Roma, techno e sperimentazioni, la carriera discografica di Eugenio Passalacqua

Eugenio Passalacqua è tra coloro che nei primi anni Novanta contribuiscono a fare di Roma la techno city. Guidato da uno spiccato pionierismo e da un fare agli antipodi dell’accademico, approccia alla produzione di musica elettronica attraverso metodologie artigianali perfezionate nel corso del tempo. Innamoratosi presto della techno arrivata da Detroit che allora inizia la mutazione europea, Passalacqua instaura un rapporto viscerale con la Roland TB-303 con cui modella alcuni dischi, su tutti “Quark EP” di Solid State e “Trauma” di Trauma, rispettivamente finiti sulla britannica Peacefrog Records e sull’olandese Djax-Up-Beats. Passalacqua però non è un individualista, nel Dump Studio collabora con svariati amici a partire da Andrea Prezioso con cui realizza, nel 1992, “Tetris” di Game Boys, riadattamento ballabile del tema dell’omonimo videogioco in auge in quel periodo, e il remix di “James Brown Is Dead” degli L.A. Style. L’attività prosegue per buona parte degli anni Novanta, abbracciando via via produzioni più crossover.


Che ascolti hanno contraddistinto la tua adolescenza?
Da piccolo fui influenzato dai gusti di mio padre, grande appassionato di jazz e musica brasiliana.

Hai mai frequentato il conservatorio o studiato qualche strumento?
No, ma mi sarebbe piaciuto. Ho sempre suonato da autodidatta e “a orecchio”, gli unici veri studi che ho fatto sono quelli sugli strumenti elettronici e sui primi software musicali.

Come ti sei avvicinato alla produzione discografica?
Avvenne in modo naturale, essendo appassionato di computer familiarizzai presto coi primi software e strumenti che permettevano il campionamento di suoni. Allestii il mio primo micro studio in casa, con un mixer e un campionatore.

Ci fu qualcuno a spiegarti i rudimenti del mestiere?
No, nessuno, tutto quello che ho imparato è frutto di una continua sperimentazione.

Passalacqua + Prestipino (1987 circa)
Eugenio Passalacqua e Michele Prestipino tra 1986 e 1987 (foto tratta dal gruppo Facebook “Ventanni Di Roma By Night”)

I tuoi primi interventi tecnici in studio di registrazione risalgono al 1987, quando entri nel team Full Beat ed affianchi Michele Prestipino per alcune pubblicazioni su etichette della Capitale come Good Vibes, Full Time, Tendance e Mix Juice: come e cosa ricordi di quelle esperienze?
Io e Michele operavamo sotto la sapientissima guida di Faber Cucchetti nello studio di registrazione di Claudio Simonetti, in Via Della Farnesina, ad appena trenta metri da casa mia. Lì divenni molto amico di Giuseppe Ranieri, storico fonico di Simonetti, da cui “rubavo” con gli occhi i segreti del mestiere. Per le pubblicazioni sulle etichette citate, si trattava prevalentemente di lavoro eseguito su Revox, e in quel caso devo tutto a Faber e al fratello Luca. Erano una conseguenza dell’arrivo mio e di Michele Prestipino a Dimensione Dance, uno dei primissimi e seguitissimi programmi di musica dance trasmesso da Radio Dimensione Suono, noto prima nella Capitale e poi in tutta Italia.

Di cosa ti occupavi nello specifico e con quali strumenti lavoravi?
Per le compilation operavamo prevalentemente con giradischi, Revox, nastri Ampex, taglierino e scotch, impiegando ore per fare operazioni che oggi si ottengono in un secondo premendo un tasto. Era comunque meraviglioso perché per noi era innovazione assoluta, anche se a risentire certe cose adesso mi accorgo che qualche volta esageravamo. Il nostro lavoro consisteva nel mixare i brani e lo facevamo perlopiù utilizzando i giradischi, editando per ridurre il tempo o remixare. Poi andavamo in studio qualora nascesse l’esigenza di inserire effetti particolari. Il passo successivo fu scandito dal Casio FZ-1, sintetizzatore-campionatore che, con fatica, portavamo anche nelle serate.

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, quando partecipi alle selezioni regionali dei campionati DMC, house e techno rivoluzionano la scena musicale. Come ricordi l’avvento di questi due macrogeneri?
Per quel che ho vissuto io, gli anni Ottanta erano molto hip hop e funky. Il passaggio alla house per me fu un vero colpo di fulmine (decisamente meno l’hip house, di cui apprezzavo pochissime cose) e ricordo che quando cominciammo a proporre quel genere la gente guardava stranita. Non a caso iniziai a mettere musica house prevalentemente durante le feste pomeridiane con un pubblico parecchio giovane. Da “Your Love” di Frankie Knuckles in avanti le cose cambiarono radicalmente. Il passaggio dall’hip hop alla house avvenne per gradi, anche a livello di bpm, e ciò facilitò le sequenze mixate senza dover ricorrere a tagli netti. Ricordo inoltre che alcune delle prime produzioni house inglobavano già micro caratteristiche techno: per chi come me era costantemente alla ricerca di cose innovative, quel nuovo genere poteva essere considerato una naturale evoluzione.

Ci fu qualcuno, tra i discografici con cui eri in contatto, a sottovalutare la portata di house e techno e a liquidarle come le ennesime mode passeggere?
No, al contrario tutti i discografici che conoscevo, in primis Claudio Donato e Alvaro Ugolini, investirono presto su quei generi nuovi sapendo che non si trattava affatto di trend temporanei.

Prestipino, Cucchetti, Moratto, Eugenio (1989)
da sinistra Michele Prestipino, Faber Cucchetti, Elvio Moratto ed Eugenio Passalacqua immortalati in uno scatto del 1989 (foto tratta dal gruppo Facebook “Ventanni Di Roma By Night”)

Il Dump Studio era il tuo studio personale: con quali strumenti era equipaggiato?
Inizialmente lo allestii in casa con pochissime cose come un mixer a 24 canali, una batteria Roland TR-909, un Juno-106, un compressore, un reverbero, un campionatore (mi pare Yamaha) e un computer Amiga. In seguito, con l’arrivo di Andrea Prezioso, affittammo un garage dove ricollocammo tutto e poi, con l’entrata di Claudio Donato, finimmo nel sottoscala del vecchio Goody Music. A disposizione avevamo un’infinità di strumenti analogici pilotati dall’Atari ST 1040.

Perché optasti per quel nome?
Mi lasciai ispirare dal dump che presentavano i primi nastri digitali DAT quando veniva raggiunto il picco di volume.

Esiste ancora?
Purtroppo no, il Dump Studio è stato completamente smantellato.

Sono tanti i brani del tuo repertorio legati a generi, etichette e team di produzione differenti. Di “130 BPM” di Break The Bonds ad esempio, uscito nel 1991 sulla bolognese DFC First Cut, cosa ricordi?
Si tratta di un pezzo nato da una collaborazione instaurata col noto rapper romano Antonello Aprea e col musicista Elvio Moratto (di cui parliamo qui, nda) con cui entrai in contatto ai tempi dei dischi di Afroside, su Full Time. Credo che “130 BPM” sia stato il mio primo esperimento techno in assoluto.

Pass The Water - Venom EP
“Venom EP”, l’unico disco che Passalacqua realizza con lo pseudonimo Pass The Water

Traducendo ironicamente il tuo cognome in inglese, nel ’92 ti ribattezzi Pass The Water per il “Venom EP” sulla Sysmo. Come si sviluppò la lavorazione dei tre brani racchiusi all’interno, a cui si aggiunsero un intro e due interludi?
L’idea del nome anglofonizzato fu di Massimo Mariotti, icona dei flyer dei rave romani di quel periodo, e fu proprio lui a curare il logo che si vedeva sul disco. In quel momento eravamo all’apice del fenomeno techno romano e l’EP fu completamente realizzato nello studio di Paul Mazzolini, meglio noto come Gazebo, e prodotto dallo stesso. Chi lo avrebbe mai detto che un interprete di classici italo disco (come “Masterpiece”, “I Like Chopin” o “Lunatic”, nda) avrebbe creduto nella techno! Ai tempi non potevo assolutamente staccarmi dalla mia TB-303, fu amore a prima vista. Avevo varie tracce aperte sull’Atari con esperimenti fatti a casa, sviluppate a mo’ di editing col Revox quindi prendendo microporzioni e facendo cut and paste. Poi in studio ci fu la scelta per le sonorità e gli strumenti da adoperare. L’idea dell’intro mi venne pensando alle performance che facevo ai rave dove suonavo spesso dal vivo con gli strumenti e non coi dischi come i DJ. Quella traccia della durata di poco più di un minuto mi tornava utile proprio per aprire i live.

Solid State + Trauma
Solid State e Trauma, due punti forti del repertorio di Passalacqua

Per “Quark EP” di Solid State, inizialmente pubblicato dalla X Energy, raggiungi un’etichetta di assoluto pregio ancora in attività, la britannica Peacefrog Records. Cosa voleva dire ai tempi approdare su una label di quella caratura?
Solid State è un altro dei progetti a cui tengo particolarmente e che, secondo me, ha avuto il merito di differenziarsi da quelle che erano le altre (comunque valide) produzioni techno romane. Credo che in virtù di ciò nacquero i presupposti per l’uscita su Peacefrog. Per me fu come vincere un premio internazionale! A quel che ricordo, fu l’etichetta d’oltremanica a contattare la X Energy per rilevare la licenza e questo è ulteriore motivo di orgoglio. L’intero disco fu realizzato in casa, nel primo Dump Studio, con una TB-303 non ancora midizzata. Tutto il sync tra batteria e bassline venne realizzato a mano, come se stessi mettendo tempo due dischi.

Un altro colpo lo metti a segno con “Trauma” di Trauma, realizzato in tandem con Andrea Prezioso, pubblicato dall’olandese Djax-Up-Beats e impreziosito dalla grafica di Alan Oldham. Come raggiungeste l’etichetta di Miss Djax?
Non lo ricordo, probabilmente mandammo un demotape e la loro reazione fu piacevolmente inaspettata. Analogamente a Solid State, pure Trauma venne realizzato nel primo Dump Studio, tra le mura casalinghe, subito dopo l’acquisto di un campionatore e qualche effetto. A ripensarci, da quel posto sono uscite le cose migliori, era un periodo di buona creatività.

Con Andrea Prezioso realizzi pure “Universe” di MIR, un disco particolarmente ricercato dai collezionisti. Come lo ricordi?
MIR lo producemmo nel Dump Studio riallestito da Claudio Donato, forse uno dei primi a essere creato lì. Era un disco piuttosto basico tanto che decidemmo di firmarlo in SIAE coi nostri pseudonimi. Credo vendette meno di mille copie, per questo oggi è un titolo parecchio ambito.

Game Boys
“Tetris” dei Game Boys (1992)

Dalla tua discografia emergono anche tracce che hanno raggiunto platee più grandi come “Tetris” di Game Boys, del 1992. Come raccontavi nell’intervista finita in Decadance Appendix nel 2012, l’idea di riproporre la melodia del noto videogame ideato dal russo Pažitnov ti venne nel periodo in cui eri in fissa col Game Boy: «collegai il videogioco all’impianto e sovrapposi il tema melodico a un beat» affermasti. In una recensione del luglio 1997 relativa a “Gabber Over” uscita su Mokum però, Faber Cucchetti scriveva che l’idea di riadattare in chiave ballabile il tema di Tetris venne al compianto Walter One ma che poi gli fu, letteralmente, «trafugata da abili mani». Cosa voleva dire?
Mah, secondo me in quell’occasione Cucchetti si è confuso e credo volesse riferirsi a “Dukkha” di Precious X Project (di cui parliamo qui, nda), nato inizialmente dalla collaborazione tra Andrea Prezioso e Walter One, peraltro presente sui crediti del disco, e poi ultimato dallo stesso Andrea e David Calzamatta nello studio di quest’ultimo (intervistato qui, nda). Detto questo, non credo ci siano punti di connessione tra Walter One e “Tetris”, e “Dukkha” tra l’altro uscì parecchi mesi prima di Game Boys.

Come andarono i due pezzi seguenti dei Game Boys, “Phantom” (che sul lato b vedeva “Mario & Luigi”, a rimarcare il legame col mondo dei videogiochi) e “Move”? Con quest’ultimo volevate forse coprire un segmento di utenza diverso, più vicino all’eurodance?
Effettivamente provammo a cavalcare quella scia ma non essendo propriamente pezzi che sentivamo nelle nostre corde raccolsero il poco successo che obiettivamente meritavano.

A godere dell’airplay radiofonico furono anche i due pezzi realizzati insieme ai fratelli Prezioso come Corporation Of Three tra 1993 e 1994, “The Bear”, costruito sul bassline campionato da “Happy Answer” di Rob Acid, e “Body Strong”, con l’hook tratto da “Keep That Body Strong (That’s The Way)” dei Dead Or Alive. Il nome era una sorta di risposta a Corporation Of One dell’americano Freddy Bastone? Il supporto di uno speaker assai determinante per il comparto dance come Albertino si tradusse in maggiori vendite, come avvenuto per “Tetris”? Nell’intervista sopraccitata dicevi che a decretare il successo di un artista o di un brano erano quasi sempre e solo i grossi network radiofonici.
Lo dicevo nel 2012 e credo sia ancora così, o forse adesso il ruolo delle grosse emittenti è stato persino soppiantato dai social network. Giorgio era entrato a far parte dell’organico di Radio DeeJay e il successo di “Tetris” ci facilitò le cose e alimentò le vendite. Per quanto riguarda il nome, no, nessun riferimento a Corporation Of One, era più banalmente un modo per siglare la collaborazione tra tre persone, io, Andrea e Giorgio.

A proposito di personaggi di Via Massena: nel ’92 Giorgio Prezioso remixa “New York – London – Paris – Chicago” di Soup e “X-Paradise” di Hole In One per la bresciana Downtown del gruppo Time ma il tuo nome, insieme a quello del fratello Andrea, appare comunque tra i crediti. Chi faceva cosa in studio?
Il lavoro in studio era svolto prevalentemente da me e da Andrea ma le richieste di quei remix arrivarono tramite Giorgio. Per utilizzare un termine molto di moda ai giorni nostri, eravamo una specie di duo di ghost producer.

In “Get On Up” di Giorgio Prezioso invece cosa facesti di preciso?
Lavorai durante la realizzazione e come fonico per il missaggio finale. A firmare il pezzo in SIAE, oltre a Giorgio, fummo anche io, Andrea e il musicista Guglielmo Guglielmi.

In ambito eurodance nel ’94 realizzi pure “Forever” di Nova Featuring Asiha, l’unico finito su Dump Records.
Era un pezzo melodico interpretato vocalmente da Antonella Aiesi, la sorella di un nostro amico. Se la memoria non mi inganna, la Dump Records nacque dalla collaborazione tra la Discomagic di Severo Lombardoni e Claudio Donato. Probabilmente fu il primo brano che incidemmo con la voce di una cantante in carne e ossa e non ricorrendo a campionamenti.

Nel 1995 è la volta di Younguns, team in cui oltre a te figurano Andrea Prezioso e 2/3 dei futuri Medusa’s Spite, Antonello Aprea e Stefano Daniele. “Don’t Walk Away” finisce nell’orbita di una multinazionale, l’Ariola del gruppo BMG, ma con risultati non sorprendenti. Nello stesso anno realizzi con Andrea Prezioso e Alessandro Moschini anche “Take A Ride In The Sky” di Format, ceduto alla Zac Records, e due versioni di “Feeling Good” di Debbie per la Dance Groove. Come mai virasti verso un genere “cheesy” come l’eurodance?
Younguns è una delle cose che mi è piaciuta di più realizzare, “Don’t Walk Away” la riascolto ancora oggi e non ho mai capito la ragione per cui non raccolse successo. Secondo me, per i tempi in cui uscì era una bomba. Sono così certo di questa cosa che ogni tanto mi viene voglia di riproporlo in chiave moderna. Dopo i primi anni vissuti prevalentemente con la techno virammo verso l’eurodance, in primis per esigenze economiche. Non si trattava di un disco commissionato, sia chiaro, ma una nostra creazione adattata alle mode del momento. Diciamo che intorno al 1995 era ormai terminata la “fase sperimentale” e cercammo di essere più pragmatici.

Nel tuo repertorio c’è pure “Try Jah Love” di P.D.P. (Dig It International, 1993), cover dell’omonimo dei Third World di circa dieci anni prima ricantata da Glen White dei Kano e con le percussioni di Tony Esposito. Sulla carta il progetto pareva davvero forte ma credo abbia fallito l’obiettivo, come mai?
Ecco, “Try Jah Love” di P.D.P. faceva parte di una serie di lavori su commissione. Nel 1993 la testa era da tutt’altra parte, probabilmente fu ciò a decretare il motivo dell’insuccesso.

Un’altra cover a cui hai lavorato è stata “I Need Your Lovin'” di Crime Of Passion (X Energy, 1992), riadattamento house dell’omonimo di Teena Marie edito dalla Motown nel 1980. Come andò in quel caso?
Di Crime Of Passion ho davvero pochi ricordi, credo quindi di essermi occupato solo del mixaggio. L’idea era di Stefano Gamma.

Dal Dump Studio esce davvero un fiume di produzioni, tante delle quali realizzate coi fratelli Prezioso e Alessandro Moschini, il futuro Marvin, da Entity a Illegal (con cui rielaborate “Moments In Love” degli Art Of Noise), da K.S. a Omega passando per Ramset 1, K.O.E. e remix per Ike Therry. Lavorare in team poteva garantire risultati diversi rispetto a chi invece operava da solo? Quali erano i pro e i contro del lavoro di gruppo?
Il così alto numero di produzioni derivava direttamente dalle varie correnti di pensiero e dal perenne confronto tra di noi. Alessandro era l’unico musicista diplomato del team, Andrea era (ed è ancora) la Treccani della musica mentre io ero il tecnico, una sorta di scienziato pazzo. Trascorrevamo le giornate ad ascoltare musica di ogni genere e dialogavamo di continuo. A tal proposito ricordo ancora la disquisizione sul giro di pianoforte di “Mille Giorni Di Te E Di Me” di Claudio Baglioni che feci con Alessandro mentre Andrea voleva spaccare le casse spia. A volte si litigava ma il bello del team è anche questo, relazionarsi e non rimanere arroccati sulle proprie posizioni.

In passato l’uso degli pseudonimi era una consuetudine, oggi invece sembra prevalga più l’utilizzo del proprio nome anagrafico. Un chiaro segno di come la musica dance si sia “industrializzata” e avvicinata alle tipiche dinamiche produttive del pop/rock?
Probabilmente sì, è così, ma parli con uno che come DJ non ha mai usato uno pseudonimo pur non potendo contare su un nome “facile”.

Paolo Zerla, Andrea Pelino, Passalacqua (1992)
Andrea Pelino, Eugenio Passalacqua e Paolo ‘Zerla’ Zerletti in una foto del 1992

Nei primi anni Novanta Roma era una roccaforte della techno, vantava DJ, produttori, etichette, negozi, studi, locali, organizzatori e persino un polo distributivo coordinato da Marco Passarani e Andrea Benedetti, come raccontato qui. Cosa è rimasto di tutto ciò a distanza di circa un trentennio?
Possiamo vantarci di ciò che è stata Roma in quegli anni. Oltre ai momenti indelebili, quello che è rimasto dell’epoca è la gratificazione: ancora oggi, facendo il mio nome, c’è chi si ricorda di quel periodo e mi inorgoglisce il fatto di aver avuto la possibilità di farne parte. Pian piano sto iniziando a raccontare tanti aneddoti a mio figlio.

Quali sono stati i pregi e i difetti della scena house/techno romana?
Tra i pregi, sicuramente quello di essere stato un gruppo davvero all’avanguardia. Potenzialmente il polo elettronico capitolino poteva diventare una realtà di livello mondiale come è stato per Detroit ad esempio, ma a remare contro è stata la tipica mentalità provinciale romana che, sia chiaro, non abbraccia solo il campo musicale ma è proprio insita nel romano ab Urbe condita.

Viviamo un’era di continui ripescaggi, citazioni del passato e ritorni. Tu stesso, qualche anno fa, hai fatto risorgere Solid State attraverso tre volumi condivisi con I.vy sulla sua Chinese Laundry, pieni zeppi di acid techno con occhiate al primo Plastikman che, come mi raccontasti anni fa, resta uno dei tuoi miti. Prevedi di incidere nuovi dischi come Solid State in un prossimo futuro?
Chissà. Spesso mi sveglio con qualche idea che mi ronza in testa. Con I.vy c’era un rapporto di grande amicizia e mi ha spronato molto a ridare vita a Solid State.

Se potessi rivivere un giorno o un anno del “mondo” che abbiamo raccontato in questa intervista, quale sceglieresti e perché?
Come emozione e soddisfazione, sicuramente il momento del mio live all’Ombrellaro Rave, quindi il 1992, ma fu un periodo pazzesco che rivivrei tutto dall’inizio alla fine.

(Giosuè Impellizzeri)

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