Danielle de Picciotto, la Love Parade all’ombra del Muro di Berlino

Danielle de PicciottoQuando si parla di Love Parade le prime immagini che vengono in mente sono quelle di colori sgargianti, giovani in festa e musica ad alto volume. Poche invece le riflessioni sui motivi che generarono quella che è stata più volte definita la “Woodstock della techno”. La decadente Berlino della Guerra Fredda, con le ferite del conflitto mondiale non ancora rimarginate, era tagliata in due dal Muro che divideva non solo edifici e strade ma anche persone, sentimenti, animi. Sembra assurdo quindi che una giovane americana abbia deciso di andare a vivere proprio lì, nel 1987. Si chiama Danielle de Picciotto ed è colei che due anni più tardi crea, insieme a Matthias Roeingh alias Dr. Motte, la Love Parade. Nel periodo in cui la cortina di ferro collassa, è nell’entourage del Tresor, E-Werk e Maria Am Ostbahnhof, tra i club-simbolo della capitale tedesca. Nel corso del tempo alterna la sua attività da musicista, condivisa con artisti come Alexander Hacke (che sposa nel 2006) e Gudrun Gut dei leggendari Einstürzende Neubauten, a quella di artista a tutto tondo, abbracciando iniziative culturali, happening, realizzazioni video e pittoriche.

Sei nata negli Stati Uniti ma il tuo cognome lascia supporre origini italiane. Sbaglio?

No, hai ragione, la mia famiglia è di origini siciliane ma ormai da quattro generazioni non siamo più italiani. Mio padre è nato a bordo di una nave, io invece a Tacoma, nello Stato di Washington.

Quando e perché lasciasti l’America per trasferirti a Berlino?
Nel 1987. Durante una vacanza, in visita ad un amico, mi innamorai perdutamente della città. Avevo appena terminato gli studi a New York e Berlino mi parve altrettanto creativa come La Grande Mela ma non così pericolosa e costosa. Era un vero paradiso per gli artisti.

Come ricordi la Berlino ancora divisa dal Muro?
La scena creativa di Berlino tagliata dal Muro era molto idealista. L’accessibilità economica della città diede la possibilità ad un gran numero di persone di dedicarsi ad attività artistiche e creare progetti musicali inusuali. Il non dover obbligatoriamente pensare secondo logiche commerciali rendeva l’arte e la musica libere da ogni vincolo o compromesso. Esisteva inoltre un forte spirito solidale tra gli artisti che si supportavano a vicenda perché non vivevano la loro esperienza come competizione lavorativa. Berlino, sotto questo punto di vista, era come una grande famiglia, tutti conoscevano tutti. Certo, la città non era ancora uscita dal dopoguerra e il Muro creava ogni giorno un’atmosfera apocalittica. Non a tutti piaceva vivere in quel luogo, alcuni erano persino spaventati. La maggior parte della gente che abitava a Berlino in quel periodo era fortemente individualista e capace di mettere in discussione qualsiasi cosa, le regole, la politica, il modo di vivere e le vie convenzionali di creare musica o più in genere l’arte. Quando fu abbattuto il Muro la città divenne un nugolo di sorprese e di luoghi inesplorati. Dal 1990 al 1995 abbiamo impiegato gran parte del nostro tempo nello scoprire spazi rimasti abbandonati per poi riempirli con gallerie, party ed eventi di ogni genere.

In quegli anni iniziò pure la tua carriera musicale.
Cominciai a collaborare con Gudrun Gut nel 1990. La considero la più importante produttrice berlinese di musica elettronica. Oltre a creare musica, ideammo un programma radiofonico, The Ocean Club, ed uno spazio interattivo ricavato in una stanza del famoso Tresor. Collaboro con lei tuttora, ed infatti il mio album “Tacoma” è stato pubblicato nel 2015 proprio sulla sua etichetta, la Moabit Musik, ed attualmente la affianco in un tour. Adoro la musica elettronica sperimentale, non mi piace per niente invece usare sample già pronti. Preferisco creare tutto da zero, mischiando musica elettronica con strumenti e suoni registrati in presa diretta.

Ai tempi prendesti parte anche al progetto Space Cowboys.
Già, correva il 1989. Era la prima band berlinese che metteva insieme hip hop, rock ed elettronica, la mia prima vera esperienza all’interno di un gruppo. Da bambina ho studiato pianoforte e violino quindi per me fu intrigante trapiantare le conoscenze classiche in quel tipo di composizione moderna. Entrare a far parte di quel mondo mi ha aiutata parecchio a scrollarmi di dosso la paura del palcoscenico. Negli anni Ottanta la scena hip hop berlinese era piuttosto brutale, inizialmente i locali hip hop erano frequentati prevalentemente da gang di turchi che spesso innescavano disordini e rappresaglie. Per me fu una lezione provvidenziale.

Hai maturato esperienze al Tresor, all’E-Werk e al Maria am Ostbahnhof: che tipo di atmosfera si respirava, tra gli anni Ottanta e i Novanta, in questi leggendari club?
Ho contribuito alla fondazione del Tresor e dell’E-Werk, ed ho lavorato all’ingresso e al bar di entrambi. Ai tempi si sperimentava e si creavano cose totalmente nuove, e devo ammettere che ci siamo divertiti un sacco ad ideare la techno e lo stile tipico di Berlino. Era tutto più leggero e vissuto senza malizia rispetto a quando poi la scena si è commercializzata. Facemmo una serie di party dove ognuno doveva portare una rosa, indossare un cappello o vestire a strisce bianche e nere. Organizzammo spettacoli di vario genere (da mostre di tatuaggi a gare di drag queen) su enormi blocchi di cemento. Certo, in alcuni casi siamo stati particolarmente dissoluti, con sesso ed alcol, ma nel contempo quella fase fece registrare il massimo livello di creatività, c’era gente armata di macchina fotografica che scattò foto surreali! In particolare ricordo un fotografo italiano, Domenico Zindato, che portò tanti piccoli alberi e creò un’installazione sul dancefloor. Star internazionali come Tom Jones, Naomi Campbell o Björk venivano alle nostre feste proprio perché così pazzamente trasgressive.

Prima parlavi dell’Ocean Club, un progetto ammirevole.
Lo creammo in una sala del Tresor con l’obiettivo di avere uno spazio riservato al pubblico che volesse ascoltare la nostra musica e nel contempo vedere i nostri video. Allestii l’ambiente come se fosse subacqueo, con sedie e divani a forma di pesci. Il successo fu tale da spingerci alla creazione di un radio show dedicato.

Come nacque invece la Love Parade?
Incontrai Dr. Motte nel 1987 quando mi trasferii a Berlino. Ci innamorammo all’istante. Eravamo entrambi molto energici e ci piaceva organizzare eventi. I nostri primi acid house e techno party si svolgevano nel club di Motte, il Turbine Rosenheim. Dopo circa un anno ci venne l’idea di organizzare una techno parade, sul modello delle sfilate carnevalesche di Rio de Janeiro che tanto adoravamo. Immaginammo che potesse essere divertente fare una cosa simile a Berlino ma con la musica techno. Nel contempo desideravamo che fosse una dimostrazione in nome della pace e dell’amore per la musica, per dimostrare l’esistenza di modi positivi per spronare la gente alla collaborazione, in alternativa alla politica o alla guerra. Per la prima edizione, del luglio 1989, chiedemmo ai nostri amici di partecipare e ricordo che la maggior parte della gente ci fissava straniata ai bordi delle strade, chiedendosi cosa stessimo facendo. Ci divertimmo tantissimo a ballare sotto la pioggia! L’anno successivo in tanti vollero prendere parte all’evento e, nel corso del tempo, quell’idea riuscì a raccogliere un milione e mezzo di raver. Incredibile e pazzesco. Personalmente non amo le folle immense di gente, quindi smisi di partecipare quando le dimensioni della Love Parade divennero troppo grosse. In parallelo però ho curato degli happening connessi alla sfilata, nel 1998 e nel 1999, con l’intento di riportare un po’ di energia artistica in qualcosa che stava diventando troppo commerciale.

La prima Love Parade si tenne esattamente venti anni dopo il festival di Woodstock: in quel momento la rock generation si trasformava in techno generation?
Credo che entrambi gli eventi siano stati mossi dalla stessa energia positiva. Quel tipo di energia riesce sempre a creare miracoli e, se emerge nel posto giusto, al momento giusto e con le persone giuste, può generare cose irripetibili, proprio come Woodstock e la Love Parade.

La Berlino del 1989 probabilmente era il posto più adatto per un evento del genere, non trovi?
Certo, la situazione politica e le agitazioni per l’abbattimento del Muro furono componenti primarie dell’atmosfera. Quando le regole vennero del tutto infrante si creò una situazione simile all’anarchia che facilitò in modo sorprendente la nascita di fermenti culturali o eventi come la Love Parade.

A quale delle edizioni a cui hai partecipato sei più legata?
Le prime tre, per me, restano le migliori. Smisi di andarci dopo la quarta, quando il movimento divenne davvero troppo commerciale.

Lo spirito originario andò irrimediabilmente perso? Nel corso degli anni il brand fu vandalizzato per essere trasformato in una macchina da soldi?
Quando gli intenti commerciali si appropriano di un’idea, tutto cambia e la creatività viene congelata. Di solito se fare soldi diventa l’imperativo, si decreta automaticamente la fine dello spirito di partenza. Nel nostro caso, la Love Parade divenne un prodotto per il mercato di massa, perdendo l’individualità originaria. Non c’era più amore, a muovere tutto rimasero solo interessi economici.

So che hai contribuito al libro “Der Klang Der Familie” (titolo preso in prestito da un classico di quegli anni) di Felix Denk e Sven von Thülen, che purtroppo è disponibile solo in lingua tedesca.
Gli autori mi hanno intervistata in relazione allo sviluppo che conobbe Berlino nei primi anni Novanta. Sono sicura che a loro farebbe molto piacere se il libro fosse tradotto in italiano, magari tu conosci qualche editore potenzialmente interessato.

Non mi piace pensare alla techno come un genere nato a tavolino dalle idee di tre compositori di Detroit, lo trovo un concetto riduttivo e storicamente impreciso. Forse senza il supporto europeo e in particolare della Berlino di quegli anni, quelle di Atkins, May e Saunderson sarebbero rimaste folgoranti idee ma sepolte nella nicchia. Tu hai una teoria in merito alla nascita della techno?
Credo che certe cose, come la musica techno, accadano sotto la spinta di più motivazioni. In questo caso musicisti provenienti da più parti del mondo iniziarono a confrontarsi ed approcciare a nuove apparecchiature tecnologiche che, implicitamente, generarono un nuovo suono. Ciò decretò, nel contempo, la fine dell’era del rock e del punk. Le sperimentazioni e il rompere le regole convenzionali sono sempre la via migliore per cominciare qualcosa di nuovo. I musicisti di Detroit all’inizio non sapevano nemmeno che la loro popolarità avesse oltrepassato l’Oceano. Solo dopo essere stati in Europa come guest realizzarono che la gente stesse ascoltando (ed apprezzando) la loro musica. Moltissimi furono ispirati dai Kraftwerk e da artisti simili, ma talvolta entrano in gioco altri fattori che creano una magia che non si può spiegare al 100%. Proprio come la techno.

Qualche anno fa in questa intervista affermasti che Detroit è la nuova Berlino. Puoi spiegare meglio la comparazione tra le due città?
Detroit oggi versa in uno stato di distruzione simile a quello di Berlino degli anni Ottanta, con molti edifici bruciati, abbandonati e diroccati. Berlino però non è stata mai tanto pericolosa come lo è invece Detroit. Attualmente ci sono tantissimi artisti e musicisti che si trasferiscono a Detroit perché intravedono parecchie possibilità, favorite da affitti bassissimi, abbondanza di spazi vuoti ed assenza di norme e regolamenti. Fondamentalmente è una città di musicisti, basti pensare alla Motown, al rap ed alla techno che lì affondano le radici, ed attualmente vanta un’interessante scena musicale alternativa. Ho vissuto a Detroit nel 2012 e mi sono trovata molto bene, la creatività è paragonabile a quella berlinese del 1987, tutti si conoscono e si supportano vicendevolmente. Dimitri Hegemann, il proprietario del Tresor, ha intuito il grande potenziale di Detroit ed ha comprato un enorme edificio per creare e supportare la cultura d’avanguardia della città.

Berlino, nel frattempo, è diventata una città modaiola, che per tanti rappresenta un el dorado, al punto da credere che sia sufficiente trasferirsi nei pressi del Fernsehturm per riuscire a trasformare i propri sogni in realtà.
Berlino iniziò a diventare trendy nel 1995, anno in cui svariati gruppi industriali fissarono lì la propria base operativa per rinnovare in toto la città. Ritengo sia diventata una hipsterville nel 2008. Non mi piacciono quelle tendenze commercialmente indotte e nate solo per guadagnare soldi e, mi spiace dirlo, ma Berlino adesso è così modaiola da aver perso molto del suo originale individualismo. Nonostante tutto però ha ancora molto da offrire, grazie agli affitti contenuti delle case e la creatività underground, oggi molto più nascosta rispetto al passato.

Consideri attrattiva la scena elettronica contemporanea?
Apprezzo molto l’attività svolta dalle DJ e produttrici di musica elettronica: se ne contano sempre di più, tante sono ancora ignorate ma molto forti.

Durante l’ultimo decennio c’è stato qualcuno o qualcosa che ti ha colpito in modo particolare?
Viviamo un periodo in cui quotidianamente anche i piccolissimi fermenti vengono catturati dai media ed ingigantiti a dismisura per essere trasformati in trend da mainstream. Chi fa le cose migliori abita nell’underground e talvolta mantiene persino l’anonimato, che per me è ancora una delle cose più intriganti.

Qualcuno ipotizza un possibile ritorno della Love Parade a Berlino. Voci infondate?
Non credo in un futuro per la Love Parade. La catastrofe di Duisburg del 2010, causata da un’azienda avida ed incapace di garantire la sicurezza e l’ordine, ha di fatto ucciso la Love Parade. La sete di denaro annienta sempre tutto.

Ci sono dei brani che hanno rappresentato meglio di altri la storia della Love Parade?
Per me non esistono pezzi più importanti di altri. La Love Parade, che ho creato con Dr. Motte, nasceva da felicità ed amore, sensazioni provenienti da molti brani che ascoltavamo in quel periodo. Una sinfonia di molte voci diverse, suoni e canzoni, che hanno dato vita ad un bellissimo inno.

(Giosuè Impellizzeri)

© Riproduzione riservata

Questo slideshow richiede JavaScript.

 

Un pensiero su “Danielle de Picciotto, la Love Parade all’ombra del Muro di Berlino

Lascia un commento