La discollezione di JP Energy

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I dischi di Gianpiero ‘JP Energy’ Pacetti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Avevo dodici anni e un caro amico, un pomeriggio dopo la scuola, mi fece ascoltare una musicassetta di un “certo” Jean-Michel Jarre. Si intitolava “Oxygène” e di quell’album mi colpì in particolare la parte V. Rimasi praticamente folgorato e corsi ad acquistarlo. Da quel momento si aprì un mondo e in me crebbero un entusiasmo e una curiosità molto forti nei confronti della musica elettronica al punto da farne motivo di studio e di percorso artistico della mia vita.

L’ultimo invece?
È un doppio di Freaky Chakra che mi lasciai sbadatamente sfuggire ai tempi dell’uscita, nel 1998, intitolato “Blacklight Fantasy” in cui si trova la traccia omonima finita nel film “Miami Vice” del 2006. Molti pezzi che propongo nei club spesso fanno parte di colonne sonore cinematografiche e a tal proposito potrei citare un’altra traccia che è stata un mio cavallo di battaglia, “Blue” di LaTour, inserita nel celebre “Basic Instinct” e solcata su un 12″ colorato, blu ovviamente. Uno dei motti che ho sempre portato avanti con forza, citandolo anche sui flyer accanto al mio nome, è stato “music for film”, immaginando che il pubblico venuto per ascoltare la mia musica potesse vivere, per l’appunto, un film nel club.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Sono arrivato a toccare la soglia dei 7000 dischi ma credo che a fare la differenza non sia la quantità bensì la qualità della musica selezionata con sapienza e gusto. Al momento ne possiedo circa 3000, sugli scaffali sono rimasti quelli radicati nel mio cuore. Spesso, in passato, ho acquistato dischi col preciso intento di capirli e studiarli, trattandoli quasi come cavie da laboratorio perché dovevo imparare e capire qualsiasi cosa. Credo pertanto di aver speso in vinile circa novanta milioni delle vecchie lire.

Dove è collocata e come è organizzata?
Tutti i miei dischi si trovano su una scaffalatura in metallo da me costruita e saldata visto che la metallurgia è un’altra grande passione che mi porto dietro insieme alla musica elettronica. Sono ordinati secondo l’etichetta e numero di catalogo e spesso riesco a riconoscerli dalla costola laterale o persino dallo spigolo della copertina. Sono lì, pronti al combattimento, come instancabili guerrieri.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Trovandosi in casa sono ben protetti dall’umidità. Per questa ragione non uso copertine supplementari in plastica ma mi limito a pulirli periodicamente con Vetril o semplicemente con acqua e sapone, un metodo vecchio ma sempre efficace.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo sì. Avvenne quando lavoravo come resident durante la stagione estiva al Cotton Club di Bardolino, sul Lago di Garda. Suonavo tutte le sere e per evitare il continuo trasporto presi l’abitudine di lasciare in consolle la valigia dei dischi. Nello specifico mi rubarono “Heaven And Hell” di Vangelis, per fortuna anni dopo sono riuscito a riacquistarlo a buon prezzo in un negozio di Portobello, a Londra.

C’è un disco a cui tieni di più?
No, considero importanti tutti i dischi che ho deciso di tenere, citarne uno per me sarebbe impossibile, è come se mi chiedessi di indicare il quadro più bello o il pittore più bravo. L’arte è fatta di confronti, senza essi non potremmo capirla. Per quanto riguarda la musica, sta a noi DJ interpretarla e selezionarla per poi cercare di persuadere qualcun altro ad apprezzarla, così come si fa coi capolavori su tela.

Quello che regaleresti volentieri o che ti sei pentito di aver comprato?
Ne regalerei molti, senza un motivo particolare, e nel contempo mi sono pentito di averne comprati parecchi ma del resto il rischio maggiore per coloro che volevano intraprendere il mestiere di DJ era proprio quello di toppare qualche acquisto. Per imparare a “leggere” la musica era inevitabile sbagliare, e questo risultava economicamente svantaggioso. Prima di acquistare un disco, infatti, si rifletteva dieci volte se fosse davvero quello giusto e solamente dopo si metteva mano al portafogli. Era un sistema che dava la giusta importanza alla musica. Oggi invece, grazie a internet e alla sua gratuità, ciò viene meno e di conseguenza tracce meravigliose possono essere ignorate. Per questo motivo ritengo che il vinile come supporto rappresenti ancora la scocca portante di un disc jockey.

Quello che ti piacerebbe possedere?
“You” dei Boytronic, con la versione strumentale sul lato b, preferibilmente in formato 12″. Purtroppo ho solo l’album da cui il pezzo venne estratto, “The Working Model”.

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JP Energy e la sua copia di “Oxygène” di Jean-Michel Jarre

Quello con la copertina più bella?
Sono tanti i dischi racchiusi in copertine meravigliose. Dovendone indicare una, probabilmente tornerei ancora al citato “Oxygène” col pianeta Terra che, sotto la superficie strappata, rivela un teschio umano. Nel 1976 Jarre fu illuminato in tutto e per tutto nel realizzare quell’album.

Nell’intervista finita nel libro Decadance Extra del 2015, affermi che la tua più grande passione sia mettere i dischi e non crearli. Tuttavia a partire dai primissimi anni Novanta hai iniziato a frequentare gli studi di registrazione incidendo diverse produzioni, da “Neo Sound” di Psycho 60 ad “Atmosphere Tropical” di Maldido Primitivo, insieme a Marco Biondi e Paolo Armaroli, da “The First EP” di Dinamic Duo con Francesco Zappalà a una serie di EP a nome JP Energy come “Strano”, prodotto dal citato Zappalà su Progressive Music Production, e una tripletta su Spectrum – Civiltà Del Suono (“Prima Dell’Alba/Forbidden Planet”, “Il Ritmo Digitale”, “I Have A Pessimistic Outlook Of Life”). Ai tempi, per un DJ come te, cosa voleva dire creare musica?
Fare esperienze in studio per me era una forma di confronto con coloro che la musica la inventavano e creavano già da tempo. Ho sempre sostenuto che un buon disc jockey, di solito, non è mai un abile produttore e viceversa, un valido produttore difficilmente si rivela un capace disc jockey. Per techno ed elettronica in generale, gli anni Novanta sono stati eccezionali e rivoluzionari, chi aveva coraggio e intelligenza artistica poteva osare, e non poco, e io l’ho fatto, con conseguenze positive (poche) e negative (molte) che mi sono portato dietro. Le rivoluzioni hanno i loro uomini e io sono stato parte di quella rivoluzione, con buona pace di tutti coloro che hanno preferito sfruttare quel momento in modo opportunistico da incapaci o parassiti. In studio conoscevo a memoria tutti i banchi dei miei sintetizzatori, dal Roland Jupiter-6 all’ARP 2600, dal Roland Juno-106 al Chroma Polaris, dal Roland JD-800 al Sequential Prophet-5. Era entusiasmante e in tutto questo mi aiutava un bravo musicista, Paolo Armaroli. Smanettavo continuamente quelle potenti macchine e a volte occorrevano ore per ottenere un solo suono tanta era la mia meticolosità. I dischi poi nascevano spesso dai miei stati d’animo ma la produzione, nonostante l’ardente passione, non prese mai il sopravvento, il mio ruolo è sempre stato quello di suonare dischi creati da altri. Non a caso avevo chiuso definitivamente nel cassetto varie tracce scritte e prodotte ai tempi ma qualche mese fa si è fatta avanti una giovane etichetta, la Evasione Digitale, proponendomi la pubblicazione su vinile. Il 12″ dovrebbe uscire a metà settembre e di questo ne sono felice ma non ripongo aspettative velleitarie, continuo a considerarmi un DJ e non un produttore. Basti pensare che non possiedo le copie di tutti i dischi che ho fatto e recuperarle oggi potrebbe voler dire spendere parecchio denaro viste le quotazioni raggiunte da alcuni su Discogs, su tutti “Prima Dell’Alba/Forbidden Planet” che anni addietro è stato venduto per 290 €.

Le produzioni discografiche però sono state determinanti per la carriera di molti DJ, talvolta riuscendo persino a supplire discutibili doti in consolle. A posteriori, avresti voluto investire più risorse ed energie nell’ambito produttivo?
No, come dicevo prima la mia vera e profonda passione è stata, è e sarà sempre mettere dischi come disc jockey. Il compito di questo è selezionare musica, saperla interpretare, leggerla, studiarla profondamente per poi proporla al pubblico ipnotizzandolo. Si tratta di vera e propria arte. Il disc jockey è intuito, gusto, velocità di ragionamento, sguardo sempre attento alla pista. Prima di mettere il primo disco, mi soffermo qualche secondo sulle persone che ho davanti per creare una connessione empatica. Non mi sono mai fatto aggredire anzi, ho sempre “aggredito”, consapevole del mio particolare suono, affrontando il tutto con coraggio e senza paura.

C’è un disco che avresti voluto produrre?
“Could This Be Love?” di Kerry Shaw, nella Chameleon Mix, uscito sulla britannica Parlophone nel 1993. A circa metà della stesura fa ingresso un giro di synth strepitoso, sia nel suono che nell’esecuzione. Ho sempre considerato quel pezzo uno dei più belli della techno, insuperabile.

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JP Energy in consolle al Cyber Garage di Flero (Brescia). Alle spalle il logo del suo negozio di dischi, Mandragora

In Decadance Extra racconti pure che per i primi sei mesi il pubblico del Cyber Garage ti fischiò regolarmente, spinto anche da chi occupava prima di te la consolle. Che fine avevano fatto i frequentatori a cui facevi riferimento in un’intervista del settembre 2005 menzionata in “Mondo Techno” di Andrea Benedetti (intervistato qui), che ai tempi della cosiddetta “musica afro” erano pronti a recepire? Col passare degli anni sono forse venuti meno anche quei proprietari di locali che, citandoti ancora, «lasciavano liberi i DJ di fare come volevano»?
Quello del Cyber Garage fu solo uno dei tanti episodi che, a malincuore, ho vissuto. Gli ipocriti tronfi che mi affiancavano in consolle tentavano di allontanare le persone dalla pista ma alla fine è stato il pubblico a decidere e scegliere. Nella stagione 2006, al Mazoom di Desenzano del Garda, mi capitò che l’art director, in preda chissà a quale delirio, sia corso in consolle per dirmi che stessi facendo ballare troppo e che la mia sala, di conseguenza, stava portando via gente alle altre piste. Praticamente ovunque ho trovato ignoranti che, per usare un termine alla Marco Biondi, amico di vecchia data (intervistato qui, nda), entravano a gamba tesa per mettere i bastoni tra le ruote del mio entusiasmo. Dopo tanti anni di permanenza in quel settore sono arrivato al “capolinea”, non ne potevo più, e benedico il giorno in cui mandai tutti al diavolo. Ciò non ha spento ovviamente il mio amore per la musica elettronica. Liberato da coloro che vivono quel mondo con invidia e gelosia, i famosi “vanity DJ”, mi sono ritagliato più tempo per esplorare e apprezzare il suono che più mi piace perché il problema maggiore non era certamente rappresentato dal pubblico con cui confrontarmi bensì dal rapporto coi DJ coi quali dividevo la consolle.

«La serata non la fai quando sei in discoteca dietro la consolle ma a casa mentre prepari la borsa dei dischi. In quella borsa ci sono infinite scelte: emozioni del momento, memoria storica, ascolti radiofonici casuali che ti portano a scavare nell’archivio e recuperare qualche vecchio vinile. Poi dovrai individuare il disco giusto per quella particolare serata e per quel particolare pubblico, e avere la forza di mettere da parte il brano fruibile troppo facilmente»: così scriveva nel 2007 Claudio Coccoluto in “Io, DJ”, ripubblicato giusto di recente in una versione aggiornata curata dal figlio Gianmaria. Quanto è rimasto di questo approccio nel moderno DJing? Buona parte di coloro che oggi si professano DJ, specialmente quelli coinvolti nei maxi eventi, mi sembrano totalmente scollegati e agli antipodi da tale rapporto con la musica, a prescindere dal supporto adoperato.
Coccoluto aveva ragione. Quello che descriveva nel libro lo chiamo mestiere, portato avanti da gente come il maestro Hell o “lo zio” Sven (Väth, nda). Loro sono autentici disc jockey che arrivano da uno studio assai approfondito della musica e quindi sono in grado di manipolarla e proporla al pubblico con massima consapevolezza. Per essere un DJ non basta saper mixare due brani, la differenza la fa la sequenza che può essere micidiale. Come in tutti i lavori, occorre umiltà ed esperienza, doti che oggi purtroppo mancano a buona parte di coloro che si cimentano in questa professione, più attenti all’apparire che all’essere a discapito della musica.

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Una delle opere realizzate da Pacetti con una testa di manichino

Nella primavera del 1995 a Brescia apri il tuo negozio di dischi, Mandragora, rimasto per anni un punto di riferimento per chi era alla ricerca di musica diversa rispetto a quella che circolava maggiormente nel nostro Paese e che tu proponevi nei club, come testimonia questa chart del 1997. Quali sono le prime cose che ti tornano in mente ripensando a quel posto?
Correva il maggio del 1995 quando alzai la saracinesca di Mandragora Dischi – Dischi Per Disc Jockey, così com’era scritto sulle buste. Fu un’avventura che intrapresi con tanto coraggio, un po’ di ingenuità (che non fa mai male), tanta passione e un conto corrente davvero misero. Feci quel passo anche in barba a Francesco Zappalà visto che, sino a pochi mesi prima, lavoravo da lui a KZ Sound, a Milano. Fu proprio Francesco ad avanzare la proposta di aprire in società un nuovo negozio a Brescia ma nel momento di concretizzare si tirò indietro. Così nacque Mandragora. Ogni settimana arrivavano dai tre ai quattro colli di dischi dalla Germania, Paesi Bassi e Regno Unito e mensilmente riuscivo a vendere dalle 5000 alle 6000 copie. Il sabato sera chiudevo alle 21:00 e tutto era sold out. Fu così per undici anni. In seguito cedetti l’attività con una giacenza di appena 38 dischi. Oltre all’arredamento, interamente costruito da me, avevo appeso ai muri delle sculture che avevo realizzato modificando le teste dei manichini usati dai parrucchieri. In un angolo poi avevo allestito una specie di parlatoio in ferro da dove, il sabato pomeriggio, tenevo orazioni sulla musica elettronica. Da questi aneddoti è facile intuire come Mandragora pulsasse di vita, non era un semplice negozio ma un luogo massonico dedito alla rivoluzione, un motore endotermico trainante, arte insomma.

In Decadance Extra, tra le altre cose, hai anche affermato che tra i clienti di Mandragora c’erano svariati famosi DJ, di continuo passaggio a Brescia perché a pochi chilometri di distanza sorgeva la Media Records, vero crocevia di personaggi che gravitavano in quel mondo, ma aggiungendo che la maggior parte di essi comprava dischi solo per «catturare idee e ispirazioni per le proprie produzioni e non per proporli durante le serate». Mancava dunque il coraggio per promuovere musica diversa? Ci si accontentava di dare al pubblico quello che si aspettava per evitare eventuali disapprovazioni?
Come dicevo prima, gli anni Novanta hanno rappresentato un’opportunità straordinaria per chi voleva fare il disc jockey. Tuttavia ritengo che solo in pochi abbiano avuto il coraggio di esprimere la propria vocazione musicale. Quando vendevo dischi alla maggior parte dei DJ della Media Records lo facevo sempre con un certo rammarico: ero sicuro che difficilmente li avrebbero suonati nei club. Li acquistavano col preciso intento di copiarli, storpiandoli brutalmente. La maggior parte di questi “fenomeni” ha sempre pensato, con presunzione fuori da ogni limite, di potersi sostituire alla grande scuola techno attraverso una personale reinterpretazione della stessa. Basti pensare a quante varianti nacquero in Italia in quegli anni, dalla mediterranean progressive alla tribal space, dall’underground all’italo piano passando per la percussion astral. Insomma, una serie di stronzate inventate di sana pianta da chi non aveva idee e creatività ma era ossessionato dal voler diventare DJ a tutti i costi. Se da un lato c’era poca proposta da parte dei disc jockey, dall’altro c’erano anche i proprietari dei locali che non avevano alcuna esperienza. Non ne ho mai trovato uno disposto a darmi carta bianca, la maggior parte di quelli con cui ho avuto a che fare erano imprenditori improvvisati con ben poca intelligenza. Se mi avessero lasciato lavorare in pace, probabilmente qui al nord ci sarebbero ancora un paio di club degni del rispetto internazionale.

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Una foto del maggio 1989 che immortala l’ingresso dello Space Boat, discoteca galleggiante a forma di astronave ormeggiata sul Lago di Garda in cui JP Energy lavora tra ’89 e ’91

Quando un DJ fallisce la sua missione?
Nel momento in cui non studia la propria musica in modo approfondito, quando vuole far credere a se stesso di avere passione ma non ne ha, quando è povero di umiltà, quando non sa confrontarsi e comunicare con chi gli sta intorno.

Nel tuo passato c’è anche l’esperienza a Radio Azzurra: cosa pensi dell’FM tricolore contemporaneo?
Quando sono in automobile accendo la radio con la speranza di poter ascoltare buona musica, non necessariamente elettronica, ma è impossibile restare fermo su una frequenza per più di un paio di minuti. Mi sembra sia solo un flusso studiato a tavolino che mira al consumismo senza divulgazione e cultura musicale. Faccio fatica anche a distinguere un’emittente dall’altra, sono praticamente tutte uguali. Nel periodo in cui ho lavorato a Radio Azzurra, nel triennio 1989-1990-1991, ho cercato in tutti i modi di sfruttare il nome che a quel tempo aveva la radio bresciana per divulgare nuovi messaggi musicali ma non mi fu permesso. Non c’è stata la volontà e il coraggio di guardare avanti, la direzione era fermamente convinta che si potesse e dovesse proseguire col vecchio palinsesto. Se mi avessero assecondato, almeno in qualcosa, avrei costruito una sorta di radio del futuro, ma ai disc jockey afro ciò dava molto fastidio. Il loro più grande errore fu non comprendere l’entità della grande rivoluzione che stava incombendo nei primi anni Novanta e, con fare presuntuoso, rifiutarono la sfida.

Gli anni Novanta hanno conosciuto il proliferare di riviste e free magazine che, in qualche modo, alimentavano l’interesse nei confronti della musica. Quasi interamente estinto nella forma cartacea, il settore ha trovato nuovo terreno fertile in Rete dove però, a detta di molti, velocità e immediatezza fanno spesso il paio con approssimazione e inesperienza. Ci sono realtà che consiglieresti per accrescere il proprio sapere?
Non conosco siti particolarmente attendibili. Navigo poco, preferisco leggere ancora un buon libro (cartaceo) di musica. Non avendo filtri, il mondo del web è manipolabile e quindi difficilmente credibile. Visto che chiunque può accedere e scrivere ciò che vuole, è chiaro che la faccenda sia particolarmente complessa. Le mie fonti sicure, dalle quali attingo sia nella sfera musicale che in quella della metallurgia, sono ancora rappresentate dai vecchi e cari libri. Ormai internet è un mezzo usato più per apparire e tutto diventa potenzialmente fuorviante.

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Uno scatto risalente alla metà degli anni Novanta con JP Energy e Lello B nella discoteca torinese Le Palace

Viviamo in un’era impazzita per tutto ciò che è rétro e commemorativo. La musica elettronica, in particolare, trabocca di rifacimenti e riciclaggi ovvi e scontati, piuttosto diversi rispetto a quelli più fantasiosi generati dall’ondata sampledelica una trentina di anni fa. La nostalgia sta dunque bloccando la nostra capacità culturale di guardare avanti oppure siamo diventati incalliti nostalgici perché la cultura ha smesso di progredire?
Fare musica di un certo tipo comporta sacrificio, passione, dedizione, ingegno e volontà ma in pochi oggi riescono ad associare tutte queste qualità. È più facile lanciarsi a capofitto nel passato, così come fanno certe radio che propongono solo musica datata, e sperare di vivere una seconda giovinezza. Del resto gran parte della musica contemporanea è fatta da interpreti che nascondono le proprie incapacità dietro l’autotune e turnisti/strumentisti a buon mercato. La musica del passato, in un modo o nell’altro, ritorna, sta a noi che la selezioniamo capire quanto sia efficace.

Come ti poni rispetto all’industrializzazione del divertimento? Quella che sembrava una conquista sta forse rivelando un nefasto effetto boomerang?
La rovina della musica techno/elettronica, in Italia, è legata alla mitizzazione della figura del disc jockey, miseramente sfruttata per mere vanità personali. La musica, per me, è un affare serio e resta una delle ultime grandi forme di comunicazione. Dovremmo imparare a viverla e ascoltarla anche se, a volte, ci sembrerà un po’ strana.

Estrai dalla tua collezione una serie di dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

The Alan Parsons Project - I RobotThe Alan Parsons Project – I Robot
In questa traccia che apriva l’album omonimo del 1977 ho sempre sentito tutta la musica possibile e immaginabile. La trovo di una completezza impressionante seppur non ci sia un testo cantato ma soltanto meravigliosi cori. Del resto, come affermava il Maestro Ryuichi Sakamoto, non sempre il cantato è necessario, anzi.

Love And Rockets - Ball Of ConfusionLove And Rockets – Ball Of Confusion
Dalle ceneri dei Bauhaus nacquero i Love And Rockets che hanno inventato un rock n roll elettronico che lascia esterrefatti. Seppero trasformarsi lasciandosi alle spalle scheletri e stereotipi che non avrebbero portato più a nulla. Ai tempi dell’uscita, nel 1985, trovai questo brano superlativo, wave giocata in anticipo nell’intero contesto di popular music.

The KLF - What Time Is LoveThe KLF – What Time Is Love?
Un’arma letale che diede inizio alla rivoluzione, un disco semplicemente seminale. La genialità, in “What Time Is Love?”, risiede nei suoni che sono stati usati, dalla cassa al giro di basso “rubato” alla colonna sonora di “Jesus Christ Superstar” (nello specifico il brano “Heaven On Their Minds (Judas)”, nda) che si esalta all’infinito nella sua metamorfosi elettronica.

Revelation - First Power (Domination Dub)Revelation – First Power (Domination Dub)
Tra il 1989 e il 1990 Tommy Musto e Frankie Bones hanno scritto e prodotto brani di notevole fattura ma questa traccia, uscita sulla Atmosphere Records e attribuibile a Mundo Muzique, è veramente magica. Per quelli come me, ai tempi, mettere pezzi come questo voleva dire fare rivoluzione. Il disco, memorabile, in sala suonava in modo etereo e avvolgente.

Zen Paradox - The Light At The End...Zen Paradox – The Light At The End… ?
Possiedo tre copie di questo mix pubblicato nel 1994 dalla prestigiosa etichetta belga Nova Zembla su licenza dell’australiana Psy-Harmonics e l’ho suonato allo sfinimento. Ho perso il conto delle volte che ho aperto i set con “The Light At The End… ?”. Un capolavoro assoluto, in stesura e ricerca dei suoni, una traccia di finezza esemplare, per me era davvero impossibile non proporla.

Der Zyklus - Der TonimpulstestDer Zyklus – Der Tonimpulstest
Der Zyklus è l’ennesimo degli pseudonimi di Gerald Donald (qui affiancato da Anthony “Shake” Shakir, nda). “Der Tonimpulstest” e “Die Dämmerung Von Nanotech”, pubblicate nel 1998 dalla International DeeJay Gigolo, sono il ricordo e parte di ciò che mi ha identificato al Cyber Garage. Erano i suoni che ho usato per cambiare quel locale, proposti come alternativa alle solite, grossolane e monotone, cassone di TR-909. I suoni sono freddi e spigolosi, privi di particolari allunghi in eco o riverberi, ma il risultato è notevole per ricerca ed efficacia. Un disco perfetto per rappresentare “la cultura dei robot”, slogan che rimandava ai romanzi di fantascienza di Isaac Asimov che coniai con l’intenzione di far capire al pubblico che anche i robot potevano avere una cultura e che i suoni “freddi” della musica elettronica, alla fine, non erano tali come si credeva anzi, potevano colpire il cuore in modo ancora più intenso rispetto a quelli generati dagli strumenti tradizionali.

Petar Dundov - Distant ShoresPetar Dundov – Distant Shores
Si dice che la musica venga portata avanti da coloro che, con genialità, inventano qualcosa di nuovo e che poi ispirerà altri a fare lo stesso. Ebbene Dundov, con questa traccia del 2010 sulla belga Music Man Records, ha scritto un capitolo importante della musica elettronica contemporanea. “Distant Shores” è rivoluzionaria nella rivoluzione, suonarla per me è stato sempre assai emozionante, lasciata scorrere sino alla fine degli oltre dodici minuti: per persuadere il pubblico bisogna avere il coraggio di non cambiarla prima.

Exillon - Mind Techno ControlExillon – Mind Techno Control
Una traccia lunga una vita, pure questa da suonare per intero dall’inizio alla fine dei quasi dieci minuti. La stesura, da brividi, la rende unica e personale, molto vicina allo stile di Detroit. Pubblicato dalla spagnola Frigio Records nel 2013, “Mind Techno Control” è un pezzo che bisogna saper proporre e gestire per colpire positivamente il proprio pubblico.

Agoria - Altre VociAgoria – Altre Voci
Con questo pezzo di Agoria, racchiuso nell’album “Go Fast” uscito nel 2008, torna il concetto “music for film” di cui parlavo prima. Qui l’artista francese esplora con indiscussa bravura il collegamento tra musica e oscuro. L’abilità del disc jockey che intende passare un pezzo come questo risiede nel saperlo collocare al momento giusto del proprio programma.

Keen K-P. Muench - The SpiralKeen K/P. Muench – The Spiral (Makina Girgir Twilight Remix)
Una delle più belle tracce che abbia mai sentito e suonato negli ultimi anni. Solcata su un vinile trasparente dalla Perfect Stranger Records nel 2009, “The Spiral”, remixata da Makina Girgir, possiede una magia unica derivata dall’intreccio tra i suoni e la parte cantata. Non mi stancherò mai di proporla e me la porterò pure nel viaggio con Xibalba.

ZK Bucket - Your Body (The Drifter Remix)ZK Bucket – Your Body (The Drifter Remix)
Estratta dall’EP intitolato “Excess Labour” e pubblicato dalla berlinese Zaun Records nel 2016, la versione di The Drifter di “Your Body” è una delle tracce uscite nel periodo pre pandemico che ho suonato all’esasperazione. A colpirmi di più è il sapore del suono intriso di passato ma riproposto in chiave odierna. Oggi è davvero difficile scovare musica di tale fattura.

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (maggio 2023)

Intergalactic Gary

Intergalactic Gary – Industrial Models (Viewlexx)
Per l’etichetta di I-f, gli ultimi anni sono trascorsi sotto il segno del ritrovato legame con le tinte gotiche e industriali che in questo caso vedono come protagonista John Scheffer alias Intergalactic Gary, DJ dalla poderosa preparazione e partner in crime proprio di I-f in act come The Parallax Corporation e The Conservatives che, nei primi anni Duemila, ridisegnarono le traiettorie italo disco in una salsa più scura. Non particolarmente prolifico sotto il profilo compositivo, Scheffer assembla quattro tracce che scrutano nelle tenebre contraddistinte da distorsioni e subitanee variazioni ritmiche. “Industrial Model” è la più appetibile per la pista, il resto si contorce sotto la spinta di pistoni e bracci idraulici che provocano scintille (“The ELKA Experiment”, “Remodel”) sino alla funerea “Elements And Space”. La colonna sonora di uno scenario distopico, con giganteschi poli industriali abbandonati sotto un cielo plumbeo carico di pioggia. Per certi versi, la musica più adatta ai tempi bui che viviamo.

Let's Go Into Space 7

Various – Let’s Go Into Space 7 (Private Records)
Settimo atto per la compilation tematica promossa da Private Records, tra le “etichette di salvataggio” più attive e propositive nell’ultimo decennio circa. Per l’occasione il fondatore/curatore Janis Nowacki mette insieme otto pezzi tratti dall’archivio della cecoslovacca Supraphon: filo conduttore, oltre al genere musicale, tendenzialmente synth disco, è l’ardua reperibilità sul mercato dell’usato. «Materiale che non ha nulla da invidiare all’italo disco in termini di rarità e valore collezionistico» afferma con sicurezza Nowacki, invitando a sincerarsi delle quotazioni su Discogs, fatta eccezione giusto per una manciata di titoli abbordabili a costi irrisori. Da “Digi – Digi” delle Filigrán, una specie di risposta cecoslovacca alle Flirts di Bobby Orlando, a “Jupiter” di Odysseus, da “Módní-Líbezná” di Magda Malá e Allegro a “Kolik Týdnů Ještě Zbývá” e “Báječně Spát” di Kamila Olšaníková & Sirius, da “Hodili Mě Do Vody” dei Maximum Petra Hanniga a “Den Co Den” di Arnošt Pátek per finire su “Diskotango” di Arašid. Una collection di pregio per i collezionisti, con qualche inevitabile deriva kitsch, ma che con molta probabilità è destinata a diventare a sua volta una rarità anche in virtù della tiratura limitata alle 500 copie.

Gina Breeze

Gina Breeze Ft. Ted Rogers – Freak (DJ Hell Queer Rave Retouch 2023) (The DJ Hell Experience)
Originariamente pubblicata nel 2020 sulla Me Me Me (era in “Live For Love”), “Freak” rivive in una versione di Hell che inietta energia nei circuiti ritmici e spinge verso sponde techno EBM con un imprinting abrasivo e graffiante che fa il verso a quello del Fixmer di inizio carriera che proprio Hell supportò dal 1999 in avanti. Un buon punto a vantaggio della DJ britannica di stanza a Manchester, new entry per The DJ Hell Experience, l’etichetta che il noto DJ tedesco ha lanciato pochi anni fa e che sembra aver preso definitivamente il posto dell’indimenticata International DeeJay Gigolo, inattiva ormai dal 2019.

Italcimenti

Italcimenti – Under Construction (Bosconi Records)
Un album che proprio nuovo non è visto che risale al 2005, quando viene pubblicato solo in formato CD. Diciotto anni più tardi ci pensa la fiorentina Bosconi Records a solcare l’LP di Maurizio Dami e Lapo Lombardi per l’occasione nascosti dietro lo pseudonimo Italcimenti, ironica parodia di Italcementi con trasformazione annessa dei due musicisti in operai con tanto di pala e piccone, intenti a prendere la vecchia italo disco e strapazzarla aggiornandola coi suoni dell’electro house che a metà anni Duemila vive il suo momento dorato. Tanti i pezzi racchiusi all’interno, tutti opportunamente rimasterizzati da Niccolò Caldini del suo Tea Room Mastering, da “Trigger Happy”, rigato da melodie cinematografiche, a “Disco Tamarro”, ancorato a un mood squisitamente pfunk, dal sinuoso “Bencio” (in circolazione dal 2004, si veda la raccolta “Pop Fiction” sulla francese Hot Banana di Kiko) a “Bela Lugosi Is Dead”, cover synth technoide del classico dei Bauhaus sino a “Like A Dreamer”, una sorta di take della pietra miliare che Dami realizza nel 1983 come Alexander Robotnick, “Problèmes D’Amour”, di cui parliamo approfonditamente qui. All’appello rispondono pure due inediti, l’Italo Club Mix di “Beyond The Mind” (l’unico che vide luce su 12″ nel 2005), e “Somewhat You Need” che i più attenti però conoscono già visto che su YouTube, dal 2008, c’è un divertente videoclip home made che a oggi conta più di cinquantamila visualizzazioni.

Speakwave

Speakwave – Cartographic Venture (Bordello A Parigi)
L’artista originario di Strasburgo affida alla prolifica Bordello A Parigi questo EP con cui rimaterializza l’alter ego Speakwave. Nel complesso pare una summa delle declinazioni stilistiche che il francese convoglia, da ormai un ventennio a questa parte, nei suoi due progetti, il più noto Dynarec, ricco di influssi e diramazioni drexciyani, e Chris Kalera, attraverso il quale dà sfogo alla passione per l’electro pop in stile Pet Shop Boys, band di cui è accanito fan. Questo lo capiamo subito da “Coming On Monday” con una sezione vocale, da lui stesso interpretata, che suona come chiaro omaggio a Neil Tennant. “Exposition To Revolution” si lancia a capofitto in atmosfere incantate mentre “Cartographic Venture” galleggia su un materasso di nuvole e fioriture melodiche poi sospinte sui declivi stereofonici di un sogno scandito da interventi vocali che un po’ ricordano “Konfektion” di Heckmann ed Henze.

Art P

Art P/Die Synthetische Republik – Genscher Pull ‘N’ Push/Der Böse Osten (The Outer Edge)
La retromania teorizzata da Simon Reynolds nell’omonimo libro del 2011 è ormai diventata parte integrante del nostro presente, basti pensare al retro marketing attraverso il quale un numero crescente di aziende fa leva sul passato e sulla nostalgia per catturare l’attenzione del pubblico. In questo momento storico il passato offre un’idea di certezza che controbilancia con efficacia le tante incognite del presente, tra pandemia, crisi economica, conflitti bellici e preoccupanti cambiamenti climatici. L’ambito discografico, nello specifico, ha registrato un aumento esponenziale delle realtà interamente dedite al recupero di materiale vintage, edito e non, e nel 2022 alla lista si è aggiunta la berlinese The Outer Edge, diretta da DJ Scientist, che per l’occasione torna a riabilitare la musica degli Art P dopo “No Message” dello scorso autunno. Creato a Brema nel 1982 dall’incontro tra Jens-Markus Wegener e Frank Grotelüschen, il progetto resta confinato per ben quarant’anni in nastri di cassette autoprodotte su una pseudo etichetta, la P.A.P., acronimo di Programming Art Productions. Ora è giunto il tempo di una diffusione maggiore e soprattutto non più legata ai confini geografici, difficilmente valicabili ai tempi in assenza di una casa discografica ben organizzata. Sul 12″ finiscono “Genscher Pull ‘N’ Push”, registrato nell’ottobre ’82 e contenente un testo politico rivolto ad Hans-Dietrich Genscher, allora ministro federale degli affari esteri della Germania Ovest, una versione remix di “Polaroid” ritoccata dal citato Scientist e “Der Böse Osten” di Die Synthetische Republik (Wegener e Olav Neander), recuperata da un nastro del 1984. Nelle note introduttive la Outer Edge parla di proto techno ma fondamentalmente si tratta di minimal synth, «un filone apparentemente inesauribile di elettronica do-it-yourself dei primi anni Ottanta, low budget e di norma pubblicata in proprio spesso solo su cassetta, da gruppi che sarebbero diventati i Depeche Mode o i Soft Cell se fossero stati capaci di scrivere una canzone, oppure cloni dei Suicide, DAF e Fad Gadget» come descrive Reynolds nel sopraccitato libro. Vista la presenza di testi in tedesco, appare sensato parlare più di Neue Deutsche Welle che di techno. In un futuro non lontano potremmo forse aspettarci i reissue di Dual Frequency, Eiskalte Engel, Die Hornissen o Partner Eins?

Giano Electronics Vol. 1

Various – Giano Electronics Vol. 1 (Giano Electronics)
Partenza esaltante per la romana Giano Electronics che mette nero su bianco le sue intenzioni con un ricco extended play composto da cinque tracce. T/Error sfodera beat taglienti in “Neuromancer” che incorniciano sussulti electro e graffiate acide, JFrank, con “Premeditatio Malorum”, si cala in cervellotiche poliritmie, Akkaelle batte sull’incudine la materia di “Capacitor Discharge” spappolandola in mille frammenti che volano via come lapilli vulcanici. Poi gli Anywave con “Cphrigyan Acid”, decorata da riccioli di 303 e un metti e togli di elevazioni breaks, e a chiudere “A Few Thoughts Away” di Heinrich Dressel che intaglia con maestria synth music dall’imprinting cinematografico, sospesa in atmosfere tenebrose, a tratti spettrali, sotto le quali si dipana un’algida marzialità meccanica.

Ekman

Ekman – The Strange Vice Of.. Ekman – Part 1/2 (Crème Organization)
Uscirà tra poche settimane questa raccolta di inediti suddivisa in due 12″ che colloca al centro la musica dell’olandese Ekman e riporta in attività l’etichetta di DJ TLR, destandola dal torpore in cui era piombata negli ultimi anni. Facendo leva su un suono che vaga tra electro scarnificata e dark ambient con qualche piacevole deriva acid, Roel Dijcks merita di essere accostato a connazionali come Rude 66, Legowelt, I-f o Ra-X ai quali, probabilmente, si è ispirato per creare la sua musica ma senza correre il rischio di essere liquidato come l’ennesimo dei copycat. La sua visione genera tracce che eludono l’epigonismo, e l’ascolto di alcuni dei pezzi qui radunati come “A Way Home”, “How Deep The Grooves”, “Witching World”, “The Remains Of Zion” e “Devil Birds Of Deimos” depongono pienamente a suo favore.

Obergman

Obergman – Invariant Hyperbola (Infiltrate)
Destinato a una delle sublabel della londinese Constant Sound di James ‘Burnski’ Burnham, questo nuovo EP conferma le doti di Ola Bergman alias Obergman. Partito nel 2001 dalla Skam con un suono fortemente connesso all’IDM britannica più astrattista, lo svedese si è progressivamente avvicinato all’electro di matrice donaldiana che ha messo a punto nell’ultimo decennio attraverso una serrata serie di pubblicazioni su etichette come Abstract Forms, Brokntoys e soprattutto la Stilleben Records di Luke Eargoggle. Qui è alle prese con quattro tracce dalle venature cibernetiche, accomunate sia dalla ciclicità meccanica delle parti, sia dal minimalismo della tavolozza sonora come si evince da “Norma Cluster”, spinta da un disegno di basso robotico. Pad quasi romantici scandiscono “Dragonfly44” mentre “Sterile Neutrino” (forse un’allusione a “Sterilization” e “Myon-Neutrino” di Dopplereffekt?) riproduce lo sferragliare di androidi. Infine la title track, “Invariant Hyperbola”, probabilmente la più riuscita del disco, ideale soundtrack per un viaggio interspaziale che porta sul pianeta Nettuno: dopo aver macinato milioni di chilometri però lo sconcerto nello scoprire che qualcuno ha misteriosamente impiantato lì delle ciclopiche pale eoliche.

Komakino

Komakino – Outface (30 Yrs Jubilee Edition) (Esprit De La Jeunesse)
Nel mare magnum infinito di ripescaggi, remix, cover e reissue finiscono pure i Komakino (i tedeschi Ralph Fritsch, meglio noto come Fridge, e Detlef Hastik) con uno dei brani più noti del loro repertorio che quest’anno taglia il traguardo dei trent’anni. Incluso in “Energy Trance EP” edito nel ’93 dalla Suck Me Plasma di Talla 2XLC, “Outface” polarizza l’attenzione europea due anni più tardi quando viene rimesso in circolazione dalla Maddog in una nuova versione, la Full Size, diventata un classico dell’hard trance e accompagnata da un videoclip che aiuta a guadagnare una platea più ampia e trasversale (da noi lo mette spesso Molella nella prima edizione di “Molly 4 DeeJay”, come descritto qui, e un paio di comparsate le registra persino nel DeeJay Time di Albertino). Anticipato a febbraio dalla reinterpretazione dell’italiano Dusty Kid in battuta spezzata e con un frammento pare carpito da “Technotronic” di The Pro 24’s (poi diventata “Pump Up The Jam” dei Technotronic), il pacchetto messo sul mercato dalla Esprit De La Jeunesse, etichetta del gruppo Systematic capeggiato da Marc Romboy, codificato come Jubilee Edition e accompagnato da un artwork che riadatta quello del menzionato “Energy Trance EP”, conta tre remix: Egbert trapianta senza particolare inventiva frammenti dell’originale in una nuova base ritmica che pecca di anonimato, Robert Babicz plana tra luccicanti riflessi melodici e intrecciature acide, e infine Petar Dundov ondeggia tra paratie armoniche e incantate sequenze di arpeggi che poi precipitano in un gorgo impetuoso. Curiosità: sul vinile è finita la Full Size nonostante titolo e durata in copertina facciano riferimento alla G60 Mix ossia la versione del ’93 che però è stata diffusa in digitale.

(Giosuè Impellizzeri)

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