Discommenti (aprile 2024)

Legowelt - The Sad Life Of An Instagram DJ

Legowelt – The Sad Life Of An Instagram DJ (Selvamancer)
Titolo decisamente sarcastico e pungente per questo nuovo EP che Danny Wolfers firma col suo moniker più noto e con cui anticipa l’arrivo di un LP destinato alla statunitense L.I.E.S. Records di Ron Morelli. L’eroe olandese imprime in cinque tracce tutta la sua verve creativa flirtando con l’electro e la techno, lanciando prima rasoiate filo acide in “Alpha Juno Storm Watch” e “Soundblaster Pro Tripper” per poi immergersi in spettrali acque lacustri popolate da qualche mitologica creatura sottomarina sopravvissuta alle ere geologiche (“Kawai K4 Acid Spring”) e saltellare al ritmo di pattern a metà strada tra il jack di Chicago e la raw techno scarnificata degli Unit Moebius (“No One Wants To Buy My NFT”). Chiude la title track, dove traiettorie melodiche dal retrogusto cinematografico sposano flessuosi incastri ritmici. A pubblicare il 12″ è l’iberica Selvamancer, che proprio di recente ha messo in circolazione uno stuzzicante EP di Gesloten Cirkel.

Terror - Data Surfer EP

T/Error – Data Surfer EP (New Interplanetary Melodies/Kuro Jam Recordings)
A distanza di qualche anno dal progetto “Kimera Mendax” di cui abbiamo dettagliatamente parlato qui, New Interplanetary Melodies e Kuro Jam Recordings tornano in partnership per sviluppare una nuova ed emozionante sound experience. Questa volta il fumetto, la cui uscita è attesa per il prossimo autunno, s’intitola “Data Surfer”, proprio come l’EP che lo preannuncia nel migliore dei modi possibili. La musica di T/Error paga il tributo alla più viscerale tradizione electro/techno di Detroit, con continui rimandi e omaggi al suono abrasivo e fiammeggiante di Drexciya e Underground Resistance, un sound che, nonostante abbia sulle spalle oltre trent’anni, continua a fornire il mood giusto per immaginare il mondo del futuro diventando alfiere della longevità, contrapposta alla caducità della maggior parte delle produzioni contemporanee. Di questo disco, arricchito dall’inserto illustrato di Mattia De Iulis e dalle grafiche di Enrico Carnevale e nei negozi dallo scorso 4 aprile, si possono spendere solo parole di elogio. Tracce come “Data Surfer” e “Last Brute In The Firmament” rappresentano la soundtrack perfetta per sogni e utopie/distopie sci-fi, sganciate dai rassicuranti elementi da song structure, segnate da geometrismi ritmici e immerse in severe soluzioni armoniche. Spazio anche a varchi IDM (“Redundant Flux Form”) e galleggiamenti spaziali (“Minimum Lenght”), finalizzati ad allargare ulteriormente l’atto compositivo. Riservati al formato digitale sono ulteriori tre pezzi, “Shadows”, “From The Deep” e “Space Time Coordinates” con cui l’artista capitolino s’imbarca su rotte interspaziali, forse immaginando di trovarsi a bordo di una navicella in cerca di nuovi pianeti alternativi alla Terra su cui poter vivere. Alla fine sarà necessario tirare un sospiro per allentare la tensione accumulata.

Modula Feat Gino Saccio - Che È Stato

Modula Feat. Gino Saccio – Che È Stato? (Archeo Recordings)
Filippo Colonna Romano alias Modula è una new entry per l’etichetta fiorentina Archeo Recordings guidata da Manu Archeo (intervistato qui), che nell’ultimo decennio si è meritatamente ritagliata spazio grazie a un’incessante attività di recupero e valorizzazione di musiche oscure o dimenticate con una particolare predilezione nei confronti del sound balearico. Per l’occasione il musicista napoletano si lancia in un’ardita reinterpretazione di “Who Dunnit?” di Gino Soccio ironicamente ribattezzato Gino Saccio in copertina (era il pezzo che apriva il lato b dell’album “Face To Face” del 1982): mantenendo l’impronta funk disco, l’autore ne ricalibra la dinamica e ricostruisce le tessiture grazie all’apporto del chitarrista Daniele Sarpa, del bassista Mirko Grande e del batterista Pellegrino Snichelotto, a cui si aggiungono Rosario Esposito e Antonella Mauri che invece si occupano della nuova partitura vocale, in dialetto partenopeo. È sempre Pellegrino Snichelotto a rileggere ulteriormente il tutto attraverso un rework intitolato I Feel Glow, in cui l’impronta balearica assume contorni più delineati. A completamento del 7″, limitato alle 350 copie di cui 50 su vinile colorato, è l’artwork di Maurizio Schirò.

Rodion & Mammarella - Musica E Computer

Rodion & Mammarella – Musica E Computer (Slow Motion)
Un album che parte dalle sollecitazioni della prima computer music e che si sviluppa attraverso riferimenti al mondo delle library e a quello più ballereccio che ammica al Moroder metronomico e macchinico: si può sintetizzare così il contenuto di questo LP realizzato sull’asse creativo di Rodion e Fabrizio Mammarella e registrato presso il Museo del Synth Marchigiano. Suoni e ritmi provengono da strumenti come Crumar DS-2, Elka Synthex, Davoli Davolisint, Viscount R64, Eko Ritmo 20 ed Elka Drumstar 80, tutti cimeli che gli appassionati (quelli veri) conoscono più che bene e per i quali sarebbero disposti a fare anche qualche follia economica. Sono proprio queste macchine a ridurre la distanza tra passato e presente in un brillante percorso che trabocca di vitalità attraverso pastosi disegni di basso arpeggiati, vocoderizzazioni vocali e palpitanti griglie di batteria.

Max Skiba & Snax - Pushing My Button

Max Skiba & Snax – Pushing My Button (Skylax Records)
È davvero un piacere ritrovare in attività Maximilian Skiba, talento di cui si erano perse le tracce da un po’ di anni. Per l’occasione il polacco ricompatta la sinergia con Snax, con cui aveva già duettato nel 2010 per “One To Pray”, e riormeggia sull’etichetta francese di Hardrock Striker che pubblicò un suo EP nel 2009, inspiegabilmente passato quasi inosservato nonostante prodotto in modo eccelso. “Pushing My Button” riparte proprio da quelle atmosfere, affondando le radici in un’elegante disco funky house che, così come recitano le note promozionali, traccia magistrali parallelismi con classici senza tempo come “Kiss Me Again” dei Dinosaur o “Is It All Over My Face?” dei Loose Joints, e rende omaggio al passato iniettandoci dentro, con sapienza, un appeal moderno. Skiba, insomma, non si limita a scopiazzare o ritagliare l’ennesimo dei sample per parodiare l’osannato ieri ma cerca di lanciare un ponte tra epoche lontane facendo leva sulle proprie doti da musicista prendendo le debite distanze dai banali assemblatori di loop che affollano i tempi che viviamo. A “Pushing My Button” e “In Motion” si sommano i remix: a mettere le mani sul primo è Apollon Telefax che traghetta tutto verso sponde italo disco giocando con un forte richiamo a “Hold Me Back” di WestBam; al secondo invece ci pensa Maltitz che opta per un saliscendi balearico dai riflessi aciduli.

JP Energy - Strano EP

JP Energy – Strano EP (Sound Migration)
A pochi mesi dalla ristampa del “Mathama EP” (si legga Discommenti di settembre 2023), riaffiora un altro vecchio disco del repertorio di Gianpiero Pacetti alias JP Energy, originariamente pubblicato nel 1993 su Progressive Music Production. Lo “Strano EP”, allora realizzato con la produzione esecutiva di Francesco Zappalà e l’apporto del musicista Stefano Lanzini, ha retto magnificamente l’incedere dei decenni e si ripresenta col medesimo bagaglio sognante di influenze oniriche che pagano l’ispirazione all’elettronica pre house/techno, specialmente quella cinematografica di Vangelis, Tangerine Dream ma soprattutto Jean-Michel Jarre, artista che folgorò Pacetti nell’infanzia come lui stesso racconta in questa intervista. Melodie epiche dunque si rincorrono in “Down To The Moon”, arpeggi celestiali e struggenti scalano gli appigli ritmici di “Dolphin Dance”, “Alvorada” accosta percussioni batucada a ipnotici arabeschi, “Les Architectes Du Temps” chiude come tutto è iniziato, con una scia melliflua che accarezza l’anima di chi ascolta: «ai tempi la composi immaginando un gruppo di gnomi che al mattino se ne andavano a lavorare nella foresta coi loro attrezzi sulle spalle» ricorda l’autore. A integrare questa reissue, oggetto di una rimasterizzazione ad hoc, è il remix che E-Talking ha realizzato di “Alvorada”, puntando a un’elaborazione ritmica più marcata. Un EP che, in barba all’intelligenza artificiale e alle diavolerie tecnologiche dell’ultim’ora, dimostra come al di là dei suoni ci voglia anche il cuore per comporre certa musica.

Punx Soundcheck Feat. Boy George - Be Electric (The Remixes)

Punx Soundcheck Feat. Boy George – Be Electric (The Remixes) (Icon Series)
Dalle viscere dei ricordi dell’electroclash d’oltremanica, riecco in azione i Punx Soundcheck con la loro proverbiale energia. Estratto dall’album “Punx In 3D” uscito lo scorso autunno e scandito da chiari echi hi nrg di derivazione orlandiana, “Be Electric” si ripresenta ora in versione singolo con l’aggiunta di vari remix ognuno dei quali con una precisa identità. Si passa dall’electro pop di Roland Sebastian Faber, che ha preso il posto di Arif Salih nella lineup del progetto, alle strutture technoidi di The Model, dai lapilli lavici di Mick Wills agli irrigidimenti monolitici di Ascii Disko passando per le movenze vellutate dei nostri Hard Ton e gli spezzettamenti breaks frammisti a elementi ragga di Greg May. In circolazione finirà sia il 12″ che il CD, limitato ad appena 100 copie.

Francesco Passantino & Friends - Venticinque EP

Francesco Passantino & Friends – Venticinque EP (Tractorecords)
In occasione del venticinquennale di attività discografica, Francesco Passantino riporta in vita il marchio Tractorecords, ibernato dal 2016. Nell’EP il DJ spezzino, ma da molti anni di stanza a Berlino, fa confluire le diverse sfaccettature che hanno colorito la sua carriera da produttore nell’ultimo quarto di secolo partendo da “Vision”, una nuvola di soffici pad su cui si posano uno scheletro ritmico e voci fuori campo, in apparenza captate da qualche radio lasciata distrattamente accesa. Registrata live al Club Der Visionaere la scorsa estate insieme a Daniele Ricca e Francesco Monaco con cui Passantino forma i Resilience Groove, la traccia è incapsulata nel minimalismo più rarefatto misto a bolle dub. Con “Undici” però la tavolozza dei suoni cambia e insieme a essa anche il registro ritmico, a vantaggio di una combinazione che rimanda ai tempi dorati della progressive trance, con una serpentina di bassline che ondeggia nervosa e pilota la sezione di batteria con qualche occhiata all’Emmanuel Top del periodo Attack. “Mahatma Groove” ripesca a piene mani proprio da quell’immaginario, con riccioli filo acid e onde trancey che si infrangono sulla parete ritmica. Spazio infine a un pezzo che arriva dal 1999, contenuto nel primo volume di “Electribe EP” su Subway Records che Passantino firmò con l’amico Davide Calì (intervistato qui) e che negli ultimi anni è diventato un piccolo cimelio per i collezionisti. Trattasi di “Ascolta”, in cui matrici kraftwerkiane in stile “It’s More Fun To Compute” si uniscono a grandi arcate trance svolazzanti. La tiratura del 12″ sarà limitata alle 150 copie.

Maxx Klaxon - Nothing Can Tear Us Apart

Maxx Klaxon – Nothing Can Tear Us Apart (Self released)
Per Maxx Klaxon vale un po’ il discorso fatto qualche riga sopra per i Punx Soundcheck. Il musicista electropop newyorkese fece capolino nella scena durante la fase finale del boom electroclash ma poi dileguandosi e facendo perdere le proprie tracce. Ora rieccolo, a un triennio da “From The Air”, con un EP in vendita su Bandcamp che riparte proprio dai suoni che tra 2003 e 2004 spopolarono in Europa mettendo d’accordo sia giovani che nostalgici. “Nothing Can Tear Us Apart” intreccia new wave, synth pop e blippeggianti echi electro, rispettando i canoni della song structure. A mettere il pezzo su binari ritmici più marcati è Daniel Cousins alias Albatross Heights nel suo Duct Tape Remix mentre Chris Ianuzzi, nell’Exploidoid Remix, sporca i vocal col distorsore e costruisce un castello di dissonanze glitch dal retrogusto psichedelico. La chiusura è dettata da “Freedom Tape”, composizione strumentale trascinata da un lacrimoso arpeggio poggiato su un soffice cuscino di pad malinconici. Se fosse uscito a inizio millennio, sarebbe stato perfetto per un’etichetta tipo l’International DeeJay Gigolo.

Michele Mininni - Pop Archetypes

Michele Mininni – Pop Archetypes (Hell Yeah Recordings)
Ben lontano dalle logorree produttive di certi artisti, Michele Mininni è stato sempre parsimonioso sul fronte produzioni, puntando piuttosto al “poco ma buono”. Colto ma non disposto a prendersi mai troppo sul serio, al compositore pugliese si riconosce l’imprevedibilità sotto il profilo creativo e la capacità di non farsi intrappolare e imprigionare nei cliché, e forse è stata proprio questa propensione a condizionare, in qualche modo, la quantità del suo repertorio. Assente dal panorama discografico da diversi anni (fatta eccezione per la fugace comparsata della scorsa estate su Dischi Spranti, di cui abbiamo parlato in Discommenti di luglio 2023), Mininni ora rompe il silenzio e lo fa con un album, il primo della carriera, destinato alla Hell Yeah Recordings di Marco Gallerani e figlio di una moltitudine di ascolti eterogenei. Tra accelerazioni, divagazioni, dilatazioni, sfasamenti ritmici e ribaltamenti armonici sottesi a una minuziosa cesellatura di ogni singolo suono, “Pop Archetypes”, ulteriormente impreziosito dalla copertina di Sandro Leucci che occhieggia ai décollage di Mimmo Rotella, è un manifesto multicolore e multietnico in cui passa in rassegna una gamma assai vasta di riferimenti che rendono complesso l’incasellamento in un genere preciso. Più semplice, piuttosto, stabilire la non appartenenza al pop a dispetto del titolo, forse scelto provocatoriamente per creare un’antitesi coi contenuti. «Non è stato facile trovare il titolo, seppur intitolare i brani sia una delle cose che mi piace di più del fare musica, perché rappresenta la sintesi massima fra i due linguaggi» spiega Mininni, contattato per l’occasione. «La sfida si presentava ancora più ardua visto che era la prima volta che davo il titolo a un album e quindi ho ceduto all’ironia, anche per prendere le distanze dalla serietà e dalla mia vita, cosa che mi è sempre riuscita abbastanza bene. In realtà cercavo qualcosa che avesse più angoli di interpretazione e che racchiudesse tutte le sfaccettature del disco e le mie influenze di “popular music”. Poi mi hanno sempre “rimproverato” di fare musica per pochi, quindi ecco servito un bel disco “pop” riconoscibile come un camaleonte».

“Pop Archetypes” prende dunque di mira gli archetipi del pop e li fa a pezzi, canzonando gli esiti pronosticabili della maggior parte della musica attualmente in circolazione, quella prodotta in quattro e quattr’otto e altrettanto celermente dimenticata perché sostituita da altra che arriva subito dopo come banale scatolame in una catena di montaggio. Per mettere in circolazione un LP come questo, oggi, del resto serve anche un po’ di coraggio. «Sinora avevo pubblicato solo EP e mai avrei pensato di incidere un album in vita mia» prosegue l’autore. «Dai tempi di “Rave Oscillations” su R&S, nel 2017, nelle recensioni si parlava di attesa dell’esordio su lunga distanza e mi veniva da sorridere, perché preso dalle cose della vita, dal mio lavoro e anche, lo ammetto, dalla mia inesorabile pigrizia, mi sembrava pura utopia. Negli ultimi anni, diciamo dalla pandemia, mi ero allontanato dalla musica e avevo finito di ascoltare ossessivamente le ultime uscite. Insomma, mi sono preso una lunghissima pausa depurativa ma non me lo sono imposto, è andata semplicemente così. Poi lo scorso anno ho riaperto per gioco il sequencer, cosa che non accadeva dal 2018, per creare la colonna sonora di un video promozionale di quindici secondi su YouTube. È nato tutto così. Da lì è come se le cose, piano piano, fossero venute a me. Da quel momento è partita la sfida verso me stesso. Lo dico sinceramente: dietro quel sorriso davanti alla richiesta di un LP si celava anche amarezza, perché è una cosa che sotto sotto mi faceva sentire incompleto. Era come dire “sì ok, cinque EP, ma…”. In me c’era un tarlo latente che diceva “ne sarò capace?” Quell’episodio ha innescato tutto, ed eccoci qui».

A caratterizzare in modo preponderante “Pop Archetypes” è anche il timing limitato della maggior parte dei pezzi che lo compongono, una sorta di sintesi massimale con cui Mininni conduce l’ascoltatore in una dimensione ermetica fatta di interludi o pseudo tali che fungono da collettori di emozioni. «Non c’è una ragione precisa dietro tale scelta, non me lo sono imposto» spiega l’autore, chiarendo come lo sviluppo di un progetto simile richiedesse una struttura estremamente variegata ma allo stesso tempo sintetica perché il rischio della prolissità era altissimo. «Il risultato è un percorso degustazione che alla fine del pasto deve lasciarti sazio ma non al punto di esplodere, in modo che dopo qualche tempo, si spera il prima possibile, in quel ristorante ci torni ovvero riascolti il disco». Nella scansione narrativa regna l’imprevedibilità: si provi, ad esempio, a mettere su prima “Vertigo” e poi “Bangkok Tempo” per provare quell’ebrezza che emerge dalle produzioni che escono dalla monodimensionalità. Ci sono passaggi in cui si fatica davvero a scorgere punti di connessione col passato produttivo mininniano, si senta “Urban Voodoo”, tra le più lunghe della playlist, con cui si innescano cinque minuti di adrenalina muscolare, o “The Magic Of Synesthesia”, dove le irregolarità ritmiche cullano melodie barcollanti in salsa psichedelica, o ancora “Wet Market”, un cut-up tra voci, scratch e pulsazioni breakbeat, “Golden Room”, una fuga in direzioni lounge, “Kundalini” e “Congoflash” immerse in nuance chiaroscurali da cui si propaga una forma mutante di world music. «Prima ancora d’iniziare sono partito da un concetto chiarissimo: non volevo che l’LP fosse la somma dei miei precedenti EP e non desideravo risultasse rassicurante altrimenti non avrei intrapreso il percorso perché mi sarei annoiato» mette in chiaro Mininni. «L’ipotesi di una rottura col passato mi ha fornito il giusto entusiasmo per stressarmi perché per me fare musica è incredibilmente stressante. L’idea era quindi di creare tasselli di un puzzle che fossero riconducibili alla forma canzone e che bastassero pur nella loro brevità. È stato uno sforzo di sintesi e sottrazione, anche negli arrangiamenti. A differenza di alcune mie cose del passato, ho dovuto togliere e non aggiungere. Ho misurato gli ingredienti con estrema attenzione, dietro c’è un lavoro di centinaia di ascolti volto a trovare la perfezione formale alla quale ambivo nella mia testa, sia nei singoli brani che nel loro stare bene assieme. Ho perso il conto di quante volte ho ascoltato il disco per scegliere la scaletta definitiva. Ho scartato anche dei pezzi, cosa per me incredibile, vista la mia storica stitichezza produttiva. Invece d’improvviso, addirittura abbondanza».

In “Pop Archetypes”, complesso organismo composito, si toccano sponde IDM, broken beat e drum n bass, poi si vira verso una world music impazzita, astrattismi e tropicalismi balearici con pochi spiragli però sulla dance music in senso stretto. Forse una precisa scelta per prendere le distanze da una scena che ormai appare creativamente depotenziata e narcotizzata? «Tutto ciò che è racchiuso nel disco non parte da analisi o metabolizzazioni dello scenario attuale, è semplicemente una conseguenza» afferma ancora l’autore. «Credo che il concetto di “conseguenza” sia stato dimenticato e che purtroppo sia proprio alla base dell’appiattimento dello scenario attuale. Quando si decide a tavolino che si vuol far ballare, ad esempio, si scelgono strumenti adatti, trick, strutture e suoni specifici. Insomma, dal semplice foglio bianco si passa a canalizzare in modo rigoroso e scientifico tutto il processo sulla base di regole già scritte, riducendo molto spesso il risultato a mero prodotto con finalità esclusivamente pratiche. Tradotto: mi serve un pezzo per far ballare, così come mi serve una pinza per svitare quel dado. Ecco, per me quella è la morte della creatività. La conseguenza è quella cosa che si esplica partendo da un presupposto di libertà e rivendicazione della propria unicità e che dà un risultato magari imprevedibile. Per la serie “questo sono io, poi si può anche ballare”. Magari ottieni una bomba dancefloor, ma lo è perché non sei partito da un presupposto finalistico ed esclusivamente pratico. È quello che sta accadendo alle canzoni di Sanremo: soprattutto nell’era dello streaming e di TikTok, assistiamo alla ricerca ossessiva del tormentone che condiziona le strutture dei brani fino a renderli tutti abbastanza simili. Chi ha ascoltato un po’ di musica in vita sua, riconosce in quei “mind games” musicali il perfido tentativo di creare dipendenza e viralità in funzione dei nuovi mezzi di comunicazione. Tentativo legittimo, perché l’esposizione porta monetizzazione, ma che riduce la musica a una grande lotteria dell’attenzione, in cui a vincere sono sempre meno attori».

(Giosuè Impellizzeri)

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Discommenti (settembre 2023)

Hyperstellar - Polaris EP

Hyperstellar – Polaris EP (The DJ Hell Experience)
Ruben Benabou, parigino, è l’artista che si cela dietro lo pseudonimo Hyperstellar. Attratto tanto dalle atmosfere delle colonne sonore quanto dalle potenzialità di generi come electro e techno, catalizza l’attenzione di Gerald Donald che lo vuole nel collettivo Daughter Produkt. Adesso dalla sua parte vanta un altro veterano della club culture, DJ Hell (a proposito, concedete un ascolto al recente remix realizzato per “Be A Queen” di Miss Djax), il quale lo precetta per la sua nuova etichetta che ha raccolto il testimone dell’International Deejay Gigolo a cui spetta comunque una citazione sull’artwork. Due i pezzi dell’EP: “Sibyl”, sintesi perfetta degli interessi musicali del transalpino, con ritmo e pathos, euforia e fase REM, e “Polaris”, naturale continuum di “Monarchy”, finita in una compilation della Zone nel 2021, un zigzagare verso l’ignoto in mezzo a filigrane low-fi che lasciano piombare l’ascoltatore in un pozzo apparentemente senza fondo, risucchiato dalle tenebre e da arabeschi armonici. Una doppietta che fa tesoro della lezione impartita dai decani della scena francese (David Carretta, The Hacker, Vitalic, Kiko, Arnaud Rebotini, giusto per citarne alcuni) e che nel contempo si proietta nel presente con assonanze a Gesaffelstein.

Tobor Experiment – Available Forms

Tobor Experiment – Available Forms (Bearfunk)
È stato necessario aspettare dodici anni per disporre del seguito di “Tobor Experiment Disco Experience” ma l’attesa è ampiamente ripagata. Supportato ancora dalla londinese Bearfunk di Stevie Kotey, il sound designer Giorgio Sancristoforo prosegue quindi il viaggio incantato immergendosi in pozioni alchemiche di musica fusion, exotica, easy listening e jazz psichedelico. Nove i brani della tracklist in cui mette magistralmente a punto i suoi distillati sonori, tutti saltati fuori da ipotetiche sonorizzazioni per pellicole di epoca space age. Spazio anche a una cover, “Halgatron” del compianto Detto Mariano, originariamente solcata sul lato b del 7″ con la sigla di “Jeeg Robot”. La visione retrofuturistica è il motore del disco e questo lo si evince anche dalla copertina e dal packaging (in formato gatefold) graficamente ineccepibile e comprendente un booklet di otto pagine: l’impatto visivo generato è pari a quello sonoro. Un balzo temporale indietro di cinquant’anni, per tornare a immaginare il futuro così come lo si sognava un tempo, provando un piacevole brivido emozionale.

Christian Gleinser - With A Different Eye EP

Christian Gleinser – With A Different Eye EP (Rapid Eye Movement)
Probabilmente nessuno tra coloro che incidevano musica nei primi anni Duemila avrebbe scommesso un solo centesimo bucato sulla possibilità che un giorno i propri dischi sarebbero stati rivalutati e ristampati per la generazione successiva. Analogamente a quanto avvenuto coi pezzi meno noti degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, anche quelli usciti a inizio millennio si stanno quindi lentamente trasformando da inutilità vendute per una manciata di spiccioli in rarità o addirittura “must have” proprio come le produzioni di Christian Gleinser. Attivo nei primi anni del nuovo secolo nel duo Nitsch & Gleinser insieme all’amico Daniel Nitsch e artefice di un suono meticcio tra electro, techno, chiptune e synth pop che spopolò trainato dal boom dell’electroclash, il tedesco, ormai inattivo nel frangente musicale, vede risorgere due tracce della sua prima apparizione da solista (“Look Into My Eye EP”, Superfancy Recordings, 2004). Da “Lies” e “Labyrinth” riaffiorano elementi classici per gli anni più rosei di quello che fu dipinto come neo pop: bassline arpeggiate e in ottava, melodie composte in preda alla nostalgia da Commodore 64, Atari VCS 2600 o Amiga 500 e voci vocoderizzate. Il lato b accoglie invece due inediti prodotti tra 2002 e 2005, “The Time Is Coming” e “Constant Transience”, attraverso cui l’artista dimostra ancora una volta di avere un particolare feeling col sid style. A coordinare l’operazione è la neonata Rapid Eye Movement di Jacopo, già al lavoro sulla seconda uscita, la riedizione di un EP diffuso solo su CD in un limitatissimo numero di esemplari.

Heinrich Mueller - False Vacuum Vol 2

Heinrich Mueller – False Vacuum Vol 2 (WéMè Records)
A distanza di cinque anni esatti la belga WéMè Records dà alle stampe il secondo capitolo riepilogativo sull’attività da remixer di Gerald Donald, presenza statuaria dell’electro di Detroit. Ultradyne, Cisco Ferreira, Jauzas The Shining & Victoria Lukas, Albert Van Abbe, Duplex, Fasenuova, The Exaltics, l’italiano 6D22 alias Giorgio Luceri: sono solo alcuni degli artisti che l’enigmatico artista ha rimaneggiato nel suo studio-laboratorio, infondendo costantemente una dose di astrazione mista a divagazioni scientifiche. Un compendio essenziale, impreziosito ulteriormente da tre pezzi solcati per la prima volta su vinile, per i supporter di Donald che, è bene ricordarlo, operò insieme al compianto James Stinson dietro le quinte dei Drexciya e che nel corso di un trentennio si è reinventato più volte coniando progetti destinati a marchiare a fondo la storia dell’electro contemporanea (Arpanet, Dopplereffekt, Japanese Telecom, Xor Gate…). Parte della tiratura è su vinile turchese disponibile sul sito dell’etichetta.

Cristalli Liquidi & Deux Control - Rosso Carnale

Cristalli Liquidi & Deux Control – Rosso Carnale (Artifact)
Per il ritorno del progetto Cristalli Liquidi, assente dai radar da circa un triennio, Bottin (intervistato qui) continua a trasformare funambolicamente musiche del passato riadattandole su nuove matrici. Ora tocca a “Fiore Rosso Carnale” di Annie Pascal, scritto da Pasquale Panella e musicato da Enrico Fusco, modificarsi in un pezzo italo disco intriso di malinconia, quella stessa malinconia che contrassegnò gran parte della dance nostrana nel primo lustro degli Ottanta. A svelare la genesi di “Rosso Carnale” è proprio l’autore: «inizialmente il brano mi è stato commissionato da BDC (Bonanni/Del Rio Catalog), una coppia di collezionisti d’arte che volevano realizzare una tiratura di pochissime copie per la loro etichetta Bon Bon per cui avevo già prodotto una cover di “Bambola” di Patty Pravo cantata dai Diva. Mi hanno chiesto di pensare a qualcosa di esclusivo e il brano l’ho proposto io, poi però non siamo riusciti a metterci d’accordo sui dettagli. Io pensavo a un’edizione d’artista, eventualmente anche un pezzo unico, loro invece avrebbero voluto inserire il 45 giri di “Rosso Carnale” in un oggetto da collezione, una scatola in ceramica con dentro altre cose come avevano già fatto con “Bambola”. Insomma, un progetto più articolato di cui la musica di Cristalli Liquidi era, anche giustamente, solo una parte. L’idea mi piaceva però sentivo che stonava un po’ con quello che avevo fatto come Cristalli Liquidi fino a quel momento, così ho preferito ritirare il pezzo e farlo uscire su Artifact. La tiratura è sempre limitata, ma sono duecento copie e non quindici e il prezzo è quello di un disco 12″, alla portata di DJ e appassionati. La grafica è di Lapo Belmestieri (Industrie Discografiche Lacerba). Un po’ mi dispiace di aver rinunciato all’edizione deluxe ma, pur essendo un “gruppo” di nicchia (per non dire peggio), Cristalli Liquidi ha un’identità e un “carattere” che talvolta mi obbligano a delle rinunce. Anni fa, per esempio, ho declinato l’offerta di aprire i concerti di un certo cantante pop perché mi sarei sentito fuori luogo mentre non avrei avuto problemi a fare un DJ set come Bottin nello stesso contesto. Si potrebbe obiettare che Cristalli Liquidi alla fine sono sempre io, ma la verità è che quando faccio cose come Cristalli Liquidi mi sento di lavorare per un progetto che ha una sua autonomia e che, in futuro, potrebbe essere portato avanti anche da qualcun altro».
Ad affiancare Bottin, per l’occasione, è il duo italo francese dei Deux Control ossia Edoardo Cianfanelli alias Rodion e Justine Neulat. «Una volta completata l’Italo Version ho pensato, invece di commissionare un remix, di chiedere ai Deux Control di farne una cover, reinterpretando il brano a modo loro senza usare alcuna delle parti originali, neppure la voce» continua Bottin. «Mi hanno mandato quella che sul disco è indicata come Deux Dub che mi è piaciuta tantissimo perché, al contrario della mia che è molto connotata in stile italo disco, potrebbe essere degli anni Ottanta come pure degli anni 8000. Pur essendo un traccia molto diversa dalla mia, Rodion e Justine hanno mantenuto la velocità (111 bpm) e la tonalità del brano originale. Questo dettaglio mi ha indotto a provare a incollare la mia voce sopra la loro versione, una sorta di duetto posticcio. Poi ci è venuta l’idea di mettere la voce di Justine sopra la main version. Alla fine ci siamo trovati con una canzone in due versioni in cui non importa più quale sia l’originale (che poi è una cover) e quale la copia (la cover della cover). Questo meccanismo di dissimulazione dell’autorialità è la chiave di tutto il progetto Cristalli Liquidi (come ben evidenziato in questo articolo/intervista del 2018 a cura di Jacopo Tomatis, nda), e anche nell’album non sempre è chiaro quali sono i brani originali e quali le cover. Si tratta di un procedimento di mise en abyme anacronistica non poi così diverso da quanto fatto con “Volevi Una Hit” nei confronti degli LCD Soundsystem».
Recentemente il pubblico generalista sta riscoprendo l’italo disco o parte di essa attraverso citazioni più o meno riuscite ma con quasi venticinque anni di ritardo rispetto alla prima ondata che ne recuperò le caratteristiche. Da essere un genere stantio e ancorato a un passato nostalgico da brizzolati revivalisti, l’italo disco così è parzialmente (ri)entrata nel gergo comune, complice anche il retromarketing che contribuisce a mitizzare smodatamente il passato. Ma come reagirebbe Bottin se “Rosso Carnale” diventasse un successo radiofonico e finisse nel calderone del pop? «Ne sarei felice ma non accadrà mai e posso spiegarne anche il perché. Questa riscoperta (che poi è la terza o la quarta) dell’italo disco non è dell’italo disco in quanto tale, è un’idealizzazione dell’italo disco di cui si esasperano certi suoni o certi stilemi, ma il mood è completamente diverso. Per esempio manca del tutto quella malinconia da dancefloor alla Valerie Dore che ho invece cercato di “canalizzare” in “Rosso Carnale”, oppure quell’idea di futuro e di futurità. Non che oggi non si creda nel futuro: siamo tutti convinti, chi più, chi meno, che il mondo non finirà domani, ma abbiamo smesso di pensare che il futuro ci porterà della cose nuove e una vita migliore. Crediamo nel futuro ma non nel progresso. Questa disillusione fa sì che molta musica elettronica di oggi non cerchi più di evocare con i suoni un’allegoria del futuro».
Pubblicato in digitale su Bandcamp a giugno con l’aggiunta di un’acappella esclusiva, “Rosso Carnale” viene solcato pure su 12″ dalla Artifact in un’edizione limitata che, come anticipato sopra, si fermerà alle duecento copie. Che per Cristalli Liquidi sia l’incipit di un secondo album, dopo quello del 2017 su Bordello A Parigi? «Vorrei che il progetto continuasse oltre l’attuale ubriacatura anni Ottanta alla “Stranger Things”» illustra ancora Bottin. «Con questo non voglio dire che “I Ragazzi Del Computer” o “Automan” fossero meglio delle serie Netflix, o che Baltimora e Den Harrow fossero qualitativamente migliori dei The Kolors. Non sono un nostalgico e soprattutto non mi interessano i giudizi di valore. Il prossimo singolo dei Cristalli Liquidi potrebbe però avere un sound molto diverso rispetto a quello di “Rosso Carnale”. Anzi, l’avrà, perché l’ho già completato».

DMX Krew - Still Got It

DMX Krew – Still Got It (Cold Blow)
Il nuovo disco di Edward Upton, l’ennesimo di una discografia infinita e in continua evoluzione, si ispira al funk del folletto di Minneapolis e non certamente a caso è racchiuso in una copertina-parodia del promo di “Let’s Work”. “Still Got It” (affiancata da una versione Dub) elettrifica pezzi tipo “Sexy Dancer” o “Uptown” mettendo insieme vocalità, sinuose bassline, vocoder e ampi virtuosismi alla tastiera con immancabile pitch bend. Sul lato b “Paranoia”, registrato nel 1999 ai tempi di “We Are DMX” su Rephlex, e “Cold Dub”, che tirava il sipario sull’album “Kiss Goodbye” del 2005, inciso solo su CD e destinato al solo mercato nipponico ma che la Cold Blow, come annunciato proprio nelle note in copertina, promette di ristampare presto.

Cybotron – Maintain The Golden Ratio (Tresor)
Anticipato da un single sided messo in vendita presso lo stand Metroplex in occasione del Movement Festival svoltosi durante la scorsa primavera, questo disco segna il ritorno del progetto detroitiano Cybotron. Scritto e prodotto da Juan Atkins, autentico punto cardinale della techno, e Laurens von Oswald, nipote del più noto Moritz, “Maintain”, atteso sulla berlinese Tresor, riparte dal punto in cui tutto ebbe inizio. Come in una seduta medianica, si evocano gli spiriti di “Alleys Of Your Mind”, “Cosmic Cars” e “Clear”: a venire fuori è qualcosa che profuma di passato ma contemporaneamente anche di futuro, quel futuro che un tempo si anelava leggendo romanzi di fantascienza dai quali si levavano utopie di ogni genere. Inchiodato su campiture monocromatiche e atmosfere noir e crepuscolari che un po’ ricordano “Hacker” di Anthony Rother, “Maintain” scandisce metronomicamente il tempo e trascina in un mondo cibernetico, abitato da androidi sullo sfondo di pianeti non appartenenti al nostro sistema solare. “The Golden Ratio”, sul lato b, prende le mosse da una serpentina acida che si avvolge in una nebulosa di lead sincronizzata su ipnotiche frammentazioni ritmiche. L’effetto finale suona meno drammatico se paragonato alla severità del precedente. L’EP1 compreso nel numero di catalogo lascia ipotizzare un seguito e, perché no, anche un album che in qualche modo possa riabilitare il progetto con cui Juan Atkins e Rik Davis predissero il futuro nel 1981.

JP Energy - Mathama EP

JP Energy – Mathama EP (Evasione Digitale)
Dopo aver rimesso in circolazione “Punto G” di Marco Bellini e Skeela ed “Escandalo Total/Sweet Revenge” di Andrea Giuditta, Evasione Digitale, l’etichetta portata avanti da Andrea Dallera e Andrea Dama, prosegue la missione di recupero e valorizzazione della progressive italiana d’antan ma questa volta oltrepassa il confine della ristampa mettendo le grinfie su un EP di inediti prodotti nel 1999. Il cerimoniere è Gianpiero Pacetti alias JP Energy, DJ di lungo corso che aveva anticipato l’uscita del disco un paio di mesi fa attraverso un’intervista pubblicata proprio su queste pagine. «Mathama era un posto sul fiume del mio paese dove andavo a fare il bagno da piccolo, pensare a quei momenti evoca ricordi meravigliosi» spiega Pacetti ricontattato per l’occasione. Tre i pezzi, prodotti con Mario Giardini alias Macro DJ nello studio allestito nel retrobottega del negozio di dischi Mandragora, il cui l’artista lombardo fa collidere urgenze ritmiche lineari e svolazzi melodici, incontrastato trademark della corrente progressive nostrana nata nei primi anni Novanta sulla spinta di alcuni DJ toscani e pian piano diffusasi in tutto il Paese, con conseguente depauperamento creativo e cannibalizzazione pop. Pacetti però è un antidivo per eccellenza e risiede al polo opposto del pop, e questo lo si capisce subito poggiando la puntina su “Iridium”, crocevia di pulsazioni di batteria e atmosfere sospese da spy story avvolte nel cuscino di arpeggi lasciati volteggiare in aria. Simile il contenuto di “Voyage (1999 Mix)”, scandita da un pulsante disegno di basso e un’infiorescenza a corimbo di suoni astrali captati da un universo parallelo. Chiude “Cobalt” in cui fanno capolino frenetici riferimenti electronic body music ma virati sempre in quella chiave melodica che fu la cifra distintiva delle produzioni progressive made in Italy negli anni Novanta.

Dressel Amorosi - Synthporn - Cargo

Dressel Amorosi – Synthporn / Cargo (Four Flies Records)
Come anticipato in Discommenti di giugno in cui si parlava di “Buio In Sala”, riecco in azione il duo Dressel Amorosi con un atteso 7″ contenente due brani. “Synthporn”, sul lato a, sembra uscire da una vecchia pellicola blaxploitation, tra fraseggi funky e atmosfere rilassate frutto di un’ipotetica jam session tra Armando Trovajoli e Lalo Schifrin, “Cargo”, sul retro, gira su un blocco ritmico più marcato ma mantenendo inalterato lo spiccato vibe funkeggiante che, a conti fatti, risulta l’elemento di raccordo dei pezzi dei due musicisti capitolini. Sulla rampa di lancio c’è anche il loro secondo album, “Spectrum”, la cui pubblicazione è attesa per il prossimo 17 novembre.

Sissy - Queen Of Discoteque

Sissy – Queen Of Discoteque (Giorgio Records)
Il mercato delle ristampe ha ormai raggiunto dimensioni ciclopiche: probabilmente il numero delle reissue oltrepasserà presto (o forse è già avvenuto?) quello delle produzioni inedite e ciò lascia riflettere su quanto siano profondamente “retrodipendenti” gli anni che viviamo. In tale contesto si inserisce la barese Giorgio Records partita nel 2019 e diretta da Massimo Portoghese, l’ennesima delle etichette indipendenti che si pone l’obiettivo di riabilitare nomi e musiche sepolti dalla polvere degli anni. Per l’occasione a resuscitare, dopo circa un quarantennio, è “Queen Of Discoteque” di Sissy, un pezzo che risentì dell’influsso freestyle statunitense mischiato a retaggi funk ma scarsamente italo nel senso più stretto del termine e forse per questo commercialmente sfortunato. «La tiratura originale su Eyes contò appena duemila copie, decisamente poche per i tempi» racconta Portoghese. «Il disco non fu supportato da alcun tipo di promozione e probabilmente anche questo giocò a svantaggio della sua riuscita. A cantare il brano fu Patrizia Luraschi, autrice anche del testo e ideatrice del progetto insieme a Pierpaolo Beretta. Per “Queen Of Discoteque” (a differenza di “Coloured Rhymes”, ristampato a inizio 2023 dall’olandese Lusso Records, nda) si affidarono al Maestro Rodolfo Grieco che si occupò della produzione ma nel momento in cui non ci furono più nuove idee da intavolare, il progetto si arenò».
Rimasto nel dimenticatoio per quasi quattro decenni, tolta qualche apparizione in compilation riepilogativa e una manciata di bootleg, “Queen Of Discoteque” ritorna quindi nei negozi di dischi attraverso una ristampa meticolosamente curata in ogni dettaglio, dalla copertina al restauro del master a firma Tommy Cavalieri. «Non è stata un’operazione veloce, ho tampinato il Maestro Grieco per almeno tre anni» spiega ancora Portoghese. «Non potemmo procedere con la licenza perché alcune persone mi anticiparono di pochissimo ma lui, sin da subito, si mostrò scettico e, per mia fortuna, ha preferito aspettare prima di ufficializzare il tutto. Quando capì che non se ne faceva più niente, iniziammo a progettare la ristampa su Giorgio Records. Si è fidato di me e oggi ci vogliamo molto bene, è una bravissima persona. Una peculiarità distintiva dell’operazione è la presenza di due versioni inedite, Unreleased Vocal e Unreleased Instrumental: le ho trovate restaurando il nastro originale. Credo furono tagliate per realizzare il formato 7″».
Contesissimo nel mercato dell’usato, sul quale da anni viaggia a cifre tutt’altro che modiche, “Queen Of Discoteque” si prende dunque la rivincita. «In cantiere ho un’altra produzione del Maestro Grieco alias Rudy Brown (come si firmò ai tempi di Sissy, nda), “She’s Gone Away” di Jimy K, uscita sempre su Eyes nel 1984. Praticamente introvabile, è un cult, scritto insieme a Naimy Hackett, che conto di pubblicare prima di Natale. Seguirà, nel 2024, “You’ll Be In Paradise” di Salentino, con le versioni originali del 1985 a cui si affiancheranno un rework di Franz Scala della Slow Motion Records e un edit dell’amico James Penrose alias Casionova» conclude Portoghese.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di JP Energy

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I dischi di Gianpiero ‘JP Energy’ Pacetti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Avevo dodici anni e un caro amico, un pomeriggio dopo la scuola, mi fece ascoltare una musicassetta di un “certo” Jean-Michel Jarre. Si intitolava “Oxygène” e di quell’album mi colpì in particolare la parte V. Rimasi praticamente folgorato e corsi ad acquistarlo. Da quel momento si aprì un mondo e in me crebbero un entusiasmo e una curiosità molto forti nei confronti della musica elettronica al punto da farne motivo di studio e di percorso artistico della mia vita.

L’ultimo invece?
È un doppio di Freaky Chakra che mi lasciai sbadatamente sfuggire ai tempi dell’uscita, nel 1998, intitolato “Blacklight Fantasy” in cui si trova la traccia omonima finita nel film “Miami Vice” del 2006. Molti pezzi che propongo nei club spesso fanno parte di colonne sonore cinematografiche e a tal proposito potrei citare un’altra traccia che è stata un mio cavallo di battaglia, “Blue” di LaTour, inserita nel celebre “Basic Instinct” e solcata su un 12″ colorato, blu ovviamente. Uno dei motti che ho sempre portato avanti con forza, citandolo anche sui flyer accanto al mio nome, è stato “music for film”, immaginando che il pubblico venuto per ascoltare la mia musica potesse vivere, per l’appunto, un film nel club.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Sono arrivato a toccare la soglia dei 7000 dischi ma credo che a fare la differenza non sia la quantità bensì la qualità della musica selezionata con sapienza e gusto. Al momento ne possiedo circa 3000, sugli scaffali sono rimasti quelli radicati nel mio cuore. Spesso, in passato, ho acquistato dischi col preciso intento di capirli e studiarli, trattandoli quasi come cavie da laboratorio perché dovevo imparare e capire qualsiasi cosa. Credo pertanto di aver speso in vinile circa novanta milioni delle vecchie lire.

Dove è collocata e come è organizzata?
Tutti i miei dischi si trovano su una scaffalatura in metallo da me costruita e saldata visto che la metallurgia è un’altra grande passione che mi porto dietro insieme alla musica elettronica. Sono ordinati secondo l’etichetta e numero di catalogo e spesso riesco a riconoscerli dalla costola laterale o persino dallo spigolo della copertina. Sono lì, pronti al combattimento, come instancabili guerrieri.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Trovandosi in casa sono ben protetti dall’umidità. Per questa ragione non uso copertine supplementari in plastica ma mi limito a pulirli periodicamente con Vetril o semplicemente con acqua e sapone, un metodo vecchio ma sempre efficace.

Ti hanno mai rubato un disco?
Purtroppo sì. Avvenne quando lavoravo come resident durante la stagione estiva al Cotton Club di Bardolino, sul Lago di Garda. Suonavo tutte le sere e per evitare il continuo trasporto presi l’abitudine di lasciare in consolle la valigia dei dischi. Nello specifico mi rubarono “Heaven And Hell” di Vangelis, per fortuna anni dopo sono riuscito a riacquistarlo a buon prezzo in un negozio di Portobello, a Londra.

C’è un disco a cui tieni di più?
No, considero importanti tutti i dischi che ho deciso di tenere, citarne uno per me sarebbe impossibile, è come se mi chiedessi di indicare il quadro più bello o il pittore più bravo. L’arte è fatta di confronti, senza essi non potremmo capirla. Per quanto riguarda la musica, sta a noi DJ interpretarla e selezionarla per poi cercare di persuadere qualcun altro ad apprezzarla, così come si fa coi capolavori su tela.

Quello che regaleresti volentieri o che ti sei pentito di aver comprato?
Ne regalerei molti, senza un motivo particolare, e nel contempo mi sono pentito di averne comprati parecchi ma del resto il rischio maggiore per coloro che volevano intraprendere il mestiere di DJ era proprio quello di toppare qualche acquisto. Per imparare a “leggere” la musica era inevitabile sbagliare, e questo risultava economicamente svantaggioso. Prima di acquistare un disco, infatti, si rifletteva dieci volte se fosse davvero quello giusto e solamente dopo si metteva mano al portafogli. Era un sistema che dava la giusta importanza alla musica. Oggi invece, grazie a internet e alla sua gratuità, ciò viene meno e di conseguenza tracce meravigliose possono essere ignorate. Per questo motivo ritengo che il vinile come supporto rappresenti ancora la scocca portante di un disc jockey.

Quello che ti piacerebbe possedere?
“You” dei Boytronic, con la versione strumentale sul lato b, preferibilmente in formato 12″. Purtroppo ho solo l’album da cui il pezzo venne estratto, “The Working Model”.

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JP Energy e la sua copia di “Oxygène” di Jean-Michel Jarre

Quello con la copertina più bella?
Sono tanti i dischi racchiusi in copertine meravigliose. Dovendone indicare una, probabilmente tornerei ancora al citato “Oxygène” col pianeta Terra che, sotto la superficie strappata, rivela un teschio umano. Nel 1976 Jarre fu illuminato in tutto e per tutto nel realizzare quell’album.

Nell’intervista finita nel libro Decadance Extra del 2015, affermi che la tua più grande passione sia mettere i dischi e non crearli. Tuttavia a partire dai primissimi anni Novanta hai iniziato a frequentare gli studi di registrazione incidendo diverse produzioni, da “Neo Sound” di Psycho 60 ad “Atmosphere Tropical” di Maldido Primitivo, insieme a Marco Biondi e Paolo Armaroli, da “The First EP” di Dinamic Duo con Francesco Zappalà a una serie di EP a nome JP Energy come “Strano”, prodotto dal citato Zappalà su Progressive Music Production, e una tripletta su Spectrum – Civiltà Del Suono (“Prima Dell’Alba/Forbidden Planet”, “Il Ritmo Digitale”, “I Have A Pessimistic Outlook Of Life”). Ai tempi, per un DJ come te, cosa voleva dire creare musica?
Fare esperienze in studio per me era una forma di confronto con coloro che la musica la inventavano e creavano già da tempo. Ho sempre sostenuto che un buon disc jockey, di solito, non è mai un abile produttore e viceversa, un valido produttore difficilmente si rivela un capace disc jockey. Per techno ed elettronica in generale, gli anni Novanta sono stati eccezionali e rivoluzionari, chi aveva coraggio e intelligenza artistica poteva osare, e non poco, e io l’ho fatto, con conseguenze positive (poche) e negative (molte) che mi sono portato dietro. Le rivoluzioni hanno i loro uomini e io sono stato parte di quella rivoluzione, con buona pace di tutti coloro che hanno preferito sfruttare quel momento in modo opportunistico da incapaci o parassiti. In studio conoscevo a memoria tutti i banchi dei miei sintetizzatori, dal Roland Jupiter-6 all’ARP 2600, dal Roland Juno-106 al Chroma Polaris, dal Roland JD-800 al Sequential Prophet-5. Era entusiasmante e in tutto questo mi aiutava un bravo musicista, Paolo Armaroli. Smanettavo continuamente quelle potenti macchine e a volte occorrevano ore per ottenere un solo suono tanta era la mia meticolosità. I dischi poi nascevano spesso dai miei stati d’animo ma la produzione, nonostante l’ardente passione, non prese mai il sopravvento, il mio ruolo è sempre stato quello di suonare dischi creati da altri. Non a caso avevo chiuso definitivamente nel cassetto varie tracce scritte e prodotte ai tempi ma qualche mese fa si è fatta avanti una giovane etichetta, la Evasione Digitale, proponendomi la pubblicazione su vinile. Il 12″ dovrebbe uscire a metà settembre e di questo ne sono felice ma non ripongo aspettative velleitarie, continuo a considerarmi un DJ e non un produttore. Basti pensare che non possiedo le copie di tutti i dischi che ho fatto e recuperarle oggi potrebbe voler dire spendere parecchio denaro viste le quotazioni raggiunte da alcuni su Discogs, su tutti “Prima Dell’Alba/Forbidden Planet” che anni addietro è stato venduto per 290 €.

Le produzioni discografiche però sono state determinanti per la carriera di molti DJ, talvolta riuscendo persino a supplire discutibili doti in consolle. A posteriori, avresti voluto investire più risorse ed energie nell’ambito produttivo?
No, come dicevo prima la mia vera e profonda passione è stata, è e sarà sempre mettere dischi come disc jockey. Il compito di questo è selezionare musica, saperla interpretare, leggerla, studiarla profondamente per poi proporla al pubblico ipnotizzandolo. Si tratta di vera e propria arte. Il disc jockey è intuito, gusto, velocità di ragionamento, sguardo sempre attento alla pista. Prima di mettere il primo disco, mi soffermo qualche secondo sulle persone che ho davanti per creare una connessione empatica. Non mi sono mai fatto aggredire anzi, ho sempre “aggredito”, consapevole del mio particolare suono, affrontando il tutto con coraggio e senza paura.

C’è un disco che avresti voluto produrre?
“Could This Be Love?” di Kerry Shaw, nella Chameleon Mix, uscito sulla britannica Parlophone nel 1993. A circa metà della stesura fa ingresso un giro di synth strepitoso, sia nel suono che nell’esecuzione. Ho sempre considerato quel pezzo uno dei più belli della techno, insuperabile.

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JP Energy in consolle al Cyber Garage di Flero (Brescia). Alle spalle il logo del suo negozio di dischi, Mandragora

In Decadance Extra racconti pure che per i primi sei mesi il pubblico del Cyber Garage ti fischiò regolarmente, spinto anche da chi occupava prima di te la consolle. Che fine avevano fatto i frequentatori a cui facevi riferimento in un’intervista del settembre 2005 menzionata in “Mondo Techno” di Andrea Benedetti (intervistato qui), che ai tempi della cosiddetta “musica afro” erano pronti a recepire? Col passare degli anni sono forse venuti meno anche quei proprietari di locali che, citandoti ancora, «lasciavano liberi i DJ di fare come volevano»?
Quello del Cyber Garage fu solo uno dei tanti episodi che, a malincuore, ho vissuto. Gli ipocriti tronfi che mi affiancavano in consolle tentavano di allontanare le persone dalla pista ma alla fine è stato il pubblico a decidere e scegliere. Nella stagione 2006, al Mazoom di Desenzano del Garda, mi capitò che l’art director, in preda chissà a quale delirio, sia corso in consolle per dirmi che stessi facendo ballare troppo e che la mia sala, di conseguenza, stava portando via gente alle altre piste. Praticamente ovunque ho trovato ignoranti che, per usare un termine alla Marco Biondi, amico di vecchia data (intervistato qui, nda), entravano a gamba tesa per mettere i bastoni tra le ruote del mio entusiasmo. Dopo tanti anni di permanenza in quel settore sono arrivato al “capolinea”, non ne potevo più, e benedico il giorno in cui mandai tutti al diavolo. Ciò non ha spento ovviamente il mio amore per la musica elettronica. Liberato da coloro che vivono quel mondo con invidia e gelosia, i famosi “vanity DJ”, mi sono ritagliato più tempo per esplorare e apprezzare il suono che più mi piace perché il problema maggiore non era certamente rappresentato dal pubblico con cui confrontarmi bensì dal rapporto coi DJ coi quali dividevo la consolle.

«La serata non la fai quando sei in discoteca dietro la consolle ma a casa mentre prepari la borsa dei dischi. In quella borsa ci sono infinite scelte: emozioni del momento, memoria storica, ascolti radiofonici casuali che ti portano a scavare nell’archivio e recuperare qualche vecchio vinile. Poi dovrai individuare il disco giusto per quella particolare serata e per quel particolare pubblico, e avere la forza di mettere da parte il brano fruibile troppo facilmente»: così scriveva nel 2007 Claudio Coccoluto in “Io, DJ”, ripubblicato giusto di recente in una versione aggiornata curata dal figlio Gianmaria. Quanto è rimasto di questo approccio nel moderno DJing? Buona parte di coloro che oggi si professano DJ, specialmente quelli coinvolti nei maxi eventi, mi sembrano totalmente scollegati e agli antipodi da tale rapporto con la musica, a prescindere dal supporto adoperato.
Coccoluto aveva ragione. Quello che descriveva nel libro lo chiamo mestiere, portato avanti da gente come il maestro Hell o “lo zio” Sven (Väth, nda). Loro sono autentici disc jockey che arrivano da uno studio assai approfondito della musica e quindi sono in grado di manipolarla e proporla al pubblico con massima consapevolezza. Per essere un DJ non basta saper mixare due brani, la differenza la fa la sequenza che può essere micidiale. Come in tutti i lavori, occorre umiltà ed esperienza, doti che oggi purtroppo mancano a buona parte di coloro che si cimentano in questa professione, più attenti all’apparire che all’essere a discapito della musica.

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Una delle opere realizzate da Pacetti con una testa di manichino

Nella primavera del 1995 a Brescia apri il tuo negozio di dischi, Mandragora, rimasto per anni un punto di riferimento per chi era alla ricerca di musica diversa rispetto a quella che circolava maggiormente nel nostro Paese e che tu proponevi nei club, come testimonia questa chart del 1997. Quali sono le prime cose che ti tornano in mente ripensando a quel posto?
Correva il maggio del 1995 quando alzai la saracinesca di Mandragora Dischi – Dischi Per Disc Jockey, così com’era scritto sulle buste. Fu un’avventura che intrapresi con tanto coraggio, un po’ di ingenuità (che non fa mai male), tanta passione e un conto corrente davvero misero. Feci quel passo anche in barba a Francesco Zappalà visto che, sino a pochi mesi prima, lavoravo da lui a KZ Sound, a Milano. Fu proprio Francesco ad avanzare la proposta di aprire in società un nuovo negozio a Brescia ma nel momento di concretizzare si tirò indietro. Così nacque Mandragora. Ogni settimana arrivavano dai tre ai quattro colli di dischi dalla Germania, Paesi Bassi e Regno Unito e mensilmente riuscivo a vendere dalle 5000 alle 6000 copie. Il sabato sera chiudevo alle 21:00 e tutto era sold out. Fu così per undici anni. In seguito cedetti l’attività con una giacenza di appena 38 dischi. Oltre all’arredamento, interamente costruito da me, avevo appeso ai muri delle sculture che avevo realizzato modificando le teste dei manichini usati dai parrucchieri. In un angolo poi avevo allestito una specie di parlatoio in ferro da dove, il sabato pomeriggio, tenevo orazioni sulla musica elettronica. Da questi aneddoti è facile intuire come Mandragora pulsasse di vita, non era un semplice negozio ma un luogo massonico dedito alla rivoluzione, un motore endotermico trainante, arte insomma.

In Decadance Extra, tra le altre cose, hai anche affermato che tra i clienti di Mandragora c’erano svariati famosi DJ, di continuo passaggio a Brescia perché a pochi chilometri di distanza sorgeva la Media Records, vero crocevia di personaggi che gravitavano in quel mondo, ma aggiungendo che la maggior parte di essi comprava dischi solo per «catturare idee e ispirazioni per le proprie produzioni e non per proporli durante le serate». Mancava dunque il coraggio per promuovere musica diversa? Ci si accontentava di dare al pubblico quello che si aspettava per evitare eventuali disapprovazioni?
Come dicevo prima, gli anni Novanta hanno rappresentato un’opportunità straordinaria per chi voleva fare il disc jockey. Tuttavia ritengo che solo in pochi abbiano avuto il coraggio di esprimere la propria vocazione musicale. Quando vendevo dischi alla maggior parte dei DJ della Media Records lo facevo sempre con un certo rammarico: ero sicuro che difficilmente li avrebbero suonati nei club. Li acquistavano col preciso intento di copiarli, storpiandoli brutalmente. La maggior parte di questi “fenomeni” ha sempre pensato, con presunzione fuori da ogni limite, di potersi sostituire alla grande scuola techno attraverso una personale reinterpretazione della stessa. Basti pensare a quante varianti nacquero in Italia in quegli anni, dalla mediterranean progressive alla tribal space, dall’underground all’italo piano passando per la percussion astral. Insomma, una serie di stronzate inventate di sana pianta da chi non aveva idee e creatività ma era ossessionato dal voler diventare DJ a tutti i costi. Se da un lato c’era poca proposta da parte dei disc jockey, dall’altro c’erano anche i proprietari dei locali che non avevano alcuna esperienza. Non ne ho mai trovato uno disposto a darmi carta bianca, la maggior parte di quelli con cui ho avuto a che fare erano imprenditori improvvisati con ben poca intelligenza. Se mi avessero lasciato lavorare in pace, probabilmente qui al nord ci sarebbero ancora un paio di club degni del rispetto internazionale.

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Una foto del maggio 1989 che immortala l’ingresso dello Space Boat, discoteca galleggiante a forma di astronave ormeggiata sul Lago di Garda in cui JP Energy lavora tra ’89 e ’91

Quando un DJ fallisce la sua missione?
Nel momento in cui non studia la propria musica in modo approfondito, quando vuole far credere a se stesso di avere passione ma non ne ha, quando è povero di umiltà, quando non sa confrontarsi e comunicare con chi gli sta intorno.

Nel tuo passato c’è anche l’esperienza a Radio Azzurra: cosa pensi dell’FM tricolore contemporaneo?
Quando sono in automobile accendo la radio con la speranza di poter ascoltare buona musica, non necessariamente elettronica, ma è impossibile restare fermo su una frequenza per più di un paio di minuti. Mi sembra sia solo un flusso studiato a tavolino che mira al consumismo senza divulgazione e cultura musicale. Faccio fatica anche a distinguere un’emittente dall’altra, sono praticamente tutte uguali. Nel periodo in cui ho lavorato a Radio Azzurra, nel triennio 1989-1990-1991, ho cercato in tutti i modi di sfruttare il nome che a quel tempo aveva la radio bresciana per divulgare nuovi messaggi musicali ma non mi fu permesso. Non c’è stata la volontà e il coraggio di guardare avanti, la direzione era fermamente convinta che si potesse e dovesse proseguire col vecchio palinsesto. Se mi avessero assecondato, almeno in qualcosa, avrei costruito una sorta di radio del futuro, ma ai disc jockey afro ciò dava molto fastidio. Il loro più grande errore fu non comprendere l’entità della grande rivoluzione che stava incombendo nei primi anni Novanta e, con fare presuntuoso, rifiutarono la sfida.

Gli anni Novanta hanno conosciuto il proliferare di riviste e free magazine che, in qualche modo, alimentavano l’interesse nei confronti della musica. Quasi interamente estinto nella forma cartacea, il settore ha trovato nuovo terreno fertile in Rete dove però, a detta di molti, velocità e immediatezza fanno spesso il paio con approssimazione e inesperienza. Ci sono realtà che consiglieresti per accrescere il proprio sapere?
Non conosco siti particolarmente attendibili. Navigo poco, preferisco leggere ancora un buon libro (cartaceo) di musica. Non avendo filtri, il mondo del web è manipolabile e quindi difficilmente credibile. Visto che chiunque può accedere e scrivere ciò che vuole, è chiaro che la faccenda sia particolarmente complessa. Le mie fonti sicure, dalle quali attingo sia nella sfera musicale che in quella della metallurgia, sono ancora rappresentate dai vecchi e cari libri. Ormai internet è un mezzo usato più per apparire e tutto diventa potenzialmente fuorviante.

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Uno scatto risalente alla metà degli anni Novanta con JP Energy e Lello B nella discoteca torinese Le Palace

Viviamo in un’era impazzita per tutto ciò che è rétro e commemorativo. La musica elettronica, in particolare, trabocca di rifacimenti e riciclaggi ovvi e scontati, piuttosto diversi rispetto a quelli più fantasiosi generati dall’ondata sampledelica una trentina di anni fa. La nostalgia sta dunque bloccando la nostra capacità culturale di guardare avanti oppure siamo diventati incalliti nostalgici perché la cultura ha smesso di progredire?
Fare musica di un certo tipo comporta sacrificio, passione, dedizione, ingegno e volontà ma in pochi oggi riescono ad associare tutte queste qualità. È più facile lanciarsi a capofitto nel passato, così come fanno certe radio che propongono solo musica datata, e sperare di vivere una seconda giovinezza. Del resto gran parte della musica contemporanea è fatta da interpreti che nascondono le proprie incapacità dietro l’autotune e turnisti/strumentisti a buon mercato. La musica del passato, in un modo o nell’altro, ritorna, sta a noi che la selezioniamo capire quanto sia efficace.

Come ti poni rispetto all’industrializzazione del divertimento? Quella che sembrava una conquista sta forse rivelando un nefasto effetto boomerang?
La rovina della musica techno/elettronica, in Italia, è legata alla mitizzazione della figura del disc jockey, miseramente sfruttata per mere vanità personali. La musica, per me, è un affare serio e resta una delle ultime grandi forme di comunicazione. Dovremmo imparare a viverla e ascoltarla anche se, a volte, ci sembrerà un po’ strana.

Estrai dalla tua collezione una serie di dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone le ragioni.

The Alan Parsons Project - I RobotThe Alan Parsons Project – I Robot
In questa traccia che apriva l’album omonimo del 1977 ho sempre sentito tutta la musica possibile e immaginabile. La trovo di una completezza impressionante seppur non ci sia un testo cantato ma soltanto meravigliosi cori. Del resto, come affermava il Maestro Ryuichi Sakamoto, non sempre il cantato è necessario, anzi.

Love And Rockets - Ball Of ConfusionLove And Rockets – Ball Of Confusion
Dalle ceneri dei Bauhaus nacquero i Love And Rockets che hanno inventato un rock n roll elettronico che lascia esterrefatti. Seppero trasformarsi lasciandosi alle spalle scheletri e stereotipi che non avrebbero portato più a nulla. Ai tempi dell’uscita, nel 1985, trovai questo brano superlativo, wave giocata in anticipo nell’intero contesto di popular music.

The KLF - What Time Is LoveThe KLF – What Time Is Love?
Un’arma letale che diede inizio alla rivoluzione, un disco semplicemente seminale. La genialità, in “What Time Is Love?”, risiede nei suoni che sono stati usati, dalla cassa al giro di basso “rubato” alla colonna sonora di “Jesus Christ Superstar” (nello specifico il brano “Heaven On Their Minds (Judas)”, nda) che si esalta all’infinito nella sua metamorfosi elettronica.

Revelation - First Power (Domination Dub)Revelation – First Power (Domination Dub)
Tra il 1989 e il 1990 Tommy Musto e Frankie Bones hanno scritto e prodotto brani di notevole fattura ma questa traccia, uscita sulla Atmosphere Records e attribuibile a Mundo Muzique, è veramente magica. Per quelli come me, ai tempi, mettere pezzi come questo voleva dire fare rivoluzione. Il disco, memorabile, in sala suonava in modo etereo e avvolgente.

Zen Paradox - The Light At The End...Zen Paradox – The Light At The End… ?
Possiedo tre copie di questo mix pubblicato nel 1994 dalla prestigiosa etichetta belga Nova Zembla su licenza dell’australiana Psy-Harmonics e l’ho suonato allo sfinimento. Ho perso il conto delle volte che ho aperto i set con “The Light At The End… ?”. Un capolavoro assoluto, in stesura e ricerca dei suoni, una traccia di finezza esemplare, per me era davvero impossibile non proporla.

Der Zyklus - Der TonimpulstestDer Zyklus – Der Tonimpulstest
Der Zyklus è l’ennesimo degli pseudonimi di Gerald Donald (qui affiancato da Anthony “Shake” Shakir, nda). “Der Tonimpulstest” e “Die Dämmerung Von Nanotech”, pubblicate nel 1998 dalla International DeeJay Gigolo, sono il ricordo e parte di ciò che mi ha identificato al Cyber Garage. Erano i suoni che ho usato per cambiare quel locale, proposti come alternativa alle solite, grossolane e monotone, cassone di TR-909. I suoni sono freddi e spigolosi, privi di particolari allunghi in eco o riverberi, ma il risultato è notevole per ricerca ed efficacia. Un disco perfetto per rappresentare “la cultura dei robot”, slogan che rimandava ai romanzi di fantascienza di Isaac Asimov che coniai con l’intenzione di far capire al pubblico che anche i robot potevano avere una cultura e che i suoni “freddi” della musica elettronica, alla fine, non erano tali come si credeva anzi, potevano colpire il cuore in modo ancora più intenso rispetto a quelli generati dagli strumenti tradizionali.

Petar Dundov - Distant ShoresPetar Dundov – Distant Shores
Si dice che la musica venga portata avanti da coloro che, con genialità, inventano qualcosa di nuovo e che poi ispirerà altri a fare lo stesso. Ebbene Dundov, con questa traccia del 2010 sulla belga Music Man Records, ha scritto un capitolo importante della musica elettronica contemporanea. “Distant Shores” è rivoluzionaria nella rivoluzione, suonarla per me è stato sempre assai emozionante, lasciata scorrere sino alla fine degli oltre dodici minuti: per persuadere il pubblico bisogna avere il coraggio di non cambiarla prima.

Exillon - Mind Techno ControlExillon – Mind Techno Control
Una traccia lunga una vita, pure questa da suonare per intero dall’inizio alla fine dei quasi dieci minuti. La stesura, da brividi, la rende unica e personale, molto vicina allo stile di Detroit. Pubblicato dalla spagnola Frigio Records nel 2013, “Mind Techno Control” è un pezzo che bisogna saper proporre e gestire per colpire positivamente il proprio pubblico.

Agoria - Altre VociAgoria – Altre Voci
Con questo pezzo di Agoria, racchiuso nell’album “Go Fast” uscito nel 2008, torna il concetto “music for film” di cui parlavo prima. Qui l’artista francese esplora con indiscussa bravura il collegamento tra musica e oscuro. L’abilità del disc jockey che intende passare un pezzo come questo risiede nel saperlo collocare al momento giusto del proprio programma.

Keen K-P. Muench - The SpiralKeen K/P. Muench – The Spiral (Makina Girgir Twilight Remix)
Una delle più belle tracce che abbia mai sentito e suonato negli ultimi anni. Solcata su un vinile trasparente dalla Perfect Stranger Records nel 2009, “The Spiral”, remixata da Makina Girgir, possiede una magia unica derivata dall’intreccio tra i suoni e la parte cantata. Non mi stancherò mai di proporla e me la porterò pure nel viaggio con Xibalba.

ZK Bucket - Your Body (The Drifter Remix)ZK Bucket – Your Body (The Drifter Remix)
Estratta dall’EP intitolato “Excess Labour” e pubblicato dalla berlinese Zaun Records nel 2016, la versione di The Drifter di “Your Body” è una delle tracce uscite nel periodo pre pandemico che ho suonato all’esasperazione. A colpirmi di più è il sapore del suono intriso di passato ma riproposto in chiave odierna. Oggi è davvero difficile scovare musica di tale fattura.

(Giosuè Impellizzeri)

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JP Energy – DJ chart ottobre 1997

JP Energy, Trend, ottobre 1997


DJ: JP Energy
Fonte: Trend Discotec
Data: ottobre 1997

1) Placid Angles ‎- The Cry
Primo album che John Beltran incide sotto le sembianze di Placid Angles, “The Cry” si sviluppa su un itinerario pieno di dilatazioni IDM ed ambientali ed invita l’ascoltatore ad entrare in un mondo sonico assai peculiare, fatto di movimenti contorti e sezioni melodiche scomposte. Dalle seducenti “Ocean” e “Fate” alla nodosa “Casting Shadows (On Warm Sundays)”, dalle sognanti “Now And Always” e “Decembers Tragedy” alla riposante “Lavinia” passando per la malinconica “Everything Under The Sun” e i guizzi technofoni di “Scarlett Season” ed “Her Elements”. Quello di Beltran, immerso in una strana formula alchemica in cui frenesia e placidità vengono messe in contrasto, è un lavoro che va ben oltre le classiche esigenze del disco da dancefloor destinato ai soli DJ, e non certamente a caso la Peacefrog Records lo commercializza anche in formato CD.

2) Mr. James Barth ‎- High Society
Lo svedese Cari Lekebusch firma questo 12″ con uno dei suoi molteplici alias, Mr. James Barth. “Workin’ The Truth” è un anello di house loopistica venata da severe scie melodiche kraftwerkiane, “Hold Still” è un azzeccato reprise di “Everybody Hold Still” di Grace Jones, con tutto l’apparato vocale processato nel vocoder. Il lato a è occupato per intero da “Smooth Talkin'”, dub cosmico rallentato dalle tinte fosche e profusione di suoni cristallini. Il tutto sull’indimenticata Svek di Stoccolma che pubblica il disco anche in formato CD, oggi particolarmente ricercato dai collezionisti.

3) Notturno – The After Hours EP
Dietro Notturno armeggia un tal Nicola Johnston che all’attivo ha una manciata di EP editi dalla britannica Melt Records di York. Il primo dei due è proprio “The After Hours” in cui l’artista fa sfoggio della capacità di dare ad un suono ubicato tra house e techno un indirizzo onirico, e questo probabilmente ha a che fare col moniker scelto per la breve esperienza in ambito discografico. “She’s So Groovy”, col bassline a stantuffo tenuto a bada da un celestiale pad, e “Need Some”, messo a bagno in una mistura dreamy, sono i pezzi dell’extended play che meglio risaltano, ma degna di menzione è pure la lunga “She Loves That Kind Of Thing”, deep house quasi sussurrata e dalle venature trancey. Musica notturna che non fa baccano ma che tiene svegli.

4) Saints & Sinners ‎- Peace
Il duo Saints & Sinners debutta nel ’97 sulla tedesca Sounds Good Records con questo disco che prova ad aprire un nuovo scenario e ridefinire il concetto di house music lanciando evidenti occhiate a retaggi trance. Non c’è nessuna euforia però, il risultato è qualcosa che oltremanica chiamano progressive e che conosce gloria tra la fine degli anni anni Novanta e i primi Duemila con artisti tipo Sasha, John Digweed e Steve Lawler. Alle due versioni di “Night On Earth” che dà il titolo al disco si aggiunge “Peace”, escursione da cui affiorano forme ritmiche appena accennate ed una fioritura armonica evocatrice di un mondo senza tempo, l’embrione di una cellula sonora che vedrà un’evoluzione grazie a talenti come James Holden, Nathan Fake, Gui Boratto o Dominik Eulberg. Proprio “Peace” conoscerà una seconda giovinezza qualche anno dopo attraverso una serie di remix firmati, tra gli altri, da Oliver Lieb e Michael Woods.

5) John Tejada – 12 Volts Of Soft Spread
Instancabile ed iperprolifico, Tejada incide dischi sin dai primi anni Novanta bilanciando minimalismo post millsiano a micro impalcature melodiche. In tal senso il brano che apre il disco su Palette Recordings, “Soft Spread”, risulta particolarmente esplicativo attraverso zigzaganti scie che tagliano l’intricato campo percussivo, e lo stesso avviene in “Begin” con le sue strutture ritmiche elementari prive di orpelli da cui si innalza un’esplosione di vitalità attraverso il turbinio di ipnotici accordi. Nettamente più intrippata “Spider Belly”, spoglia ed essenziale come l’ondata innescata da Hawtin circa un decennio più tardi.

6) Trybet – Nautical One
Formato da Aric Rist e Mike Parker, il duo statunitense dei Trybet si muove per qualche anno nel segmento techno. L’ultimo EP inciso per la Geophone dello stesso Parker è proprio “Nautical”, composto da due versioni: “Nautical One” sale in progressione in una spirale vagamente goana riprendendo fiato grazie ad un paio di break, “Nautical Two” non si allontana dalle medesime coordinate ed offre una più convincente parentesi acid. Nel 2016 entrambi i brani vengono rimessi in circolazione in formato digitale attraverso i remaster di Adam Jay e due anni più tardi, a sorpresa, giunge pure un inedito, “Shinjugai”, realizzato nel 1996 ma rimasto chiuso nel cassetto per oltre un ventennio.

7) Bleep – Mr. Barth In The Sahara
Geir Jenssen utilizza lo pseudonimo Bleep tra 1989 e 1990 per firmare un album ed alcuni 12″, tutti per la belga SSR Records. Tra questi c’è “The Launchpad” che sul lato b annovera “Mr. Barth In The Sahara” in cui, per poco più di tre minuti, il norvegese incastra con dovizia ammalianti arpeggi sfilacciati in filamenti che rammentano il cinguettio tipico dell’acid in un telaio ritmico che infonde al tutto potenza, forza ed energia quasi al punto di esplodere. Da lì a poco l’artista nativo di Tromsø sveste i panni di Bleep per inaugurare una nuova fase della carriera marchiata col moniker Biosphere ed illuminata da un successo di proporzioni mondiali, “Novelty Waves”, estratto dall’album “Patashnik” e scelto dalla Levi’s per sincronizzare un noto spot televisivo.

8) Graham Gouldman – Animalympics
L’LP del britannico Graham Gouldman affonda le radici nel rock, anche con approcci un po’ mielosi (“Away From It All”, “Love’s Not For Me”, “We’ve Made It To The Top”). A smuovere la prevedibilità è “Go For It”, con derive disco socciane e per cui l’autore mette in risalto le virtù di bassista, ma soprattutto “Bionic Boar”, penultimo brano del lato b in cui pare rivolgersi alla tecnologia in cerca di ispirazione e dove tutto assume tinte più futuriste, seppur soltanto per poco più di tre minuti, occhieggiando a Yellow Magic Orchestra, Gary Numan e John Foxx. Non è chiara la ragione per cui nella chart il titolo sia stato italianizzato ne “Le Olimpiadi Degli Animali” e ad oggi pare non esista neppure una versione nostrana di questo album targato 1980.

9) Logan – Afterhours
Meglio noto come Gallen, negli anni Novanta Regis Weber firma Logan una manciata di EP tra cui “Two Parts Of Our Lives” sulla tedesca VooDoo Records. All’interno trova alloggio la traccia “Afterhours”, ascensione techno spirituale con rimandi ad Underground Resistance dai beat rigidamente definiti, una ridotta gamma cromatica ed un saliscendi di chord a strappo incrociati alla dolcezza di pad che fluttuano come in assenza di gravità e dolci come pasta di zucchero.

10) Craig Leon – Nommos
Nato in Florida nel ’52, a poco più di vent’anni Leon si trasferisce a New York dove inizia a lavorare per la Sire occupandosi di band come Ramones, Blondie e Suicide. Nel 1981, forte dell’esperienza accumulata, si cimenta in un LP, “Nommos”, destinato alla Takoma, che manda in orbita un suono in cui sperimenta tecniche nuove prendendo la world music facendola transitare nei circuiti di sintetizzatori modulari per ricavarne qualcosa di piacevolmente surreale. Ritmi africani elettrificati, placidità ambientale futurizzata, onde tonali che si infrangono su muri di percussioni flangerizzate: “Nommos” scruta nel futuro e lo rende palpabile specialmente nella lunga “Four Eyes To See The Afterlife”, oltre tredici minuti di galleggiamento spaziale che offre nuove prospettive alle visioni new age di Eno, Roedelius o Grosskopf. Diventato a posteriori un cult, viene ristampato nel 2013 dalla Superior Viaduct di San Francisco.

(Giosuè Impellizzeri)

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