Discommenti (aprile 2024)

Legowelt - The Sad Life Of An Instagram DJ

Legowelt – The Sad Life Of An Instagram DJ (Selvamancer)
Titolo decisamente sarcastico e pungente per questo nuovo EP che Danny Wolfers firma col suo moniker più noto e con cui anticipa l’arrivo di un LP destinato alla statunitense L.I.E.S. Records di Ron Morelli. L’eroe olandese imprime in cinque tracce tutta la sua verve creativa flirtando con l’electro e la techno, lanciando prima rasoiate filo acide in “Alpha Juno Storm Watch” e “Soundblaster Pro Tripper” per poi immergersi in spettrali acque lacustri popolate da qualche mitologica creatura sottomarina sopravvissuta alle ere geologiche (“Kawai K4 Acid Spring”) e saltellare al ritmo di pattern a metà strada tra il jack di Chicago e la raw techno scarnificata degli Unit Moebius (“No One Wants To Buy My NFT”). Chiude la title track, dove traiettorie melodiche dal retrogusto cinematografico sposano flessuosi incastri ritmici. A pubblicare il 12″ è l’iberica Selvamancer, che proprio di recente ha messo in circolazione uno stuzzicante EP di Gesloten Cirkel.

Terror - Data Surfer EP

T/Error – Data Surfer EP (New Interplanetary Melodies/Kuro Jam Recordings)
A distanza di qualche anno dal progetto “Kimera Mendax” di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui, New Interplanetary Melodies e Kuro Jam Recordings tornano in partnership per sviluppare una nuova ed emozionante sound experience. Questa volta il fumetto, la cui uscita è attesa per il prossimo autunno, s’intitola “Data Surfer”, proprio come l’EP che lo preannuncia nel migliore dei modi possibili. La musica di T/Error paga il tributo alla più viscerale tradizione electro/techno di Detroit, con continui rimandi e omaggi al suono abrasivo e fiammeggiante di Drexciya e Underground Resistance, un sound che, nonostante abbia sulle spalle oltre trent’anni, continua a fornire il mood giusto per immaginare il mondo del futuro diventando alfiere della longevità, contrapposta alla caducità della maggior parte delle produzioni contemporanee. Di questo disco, arricchito dall’inserto illustrato di Mattia De Iulis e dalle grafiche di Enrico Carnevale e nei negozi dallo scorso 4 aprile, si possono spendere solo parole di elogio. Tracce come “Data Surfer” e “Last Brute In The Firmament” rappresentano la soundtrack perfetta per sogni e utopie/distopie sci-fi, sganciate dai rassicuranti elementi da song structure, segnate da geometrismi ritmici e immerse in severe soluzioni armoniche. Spazio anche a varchi IDM (“Redundant Flux Form”) e galleggiamenti spaziali (“Minimum Lenght”), finalizzati ad allargare ulteriormente l’atto compositivo. Riservati al formato digitale sono ulteriori tre pezzi, “Shadows”, “From The Deep” e “Space Time Coordinates” con cui l’artista capitolino s’imbarca su rotte interspaziali, forse immaginando di trovarsi a bordo di una navicella in cerca di nuovi pianeti alternativi alla Terra su cui poter vivere. Alla fine sarà necessario tirare un sospiro per allentare la tensione accumulata.

Modula Feat Gino Saccio - Che È Stato

Modula Feat. Gino Saccio – Che È Stato? (Archeo Recordings)
Filippo Colonna Romano alias Modula è una new entry per l’etichetta fiorentina Archeo Recordings guidata da Manu Archeo (intervistato qui), che nell’ultimo decennio si è meritatamente ritagliata spazio grazie a un’incessante attività di recupero e valorizzazione di musiche oscure o dimenticate con una particolare predilezione nei confronti del sound balearico. Per l’occasione il musicista napoletano si lancia in un’ardita reinterpretazione di “Who Dunnit?” di Gino Soccio ironicamente ribattezzato Gino Saccio in copertina (era il pezzo che apriva il lato b dell’album “Face To Face” del 1982): mantenendo l’impronta funk disco, l’autore ne ricalibra la dinamica e ricostruisce le tessiture grazie all’apporto del chitarrista Daniele Sarpa, del bassista Mirko Grande e del batterista Pellegrino Snichelotto, a cui si aggiungono Rosario Esposito e Antonella Mauri che invece si occupano della nuova partitura vocale, in dialetto partenopeo. È sempre Pellegrino Snichelotto a rileggere ulteriormente il tutto attraverso un rework intitolato I Feel Glow, in cui l’impronta balearica assume contorni più delineati. A completamento del 7″, limitato alle 350 copie di cui 50 su vinile colorato, è l’artwork di Maurizio Schirò.

Rodion & Mammarella - Musica E Computer

Rodion & Mammarella – Musica E Computer (Slow Motion)
Un album che parte dalle sollecitazioni della prima computer music e che si sviluppa attraverso riferimenti al mondo delle library e a quello più ballereccio che ammica al Moroder metronomico e macchinico: si può sintetizzare così il contenuto di questo LP realizzato sull’asse creativo di Rodion e Fabrizio Mammarella e registrato presso il Museo del Synth Marchigiano. Suoni e ritmi provengono da strumenti come Crumar DS-2, Elka Synthex, Davoli Davolisint, Viscount R64, Eko Ritmo 20 ed Elka Drumstar 80, tutti cimeli che gli appassionati (quelli veri) conoscono più che bene e per i quali sarebbero disposti a fare anche qualche follia economica. Sono proprio queste macchine a ridurre la distanza tra passato e presente in un brillante percorso che trabocca di vitalità attraverso pastosi disegni di basso arpeggiati, vocoderizzazioni vocali e palpitanti griglie di batteria.

Max Skiba & Snax - Pushing My Button

Max Skiba & Snax – Pushing My Button (Skylax Records)
È davvero un piacere ritrovare in attività Maximilian Skiba, talento di cui si erano perse le tracce da un po’ di anni. Per l’occasione il polacco ricompatta la sinergia con Snax, con cui aveva già duettato nel 2010 per “One To Pray”, e riormeggia sull’etichetta francese di Hardrock Striker che pubblicò un suo EP nel 2009, inspiegabilmente passato quasi inosservato nonostante prodotto in modo eccelso. “Pushing My Button” riparte proprio da quelle atmosfere, affondando le radici in un’elegante disco funky house che, così come recitano le note promozionali, traccia magistrali parallelismi con classici senza tempo come “Kiss Me Again” dei Dinosaur o “Is It All Over My Face?” dei Loose Joints, e rende omaggio al passato iniettandoci dentro, con sapienza, un appeal moderno. Skiba, insomma, non si limita a scopiazzare o ritagliare l’ennesimo dei sample per parodiare l’osannato ieri ma cerca di lanciare un ponte tra epoche lontane facendo leva sulle proprie doti da musicista prendendo le debite distanze dai banali assemblatori di loop che affollano i tempi che viviamo. A “Pushing My Button” e “In Motion” si sommano i remix: a mettere le mani sul primo è Apollon Telefax che traghetta tutto verso sponde italo disco giocando con un forte richiamo a “Hold Me Back” di WestBam; al secondo invece ci pensa Maltitz che opta per un saliscendi balearico dai riflessi aciduli.

JP Energy - Strano EP

JP Energy – Strano EP (Sound Migration)
A pochi mesi dalla ristampa del “Mathama EP” (si legga Discommenti di settembre 2023), riaffiora un altro vecchio disco del repertorio di Gianpiero Pacetti alias JP Energy, originariamente pubblicato nel 1993 su Progressive Music Production. Lo “Strano EP”, allora realizzato con la produzione esecutiva di Francesco Zappalà e l’apporto del musicista Stefano Lanzini, ha retto magnificamente l’incedere dei decenni e si ripresenta col medesimo bagaglio sognante di influenze oniriche che pagano l’ispirazione all’elettronica pre house/techno, specialmente quella cinematografica di Vangelis, Tangerine Dream ma soprattutto Jean-Michel Jarre, artista che folgorò Pacetti nell’infanzia come lui stesso racconta in questa intervista. Melodie epiche dunque si rincorrono in “Down To The Moon”, arpeggi celestiali e struggenti scalano gli appigli ritmici di “Dolphin Dance”, “Alvorada” accosta percussioni batucada a ipnotici arabeschi, “Les Architectes Du Temps” chiude come tutto è iniziato, con una scia melliflua che accarezza l’anima di chi ascolta: «ai tempi la composi immaginando un gruppo di gnomi che al mattino se ne andavano a lavorare nella foresta coi loro attrezzi sulle spalle» ricorda l’autore. A integrare questa reissue, oggetto di una rimasterizzazione ad hoc, è il remix che E-Talking ha realizzato di “Alvorada”, puntando a un’elaborazione ritmica più marcata. Un EP che, in barba all’intelligenza artificiale e alle diavolerie tecnologiche dell’ultim’ora, dimostra come al di là dei suoni ci voglia anche il cuore per comporre certa musica.

Punx Soundcheck Feat. Boy George - Be Electric (The Remixes)

Punx Soundcheck Feat. Boy George – Be Electric (The Remixes) (Icon Series)
Dalle viscere dei ricordi dell’electroclash d’oltremanica, riecco in azione i Punx Soundcheck con la loro proverbiale energia. Estratto dall’album “Punx In 3D” uscito lo scorso autunno e scandito da chiari echi hi nrg di derivazione orlandiana, “Be Electric” si ripresenta ora in versione singolo con l’aggiunta di vari remix ognuno dei quali con una precisa identità. Si passa dall’electro pop di Roland Sebastian Faber, che ha preso il posto di Arif Salih nella lineup del progetto, alle strutture technoidi di The Model, dai lapilli lavici di Mick Wills agli irrigidimenti monolitici di Ascii Disko passando per le movenze vellutate dei nostri Hard Ton e gli spezzettamenti breaks frammisti a elementi ragga di Greg May. In circolazione finirà sia il 12″ che il CD, limitato ad appena 100 copie.

Francesco Passantino & Friends - Venticinque EP

Francesco Passantino & Friends – Venticinque EP (Tractorecords)
In occasione del venticinquennale di attività discografica, Francesco Passantino riporta in vita il marchio Tractorecords, ibernato dal 2016. Nell’EP il DJ spezzino, ma da molti anni di stanza a Berlino, fa confluire le diverse sfaccettature che hanno colorito la sua carriera da produttore nell’ultimo quarto di secolo partendo da “Vision”, una nuvola di soffici pad su cui si posano uno scheletro ritmico e voci fuori campo, in apparenza captate da qualche radio lasciata distrattamente accesa. Registrata live al Club Der Visionaere la scorsa estate insieme a Daniele Ricca e Francesco Monaco con cui Passantino forma i Resilience Groove, la traccia è incapsulata nel minimalismo più rarefatto misto a bolle dub. Con “Undici” però la tavolozza dei suoni cambia e insieme a essa anche il registro ritmico, a vantaggio di una combinazione che rimanda ai tempi dorati della progressive trance, con una serpentina di bassline che ondeggia nervosa e pilota la sezione di batteria con qualche occhiata all’Emmanuel Top del periodo Attack. “Mahatma Groove” ripesca a piene mani proprio da quell’immaginario, con riccioli filo acid e onde trancey che si infrangono sulla parete ritmica. Spazio infine a un pezzo che arriva dal 1999, contenuto nel primo volume di “Electribe EP” su Subway Records che Passantino firmò con l’amico Davide Calì (intervistato qui) e che negli ultimi anni è diventato un piccolo cimelio per i collezionisti. Trattasi di “Ascolta”, in cui matrici kraftwerkiane in stile “It’s More Fun To Compute” si uniscono a grandi arcate trance svolazzanti. La tiratura del 12″ sarà limitata alle 150 copie.

Maxx Klaxon - Nothing Can Tear Us Apart

Maxx Klaxon – Nothing Can Tear Us Apart (Self released)
Per Maxx Klaxon vale un po’ il discorso fatto qualche riga sopra per i Punx Soundcheck. Il musicista electropop newyorkese fece capolino nella scena durante la fase finale del boom electroclash ma poi dileguandosi e facendo perdere le proprie tracce. Ora rieccolo, a un triennio da “From The Air”, con un EP in vendita su Bandcamp che riparte proprio dai suoni che tra 2003 e 2004 spopolarono in Europa mettendo d’accordo sia giovani che nostalgici. “Nothing Can Tear Us Apart” intreccia new wave, synth pop e blippeggianti echi electro, rispettando i canoni della song structure. A mettere il pezzo su binari ritmici più marcati è Daniel Cousins alias Albatross Heights nel suo Duct Tape Remix mentre Chris Ianuzzi, nell’Exploidoid Remix, sporca i vocal col distorsore e costruisce un castello di dissonanze glitch dal retrogusto psichedelico. La chiusura è dettata da “Freedom Tape”, composizione strumentale trascinata da un lacrimoso arpeggio poggiato su un soffice cuscino di pad malinconici. Se fosse uscito a inizio millennio, sarebbe stato perfetto per un’etichetta tipo l’International DeeJay Gigolo.

Michele Mininni - Pop Archetypes

Michele Mininni – Pop Archetypes (Hell Yeah Recordings)
Ben lontano dalle logorree produttive di certi artisti, Michele Mininni è stato sempre parsimonioso sul fronte produzioni, puntando piuttosto al “poco ma buono”. Colto ma non disposto a prendersi mai troppo sul serio, al compositore pugliese si riconosce l’imprevedibilità sotto il profilo creativo e la capacità di non farsi intrappolare e imprigionare nei cliché, e forse è stata proprio questa propensione a condizionare, in qualche modo, la quantità del suo repertorio. Assente dal panorama discografico da diversi anni (fatta eccezione per la fugace comparsata della scorsa estate su Dischi Spranti, di cui abbiamo parlato in Discommenti di luglio 2023), Mininni ora rompe il silenzio e lo fa con un album, il primo della carriera, destinato alla Hell Yeah Recordings di Marco Gallerani e figlio di una moltitudine di ascolti eterogenei. Tra accelerazioni, divagazioni, dilatazioni, sfasamenti ritmici e ribaltamenti armonici sottesi a una minuziosa cesellatura di ogni singolo suono, “Pop Archetypes”, ulteriormente impreziosito dalla copertina di Sandro Leucci che occhieggia ai décollage di Mimmo Rotella, è un manifesto multicolore e multietnico in cui passa in rassegna una gamma assai vasta di riferimenti che rendono complesso l’incasellamento in un genere preciso. Più semplice, piuttosto, stabilire la non appartenenza al pop a dispetto del titolo, forse scelto provocatoriamente per creare un’antitesi coi contenuti. «Non è stato facile trovare il titolo, seppur intitolare i brani sia una delle cose che mi piace di più del fare musica, perché rappresenta la sintesi massima fra i due linguaggi» spiega Mininni, contattato per l’occasione. «La sfida si presentava ancora più ardua visto che era la prima volta che davo il titolo a un album e quindi ho ceduto all’ironia, anche per prendere le distanze dalla serietà e dalla mia vita, cosa che mi è sempre riuscita abbastanza bene. In realtà cercavo qualcosa che avesse più angoli di interpretazione e che racchiudesse tutte le sfaccettature del disco e le mie influenze di “popular music”. Poi mi hanno sempre “rimproverato” di fare musica per pochi, quindi ecco servito un bel disco “pop” riconoscibile come un camaleonte».

“Pop Archetypes” prende dunque di mira gli archetipi del pop e li fa a pezzi, canzonando gli esiti pronosticabili della maggior parte della musica attualmente in circolazione, quella prodotta in quattro e quattr’otto e altrettanto celermente dimenticata perché sostituita da altra che arriva subito dopo come banale scatolame in una catena di montaggio. Per mettere in circolazione un LP come questo, oggi, del resto serve anche un po’ di coraggio. «Sinora avevo pubblicato solo EP e mai avrei pensato di incidere un album in vita mia» prosegue l’autore. «Dai tempi di “Rave Oscillations” su R&S, nel 2017, nelle recensioni si parlava di attesa dell’esordio su lunga distanza e mi veniva da sorridere, perché preso dalle cose della vita, dal mio lavoro e anche, lo ammetto, dalla mia inesorabile pigrizia, mi sembrava pura utopia. Negli ultimi anni, diciamo dalla pandemia, mi ero allontanato dalla musica e avevo finito di ascoltare ossessivamente le ultime uscite. Insomma, mi sono preso una lunghissima pausa depurativa ma non me lo sono imposto, è andata semplicemente così. Poi lo scorso anno ho riaperto per gioco il sequencer, cosa che non accadeva dal 2018, per creare la colonna sonora di un video promozionale di quindici secondi su YouTube. È nato tutto così. Da lì è come se le cose, piano piano, fossero venute a me. Da quel momento è partita la sfida verso me stesso. Lo dico sinceramente: dietro quel sorriso davanti alla richiesta di un LP si celava anche amarezza, perché è una cosa che sotto sotto mi faceva sentire incompleto. Era come dire “sì ok, cinque EP, ma…”. In me c’era un tarlo latente che diceva “ne sarò capace?” Quell’episodio ha innescato tutto, ed eccoci qui».

A caratterizzare in modo preponderante “Pop Archetypes” è anche il timing limitato della maggior parte dei pezzi che lo compongono, una sorta di sintesi massimale con cui Mininni conduce l’ascoltatore in una dimensione ermetica fatta di interludi o pseudo tali che fungono da collettori di emozioni. «Non c’è una ragione precisa dietro tale scelta, non me lo sono imposto» spiega l’autore, chiarendo come lo sviluppo di un progetto simile richiedesse una struttura estremamente variegata ma allo stesso tempo sintetica perché il rischio della prolissità era altissimo. «Il risultato è un percorso degustazione che alla fine del pasto deve lasciarti sazio ma non al punto di esplodere, in modo che dopo qualche tempo, si spera il prima possibile, in quel ristorante ci torni ovvero riascolti il disco». Nella scansione narrativa regna l’imprevedibilità: si provi, ad esempio, a mettere su prima “Vertigo” e poi “Bangkok Tempo” per provare quell’ebrezza che emerge dalle produzioni che escono dalla monodimensionalità. Ci sono passaggi in cui si fatica davvero a scorgere punti di connessione col passato produttivo mininniano, si senta “Urban Voodoo”, tra le più lunghe della playlist, con cui si innescano cinque minuti di adrenalina muscolare, o “The Magic Of Synesthesia”, dove le irregolarità ritmiche cullano melodie barcollanti in salsa psichedelica, o ancora “Wet Market”, un cut-up tra voci, scratch e pulsazioni breakbeat, “Golden Room”, una fuga in direzioni lounge, “Kundalini” e “Congoflash” immerse in nuance chiaroscurali da cui si propaga una forma mutante di world music. «Prima ancora d’iniziare sono partito da un concetto chiarissimo: non volevo che l’LP fosse la somma dei miei precedenti EP e non desideravo risultasse rassicurante altrimenti non avrei intrapreso il percorso perché mi sarei annoiato» mette in chiaro Mininni. «L’ipotesi di una rottura col passato mi ha fornito il giusto entusiasmo per stressarmi perché per me fare musica è incredibilmente stressante. L’idea era quindi di creare tasselli di un puzzle che fossero riconducibili alla forma canzone e che bastassero pur nella loro brevità. È stato uno sforzo di sintesi e sottrazione, anche negli arrangiamenti. A differenza di alcune mie cose del passato, ho dovuto togliere e non aggiungere. Ho misurato gli ingredienti con estrema attenzione, dietro c’è un lavoro di centinaia di ascolti volto a trovare la perfezione formale alla quale ambivo nella mia testa, sia nei singoli brani che nel loro stare bene assieme. Ho perso il conto di quante volte ho ascoltato il disco per scegliere la scaletta definitiva. Ho scartato anche dei pezzi, cosa per me incredibile, vista la mia storica stitichezza produttiva. Invece d’improvviso, addirittura abbondanza».

In “Pop Archetypes”, complesso organismo composito, si toccano sponde IDM, broken beat e drum n bass, poi si vira verso una world music impazzita, astrattismi e tropicalismi balearici con pochi spiragli però sulla dance music in senso stretto. Forse una precisa scelta per prendere le distanze da una scena che ormai appare creativamente depotenziata e narcotizzata? «Tutto ciò che è racchiuso nel disco non parte da analisi o metabolizzazioni dello scenario attuale, è semplicemente una conseguenza» afferma ancora l’autore. «Credo che il concetto di “conseguenza” sia stato dimenticato e che purtroppo sia proprio alla base dell’appiattimento dello scenario attuale. Quando si decide a tavolino che si vuol far ballare, ad esempio, si scelgono strumenti adatti, trick, strutture e suoni specifici. Insomma, dal semplice foglio bianco si passa a canalizzare in modo rigoroso e scientifico tutto il processo sulla base di regole già scritte, riducendo molto spesso il risultato a mero prodotto con finalità esclusivamente pratiche. Tradotto: mi serve un pezzo per far ballare, così come mi serve una pinza per svitare quel dado. Ecco, per me quella è la morte della creatività. La conseguenza è quella cosa che si esplica partendo da un presupposto di libertà e rivendicazione della propria unicità e che dà un risultato magari imprevedibile. Per la serie “questo sono io, poi si può anche ballare”. Magari ottieni una bomba dancefloor, ma lo è perché non sei partito da un presupposto finalistico ed esclusivamente pratico. È quello che sta accadendo alle canzoni di Sanremo: soprattutto nell’era dello streaming e di TikTok, assistiamo alla ricerca ossessiva del tormentone che condiziona le strutture dei brani fino a renderli tutti abbastanza simili. Chi ha ascoltato un po’ di musica in vita sua, riconosce in quei “mind games” musicali il perfido tentativo di creare dipendenza e viralità in funzione dei nuovi mezzi di comunicazione. Tentativo legittimo, perché l’esposizione porta monetizzazione, ma che riduce la musica a una grande lotteria dell’attenzione, in cui a vincere sono sempre meno attori».

(Giosuè Impellizzeri)

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