgio ‘MBG’ Canepa che mi ricorda ancora Roby J. Conservo gelosamente una cassetta con su inciso questo brano; “No Fate” di Zyon, un pezzo che mi rappresentava molto e che proposi per diversi mesi.
Insomnia, 1992-1993: “Wow! Mr. Yogi (Control The Mind)” di The Overlords, un disco che scartai la prima volta che l’ascoltai, per ricredermi però una settimana dopo; “Sugar Daddy” di Secret Knowledge, che presi a Londra in formato promozionale e fu un successo immediato, un autentico viaggio progressivo; “The Sheltering Sky” di Cosmo Vitelli che possiedo in doppio promo, solo per intenditori.
Imperiale, 1994-1995: “Saxomatic” di Aldrin Buzz, un pezzo marchiato con un buffo nome che parodiava quello del secondo uomo che mise piede sulla luna, l’astronauta Buzz Aldrin; “Mystic Force” di Mystic Force, una produzione su cui c’è davvero poco da dire, un capolavoro assoluto; “Hymn” di Moby, che credo di essere stato tra i primi a suonare quando era ancora un promo.

Nel 2018 hai pubblicato il tuo primo libro, “Un Esercito Senza Divisa”, a cui due anni dopo è seguito “Una Tribù Che Balla”: come ti sei ritrovato nella dimensione da scrittore? Conti di dare un seguito alle opere in un prossimo futuro?
Vedere pubblicato il mio primo libro mi ha fatto rivivere la stessa emozione provata quando uscì il mio primo disco. Non avrei mai pensato di scrivere un romanzo, in realtà doveva essere una sorta di trattato storico ma poi mi sono accorto che un autore aveva pubblicato un libro impeccabile sullo stesso argomento e il progetto rimase fermo per un mese. Una notte sognai Roby J, mio grande amico nonché incredibile DJ con cui ho avuto la fortuna di condividere le migliori consolle. In quel sogno mi suggerì di scrivere un romanzo e mi spronò ad andare avanti nel mio proposito di scrittura. La mattina mi svegliai felice ma perplesso. Decisi di seguire il suo consiglio e, come sempre, aveva ragione lui. “Una Tribù Che Balla”, alla fine, si è rivelato una sorta di romanzo giallo che si intreccia con una storia nelle discoteche degli anni Novanta. È stato un grande successo anche se un paio di colleghi hanno detto che è troppo autocelebrativo. Colgo quindi l’occasione per precisare che non è stato scritto per far vedere quanto fossi bravo, ho usato il mio nome solo perché ho vissuto in prima persona molte, o forse tutte, le vicende raccontate. Il vero protagonista del romanzo in realtà è il pubblico delle serate nei club che si è riconosciuto e ha apprezzato il libro. Al momento sto lavorando al seguito di “Una Tribù Che Balla” ma con la pigrizia che mi contraddistingue quindi non so quando uscirà.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegando le ragioni.

Orbital - IIIOrbital – III
Il disco comprendeva tre tracce, “Satan”, “L.C.1” e “Belfast”, che proponevo puntualmente durante la mia esperienza all’Imperiale nel 1991, quando il locale faceva il famoso Mezzanotte-Mezzogiorno con un pubblico che permetteva di sperimentare sonorità veramente all’avanguardia.

Ecstasy Boys - Seven Steps To HeavenEcstasy Boys – Seven Steps To Heaven
Rischio di essere monotono ma pure questo disco, pubblicato dalla newyorkese Quark, mi ricorda Roby J: glielo sentii suonare al Barattolo, una discoteca a Marina di Pietrasanta, in Versilia. Ai tempi serviva molto coraggio per proporre un brano di questo tipo, da veri intenditori.

Tune - Change The BeatTune – Change The Beat
Comprai “Change The Beat” a Modena, al Disco Inn in Via Don Minzoni, e nel 1991 divenne uno dei pezzi che caratterizzava quasi tutti i miei DJ set. Un paio di anni dopo, insieme a Gianni Bini (intervistato qui, nda) e Leo Rosi, realizzai persino una cover, “After Tune” di 2 Matrix, su etichetta Whirlpool, che contava su un inserimento vocale. La traccia originale, pubblicata dalla belga R&S Records e composta dall’olandese Jochem Paap meglio noto come Speedy J, girava appena su sei suoni ma l’effetto creato in pista era fantastico.

Phenix - RevelationsPhenix – Revelations
Un 12″ sulla Atmosphere Records di Frankie Bones che, con pezzi come “The Final Conflict” e “Overture”, proietta immagini degli after hour al Duplè allo stato puro. Ottima anche la traccia che chiudeva il lato b, “Clockwise”, in cui l’autore campionò alcune voci dal film “Blade Runner”. Sicuramente uno dei dischi che ho suonato di più durante l’estate del 1991.

Interdance - Vol. 1Interdance – Vol. 1
Acquistato e proposto assiduamente nel 1990, divenne una club hit l’anno successivo. Delle quattro tracce incise, quella che preferivo era “B.O.A.C.”, la prima del lato b. Un’ottima produzione italiana del BHF Team formato da Paolo Bisiach, Christian Hornbostel e Mauro Ferrucci (questi ultimi due intervistati rispettivamente qui e qui, nda).

Don Carlos - AloneDon Carlos – Alone
Non saprei come definire propriamente “Alone” (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda), sicuramente era tra quelli che mi aiutavano a creare atmosfera. Edito nel 1991 dalla bolognese Calypso Records, sottoetichetta della Irma, fu realizzato da Carlo Troja mescolando ritmi house con sonorità jazz afroamericane e con qualche occhiata alla disco.

Flow - Another TimeFlow – Another Time
“Another Time” era un disco-viaggio capace di uscire dal genere strettamente house proposto dall’etichetta che lo pubblicò nel 1992, la Bottom Line Records di New York fondata da Edward Goltsman. Senza alcun dubbio, uno dei miei dischi preferiti di sempre.

Olimpo - Free Your MindOlimpo – Free Your Mind
Prodotto da Francesco Farfa e Joy Kitikonti (intervistati rispettivamente qui e qui, nda), “Free Your Mind” è un brano simbolo di una generazione, inserito nella ricercatissima “Insomnia Compilation” del 1994, selezionata da Antonio Velasquez e limitata alle appena 500 copie. Piccolo aneddoto: due tracce della tracklist furono realizzate anche da me, nonostante il mio nome non appaia nei crediti. “West Coast” di Solid Foundation lo composi con Fulvio Perniola e Ricky Le Roy scopiazzando un pezzo tratto dal catalogo della Guerilla di William Orbit e Disc O’Dell, mentre “Harmony” di Atlantis lo feci a quattro mani col solo Perniola.

Marvin Gardens - My Body And SoulMarvin Gardens – My Body And Soul
Quando proponevo questo disco al Duplè veniva giù il locale. Analogamente a quanto avvenuto per “Wow! Mr. Yogi (Control The Mind)” di The Overlords, scartai “My Body And Soul” (di cui parliamo dettagliatamente qui, nda) al primo ascolto: non mi piaceva la cassa e, per le sonorità che proponevo in quel momento, ritenevo che la parte vocale fosse fin troppo lunga. Mi sbagliai e la settimana successiva tornai in negozio per comprarlo.

Density - Yes (I Love You Baby)Density – Yes (I Love You Baby)
Una traccia tratta da uno dei tanti EP prodotti da Giorgio Canepa alias MBG, un altro capolavoro del DJ genovese. Ricordo con piacere quando lo proponevo nell’estate 1992 al Duplè e nei locali in cui suonavo, un brano che metteva felicità.

(Giosuè Impellizzeri)

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UMM, un’avventura memorabile

Block - Block
“Block” di Block, primo disco pubblicato dalla Flying Records nel 1988

Napoli, 1988: la Flying Records, con la sede al 25 di Via Santo Strato, a Posillipo, pubblica “Block” dell’artista omonimo, un brano a metà strada tra house e hip hop sul modello marrsiano proveniente dal catalogo della britannica Vinyl Solution e prodotto da Jonathan Saul Kane. È il primo tassello di un’incredibile avventura imprenditoriale che durerà circa un decennio e lascerà un profondo solco del proprio passaggio nella scena musicale italiana e non solo. Fondata da Flavio Rossi e Angelo Tardio, la società in accomandita semplice Flying Records opera inizialmente come distributore, importando musica dall’estero e ripubblicando in Italia alcuni titoli stranieri per cui nutre interesse, le “licenze”, allora strategiche e determinanti perché in grado, da un lato, di garantire prestigio, dall’altro, potenziali riscontri economici importanti. Il team della Flying Records brillerà presto sotto questo profilo rivelandosi scaltro nell’individuare con tempismo musica e artisti nuovi su cui scommettere e trasformare il tutto in opportunità di crescita. È il caso di “Let’s Play House” dei Kraze, giunto dopo la hit “The Party”, “Let There Be House” di Deskee, “Wiggle It” dei 2 In A Room e “3 Feet High And Rising”, primo album dei De La Soul. L’attività poi si consolida attraverso la produzione di musica inedita di artisti messi sotto contratto come Joy Salinas, Dino Lenny e Digital Boy, di cui parliamo rispettivamente qui, qui e qui: in breve Flying Records diventa una sorta di polo industriale, organizzato sul modello di grandi realtà estere e mosso da una vocazione che intreccia imprenditoria e creatività.

Tardio nel deposito Flying Records di Posillipo (intro)
Angelo Tardio nella prima sede della Flying Records a Posillipo (1989 circa)

I tempi per la musica da discoteca sono propizi, il mercato è letteralmente invaso da produzioni house e techno e i numeri lasciano intravedere un più che roseo futuro. Ciò permette la nascita e la proliferazione di un numero indefinito di etichette messe nella condizione di poter esprimere il proprio potenziale anche senza cercare necessariamente il consenso del grande pubblico. Questo avviene in virtù della fitta rete di DJ sparsi nel mondo disposti a supportare quel tessuto connettivo che si autoalimenta grazie a continue novità, nomi nuovi e inedite traiettorie stilistiche. La musica underground brulica nel sottosuolo e non ha affatto bisogno di essere gestita come quella delle multinazionali con ingenti investimenti in attività promozionali, tournée nazionali e internazionali o costosi videoclip. Gran parte dei mix è priva persino della copertina, rimpiazzata da generiche bianche o nere col buco centrale, economiche ma pratiche perché consentono ai DJ di consultare istantaneamente i titoli. In buona sostanza si tratta di musica che nasce e vive di passione, senza sovrastrutture legate al divismo da stadio pop/rock, immessa sul mercato talvolta macinando poche centinaia di copie ma a volte svariate migliaia, a seconda di particolari condizioni. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il nome degli autori è celato dietro alter ego di fantasia, totalmente anonimi, e questo rende il tutto ancora più viscerale perché disconnesso da fidelizzazioni di sorta, ma del resto la storia di generi come house e techno è ancora agli inizi e sono davvero pochi gli artisti a vantare repertori discografici di rilievo. Proprio in questa dimensione nel 1991, tra le mura della Flying Records, nasce UMM, acronimo di Underground Music Movement, l’etichetta che Angelo Tardio, ex DJ in discoteca, nelle radio private e con qualche esperienza sul piccolo schermo, crea con lo scopo di dare voce alla musica che più gli piace, non tenendo conto delle classifiche, delle esigenze e delle richieste del mercato mainstream, coperte invece dal brand omonimo del gruppo campano, Flying Records per l’appunto.

UR feat. Yolanda
“Living For The Nite” di Underground Resistance Feat. Yolanda, prima licenza messa a segno da UMM nel 1991

1991, fiammata rave
A tagliare il nastro inaugurale della UMM è un disco prodotto tra Perugia e Londra dai D.B.M., apparente duo formato da Kurt D.J. e Giulio Benedetti. Il brano si intitola “Real Dream” e pesca a piene mani dal repertorio ravey, con spezzettamenti ritmici breakbeat, voci campionate, pianate e qualche stab ad acuire la tensione. Simili le coordinate entro cui è inscritto “The Voice Of Rave” del progetto omonimo dietro cui armeggia il ligure Luca Pretolesi, giunto da poco alla Flying Records come Digital Boy. In rilievo uno dei pezzi sul lato b, “Raveology”, dove pulsa un groviglio di ritmo e bassline rivelando la sua potenza insieme a voci gutturali, probabilmente quelle dell’MC di Pretolesi stesso, l’americano Ronnie Lee, il futuro Ronny Money ed MC Rage di cui parliamo qui. Dopo una doppietta italiana sul piatto arriva la prima licenza messa a segno da Angelo Tardio, “Living For The Nite” degli Underground Resistance, un disco proveniente da Detroit dalle matrici house interpretato vocalmente da Yolanda Reynolds che riporta ai grandi successi ottenuti pochi anni prima da Kevin Saunderson e Paris Grey come Inner City. Tra i remix pubblicati a distanza di qualche settimana, oltre alla Deep In The Nite Mix approntata dallo stesso Tardio sotto l’alias Funk Master Sweat, due sono firmati da Digital Boy che così ripaga quello che gli Underground Resistance realizzano per la sua “This Is Mutha F**ker!”. Detroit è una parola di riferimento per chi ai tempi opera in ambito house/techno come Ivan Iacobucci, da Bologna: il suo EP, intitolato “Detroit 909” e firmato KGB, è un anello di congiunzione tra l’italo house sognante e più agitate partiture ritmiche. Alla delicatezza della title track si contrappone la ruvida “Scream (Wake Up!)” che riagguanta il mood rotolante di “Theme From S-Express” di S’Express con un graffiante vocal (di A Bitch Named Johanna?), e la percussiva “Bondage” sul lato b, con slanci technoidi. Chiari riferimenti al modello della musica rave si incontrano anche nell’EP di Tony Carrasco intitolato, per l’appunto, “Selections From The Rave”: il DJ newyorkese, con esperienze maturate al mitico Studio 54, mette a segno pezzi di estrazione eterogenea, dalla sinuosa “Trip City” alla rilassata “Funky-Ology” passando per l’ossessiva “Time Bomb (I Can’ttt Wait)” e la deliziosa “Swiss Chocolate” scritta insieme al sassofonista Nicola Calgari con cui continua a collaborare per “The System” di The Faust, a cui mette mano anche Andrea Panigada. Maggiormente proiettato nel cosmo technoide, il disco vede l’inserimento di parti rappate di Fausto Guio, da Brooklyn, seppur il suo nome non figuri tra i crediti. Il medesimo team appronterà nel Bips Studio di Milano un secondo disco che UMM pubblica nel corso dell’anno, “Buckwild”.

A metà strada tra house e techno è anche “Angel Of Love” di Jo Smith, cantante britannica diventata nota anni dopo interpretando pezzi eurodance (su tutti “Wonder” di Cerla & Moratto) per l’occasione prodotta da Paolo Casa col supporto del citato Elvio Moratto e Fulvio Zafret e remixata a Roma da Luca Cucchetti. Viene proprio dalla Capitale “Secret Doctrine” di The True Underground Sound Of Rome Featuring Stefano Di Carlo, collettivo fondato da Chicco Furlotti e animato dai DJ Leo Young e il compianto Mauro Tannino. Messo inizialmente in circolazione dalla Male Productions in formato promozionale, viene ripubblicato da UMM con l’ambizione di diffonderlo più capillarmente oltremanica e oltreoceano. Proviene giusto dagli States “These Are My People” dei Members Of The House, un disco house/garage partito dalla Shockwave Records (la stessa sulla quale, poco tempo dopo, debuttano i mitologici Drexciya con “Deep Sea Dweller”) e prodotto dagli Underground Resistance, lieti di riapparire sulla label di Tardio a poca distanza da “Living For The Nite”. Torna pure Iacobucci, questa volta come DJ Ivan, con “All Night” prodotta insieme a Enrico Mantini, a cui fa seguito “Your Body” con cui Iacobucci stringe la collaborazione con Nicola Dragani e Andrea Cosma. Seppur ascritto ancora a quella (club) house italica, riscaldata da fiati ed eterei pad, in “Carbonized (You Gotta Put Me On)” vibrano linee ruvide che lambiscono l’acid, contestualmente a balbettanti frammenti vocali. A produrlo, dietro il nome Aspro Marinetti, è il torinese Stefano Righi meglio noto come Johnson Righeira e passato alla storia con l’amico Stefano Rota coi Righeira. A bazzicare contemporaneamente house e techno è pure Emanuele Luzzi alias Onirico col suo “Stolen Moments” a cui abbiamo dedicato qui un ampio approfondimento. Tra i più ricercati del catalogo, l’EP è stato ristampato un paio di volte, l’ultima nel 2022. Le porte di UMM si aprono anche per Lino Lodi e Stefano Mango che nel loro S.MA.L.L. Studio di Maniago, in provincia di Pordenone, assemblano “Check It Out” di Eighteenhours, avvalendosi di un remixer d’eccezione, Mr. Marvin, che cura le due versioni dai toni sensuali sul lato b. Lodi e Mango proseguiranno la carriera prediligendo un suono crossover (Face The Bass, Pan Position, Express Of Sound tra i loro act più noti) e lasciando nel dimenticatoio Eighteenhours. Dal Veneto arrivano i fratelli Gianni e Paolo Visnadi con “NOFutureNOPast”, quasi un mini album tante le tracce racchiuse all’interno, ben sei, con divagazioni tribaleggianti (“Hunts Up”), luccichii trance (“Asaid Asaid”), affondi downtempo (“Dreams”, “The Good Place”). Romana invece la provenienza del disco dei G.M. (G per Giancarlino – Battafarano, M per Micioni – i fratelli Pietro e Paolo), un quattro tracce da cui emergono l’estatica “L.O.V.E. Ambient” e “You Got Your Love” in cui fa capolino la voce di Giulia Puzzo alias Julie P., pure lei dalla Città Eterna. La prima annata di UMM, dunque, rivela un’attività tentacolare: Tardio ha le idee chiare su che musica investire denaro e risorse, sia quella importata dall’estero, sia quella prodotta entro i confini nazionali, e questo ribalta la sua posizione da sfegatato esterofilo emersa ai tempi di Musical Soup su Telepartenope nel 1981, quando poco più che ventenne viene definito “Il Mister Fantasy del Vesuvio” paragonato a Carlo Massarini e passa in tv i pezzi di Adam And The Ants e di altri gruppi new wave britannici.

1992-1993, esplosione underground
I fratelli Visnadi dimostrano di avere un mucchio di frecce al proprio arco e tirano fuori un altro EP da sei tracce che firmano CYB, “Snake Bit”, trainato dal brano omonimo, una serpentina ipnotica spinta a lambire il bleep e l’acid. Poi stab nervosi (“Ovverture”), un’altra scorribanda all’interno di un suono gommoso ed elastico (“Five”) e una visione deep house velocizzata (“Unisound”). Spietata techno hooveristica si ritrova in “Fury” degli Underground Resistance, un’altra licenza tratta dal catalogo dell’etichetta detroitiana che sul lato b vede l’altrettanto ciclonica “Cyclone”. Provenienti dall’estero sono pure “Endangered Music” di Endangered Species, un disco particolare ai confini tra jazzdance e deep house partito dalla britannica V4 Visions, e “Strong To Survive / Fuck You Up” di Blake Baxter, originariamente sulla Incognito di Detroit. Completamente italiana invece la produzione di “Desafinado” a firma Rhythm 3 Request, team veneto in cui figurano Paolo Verlanzi e Vic Palminteri che nello Yellow Studio di Jesolo approntano un dolciastro anthem italo house issato su un pattern tribaleggiante, forse ispirato da “Koro-Koro” di No Smoke. Romana invece la produzione del primo volume di Progetto Tribale, nuova avventura di Giancarlino Battafarano e dei fratelli Micioni alle prese con un sound che, come annuncia il nome stesso, attinge a piene mani dalla musica africana. È sufficiente ascoltare “Tribal Makossa” per capire quanto fossero in ritardo coloro che, almeno dieci anni più tardi, si sono illusi di aver creato la corrente tribal house. Suadenti fiati si rincorrono in “Don’t You Ever Stop” di Tranquil, act one shot del newyorkese ma di chiare origini italiane Dino “Blade” Bellafiore. Sul lato b “Smoke Signals” remixata da un altro statunitense figlio di immigrati italiani, Ralph D’Agostino noto come Ralphie Dee. Sono rave techno, con flessioni breaks e urla da stadio, sia le matrici di “F.U.C.K.” di M.A.S.E.R., un’altra produzione proveniente dalla Capitale a cui mette mano pure il compianto Stefano Facchielli alias D. Rad, sia quelle di “Elevator EP” dei Noisee Boyz, da cui si ergono bene pezzi come “Most Illogical” o “Quadra Wave”, ricolmi di suoni a onda quadra collocati in stesure cervellotiche. I Visnadi riappaiono con la dream house di “Don’t Make Me Wait” di EDN a cui segue “Chrystol Dance” di Nu-World, pezzo venato di funk con un sample all’interno tratto da “Crystal World” dei Crystal Grass e preso in licenza dalla Tom-Tom Club d’oltremanica. Verlanzi e soci ritornano col secondo disco di Rhythm 3 Request, “Form The Pages Of Our Mind” (ma è plausibile che per un refuso il “from” sia diventato “form”), un EP in c’è dolcezza (“Feel The Rhythm”, “Delicious”) ma anche energia percussiva (“Back Frog”). Secondo atto per i capitolini Progetto Tribale intitolato, semplicemente, “Volume 2”, ed è spiccatamente tribaleggiante anche la vena di “Baa. Daa. Laa.” degli A.T.S., (acronimo di African Tribal System) dietro cui si celano i fratelli Maurizio e Michele Divito e Antonio Ursi. A distanza di qualche mese il brano riappare attraverso un paio di remix dei Visnadi. Più aderente al suono soffuso e “foggy” tipico della house prodotta in quel periodo per i club sono i sei pezzi racchiusi nel “Volume 1” dei Transitive Elements, nome che tiene insieme l’asse creativo di Argentino Mazzarulli ed Enrico Mantini. Su tutti spicca la radiosità di “Octivation (Zone Dub)”, ripescata nel 2017 nel secondo volume della compilation olandese “Welcome To Paradise”, e “Artico”, un metti e togli tra ritmo e vocalità. L’utilizzo delle percussioni afro è predominante anche in “Let The Bongos Sing” degli Home-Grown (Miles Morgan e Sean Casey), proveniente dalla Tomato Records. Giunge d’oltralpe (dall’olandese Natural Records) pure “Pot Of Gold” dei Chestnut, house solidificata intorno a slanciate vene percussive e rivista in più remix tra cui quello di Frank De Wulf. È il primo doppio mix per la UMM.

L’attenzione che Angelo Tardio riserva alla sua etichetta è tangibile. Perennemente intento ad ascoltare musica nuova proveniente da ogni angolo del globo, individua un nuovo gruppo britannico, i Lionrock, prodotti dal DJ Justin Robertson, che vuole su UMM con “Roots ‘N’ Culture (Part 1)” e “Lionrock”, per l’appunto, e a ruota “Set Me Free” dei Nightmares On Wax, proveniente dal catalogo Warp Records, e “Life / This” dei Tribal Technology / MAD @ Chris (questi ultimi col supporto vocale di Tori Amos), individuati in una raccolta della t:me di Nottingham. Ralphie Dee & Dino Blade nuovamente in azione con “Calypso Interlude”, altra parentesi aperta sulle infinite potenzialità offerte dalla combinazione tra house e afrobeat. Il brano verrà ripescato l’anno seguente con due remix provenienti dai Paesi Bassi, uno di Maarten van der Vleuten alias DJ G-Spot, l’altro di Hole In One, spinto dal successo di “X-Paradise”. Come un autentico fiume in piena, la UMM intercetta “Nush” dei debuttanti Nush (Danny Harrison e Danny Matlock) e “Samba” con cui Todd Terry avvia un nuovo act, House Of Gypsies. Il DJ newyorkese, tra i guru della house, riappare poco dopo con “Can You Feel It” di CLS, pubblicato prima su un doppio e poi su un singolo destinato ai remix di Giuseppe ‘MAN-D.A.’ Manda, ai tempi venditore per Flying Records, e i Fresh n’ Funk ovvero Carmine Tortora (partner in crime di Tardio nel progetto Kwanzaa Posse) e Roberto Masi dei Blast.

Visnadi - Four Journeys
La copertina di “Four Journeys” dei Visnadi

Tardio continua a credere nelle facoltà compositive dei Visnadi pubblicando “Four Journeys” (all’interno pure una traccia dai riflessi techno prodotta con Floriano Fusato, “Transpassage”), supporta Maurizio Verbeni con “Pump The Voice”, scandito da un esotico xilofono, e il team dei Submission (Ivan Iacobucci, Ennio Carusillo e Sergio Macciocu) che per la loro prima (e unica) apparizione sfoderano un piacevolissimo pezzo garage, “Trouble”. Altrettanto convincente l’esordio degli Statement (tra gli autori i DJ Fernando Opera e Patrizio Squeglia, ai tempi grafico per Flying Records) con “Our Concept”, in cui i confini tra house music, jazz e funk diventano labili. Un altro colpaccio messo a segno da Tardio è rappresentato da “Work In Progress EP” dei britannici Rejuvination (Glenn Gibbons e Jim Muotune), preso in licenza dalla neonata Soma. È il cinquantesimo mix dell’etichetta partenopea. A seguire arriva “Naked” di Alessandro Tognetti, inciso nel Bass Recording Studio di Alex Neri e Marco Baroni. Il brano galleggia sulle classiche atmosfere della italo (deep) house di quel periodo. A spiccare è la Carol Version, scandita da un sax e una suadente voce femminile erroneamente scambiata per quella di Carolina Damas, la venezuelana diventata nota qualche anno prima per “Sueño Latino”. A sgombrare ogni dubbio è lo stesso Tognetti in questa intervista: «La voce era tratta da un’acappella inglese. Optammo per Carol Version perché, banalmente, in quel periodo la mia fidanzata si chiamava Carol». Tardio è sempre sul pezzo: dalla britannica Guerilla prende in licenza “Land Of Oz” degli Spooky e dalla newyorkese One Records “The Conversation” degli Orchestra 7 prodotto da un vero fuoriclasse della house d’oltreoceano, Roger Sanchez. Il materiale accumulato è talmente tanto da riempire una compilation, edita sia su doppio vinile in formato gatefold che CD, intitolata “The Remixes”. All’interno, come è facile presumere dal titolo, solo remix, da Progetto Tribale a KGB e Visnadi passando per House Of Gypsies, Underground Resistance Feat. Yolanda e Blake Baxter. In copertina, sulla vista aerea della costa campana, si rinviene un messaggio in cui Tardio alias Funk Master Sweat prima spiega le motivazioni che lo hanno spinto a creare un’etichetta non disposta a sposare le classiche leggi commerciali e poi rimarca come il termine “underground” sia finito con l’identificare altro nel mercato generalista, in netto contrasto coi dettami di UMM. Per l’occasione promette di restare fedele al credo di partenza e lo dimostra subito mandando in stampa “Dreams EP” di The Neverending Dreams, team di produzione in cui, tra gli altri, spicca il nome del compianto Costantino “Mixmaster” Padovano, “Don’t Give Up” degli Statement, “The Ultimate Result” di Enrico Mantini e “Solution EP Vol. 1” di Stefano Noferini registrato, analogamente a “Naked” di Tognetti, presso lo studio di Neri e Baroni in provincia di La Spezia, da dove proviene pure “Good Time” dei Mantras.

Alex Party - Alex Party
“Alex Party” del progetto omonimo, diventato popolare col titolo “Read My Lips”

Macinando più pubblicazioni al mese, UMM inizia a ritagliarsi un posto di assoluto rilievo tra le etichette house che contano a livello internazionale, e si accaparra altre licenze di pregio, come “Schmoo” degli Spooky (con remix degli Underworld sul lato b), “More Than Just A Dance” di Phantasia alias DJ Pierre, “This Some Bad Weed” dei Soundcraft, “Every Now And Then” di Ralph Falcon e “House Ala Carte” di Jovonn, che di fatto la pongono su un piedistallo e la elevano dal classico fare discografico italiano. La vocazione internazionale è palese, la direzione di Tardio non lascia adito a dubbi di sorta ma senza tradire un certo made in Italy, come quello dei Gradiva con cui i Visnadi allacciano i rapporti col DJ Alex Natale e tirano fuori “To The Funky Beat” che preannuncia lo stile di Alex Party, giunto poco dopo col brano omonimo in cui trovano alloggio uno stralcio vocale preso da “Read My Lips” dei DSK, già riciclato un paio di anni prima dai People In Town, e quello di “Weekend” dei Class Action, coverizzato con successo da Todd Terry nel 1988. Il brano esploderà nel Regno Unito nel 1994 col titolo “Read My Lips”. I Visnadi incidono nuove versioni di “Hunt’s Up” con suoni più elettronici (Christian Zingales, in “Techno”, descrive la Trance Mix come «una psicotica cattedrale sintetica lanciata ad alta velocità verso il nulla dove risuonano a grande effetto le mortali spirali da caduta libera di uno dei sample vocali più letali della storia, quello di “Scream For Daddy” di Ish già usato dagli S-Express in “Theme From S-Express”») e “Moovin’ Groovin'” con cui calano il sipario su EDN. Da Roma si fanno risentire i Progetto Tribale (Giancarlino, D. Rad e i fratelli Micioni) col “Volume 3”, l’ultimo destinato a UMM (il quarto finisce l’anno dopo nel catalogo D:vision). Nel brano di chiusura, “Tribal Thanx”, tributo downtempo a tanti miti della musica, c’è la voce di Marina Restuccia, ai tempi attiva come Jamie Dee e da lì a breve proiettata nella carriera pop come Marina Rei.

Fortemente determinato a proseguire con lo stesso passo, Tardio continua a iniettare linfa vitale nei circuiti della sua etichetta bilanciando produzioni nostrane ad altre importate dall’estero. In rapida sequenza escono “I Know You Can Hear Me”, unica apparizione dei The Miners (Giancarlino, Marco Scocchi e D. Rad), “Pleasures’ EP” dei 2 Guys (apparizione one shot dei Visnadi) trainata dalla estatica “Deep Blue Night”, “The Anixus EP” degli Anixus, richiestissimo sul mercato dell’usato e ristampato pochi anni fa, e “I Want You Now” dei Global Cut (Massimiliano Rovelli, Mimmo Mennito, dipendente Flying Records nel settore import, e Giampiero Mendola). D’oltralpe giungono invece il secondo volume di “Wildtrax” di Wildchild (che un paio di anni dopo spopola con “Renegade Master”), e “I Can’t Get No Sleep” dei Masters At Work Featuring India, originariamente sulla Cutting Records dei fratelli Aldo e Amado Marin e potenziato dal remix di Marc ‘MK’ Kinchen. L’interesse nutrito per la musica di Vega e Gonzalez convince a rilevare anche il loro primo LP intitolato, semplicemente, “The Album”. All’interno pezzi come “Can’t Stop The Rhythm”, “All That” e “The Buff Dance”. Il tutto viene pubblicato sia su vinile (doppio) che CD, scelta condivisa pure per “Gargantuan”, l’album degli Spooky. Doppia è altresì la compilation “Tribute – DJ Collection Vol. 2”, tratta dal catalogo della Hi-Bias Records, riempita con dodici tracce in perenne bilico tra deep house e garage. Dall’etichetta canadese giunge anche “Love Attack” di Groove Sector, progetto del DJ italo svizzero Stéphane Stillavato meglio noto come Willow. “Syxtrax” è un EP che, come promette il titolo, contiene sei tracce erranti tra progressive, trance e techno. A produrle gli infaticabili fratelli mestrini Visnadi che per l’occasione rispolverano il loro progetto più technofilo, CYB. Giungono da Cassino invece, in provincia di Frosinone, i tre amici (Claudio Coccoluto, Savino Martinez e Dino Lenny) che approntano “Friend”. Per l’occasione si fanno chiamare HWW, acronimo di House Without Windows ironizzando sul fatto che il loro studio amatoriale sia talmente piccolo da essere privo di finestre. È un periodo particolarmente florido per i DJ italiani che, sparsi un po’ in tutto lo Stivale, mettono su piccoli studi di registrazione facilitati da prezzi più accessibili delle strumentazioni, alcune tecnologicamente quasi obsolete ma perfette per le nuove forme della musica dance. Da Bologna arrivano i due volumi di “The Grunge EP” degli Underground Ghosts (Ivan Iacobucci e Nick Dragani), da Jesolo “Keep The Children Free”, ultima apparizione per i Rhythm 3 Request probabilmente ispirati dall’ipnotismo di “Plastic Dreams” di Jaydee di cui parliamo dettagliatamente qui, da Palermo i cugini Dario e Mario Caminita con “I Can’t Quite Understand / So Good” di Klaiff, da Pescara Enrico Mantini che, affiancato da Marco Fioritoni, appronta le quattro tracce per il secondo volume di Transitive Elements. Ultima volta su UMM pure per gli Statement con “C’Mon And Get It!”, con un sample carpito a “I Got My Mind Made Up” degli Instant Funk, a cui fa seguito “The Land Of Flux” di 3 Of Us, team perugino che destina tutti i lavori successivi alla SVR – Seven Valley Records. Il brano attinge a piene mani da “Fluxland” dell’omonimo artista olandese (Ramon Roelofs, meglio noto come Charly Lownoise) e conoscerà un successo generalista attraverso un’altra cover messa a segno dagli XL, edita dalla Reflex Records nel 1994.

Fathers Of Sound - Revelation
“Revelation” dei Fathers Of Sound

Tardio non perde mai di vista il mercato estero: dalla Vibe Music di Chicago prende “Strawberry” di Georgie Porgie, impreziosita dai remix di Maurice Joshua e degli UBQ Project (Aaron Smith e Terry Hunter), dalla One Records di New York invece “I Need You” di Nu-Solution, progetto one shot di Roger Sanchez accompagnato dalla voce di Tonya Wynne che conta così tanti remix (tra cui quelli di Ralph Falcon, StoneBridge e del nostro Luca Colombo) da necessitare un doppio mix. Ralphie Dee & Dino Blade approntano il seguito di “Calypso Interlude” ovvero “Deranged EP”, un extended play in cui si intersecano varie traiettorie stilistiche, mentre Maurizio ‘Jazz Voice’ Verbeni inaugura Degression con “Doctor Jazz” in cui, prevedibilmente, scorrono partiture jazzate in un caleidoscopico puzzle di sample. Ai nastri di partenza ci sono i Fathers Of Sound (i toscani Gianni Bini e Fulvio Perniola affiancati da Paolino Bova intervistato qui) con “Revelation”, una traccia che sintetizza le atmosfere nebbiose della prog d’oltremanica con divagazioni detroitiane di UR o Kevin Saunderson. Il disco è un single sided che sul lato b accoglie un disegno inciso per esteso su tutta la facciata, un etched come si dice in gergo. Sono sempre i Fathers Of Sound a occuparsi della produzione sia di “I Can’t Forget You” di Anthony White, cantante originario di Philadelphia che vanta un’apparizione sulla Salsoul Records, “I Can’t Turn You Loose” del ’77, sia di “Inside Out”, brano che segna il debutto discografico di Stefano Noto, affermato DJ fiorentino. Con un flusso produttivo che non conosce soste ed esitazioni, in circa un biennio di attività UMM raggiunge un ambito traguardo, la centesima uscita. Per l’occasione Tardio appronta una raccolta intitolata, per l’appunto, “Cento”, che raduna brani inediti realizzati da artisti che gravitano intorno all’orbita della sua etichetta. Da Alex Neri e Stefano Noferini con “In Progress” a Ivan Iacobucci con “All Right”, da A.T.S. con “Kio Kisinza” a “Love” di MAN-D.A. passando per una nuova versione di “C’Mon And Get It” degli Statement, “Insanity” di Valez remixata dai Fathers Of Sound e “Tribal Acid” di Claudio ‘Cocodance’ Coccoluto. Il tutto viene riversato su doppio vinile e CD, suggellato da una copertina decorata con caratteri argentei in rilievo.

UMM è un marchio consolidato ma il suo fondatore non dorme sugli allori anzi, si pone sempre nuovi obiettivi da raggiungere e questo gli permette di incrementare il catalogo e allargare il roster artistico. Tra i nuovi arrivati ci sono Joy Kitikonti e Francesco Farfa, intervistati rispettivamente qui e qui, uniti come Hoyos Corya: il loro pezzo si intitola “Oyo” e segue la scia della prima ondata progressive toscana, quella che ibrida la house con elementi presi da techno e trance. Un nuovo act è pure quello di Enrico Mantini e Pietro De Rosa, Mood 2 Create, sviluppato su quattro tracce deep house quasi interamente strumentali, riscoperte dall’olandese 4 Lux di Gerd che le ristampa nel 2017. “Victim Of Obsession”, costruita sul campionamento vocale preso da “Set It Out” di Midway, viene pubblicata invece come The White Fluid. La creatività di Mantini è al diapason e poco dopo giunge “The Device EP” con altri cinque brani (tra cui “U Can Use It” e “I Will Be True”) che contribuiscono a definire il filone della house italiana da club dei primi anni Novanta. Non sono da meno Ivan Iacobucci e Nick Dragani che per il “Sea EP” s’inventano un altro pseudonimo, Nottambula, e i fratelli Visnadi che dal cilindro magico tirano fuori “Racing Tracks”, un brano che, come racconta Paolo Visnadi in questa intervista, «fu prodotto di getto, in un pomeriggio, con strumenti come il sintetizzatore Sequential Circuits Prophet-5, un campionatore Kurzweil, un processore di effetti Lexicon PCM 70 e un mixer Soundcraft TS24» aggiungendo che fu suonato dal vivo e tutta la sua struttura venne sviluppata interamente in tempo reale. Contraddistinto da rumori stradali che lanciano un parallelismo con “Autobahn” dei Kraftwerk, “Racing Tracks” viene illuminato di nuova luce nel 2013 da Maceo Plex che lo riedita nel suo “DJ-Kicks” su Studio !K7 per poi essere ristampato nel 2018 dalla romana Mr. Disc Organization. Sul fronte licenze, arrivano “Critical (If You Only Knew)” dei Wall Of Sound (John Ciafone e Lem Springsteen, meglio noti come Mood II Swing), tre nuove versioni di “Little Bullet” degli Spooky, dal citato album “Gargantuan”, “Can’t Stop The Rhythm” e i remix di “When You Touch Me” dei Masters At Work (finiti su un singolo, un doppio e un triplo in edizione limitata), “You Don’t Know” di The Hot Project, con un vocione in stile Louis Armstrong, e “Deep Inside” di Hardrive, una club hit internazionale prodotta da Little Louie Vega, cantata da Barbara Tucker e proveniente dal catalogo Strictly Rhythm poi affidata, per ulteriori tre versioni, ad Alex Natale e i Visnadi. Sono proprio loro ad approntare il nuovo Alex Party trainato da “Nu-Nu-Now” (contenente due brevi campionamenti vocali tratti da “Don’t Make Me Wait” dei Peech Boys e “Let No Man Put Asunder” delle First Choice), rampa di lancio per un suono che nell’arco di qualche anno riesce a conquistare il mainstream. Dal loro 77 Studio di Mestre esce pure “See On” di Roby Sartarelli alias Long Leg. Gianni Bini e Fulvio Perniola si occupano del nuovo di Anthony White, “Love Me Tonight” riproposto un paio di anni dopo con nuovi remix e contenente un campionamento dell’acappella di “Let Me Love You” di Imarri (poi usata dagli Shapeshifters in “Lola’s Theme”), e di “Insanity (The Essence)” di Valez, pregustato in anteprima in “Cento”, poi “Gosp” dei veneti L.W.S. guidati dal DJ Walterino, con un sample trovato in una compilation di musica gospel, e Argentino Mazzarulli che inaugura il moniker A.R.G.E.N.T.I.N.O. con “Keeping Depth EP”, riscaldato di continuo da influssi tribaleggianti. Menzione a parte per “Take You Right” dei Blast, progetto che batte bandiera siciliana portato avanti dal cantante Vito De Canzio alias V.D.C., il DJ Roberto Masi e il tecnico del suono Fabio Fiorentino, destinati a uscire presto dalle tenebre dell’underground.

Blast + CYB
Sopra “Crayzy Man” dei Blast, tra i primi successi internazionali di UMM, sotto “It’s Too Funky” dei CYB, scelto per inaugurare la UMM Progressive

1994/1995, consolidamento ed exploit: il doppio binario di UMM
Il grande boom mainstream dell’eurotechno, scoppiato tra 1991 e 1992, va progressivamente esaurendosi nel 1993. Il pubblico generalista, spesso influenzato dalle programmazioni dei network radiofonici, è in cerca di una nuova tendenza da seguire e la trova nella house music che torna quindi a fare crossover tra i club underground e le maxi discoteche, come avvenuto già alla fine degli anni Ottanta con l’invasione della cosiddetta “spaghetti house”. Un crescente numero di brani nati per un pubblico ristretto di DJ e amatori si ritrovano quindi nelle programmazioni delle radio e persino nelle classifiche di vendita. È il caso di “Crayzy Man” dei Blast che, dopo i tiepidi riscontri di “Take You Right”, vengono proiettati in una scena completamente diversa da quella di partenza. «Buona parte del merito nel successo di “Crayzy Man” va riconosciuto ai Fathers Of Sound che, con la loro F.O.S. In Progress, stravolsero l’originale dotandola di sonorità più aperte e tipiche della house internazionale» afferma il cantante del gruppo, Vito De Canzio, in questa intervista, aggiungendo che i toscani riuscirono a valorizzare le idee «portando il brano a un livello superiore, facendolo uscire dai confini della house da club e traghettandolo nel mondo commerciale con un appeal vendibile e radiofonico». Il successo è tale da richiedere un videoclip girato al Cretto di Burri, vicino ai ruderi di Gibellina: «era un paesaggio lunare reso ancora più alieno dalla fotografia del regista Emanuele Mascioni e dalle idee visionarie di Patrizio Squeglia. Poi ci fu la trovata della palla, un grosso globo dipinto di argento che molti ipotizzarono fosse stato inserito digitalmente in post produzione seppur in quel periodo di digitale c’era ancora ben poco. In realtà si trattò solo di una palla gonfiata spinta dal vento che soffiava quel giorno» conclude De Canzio. Uscito a fine febbraio, “Crayzy Man” conquista un’audience sempre più vasta ed eterogenea. Tra i supporter anche Albertino che, a metà aprile, vuole il brano nella DeeJay Parade settimanale dove resta per cinque settimane. Si fa avanti la multinazionale MCA che lo pubblica negli Stati Uniti e nel Regno Unito con altri remix tra cui quello di Junior Vasquez. Si tratta di uno dei primi dischi targati UMM a raccogliere risultati di questo tipo e, per la gioia delle casse della Flying Records, non l’ultimo. La vocazione di Tardio però non è cercare pezzi che facciano intenzionalmente gola ai programmatori delle radio anzi, per lui certi responsi sono completamente irrilevanti ai fini del leitmotiv della UMM che, per definizione, deve continuare a rappresentare il movimento della musica underground. Il caso vuole però che dopo “Crayzy Man” dei Blast giunga un altro brano capace di sparigliare le carte e incuriosire anche i DJ non specializzati, e a firmarlo sono i fratelli Visnadi nelle vesti di CYB. Il disco, come testimonia il titolo in copertina, nasce in virtù di due remix di “Now”, originariamente incluso in “Syxtrax”, ma ad avere la meglio è la traccia incisa sull’altro lato, “It’s Too Funky”, dove a fare da padrone è l’ipnotico riff di tastiera che corre su un ritmo serrato dal quale, come un geyser, erutta a più riprese un breve ma efficace hook vocale. Le richieste sono tante e giustificano la pubblicazione anche su CD, ai tempi formato secondario e quasi irrilevante per i DJ. Non è propriamente house però, piuttosto un ibrido che si spinge a lambire le sponde progressive e infatti Tardio per occasione vara una sorta di etichetta sussidiaria, la UMM Progressive, ma senza ricorrere a un nuovo logo e numerazione. L’unica indicazione, oltre a un layout grafico marginalmente modificato, è la presenza delle lettere PR accanto al catalogo, monogramma che si rinviene nelle quattro uscite successive: “Spice” di Timeless, ennesima incarnazione artistica dei Visnadi, “State Of Panic” di Sonar (Dino Lenny e Savino Martinez affiancati da Coccoluto come sound engineer nel solito HWW Studio), sviluppato sul campionamento di un pezzo senza titolo di Emmanuel Top uscito l’anno prima, “Context Control EP” dell’olandese Trance Induction e “1/2 Transphunk EP” dei francesi Motorbass. Italianissima invece la produzione di “Let Yourself Go” di L.W.S. Featuring Long Leg, un mosaico di sample afro e funky loopati su base house, e “Locomotive Vocale” dei Lineout, prodotto ancora da Walterino come remake dell’omonimo del compositore francese Hugues Le Bars, sincronizzato in uno spot televisivo del liquore Grand Marnier negli ultimi anni del decennio precedente. A “Crayzy Man” dei Blast UMM aggiunge ora un’altra hit internazionale, presa in licenza con assoluto tempismo dalla newyorkese Strictly Rhythm. Trattasi di “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, progetto lanciato un paio di anni prima da Erick Morillo e Ralph Muniz che ora si afferma grazie a un brano, interpretato da Mark Quashie alias The Mad Stuntman, che incrocia house e raggamuffin. Supportato da un videoclip diretto da Craig K. McCall, “I Like To Move It” vende oltre un milione di copie in tutto il mondo e trova modo di eternarsi nel nuovo millennio col riadattamento per il film d’animazione “Madagascar”. Proveniente da un’altra etichetta newyorkese d’eccezione, la Easy Street, è “Get By” di Gayland che, per la pubblicazione in Italia, viene arricchita dai remix di Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi e Paolo Martini. Importati dall’estero sono pure “Morel’s Grooves Pt. 5” di George Morel, “No Love Lost” di Ce Ce Rogers, “Fall Down / Freedom” dei Punchin’ e “The Frenzy Dance” dei Juzt 2 Brothers, pezzo prodotto dai fratelli Danny e Victor Vargas sulla falsariga di “I Like To Move It” dei Reel 2 Real e affidato, pochi mesi dopo, alle mani di Franco Moiraghi che realizza un incisivo remix. Prodotti “in casa” sono invece “People” dei Degression, il terzo volume (conclusivo) di Transitive Elements e “Ohh-D-Dub” di Frank Ozono, quest’ultimo ad opera dal team L.W.S. composto da Leonardo Bertoncello Brotto, Walterino Biasin e Stefano Amerio, prossimi a un exploit internazionale.

X-Static - I'm Standing
“I’m Standing”, il primo successo degli X-Static

A flirtare con le classifiche che contano sono pure i Visnadi che, insieme a Max Artusi e Ricky Stecca, creano un nuovo (ed ennesimo) progetto, X-Static. Il brano si intitola “I’m Standing”, è cantato da Cristina Dori e viene pubblicato oltremanica dalla Positiva insieme a vari remix tra cui quello dei Kamasutra, edito anche da UMM in un secondo 12″ col centrino viola. A innamorarsi del pezzo, con un pizzico dello stile di StoneBridge nella Velvet Mix e con una linea più aggressiva nella Heavy Organ Mix, sono tanti influenti DJ britannici tra cui Pete Tong, Judge Jules e Jeremy Healy. Percorso inverso, dalla Gran Bretagna all’Italia, per “Best Thing” di Miss Bliss, la DJ londinese Ayalah Bentovim meglio nota come Sister Bliss da lì a breve nella formazione dei Faithless. L’unica versione solcata sul disco, col solito logo inciso sul lato b, è realizzata dai Fathers Of Sound. A seguire, dai Paesi Bassi, c’è “Pepper” di Speedy J, diventato popolare dalle nostre parti per “Pullover” e “Something For Your Mind”, alle prese con un suono più trancey e warpiano, e infatti l’etichetta è UMM Progressive. Sospinta verso lidi simili è anche la raccolta in limited edition, edita su CD e triplo vinile, “UMM In Progress”, selezionata da Francesco Zappalà. All’interno diverse gemme che il DJ promuove nel suo Virtual Sound, da “Heaven” di Moby a “Flex” dei Bandulu, da “Joy” di Quadripart a “Electronique (Live At The Casino Montreux)” di Pink Elln & Atom Heart passando per l’esclusiva “Slave To The Moon” dei Visnadi, “(RE:EVOLUTION) Live At The Warfield” degli Shamen, “State Of Panic” di Sonar e un paio di sue stesse produzioni, “Free Brain” di Virtual Age e “Raggamountain” di The Kosmik Twins, prodotte rispettivamente con Ferdinando ‘Mr. Ferdy’ Colloca e Biagio ‘Baby B’ Lana. Il package è impreziosito dalle fotografie di Emanuele Mascioni effettuate su una scultura di Patrizio Squeglia, “Ettore & Andromeda”, perfettamente calata nel contesto del “suono virtuale” a cui si fa riferimento in copertina. Il Code 1 lascia ipotizzare un seguito che però non arriverà mai.

Nella scia della trance che va diffondendosi sempre più capillarmente in Europa si inseriscono i trevigiani Attraction col brano omonimo mentre decisamente più house oriented sono “Tossin’ N Turnin'” di Darryl Pandy, “Nadir” di Mark Ray Featuring Natalie Mundy, “New York Express” di Hardhead (un’altra “mina” presa dalla Strictly Rhythm e prodotta da Armand Van Helden) e “No Pay Day”, secondo e ultimo brano di Gayland riproposto in seguito coi remix di Paolo Martini e Roberto ‘Hard Corey’ Corinaldesi. In mezzo a queste licenze estere c’è anche un made in Italy, “I’m A Bitch”, con cui il team degli L.W.S. fa il giro d’Europa. Ispirato dall’omonimo di quattro anni prima di A Bitch Named Johanna uscito sulla statunitense Project X Records, Biasin, Bertoncello Brotto e Amerio coniano un progetto ex novo chiamato Olga. La versione principale è la House Nation Mix (un nome-tributo per uno dei capisaldi della house chicagoana, “House Nation” di The House Master Boyz And The Rude Boy Of House, Dance Mania, 1986), in cui i vocal di Johanna Jimenez troneggiano su una trascinante base venata da un suono portante simile a quello di un organo, allora particolarmente in auge nei club. «Partimmo proprio dall’acappella di A Bitch Named Johanna a cui sovrapponemmo un groove ritmico e un basso» spiega Biasin in questa intervista. «Optammo per Olga perché ci sembrò un nome adatto a rappresentare la prostituta (bitch, nda) di cui si parlava nel testo. Visto il successo ottenuto anche nel mainstream, affidammo l’immagine del progetto a un’amica, Simona Sessa, che portò “I’m A Bitch” in tutte le discoteche italiane» (e che finisce sulla copertina del singolo pubblicato da UMM oltremanica, nda). Sull’onda dell’entusiasmo, Biasin e soci affidano a UMM un’altra loro produzione, “Afrikaans’ Holiday” di Afrikaans, a metà strada tra house e progressive trance, che fatica però a uscire dall’anonimato. Di tutt’altro regime invece l’andamento dei Reel 2 Real che, dopo i remix di “I Like To Move It” a firma Alex Party, riappaiono sull’etichetta campana con un nuovo brano, “Go On Move”, che in realtà tanto nuovo non è. La prima versione circola dal 1993 su Strictly Rhythm ma è con la Erick ‘More’ 94 Vocal Mix che Morillo riesce a fornire il giusto follow-up ad “I Like To Move It”, escludendo le parti funkeggianti a favore di una linea melodica che fa il verso al precedente e una parte vocale più estesa interpretata da Mad Stuntman. Accompagnato da un videoclip e reintitolato “Go On Move ’94”, il pezzo diventa un successo estivo. Le versioni a disposizione sono tante al punto da spingere UMM a pubblicarle su due mix, il primo col centrino bianco, il secondo nero. A separarle, nel catalogo in costante crescita, è “Just A Little Bit Higher” di Johnny Vicious.

adv Reel 2 Real
L’advertising che nell’autunno ’94 annuncia l’uscita dell’album dei Reel 2 Real su UMM

Dino Lenny e Savino Martinez firmano un nuovo UMM Progressive, “No More Mind Games” di B.O.D., in linea col suono di etichette britanniche come Platipus e Hooj Choons. Dallo scrigno Strictly Rhythm Tardio prende “Congo” che David Morales firma The Boss, un susseguirsi di ritmi latini intrecciati a pianate e organi, e “Las Mujeres (The Women)” di Fiasco, pure questo nato sul crocevia tra house music e percussioni latino americane. Con “The Bang EP” Roberto Carbonero, Marcello Salerno e Roberto Corinaldesi danno avvio al progetto U.S.E., acronimo di Underground Sound Evolution. Come “contorno”, Tardio rileva un altro paio di licenze, “La Fiesta” di The Spanish Society, dalla “solita” Strictly Rhythm, e “Dub It / Set Me Free” di Coco Steel & Lovebomb dalla britannica Warp Records. Ad affiancarle i due remix di “Te Ame Con Salsa” di Hildelgard (il primo realizzato da Carmine ‘KeyB’ Tortora e Beppe ‘MAN-D.A.’ Manda, il secondo da Robert Passera che pochi anni prima incide un piccolo cult, “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo dettagliatamente qui) e quello di “Love Me Or Leave Me” di Armante a firma Fathers Of Sound. In autunno è tempo di un nuovo Reel 2 Real, “Can You Feel It?”, costruito da Morillo ancora sullo schema di “I Like To Move It” e ripubblicato da UMM su due mix, attigui nel catalogo e con un punto in comune, la presenza su entrambi della Erick ‘More’ Club Mix, quella che si sente in radio. Il resto spazia nelle sfaccettature house coi remix di Roger Sanchez, DJ Duke e Jules & Skins sino a toccare, inaspettatamente, l’eurodance con la versione dei Factory Team in uno stile simile a quello dei bortolottiani Cappella mashuppato al telaio ritmico che il team veronese appronta in quei mesi per “Only Saw Today / Instant Karma” e “Sweet Music” del britannico Amos. “Can You Feel It?” è uno dei singoli estratti da “Move It!”, il primo album dei Reel 2 Real che la UMM si aggiudica per l’Italia pubblicandolo su doppio vinile, CD e cassetta. Ispirato proprio al suono dei Reel 2 Real è “I’m A Real Sex Maniac” di Dick, racchiuso in un’ironica copertina (doppiata su un adesivo allegato) che rimanda alle illustrazioni dei test psicologici e tematicamente collegato a Olga da riferimenti sessuali. A produrlo ancora gli L.W.S. con risultati apprezzabili in tutta Europa. Le licenze continuano a iniettare linfa vitale nei circuiti della UMM, seppur non sempre con l’appoggio dei DJ e della critica. Dalla britannica Zoom Records di Billy Nasty e David Wesson arriva “Throwing Caution To The Wind” dei Sourmash, con spinte goane, mentre dall’olandese NANADA Music l’EP di Ethics, trainato dal brano “La Luna” che vivrà una seconda vita a distanza di circa un anno. Passato praticamente inosservato è pure “The New Wave”, tratto dal catalogo della scozzese Soma, contenente tre pezzi (più un edit di uno di essi) di matrice techno (“The New Wave”, “Assault”, “Alive (New Wave Final Mix)”) messi a punto da un esordiente duo francese, i Daft Punk.

Alex Party - Don't Give Me Your Life
“Don’t Give Me Your Life”, una sonora conferma per gli Alex Party

Dopo i remix di “Gosp” di L.W.S. e “Joy” di Quadripart (quest’ultimo in formato doppio), arriva il nuovo degli Alex Party, “Don’t Give Me Your Life”, che ricalca alcuni elementi di “Nu-Nu-Now” (dal precedente “Alex Party 2”) amplificandone la portata pop grazie a una parte vocale interpretata da Robin Campbell alias Shanie. L’effetto è esplosivo e tra i primi a “capitolare” ci sono i britannici: come certificato da BPI (British Phonographic Industry), il brano diventa disco d’oro con 400.000 copie vendute oltremanica. Un gradito ritorno è anche quello dei Blast con “The Princes Of The Night”: a fare la differenza è ancora il remix dei Fathers Of Sound intitolato F.O.S. In Progress, ma le versioni sono tante (incluse quelle di JX e Red Jerry) da occupare due 12″, venduti separatamente e con copertine di colore differente. Bini e Perniola, infaticabili, trovano il tempo per approntare sia “Keep Looking Up” di Rhona Johnson, un pezzo garage portato al Midem di Cannes a inizio ’95, e “Want Me, Love Me”, brano di debutto di una giovane newyorkese di origini italiane che si affermerà nel mondo del piccolo e grande schermo, Justine Mattera. Reduce dal successo britannico di “Cocaine” del ’91, Dino Lenny sposta la sua attenzione verso scenari trance e progressive. Con una mano riattiva, per l’ultima volta, Sonar mediante “Mellow Monday”, lasciandosi affiancare dai fidi Martinez e Coccoluto, con l’altra inaugura S.O.P. con “Esta Buena”. S.O.P. e il citato B.O.D. sono collegati non solo dalla tipologia sonora ma anche da un’ironica linea concettuale promossa dall’artista cassinese: S.O.P. è l’acronimo di Sister Of ♀ (Pussy), B.O.D. di “Brothers Of ♂ (Dick). Si trincerano dietro una sigla pure Pietro De Rosa ed Enrico Mantini che raccolgono tre tracce (tra cui “Use It (… To Eliminate You)”) in un EP firmato DM Construction. In solitaria Mantini realizza invece “What U Want” con la voce di Cameron Borrelli alias X Woman, ristampato proprio di recente su Purism. Batte bandiera olandese “Yell Song” di Clusia Fortal, attorcigliato a suoni forse un po’ datati, e arriva un nuovo singolo dei Reel 2 Real, “Raise Your Hands”, simile ai precedenti ma con minori potenzialità commerciali, ottenuto rimaneggiando “Asuca” che Morillo firma R.A.W. l’anno prima sempre su Strictly Rhythm. Un’altra licenza di indiscusso valore è rappresentata da “Jumpin'” di Todd Terry, incisa su un single sided e con campionamenti presi da “Bostich” degli Yello e “Keep On Jumpin'” dei Musique, brano che l’americano coverizzerà pochi anni dopo con le voci di Martha Wash e Jocelyn Brown.

depliant merchandise
Uno dei primi depliant del merchandise griffato UMM

Su CD arriva “Mixes Collected”, una pregevole raccolta dei Visnadi a cui segue il “Conception EP” degli Alito, progetto one shot romano animato da Massimo Berardi (intervistato qui) e Luca Cucchetti a cui si affianca, per “Take Control”, Paolo Zerla. Colorito da una sezione con un’armonica a bocca è “Everybody Clap Yo Hands”, da “Voices Of Faith EP” di Victor Simonelli, tribaleggiante la linea portante di “Higher (Feel It)”, ultimo pezzo che Erick Morillo firma R.A.W., in bilico tra garage e un suono più ruvido le versioni di “House Music” di MAN-D.A. & Keyb T., proteso in modo chiaro verso la trance è l’EP degli Upgrade One Point Two. Tra le voci più emozionanti della house a stelle e strisce, Ce Ce Rogers approda sull’etichetta napoletana con “Come Together”, Michele Violante e Paolo Martini si uniscono come Old Skool, Alessandra Argentino esordisce con “Work This Pussy” (prodotto da Roberto Ferrante e Vincenzo Bottiglieri e pubblicato anche su CD singolo) che fa il verso alle liriche piccanti di Olga, Paolo Martini, Michele Violante e Roberto Corinaldesi si occupano di “We Got A Love” sviluppata da un’idea di Major Healey, cantata da Sabrynaah Pope e poi data in pasto ai Fathers Of Sound e Alex Neri, Erick Morillo remixa “Them Girls Them Girls” dei pupazzi Zig + Zag facendone quasi un nuovo Reel 2 Real che, nel contempo, riappaiono col quinto singolo estratto da “Move It!”, “Conway”, giunto sul mercato attraverso una miriade di versioni tra cui quelle di Armand Van Helden e dei CYB che UMM pubblicherà in un secondo 12″ nei primi mesi del 1995. L’ottima reputazione dell’etichetta sortisce continue attenzioni internazionali anche in virtù di una ricca linea di abbigliamento e merchandising promossa a partire dal 1993 attraverso semplici depliant inseriti nelle copertine dei dischi. La ricetta pare semplice ma non è facilmente replicabile: «prendiamo ritmi house, li speziamo con melodie italiane e serviamo caldo il risultato» dichiara ironicamente lo schivo Angelo Tardio a David Stansfield di Billboard in un articolo pubblicato il 2 luglio ’94, uno dei pochi in cui è possibile ritrovare le sue testimonianze di allora. E aggiunge: «abbiamo dato in licenza “Crayzy Man” dei Blast a un’etichetta del Regno Unito e ora il pezzo è praticamente in tutte le classifiche d’oltremanica. Ci sono grandi piani anche per i Fathers Of Sound, artefici della versione di punta di “Crayzy Man”. Alla luce di questi strepitosi risultati mi sento di dire che il 1994 sia stato l’anno migliore per la dance targata Flying Records».

The Bucketheads - The Bomb EP
The Bucketheads, successo di proporzioni planetarie portato in Italia da UMM

Diventata con merito un avamposto italiano della house music, la UMM inizia il 1995 tagliando il traguardo delle duecento pubblicazioni e confermando il suo ruolo primario nel segmento underground, tag identificativa di un genere-contenitore che va dalla garage alle dub strumentali dai suoni ombrosi. Arrivano “Mayo” dei Flying Squad (Fabio Locati e Salvo Doria), tra saliscendi di conga afro e striature progressive, “Dance Now” di Franco Moiraghi Feat. Amnesia, dove emerge un canto spiritual, “Swing & Move” di Orbiting Eskimo Dance Society, prodotto da Craig Bevan e remixato dal team degli L.W.S., e “Delicious Poem” dei Delicious Inc. (Nello Nicita, Jamie Lewis, Jose Orellana e René S.) al lavoro sul ritaglio ritmico preso dal brano di Bucketheads edito qualche mese prima sulla newyorkese Henry Street Music di cui si parlerà più avanti. I Visnadi propongono il nuovo CYB, “Come On Boy”, ipnotica marcetta pubblicata anche su CD che non divide nulla con l’omonimo dei modenesi DJ H. Feat. Stefy di qualche anno prima a eccezione del titolo e dell’hook vocale, e un’apprezzata licenza è “Just Can’t Take It” di Reggie Rough Feat. Annette Taylor impreziosita dal remix dei Fathers Of Sound seppur a funzionare di più sia la Club Mix di Joey Moskowitz, già presente nella prima tiratura su E Legal. Aria di remix pure per “Don’t Give Me Your Life” degli Alex Party, ritoccata tra gli altri da Dancing Divaz, ai tempi una sorta di “re Mida” della house d’oltremanica. Dalla Planet Blue arriva “Jungle Dreams” dei Naked Souls e dalla citata Henry Street Music di Johnny “D” De Mairo “The Bomb EP” del citato Bucketheads, progetto di Kenny “Dope” Gonzalez. L’impulso creativo di uno dei due brani inclusi, “These Sounds Fall Into My Mind”, viene espresso mediante il magistrale uso di un sample preso da “Street Player” dei Chicago, e diventa presto una smash hit di dimensioni planetarie, con relativo videoclip a basso costo diretto da Guy Ritchie e Alex De Rakoff girato nel centro di Londra con una super8. Il successo è tale da rendere quasi inutile la presenza del brano finito sul lato b, “I Wanna Know”, pure questo ispirato da un pezzo del passato, “Motivation” degli Atmosfear.

Salerno, Carbonero e Corinaldesi con una mano danno alle stampe il secondo U.S.E. intitolato “Bad Boy”, con l’altra approntano “Danger Zone” di Dangerous Society, Justine Mattera ritorna con “Be Sexy”, ancora prodotto dai Fathers Of Sound ormai consacrati a livello internazionale (nel ’96 mixeranno uno dei volumi della saga “Renaissance”) e riappare pure Ce Ce Rogers con nuove versioni di “Come Together”, preso in licenza dall’americana Groove On di George Morel. Tra i remix, usciti anche all’estero, quello degli L.W.S. e dei New Wave Explorers (Mario Conte e Patrizio Squeglia). Arrivano da oltre i nostri confini la doppia a-side “Juice / The Way” dei portoghesi A. Paul e J Daniel, “Love” di Quadripart (sormontato dal campionamento di “The Visitors” di Gino Soccio) e “The Tribal Recordings” di Kuyoe’s Children in origine su Nervous Records da cui emerge l’afro house di “Mosquito Drums”. Made in Lazio invece “Play House” di Sohante Feat. B.S.J., un pezzo senza troppe pretese prodotto da Claudio Coccoluto, remixato da Dino Lenny e sui mettono le mani pure Enrico ‘BSJ’ Ferrari e Sante Pucello, quest’ultimo trasformatosi da lì a breve in Santos. I Visnadi, nel frattempo, riportano in vita per l’ultima volta il progetto Cool Jack inizialmente coprodotto con Angelino Albanese, partito nel ’92 con “Just Come” e proseguito l’anno dopo con “Try The Feeling” con la voce di Tom Hooker. È proprio il cantante americano, noto per aver interpretato alcuni brani di successo di Den Harrow, a occuparsi di “Get Me Going”. Tra le tante versioni anche il remix degli onnipresenti L.W.S. e di Walterino. Sono sempre i Visnadi a produrre, insieme a un certo Gianfri DJ, il nuovo Gradiva intitolato “I Gotta Know”, una sorta di Alex Party ma con meno potenzialità di airplay radiofonico. Coccoluto e Martinez invece si ribattezzano ironicamente Mimì E Cocò per “Bandit”, una traccia animata dalle percussioni e vari campionamenti funk/disco. Marchiate col catalogo Progressive sono le uscite di Xyrex (Franco Canneto, Enrico Aprico e David Rossato sotto la guida di Zenith), “Heaven” dei già citati New Wave Explorers, “Volume 1” di Esoteric Society (Floriano Fusato, Emanuele Vola e Alberto Guerretta), i remix di “Traum” di Positive & Gianni Parrini, “Los Parajso De Los Locos” di Mediterraneo Feat. Franchino (prodotto da David Togni e Alessandro Del Fabbro con remix annesso di Mario Più) e “You Got To Be There” del team iberico Kadoc. Batte bandiera portoghese invece “Work In Progress” di L.L. Project (Luís Leite e il noto Rui Da Silva) a cui seguono “A Lollipop For You” di Dick, poco fortunato follow-up di “I’m A Real Sex Maniac”, “Justify” dei Bound Beat, “Let Me In” degli Old Skool, “Come Together” dei Double FM, “Don’t Give A Damn” di Vena, “Inner Waterfall” di Positive Shah, “Back To Roots” dei Delicious Inc., “20 Hz” di Channel 3 e diverse licenze estere, “God’s An Astronaut” dei Blunt Funkers (con remix di StoneBridge & Nick Nice), “Black, Sinister, Science EP” dei Kings Of Tomorrow, “Mad House (Volume 1)” di Charlie Casanova trainato da “You Can Have It”, suonatissima nei club house d’oltreoceano, “The Dynamic Cutz Vol. 2” di Johan S., “Dance With Me” di Latin Impact e “Can U Feel It” di The Squad, progetto nato a Miami dalla collaborazione tra il nativo George Acosta e l’italiano, ma trapiantato in Florida, Chicco Secci. Prodotto da Mousse T. per la Peppermint Jam e avvalorato dal remix di StoneBridge & Nick Nice e da una versione di Bini e Perniola, “We’ve Got Love” di Ve Ve Brown è annunciata come una potenziale hit ma nonostante gli ottimi presupposti non riesce a scavalcare la palizzata dell’underground.

Alex Party - Wrap Me Up
“Wrap Me Up”, la hit estiva degli Alex Party

Osannato dalle radio sparse per il globo (in particolare quelle italiane, britanniche, francesi, spagnole e australiane) è invece “Wrap Me Up” con cui gli Alex Party toccano uno dei punti più alti della carriera. Il brano, doverosamente accompagnato da un videoclip, è una sorta di modernizzazione della vecchia italo house di fine anni Ottanta, con pianoforti in evidenza ma senza uso e abuso di campionamenti a favore di una parte vocale cantata ancora da Shanie che lo colloca, di fatto, in contesti eurodance. Tra i successi estivi made in UMM, oltre a The Bucketheads in licenza dagli States, anche il nuovo dei Blast, “Sex And Infidelity”. Sul lato b compare il remix dei Ti.Pi.Cal. ma a fare la differenza è la versione confezionata in Svezia dagli infaticabili StoneBridge & Nick Nice. Per una curiosa coincidenza Alex Party, The Bucketheads e Blast appaiono consecutivamente nella tracklist del secondo volume della “Alba” di Albertino, tra i bestseller italiani della stagione nel settore compilation. Non sottraendosi proprio al redditizio mondo di quel comparto, la UMM pubblica su CD e cassetta “The Bomb Collection”, una raccolta house con tracce prevalentemente tratte dal catalogo (tra le eccezioni “Dance Your Funky” di Pagany Feat. Shaneen e “Planet Funk” di Alex Neri). Il tutto mixato da Paolo Martini. Dopo circa due anni riappare “I Can’t Get No Sleep” dei Masters At Work Featuring India: sul precedente i remix erano di Mark “MK” Kinchen, adesso sono firmati da James Preston e David Morales. Analogamente a quanto avvenuto sullo UMM 072, anche in questo caso la logo side è occupata dal simbolo della Cutting Records da cui, per l’appunto, il brano è preso in licenza. Ulteriori versioni vengono solcate su un secondo mix. Importato dall’estero è anche “It Must Be Love” di Club Freaks interpretato da Angel Williams che, peraltro, firma come artista la versione originale su Herbal House Records. A contraddistinguere la stampa italiana sono due remix dei Kamasutra (Alex Neri, Marco Baroni e Mr. Muzak). Con un frammento preso da “Atom-B” di Atomizer, gli italiani S-Naked costruiscono la loro “Now I Know”. Ad armeggiare dietro le quinte sono Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea, meglio noti come Ti.Pi.Cal., che orchestrano il tutto su una voce che ricorda quella di VDC dei Blast. Progetto nuovo di zecca è pure quello di Gianmarco Silvi, Mimmo Turone e Monia Piazzi, The Grind Company, che consuma la sua unica apparizione col poco noto “When We Grind” scandito da una voce maschile suadente e ammiccante in stile “Men Adore…” dei Fierce Child. Scarsi riscontri per “Just A Groove” di Geetraxx, prodotto a Milano presso il Gianburrasca Studio di Marcello Catalano, intervistato qui, insieme a Walter Bassani. Sul lato b il remix di un certo Alex Gee, salernitano che lavora nel capoluogo lombardo come promoter per la Flying Records e destinato a una rosea carriera con le sue coordinate anagrafiche, Alex Gaudino.

In autunno è tempo del nuovo The Bucketheads che però non riesce a replicare i fasti del precedente. “Come And Be Gone” si muove su coordinate simili, un metti e togli di sample disco/funk su telai house, ma è privo del quid che potrebbe trasformarlo in una hit trasversale. Sul lato b c’è un remix di “These Sounds Fall Into My Mind”, a onor del vero più simile a un re-edit piuttosto che a un remix. Un altro one shot nato e morto su UMM è 123 Prospect: con un occhio allo stile dei morilliani Reel 2 Real, Ciro ‘DJ Bubu’ Sasso e Martin ‘Monster’ Aurelio approntano “Get Loose” con l’intervento vocale di David Lavoy. Insieme a nuove licenze messe a segno da Tardio, “El Cojo” di Boriqua Brothas, “The Thing I Like” di Aaliyah coi remix di Paul Gotel e “Love Rendez Vous” degli M People, arrivano “Heroes” di Gianni Parrini Feat. Principe Maurice (cover del classico di David Bowie), “Neid” di DJ Ginger, il primo volume di “Save The Planet” dei Divine Dance Experience, “Revenge” di Kriminal Elements, il secondo volume di Esoteric Society e nuove versioni di “My House / No More Mind Games” di B.O.D. (tutti su UMM Progressive), i remix di “We Got A Love” di Violante Project e di “Wrap Me Up” degli Alex Party e “Blow” di Ricky Soul Machine & Jackmaster Pez, un doppio mix a cui abbiamo dedicato un articolo qui e impreziosito da una versione di Johnny Vicious. Tocca poi a “Don’t You Want My Love / Disco Boom” di Mauro MBS, un altro collage sampledelico (assemblato con Albino Barbero nel suo Rockhattle Studio di Cavallirio, in provincia di Novara) che attinge a piene mani dall’immenso campionario disco funk degli anni Settanta, “You Can’t Touch” di The Tribute, un single sided realizzato in Svizzera da Dario Mancini alias Djaimin intervistato qui, e “The World Around”, traccia con cui Roberto Carbonero, Marcello Salerno e Roberto Corinaldesi chiudono la trilogia di U.S.E. partita circa un anno prima.

Moiraghi - Feel My Body
“Feel My Body” di Moiraghi Feat. Amnesia garantisce ottimi riscontri nell’autunno ’95

Menzione a parte merita “Feel My Body” di Frank ‘O’ Moiraghi Feat. Amnesia, un pezzo edificato come una specie di mash-up tra la base di “Utopia – Me Giorgio” di Giorgio Moroder e i ritagli vocali di “Feel My Body” di Talena Mix. Il successo, supportato adeguatamente da un videoclip, abbraccia prima i club e poi le discoteche generaliste. Pensata come etichetta destinata ai DJ, la UMM convoglia la quasi totalità delle sue pubblicazioni su 12″ ma di tanto in tanto concedendo spazio anche a qualche raccolta come “100% Rendimento Compilation”: il primo volume esce in autunno, prevede la pubblicazione sia su CD che cassetta, e raccoglie sedici tracce selezionate da Christian Hornbostel (intervistato qui) ed estratte dall’omonimo programma in onda su Radio Italia Network. Pochi mesi dopo è la volta del secondo volume la cui tracklist accoglie (prevedibilmente) alcune tracce del catalogo UMM. Sull’onda di “Feel My Body” Franco Moiraghi e Marco Dalle Luche realizzano “Listen To The Rhythm” come Manumission ma con risultati diversi. Alessandra Argentino torna (per l’ultima volta) sulla label campana con “Love 2 Love”, ancora prodotta da Roberto Ferrante e Vincenzo Bottiglieri e contando su un remixer come Don Carlos che con “Alone”, di cui parliamo qui, aveva dato una nuova spinta alla house nostrana a inizio decennio, Positive Shah sgancia il suo “The Shah EP” su due dischi di cui uno single sided, Violante e Corinaldesi si reinventano come VHC e il pezzo “You” che vola sulle ali della garage più sognante, i Visnadi (all’opera su uno dei remix della rediviva “Deep Inside” di Hardrive) e Massimo Zennaro dei Fishbone Beat e Paraje, intervistato qui, confezionano “No Smoking” come Ashman. Sono sempre i Visnadi, in compagnia di Roberto ‘Long Leg’ Sartarelli e la cantante Cristina Dori, ad approntare il nuovo X-Static, “Move Me Up” di cui parliamo qui, pensato per replicare i fasti di “I’m Standing” ma con risultati meno dirompenti sul fronte internazionale, analogamente a quanto accade a “Lick It Up” di Olga, questa volta realizzato dal team L.W.S. con Johanna Jimenez giunta appositamente in Italia dagli States. Successo quasi esclusivamente italiano è anche quello raccolto da “I Try” degli Activa, team di produzione in cui figurano Andy Mathee, Paolo Reverdy, Gino Cavazzana e Gabriele Pastori. La voce è di Kimberly Lawson mentre il remix di Alex Gee (Alex Gaudino). Durante l’ultimo scorcio del ’95, tra gli anni maggiormente prolifici per UMM, escono “It’s Time To Come” dei CYB, che un po’ ricorda “Petal” dei Wubble-U, “Eau De Chanté” dei Delicious Inc., “Atmosphere” di House Culture che Marcello Salerno produce con Moreno Pezzolato, “Sam Traxx EP” di Sam Traxx alias Samuel Paganini, “The Lion And Other Stories” dei Visnadi, “A Forest” degli L.W.S. (cover dell’omonimo dei Cure) e “I Wanna See You Jumpin’ Around” ancora degli L.W.S. ma pubblicato a nome Jack Romer, l’ennesimo dei nom de plume coniati col fine di eludere l’inflazione. Il 1995 è l’anno in cui UMM pubblica più dischi in assoluto, circa un centinaio. La Flying Records ormai è un colosso internazionale con filiali in due Paesi chiave del business discografico, Regno Unito e Stati Uniti e, come afferma Angelo Tardio in un articolo di Mark Dezzani pubblicato da Billboard l’1 luglio, «rappresentiamo la più piccola major e la più grande indipendente ma, a parte le infrastrutture, siamo consapevoli che sia la musica a muovere il mercato». Gli esordi ormai sono lontani, la società conta su un efficiente ramo distributivo e un poderoso parco clienti, tuttavia la situazione sta per ribaltarsi radicalmente.

Future Traxx Vol. 1
Con “Future Traxx Vol. 1” la UMM raggiunge la pubblicazione numero 300

1996, il vento sta cambiando
Con occhiate decise al fortunato stile dei siculi Blast, i The Groovers (Roberto Bajotti e Antonello Ferrari) assemblano “Ride On The Power” avvalendosi della voce di Wayne Lewis, Gianni Parrini invece, spalleggiato da Floriano Fusato, riempie un doppio mix con quattro versioni di “Cosmopolis” oltre a compilare e mixare il terzo volume di “Trance & Progressive”, compilation su CD e cassetta. In copertina una rielaborazione futuristica dell’uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci. UMM raggiunge quindi l’uscita numero 300, “Future Traxx Vol. 1”, compilation edita su triplo vinile, CD e cassetta che, fedele al titolo, raccoglie e anticipa alcune delle pubblicazioni imminenti e future. Un’approfondita lettura dei crediti rivela un importante cambiamento dietro le quinte: Angelo Tardio abbandona la Flying Records lasciando le redini della UMM nelle mani di due nuovi A&R, Giuseppe Manda e Maurizio Clemente. Accanto a loro Paolo D’Alessandro opera nel ruolo di international business affair manager. Frammisto tra trance e progressive è “Dream To The Beat” di I.D.C.C., neo progetto attivato da Floriano Fusato e Gianni Parrini col contributo vocale di Who alias Dr. Felix. Su UMM Progressive confluiscono anche “Tinnitus” di Timelock alias Marcel Franke, “Pianosphera” di DJ Ginger, in chiave smaccatamente dream, “Friends” dei F.E.N., l’EP di Mediterraneo Feat. Franchino, contenente pezzi osannati dai “guerrieri” della progressive toscana come “Viaje” e “C’era Una Volta”, “The Nighttrain” degli spagnoli Kadoc, diventato un successo mainstream, “Age Of White” di Spiritualist, il secondo volume di “Save The Planet” dei Divine Dance Experience (Sergio Datta, Maurizio De Stefani e Michele Generale), le cui vendite vengono alimentate da un paio di tracce finite nell’airplay radiofonico come “To The Piano” (con un innesto melodico ispirato da “Fantasia” di Cosmic Baby) e “To The Rhythm”, e “Bassline” di S.O.P., ennesima produzione generata nell’HWW Studio a Cassino da Dino Lenny, Claudio Coccoluto e Savino Martinez. Una delle prime hit house dell’anno è “Deep In You” di Tanya Louise, pezzo in circolazione sin dal 1994 ma che adesso trova modo di affermarsi grazie al remix di StoneBridge usato per sincronizzare il videoclip. Le versioni a disposizione sono così tante da riempire un doppio e un singolo.

L’attività sul fronte licenze, determinante per l’etichetta, viene debitamente tenuta in vita: arrivano “Do It / It’s Gone / Ball Chains” di Glenn Underground, “I’m So Grateful” dei Kings Of Tomorrow (un doppio che raduna remix prestigiosi di Angel Moraes, Matthias Heilbronn e Joey Negro), “I’ll Take You To Love” di Naked Music NYC, “Treat Me Right” di Temple Of The Groove, anche questo in doppio mix, “Shout-N-Out” dei Lood, triumvirato tra Little Louie Vega e i Mood II Swing, e “In Your Soul” dei Latino Circus. Tra i made in Italy, invece, “Talking About” di Male Force, i remix di “Crayzy Man” dei Blast a firma Kamasutra, l’EP di Roberto Masi e Fabio Fiorentino, “Jam Experience Part 1 EP” di Walterino 4 L.W.S., “One Night” di Saxation, “Odissey” di Mell Ground, “Free Your Mind” dei Funkcyde e “Hold On” di House Tribute. La mole del materiale, come è facile presumere dal numero dei titoli elencati, è ancora tanta, UMM mette sul mercato più dischi al mese ma qualcosa sta iniziando a cambiare. In primis c’è da considerare l’ondata progressive che domina il mercato italiano e conquista la priorità. Il successo di “Children” di Robert Miles, di cui parliamo qui, apre di fatto una tendenza che finisce col penalizzare la house music, specialmente quella sul versante garage. Gli effetti non tardano a palesarsi: Frank ‘O Moiraghi prova a bissare “Feel My Body” con “Baby Hold Me”, attingendo gli elementi vocali ancora da “Feel My Body” di Talena Mix, ma non riuscendoci, e obiettivi falliti sono pure quelli dei The Groovers con “You’re My Woman” e di Tanya Louise con “Lovely Day”, pubblicata speranzosamente anche su CD. Giungono nuove versioni di “Read My Lips” degli Alex Party che aiutano a tenere alte le quotazioni del brand sul mercato internazionale ma con poca presa su quello domestico rapito, per l’appunto, dalle formule della dream progressive. Vale davvero la pena ricordare però che i Visnadi, nel frattempo, spopolano con “Don’t Stop Movin'” di Livin’ Joy, progetto partito nel ’94 con “Dreamer” che macina oltre un milione di copie oltremanica ma viene snobbato in Italia, con la voce di Janice Robinson poi sostituita da Tameka Starr e sotto la guida della Undiscovered che, tra i fondatori, annovera Angelo Tardio, ex honcho della UMM.

Sunset People - Dreaming Ain't Enough
“Dreaming Ain’t Enough” dei Sunset People è l’unico UMM a essere pubblicato in formato 10″

Dall’estero Manda e Clemente prendono in licenza “Where Love Lives” di Alison Limerick, con remix di Dancing Divaz, David Morales, Frankie Knuckles, Romanthony e i Perfecto di Paul Oakenfold, “Final” degli Hustlers Convention (meglio noti come Full Intention), “I Love You” di Vicky Martin, “Dreaming Ain’t Enough” dei Sunset People (Andrew “Doc” Livingstone, Victor Simonelli, l’unico del catalogo a essere solcato in formato 10″), “I Wanna Live 4 U” dei Rhythm Of Soul, “Alright Now” di Soul Symphony, “Theme From Circus” di Energy Factor alias Ralphi Rosario e “Love Commandments” di Gisele Jackson che troverà successo l’anno dopo col futuro remix speed garage dei Loop Da Loop. Grandi energie vengono spese per assemblare “Feel The Light” di The Family Presents A Tony Humphries Project, pubblicato anche su CD singolo e anticipato da un doppio promo con vari remix tra cui quelli di Victor Simonelli e Oscar G dei Murk. Confinati ai club restano “Move On Your Body” del trevigiano Lys, “Don’t You Know” del napoletano Corvino Traxx, prodotto insieme a Marco Carola, e “Gimme Love” dei Kasto, nuova incarnazione dei siculi Ti.Pi.Cal. con la voce di John Biancale. I New Wave Explorers si fanno risentire per l’ultima volta con “Whatever”, garage di ottima fattura meritevole di raccogliere più frutti, e un discorso simile spetta anche a “2 Be Free” di Funk Revelation, neo act messo su dai cugini Frank e Max Minoia reduci dall’exploit internazionale ottenuto con Joy Salinas nei primi anni Novanta di cui parliamo qui. In scia arrivano i remix di “Back Home” di Joe Smooth realizzati da Tommy Musto, “Never Again” di The Groove Master, “Be Yourself” di Sawaya, “Do You Want It” di The Sound Of One (alias Lenny Fontana), “4 Your Love” di House Of Taste, “Good Tymz” di Romanthony, “National Groove EP” di Luis Radio & Studio 32 e “Assassin” di Martini, rivisitazione del brano scritto da Peter Nashel per lo spot del noto drink. A firmare le due versioni sono Junior Vasquez e Joe T. Vannelli con la voce di Justine Mattera. Riservata al solo CD la compilation “The Best Of The Best” che setaccia il catalogo raccogliendo poco più di una decina di tracce con particolare predilezione per conclamati successi internazionali come Alex Party, Blast e X-Static. In alcune copie finisce la LSC – Levi’s Stretch Cash, tessera che permette di accedere a iniziative nelle jeanserie del noto marchio statunitense, lo stesso che due anni dopo coinvolge numerosi DJ italiani (da Francesco Farfa a Massimino Lippoli, da Leo Mas a MBG, da Mario Scalambrin a Joe T. Vannelli passando per Francesco Zappalà, Leo Sound, Tony Cosa, Lisa Alison, Killer Faber, Alex Neri, Gigi D’Agostino, Massimo Cominotto e altri ancora) in un’iniziativa legata al modello 417.

CYB - I Love You Darling
“I Love You Darling” dei CYB, un discreto successo commerciale

1997, la disfatta
Nei primi mesi del ’97 la dream progressive, che ha tenuto banco per tutto l’anno precedente, inizia a perdere quota. Il mercato italiano è saturato da prodotti simili o smaccatamente uguali (difficile tenere il conto esatto dei cloni usciti di “Children”) e questo determina anche la veloce parabola discendente di un movimento nato nei club e lontano dalle classifiche di vendita, dalle radio e dal pubblico generalista. Tuttavia l’eclissi non è repentina, nel primo scorcio dell’anno funzionano ancora tracce strumentali o quasi, come “I Love You Darling” di CYB, progetto che i Visnadi riportano per la penultima volta nei negozi con la complicità di Ottorino ‘Ottomix’ Menardi. Convogliato prevedibilmente sul tentacolo Progressive e anche in formato CD, il pezzo, non pretenzioso e forse fin troppo cheesy per apparire su UMM, conquista il favore di Albertino che lo inserisce nella compilation “DeeJay Parade” tornata dopo la pausa occupata dai sei volumi “Alba” usciti tra ’95 e ’96. UMM Progressive pure per il terzo e ultimo volume di Esoteric Society, curato da Floriano Fusato, e per “The Grid EP” degli Upuaut (Steve Battarra e Andrea Bracconi). Solcato su un 12″ rosso è “Desire” di The 3angle, ennesimo progetto proveniente dal team palermitano di Tignino, Piparo e Callea che, nel frattempo, mantengono vivo Ti.Pi.Cal. inaugurando una nuova fase della carriera con la cantante Kimara Lawson.

Alex Party - Simple Things
Con “Simple Things” gli Alex Party non riescono a ripetere il successo dei precedenti

In primavera tornano gli Alex Party: “Simple Things”, cantato ancora da Shanie, riparte lì dove era finita “Wrap Me Up” circa due anni prima ma, forse a causa di un ritornello non efficace, risulta incapace di garantire gli stessi risultati e a poco servono i due remix incisi sul lato b realizzati oltremanica dai Rhythm Masters. Prodotto a Londra da Cricco Castelli è “Time’s Gonna Work” di Lorraine Lowe mentre arriva dagli States “Love Tight” di Victor “Overdose” Sanchez. Assemblato in Liguria da Miki Talarico è “Gost” di Future Bass, dalla Campania giungono “Please Come” di Money System, “Itaparica” di Wigwam e “Test Pressing EP” di The Quartet prodotta da Salvatore Oppio e Salvatore Trinchillo. Su UMM Progressive tocca a “Vibrations” di D.S.P., “Orange” di Lys e “Racing Tracks ’97” dei CYB. Prodotto da Nick Morris e Jamie Lewis al B.S.S. Studio di Messina è “Paradise People” di N.J.P., Daniele Danieli ed Enrico Santacatterina si occupano di “Hold Me Back” di Rosa Garett, Oscar B. & Fabio “Red” Faltoni firmano “Don’t Stop” e i siciliani Tignino, Piparo e Callea tirano fuori dal loro Entroterra Studio “Message Of Love” di S-Naked.

X-Static - True Love
“True Love” di X-Static tira il sipario sulla UMM di casa Flying Records

Sebbene il seguito di “Deep In You” non centri l’obiettivo, UMM pubblica il primo e unico LP di Tanya Louise intitolato, banalmente, “The Album”. Dal lavoro edito su triplo vinile in edizione limitata e in CD, viene estratto anche un singolo, “Tougher”, scritto insieme a Joe Smooth. Limitato a una tiratura su white label è il disco di Key Dopa Feat. Adri, prodotto da Giancarlo Chieco e Donato Settanni, incapace di uscire dall’anonimato. A passare inosservato è pure il nuovo X-Static intitolato “True Love”, prodotto dai Visnadi e Ricky Stecca con evidenti rimandi ad Alex Party e cantato dalla triestina Federica Micheli, già voce per alcune produzioni uscite dal Palace Recording Studio di Andrea Gemolotto come “Automatik Sex” ed “Elektro Woman” di Einstein Doctor DJ, intervistato qui, ed “Eins, Zwei, Polizei” di Mo-Do. È l’ultimo disco che la Flying Records pubblica su UMM: la struttura napoletana, dopo aver vissuto anni memorabili, non riesce a risolvere le criticità gestionali e finanziarie e fallisce schiacciata dai debiti. Ma la storia della UMM non è ancora finita.

grafico uscite UMM
Un grafico che mostra l’attività della UMM dal 1991 al 1997 in relazione al numero di pubblicazioni annue. L’apice nel 1995 quando sul mercato arrivano circa 100 uscite nell’arco di 12 mesi
Abduction - Proud Mary
Con “Proud Mary” di Abduction la Media Records riavvia la UMM nell’autunno ’98

Marchio uguale mood diverso, la UMM del post Flying Records
Brescia, 1998: dopo aver acquisito i diritti per l’utilizzo in ambito discografico, la Media Records di Gianfranco Bortolotti rilancia il marchio UMM. Così, in autunno, il brand nato sette anni prima torna nei negozi di dischi con “Proud Mary” di Abduction, progetto curato da Mario Più e Mauro Picotto. Il brano gira su campionamenti tratti dall’omonimo dei Creedence Clearwater Revival scritto da John Fogerty e annovera una versione di Enrico Rossi e Stefano D’Andrea. Sotto il profilo grafico, l’etichetta si ripresenta con un logo simile a quello originale ma abbinato a immagini dell’iconografia religiosa, in quel periodo usate da Bortolotti per declinare alcuni advertising della Media Records. Sui dischi invece le diciture “this side” e “that side” vengono sostituite da “Jesus Icon” e “Apostles Icon”. Nel 1999 seguono “Keep On” degli House Breaker (Luca Lento, Roberto Terranova e Vincenzo Callea) in scia al cosiddetto french touch che prende piede nel mainstream, e “For Your Love” di Jim De Vitt, arrangiato da Raf Marchesini e Paolo Sandrini. Poi una nuova e lunga pausa sino al 2001, quando la direzione artistica viene affidata a Enrico Ferrari alias Barry Saint Just, reduce dal successo internazionale di “You See The Trouble With Me” di Black Legend. Per Ferrari si tratta di una sorta di ritorno su UMM, per la quale nel 1995 ha già inciso “Play House” di Sohante, insieme ai ragazzi dell’HWW Studio (Coccoluto, Martinez, Lenny). Con Angelo ‘Fun-K’ Raggi realizza “Everybody Everywhere” e “That’s A Trip” di Elephant & Shepherd a cui collabora il tastierista Gianni Abruzzese. Sul fronte remix i due ritoccano “New School Fusion” dei Rhythmcentric, un pezzo preso in licenza dagli States prodotto da DJ Foxx e DJ Sensé che sul lato a annovera due versioni dei Basement Boys. In solitaria invece “Electro Y.A.M.”, che celebra il vibe tribaleggiante degli anni migliori della UMM. Il 2002 è una delle annate più prolifiche del nuovo corso, seppur il cambio di passo rispetto ai tempi più rosei della Flying Records sia ben più che evidente. Arrivano “Shake Da Shake” di Furilla, “No Reason” dei Mambana (con remix di Axwell), “Kiss Me More” di CRW Feat. Veronika, “My Heart” dei redivivi 49ers, “Blow Your Mind (I Am The Woman)” di LP Project alias Lisa Pin-Up, “I Want Your Sex” di Soho Boy, cover dell’omonimo di George Michael prodotto da DJ Pagano con la voce di Alessandro Perrone, “To Me / Time Flies” di Masters, i remix di “Like I Love You” di Justin Timberlake a firma Deep Dish e Basement Jaxx, “Macumba / Voodoo” di Dogon Tribe e “On The Road” di Funky Punk, rimaneggiamento di “On The Road Again” degli spagnoli Barrabas.

Il mercato discografico dei 12″ destinati ai DJ sta per entrare nella crisi più nera, da un lato alimentata dalla diffusione della pirateria informatica e dei software peer-to-peer, dall’altro dai nuovi sistemi messi a disposizione dalle aziende come CDJ più performanti e sistemi digitali tipo Final Scratch. Il disco in vinile non è più l’unico supporto adoperabile dai DJ e questo rivoluziona irreversibilmente il comparto incidendo negativamente sulle vendite che crollano in modo verticale. Le conseguenze emergono presto, con moria generalizzata di etichette indipendenti e chiusura di distributori. Nessuno esce indenne dalla digital storm, neppure le realtà più consolidate come la Media Records costretta a ridurre progressivamente il numero di pubblicazioni annue. Nel 2003 su UMM è la volta di “Good Enough” di Fabio M, “I Won’t Be Waiting” e “Make A Move” di Furilla (la Plastic Dub Mix viene messa in moto dal campionamento di “Lost Angeles” di Giorgio Moroder), “Talk 2 Me” dei K-Klass, “Move Your Feet” dei Junior Senior potenziata dal remix dei Filur, “Get Set” di Masters, le versioni di Furilla di “Let The Sunshine In” dei 49ers, “Number One” di The Cat & Mr Cool e “Gipsy” dei tedeschi Gipsy, ripubblicata anche con remix di Robbie Rivera. Seppur il marchio resti lo stesso, appare evidente una discontinuità col passato, non tanto per la quantità di pubblicazioni la cui soglia viene erosa dalle ragioni economiche legate al mercato non più ricettivo come quello degli anni Novanta, quanto al mood profondamente differente. La UMM rinata a Brescia nel ’98 appare radicalmente diversa rispetto a quella partorita a Napoli nel ’91. Un’operatività portata avanti a fasi alterne sommata a un non chiaro obiettivo finisce con lo smontare l’apparato originario. All’etichetta ripartita in Lombardia manca dunque la visione, la ricerca e soprattutto l’incubazione di nuovi talenti. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila la casa discografica bortolottiana punta quasi tutto su BXR che garantisce risultati di assoluto pregio, così come raccontiamo qui, e probabilmente è anche ciò a determinare un livello di attenzione ridotto per UMM e un’altra storica etichetta house nata tra le sue mura, Heartbeat, a cui abbiamo dedicato qui una monografia, entrambe protagoniste di una parabola in costante flessione. Qualche stimolo in più viene destinato alla Shibuya Records partita nel 2000 e affidata ad Alberto Casella, intervistato qui, sulla quale “atterrano” nomi come Bob Sinclar e Celeda, ma pure quello si rivelerà essere un fuoco di paglia.

La corsa di UMM riprende nel 2004 con “My Mood” ed “Anything Is Mother” di Furilla, “Just Fuck” di Tom Neville, “Essential” di Fabrizio Rubessi, “Fast Driving / Helium” dei finnici Dallas Superstars e “Slip Away” di Mohito Feat. Howard Jones con remix di Steve Angello. La discografia è claudicante e si sta impantanando, Bortolotti ha lasciato la direzione della casa discografica a Filippo Pardini e non c’è più tanta pianificazione o strategia. Alla manciata di uscite anonime del 2005, “You And I” di Junior Brasco e “Fuck Me” di Greg Access & Pawel Labrentz, segue nel 2006 “2K6 EP” di Club House, edificato sulle cover di “Speed Of Sound” e “Don’t Stand So Close To Me” rispettivamente dei Coldplay e dei Police, e nel 2007 una doppia compilation su CD banalmente intitolata “Best Of UMM” che fruga nel catalogo mettendo insieme classici di un passato ormai remoto e nuovi remix usciti poco tempo prima come quello di “Now” dei CYB realizzato dai Cosmic Gate e quello di “I’m Standing” di X-Static approntato da Francesco Diaz. Nel frattempo il brand UMM passa ancora di mano e viene utilizzato dal team della filiale britannica della Media Records diretto da Pete Pritchard e David Louca che lo usa per marchiare una serie di pubblicazioni tipo “Be Free With Your Love” di Miami Dub Machine, “Jus Luv Bass” di Deepgroove, “Moonlight Party” di Fonzerelli e “What You Gonna Do?” di Jonathan Ulysses, musicalmente agli antipodi di quello che erano i contenuti dell’etichetta diretta da Tardio.

UMM last logo
Il logo UMM che accompagna l’ultimo tentativo di rilancio

A gennaio del 2017, dopo dieci anni di silenzio, Gianfranco Bortolotti “riaccende” la fiammella di UMM: nei negozi arrivano due 12″, “Eighteen EP” di Ten Words e “Snow In The Desert EP” di Joy Kitikonti, entrambi annessi alla corrente della “bigroom techno”. Gli scarsi riscontri convincono a tirare i remi in barca e rivedere la strategia per rispondere meglio a un mercato dinamico e in perenne evoluzione e ripartire, questa volta solo in digitale, nel 2018 con un nuovo A&R, Marco Dionigi. «La UMM cambia veste e rotta, del resto sono stato chiamato proprio per cambiare tutte le carte in tavola» afferma il DJ veneto in un comunicato stampa diffuso in Rete. «Bortolotti mi ha interpellato perché voleva dare a UMM una nuova identità. Proprio come me, lui non ama guardare al passato: è un visionario come lo sono io, ed è rimasto molto colpito dalle produzioni nu disco. Mi ha chiesto quindi di prendere in mano la label e costruirci sopra una nuova realtà musicale che mantenga però la posizione di fare musica d’avanguardia e puro clubbing sound». Per l’occasione Dionigi aggiunge che punterà su vari artisti senza dimenticare demo, sia italiane che estere, ma alla fine otto delle nove uscite finite negli store sono firmate da lui. Il sipario si chiude a maggio del 2019 col “Deeper EP” del salernitano Francesco Romano.

La testimonianza di Angelo Tardio

Tardio @ Flying Posillipo
Tardio intento ad ascoltare dischi nella prima sede della Flying Records a Posillipo (1989 circa)

Cosa ricordi dei primi anni di attività della Flying Records?
A Posillipo eravamo in due garage attigui, in uno allestimmo l’ufficio, nell’altro, più simile a uno scantinato, la parte amministrativa. Cominciammo in sordina comprando dischi dai distributori milanesi tipo New Music International, Non Stop, Discomagic e Giucar e vendendo limitatamente ai confini regionali della Campania. Poi, circa un anno dopo, convinti delle nostre capacità, pensammo di espanderci e a quel punto tirai dentro Mario Nicoletti che divenne una persona chiave per l’azienda. Avevamo voglia di crescere e l’ambizione non ci mancava ma non era sufficiente, essere meridionali e nuovi nel settore purtroppo giocò a nostro svantaggio. Tanti negozianti del nord ci chiudevano il telefono in faccia ma, a conti fatti, fu proprio questo atteggiamento a spronarci ulteriormente. Cominciammo a prendere le prime licenze dall’estero e poi a stampare produzioni italiane, anche di successo. Nell’arco di poco tempo proprio quelli che quando dall’altra parte della cornetta sentivano nominare la Flying Records riappendevano il ricevitore senza neanche salutare furono costretti a ricredersi e a fare ordini da noi. Ricordo ancora quando importammo “Bad” di Michael Jackson dal Canada, con copertina in formato gatefold non ancora disponibile in Italia: ne vendemmo migliaia! La Sony, che in quel periodo acquisì la Epic, ci accusò di rovinare il suo fatturato. Insomma, la Flying Records dei primi tempi era un luogo in cui si faceva ricerca continua, con una predilezione per le cose più appetibili che potevano trovare un consenso nel mercato italiano.

Quali motivi ti spinsero a creare la UMM nel 1991?
Mi nutro di musica da sempre e negli anni Settanta ho fatto anche il DJ. Rock, soul, jazz, synth pop, new wave, dub, house, techno, breakbeat, trance, ambient, l’unica distinzione che ho sempre fatto è quella tra musica bella e brutta. Rincorrere le cose commerciali non era ciò che sognavo di fare e, sentendo crescere in me un impulso creativo, avvertii presto l’esigenza di creare qualcosa di completamente mio e di cui avrei potuto sentirmi diretto artefice. La UMM fu il risultato.

UMM Alter
Il fuoristrada Alter, uno dei modelli più noti della casa automobilistica portoghese UMM

Ricordi qualcosa sulla creazione del nome e del logo?
Per l’occasione svelo un dettaglio che non avevo mai raccontato prima di questo momento: il nome dell’etichetta nacque su suggerimento del mio socio di allora, Flavio Rossi, che era un patito di auto fuoristrada. Tra le sue preferite c’era la portoghese UMM (acronimo di União Metalo Mecânica, nda) e lanciò l’idea di usare la medesima sigla. A quel punto studiai un nuovo significato da attribuire alle tre lettere, in linea con quanto avessi in mente. Non mi interessava nulla delle classifiche, avevo semplicemente il desiderio di selezionare la musica che più mi piaceva, anche a rischio di vendere pochissime copie. L’accordo stretto con Rossi prevedeva che nessuno, tranne me, avrebbe dovuto e potuto sindacare sulle scelte legate a UMM. Per quanto riguarda il logo invece, ci pensò Patrizio Squeglia, amico con cui collaboravo sin dal 1983, anno in cui realizzò la copertina del primo disco che produssi, “Come On Closer” di Pineapples Featuring Douglas Roop. Lui creava idee, io vagliavo e proponevo eventuali alternative. In merito al logotipo, ricordo che optammo per un font mai più usato da nessuno in seguito, per quanto concerne il logo invece, la scelta cadde su un globo contraddistinto da una sorta di rete, quasi una connessione internet primordiale, la rappresentazione grafica del movimento della musica underground irradiato sul pianeta.

Cosa ti torna in mente ripensando ai primi mesi di UMM?
Il destino volle che proprio mentre nasceva UMM vivessi un periodo assai doloroso della mia vita dovuto alla malattia e alla prematura morte di mio padre. Per qualche mese fui costretto quindi a trascurare un po’ il lavoro e infatti le prime uscite su UMM furono il frutto di scelte condivise, al 70% mie e al 30% di altri, tra venditori e referenti della sede britannica della Flying Records che aveva aperto da poco a Londra. Alcune pubblicazioni, come “Detroit 909” di K.G.B. ad esempio, vennero pubblicate prima oltremanica e a testimonianza c’è anche il numero di catalogo diverso, 003, che divenne 004 per l’Italia. “Powerful” di Fighting 4 uscì su UMM solo nel Regno Unito, da noi fu deciso di convogliarlo su etichetta Flying Records. Lo 001, “Real Dream” dei D.B.M., venne scelto da Flavio Rossi dopo averlo fatto sentire ai venditori, lo 005 invece uscì solo in white label ed era di Shamal, progetto dietro cui operava il team siciliano formato da Daniele Tignino, Riccardo Piparo e Vincenzo Callea (con quella ragione sociale nel 1992 firmeranno “Freedom Party” per la milanese Palmares Records, nda). A volte stampavamo qualche centinaio di copie per capire se il progetto potesse funzionare o meno e quindi vagliavamo se proseguire con la pubblicazione ufficiale. La Flying Records dei primi anni Novanta contava su un team di circa una settantina di persone sparse tra Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti (fra le quali il promoter Claudio Arillotta, intervistato qui, nda), e visto l’importante ruolo che giocava allora la scena britannica, alcune decisioni erano determinate da chi operava a Londra e aveva il polso della situazione. Dopo aver avuto il tempo di organizzarmi però, ebbi il pieno controllo di UMM, etichetta che ho concepito in modo diverso dalle classiche, soprattutto quelle italiane. Per rimarcarlo decisi di sostituire il lato A e B con le indicazioni This Side e That Side. Non volevo seguire il modello della discografia tradizionale abituata a solcare sul lato A il pezzo forte e relegare al B il resto, per me non esisteva quella suddivisione.

Nel corso degli anni alcuni numeri del catalogo sono stati saltati, tra cui il 200. Errori o “buchi” intenzionali?
Difficile dare una spiegazione dopo così tanto tempo. Poteva trattarsi di white label a cui assegnammo il numero di catalogo e poi decidemmo di non pubblicare per qualche ragione, ma anche di banale casualità dovuta alla miriade di vorticosi avvenimenti di allora. In alcuni periodi UMM ha immesso sul mercato più di dieci uscite al mese quindi è legittimo pensare a qualche svista.

Conservi una copia di tutti gli UMM?
No, nemmeno uno. Del resto non ho avuto l’accortezza di conservare neanche una t-shirt o le mie produzioni tipo Kwanzaa Posse.

C’è un brano che avresti voluto prendere in licenza per UMM ma al quale, a causa di accordi non andati in porto, hai dovuto rinunciare?
Certo, più di uno. Il primo che mi viene in mente è “Plastic Dreams” di Jaydee (intervistato qui, nda), originariamente su R&S Records: feci di tutto per averlo ma Giacomo Maiolini offrì una cifra spropositata accaparrandoselo per la sua Downtown. Non mi sono mai piaciute le aste ma quella volta forse avrei fatto meglio a gareggiare, è una spina che mi è rimasta nel fianco. Un altro titolo è legato ancora al gruppo R&S Records di Renaat Vandepapeliere, “Selected Ambient Works 85-92” di Aphex Twin, che però uscì sulla sublabel Apollo. In quel caso non c’entrava il denaro bensì la precisa scelta, di Vandepapeliere, di non licenziarlo a nessuno per mantenere il completo controllo dell’opera. Potrei citarne anche un terzo, “Some Lovin'” dei Liberty City, progetto dei Murk e rilevato per l’Italia dalla D:vision Records. Tuttavia riuscii a coinvolgere ugualmente Oscar Gaetan e Ralph Falcon che vennero nello studio della Flying Records per registrare il remix di “Musika”, un singolo del mio progetto Kwanzaa Posse uscito nel 1993. Proprio in quello studio, allestito sul progetto acustico di Robert Quested ed equipaggiato con un magnifico mixer Amek Angela, qualche tempo dopo giunse Todd Terry e mi fece ascoltare in anteprima “Jumpin'” che presi all’istante per UMM.

Qual è stata la licenza più complicata da acquisire?
Senza ombra di dubbio “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, ma non a causa di ragioni economiche come qualcuno potrebbe pensare, visto che ero in ottimi rapporti con Mark Finkelstein della Strictly Rhythm e questo mi metteva peraltro su una corsia preferenziale rispetto ai competitor. Le problematiche sorsero invece con Erick Morillo che impose una lunga serie di condizioni a cui dovetti sottostare, ma ero talmente convinto delle potenzialità del pezzo da non arrendermi di fronte a tutte quelle difficoltà.

Daft Punk + Blake Baxter
Daft Punk e Blake Baxter, tra le pubblicazioni meno fortunate della UMM

Tra le svariate decine di artisti sbarcati nel nostro Paese attraverso UMM ci sono stati anche i Daft Punk: come ricordi “The New Wave”, ormai diventato un cult sul mercato del collezionismo?
Ascoltai un promozionale a Miami che mi fecero sentire gli amici della Soma, etichetta per cui nutrivo molto rispetto e che pubblicò la musica del duo francese prima di essere messo sotto contratto dalla Virgin. La sensazione che provai dopo aver ascoltato “The New Wave”, “Assault” ed “Alive” fu simile a quella che generò in me l’anno prima “Racing Tracks” dei Visnadi. Era musica che viaggiava su un suono diverso, non paragonabile a nient’altro in circolazione ai tempi. Rimasi fortemente affascinato da quel disco e, da supporter del suono fuori dai canoni tradizionali, lo volli nel catalogo UMM nonostante in Flying Records non piacesse praticamente a nessuno, tranne a me e a Patrizio Squeglia. I risultati purtroppo furono impietosi, vendette forse un centinaio di copie e i resi finirono al macero. Non avevo certamente la pretesa di vederlo in cima alle classifiche di vendita ma ero convinto che, in virtù di quanto fatto sino a quel momento, ci saremmo potuti permettere di pubblicare anche pezzi così particolari ma i fatti non mi diedero ragione. “The New Wave” dei Daft Punk, a malincuore, resta uno dei più grandi flop targati UMM.

Che responsi sortirono invece le uscite degli Underground Resistance e di Blake Baxter del 1991?
Le licenze degli Underground Resistance andarono decisamente meglio rispetto a quella dei Daft Punk, complice il momento d’oro che viveva la musica dei rave. In numeri, credo viaggiassero dalle duemila alle tremila copie, non di più. Di “Strong To Survive / Fuck You Up” di Blake Baxter invece ne vendemmo poche centinaia. Con Jeff Mills e Mike Banks, incontrati al New Music Seminar a New York (come raccontato qui, nda) dove parlammo a lungo di musica, c’era stima e rispetto reciproci. Ai tempi tante cose nascevano così, in modo spontaneo, senza sovrastrutture o pianificazioni a tavolino ma per puro amore nei confronti di ciò che si stava facendo. Credo che gli Underground Resistance capirono subito che dall’altra parte ci fosse un amante della musica e non qualcuno che volesse speculare sulla loro creatività.

Quali sono stati i bestseller del catalogo UMM?
Per quanto riguarda le produzioni italiane, senza dubbio “Alex Party”, successivamente nota come “Read My Lips”, “Don’t Give Me Your Life” e “Wrap Me Up” degli Alex Party e “I’m Standing” degli X-Static. Pure “Crayzy Man” dei Blast (di cui parliamo qui, nda) raccolse ottimi risultati e pochi mesi dopo lo seguì “I’m A Bitch” di Olga (di cui parliamo qui, nda): il successo fu tale da richiedere la presenza di una ragazza a cui affidare l’immagine del progetto e che tenne centinaia di serate nelle discoteche. Sul fronte licenze invece, i primi che mi vengono in mente sono “These Sounds Fall Into My Mind” di Bucketheads, “I Like To Move It” dei Reel 2 Real, “Jumpin” di Todd Terry e “Deep Inside” di Hardrive, successi conclamati ovunque.

Quale invece il meno fortunato e che, a tuo avviso, avrebbe meritato di più?
“NOFutureNOPast” dei Visnadi, uscito nel ’91, un disco bellissimo, seminale per tante idee racchiuse all’interno, da cui fu estratto “Hunt’s Up” in varie versioni tra cui la memorabile Live Mix registrata in presa diretta con improvvisazioni stranianti, analogamente a quelle che i Visnadi riproposero in “Racing Tracks”, altro pezzo alieno incompreso soprattutto qui in Italia. Solamente venti anni più tardi (2013) se ne iniziò a parlare, grazie a Maceo Plex che ne fece un edit per il suo “DJ-Kicks”, e Richie Hawtin e Ricardo Villalobos che lo hanno ripetutamente inserito nei loro set e questo mi ha gratificato, seppur con immenso ritardo. Non ho rimpianti comunque, sono sempre stato convinto delle mie scelte e l’obiettivo di UMM non era certamente quello di muovere grandi numeri seppur in qualche caso ciò sia avvenuto.

Quanto incideva UMM sul fatturato della Flying Records? Ci sono state annate più floride di altre?
Quando mollai la società, a fine ’95, Flying Records fatturava 43 miliardi di lire annui di cui una quindicina provenienti da UMM. Gli anni d’oro furono quelli compresi tra 1992 e 1995 e a farmelo capire sono stati anche i negozi di dischi più importanti del mondo, sparsi tra Londra, New York e Miami, che destinavano uno scaffale esclusivamente alle uscite UMM. Per me fu davvero appagante.

Nel 1994, con un disco dei CYB, si apre il sentiero parallelo della UMM Progressive. Fu la necessità di trovare un più corretto incasellamento stilistico a spronarti nel creare una variazione del brand?
Esattamente: decisi di avviare UMM Progressive per raccogliere quei brani che finivano in territori differenti dalla house. Da divoratore di musica globale, non accettavo di rinchiudermi in un solo genere o pormi confini di sorta ma piuttosto avevo l’ardente desiderio di abbracciare qualsiasi cosa mi piacesse, che fosse di matrice house o techno. Forse avrei dovuto varare UMM Progressive già l’anno prima, quando pubblicai diversi brani e l’album degli Spooky, dal catalogo della Guerilla di William Orbit. Apprezzavo molto quel nuovo filone, progressive per l’appunto, che nasceva nel Regno Unito e in cui confluivano elementi house, breakbeat, techno, ambient e trance. Poi è capitato che, tra i tanti, ci fossero pure pezzi più commerciali finiti nelle programmazioni radiofoniche e nelle compilation dance, come “It’s Too Funky” dei CYB, ma non fu un’operazione intenzionale anzi, mi stupii nel trovare allineati i gusti del mercato generalista coi miei.

UjaMM'n
Il logo della UjaMM’n

In quello stesso anno, il 1994, tra le mura della Flying Records nasce la UjaMM’n, a posteriori considerata una sublabel o comunque un’etichetta vicina a UMM viste le spiccate analogie del logo. In realtà però di similitudini sul fronte musicale, almeno nel primo periodo, ne correvano ben poche. Esisteva una relazione tra le due?
Flying Records era diventata un ombrello di una moltitudine di generi, incluso l’hip hop (dopo i De La Soul rinsaldammo la partnership con la Tommy Boy e portammo in Italia Naughty By Nature e Queen Latifah), il rock e la musica italiana. UjaMM’n, da pronunciare youjammin’, nacque per coprire il segmento soul, new jazz e fusion, e fu affidata al compianto Francesco Diana che mi teneva aggiornato facendomi puntualmente ascoltare tutto ciò su cui lavorava. Le analogie del logo a cui ti riferisci servivano, banalmente, a far capire che fosse un “satellite” della Flying Records. In assenza di uno strumento potentissimo come internet, ci si ingegnava in altri modi per lanciare messaggi agli acquirenti.

L’attività di UMM ti ha messo in contatto con centinaia di persone, tra musicisti, DJ e case discografiche. Quali sono i nomi che riaffiorano nella tua memoria ripensando a questa avventura?
I fratelli Gianni e Paolo Visnadi, tra coloro che hanno inciso più dischi in assoluto per UMM, da quelli rimasti nell’underground ad altri diventati hit planetarie. Ci conoscemmo nei primi anni Novanta discutendo di artisti che nulla avevano da spartire con la dance come Steve Reich e Brian Eno. Mi dissero che avevano proposto invano i loro pezzi a diverse case discografiche e dopo averne ascoltati alcuni capii immediatamente che fossero cose di spessore, ignorate dagli altri perché incapaci di comprenderne le potenzialità. Pubblicare i loro primi dischi per me fu una scelta coraggiosa, di pancia direi, perché si trattava di musica apparentemente senza mercato, specialmente per l’Italia. Fortunatamente potevo contare su un valido supporto distributivo giacché Flying Records, nel frattempo, aveva consolidato la propria attività e l’apertura di una filiale a Londra e poi una a New York, a Broadway, condividendo lo stesso stabile della Irma, mi aprì le porte del mondo intero. Il nostro rapporto si rinsaldò ulteriormente con “Four Journeys” e “Hunt’s Up”. Dopo aver messo in circolazione quei pezzi iniziò un vero e proprio pellegrinaggio da parte di tantissimi che ambivano a vedere la propria musica stampata su UMM compresi futuri grandi DJ di fama mondiale. Altri due amici con cui ho condiviso il percorso stringendo una relazione duratura sono stati Gianni Bini e Fulvio Perniola ossia i Fathers Of Sound. “Revelation”, del 1993, resta uno dei miei preferiti del catalogo. Quando me lo fecero ascoltare per la prima volta impazzii letteralmente al punto da non chiedere di approntare nuove versioni, quella era sufficiente e infatti il disco era un single sided, inciso solo da un lato, sull’altro c’era una favolosa serigrafia. Al brano è legato anche il ricordo di una UMM Night presso il Warsaw Ballroom di Miami, dove c’erano almeno duemila persone e non si riusciva neanche a camminare. Bini e Perniola aprirono il set proprio con “Revelation” e lasciarono il segno in un locale house per eccellenza, paragonabile al Warehouse di Chicago, mi viene ancora la pelle d’oca a ripensarci. Il resto lo fece un formidabile sound system. Tra i referenti di case discografiche mi tornano in mente i fratelli Marin della Cutting Records da cui presi in licenza il primo album dei Masters At Work: rimasero sorpresi quando si resero conto che stesse vendendo più la stampa italiana di quella americana! Esterrefatto fu pure il citato Finkelstein della Strictly Rhythm nel momento in cui sentì la Heavy Weather Mix di “Deep Inside” di Hardrive che commissionai ai Visnadi. Menzionerei infine Francesco Zappalà per la spettacolare raccolta “UMM In Progress – Code 1” accompagnata da una copertina altrettanto speciale, che immortalava una scultura futuristica realizzata da Patrizio Squeglia allestita in un cubo di vetro. Spero che qualcuno sia riuscito a salvarla dopo la chiusura della Flying Records.

Kwanzaa Posse
Sopra Tardio in consolle, sotto le copertine dei tre 12″ di Kwanzaa Posse usciti tra ’91 e ’93 e impreziositi dai remix di Jam El Mar & Mark Spoon, Massive Attack e Murk

Oltre a ricoprire ruolo di A&R, in quegli anni operavi anche in studio di registrazione come Funk Master Sweat e nel team Kwanzaa Posse. Quali sono i tuoi ricordi più belli legati a questi progetti?
Come Funk Master Sweat firmai diversi remix principalmente per dischi licenziati o prodotti dalla Flying Records come “Feel It” di Adonte, “Soul Magic” di YBU, “Friends” di Amii Stewart e “Living For The Night” di Underground Resistance Featuring Yolanda. Con quello pseudonimo produssi anche delle tracce tra cui “House Of Latin” e “Detroit” finite in un EP in cui ospitammo i KCC (Keith Franklin, Cisco Ferreira e Colin McBean, nda). Kwanzaa Posse invece nacque per dare sfogo a un’altra mia esigenza, miscelare gli stili che programmavo come DJ nel 1976 ovvero disco, rock, funk e tanta musica nera. Sostanzialmente una maniera con cui creare la musica che più mi piaceva senza dover sottostare agli obblighi di mercato, proprio come stavo facendo in parallelo per UMM. Alla base di Kwanzaa Posse (il termine “kwanzaa” lo presi in prestito dal vocabolario Swahili e significa “primizie”) c’era un melting pot di stili, musiche, culture e sonorità, un mix eterogeneo ma ragionato che rappresentava più che bene il mio lato artistico. Ad aiutarmi in studio furono Carmine ‘KeyB’ Tortora, musicista napoletano che conosceva benissimo jazz, funk, folk e musica africana in genere, ed Enzo ‘Soul Fingers’ Rizzo, ingegnere del suono che mise a disposizione la sua esperienza per ottenere il meglio di quel distillato sonoro. Debuttammo nel 1991 con “Wicked Funk”, brano a metà strada tra acid jazz, afro e funk contenente un campionamento (autorizzato, ci tengo a sottolinearlo) di “Sorrow Tears And Blood” di Fela Kuti. Tra i remix quello dei tedeschi Jam El Mar e Mark Spoon: incontrai Mark al New Music Seminar di New York e gli feci sentire il pezzo in albergo, seppur fosse poco più di una demo. Con la sua classica giovialità ed esuberanza, mi disse subito che lo avrebbe voluto pubblicare su Logic Records, etichetta per cui ai tempi ricopriva ruolo di A&R. Ma non era tutto: la traccia gli piacque al punto da volerne fare un remix insieme al suo amico Jam El Mar con cui stava lavorando a un album, “Breaks Unit 1”, e con cui avrebbero dato avvio al progetto Jam & Spoon. “Wicked Funk” vendette diverse migliaia di copie ma ad oggi non è mai stato ristampato. Girava a 104 bpm e questo lo rese assai coraggioso visto che era il periodo in cui la maggior parte dei produttori si lanciava a capofitto nella techno a velocità elevate. Gli ottimi riscontri ci fecero guadagnare parecchie richieste come remixer, specialmente per la Francia. Mettemmo le mani su “Qui Sème Le Vent Récolte Le Tempo” di MC Solaar, “Didi” di Khaled, “Vive Ma Liberté” di Arno, “Maman” di Nina Morato, “Voilà, Voilà…” di Taha, “Sexe Faible” di Jérôme Dahan, “C’est Déjà Ça” di Alain Souchon e diversi brani per la band Les Negresses Vertes che vinsero il disco d’oro e oggi sono considerati evergreen. Nel 1992 mi occupai anche del singolo di debutto dei 99 Posse, “Dì Original Trappavasciamuffin Stailì”, contenente “Rafaniello” e “Salario Garantito”, con cui tagliammo il nastro inaugurale della Crime Squad, l’etichetta hip hop della Flying Records sulla quale poi debuttarono gli Articolo 31, i Sangue Misto, DJ Flash, i Sottotono e tanti altri. A seguire i remix di “Curre Curre Guagliò” ancora dei 99 Posse, “Here Comes Bo Diddley” di Edoardo Bennato & Bo Diddley, “Qui Gatta Ci Cova” di Tullio De Piscopo, “New State” degli scozzesi Hue & Cry, “Señor Matanza” dei Mano Negra e altri ancora. Nel 1994, proprio per i Mano Negra e sempre sotto il moniker Kwanzaa Posse, produssi “Casa Babylon”, l’ultimo album prima del loro scioglimento. Manu Chao, entusiasta del risultato, tornò a Napoli e insieme realizzammo in circa un mese l’album “Radio Bemba”, di cui conservo ancora il master, che però non venne mai pubblicato. Parte di quel lavoro fu riciclato molti anni più tardi in “Radio Bemba Sound System” da cui fummo omessi dai crediti perché, a parere del francese, i pezzi furono completamente trasformati. Nel frattempo Kwanzaa Posse era andato avanti con altri due singoli, “African Vibrations” del 1992, che tra i remix annoverava quelli di MBG e dei Massive Attack realizzato a Napoli, e “Musika” del 1993, impreziosito dalle versioni dei Visnadi e, come dicevo qualche riga sopra, dei Murk.

fax David Byrne
Il fax spedito a Tardio da David Byrne il 21 maggio 1996

A differenza di UMM, Kwanzaa Posse era un progetto di mia proprietà e libero da oneri contrattuali e che potei proseguire anche dopo aver abbandonato la Flying Records. Nel 1996 infatti remixammo “Senza Rimorso” di Zucchero, “Memobox” degli Üstmamò ma soprattutto producemmo il primo album dei King Chango per la Luaka Bop, l’etichetta di David Byrne dei Talking Heads. Conservo ancora il fax che David mi mandò nella primavera di quell’anno. In seguito ci dedicammo alle colonne sonore e musica destinata alle sonorizzazioni televisive. “Visions”, ad esempio, fu utilizzata per circa quattro anni come sigla di testa e coda di un programma di moda della Rai, Oltremoda.

Nel 1996 abbandoni la Flying Records e stringi una collaborazione con la Time Records creando tre nuove etichette, Suntune, Sunlite e Moonlite, che si ritagliano presto spazio nello scenario discografico. A fortunate licenze (“Keep Pushin'” di Boris Dlugosch, “Fever” di Djaimin & Djaybee, “Get Up (Everybody)” di Byron Stingily, “Are You Ready For Some More?” dei Reel 2 Real, “U” di Scot Project, “Guitara Del Cielo” di Barcelona 2000 intervistato qui, “The Lost City” di Graham Gold) si sommano vari made in Italy (“Be (What U Wanna Be)” degli Activa, “Zoe” di Paganini Traxx, “Journey # One” di Nu-Bass alias Bini & Perniola, “The Deep” di Val Weller, “Live EP” di Walterino, “Ye, Ye” di Tribal FM) che, di fatto, innestano su quella triade di marchi bresciani parte dell’aura della UMM. Quali ragioni ti portarono via dalla casa discografica napoletana e come mai, nonostante i rincuoranti risultati, il sodalizio col gruppo guidato da Giacomo Maiolini durò appena un biennio?
Lasciai la Flying Records poiché in netto disaccordo con la politica gestionale del mio socio. Nel primo quinquennio degli anni Novanta l’azienda crebbe in maniera esponenziale, ci eravamo trasferiti da Posillipo ad Agnano, in via Raffaele Ruggiero, dove rilevammo un’immensa parte industriale destinata al deposito, allo studio a cui facevo prima riferimento, agli uffici dell’amministrazione, e al reparto publishing con la società editoriale Blue Flower. Senza ovviamente dimenticare la nascita delle filiali a Milano, in Via Mecenate, a Londra e a New York. Flying Records era diventata una S.p.A. ma poiché socio di minoranza, alla fine si faceva sempre quello che volevano loro. La goccia che fece traboccare il vaso fu il rifiuto di un’allettante proposta da quattro miliardi di lire avanzata da un’importante compagnia discografica olandese intenzionata a rilevare la proprietà. Per principio decisi di andare via, senza prendere un solo centesimo e vedendo tristemente polverizzarsi tutto il mio lavoro nell’arco di pochissimo tempo. A quel punto Maiolini, che mi conosceva già, mi propose di continuare a fare con lui ciò che avevo fatto con UMM. Sulla carta avevo la massima libertà e per circa un anno effettivamente fu così e credo che i risultati si siano visti. Suntune era quella che avrebbe raccolto l’eredità di UMM, Sunlite fu ideata per le ricette più pop e Moonlite l’equivalente della UMM Progressive, destinata quindi a prodotti di matrice trance/techno come ad esempio “Zoe” di Paganini Traxx, un pezzo in stile Underworld che raccolse grande successo all’estero, specialmente nel Regno Unito dove fu ripubblicato da una delle etichette dance della Sony. Il primo anno in Time lo ricordo pieno di passione, diedi anima e cuore a quel progetto per farlo funzionare sottraendo anche energie necessarie ad Undiscovered, etichetta che avevo creato nel ’94. Dopo la prima fase, incoraggiante direi, iniziarono però gli screzi con Maiolini e intuii che non ci fosse la sensibilità per capire che i progetti di successo si costruiscono col tempo, necessario per creare profilo, direzione e personalità. Del resto i primi dischi della UMM vendettero poche centinaia di copie ma a Brescia non avevano nessuna intenzione di attendere anzi, pretendevano tutto e subito. Lì non trovai nessuno spirito da musicofilo ma solo conti da ragioniere. Dopo il mio abbandono Suntune, Sunlite e Moonlite finirono nell’oblio ma Maiolini creò subito un marchio nuovo per proseguire su un percorso simile, Rise, che affidò, ironia della sorte, ancora a un ex dipendente della Flying Records, Alex Gaudino.

Poco fa parlavi della Undiscovered, etichetta nata nel 1994 sull’asse Napoli-Londra dalla sinergia tra te, Angelo Bernardo, Mario Nicoletti e Doug Osborne e trainata dai successi dei Livin’ Joy a partire da “Dreamer”, presto approdata a Top Of The Pops. Perché creasti una realtà parallela mentre eri ancora impegnato con la Flying Records?
I motivi erano i medesimi che mi spinsero a mollare tutto alla fine del 1995. Io puntavo alla sostanza, a coltivare nuovi talenti, a sinergie che avrebbero rivelato i frutti sulle lunghe distanze, Rossi invece spingeva per aumentare il volume di produttività delle compilation e investiva centinaia di milioni di lire in spot televisivi, su imitazione dei classici discografici milanesi e dell’Italia settentrionale in genere. Insomma, nell’aria si respirava già un certo malessere e così cercai di creare un’alternativa in caso di rottura. Ad aprire il catalogo di Undiscovered fu il promo di “Dreamer” dei Livin’ Joy che generò un risultato spiazzante, tutte le grandi compagnie avanzarono delle offerte ma alla fine scegliemmo la MCA dove lavorava una persona che stimavo molto, Steve Wolf, che a sua volta era amico stretto di Pete Tong. Come certificato da BPI, “Dreamer” ha conquistato un disco di platino, uno d’oro e uno d’argento pari a un milione e duecentomila copie vendute solo sul territorio britannico, ma ciò non fu sufficiente a destare l’interesse degli addetti ai lavori italiani che lo ignorarono, forse perché troppo distante dai loro gusti. A remare contro fu anche la totale assenza di promozione, io non potevo certamente sbilanciarmi perché lavoravo ancora in Flying Records. Qualcosa cambiò due anni dopo con “Don’t Stop Movin'”, disco d’oro nel Regno Unito con quattrocentomila copie vendute e arrivato in Italia grazie alla Zac Records che, nel frattempo, aveva stretto una partnership di esclusiva con MCA.

BPI Certificazioni
Le certificazioni BPI (British Phonographic Industry) relative alle vendite oltremanica di “Dreamer” e “Don’t Stop Movin'” dei Livin’ Joy. Si rinviene anche un dato più recente legato a “Don’t Give Me Your Life” degli Alex Party, disco d’oro con 400.000 copie all’attivo

In modo inversamente proporzionale rispetto alle tue interviste e dichiarazioni, tra cui quelle affidate a Billboard e Rossella Rambaldi, UMM ha vantato svariate decine di pubblicazioni annue toccando l’apice nel 1995 quando ne escono circa un centinaio: ritieni di aver peccato di troppa prolificità?
Nel 1995 sapevo che sarei andato via ma ritardai al massimo quella decisione perché nutrivo un vero affetto e amore per UMM. Conscio che la fine fosse comunque vicina, diedi fondo alle energie e il risultato fu avere così tante uscite. Sulle scelte, dunque, non ho rimpianti e rifarei tutto, sulla capacità di gestione, per tutelare il marchio ad esempio, col senno di poi mi sarei sicuramente dato più da fare visto ciò che avvenne dopo il mio abbandono.

Tra ’96 e ’97 la UMM viene guidata da Giuseppe Manda e Maurizio Clemente, dal ’98 in avanti riparte invece sotto l’egida della Media Records: che idea ti sei fatto su quelle fasi?
Sarò schietto: per me tutto quello che è uscito su UMM dal 1996 in avanti non rifletteva più il concept originale, dal logo alla musica. L’unico elemento comune nella gestione Manda/Clemente fu rappresentato da quei progetti che avevo già approntato io e che attendevano solo di essere pubblicati, per il resto mi sembra che ad avere la meglio fosse un riflesso commerciale, aumentato in modo sensibile negli anni a seguire.

UMD
Il logo dell’etichetta milanese UMD

Nel 1993 la milanese Dig It International lancia una nuova etichetta house, la UMD, acronimo di Underground Music Department: era una chiara risposta a UMM?
Più che risposta la definirei uno scimmiottamento totale, al 100%. Si trattò di un progetto partorito dalla tipica scuola milanese che puntava solo al mercato, pensando di poter sfruttare nomi e slogan per raggiungere velocemente i consensi del pubblico, un tipo di ideologia e approccio che non mi appartiene.

Nei primi anni Novanta il termine “underground” finisce con l’identificare un macro genere in cui confluisce un ampio range di house music, dalla solare garage con la vocalità in primo piano a soluzioni che privilegiano il ritmo e suoni più scuri e dub. Credi che a ispirare questo tipo di utilizzo del termine in Italia sia stata anche la UMM?
Il contributo offerto da UMM per collegare quella parola a un genere è sicuramente stato fondamentale. Come ho detto più volte, non ho mai pensato di soddisfare le esigenze commerciali o compiacere il mercato. Il mio intento era, semplicemente, far sentire alla gente quello che io reputavo valido perché in quel momento storico c’era tantissima musica interessante in circolazione. Non ho mai attuato strategie di marketing sotto il profilo di nomi e nomenclature, ho preferito rimarcare il valore che c’era dietro l’underground con la musica stessa e non con le parole come invece hanno fatto altri.

Ad aiutare la diffusione del marchio UMM è stato anche il comparto del merchandising, iniziato in Flying Records e poi proseguito con l’acquisizione da parte della società Moda&Musica dei fratelli Pasquale e Gennaro Cristillo. Che ricordi hai in merito?
L’idea sorse nel 1993 quando stampammo cento t-shirt destinate esclusivamente ai DJ e produttori con cui lavoravamo, dai Visnadi ai Fathers Of Sound passando per Claudio Coccoluto, DJ Pippi e David Morales. Le mandammo anche ai De La Soul visto che fummo noi a licenziare in Italia il loro primo album, “3 Feet High And Rising”, che nel 1989 vendette circa 45.000 copie facendoci guadagnare la stima incondizionata di Tom Silverman della Tommy Boy. L’iniziativa doveva finire lì ma il riscontro fu pazzesco e le richieste crebbero smisuratamente. Alle t-shirt abbinammo bomber, slipmat e borse portadischi ma non volevo separare il merchandising dalla musica, per me non doveva essere il mercato a dirci cosa fare bensì l’esatto opposto. Non mi piaceva l’idea, ad esempio, di inondare i negozi con decine di modelli diversi, era una strategia che non combaciava più con la natura della UMM. Quando Flying Records fallì, nel 1997, i diritti per lo sfruttamento del marchio UMM nel campo dell’abbigliamento, analogamente a quelli discografici passati nelle mani della Media Records, vennero ceduti ad una società campana che diede subito un segno di discontinuità col passato non usando più il font originale. Col rispetto per ciò che hanno fatto i Cristillo prendo però doverosamente le distanze: quella non era certamente la UMM e rimasi indignato per quanto venne riportato dopo la prematura scomparsa di Gennaro sia su Il Mattino, quando venne definito “il fondatore della storica etichetta discografica UMM”, sia su Caserta News che invece ne parlava come “l’ideatore del marchio UMM”.

Quanto Angelo Tardio c’è stato nella UMM?
Tolte alcune delle prime uscite del 1991 che scelsero altri per motivi prima esposti, UMM è stata al 100% mia tra 1992 e 1995. Ero pronto a raccogliere idee e suggerimenti ovviamente, ma a decidere sono stato sempre e solo io.

Se ipoteticamente domani potessi tornare alla guida della UMM, quali sono i brani o gli artisti che pubblicheresti?
Mi piace molto la musica di Henrik Schwarz e Dino Lenny, ma anche le cose più recenti che Paolo Visnadi ha realizzato con Matteo Bruscagin. Visto il fortissimo rigurgito degli anni Novanta che viviamo, tornerei dalle persone con cui ho instaurato un maggiore feeling e intesa proponendo di creare degli edit di alcuni pezzi pubblicati in passato per valorizzare idee non sviluppate a dovere. Inoltre, visto l’amore che nutro per il dub, l’afro e il downbeat, probabilmente creerei una sublabel destinata a questi stili così come feci con UMM Progressive.

Nel 2019 Nick Gordon Brown ha scritto un articolo per il sito della Defected annoverando, tra etichette come Warp, XL Recordings, Soma, Ninja Tune, R&S Records e Kompakt, anche UMM: per quali ragioni credi sia riuscita a lasciare un solco tanto profondo del proprio passaggio?
Forse perché è stata pura, vera e non ha strizzato l’occhio a niente. Contava su un progetto grafico accattivante che procedeva di pari passo alla musica, e poggiava su una logica dell’essenzialità, legata alla musica stessa e non ad altro. La nostra era una missione genuina e artigianale, alimentata dalla passione e non da velleità economiche, e questa onestà alla fine ha dato i suoi frutti. La gente capisce quando qualcosa è sincera e fatta col cuore. Il marchio divenne potente e ad accorgersene furono anche grandi nomi di fama mondiale che fecero ulteriormente crescere la nostra credibilità. Uscire su UMM era “figo”, faceva curriculum, in un periodo in cui house music voleva dire rivoluzione. Oggi invece è un genere come tanti altri, tristemente inghiottito dalla globalizzazione.

Quali sono le tre parole con cui sintetizzeresti l’epopea della UMM?
Ricerca, connessione e unicità.


La testimonianza di Patrizio Squeglia

Patrizio Squeglia alla consolle del My Way di Napoli (1989)
Un giovane Patrizio Squeglia in consolle al My Way di Napoli nel 1989

Come e cosa ricordi del periodo in cui ti venne chiesto di approntare il logo di UMM?
È importante fare qualche premessa. Dal 1988 stavo vivendo un momento magico come DJ. Ero molto popolare nella nightclubbing cosiddetta underground, proponendo musica che mi piaceva senza mediazioni, come avevo fatto già in passato durante le prime esperienze nei club punk e new wave. Questo approccio a un certo tipo di suono non banale, poco pop e per nulla convenzionale, fece sì che la mia visione estetica dell’underground fosse ben chiara e soprattutto molto sentita, senza fare alcuno sforzo mentale per cercare di capire o interpretare cosa stesse per succedere in quegli anni perché io stesso stavo partecipando attivamente al cambiamento. Quando mi fu presentato il progetto della label dedicata alla musica che amavo e proponevo quindi fu abbastanza semplice arrivare a una soluzione efficace, anche perché stavo realizzando qualcosa che piaceva a me e a quelli come me, senza pressioni esterne che potessero condizionarmi nelle proposte. Altra premessa che ritengo importante riguarda il mio metodo di lavoro come creativo. Non so se sia un difetto o un pregio che mi porto dietro dagli studi artistici e che nemmeno i docenti dell’epoca riuscirono a cambiare: non ricorro a bozze o a schizzi cartacei e non realizzo prove materiali su un progetto grafico, ma penso continuamente alla soluzione finale senza stendere giù appunti. Quando nella mia mente visualizzo ciò che mi piace metto in opera il quasi definitivo, e anche con UMM successe esattamente la stessa cosa. Ricordo la pressione del CEO della Flying Records, Flavio Rossi, che giustamente reclamava qualcosa da vedere senza però ottenere nulla da me per il motivo descritto. Poi un giorno, in tarda mattinata, misi insieme tutto quello che avevo in testa e in un’oretta circa buttai giù il logo UMM compreso dell’icona a forma di globo. Unica bozza, unica opzione, lo guardai pochi minuti e senza esitazioni lo presentai esclamando «questo è il logo UMM, per me è giusto così» e dopo un breve silenzio Flavio Rossi e Angelo Tardio approvarono. Pensai subito di aver centrato l’obiettivo. Quelle tre lettere bold così severe e imponenti avevano la giusta intenzione rappresentativa del mondo clubbing che stava scrivendo la storia della musica underground, erano qualcosa di esteticamente massiccio e solido in linea con la musica che dovevano rappresentare.

Come annunciavi poche righe fa, per UMM realizzi, oltre al logotipo, anche un simbolo/logo globoidale, utilizzato principalmente per le logo side dei dischi ma poi finito anche sulle copertine, sia dei mix 12″ che dei CD e cassette. Cosa rappresentava esattamente?
Il globo composto da una griglia imperfetta, dai tratti irregolari e brush, faceva riferimento a quello che era il lato “oscuro e misterioso” del club, fatto da un suono sperimentale per un pubblico che voleva appunto sperimentare qualcosa di nuovo da costruire e vivere liberamente senza porsi limiti.

cataloghi merchandise UMM (1994 e 1996-97)
Altri cataloghi del merchandising UMM: a sinistra quello del ’94, a destra quello del ’96/’97

Quanto fu determinante, nel successo di UMM, la creazione del merchandising e dell’abbigliamento streetwear brandizzato?
Logo e produzioni UMM vivevano in simbiosi correndo sullo stesso binario, uno si nutriva e supportava l’altro e questo rese credibile sia la grafica che i progetti pubblicati. La copertina generica nera, così come la scelta del colore della label che cambiava in base alla produzione, non era mai casuale, c’era una scelta accurata in base al brano che doveva rappresentare. Se l’etichetta avesse improvvisamente pubblicato musica pop non credo che il logo avrebbe avuto lo stesso riscontro nel merchandising, per il semplice motivo che non sarebbe stato credibile, soprattutto in un segmento come quello del club e quando parlo di club non intendo la discoteca generica. Le prime t-shirt con il logo UMM sul fronte e il globo sul retro, rigorosamente in nero con stampa argento (colore identificativo del brand) furono solo cento. Riuscii a farle realizzare dopo aver battagliato contro lo scetticismo della presidenza Flying Records anche perché i pochi esemplari sarebbero andati tutti in regalo ai top DJ internazionali che ricevevano periodicamente i promo dalla nostra distribuzione, quindi non potevamo sapere quale sarebbe stata la reazione, soprattutto degli americani che in quegli anni erano già maestri nel merchandising. Un giorno, uno di questi DJ di cui però non ricordo il nome, ci chiamò chiedendo cosa fosse quella t-shirt trovata nella spedizione insieme ai promozionali (i famosi white label), mostrando molto apprezzamento. A quel punto capii che avevo dato vita a qualcosa che stava andando oltre le aspettative. La prima vera collezione, se così si può definire, la realizzai alla metà del 1993 e da lì in poi fu un crescendo senza freni. Ricordo camion pieni di merchandising UMM che partivano per tutto il Paese e mezzo mondo.

Quello di UMM diventa un marchio talmente crossover da finire anche in posti davvero lontani dall’universo sonoro originario, come a un concerto dei Lùnapop o sulla t-shirt del bassista di Vasco Rossi al Festivalbar 2001 mentre esegue “Stupido Hotel”. Il brand stava contagiando anche chi non aveva la benché minima di idea di cosa fosse originariamente?
Quando avvenne ciò il marchio era stato rilevato da una compagnia di abbigliamento. Credo però che entrambi i casi da te segnalati fossero solo ed esclusivamente operazioni commerciali e non certamente scelte artistiche.

Essendo un’etichetta destinata ai DJ, gran parte delle copertine del catalogo UMM era monocolore col buco centrale. Tuttavia, di tanto in tanto, alcune pubblicazioni venivano accompagnate da artwork creati appositamente, come avviene per “Four Journeys” ed “Hunt’s Up” dei Visnadi, “Syxtrax” e “Come On Boy” dei CYB, “I’m A Real Sex Maniac” di Dick, “The Princes Of The Night” dei Blast, “Be Sexy” di Justine, “Don’t Give Up” e “C’Mon And Get It!” degli Statement, “Wrap Me Up” degli Alex Party e “Heroes” di Gianni Parrini Feat. Principe Maurice giusto per citarne alcune. In base a quale criterio si decideva se dotare un disco di copertina o optare per quella generica?
Solitamente la personalizzazione della copertina era condizionata dagli accordi contrattuali con l’artista e ovviamente obbligata quando il progetto in questione era un album, ma non esisteva una logica precisa. Tra le tante che ho realizzato ricordo con piacere quelle per i Visnadi, sempre attentissimi alla grafica, ma anche “Be Sexy” della giovanissima Justine Mattera che sfiancammo durante lo shooting che la ritraeva come una bambola gonfiabile. Con lei rammento grandi risate e complicità.

UMM In Progress
La scultura Ettore & Andromeda realizzata da Squeglia finita sulla copertina di “UMM In Progress” (1994)

Particolarmente intrigante era anche la copertina di “UMM In Progress”, raccolta selezionata da Francesco Zappalà uscita nel 1994 che ospitava la foto di una tua scultura, Ettore & Andromeda. Esisteva forse qualche nesso con Ettore E Andromaca di Giorgio De Chirico?
No, non c’era alcun riferimento specifico a qualcosa, era una scultura surreale animata da due personaggi inventati che riportavano i nomi della mitologia ellenica, Ettore e Andromeda per l’appunto. Creai quell’opera in maniera istintiva cercando di sposarla col suono proposto da Francesco. La scultura, ahimè, andò distrutta durante un trasloco ma in compenso conservo sia l’LP e il CD che gli scatti originali.

In un’intervista che ti feci diversi anni fa affermasti che «la grafica è stata una componente essenziale della musica, in passato non esisteva la comunicazione e lo scambio globale di informazioni di oggi quindi la scelta di un disco era spesso stimolata in modo sensibile dall’immagine che lo accompagnava». In relazione a questo concetto, credi che il messaggio veicolato dalla musica contemporanea sia parzialmente depotenziato rispetto a quello del passato, in cui l’artwork era chiamato a svolgere un ruolo importante, oppure quel vuoto è stato colmato da altro? La musica senza immagini (stampate), insomma, è assimilata e percepita in modo differente?
Nonostante ci siano diversi creativi molto capaci e propositivi, l’immagine di copertina adesso non riesce più ad avere lo stesso valore di un tempo perché è ridotta ai minimi termini attraverso i quali è impossibile apprezzare né i dettagli né l’impegno profuso per realizzare la stessa opera. La comunicazione su un nuovo progetto oggi parte prima dai numeri e dagli algoritmi, poi arriva tutto il resto, inutile girarci intorno. È il bello e il brutto dell’evoluzione dell’essere umano, nulla di grave.

Oltre a curare lo stile di UMM, hai inciso anche diversi brani confluiti nel suo catalogo coi team di produzione Statement e New Wave Explorers: cosa rammenti in merito?
Ricordo l’assoluta libertà di fantasticare senza pressione, di mettere insieme idee, suoni e sensazioni, di tenere al primo posto la voglia di creare qualcosa che mi piacesse veramente e che sarei stato orgoglioso di proporre nei club. Di questo sarò sempre grato a tutta la Flying Records che mi ha permesso di cimentarmi nelle vesti di produttore.

Analogamente ad Angelo Tardio, anche tu lasci la Flying Records nel 1996 iniziando nuove collaborazioni a partire da quella con la bresciana Time. Quanto fu doloroso abbandonare una realtà in cui avevate profuso così tante energie? E, ancor di più, quanto fu duro assistere al suo progressivo declino?
La scelta di abbandonare la Flying Records fu molto difficile ma inevitabile. La presidenza si era circondata di figure che si vendevano come pseudo manager e cominciavano a soffocare quella che invece era stata la vera forza della compagnia ovvero la libertà artistica, il curiosare, proporre e sperimentare. Si cominciava a parlare di commerciale, di budget, di licenziamenti ed altro simile, insomma si stava delineando quella che voleva essere una vera e propria azienda strutturata ma senza avere né i mezzi e forse tantomeno le figure giuste per diventarlo. I miei timori erano fondati visto che, a poco più di un anno dall’addio, la Flying Records fallì. Il ricordo più amaro che ho è legato ai giorni immediatamente successivi alla chiusura: mi recai presso lo studio di registrazione adiacente l’azienda e con grande rammarico notai sulla strada, accantonati come spazzatura, una montagna di master, pellicole, bobine e stampe fotografiche di quello che un tempo era l’archivio produzione. Stiamo parlando quindi degli originali di Blast, Articolo 31, Alex Party, 99 Posse, Joy Salinas e tantissimi altri.

Dopo il fallimento della Flying Records, la UMM viene riavviata a più riprese dalla Media Records che, dal 1998, la affianca a nuove declinazioni grafiche. Che idea ti sei fatto di quei tentativi?
Che Gianfranco Bortolotti e Diego Leoni siano stati due protagonisti indiscussi della scena dance/house degli anni Novanta, e che la Media Records abbia un posto di rilievo nella storia della musica italiana è fuori discussione, ma entrambi non hanno mai avuto un buon rapporto con la scena underground. Difatti il primo tentativo di rilanciare la UMM sfumò velocemente e, in tutta sincerità, non mi spiego nemmeno perché ci abbiano riprovato a distanza di anni. La magia di UMM ha una data ben precisa di nascita e di fine, pensare di rifare qualcosa che ha avuto successo in un determinato arco di tempo e in circostanze e/o momenti storici che non possono ripetersi non ha alcun senso.

Fanzine Gigantic
La fanzine che Gigantic ha dedicato a UMM nel 2021

Nel 2021 la galleria d’arte milanese Gigantic ha pubblicato, nell’ambito del progetto Night Of The Fanzines, il volume “1991/96 Dal Logo Alla Musica” dedicato proprio a UMM. Un riconoscimento al merito per ciò che ha rappresentato l’etichetta, nel panorama internazionale, negli anni più floridi?
I ragazzi di Gigantic organizzano ogni anno una mostra dedicata al mondo della fanzine. Partecipare per me ha rappresentato una grande gratificazione, soprattutto per il supporto che dovevo usare, una fanzine artigianale e grezza, così come è sempre stato nello spirito di UMM, nulla di patinato insomma. Alla mostra prendono parte vari artisti che presentano contenuti diversi con un unico filo conduttore, la fanzine. È stato molto bello e divertente, il tutto coronato da un grande apprezzamento da parte del pubblico che, in tutta onestà, non mi aspettavo.

Che eredità lascia la UMM?
Nel mio caso è, ad esempio, essere invitati nel 2022 alla presentazione di un album di un collettivo della scena rap milanese, Make Rap Great Again, e scoprire dagli stessi protagonisti di essersi liberamente ispirati al progetto UMM per quelle che sono state le impostazioni grafiche della loro etichetta. Ma potrei citare anche un episodio del 2020, quando la Defected pubblicò un post su Instagram dedicato alle “leggendarie etichette dance”: tra Warp, XL Recordings, Junior Boy’s Own, Soma, R&S Records, Kompakt, Nervous, Nu Groove, Trax Records, D.J. International e altre ancora spiccava benissimo la UMM.


La testimonianza di Giuseppe Manda

Giuseppe Manda alla Flying Records 1991-1992
Giuseppe Manda negli uffici della Flying Records in una foto scattata tra 1991 e 1992

Come ricordi la tua avventura con la Flying Records?
Iniziai a lavorare in Flying Records quando era ancora una piccola distribuzione con gli uffici e magazzini allestiti in un garage di Posillipo. In quel momento per me iniziò un fantastico percorso professionale e personale, eravamo una squadra imbattibile e a confermarlo sono i tanti risultati ottenuti. Qualche tempo dopo ci spostammo in una nuova location ad Agnano dove, insieme a Mimmo Mennito, mi occupavo della vendita sul territorio nazionale delle produzioni Flying Records e della miriade di dischi import che arrivavano dall’estero. Da lì a breve giunse l’ennesima intuizione di Angelo Tardio che aprì un mondo: nasceva UMM, supportata da una forte distribuzione nazionale e internazionale e da uno straordinario apparato grafico concepito da Patrizio Squeglia.

Come si profilò per te, nel 1996, la possibilità di ricoprire il ruolo di A&R della UMM insieme a Maurizio Clemente?
L’uscita di Angelo Tardio dall’assetto societario lasciò un vuoto che necessitava di essere colmato. Poiché negli anni precedenti avevo già collaborato con UMM, la proprietà decise di affidare a me e Maurizio Clemente la direzione di quella label. La Flying Records iniziava però la sua fase calante e questo non facilitò sicuramente le cose nel nostro breve percorso alla guida di una delle etichette italiane più iconiche del panorama mondiale. A Tardio devo tantissimo, grazie a lui iniziai a remixare e produrre musica presso lo studio della Flying Records ed ebbi l’onore di mettere le mani su brani di artisti del calibro di Blake Baxter, Todd Terry, Juan Atkins e Underground Resistance.

The Family - Feel The Light
“Feel The Light” di The Family (1996)

Quali sono le produzioni UMM uscite durante la tua direzione artistica che ricordi con maggior piacere?
Senza dubbio “Feel The Light” di The Family, un progetto di Tony Humphries. Martellai tanto Maurizio Clemente per convincere il DJ statunitense e, dopo un po’ di tentennamenti iniziali, riuscimmo nell’intento. Non fu semplice organizzare la cosa, sia da parte mia che di Maurizio che gestiva il contatto diretto con l’artista. Programmammo tanti remix del brano affidandoli ad Oscar Gaetan, DJ Vibe, Victor Simonelli e allo stesso Humphries ma alcuni uscirono solo su un doppio promo che anticipò la pubblicazione ufficiale. Anche io ebbi l’onore di mettere le mani sul pezzo confezionando la Man-Da Dub. Viste tutte le energie spese però, mi aspettavo che l’iniziativa, così laboriosa, raccogliesse qualche risultato in più.

Rispetto alle annate precedenti, il numero delle pubblicazioni UMM si riduce in modo sensibile tra 1996 e 1997. Certe uscite vengono persino confinate al formato white label, come avviene ad una delle ultime, la 384. Come mai?
Il mercato iniziava a conoscere una netta flessione e la Flying Records non aveva più la forza economica del passato. Alcune uscite furono limitate ai white label per evitare spese inutili e rientrare nei costi di tante compilation andate male e investimenti pubblicitari fallimentari. La chiusura di Flying Records fu un colpo al cuore, seppur per noi dipendenti fosse prevista. Terminava l’era di un’azienda che aveva fatto storia non solo nella dance ma anche nel rock e nell’hip hop. Nel 1997 finiva quindi un ciclo irripetibile della mia vita e di coloro che, come me, diedero l’anima in quegli anni.

Hai avuto modo di seguire la UMM del post Flying Records?
Ad essere onesto ne so ben poco. Dopo il fallimento della Flying Records seppi che i diritti del marchio UMM vennero ceduti a due aziende, una che si occupava di abbigliamento e una intenzionata a proseguire l’iter discografico. Sono sempre stato convinto che il successo di UMM sia stato decretato da un insieme di fattori ma soprattutto dalla collaborazione di persone in grado di far girare nel verso giusto gli ingranaggi della macchina, ma non rinunciando al divertimento. Alla luce di ciò resto del parere che non basta riprodurre un marchio per attribuire la stessa valenza a un prodotto, per giunta non appartenente a un determinato periodo storico.

Onirico repress 2022
La copertina della ristampa più recente di “Stolen Moments” di Onirico (Back To Life, 2022)

In tempi recenti hai creato la Flash Forward e la Back To Life, due etichette nate con lo scopo di ripubblicare brani house/techno del passato tra cui “Stolen Moments” di Onirico (UMM, 1991). Il lavoro svolto per l’etichetta napoletana circa venticinque anni fa ti ha in qualche modo aiutato a gestire una casa discografica, seppur il contesto in cui operi oggi sia profondamente differente da quello del passato?
Sì, senza dubbio. L’esperienza in Flying Records mi ha arricchito di informazioni che mi sono servite nei progetti nati successivamente, a partire da quelli nati quando lavoravo in Karma Distribuzioni e poi quelli di Flash Forward e Back To Life, etichette che guardano artisticamente al passato ma con la consapevolezza che sia tutto totalmente cambiato.

C’è un aneddoto legato alla Flying Records che vorresti raccontare?
Certo, ed è antecedente al periodo in cui svolsi ruolo di A&R. Come ogni anno partimmo per il Midem di Cannes dove la Flying Records aveva solitamente uno stand. La sera, terminata la giornata di lavoro, ci spostavamo in gruppo per seguire i vari eventi organizzati. All’uscita di un locale, appena messe le chiavi nella serratura dell’auto, spuntarono all’improvviso almeno una ventina di poliziotti delle forze speciali armati di pistole, mitra e fucili e, tra mille urla in francese, ci ammanettarono e scaraventarono in diverse auto, così come solitamente fanno coi peggiori criminali. Fummo portati in una grande centrale di polizia e, senza alcuna spiegazione, ci ritrovammo tutti insieme in una megacella di detenzione. A quel punto la paura crebbe a dismisura e iniziammo a nutrire sospetti l’uno dell’altro. Si passava dalla risata isterica del compianto Francesco Diana, che lavorava per il reparto hip hop, ai pianti di un giovane Alessandro Massara, in quel periodo in forze al reparto rock e in seguito diventato presidente della Universal. Trascorremmo circa due ore da incubo terminate con le scuse della polizia che aveva preso un evidente abbaglio, probabilmente dovuto alla targa di una delle nostre auto. La frittata però era fatta, l’indomani tra i corridoi del Midem ci salutavano tutti col sorrisino e mimando il gesto delle manette. Ogni volta che ripenso a quella storia rido come un bambino ma nel contempo mi tornano in mente i momenti terribili di quando mi fecero sdraiare a terra a faccia in giù e mi ammanettarono, proprio come un malvivente.


La testimonianza di Maurizio Clemente

Maurizio Clemente WMC 97
Maurizio Clemente al Winter Music Conference di Miami nel 1997

Tra 1992 e 1994 avevi già lanciato alcune etichette, la Rena Records, la Zippy Records e la Nite Stuff, a cui si aggiunse poi la Equal Records: quanto fu determinante ciò per il ruolo ricoperto in UMM?
Nite Stuff e Zippy Records erano distribuite proprio dalla Flying Records e rappresentavano prove tangibili dei buoni risultati raggiunti. In virtù di questo mi fu offerto il ruolo di A&R insieme a Giuseppe Manda. Fu un’esperienza fantastica dirigere un’etichetta dal profilo così alto e rispettato nell’ambito della dance music internazionale.

Ci sono produzioni UMM uscite durante la tua direzione artistica che ricordi con maggior piacere?
È difficile ricordare i titoli visto che sono trascorsi più di venticinque anni ma sicuramente “Feel The Light” di The Family, progetto di Tony Humphries. Andando un po’ più indietro invece, citerei la compilation “House Underground United” pubblicata nel ’94 su Nite Stuff e che lanciammo in occasione del SIB/Nightwave di Rimini.

Quali invece quelle da cui ti aspettavi risultati migliori?
Su tutti “We Got A Love” di Martini & Hardcorey con la voce di Sabrynaah Pope e remixata, tra gli altri, dai Fathers Of Sound, artefici di un suono che mi piaceva moltissimo.

Rispetto alle annate precedenti, il numero delle pubblicazioni UMM si riduce in modo sensibile tra 1996 e 1997. Alcuni numeri del catalogo sono saltati e certe pubblicazioni diffuse solo in formato white label: come mai?
Negli ultimi tempi puntavamo ai white label sia per risparmiare sul packaging, sia per stampare solo sul venduto. L’aria che si respirava in Flying Records in quel periodo era carica di tristezza, eravamo un team coeso ma sapevamo che le cose non stessero andando per il verso giusto. La maggior parte di noi attribuiva la debacle all’apertura degli uffici all’estero.

adv tour estivo '98
L’adv del tour estivo UMM nell’estate ’98

Nell’estate del 1998, poco prima che la Media Records rilanciasse il marchio, si tenne un tour della UMM in vari locali come l’Echoes, il Momà, l’Aqua Disco Village, il Sottovento e il Fabula con vari DJ tra cui Luca Fares, Lello Mascolo e il compianto Ricci: chi lo organizzò?
Si trattava di una tournée ideata per sensibilizzare i club. La organizzammo facendo leva sui miei contatti di allora intrecciati a quelli messi a disposizione dalla Media Records.

Nell’autunno di quell’anno l’etichetta di Gianfranco Bortolotti rimette sul mercato il marchio UMM. Hai avuto modo di seguire quella fase?
Sono a conoscenza dei vari tentativi nati con l’obiettivo di rilanciare UMM ma nessuno di essi mi sembra abbia dato i risultati sperati.

Che eredità lascia la UMM?
UMM nacque e si sviluppò in un periodo storico in cui le distribuzioni italiane erano in diretta competizione con gli Stati Uniti e riuscirono, con astuzia, a ritagliarsi grosse fette di mercato. A oggi, a detta di tutti, UMM resta l’etichetta italiana all’altezza di colossi d’oltreoceano come Nervous Records e Strictly Rhythm.

(Giosuè Impellizzeri)

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La carriera di Digital Boy, quando la techno divenne pop

Parlare di techno, in Italia, è sempre stato piuttosto difficile e controverso, specialmente in riferimento ai primi anni Novanta quando il genere sbarca da Detroit nel Vecchio Continente e inizia a europeizzarsi mutando sensibilmente le proprie caratteristiche in base a diverse dinamiche, inclusa la collocazione geografica. Da noi, ad esempio, c’è una cerchia di artisti, prevalentemente romani, che tiene bene a mente la lezione impartita dai decani della Motor City, ma è una minoranza. La techno che prende piede nello Stivale, tra 1991 e 1992, è prevalentemente figlia della new beat belga amalgamata a elementi della cultura rave della produzione anglo-olandese. Un filone edificato su gimmick ricavati da campionamenti di provenienza eterogenea (incluse pellicole cinematografiche, cartoni animati e suoni onomatopeici), assoli di sintetizzatori e strutture ritmiche con kickdrum in evidenza: per un numero imprecisato di italiani infatti, techno è sostanzialmente tutto ciò che gira su una cassa marcata e bpm sostenuti, e va messo in netta antitesi con l’house/garage permeata invece di sonorità più affini agli strumenti tradizionali e legata a parti cantate. Secondo tale approccio semplificatore, la techno si configura quindi come un genere rabbioso, sfrontato, energico, vigoroso, adrenalinico, quasi sempre strumentale e alimentato dalle tec(h)nologie che invadono capillarmente ogni studio di registrazione, sintetizzatori, batterie elettroniche e soprattutto campionatori con cui captare ed isolare frammenti da ogni dove e ricollocarli all’interno di nuovi nuclei sonori.
Tra i protagonisti italiani di questa fase c’è un giovane ligure, Luca Pretolesi, nato a Genova nel 1970 e attratto dalla musica al punto da mollare la città natale a sedici anni per trasferirsi a Milano dove frequenta una scuola per apprendere i rudimenti delle registrazioni audio, Professione Musica. «Ero il più piccolo della classe e frequentai quel corso per un triennio ma, vista la giovane età, non pensavo di utilizzare ciò che stessi apprendendo per qualcosa di preciso» rivela in questa intervista del 2015. In realtà Pretolesi metterà presto a frutto le conoscenze acquisite in quella scuola del comune meneghino, decisive per la sua carriera artistica che inizia inaspettatamente da lì a breve.

La Bestia
S 900/S 950, la prima autoproduzione che Pretolesi pubblica su Demo Studio

1990, il Demo Studio e le prime produzioni da indipendente
L’house music è la grande novità in ambito dance che dal 1989 in avanti gli italiani, dopo un biennio di training come raccontato qui, riescono ad esportare in ogni angolo del globo, Stati Uniti inclusi. Si tratta di un genere capace di mandare in frantumi l’elitarismo che per decenni ha permesso di comporre musica solo ad un certo tipo di musicisti, un suono ancora più “democratico” dell’italo disco degli anni immediatamente precedenti perché non prevede necessariamente uno schema legato al formato canzone che implichi quindi un testo e un cantante che lo interpreti. La house music funziona anche in forma strumentale ma può comunque vantare voci d’eccezione grazie al campionatore, così come testimonia uno dei grandi successi nostrani dei tempi, “Ride On Time” dei Black Box, costruito sul sample carpito, suo malgrado, a Loleatta Holloway e la sua “Love Sensation”. Con una spesa relativamente abbordabile si può approntare un provino tra le mura casalinghe per poi affinarlo in qualche studio più equipaggiato e farlo mixare in modo appropriato per procedere con la stampa su vinile. C’è anche chi riesce a fare tutto in modo autonomo ed indipendente proprio come Pretolesi: «rispetto ai colleghi dell’epoca ero un ibrido» afferma nell’intervista sopraccitata. «Sapevo come registrare gli strumenti, ero un tastierista ed anche un DJ, fusi queste capacità per creare la mia musica occupandomi pure del mixaggio della stessa». Con un po’ di risparmi messi da parte, Pretolesi acquista un campionatore Akai S 900, un sequencer Roland MC-500 e una batteria elettronica Roland TR-909. Con quelli crea il Demo Studio, un piccolo home studio allestito nel retrobottega del negozio di ceramiche di famiglia, ai tempi al 21 di Largo Giuseppe Casini, a Chiavari. «Aspettavo che i miei (Sergio Pretolesi, musicista, e Francesca Musanti, pittrice, in seguito coinvolti in alcune produzioni discografiche del figlio, nda) chiudessero il negozio per fare musica, a volte fino al mattino, e subito dopo andavo a scuola» racconta in questa intervista edita da Vice nel 2012. «Era un periodo in cui riuscivo a completare anche quindici pezzi al mese. Il proprietario (Enrico Delaiti? nda) del negozio di dischi da cui mi rifornivo, Good Music, mi convinse a mandare una cassetta con un mixato a Radio DeeJay. Non avevo grosse aspettative però ricevetti una telefonata da Molella che mi invitava a partecipare ad un contest che la radio avrebbe organizzato da lì a poco all’Aquafan di Riccione, la Walky Cup Competition. Era il 1989 e a sfidarci eravamo io, Mauro Picotto, Daniele Davoli dei Black Box e Francesco Zappalà (ma pure Max Kelly e Fabietto Cataneo come raccontiamo rispettivamente qui e qui, nda), tutti giovanissimi. Vinse Picotto ma ebbi comunque la sensazione che tutto si stesse muovendo nella direzione giusta ed è incredibile come ognuno di noi poi abbia avuto successo».

Demo Studio logo
Il ritratto di Beethoven e il logo del Demo Studio a cui questo pare ispirarsi chiaramente

Nel 1990 la techno inizia il processo di europeizzazione ma, come detto all’inizio, in Italia solo una minoranza segue con attenzione il fenomeno e a dirla tutta il confine tra house e techno è labile e non ancora definito come invece sarà poco tempo dopo. Pretolesi, convinto che le sue creazioni siano all’altezza dei dischi che trova in vendita nei negozi, decide di provarci. La prima (auto)produzione si intitola “La Bestia (Bring It On Down)” e la firma con uno pseudonimo-citazione, S 900/S 950, un palese rimando ai campionatori Akai S900 ed S950, assoluti protagonisti della dance music prodotta a cavallo tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta. Il brano viene pubblicato su Demo Studio, brand omonimo del citato studio di Pretolesi per l’occasione abbinato ad un logo che vede la fumettizzazione di quello che pare il volto di Ludwig van Beethoven con la cuffia che affiora sotto la fluente capigliatura. A seguire arriva “Electric Live”, questa volta firmato Luca P. e prodotto in coppia con Vincenzo Ciannarella con cui Pretolesi ricostruisce “Electric Fling” dei RAH Band con divagazioni hip house e downtempo. La traccia vive una seconda vita attraverso il remix di M&M Crew edito dalla tedesca Hansa e distribuito in Europa dalla BMG Ariola oltre ad essere licenziata in Germania dalla Metrovynil per intercessione della Discomagic di Severo Lombardoni.

Kokko
“Kokko” dei Digital Boys, inciso sul lato b del terzo e ultimo 12″ su Demo Studio (1990)

«Dopo i primi dischi alcuni amici mi dissero che la mia musica suonava davvero bene e così iniziai a produrre e mixare anche per altre persone» aggiunge Pretolesi nell’intervista del 2015. Tra 1990 e 1991 infatti è impegnato come mixing engineer in “Eurovision” di Demo, sulla Tasmania Records, e “Back In The Time” di Kamera, su Flying Records. A quest’ultima, con cui chiude un accordo di distribuzione in contovendita, si presenta col terzo (ed ultimo) disco su Demo Studio che, come avvenuto per “Electric Live”, è costruito a quattro mani, questa volta con Mauro Fregara con cui Pretolesi forma il duo dei Digital Boys. Si intitola “Techno (Dance To The House)” ma di techno non ha nulla. È un rimaneggiamento di “Dance To The House” di The House Crew edito dalla Strictly Rhythm e il featuring attribuito al fittizio Cool De Suck (ironica anglofonizzazione di cul-de-sac?) in realtà cela il campionamento dell’acappella originale di Norberto ‘Bonz’ Walters. Nulla di autenticamente nuovo insomma. La sorpresa però è incisa sul lato b dove si trova “Kokko” rivista in due versioni, Elettro Mix e Suicide Mix, in cui si sviluppa un carattere musicale insolito. A differenza dei pezzi sinora messi in commercio, sostanzialmente manipolazioni ed interpolazioni di tracce già edite, in “Kokko” viene convogliata maggiore vitalità ed esuberanza oltre ad elementi saldati tra loro da patch campionate (su tutte l’hook ‘dance, you got the chance’ preso dalla Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters Featuring MC Action e finito anche in “Dance, You Got The Chance” dei Rhythm Masters). La lunga lingua filo acida che si dipana lungo la stesura, troncata dalle punteggiature di stab, fa di “Kokko” qualcosa di diverso dalla classica house cantierizzata da un numero crescente di etichette, seppur un vocione continui a declamare “house”. «Grazie ad un passaggio di Albertino su Radio DeeJay le mille copie che avevo stampato a mie spese si esaurirono in due giorni così la Flying Records decise di mettermi sotto contratto e stamparne subito altre trentamila» svela ancora nell’intervista a Vice. «Quello fu il momento della svolta, cominciai a suonare in giro per l’Italia e l’Europa proprio quando la techno veniva sdoganata nei club e nasceva la rave culture».

In Order To Dance 2
“Kokko” dei Digital Boys finisce nel secondo volume di “In Order To Dance”, sulla belga R&S Records

A mostrare interesse per “Kokko” sono anche i DJ esteri sparsi tra Germania, Regno Unito (dove tra i supporter pare ci fosse anche Sasha), Paesi Bassi e Belgio. Ma non è tutto: il brano viene ripubblicato in Spagna dalla Max Music, ai tempi etichetta particolarmente influente nell’area iberica, e scelto da Renaat Vandepapeliere per il secondo volume della compilation “In Order To Dance” su R&S Records. In tracklist ci sono tracce di CJ Bolland, Frank De Wulf, Joey Beltram, James Pennington, Dave Clarke, Mark Ryder ed altri due italiani, i Free Force (Roberto Fontolan e il compianto Stefano Cundari) col brano “M.I.R.C.O.”. «”Kokko” riempiva le piste delle discoteche, in Italia e all’estero» ricorda oggi Mauro Fregara, contattato per l’occasione. «Impiegammo un pomeriggio per realizzare “Techno (Dance To The House)”. Dopo aver mangiato una pizza e bevuto una birra tornammo in studio e in appena un’ora nacque “Kokko”. “Techno (Dance To The House)” germogliò dai ripetuti ascolti della rivoluzionaria “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. (di cui parliamo qui, nda), ma rispetto a “Kokko” funzionò poco. Ai tempi incidere un disco di musica dance era una scommessa, specialmente per chi, come noi, provava a fare roba innovativa. Prima di collaborare con Luca, avevo prodotto un altro disco insieme a Charlie Storchi, un bravissimo DJ con cui lavoravo a Radio Babboleo. Si intitolava “Calanza” ed era firmato Macha, ma non ebbe grandi riscontri seppur fu utilizzato per un servizio mandato in onda dalla Rai, forse Tg2 Dossier, in cui si parlava di discoteche ed ecstasy. Andò decisamente meglio con “Kokko”, un successo anche ad Ibiza. Tuttavia dopo quello non incisi più dischi, concentrandomi sul lavoro in radio (facevo il tecnico per un programma chiamato Rock Cafè che andava in onda da Milano). Quella fu l’unica apparizione dei Digital Boys, un nome che ideai proprio io: la parola “digital” in quel periodo era sinonimo di tecnologia e faceva pensare subito al futuro. Poi forse la Flying Records suggerì a Luca di tenere l’alter ego al singolare per il suo progetto solista ma è solo una supposizione perché io non fui informato su nulla e tutto finì così come era iniziato» conclude Fregara. “Kokko”, comunque siano andate le cose, apre di fatto un nuovo scenario per Pretolesi che da quel momento diventa Digital Boy.

Gimme A Fat Beat
“Gimme A Fat Beat” è il brano con cui Digital Boy debutta sulla Flying Records

1991-1992, l’ingresso nella Flying Records e il boom dell’eurotechno
“Kokko”, b-side della terza autoproduzione di Pretolesi, è una palla di neve che si trasforma in valanga e cambia letteralmente lo status quo. Il successo raccolto in vari Paesi europei gli fa guadagnare un ingaggio dalla Flying Records, tra i poli discografici italiani più agguerriti in quel momento storico. Con un ruolo importante ricoperto anche come distributore ed importatore (ha una filiale a Milano, in Via Mecenate, ed una a Londra a cui se ne aggiungerà poi una terza a New York), la casa discografica campana di Flavio Rossi ed Angelo Tardio mette Pretolesi sotto contratto e nel 1991 pubblica “Gimme A Fat Beat”. Trainato dall’hook vocale preso da “The Party” di Kraze e frammenti di “Looking For The Perfect Beat” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force e “Jewel (Rough Cut)” dei Propaganda, il brano non impiega molto a consacrarsi in Italia, complice il supporto massivo di Albertino che lo porta al vertice della DeeJay Parade. Sul centrino del mix si rinviene, seppur piccolissimo, il logo del Demo Studio, ultima connessione con la breve parentesi “indie” dell’artista. La copertina invece, di Patrizio Squeglia, vede una sorta di installazione artistica col corpo di una donna sovrappeso seduta su un televisore. Un secondo televisore è piazzato al posto della testa. «La composizione grafica aveva solo un riferimento metaforico col titolo, appunto il “fat beat”, ed usai un concetto rappresentativo puramente astratto» spiega Squeglia poche settimane fa. «Nonostante il brano avesse un evidente suono accattivante e molto pop, allo stesso tempo risultava decisamente originale per i tempi. Per questo mi interessava creare un’immagine che potesse colpire ed incuriosire senza essere per forza didascalica, ma volevo soprattutto che la copertina catturasse un pubblico internazionale come quello del mercato inglese dove la creatività nella musica stava disegnando un percorso innovativo che in breve tempo andò ad influenzare tutti i settori merceologici e non».

Technologiko
Il fronte della copertina di “Technologiko” occupato integralmente dal primo logo di Digital Boy realizzato da Patrizio Squeglia

“Gimme A Fat Beat”, con la sua energia frenetica e ribollente, anticipa l’uscita del primo album di Digital Boy, “Technologiko”, pubblicato su vinile, cassetta e CD. Su quest’ultimo la tracklist include due tracce in più, la blippeggiante “Unisys” e “Yo! Techno”. La scelta di mettere sul mercato un album con questa musica è parecchio inusuale ai tempi, specialmente in Italia dove la dance viaggia quasi esclusivamente su 12″. L’LP, tendenzialmente legato ad ambienti pop e rock, faticherà non poco ad affermarsi nel comparto della musica da discoteca, ma è un chiaro segno di come alla Flying Records ambissero a ridurre la distanza tra mercato pop e dance, e fare di Digital Boy una star giovanile gestita come quelle dei grandi concerti. La stampa su vinile (gatefold), cassetta e CD ne rappresenta un’ulteriore conferma. Da “Technologiko” affiora un suono di matrice nordeuropea, fortemente dominato dall’uso del campionatore e dalla partizione sampledelica post marssiana come attestano “Digital Danze”, “This Is Metal Beat!”, riadattamento di “Acid Rock” di Rhythm Device, o “Rave Situation” con classici stab e voci adoperate come snodi ritmici, ma a presenziare è pure una solarità dal taglio melodico quasi eurodance con parentesi rappate in stile Technotronic (“Logik”). C’è spazio anche per una nuova versione di “Kokko” chiamata Jungle Remix (il “jungle” probabilmente deriva dai suoni ambientali usati ed evidenti nell’intro). Il fronte della copertina è occupato per intero dal logo di Digital Boy racchiuso in un quadrato di colore azzurro. «Il logo fu realizzato da me contestualmente alla scritta (rinvenibile sul retro e all’interno del gatefold, nda) “Digital Boy”» spiega ancora Squeglia. «Più che un significato specifico, questo segno distintivo incastrato tra le due parole aveva un riferimento preciso a quelle che erano le linee guida della grafica che si stava sviluppando all’inizio degli anni Novanta. La scelta di usare due elementi dalla forma rigida e definita (quadrato ed ellisse) disturbati da un graffio centrale, fu dettata dalla volontà di creare una rottura con quello che era stato il segno “morbido e romantico” che aveva accompagnato diversi progetti dell’industria discografica italiana negli anni Ottanta». Un elemento grafico di discontinuità insomma, che faccia il paio con il tipo di musica profondamente differente da ciò che il decennio precedente aveva lasciato in eredità.

Il secondo singolo estratto da “Technologiko è “OK! Alright”, ancora costruito su quell’essenzialità che tiene insieme tutti i pezzi pretolesiani del periodo innestati su moduli simili ossia brevi campionamenti a dare respiro tra gli anelli dei loop ritmici, un basso in stile Bobby Orlando su onda quadra, sirene e mini riff di poche note sincopate. Licenziato in Belgio dalla Music Man Records, il brano nasce sulla base di “OK, Alright” di The Minutemen, progetto del DJ newyorkese Norty Cotto edito dalla Smokin’ nel 1989. Così come si usa fare ai tempi, escono anche i remix tra cui quelli di Frank De Wulf e DJ Herbie, il primo all’opera su “Gimme A Fat Beat”, il secondo su “OK! Alright” e “Kokko”. Il 1991 è pure l’anno in cui debutta la UMM – Underground Music Movement, diretta artisticamente da Angelo Tardio e diventata presto un marchio di punta della Flying Records. Proprio a UMM Pretolesi destina “The Voice Of Rave” del progetto one shot omonimo, probabilmente interpretato nelle parti vocali dall’amico Ronnie Lee. Nel catalogo della main label del gruppo discografico napoletano, Flying Records per l’appunto, finisce invece “Just Let Your Body Ride” di Oi Sonik, pure questo limitato ad una sola apparizione e portato in Belgio dalla Music Man Records. Parallelamente inizia a muoversi sia l’attività sul fronte remix, con le versioni approntate per “Extasy Express” dei The End e “Thunder” dei Mato Grosso di cui parliamo qui e qui, sia quella nel redditizio comparto compilation con “Techno Beat”, mixata dal ragazzo digitale, edita ancora da Flying Records e sequenziata prevalentemente su materiale made in Italy alternata a due presenze d’oltralpe, “Hell Or Heaven” del compianto L.U.P.O. e “What Time Is Love” dei KLF. Tra le altre, pure un inedito a firma Digital Boy, “Rotation”, blipperia hardcore mista a sirene e bassline squadrati ed un sample preso da “Jump To The Pump” di 2-Wize che fa impazzire le platee all’estero. Il pezzo si ritroverà, due anni più tardi, sul CD singolo di “Crossover”.

La techno riformulata in Europa ormai ha preso piede a livello internazionale, è una tendenza consolidata che macina numeri inimmaginabili sino a poco tempo prima. Sul mercato si riversa un fiume di techno music o presunta tale, in grado di conquistare un numero crescente di ascoltatori disposti a farsi risucchiare in un vortice di musica mai sentita prima, sia per suoni che ritmiche. Un autentico boom commerciale che da un lato porta al diapason il fenomeno ma dall’altro finisce per inflazionarlo attraverso prodotti alquanto discutibili. C’è chi spera che quel momento non finisca mai, soprattutto i grossisti e le etichette discografiche che producono a nastro prodotti seriali, ma pure chi auspica che tale sovraesposizione si eclissi al più presto perché sta portando alla deriva ciò che la techno era originariamente, ossia tutto fuorché genere governato da espressioni stilistiche convenzionali. La stella di Digital Boy è ancora luminosissima: è ospite in importanti club tra Germania, Belgio e Paesi Bassi, la “mecca” di quel suono ronzante, ma pure in alcuni prestigiosi eventi statunitensi, su tutti il rave organizzato a Los Angeles da R.E.A.L. Events il 7 marzo ’92 in cui il nostro si esibisce insieme ad artisti del calibro di Joey Beltram e Doc Martin. Il flyer dell’evento viene spillato ad un flexi-disc 8″ prevedibilmente diventato un cimelio per i collezionisti. Non mancano ovviamente le serate in Italia in posti come il Cocoricò o l’Immaginazione di Pantigliate, dove propone un suono rude, acido ed inselvaggito come si sente in questa clip. In buona sostanza Digital Boy diventa uno degli artisti di riferimento per chi segue un suono descritto da Christian Zingales nel libro “Techno” come «una sintesi commerciale dell’imprinting abrasivo di Underground Resistance, humus principale di una bastardizzazione europea che dettò legge su Radio DeeJay con Albertino che ribattezzò “zanzarismo” quel sound».

This Is Mutha Fuker
“This Is Mutha F**ker!”, una conferma per Digital Boy nel 1992

Le idee per alimentare la discografia non mancano e ripercorrendo le orme lasciate da “Who Is Elvis?” dei Phenomania (di cui parliamo qui) e flirtando col cosiddetto hoover sound ottenuto con la Roland Alpha Juno-2 ed eternato da pezzi tipo “Dominator” degli Human Resource o “Mentasm” di Second Phase, Pretolesi sfodera “This Is Mutha F**ker!”, con suoni che si spandono come inchiostro su carta assorbente. Sulla copertina del 12″ realizzata ancora da Patrizio Squeglia l’autore, fotografato da Emanuele Mascioni, inforca uno strano paio di occhiali con le lenti a forma di mirino, acquistati a Camden Town, nella capitale britannica, come lui stesso svela nell’intervista a Vice. «Quegli occhiali furono un accessorio che finì con l’identificare Luca anche senza usare il suo nome d’arte» spiega Squeglia. «Li propose in maniera autonoma e tutto il team della Flying Records sposò la scelta senza esitazioni. Tra l’altro la copertina di Digital Boy a cui sono legato di più è proprio quella di “This Is Mutha F**ker!”: per arrivare a quello scatto io ed Emanuele Mascioni chiedemmo a Luca, durante lo shooting fotografico, di eseguire un’infinita di flessioni e per questo, probabilmente, lui arrivò ad “odiarci”. La tensione del suo corpo, il bianco e il nero, il logo nella versione minimale e le proporzioni striminzite del titolo in netto contrasto coi titoloni usati da altri artisti italiani, resero quell’artwork iconico e riconoscibile in mezzo a mille. Operavo sempre in simbiosi con Luca, il fine ultimo era proporre l’immagine di un artista di carattere internazionale, diverso dalla solita pop star italiana vestita bene per l’occasione. Ovviamente il tutto era legato al sound proposto e penso che, visti i risultati ottenuti, il lavoro abbia funzionato».

Sul retro della copertina di “This Is Mutha F**ker!” si legge uno speciale ringraziamento rivolto all’Akai insieme ad una foto dell’MPC60, strumento che l’azienda nipponica sviluppa insieme a Roger Linn. Tra i crediti si apprende anche della nascita del Digital Boy Management, curato da Mario Cirillo. Ormai Pretolesi è lanciato nello star system, “This Is Mutha F**ker!” staziona per tutto il mese di aprile al vertice della DeeJay Parade e sembrano davvero lontanissimi i tempi in cui armeggia nello studio amatoriale ricavato nel negozio dei genitori provando ad assemblare suoni e ritmiche con le poche macchine di cui dispone. A remixare “This Is Mutha F**ker!” (che stando a quanto riportato dalle Raveology News a marzo 1997, avrebbe venduto 55.000 copie in Italia ma 200.000 includendo le numerose licenze estere) sono gli Underground Resistance, artefici di una versione in chiaro hoover style che palpita su uno sfondo fiammeggiante. In parallelo il team di Detroit approda sulla neonata UMM con “Living For The Nite” i cui remix vengono affidati a Digital Boy che ne ricava due reinterpretazioni, The Digital Morning After e The Boy’s Nite Before. A fare da “ponte” tra Pretolesi e gli americani è il citato Tardio che oggi rammenta: «Conobbi Jeff Mills e Mike Banks al New Music Seminar di New York dove mi trovavo insieme ad Alberto Faggiana, responsabile legale della Flying Records. Erano persone simpatiche, gentili ed affabili, in netto contrasto con la musica che producevano, così violenta ed alienante, e diventammo presto amici. Mi sembrò naturale quindi, qualche tempo dopo, coinvolgerli in alcuni progetti discografici che stavo curando. In virtù del ruolo consolidato come distributore, la Flying Records era un punto di riferimento non solo per le realtà italiane ma pure per quelle estere che si affidavano a noi sapendo di poter contare su una distribuzione efficace e capillare nonché su una società più che solida sotto il profilo finanziario, in quel periodo il fatturato annuo era pari a quaranta miliardi di lire».

Punizione
L’artwork della compilation “Punizione”

“This Is Mutha F**ker!” finisce pure nella tracklist della compilation “Punizione” in cui Digital Boy mette insieme un collage di pezzi ascritti a quel filone che vive l’apice del successo in Europa, da “Babilonia” di Moka DJ a “Mig 29” dei Mig 29, da “UHF” di UHF (tra i primi progetti di Moby) a “The Sound Of Rome” di Lory D e “Purgatorio” di Technicida passando per varie hit come “Pullover” di Speedy J, “Dominator” di Human Resource, “Who Is Elvis?” dei Phenomania, “Dance Your Ass Off” di R.T.Z. ed “Everybody In The Place” dei Prodigy. La copertina, ancora di Patrizio Squeglia, è una provocazione che i benpensanti possono tacciare facilmente di blasfemia, la riproposizione della crocifissione cristiana dove la croce è fatta però da maxi subwoofer e il volto di Cristo sostituito dal monitor di un computer, un chiaro rimando all’artwork di “Gimme A Fat Beat”. «Essendo ateo ho una percezione delle immagini sacre diversa rispetto a quella di un credente, per me il Cristo sulla croce è solo un uomo torturato ingiustamente» chiarisce Squeglia. «Terminologie come “Punizione”, “Yerba Del Diablo” (Datura, nda) e simili, erano frequenti ai tempi, specialmente nel circuito techno. Essere in bilico tra sacro e profano aveva un fascino particolare, catturava l’attenzione del pubblico che voleva cambiare le regole del club allontanandosi dalle pedane luminose e ballare nel buio, in linea con le basse frequenze del nuovo suono che stava esplodendo. L’utilizzo di immagini sacre (si veda la copertina di “The Age Of Love” di cui parliamo qui, nda) in contesti così forti veniva percepito come una grande volontà di rottura col passato e col finto perbenismo dilagante. Qui in Italia abbiamo un esempio eccellente di questa scuola di pensiero, il grande tempio della techno, sua maestà il Cocoricò, su cui ci sarebbe l’impossibile da raccontare soprattutto per quello che riguarda la grafica».

Futuristik
“Futuristik”, secondo LP di Digital Boy uscito poco dopo “Technologiko”

“This Is Mutha F**ker!” è il primo singolo estratto dal nuovo album, “Futuristik”, che la Flying Records stampa ancora su CD, cassetta e vinile, questa volta doppio. Rispetto a “Technologiko”, figlio delle sperimentazioni casalinghe generate durante quella sorta di apprendistato tra le mura del Demo Studio, il secondo LP vive in un’atmosfera variopinta e si nutre di una gamma ispirativa più ampia, probabilmente derivata dalle esperienze che l’autore matura in giro per l’Europa («non puoi fare dischi di successo se non hai un feeling e un contatto costante col pubblico» dirà in una videointervista nel 1994), e mostra un appeal meno commercia(bi)le. Non è inoltre un disco monocorde come potrebbe apparire il predecessore, Pretolesi esplora nuove vie cimentandosi in un paio di tracce filo house (“If You Keep It Up”, “Touch Me”) che mettono un po’ di brio nella tavolozza compositiva che comunque resta ad appannaggio dell’eurotechno forata da vocalizzi umani (“Avreibody Move”, “Jack To The Max”), cavalcata da suoni cristallini (“The B-O-Y”, “Wave 128”), stab di memoria rave (“D-Dance”, una specie di italianizzazione di “I Like It” di Landlord Featuring Dex Danclair), euforie hardcore (“Kaos”, “In The Mix”, “Now Come-On”, “Energetiko”), minimalismo post pulloveriano (“Tilt 21”). Di tanto in tanto affiorano gli interventi vocali di Ronnie Lee che ai tempi si fa chiamare MC Fresh, come quelli in “Children Of The House” registrata durante un live al Parkzicht di Rotterdam.

123 Acid
La copertina di “1-2-3 Acid!” dominata ancora dagli occhiali con le lenti a forma di mirino

“1-2-3 Acid!” è il secondo singolo preso da “Futuristik” in cui l’autore ritaglia un elemento vocale da “In The Bottle” dei C.O.D. e torna a campionare la Boogie Man’s Mix di “In The Mix” di Mix Masters seppur nel video diretto da Nick Burgess-Jones quella parte venga mimata dal menzionato Lee, il futuro Ronny Money. In copertina finisce un altro scatto di Mascioni caratterizzato ancora dagli occhiali-mirino, gli stessi che si scorgono sull’artwork dell’album dove Pretolesi è immortalato per intero ed indossa t-shirt e scarpe SPX, brand britannico importato in Italia dalla Interga di Bressanone insieme ad altri marchi come Daniel Poole, Nervous, Apollo, Million Dollar, DeLong, World Tribe Productions, Caterpillar e Trigger Happy. Il modello Street Slam finito sull’artwork diventa particolarmente popolare nell’ambiente delle discoteche grazie a vari testimonial che l’Interga coinvolge ai tempi come Rexanthony, KK, Digital Boy per l’appunto e il suo master of ceremonies, MC Fresh, che in parallelo debutta da solista con “Don’t You Wanna Be Free”. A conti fatti Pretolesi è già un endorser capace di catalizzare i gusti del pubblico, principalmente dei giovanissimi, ed è desideroso di dare voce alla sua creatività non solo nella musica ed infatti firma col suo marchio una linea di abbigliamento (cappellini, t-shirt, pantaloni, accessori vari).

Digital Boy & SPX
Digital Boy è uno degli endorser italiani del brand britannico SPX (foto tratta da una brochure dell’Interga del 1992)

La Flying Records pubblica “Futuristik” anche in territorio britannico ma c’è qualcosa che non va secondo i piani. «Vorremmo approdare negli Stati Uniti ma è un mercato molto diverso da quello europeo e giapponese» dichiara il promoter Alessandro Massara in un articolo di David Stansfield pubblicato su Billboard il 4 luglio 1992. «Per raggiungere un vasto pubblico negli States è necessario che un artista venga gestito da una multinazionale. Dare in licenza il prodotto ad etichette indipendenti è irrilevante, possono muovere circa 5000 copie e non basta. Uno dei problemi che la Flying Records sta incontrando è rappresentato dal fatto che alcuni Paesi siano interessati solo ad un singolo» prosegue Massara. «La nostra priorità, al momento, è Digital Boy ma vorremmo andare oltre la vendita del classico mix visto che è tra i pochi artisti techno, in Italia, a potersi esibire come in un vero e proprio concerto. Per questa ragione abbiamo rifiutato diverse offerte giunte da etichette indipendenti, auspichiamo che qualche major possa farsi avanti magari dopo il New Music Seminar o il mega rave a Los Angeles previsto per il 4 luglio». Le speranze di Massara si infrangono, non c’è nessuna multinazionale interessata a Digital Boy che nel frattempo remixa “Nana” dei N.U.K.E. (uno dei progetti del tedesco Torsten Stenzel intervistato qui) e “Ti Sei Bevuto Il Cervello” di Control Unit, deriva demenziale dell’euro(techno)dance firmata da Albertino e Pierpaolo Peroni, per ovvie ragioni pompata sulle frequenze di Radio DeeJay. «A mio avviso tra la pubblicazione di “Technologiko” e “Futuristik” trascorse troppo poco tempo» afferma Tardio. «Farlo uscire pochi mesi dopo il primo LP fu un errore che si ripercosse sulle vendite, ridimensionate rispetto al precedente. A complicare ulteriormente la situazione fu inoltre la posizione dicotomica di Digital Boy nel mercato: in Italia era seguito perlopiù dai teenager ed era considerato un nome commerciale perché entrato nelle grazie di Albertino che lo supportava su Radio DeeJay al contrario dell’estero dove invece continuava ad essere un nome di nicchia dell’underground e credibile per un pubblico più adulto. Per questa ragione le multinazionali non si mossero, evidentemente non considerarono l’ipotesi di investire su un artista legato ad un genere musicale ancora lontano dai riflettori e dalle copertine patinate come allora era la techno». Nel corso dell’anno la Flying Records gli affida anche il mix di due compilation, “Punizione Continua” e “Digital Beat”, quest’ultima accompagnata da una copertina che richiama quella di “Futuristik” con una foto probabilmente scattata nella stessa session ma con una giacca di pelle al posto della felpa e un altro paio di SPX ai piedi, le CB 104 in nubuck rosso. Sotto il profilo musicale invece, la prima annovera qualche concessione techno (Underground Resistance, Solid State), la seconda invece tracima nel suono dance generalista italiano di allora (U.S.U.R.A., Anticappella, Ramirez, Glam, Mato Grosso) al quale l’artista si avvicina di più a partire dall’anno seguente.

1993-1994, l’avvicinamento all’eurodance e la fine del sodalizio con la Flying Records
A partire dal 1993 il trend commerciale europeo della techno va progressivamente sgonfiandosi, soverchiato da nuove tendenze che conquistano il gusto del grande pubblico. In Italia, tuttavia, c’è un colpo di coda rappresentato da un ibrido sonoro portato avanti da artisti come Ramirez, DJ Cerla, Masoko, Z100, Virtualmismo e Digital Boy. La figura di quest’ultimo si ritrova in una posizione difficile: la sua musica è fin troppo “cheesy” per i soldati dell’underground ma nel contempo suona troppo “dura” per gli irriducibili della melodia e del formato canzone. «Tra coloro che facevano techno nei primi anni Novanta, in Italia, sono quello che è finito in radio prima di altri» afferma a tal proposito l’artista in questa intervista a cura di Damir Ivic, pubblicata su Soundwall il 15 ottobre 2018. «”Kokko”, “Gimme A Fat Beat” e “OK! Alright” erano mandati in onda da Radio DeeJay e se finivi lì automaticamente diventavi “commerciale”. Lory D ha smesso di suonare i miei pezzi da quando iniziarono ad essere trasmessi in un certo tipo di contesto. Dal punto di vista pratico, divenni l’artista techno con un pubblico fatto di non appassionati techno. La Gig Promotion (agenzia di management legata a Radio DeeJay, nda) mi faceva suonare in posti dove il pubblico non era assolutamente composto da raver bensì da gente che frequentava le discoteche “normali”. I miei colleghi quindi ad un certo punto mi hanno visto andare “di là”, seppur io continuassi a suonare le stesse cose di prima, di fronte ad un’audience diversa, sì, ma la musica era la stessa».

Crossover
“Crossover” è l’unico brano che Pretolesi pubblica come Digital Boy nel 1993

Probabilmente è questa singolare collocazione nella scena che persuade Pretolesi a dare un taglio diverso alle sue (poche) produzioni discografiche, ridotte sensibilmente rispetto alle due annate precedenti. Alla Discoid Corporation, uno dei tanti tentacoli della Flying Records, destina due 12″ dell’amico Lee che abbandona le vesti di MC Fresh diventando Ronny Money, “Ula La” e “Money’s Back”. Solo uno invece il disco a nome Digital Boy uscito nel ’93, “Crossover”, successo estivo con cui l’artista, pur non cedendo in modo evidente alla costruzione tipica dell’eurodance, applica una sostanziale modifica alla matrice del suo stile adesso più vicino al modello tedesco di artisti come Genlog, General Base, N.U.K.E. o U96. Il titolo stesso del brano sembra sintetizzare gli intenti indicando un miscuglio di elementi eterogenei che possano transitare attraverso diversi mondi musicali. All’interno di “Crossover” c’è ritmo, energia, un breve messaggio vocale (dell’amico Ronny Money) ed una spirale acida, ma la costruzione assai prevedibile del tutto rivela un approccio che divide ben poco con la techno. Sul retro della copertina una foto, ancora di Mascioni, restituisce un’immagine di Pretolesi un po’ diversa rispetto a quella del biennio precedente, più composta e sobria e meno ravecentrica. La versione che apre il lato b, la L.U.C.A. Over Mix, pulsa su battiti accelerati e viene ulteriormente rivista nella L.U.C.A. Over Remix (solcata su un 12″ di colore blu) che pare una summa tra il suono spiritato dei Datura e le sincopi balbettanti di Ramirez. Sul lato a invece figura una Edit LP Mix che lascia supporre la presenza di un nuovo album di cui peraltro si parla ma che, come si vedrà più avanti, non vedrà la concretizzazione. L’Italia danzereccia accoglie con entusiasmo “Crossover”: sebbene non conquisti la cima della DeeJay Parade, il brano resta nell’ambita classifica settimanale per due mesi e mezzo circa (dal 3 luglio al 18 settembre) e la Flying Records cavalca comprensibilmente l’onda, prima con la “Crossover Compilation” mixata da Pretolesi in modo parecchio creativo a mo’ di medley, e poi con vari remix come quello di “Atchoo!!!” dei Control Unit e soprattutto quello per “Ricordati Di Me” di Fiorello, edito su vinile giallo e ricavato dallo stesso telaio di “Crossover”. Tutto sembra andare per il verso giusto ma alcune nuvole si profilano all’orizzonte.

Il 1994 si apre con “It’s All Right” della vocalist britannica Jo Smith, cover eurodance dell’omonimo di Sterling Void e Paris Brightledge uscito nel 1987. ‎A produrre, arrangiare e mixare il brano è Digital Boy nel suo Demo Studio. Sul lato b del disco, edito da Flying Records, c’è pure un inedito, “Incomprehensions”, scritto da Pretolesi e dalla Smith. Il titolo, a giudicare da ciò che avviene pochi mesi dopo, è forse un indizio su quello che sta avvenendo dietro le quinte? Su Discoid Corporation torna invece Ronny Money col poco fortunato “Again N’ Again”, un’altra produzione proveniente dal Demo Studio in chiave smaccatamente euro: il Digital Boy di adesso è davvero irriconoscibile se paragonato a quello di pochi anni prima. Rimasto nell’anonimato è pure il remix realizzato per “Another Love” di Further Out, sempre su Flying Records.

Dig It All Beat
Con “Dig It All Beat!” si conclude l’avventura di Digital Boy al fianco della Flying Records

Tuttavia le aspettative dei fan sono alte e ad aprile esce “Dig It All Beat!” che richiama i suoni e la stesura di “Crossover” ma con l’aggiunta di una componente pop più evidente derivata dalle presenze vocali incrociate di Jo Smith e Ronny Money. Sebbene ricordi il successo dell’estate precedente, “Dig It All Beat!” non riesce però a replicarne i risultati, non figura né tra i mix più venduti né tantomeno tra i titoli irrinunciabili di DJ ed emittenti radiofoniche. Fugace l’apparizione nella DeeJay Parade per appena due settimane a giugno e limitata alla parte più bassa della classifica. Il vento sta cambiando e il periodo più creativo sembra già essere alle spalle. Un’impasse. La figura di Digital Boy appare più aderente al fermento musicale italiano che a quello internazionale e la pubblicazione del secondo volume della “Crossover Compilation” non lascia adito a dubbi. In tracklist si va da Masoko Solo ad Anticappella, dai Datura a Silvia Coleman passando per Molella, The Outhere Brothers, 2 Unlimited ed Aladino. Non c’è ombra neanche dell’eurotechno e il pezzo che avrebbe potuto aprire una nuova traiettoria preservando connessioni col passato, “Inkubo”, viene relegato invece al CD singolo di “Dig It All Beat!”. Durante la primavera viene ancora annunciata l’uscita del nuovo album, il terzo, accompagnato da un VHS, atteso già ad ottobre ’93 come sottolinea Marco Biondi in una recensione su Tutto Discoteca Dance a maggio. «Il nuovo LP arriverà insieme ad un home video che raccoglie spettacoli fatti un po’ in tutta Italia e poi rieditati, oltre a brani nuovi» spiega Pretolesi in un’intervista rilasciata alla rivista Trend Discotec a giugno 1994. «In particolare c’è uno spettacolo fatto all’Ultimo Impero di Airasca che abbiamo filmato appositamente per la videocassetta con una troupe video e con piccole telecamere amatoriali». Uno scatto dell’evento in questione finisce sul retro della copertina di “Dig It All Beat!”, un’annunciazione in pompa magna di un lavoro che, almeno sulla carta, sembra molto forte. «”Digital Boy Live”, titolo dell’album ma pure del VHS, è un crossover di situazioni» prosegue l’artista nell’intervista. «È techno ma raccoglie influenze diverse. Ha voci, di Jo Smith e Ronny Money, completamente inedite, originali, e non più campionamenti come in passato. Sto lavorando a questo LP da molto tempo visto che faccio tutto da solo, penso i pezzi, li compongo e poi li mixo. I testi invece sono di Ronny Money. […] Nella mia musica rappresento me stesso, non c’è un team di studio che produce un pezzo da mettere in commercio ma un artista che si espone in prima persona e rappresenta un certo tipo di musica. Io sono un rappresentante della techno e sono me stesso in tutte le cose che faccio, negli spettacoli, nei dischi, nelle copertine. Non si tratta di un’immagine per vendere un prodotto. Il brano può essere commerciale ma è quello che sento io». Per l’occasione Pretolesi annuncia che da “Digital Boy Live” verranno estratti due o tre singoli ma nel momento in cui viene pubblicata l’intervista sono ancora da definire. «Posso però dire che uscirà un’edizione limitata e numerata su 10″ del singolo “Dig It All Beat!” con due ulteriori versioni del pezzo. Ne verranno stampate solo mille copie che verranno messe in vendita nei migliori negozi di dischi dopo una selezione fatta dalla Flying Records».

Dell’album, del VHS e del 10″ in limited edition però si perdono le tracce. A saltare fuori invece è una notizia clamorosa, iniziata a trapelare a fine estate: Digital Boy abbandona la Flying Records. In un primo momento sembrano solo voci di corridoio prive di fondamento ma nell’arco di qualche settimana giunge l’ufficialità. Pretolesi tornerà ad essere indipendente, col supporto distributivo della Dig It International di Milano. La Flying Records para il colpo mettendo sotto contratto Moratto, temporaneamente allontanatosi dall’Expanded Music di Giovanni Natale, intervistato qui, e i salernitani KK, reduci di gloriose esibizioni ai campionati DMC ed introdotti alla discografia dalla modenese Wicked & Wild Records di Fabietto Carniel, così come raccontiamo qui. «Tra ’93 e ’94 la musica di Digital Boy divenne sempre più commerciale e per questa ragione smisi di occuparmene» spiega ancora Angelo Tardio. «Entrare a far parte di un’agenzia di spettacolo come la Gig Promotion voleva dire vedere aumentare sensibilmente il numero delle serate ma nel contempo sacrificare la parte di pubblico che seguiva tutt’altra musica. Era impossibile tenere il piede in due scarpe e ad un certo punto Luca se ne accorse e mostrò il desiderio di tornare ad essere indipendente, forse per uscire dalla dimensione pop in cui lo aveva proiettato la Flying Records con importanti investimenti economici. Il nostro fu comunque un “divorzio” consensuale, non avevamo alcun interesse ad impedirgli di proseguire la carriera come meglio credeva. Ricordo Pretolesi come un ragazzo dal talento pazzesco, con una dimestichezza unica nell’usare le macchine, sia analogiche che digitali. Nonostante fosse poco più che ventenne, sembrava maneggiarle da sempre e in grado di parlare con ogni strumento su cui metteva le mani. Era inoltre una persona che accettava di buon grado i consigli e non nutriva il suo ego come altri artisti o presunti tali. Solitamente veniva da noi con un demo che ascoltavamo insieme e sistemavamo marginalmente, magari per qualche suono o dettagli della stesura. Era molto creativo ma a volte necessitava di essere indirizzato su qualcosa di preciso per non perdersi. Fui proprio io, ad esempio, a suggerirgli di usare la base di “OK, Alright” di The Minutemen che poi divenne “OK! Alright”, ma lungi da me prendermi dei meriti: Luca è il vero artefice di tutto quello che ha fatto, era una persona che capiva al volo e parecchio intuitiva. A mio avviso sono tre i pezzi cardine della sua discografia, “Gimme A Fat Beat”, “OK! Alright” e “This Is Mutha F**ker!”, il mio preferito. In quel periodo vendeva vagonate di mix, anche 50.000/60.000 copie a titolo, risultati che però non riuscì più ad eguagliare dopo aver abbandonato la Flying Records».

The Mountain Of King
Con “The Mountain Of King” Digital Boy torna al successo nell’autunno del 1994 e lancia la sua personale etichetta, la D-Boy Records

Un passo indietro per andare avanti: il ritorno all’indipendenza
Nonostante le interviste rilasciate nel corso del primo semestre ’94 non facciano sospettare nulla, corre voce che negli ultimi tempi i rapporti tra Digital Boy e la Flying Records non fossero idilliaci. Una volta esauritasi la spinta della bolla eurotechno, gonfiata tra 1991 e 1992 e poi scoppiata nel corso del ’93, sorge la necessità di voltare pagina e ricostruire una nuova immagine intorno al “ragazzo digitale” che però, probabilmente, non è allettato dall’idea di seguire le mode e le tendenze del momento. A chiarirlo è lui stesso in un’intervista a cura di Roberto Dall’Acqua, realizzata a settembre ma pubblicata a novembre sul mensile Tutto Discoteca Dance: «Negli ultimi tempi avvertivo il rischio di trovarmi prigioniero di un cliché, costretto dai vincoli contrattuali a dover fare un singolo di un certo tipo perché era estate ed uno di un altro tipo perché era inverno. Non avevo spazio per la sperimentazione, lavorare con un’etichetta mia mi tranquillizza molto in tal senso perché ho un totale controllo artistico su ciò che faccio». L’etichetta a cui fa riferimento è la D-Boy Records che debutta in autunno con “The Mountain Of King”, pezzo lanciato su una velocità atipica per la dance (specialmente italiana) del periodo e che ha una duplice valenza, riportare l’artista all’indipendenza e fargli riassaporare parte del successo dei primi tempi. Ad interpretarlo è Sharon Rose Francis in arte Asia, cantante di colore che rimpiazza Jo Smith, impossibilitata a proseguire la collaborazione per motivi contrattuali. Da noi il successo è più che evidente, “The Mountain Of King” cattura all’istante l’attenzione di DJ e programmatori radiofonici perché non somiglia a niente in circolazione in quel momento ed entra in decine di compilation e in praticamente tutte le classifiche dance dell’FM inclusa la DeeJay Parade di cui conquista il vertice per tre settimane a novembre.

classifica da Billboard 24-12-1994,
La top ten dei singoli in Italia a dicembre ’94: Digital Boy è sul terzo gradino del podio

Viene girato anche un videoclip (incluso in “T.V.T.B. – La Televisione Che Non C’è”, VHS di successo di Albertino) in cui Digital Boy è alle prese con una tastiera Ensoniq ASR-10 e che nella parte finale mostra un rocambolesco volo in elicottero e chiarisce la ragione del titolo: il “re” è Martin Luther King. A curare il design della copertina del disco è Claudio Gobbi mentre autore delle due foto, una sul fronte ed una, più piccola, sul retro, che probabilmente mostra per la prima volta al pubblico il volto di Asia, è Lorenzo Camocardi. Più che incoraggianti le vendite, in sole tre settimane macina oltre 40.000 mix e come testimonia la top ten dei singoli italiani di Musica E Dischi apparsa su Billboard il 12 dicembre, il brano si piazza in terza posizione, dopo “It’s A Rainy Day” di Ice MC e “Stay With Me” dei Da Blitz, davanti a star stellari del pop come Bon Jovi, Madonna e Vasco Rossi. Nello stesso periodo Digital Boy partecipa al brano “Song For You” nato a supporto dell’iniziativa solidale di Radio DeeJay, con cui si stanziano proventi per ricostruire la scuola elementare Giovanni Bovio di Alessandria gravemente danneggiata dall’alluvione del 5 e 6 novembre. Diventata, con gli estremi speculari di melodia e ritmo, una sorta di archetipo di una eurodance steroidizzata, “The Mountain Of King” (affiancata dalla virulenta “S.A.L.T.A.” sul lato b) apre inconsciamente una strada nuova e sprona un crescente numero di produttori italiani a cimentarsi in brani a bpm sostenuti, un vero trend che andrà avanti per tutto il 1995 e parte del ’96. La D-Boy Records, col centrino quadrato anziché rotondo e con un logo in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi, non si configura come un’etichetta nata come piattaforma esclusiva per le sue produzioni così come è stata la Demo Studio nel 1990. «La label nasce con la finalità di dare alla luce nuovi progetti artistici curati da giovani produttori con idee innovative ed originali, senza seguire canoni predeterminati o obblighi di mercato. L’unico scopo a cui miriamo è proiettarci verso il futuro seguendo il nostro senso artistico» sottolinea Pretolesi in un’intervista di Nello Simioli su Tutto Discoteca Dance a maggio 1995, ed aggiunge: «ogni sei mesi pubblicherò il mix di un personaggio esordiente grazie agli innumerevoli provini che ricevo da tutta Italia».

cartolina fan club 1994
L’opuscolo che annuncia l’apertura del Digital Boy Fan Club a dicembre ’94

A fine ’94, poco prima dell’uscita del nuovo album, apre i battenti anche il Digital Boy Fan Club, iniziativa attraverso cui i fan possono mantenere un filo diretto con il loro beniamino. Due le operazioni attivate, la Fan Card e il Cofanetto Digitale. La Fan Card garantisce sconti sul merchandising in vendita nei negozi di dischi, offre la possibilità di partecipare ad incontri con l’artista ed entrare in una mailing list (postale) per ricevere mensilmente notizie in anteprima e il calendario aggiornato con le date dei live; il Cofanetto Digitale contiene invece un manifesto, una cartolina autografata, una t-shirt e il VHS “Digital Boy Live” che i fan attendono ormai impazientemente da circa un anno.

1995, il terzo (ed ultimo) album
“The Mountain Of King” anticipa di pochi mesi l’uscita del terzo LP di Digital Boy, “Ten Steps To The Rise”. «È un disco che non si limita a guardare al mercato italiano e non è nemmeno il classico disco di “spaghetti dance” cioè un freddo progetto di studio che vede in azione il musicista e il DJ che usano delle “controfigure mute” come immagine per i passaggi televisivi» spiega Pretolesi nell’intervista a cura di Dall’Acqua sopraccitata. Ed aggiunge: «questa produzione è senza ombra di dubbio un ritorno all’istintività e all’intuitività dei miei primi lavori. Mi riporta a quando registravo le tracce e le mettevo su vinile così come le sentivo, senza alcuna malizia commerciale. La cosa veramente importante per me era la spinta, la motivazione che c’era dietro». L’artista individua una linea da seguire sullo sfondo di nuove prospettive e prende le distanze dal tipico modus operandi della dance nostrana, popolata da tanti (o troppi?) personaggi immagine come descritto qui. Pare inoltre voglia dare un taglio di forbici al suo passato, contestualmente al cambio dell’etichetta discografica. Molla la natia Liguria per trasferirsi a Melazzo, un piccolo paesino della provincia di Alessandria, in Piemonte, dove fissa la nuova base operativa, e crea un nuovo logo, già apprezzato sulla copertina di “The Mountain Of King” e piazzato al centro del vecchio logotipo “Digital Boy”, unico elemento grafico a garantire un continuum con gli anni precedenti. L’autore ora vuole guardare meno le cose dall’aspetto commerciale, come sostiene nella videointervista di Marco Gotelli trasmessa da Entella Tv nell’autunno ’94 e in effetti “Ten Steps To The Rise” evade dalla classica prevedibilità delle produzioni dance mainstream italiane e non è proprio il classico disco destinato al mercato di massa, seppur la linea sfacciatamente melodica di “The Mountain Of King”, pervasa da un filo di malinconica nostalgia, pare sconfessare gli intenti alternativi.

Ten Steps To The Rise
“Ten Steps To The Rise”, terzo e ultimo LP di Digital Boy

È sufficiente però ascoltare il brano d’apertura, “Ten Steps To The Rise”, che è una sorta di prologo narrato dalla voce di Ronny Money, per capire come Pretolesi non voglia affatto scimmiottare le hit del momento. “Exterminate”, coi profondi vocalizzi di Flame, è una cavalcata hard trance sullo sfondo di iridescenti melodie daturiane, “Get Up (To The Old School)” è un salto indietro nel breakbeat britannico post Prodigy con una vena rock incastonata all’interno (a suonare la chitarra è Sergio Pretolesi, padre di Luca), “The Ride” si spinge a lambire sponde acidcore, “7 A.M. Day Dream”, ancora con l’intervento di Flame, è un’escursione onirica, “Party Hardy” è giocosa happy hardcore, “Mental Attack” galleggia su bolle di trance solforica, “S.A.L.T.A.” è un martello demolitore, “Acid Boy” avrebbe fatto ottima figura nel catalogo Bonzai insieme ad Yves Deruyter, Jones & Stephenson e Cherry Moon Trax. In fondo ci sono “Trippin'”, ipnosi in slow motion, e “Set Um’ Up, Dee”, dove il rap di Ronny Money è incorniciato da una cortina di acidismi dai quali emerge anche una citazione per “Crossover”. A chiudere è una versione di “The Mountain Of King” ad 80 bpm, quasi trip hop. Pretolesi, a conti fatti, si rimette in discussione sviluppando e sperimentando cose nuove e più stimolanti, in risposta alla rassicurante standardizzazione dell’eurodance. Edito su (doppio) vinile, CD e cassetta, “Ten Steps To The Rise” risulta essere un album decisamente atipico per un personaggio finito nelle spire della dance generalista da Superclassifica Show, spiazzante perché non ruota su una carrellata di brani simili a quello più popolare (e questo lascia profondamente deluso chi si aspettava invece un’altra “The Mountain Of King” o comunque brani da DeeJay Parade) ma mostra all’ascoltatore i vari volti sonori dell’autore non configurandosi come un banale contenitore di qualche promettente singolo accompagnato da ovvietà riempitive. Non a caso ad essere estratto, in estate, è solo un secondo brano, “Exterminate”, abbinato all’inedito “Direct To Rave”, un ingranaggio mosso da bracci pneumatici che funge da cartina tornasole della nuova rave music cambiata rispetto ai primi Novanta: al posto delle sirene, dei reticoli breakbeat, degli stab e dei suoni hoover ora ci sono velocità sostenute, traslitterazione audio del futuro che avanza fulmineo, e melodie festaiole, in rappresentanza di un’epoca prospera sotto il profilo economico e geopolitico. Sono gli anni in cui l’hardcore vive la fase commercialmente più fortunata ed eventi come la Love Parade vedono aumentare esponenzialmente l’affluenza «capitalizzando e disciplinando l’energia dei primi rave clandestini in un network milionario fatto di sponsor ed indotti sempre più roboanti», come scrive Andrea Benedetti in “Mondo Techno”. “Exterminate” e “Direct To Rave” vengono pubblicate su CD e su un vinile particolare perché incise entrambe sul lato a ma in due solchi affiancati. Più di qualcuno pensa si tratti di un errore di stampa ma invece è un espediente che rende più particolare il tutto, insieme alla doppia copertina e al lato b decorato con l’incisione del nuovo logo di Digital Boy, seppur a conti fatti risulti un disco destinato più al collezionismo che all’utilizzo nelle discoteche, l’involontario salto della puntina finirebbe col disorientare sia il DJ che il pubblico.

successi eurodance
I tre brani che Digital Boy realizza nel 1995 sul fortunato schema di “The Mountain Of King”

Una tattica efficace?
“The Mountain Of King”, che i collezionisti oggi cercano anche nel formato picture disc, diventa un brano di rilievo per la dance nostrana, capace di affermarsi a livello generalista ma con un imprinting diverso rispetto a ciò che il mainstream chiede in quel determinato momento storico. La discografia tradizionale avrebbe cavalcato l’onda sfornando, a pochi mesi di distanza, un follow-up dalle caratteristiche identiche al fine di rendere longevo il successo e garantirsi un rientro economico con sforzi ridotti quasi a zero. A seguire questo modus operandi è pure Pretolesi ma non esattamente nella formula canonica. Il seguito di “The Mountain Of King” arriva nella primavera del 1995 e si intitola “Happy To Be” ma è firmato dalla sola Asia. Approntato nel nuovo Demo Studio che diventa Demo Studio Professional, il pezzo inizia lì dove finisce il precedente, marciando su bpm serrati, una melodia felice che pare eseguita con una banale Bontempi ed un riff euforico a presa rapida. Il continuum tra i due brani è tale che per l’ospitata nell’ultima edizione di Non È La Rai vengono eseguiti entrambi uno dopo l’altro, a mo’ di medley. Se Pretolesi è messo nella condizione, come avviene sempre in tv, di mimare l’esecuzione su una tastiera Roland, Asia invece canta dal vivo e dimostra di non essere una frontwoman specialmente alla fine quando accenna “Fever” di Peggy Lee al fianco di Ambra Angiolini e sul battito di mani delle ragazze che, a posteriori, hanno trasformato il programma di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo in un cult. Nell’autunno dello stesso anno Pretolesi appronta un altro brano che ricalca le orme di “The Mountain Of King” ed “Happy To Be” ossia “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, ma anche in questo caso decide di affidarlo ad un altro membro della D-Boy Records, Ronny Money, per l’occasione affiancato da Jeffrey Jey dei Bliss Team, quell’anno lanciatissimi con “You Make Me Cry” ed “Hold On To Love”. Il pezzo, a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui, chiude la trilogia eurodance pretolesiana di successo. Pubblicare follow-up con nomi differenti, dunque, potrebbe essere considerata una strategia messa in atto col fine di coinvolgere altri componenti del team e lanciarli nel mondo parallelo delle esibizioni in discoteca, più che utili per rimpinguare le finanze. Nel contempo ciò avrebbe garantito un maggiore dinamismo all’etichetta, non relegandola ad un unico artista. C’è anche un quarto brano che potrebbe rientrare in questa parentesi, “Sky High” di Individual, per cui Digital Boy realizza due remix (il Part 1 è quello che segue la scia di “The Mountain Of King”). La voce è di Billie Ray Martin nonostante il featuring sia intenzionalmente celato su volontà della cantante tedesca, come lei stessa spiega qui. Nel corso del 1995 la Dig It International affida a Pretolesi pure il remix di “La Casa” di Adrian & Alfarez, finito su Top Secret Records. Nel catalogo della stessa confluiscono anche le compilation “Energia Digitale” ed “Energia Pura”: in entrambe, doppie, Digital Boy alterna classica italodance ad hard trance, house ed hardcore, un enorme calderone multiverso non inusuale per i tempi.

Logo D-Boy Records
Il logo della D-Boy Records in cui fa capolino Ninì, il cane bassotto di Pretolesi

Il primo anno di attività della D-Boy Records
Inaugurata nella migliore delle maniere con “The Mountain Of King” nell’autunno ’94, la D-Boy Records cerca sin da subito di ritagliarsi un posto nel mercato della musica hardcore ed happy hardcore, allora in forte ascesa ed espansione. Tra i primi brani messi sul mercato il gioioso “Voulez Vous Un Rendez – Vous?” di Lee Marrant a cui segue “Khorona – Nooo!!!” del quindicenne siciliano The Destroyer che ironizza su una delle maggiori hit del periodo, “The Rhythm Of The Night” di Corona (di cui parliamo qui), attraverso una specie di audiosatira intavolata con la fittizia Concetta. Il brano è solcato su 7″ con la stessa versione incisa su entrambi i lati. Così come anticipato in varie interviste, Pretolesi scommette sulla musica di giovani emergenti come gli Underground Planet (Emanuele Fernandez e Fabio Mangione) e Giorgio Campailla alias Placid K, oltre a rilevare qualche licenza dall’estero (la prima è “The Power Of Love” degli scozzesi Q-Tex per cui lui stesso realizza due remix di taglio happy hardcore). Alla tripletta “The Mountain Of King”, “Happy To Be” e “Don’t You Know (The Devil’s Smiling)”, la D-Boy Records aggiunge un altro discreto successo, “Discoland” di Tiny Tot, un pezzo happy hardcore nato un po’ per gioco con una vocina all’elio che, come raccontato qui da uno dei produttori, Bob Benozzo, è quella di Asia opportunamente modificata. Da noi il brano funziona bene, ancora di più nei Paesi nordeuropei dove viene licenziato da label locali e diventa un classico negli ambienti hardcore trainato da vari remix. Nel 1995 la D-Boy Records viene affiancata dalla Big Trax Records, la prima delle due sublabel che fanno la staffetta nel biennio ’95/’96. Orientata a prodotti nati sul crocevia tra eurodance ed eurotrance, non riesce però ad emergere dal mare magnum della discografia fermando la sua corsa dopo appena cinque pubblicazioni rimaste confinate al quasi totale anonimato e in virtù di ciò oggi particolarmente quotate sul mercato del collezionismo, su tutte “Talk About Me” di Vision e “Rock My Body” di Nice Price che suona come una versione velocizzata dei bortolottiani Cappella.

Asia e Tiny Tot
I follow-up di Asia e Tiny Tot falliscono l’obiettivo

1996, tra follow-up poco fortunati e successi oltre le Alpi
Nel corso del 1996 la D-Boy Records consolida l’interesse nutrito per la musica hardcore e gabber mandando in stampa gli EP di Placid K, The Destroyer e Ryan Campbell & The Acme Hardcore Company, ma non tagliando del tutto il filo che la lega al movimento eurodance. È tempo di follow-up per Asia e Tiny Tot, i due nomi che hanno generato parecchio interesse nei dodici mesi precedenti. Pretolesi produce “Hallelujah” per la prima, con qualche bpm in meno ma con una vena melodica ancora saldamente ancorata al modello di “The Mountain Of King”. Le vendite del 12″, disponibile anche in colore rosso, però non sono esaltanti e gli esiti sono simili per “La Bambolina” di Tiny Tot, remake di “La Poupee Qui Fait Non” di Michel Polnareff di trent’anni prima, ricostruito seguendo il modello di “Luv U More” di Paul Elstak e con un sample preso da “Crazy Man” dei Prodigy. Sia Asia che Tiny Tot perdono repentinamente quota, sopraffatti dalla tendenza italiana dell’anno per la dream di Robert Miles e la mediterranean progressive della BXR, di cui parliamo rispettivamente qui e qui, due generi capaci di mettere all’angolo persino un fenomeno consolidato ed apparentemente imbattibile come quello dell’eurodance.

Rhio
“Feeling Your Love” di Rhio, prodotto dai fratelli Andrea e Paolo Amati

Pretolesi e il suo team però non si abbattono e continuano a puntare su un suono che trova terreno fertile in Germania, Regno Unito e soprattutto nei Paesi Bassi. In quest’ottica la D-Boy Records scommette su “Feeling Your Love” di Rhio, brano ascritto al filone happy hardcore marginalmente battuto pure da noi dove si sviluppa un micro alveolo di produttori (si sentano pezzi come “Sikret” di Russoff, “Dream Of You” di Venusia – di cui parliamo qui -, “Mamy” di Polyphonic o “A Song To Be Sung” di Byte Beaters). A realizzarlo ed arrangiarlo sono i fratelli Andrea e Paolo Amati che, contattati per l’occasione, raccontano: «Nonostante fossimo presenze un po’ anomale per la dance in quanto attivi prevalentemente nella musica leggera italiana con collaborazioni con Gianni Morandi, Mietta, Flavia Fortunato, Biagio Antonacci e Pupo, proponemmo dei pezzi ad alcune etichette discografiche tra cui la D-Boy Records. In quel periodo le label che operavano nel comparto della musica da discoteca prendevano spesso licenze ed inserivano nel proprio catalogo brani di produttori indipendenti, come noi, scegliendoli in base al genere che più si confaceva ai propri interessi. Andammo personalmente a Melazzo, quartier generale di Digital Boy, per proporre “Feeling Your Love” di Rhio. Pretolesi ci ricevette nel suo studio ed ascoltò insieme a noi, con molta attenzione, tutte le versioni approntate. Si dimostrò da subito entusiasta e non richiese modifiche su suoni o parti, come invece avveniva di frequente ai tempi, ma volle comunque realizzare insieme al suo staff due versioni finite sul mix (la Happy Hardcore Mix e la Radio Mix, nda). Ricordiamo Luca come una persona cordiale e molto disponibile, fu quindi facilissimo raggiungere un accordo di licenza. Pur non andando malissimo, “Feeling Your Love” non riuscì a raccogliere un grosso riscontro ma fu comunque inserito in alcune compilation tra cui il secondo volume di “100% Hardcore Warning!”. Era un periodo in cui uscivano decine se non centinaia di prodotti al giorno ed essere notati in quel mare immenso di pubblicazioni non era facile per nessuno. Le soddisfazioni, tuttavia, sono giunte a distanza di qualche decennio, quando i cultori di quel genere si sono accorti di tanti brani che non erano poi così malvagi seppur rimasti nell’ombra. Oltre a “Feeling Your Love” di Rhio, nel nostro repertorio dance ci sono anche altri pezzi tra cui “Far Away” di France, che cedemmo alla Zac Records, e “Stop Burning” di U.F.O. Featuring Dr. Straker, edito dalla Exex Records».

Dopo Rhio su D-Boy Records seguono a ruota “Good Vibrations” di Oddness, chiaramente ispirato da “Let Me Be Your Fantasy” di Baby D, e “Fuck Macarena”, sarcastica reinterpretazione della “Macarena” dei Los Del Rio con cui Ronnie Lee apre una nuova fase della sua carriera nelle vesti di MC Rage. Il pezzo, supportato da un videoclip altrettanto canzonatorio, diventa un top seller nel nord Europa dove, si dice, abbia venduto circa 30.000 CD singoli e un milione di copie calcolando dischi e compilation. La D-Boy Records dunque, in netta controtendenza, fa volentieri a meno della dream e della progressive (nonostante qualche disco segnalato in seguito ne ricalchi le orme) per dedicarsi all’hardcore e alla gabber. «La nascita del movimento mediterranean progressive è senza dubbio un buon punto a favore dell’Italia» afferma Pretolesi in un’inchiesta pubblicata su Tutto Discoteca Dance a novembre 1996, «ma ciò che non mi convince è che il nostro Paese si stia fossilizzando in uno schema. Preferisco la spregiudicatezza dei tedeschi».

Let's Live
“Let’s Live”, ultimo tentativo di Pretolesi di cavalcare l’onda eurodance

Nel 1996 il posto della Big Trax Records viene preso da una nuova sublabel, la Electronik Musik, sulla quale vengono convogliate produzioni filo trance come “Desires” di Indaco Feat. Leika (realizzata da Massimo Tatti parecchio influenzato da “Children”), “Free Dimension” di Umma-Y, “Tomorrow” di P. Logan (un misto tra R.A.F. By Picotto e Robert Miles), un paio di EP dei BioMontana (neo progetto di Flavio Gemma e Massimiliano Bocchio che come Urbanatribù incidono un EP ed un ammirevole album per la Disturbance del gruppo barese Minus Habens di Ivan Iusco intervistato qui) ed “Euphonia” degli Underground Planet. In primavera finisce proprio nel catalogo Electronik Musik “Let’s Live”, il 10″ che sancisce il ritrovato asse artistico tra Asia e Digital Boy, nonostante in copertina il nome di quest’ultimo venga troncato in Digital B., un’autentica stranezza per i fan. Il pezzo è completamente fuori dalle tendenze che in quei mesi si consumano nel nostro Paese, una scelta azzardata ma senza ombra di dubbio coerente con quanto affermato in diverse interviste sull’intenzione di non seguire in modo pedestre i continui mutamenti del mercato. “Let’s Live” gira su retaggi eurodance del biennio ’93-’94 e su una stesura alquanto irregolare. Nonostante l’hook vocale, ripetuto ossessivamente per quasi tutta la durata, sembri garantire quasi un flashback di “The Mountain Of King”, il brano non riesce a carburare e convincere. Davvero risicati i passaggi nel DeeJay Time, presenza non pervenuta invece nella DeeJay Parade: Albertino, che cinque anni prima aveva aiutato la musica di Digital Boy a trovare una vasta audience in Italia, adesso pare indifferente. È l’ultimo tentativo da parte di Pretolesi di calcare una scena a cui, probabilmente, non sente più di appartenere. Asia riapparirà nel ’99 con “Take Me Away” sulla romana X-Energy Records che, nello stesso anno, pubblica “Groovin’ On The Dance Floor” di Night Delegation da lei cantato. In entrambi, passati inosservati, Luca Pretolesi figura come autore ma è legittimo ipotizzare che si tratti di iniziative sviluppate partendo da vecchi demo inutilizzati e risalenti al periodo della D-Boy Records, poi finalizzati dai DJ riminesi Enrico Galli e Luca Belloni.

Hardcore Bells
La copertina di “Hardcore Bells” con gli autori trasformati in personaggi di un ipotetico fumetto

Tempo di extremizzazione: la fase hardcore
Il cuore di Digital Boy ormai pulsa quasi esclusivamente per hardcore e gabber, generi che inizia ad esplorare già nei primi anni Novanta cercando di trovare ad essi una collocazione anche in posti fuori contesto come testimonia questa clip del 1994 registrata al Genux di Lonato. Battere un percorso poco compatibile coi gusti italiani non lo intimorisce però, anzi, sembra spronarlo a prendere sempre più le distanze dalla scena nazionale. «Suono spesso in Scozia e nei Paesi Bassi» afferma nell’inchiesta su Tutto Discoteca prima menzionata. «In particolar modo lavoro per la one night chiamata Old School durante la quale educhiamo il pubblico facendo sentire molti pezzi vecchi. Il popolo deve sapere e conoscere quello che balla. Spesso mi esibisco al Parkzicht, venite a sentirmi e capirete. Non uso i piatti come i DJ né tantomeno i dischi. Con me porto macchine analogiche, batterie elettroniche, computer, sintetizzatori e campionatori per sviluppare dal vivo i demo che faccio in studio così noto la reazione della gente e devo ammettere che i risultati sono molto soddisfacenti». A ridosso delle feste natalizie del ’96 esce “Hardcore Bells”, hardcorizzazione del tradizionale “Jingle Bells” promosso Disco Makina da Molella ad inizio dicembre in una delle ultime puntate del programma radiofonico Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui nel dettaglio. Il 10″ è impreziosito da una copertina che ripropone in chiave fumettistica i D-Boy Bad Boys (ovvero Tiny Tot, MC Rage, The Destroyer, Placid K ed ovviamente Digital Boy). Subito dopo arriva il primo volume di “Back To The Past”, progetto con cui Pretolesi inizia a riportare indietro le lancette dell’orologio e riavvolgere il nastro per tornare parzialmente nel passato, nel suo passato, rispolverando “Kokko” e “OK Alright!”. Sulla prima mette le mani l’olandese DJ Rob, sulla seconda invece si attiva lui stesso. Il disco, presentato in anteprima domenica 8 dicembre presso il Number One di Cortefranca, esce sulla neonata Italian Steel, una delle etichette della Raveology S.r.l. – “Raveology” è uno dei brani che Pretolesi destina nel ’91 alla UMM per The Voice Of Rave – che, come si legge sul n. 2 della rubrica D-Boy News a dicembre, è una nuova società che gestisce dischi, eventi, merchandising e management.

Back To The Past 1
Col primo volume di “Back To The Past” uscito a fine ’96 Digital Boy inizia a ripercorrere la sua carriera in chiave hardcore

Il 1997 vede la pubblicazione del secondo e terzo volume di “Back To The Past” che ripercorrono ancora la fase carrieristica di Pretolesi sotto l’egida della Flying Records con l’aggiunta di nuovi remix (gli Stunned Guys – presto ripagati con una versione di “Paranoia” di Baba Nation – e Placid K mettono mano rispettivamente su “This Is Mutha F**ker” e “Gimme A Fat Beat”, Neophyte rilegge “Digital Danze” mentre la coppia DJ Jappo e Lancinhouse riassembla “Crossover”). È sempre l’Italian Steel a pubblicare “Beats & Riffs 1”, un disco contenente tre tracce (“163 – 179”, “Him Again” e “Fist Like This”) che Pretolesi firma col nom de plume The Dark Side, oggetto di particolari apprezzamenti all’estero. Nei primi mesi del ’97 parte anche l’avventura radiofonica: Digital Boy conduce una striscia quotidiana nel pomeriggio di Italia Network, venticinque minuti di musica hardcore e gabber. Titolo? “Extreme”. Nel corso degli anni il programma si evolve e diventa anche una finestra d’informazione ed approfondimento sui grandi eventi hardcore esteri, come si può sentire in questa clip. Pretolesi viene poi affiancato nella conduzione da Randy ed Extreme diventa un vero punto di riferimento per gli hardcore warriors italiani. Col rebranding dell’emittente che si trasforma in RIN – Radio Italia Network, il programma però viene interrotto. «Secondo il mio punto di vista è stato un passo indietro!» sentenzia senza mezze misure Pretolesi in questa intervista del 2001 curata da Antonio Bartoccetti per Future Style. Tuttavia in Italia il movimento regge ancora. «La vendita delle nostre compilation tematiche ora si aggira tra le 10.000 e le 12.000 copie» aggiunge Pretolesi. «Se arrotondiamo per eccesso, sapendo che la compilation viene prestata all’amico, allo zio o alla sorella minore, questo numero cresce». Per l’occasione l’artista stila pure un ritratto dell’ascoltatore medio della musica hardcore: «la compra, l’ascolta, la balla e si muove solo fra i confini tecnologici. Può amare la new style, un certo tipo di hard trance ma non si sposta dal filone tec(h)nologico e non acquisterebbe mai un cantautore, sorridendo di fronte alla comicità del pop e cosciente che fenomeni come “The Fat Of The Land” dei Prodigy o i Chemical Brothers siano invenzioni commerciali che hanno dovuto trovare un po’ di oro attingendo dal vecchio rock».

Randy e Pretolesi (1999)
Randy e Digital Boy in uno scatto del 1999 con un disco della Head Fuck Records, una delle etichette raccolte sotto l’ombrello Raveology

Attraverso l’hardcore e la gabber Digital Boy, tra ’99 e ’00 frequentemente alla consolle di locali romagnoli come il Gheodrome e l’Ecu, rafforza parecchio la competitività all’interno del mercato mondiale e stringe proficue collaborazioni con artisti del calibro di Scott Brown (suo il remix di “Asylum” firmato The Scotchman) e The Masochist (insieme realizzano “Shout Out”). Sono gli anni che, inoltre, vedono l’affermazione globale della D-Boy Black Label che prende il posto della iniziale D-Boy Records Black Label, ora assorbita dalla Raveology subentrata in modo definitivo alla D-Boy Records nel 1996 (l’ultimo 12″ col logo rosso è quello coi remix de “La Bambolina” di Tiny Tot realizzati dagli Stunned Guys, Bass-D & King Matthew e Placid K). Nel nuovo millennio Pretolesi inizia a diradare progressivamente l’attività produttiva, mantenendo comunque i piedi sempre ben saldi nella scena hardcore come attestano pezzi come “Akkur” in coppia con MC Rage, “I’m Hard To Da Core” in tandem con DJ J.D.A. o “How You Diein'” a quattro mani con DJ Bike dei Noize Suppressor. Tra gli ultimi dischi realizzati c’è “Sugar Daddy” (con un frammento di “Sugar Is Sweeter” di CJ Bolland), ancora insieme al vecchio amico Lee e sulla D-Boy Black Label, oggetto di un update grafico del logo col cane bassotto incattivito. Inspiegabile solo la riapparizione, nel 2008, con Shane Thomas per l’anonima “Sexy, Sultry, Delicious, Dirty” incapsulata nell’electro house. Pretolesi, con molta probabilità, non vuole vivere nel passato e non è disposto a finire in svendita al mercato della nostalgia o essere sacrificato sull’altare del revivalismo, così decide di dedicarsi ad altro.

ai Latin Grammy Awards (2018)
Pretolesi e la moglie ai Latin Grammy Awards (Las Vegas, novembre 2018)

Il ragazzo digitale un trentennio dopo
Sono trascorse poco più di tre decadi da quando il “ragazzo digitale” inizia la sua carriera. Di quel ventenne che i magazine nostrani definivano “l’eroe della techno italiana”, dalla lunga chioma, il cappellino da baseball quasi sempre in testa, gli occhiali tondi con le lenti a forma di mirino ed animato dal desiderio di mettere a soqquadro le regole della discografia, probabilmente resta poco o nulla: il “boy” è diventato “man”, ha oltrepassato la soglia dei cinquant’anni e il suo sguardo è meno innocente e più scafato. Dal 2001 risiede a Los Angeles dove ha messo su un super studio di mix e mastering, lo Studio DMI (DMI è l’acronimo di Digital Music Innovation), frequentato da personaggi assai popolari della scena pop e da dove sono usciti pezzi come “On My Mind” di Diplo & Sidepiece (che gli garantisce una nomination ai Grammy), “Mi Gente” di J Balvin, “Goodbye” di Jason Derulo & David Guetta Feat. Nicki Minaj & Willy William e “Lean On” di Major Lazer. Basta un banale clic su Google per imbattersi in recenti interviste come questa ed approfondire adeguatamente sul nuovo ciclo lavorativo di Pretolesi che, costantemente attratto dall’inarrestabile tecnologia, ha smesso di vestire i panni di Digital Boy tornando ad essere, per l’appunto, Luca Pretolesi, considerato un luminare in fatto di ingegneria del suono, richiesto ovunque per corsi, seminari e workshop. Per tale ragione lasciamo ad altri il compito di tracciare e narrare le coordinate di un percorso che esula dal tipo di ricerche svolte sulle pagine di questo blog ma con la consapevolezza che la sua storia non sia terminata ma proseguita in un’altra direzione, sempre all’interno del caleidoscopico e multiforme mondo della musica elettronica.

(Giosuè Impellizzeri)

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Negozi di dischi del passato: Disco International a Ivrea

Giosuè Impellizzeri ripercorre la storia del Disco International col titolare Maurizio De Stefani

Quando apre i battenti Disco International?
Il negozio venne inaugurato a dicembre 1979 nel centro della città, dopo mesi di lavori di ristrutturazione di un vecchio magazzino chiuso da tempo. Il giorno dell’apertura invitammo alcuni dei DJ e speaker in onda sulle radio locali più “importanti” per far capire fin da subito che da quel momento anche ad Ivrea sarebbe stato possibile trovare gli ambiti dischi d’importazione, fino ad allora acquistati nei negozi di Torino, Biella o Milano. Io stesso ero “costretto” a comprare dischi nel capoluogo piemontese, facendomi aiutare peraltro da mio fratello, più grande di me di nove anni, che per riunioni di lavoro si recava a Torino una volta al mese. Non ancora maggiorenne, davo a lui la lista coi titoli che cercavo e coi pochi soldi guadagnati in radio riuscivo ad accaparrarmi le novità discografiche prima degli altri. Fu proprio quello il motivo che mi fece balenare l’idea di aprire un negozio di dischi che mancava ad Ivrea. A quel punto mio fratello smise di fare di rappresentante ed io, che nel frattempo raggiunsi la maggiore età, mi rimboccai le maniche e dalla nostra collaborazione nacque Disco International.

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Una foto del Disco International scattata nel 1993

Perché optaste per quel nome?
Emerse da un “consulto” coi colleghi della radio in cui lavoravo. Eravamo in cerca di un nome che potesse dare l’idea di qualcosa che non fosse il solito negozio di dischi e cassette. Volevamo creare un punto di riferimento per i DJ, per le discoteche (che stavano proliferando in maniera esponenziale), per le radio e per i semplici appassionati di musica dance. L’abbinamento tra le parole Disco, pertinente sia per il prodotto trattato che per il concetto di discomusic o discoteca più in generale, ed International, a rimarcare il concetto di musica che arrivava dall’estero e quindi d’importazione, ci sembrò adeguato oltre che essere facile da ricordare e da pronunciare.

Che investimento economico era necessario ai tempi per avviare un’attività di quel tipo?
Essendo trascorsi più di quarant’anni non ricordo precisamente quanti soldi occorsero per partire, ma tra qualche piccolo prestito e l’aiuto di papà, che era andato da poco in pensione e pure lui commerciante, seppur di tutt’altro genere, riuscimmo ad alzare la saracinesca del Disco International che nell’arco di qualche anno divenne una bella realtà.

Operavano altri negozi di dischi analoghi nell’eporediese?
Come anticipavo prima, c’erano altri negozi di musica ma non trattavano dischi d’importazione e soprattutto non vendevano i cosiddetti “discomix” da discoteca, ovvero i dischi grandi come gli LP ma con uno/due brani per lato e “costruiti” in modo differente da quelli che venivano solitamente trasmessi per radio. Le stesure infatti, oltre ad essere più lunghe, contavano su un intro ed un outro strumentali che permettevano al DJ di mixare il brano con quello successivo. Oggi può sembrare banale ma allora rappresentò una vera e propria novità nel mercato musicale.

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Un altro scorcio del Disco International: in evidenza i flight case per i DJ e la cabina telefonica

Com’era organizzato il punto vendita?
Era grande circa una settantina di metri quadri e composto da un enorme banco di lavoro simile ad una grande consolle da discoteca che contava tre giradischi (ai tempi considerata avanguardia!) ed un mixer. Un reparto era destinato alle musicassette a cui, in seguito, si aggiunsero i Compact Disc, uno agli LP ed uno ai mix contestualmente a tutta l’attrezzatura destinata ai DJ. In fondo al negozio, infine, si trovava la sala d’ascolto con un’altra consolle attraverso cui era possibile ascoltare dischi in maniera più approfondita. A decorazione dell’ambiente c’erano un jukebox anni Settanta funzionante ed una cabina telefonica britannica, originale e non una replica prodotta in Italia.

Che generi musicali trattavate con particolare attenzione?
Per ovvie ragioni la nostra priorità era rivolta al materiale d’importazione, motivo per cui era nato il negozio stesso, ma trovandoci nel centro storico della città con grande passaggio di gente, non mancava nulla delle novità anzi, col passare del tempo il catalogo si ampliò sensibilmente in modo da avere sempre o quasi tutte le discografie di artisti italiani e stranieri.

Quanti dischi vendevate mediamente in una settimana?
Non so rispondere in modo preciso ma ricordo benissimo le seicento copie di una compilation di Sanremo di fine anni Ottanta, le oltre mille copie, tra LP, CD e cassetta, di “Oro Incenso & Birra” di Zucchero, e le mille (e forse di più) di “…But Seriously” di Phil Collins. Senza dimenticare ovviamente le centinaia di copie di mix di alcuni titoli dance.

Praticavate anche commercio per corrispondenza?
Raramente. A tal proposito ho un paio di ricordi: ogni tanto giungevano ordini da un negozio in Toscana, in difficoltà nel trovare certi mix, e per qualche anno un DJ faceva ordini settimanali dalla Sardegna.

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Una borsa con la serigrafia del Disco International, solo uno dei tanti gadget marchiati con il logo del negozio che finisce anche su slipmat, t-shirt, giubbotti k-way, toppe per jeans, portachiavi ed ovviamente adesivi

Quali furono i tre bestseller?
Ho già menzionato qualche risposta sopra quelli legati alla musica leggera. Per quanto concerne la dance invece cito “The Glow Of Love” dei Change, un LP del 1980 che inizialmente arrivò d’importazione su Warner Bros./RFC Records sebbene il gruppo fosse italiano per metà, prodotto da Jacques Fred Petrus e Mauro Malavasi. Era un disco conosciuto quasi esclusivamente dai DJ ma ogni volta che mostravo le novità ai clienti “normali” proponevo questo album composto da sei brani, uno più bello dell’altro, convincendoli ad acquistarlo. Poi, col passare dei mesi, grazie alla programmazione radiofonica e la pubblicazione italiana, su Goody Music Records, il disco divenne un vero successo, con ben quattro singoli estratti confermando in pieno le mie previsioni. Un altro successo fu “Dance Hall Days” dei Wang Chung, uscito alla fine del 1983: appena lo sentii passare in radio ne ordinai cento copie, cosa che non avevo mai fatto prima di allora ma i fatti poi mi hanno dato ragione. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, è il 12″ di debutto dei Daft Punk, “The New Wave”, uscito nel 1994 sulla scozzese Soma. Della stampa import arrivarono pochissime copie ma ogni volta che riuscivo a trovarne una la prendevo e la vendevo subito a quei DJ che iniziavano ad inserire nei propri programmi house più elettronica. A forza di richieste (anche mie!), dopo qualche mese la Flying Records decise di licenziarlo e pubblicarlo in Italia su UMM, e qui scatta l’aneddoto: in qualità di negozio, ricevevo il “servizio novità” dalla Flying Records che consisteva nell’invio di una copia di tutto quello che sarebbe uscito nel corso del mese successivo, un servizio che l’etichetta/distributore di Napoli destinava anche alle radio e ai DJ famosi. Una sera, al Due di Cigliano, c’era ospite Fargetta. Appena finì il suo set, io e Sergio (Datta) iniziammo con “Alive”, incisa sul lato b di “The New Wave”. A quel punto Fargetta tornò in consolle per chiederci il titolo del disco e glielo rivelai senza problemi, aggiungendo che fosse una delle novità appena giunte dalla Flying Records. Pochi giorni dopo “Alive” aprì una puntata del DeeJay Time.

C’erano DJ noti a frequentare Disco International? Ad essi erano riservati trattamenti particolari?
Da Disco International passavano tutti i DJ della zona, assai ampia poiché non si limitava ad Ivrea e al Canavese ma abbracciava anche il Biellese, la cintura torinese e la Valle D’Aosta. Tra i tanti c’era Gigi D’Agostino col quale, in quel periodo, divisi la consolle dell’Ultimo Impero, del Due e del Palladio e col quale diedi vita al progetto discografico Voyager (di cui parliamo qui, nda), insieme all’amico comune Sergio Datta. Non abbiamo mai riservato trattamenti particolari a nessuno ma quando arrivavano poche copie di un titolo importante poteva esserci una preferenza nei confronti di chi comprava di più o lavorava in un locale importante.

Quale fu la richiesta più stramba o particolare avanzata da un cliente?
Le assurdità erano all’ordine del giorno, soprattutto quelle legate a titoli ed autori sbagliati. A volte bisognava mettercela davvero tutta per interpretare ciò che la gente chiedeva al bancone, e in tal senso direi che il primato se lo giocano “il nuovo 45 giri di Sabrina Palermo” (Sabrina Salerno) e “il disco di Rondissone Veneziano” (Rondò Veneziano). Rondissone, per giunta, è un paesino non distante da Ivrea.

Quante novità settimanali arrivavano mediamente?
Tante, forse troppe. Non è possibile stabilire una media perché molto dipendeva dal periodo di uscita, tipo quei dischi che miravano a diventare strenne natalizie, quelli pubblicati in primavera, quando tutti volevano essere i depositari del pezzo dell’estate, o quelli che arrivavano sugli scaffali a settembre, un altro periodo decisivo dell’anno perché c’era tanta voglia di musica nuova dopo almeno un mese di stasi quasi completa.

Seguivi un metodo per selezionare la merce da acquistare? Ti fidavi dei consigli e suggerimenti dei distributori?
Mi fidavo dei distributori ma fino ad un certo punto, era il mio “fiuto” a determinare gli acquisti, e devo ammettere che spesso ho avuto ragione.

Disco International 5
Un portachiavi a forma di disco in vinile marchiato Disco International

Quanto pesava sul rendimento di un disco il supporto di un network radiofonico o di un DJ particolarmente “di grido”?
Nei primi anni Ottanta non c’erano ancora i network bensì affermate realtà radiofoniche locali e, a seconda della zona, un disco spinto dalle emittenti private e dai DJ locali più conosciuti poteva sicuramente ottenere riscontri migliori rispetto ad altri. Con la nascita dei network e col carisma di alcuni speaker, Albertino su tutti, il mercato prese un’altra piega e lo ho potuto constatare in prima persona, vedendo crescere sensibilmente le vendite e la popolarità delle mie produzioni nel momento in cui venivano trasmesse dalle radio che coprivano l’intero Paese o selezionate dai DJ importanti.

È capitato di vendere tante copie di un disco proprio in virtù dell’appoggio pubblicitario a cui si faceva riferimento?
Sì, assolutamente. Il caso più eclatante è quello di “Blue (Da Ba Dee)” degli Eiffel 65: rimase sugli scaffali per mesi nella più completa indifferenza, poi, all’improvviso, dopo il passaggio in una nota radio, iniziò a vendere con risultati ormai noti a tutti.

Quale invece quello che per il tuo gusto personale avrebbe meritato di più ma che rimase confinato all’anonimato o quasi?
“A Caus’ Des Garçons” dell’omonimo duo francese, uscito nel 1987. All’epoca lavoravo in una discoteca in Valle D’Aosta e lì, grazie alla propensione verso la musica transalpina, riuscii a metterlo in un certo periodo, ma per il resto fu praticamente ignorato.

Spesso i negozi di dischi erano pure la culla di produzioni discografiche o il crocevia di persone che bazzicavano gli studi di registrazione. La tua attività discografica, iniziata nei primi anni Ottanta, ha mai conosciuto un rapporto stretto col Disco International oppure sono sempre rimaste due attività indipendenti l’una dall’altra?
Disco International mi ha permesso di conoscere persone e colleghi, e le idee per i vari progetti discografici che si sono succeduti nel corso del tempo sono quasi sempre partite da lì. Il mio disco di debutto ad esempio fu firmato 4 M International ed era una chiara citazione del nome del negozio.

4 M International - Space Operator
“Space Operator”, primo ed unico disco che Maurizio De Stefani e Maurizio DiMaggio realizzano come 4 M International nel 1982

Il disco a cui ti riferisci è “Space Operator” di 4 M International, progetto del 1982 che ti vide in coppia con Maurizio DiMaggio e che venne spalleggiato dalla Good Vibes. Diventato un piccolo cult dell’italo disco della prima ora, è stato ristampato a più riprese negli ultimi anni. Puoi raccontare le fasi della produzione di quel disco?
Nei primi mesi del 1982 ero a casa seduto davanti ad una tastiera per strimpellare note, memore delle lezioni di pianoforte che presi per quattro anni da ragazzino. Un giorno buttai giù quello che poi divenne il motivo principale di “Space Operator” ma mancava un efficace giro di basso per renderlo dance. In quell’istante mi venne in mente il disegno di basso di “Nice ‘N’ Nasty” della Salsoul Orchestra, provai a risuonarlo e calzava a pennello. Ne parlai quindi con Maurizio DiMaggio a cui ero legato da un bel rapporto di amicizia e lavoro. L’idea gli piacque e scrisse un testo che divenne il “rap spaziale” del brano. Mancava la parte ritmica che prendemmo da “Drums Power”, una traccia completamente strumentale incisa sul lato b della cover di “Long Train Runnin'” dei Doobie Brothers ad opera dei Traks ma ai tempi era ancora un disco senza etichetta. Approntammo prima proprio la parte strumentale, poi in altri due passaggi suonai il motivo solista e il basso. Infine DiMaggio completò il tutto col rap. Insomma, in appena due ore, in uno studio torinese, “Space Operator” era completato. A quel punto pensammo al nome dell’artista e visto che ad accomunarci era sia lo stesso nome che un cognome “d’arte”, i Maurizio divennero quattro. Alla sigla, come anticipavo prima, aggiungemmo International per omaggiare il negozio Disco International. Contentissimi di ciò che avevamo fatto, ci mettemmo subito all’opera per farlo uscire. DiMaggio, che collaborava con la Full Time Records, lo propose a Franco Donato che gestiva la sede milanese dell’etichetta (nel quartier generale di Roma c’era invece il fratello Claudio). Decise di pubblicarlo ma pochi giorni dopo aver chiuso l’accordo, con assoluto tempismo, nei negozi arrivò la versione ufficiale del disco dei Traks su Best Record, con tanto di crediti dei produttori di “Drums Power”, i fratelli Pietro e Paolo Micioni. Senza farci prendere dallo sconforto, contattammo gli autori, due mostri sacri della dance di quel momento, e gli facemmo sentire il nostro pezzo. Gli piacque e ci diedero l’autorizzazione per farlo uscire, a patto che lo avessero firmato come autori in SIAE e citando sull’etichetta la provenienza (“based on Traks”). A noi venne comunque data la possibilità di riportare i nostri nomi. “Space Operator” uscì a dicembre, nonostante fosse stato pianificato per settembre, ma in Italia faticò a carburare. Diverso il responso in altre parti del mondo dove venne accolto con assoluto piacere e fu oggetto di entusiastiche recensioni su riviste specializzate in musica dance. Tempo dopo giunsero richieste addirittura dal Giappone e ci accorgemmo di far parte anche noi dell’italo disco. Il resto è storia recente. Con l’avvento dei supporti digitali, è stato messo in circolazione in formato liquido nel 2009 a cui sono seguite ristampe su vinile nel 2014 e nel 2018 con un’efficace rimasterizzazione. L’ultima edizione è del 2021 su etichetta Mr. Disc Organization, impreziosita da un nuovo remix di Donato Dozzy. Siamo entrati nelle classifiche di mezza Europa, sia quelle legate alla vendita dei dischi fisici che quelle di download e streaming, e come ciliegina sulla torta la versione originale è stata inclusa nel volume 27 della prestigiosa compilation “I Love ZYX Italo Disco Collection” edita dalla tedesca ZYX.

Nel 1983 produci la cover di “Copacabana” di Barry Manilow per il progetto Rio seguita l’anno dopo da “Poppa Joe” di Acapulco, anche questa una cover dell’omonimo degli Sweet. La tua non sembrò però un’attività discografica studiata a tavolino bensì una breve parentesi all’interno di quel mondo in cui i DJ iniziarono ad avventurarsi grazie alla maggiore accessibilità economica delle strumentazioni. Furono gli anni Novanta infatti a conoscere in modo preponderante la tua vena creativa attraverso molteplici progetti condivisi con l’amico e collega Sergio Datta come Niño Nero, Voyager, Wendy Garcia, Orkestra, Modello 2, G.S.M. e Divine Dance Experience, giusto per citarne alcuni. Quali furono, a prescindere ovviamente dall’incanalamento stilistico, le sostanziali differenze relative all’approccio alla produzione discografica dei due decenni? In termini economici, credi che gli anni Novanta, soprattutto gli ultimi, stessero già accendendo dei campanelli d’allarme sulla crisi che avrebbe interessato da lì a breve il mercato fonografico?
A dire la verità quella cover di “Copacabana”, uscita peraltro su un’etichetta distribuita dalla Full Time, la Spice 7, non la produssi io. Non ho mai capito se quel Maurizio De Stefani citato sul centrino fosse un’altra persona o se per qualche motivo a me sconosciuto misero il mio nome poiché ero sotto contratto con loro. La cover di “Poppa Joe” invece la volli fortemente perché avevo sentito quel brano l’anno prima al Bandiera Gialla: vedendo la reazione positiva della pista, pensai di farne una nuova versione, uscita su Carrere, quella che nello stesso anno pubblicò “Self Control” di Raf. In realtà, come giustamente affermi, ai tempi la mia non era una vera e propria attività discografica a differenza di quanto avvenne negli anni Novanta, quando la vena creativa mi portò grandi soddisfazioni con tante produzioni condivise con Sergio Datta, amico da sempre e da più di trent’anni collega in consolle. Le produzioni relative agli anni Ottanta, pochine se confrontate con le successive, furono fini a sé stesse. Negli anni Novanta invece, quando la musica “da ballo” divenne quella della cassa in quattro, fu abbastanza semplice per i DJ diventare produttori, ma sempre affiancati dai musicisti. Noi, ad esempio, avevamo ed abbiamo ancora dalla nostra parte Michele Generale che, da ottimo musicista jazz, trasformammo in produttore dance di successo. Dopo l’esordio con “Asi Me Gusta A Mi (Esta Si Esta No)” di Niño Nero, nel 1991, abbiamo proseguito dando una certa cadenza alle uscite in modo da essere presenti continuamente sul mercato creando nel contempo più progetti dai nomi differenti per evitare di inflazionarci e di confrontarci anche in diversi ambiti stilistici. La crisi economica del mercato iniziò a farsi sentire verso la fine degli anni Novanta, con l’avvento dei masterizzatori e i CDJ nelle discoteche: era economicamente appetibile scegliere un CD masterizzato con una ventina di tracce scaricate gratuitamente da internet piuttosto che comprare venti dischi nuovi.

Torniamo a parlare del negozio: quando iniziano a calare in modo sensibile vendite e fatturato?
Nei primi anni Duemila: oltre ai masterizzatori e i primi sistemi per scaricare musica gratuitamente dalla Rete, il cambio tra lira ed euro aggiunse ulteriori difficoltà ad un comparto in crisi da qualche tempo.

Disco International 3
Uno slipmat “griffato” Disco International

Furono dunque le nuove tecnologie ad innescare il processo di disaffezione del pubblico nei confronti dei dischi?
Sì, certamente. Ormai i nuovi DJ lavorano quasi esclusivamente con computer portatili e controller ed io stesso adopero le chiavette USB, per comodità ma pure perché la maggior parte delle nuove uscite è disponibile solo in formato digitale. Ovviamente quando si presenta la giusta occasione non esito ad assemblare un bel set solo con dischi in vinile.

Quando chiude Disco International?
Nel 2003 ci trasferimmo in una nuova locazione nelle vicinanze della prima ma nel 2004 decidemmo, a malincuore, di vendere il negozio che chiuse qualche anno dopo. Per noi, che l’avevamo aperto nel 1979 con l’entusiasmo di chi ama a dismisura la musica “reale”, stava sparendo quella magia che solo un disco in vinile poteva dare. La decisione fu assai sofferta, venne meno un pezzo di vita che amavo. Tuttavia quando manca l’ebbrezza e fai un lavoro a contatto con la gente, rischi di trasmettere quel senso di demoralizzazione anche ai clienti, e questa cosa vale anche per chi fa il DJ.

Riusciresti ad indicare, in termini economici, l’annata più fortunata?
Non ricordo nel dettaglio ma il periodo più bello e proficuo fu quello compreso tra la metà degli anni Ottanta e la seconda parte degli anni Novanta.

Pensi che in futuro ci potrà essere ancora spazio per i negozi di dischi?
In Italia la vedo dura. C’è un parziale “ritorno” del vinile ma mi pare più un oggetto di nicchia che di consumo, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi come in Francia ad esempio. L’anno scorso sono stato nello storico negozio Fnac a Parigi, sugli Champs-Élysées, che fino a qualche tempo fa trattava migliaia di CD di ogni genere. Adesso tutto quel materiale è relegato ad un angolino, il resto dello spazio è occupato da valanghe di LP, nuovi, originali, ristampe…

Cosa c’è adesso al posto del Disco International?
Nella prima sede uno studio dove fanno tatuaggi, nella seconda invece un centro estetico.

Qual è la prima cosa che ti viene in mente ripensando al negozio?
Il profumo delle copertine dei dischi nuovi appena arrivati mentre aprivo gli scatoloni.

(Giosuè Impellizzeri)

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Cocodance – Angels Of Love (Maxi Records)

Claudio con medaglione Cocodance (1992)
Claudio Coccoluto in una foto del 1991. Appeso al collo il medaglione che reca il suo nickname, Cocodance

Italia, 1991: la sbornia “piano house” ormai è alle spalle, il fenomeno si sgonfia e lascia spazio ad altre tendenze, in primis la rave techno che arriva dai Paesi nordeuropei e riesce a tenere banco per un biennio circa con uso/abuso di ritmiche breakbeat ed un profluvio di suoni hoover declinati in ogni salsa, anche delle peggiori. La house music nostrana imbocca pertanto nuove direzioni, prevalentemente legate al suono newyorkese e londinese. Al minor flusso di asperità ritmiche, tipiche della prima ondata chicagoana, segue una mitigante vena ambientale che, ad onor del vero, già emerge nel 1989 grazie a “Sueño Latino” del progetto omonimo ma che adesso non rappresenta più un caso isolato ma piuttosto una vera e propria corrente aggregativa. Probabilmente per la scarsità di voci madrelingua che possano garantire un’appetibilità sul fronte internazionale senza incappare nelle evidenti tare di memoria italo disco, i produttori italiani optano in prevalenza per soluzioni strumentali, con ritmiche comprese fra i 120 e i 125 bpm, organi, bassi profondi, pad spirituali e qualche campionamento vocale, e riescono a ritagliarsi un posto attraverso un segmento ai tempi definito, per convenzione, “underground”. L’italo house dei primi anni Novanta riflette una semplicità naturale ed è priva di artifici, drammaticità e tensione. Segue piuttosto un ordine geometrico degli elementi che restituisce all’ascoltatore un senso di appagamento e pace. Uno stile romanticamente intenso insomma, “precisionista”, prendendo in prestito un termine dal mondo dell’arte, in virtù della nitida chiarezza con cui si esprime.

Tra il 1989 e il 1991 debuttano etichette come le milanesi Oversky Records e Palmares Records, la napoletana UMM – Underground Music Movement, la bresciana Heartbeat (a cui abbiamo dedicato qui una monografia), le emiliane Antima Records e Calypso, la romagnola MBG International Records, la fiorentina Interactive Test e la romana Male Records a cui fanno seguito altre ancora come la Creative, la No Name Records e la Vibraphone Records e dozzine di brani, come “Alone” di Don Carlos, “I Need You” di Nikita Warren, “Kiss Me (Don’t Be Afraid)” di Love Quartet o “Sexitivity” di M.C.J. di cui parliamo rispettivamente qui, qui, qui e qui, che appartengono ad una corrente italica dalle caratteristiche ben precise. È la maniera con cui gli houseofili dello Stivale trovano una nuova identità e riescono a collocarsi nel mercato discografico senza scopiazzare troppo ciò che avviene oltralpe, seppur non sia affatto facile resistere alle influenze delle infinite novità che si rincorrono. Di quell’enorme repertorio italo house poi si perdono le tracce. Assuefatti dalla staffetta delle tendenze all’apparenza interminabili, i DJ degli anni Novanta guardano prevalentemente avanti e poco indietro, contrariamente a quanto avviene allo scoccare del Duemila, quando si innesca il riavvolgimento del nastro. Sotto effetto di una rincorsa oggi al limite del parossismo un numero crescente di disc jockey, produttori e semplici amatori si lancia, coadiuvato da mezzi un tempo inesistenti come Discogs, YouTube ed eBay, nella (ri)scoperta del passato che fu. I risultati ormai sono sotto gli occhi di tutti, tangibili attraverso un numero imprecisato di ristampe, di nuovi dischi che “suonano vecchi” e raccolte antologiche e riepilogative, come “Ciao Italia, Generazioni Underground” di cui parliamo qui.

Il 1991 resta dunque un anno cardine per quel fermento passato alla storia come “underground”, «termine non legato alla classificazione sterile e restrittiva di un genere musicale bensì ad un’attitudine e ad una visione globale della comunicazione, dove è importante il tipo di prodotto musicale ed artistico ma fondamentale risulta lo spirito col quale lo si produce e lo si diffonde», come spiega Ralf in uno speciale apparso sulla rivista Tutto Disco a novembre 1992. In quell’occasione prende parola anche Ricky Montanari che parla dei primi anni Novanta come il momento in cui si inizia a prendere coscienza di un sound che non sia più la solita “pianata all’italiana” in stile Black Box, 49ers o FPI Project, volgarizzata all’estero come “spaghetti house”: «la ricerca e l’esplorazione di nuove vie compositive si fa più libera ma bisogna attendere il 1991 per la maturazione completa di questa scena. Il 1991 infatti è l’anno in cui quasi tutte le etichette indipendenti capiscono che sia giunto il momento di scovare qualcosa di nuovo». È proprio del 1991 “Angels Of Love”, tra i primissimi lavori discografici ufficiali di Claudio Coccoluto, ex fonico per alcune radio locali che approda in discoteca motivato dalla passione per la musica e il piacere di far ballare la gente. «La mia prima vera serata fu all’Histeria di Roma, nel 1985» dichiara in un’intervista dell’ottobre 1996. «Per lungo tempo ho lavorato al seguito di Marco Trani e con l’avvento della house music le occasioni di lavoro si sono moltiplicate ed ho avuto l’occasione di suonare nei rave più famosi che hanno accresciuto la mia popolarità».

prime produzioni
“For What Is It To Love?” dei Life (’87) e “Free Flight” di Two Men Out And One Inside (’90), attraverso cui Coccoluto entra nel mondo discografico

Affiancato dall’amico fraterno Trani, nel 1990 Coccoluto realizza “Free Flight” di Two Men Out And One Inside per la P.P.P. Records, il primo disco partorito esclusivamente dalle sue idee. Il viaggio creativo era già iniziato anni prima ma tutte le bozze dilettantistiche finivano puntualmente nel cestino filtrate da una forte autocritica. Tuttavia nel 1987, nelle vesti di Cocco Dance, il DJ partecipa a “For What Is It To Love?” dei Life, una band di Formia stilisticamente poco italiana, più legata al rock d’oltremanica di gruppi come Talk Talk, Spandau Ballet o Duran Duran. «In realtà la prima cosa nostra su cui Claudio mise le mani fu il brano “Secret Memories”, pubblicato nel 1986 ed incluso nella compilation “Live At The Blue Angel”» precisa Stefano De Blasio, batterista dei Life contattato per l’occasione. «Il ricordo del suo magistrale lavoro col campionatore su voci e cori è ancora nitido, nonostante siano trascorsi oltre trentacinque anni». Il campionatore a cui fa cenno il musicista è un E-mu Emulator II acquistato nel 1984 per ben 17.000 dollari. Come lo stesso Coccoluto svela qui «costava quanto una macchina e lo pagai a cambiali, al tempo in Italia lo avevano in tre, Lucio Battisti, Pino Daniele e lo sconosciuto Claudio Coccoluto. Quando mio padre scoprì quanto costava quella che lui chiamava “la pianola”, a casa mia successe una tragedia». Ai Life dunque, band nata nella provincia di Latina, è legato il debutto discografico di Coccoluto. «Avevo messo su il gruppo col cantante Alessandro Lucci e il bassista Roberto Vellucci» prosegue De Blasio. «Eravamo tutti beatlesiani convinti ma la passione per la new wave e il cosiddetto new romantic ci fece seguire un percorso diverso, col supporto del produttore Nando Coppeto. Tramite amici comuni arrivammo a Claudio, ancora residente a Gaeta, che ascoltò i nostri pezzi e si propose per elaborarne delle parti in un modo diverso dal solito. Era giovanissimo ma si capiva già che aveva tanto talento».

Claudio Coccoluto e Dr. Felix (dal profilo FB di Erasmo Coccoluto)
Claudio Coccoluto e Dr. Felix in una foto scattata nella seconda metà degli anni Ottanta e tratta dal profilo Facebook di Erasmo Coccoluto, padre dello stesso Claudio. Alle loro spalle si intravede, sotto un Roland Octapad Pad-8, il costoso campionatore E-mu Emulator II

Il citato “Free Flight” del 1990, che porta a Coccoluto più soddisfazioni personali che economiche, è una sorta di spartiacque. Da quel momento il mondo della house music, in continuo divenire, gli riserverà più di qualche sorpresa. Nel ’91 rispolvera il vecchio nickname che perde una C e diventa Cocodance e co-produce un pezzo col tastierista Vincenzo Rispo. «Ci incontravamo spesso nel negozio di strumenti musicali in cui lavoravo, Musicalcentro, a Cassino» racconta oggi Rispo. «Da musicista ed esperto di hi-tech, gli facevo consulenza sulle nuove tecnologie e quel classico rapporto tra commesso e cliente si trasformò in una bella amicizia. Studiavo pianoforte e mi stavo preparando agli esami per il quinto anno, ma sono sempre stato un appassionato di musica elettronica e fin da piccolo “smanettavo” con sintetizzatori Moog e batterie elettroniche». A differenza di altri professionisti provenienti da ambiti accademici che in quel periodo non riservano commenti entusiastici e giudizi positivi sulla nuova dance che si diffonde in modo sempre più capillare, Rispo non nutre avversione per le moderne forme di composizione: «Ritengo che l’house music abbia permesso a tanti di inventare cose nuove, utilizzando mezzi diversi dai tradizionali come i computer Atari e i vari sequencer installati, offrendo la possibilità di proporsi anche a chi non aveva studiato musica e non sapeva leggere il pentagramma. Io stesso, alla fine degli anni Settanta, comprai un piano elettrico Rhodes e mi divertivo con una drum bass a creare linee melodiche. In seguito programmai dei groove da usare con fini dimostrativi per vendere strumenti musicali».

foto promozionale
Una foto promozionale scattata presumibilmente a New York quando la Maxi Records pubblica “Angels Of Love” di Cocodance

Torniamo a Cocodance: «”Angels Of Love” venne depositata presso la SIAE con 24/24 a mio nome poiché integralmente frutto del mio ingegno» spiega Rispo. «Iniziai a creare il pezzo da zero alla fine del 1990, dal riff di batteria passando per il basso e il sax, era tutta opera mia. Una volta terminato lo feci sentire a Dino Lenny, all’epoca sotto contratto con la Flying Records, che mi propose di portare il demo a un responsabile della casa discografica. Seguii il consiglio e andammo a Napoli ma quando quella persona lo ascoltò disse testualmente “aro stà o piezz?” e ci liquidò dicendoci che non fosse una cosa vendibile. In quel momento terminò la “collaborazione”, se così vogliamo chiamarla, con Lenny. Successivamente parlai con Claudio e gli feci ascoltare ciò che avevo creato. Con mio grande stupore mi disse: “caro Enzo, questo è un pezzo underground puro, se ti fa piacere possiamo lavorarci insieme e poi penserò io a proporlo a qualcuno”. Mi invitò addirittura ad entrare in una società che in quel momento stava creando col citato Lenny, Savino Martinez e Ciro Sasso. Attratto dall’idea, ci organizzammo presso casa mia, all’interno di un garage, per approntare il brano. Sostenni gli esami SIAE e quando giunse il momento di depositarlo, chiesi sempre a Claudio che nome dovessi dare ad esso. All’epoca stava nascendo il team degli Angels Of Love e lui mi disse che gli avrebbe fatto piacere se lo avessi chiamato col titolo che oggi conosciamo. Ricordo perfettamente il giorno in cui mi telefonò per parlarmi di un contatto che aveva negli Stati Uniti e che fosse necessario creare al più presto il master su DAT. Lavorammo insieme alacremente per circa dodici ore ed intorno alle quattro del mattino il master era finalmente pronto. Quello stesso giorno prese l’aereo e partì per New York. Alla casa discografica piacque e poco tempo dopo uscì il 12″».

L’etichetta in questione è la Maxi Records, fondata nel 1990 da Claudia Cuseta e Kevin McHugh. La Cuseta, intraprendente e rampante ragazza newyorkese figlia di un musicista ed una arredatrice d’interni, matura esperienze alla Tommy Boy, alla Sunnyview (sulla quale appaiono i Newcleus) e alla Profile, ma come spiega in questa intervista dell’aprile 2004, fu l’amore per la dance a portarla alla creazione di una etichetta di quel tipo. «Non mi piace chiamarla house music, io amo tutti i generi di musica dance» afferma. Ed aggiunge: «Il nostro primo artista è stato Dawn Martin con “Can You Feel The Music”, un buon disco vocal, il secondo invece “Let’s Get Down / Ping Pong” prodotto da Pal Joey sotto lo pseudonimo Espresso […]. Ai tempi non c’erano molti modi per pubblicare musica di questo genere e così abbiamo sviluppato il catalogo in tale direzione. La nostra prima hit fu “Helpless (I Don’t Know What To Do Without You)” di Urbanized Featuring Silvano, prodotto dai Mood II Swing e con un remix dei Masters At Work. Raccolse parecchie licenze ma non credo abbia mai raggiunto il suo pieno potenziale. Il più grande successo della Maxi Records resta comunque “Funk Dat” di Sagat (inizialmente pubblicato come “Fuk Dat”, nda), un pezzo diventato pop in America. Fu divertente sentire alla radio un brano partito da una piccola casa discografica con un organico di appena sei persone. Iniziò a passarlo Hot 97 e non demmo molta importanza alla cosa ma le richieste proseguirono e contagiarono altre emittenti, incuriosite da quella traccia. Alla fine arrivò nella top 40 della classifica pop americana e ricevetti una chiamata da MTV che richiedeva il videoclip. Risposi che sarebbe stato pronto in una settimana e così, coinvolgendo alcuni amici che ci avrebbero permesso di realizzarlo nel più breve tempo possibile, lo girammo nel giorno più freddo dell’anno. Lo recapitammo ad MTV che il giorno dopo lo mise in programmazione, ma questo genere di cose non avviene molto spesso».

“Angels Of Love” di Cocodance non sbarca certamente su MTV ma riesce a penetrare nel substrato house più legato ai club, vendendo presumibilmente qualche migliaio di copie. «Non saprei quantificare con precisione ma, in virtù di unico fruitore dei diritti d’autore, nei primi due anni incassai somme interessanti» aggiunge a tal proposito Rispo. La versione principale, la Original Italio Mix, prende le mosse da un organo Hammond che fa il verso a quello di una hit di quell’anno, “Gipsy Woman” di Crystal Waters ma è solo una similitudine timbrica, nel pezzo di Cocodance non c’è nessuna velleità a replicare i risultati commerciali del successo prodotto dai Basement Boys anzi, quando entra il sax e poi il pianoforte si ha subito la certezza che quello non sia affatto un brano destinato alle grandi platee. Non ci sono hook da cantare ma solo un layer sonoro che trasporta verso dimensioni parallele emozionali, così come avviene del resto con tanti brani house prodotti in Italia ai tempi, ignorati sulla piazza internazionale ma trasformati in cult a distanza di qualche decennio. La Maxi Records impreziosisce il disco coi remix firmati da Ralphie Dee e il compianto Costantino “Mixmaster” Padovano (fu lui a fare da “ponte” tra Coccoluto e la Cuseta) e da Tommy Musto e Victor Simonelli. «Tecnicamente, per realizzare “Angels Of Love”, utilizzai gli strumenti che andavano per la maggiore in quel momento, quando i suoni digitali avevano sostituito quasi del tutto quelli analogici» prosegue Rispo. «Nel set up figuravano quindi una drum machine Yamaha RX7, un sintetizzatore Yamaha TX81Z per il basso, un Korg M1 per organo e sax, un campionamento di una tastiera Kurzweil per il pianoforte e string pad, ed infine un Roland D-50 per gli abbellimenti finali. Non mi ispirai a nulla di preciso, il mio desiderio era usare armonie vicine all’ambiente jazz perché in quel periodo studiavo jazz all’Accademia Uno di Roma col Maestro Ramberto Ciammarughi».

Sopra Cocodance edito dalla Maxi Records, sotto la licenza italiana su GFB, una delle etichette della Media Records

Rispetto a “Free Flight”, “Angels Of Love” raccoglie una maggiore visibilità: operando da New York, la Maxi Records è in grado di aprire interessanti varchi promozionali nonché alimentare promettenti prospettive. Curiosamente, in una specie di ping pong tra vecchio e nuovo continente, il pezzo ritorna in Italia attraverso la licenza della GFB, etichetta del gruppo Media Records, proprio lì dove Coccoluto approda poco tempo dopo, su invito di Alex Serafini, per prendere parte al progetto Heartbeat. Sul fronte compilation invece, “Angels Of Love” viene scelto da Dave Seaman per un mixato destinato al DMC e in seguito viene ripescato da Danny Tenaglia per una raccolta dedicata alla Maxi Records. I presupposti per un follow-up di Cocodance ci sono tutti ma contrariamente alle aspettative arrivano solo co-produzioni (“Move Over” di ITA Playground, “Bandit” di Mimì & Cocò), qualche remix (“Move Your Feet” dei 49ers, “Been A Long Time” di The Fog, di cui parliamo qui, “Heart – Throb (Get On Up)” di Roc & Kato, “Oye Como Va” di Tito Puente Jr. & The Latin Rhythm) e poco altro. «Ai tempi lavoravo come Maresciallo in Aeronautica Militare ed ero parecchio impegnato coi soccorsi aerei» spiega ancora Rispo, «e considerati gli orari stressanti abbandonai subito dopo aver dato corpo a “Seduction” di Urban Nation» (finito nel 1994 sulla Who’s Di Selecta?, nda).

Pochi anni più tardi Coccoluto tocca, grazie a “Belo Horizonti” realizzato insieme a Savino Martinez come The Heartists, l’apice della sua popolarità discografica, seppur il pezzo, come lui stesso racconta qui, diventa preda di sfacciate speculazioni. In un’intervista dell’ottobre 1996, giusto pochi mesi prima della pubblicazione della hit, il DJ di Cassino dispensa consigli utili ai tanti che vogliono seguire le sue orme: «Siate sempre convinti delle vostre scelte, non lasciatevi condizionare dalle mode, seguite l’istinto e la passione per la musica senza pensare troppo al lato economico e diffidate di chi mette in primo piano i propri interessi». A posteriori queste parole risulteranno profetiche proprio per quanto avviene a “Belo Horizonti”, ma quell’esperienza non scalfisce la lucidità o annienta il desiderio di vivere di musica dell’artista. «Purtroppo non ho avuto modo di seguire le varie tappe della sua carriera ma siamo rimasti cari amici» aggiunge Rispo. «Claudio mi ha sempre presentato ai tanti che incontravamo come la persona che gli aveva permesso, attraverso “Angels Of Love”, di diventare quello che tutti hanno conosciuto in seguito, e ripensare a questa cosa mi fa venire i brividi. Era una persona eccezionale, dal grande cuore e molto incline ad aiutare, nonostante in tanti lo vedessero con occhi diversi. Per me è stato un vero amico che non dimenticherò mai» conclude il musicista cassinate. (Giosuè Impellizzeri)

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Dino – Call Me (Nu-Tella Records)

Dino - Call Me

Analogamente alle carriere della maggior parte dei suoi colleghi, anche quella di Dino Lenny nasce in un periodo in cui “fare il DJ” vuol dire poco e niente giacché si tratta di una professione considerata ancora alla stregua di un hobby dopolavorista. «Non avevo grandi stimoli e il mio futuro era abbastanza incerto, studiavo ancora ma l’unica cosa a rendermi felice era la musica» racconta oggi l’artista. «Cominciai a lavorare in radio ottenendo sempre più spazio. Appartenere ad un mondo che metteva al centro la musica mi faceva sentire vivo. Col tempo imparai sempre più cose ed iniziai ad alzare il tiro cominciando a fare il DJ e, successivamente, a produrre musica. Realizzare un disco era praticamente un sogno e da quel momento non mi sono più fermato». Con l’avvento di una tecnologia economicamente più abbordabile, chi mette i dischi si cimenta anche a farli, proprio come avviene per Lenny. «Per quattro/cinque mesi all’anno suonavo in un club a Malta chiamato Axis, e fu quel posto ad avermi fornito maggiori stimoli per iniziare a fare produzioni discografiche» spiega a tal proposito. «Durante la stagione estiva facevamo il pienone con circa cinquemila persone ogni sera. Venivano un mucchio di ospiti inglesi, gente che suonava all’Haçienda di Manchester e che lavorava a Kiss FM, emittente all’apice del successo. Così iniziai a conoscere i personaggi che gravitavano nelle orbite di quei posti: tutti desideravano venire a suonare all’Axis ed io ne approfittai per chiedere ragguagli in merito agli studi di registrazione. A quel punto, di comune accordo col proprietario del locale, Chris Grech, decisi di provare a produrre qualcosa in uno di quegli studi londinesi di cui tanto mi parlarono. Abbozzai dei provini a casa di un amico, Al Stone, per poi terminarli in una sala a Camden Town, la stessa dove i Pet Shop Boys incisero “West End Girls” pochi anni prima».

1) Cocaine (1991)
“Cocaine” è il primo disco inciso da Lenny e pubblicato dalla napoletana Flying Records nel 1991

Il disco realizzato da Dino Lenny in quello studio è “Cocaine”, pubblicato nel 1991 dalla napoletana Flying Records. È un pezzo che incrocia riferimenti a Technotronic e Twenty 2 Seven abilmente “saldati” attraverso vari campionamenti (tra cui “White Storm In The Jungle” di Sandy Marton) ed un’immancabile vena pianistica. «Ad aiutarmi in studio fu Ray Roberts, tecnico del suono ma anche colui che eseguì l’assolo di Hammond» spiega. «Una volta terminato, tornai in Italia e, su suggerimento di Claudio Coccoluto, lo sottoposi all’attenzione della Flying Records. A Flavio Rossi piacque subito ma mi disse che fosse necessario ri-registrarlo nei loro studi. Non accettai, sottolineando che fossi già contento del prodotto. Si convinse e lo pubblicò, nonostante il parere opposto di Angelo Tardio: se fosse stato per lui “Cocaine” non sarebbe mai uscito su Flying Records e forse io non starei dove sono ora. Per fortuna i risultati non tardarono ad arrivare e nell’arco di poche settimane il pezzo divenne la sigla di un noto programma televisivo oltremanica, The Hitman And Her, che era l’equivalente del nostro Discoring, e la PWL, storica etichetta di Pete Waterman che in catalogo aveva artisti come Kylie Minogue, Mel & Kim, Rick Astley, Jason Donovan ed Hazell Dean, mi mise sotto contratto. Il brano funzionò tantissimo nel mainstream e c’è chi ora lo considera un classico dell’italo house seppur fosse un misto di tutto quello che funzionava ai tempi. Sull’onda emozionale di quei risultati, cominciai a fare il produttore discografico a tempo pieno».

Dopo l’uscita di “Cocaine”, Lenny realizza “Time To Change” (ispirato da “Rock The House” di Nicole McCloud) ed inizia a collaborare con regolarità con una delle etichette più in vista della Flying Records, la UMM diretta artisticamente dal citato Angelo Tardio, a cui destina varie produzioni come “Elevator EP” di Noisee Boyz, “State Of Panic” di Sonar, “Esta Buena” di S.O.P., “No More Mind Games” di B.O.D. e “Friend” di HWW, buona parte di esse realizzate insieme a Savino Martinez e Claudio Coccoluto. Con quest’ultimo dà vita pure ad “Angels Of Love” di Cocodance finito nel catalogo della newyorkese Maxi Records di Claudia Cuseta e tornato in patria attraverso la GFB del gruppo Media Records. «In realtà composi quella traccia insieme ad un amico di Cassino, Vincenzo Rispo, ma con un altro titolo» illustra Lenny. «Non potendo essere pubblicata dalla Flying Records perché troppo diversa dalle cose che Rossi e Tardio cercavano in quel momento, rischiò di restare chiusa in un cassetto. La feci ascoltare a Claudio, gli piacque e mi propose di rimaneggiarla insieme. Il risultato divenne per l’appunto “Angels Of Love”. Alla UMM invece arrivai grazie a cose più settoriali e meno commerciali di “Cocaine” come ad ad esempio “No More Mind Games” di B.O.D. la cui ristampa è attesa su Life Of Marvin, l’etichetta di Marvin & Guy e Manfredi Romano alias DJ Tennis. Nell’HWW Studio (HWW è l’acronimo di House Without Windows, nda), a Cassino, facevamo tutti un po’ di tutto. Io e Savino eravamo più presenti mentre Claudio teneva i contatti con le etichette ed era il nostro “ponte”, specialmente per le cose spiccatamente underground. Quell’interscambio continuo mi piaceva seppur non siano mancate occasioni in cui ho proceduto autonomamente perché tra i tre ero quello a cui piacevano le cose più elettroniche e a volte sentivo proprio la necessità di sfogarmi da un punto di vista artistico. Il confronto però era costante, condividevamo tutto, dall’opinione su una possibile etichetta alla scelta di una versione. Nessuno di noi era un tecnico del suono ed ammetto che, all’inizio, i pezzi non suonassero proprio bene. Contavamo soprattutto sull’istinto, sul gusto musicale e sulla conoscenza con continui paragoni e rimandi alle cose che più ci piacevano, ma fortunatamente i pezzi che sfornavamo venivano quasi sempre accettati dalle label a cui li sottoponevamo. Le mie cose però funzionavano più all’estero che in Italia ed infatti, nel 1996, decisi di trasferirmi a Londra, capii che la scena britannica fosse decisamente più vicina al mio gusto ed alla mia sensibilità».

2) Lenny, Coccoluto, Martinez (1997) + Apollo 14
Sopra Dino Lenny, Claudio Coccoluto e Savino Martinez in uno scatto/fotomontaggio del 1997, quell’anno utilizzato come logo side della Star Trax, sublabel di the dub. Sotto invece la fotografia originale che immortala gli astronauti Stuart Roosa, Alan Shepard ed Edgar Mitchell, protagonisti della missione spaziale Apollo 14 del 1971

La seconda metà degli anni Novanta è disseminata di produzioni di Lenny, di volta in volta siglate con pseudonimi diversi, da Life On Mars a Rat Attack (che apre il catalogo della Star Trax, sublabel della the dub che affonda le radici in un suono più elettronico) passando per Dog Star e Space Penguins. Altrettanto copiose quelle condivise con altri artisti come 2GDL (con Graham Gold) e White Trash (con Craig ‘Meck’ Dimech, con cui tornerà a collaborare tempo dopo), senza dimenticare il remix della hit di Coccoluto e Martinez, “Belo Horizonti” di The Heartists di cui parliamo dettagliatamente qui. «In effetti i dischi erano tanti e vari» rammenta l’artista. «“Live On Mars” di Life On Mars, ad esempio, pubblicata dalla Moonlite e contenente un remix realizzato a quattro mani con Francesco Farfa, fu una delle prime cose che feci dopo essermi trasferito nella capitale britannica e mi diede tante soddisfazioni. Da lì a breve iniziai a frequentare Craig Dimech, con cui firmai un paio di White Trash (“Acid People” e “White Trash (We Need Each Other)”, nda) e Graham Gold, speaker a Kiss FM, col quale invece produssi “Join And Pain” di 2GDL. Da un punto di vista economico andava benino ma mi accorsi presto che fare tutto da solo era difficile. Più propizie si rivelarono le collaborazioni con qualcuno che avesse una maggiore visibilità ma sia chiaro, non parlo di ghost producing bensì di reali interazioni in studio con personaggi che riuscivano a guadagnare abbastanza bene con la musica».

Nel 2002, quando ormai vive da sei anni a Londra e vanta una club hit come “I Feel Stereo” ripubblicata dalla Yoshitoshi Recordings dei Deep Dish, esce “Call Me” che Lenny firma col solo nome, così come si usa fare nel pop italiano sin dagli anni Sessanta. La base del brano è campionata da “Way You Walk” della band statunitense Papas Fritas ai tempi scioltasi, mentre la parte vocale è interpretata dallo stesso Lenny. Con “Call Me” l’artista molla momentaneamente i club ed abbraccia il pubblico mainstream ma mantenendo integra ed intatta la propria cifra stilistica. «Tentai di creare qualcosa di diverso da ciò che circolava con insistenza nel mercato e riuscii nell’impresa tornando a quelle che erano le mie abitudini negli anni Novanta ovvero lavorare maggiormente sui campionamenti» spiega. «Ai tempi collaboravo con Marco Capelli, meglio noto come Andrea Doria, e facemmo tante cose insieme che ci gratificarono parecchio come “I Feel Stereo”, inizialmente pubblicata dalla Incentive e poi licenziata dalla Yoshitoshi Recordings. Nella prima versione inserii un sample di “I Feel For You” di Chaka Khan ma non riuscendo ad avere il clearance da Prince, autore della canzone, fui costretto a risuonare la parte. Tuttavia non mancarono i problemi perché i Deep Dish, innamorati del pezzo, inserirono proprio quella versione nella compilation mixata “Global Underground 021: Moscow”. Ciò generò inevitabilmente una semi causa con cui gli avvocati di Prince chiesero il ritiro del disco dal commercio. Fortunatamente riuscimmo a spiegare che quella versione in realtà non venne mai pubblicata ufficialmente e solo a quel punto il folletto di Minneapolis si convinse ma volle firmare comunque il pezzo come autore. Dopo “I Feel Stereo” fu la volta di “Call Me”, nato da un’intuizione di Rolando Bacci che ai tempi veniva spesso a casa mia chiedendomi consigli su tante cose e col quale strinsi una bella amicizia. Fu lui a scovare il campione di “Way You Walk” dei Papas Fritas e a sovrapporlo ad un giro di string. Mi fece sentire una bozza per sapere cosa ne pensassi e, trovandola carina, gli chiesi di lasciarmela perché avrei voluto provare a svilupparla. Così andai in studio dal citato Marco (Capelli, nda), gli dissi di mettere in loop quel frammento ritmico e di aprire il microfono per registrare la parte vocale di un testo che avevo scritto per l’occasione. In quel momento occorreva dare corpo al demo ma l’intenzione era trovare qualcuno a cui farlo cantare, un turnista col timbro in stile Ian Dury o un cantante degli anni Ottanta perché il pezzo aveva quel vibe lì. Tornato a Londra feci sentire il risultato a Rolando a cui piacque molto. Iniziammo subito a cercare un cantante disposto ad interpretare la parte e, nel contempo, a contattare varie etichette potenzialmente interessate alla pubblicazione. Lo mandammo pure a Fabietto Carniel del Disco Inn che però era del parere che non fosse affatto necessario sostituire il cantato perché perfetto così, ed avanzò la proposta di farlo girare in Italia per tastare il terreno e raccogliere opinioni. Fece stampare un 10″ ed un 7″ su un’etichetta fittizia, la Nu-Tella Records, e lo spedì a tutte le radio più importanti del Paese. Radio DeeJay e RIN – Radio Italia Network cominciarono a passarlo più volte al giorno e poi si accodò Pete Tong che lo sentì proprio in Italia mentre era in auto, paragonandolo ad un pezzo dei Talking Heads e definendolo geniale. In quel momento capii di aver fatto una traccia fuori dagli schemi: per ottenerla ci volle coraggio ed incoscienza, doti che per fortuna non mi sono mai mancate. Visto il fortissimo airplay radiofonico, sorse l’esigenza di realizzare un videoclip ma il tempo a disposizione era assai risicato. A darci una grossa mano fu l’amico di vecchia data Andrea Pellizzari nelle vesti dell’ironico professore Mr. Brown con cui mi divisi la scena nella clip».

4) Lenny ai tempi di Call Me
Dino Lenny in uno degli scatti dello shooting a supporto di “Call Me”, realizzato a Ladbroke Grove, di fronte agli uffici della Wall Of Sound. L’artista è nell’abitacolo di un’auto utilizzata per i matrimoni indiani nella capitale britannica, i cosiddetti Karma Cabs.

Partito, come altre produzioni di Lenny, senza la spinta di dispendiose campagne promozionali, “Call Me” finisce con l’incuriosire etichette mainstream come la bresciana Time, l’australiana Hussle Recordings, la britannica Prolifica e la tedesca Kontor Records. Svariati pure i remix che vanno ad aggiungersi a quello iniziale dei Par-T-One (reduci dell’exploit con “I’m So Crazy”): da Santos a Boris Dlugosch e Michi Lange passando per Andrea Doria, Loose Headz e i Dub Duo (Coccoluto e Martinez). “Call Me” si impone a livello internazionale e lo stesso avviene ad un’altra produzione parallela di Lenny, “Change The World”, costruita abilmente sul sample di “Flag Day” degli Housemartins. A ciò si somma “Bucci Bag” di Andrea Doria, per cui il suo apporto risulta determinante così come lo stesso Capelli racconta in questa intervista, e il primo (e sinora unico) album, “Might”, da cui vengono estratti vari singoli come “In October”, “Lonely Man”, “Back 2 My Flat” e “King Kong Five” ispirato dall’omonimo dei Mano Negra. «Gestire il successo e gli impegni di quel periodo non fu affatto un problema per me, alle spalle avevo già una hit come “Cocaine” che mi portò a televisioni importanti e magazine blasonati. Da quel momento ero convinto di poter fare davvero tutto» afferma l’artista. «Avevo già cognizione che nella carriera musicale, specialmente quella di chi fa dance, possano esserci dei picchi alternati a momenti meno appaganti. Per tale ragione mi sono costantemente reinventato cercando di fare sempre cose differenti anche perché, di base, sono uno che si annoia molto. Inoltre ho una concezione diversa di quello che viene indicato solitamente come “successo”: a mio avviso Michael Jackson o Prince hanno avuto successo e continuano ad averlo ancora oggi, dopo la prematura morte. Il vero successo, per me, è continuare a fare questo lavoro dopo ben trentacinque anni. Ho imparato che non bisogna esaltarsi troppo quando si sta su e non demoralizzarsi invece quando si sta giù. “Might” rappresentò in pieno la parte più ironica della mia personalità, era un potpourri di testi abbastanza leggeri e divertenti e roba senza troppe pretese sin dal nome scelto per quell’avventura, Dino. Probabilmente avrei potuto continuare a sviluppare alcune sonorità in esso contenute anche negli anni a seguire ma, come dicevo prima, sono uno che si annoia assai velocemente e per sentirmi sempre coinvolto nel lavoro ho bisogno di cambiare costantemente. A conti fatti credo sia questo il mio segreto».

5) Feels Like Home
La copertina di “Feels Like Home”, brano realizzato a quattro mani con Meck

Lenny cavalca l’onda ma a modo suo, mutando progressivamente la formula. Nel 2006 realizza in tandem con Meck “Feels Like Home”, un pezzo frutto della contaminazione tra mondi diversi come quello della house, del breaks e della trance post bolla eurotrance. A fare da collante un frammento di “Don’t You Want Me”, l’intramontabile hit di Felix di cui parliamo qui nel dettaglio. Trainato da un videoclip diretto da Spike Jonze che conta sul cameo dello skater Tony Alva, il brano viene promosso a pieni voti da BBC Radio 1 e mandato in onda all’inaugurazione dello stadio di Wembley in occasione della finale FA Cup disputata tra Manchester United e Chelsea. In seguito Lenny apre il concerto di Avril Lavigne a Montreal esibendosi davanti ad un pubblico di settemila persone e scrive la colonna sonora di un episodio della serie televisiva CSI Miami. A coronare il galvanizzante periodo è “Feels Like A Prayer”, mash-up tra “Feels Like Home” e “Like A Prayer” di Madonna che gli offre la possibilità di partecipare allo Sticky & Sweet Tour della popstar americana. Seppur continui ad utilizzare per alcune produzioni il nomignolo Dino Da Cassino, è chiaro che l’artista si sia definitivamente affrancato dalla posizione dell’appassionato DJ della provincia frusinate. Restare a Cassino avrebbe fatto decollare la sua carriera in egual modo? «No, assolutamente, il percorso non sarebbe stato lo stesso» ammette senza giri di parole, aggiungendo però di non essersi mai dimenticato delle proprie origini. «Vivo a Londra da ormai venticinque anni (dove in tanti continuano a chiamarmi “Dacassino” che suona così bene) e la capitale inglese è stata determinante per conoscere tante persone che mi hanno aiutato, da Dave Lambert, A&R per etichette del calibro di Positiva, AM:PM e Strictly Rhythm, al già citato Craig Dimech con cui per l’appunto feci “Feels Like Home”, il primo pezzo con cui ho raggiunto la top 40 d’oltremanica. Londra è stata una tappa fondamentale per la mia carriera e se oggi mi sento appagato lo devo anche ad essa, oltre alla musica che mi ha salvato letteralmente la vita sotto tanti punti di vista. Adesso vivo un periodo più tranquillo e cerco di dedicarmi a cose diverse, che non sento in giro. Preferisco cambiare il sound e la visione e scommettere su novità dal dubbio esito piuttosto che seguire banalmente il treno delle tendenze già in atto. Negli ultimi anni ritengo di aver scritto alcuni dei pezzi più innovativi del mio percorso artistico come “Living In A Song”, “It’s Saturday” e “This Is A Love Song”, tutti pubblicati dalla Ellum Audio di Maceo Plex. A mio parere si potranno sentire anche in futuro e reggeranno bene il passare degli anni, in particolare “This Is A Love Song”, una sorta di punk elettronico da cui filtra la mia sensibilità più scura. Penso sia importante guardare al futuro ma con un occhio di riguardo verso il passato perché ci sono davvero tante cose che, riviste in un contesto moderno, potrebbero aiutare a creare una novità, e non mi riferisco a mash-up o incroci similari bensì a contaminazioni che preservino il mood di riferimento. Forse mai come oggi abbiamo necessità di un genere nuovo e sento che la mia missione sia quella di provare a tracciare strade inedite. Avvenne già con “Call Me” che però, non lo nascondo, fu un risultato piuttosto casuale. Adesso invece, a distanza di quasi venti anni, ho acquisito più consapevolezza e cerco di esprimermi al meglio provando a tirar fuori materiale inconsueto. Quando sviluppo o termino un brano, mi chiedo sempre se possa realmente essere utile oppure se sia la copia di qualcosa che esiste già. Non voglio alimentare la spirale di copie ed imitazioni, per questo quando qualcuno mi confida di non riuscire a suonare le mie cose sono contento perché un’affermazione di questo tipo mi fa capire di essere sulla strada giusta. Al momento sento tanta roba che non mi piace, per giunta firmata da DJ titolati. A questo punto se non riescono a suonare la mia musica per me è persino meglio. La soddisfazione più grande? Comporre un pezzo strano ma che tutti riescono a proporre. Allora significa che sei riuscito nell’impresa di generare qualcosa di veramente incredibile».

6) Dino Lenny recente
Un recente primo piano di Dino Lenny

Nonostante il nuovo millennio abbia decretato un radicale cambiamento nelle dinamiche di mercato, Dino Lenny non smette di comporre e pubblicare musica, alimentando costantemente la propria discografia e gestendo diverse etichette, la Age One Records, la Frenetica e la Fine Human Records. Quella che può essere considerata una “industrializzazione” del DJing sancisce una nuova età, slegata dalla passata e basata su parametri nuovi. «È vero, è cambiato un po’ tutto, ma io non presto molta attenzione a quello che succede in certi ambiti» dichiara l’artista. «Non sono particolarmente attivo sui social network, mi interessa lasciare cose interessanti ai posteri piuttosto che collezionare like, un fenomeno che si perde e di cui non resta nulla a differenza delle produzioni. Non mi importa quindi accrescere il numero di follower con stratagemmi informatici, seguo poco le statistiche e gli insights della mia Pagina Facebook e a dirla tutta al momento preferisco Instagram attraverso cui pubblicizzo le interviste del mio programma radiofonico, Core, legato allo stage underground del Tomorrowland. Al momento l’etichetta principale del mio pool è la Fine Human Records, su Frenetica invece convoglio le produzioni di amici che stimo (in cantiere c’è un’uscita con Daniele Baldelli, Marco Dionigi, Francesco Farfa, Miki The Dolphin e Francesco Zappalà). Voglio mantenere un rapporto col passato ma, sia ben chiaro, non sono un nostalgico. Essere nel business della musica da più di un trentennio continua a farmi sentire vivo ma, nel contempo, potrebbe legittimamente far pensare che non dovrei più essere nel giro delle discoteche, ho superato i cinquant’anni e qualcuno potrebbe invitarmi a lasciare spazio ai giovani. Comunque, sino a quando riuscirò a raccogliere soddisfazioni, non mollerò, seppur sia ben conscio che buona parte della generazione che mi ha conosciuto attraverso “Cocaine” abbia chiuso con la dance e col mondo delle discoteche». Oggi praticamente chiunque è messo nelle condizioni di poter comporre musica e pubblicarla, anche bypassando i tradizionali filtri un tempo determinati dal ruolo degli A&R delle case discografiche. In tanti sostengono che tutto ciò sia democraticamente corretto ma a pagare il prezzo più alto, alla fine, pare proprio il livello qualitativo della musica. La digitalizzazione globalizzante sta seriamente minando la credibilità del settore artistico? «Trent’anni fa per incidere un disco bisognava avere un’idea forte e convincere l’etichetta, oltre ovviamente ad allestire uno studio che era proibitivo dal punto di vista economico» sostiene Lenny. «Quello che condividevo con Claudio Coccoluto e Savino Martinez, ad esempio, costava svariate centinaia di milioni di lire. Fare musica non era per tutti ma forse era comunque sbagliato perché magari c’era chi aveva buone idee ma non i soldi per realizzarle. Ora i rischi sono assai ridotti, tutti possono comporre e pubblicare musica, anche senza il supporto di nessuna etichetta, e probabilmente è giusto che sia così. Purtroppo, in mezzo a così tanta quantità, è arduo scovare la qualità che però, è meglio rimarcarlo, esiste ancora. In virtù del mio programma radiofonico a cui facevo prima riferimento, ascolto davvero tantissima musica, forse di più rispetto a quando ero in giro per il mondo a fare il DJ perché adesso non mi limito a selezionare solo materiale ballabile. In circolazione ci sono tante cose belle di artisti di valore che però non riescono ad emergere proprio perché affossati dalla quantità di pubblicazioni quotidiane. Certi pezzi meriterebbero più attenzione ed ascolti maggiormente profondi ma ormai viviamo in un mondo veloce privo dei filtri di una volta (radio, negozi di dischi, A&R) e chi vuole cercare musica nuova è obbligato ad avventurarsi in un mare magnum in cui è difficile sia trovare che essere trovati. Purtroppo i media, e soprattutto i social network, non hanno di certo aiutato: esistono canali che vantano una visibilità incredibile ma non controbilanciata da altrettanta qualità. C’è chi usufruisce di questo sistema raccogliendo frutti ma per un periodo molto breve per poi sparire. Il mondo procede in questa direzione e la musica, al netto di ogni impeto nostalgico, ha perso credibilità. Basti ascoltare le radio per capire cosa non funzioni in questo settore. Entrare ora nel music business puntando all’originalità per me sarebbe un’impresa decisamente ardua». Ci si interroga quindi che tipo di evoluzione potrà interessare la musica elettronica ballabile nei prossimi anni e decenni. Non mancano i pessimisti che danno tutto per spacciato, liquidando qualsiasi novità che affiori come imitazione di cose già sentite. Lo stesso Dino Lenny, nel 2018, pubblica un 12″ intitolato “Techno Is Dead” (omonimo dell’album dei finnici Ural 13 Diktators risalente al 2002) che, forse, si schiera dalla parte di coloro che hanno messo sulla techno una pietra tombale perché, da genere geneticamente proiettato nel futuro, pare abbia terminato la sua rigenerazione. «Tutto è morto ma in realtà niente è morto» afferma sinteticamente l’artista. «Nella musica non esiste un inizio ed una fine, la gente continua ad andare a ballare (pandemia permettendo) e lo farà anche in futuro. La musica è una magia infinita» conclude. (Giosuè Impellizzeri)

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