Discommenti (aprile 2024)

Legowelt - The Sad Life Of An Instagram DJ

Legowelt – The Sad Life Of An Instagram DJ (Selvamancer)
Titolo decisamente sarcastico e pungente per questo nuovo EP che Danny Wolfers firma col suo moniker più noto e con cui anticipa l’arrivo di un LP destinato alla statunitense L.I.E.S. Records di Ron Morelli. L’eroe olandese imprime in cinque tracce tutta la sua verve creativa flirtando con l’electro e la techno, lanciando prima rasoiate filo acide in “Alpha Juno Storm Watch” e “Soundblaster Pro Tripper” per poi immergersi in spettrali acque lacustri popolate da qualche mitologica creatura sottomarina sopravvissuta alle ere geologiche (“Kawai K4 Acid Spring”) e saltellare al ritmo di pattern a metà strada tra il jack di Chicago e la raw techno scarnificata degli Unit Moebius (“No One Wants To Buy My NFT”). Chiude la title track, dove traiettorie melodiche dal retrogusto cinematografico sposano flessuosi incastri ritmici. A pubblicare il 12″ è l’iberica Selvamancer, che proprio di recente ha messo in circolazione uno stuzzicante EP di Gesloten Cirkel.

Terror - Data Surfer EP

T/Error – Data Surfer EP (New Interplanetary Melodies/Kuro Jam Recordings)
A distanza di qualche anno dal progetto “Kimera Mendax” di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui, New Interplanetary Melodies e Kuro Jam Recordings tornano in partnership per sviluppare una nuova ed emozionante sound experience. Questa volta il fumetto, la cui uscita è attesa per il prossimo autunno, s’intitola “Data Surfer”, proprio come l’EP che lo preannuncia nel migliore dei modi possibili. La musica di T/Error paga il tributo alla più viscerale tradizione electro/techno di Detroit, con continui rimandi e omaggi al suono abrasivo e fiammeggiante di Drexciya e Underground Resistance, un sound che, nonostante abbia sulle spalle oltre trent’anni, continua a fornire il mood giusto per immaginare il mondo del futuro diventando alfiere della longevità, contrapposta alla caducità della maggior parte delle produzioni contemporanee. Di questo disco, arricchito dall’inserto illustrato di Mattia De Iulis e dalle grafiche di Enrico Carnevale e nei negozi dallo scorso 4 aprile, si possono spendere solo parole di elogio. Tracce come “Data Surfer” e “Last Brute In The Firmament” rappresentano la soundtrack perfetta per sogni e utopie/distopie sci-fi, sganciate dai rassicuranti elementi da song structure, segnate da geometrismi ritmici e immerse in severe soluzioni armoniche. Spazio anche a varchi IDM (“Redundant Flux Form”) e galleggiamenti spaziali (“Minimum Lenght”), finalizzati ad allargare ulteriormente l’atto compositivo. Riservati al formato digitale sono ulteriori tre pezzi, “Shadows”, “From The Deep” e “Space Time Coordinates” con cui l’artista capitolino s’imbarca su rotte interspaziali, forse immaginando di trovarsi a bordo di una navicella in cerca di nuovi pianeti alternativi alla Terra su cui poter vivere. Alla fine sarà necessario tirare un sospiro per allentare la tensione accumulata.

Modula Feat Gino Saccio - Che È Stato

Modula Feat. Gino Saccio – Che È Stato? (Archeo Recordings)
Filippo Colonna Romano alias Modula è una new entry per l’etichetta fiorentina Archeo Recordings guidata da Manu Archeo (intervistato qui), che nell’ultimo decennio si è meritatamente ritagliata spazio grazie a un’incessante attività di recupero e valorizzazione di musiche oscure o dimenticate con una particolare predilezione nei confronti del sound balearico. Per l’occasione il musicista napoletano si lancia in un’ardita reinterpretazione di “Who Dunnit?” di Gino Soccio ironicamente ribattezzato Gino Saccio in copertina (era il pezzo che apriva il lato b dell’album “Face To Face” del 1982): mantenendo l’impronta funk disco, l’autore ne ricalibra la dinamica e ricostruisce le tessiture grazie all’apporto del chitarrista Daniele Sarpa, del bassista Mirko Grande e del batterista Pellegrino Snichelotto, a cui si aggiungono Rosario Esposito e Antonella Mauri che invece si occupano della nuova partitura vocale, in dialetto partenopeo. È sempre Pellegrino Snichelotto a rileggere ulteriormente il tutto attraverso un rework intitolato I Feel Glow, in cui l’impronta balearica assume contorni più delineati. A completamento del 7″, limitato alle 350 copie di cui 50 su vinile colorato, è l’artwork di Maurizio Schirò.

Rodion & Mammarella - Musica E Computer

Rodion & Mammarella – Musica E Computer (Slow Motion)
Un album che parte dalle sollecitazioni della prima computer music e che si sviluppa attraverso riferimenti al mondo delle library e a quello più ballereccio che ammica al Moroder metronomico e macchinico: si può sintetizzare così il contenuto di questo LP realizzato sull’asse creativo di Rodion e Fabrizio Mammarella e registrato presso il Museo del Synth Marchigiano. Suoni e ritmi provengono da strumenti come Crumar DS-2, Elka Synthex, Davoli Davolisint, Viscount R64, Eko Ritmo 20 ed Elka Drumstar 80, tutti cimeli che gli appassionati (quelli veri) conoscono più che bene e per i quali sarebbero disposti a fare anche qualche follia economica. Sono proprio queste macchine a ridurre la distanza tra passato e presente in un brillante percorso che trabocca di vitalità attraverso pastosi disegni di basso arpeggiati, vocoderizzazioni vocali e palpitanti griglie di batteria.

Max Skiba & Snax - Pushing My Button

Max Skiba & Snax – Pushing My Button (Skylax Records)
È davvero un piacere ritrovare in attività Maximilian Skiba, talento di cui si erano perse le tracce da un po’ di anni. Per l’occasione il polacco ricompatta la sinergia con Snax, con cui aveva già duettato nel 2010 per “One To Pray”, e riormeggia sull’etichetta francese di Hardrock Striker che pubblicò un suo EP nel 2009, inspiegabilmente passato quasi inosservato nonostante prodotto in modo eccelso. “Pushing My Button” riparte proprio da quelle atmosfere, affondando le radici in un’elegante disco funky house che, così come recitano le note promozionali, traccia magistrali parallelismi con classici senza tempo come “Kiss Me Again” dei Dinosaur o “Is It All Over My Face?” dei Loose Joints, e rende omaggio al passato iniettandoci dentro, con sapienza, un appeal moderno. Skiba, insomma, non si limita a scopiazzare o ritagliare l’ennesimo dei sample per parodiare l’osannato ieri ma cerca di lanciare un ponte tra epoche lontane facendo leva sulle proprie doti da musicista prendendo le debite distanze dai banali assemblatori di loop che affollano i tempi che viviamo. A “Pushing My Button” e “In Motion” si sommano i remix: a mettere le mani sul primo è Apollon Telefax che traghetta tutto verso sponde italo disco giocando con un forte richiamo a “Hold Me Back” di WestBam; al secondo invece ci pensa Maltitz che opta per un saliscendi balearico dai riflessi aciduli.

JP Energy - Strano EP

JP Energy – Strano EP (Sound Migration)
A pochi mesi dalla ristampa del “Mathama EP” (si legga Discommenti di settembre 2023), riaffiora un altro vecchio disco del repertorio di Gianpiero Pacetti alias JP Energy, originariamente pubblicato nel 1993 su Progressive Music Production. Lo “Strano EP”, allora realizzato con la produzione esecutiva di Francesco Zappalà e l’apporto del musicista Stefano Lanzini, ha retto magnificamente l’incedere dei decenni e si ripresenta col medesimo bagaglio sognante di influenze oniriche che pagano l’ispirazione all’elettronica pre house/techno, specialmente quella cinematografica di Vangelis, Tangerine Dream ma soprattutto Jean-Michel Jarre, artista che folgorò Pacetti nell’infanzia come lui stesso racconta in questa intervista. Melodie epiche dunque si rincorrono in “Down To The Moon”, arpeggi celestiali e struggenti scalano gli appigli ritmici di “Dolphin Dance”, “Alvorada” accosta percussioni batucada a ipnotici arabeschi, “Les Architectes Du Temps” chiude come tutto è iniziato, con una scia melliflua che accarezza l’anima di chi ascolta: «ai tempi la composi immaginando un gruppo di gnomi che al mattino se ne andavano a lavorare nella foresta coi loro attrezzi sulle spalle» ricorda l’autore. A integrare questa reissue, oggetto di una rimasterizzazione ad hoc, è il remix che E-Talking ha realizzato di “Alvorada”, puntando a un’elaborazione ritmica più marcata. Un EP che, in barba all’intelligenza artificiale e alle diavolerie tecnologiche dell’ultim’ora, dimostra come al di là dei suoni ci voglia anche il cuore per comporre certa musica.

Punx Soundcheck Feat. Boy George - Be Electric (The Remixes)

Punx Soundcheck Feat. Boy George – Be Electric (The Remixes) (Icon Series)
Dalle viscere dei ricordi dell’electroclash d’oltremanica, riecco in azione i Punx Soundcheck con la loro proverbiale energia. Estratto dall’album “Punx In 3D” uscito lo scorso autunno e scandito da chiari echi hi nrg di derivazione orlandiana, “Be Electric” si ripresenta ora in versione singolo con l’aggiunta di vari remix ognuno dei quali con una precisa identità. Si passa dall’electro pop di Roland Sebastian Faber, che ha preso il posto di Arif Salih nella lineup del progetto, alle strutture technoidi di The Model, dai lapilli lavici di Mick Wills agli irrigidimenti monolitici di Ascii Disko passando per le movenze vellutate dei nostri Hard Ton e gli spezzettamenti breaks frammisti a elementi ragga di Greg May. In circolazione finirà sia il 12″ che il CD, limitato ad appena 100 copie.

Francesco Passantino & Friends - Venticinque EP

Francesco Passantino & Friends – Venticinque EP (Tractorecords)
In occasione del venticinquennale di attività discografica, Francesco Passantino riporta in vita il marchio Tractorecords, ibernato dal 2016. Nell’EP il DJ spezzino, ma da molti anni di stanza a Berlino, fa confluire le diverse sfaccettature che hanno colorito la sua carriera da produttore nell’ultimo quarto di secolo partendo da “Vision”, una nuvola di soffici pad su cui si posano uno scheletro ritmico e voci fuori campo, in apparenza captate da qualche radio lasciata distrattamente accesa. Registrata live al Club Der Visionaere la scorsa estate insieme a Daniele Ricca e Francesco Monaco con cui Passantino forma i Resilience Groove, la traccia è incapsulata nel minimalismo più rarefatto misto a bolle dub. Con “Undici” però la tavolozza dei suoni cambia e insieme a essa anche il registro ritmico, a vantaggio di una combinazione che rimanda ai tempi dorati della progressive trance, con una serpentina di bassline che ondeggia nervosa e pilota la sezione di batteria con qualche occhiata all’Emmanuel Top del periodo Attack. “Mahatma Groove” ripesca a piene mani proprio da quell’immaginario, con riccioli filo acid e onde trancey che si infrangono sulla parete ritmica. Spazio infine a un pezzo che arriva dal 1999, contenuto nel primo volume di “Electribe EP” su Subway Records che Passantino firmò con l’amico Davide Calì (intervistato qui) e che negli ultimi anni è diventato un piccolo cimelio per i collezionisti. Trattasi di “Ascolta”, in cui matrici kraftwerkiane in stile “It’s More Fun To Compute” si uniscono a grandi arcate trance svolazzanti. La tiratura del 12″ sarà limitata alle 150 copie.

Maxx Klaxon - Nothing Can Tear Us Apart

Maxx Klaxon – Nothing Can Tear Us Apart (Self released)
Per Maxx Klaxon vale un po’ il discorso fatto qualche riga sopra per i Punx Soundcheck. Il musicista electropop newyorkese fece capolino nella scena durante la fase finale del boom electroclash ma poi dileguandosi e facendo perdere le proprie tracce. Ora rieccolo, a un triennio da “From The Air”, con un EP in vendita su Bandcamp che riparte proprio dai suoni che tra 2003 e 2004 spopolarono in Europa mettendo d’accordo sia giovani che nostalgici. “Nothing Can Tear Us Apart” intreccia new wave, synth pop e blippeggianti echi electro, rispettando i canoni della song structure. A mettere il pezzo su binari ritmici più marcati è Daniel Cousins alias Albatross Heights nel suo Duct Tape Remix mentre Chris Ianuzzi, nell’Exploidoid Remix, sporca i vocal col distorsore e costruisce un castello di dissonanze glitch dal retrogusto psichedelico. La chiusura è dettata da “Freedom Tape”, composizione strumentale trascinata da un lacrimoso arpeggio poggiato su un soffice cuscino di pad malinconici. Se fosse uscito a inizio millennio, sarebbe stato perfetto per un’etichetta tipo l’International DeeJay Gigolo.

Michele Mininni - Pop Archetypes

Michele Mininni – Pop Archetypes (Hell Yeah Recordings)
Ben lontano dalle logorree produttive di certi artisti, Michele Mininni è stato sempre parsimonioso sul fronte produzioni, puntando piuttosto al “poco ma buono”. Colto ma non disposto a prendersi mai troppo sul serio, al compositore pugliese si riconosce l’imprevedibilità sotto il profilo creativo e la capacità di non farsi intrappolare e imprigionare nei cliché, e forse è stata proprio questa propensione a condizionare, in qualche modo, la quantità del suo repertorio. Assente dal panorama discografico da diversi anni (fatta eccezione per la fugace comparsata della scorsa estate su Dischi Spranti, di cui abbiamo parlato in Discommenti di luglio 2023), Mininni ora rompe il silenzio e lo fa con un album, il primo della carriera, destinato alla Hell Yeah Recordings di Marco Gallerani e figlio di una moltitudine di ascolti eterogenei. Tra accelerazioni, divagazioni, dilatazioni, sfasamenti ritmici e ribaltamenti armonici sottesi a una minuziosa cesellatura di ogni singolo suono, “Pop Archetypes”, ulteriormente impreziosito dalla copertina di Sandro Leucci che occhieggia ai décollage di Mimmo Rotella, è un manifesto multicolore e multietnico in cui passa in rassegna una gamma assai vasta di riferimenti che rendono complesso l’incasellamento in un genere preciso. Più semplice, piuttosto, stabilire la non appartenenza al pop a dispetto del titolo, forse scelto provocatoriamente per creare un’antitesi coi contenuti. «Non è stato facile trovare il titolo, seppur intitolare i brani sia una delle cose che mi piace di più del fare musica, perché rappresenta la sintesi massima fra i due linguaggi» spiega Mininni, contattato per l’occasione. «La sfida si presentava ancora più ardua visto che era la prima volta che davo il titolo a un album e quindi ho ceduto all’ironia, anche per prendere le distanze dalla serietà e dalla mia vita, cosa che mi è sempre riuscita abbastanza bene. In realtà cercavo qualcosa che avesse più angoli di interpretazione e che racchiudesse tutte le sfaccettature del disco e le mie influenze di “popular music”. Poi mi hanno sempre “rimproverato” di fare musica per pochi, quindi ecco servito un bel disco “pop” riconoscibile come un camaleonte».

“Pop Archetypes” prende dunque di mira gli archetipi del pop e li fa a pezzi, canzonando gli esiti pronosticabili della maggior parte della musica attualmente in circolazione, quella prodotta in quattro e quattr’otto e altrettanto celermente dimenticata perché sostituita da altra che arriva subito dopo come banale scatolame in una catena di montaggio. Per mettere in circolazione un LP come questo, oggi, del resto serve anche un po’ di coraggio. «Sinora avevo pubblicato solo EP e mai avrei pensato di incidere un album in vita mia» prosegue l’autore. «Dai tempi di “Rave Oscillations” su R&S, nel 2017, nelle recensioni si parlava di attesa dell’esordio su lunga distanza e mi veniva da sorridere, perché preso dalle cose della vita, dal mio lavoro e anche, lo ammetto, dalla mia inesorabile pigrizia, mi sembrava pura utopia. Negli ultimi anni, diciamo dalla pandemia, mi ero allontanato dalla musica e avevo finito di ascoltare ossessivamente le ultime uscite. Insomma, mi sono preso una lunghissima pausa depurativa ma non me lo sono imposto, è andata semplicemente così. Poi lo scorso anno ho riaperto per gioco il sequencer, cosa che non accadeva dal 2018, per creare la colonna sonora di un video promozionale di quindici secondi su YouTube. È nato tutto così. Da lì è come se le cose, piano piano, fossero venute a me. Da quel momento è partita la sfida verso me stesso. Lo dico sinceramente: dietro quel sorriso davanti alla richiesta di un LP si celava anche amarezza, perché è una cosa che sotto sotto mi faceva sentire incompleto. Era come dire “sì ok, cinque EP, ma…”. In me c’era un tarlo latente che diceva “ne sarò capace?” Quell’episodio ha innescato tutto, ed eccoci qui».

A caratterizzare in modo preponderante “Pop Archetypes” è anche il timing limitato della maggior parte dei pezzi che lo compongono, una sorta di sintesi massimale con cui Mininni conduce l’ascoltatore in una dimensione ermetica fatta di interludi o pseudo tali che fungono da collettori di emozioni. «Non c’è una ragione precisa dietro tale scelta, non me lo sono imposto» spiega l’autore, chiarendo come lo sviluppo di un progetto simile richiedesse una struttura estremamente variegata ma allo stesso tempo sintetica perché il rischio della prolissità era altissimo. «Il risultato è un percorso degustazione che alla fine del pasto deve lasciarti sazio ma non al punto di esplodere, in modo che dopo qualche tempo, si spera il prima possibile, in quel ristorante ci torni ovvero riascolti il disco». Nella scansione narrativa regna l’imprevedibilità: si provi, ad esempio, a mettere su prima “Vertigo” e poi “Bangkok Tempo” per provare quell’ebrezza che emerge dalle produzioni che escono dalla monodimensionalità. Ci sono passaggi in cui si fatica davvero a scorgere punti di connessione col passato produttivo mininniano, si senta “Urban Voodoo”, tra le più lunghe della playlist, con cui si innescano cinque minuti di adrenalina muscolare, o “The Magic Of Synesthesia”, dove le irregolarità ritmiche cullano melodie barcollanti in salsa psichedelica, o ancora “Wet Market”, un cut-up tra voci, scratch e pulsazioni breakbeat, “Golden Room”, una fuga in direzioni lounge, “Kundalini” e “Congoflash” immerse in nuance chiaroscurali da cui si propaga una forma mutante di world music. «Prima ancora d’iniziare sono partito da un concetto chiarissimo: non volevo che l’LP fosse la somma dei miei precedenti EP e non desideravo risultasse rassicurante altrimenti non avrei intrapreso il percorso perché mi sarei annoiato» mette in chiaro Mininni. «L’ipotesi di una rottura col passato mi ha fornito il giusto entusiasmo per stressarmi perché per me fare musica è incredibilmente stressante. L’idea era quindi di creare tasselli di un puzzle che fossero riconducibili alla forma canzone e che bastassero pur nella loro brevità. È stato uno sforzo di sintesi e sottrazione, anche negli arrangiamenti. A differenza di alcune mie cose del passato, ho dovuto togliere e non aggiungere. Ho misurato gli ingredienti con estrema attenzione, dietro c’è un lavoro di centinaia di ascolti volto a trovare la perfezione formale alla quale ambivo nella mia testa, sia nei singoli brani che nel loro stare bene assieme. Ho perso il conto di quante volte ho ascoltato il disco per scegliere la scaletta definitiva. Ho scartato anche dei pezzi, cosa per me incredibile, vista la mia storica stitichezza produttiva. Invece d’improvviso, addirittura abbondanza».

In “Pop Archetypes”, complesso organismo composito, si toccano sponde IDM, broken beat e drum n bass, poi si vira verso una world music impazzita, astrattismi e tropicalismi balearici con pochi spiragli però sulla dance music in senso stretto. Forse una precisa scelta per prendere le distanze da una scena che ormai appare creativamente depotenziata e narcotizzata? «Tutto ciò che è racchiuso nel disco non parte da analisi o metabolizzazioni dello scenario attuale, è semplicemente una conseguenza» afferma ancora l’autore. «Credo che il concetto di “conseguenza” sia stato dimenticato e che purtroppo sia proprio alla base dell’appiattimento dello scenario attuale. Quando si decide a tavolino che si vuol far ballare, ad esempio, si scelgono strumenti adatti, trick, strutture e suoni specifici. Insomma, dal semplice foglio bianco si passa a canalizzare in modo rigoroso e scientifico tutto il processo sulla base di regole già scritte, riducendo molto spesso il risultato a mero prodotto con finalità esclusivamente pratiche. Tradotto: mi serve un pezzo per far ballare, così come mi serve una pinza per svitare quel dado. Ecco, per me quella è la morte della creatività. La conseguenza è quella cosa che si esplica partendo da un presupposto di libertà e rivendicazione della propria unicità e che dà un risultato magari imprevedibile. Per la serie “questo sono io, poi si può anche ballare”. Magari ottieni una bomba dancefloor, ma lo è perché non sei partito da un presupposto finalistico ed esclusivamente pratico. È quello che sta accadendo alle canzoni di Sanremo: soprattutto nell’era dello streaming e di TikTok, assistiamo alla ricerca ossessiva del tormentone che condiziona le strutture dei brani fino a renderli tutti abbastanza simili. Chi ha ascoltato un po’ di musica in vita sua, riconosce in quei “mind games” musicali il perfido tentativo di creare dipendenza e viralità in funzione dei nuovi mezzi di comunicazione. Tentativo legittimo, perché l’esposizione porta monetizzazione, ma che riduce la musica a una grande lotteria dell’attenzione, in cui a vincere sono sempre meno attori».

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (novembre 2023)

Andy Romano - Monday

Andy Romano – Monday (Bordello A Parigi)
Andy Romano si fece notare tra 2008 e 2010 con una serie di produzioni di taglio italo disco, tutte finite nei cataloghi di etichette estere. MySpace stava per cedere il passo a Facebook e il movimento che gravitava intorno al revivalismo dance degli anni Ottanta era ancora perlopiù relegato a piccole case discografiche indipendenti guidate da collezionisti incalliti desiderosi di ridare linfa vitale alle musiche che contraddistinsero la loro giovinezza. Poi, improvvisamente, di Romano si perdono le tracce e di lui non si è saputo più nulla. L’ennesima delle meteore insomma, ma rimpianta perché in studio ci sapeva fare davvero. Alla musica l’artista preferisce il lavoro di character designer nel settore dei videogiochi, del cinema e dell’editoria. A distanza di tredici anni dall’ultima apparizione però il nome del capitolino rispunta fuori, forse istigato dalla recente ristampa di “Every Time Feel Allright” su Cold Blow, con un EP destinato all’olandese Bordello A Parigi che sembra provenire da un vecchia bobina incisa nel biennio 1982-1983. “Monday” incrocia il tiro hi nrg di Bobby Orlando a tradizionali ouverture melodiche italo, e “Cyber Black Spaceship” ne segue la scia evidenziandone il lato cosmico. “Loredane” infine si cala del tutto nel classico stilema italo attraverso una canzoncina d’amore cantata (intenzionalmente) in un inglese stentato e immersa in zuccherose melodie: a venirne fuori è una specie di “Galactic Reaction” dei Milkways sovrapposta alla giocosità di “Amoureux Solitaires” di Lio con l’aggiunta di una spruzzata del romanticismo di Savage e Felli.

Robotron, The Egyptian Lover -Pornographix

Robotron Feat. The Egyptian Lover – Pornographix (Skynet Cybersonix)
Adalbert Kupietz torna a vestire i panni di Robotron e per l’occasione vanta al suo fianco un partner d’eccezione, il mitologico Egyptian Lover, con cui realizza il terzo episodio su Skynet Cybersonix. “Pornographix” nasce come riadattamento di un vecchio brano intitolato “Pornographics” che lo stesso Kupietz firma in solitaria come Interfunk nel 2009. La V1.0, sul lato a, intreccia schemi robotici dalle tinte fredde che accentuano l’atmosfera cupa a classiche ansimate e vocal dell’artista losangelino innamorato della Terra dei faraoni, la V2.0, sul b, avanza su una velocità di crociera più sostenuta, con geometrismi ritmici controbilanciati da effettistica spaziale e contrappunti melodici che omaggiano il remix che Heinrich Mueller realizza nel 2001 per “What Use” dei Tuxedomoon su International Deejay Gigolo Records. Come di consueto per Skynet Cybersonix, sono appena duecento gli esemplari, numerati a mano con annesso un cartoncino illustrato. Una parte della tiratura è stampata su vinile di colore argento marmorizzato ma solo cinquanta copie annoverano un ulteriore bonus diventato già ambito dai collezionisti, un poster.

Break 3000 - Emolotion EP

Break 3000 – Emolotion EP (Mondo Phase Rec.)
Così come avvenuto per Christian Gleinser (si veda Discommenti di settembre 2023), anche l’olandese Peter Gijselaers finisce nelle maglie della retromania. Il suo progetto Break 3000, partito in sordina nel 1999, si ritaglia spazio durante il boom dell’electroclash. Per Gijselaers, tuttavia, risulta decisiva la partnership con Felix B Eder con cui dà avvio ai Dirt Crew, cavalcando la moda della minimal house e in tal senso “808 Lazerbeam” resta un piccolo classico degli anni in cui i DJ iniziano a mixare senza cuffia con il laptop al posto dei giradischi. L’esperienza come Break 3000 finisce inevitabilmente nel dimenticatoio, arenandosi in mezzo alla giungla di produzioni che a inizio millennio giocano a riavvolgere il nastro, flirtando coi suoni new wave, synth pop e italo disco. Adesso però è tempo di riscoperta e al recente “The Rise Of Poseidon I” sull’argentina Calypso’s Dream segue questo EP che ripesca quattro brani del repertorio dell’artista nativo dei Paesi Bassi. Investire su musica vecchia, del resto, pare essere la grande vocazione dell’industria discografica contemporanea. «Sono due le ragioni che mi hanno spinto a credere in pezzi già editi» spiega Matteo Pepe alias Uabos, fondatore della neonata Mondo Phase Rec.: «la prima è strettamente personale, perché quello di Break 3000 è un disco che amo da sempre, fisso nelle mie prime serate da DJ e che mi distingueva a quel tempo visto che nel 2003 la scena milanese offriva raramente musica di questo genere. Mi sono sentito subito rappresentato da quei suoni, semplici, d’impatto, graffianti, con un’inclinazione punk che sposava l’electroclash oltre a reminiscenze italo disco; la seconda ragione è rappresentata dal fatto che questo tipo di suono risulta essere quanto mai attuale: i DJ più giovani amano cose simili e i produttori ne prendono spunto. Ho provato a cercare nuovi artisti disposti a produrre electroclash ma, nonostante ci siano tantissime cose valide in circolazione, mi pare che l’attitudine con cui vengano prodotte non sia proprio la stessa. Per far partire la mia etichetta invece avevo bisogno proprio di quel suono e approccio, non volevo lasciare spazio a diverse interpretazioni. Con la stampa di “Emolotion EP” quindi ritengo di aver lanciato un messaggio chiaro e preciso».

“Emolotion” è tratta da un various edito su Meuse Muzique Records nell’autunno 2003, “Plastique People” e “C’Mon Girl” provengono da “The Electronic Kingdom EP” mentre “Follow” è un inedito, prodotto ai tempi ma mai dato alle stampe. Anello di congiunzione di tutte è un suono meccanico retrò segnato da curvature melodiche un filo ingenue e voci robotiche. L’ispirazione paga il tributo ad artisti come David Carretta, The Hacker e l’Anthony Rother che, proprio in quel momento storico, riesce a rendere più accessibile la sua musica attraverso le pubblicazioni su Datapunk partite con “Back Home”. Al momento le reazioni del mercato paiono più che buone: «ho stampato 350 copie e il disco è quasi sold out» spiega Pepe. «Non credo però di far uscire la versione digitale dei brani (operazione già portata a termine da Gijselaers il 15 marzo 2023 attraverso Bandcamp , nda) ma non escludo che possa essere una possibilità da applicare alle prossime pubblicazioni. Nonostante i pezzi suonassero già bene, mi è sembrato logico rinfrescarli ricorrendo al remastering di Emanuel Geller presso il Salz Mastering Studio, a Colonia, con cui Peter lavora di solito. Il suono è assolutamente fedele all’originale, gli ha dato solo una “spintarella” per allinearlo allo standard attuale. Peter è davvero una persona fantastica ed estremante cordiale e gentile, possiede ancora quell’approccio positivo che a volte si perde col tempo. Non confidavo troppo in una suo assenso e invece nell’arco di appena ventiquattro ore mi ha risposto positivamente. Dopo aver chiuso l’accordo, la finalizzazione dell’EP è stata rapida: abbiamo discusso della tracklist ma lui si è sempre rivelato propositivo e ha riposto fiducia in una persona come me, nonostante non avessi maturato altre esperienze in ambito discografico ad eccezione di quelle come artista. Probabilmente l’unico dettaglio che ci ha impegnati di più è stato il nome da dare all’EP. Inizialmente non era d’accordo nell’intitolarlo come il suo cavallo di battaglia, “Emolotion”, ma poi ha capito che quella era la scelta giusta per fini commerciali. Attualmente stiamo ragionando su un possibile ritorno dietro la consolle come Break 3000, visto che gran parte della sua carriera è legata al progetto Dirt Crew. A breve pubblicheremo sul canale Soundcloud di Mondo Phase Rec. un suo vecchio mixato riproposto su Radio Raheem che trovo fantastico».

La retromania teorizzata da Simon Reynolds nell’omonimo libro del 2010 sta probabilmente toccando il suo apice: tutto è commemorativo, anche nella musica che un tempo puntava al futuro e non certamente al passato. Credere più in ciò che è stato piuttosto che in ciò che sarà è forse sintomo della perdita di fiducia nel domani? Nella musica dance elettronica, questo procedimento mentale rischia di limitare possibili nuove sollecitazioni artistiche? «Penso che in qualsiasi epoca ci sia stata una rivisitazione del passato, probabilmente ci aiuta a comprendere ciò che è stato prima e ci sprona nella ricerca del nuovo rispetto a qualsiasi ambito culturale» risponde Pepe in merito. «È anche vero però che viviamo un periodo in cui la società ci spinge a non avere grande fiducia per il futuro, e questo ovviamente si ripercuote in tutti gli ambiti della vita e probabilmente stimola meno a indagare strade non battute invitando, al contrario, a guardare con nostalgia il passato e rimanere stanziati in una zona di comfort. Che venti, trenta o quarant’anni fa ci fossero più stimoli nello sperimentare penso sia indubbio, ma in che tipo di società vivevamo? La paura di Reynolds che questa ossessione per il retrò predomini rispetto alla volontà di ricercare nuove forme penso sia fondata, tuttavia mi sembra di vedere comunque un progresso delle cose e la nostra evoluzione è ovviamente figlia di ciò che c’è stato prima, nel bene e nel male. Evocare e reinterpretare il passato può portare alla creazione di opere uniche, e connettere il presente col passato può aiutare a trovare nuove strade. Insomma, se gestita con equilibrio la retromania può arricchire la cultura contemporanea e rappresentare un ponte positivo e un collante generazionale».

Dopo Break 3000 la Mondo Phase Rec. proseguirà nel solco delle ristampe o scommetterà su qualche nuovo talento? «Ho voglia di battere il ferro finché è caldo» afferma Uabos. «Le prossime tre pubblicazioni sono praticamente pronte ma non svelo i nomi per pura scaramanzia. Colgo l’occasione per invitare a mandare dei demo a mondophase@gmail.com, a patto che siano in linea con la direzione musicale intrapresa. Il nostro è un collettivo che abbraccia varie forme creative. Ho avviato, ad esempio, una collaborazione col fotografo Alessandro Sorci con cui per anni abbiamo creato le immagini dei flyer delle nostre serate, foto che ora sono sulle cartoline all’interno della copertina del disco. Mi piacerebbe stringere più sinergie di questo tipo, correlate a discipline differenti rispetto alla musica, ma al momento è difficile a causa di budget molto bassi. Per ora, quindi, spingerò solo sulla musica. Dopo aver trascorso vent’anni dietro la consolle, ho sentito l’esigenza di dare una mia visione personale al mondo del clubbing contemporaneo, scegliendo la direzione da prendere, da quella musicale alla visiva e grafica. Per me il Mondo Phase richiama connessioni con diverse fasi e aspetti, rispecchia le diversità delle esperienze globali, il cambiamento attraverso il tempo e le fasi di crescita e sviluppo. Ogni fase ha contribuito a definire il mondo in cui viviamo oggi ed esprime concetti legati all’evoluzione e alla mutevolezza».

Livio Improta - Fondamentalismi

Livio Improta – Fondamentalismi (Tiella Sound)
Dopo aver inaugurato il catalogo con Daniele Tomassini alias Vaisa, che frugava negli interstizi ambient/IDM facendo leva su ritmi destrutturati ascritti a tragitti warpiani, la giovane etichetta fondata da Luca ‘Bigote’ Evangelista prosegue il cammino con la musica del DJ Livio Improta. Sono dieci i pezzi, prodotti parecchi anni fa ma rimasti nel cassetto per alcune vicissitudini, con cui l’artista campano arpiona stili complementari e li mescola facendoli palpitare e muovere in varie direzioni per ricavarne qualcosa che assomiglia a un patchwork audio in grado di riservare più di qualche sorpresa. Da tracce erranti tra dolci carezze e ruvide spigolosità (“Posidone”, “80123”, “Intransigenza”), a pulsazioni irregolari intrecciate a spasmi di glitch (“Fondamentalismi”), da vivaci contrasti tra luci e ombre (“Comunicando”, “Alpha”) sino a soluzioni ballabili (“Cuma, “Iblis”, da cui affiora una sorta di acid virata dub in salsa low-fi, “Marechiaro”) per atterrare infine su tessiture noise intrecciate a un metafisico spoken word in italiano (“Omega”). Un LP con cui Improta abbraccia un astrattismo che disorienta l’ascoltatore ed elude il facile incasellamento stilistico a favore di una totale libertà creativa, propensione che oggi purtroppo manca alla stragrande maggioranza di coloro che si dedicano alla composizione di musica elettronica. L’LP uscirà il prossimo 8 dicembre e sarà limitato alle 200 copie.

Bosconi Stallions III

Various – Bosconi Stallions Vol.III (Bosconi Records)
È un itinerario polimorfico quello riservato dal terzo atto della “Bosconi Stallions”, compilation che celebra i quindici anni di attività dell’etichetta fiorentina mettendo insieme dodici pezzi di altrettanti artisti, accomunati dalla nazionalità italiana e dalla propensione a esplorare varie sfaccettature della dance elettronica. All’interno si toccano molteplici lidi stilistici giocati sia sulle sfumature che sui contrasti, rimbalzando dalla techno alla house passando per l’electro, tutto con un piglio ballabile che a conti fatti risulta essere il leitmotiv dell’intera raccolta. Si transita, tra gli altri, dalle spigolosità ritmiche dei Minimono ai ventagli melodici di Feel Fly e Lucretio, dalla sgroppata di Queen Of Coins, che paga il tributo a tanti eroi dell’epopea electroclash con tinte vivaci e brillanti, al lancio nell’iperspazio di Twovi e Data Memory Access. Nota di merito per due colonne statuarie della scena nostrana, Marco Passarani e Alexander Robotnick che, rispettivamente con “Bungy Bungy Bungy” e “It’s So Easy”, annodano house e matrici italo disco con la loro riconosciuta padronanza e consapevolezza. A coronare il tutto è l’artwork di Niro Perrone, in bilico tra realtà e immaginazione, un confine che gli artisti coinvolti nel progetto valicano più volte.

MG Project - Friends

MG Project Feat. Miss Dee – Friends (Three-Bù Records)
Un gradito ritorno sulle scene discografiche quello di Marco Moreggia, tra i primi DJ a portare la house music a Roma a metà degli anni Ottanta come lui stesso racconta qui. Dai tempi del Devotion e de I Ragazzi Terribili è cambiato davvero tutto, mondo compreso, ma l’artista non ha perso la voglia di produrre house per i club, seppur l’attività in studio non sia mai rientrata tra le sue priorità. In questo pezzo prodotto con Stefano Guerra e la newyorkese Miss Dee, al momento disponibile solo in formato digitale, si sente odore di sound britannico, forse per i ghirigori progressive o per le aperture melodiche morbidamente accarezzate dalla luce che un po’ ricordano “Right On!” dei Silicone Soul (Curtis Mayfield docet). A condire il tutto una patina tribaleggiante, fraseggi jazzati di sax e un vocal hook preso da “Never Be Alone” dei Simian, ma meglio noto per la versione dei francesi Justice. Ulteriore rimando al passato è offerto dal nome dell’etichetta stessa, omonima di un progetto di Moreggia che prende vita tra 1991 e 1992 attraverso un paio di fugaci apparizioni sulla Mystic Records. «Ho voluto far rivivere Three-Bù, mantenendo senza variazioni lo storico logo disegnato a mano da Luigi Bonavolontà, perché per me rappresenta un momento molto importante legato a I Ragazzi Terribili» spiega il DJ in un post su Facebook dello scorso 6 novembre. «Three-Bù Records sará un’etichetta aperta a tutti quegli artisti che hanno qualcosa da dire e a quelli che non si adeguano ai soliti cliché. Ci impegneremo a costruire passo dopo passo la nostra storia non identificandoci in un genere preciso e saremo aperti a tutta la musica di qualità che fa ballare ma anche sognare». Annunciato giusto un paio di giorni fa è “Paradise” di Stefano Di Carlo Feat. S. Minnozzi, la cui uscita è attesa per la fine del mese in corso.

Skatebård - Spektral

Skatebård – Spektral (Digitalo Enterprises)
Arriva dalla fredda Norvegia questo album assemblato con una serie di inediti scritti e prodotti tra 2001 e 2005. L’Intro apre le porte del regno degli Asi mandando l’ascoltatore in compagnia di mostri della mitologia nordica ma ciò avviene per appena quaranta secondi perché “Vaskemaskin” trascina immediatamente sulla pista coi suoi turbinii incontrollati madidi di sudore che girano come lame roventi. L’effetto è simile in “Den Anarkistiske Anode”, rivista da DJ Sotofett, un sinuoso serpente di loopismi techno sporcati dal distorsore, e “Seventh”, che riaggancia ipnotismi in stile Maurizio. Con “Bassi” l’artista placa momentaneamente gli impeti più animaleschi adagiandosi su un fondo catramoso fatto di punteggiature housy in stile Chicago della prima ora. Sulle stesse coordinate si colloca “Ei Anna Framtid”, un take beatless di “Future” pubblicata dalla finlandese Keys Of Life nel 2003 che ora diventa un glaciale arabesco ambient techno a cui segue “Strengje”, house mutante scandita dai blip. La chiusura fa nuovamente calare la pressione: “Spektral-Electro” lambisce oscure galassie electroidi mentre in lontananza lampeggiano colori fluo tra nuvole minacciose. Bård Aasen Lødemel continua a toccare con disinvoltura più generi musicali marchiandoli puntualmente con la tipica impronta nordica di atmosfere tristi e riflessive, probabilmente derivata dalla cronica latitanza di sole nella Terra dei vichinghi.

Ma Spaventi & Demuro - La Molecola Del Tempo

Ma Spaventi / Demuro – La Molecola Del Tempo (New Interplanetary Melodies)
“Anno Domini 1987. La Grande Guerra Nucleare è terminata senza vincitori. Enormi nembi giallastri vagano tra i continenti a oscurarne il cielo. Il pianeta è amorfo, il suolo pregno di esalazioni tossiche. La bellezza, bandita dalla realtà, sopravvive solo nei ricordi di pochi scampati. Nessuna megalopoli, nessun parlamento, nessuna famiglia: tutto ciò che l’uomo aveva eretto al centro ora è periferico, sporadico, incerto. La distruzione dello spazio ha dissipato anche il tempo. Dell’uno e dell’altro non restano che frammenti sparsi, destinati a sgretolarsi sotto l’impeto di venti sulfurei e depressioni caustiche. La Società Degli Ultimi Esseri, nelle rare isole di terra fertile, vive stretta intorno all’estrema speranza. Rimangono solo pochi giorni per ingabbiare la molecola del tempo: presto l’ultimo nocciolo di energia sarà spento. L’esperimento finale è appena iniziato: troppo fantasiosi gli esiti per essere previsti, troppo confuse le probabilità per essere calcolate”: si legge così sul retro della copertina di questo avventuroso disco, l’incipit da cui (ri)parte il viaggio di MarcoAntonio Spaventi ed Enrico Demuro, a poco più di un anno di distanza da “The Great Walk”. “La Molecola Del Tempo” è un album intriso di pathos e intensità emotive che viaggiano speditamente da un pezzo all’altro disegnando prima atmosfere accomodanti e benevole, poi scure, con suoni minacciosi che si stagliano su un cielo livido e plumbeo, imperscrutabile, a incorniciare il tramonto della civiltà su scenari di inconsolabile devastazione. Un’immagine distopica, tipica della narrativa fantascientifica e cinematografica d’antan (si veda, ad esempio, la serie “Ora Zero E Dintorni” prodotta in Italia nel 1980) ma via via sempre più temibilmente contemporanea a giudicare dalla situazione attuale in cui versa la Terra. È legittimo pensare che a ispirare gli autori sia stato un evento in particolare, e il fatto che il disco sia stato composto, arrangiato e prodotto tra la fine di agosto 2019 e marzo 2021, abbracciando buona parte del periodo pandemico, avvalora l’ipotesi che il Covid-19 possa avere ricoperto un ruolo centrale nel processo creativo. A fugare i dubbi sono proprio gli artefici, contattati per l’occasione: «Verso la fine del 2019 la mia vita personale ha subito diversi cambiamenti molto importanti che mi hanno portato a lasciare quella comfort zone a cui ero abituato negli anni precedenti» spiega Spaventi. «L’arrivo del Covid-19 subito dopo ha certamente contribuito ad aumentare il senso di insicurezza e di crisi. La musica però, ancora una volta, mi ha dato la possibilità di trovare un momento di riposo mentale, di creatività che alimenta la rinascita. Le ambientazioni e, più in generale, la sonorità del disco, sono frutto proprio di questo particolare equilibrio. La ricerca sonora da una parte, che porta soddisfazione e senso di comfort, il sapore amaro e di disagio del mondo attuale dall’altro». Simile la prospettiva di Demuro: «La lunga parentesi della pandemia, i periodi di “reclusione domestica”, le nuove problematiche e le incertezze hanno influito nella fase creativa della musica e del concept. Nel mio caso a giocare un ruolo sono state anche le letture che ho affrontato in quel periodo. Ritengo ci sia una grande difficoltà a leggere con lucidità il nostro presente storico e costruire il futuro rimediando, in maniera consistente, alle falle del sistema capitalistico neoliberista e alla crisi crescente dei nostri sistemi democratico-liberali. Nel frattempo si sono aperti e riaperti nuovi scenari bellici attorno a noi, quindi mi sembra tutto di grande attualità».

Nonostante ci siano diversi anni a separare il concepimento dalla pubblicazione dell’album, “La Molecola Del Tempo” risulta essere perfettamente contemporaneo, proprio per la persistente fase di difficoltà che il nostro Pianeta si trova ad affrontare. Cambiare qualcosa forse avrebbe potuto dare un valore aggiunto? «Per me è perfetto così» afferma lapidario Spaventi. «Finire un disco è un’impresa colossale proprio perché non si vuole lasciare nulla al caso e si cura tutto nei minimi dettagli per creare un’opera che possa sostenere il passare del tempo». Pure Demuro è contento del risultato finale, «ma mi sarebbe piaciuto aggiungere parti di batteria e di percussioni suonate» dice «per renderlo un po’ meno sintetico/programmato e più suonato insomma. Auspico che questa possa essere la direzione del nostro prossimo disco, capiremo come fare». “La Molecola Del Tempo” garantisce all’ascoltatore un’autentica avventura verso “Nuovi Orizzonti”, per poi spingersi “Nel Vortice Di Una Vertigine” e toccare “Il Punto Di Fusione”, prendendo in prestito alcuni dei titoli in tracklist. Un sogno che diventa un incubo, atmosfere rasserenanti che si trasformano in severe, a tratti ansiogene con un filo di mestizia: davvero nulla si ripete meccanicamente, è un flusso emozionale che prima ti accarezza e poi ti fa gelare il sangue, forse un parallelo alla vita terrena che dà e toglie, purtroppo non sempre in modo bilanciato.

Per raggiungere questo risultato gli autori hanno adoperato una lista lunghissima di strumenti, di vecchia e nuova generazione. «Poco importa che una macchina sia vecchia o nuova se il suono e il prodotto che ne ricavo soddisfano le mie esigenze» afferma Spaventi. «La tecnologia mi affascina da sempre analogamente alla ricerca sonora». A supporto dell’intreccio tra ieri e oggi è anche Dimuro il quale sostiene che «l’interazione tra vintage e nuove tecnologie può aprire a nuove soluzioni sonore. Noi abbiamo privilegiato sintetizzatori di ieri abbinati a sequencer moderni che rendono la produzione più veloce e compressa. Abbiamo bisogno di nuove tecnologie per correggere i nostri errori ma il discrimine è nell’utilizzo, l’etica e le modalità d’impiego. La tecnologia senza etica è rovinosa perché procede eternamente in modo acefalo ma a me onestamente pare ormai troppo tardi per cambiare la sua dinamica evolutiva, e forse non è mai stato possibile farlo». Aver creato l’album in un periodo particolare come quello pandemico, ha per forza di cose inciso sul modus operandi con cui è stato realizzato. «Siamo stati costretti a lavorare per lo più a distanza ma qualche volta, soprattutto nella fase finale, ci siamo incontrati in studio» racconta Spaventi. «Ci si rimbalzava le sessioni fino a quando il materiale non era completo per essere missato. Un aneddoto particolare riguarda “Molecolare”, tra i pezzi più vecchi del disco. La sessione iniziale venne creata da me nel 2019, tra le ultime nel mio studio di allora. Ho sperimentato tantissimo con effetti e missaggio ma il tutto è maturato a dovere solo quando Enrico ha aggiunto le sue particolarissime linee di basso. Per scambiare materiale facevamo spesso ricorso al cosiddetto “bounce” che non consisteva in tutta la sessione ma solo di un file stereo, risultato del missaggio parziale del brano. Su questa base Enrico ha aggiunto, più o meno, tutti i suoi bassi. Quando ho importato le sue takes nella mia sessione originale però, il groove e il modo in cui il basso si appoggiava al ritmo non stavano più su. È un problema comune a chi produce col computer dovuto alla “latenza” del sistema. Sono millisecondi che il computer aggiunge via via per gestire tutto il calcolo del prodotto audio. Niente, il basso di Demo non ne voleva proprio sapere di starci dentro, neanche dopo tentativi di aggiustamenti manuali. Soluzione? Usare il missaggio parziale e sistemarlo in mastering: la fase finale del pezzo è proprio il premix originale che aveva un groove unico. Questo per dire che non importa di come si arriva al risultato, l’importante è che suoni nel modo giusto».

Uno dei pezzi che simboleggiano meglio il messaggio di Spaventi e Demuro è “Cadetti Dello Spazio-Tempo”, accompagnato anche da un videoclip girato tra Castelfiorentino e Marghera nel 2023 da Sabina Ismailova ma altrettanto convincente risulta “Cinematica Terrestre”, destinato a essere la bonus track del formato digitale uscito lo scorso 26 maggio. Con “Elettromagnetica” si alzano venti che spazzano via i nembi giallastri di cui si diceva all’inizio. Ma purtroppo è solo la sensazione suscitata dalla musica, le condizioni in cui versa la Terra continuano a non essere delle migliori e più di qualcuno probabilmente oggi vorrebbe trovarsi altrove. Chiedersi che volto avrà il nostro pianeta tra qualche decina d’anni è più che comprensibile, ma anche domandarsi che fine farà la musica. «Il passato non ha mai regalato epoche in cui tutto era perfetto» sostiene Spaventi. «Si stava meglio all’età della pietra, o quando ci si ammazzava per un tozzo di pane, si moriva di peste o inceneriti al rogo? O, ancora, alla fine dell’Ottocento quando le industrie pompavano fumo nero di carbone senza filtri o quando tutto il mondo era in guerra, meno di cento anni fa? Certo, al giorno d’oggi si potrebbe fare sicuramente meglio, vista la conoscenza accumulata dall’umanità dall’inizio della nostra storia. Tutto sommato però sono contento di vivere negli anni Duemila piuttosto che nel Duecento. Tra dieci anni sarà lo stesso, forse un po’ più caldo, un po’ più arido, un po’ più costoso e con tecnologia AI sempre più invadente. Ma sono certo che la musica sopravviverà insieme ai sintetizzatori vintage, perché ci sono quelli come noi che vivono e si nutrono di cose belle». Di opinione diversa è Dimuro il quale ammette candidamente che gli piacerebbe vivere nel Medioevo, un periodo storico affascinante, o militare tra le fila del Terzo Stato durante la Rivoluzione Francese o ancora scoprire il Nuovo Mondo imbarcato con Amerigo Vespucci: «oggi non ci sono, a livello globale, reali politiche di cambiamento radicali. Forse ci troviamo su una barca che affonda e cerchiamo solo di tapparne le piccole falle» aggiunge. «Ovviamente la Terra sopravvivrà e si trasformerà, magari senza gli esseri umani. Spero che in qualche modo la musica riesca a cavarsela, è la più grande forma di bellezza umana artificiale». Adatto a sonorizzare una pellicola catastrofica o un videogame survivalista, il disco di Spaventi e Demuro, prodotto da Simona Faraone (intervistata qui) sulla sua New Interplanetary Melodies, è la soundtrack calzante per restituire all’ascoltatore l’immagine di una Terra andata quasi tutta in pezzi, a un passo dall’essere inghiottita dal buio e dal silenzio eterno. Probabilmente un mondo perfetto non è mai esistito e mai ci sarà, ma nessuno ci impedisce di sognarlo ancora.

Noamm - Electroporation EP

Noamm – Electroporation EP (Tiger Weeds)
Batte bandiera ellenica questo EP sull’ateniese Tiger Weeds. A firmarlo il talentuoso Noamm, che negli ultimi anni ha dimostrato in molteplici occasioni di essere un abile intagliatore di materie electro. La partenza è diretta e senza fronzoli con la severa e minimalista “Electroporation” seguita da “Science We Trust” ed “Exobiology Radiation Assembly”, entrambe intrise di sequenze cybermeccaniche sovrapposte a brevi porzioni melodiche. La medesima andatura da androide si ritrova in “Electroporation II” e “Tele-Vision” probabilmente le più convincenti del disco, dove l’autore sfodera dal taschino il tesserino di adesione al club dopplereffektiano. Per “Intuition”, infine, pigia il pedale dell’acceleratore e riagguanta stilemi industrial / wave con l’aiuto della magnetica voce di Angelique Noir. Nel complesso è un extended play diligentemente prodotto, seppur non offra particolari guizzi estrosi perché si attiene a un modello creativo largamente battuto nell’ultimo ventennio.

Sonic Transmutations

Various – Sonic Transmutations (Clone Records)
Se la fiorentina Bosconi Records compie quindici anni – si legga qualche riga più sopra -, le candeline che spegne l’olandese Clone Records sono poco più del doppio, trentuno. Per festeggiare l’importante traguardo dunque, l’etichetta-distributore di Serge Verschuur mette sul mercato una compilation decisamente maxi visto che il box set racchiude ben otto dischi per un totale di 33 tracce. All’headquarter di Rotterdam parlano di un cofanetto “che riunisce talenti veterani ed emergenti iconoclasti” e, a leggere la tracklist, è difficile sconfessare tale definizione. Tra i veterani Anthony Rother, Dopplereffekt, Legowelt, Dexter, Detroit In Effect, E.R.P., The Exaltics e Alden Tyrell, tra gli emergenti invece Lenson, Alberta Balsam, Alex Ranzino, Dim Garden, PRZ e l’italiano Kreggo, tutti accomunati da una notevole forza espressiva e uniti nel credo della techno e dell’electro. Un possibile regalo da farsi o da fare, in previsione delle ormai non lontane strenne natalizie.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Nico De Ceglia

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
In realtà sono stati due. Ero solo un bambino ma già affascinato dal mondo della musica. Insieme alla mia migliore amica d’infanzia, decisi di investire la paghetta in due 45 giri, scegliendo tra le hit del periodo. Io optai per l’energia dei Knack con il classico “My Sharona” e “You And Me”, successo pop disco di un gruppo olandese chiamato Spargo, credo l’unico della loro carriera. La mia amica invece scelse “Video Killed The Radio Star” dei Buggles e “I Was Made For Lovin’ You” dei Kiss. Non avevo nemmeno un giradischi quindi usavamo di nascosto quello di suo fratello maggiore quando non era a casa, alzando il volume al massimo e sentendoci adulti e speciali.

L’ultimo invece?
Il nuovo album di Loraine James intitolato “Gentle Confrontation”. È un lavoro molto personale che fonde influenze IDM, glitch, R&B ed elettronica, oltre a intrecciare elementi digitali e acustici.

Quanti dischi conta la tua collezione? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essa?
Il numero di dischi della mia collezione è in continua fluttuazione, purtroppo non dovuto a una costante crescita. Nel corso degli anni ho dovuto separarmi da una considerevole quantità di vinili in più di un’occasione, a causa di traslochi in appartamenti dove non potevo portare con me l’intera raccolta. L’ultimo di questi dolorosi addii risale a tre anni fa, quando ho dovuto prendere la difficile decisione di separarmi da oltre cinquecento titoli tra quelli che avevo lasciato a casa di mia madre, a Roma. Ho spedito una quantità ancora maggiore a Londra ma per motivi logistici e di costi sono stato costretto a scremare quei cinquecento. È un po’ che non conto quelli che ho ancora a casa, molti sono ancora imballati in vari cartoni il che rende la quantificazione più complicata. Credo comunque che oscillino tra i duemila e i tremila. Per quanto riguarda i costi, anche in questo caso è difficile stabilirli in modo preciso. Nella collezione ci sono molti titoli che ho ricevuto come promo nel corso degli anni, sia come DJ che giornalista, e molti altri durante il periodo in cui ho lavorato a BBC Radio 1 con Pete Tong.

Dove è collocata e come è organizzata?
Avevo un sistema di catalogazione basato su generi, artisti ed etichette, ma anche quello ha subito le conseguenze dei vari traslochi e si è disfatto nel tempo. Mi sono ripromesso più volte di iniziare a ricostruire un certo ordine ma continuo a rimandare. Attualmente gli acquisti più recenti e i dischi che utilizzo più spesso quando faccio set in vinile sono sistemati in un’apposita libreria in salone, oltre che in flight case pronti per le serate. Quelli a cui accedo meno frequentemente invece sono sparsi tra un’altra libreria, varie scatole sigillate e diverse borse che conservo con cura in un ripostiglio.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Purtroppo devo ammettere di non essere particolarmente rigoroso su questo aspetto, e i puristi potrebbero storcere il naso a sentirlo. Tuttavia, allo stesso tempo, posso affermare di aver sempre prestato grande attenzione alla cura dei miei dischi, e negli anni ho puntualmente ricevuto apprezzamenti per le loro condizioni impeccabili. Solo alcuni di quelli che avevo lasciato a casa dei miei, in Italia, hanno subito piccoli danni alle copertine a causa delle variazioni eccessive di temperatura nella stanza in cui erano conservati.

Ti hanno mai rubato un disco?
Una volta è successo che alcuni dischi siano scomparsi da casa mia, e il sospetto ricadde su una persona che era stata ospite qualche tempo prima. Tuttavia il danno più grande me lo causò mio padre che, con buone intenzioni ma ingenuamente, concesse l’accesso ai miei dischi che erano conservati a casa sua, al figlio di un amico che stava iniziando a fare il DJ. Considerando la grande quantità di dischi, secondo lui darne via qualcuno non avrebbe fatto molta differenza. Ho scoperto tutto ciò solo molto tempo dopo quando, cercando alcuni titoli che sembravano svaniti nel nulla, me lo rivelarono. Sono riuscito a recuperare solo alcuni di quei dischi ma purtroppo altri, di cui mi sono ricordato negli anni successivi, sono rimasti irrimediabilmente perduti.

Nico De Ceglia e UR
Nico De Ceglia e un disco marchiato Underground Resistance

C’è un disco a cui tieni di più?
Ci sono diversi titoli che hanno un significato davvero speciale per me. Sono una persona che spesso associa oggetti e momenti a preziose memorie. Tra questi, per esempio, gli album che ho comprato con i primi risparmi appena entrato nell’adolescenza occupano un posto particolare nel mio cuore. Parlo di dischi come “Love” dei Cult e “Black Celebration” dei Depeche Mode, che sono intrisi di ricordi di quel periodo. Lo stesso vale per i primi 12″ di house e rap, quando queste scene stavano emergendo, dischi a cui ho dedicato interi pomeriggi ad allenarmi a metterli a tempo e che hanno un posto speciale nel mio cuore. Poi ci sono tanti altri titoli a cui tengo per motivi personali. La lista sarebbe abbastanza lunga.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che regaleresti volentieri?
Negli anni ho acquistato vari dischi di cui mi sono pentito una volta ascoltati a casa o dopo averli suonati in un club. Al contrario, ovviamente, ci sono stati titoli che avevo inizialmente scartato ma che ho rimpianto dopo averli ascoltati in un club. Nel corso del tempo ho fatto una sorta di pulizia degli errori, almeno per la maggior parte di essi. Qui a Londra, i vari Music & Video Exchange che comprano e vendono dischi, si sono sempre dimostrati estremamente utili, già in tempi pre Discogs.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una cifra significativa?
Un titolo che mi è stato alquanto difficile trovare, tanto che alla fine ho dovuto accontentarmi di una copia non ufficiale, è stato quello della colonna sonora del film “Solaris” composta da Cliff Martinez. Fu pubblicata in un numero molto limitato e per anni non ci sono state ristampe o altre edizioni. Un album che invece ho sempre desiderato e per cui sarei disposto a sborsare una cifra importante ma ragionevole, visto che alla fine copie in giro se ne trovano, è il leggendario “The Black Album” di Prince nella sua versione originale, considerando che nel corso degli anni sono state diffuse diverse copie non ufficiali. Poi ci sono alcuni lavori di Moodymann e Aphex Twin, il trittico colorato “Z Record” su Underground Resistance e alcune rare stampe dei Coil e Can, tutti titoli per cui sarei disposto a spendere cifre più alte.

Quello con la copertina più bella?
Ci sono davvero molte copertine che meriterebbero di essere menzionate. Dall’estetica sempre curata di Björk e Pet Shop Boys al minimalismo dei Depeche Mode di “Violator”, dall’impatto industriale dei primi Nine Inch Nails, Front 242, Nitzer Ebb fino a quelle che hanno segnato nuove scene come nel caso dei primi Massive Attack, Nirvana, New Order o Aphex Twin e l’intera produzione della Warp Records in generale. O ancora copertine iconiche come quella di “I Get Wet” di Andrew W.K. o quelle dominate dalla palette rosso, bianco e nero dei White Stripes. Una copertina che mi viene in mente per la sua immagine unica è quella del promo del singolo “Before” dei sopraccitati Pet Shop Boys. Raffigura il primo piano di una parte intima (lascio a voi il piacere di scoprire di quale si tratti) nelle varianti blu, rosa e bianco e nero. Quando uscì era un promo molto ricercato, tanto per la sua audacia quanto per l’esclusività.

Che negozi di dischi frequentavi da ragazzino e adolescente?
Da bambino, quando vivevo a Napoli, ho iniziato a esplorare i negozi di dischi praticamente da subito. Ricordo di aver costretto mia madre a fare una sosta fissa in un negozio che, se la memoria non mi inganna, si chiamava Top Music ed era uno dei punti di riferimento per i dischi nel quartiere Vomero, dove vivevamo. Nel frattempo mi perdevo tra gli scaffali pieni di vinili, affascinato dall’atmosfera e dalle copertine, anche se ovviamente a quell’età non conoscevo né gli artisti né altro. All’epoca, come ho accennato prima, non avevo nemmeno un giradischi a casa, era solo pura attrazione e passione. Quando ci siamo trasferiti vicino Roma, da adolescente, i miei punti di riferimento divennero i negozi storici della Capitale come Disfunzioni Musicali, il paradiso per gli acquisti alternativi e gli import, un vero tempio dove trovavi i titoli più oscuri, e per quanto riguarda la dance, posti come Goody Music di Claudio Donato, che è ancora in attività, ed altri come Re-Mix e Mix Up. Facevo anche ordini per corrispondenza dai pilastri della scena dance italiana, Disco Più di Rimini e Disco Inn di Modena. Ogni singolo negozio di dischi per me era un tempio magico, e anche quello di quartiere meno fornito diventava una tappa obbligata. Il semplice tocco delle pile di vinili e lo sfogliare con le mani tra i vari titoli mi trasportavano in una dimensione unica. Quando poi ho iniziato a frequentare i negozi specializzati in musica dance, si è aperta un’ulteriore dimensione. Trovarmi tra persone appassionate come me per questo nuovo e unico fenomeno, che il mondo esterno non aveva ancora scoperto e guardava con leggerezza e sospetto, fu un’esperienza straordinaria. Ci sentivamo unici, speciali. Sapere che in certi giorni e orari specifici dovevi visitare un negozio per beccare quelle rare chicche che arrivavano in pochissime copie prima dell’uscita ufficiale, ascoltare i consigli di chi lavorava nel negozio e conosceva i tuoi gusti. trovare una postazione libera, mettere su le cuffie, posare la puntina sul vinile e lasciarsi trasportare dalla musica… non saprei davvero dove fermarmi nel descrivere l’unicità e l’immensa magia di quegli anni.

Cosa ricordi relativamente all’avvento della house e della techno in Italia? Era complesso approvvigionarsi di nuovi titoli? Che “filtro” usavi per orientarti nel mare magnum di pubblicazioni settimanali? Seguivi, ad esempio, programmi radiofonici specializzati, leggevi riviste o ti affidavi semplicemente ai suggerimenti dei negozianti stessi?
Magia. Furono anni di pura magia e scoperta. La house e la techno, così come il rap, hanno rappresentato su vari aspetti le ultime grandi rivoluzioni musicali. Da allora non ci sono stati generi altrettanto rivoluzionari ma solo derivazioni e surrogati. Posso considerarmi incredibilmente fortunato ad aver vissuto in quel periodo. I miei primi approcci a questo movimento erano legati a programmi radio, sia nazionali che locali, che andavano in onda principalmente nei fine settimana e durante la notte, ma anche nel pomeriggio dopo la scuola. Da Italia Network ai mixati di Dimensione Suono, dal DeeJay Time ai programmi pomeridiani di Centro Suono che era un punto di riferimento per noi di Roma e dintorni, passando per gli eccezionali anni di Planet Rock e Suoni e Ultrasuoni: ero un avido ascoltatore di tutti questi programmi. Li registravo diligentemente su varie cassette e poi li editavo sulla doppia piastra, creando una forma primordiale di remix e di edit. Le riviste specializzate che arrivarono poi rappresentarono un’altra preziosa risorsa. Dalle inglesi Mixmag e DJ, quando riuscivo a recuperare delle copie, alle italiane come Discotec, Rumore e DiscoiD, ogni opportunità di scoprire e leggere su nuovi artisti, club e dischi non veniva mai persa. C’erano nomi di cui mi fidavo e che seguivo più ciecamente di altri. Tutto il team serale di Radio 2, quello legato a Planet Rock e ai successivi show, era ovviamente una garanzia, esperti unici nei vari generi, e DJ nostrani come Massimino, Ralf, Claudio Coccoluto e Luca Colombo, solo per citarne alcuni, erano delle vere guide di cui leggevo ogni classifica e recensione. Ricordo che Massimino e Claudio Coccoluto, per esempio, mi fecero scoprire alcuni di quei dischi house che sono rimasti tra i miei preferiti di sempre, come “Tonite” dei Those Guys. Non era poi così difficile trovare copie in giro una volta che arrivavano le versioni importate o venivano licenziati da etichette italiane, la vera sfida era accaparrarsi i leggendari promo.

Stop The Racism (16 febbraio 1991)
Il flyer di “Stop The Racism!”, il rave che si tiene a febbraio del 1991 e che segna la prima apparizione live in Italia di Adamski

Negli anni Novanta la scena della musica dance cambia nel profondo, sia nel comparto discografico che sotto il profilo organizzativo nei locali. A Roma prende piede un format importato dal Regno Unito, quello dei rave. Come hai dichiarato pubblicamente qualche tempo fa, il primo a cui partecipi è “Stop The Racism!”, svoltosi il 16 febbraio 1991 a Monterotondo. Cosa ricordi di quell’evento?
Sono trascorsi più di trent’anni ma come potrei dimenticarlo? Forse non ne ricordo tutti i dettagli ma indelebili sono l’emozione, l’eccitazione e l’energia di essere lì, di vedere esibirsi dal vivo artisti come Adamski e Digital Boy, di cui avevo sempre sentito parlare e visto nei video, e poi sentire le prime note di “Killer” (di cui parliamo qui, nda) e urlare all’unisono col resto della folla entrando in una sorta di trance. Erano tutte esperienze nuove non solo per noi, ma per la maggior parte delle persone presenti. Sentirsi parte di qualcosa di così grande, capire che fosse la nascita di un movimento ed essere al corrente che la maggioranza dei tuoi coetanei nemmeno sapeva dell’esistenza di tutto ciò è stato incredibile. Vissi quell’esperienza insieme al mio migliore amico, appena patentato come me. Prendemmo la macchina di suo padre e ci avventurammo verso il luogo del rave, che distava un bel po’ dalla zona in cui abitavamo. La mattina dopo, quando era ora di tornare a casa, ci perdemmo irrimediabilmente nelle strade della provincia romana. Non esistevano strumenti come Google Maps o navigatori e nemmeno telefoni cellulari per avvisare casa. Dopo ore di guida senza meta, chiamammo da una cabina telefonica trovando i nostri genitori estremamente preoccupati che si erano già contattati diverse volte cercando di capire cosa fare. Loro non sapevano nemmeno dove fossimo andati e anche se glielo avessimo detto, non avrebbero capito. Facile immaginare la situazione. Qualche anno dopo, con altri amici, abbiamo guidato fino a Monaco e ritorno per un Tribal Gathering nell’ex aeroporto. In quel caso i genitori non furono nemmeno informati del viaggio. I tempi erano profondamente diversi da oggi e le avventure irresponsabili costituivano una parte integrante dell’esperienza stessa.

DMM luglio 1995
Un articolo apparso sulla rivista DMM – Dance Music Magazine a luglio 1995 dedicato a Frankie Knuckles e Franco Moiraghi. A firmarlo sono Nico De Ceglia e Marco Malinverno

Nel ’92 inizi a scrivere di musica per la rivista DMM – Dance Music Magazine diretta da Carlo De Blasio. Come organizzavi il lavoro editoriale in epoca pre internettiana?
Fu la mia prima esperienza come giornalista. Era una storia completamente nuova per me, ma così come avevo fatto con la mia prima trasmissione radiofonica qualche anno prima, decisi di lanciarmi e li contattai per chiedere di collaborare. Ricordo di aver ricevuto una copia del primo numero della rivista al SIB di Rimini e, una volta tornato a Roma, pieno di entusiasmo, mi proposi a Carlo per scrivere. Mi chiesero subito di realizzare un profilo di Radio Dimensione Suono per il numero successivo, se non erro il secondo o forse il terzo. Non avevo mai fatto nulla del genere in precedenza, ero del tutto inesperto, e non sapevo nemmeno cosa volesse indicare il numero di “cartelle” da inviare. Per evitare di far trasparire la mia impreparazione, chiamai quelli di Planet Rock. In onda c’era il leggendario Luca De Gennaro, credo con Gennaro Iannuccilli e non ricordo chi altro. Lasciai un messaggio, sicuro che dalla loro vasta esperienza mi avrebbero aiutato. Spiegai che, durante le mie ricerche da studente universitario, mi ero imbattuto nel termine “cartella giornalistica” e chiesi di spiegarmi cosa significasse quel formato. Mi risposero in onda poco dopo, e da lì ho iniziato a scrivere il mio primo articolo. A essere a conoscenza di questo simpatico aneddoto erano solo i miei, non l’ho mai rivelato ad altri prima di questa intervista. Inizialmente facevo tutto in modo molto artigianale, prendendo appunti con penna e block notes, cercando di scrivere il più possibile. Poi tornavo subito a casa per trascrivere tutto al fine di evitare di dimenticare dettagli importanti. In seguito ho acquistato un registratore portatile che ha reso la mia vita più facile. La trascrizione degli articoli era ovviamente fatta a mano, prima con carta e penna, successivamente con una macchina da scrivere. Infine inviavo tutto in redazione tramite fax. Era il metodo di quegli anni, molto più complicato rispetto ai giorni nostri, ma in quell’epoca non si vedevano pro o contro, era semplicemente la modalità che tutti seguivano.

Nel 1995 ti trasferisci a Londra: quali ragioni ti convincono a lasciare l’Italia per emigrare oltremanica?
Londra in quegli anni rappresentava l’epicentro non solo della scena musicale ma anche delle nuove tendenze in moda, arte, società e molto altro. Come tanti, seguivo costantemente tutto ciò che accadeva in questa città attraverso le varie riviste, assorbendo ogni ispirazione e rimanendo affascinato da ogni aspetto. Ho trascorso circa due mesi nella Capitale britannica durante un’estate con un amico, e decisi subito che l’anno successivo mi sarei trasferito lì, nonostante fossi già impegnato con gli studi universitari a Roma. Londra aveva un fascino unico e il richiamo era irresistibile. Quando mi sono trasferito, la città non ha deluso le mie aspettative anzi, è stata ancora più intrigante e coinvolgente di quanto avessi immaginato. Purtroppo, non posso dire la stessa cosa della Londra di oggi. Nel corso degli anni, molte delle caratteristiche che rendevano la città unica sono state erose o cancellate, inclusi il tessuto della nightlife e della scena musicale che ora appaiono notevolmente ridotti.

Come racconti in un’intervista di Luca Schiavoni pubblicata da DJ Mag Italia il 20 maggio del 2012, nella Capitale britannica diventi un referente del negozio riminese Disco Più: «mi affidarono il compito di “scavare” tra i promo per procurare le esclusive che si trovavano solo a Londra. Dovevi avere buoni amici nei negozi di dischi che te li conservavano sotto banco». Come ricordi quei tempi vissuti da “promo hunter”?
Incontrai Gianni Zuffa, il proprietario di Disco Più, diverse volte al SIB di Rimini. Quando decisi di trasferirmi a Londra, nacque l’idea di agire come procacciatore di dischi promozionali, sfruttando sia i contatti che loro avevano già, sia cercandone di nuovi. Noi italiani eravamo tra i più ossessionati dalla ricerca di titoli inediti e rari, alcuni dei quali nel corso degli anni sono diventati veri e propri oggetti del desiderio. È stata un’esperienza assai stimolante ed eccitante. C’era una sorta di competizione con altri procacciatori di promo di negozi diversi, ma è sempre stata amichevole e leale, nessuno cercava di rubare i contatti agli altri. Ci si svegliava presto per essere i primi a passare dai vari negozi, ma a volte bisognava tornarci più volte durante la stessa giornata perché le consegne non si concentravano in un unico orario. Ogni settimana facevamo il giro degli uffici delle etichette e dei distributori. Eravamo costantemente aggiornati su ogni nuova uscita, senza trascurare alcun genere musicale. Inoltre c’erano eventi annuali come il Winter Music Conference di Miami, attesissimo proprio per le stampe promozionali esclusive che avrebbero fatto impazzire per mesi i DJ. I titoli ambiti si susseguivano continuamente. Lo scorso anno la rivista inglese Faith mi ha chiesto di stilare una classifica dei promo più ricercati in quegli anni in Italia, ma sarebbe stata un’impresa ardua realizzarne una definitiva. Ho stilato invece una lista delle etichette più ambite, menzionando alcune di esse come Junior Boy’s Own, AM:PM, MAW, Strictly Rhythm, F Communications, Wave, Azuli, Roulé, Freetown, Underground Resistance, Talkin’ Loud …

TheBlueGallery dicembre 1995
La rubrica “The Blue Gallery” che Nico De Ceglia cura per il magazine mensile DiscoiD (dicembre 1995)

A novembre del ’95 parte The Blue Gallery, la tua rubrica contenuta nel magazine gratuito di informazione discografica legato proprio al Disco Più, DiscoiD, a cui peraltro sono destinate anche alcune interviste da te curate per la rubrica “Label Of The Month”, e in seguito concretizzi la collaborazione con Italia Network e Roberto Corinaldesi. Ritieni che, ai tempi, iniziative di questo tipo alimentassero in qualche modo l’attenzione nei confronti di (certa) musica, solitamente fuori dalle orbite pop(olari)? Gli appassionati di techno, house e derivati, che leggevano avidamente recensioni e segnalazioni e che seguivano programmi di settore in radio, si sono estinti con lo sdoganamento del web o si sono trasformati in qualcos’altro?
L’idea della mia rubrica The Blue Gallery nacque parallelamente all’inizio della collaborazione con Disco Più. Volevo creare una sorta di galleria immaginaria in cui esporre ogni mese le ultime novità in arrivo. Un concept simile emerse anche durante il mio periodo a Italia Network, dove presentavo in diretta telefonica da Londra un nuovo disco ogni giorno. In seguito, dopo Corinaldesi, continuai la missione quotidiana con Marco Biondi su quella che sarebbe diventata RIN. Senza dubbio, tali iniziative erano strumenti vitali in quegli anni per diffondere nomi e suoni emergenti. Io stesso, in quanto appassionato, attingevo da ogni singola fonte di informazione musicale, ed è stato naturale passare dal ruolo di fruitore all’altro lato, in cui avevo l’opportunità di diffondere tali novità. Il web ha completamente rivoluzionato e frammentato queste abitudini, così come molte altre. Ha fornito incredibili strumenti che hanno reso molto più facile la scoperta e gli aggiornamenti costanti su ogni cosa, ma ha anche reso tutto meno specifico e meno diretto agli appassionati, abbattendo divisioni di genere nella nostra scena e neutralizzando, per esempio, quelle anteprime esclusive che erano un elemento fondamentale nel percorso di un disco. Purtroppo l’accesso globale ha portato anche a una massificazione estrema, con la quasi scomparsa delle scene più alternative e underground a favore di un flusso sonoro più facilmente praticabile e di consumo. Negli ultimi anni si è addirittura dato più rilievo ai contenuti visivi a discapito di quelli sonori. Tuttavia gli appassionati, sia delle vecchie che nuove generazioni, sono ancora presenti e capaci di scoprire le varie gemme in mezzo al marasma e alla vastissima offerta di materiale disponibile. È una categoria che ha dovuto e saputo evolversi, scoprendo nuovi strumenti di ricerca unici rispetto all’era pre web.

Black Market homepage 2000
L’homepage del sito di Black Market nel 2000

Per un certo periodo hai lavorato negli uffici di Black Market. Di cosa ti occupavi?
Black Market è stato un luogo simbolo per tutti i DJ e appassionati di dischi che visitavano Londra. Io stesso corsi subito a farci un salto la prima volta che venni qui in vacanza, per poi diventare un assiduo frequentatore quando mi trasferii. Nel periodo in cui mi occupavo di ricerca promo lo visitavo più volte al giorno, conoscevo molto bene quindi tutti quelli che lavoravano in negozio, sia al piano terra nella sezione house e techno che nel basement dedicato a jungle e drum’n’bass. Naturalmente avevo contatti anche con coloro che lavoravano negli uffici al piano di sopra incluso il capo, David Piccioni. All’inizio del nuovo millennio, quando l’idea di avere una presenza online cominciò a divenire essenziale per ogni store, mi contattò proprio David. Stava pianificando il primo sito web del negozio e mi offrì l’opportunità di supervisionarne i contenuti e il database. Sebbene fosse una novità per me, la mia esperienza passata mi diede la sicurezza necessaria e la prospettiva di unirmi a un team e a un’azienda che ammiravo profondamente non poteva che farmi dire di sì. Nel corso della creazione del sito, ho curato le classifiche settimanali per il negozio, ho stabilito nuovi contatti con le etichette e mi sono occupato di inserire ogni singolo disco che ci arrivava nel database. Quest’ultimo compito era particolarmente appagante per me dato che, fatta eccezione per il manager del negozio, ero il primo a mettere le mani su tutte le nuove uscite che arrivavano quotidianamente. Black Market era una tappa obbligata per i DJ di ogni calibro e provenienza. Basta citarne uno e con molta probabilità l’ho incontrato lì in quegli anni. È stata un’esperienza incredibile che mi ha preparato per il passo successivo con Pete Tong e BBC Radio 1. Durante il mio periodo lavorativo da Black Market, ho anche iniziato a stilare una classifica settimanale online per la prestigiosa rivista inglese Muzik, che purtroppo chiuse i battenti nel 2003. In seguito ho curato classifiche e recensioni per Ministry, il mensile del Ministry Of Sound, che però ebbe vita breve. Per un periodo sono stato anche membro del panel che stilava la leggendaria Buzz Chart per Update, classifica di riferimento in quegli anni. Al Ministry Of Sound ho pure avuto il mio primo programma radiofonico inglese, andando in diretta ogni due settimane per due ore. Nel programma presentavo novità musicali e ospitavo artisti dal vivo. Svariati amici italiani, come Stefano Fontana e Luca Bacchetti, vennero a trovarmi quando si trovavano in città, e ho avuto il piacere di accogliere nomi come Swayzak, Richard Sen, Rob Mello e molti altri. La radio del Ministry è stata una delle prime a sperimentare le trasmissioni via internet, attiva ben prima di molte altre giunte in seguito.

Nico De Ceglia at Winter Music Conference di Miami 1997
De Ceglia al Winter Music Conference di Miami nel 1997 mentre mostra un adesivo del free mag DiscoiD

Nel 2001 incontri Pete Tong e inizi a collaborare con lui sia come A&R per la FFRR che a BBC Radio 1 «cercando di fargli scoprire le cose più “underground”, come se fossimo ancora nell’era dei white label, riuscendo a mettere un po’ del nostro tocco e dando modo ad alcuni artisti italiani di essere presenti nello show», parafrasando ancora la sopramenzionata intervista di Luca Schiavoni del 2012. Ricordi almeno tre pezzi made in Italy che segnalasti a Tong e i suoi relativi commenti a caldo?
È stata un’esperienza straordinaria quella con Pete. Ho lavorato con lui per dodici anni, affiancandolo nella selezione settimanale per lo show. Nel corso del tempo questo rapporto lavorativo si è sviluppato in una sincera amicizia e stima reciproca. Ancora oggi, quando mi imbatto in titoli promettenti che potrebbero catturare il suo interesse, non esito a consigliarglieli. Come ho sottolineato in passato, Pete era già in contatto con la maggior parte dei grossi nomi della scena, ed era riconosciuto per il suo significativo impatto sul panorama dance internazionale. Se sceglieva di suonare un brano in radio poteva davvero cambiare il destino di quel disco e dell’artista che lo aveva creato. Il mio ruolo, oltre a effettuare con cura una preselezione tra l’enorme quantità di promo e acetati che arrivavano in ufficio ogni settimana, era far scoprire a Pete i titoli più alternativi e underground. Ho portato poi un po’ di estetica e attitudine italiana in un team che fino a quel momento era stato completamente inglese. Abbiamo creato subito una sintonia e Pete si è fidato immediatamente dei miei suggerimenti. Il mio arrivo nello show avveniva sulla scia di un paio di anni eccellenti per le produzioni italiane all’estero. Basti pensare ai numeri uno di Black Legend e Spiller in Regno Unito l’anno precedente, e alle tracce di Planet Funk e Par-T-One, ancora freschi successi in quel momento. Fra i nomi nostrani che ho contribuito a promuovere in quei primi anni a BBC Radio 1 ci sono Moony, Alex Gaudino, Antillas, Stylophonic, Psycho Radio, Pasta Boys, Santos, Pink Coffee, Nufrequency… per citarne solo alcuni. Poi ne sono arrivati molti altri, tra cui Tale Of Us, giusto prima della mia uscita dalla radio, e Fango, subito dopo. Non ricordo nei dettagli i commenti di Pete su questi lavori, ma è innegabile che fossero molto positivi, essendo poi stati artisti che hanno ricevuto il suo supporto in radio e nei club. Un aneddoto divertente? Tutti gli italiani che Pete incontrava in giro per il mondo gli dicevano puntualmente che erano miei amici.

Ci sono state anche “sviste”, ossia pezzi che gli avevi consigliato ma di cui non riuscì a cogliere subito le potenzialità?
Sono numerosi i titoli che negli anni avevo suggerito e che per varie ragioni furono trascurati per poi essere rivalutati, ma preferisco non entrare nei dettagli.

«È facile notare produzioni di fattura più che mediocre presenti in classifica e vendere migliaia di copie. Molti si fidano troppo di quanto gli venga detto da alcune persone non riuscendo ad analizzare da sole il valore delle singole produzioni o comprando un disco solo perché viene imposto dal mercato. […] Si tende quindi a far nascere mode che poi verranno puntualmente oscurate per dare spazio ad altre, e questo è un meccanismo schifoso»: a sostenere ciò è Lory D in una tua intervista pubblicata su DMM a febbraio del 1993. A distanza di poco più di trent’anni, la situazione è rimasta la stessa? Probabilmente a essere cambiate sono solo le modalità di persuasione?
Ricordo con piacere l’incontro con Lory D per l’intervista finita sulle pagine di DMM, occasione in cui andai a trovarlo nel suo studio a Roma. Rispetto a molti altri artisti dell’epoca, Lory era già avanti sia musicalmente che nella visione di come stava evolvendo la scena. Come non dargli ragione per quelle parole e come non vedere ancora oggi il loro significato, forse ancora più evidente di allora. Nel 1993 il mercato aveva già la sua quota di prodotti di qualità mediocre, proprio come oggi. D’altra parte, il consumatore medio tende ad accontentarsi di ciò che gli viene offerto, senza scavare a fondo per scoprire il resto. Tuttavia, trent’anni fa, era più facile evitare questi prodotti scadenti e concentrarsi su altro nel vasto panorama delle uscite discografiche. Oggi la massificazione ha raggiunto proporzioni enormi e il prodotto scadente e mediocre sembra dominare. Ci vogliono molto più tempo ed energie per scartare tali prodotti e concentrarsi su quelli di valore. I social media inoltre rappresentano uno strumento perfetto per amplificare il mediocre e dare voce a molte persone senza particolari talenti, se non la capacità di promuovere se stessi.

Una quindicina di anni fa circa hai dato avvio alle tue produzioni discografiche prevalentemente legate all’attività di remixer, su tutte il progetto Hyena Stomp condiviso con un altro italiano trapiantato a Londra, Severino Panzetta. Col senno di poi, avresti iniziato prima tale percorso artistico, quando comporre e incidere musica era più gratificante e remunerativo?
Hyena Stomp è stato un progetto affascinante. Abbiamo cercato di coniugare in un progetto artistico la nostra lunga amicizia e la passione per la scena club. Ci siamo dedicati principalmente ai remix, lavorando su brani di artisti come Tevo Howard & Tracey Thorn, DJ Hell, The 2 Bears o Ali Love, ma abbiamo anche dato vita a produzioni originali per label come la Rebirth. Dopo qualche anno abbiamo deciso di mettere in gioco i nostri veri nomi firmando remix per Róisín Murphy, Basement Jaxx, Ashley Beedle e tanti altri. Prima di Hyena Stomp, avevo già lavorato su progetti con altri amici, e anche dopo ho continuato a esplorare varie direzioni musicali. Ricordo con orgoglio il remix realizzato per “The Wanderer”, il classico di Romanthony pubblicato su Glasgow Underground sotto lo pseudonimo Photo 51, in collaborazione col talentuoso Franky Redente. Inoltre ci sono stati altri lavori firmati con Rui Da Silva, ma sono consapevole che avrei potuto investire più tempo in studio e sviluppare una discografia maggiormente consistente nel corso degli anni. Spesso mi trovavo a gestire una miriade di progetti contemporaneamente e questo mi ha impedito di dedicare periodi lunghi alla produzione. Qualche tempo fa, un po’ deluso dall’evoluzione dell’industria musicale, ho deciso di prendermi una pausa e concentrare le mie energie altrove, in attesa che tornasse l’ispirazione. Ora credo di essere pronto per nuove avventure in studio e non solo.

Ipotizziamo che The Blue Gallery appaia ancora mensilmente su DiscoiD e che le collaborazioni con la FFRR e BBC Radio 1 siano ancora in essere: quali sono i tre brani che segnaleresti attraverso questi canali?
È importante sottolineare che ciò che inserivo nella mia rubrica su DiscoiD e suonavo nei miei set non sempre si adattava allo show di Pete su BBC Radio 1, che aveva un approccio tendenzialmente più mainstream. Tuttavia i tre brani che ho selezionato qui avrebbero sicuramente trovato posto nei miei spazi. Comincerei con l’album “Stars Planets Dust Me” dei A Mountain Of One, reinterpretato magistralmente da Ricardo Villalobos. Basta menzionare i nomi per capire la ragione per cui ho scelto questo disco. Villalobos aveva già realizzato lo scorso anno una splendida versione del singolo “Black Apple Pink Apple” tratto dall’album, e questa collaborazione si è poi estesa a una reinterpretazione dell’intero lavoro. Nel tipico stile del cileno, ogni traccia è stata sottoposta a un raffinato processo di ristrutturazione, spogliata degli elementi originali e arricchita da tocchi discreti in punti strategici. Restando nel territorio di brani lunghi oltre i dieci minuti, vorrei menzionare il remix creato da Lovefingers per “Return To Centaurus” dei Mildlife. Con ben quattordici minuti e mezzo di durata, questo brano si snoda in un movimento lento, ipnotico e sensuale, idealmente definito nella presentazione che accompagna il promo come “erotic disco”. Infine, com’era tradizione nel mio spazio su DiscoiD così come nei miei programmi radiofonici e DJ set, ho sempre dato spazio a etichette e artisti che magari erano meno noti nel circuito grosso ma che meritavano il supporto. Oggi più che mai, questi talenti indipendenti e di nicchia dovrebbero ricevere l’attenzione che meritano. In tale contesto evidenzio la prossima uscita di David Agrella sulla sua etichetta AGR. David è un amico che vive a Londra da diversi anni e sta attirando l’attenzione grazie al suo stile distintivo. La precedente uscita includeva i remix di Baby Ford e GNMR, questa nuova contiene le tracce originali insieme ai remix di Priori e Domenico Rosa, a conferma della coerenza sonora.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone i motivi.

The Knack - My SharonaThe Knack – My Sharona
Ho già spiegato in apertura il significato che per me ricopre questo 45 giri del 1979, il mio primo acquisto discografico quando ero ancora un bambino, insieme a un altro degli Spargo. Tuttavia, tra i due, “My Sharona” era senza dubbio quello a cui tenevo di più. Un disco dal sound ribelle che mi faceva sentire più vicino al mondo degli adulti, sicuramente quello che ho ascoltato e riascoltato di più fra i due nel corso degli anni.

Depeche Mode - Black CelebrationDepeche Mode – Black Celebration
Ero già rimasto affascinato dai precedenti lavori dei Depeche Mode, e l’anno prima avevo acquistato sia il singolo “Shake The Disease” che la raccolta “The Singles 81-85”. Poi corsi a comprare “Stripped” che anticipò l’uscita dell’album. Con questo LP del 1986 si consolidava l’evoluzione verso sonorità più cupe e industriali che i Depeche Mode avevano iniziato qualche tempo prima. Era un sound perfettamente in linea con lo spirito alternativo e dark che stava emergendo in me nei primi anni dell’adolescenza.

Public Enemy - Fear Of A Black PlanetPublic Enemy – Fear Of A Black Planet
L’estetica militante, i messaggi altamente politicizzati e diretti e anche l’uso abile e all’epoca ancora innovativo di campioni e drum machine nella composizione delle canzoni: tutti questi elementi catturarono la mia immaginazione e il mio lato ribelle quando ero adolescente. Come nel caso dei Depeche Mode, anche i Public Enemy erano già presenti nella mia playlist grazie ai loro precedenti lavori, ma fu questo album, anticipato dal singolo “Fight The Power” utilizzato da Spike Lee nel film “Do The Right Thing” e che ovviamente acquistai, a farmi sentire una connessione ancora più forte con la band. Poi ebbi l’opportunità di vederli dal vivo a Roma in un tour in cui condivisero il palco coi Run-DMC e Derek B.

Róisín Murphy - Ancora Ancora Ancora (Severino & Nico De Ceglia Remix)Róisín Murphy – Ancora Ancora Ancora (Severino & Nico De Ceglia Remix)
Come accennato prima, ho realizzato vari progetti in studio con l’amico Severino di Horse Meat Disco, tra qui questo. Róisín aveva appena finito di lavorare a un disco in cui reinterpretava dei classici italiani di Mina, Lucio Battisti, Gino Paoli, Patty Pravo e altri e ci offrì l’opportunità di remixare la sua versione del classico di Mina, “Ancora Ancora Ancora”. Decidemmo di mantenerlo a bassi bpm e di dare un tocco balearic disco, scelta che poi si è rivelata vincente. La nostra versione è diventata un vero e proprio anthem nei set di artisti leggendari come DJ Harvey. Róisín ci inviò alcune copie del white label appena stampato che conservo con cura. Un lavoro di cui siamo molto fieri e che ci regala soddisfazioni ancora oggi, a distanza di quasi dieci anni dall’uscita.

The Orb - Little Fluffy Clouds (Danny Tenaglia Remix)The Orb – Little Fluffy Clouds (Danny Tenaglia Remix)
Un amico che lavorava in un negozio di dischi di seconda mano, dove molti noti DJ vendevano i vinili che non funzionavano nei loro set, mi procurò questo acetato (mai transitato dal marketplace di Discogs sino a questo momento, nda) del classico degli Orb con remix annessi di Tenaglia e una versione Fluffapella mai pubblicata. Un Tenaglia in gran forma creò due versioni da viaggio (D-Tour Mix e Down Tempo Groove) che uscirono insieme ad altri qualche tempo dopo. Gli acetati erano spesso utilizzati dalle etichette per offrire ad alcuni DJ considerati veri e propri tastemaker un accesso esclusivo alle tracce prima della loro uscita ufficiale. Non so chi di questi DJ abbia deciso di cedere la propria copia ma è stata sicuramente una gradita sorpresa per me poter prenderne possesso.

Underground Resistance w Yolanda - Your Time Is UpUnderground Resistance w/ Yolanda – Your Time Is Up
Si tratta dello UR001, il numero uno del catalogo Underground Resistance, prodotto da Jeff Mills e Mike Banks, che segnò l’inizio di una storia e di una legacy che avrebbero influenzato numerosi fra noi DJ e producer nel corso degli anni. “Your Time Is Up” aveva quei synth che ai tempi erano già familiari per lavori di Inner City e altri, più house che techno, ma ricopre un significato enorme per essere stata la prima uscita della label.

Aphex Twin - Selected Ambient Works 85-92Aphex Twin – Selected Ambient Works 85-92
Cosa aggiungere su questo capolavoro di Aphex Twin che non sia già stato detto o scritto? Le sue intricate trame sonore, le sperimentazioni soniche futuristiche e l’uso pionieristico della tecnologia lo rendono un punto di riferimento essenziale per ogni collezione di musica elettronica. Uno di quegli album che ha ridefinito i confini del sound elettronico, ispirando generazioni di produttori e DJ. Seminale.

Theo Parrish - Falling Up (Carl Craig Remix)Theo Parrish – Falling Up (Carl Craig Remix)
Theo Parrish remixato da Carl Craig: una combinazione destinata all’eccellenza. Quando i primi DJ iniziarono a suonare questa versione, divenne subito un oggetto del desiderio per molti di noi. In qualche negozio arrivarono dei 10″ in tiratura limitata e ne recuperai uno per me e uno per Pete Tong, inserendolo immediatamente nel mio set nei weekend. La reazione della pista, alimentata dal crescendo sincopato creato da Craig, fu semplicemente estatica. In quegli anni Craig sfornava lavori eccellenti uno dietro l’altro, potevi facilmente creare un set intero solo con la sua musica e non avresti mai sbagliato.

Coil - The Ape Of NaplesCoil – The Ape Of Naples
In questa top ten meriterebbe di essere inserita l’intera discografia dei Coil ma alla fine ho scelto questo titolo perché è l’ultimo album, creato prima della scomparsa di John Balance. Ho avuto la fortuna di vedere diverse delle loro esibizioni dal vivo, e ogni volta è stata un’esperienza straordinaria. “The Ape Of Naples” rappresentò per i Coil un periodo ancora altamente creativo, in cui misero in circolazione, come da abitudine, materiale inedito e brani reinterpretati, seguendo la loro caratteristica estetica. Questo album trasuda di malinconia e poesia dark che catturano l’essenza del loro genio artistico.

Metro Area - MiuraMetro Area – Miura
Come potrei esimermi dall’includere questo classico senza tempo, tratto dall’unico album realizzato da Morgan Geist e Darshan Jesrani nelle vesti di Metro Area? L’intero LP contiene varie perle ma “Miura”, col suo inconfondibile groove preso in prestito da una versione di “Funkytown” dei Lipps Inc. e quel basso incessante su due note che si ripetono all’infinito, rimane una traccia intramontabile. Ancora oggi la ritrovi in set di molti disc jockey. Non a caso lo scorso febbraio, l’EP 4 contenente “Miura” è stato ristampato e rimasterizzato. Senza dubbio un must per qualsiasi collezione da DJ.

(Giosuè Impellizzeri)

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JP Energy – DJ chart ottobre 1997

JP Energy, Trend, ottobre 1997


DJ: JP Energy
Fonte: Trend Discotec
Data: ottobre 1997

1) Placid Angles ‎- The Cry
Primo album che John Beltran incide sotto le sembianze di Placid Angles, “The Cry” si sviluppa su un itinerario pieno di dilatazioni IDM ed ambientali ed invita l’ascoltatore ad entrare in un mondo sonico assai peculiare, fatto di movimenti contorti e sezioni melodiche scomposte. Dalle seducenti “Ocean” e “Fate” alla nodosa “Casting Shadows (On Warm Sundays)”, dalle sognanti “Now And Always” e “Decembers Tragedy” alla riposante “Lavinia” passando per la malinconica “Everything Under The Sun” e i guizzi technofoni di “Scarlett Season” ed “Her Elements”. Quello di Beltran, immerso in una strana formula alchemica in cui frenesia e placidità vengono messe in contrasto, è un lavoro che va ben oltre le classiche esigenze del disco da dancefloor destinato ai soli DJ, e non certamente a caso la Peacefrog Records lo commercializza anche in formato CD.

2) Mr. James Barth ‎- High Society
Lo svedese Cari Lekebusch firma questo 12″ con uno dei suoi molteplici alias, Mr. James Barth. “Workin’ The Truth” è un anello di house loopistica venata da severe scie melodiche kraftwerkiane, “Hold Still” è un azzeccato reprise di “Everybody Hold Still” di Grace Jones, con tutto l’apparato vocale processato nel vocoder. Il lato a è occupato per intero da “Smooth Talkin'”, dub cosmico rallentato dalle tinte fosche e profusione di suoni cristallini. Il tutto sull’indimenticata Svek di Stoccolma che pubblica il disco anche in formato CD, oggi particolarmente ricercato dai collezionisti.

3) Notturno – The After Hours EP
Dietro Notturno armeggia un tal Nicola Johnston che all’attivo ha una manciata di EP editi dalla britannica Melt Records di York. Il primo dei due è proprio “The After Hours” in cui l’artista fa sfoggio della capacità di dare ad un suono ubicato tra house e techno un indirizzo onirico, e questo probabilmente ha a che fare col moniker scelto per la breve esperienza in ambito discografico. “She’s So Groovy”, col bassline a stantuffo tenuto a bada da un celestiale pad, e “Need Some”, messo a bagno in una mistura dreamy, sono i pezzi dell’extended play che meglio risaltano, ma degna di menzione è pure la lunga “She Loves That Kind Of Thing”, deep house quasi sussurrata e dalle venature trancey. Musica notturna che non fa baccano ma che tiene svegli.

4) Saints & Sinners ‎- Peace
Il duo Saints & Sinners debutta nel ’97 sulla tedesca Sounds Good Records con questo disco che prova ad aprire un nuovo scenario e ridefinire il concetto di house music lanciando evidenti occhiate a retaggi trance. Non c’è nessuna euforia però, il risultato è qualcosa che oltremanica chiamano progressive e che conosce gloria tra la fine degli anni anni Novanta e i primi Duemila con artisti tipo Sasha, John Digweed e Steve Lawler. Alle due versioni di “Night On Earth” che dà il titolo al disco si aggiunge “Peace”, escursione da cui affiorano forme ritmiche appena accennate ed una fioritura armonica evocatrice di un mondo senza tempo, l’embrione di una cellula sonora che vedrà un’evoluzione grazie a talenti come James Holden, Nathan Fake, Gui Boratto o Dominik Eulberg. Proprio “Peace” conoscerà una seconda giovinezza qualche anno dopo attraverso una serie di remix firmati, tra gli altri, da Oliver Lieb e Michael Woods.

5) John Tejada – 12 Volts Of Soft Spread
Instancabile ed iperprolifico, Tejada incide dischi sin dai primi anni Novanta bilanciando minimalismo post millsiano a micro impalcature melodiche. In tal senso il brano che apre il disco su Palette Recordings, “Soft Spread”, risulta particolarmente esplicativo attraverso zigzaganti scie che tagliano l’intricato campo percussivo, e lo stesso avviene in “Begin” con le sue strutture ritmiche elementari prive di orpelli da cui si innalza un’esplosione di vitalità attraverso il turbinio di ipnotici accordi. Nettamente più intrippata “Spider Belly”, spoglia ed essenziale come l’ondata innescata da Hawtin circa un decennio più tardi.

6) Trybet – Nautical One
Formato da Aric Rist e Mike Parker, il duo statunitense dei Trybet si muove per qualche anno nel segmento techno. L’ultimo EP inciso per la Geophone dello stesso Parker è proprio “Nautical”, composto da due versioni: “Nautical One” sale in progressione in una spirale vagamente goana riprendendo fiato grazie ad un paio di break, “Nautical Two” non si allontana dalle medesime coordinate ed offre una più convincente parentesi acid. Nel 2016 entrambi i brani vengono rimessi in circolazione in formato digitale attraverso i remaster di Adam Jay e due anni più tardi, a sorpresa, giunge pure un inedito, “Shinjugai”, realizzato nel 1996 ma rimasto chiuso nel cassetto per oltre un ventennio.

7) Bleep – Mr. Barth In The Sahara
Geir Jenssen utilizza lo pseudonimo Bleep tra 1989 e 1990 per firmare un album ed alcuni 12″, tutti per la belga SSR Records. Tra questi c’è “The Launchpad” che sul lato b annovera “Mr. Barth In The Sahara” in cui, per poco più di tre minuti, il norvegese incastra con dovizia ammalianti arpeggi sfilacciati in filamenti che rammentano il cinguettio tipico dell’acid in un telaio ritmico che infonde al tutto potenza, forza ed energia quasi al punto di esplodere. Da lì a poco l’artista nativo di Tromsø sveste i panni di Bleep per inaugurare una nuova fase della carriera marchiata col moniker Biosphere ed illuminata da un successo di proporzioni mondiali, “Novelty Waves”, estratto dall’album “Patashnik” e scelto dalla Levi’s per sincronizzare un noto spot televisivo.

8) Graham Gouldman – Animalympics
L’LP del britannico Graham Gouldman affonda le radici nel rock, anche con approcci un po’ mielosi (“Away From It All”, “Love’s Not For Me”, “We’ve Made It To The Top”). A smuovere la prevedibilità è “Go For It”, con derive disco socciane e per cui l’autore mette in risalto le virtù di bassista, ma soprattutto “Bionic Boar”, penultimo brano del lato b in cui pare rivolgersi alla tecnologia in cerca di ispirazione e dove tutto assume tinte più futuriste, seppur soltanto per poco più di tre minuti, occhieggiando a Yellow Magic Orchestra, Gary Numan e John Foxx. Non è chiara la ragione per cui nella chart il titolo sia stato italianizzato ne “Le Olimpiadi Degli Animali” e ad oggi pare non esista neppure una versione nostrana di questo album targato 1980.

9) Logan – Afterhours
Meglio noto come Gallen, negli anni Novanta Regis Weber firma Logan una manciata di EP tra cui “Two Parts Of Our Lives” sulla tedesca VooDoo Records. All’interno trova alloggio la traccia “Afterhours”, ascensione techno spirituale con rimandi ad Underground Resistance dai beat rigidamente definiti, una ridotta gamma cromatica ed un saliscendi di chord a strappo incrociati alla dolcezza di pad che fluttuano come in assenza di gravità e dolci come pasta di zucchero.

10) Craig Leon – Nommos
Nato in Florida nel ’52, a poco più di vent’anni Leon si trasferisce a New York dove inizia a lavorare per la Sire occupandosi di band come Ramones, Blondie e Suicide. Nel 1981, forte dell’esperienza accumulata, si cimenta in un LP, “Nommos”, destinato alla Takoma, che manda in orbita un suono in cui sperimenta tecniche nuove prendendo la world music facendola transitare nei circuiti di sintetizzatori modulari per ricavarne qualcosa di piacevolmente surreale. Ritmi africani elettrificati, placidità ambientale futurizzata, onde tonali che si infrangono su muri di percussioni flangerizzate: “Nommos” scruta nel futuro e lo rende palpabile specialmente nella lunga “Four Eyes To See The Afterlife”, oltre tredici minuti di galleggiamento spaziale che offre nuove prospettive alle visioni new age di Eno, Roedelius o Grosskopf. Diventato a posteriori un cult, viene ristampato nel 2013 dalla Superior Viaduct di San Francisco.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Max Nocco

01 - Max Nocco 1
Uno sguardo d’insieme su parte della collezione di dischi di Max Nocco

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Il primo in assoluto è stato “Flick Of The Switch” degli AC/DC, comprato nel 1983. Avevo quasi tredici anni e il rock “pesante” era entrato da poco a gamba tesa nella mia testa. Non fu il loro disco migliore anzi, forse uno dei meno riusciti, ma la soddisfazione di averlo tra le mani fu immensa.

L’ultimo invece?
Tra le ultime cose che mi ha consegnato il corriere ci sono “Smooth Big Cat” di Dope Lemon, progetto del cantautore australiano Angus Stone, a metà strada tra leggero rock psichedelico ed umbratili ballate folk/rock, e “Metamorphosis”, gran bel disco ambient ad opera di Multicast Dynamics & Sid Hille, uscito lo scorso anno sull’interessantissima Astral Industries. Domani non so cosa arriverà.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Credo di aver ormai oltrepassato la soglia dei diecimila dischi ma da tempo ho perso il controllo. Continuo a comprare anche CD che ritorneranno ben presto, ne sono sicuro.

Dove è collocata e come è organizzata? Che metodo hai adottato per l’indicizzazione?
In casa ho dischi e libri ovunque: in camera, in cantina, sotto il letto, nel sottoscala. La collezione è organizzata (ahimè) in maniera anarchica, tipo una gang bang estrema di generi. Ho smesso di catalogare i titoli dopo i primi duemila pezzi, poi la pigrizia ha avuto il sopravvento. Non uso nessun metodo di ricerca, vado a memoria visiva e sensazione quando devo organizzare le selezioni per i miei DJ set. Nel momento in cui mi serve un titolo ben preciso e tarda ad uscire dagli scaffali allora è tempo di imprecazioni, e questo avviene spesso.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Pulisco accuratamente i dischi che utilizzo poco, quelli che escono all’improvviso o quelli rimasti fermi per troppo tempo. Cerco di rimuovere la polvere e le pietre di sole, poi li piazzo subito sul piatto. Ricorro alle copertine plastificate solo per i pezzi pregiati e per quelli da ascolti domestici, roba che difficilmente troverebbe spazio in una serata anche se, nella mia “Meditazione A 33 Giri”, oso alla grandissima.

02 - Max Nocco 2
Un altro scorcio della raccolta di Nocco

Ti hanno mai rubato un disco?
L’unico furto che ho subito risale al periodo in cui avevo un negozio di dischi, il Crash. Mi portarono via tutto e fu un momento drammatico. Era il 2001, dovetti ripartire da zero.

C’è un disco a cui tieni più degli altri?
Ci sono dischi che hanno segnato i miei ascolti e decretato le ore chiuso in camera in solitaria, durante la mia adolescenza. Un paio? “Ys” de Il Balletto Di Bronzo (1972) ed “Aktuala” del gruppo omonimo (1973). Sono entrambi molto ricercati, capolavori di un’Italia all’epoca assolutamente all’avanguardia.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Avviene raramente. Ascolto, riascolto e metto da parte. Male che vada, finisce giù in cantina, al fresco, per poi tornare a girare, spesso con piacere e sorpresa.

Quello che cerchi da tempo e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Ormai ho smesso da anni di fare follie e tra l’altro non mi sono mai considerato un collezionista fissato. Preferisco piuttosto far vivere i miei dischi, condividerli nelle serate con gli amici o coi curiosi. I Poison Idea cantavano “record collectors are pretentious assholes” (nel disco omonimo del 1984, nda) ed onestamente non avevano tutti i torti. In questi anni cifre importanti sono state spese per me dalle persone che mi amano per dischi come “1971 – 1974”, il box set dedicato ai tedeschi Faust.

03 - Isaac Hayes + Max
Max Nocco e la sua copia di “Black Moses” di Isaac Hayes con la copertina (pieghevole) cruciforme

Quello con la copertina più intrigante?
Adoro le copertine, le storie che rappresentano e la creatività di chi progetta visivamente un suono. Le cover art molto spesso sono delle opere d’arte, talvolta un po’ bruttine, in tante occasioni persino più eccitanti del disco stesso. Una di quelle a cui sono più affezionato è “Black Moses” di Isaac Hayes, imponente ed esagerata, magnifica nella sua strafottente ed arrogante mania di super grandezza. In fin dei conti parliamo di Isacco, colui che anticipò di almeno vent’anni l’immaginario visivo gangsta rap: date uno sguardo alla sua pelata, agli occhiali e all’oro che luccica in “Hot Buttered Soul” del 1969.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Qui in Salento i negozi di dischi sono sempre stati molto pochi. Da ragazzino spendevo la mia paghetta da Zara e Bello, a Maglie, poi da Sugar Blues e Pick Up a Lecce. Spesso, nei primissimi anni Novanta, prendevo al volo il treno per Bologna e lì spendevo tutto quello che guadagnavo coi miei lavoretti. Entravo da Underground e Disco D’Oro ed uscivo pieno di gioia ma senza più soldi. Ora i miei “pusher” in zona leccese sono Disconutshot di Sergio Chiari (produttore, tra l’altro, del mio “Rusty Trombone” sulla sua etichetta Killed By Disco Records) e Youm di Maurizio Macrì ed Alberto Santoro. Poi ci sono i mitici amici di Pisa del Sanantonio42 (Marco Dragoni e Matteo Chelini) e Marco Rufini col suo storico Music Box Records di Perugia. Il resto lo fa Discogs.

Nella seconda metà degli anni Ottanta hai militato come batterista in diversi gruppi hardcore/metal, dai Crollo Nervoso ai Frattura passando per i Run Patty Run, i Sesta Categoria e i Morte Del Sistema. La vostra musica era incisa in prevalenza su musicassette autoprodotte: frutto di una scelta intenzionale o dettata dall’impossibilità di convincere qualche etichetta a pubblicarla?
Il punk e l’hardcore hanno cambiato per sempre la mia vita, l’hanno salvata dalla merda che circolava nelle strade del mio paese negli anni Ottanta, quando l’eroina dilagava ovunque falcidiando la generazione precedente. Ci interessava poco l’aspetto prettamente musicale e sonoro, volevamo solo fare un gran casino, pogare ai concerti e sentirci vivi e liberi. Quindi zero etichette, si lavorava con gruppi di amici e con una rete fittissima di realtà locali e non. Le autoproduzioni erano all’ordine del giorno: scambi di dischi, file alla posta con pacchi pieni di materiale discografico, fanzine e quant’altro. Si collegavano gli strumenti ad un quattro piste, rec e via. Poi sono arrivati gli Hyoid e gli Shank, forse i miei due gruppi più amati, quelli che mi hanno reso un batterista più decente. Poi la fine.

04 - Max Nocco 4
Altri dischi della collezione di Nocco. Tra gli altri “Neu! ’75! dei Neu!”, “Incubo Sintetico” dei Crimea X, “Buio Omega” dei Goblin e “Docteur Faust” di Igor Wakhevitch

Come sei arrivato al DJing provenendo dal metal? In passato, ma probabilmente ancora adesso, gran parte della gente che popolava il mondo del rock nutriva una pessima opinione per ciò che gravitava intorno alla figura dei DJ e soprattutto alla house, alla techno e derivati, banalizzate e bollate come “musica autocomposta dai computer”.
Non mi sono mai considerato propriamente un DJ, per rispetto soprattutto di chi lo fa con estrema dedizione, tecnica e stile (e il Salento è pieno di grandi ed ottimi disc jockey). Ho sempre girato dischi, prima ancora di iniziare a picchiare la batteria. All’epoca ero l’unico della compagnia del mio paese ad avere un impianto hi-fi, quindi passavo intere giornate a registrare cassette a tutti i miei amici e conoscenti. Nel 1996, insieme a Marco Oliani ed Andrea Coccioli, mettemmo su il Neural, un luogo in aperta campagna tra Corigliano d’Otranto e Soleto che ha ospitato nell’arco di quasi due anni la bellezza di oltre cento performance di gruppi provenienti da ogni parte del mondo. Quasi sempre, quando si spegneva il live, io partivo con le mie selezioni strambe, in cui mischiavo l’elettronica con il rock, il metal con l’hardcore, la techno con la world music. Il concetto di crossover totale, per me, è sempre stato di primaria importanza, come la curiosità di approcciarmi ad altri generi lontani da quello che suonavo con i miei gruppi. Non sempre è stato facile, e non lo è neanche ora, ma è il mio modo di intendere e vivere la musica.

La globalizzazione rende difficilmente credibili problemi e difficoltà che esistevano sino a poco prima del nuovo millennio. Riuscire a trovare certi dischi, ad esempio, poteva essere davvero difficile, soprattutto per chi non aveva la fortuna di vivere nelle grandi città e quindi era lontano dai negozi specializzati. Che canali di approvvigionamento seguivi? Leggevi anche le riviste per tenerti aggiornato?
Sollevavo la cornetta, componevo il numero telefonico dei vari Sweet Music, Top Ten, Disco D’Oro, Jungle, Nannucci, Disfunzioni Musicali, Helter Skelter, Wide, Audioglobe, Banda Bonnot e tanti altri, ed ordinavo i titoli. Nel giro di un paio di settimane i dischi erano alla base, pronti per essere “seviziati”. In questo le riviste sono state fondamentali e continuano ad esserlo, nonostante la crisi della carta stampata.

05 - un particolare del Crash
Un particolare dell’interno del Crash: gli allestimenti sci-fi vengono realizzati interamente con materiale riciclato (pezzi di automobili, tubature metalliche, lamiere, vecchi televisori)

Ad agosto del 1996, così come abbiamo raccontato nel libro Decadance Extra, apri il tuo negozio di dischi a Corigliano d’Otranto, il Crash, rimasto in attività sino al marzo 2008 e specializzato in “musiche altre”. Quali sono i primi tre dischi che ti tornano in mente ripensando a quel luogo?
Per molti il Crash ha rappresentato una piccola isola felice. Davo la possibilità di trovare, a pochi chilometri da casa, titoli import che notoriamente venivano acquistati tramite mailorder. È stata una palestra musicale per un numero importante di artisti e musicisti che nel corso del tempo si sono poi affermati, non solo a livello underground. Riguardo i tre titoli, caspita, non saprei. Sono passati veramente molti anni e tantissimi dischi in quel negozio. Sicuramente i Boards Of Canada con “Music Has The Right To Children”, i Notwist con “Neon Golden” e i Korn con “Follow The Leader”, lavori che vendevo tantissimo e che col tempo sono diventati veri capisaldi.

In quell’intervento finito nel succitato libro hai puntato il dito contro internet per spiegare la ragione della chiusura del tuo negozio e di tantissimi altri sparsi per il mondo. «L’uso selvaggio degli MP3 ha creato una frattura insanabile. Non credo si tratti di dover aggiornare la propria attività, il problema fondamentale è che le persone non comprano più dischi» dicesti, aggiungendo disincantato che «la stragrande maggioranza degli italiani non se ne fa nulla della musica». Per il grande pubblico i dischi si sono trasformati in oggetti da modernariato, c’è chi ne acquista qualcuno pur non avendo un giradischi ma col fine di metterlo in bella mostra su una mensola, a casa. Anche per i DJ mainstream quello del vinile non è più un formato fruibile, gli unici a crederci ancora sono quelli specializzati seppur rappresentino una nicchia piuttosto ristretta, e a testimonianza ci sono tirature sempre più esigue. Credi che la visione romantica della musica abbia ormai i giorni contati? Da qui a dieci anni, come credi si possa evolvere il mercato (o ciò che resta di esso) legato alla plastica circolare?
Sono sempre più convinto che oggi la musica rappresenti per molti solo un semplice passatempo. Che importanza diamo ad essa nella vita di tutti i giorni? Io partirei proprio da questa semplicissima premessa. Stiamo vivendo un periodo culturale alquanto buio per le arti, iniziato già (forse) nei primi anni Duemila, ed onestamente non credo ci sia una via d’uscita imminente. Una decadenza assoluta di pensiero e ricerca. Di storia. Non sono mai stato un nostalgico, un talebano del supporto, ma credo sia necessario ritornare alle origini per comprendere il valore artistico di tutta questa faccenda. Acquisto dischi, riviste e libri da sempre, ma continuare ad avere una “visione romantica” non può più essere vista come una presa per il culo. Non voglio credere ad un futuro senza dischi fisici, non voglio pensare che l’immagine possa avere la meglio sui contenuti.

06 - Max Nocco 6
Un ultimo scatto sui dischi di Nocco: in basso, tra gli altri, si scorgono le copertine di “Origin Of Forms” dei Diasonics e del secondo volume di “Hamam House”

Un fenomeno in forte ascesa da ormai oltre un decennio è quello delle ristampe, dalle più banali legate ai repertori pop/rock di fama mondiale alle più laboriose legate ad artisti misconosciuti che rivelano un poderoso background a monte. Qual è il tuo rapporto con i reissue? Ne acquisti o preferisci gli originali, talvolta dal costo proibitivo?
Faccio incetta quotidianamente di ristampe e per questo evito di fare follie. Da anni seguo alcune label specializzate del settore, Black Sweat Records, Superior Viaduct, Glitterbeat, Aguirre, Wah Wah, WRWTFWW, Soave, giusto per fare dei nomi. Grazie al loro lavoro, molti “fissati” sono riusciti a mettere finalmente mano su musiche dimenticate nel tempo, gemme assolute che oggi risplendono di nuova vita. Certo, non tutte le ristampe escono col buco. Alcune suonano molto bene rispetto agli originali, abbellite da inserti, notizie e memorabilia varia, altre invece lasciano decisamente a desiderare.

Come anticipavi prima, nel 2018 la leccese Killed By Disco Records ha pubblicato il tuo “Rusty Trombone” che ha messo in evidenza la personalità stilistica obliqua che ti contraddistingue. Conti di dare un seguito all’esperienza nel prossimo futuro?
“Rusty Trombone” mi ha dato grandi soddisfazioni oltre a farmi vedere le mie tracce stampate sul formato che più amo. Devo ringraziare Sergio Chiari, una delle persone più competenti in musica che io conosca, da qualche anno proprietario del Disconutshot a Lecce e titolare di diverse label di gran valore, su tutte la White Zoo Records, legata a produzioni di taglio prettamente punk/rock. Ricordo ancora il giorno in cui gli feci sentire il promo di “Rusty Trombone”, così, per scherzo. Volevo solo avere un suo spassionato parere su suoni e arrangiamento, non pensavo mica di farci un disco, non era mia intenzione. Così, dopo aver “fatto la spesa” da lui, tiro fuori una chiavetta USB e gli chiedo: «Mi dici al volo come ti sembra?». Sergio alza il volume del monitor e, dopo appena venti secondi (!), mi risponde: «Ok, stampiamo!». Non ci volevo credere, pensavo mi stesse prendendo in giro, invece era fottutamente serio. Così è nato “Rusty Trombone”. Per me è stato un po’ un cerchio che si è chiuso anche perché Sergio, da ragazzino, veniva a comprare i dischi nel mio Crash. Tutto ha un senso. Poi, nel 2020, in piena pandemia, ho fatto uscire “de Nulla, Vol. 1”, un album da dieci tracce piazzato solo ed esclusivamente su Bandcamp. Si tratta di un lavoro più intimo ed oscuro, meno ritmico, in alcuni frangenti totalmente ambient, genere che amo alla follia da sempre. Probabilmente, sul finire dell’anno, farò uscire un 45 giri autoprodotto, già pronto. Vedremo.

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Nocco e i due volumi di “Storiella Bonsai”

Ad illustrare la copertina di “Rusty Trombone” è stato Massimo Pasca, lo stesso che nel 2019 ti ha affiancato nel libro “Storiella Bonsai” giunto proprio di recente al suo secondo volume che annovera, come indicato in copertina, “69 ritratti in musica”. Puoi spiegare la genesi della tua idea e il modo in cui sei riuscito a sviluppare con Pasca questa singolare jam session verbo-visuale?
Massimo Pasca è il fratello che ho sempre desiderato (ho tre sorelle ed io sono il più piccolo!). Un artista per me unico, un vero studioso della Storia dell’Arte, un “maestro de psichedelia” come amo definirlo, un visionario puro e curioso che crede ancora nella potenza dei segni e delle parole, e tra l’altro ha pubblicato un CD di dub poetry e spoken word strepitoso, il primo esempio in Italia di questo genere. Ci siamo conosciuti nel 2016 in un festival, io giravo dischi, lui illustrava il suo live painting. Da quel momento non ci siamo più lasciati. Dopo “Rusty Trombone” (ci tengo a ricordare che la copertina è stata inserita tra le cinquanta più belle per il Best Art Vinyl Italy 2018), ho iniziato ad immaginare “Storiella Bonsai”. Il libro è nato per scherzo, dal nulla, su un comodo divano, in pieno inverno mentre facevo zapping in tv. Ho iniziato a buttare giù dei brevissimi pensieri con protagonisti alcuni dei personaggi che hanno segnato per sempre, dall’adolescenza ad oggi, la mia vita. Nel tempo le loro note sono diventate la mia passione, il mio carburante, lo spirito di cui giornalmente ho bisogno. Proprio da qui è partito il mio omaggio a questi artisti (51 nel primo volume, uscito nel 2019 e ristampato nel 2020; 69 nel secondo appena pubblicato, sempre dalla leccese Edizioni Ergot), che sento miei assoluti “confidenti”, tanto da giocare ironicamente con loro, fantasticando surreali “amicizie” e grottesche situazioni. Un tributo personale che non ha assolutamente la pretesa romanziera del novello scrittore, non ne ho né la capacità culturale né tantomeno i mezzi tecnici, ma che può incuriosire e raccomandare a ripetuti ascolti chi non ha mai avuto a che fare con questi musicisti. Quindi, finite le storielle, contattare Massimo Pasca è stato il passo successivo, obbligatorio e indispensabile direi, vista la qualità impressionante del suo lavoro. Sono dei libri a quattro mani che consiglio vivamente a tutti voi.

Se un giorno incontrassi un extraterrestre, che disco gli faresti ascoltare per fargli capire che la popolazione umana è capace di fare cose bellissime nonostante il pianeta di oggi racconti il contrario?
Ce ne sono diversi ma voglio buttarmi su uno in particolare, una roba fatta proprio da un alieno travestito da essere umano: “Aspera” di Michele Mininni, seconda traccia che chiude il lato A dell’EP “Hyper Martino” (Le Temps Perdu, 2016). Un brano che riesco a “vedere” e che mi trasporta altrove, in un tempo dove l’angoscia orchestrale ed esistenzialista à la Klaus Schulze regna sovrana, avveniristica, libera. Mi piacerebbe fare questo regalo agli amici extraterrestri.

Estrai dalla tua collezione una serie di dischi a cui sei particolarmente legato.

Apparat - Arcadia (Telefon Tel Aviv Version)Apparat – Arcadia (Telefon Tel Aviv Version)
È una roba che mi fa volare, tesa allo spasimo, qui in un remix tra i miei preferiti di sempre. “Arcadia” è uno dei migliori pezzi della creatura di Sascha Ring, brano caratterizzato da una linea vocale melodica che deve tanto a Thom Yorke. Il duo americano Telefon Tel Aviv, rimasto poi orfano dello sfortunato Charles Cooper scomparso nel 2009 a soli trentuno anni, spara una bomba elettronica ad alto potenziale dancefloor alternativo, giocando a ping pong con la voce di Sascha ed imbastardendo il tutto con synth onirici ed acidi. Nella seconda parte del remix si è già altrove.

Röyksopp - Poor LenoRöyksopp – Poor Leno
Canzone con una melodia perfetta, una chitarra funk che entra nel cervello e un video che ogni volta… vabbè, ci siamo capiti. I due norvegesi qui al loro debutto assoluto, quel “Melody A.M.” (di cui esiste un’edizione limitata con copertina di Banksy venduta nel 2019 su Discogs per oltre 9000 euro, nda) che più di vent’anni fa aveva fatto gridare al miracolo grazie ad una sintesi tra elettronica, melodie synth-pop, breakbeat, trip hop e mood nordico. Freddo e caldo, macchine e cuore, digitale e analogico, questo è il mondo fatato dei Röyksopp.

Voivod - Astronomy DomineVoivod – Astronomy Domine
Il classico dei Pink Floyd barrettiani rivisitato alla grandissima dai canadesi Voivoid, la mia band metal del cuore. Sono e saranno sempre l’avanguardia del metallo, un gruppo che ha espresso totale libertà nei propri lavori. “Nothingface”, album del 1989 da cui è tratto il brano in questione, è feroce ed iconoclasta come il vento del futuro. È il disco della loro metamorfosi totale, un gelido vento che soffia sulle macerie di un genere troppo integralista, impoverito dai dogmi. Loro, ancora in attività dopo oltre quarant’anni a girare il globo intero, se ne sbattono. Proprio per questo sono amati ovunque.

William Basinski - The Disintegration Loops IVWilliam Basinski – The Disintegration Loops IV
Tempo fa mi è stato chiesto: «Max, come vorresti morire?» La mia risposta è stata la seguente, lapidaria: «In un letto, disteso, con cuffie e “The Disintegration Loops IV” di Basinski». Sì, perché lui arriva sempre con estrema calma, inafferrabile, anche quando non lo cerco. È un dentro vuoto, vuoto fuori: non riesco a farne a meno. È una certezza come l’ossigeno. Mi ritrovo come sempre a fare i conti con questi quaranta minuti, con uno spasmo notturno lungo una vita. Il tempo di chiudere gli occhi ed è subito giorno. Aspetto. Faccio le mie cose. Rappresenta la sinfonia del piacere perduto, dove nulla cambia e tutto si muove. Puro magnetismo cosmico, colonna sonora di un’apocalisse emotiva che sovrasta ogni cosa. Ogni pensiero. Evito di aspettare, mi concedo. (testo tratto da “Storiella Bonsai”)

Jon Hopkins - Open Eye SignalJon Hopkins ‎- Open Eye Signal
“Immunity”, da cui proviene “Open Eye Signal”, è un album che amo, un disco con una visione techno/leftfield da capogiro. Anche qui il video è assolutamente strepitoso e l’ambientazione è superba. Come scrivo in “Storiella Bonsai 2”, «è una fuga verso un altro mondo, dal giorno alla notte, col protagonista che si guarda intorno, scruta il paesaggio ricco e povero. Molto povero. Deserto. Vede nascere la luce con colori mai visti». Hopkins, mi dispiace dirlo, non ha più raggiunto questi livelli.

Deru - 1979Deru – 1979
Forse il disco ambient che ho ascoltato di più negli ultimi anni. Equilibrio tra sperimentazione, melodie, passato e futuro, per un lavoro che custodisco in uno speciale cassetto della mia mente. Il chicagoano Benjamin Wynn, nonostante abbia già una nutrita discografia all’attivo, è ancora oggi un artista poco conosciuto e menzionato, ed è un vero peccato. “1979” è un concept album molto particolare, nato grazie all’acquisto, in un mercatino delle pulci a Los Angeles, di una scatola/proiettore contenente dei ricordi e teorie che, a quanto pare, appartenevano al filosofo Jackson Sonnanfeld-Arden. La colonna sonora di una vita o di un sogno?

Slowdive - RuttiSlowdive – Rutti
Dura dieci minuti questo brano capolavoro che apre “Pygmalion”, terzo lavoro della band culto inglese a cui seguì il buio per oltre ventidue anni, amata da Brian Eno e idolatrata da chi si perde tra gli arazzi distorti e psichedelici del regno shoegaze. Il titolo è terribile ma il pezzo scorre via liquido e surreale, tra chitarre dream e post rock. Ogni volta, mentre lo ascolto, viaggio da fermo, accompagnato da un fantasma con cui faccio subito amicizia. Andata e ritorno in uno spazio sonoro dilatato dove mi perdo piacevolmente per ritrovarmi tra le linee di una copertina spoglia, tipo un labirinto di vinile. Nero.

Joanna Brouk - The Nymph Rising, Calling The SailorJoanna Brouk – The Nymph Rising, Calling The Sailor
Una gemma del 1981, inizialmente racchiusa in “Sounds Of The Sea” stampato solo su cassetta e nel 2016 riproposta in “Hearing Music”, la doppia compilation retrospettiva a cura della Numero Group. Una traccia che utilizzo spesso nelle mie sonorizzazioni a tema teatro (“L’Urlo, Veneri E Vinili”, “Letteratura Erotica Al Femminile In Musica”, “Meditazione A 33 Giri”). Si viaggia letteralmente, bisogna solo chiudere gli occhi e lasciarsi andare. Altri luoghi sono possibili con queste sonorità. Non abbiate paura.

Massive Attack - Paradise Circus (Gui Boratto Remix)Massive Attack – Paradise Circus (Gui Boratto Remix)
Ho comprato questo 12″ single sided quando uscì, nel 2010. Pochissime le copie stampate, unofficial, ora diventate una vera rarità sul mercato dell’usato. Il DJ/producer brasiliano Gui Boratto cavalca per otto minuti uno dei classici più recenti della band bristoliana donando sensualità deep, una chitarra western morriconiana e tanto sesso (il resto lo fa la voce di Hope Sandoval). Se ho voglia di far muovere il piedino a qualche signorina questo è sempre il pezzo adatto, non si smentisce mai.

XXXV Gold Fingers - GalegosXXXV Gold Fingers – Galegos
Marco Erroi è uno dei migliori producer del nostro Paese, oltre ad essere un DJ sopraffino con tanta cultura ed uno stile unico. Tantissimi i suoi progetti, da Common Series a Erroi, Par Le Roi e la serie cult dei re-edit speciali XXXV. “Galegos”, uscito nel 2016 per la What Ever Not di Dan Mela e Dodi Palese, è una lunga frustata deep/afro, con un synth che sballottola alla grandissima. Una vera giungla. Ma non finisce qui. Io e Marco stiamo tirando su una label. Il progetto debutterà nella primavera del 2023. Il primo titolo sarà una compilation su vinile con otto artisti salentini, interamente immersa in area elettronica. Nome dell’etichetta? Dischi Spranti.

Moontribe - TechnologyMoontribe – Technology
La bellezza e la curiosità di questo brano, incluso nell’album “Moontribe”, è pane per i miei denti. Dietro si nasconderebbe uno strano personaggio o un collettivo di cui non si sa nulla. Nel 2018 l’israeliana Fortuna Records ha pubblicato questo assurdo disco che mischia tamburi sciamanici, tastiere devianti, danze latine, Sun Ra, Moondog e Idris Ackamoor. Roba incendiaria, un afro/blues/r’n’r da rito voodoo.

The Nightcrawlers - Crystal Loop IIIThe Nightcrawlers – Crystal Loop III
The Nightcrawlers è stato un trio creato a Philadelphia nel 1980 da personaggi folli, innamorati della musica classica, del krautrock e dei corrieri cosmici. Prima di sciogliersi, nel 1991, incidono tre album e la bellezza di trentacinque cassette, selezionate in piccola parte nel 2018 dalla Anthology Recordings (sublabel della Mexican Summer) per il doppio intitolato “The Biophonic Boombox Recordings”. All’interno quattordici tracce, tra cui “Crystal Loop III”, di pura decadenza sonica in bassa fedeltà, quasi una soundtrack di cupo e paranoico orrore metropolitano, confezionate in una copertina apribile con stranissimi disegni dal gusto esoterico ed un booklet bio/fotografico di ventotto pagine. Da maneggiare con estrema cautela, oppure no.

Golden Bug - YamaGolden Bug – Yama
È uno strano mondo sonoro quello del signor Antoine Harispuru aka Golden Bug, produttore francese con residenza a Barcellona. “Cosmic Trigger”, uscito nel 2019 sulla canadese Multi Culti, fa parte di una serie infinita di EP che, dal 2007, fondono elettronica, acid house, techno e nu-disco a strani e fumanti miscugli dub/world. La psichedelica “Yama”, brano che chiude il lato A, è lenta quanto basta per far andare tutti a casa, dopo diverse ore dietro una consolle.

(Giosuè Impellizzeri)

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Marco Passarani – DJ chart marzo 1994

Marco Passarani, Tunnel, marzo 1994

DJ: Marco Passarani
Fonte: Tunnel
Data: marzo 1994

1) Unit Moebius – Untitled
Inizialmente alimentata dai lisergici tracciati acid techno degli Unit Moebius, collettivo dei Paesi Bassi devoto ad un suono rude, scabro e virulento, la Bunker Records è la quintessenza dell’underground più sotterraneo, spietato e battagliero, agli antipodi del divismo. Per farsi un’idea più concreta di questa atipica etichetta decentrata rispetto alle classiche realtà discografiche del Vecchio Continente, sia per stile musicale che per organizzazione distante galassie dal fare aziendale, basti pensare che alcune pubblicazioni, contraddistinte dalla quasi totale assenza di riferimenti autoriali, pare siano state stampate col denaro raggranellato dalla vendita di LSD nei party organizzati negli squat. L’LP scelto da Passarani, ristampato nel 2018, include sette untitled (i titoli affiorano soltanto una quindicina di anni fa circa attraverso il sito internet del team) tenuti insieme da un’atmosfera sospesa che lascia scrutare in quelle dimensioni parallele raggiungibili mediante additivi psichedelici. Strutture ritmiche ad anelli, sciabolate di sintetizzatori, corrosioni acide, accartocciamenti timbrici: questi gli ingredienti della musica degli Unit Moebius dietro cui operano I-f, Guy Tavares, Nimoy e Duracel. Dopo circa una trentina di pubblicazioni la Bunker Records è costretta a chiudere, sembra per mancati pagamenti dei distributori. Riapre nel 1998 adoperando una nuova numerazione del catalogo e patrocinando una folta schiera di artisti (tra cui anche un italiano, il romano Composite Profuse) dediti a techno, acid ed electro. Per una visione d’insieme si rimanda a questo articolo scritto da Ivo D’Antoni per Electronique e pubblicato il 19 marzo 2014.

2) Mescalinum United – Vs. Evil (A New Level)
Inciso solo da un lato su vinile verde trasparente, “Vs. Evil (A New Level)” è un pezzo in cui l’autore, Marc Trauner, campiona il reticolato ritmico di “II Evolve The Future” dei Dynamix II per ricavarne qualcosa che ne rammenti l’atmosfera, in bilico tra electro e rintocchi industriali ed imbevuta da una sorta di inquietudine, ma proiettandola su scenari dalle tinte più gotiche. Trauner, meglio noto come Marc Acardipane, è ricordato come uno dei principali protagonisti della europeizzazione della techno avvenuta ad inizio anni Novanta, quando lancia etichette come Dance Ecstasy 2001 e la Planet Core Productions. Proprio nel catalogo di quest’ultima è racchiuso “Vs. Evil (A New Level)”, diventato un pezzo piuttosto raro per i collezionisti a causa della scarsa reperibilità.

3) Neuropolitique – Mind You Don’t Trip
A pubblicare la traccia in questione, nel 1990, è la Interface Records di Juan Atkins, ma solo in formato white label e sembra in appena 500 copie. Tre anni più tardi la britannica Peacefrog Records (per cui Passarani tempo dopo inciderà un album, “Sullen Look”) riesuma il progetto forse con l’intento di distribuirlo più capillarmente. “Mind You Don’t Trip” del compianto Neuropolitique è uno splendido arazzo techno fatto da nervose trame ritmiche attorcigliate ad onde concitate di chord che si infrangono su un granitico bassline. A fare da collante micro frammenti vocali lanciati in un gorgo sonico che rivela già una certa abilità tecnica nonostante per Matt Cogger fosse la prima esperienza discografica. Insieme a lui, sul disco, Anthony Shakir con “Sonar 123” e Reel By Real con “Surkit”. “Sundog” di Atkins viene invece rimpiazzata da un altro brano, “Sunlight”, che lo stesso Atkins firma però con lo pseudonimo Infiniti.

4) Outlander – Aural Scent
Rimasto negli annali grazie a quel “Vamp” che nel 1991 frulla acidismi a stab in cascata di memoria rave, Marcos Salon tiene in vita il progetto Outlander col costante supporto della R&S Records che in quel periodo è tra le etichette europee più influenti. È proprio la label gestita da Renaat Vandepapeliere a pubblicare, nel 1994, “Aural Scent”, un doppio in cui l’autore bilancia sapientemente techno, electro ed una patina trance che affiora in modo evidente da brani come “Beyond Computation” e “Shades Of Perception”. Con “Fragments Of A Hologram Rose” Salon si avvicina all’acid più tagliente mentre per la chiusura riserva un’escursione nei meandri più reconditi della sua creatività, “Turnin’ Down The Hyperbole” che, probabilmente, andrebbe suonata a 45 giri e non ai 33 indicati sull’etichetta centrale.

5) Alien Signal – Markarian 231
Ingiustamente ricordato solo per “Atomic”, diventato quasi un classico per gli amanti del filone dream progressive all’italiana, il capitolino Alex Silvi ha inciso altre meritevoli gemme come i due album firmati Alien Signal e pubblicati dalla belga Upland Recordings nel ’93. Il brano indicato nella classifica, nello specifico, è tratto da “Celestial Sights Of The Future” in cui l’autore si cimenta in quello che risulta essere un vero dittico sonoro. Da un lato lancia spettrali linee armoniche che, passando in un tunnel, si trasformano in un rigoglioso scrosciare melodico. L’effetto è simile a quando i maghi infilano qualcosa nel cilindro come delle carte da gioco o dell’acqua per poi estrarne, tra lo stupore degli astanti, un coniglio vivo o un mazzo di fiori. Nella fase finale si torna lì dove tutto è iniziato, a bordo di un sinistro tappeto soundtrackistico per riprendere il viaggio nelle tenebre spaziali verso le remote galassie di Markarian.

6) µ-Ziq ‎- Tango N’ Vectif
“Tango N’ Vectif” è il primo album inciso per la Rephlex da µ-Ziq, ai tempi un duo formato da Mike Paradinas e Francis Naughton. Aderente al filone braindance, è un disco che rivela quanto grandi possano essere i confini della musica elettronica a patto che non manchi la creatività. A livello tecnico viene realizzato con mezzi relativamente contenuti e già con qualche anno sulle spalle (sintetizzatori Yamaha DX 11, Roland D50, una batteria Alesis HR-16, un registratore multitraccia Fostex 280, un computer Atari 1040 ST e davvero poco altro) ed è l’ennesimo degli esempi che contribuisce a smontare il falso mito che per fare musica avveniristica occorrano strumenti altrettanto avveniristici e costosi. Dagli intricati reticoli ritmici di “Swan Vesta” e “µ-Ziq Theme” alla celestialità di “Burnt Sienna”, dalle atmosfere surreali di “Iesope” alle dissonanze di “Ad Misericordiam” passando per gli spasmi psicotici di “Die Zweite Heimat” e i rumorismi russoliani di “The Sonic Fox”: Paradinas e Naughton offrono un ottimo spaccato della IDM, quella dance music “intelligente” che vorrebbe arginare le derive subite dalla techno dopo l’esplosione dei rave considerate «sinonimo di corruzione e commercializzazione», così come scrive Simon Reynolds in “Energy Flash”. Ps: la foto in copertina è di Richard James alias Aphex Twin.

7) Tournesol – ?
I Tournesol si fanno notare grazie ad un’affascinante mistura tra breakbeat, IDM e trance ambientale, rivelando ottime capacità di andare oltre la prevedibilità della cassa in quattro. Non è ben chiaro però se Passarani si riferisse all’album edito da R&S Records nel 1993, o al lato b di “Kokotsu” o “Henka”, finiti invece nel catalogo della sublabel Apollo nel 1994. Nonostante le ottime premesse, dopo l’uscita del secondo LP nell’estate del 1995, “Moonfunk”, i danesi archiviano la partnership.

8) The Martian – Base Station 303
Dietro la Red Planet di Detroit opera il misterioso The Martian (collettivo guidato da Mike Banks o, come riportato sul retro della copertina della compilation “LBH – 6251876”, pseudonimo di un certo Will Thomas?), artefice di un sound prevalentemente a metà strada tra techno ed electro, irrorato da ritmiche pneumatiche e graffiato da artigli di TB-303. La traccia in questione è racchiusa nel doppio “The Long Winter Of Mars” in cui il serpente sinuoso dell’acid si infila nei pertugi di una batteria flangerizzata, entrando e uscendo proprio come fa un rettile che cerca riparo nelle rocce. Vale davvero la pena rammentare la presenza, sul lato a, di “Wardance”, impreziosita da un aquatic assault programming di Drexciya. Detroit techno di livello esagerato e meritevole di ristampa seppur ciò contribuirebbe a sottolineare, per l’ennesima volta, che per certa musica il futuro fosse ieri.

9) Sprawl – Subsonic Attack
Tratta da “Alien Language”, il primo 12″ che Andrea Benedetti firma Sprawl, “Subsonic Attack” è una traccia edificata su beat sghembi e dall’incedere meccanico, ma non è electro nel senso più stretto del termine. La fantastica ricchezza di elementi giustapposti (clap, hihat, cimbali, crash) ne fanno piuttosto una variante della techno intesa come musica sganciata da regole e stereotipi. Prodotto con Simone Renghi e Giampiero Fagiolo prossimi al debutto come T.E.W., il brano trova spazio sul disco inaugurale della Plasmek, etichetta curata dallo stesso Benedetti rimasta in vita sino al 2003 e saldamente ancorata a techno ed electro con partecipazioni di tutto rispetto, tra tutte quelle del sopraccitato I-f, Ra-X e Keith Tucker, a sottolineare quanto fosse cruciale ed internazionale la tappa romana negli anni Novanta.

10) ADSX – DSL 26
Di Andre Fischer alias ADSX ne abbiamo parlato già qui: questa “DSL 26”, edita dalla sua Injection Records nel 1993, risente in modo piuttosto palese di influssi aphexiani sia per quel che concerne la struttura e lo sviluppo della sezione ritmica, sia per l’uso delle pennellate melodiche, a metà strada tra le curve sinuose di nuvole ambient e il gorgogliare cristallino di un pianista jazz in salsa chiptune. Quando viene ripubblicato in digitale nel 2016, il pacchetto annovera due inediti, “Windscreen” e “303++”.

(Giosuè Impellizzeri)

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Anna Bolena, amante della musica senza confini

All’anagrafe è Antonella Pintus ma il mondo della musica la conosce come Anna Bolena. Nata a Sassari nel 1970 e trasferitasi a Roma nel 1989, inizia a mettere dischi come DJ nel 1995 e in parallelo organizza rave ed eventi di musica elettronica underground diventando la prima DJ donna attiva nel circuito dei freeparty capitolini. Creativa e propositiva, nel 1997 è tra i co-fondatori di Peti Nudi, fanzine che, come recita la sua biografia, «veicola informazioni su musica, stati alterati di coscienza e contesti sociali giovanili». Nel 1999 acquista il primo PC e, da autodidatta, si dedica alla composizione di musica con l’ausilio di vari programmi software. Nel contempo matura l’idea di creare un’etichetta discografica, Idroscalo Dischi, che lei stessa considera la prima ad essere generata dal fenomeno dei freeparty illegali. Legata a matrici industrial, IDM ed allo sperimentalismo rumorista di stampo russoliano, la label debutta nel 2001 con l’ambizioso “Smash Biotek” al cui interno si rinviene la musica, tra gli altri, dei D’Arcangelo, Marco Passarani, Andrea Benedetti e Marco Micheli ma pure di presenze estere come Venetian Snares, Eiterherd e Saoulaterre, e poi cresce di anno in anno contando sul supporto di artisti accomunati dalla propensione a spingersi ben oltre i confini della musica da ballo. Passando da esperienze musicali alle multimediali, la Bolena, di stanza a Berlino dal 2004, è una testimone autorevole della scena alternativa nostrana, contesto che meriterebbe più approfondimenti obiettivi dopo anni di pregiudizievoli demonizzazioni da parte dei media generalisti.

Antonella Pintus ancora adolescente in una foto del 1986

Con che tipo di ascolti trascorri infanzia ed adolescenza?
Mia madre era una promettente pianista. Da piccolina studiava al Conservatorio Luigi Canepa di Sassari e di lei hanno parlato sia giornali locali che nazionali. Quando rimase incinta di me aveva appena diciassette anni ma continuò comunque ad esercitarsi almeno otto ore al giorno, la sua passione per il pianoforte era davvero grande. Credo di aver ereditato proprio da lei l’orecchio per la musica classica e quella più “raffinata”, a cui mi sono avvicinata sempre di più nel corso del tempo. Durante l’infanzia ero attratta da altre cose ma pian piano ho recuperato. Per il mio primo documentario girato da videomaker, ad esempio, ho utilizzato parecchi campioni di musica lirica. Il mio papà invece era un abile calciatore. Quando fu convocato nel Cagliari però suo padre non acconsentì e quindi proseguì in modo amatoriale, facendo anche da trainer per giovani talenti di altre squadre. Pure lui mi ha trasmesso la passione per la musica, sin da quando ero piccola. In casa ne girava di tutti i tipi, classica, pop, rock, tradizionale… Qualche tempo fa mio padre mi ha regalato la sua collezione di CD jazz e blues, andata ad infoltire la raccolta dei dischi di musica classica di mia madre che nel tempo ho continuato a rimpinguare. Oggi possiedo circa 7500 titoli: non è una collezione enorme ma un bel pezzo di storia e di questo ne vado particolarmente orgogliosa. Quando avevo nove/dieci anni circa, d’estate andavo in vacanza dai nonni a Palau, in Costa Smeralda, lì dove nacque mia mamma. Proprio sotto la loro casa c’era un locale, il night club del paese, frequentato principalmente dalla comunità afroamericana (militari sempre molto eleganti con le mogli al seguito) della base NATO che stava sull’isola de La Maddalena. Qualche volta riuscivo ad entrare lì dentro, pur non potendo partecipare alle feste perché minorenne. La visione della sala da ballo con le luci psichedeliche e la consolle mi colpirono ed affascinarono parecchio. Quando tornavo in camera mi sdraiavo per terra e sentivo i battiti della cassa della musica disco suonare di sotto. Mi addormentavo così e non lo trovavo neanche fastidioso visto che le estati in Sardegna sono state sempre particolarmente afose e il fresco del pavimento mi dava un po’ di sollievo. Nell’adolescenza i gusti cambiarono. Se da piccola apprezzavo la disco, il pop e il funky, gli anni Ottanta mi portarono verso altri generi musicali, primi su tutti il gothic rock, il dark e la new wave. Alcuni amici più grandi acquistavano dischi per corrispondenza e, una volta giunti “nel continente” (così come si diceva da noi) me li registravano carinamente su cassetta. In quel modo ebbi la possibilità di ascoltare ed approfondire musica di band come Joy Division, Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees, Christian Death, And Also The Trees e praticamente tutta la produzione della britannica 4AD (impazzivo per i Cocteau Twins e Dead Can Dance!). Nel contempo non disdegnavo cose tendenzialmente più commerciali come The Smiths e Morrissey a cui devo il mio vegetarianesimo, Pogues, Who, U2 e il combat rock degli Alarm. Mi divertivo a ballare con gli amici che adoravano Bowie (io un po’ meno), l’indie rock e tutta la new wave nostrana, dai Litfiba ai Diaframma passando per i Not Moving. Gran parte di quei pezzi li conservo su cassetta. Mi piacevano molto anche i Culture Club, affascinata dalla stravaganza di Boy George. Frequentare giovani omosessuali alimentò l’interesse per le tematiche legate al gender e probabilmente ad accendere la curiosità fu il fatto di essere circondata da persone piuttosto bizzarre e particolari. Per il resto i miei anni Ottanta furono piuttosto “scuri” e passarono nell’attesa di lasciare Sassari alla volta di Roma, città in cui volevo andare a vivere sin da quando avevo tredici anni. Una volta terminato il liceo ci andai per davvero, con l’obiettivo di studiare psicologia. Da ragazzina, non disponendo di molti soldi, selezionavo scrupolosamente i dischi da comprare. Iniziai ad acquistare i dischi degli U2 che andai a vedere a Modena nel 1987 a sedici anni, e di quel concerto conservo gelosamente anche un’incisione bootleg, a mo’ di cimelio. Poi Joe Jackson, Television, Patti Smith, Talk Talk, Billy Bragg, Matt Bianco e il new folk inglese dei Fairport Convention, ma anche Neil Young, Van Morrison, Joan Baez, R.E.M., The Jesus And Mary Chain, Joni Mitchell, Janis Joplin…

Cosa era per te la “musica elettronica”?
Ho iniziato ad interessarmi di musica elettronica (intendendo quella da discoteca) solo negli anni Novanta. Prima nutrivo per essa una sorta di antipatia, forse perché non mi aveva stimolato a sufficienza. Molti amici partivano dalla Sardegna alla volta del Cocoricò di Riccione ed io li sfottevo sostenendo che quella proposta lì dentro non fosse affatto “musica”. Ai tempi ero attratta da altro, in primis dalla musica suonata con gli strumenti tradizionali, ma affermare che l’elettronica non rientrasse a priori nei miei interessi potrebbe essere sbagliato e fuorviante perché il suono dei sintetizzatori aveva preso ampiamente piede nel pop e rock degli anni Ottanta. Ai tempi ballavo tantissimo e di tutto, ed anche quando mi trasferii a Roma continuai a frequentare le scene più disparate. Ero di casa al Uonna, sulla Cassia, dove la musica era ancora la new wave dei Cure, Bauhaus o Joy Division, ma la fortuna di avere un orecchio parecchio aperto mi diede lo stimolo per aprire nuovi orizzonti. Ad attrarmi fu principalmente il suono britannico, forse perché ero già appassionata del pop composto oltremanica. Negli anni Novanta l’IDM della Warp fu il genere che mi prese di più, senza ombra di dubbio. Per quanto riguarda invece la scena nostrana, vivere a Roma per quindici anni mi ha dato la possibilità di entrare in contatto col cosiddetto Sound Of Rome che ritengo la massima avanguardia anche a livello internazionale. Acquistai subito i dischi di Leo Anibaldi e dei D’Arcangelo che mi piacevano tantissimo, senza dimenticare il progetto Automatic Sound Unlimited condiviso con Max Durante (di cui parliamo qui, nda) che proponevo senza tregua nelle mie serate. Ai tempi, parlo della metà degli anni Novanta, una buona parte degli avventori dei rave, anche più giovani di me, era interessata e disposta a sentire cose realmente alternative e non necessariamente orecchiabili. Nel corso del tempo ho progressivamente aumentato la conoscenza approfondendo ed interessandomi a generi complementari, recuperando davvero tanto della produzione italiana che non tenni in considerazione perché consideravo troppo commerciale. Dalla deep house alla progressive sino alla hi nrg, tutto è finito nella mia collezione. A posteriori ho scoperto pure di essere letteralmente innamorata della house cantata da voci femminili. Alcuni che mi seguono si sono stupiti quando ho iniziato a proporre quel tipo di sonorità nei miei set, ma per me è stata una sorta di recupero della black music che ho vissuto da bambina negli anni Settanta. La mia passione per la musica è davvero a 360 gradi ed affrontare nuovi generi non vuole affatto essere uno scimmiottamento. Sorprendere e non dare nulla per scontato è alla base del mio concept e viene naturale contaminare continuamente le mie radici, fa parte della mia personalità, del mio carattere e del mio modo di intendere il party.

Nel ’95 ha inizio la tua carriera da DJ e, in parallelo, da organizzatrice di party, rave ed eventi underground. Come ricordi quel periodo? Il fatto di essere donna ha mai rappresentato un problema o generato discriminazioni in un ambiente dominato quasi esclusivamente dal sesso maschile?
Mi sono ritrovata in una scena che non era esattamente quella di riferimento perché ero un’attivista politica, facevo parte dei gruppi extraparlamentari romani, ero legata ai centri sociali e frequentavo principalmente ambienti anarchici e studenteschi. Dopo una fase iniziale più “commerciale”, il cui il “suono di Roma” si espresse nella sua forma migliore ma a cui non aderii, iniziai a partecipare a piccolissimi party organizzati in periferia da amici dei centri sociali. Eravamo pochissimi, dalle cinquanta alle cento persone. Avevo poco più di vent’anni e la mia passione era, semplicemente, ballare. Ad iniziare quella scena furono miei coetanei o gente poco più grande di me. Alcuni conducevano una trasmissione su Radio Onda Rossa e sdoganarono la techno negli ambienti di sinistra, lì dove erano radicati parecchi pregiudizi perché, è bene ricordarlo, la techno a Roma era collegata principalmente agli ambienti di destra. Era comprensibile quindi il motivo per cui compagni e compagne nutrissero dei preconcetti, anche perché ascoltavano tutt’altra musica come il punk e il reggae. Nel 1990, un anno dopo essermi trasferita nella capitale, iniziai a partecipare attivamente al movimento di protesta della Pantera, nato negli ambienti universitari palermitani e poi esteso in molte altre facoltà d’Italia. Seguivo i corsi di psicologia nella sede distaccata de La Sapienza che fu la prima facoltà che occupai a Roma. Proprio lì si creò il fenomeno delle posse, nato in seno alla cultura hip hop, che rappavano canzoni di protesta. Il rap era già entrato nei centri sociali e il fenomeno si ingrandì a dismisura di fronte alle folle di studenti. Poi toccò anche all’elettronica, peraltro già presente in qualche modo nell’hip hop, ed infatti alcuni rapper parteciparono alla scena rave come alcuni collaboratori degli Assalti Frontali di stanza al Forte Prenestino. All’inizio, come spiegavo prima, ero una semplice frequentatrice perché mi piaceva ballare. Un giorno, in un piccolo rave organizzato nella zona di Valle Aurelia, un paio di amici mi invitarono a mettere dei dischi, forse perché non c’era il DJ o forse perché loro erano stanchi, non ricordo più con esattezza. Era l’estate del 1995 e da quel momento non mi sono più fermata. Compravo dischi, accumulavo contatti internazionali ed allacciavo rapporti diretti coi negozi saltando i passaggi coi management di turno che ho trovato sempre un po’ discutibili. Non nascondo che essere donna abbia creato alcune situazioni imbarazzanti da parte di alcuni maschietti misogini o comunque non abituati a vedere donne dietro la consolle, e non mi riferisco solo alla mia figura artistica (approcciai al DJing in modo estremamente discreto, non considerandomi una musicista ma più un’eccentrica ed un’intellettuale visto che studio da sempre) ma soprattutto al ruolo di organizzatrice. Per lungo tempo ho gestito le consolle e ciò è avvenuto sino a pochi anni fa con l’attività di booker a Berlino, ed è capitato molte volte che alcuni DJ (anche famosi) si irritassero per il fatto che fosse una donna a gestirli. Sento comunque di aver avuto rispetto e considerazione perché sono sempre stata attiva, creativa e propositiva, e credo che tutto ciò mi abbia “salvata”. Confrontarmi coi maschi in consolle, perlopiù etero – molti amici gay non palesavano le loro preferenze sessuali come oggi, la musica era più importante dell’esprimere esigenze di tipo affettivo o sentimentale – talvolta mi ha obbligata a fare delle scelte, ad esempio rinunciare ad esprimermi in modo più coraggioso. Sia chiaro, non ho mai avuto esigenze tipiche dei maschi che erano guardati da tutti e si potevano permettere di fare i “piacioni”, atteggiamento che ho sempre odiato. Essendo donna però non potevo fare lo stesso, sarei subito passata per una poco di buono. La donna non poteva fare le stesse cose che facevano i maschi (seppur non mi piaccia molto parlare di “femmine” e “maschi”), specialmente quando si parlava poco di misoginia che era un vero e proprio tabù. Per un po’ di tempo sono stata l’unica donna in consolle nella scena dei freeparty, le amiche si occupavano di decorazioni, bar ed organizzazione ma poi, per fortuna, altre hanno seguito il mio esempio facendo crescere le quote rosa.

Perché ti trasformi in Anna Bolena? Quali ragioni ti spingono ad adottare uno pseudonimo di taglio storico?
Negli anni Novanta, quando era tanto di moda usare i nickname, iniziai come Meridiana 07, ispirata dalla Meridiana del fumetto Cybersix. Con quello pseudonimo firmai anche gli articoli sulla rivista Peti Nudi. Nel momento in cui diedi avvio all’attività da artista però, decisi di optare per uno più forte e giunsi ad Anna Bolena, figura storica perfetta per rappresentare il mio concetto di DJ. Ho letto vari libri a tal proposito e l’aspetto che mi interessava maggiormente della Bolena non era tanto quello della famiglia di nobili origini bensì la sua raffinatezza e cultura, la capacità di suonare musica, scrivere poemi e, non meno importante, la propensione a circondarsi di musicisti, esattamente quello che facevo io. A ciò si aggiunse infine l’aspetto politico: Anna Bolena e il suo matrimonio con Enrico VIII originò lo scisma anglicano, e vista la mia crisi mistica che mi ha portato ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della chiesa cattolica, ciò mi affascinò spingendomi ad abbracciare questa figura storica assai controversa.

Roma, città in cui vivi ai tempi, è stata una vera roccaforte della techno e della house ma pure dei rave che iniziano a diffondersi tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta, come hanno descritto qui e qui Leo Young e Max Durante. C’erano sostanziali differenze tra i rave/eventi che ti videro come protagonista e quelli precedenti? Esisteva un filo conduttore ed un continuum tra quelle due epoche consecutive o si trattava di movimenti che non potevano essere considerati l’uno l’evoluzione dell’altro?
Come accennavo prima, non ho partecipato alla prima fase dei rave, quella legata alla scena delle discoteche o comunque organizzata e gestita da personaggi di quel circuito. Tuttavia, nel corso degli anni, sono entrata in contatto con alcuni dei protagonisti di quel momento, come Leo Anibaldi, Lory D, Marco Passarani e Marco Micheli, collaborando in consolle o discograficamente. La differenza principale tra il primo movimento rave e quello successivo, nato intorno alla metà degli anni Novanta e meglio identificato come “illegal” o “freeparty”, era l’auto-organizzazione. Facendo parte di movimenti politici extraparlamentari che credevano fermamente nell’autogestione degli spazi sociali, portammo avanti in maniera coerente questo “diktat” occupando spazi, come capannoni industriali in periferia e gestendo autonomamente il divertimento. Era questo il messaggio più forte che lanciavamo, la nostra parola d’ordine. Iniziammo prendendo le distanze da ciò che era avvenuto prima, dalla scena considerata più “mainstream” o comunque inserita in contesti legali, seppur non mancarono rapporti con alcuni dei personaggi-simbolo di quegli eventi. La stima era immensa e certi riuscimmo a portarli nei nostri party e con le nostre regole, ma con qualche polemica. Quando venne a suonare Lory D alla Fintech, ad esempio, gli venne riconosciuto un cachet ed alcuni protestarono in nome di un approccio diverso (si suona per amore dell’arte, della musica, della politica e dell’essere alternativi) e nacquero diverse discussioni, anche accese. A posteriori mi rendo conto che fosse giusto che Lory D venisse pagato perché era un musicista e viveva di quello, ma ai tempi il nostro approccio era diverso. Sotto il profilo sonoro, la musica era molto contaminata. Passavamo dalle produzioni più famose a quelle underground, portate da amici che andavano personalmente a Londra o a Berlino a comprare dischi. Si trattava prevalentemente di limited edition di mille copie. Così conobbi la Praxis di Christoph Fringeli e tutta una serie di etichette affini che si possono raccogliere sotto il cappello della breakcore e della musica estrema che in quegli anni mi appassionò parecchio insieme alla darkstep e al drum n bass. Non dimentico ovviamente gli Spiral Tribe, famosissimi traveller britannici che riuscirono a portare il loro sound e il loro verbo fuori dai confini patri, seppur con un approccio non molto vicino alla mia sensibilità, più intellettuale, sperimentale e in qualche maniera più varia ed aperta. Tuttavia sono orgogliosa di possedere alcune edizioni originali dei loro dischi. Ad un certo punto è stato necessario legalizzare tutto, non era più possibile andare avanti così e le special guest andavano pagate. Non so se sia stata un’evoluzione o un’involuzione ma ormai viviamo in un mondo in cui non è più possibile sottrarsi alla sicurezza e al controllo sociale. Gli anni Settanta, Ottanta e in parte i Novanta sono stati importanti nella storia politica perché c’era la possibilità di muoversi ancora a livello sotterraneo. Ciò che quel periodo mi ha lasciato in eredità adesso lo esprimo a livello creativo e non ho timore del giudizio del pubblico. Quando sono in consolle voglio stimolare le persone che mi stanno davanti, non annoiarle o consumarle.

Anna Bolena in uno scatto di pochi anni fa

Nel documentario del 2011 “Tekno – Il Respiro Del Mostro” diretto da Andrea Zambelli e recensito qui, parli di un nuovo modo di vivere l’aggregazione reso possibile proprio dal movimento legato ai freeparty. Quale divario sussisteva tra il mondo delle discoteche e quello dei rave illegali?
La differenza sostanziale tra i due contesti risiedeva nell’aspetto politico. Se vai in una discoteca prendi quello che ti organizzano ma non sei tu il diretto protagonista. Chi frequentava i rave illegali invece aveva la possibilità di esprimersi molto di più rispetto all’ambiente discotecaro. Non esistevano guest list, non era necessario pagare parecchi soldi per entrare e, in linea più generale, non si subiva e si consumava quello che veniva offerto. Gli avventori dei freeparty erano persone appartenenti ad un circuito ben preciso, legato ai centri sociali ma non solo. Visti i contatti tra i vari gruppi territoriali, tra centri sociali ed altri spazi occupati, fummo capaci di portare nei nostri spazi pure ragazzi e ragazzini provenienti dai classici muretti di aggregazione sociale della Roma degli anni Novanta e questo, non lo nego, a volte ha causato problemi coi compagni che vedevano la cosa molto poco ortodossa. Resta però la soddisfazione di essere riusciti a sdoganare la techno all’interno dei centri sociali, impiegando un po’ di anni per far capire che quella musica potesse creare una nuova forma di aggregazione, e di strappare giovanissimi (minorenni inclusi) ai “muretti fascisti” mostrando loro la possibilità di poter vivere il divertimento senza essere seguiti, controllati, repressi o persino picchiati dal punto di vista fisico. Loro videro come ballare la techno senza saluti romani o altri tipi di posizioni ed atteggiamenti mentali tipici di quell’ala politica che, lo dico a malincuore, erano molto presenti nelle discoteche. Anche per questo motivo prendemmo le distanze dal mondo discotecaro, un ambiente in cui ciò che contava di più era consumare, alcool e non solo. Noi cercammo di fare controinformazione pure sull’utilizzo delle sostanze che, è inutile negarlo, c’è stato anche ai freeparty, abbondante ed esagerato. Distribuivamo volantini informativi con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui rischi che si correvano, e da lì nacquero persino ricerche, articoli e libri diffusi in un circuito esterno a quello commerciale ed istituzionale. Ad un certo punto iniziammo a cooperare pure con le istituzioni: a Bologna ad esempio, dove il movimento era legato prevalentemente al Livello 57, parecchi compagni si interessarono all’uso delle sostanze psicotrope creando spazi appositi dove la gente poteva richiedere informazioni ed essere seguita, innescando meccanismi e dinamiche superpositive per dare supporto a chi cercava aiuto dal punto di vista psicologico. Tutto ciò invece era davvero difficile trovarlo nelle discoteche. Parte di questo approccio è rimasto in vita in alcuni sex party berlinesi, dove organizzazioni operano in sinergia con le istituzioni per informare sui rischi che si corrono ad esempio facendo sesso abbinato a sostanze stupefacenti, ma senza soffocare o reprimere chi vuole praticare ciò.

In più di qualche occasione hai posto l’accento sulla valenza culturale della musica elettronica. I tuoi studi universitari (laurea in psicologia e un master in programmazione neurolinguistica e comunicazione efficace) ti hanno aiutato in qualche modo ad andare oltre il pregiudizio riservato ancora da molte persone nei confronti di (certa) musica elettronica? Perché nello specifico la techno è stata oggetto, sin da subito, di una connotazione negativa al punto da essere apostrofata come “musica del diavolo”? In tal senso, quali sono stati i grandi errori compiuti nei primissimi anni Novanta in Italia, e da chi? Sarà possibile eradicarli in un futuro non troppo lontano?
Ritengo che il mondo sia abbastanza conformista e non così propenso alle novità. La techno, analogamente ad altri generi musicali, ha subito l’ostracismo della vecchia generazione con tutte le conseguenze del caso. All’inizio in certi ambienti, come il mio, si avvertiva pure tensione per la differenza di vedute. Il fatto che la gente non abbia accettato di buon grado la techno abbinandola a cose che non avevano nulla a che fare con essa fu forzatamente normale e coerente. La techno servì a “rompere” le solite cose, anche in merito alla gestione degli spazi sociali. I rave illegali usarono la techno perché in quel preciso momento era il tipo di musica più adeguato a comunicare il nostro pensiero. Era un suono emergenziale che nella sua aggressività esprimeva protesta e che in qualche maniera ben si connetteva al concetto del “mordi e fuggi” tipico delle TAZ – zone temporaneamente autonome. Ai tempi la techno era un suono contaminato da tantissime cose e tradizioni plurime, adesso invece si è trasformata in un filone conforme, è sufficiente variarne appena il suo codice per finire in aree attigue identificate con altri nomi. Molti compagni non avevano affatto piacere di sentire la techno, non erano stimolati da quel suono come del resto non lo ero io sino a pochi anni prima. A volte, si sa, l’approccio personale può incidere sul giudizio di qualcosa. La techno per me si rivelò come un universo da scoprire ma non l’unico, visto che nel tempo la ho accantonata per seguire altri generi che invece avevo trascurato. Negli anni Novanta esisteva un approccio più aperto ma, come in tutte le decadi in cui nascono e si sviluppano cose nuove, si verificò la severa condanna dell’opinione pubblica, ma non me la sento di dare giudizi a ritroso su cosa si potesse fare o dire.

Cosa è diventata la techno nel 2021?
Molta della produzione techno attuale è la fotocopia di cose già sentite, e in questo rientra pure la mia produzione seppur tenti di fare sempre qualcosa di nuovo adoperando un suono che esprima la mia personalità e gusto. Sono cosciente di non possedere particolari capacità rivoluzionarie ma preferirei che siano i critici a stabilirlo, non come fanno alcuni artisti egocentrici e narcisisti, aiutati parzialmente dai social network. Adesso bisogna uscire dal conformismo e dalla propria comfort zone, non esiste praticamente più l’effetto sorpresa di un tempo. Anche nell’ambito dell’organizzazione sono dell’avviso che le nuove generazioni abbiano un po’ perso quella che era la nostra capacità di voler fare qualcosa di nuovo. Molti seguono pedissequamente ciò che c’è stato, senza novità e capacità creative, convinti che rientrare in una categoria possa essere sufficiente per fare carriera. È proprio il concetto di “fare carriera” a dover essere messo in discussione e su questo punto rimango sempre politica: per me la musica è uno degli elementi della vita ma non l’unico. Bisogna provare altre strade, cimentarsi in prove diverse e cercare soprattutto di essere curiosi e sempre pronti e flessibili al nuovo. In questo momento di pandemia poi ancora di più, non solo per adeguarsi ma sopravvivere. In tutta franchezza, un certo tipo di techno ripetitiva, ridondante e fastidiosa non riesco proprio più ad ascoltarla ed apprezzarla, ma non voglio passare per nostalgica perché sono più propensa a guardare ciò che arriverà e non quello che è stato. Vorrei sentire cose nuove, magari generate dal crossover tra culture diverse. Non voglio rassicurare me stessa e gli altri, amo l’effetto sorpresa.

La copertina di uno dei primi numeri di Peti Nudi

Negli anni Novanta il giornalismo musicale nostrano legato alle nuove forme di dance music (house, techno e derivati) è stato particolarmente lacunoso. Certi contenuti riuscivano a filtrare solo attraverso free press e fanzine e non tramite testate editoriali ufficiali, perlopiù interessate solo ed esclusivamente al mainstream. Tu stessa, nel 1997, hai creato una fanzine provocatoria sin dal nome, Peti Nudi. Di cosa si trattava?
Provenendo dal rock e dall’indie, ero più vicina a riviste tipo Rumore, Rockerilla o Rolling Stone e non seguendo le attività delle discoteche di conseguenza non mi interessavano quelle testate che ne parlavano. Peti Nudi era una “techno-zine” in formato A4 ripiegato. Nacque alla fine del settembre ’97 e diede l’occasione, a me ed agli altri che mi accompagnarono in quella esperienza editoriale dal sapore do it yourself, di raccontare in modo provocatorio e scanzonato la scena non commerciale della musica elettronica che ci piaceva allora. Esistevano anche altre fanzine di quel tipo come Torazine, che rispetto a Peti Nudi contava su una redazione più corposa ed una distribuzione più capillare. Il giornalismo mainstream non fu capace di trattare adeguatamente gli argomenti, ma del resto senza vivere le esperienze in prima persona è difficile raccontarle. I giornalisti al massimo si limitavano a scrivere ciò che avevano sentito dire, avvallando certe tesi piuttosto che altre (e a tal proposito ricordo una trasmissione televisiva, Lucignolo mi pare, che mandò un servizio sui rave tagliato ad hoc da cui non emergeva nulla se non ciò che volevano loro). Peti Nudi ed altre riviste simili nacquero fondamentalmente per “suonarcela e cantarcela”, consentendoci di raccontare la nostra storia e dare valore al movimento tekno dei freeparty, senza alimentare demonizzazioni su quella che fu descritta tante volte come “musica non musica”. Non dimentichiamo che l’Italia è un Paese fatto perlopiù da persone fintamente cattoliche, bigotte, destroidi e tradizionaliste, allo stesso tempo con la puzza sotto il naso e poco propense ad accettare cose che non si conoscono e che vengono messe subito all’angolo, tra “i cattivi”.

Che negozi di dischi frequentavi?
A Roma andavo da Re-Mix, l’unico ad essere superfornito della musica che mi interessava. Qualcosa la acquistavo pure attraverso amici che si recavano direttamente a Londra ed ogni tanto ero io stessa a volare all’estero. Nel 1996, in occasione della Love Parade, misi piede per la prima volta nel berlinese Hard Wax (a cui abbiamo dedicato qui un articolo di “Dentro Le Chart”, nda). Lì presi “Port Rhombus EP” di Squarepusher, su Warp, artista che proposi credo per prima nel circuito dei freeparty italiani. La gente impazzì completamente, era un disco importantissimo sia per lui che per noi, uno di quelli che hanno segnato un’epoca.

Quando e come hai iniziato a produrre musica non limitandoti più a selezionare e mixare quella degli altri?
Arrivai a comporre musica per pura curiosità e non perché avessi aspirazioni carrieristiche o ambizioni da musicista anzi, essendo figlia di una pianista, ho sempre nutrito una forma di rispetto nei confronti dei musicisti, cosa che invece spesso è mancata da parte di tanti DJ. Affrontare l’avvento delle tecnologie con l’acquisto di un computer abbinato all’installazione di nuovi programmi mi diedero la spinta a cominciare, ridendo e scherzando. Non avevo pianificato nulla e testimone di ciò che sostengo è la mia assenza dal primo disco su Idroscalo. Il rispetto marcato nei confronti di chi faceva musica da più tempo mi convinse a tenermi in disparte. Poi, pian piano, mi sono procurata un po’ di macchinette con cui ho migliorato e perfezionato il mio sound, nato come raccolta sedimentata di suoni, registrazioni ed incisioni analogiche e digitali. Sono passata da velocità estreme, anche oltre 200 BPM, a cose lentissime, a 30 o 40 BPM. Non fossilizzarmi fa parte del mio carattere.

Anna Bolena in consolle in un club di Berlino nel 2016

Come si è evoluta la tua attività produttiva nel corso del tempo?
Sono partita dalla migliore tradizione IDM, industrial e techno, migliorando l’accortezza per il dettaglio. Ora sono meno frettolosa e più meticolosa, e mi avvalgo anche della preziosa collaborazione di ingegneri del suono che mi aiutano a migliorare il sound seppur le idee restino sempre e solo mie. Questo è fondamentale, anche in studio: accettare suggerimenti va bene ma bisogna evitare di perdere la narratività e mantenere integra la capacità di creare storie e l’atmosfera con la propria musica. Per fare ciò è necessario tempo e non a caso la mia prima produzione su vinile è giunta a ben quattordici anni di distanza dall’esordio come DJ. Non ho mai pensato di sfruttare la mia etichetta per autoprodurmi, ho preferito invece dare spazio agli altri. La mia prima produzione è stata “Homopatik”, del 2012, a cui è seguito poco altro.

Sul fronte live/DJing invece?
Suonare live è radicalmente diverso rispetto ad un DJ set. Credo di avere raccolto più riscontri come DJ che live performer. Fare il DJ è più versatile, è un ruolo che ti offre la possibilità di cambiare il disco che pensavi di mettere anche all’ultimo minuto, velocità che invece non puoi affatto disporre nella dimensione live dove tutto è ben concepito e studiato. Per questa ragione quando mi esibisco nei live preferisco tempistiche molto ridotte, dai venti ai quaranta/quarantacinque minuti. Se il suono è particolarmente aggressivo è meglio dosarlo, in modo tale che la gente abbia nuovamente voglia di sentirti in futuro.

Il logo di Idroscalo Dischi

Nell’autunno del 2001, attraverso “Smash Biotek”, debutta ufficialmente Idroscalo Dischi, la tua etichetta che affonda saldamente le radici nel suono IDM ed industrial dalle tinte spiccatamente sperimentali e che, come tu stessa dichiari sinteticamente in “Rave In Italy”, il libro di Pablito El Drito di cui parliamo qui, è stata la risposta alla fine dei rave. Puoi approfondire le ragioni che ti spinsero a crearla? C’è un particolare significato dietro la scelta del nome?
Per approntare “Smash Biotek” ci vollero un paio d’anni circa. Era un triplo vinile e nacque per lanciare il messaggio dello stato delle cose di quel periodo, oltre a voler unire la vecchia generazione del cosiddetto Sound Of Rome con la nuova. Il tutto condito da alcuni interventi internazionali, come quello di Venetian Snares con la bellissima “Withdrew”. Come giustamente dicevi, il debutto risale all’autunno 2001 ma l’idea risale al 1999 quando i rave illegali subirono un discreto calo di interesse causato dalla riduzione di creatività e del livello organizzativo. Iniziò a circolare la proposta di mettere in piedi un’etichetta discografica per dare voce alla nostra musica e alla fine credo che Idroscalo Dischi sia stata la prima ad essere uscita dal circuito dei rave illegali romani. Optai per il nome Idroscalo perché ero molto attiva all’interno dello Spaziokamino di Ostia, dove appunto sorge un idroscalo, ma pure perché ero appassionata di Pasolini e nel ’75 il suo corpo venne ritrovato proprio all’idroscalo ostiense. Idroscalo Dischi fu un omaggio alla sua figura. Scelto il nome, facemmo una colletta per finanziare il progetto e tanti artisti della vecchia scuola romana diedero il proprio contributo. A quel punto presi in mano le redini della situazione occupandomi personalmente delle scelte del pressing plant, della burocrazia, della raccolta del materiale e relativa archiviazione. La presenza di artisti stranieri fu il risultato dei miei viaggi, soprattutto a Berlino. Desideravo avere qualche artista estero per dare un afflato più internazionale al disco. Fu un lavoro duro e lungo ma alla fine gli sforzi vennero ripagati alla grande. Ciliegina sulla torta la copertina, realizzata dal compianto Paolo Picozza che la realizzò a titolo gratuito insieme ai centrini, elevando il livello artistico dell’intera produzione. In fase di distribuzione trovai in Chris della parigina Toolbox Records un più che valido collaboratore. Mi aiutò a piazzare tutte le cinquecento copie a cui non è mai seguita alcuna ristampa. Non ne farò neanche in futuro, “Smash Biotek” era e resterà una limited edition.

La copertina di “Smash Biotek”, il 3×12″ che apre il catalogo di Idroscalo Dischi nel 2001

La parte interna del gatefold di “Smash Biotek” racchiude una serie di tue ponderate considerazioni sulla bioscienza. «Da una parte siamo incastrati nella becera sopravvivenza del mangiare/cagare/riposare, dall’altra siamo affascinati dall’immortalità del bisturi chirurgico che è capace di tagliare/staccare/cucire/forgiare la bellezza clonata, uguale quindi rassicurante» si legge tra le altre cose, e non mancano prese di coscienza sullo stato del pianeta: «Sappiamo che l’aria che respiriamo è inquinata irrimediabilmente, senza ritorno ad una presunta verginità […]. Siamo schiavi di poche risorse, irrinunciabili carburanti che bruciano per accelerare il nostro inevitabile invecchiamento». A torreggiare su quella colonna di pensieri, tradotti in francese, inglese e tedesco, c’è un invito a mo’ di capitello, evidenziato in grassetto: «Ferma la bioscienza prima che la natura scateni la sua ira». A quasi circa venti anni di distanza tante cose, purtroppo, sono accadute per davvero. Stiamo assistendo inermi allo sfacelo del mondo e della società?
All’epoca l’argomento era decisamente “caldo”, l’utilizzo della biotecnologia invasiva nella vita quotidiana, l’abuso della scienza sulla naturalezza degli eventi… del resto il virus stesso del covid-19 credo sia la drammatica risposta all’intromissione dell’uomo nei confronti dei meccanismi naturali che avvengono sul nostro pianeta. Ora ci fidiamo degli esperti sperando che le cose non peggiorino ulteriormente e forse quello che scrissi circa un ventennio fa si è rivelato tristemente profetico. In quell’occasione cercai di dare al tutto una forma un po’ poetica. Le persone stavano attraversando l’inizio del secolo/millennio con paura e senso di frustrazione derivata dall’impossibilità di controllare il passare del tempo, l’invecchiamento, il cambiamento. Ritengo invece che tutto ciò debba essere affrontato con energia ed entusiasmo, in fondo invecchiare fa parte della natura dell’uomo, non possiamo rimanere eterni e sempre uguali, fare le stesse cose, ripeterci continuamente in un loop biologico infinito, sarebbe noiosissimo. Ripetersi è legato alla paura per la diversità e per l’imprevisto e nella paranoia di voler controllare tutto adesso ci stiamo rendendo conto che la natura si è ribellata, basti pensare alle catastrofi naturali che sono all’ordine del giorno. Non ho figli ma lavorando all’interno del sistema scolastico mi pongo il problema di cosa stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni ed oggi non so dare una risposta. Credo che l’uomo sia capace di adeguarsi di fronte a grandi cambiamenti o drammi che possono succedere, lo spirito di adattamento è insito nella nostra natura e la vita è un continuo equilibrio. Bisognerebbe rendersi conto che una parte della bellezza della nostra esistenza sia rappresentata proprio dall’imprevisto.

Torniamo a parlare di Idroscalo Dischi: quali sono gli highlight che segnaleresti a chi non la conosce e vorrebbe “esplorarne” i contenuti?
Preferirei che l’ascoltatore scoprisse tutto da solo, in modo autonomo, c’è già internet, coi suoi infiniti suggerimenti, ad impigrire le persone. Un valido aiuto è rappresentato da Discogs e YouTube. Personalmente sono affezionata a tutte le uscite su Idroscalo, è stata una bella avventura nella sua interezza.

Credo che l’ultima pubblicazione su Idroscalo Dischi, il tuo “Kill The DJ In You”, risalga al 2017: si tratta di uno stop temporaneo o definitivo?
Per il momento l’etichetta è in stand-by. Ho bisogno di trovare artisti interessanti e sarei propensa a produrre una giovane donna, ma vista la situazione particolare che viviamo preferisco attendere.

Tra 2018 e 2019 hai inciso una manciata di titoli (“I Got Back The Soul Sold In The 90’s” e “Feeling Jazz” di G.A.Z.A. col featuring di Danny Polaris) per Underground, una delle etichette della Media Records recentemente risorte. Come sei arrivata lì? Prevedi di dare continuità a questa collaborazione?
Sono stata contattata da Alessandro, uno dei referenti di Underground. Cercava materiale techno e gli ho proposto diversi pezzi utilizzando pure il nickname G.A.Z.A. che risponde ad un sound più ibrido. L’esperienza è stata carina ma non credo ci siano i presupposti per replicarla. La Media Records non ha più lo splendore di una volta, Gianfranco Bortolotti mi pare interessato più al mainstream (rap e trap) contro cui non ho nulla, ribadisco che a me piace davvero di tutto, ma credo che per portare avanti certi progetti servano maggiori investimenti e soprattutto più attenzione. Mi aspettavo una promozione migliore che purtroppo non è arrivata quindi alla fine ritorno al “mio” underground.

Volevi lanciare un messaggio attraverso il titolo “I Got Back The Soul Sold In The 90’s”?
È un po’ provocatorio, lo ammetto, specialmente nei confronti di chi ha un concetto sacro degli anni Novanta, un periodo che è stato anche abbastanza turbolento, triste e pesante e non sempre confortante come si immagina e sostiene. Mi piace usare titoli ad effetto, fa parte del mio modo di declinare le cose.

Un’altra foto di Anna Bolena impegnata in consolle

Vivi a Berlino dal 2004: ritieni che la capitale tedesca possa essere ancora annoverata tra gli avamposti della club culture europea, o la spinta della gentrificazione ha contagiato pure il mondo della musica?
La gentrificazione è un problema che tocca tutti gli ambiti della vita, e forse è anche normale, ogni tanto bisogna resettare. Molti compagni si lamentano che alcune case occupate siano state ristrutturate dimenticando però che alcune fossero vere e proprie topaie. Si va avanti, non si può rimanere ancorati a contesti fatiscenti che portano altri tipi di problematiche. Chiaramente quando la gentrificazione spopola per dare spazio al turismo elitario non è bello, ma succede in tutte le capitali del mondo e non credo ci sia la benché minima possibilità di uscire da un meccanismo di questo tipo. Per farlo dovremmo mettere in discussione il sistema capitalistico e creare un altro modo per aggregarci e vivere. È il capitalismo stesso a chiedere ed imporre la velocità nel cambiamento e quindi la continua resilienza per affrontare nuove sfide, la maggior parte delle volte insidiose. All’interno dei club berlinesi la musica si è fermata già da tempo. È molto facile sentire DJ affermati che suonano sempre e solo le stesse cose, non provando a fare niente di nuovo ma limitandosi a quello che sanno fare e che la gente si aspetta da loro. Alla fine credo che il vero problema sia il carrierismo che ha portato molti DJ ad allontanarsi dalla passione per la musica in favore di quella per il soldo facile. La finalità di tanti è ricercare il grande consenso ed un pubblico pronto ad omaggiare ed applaudire a prescindere da ciò che si fa. Tutto questo però non offre alcuno stimolo per azzardare e reinventarsi e quasi più nessuno ormai prova strade nuove assumendosi il rischio di deludere o fallire.

I social network e più in generale internet hanno determinato un’identità artistica sempre più fragile. Credi che a risentire di tale “omologazione” sia stata anche la musica underground? Ho l’impressione che per abbracciare i gusti di un pubblico sempre più vasto, un crescente numero di produttori ed etichette abbiano inesorabilmente abbassato la qualità dei loro prodotti.
Sì, sono completamente d’accordo. Capitalizzare le attività artistiche dietro la consolle spesso è a scapito di ricerca, approfondimento e voglia di proporre altro. Il problema principale della scena rimane l’omologazione ed è quello che negli ultimi anni mi ha convinta a mettermi un po’ in disparte. Trovo noioso l’atteggiamento della nuova generazione (ma pure della vecchia, che si è adeguata dimenticando di dare il buon esempio), poco propensa a capire le esigenze del prossimo ma soprattutto poco incline a trovare una propria identità. Anche io, nel corso del tempo, ho cambiato il mio suono ma questa mutazione è frutto di una ricerca, di un pensiero e di un’analisi, non la mera replica di cose che funzionano perché testate da altri anzi, cerco sempre di personalizzare tutto. Questo approccio fa parte della mia filosofia e lo applico pure nella vita quotidiana e non solo quando lavoro dietro la consolle. Nella produzione musicale ciò emerge ancora più nitidamente ed è lì che a mio avviso si vede il vero artista. Negli ultimi anni i generi musicali che mi hanno entusiasmata di più sono quelli che non hanno niente a che fare con la techno. Ho comprato dischi di musica organica che presentano una progettualità del tutto diversa. Dietro magari ci sono ensemble di musicisti provenienti da parti del mondo in cui la musica elettronica non è proprio di casa (Africa, Sud America, alcune zone remote dell’Asia) e che hanno voglia di contaminare, un desiderio insito nella loro cultura perché appartengono a popoli colonizzati. Se da un lato la colonizzazione porta a difendere a spada tratta le proprie tradizioni contro l’invasore, dall’altro sprona a trarre le cose migliori dallo stesso. Il mescolamento di culture crea musica bellissima che non può non essere conosciuta anche da chi è dedito alla techno. Bisognerebbe avere una conoscenza aperta della musica, lasciarsi andare, sperimentare ed avere voglia di cose nuove ma questa curiosità fa parte della propria personalità, non la si può appiccicare sulla faccia con un pezzo di scotch. Viene dal background, dalla crescita individuale, dalla famiglia, dall’educazione che è stata impartita, dai posti che si frequentano… Non smetterò mai di consigliare agli aspiranti artisti delle nuove generazioni di essere curiosi e di non limitarsi a rifare ciò che hanno già fatto altri in passato. Che senso ha ripercorrere la strada di Jeff Mills? C’è persino chi si indebita per comprarsi una TR-808 o una TR-909 per poi riprodurre gli stessi pattern strausati da un trentennio. A remare contro è pure lo sfrenato revival: bisognerebbe interfacciare il vecchio al nuovo per generare cose diverse e che guardino al futuro. Fermarsi a ri-fare il passato lo trovo estremamente noioso e soprattutto sterile.

Cosa è diventato l’underground ai tempi dei social network?
Qualche settimana fa, su Facebook, mi sono imbattuta in una serie di critiche nei confronti di chi ha seguito il Festival di Sanremo o contro chi, in qualche maniera, si è sentito coinvolto da quella kermesse. A scagliarle è stato qualcuno che crede di essere un “portavoce della cultura underground” e che vuole sembrare duro e puro rispetto a chi invece spinge o apprezza il mainstream. Per me rimanere ancorati sempre e solo alle stesse sonorità per tutta la vita non vuol dire affatto essere underground, prima di criticare il mainstream bisognerebbe studiarlo in tutte le sue forme. Per essere underground non basta mettersi il libretto rosso di Mao in tasca e sostenere di essere un rivoluzionario e di rappresentare ciò che non può essere monetizzato o utilizzato dalla cultura “ufficiale”. Per essere dei veri rivoluzionari, e quindi dire qualcosa di autenticamente nuovo, bisogna essere geniali ma pochissimi, tra noi, lo sono per davvero. Pur essendo molto distante dal mondo di Sanremo, non disdegno affatto la cultura nazionalpopolare perché, chi più e chi meno, tutti sono entrati in contatto con essa. Alzi la mano chi prima di essere affascinato da musiche diverse non sia stato colpito dalle canzonette trasmesse in radio o dal videoclip famoso di turno. Oggi tante cose possono sembrare alternative ma non lo sono affatto ed inoltre bisogna capire se chi si pone come “diverso” rispetto alla massa poi lo sia per davvero. Non sono molto convinta di chi parla di regole per stabilire cosa sia mainstream ed underground. Prima di tutto bisognerebbe fare le cose con serietà e passione ma soprattutto studiare per capire a fondo cosa ci piace e non. Tanti sono convinti che postare su Facebook un video di Aphex Twin o degli Autechre basti per essere considerati alternativi ma in realtà si tratta di stupidi e banali cliché. C’è chi sbandiera di ascoltare Aphex Twin ma poi, nel privato, di alternativo non ha proprio niente. Chi pensa che la cultura underground sia pari ad una patacca da appuntarsi addosso è fuori strada ed assistere a questi atteggiamenti per è estremamente irritante. Bisognerebbe lottare tutti i giorni contro una serie di cose e non utilizzare musiche e culture alla stregua di sticker che si appiccicano addosso per darsi un tono. Probabilmente chi fa ciò segue le mode ed è incapace di capire se un pezzo sia di pregio o meno oppure se dietro un lavoro ci siano ricerca ed approfondimento. Il mainstream non esisterebbe se non ci fosse l’underground e viceversa, quindi dipingere uno di bianco ed uno di nero non ha davvero senso. I colori si mescolano così come le dimensioni e gli ambiti. Bisognerebbe piuttosto parlare di qualità che si è persa tanto nel mainstream quanto nell’underground.

Anna Bolena ai tempi della pandemia da coronavirus

Il post pandemia riserverà davvero sostanziali novità nel settore della musica indipendente o tutti i bei discorsi che circolano in Rete da ormai un anno a questa parte si disperderanno come granelli di sabbia al vento?
Sono convinta che la pandemia non ci stia insegnando proprio niente. Senza dubbio la popolazione mondiale sta affrontando grosse difficoltà ma appena si vedrà un piccolo spiraglio, ognuno si riprenderà il proprio spazio. Chi era solidale resterà tale o forse di più, chi non lo era andrà avanti col proprio egocentrismo. Questa è una grossa opportunità per ragionare, riflettere, cercare di migliorarsi e lasciare alle generazioni future un mondo migliore ma gli interessi dei singoli e ancor di più delle multinazionali non cambiano, restano aggressivi ed invadenti. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, dovrebbe fare qualcosa per la gioia e il piacere di farlo. Non ripongo troppe speranze che ciò accada però. Mi concentrerò su poche amicizie, famiglia, affetti e lavoro, nella speranza che i club possano riaprire perché ho tanta voglia di suonare. Le feste mi appartengono da sempre, sin da quando organizzai quella per il mio decimo compleanno.

Quali sono le prime tre cose che ti vengono in mente se ripensi ai rave degli anni Novanta?
Il discreto grado di follia generale, visto che all’epoca si pensava di poter fare tutto quello che si voleva e che, effettivamente, si faceva, la componente politicizzata del nostro agire e l’energia proveniente dal nuovo millennio che stava arrivando. Forse quell’energia era legata alla giovane età, fu un elemento assai caratterizzante di quel periodo.

Quali invece i tuoi progetti che si concretizzeranno in un prossimo futuro?
In arrivo ci sono diversi brani che troveranno spazio nel catalogo di varie etichette: a maggio, ad esempio, tocca a “Pandemoniak”, EP destinato alla Witches Are Back. Nel frattempo continuo a comprare dischi e a leggere moltissimo, anche in tedesco. Tra non molto uscirà il libro di Caterina Tomeo intitolato “L’Elettronica È Donna” per cui ho scritto e curato un capitolo che riguarda Berlino, la musica elettronica e la pandemia. A pubblicarlo sarà Castelvecchi.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Alessio Bertallot

1) Una parte della raccolta di Bertallot
Uno scorcio della raccolta di dischi di Alessio Bertallot

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo “The Freewheelin’ Bob Dylan”, un LP che ha la mia età. Lo consumai a furia di sentirlo e risentirlo, seduto davanti alle casse dello stereo a leggere e ricantare i testi delle canzoni. Le so tutte a memoria ancora adesso. Anni fa, quando visitai New York, andai in Jones Street lì dove Dylan appare fotografato in copertina, abbracciato sorridente alla sua fidanzata di allora, Suze. La strada era molto cambiata e non si vedeva un fiocco di neve. Lì vicino il cantautore prendeva in fitto un appartamento, un basement. Se ricordo bene, ora c’è un sexy shop. Credo sia stata l’unica volta che abbia fatto un “pellegrinaggio” e per un po’ mi ha divertito.

L’ultimo invece?
L’hai voluto tu: “Coro No. 14 – Venid A Ver La Sangre”, “Coro No. 19, – It Is So Nice” e “Coro No. 20 – Your Eyes Are Red… El Día Pálido Se Asoma”. Sono tre parti di “Coro / Cries Of London” di Luciano Berio che mi servono per uno spettacolo teatrale che dovrei portare in scena insieme a Lucilla Giagnoni in cui l’arte del DJ si unirà al testo dell’Inferno di Dante. Si chiamerà “Disco Inferno”. Uso il condizionale perché, come tutti sanno, l’arte, il teatro, lo spettacolo e la musica sono stati definiti “non essenziali” quindi anche sotto questo punto di vista l’Italia è un Paese morto e non so cosa troveremo se un giorno usciremo dalla condizione di emergenza in cui ci troviamo ora.

Quanti dischi possiedi? Riusciresti a quantificare il denaro speso per essi?
Per rispondere alla prima domanda ho provato ad ipotizzare una specie di metodo per la parte del materiale fisico, calcolando il volume di spazio occupato da vinili e CD in casa e dividendolo per il volume medio di un singolo disco e CD. In tutto credo di avere dai 23.000 ai 25.000 dischi, tra LP, EP e singoli. Altrettanti sono stati regalati o buttati via perché inviati da promoter, uffici stampa o musicisti ma senza che fossero nella mia “cup of tea”. Altrettanto difficile capire quanto abbia speso per metter su quella che non ritengo propriamente una collezione (perché non sono un collezionista) bensì un’attrezzatura di lavoro. Se escludo le spese per i collaboratori che ho retribuito e quelle dei viaggi fatti, credo di aggirarmi intorno ai 70.000 euro. Per quanto riguarda i file invece, ne ho più di 15.000.

Come è organizzata la tua raccolta? Usi un metodo per ordinarla?
Hai presente il deposito di Zio Paperone? È tutto ammassato ma so come muovermi, analogamente ad Uncle Scrooge che quando si tuffa riconosce ogni singola moneta e ricorda la storia che c’è dietro. Per un certo periodo ho avuto una fidanzata con la pazienza dei musicisti classici che ha provato pietà per me ed ha sistemato tutti i CD in ordine alfabetico e da allora non li tocco più. Per non turbare quell’ordine miracoloso cerco le stesse cose sulle piattaforme di streaming.

2) ordine raccolta
Uno scatto che immortala altre parti della raccolta di Bertallot

Segui particolari procedure per la conservazione?
Una volta ho spolverato gli scaffali delle librerie destinate ai dischi ma avevo fatto un trasloco e nel caos generale mi sembrò una cosa carina da fare. Alcuni dischi hanno avuto un’esistenza molto vissuta: portati in discoteca in valigie che tornavano a casa intossicate di fumo di sigaretta ed altro (io non fumo e non mi drogo), copertine annegate nei mojito rovesciati in consolle, esposti alla pioggia, caduti nel fango alle cinque di mattina davanti al baule dell’auto, senza più copertine perché perse nel caos di un cambio in consolle, frantumati dalla gentilezza degli operatori di carico del bagaglio di stiva (li ho visti coi miei occhi dal finestrino dell’aereo gettare le mie valigie appositamente in alto per farle ruotare in aria prima che si abbattessero sul nastro trasportatore!). Non tengo molto ai dischi, io amo la musica.

Hai mai subito il furto di un disco?
Alitalia perse, alle quattro del pomeriggio, un’intera valigia di dischi, quella che mi serviva alle undici della sera per salire in consolle ad un festival all’Eur, a Roma. È incredibile come un viaggio di una banalità sconcertante, ovvero andare da Milano a Roma, possa diventare un’odissea per protocollo. Si fanno infinite code per verificare l’attendibilità dei passeggeri quando in Italia gli unici attentati ai mezzi di trasporto sono stati compiuti dalle cosiddette frange deviate dei servizi segreti. Per i passeggeri sarebbe più logico fare le code per verificare l’attendibilità di chi li vorrebbe controllare con le relative inefficienze nelle procedure di carico e scarico. Quella volta tornai in aeroporto perché fortunatamente recuperarono la valigia e la misero sull’ultimo aereo della sera. Arrivai in consolle un minuto dopo l’orario stabilito col primo disco già in mano.

3) il tarocco di Aeroplanitaliani
Il confronto tra la copia originale e quella falsificata di “Sei Felice?”, secondo album degli Aeroplanitaliani edito nel 2005

Qual è il titolo a cui tieni di più?
La copia tarocca su CD del secondo album del mio gruppo, gli Aeroplanitaliani, che acquistai dopo una lunga trattativa al tavolino del bar dal marocchino, credo originario proprio del Marocco, che lo “spacciava” per strada. Ero con amici e i soci del gruppo e il ragazzo si ostinava a non riconoscere che quello ritratto sulla copertina falsificata fossi proprio io. Nell’ilarità alcolica generale, iniziai la contrattazione al contrario e alla fine glielo pagai come una copia originale. Se ne andò coi soldi barcollando dalla perplessità. Lo conservo ancora adesso perché ritengo che quando qualcuno ti falsifica vuol dire che sei diventato famoso. Provai a condividere questo pensiero con la nostra discografica, Caterina Caselli, ma lei non ci trovò nulla di ilare in quel falso della sua produzione.

Quello che ti sei pentito di aver comprato e che non esiteresti a regalare?
Non riesco a trovare nulla del genere. In realtà tutti dischi che ho comprato, e quindi anche quelli brutti, li ho acquistati per documentazione, quindi non avevo particolari aspettative. Un disco orrendo che ho preso recentemente è “Kick I” di Arca. Non l’ho neanche classificato per delicatezza nei confronti degli altri, ma non sarei mai tanto crudele da regalare un disco così a nessuno.

Quello che cerchi da anni e per cui saresti disposto a spendere una cifra importante?
Devo ammettere che non mi è mai successo di rincorrere dischi, non nutro quel tipo di feticismo. Se cerco un pezzo e lo trovo su Spotify, mi sta benissimo. Al massimo pompo il volume per esorcizzare la pessima qualità e compressione che hanno i brani presenti sulla maggior parte delle piattaforme di streaming. Mi sono passati fra le mani, nella mente e nel cuore talmente tanti dischi che ritorno a dire: non mi interessano i dischi ma la musica.

4) La copertina di Wish You Were Here
La copertina di “Wish You Were Here” dei Pink Floyd, 1975. Il design è del team Hipgnosis

Quello con la copertina più intrigante?
La copertina esterna ma soprattutto quella interna di “Wish You Were Here” dei Pink Floyd. Fu, credo, il mio primo contatto col surrealismo. Solo molti anni dopo scoprii che l’assurdo lago immortalato esiste davvero, il Mono Lake in California.

A quali negozi di dischi leghi maggiormente i tuoi ricordi?
Tutto il quartiere di Soho, a Londra, era pieno di negozi di dischi che frequentavo. Molti tra quelli erano i primi a smerciare le white label che anticipavano successi e tendenze, dischi senza neanche copertina con alcuni crediti scritti col pennarello. In D’Arblay Street c’era Black Market dove, al piano di sotto, Nicky teneva il volume della drum n bass talmente alto da non poter neanche parlare e quindi eri costretto a spiegarti a gesti. Lui ti faceva sentire un disco e se dalla faccia capiva che non ti interessava, ti metteva la mano davanti e la rovesciava come a dire «sentiamo l’altro lato?». In fondo alla stanza solitamente si raggruppavano i ragazzi che non avevano soldi per comprare dischi e si accontentavano di fare da pubblico ai DJ intenti a fare acquisti. In quel modo parassitavano gli ascolti. Chissà se tra loro c’era qualcuno che poi è diventato produttore di qualche successo.

Nelle decadi passate quanto denaro spendevi al mese in musica? La tua professione da DJ e conduttore radiofonico ti ha mai garantito particolari privilegi o bonus da parte dei negozianti?
Ho fatto di tutto e credo di aver acquistato musica in ogni negozio importante d’Italia e in tutti quelli di Londra. Per corrispondenza invece mi affidavo a grandi distributori internazionali. Ho frequentato regolarmente i grossisti e i distributori specializzati in Italia, le case discografiche, grandi e piccole, ed ho incaricato persone di farlo per me. Ho ricevuto migliaia di promo dai promoter e questo sicuramente è stato un privilegio. I negozianti al massimo mi hanno fatto sconti ma mi sembrava il minimo date le cifre che spendevo. Quelli inglesi erano i meno generosi perché forti di una clientela internazionale. In un certo periodo credo di essere arrivato a spendere anche 1000 – 1500 euro al mese. Ad incidere molto però era il viaggio che facevo oltremanica, andata e ritorno in aereo magari nello stesso giorno, per suonare la sera i dischi che erano usciti la mattina a Londra.

5) Il retro copertina di Zitti Zitti
Il retro della copertina di “Zitti Zitti”

Sono trascorsi quasi trent’anni da quando ti esibisti con gli Aeroplanitaliani al Festival di Sanremo con “Zitti Zitti”, passato alla storia per ragioni ormai ben note. Sul retro della copertina del disco, edito dalla bolognese Irma e registrato presso i Vallemania Recording Studios a Genga, in provincia di Ancona (da dove esce pure “Found Love” dei Double Dee di cui parliamo qui), si legge “realizzato esclusivamente con Akai S1000 ed S1100”. Quanto influì il campionatore nella musica di quegli anni, spesso basata sul riciclo creativo e sul crate digging?
Noi iniziammo ad usare il campionatore già molto prima, credo fosse una tastiera che aveva un sampler incorporato con circa quattro secondi di memoria per il campionamento, poi eri costretto a cambiare dischetto. Non ricordo il modello, forse era un Ensoniq Mirage. Doveva essere il 1985 o il 1986 e stavano cominciando ad essere messi in commercio i primi campionatori a basso costo, e quello fu un momento cruciale. Fu una rivoluzione perché prima esistevano solo campionatori costosissimi come il Fairlight CMI che potevano essere acquistati solo da personaggi del calibro di Trevor Horn, Herbie Hancock, Quincy Jones e Stevie Wonder che ne comprò persino due per fare dispetto ad Hancock. L’avvento della tecnologia a basso costo ebbe due effetti: creare una nuova estetica data la grande diffusione commerciale di quelle macchine, e cambiare la visione che si aveva del campionamento fino a quel momento. Se prima lo si usava per sostituire i musicisti (si pensi agli stab di orchestra campionata che si sentono nei pezzi degli Art Of Noise o le sezioni di fiati degli Yes), con l’allargamento dell’utilizzo di quella tecnica si cominciò una sperimentazione che portò ad un’estetica nuova. I produttori iniziarono a campionare dai dischi degli anni Settanta intere frasi di esecuzioni di band che poi mettevano in loop. Tale pratica, importata dal beat juggling dei DJ, cambiò letteralmente il suono della musica. Non c’era più la rigidità senza dinamica dei synth e batterie elettroniche degli anni Ottanta ma fluidità, groove e non quantizzazione degli ensemble di musicisti, i cui groove venivano copiati ed incollati in serialità. Per fare la prova basta mettere a confronto un pezzo rap degli anni Ottanta con “3 Feet High And Rising” dei De La Soul. Quel disco accumulava moltissimi campionamenti e suonava completamente diverso dal rap precedente. Un precursore in tal senso fu Trevor Horn che produsse “Slave To The Rhythm” di Grace Jones: fece suonare i musicisti ma li campionò per scegliere poi le migliori cellule di groove. Era il 1985 ma lui se lo poteva permettere perché aveva il Fairlight CMI.

Dal 1996 al 2010 è andato in onda B Side con cui hai portato sulle frequenze di Radio DeeJay musica che avrebbe difficilmente trovato collocazione nel palinsesto di un’emittente di quel tipo. Tra trip hop, drum n bass, jungle, breakbeat ed harddance – così come veniva indicata nella celebre Pagellina settimanale – , B Side diventa il crocevia di artisti come Aloof, Fluke, DJ Shadow, Tricky, Future Sound Of London, 808 State, Morcheeba, Alex Reece, Sneaker Pimps, Portished, Adam F, Goldie, Roni Size, Propellerheads, Massive Attack, Aphex Twin, Grooverider, Underworld, Freestylers e 4 Hero, giusto per citarne alcuni inseriti con frequenza nelle prime annate di programmazione. Come iniziò l’avventura in Via Massena?
Il progetto nacque in modo molto spontaneo. Ero nell’ufficio di Linus, un pomeriggio di luglio, mi pare del 1996. Era la seconda volta che parlavamo di un mio programma a Radio DeeJay ma, incredibilmente, la prima volta mi ero permesso di rifiutare una sua offerta perché con tempismo demoniaco Radio 105 aveva concretizzato una proposta in cui neanche credevo più. Stranamente Linus, che all’epoca non aveva ancora quelle matite tutte uguali nei bicchieri sul tavolo, mi disse: «Beh, torna qui quando hai finito col tuo impegno a 105 che parliamo di una cosa da fare a settembre». E così rieccomi seduto davanti a lui: «Potresti fare un programma di bella musica la sera, sai quelle cose tipo Sade, Lisa Stansfield…». «Ah, la sera. Bella musica, eh. Bello, mi piace, mah…». E lui: «Ma?». «Ma la musica la scelgo io?» domandai. Mi guardò per un attimo sospettoso, aggrottando le sopracciglia. Poi si rasserenò: «Ma sì». Nessuno dei due immaginava cosa stesse per cominciare.

6) Bertallot intento a cercare dischi nel suo flight case
Bertallot mentre scartabella dischi: a sinistra si riconoscono “Zodiac/Basic” dei Total Science e “Decksandrumsandrockandroll” dei Propellerheads

Quali sono i primi tre dischi che ti tornano in mente ripensando all’ossatura iniziale di B Side?
“Blue Lines” dei Massive Attack. È stato il trigger di tutto il Bristol Sound, la fase di maturità inglese del grande cambiamento estetico di cui parlavo prima a proposito dell’avvento dei campionatori e della cultura dei DJ. I Massive Attack furono uno dei primi “collettivi di produttori” e non una band di musicisti, un “wild bunch” di creativi che di volta in volta interpellavano cantanti o musicisti a cui affidavano una canzone. Una novità per l’epoca;
“Exit Planet Dust” dei Chemical Brothers. Fu la crasi tra dance e rock, una cosa che potevano fare solo gli Inglesi. Coi Chemical Brothers e i Prodigy cadde la distinzione fra pubblico da discoteca e rave e pubblico da concerto, e partì una nuova wave dove coesistevano l’attitudine rock e la cultura della musica black, con bianchi e neri insieme;
“Timeless” di Goldie. Fu la prima opera jungle che spostò un nuovo genere dall’underground all’overground. In questi decenni postmoderni vittime del manierismo del passato non si sente più parlare di overground e Goldie fu uno dei primi a cavalcare quell’onda. Una notte al Leoncavallo, mentre mettevo i dischi prima di lui, salì sul palco per rompere i coglioni facendo cadere apposta il suo flight case sulle assi di legno e far saltare le puntine. Il mattino dopo venne in radio dove si rese altrettanto antipatico. Gli dissi che potevamo fare a meno di lui e si comportò come un bambino sgridato. Qualche ora dopo mi incontrò in Corso Vittorio Emanuele e, come se fosse il mio migliore amico, mi abbracciò e mi chiese dove fosse lo showroom della Diesel, brand che ai tempi lo sponsorizzava convintamente. Credo che il direttore dello showroom ricordi ancora con terrore la razzia che seguì alla venuta di Goldie a Milano.

Hai mai ricevuto proposte legate alla payola quando lavoravi a Radio DeeJay?
Credo di essere stato uno dei pochi ad avere avuto un’esperienza di anti-payola. Un giorno un promoter di una major mi confessò che quando arrivavo io in ufficio nascondeva i promo dei dischi che avrei potuto suonare perché se li avessi programmati in B Side avrei creato le premesse di una potenziale economia che a loro avrebbe portato solo lavoro e non necessariamente guadagni. Producevo interesse ma il mercato non generava altrettanto profitto. Per quanto l’Italia sia stato il Paese incuriosito da B Side, rimane pur sempre il Paese raccontato da Alberto Sordi.

Come illustrato da Ubaldo Ferrini nel suo recente libro “La Radio Libera, La Radio Prigioniera” recensito qui, oggi i network hanno omologato le proposte con un’offerta molto simile a quella della televisione in nome di un presunto quasi totale disinteresse del pubblico per cose diverse dal gossip o dal trash. Certi contenuti sono inevitabilmente spariti e costretti ad emigrare su internet, un mondo appassionante, inventivo e ricco di opportunità, e in tal senso Casa Bertallot, la web radio da te lanciata nel 2013, ne è testimonianza perfetta. In Italia la radio che trasmette solo in streaming però pare ricoprire ancora una valenza subordinata a quella in FM, analogamente a quanto avveniva sino a poco tempo fa coi giornali cartacei e i digitali. È una questione culturale? Col tempo le cose cambieranno?
Per me aprire una web radio è stato un gesto di indipendenza, ma la cosa forse più importante che ho fatto è accaduta a gennaio scorso, quando ho deciso di consentire l’accesso ai miei contenuti solo a chi è disposto a sostenere un abbonamento. Se questo creerà un modello di business e di sostenibilità alla mia divulgazione musicale, indipendente e coerente, sarà grazie alla forza dei singoli ascoltatori, illuminati e sensibili, e non grazie ad un sistema. Sto cercando di capire se la disintermediazione totale tra produttore di contenuti e fruitore, resa possibile dalle nuove tecnologie, sia una strada percorribile. Per chi volesse partecipare può cliccare su http://www.patreon.com/alessiobertallot

7) Alessio Bertallot e la radio
Bertallot tra dischi, libri e il microfono della radio, un amore mai sopito

Un numero sempre più consistente di artisti dichiara di essere insoddisfatto per i proventi derivati dallo streaming e alla lista si è recentemente aggiunto Gary Numan, come riportato da NME in questo articolo di poche settimane fa. Ritieni che società tipo Spotify stiano speculando sulla creatività dei musicisti/compositori di tutto il mondo? Quanti creatori ci saranno in futuro qualora tramontasse del tutto la prospettiva di vedere le proprie opere adeguatamente ricompensate e remunerate?
La situazione è molto complicata. Spotify e le altre piattaforme non pagano direttamente gli artisti, diciamo che remunerano “le case discografiche” che sono un’eterogenea moltitudine di detentori di quel tipo specifico di diritto sullo sfruttamento dell’opera dell’artista. Questa eterogenea moltitudine va dall’artista che si è fatto la sua etichetta personale alle grandi major discografiche che detengono buona parte di tutti i brani presenti su Spotify & co. Gli artisti vengono pagati poco, è vero, ma questo dipende dal tipo di contratto che l’artista stesso ha stipulato con la casa discografica. Forse anche in questo caso la disintermediazione fra creatore e fruitore migliorerebbe le cose. Si potrebbe parlare anche di una “visione” civile di quali giusti margini di guadagno debbano avere le parti in causa, ma ciò significherebbe fare i conti con la legge di mercato. Preferisco fermarmi qui perché si aprirebbe un vaso di pandora di argomentazioni.

Gli artisti della vecchia guardia hanno spesso mostrato una decisa insofferenza nei confronti del nuovo approccio alla musica decretato dall’evoluzione tecnologica. In merito a ciò Jon Bon Jovi dichiarò, in un’intervista risalente al marzo del 2011 (di cui si trova traccia qui o qui) che «i giovani non riescono a capire la bellezza di investire tutta la paghetta in un album scelto per la copertina di cui non si conosce ancora nessun pezzo. Ai miei tempi bastava guardare un paio di foto per immaginarsi tutto. Poi è arrivato Steve Jobs che ha distrutto il business della musica». Al netto di nostalgia e passatismo, pensi che la Generazione Z o la Generazione Alpha, accusate di troppa superficialità, stiano realmente sminuendo e depotenziando il valore un tempo attribuito alla musica? Cosa può provocare questo atteggiamento ed approccio sulle lunghe distanze?
Questo purtroppo non ha interessato solo la musica ma l’informazione, i consumi quotidiani, l’istruzione… Ormai è fatta. Abbiamo imboccato una strada in una nuova società che richiederebbe una nuova etica, una nuova educazione ai valori e ai nuovi strumenti che abbiamo per gestire i beni e la qualità della vita.

La pandemia da covid-19 ha cristallizzato l’attività sul fronte live che, a conti fatti, è rimasta la principale fonte di guadagno per chi vive di musica a livello professionale. Qualcuno sta cercando di fare leva su aspetti complementari della propria creatività come ad esempio Legowelt, che da qualche tempo a questa parte ha messo in vendita quadri ed illustrazioni da lui stesso realizzati (si veda qui), ma la situazione che si prospetta nel prossimo futuro è tutt’altro che rosea. A tal proposito hai varato NecessAria che, come recita il comunicato stampa, «oltre a rappresentare un esperimento di art-radio collettiva, vuole essere una risposta in chiave artistica alla marginalizzazione sociale e politica subita, in questo periodo difficile, da chi lavora nell’arte, nello spettacolo e nella musica. Una marginalizzazione divenuta purtroppo esplicita nella definizione di attività “non essenziali” con la quale questi comparti della cultura italiana – e coloro che ci lavorano – sono stati inquadrati in tutti i recenti DPCM». Puoi spiegare dettagliatamente su cosa verte tale iniziativa e come si svilupperà nei mesi a venire?
Come scrivevo prima, nel 2020 anche le attività musicali sono state definite “non essenziali” e tutti conosciamo le comprensibili ragioni. Tuttavia non si può non provare un brivido constatando che sia stata fatta una categorizzazione brutale fra chi è utile e chi non è utile alla società, e stiamo parlando di persone che con la musica pagavano i loro conti e che tuttora, ad un anno di distanza, non hanno neanche avuto un progetto sul futuro. Chiusi ed impediti a lavorare. Può darsi che la musica non sia essenziale ma non credo non sia necessaria. Per elaborare il lutto di questa morte civile ed economica che ci è stata imposta mi sono inventato NecessAria, un processo (inteso in senso artistico) dove un medium, la radio, normalmente usato per mettere in mostra riproduzioni di opere grazie al software che si usa per regolare i palinsesti, produce un’installazione sonora accostando in maniera sempre diversa due elementi, le voci di una collettività che racconta di un’emozione vissuta con la musica e la musica d’ambiente. Molti ascoltatori ed altrettanti musicisti, tra cui Paolo Fresu e Frankie Hi-Nrg Mc, mi hanno già mandato messaggi vocali. In definitiva si tratta di un oceano di calma e pensieri riservato ai sostenitori del mio progetto su Patreon che si rinnova ogni sera alle 21:30 su www.bertallot.com o sull’app Radio Casa Bertallot e che indica una profondità che sfugge alla pretesa di quantificare l’importanza della musica. Sono giunti messaggi anche da alcuni poeti italiani come Lello Voce, Gabriele Frasca, Monica Matticoli e Filippo Balestra che mi stanno facendo pensare ad una nuova possibilità ossia includere nel progetto un’altra arte sonora, la poesia.

8) Bertallot ed altri dischi
Bertallot alle prese con altri dischi della sua raccolta

Ormai le chiusure di negozi di dischi e librerie non fanno più notizia. Il fenomeno, affrontato poco meno di dieci anni fa da Pip Piper nel documentario “Last Shop Standing” ispirato dall’omonimo libro di Graham Jones e recensito qui, è destinato purtroppo ad intensificarsi. Perdere potenziali punti di incontro, confronto e scambio di cultura è qualcosa che penalizza la società contemporanea? Come ti poni rispetto a chi liquida gli amanti del disco o del libro in carta come banali nostalgici affetti da kainotetofobia? Il mondo del futuro potrebbe invece essere phygital?
Se quando aspettavo anche due mesi affinché arrivasse il disco ordinato in un negozio di provincia mi avessero detto che un giorno avrei avuto tutta la musica a portata di clic, avrei pensato ad un racconto di fantascienza. Le statistiche dicono che le vendite del disco fisico calano ed aumentano gli streaming, ma la maggior parte della gente ascolta le stesse quattro canzoni che sente alla radio o “vede” su YouTube. Così eccoci qua ad «avere il mondo in tasca e non amare niente» per citare Diego Mancino che a sua volta cita Tenco. Il problema non è il supporto ma quanto amore si attribuisce alla musica.

Qualche decennio fa sulle copertine di molti LP (editi prevalentemente nei Paesi latini come Perù, Messico o Colombia) compariva lo slogan “El Disco Es Cultura”. Ritieni che oggi si possa considerare il disco in vinile, ormai uscito dall’ordinario consumismo quotidiano, una forma di cultura e resistenza? Ovviamente non mi riferisco alle banali ristampe dei classici pop/rock e tantomeno all’utenza passivamente onnivora che considera il disco un complemento d’arredo e simbolo di modernariato e neanche a chi trasforma il supporto in un feticcio usandolo con fini commerciali e promozionali bensì alle realtà indipendenti che, in quello che potrebbe essere considerato quasi un atto eroico, continuano ad investire tempo e denaro per tenere in vita un medium economicamente ormai ben poco redditizio.
Siamo ormai avviati verso un futuro dove saremo costretti ad «inseguire sempre, inseguire ancora, fino ai laghi bianchi del silenzio» come canta Paolo Conte. Hanno inventato i CD e li hanno imposti come supporto e descritti come miglioramento. Poi si è scoperto che era meglio il pratico MP3 ed abbiamo dovuto rifarci la libreria da capo. In seguito sono arrivati i servizi di streaming in cui non possiedi né un disco, né un CD né tantomeno un file ma accedi alla musica, ed andrebbe comunque benissimo, ma ho il sospetto che anche questo, prima o poi, sarà sostituito da un altro modello. Il tutto per farci spendere sempre, spendere ancora fino ai laghi bianchi del silenzio. I formati nuovi diventano obsoleti mentre i dischi diventano solo vecchi. Io me li terrei stretti, insieme ad un Technics SL-1200 funzionante.

Estrai dalla tua collezione dieci brani a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Azzido Da Bass - Dooms Night (Remix)Azzido Da Bass – Dooms Night (Timo Maas Remix)
Come trasformare una tamarrata (in riferimento all’originale di Azzido Da Bass) in un capolavoro ed arma da distrazione di massa nel dancefloor? Annullando la retorica di un disco da autoscontro, levando la cassa in quattro, aggiungendo un rullante ed usando in terzine il noise che nella versione di partenza viene usato in maniera ovvia. Il remix di “Dooms Night” (realizzato in circa quattro ore come spiega Timo Maas in questa intervista, nda) arrivava in pista come un tornado su un campo di grano.

Goldie - TimelessGoldie – Timeless
Una suite jungle. Dura 21 minuti perché Goldie riascoltava i demo dei pezzi prodotti in studio in auto, tornando a casa di notte. Impiegava 21 minuti per compiere quel tragitto, doveva essere quindi esattamente la soundtrack del suo viaggio. In realtà fu un “viaggio” che, come dicevo prima, traghettò la jungle dall’underground all’overground grazie alla presunzione di Goldie, al lavoro del produttore Rob Playford nonché alla voce della cantante Diane Charlemagne, scomparsa prematuramente nel 2015.

Massive Attack - Blue LinesMassive Attack – Blue Lines
Fu la prima volta che anziché presentarsi una band con tutti gli strumenti al loro posto (batteria, chitarra etc) arrivò un mucchio selvaggio di gente che non si capì bene cosa facesse. Erano tutti produttori e fu palese che fosse qualcosa di nuovo. Troppo lento, un suono sfocato, rap sottovoce quando tutti i rapper invece gridavano. Fu l’inizio del Bristol Sound.

John Luther Adams - Become OceanJohn Luther Adams – Become Ocean
Poco più di 40 minuti di orchestra che suona come se non avesse una partitura ma fosse un magma che cambia continuamente forma e colore. La musica diventa materia, la rappresentazione sonora dell’essere immersi nell’Oceano. Adams raccontò che l’ispirazione gli venne quando abitava in California, in una casa isolata che davanti aveva il mare e dietro il deserto. «Di notte tenevo le finestre aperte, ecco perché».

John Cage - 433John Cage – 4’33”
Come dimostrare con un silenzio che il silenzio non esiste. Forse la musica più rivoluzionaria mai scritta, talmente tanto da non potersi scrivere. Una cesura di 4 minuti e 33 secondi che è una cesura nella razionalità come un taglio sulla tela di Fontana. L’idea che ispirò la performance degli Aeroplanitaliani al Festival di Sanremo nel 1992: 30 secondi di silenzio in diretta tv. Un vuoto che viene sempre riempito.

DJ Shadow - Endtroducing.....DJ Shadow – Endtroducing…..
Un album, come scrive lo stesso DJ Shadow, fatto senza suonare una nota. Lo realizzò assemblando i pezzi di un puzzle di citazioni prese da altri dischi. Un metodo applicato in maniera concettuale per la prima volta. Fu la manifestazione dell’avverarsi della profezia di Brian Eno sull’avvento dei non-musicisti. L’inquietante sensazione che la memoria e la cultura stiano sopravvivendo nel presente non più grazie ai neuroni ma ai bit. Evoluzione della specie?

Alva Noto + Ryuichi Sakamoto - Logic MoonAlva Noto + Ryuichi Sakamoto – Logic Moon
L’esempio migliore di equilibrio fra elettronica ed acustica. In questo brano tratto dall’album “Insen” del 2005, si rincorrono brevi frasi di piano impresse con l’immediatezza di un gesto di calligrafia giapponese e messe in vibrazione dalla matrix della visione elettronica. Non è né musica ambient, né musica elettronica e tantomeno new age. «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Bob Dylan - Murder Most FoulBob Dylan – Murder Most Foul
È uscito nel 2020, in piena pandemia e mentre noi volgo disperso, eravamo chiusi nei nostri “atrii muscosi, nei nostri Fori cadenti”, questo pezzo di 17 minuti in cui Dylan rievoca l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy. Dalla metà in poi la celebrazione diventa un viaggio vertiginoso in una serie interminabile di citazioni di canzoni americane. Titoli, frammenti di testi, nomi di musicisti …non le ho ancora scoperte tutte. Ci sono rimasto dentro, sono ancora nell’America di quegli anni.

John Cage - OrganASLSPJohn Cage – Organ² / ASLSP
L’organo di una chiesa di Halberstadt, in Germania, suona una nota di una partitura di Cage risalente al 1987 ogni sei mesi, più o meno. L’agogica da lui indicata chiede esattamente di eseguirla “il più lentamente possibile”. Si stima che l’esecuzione dovrebbe durare 649 anni. Ecco un altro salto concettuale, illuminante. Chi mai potrà avere una vera consapevolezza di questa opera? Forse un essere per cui il tempo e lo spazio hanno completamente un altro significato rispetto al nostro.

Giacomo Puccini - Madama ButterflyGiacomo Puccini – Madama Butterfly
Dell’opera pucciniana segnalo in particolare il “Coro A Bocca Chiusa”, probabilmente alla base di tutta la canzone Italiana.


Giosuè Impellizzeri

si ringrazia Fabio De Luca per la preziosa collaborazione

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La discollezione di David Love Calò

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Una parte della collezione di dischi di David Love Calò

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
“Reggatta De Blanc” dei Police. Lo presi nel 1979 all’Upim vicino casa che vendeva dischi selezionati in modo abbastanza casuale. All’epoca i miei ascolti erano legati a quelli di mio fratello maggiore che sparava prog rock a tutto volume alternata ad un po’ di new wave.

L’ultimo invece?
“Abolition Of The Royal Familia” degli Orb. Thomas Fehlmann ormai ha abbandonato il gruppo ma la collaborazione coi System 7, Youth dei Killing Joke, Gaudi e la new entry Michael Rendall dà buoni frutti, soprattutto nei pezzi dub della seconda parte. Resta inalterato l’approccio compositivo che definirei molto “nineties”.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Qualche migliaio ma l’ultima volta che li ho contati ero appena un ventenne. Compro dischi dai primi anni Ottanta ma poiché ho pochissimo spazio sono stato costretto a dividerli fra casa dei miei e dove abito ora. Inoltre ho lasciato duecento dischi a casa di amici e nella radio dove lavoravo. Circa cinque anni fa invece, per problemi economici, ne ho venduti circa trecento, tra cui le prime stampe di hip hop americano ma anche elettronica, rock e library music.

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Altri dischi della raccolta di Calò

Come è organizzata?
Non sono mai stato ordinato e aver traslocato decine di volte non mi ha di certo aiutato. Tengo i dischi assolutamente mescolati, senza alcuna distinzione di genere. Questo “non ordine” mi impedisce di trovare subito ciò che cerco ma nel contempo mi offre la possibilità di riscoprire cose che magari non ascoltavo da tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Assolutamente no. Qualcuno lo ho sigillato poiché comprato in doppia copia ma in generale ho sempre acquistato dischi per suonarli, prima in radio e poi nelle serate. Per me il disco deve essere usato e strapazzato.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo è un’esperienza che ho vissuto. Anni fa mi rubarono due borse dalla macchina, cosa che è avvenuta anche ad altri colleghi ed amici come in una sorta di leitmotiv del perfetto DJ. Erano proprio i flightcase che usavo per fare le serate e quindi ho dovuto ricomprare almeno una cinquantina di dischi che all’epoca per me erano (e sono) fondamentali, tipo “Bytes” di Black Dog Productions o cose della Mo Wax. Ai tempi non c’erano i social network e l’unico modo con cui provai a cercarli fu lasciare la lista ad alcuni negozi di dischi che trattavano usato con la speranza che qualcuno saltasse fuori ma purtroppo non li ho mai ritrovati. Chissà che fine hanno fatto.

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Calò con “You Gotta Say Yes To Another Excess” degli Yello, l’album uscito nel 1983 a cui dichiara di tenere maggiormente

Qual è il disco a cui tieni di più?
“You Gotta Say Yes To Another Excess” degli Yello perché nel 1983 mi aprì un nuovo mondo. Avevo solo dodici anni e quello era uno dei dischi più trasmessi da Controradio di Firenze, emittente che da lì a poco avrei iniziato a frequentare. Ero fortemente affascinato dalla radio e il mio più grande desiderio era poterci lavorare. Scrissi persino una lettera chiedendo di registrarmi su cassetta quel disco: essendo poco più di un bambino avevo pochi soldi in tasca per potermelo permettere. Mi telefonarono dicendomi di andare a prendere la cassetta nella loro sede e una volta entrato negli studi rimasi completamente ipnotizzato. Tornando al disco, ciò che mi colpì di più degli Yello fu la capacità di fare musica pop in un modo che a me sembrò del tutto nuovo.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Sono tanti. È molto facile passare da essere un appassionato ad un consumatore seriale, soprattutto quando hai l’alibi che li compri per fare le serate. Dischi annessi ad un certo pop britannico con venature elettroniche risalenti ai primi anni Novanta, tipo Eskimos & Egypt, Sheep On Drugs o Mulu, giusto per fare i primi nomi che mi tornano in mente, non sono riuscito a venderli perché non hanno valore, né economico né tantomeno musicale.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Mi affascina moltissimo il materiale post punk dei primi anni Ottanta. Per fortuna tante cose sono state ripubblicate ma c’è ancora un mucchio di roba introvabile uscita solo su 7″ o cassetta, dal prezzo esagerato. Un esempio è offerto dalla compilation “One Stop Shopping” pubblicata su doppia cassetta nel 1981 dalla Terse Tapes, etichetta australiana attiva in quel periodo e il cui nome di punta era rappresentato dai Severed Heads. Conteneva pezzi notevoli ma incisi in bassa qualità quindi non credo che nessuno si prenderà mai la briga di ristamparla.

Quello di cui potresti (o vorresti) disfarti senza troppe remore?
Ho diversi singoli di fine anni Ottanta/primi Novanta di musica commerciale, comprati quando iniziai a mettere i dischi nei locali e che ho sistemato nella cantina dei miei genitori. Di quelli potrei davvero fare a meno.

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Calò con “Bitches Brew” di Miles Davis, del 1970, a suo parere tra i dischi con la copertina più intrigante

Qual è la copertina più bella?
Dovendo sceglierne una direi quella di “Bitches Brew” di Miles Davis realizzata da Mati Klarwein, ma ho un debole pure per quella di “Sextant” di Herbie Hancock, firmata da Robert Springett.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
A Firenze i primi sono stati Contempo ed Ira Records dove compravo principalmente rock e new wave. Poi c’era la Galleria Del Disco che oltre a roba dance vantava una bella sezione di hip hop d’importazione. Trovandomi alla periferia di quello che era considerato l’impero musicale, dovevo accontentarmi perché i dischi arrivavano in poche copie e solitamente se le aggiudicavano i big DJ. Questa situazione mi ha spronato a cercare una terza via.

Intendi acquistare per corrispondenza?
Sì, esattamente. Negli anni Novanta lessi un articoletto su The Face che parlava di un certo Mark O’Shaughnessy della Resolution Records che vendeva roba introvabile, tra library e dischi strani. Non aveva un negozio vero e proprio ma un piccolo fondo adibito a magazzino nel quartiere di Brixton, a Londra, che si poteva visitare previo appuntamento. In compenso mandava, attraverso una mailing list, l’elenco di dischi usati disponibili divisi per genere. Lì ho comprato tanto materiale interessante ma molto costoso. L’alternativa era farsi, tre o quattro volte all’anno, il giro di Londra passando dai soliti Record Exchange, Rough Trade, Atlas, Intoxica…Poi, con l’avvento su larga scala di internet, tutto è stato molto più semplice.

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Un altro scorcio della collezione di Calò

L’e-commerce ha annullato il rapporto tra venditore ed acquirente. Tu come vivevi tale rapporto?
Il colpo di grazia è stato inflitto dal digitale, ma devo ammettere che il 70% dei negozianti che frequentavo non eccellevano mica per simpatia. Ricordo però con piacere Fish che vendeva dischi prima alla Galleria Del Disco e poi in un negozio tutto suo, e il mitico Kaos Records (con Ennio e il Boccetta), un negozio specializzato in elettronica che non avrebbe affatto sfigurato neppure su una piazza esigente come quella londinese. Poi c’era Simone Fabbroni che, oltre ad essere un grande DJ, “spacciava” dischi fenomenali da Smile e Danex, che peraltro resiste ancora oggi. Andando verso la riviera, Bologna rappresentava un passaggio obbligato con le capatine al Disco D’Oro da Luca Trevisi. Ciò che rammento con maggior piacere di quegli anni era l’incontro con altri DJ ed acquirenti con cui si poteva instaurare un rapporto umano. Oggi vendo io stesso dischi, da Move On, e mi rendo conto che la vendita online spalanca le porte di un mondo incredibile con algoritmi pazzeschi, ma se non c’è qualcuno che conosce i tuoi gusti e ti guida, non sempre riesci a trovare le cose giuste, soprattutto se si è in cerca di pubblicazioni di nicchia.

Dopo diversi anni di silenzio, il 2016 ha visto tornare in attività Loudtone, il progetto che hai creato nel 2006 con Umberto Saba Dezzi a cui si aggiunse il parallelo Plan K finito sulla Kindisch. Al 7″ pubblicato dalla Pizzico Records però non ha più fatto seguito altro. Segno di quanto sia ormai poco remunerativo il comparto del disco o scelta intenzionale?
Coi Loudtone iniziammo a produrre musica quando ormai il mercato discografico stava esalando gli ultimi rantoli quindi non abbiamo mai guadagnato granché. Tuttavia abbiamo continuato a comporre pezzi a mio avviso interessanti che prossimamente caricheremo su Bandcamp ma senza velleità economiche, ci basterebbe semplicemente essere ascoltati. Oggi è necessario trovare nuove forme di promozione extra musicali.

Conservi tutti i dischi (e CD) che hai prodotto nella tua carriera?
Ho un paio di copie delle uscite su Mantra Vibes e Kindisch che lascerò come (sola) eredità ai miei figli.

NicoNote e Calò (199x)

David Love Calò in compagnia di Nicoletta ‘NicoNote’ Magalotti, in una foto scattata nella seconda metà degli anni Novanta

Negli anni Novanta sei stato il DJ del Morphine, zona di decompressione del Cocoricò ideata da Loris Riccardi. Come ricordi quell’esperienza e che brani passavi con più frequenza in quell’ambiente?
Il Morphine ha vissuto varie fasi. Durante la prima, tra 1994 e 1995, mettevo cose tendenti all’ambient e al trip hop tipo Nav Katze, Aural Expansion, Pete Namlook, Nonplace Urban Field, Reload, Spacetime Continuum e Richard H. Kirk miste ad altre più vecchie come Cluster, Jon Hassell o White Noise. Poi, dal 1996, con l’arrivo di artisti tipo Tipsy e Sukia, aggiunsi suoni stile elevator music in scia a Jean-Jacques Perrey e Bruce Haack. A queste due “onde” si aggiunse infine un’anima più funk/soul e disco. Durante gli stessi anni c’erano altre realtà in parte simili, come il Link a Bologna e il Maffia a Reggio Emilia, locali indipendenti con programmazioni fenomenali, ma la fortuna del Morphine risiedeva nel rappresentare un piccolo spazio slegato dalla necessità di far ballare e, di conseguenza, fondato sulla frequentazione prevalente di gente del tutto diversa rispetto alle due sale principali del Cocoricò. Nel corso del tempo, grazie a Loris Riccardi e Nicoletta ‘NicoNote’ Magalotti, abbiamo potuto contare su tante ospitate non solo di DJ ma pure di performer, teatranti, filosofi ed astronomi. La reazione del pubblico “normale” inizialmente è stata di assoluto stupore, seguita poi quasi sempre dalla soddisfazione di aver trovato qualcosa di davvero originale.

Ricordi quale fu il disco che suonasti la prima volta che mettesti piede al Morphine, nel settembre del 1994, insieme a Mixmaster Morris?
Certo: era “The Number Readers” dei Subsurfing, un pezzo che aveva dentro tre elementi perfetti per quel periodo, ambient, dub e un sample di voce recitante in lingua giapponese. Arrivare al Cocoricò per me fu un flash non da poco e trovarmi di fronte un maestro del calibro di Mixmaster Morris mi aprì nuovi orizzonti. Quella notte lui fece un set fenomenale miscelando sapientemente pezzi di Vapourspace, un promo di Wagon Christ, tracce ambient techno e pure un disco di Alan Watts.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato illustrandone le ragioni.

Psychick Warriors Ov Gaia - Obsidian (Organically Decomposed)Psychick Warriors Ov Gaia – Obsidian (Organically Decomposed)
Uscito nel 1992 sulla KK Records, questo disco rappresenta la vetta assoluta del gruppo olandese. Tra i must del primo periodo del Morphine, mi era utilissimo perché diviso in due parti: la prima ambient, adatta ad una zona di decompressione, la seconda più veloce, perfetto anello di congiunzione con materiale acid o techno in stile Likemind. Purtroppo resta l’unico esempio di ambient che io ricordi per gli Psychick Warriors Ov Gaia, maggiormente spinti verso suoni techno. Trovai fondamentale anche il progetto solista di Robbert Heynen, fondatore della band, ovvero Exquisite Corpse, sempre pubblicato dalla KK Records.

Prince Far I - Crytuff Dub Encounter (Chapter I-IV)Prince Far I – Crytuff Dub Encounter (Chapter I-IV)
Nei primi anni Novanta, a Londra, mi capitò di partecipare ad un paio di eventi Megadog. Nel primo, tenuto alla Brixton Academy nel 1993, c’era la sala centrale coi live di Eat Static, Orbital, Aphex Twin, Drum Club e gli Underworld ancora sconosciuti ai più (era uscito da poco il singolo “Rez”) mentre nei corridoi fu posizionata una consolle dietro cui si alternavano vari personaggi fra cui Alex Paterson che conoscevo bene per i suoi live con gli Orb ma che non avevo mai sentito nella veste di DJ. Fece una selezione dub bellissima da cui emersero pezzi di Prince Far I. La mia conoscenza del dub allora si limitava alle cose classiche tipo King Tubby e soprattutto le uscite su On-U Sound, ma il suo set mi aprì orecchie e cuore. Il giorno dopo, spinto dall’entusiasmo per ciò che avevo sentito, “saccheggiai” vari negozi specializzati tra Soho e Brixton accaparrandomi i quattro capitoli di “Cry Tuff Dub Encounter” di Prince Far I.

US69 - Yesterdays FolksUS69 – Yesterdays Folks
Per me un “faro”, soprattutto a livello radiofonico, è sempre stato Gilles Peterson. Durante una delle sue session di Brownswood Basement, in cui trasmetteva dischi sconosciuti e supercool, fra un David Axelrod d’annata e un Sun Ra iperspaziale, tirò fuori questo gioiellino della band psichedelica statunitense US69. Pur non essendo mai stato un fanatico del periodo di fine anni Sessanta, soprattutto a livello rock, questo disco mi ha permesso di apprezzare la parte più onirica del genere, insieme ai Silver Apples e agli United States Of America.

Tortoise - Rhythms, Resolutions & ClustersTortoise – Rhythms, Resolutions & Clusters
Gli anni Novanta sono stati anche quelli del post rock e la Thrill Jockey ha rappresentato una delle etichette più importanti del genere. Questo è il secondo album dei Tortoise che comprai insieme ad uno dei primi singoli di Photek, quello col titolo in giapponese. Entrambi uscirono nell’estate del 1995, un periodo prolificissimo in cui anche nel clubbing si faceva strada il termine “eclettismo”. “Rhythms, Resolutions & Clusters” contiene una serie di remake risuonati interamente dalla band che ricorse anche ad elementi hip hop.

Pete Rock & C.L. Smooth - Mecca And The Soul BrotherPete Rock & C.L. Smooth – Mecca And The Soul Brother
Nel corso degli anni Ottanta i miei ascolti erano prevalentemente post punk e new wave ma nel 1983, forse grazie alla copertina che ritraeva Afrika Bambaataa e la Soulsonic Force nelle vesti di supereroi Marvel, mi ritrovai a comprare “Renegades Of Funk!” scoprendo l’hip hop. Ascoltando il programma Master su Radio Rai, con Luca De Gennaro e Serena Dandini, e Giuliano ‘Larry’ Bolognesi di Controradio che faceva anche il DJ al Tenax (e a cui chiesi una cassetta che conservo ancora!) mi innamorai di quelle sonorità. Non erano dischi facili da trovare ma nella seconda metà degli anni Ottanta la popolarità di etichette come la Def Jam Recordings permisero una maggior reperibilità di quel tipo di prodotti anche dalle mie parti. “Mecca And The Soul Brother”, uscito nel 1992 su Elektra, era una miscela perfetta di jazz ed hip hop che poi sarebbe diventata celebre coi Digable Planets e Guru coi volumi di “Jazzmatazz”. La forza del primo hip hop stava anche nell’uso sapiente dei sample che all’epoca erano legali e sconosciuti ai più.

Dick Hyman & Mary Mayo - Moon GasDick Hyman / Mary Mayo – Moon Gas
Questo LP rappresenta un perfetto esempio di space age music. Uscito nel lontano 1963, secondo me resta il disco meglio riuscito di Hyman grazie all’apporto vocale di Mary Mayo. Un album perfetto già a partire dalla copertina, utile a spezzare il ritmo di una serata ed adatto a fare da collante fra momenti ambient e tracce da ballo. È un ricordo di tante nottate a ritmo di Raymond Scott, Matmos ed electro, condivise coi DJ del Link, Peak Nick ed Ilo uniti come Beat Actione.

The Lisa Carbon Trio - PolyesterThe Lisa Carbon Trio – Polyester
Negli anni Novanta uscivano delle compilation chiamate “Trance Europe Express” che all’interno includevano sempre un booklet con interviste agli autori dei brani. Nel terzo volume Mike Paradinas citava The Lisa Carbon Trio come un progetto innovativo da non lasciarsi assolutamente sfuggire. Dopo un po’ di ricerche riuscii a trovare il singolo d’esordio, “Opto Freestyle Swing”, pubblicato nel ’92 dalla Pod Communication a cui seguì due anni più tardi uno strepitoso album su Rephlex, “Polyester” per l’appunto. Soltanto tempo dopo venni a sapere che dietro ci fossero Uwe Schmidt, mente geniale artefice di Atom Heart, Señor Coconut e decine di altri marchi, e Pete Namlook. Un disco incredibile che ai tempi ben si legava a “Monkey Boots” dei Gregory Fleckner Quintet uscito all’incirca nello stesso periodo su Clear. Proprio Mark Fleckner venne in Italia coi due fondatori della label, Clair Poulton ed Hal Udell, a suonare in una situazione tutt’altro che consueta ossia al centro sociale l’Indiano, in fondo al Parco delle Cascine di Firenze. Insieme a loro i miei due amici e mentori Simone Fabbroni e Liam J. Nabb.

Conrad Schnitzler - ConalConrad Schnitzler – Conal
Le vacanze estive della mia famiglia facevano tappa fissa ad Imperia dove vivevano i miei zii. Quelle tre settimane però, durante il periodo dell’adolescenza, cominciavano a pesarmi ed ogni via di fuga rappresentava una boccata d’aria. Grazie a mio fratello Daniele, che ha dieci anni più di me, scoprimmo un negozio di dischi ad Oneglia gestito da una fanciulla che vendeva roba incredibile, soprattutto per un pischello come ero io ai tempi: Laibach, Hafler Trio, Nurse With Wound giusto per citarne alcuni. Lì acquistammo questo disco racchiuso in una copertina rossa. Sopra erano incisi due lunghissimi brani della durata di venti minuti ciascuno. Dopo l’entusiasmo dei primi mesi rimase dimenticato sullo scaffale sino a quando iniziai a mettere i dischi al Morphine, nel 1994.

Tones On Tail - PopTones On Tail – Pop
Il periodo che preferisco musicalmente è quello compreso tra il 1979 e il 1982, quando il punk incontrò la black music con incastri sorprendenti. Questo album uscì nel 1984 ma il gruppo era partito proprio nel 1982 come side project dei Bauhaus, firmando incredibili singoli come “There’s Only One!” e “Burning Skies”. “Pop” si muove su territori tra dark gothic ed elettronica ed è ancora uno dei miei dischi preferiti degli anni Ottanta. A colpirmi parecchio fu pure la copertina, decisamente inquietante.

Holger Czukay - MoviesHolger Czukay – Movies
Un personaggio per cui ho nutrito un’adorazione completa è stato certamente Czukay, con e senza i Can. Il suo primo album che comprai fu “Der Osten Ist Rot” del 1984 ma “Movies”, uscito nel 1979, resta uno dei capisaldi. Non ho idea di come il disco venne accolto quando arrivò sul mercato ma penso sia stato compreso a fondo solamente diversi anni dopo. So per certo che uno dei brani racchiusi al suo interno, “Persian Love”, lo passasse Daniele Baldelli: diversi frequentatori della Baia Degli Angeli che venivano al Morphine avevano quasi le lacrime agli occhi quando lo suonavo.

(Giosuè Impellizzeri)

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Various – Kimera Mendax EP (New Interplanetary Melodies/Kuro Jam Recordings)

Various - Kimera Mendax EPIl fumetto “Kimera Mendax” narra la storia di un gruppo di ribelli che, dai sotterranei di Roma, lottano per neutralizzare KX, sistema bio-operativo con cui, nel prossimo futuro, si tenterà di affermare un’irreversibile tecnodittatura. “Kimera Mendax” è anche il titolo di un’ambiziosa proposta di imminente pubblicazione curata in tandem da New Interplanetary Melodies e Kuro Jam Recordings, unite in una joint venture disco-grafica: da un lato musica, dall’altro un fumetto. Appare subito chiaro che per concretizzare tale sinergia sia stata fatta leva su elementi di vicendevole compenetrazione.

«La storia del fumetto ruota intorno a misteriosi dischi in vinile (rotti, abbandonati, trafugati, regalati, mixati, manipolati) e quasi in ogni tavola ci sono riferimenti palesi o nascosti alla club culture di inizio anni Novanta, con particolare riferimento alla scena londinese» spiega Gianluca Pernafelli, sceneggiatore e membro del collettivo Kuro Jam. «I primi teaser dei nostri esperimenti grafici erano accompagnati da pezzi inediti che avevo realizzato ispirandomi a quel mondo e a quelle atmosfere. I disegni che compaiono all’inizio di ogni capitolo sono pensati come adesivi attaccati su un’ipotetica valigetta porta dischi. Il ritmo dell’intera narrazione è stato dettato spesso da brani dei “maestri” che ascoltavamo durante la scrittura e il disegno del progetto. Sulla pagina Facebook del collettivo abbiamo condiviso di volta in volta i nostri “consigli d’ascolto” relativi ai capitoli in lavorazione, accogliendone altrettanti dagli amici che interagivano sui post. Ne verrebbe fuori una compilation delle meraviglie che va dagli LFO ai Future Sound Of London, da Aphex Twin a Plastikman, da Lory D a Joey Beltram. Insomma, la musica è il vero sottotesto, il motore invisibile di “Kimera Mendax” ed era, in fieri, la sua naturale evoluzione. In vinile, ovviamente. Quando, nell’autunno del 2018, è uscito su New Interplanetary Melodies “Escape From The Arkana Galaxy” dei 291outer Space, accompagnato da una veste “fumettosa” retrofuturistica di Simone Antonucci, era chiaro che ci fossero tutte le premesse per unire le due esperienze. Non ricordo neanche se ci sia effettivamente stato un momento in cui Simona mi abbia chiesto “se”. La domanda è stata piuttosto “quando partiamo?”».

«Nel momento in cui ho fondato la mia etichetta ho sempre pensato ad un progetto più ampio che si estendesse dalla musica ad altre “visioni” come le arti grafiche» prosegue Simona Faraone, DJ e titolare della New Interplanetary Melodies. «Essendo un’appassionata di fumetti di fantascienza, mi sono lanciata con entusiasmo nella collaborazione con Luca “Presence” Carini dei 291out e il disegnatore Simone “Mega” Antonucci, coi quali abbiamo dato vita, insieme ad Ivan Cibien, al progetto della Galassia Arkana, una vera e propria space-opera raccontata in musica ed immagini che prossimamente vedrà un sequel. Il passo successivo è stato partire da un fumetto di fantascienza come “Kimera Mendax” con una forte componente musicale al suo interno e creare una soundtrack apposita, giocando coi tanti elementi contenuti nella storia. Sono molto soddisfatta della perfetta sinergia creata tra New Interplanetary Melodies e il collettivo Kuro Jam».

i quattro inlay

I quattro inlay allegati al disco realizzati dai disegnatori del collettivo Kuro Jam

Il disco in vinile è stato il supporto musicale ad aver offerto maggiore spazio per elaborazioni grafiche che, decenni addietro, hanno toccato punte di genialità probabilmente ineguagliabile (si pensi, ad esempio, ai lavori degli Hipgnosis, di George Hardie, di Milton Glaser, di Roger Dean o di Tony Lane). Dai primi anni Duemila però, con la progressiva smaterializzazione dei supporti, pare che tutto quel mondo artistico sia stato polverizzato con presunzione e disinteresse, dimenticando come la copertina abbia spesso implementato il valore del prodotto finale assumendo la forma di una sorta di mise en place. Gran parte della musica liquida oggi in circolazione punta essenzialmente sul contenuto video mentre quello grafico è ridotto a copertine grandi come francobolli o poco più. Il graphic design è quindi in via d’estinzione? Tra venti o trent’anni ci sarà ancora qualcuno che darà peso a questa attività artistica? «Credo che nessuno nato nel secolo scorso abbia dimenticato le proprie emozioni, a volte vere e proprie esperienze oniriche, a contatto con queste immagini stampate su cartoncino di formato 30×30, quasi sfacciate per la loro dimensione se paragonate ai francobolli in pixel di oggi» risponde a tal proposito Pernafelli. «Non a caso parlo di “contatto” perché questi oggetti magnifici li prendevi in mano, li aprivi, li esploravi anche a livello epidermico. Non compravi solo musica ma un sogno, un’identità, un bel quadretto da appoggiare sulla mensola della cameretta, un biglietto di viaggio senza scadenza che dovevi proteggere dalle aggressioni del tempo, un’esperienza che coinvolgeva più sensi. Oggi invece ci stiamo privando sempre di più di un senso fondamentale, per il nostro corpo ancora fortunatamente primitivo, quello del tatto. È anche un po’ ironico, pensando all’etimologia della parola, che la nuova umanità digitale stia lentamente rinunciando all’uso delle dita. Ci basta chiedere e con la sola voce attiviamo i device per fare una chiamata telefonica, accendere i termosifoni o cercare una canzone. In “Kimera Mendax” gli uomini hanno sostituito dita e mani con surrogati robotici, hanno incorporato quei device, sono diventati quegli strumenti e corrono il rischio di ritrovarsi in balia del sistema. Il graphic design legato alla musica non sparirà e sono convinto che saprà stupirci molto più spesso del suo contenuto, la musica appunto, ma sarà sempre più evanescente, racconterà meno quel contenuto, sarà solo appiccicato sopra, proprio come un francobollo. Se penso a “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd ho subito davanti agli occhi il prisma su fondo nero e i colori dell’arcobaleno (artwork realizzato dal britannico George Hardie, nda), se penso all’ultimo lavoro dei miei musicisti preferiti invece non vedo niente, su quel fondo nero emerge solo un elenco di titoli bianchi. E così, ogni volta, ho l’impressione di non aver fatto un’esperienza profonda e completa di quelle opere, perché non le ho… toccate».

La parola passa alla Faraone che prosegue: «sono una grande sostenitrice della musica stampata su dischi in vinile. Per me rimane il supporto ideale e anche il più completo, proprio perché c’è qualcosa di tangibile ed esteticamente affascinante in una bella copertina illustrata. New Interplanetary Melodies nasce come label con uscite unicamente in vinile abbinate ad un packaging molto curato. Col primo disco di Mayo Soulomon abbiamo riportato alla luce un suo progetto registrato su cassetta negli anni Novanta trasferendolo su disco nel 2016. Il 12″ era corredato da un inlay illustrato nel quale si spiegava tutta la storia delle mitiche cassettine di Mayo. Se questa release fosse stata solo digitale non avrebbe avuto il medesimo appeal. Essendo musica che proveniva da un’era analogica, la sua veste migliore non poteva che essere solo su vinile. Ogni disco della label ha una veste grafica precisa, curata da Andrea Guardiani del Budai Studio col quale è nata una bella collaborazione. Non potrei mai immaginare una nostra uscita accompagnata da una copertina banale. Ogni release viene curata nei minimi dettagli, dal sound all’artwork. Con “Kimera Mendax EP”, nello specifico, abbiamo dato vita ad un progetto unico in edizione limitatissima, un prodotto nato per essere un oggetto da collezione. All’interno del disco ci saranno quattro preziosi inlay illustrati dai disegnatori del collettivo Kuro Jam, Mattia De Iulis, Giulia D’Ottavi, Stefano Garau ed Enrico Carnevale. Abbiamo realizzato anche quattro teaser video, uno per ogni traccia, nei quali si potranno ammirare alcune tavole contenute nel primo e nel secondo volume del fumetto. Le illustrazioni della copertina, infine, recano una firma importante, quella dell’artista Elena Casagrande».

Kimera Mendax Vol.1

La copertina del primo volume del fumetto “Kimera Mendax” intitolato “System” ed uscito nel 2018

Il primo volume di “Kimera Mendax”, uscito nel 2018 ed intitolato “System” (disponibile per l’acquisto qui) , narra una storia ambientata nella Roma del 2048, un futuro non poi così tanto lontano in cui «l’umanità ha scelto di potenziarsi con appendici robotiche, integrando in sé le nuove tecnologie della comunicazione e dell’intrattenimento. […] A governare una società docile e funzionante ci pensa il sistema bio-operativo KX. Perdendo gradualmente il contatto con se stessa, drogata di futuro, la gente vive in morbosa attesa delle nuove “release”, nell’illusione di progressiva completezza e felicità». Seppur manchino quasi trent’anni al 2048, possiamo già parlare di una popolazione “drogata di futuro”, perennemente connessa in Rete ed apparentemente incapace di condurre più una vita senza smartphone e social network. Insomma, la realtà non pare poi così tanto diversa dall’immaginazione. «La genesi dell’idea è stata un esperimento» illustra Pernafelli. «Ognuno dei quattro disegnatori di Kuro Jam ha creato un personaggio, lo ha disegnato e caratterizzato dandogli un accenno di biografia. Insieme abbiamo stabilito il genere nel quale muoverci ed io avrei dovuto tessere la storia mettendo insieme altri elementi concordati come il futuro, l’ambientazione romana e l’atmosfera generale. Pensavamo di far uscire più albi ma alla fine abbiamo optato per un piano editoriale snello e il mio ulteriore salto ad ostacoli è stato comprimere tanto materiale narrativo in sole ottanta tavole. Questo, in fondo, ha dato al fumetto la sua cifra di densità: le pagine invitano ad una rilettura, alla ricerca dei tanti “easter egg” che ci siamo divertiti a disseminare qua e là, quasi come fossero sample musicali dei quali indovinare la provenienza. C’è una continua variazione di colori, ambienti, tagli, luci, ma credo che la DJ Xtal di Stefano, il Decimo di Mattia, il vecchio rigattiere di Enrico e la “strega” di Giulia abbiano trovato la loro giusta dimensione tra le pagine di un fumetto nato con l’idea di realizzare qualcosa di bello e di cui essere contenti. Non c’è stato nessun evento particolare ad ispirare la storia se non lo stupefacente sviluppo tecnologico in sé e l’uso maldestro, e a volte pericoloso, che gran parte dell’umanità fa dei tanti strumenti potenti, quasi magici, oggi a sua disposizione. Il disco uscirà in contemporanea col secondo volume di “Kimera Mendax”. A differenza del primo che conteneva molto “setting”, nel secondo c’è azione e movimento, si sciolgono molti nodi e si svelano i piccoli segreti di ogni personaggio, ma soprattutto diventa imprescindibile la presenza monumentale di Roma. In “System” c’erano scorci della periferia capitolina, il Lungotevere e qualche ponte riconoscibile mentre qui la battaglia finale a colpi di Technics SL-1200 avviene tra il Colosseo, immaginato come un gigantesco subwoofer, e l’Altare della Patria con le sue linee spigolose, proprio nel cuore della Città Eterna. Insomma, da un certo momento in poi ci siamo presi tutta la libertà che un’autoproduzione può garantire e ci siamo detti “ok, scoattiamo alla grande, let’s party!” Sono sicuro che, prima delle tante allegorie e dei numerosi riferimenti, si coglierà la voglia di divertirsi e di divertire che abbiamo messo dentro».

vignette vol 2

Due vignette tratte dal secondo volume di “Kimera Mendax” di imminente pubblicazione: nella prima, in bianco e nero, si scorge il logo della Sounds Never Seen, etichetta fondata da Lory D nel 1991, nella seconda invece, a colori, lo spettrogramma sullo sfondo cita il video di “Come To Daddy” di Aphex Twin, diretto da Chris Cunningham nel 1997

In “System” figurano inoltre una serie di parole chiave come Digital Battle – Analogue Resistance (terzo capitolo) ma pure una ricca serie di “campionamenti visuali” tratti dal mondo del DJing e della musica elettronica, su tutti le tavole di apertura del quarto capitolo dove viene mostrato l’indimenticato Black Market Records, un tempo al 25 di D’Arblay Street, nella capitale britannica. Il celebre negozio di dischi, meta per migliaia di DJ, è cristallizzato nell’anno 1991, con la vetrina riccamente allestita (in cui si scorgono, tra le altre, le copertine di “The Man-Machine” dei Kraftwerk, “Violator” dei Depeche Mode e “Tubular Bells” di Mike Oldfield) e un disc jockey che ascoltando un test pressing, privo di qualsiasi informazione riconducibile all’autore, esclama a gran voce: «c’è qualcosa di magico, sembra roba arrivata da un’altra galassia». Ai tempi si avverte per davvero quella sensazione unica di sentire cose autenticamente nuove che aiutano a mettere un piede nel futuro. Paradossalmente però, a circa trent’anni di distanza, si ha l’impressione che il futuro fosse ieri, musicalmente parlando, e che all’innovazione tecnologica (è forse essa la chimera mendace?) non sia seguita un’altrettanto sorprendente innovazione artistico-creativa. «Quando avevo vent’anni lavoricchiavo come DJ e speaker, ho respirato e vissuto quell’aria, ho frequentato studi di registrazione ed ho avuto la fortuna di conoscere gente importante» prosegue ancora Pernafelli. «Tra 1994 e 1995, inoltre, ho vissuto a Londra con alcuni amici tra cui il carissimo Nico De Ceglia, oggi affermato DJ e produttore ancora di casa nella capitale britannica, e Black Market Records era il nostro vero “social”. Pensammo persino di trasferirci all’ultimo piano del palazzo che ospitava il negozio, in un piccolo appartamento che si era appena liberato proprio accanto agli uffici della Azuli Records, ma alla fine preferimmo rimanere nel nostro quartiere. Ci guadagnavamo da vivere scovando e spedendo test pressing, per lo più di musica house, ad alcuni negozi di Roma, Rimini e Milano. In quel periodo i più famosi DJ italiani avevano “fame” di novità e di dischi esclusivi ed erano disposti a spendere cifre importanti per proporre nelle proprie serate roba nuova. Quando il materiale scarseggiava c’era sempre un piano B per pagare l’affitto: si stampavano tracce nate in poche ore di sessioni notturne in studio e si spedivano in Italia col centrino bianco spacciandole per materiale inglese di produttori ancora ignoti. Nessuno si è mai lamentato, anzi! Ecco, le tavole a cui si faceva prima riferimento hanno una componente nostalgica, sono l’omaggio ad un mondo che non esiste più. Ci tenevo che fossero ben fatte, Giulia è stata bravissima nella ricostruzione degli ambienti. Il venditore del negozio poi ha i tratti di Steve Jervier, uno dei due fondatori dello stesso store. Quanto al 1991 invece, è l’anno in cui una label ancora semisconosciuta di nome Warp pubblica “Frequencies” degli LFO e in cui escono anche altre “cosucce” come “Papua New Guinea” dei Future Sound Of London ed “Analogue Bubblebath” di Aphex Twin (in “Digital Battle – Analogue Resistance”, titolo sopraccitato di uno dei capitoli del fumetto, echeggia un po’ quel nome). Sì, chi trent’anni fa si è trovato tra le mani quei dischi, ha messo la puntina sopra ed ha alzato il volume, ha sicuramente avuto l’impressione di sbirciare nel futuro, di essere parte di una rivoluzione. Ma il bello è proprio questo: è difficile prevedere una rivoluzione, e di sicuro è impossibile tornare ad avere vent’anni». Simona Faraone invece sostiene che il futuro della musica sia stato già scritto: «a mio avviso difficilmente potrà ripetersi il cambiamento epocale che si attuò alla fine degli anni Ottanta con l’house music e la techno. Una nuova rivoluzione potrà verificarsi in futuro quando i tempi saranno maturi per la nascita di nuovi linguaggi musicali. New Interplanetary Melodies si propone come un tramite temporale tra passato e futuro e nel nostro piccolo con “Kimera Mendax EP” abbiamo dato qualche spunto per una visione di un futuro abbastanza vicino».

vignette vol 1

Una serie di tavole tratte dal primo volume di “Kimera Mendax”: in alto il negozio londinese Black Market Records, in basso ciò che avviene al suo interno con altre due citazioni rivolte ad Aphex Twin (lo sguardo terrificante che appare nel televisore del video di “Come To Daddy”) e Lory D (il “mai visto niente del genere” nel balloon ammicca ancora alla Sounds Never Seen)

Il disco, stampato in edizione limitata di 150 copie e numerata a mano, muove i passi su quattro tracce realizzate da altrettanti artisti: Soulomon, Peter Blackfish, Francesco Cianella alias E.L.F. (acronimo di Extreme Low Frequencies) ed Andrea Benedetti. Ognuno di loro esplora i meandri della “machine music” a proprio modo, chi prediligendo la cassa in quattro, chi poggiandosi sulle sincopi, chi fluttuando su nubi ambientali. Insomma, sembra di fronteggiare con quattro visioni nate su un registro grafico/narrativo finalizzato alla sonorizzazione della storia ma, come rivela la Faraone, le tracce in realtà sono state abbinate alle immagini del fumetto solo in corso d’opera. «È come se le illustrazioni uscissero dalle tavole per indossare una nuova veste in quelle degli inlay. “Kimera Stun” di Soulomon e il robot che pubblicizza il sistema bio-operativo KX, “KTO Xcite” di Peter Blackfish e la strega visionaria Falena, “Extreme Low Frequency” di E.L.F. e la DJ Xtal ed infine “Secret Algorithm” di Andrea Benedetti e Talamo, l’anziano rigattiere custode di alcuni “strani” oggetti del passato.

gli artisti di Kimera Mendax

I quattro artisti coinvolti nell’EP: sopra Mayo Soulomon e Peter Blackfish, sotto E.L.F. ed Andrea Benedetti

Avendo stampato un numero limitatissimo di copie, con questa uscita ci rivolgiamo innanzitutto ai fan del graphic novel “Kimera Mendax” e ai supporter della New Interplanetary Melodies e comunque a tutti coloro in cerca di qualità che ci auguriamo di aver realizzato. Si tratta del primo disco di una serie parallela del catalogo New Interplanetary Melodies in collaborazione con Kuro Jam Recordings, label del collettivo fondata da Gianluca Pernafelli, che è co-produttore esecutivo insieme a me. Sarà una serie di EP con cui coinvolgeremo altre figure rappresentative della scena elettronica e techno. Il disco è già in pre-order su Bandcamp ed uscirà ufficialmente il prossimo 27 marzo» conclude Simona Faraone. (Giosuè Impellizzeri)

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