La discollezione di Nevio M.

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Nevio M. e parte della sua collezione tra cui la prima produzione discografica, “Sunset” (Sarasate Tribal Nation, 1995)

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Credo “Equinoxe” di Jean-Michel Jarre, che comprai nel 1979 dietro suggerimento del fratello maggiore di un caro amico, grande appassionato di musica. A conti fatti direi che fu un consiglio prezioso.

L’ultimo invece?
Tra gli ultimi che ho preso c’è “Reprise” di Moby, un doppio album in edizione limitata che contiene le rivisitazioni delle sue tracce storiche come “Natural Blues”, “Go”, “Porcelain”, “Why Does My Heart Feel So Bad?” e “Lift Me Up”.

Quanti dischi annovera la tua collezione?
Non li ho mai contati ma qualche anno fa un amico appassionato di numeri fece un calcolo e stimò una soglia intorno ai diecimila pezzi. Difficile stabilire anche quanto denaro abbia speso, sicuramente tantissimo ma non me ne pento affatto.

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Altri dischi della collezione di Melari, qui riposti su scaffali di ferro

Dove è collocata e come è organizzata?
È suddivisa tra scansie di ferro e di legno, ma anche in vari bauli e ceste. Ho tentato di adottare una sorta di indicizzazione secondo il genere musicale ma mi sono accorto che non è affatto un’impresa facile.

Segui particolari procedure per la conservazione?
Ovviamente cerco di tenere i dischi in un ambiente asciutto ed ogni tanto effettuo una bella spolverata e pulita prima dell’ascolto o dell’uso. Ho iniziato ad adoperare le copertine plastificate da qualche anno ma solo per le copie più nuove.

Ti hanno mai rubato un disco?
Ahimè sì: ad essere trafugato dal mio flight case nell’ormai lontano 1987 fu “Africa, Center Of The World” di Roy Ayers, ma qualche anno fa l’ho recuperato grazie a Discogs.

C’è un disco a cui tieni di più?
Potrebbe sembrare banale e scontato ma è la mia prima produzione, “Sunset”, pubblicata nel 1995 dalla Sarasate Tribal Nation.

Quello che cerchi da anni e per il quale saresti disposto a spendere una cifra considerevole?
Il secondo album degli Orbital uscito nel 1993 che purtroppo mi sfuggì all’epoca.

Quello che regaleresti volentieri o che ti sei pentito di aver comprato?
Mi è capitato di prendere dischi che non trasmettevano granché ma mi servivano in determinate situazioni o serate. Adesso fanno ugualmente parte del mio percorso musicale e per questa ragione non li rinnego.

Quello con la copertina più bella?
Non ho dubbi, l’album dei Velvet Underground e Nico con la banana disegnata da Andy Warhol.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato ad appassionarti di musica?
Il primo acquisto lo feci da Sangiorgi Dischi a Faenza, nel 1979, che (r)esiste ancora oggi. In seguito andavo da Tatum a Forlì, Disco Più e Dimar a Rimini, Nannucci a Bologna ed altri ancora. L’atmosfera di quei luoghi era unica, all’epoca si faceva di tutto per accaparrarsi la copia di un disco che magari era arrivato in quantità limitata e spesso per riuscirci bisognava diventare amici del negoziante. I negozi di dischi erano i veri “social” dei tempi, lì dentro ci si conosceva e ci si confrontava, e lo dico senza retorica. Oggi il confronto e la socialità, seppur si viva nell’epoca dei social network, paiono paradossalmente scomparsi.

Nei primi anni Novanta collabori con Piero Zannoni alias Piero Zeta nel negozio di dischi Mixopiù, a Faenza, di cui abbiamo parlato dettagliatamente nel libro Decadance Extra. Come e cosa ricordi di quel punto vendita, a circa un trentennio dall’inaugurazione?
Venivo da un anno sabbatico, mi ero preso una pausa dal mondo notturno col fine di riordinare le idee per capire come andare avanti, e partimmo davvero con pochissime risorse. Tuttavia nell’arco di qualche mese eravamo già diventati un punto di riferimento per tanti DJ della zona. Io curavo la parte più progressive ed underground, Piero invece si occupava di techno, trance ed hardcore. Erano anni di forte fermento tra musica, locali e moda, tutto era splendidamente nuovo, bello ed intrigante.

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Flight case di Nevio M da cui affiorano alcuni EP della sua discografia e sui quali si scorge anche l’adesivo del negozio di dischi Mixopiù

Sempre negli anni Novanta incidi diverse produzioni, per la citata Sarasate Tribal Nation in compagnia di Marco Capelli, futuro Andrea Doria intervistato qui, per la Ental Records diretta da Piero Zeta e per la Sound Of Rome del gruppo romano A&D Music And Vision, a cui si aggiungono comparsate sulla Tube di Marco Dionigi, intervistato qui, sulla Hex Sound Technology Research del gruppo Enterprise di Einstein Doctor DJ intervistato qui, e sulla Sushi, uno dei tentacoli della modenese American Records di Bob One a cui abbiamo dedicato qui una monografia. Quali erano le ragioni principali che spingevano i DJ come te a cimentarsi nella creazione di brani propri?
Poter creare una traccia da zero e poi vedere il risultato apprezzato dal pubblico che la balla non ha prezzo, ancora oggi provo bellissime emozioni e sensazioni. Quando ciò avviene vuol dire che la gente che balla è in sinergia e sintonia con chi ha ideato quel pezzo. Ho sempre creato e prodotto musica con questo intento e non certamente a scopo di lucro altrimenti avrei optato per una strada più commerciale. Con Marco Capelli, che allora si faceva chiamare ancora MC Hair, c’era un’intesa speciale, ci capivamo al volo e produrre musica con lui, senza togliere nulla agli altri con cui ho avuto il piacere di collaborare in studio, è stato molto divertente. Facevamo le cose che più ci piacevano e i clubber dimostravano di apprezzare, cosa potevamo volere di più?

Militare tra le fila di alcune case discografiche ha sempre fatto la differenza, non solo per un ritorno di immagine e prestigio ma anche perché, obiettivamente, alcune realtà contano su una credibilità e popolarità tale da riuscire a smarcare i propri artisti dal mare magnum di concorrenza. C’era qualche label, italiana o estera, con cui ti sarebbe piaciuto collaborare?
Avrei voluto incidere per la svedese Hybrid di Cari Lekebusch e per la Planet Rhythm Records co-fondata da Adam Beyer, ma nutrivo un debole pure per la britannica Bush. Purtroppo non c’è mai stata l’occasione di stringere sinergie con nessuna di esse.

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Altri dischi della collezione di Melari su scaffali di legno. In basso, tra gli altri, si scorge “Phase II” di Bohannon (1977)

Dopo anni di silenzio sei tornato ad armeggiare in studio lavorando ancora con Piero Zeta. Comporre musica oggi e pubblicarla però pare essere diventato quasi un passatempo vista la facilità di approccio: la tanto osannata democratizzazione ha finito forse col banalizzare quella che un tempo era considerata un’attività artistica?
Il mio ritorno in studio è legato al puro divertimento, senza pretese. Adesso sono in auge metodi differenti per stabilire la validità di una produzione, in primis le visualizzazioni online, ben diversi rispetto a quelli di qualche decennio fa. Ecco perché non ripongo alcuna aspettativa nelle nuove mie nuove creazioni discografiche.

Negli anni Novanta alcuni DJ, anche particolarmente noti, si affidavano a musicisti ed ingegneri del suono per realizzare le proprie produzioni. Si dice che alcuni sapessero a malapena accendere un computer e collegare un sintetizzatore ma grazie alla popolarità del proprio nome, conquistata in discoteca o in radio, riuscirono ad alimentare per lungo tempo il proprio repertorio discografico. Era forse una strategia non così dissimile da quelle degli anni precedenti descritte in questo reportage e dalle tanto criticate odierne?
Negli anni Ottanta, così come nei Novanta, esistevano artisti e persino “gruppi” totalmente inventati a tavolino, che non sapevano né suonare né tantomeno cantare, ma offrivano a musiche prodotte in studio da altri la propria immagine che catalizzava l’attenzione delle giovani generazioni. Un caso su tutti, che fece scalpore a livello internazionale, quello dei Milli Vanilli. Adesso tale procedura non è più applicata soltanto alla sfera delle produzioni discografiche ma anche alle esibizioni dei DJ. Se un prodotto vende vuol dire che è vincente ma non dobbiamo confondere ciò con l’arte, quella è davvero un’altra cosa.

Sei stato tra i resident del Cellophane di Rimini, uno di quei posti diventati mitologici nei racconti di chi oggi, su internet ma non solo, lamenta la cronica assenza di club nati con l’intento di promuovere musica. Come descriveresti il Cellophane a chi non ha mai avuto l’occasione di metterci piede?
Tra i tantissimi locali in cui ho prestato servizio, quello che mi è rimasto più nel cuore è proprio il Cellophane. Per quanto mi sforzi, faccio fatica a spiegare a parole l’atmosfera che si respirava e viveva tra quelle mura. Era un posto scuro e basso ma con un’acustica pazzesca, il Club con la C maiuscola per eccellenza. La gente veniva da ogni parte d’Europa per divertirsi ed io facevo altrettanto: in quei quattro anni di residenza mi sono espresso musicalmente al massimo, dando e ricevendo tantissimo.

Quali sono i primi tre brani che ti tornano in mente ripensando al Cellophane?
“Konception” di Plastikman: quando lo mettevo, prima di iniziare la serata, creava un’atmosfera pazzesca in pista e la gente iniziava a battere le mani a tempo;
“Cellule” di J.J.Jam, una produzione italiana di DJ Pareti meglio noto come Sinus, che è stata per un po’ la mia sigla di apertura;
“Tone” di Emmanuel Top, l’Attack Records di colore arancione: ricordo ancora i cori del pubblico talmente forti da sovrastare la musica.

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Un ultimo scatto sui dischi di Melari protetti dalle copertine plastificate

Al netto della nostalgia, credi che la musica figlia degli anni che stiamo vivendo verrà ricordata tra qualche decennio così come è successo a quella del passato oggi tanto celebrato, oppure c’è stato un cortocircuito che ha creato una frattura dando origine ad un prima e un dopo?
Le mode e la musica vanno avanti e si evolvono, è inevitabile, chi vivrà vedrà. Quello di cui sono certo è che gli anni Novanta non verranno dimenticati.

E sul DJing post Duemila invece cosa pensi? L’industrializzazione di un settore un tempo pionieristico ha fatto più bene o male?
Sono del parere che dal 2004 in avanti ci sia stato un appiattimento generale e l’Italia ha pagato un caro prezzo. Paesi come Spagna, Germania e Regno Unito hanno capito tempestivamente che il comparto necessitava di essere “industrializzato” e rivisto, noi al contrario siamo stati a guardare ed oggi ne subiamo le conseguenze.

Ritieni che le nuove frontiere tecnologiche digitali stiano svilendo l’arte del DJing?
Il vinile avrà sempre un fascino che nessun file digitale potrà mai trasmettere, alla stregua di un libro che si apre, si tocca, si annusa e si legge. È ormai un rito mettere il disco sul piatto e godersi la musica, tuttavia non faccio mistero che anche io mi sono abituato, per comodità, ad usare le pen drive per le serate in discoteca, seppur continui comunque a comprare dischi. Il mondo va avanti e non trovo giusto criticare le nuove generazioni solo perché usano consolle digitali, computer o qualsiasi altro mezzo tecnologicamente più avanzato di quelli che usavamo noi.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato spiegandone i motivi.

James Brown - Revolution Of The MindJames Brown – Revolution Of The Mind
Un doppio LP del 1971 che acquistai nel 1983 alla Dimar, a Rimini, un negozio molto grande specializzato in rarità e che trattava anche dischi fuori catalogo. All’epoca lo pagai uno sproposito, duecentomila lire. Me ne innamorai perché conteneva, tra le altre, una versione di “Soul Power” che sentii mettere da TBC (Claudio Tosi Brandi) al Cosmic di Lazise, sul Lago di Garda, e rimasi fortemente incantato dal groove e dall’effetto che produceva sul dancefloor.

The KLF - What Time Is LoveThe KLF – What Time Is Love?
Sono parecchio legato a questa traccia dei britannici KLF uscita originariamente nel 1988 e ripubblicata a più riprese negli anni successivi. Ritengo sia stato uno dei brani capostipite del genere trance (insieme ad altri come “The Age Of Love” degli Age Of Love e “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo rispettivamente qui e qui, nda) e progressive, un filone giunto nel decennio successivo caratterizzandone indelebilmente buona parte. Un pezzo a cui tanti DJ e produttori si sono ispirati per le proprie creazioni.

Moby - GoMoby – Go
Un brano dance/trance del 1991 in cui Moby campiona uno stralcio di “Laura Palmer’s Theme” di Angelo Badalamenti, dalla colonna sonora della serie televisiva di successo “Twin Peaks”, e lo unisce magistralmente ad un pezzetto di “Go”! dei Tones On Tail ‎ed un altro da “Love’s Gonna Get You” di Jocelyn Brown. Un disco che fa riaffiorare in me fantastici ricordi.

A. Paul - JuiceA. Paul – Juice
Pubblicata nel 1994 sulla portoghese Question Of Time di J Daniel (quello di “…To Eden”, che spopola in Italia nel 1996 come “disco nave”, nda), “Juice” è una traccia che corre su strutture elettroniche tribali, poi si ferma in una lunga pausa per quindi ripartire con energia. Lo adoravo ai tempi dell’uscita ed è uno di quei pezzi che mi ricorda l’approdo come DJ resident al Cellophane di Rimini dove lo ho proposto, praticamente ininterrottamente, per un’intera stagione riuscendo a creare atmosfere impareggiabili. L’interesse fu tale che nel 1995 la UMM decise di prenderlo in licenza per l’Italia.

Plastikman - MusikPlastikman – Musik
Questo doppio album prodotto da Richie Hawtin per la Plus 8 Records nel 1994 si sviluppa su suoni minimali ed acidi, disegnando traiettorie parecchio innovative per l’epoca. Come annunciavo prima, solitamente ad inizio serata suonavo “Konception”, traccia sui 115 bpm che, abbinata a luci strobo, fumo e laser, generava un’atmosfera pazzesca che non potrò mai dimenticare. Le produzioni di Plastikman erano spesso presenti nei miei set, adoravo il suo modo di fare musica e non a caso possiedo la discografia completa.

Various - Insomnia CompilationVarious – Insomnia Compilation
Una compilation su CD, cassetta e vinile, commercializzata nel 1994 dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. In particolare la versione su vinile, doppia e limitata alle appena 500 copie, è rara e piuttosto costosa sul mercato dell’usato. Svariati i pezzi racchiusi al suo interno ma quello più famoso era “Free Your Mind” di Olimpo, progetto dietro il quale si celavano Francesco Farfa e Joy Kitikonti (intervistati rispettivamente qui e qui, nda). Gran parte della restante tracklist fu realizzata dal giovane Rexanthony e dalla madre Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda), la produzione di Antonio Bartoccetti (intervistato qui, nda) mentre la selezione a firma di Antonio Velasquez, direttore artistico dell’indimenticato locale di Ponsacco.

Stefano Noferini - Trumba LumbaStefano Noferini – Trumba Lumba
Il brano in questione era racchiuso nel primo volume della compilation “DJ’s United Grooves” (di cui parliamo qui, nda), per cui il mio socio Piero Zeta ricopriva ruolo di coordinatore. Si trattava di un progetto ambizioso che metteva insieme tanti DJ italiani, da Alfredo Zanca a Marco Bellini, da Simona Faraone a Massimo Cominotto passando per Killer Faber, Buba DJ, MC Hair e lo stesso Zeta. A “Trumba Lumba”, inoltre, è legato un aneddoto: erano le diciannove di un sabato pomeriggio e mi trovavo a Faenza, nel Mixopiù. Piero entrò portando un acetato in formato 10″ appena “sfornato” con su inciso, per l’appunto, “Trumba Lumba”. Penso che neanche Noferini stesso lo avesse ancora. «Tieni, così stasera lo suoni in anteprima al Cellophane!» mi disse, e così fu.

Emmanuel Top - Turkich BazarEmmanuel Top – Turkich Bazar
“The music was new, black polished chrome, and came over the summer like liquid night”: era questa la famosissima frase campionata da “Black Polished Chrome” di Jim Morrison che apriva e scandiva il ritmo di “Turkich Bazar” di Emmanuel Top del 1994. Il resto era edificato con una Roland TR-909 ed una Roland TB-303 e il gioco era fatto. Ad onor del vero potrei citare pure tutti gli altri brani apparsi sulla Attack Records in quel periodo perché credo abbiano lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’elettronica che si suonava nei club negli anni Novanta. Non nascondo di essermi ispirato proprio alle tracce di Emmanuel Top per i pezzi finiti in “Mental Flow EP”, la mia seconda produzione su Sarasate Tribal Nation.

Pink Floyd - Wish You Were HerePink Floyd – Wish You Were Here
Su questo capolavoro targato 1975 voglio raccontare un altro aneddoto. Ero ancora un ragazzino ed un mio amico mi invitò a casa sua per ascoltare un nuovo disco che aveva acquistato il fratello, fedele appassionato di rock. Mise sul giradischi “Wish You Were Here” e in quel momento mi si aprì un mondo. Rimasi praticamente incantato ed estasiato nell’ascoltare le note di “Shine On You Crazy Diamond”. Negli anni a seguire lo comprai sia su vinile che CD.

Namito - Stone FlowerNamito – Stone Flower
Secondo me “Stone Flower”, edito nel 2019 dall’americana Sol Selectas, è uno dei dischi da club più belli usciti negli ultimi anni. 114 bpm, ambientazioni new age, tastiere, cori di voci suadenti, un bellissimo connubio insomma. Una traccia che avrei voluto fare io.

(Giosuè Impellizzeri)

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La discollezione di Corrado Monti

02 - Monti two
Uno sguardo d’insieme sulla collezione di dischi di Corrado Monti

Qual è il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Risale al 1978 ed è un 45 giri di Rino Gaetano, “Gianna”, brano portato quell’anno al Festival Di Sanremo. Il primo LP invece è stato “Uprising” del mio mito Bob Marley, mentre il primo disco mix “Sweet Little Woman” di Joe Cocker, ascoltato da una cassetta del compianto Riccardo Cioni che mi faceva venire puntualmente la pelle d’oca.

L’ultimo invece?
Uno degli svariati 12″ degli Africanism usciti su Yellow Productions nei primi anni Duemila. Era il periodo in cui iniziai a scaricare musica dal web che poi masterizzavo su CD da infilare nei Pioneer CDJ-100S.

Quanti dischi conta la tua collezione?
Circa cinquemila.

Dove è collocata e come è organizzata?
Si trova nella mia casa ma ha subito almeno quattro traslochi e qualche vendita, per cui non posso certamente affermare di averla trattata benissimo. Nei primi anni Novanta inoltre, quando mi dedicai ad altri generi musicali, vendetti parte dei dischi del decennio precedente perché ipotizzai che si sarebbero trasformati solo in zavorra inutile. Per quanto riguarda l’indicizzazione, per gli anni Ottanta ho optato per l’ordine alfabetico, sia per i mix che gli LP. Tutto il materiale che va dal 1990 in poi invece è disposto per anno.

Segui particolari accorgimenti per la conservazione?
Non ho mai eseguito lavaggi o usato copertine plastificate, infatti quando mi ritrovo ad ascoltarne alcuni è un dramma, tra scricchiolii e salti della puntina. I miei dischi erano paragonabili ad “attrezzi da lavoro”, l’uso che ne facevo era intenso tra serate doppie/triple ed after hour. A volte, per ovviare a questi problemi tecnici, ci passo sopra un panno imbevuto di alcool che, evaporando, non lascia residui. Probabilmente è giunta l’ora di acquistare una delle tante macchine lavadischi disponibili sul mercato.

Ti hanno mai rubato un disco?
Fortunatamente non ho mai vissuto il furto di dischi ma è capitato di averne prestati alcuni e poi di essermene dimenticato di farmeli restituire, ma forse non erano titoli a cui tenevo particolarmente. Di certi invece, come “The House Of God” di D.H.S., ne ho due copie probabilmente perché le prime si erano irreparabilmente rigate.

03 - i dischi di Marley
Alcuni LP di Bob Marley presenti nella collezione di Monti

C’è un disco a cui tieni di più?
Indistintamente a tutti quelli di Bob Marley, perché il reggae mi scorre delle vene, ma anche agli album di gruppi come Deep Purple, The Doors, Pink Floyd e Police.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Mi piacerebbe possedere “Murder Rap Trap” dei Culture Club in formato 12″ ma anche altre tracce che ascoltavo in vecchie cassette “afro” di fine anni Settanta/inizio Ottanta di cui però non sono mai riuscito a scoprire né il titolo né tantomeno gli autori. Neanche Shazam, in tempi recenti, è stato capace di aiutarmi nell’ardua identificazione. Uno di quelli che ho ricercato ed acquistato invece è “Up All Night” di Claudja Barry, del 1982. Come accennavo prima, ho venduto alcuni dischi che consideravo ormai inutili ma a posteriori è emerso qualche rimorso, come per “Strange” di Interfront.

Quello che regaleresti volentieri?
Nessuno direi, a meno che il riascolto dovesse far riaffiorare qualcosa davvero “indigeribile”.

04 - copertina più bella
“The Bass EP”, il disco di Corrado Monti edito dalla Sushi nel 1999

Quello con la copertina più bella?
Non ho mai comprato dischi per la copertina: seppur questa rappresentasse sicuramente uno stimolo maggiore per l’occhio, alla fine ho sempre lasciato decidere l’orecchio. Le copertine dei dischi di Fausto Papetti, ad esempio, erano particolarmente attraenti perché puntualmente dominate da bellissime donne poco vestite, ma non ne ho mai acquistato nessuno. Trovo bellissimo il retro di “Kaya” di Bob Marley & The Wailers e citerei anche quella del mio “The Bass EP”, pubblicato dalla Sushi nel 1999, che scelsi personalmente da un disegno.

Che negozi di dischi frequentavi quando hai iniziato la carriera da DJ, nel 1982?
Ero cliente assiduo di Magic Sound, un piccolissimo negozio a Pontedera: a differenza di un altro più grande che vendeva dischi patinati ma solo di musica commerciale, quel microscopico punto vendita, forse di appena venti m², era specializzato in prodotti più ricercati tra cui dischi mix destinati ai DJ che, ai tempi, erano decisamente meno di oggi. A volte andavo a Firenze da Disco Mastelloni (gestito dal compianto Roberto Bianchi intervistato in Decadance Extra, nda) o alla Galleria Del Disco. Spesso ordinavo dischi sentiti attraverso qualche cassetta o in programmi radiofonici del citato Cioni che fu il mio ispiratore, almeno sino al 1983/1984. Poi, a partire dal 1987/1988, con l’avvento della house music, cominciai a fare acquisti da Disco Più di Rimini facilitato dai preascolti incisi su cassetta: era bellissimo aspettare il pacco con la cassettina per ascoltare le nuove uscite! Negli anni Novanta, infine, ho fatto qualche puntatina al Black Market Records di Londra.

Che tipo di musica proponevi negli anni Ottanta, prima della nascita di house e techno?
Di alternativo, per noi DJ, c’erano la new wave e la cosiddetta afro, filoni però relegati a piccoli spazi all’interno di una serata. Talvolta erano gli stessi clienti a chiedere determinati titoli che, se non avevo in valigetta, cercavo ed eventualmente acquistavo qualora fossero stati di mio gradimento.

L’avvento di house e techno, in seguito, mutò in qualche modo il pubblico delle discoteche?
Il pubblico si divise presto in base alle proprie preferenze: da un lato chi cercava DJ capaci di proporre musica non trasmessa dalle radio, dall’altro chi invece si accontentava dei DJ “da zibaldone”, che mettevano le hit del momento senza particolari doti tecniche e tantomeno legate alla selezione. Fu allora che, a mio avviso, l’attività del disc jockey conobbe un’ulteriore evoluzione che passò dal semplice mettere a tempo due dischi ad una figura più artistica fatta di gusto musicale e sensibilità. È troppo facile farsi apprezzare dal pubblico proponendo solo successi o, al giorno d’oggi, fare i fenomeni con set assemblati in modo perfetto grazie alla tecnologia.

01 - Monti one
Un recente scatto di Corrado Monti insieme alla sua collezione

In una breve intervista pubblicata a marzo 1997 dalla rivista Tutto Discoteca dichiari di aver raggiunto la popolarità al Concorde di Pistoia, «arrivando al punto di realizzare poster e cartoline come un autentico divo». Ritieni che, sulle lunghe distanze, la figura del “DJ superstar” si sia rivelata un’arma a doppio taglio perché ha giocato a svantaggio delle peculiarità un tempo intrinseche al DJing stesso?
Alla fine è il mercato a decidere. Un DJ può diventare superstar grazie al grande apprezzamento del pubblico, perché dispone di mezzi e conoscenze giuste o se sa vendersi bene. Io ho vissuto un buon periodo culminato, così come raccontavo in quell’intervista di ormai venticinque anni fa, da poster e cartoline, e in virtù di ciò non me la sento di giudicare. Per un certo periodo sono stato considerato un DJ di massa, in grado di riempire le piazze, ma non essendo un animatore non ho avuto vita lunga in tal senso. Non potevo assolutamente competere coi DJ-animatori del genere pop, dal canto mio davo più peso alla tecnica e alla scelta musicale e quando arrivarono nuovi generi mi sentii decisamente più a mio agio. La nascita della figura del vocalist poi mi esonerò dal parlare al microfono ma nel contempo mi fece uscire dalla dimensione del “DJ star” che firmava autografi, cosa che avveniva specialmente nel periodo in cui suonavo al Babylon di Capannoli e mettevo musica a Radio Valdera, ascoltatissima in Toscana. Spesso erano addirittura le mamme a venire sui palchi delle feste in piazza chiedendo il poster per le figlie ed io mi imbarazzavo, forse più di loro. C’è un aneddoto che vorrei raccontare per rendere ancora meglio l’idea di quanto fossi diventato popolare: era il periodo pasquale in cui i preti facevano il giro delle case per le benedizioni. Il parroco venne anche da me e, finito il rito, mi disse: «ma io ti conosco!». Gli risposi che mi sembrava strano, in quanto erano già diversi anni che non frequentavo la chiesa o gli oratori, ma a quel punto mi interruppe: «no no, ti conosco perché nelle camere delle ragazzine al posto dei crocifissi è appeso il tuo poster!».

Hai lavorato in centinaia di discoteche dello Stivale, dall’Insomnia al Covo Di Nord Est, dal Dadarà all’Illiria passando per l’Underground City, La Villa, il Madame Claude, il Domina, il Kama Factory, il Titanic, il Palace e il Mithos, giusto per citarne alcune, nonché in eventi simbolo del clubbing nostrano come Exogroove e Syncopate. Cosa resta oggi di quell’universo multicolore e multisuono? Perché il nuovo millennio ha visto il progressivo decadimento delle discoteche (soprattutto quelle più grandi) nonostante la musica elettronica sia entrata praticamente in ogni ambito?
Non saprei rispondere adeguatamente, sto cercando di rientrare nel giro e la pandemia mi ha impedito, nell’ultimo biennio, di riaffacciarmi al nuovo universo dei locali italiani. Tanti colleghi sostengono che ormai tutto è cambiato ma sono del parere che quell’euforia tipica degli anni Novanta iniziò a svanire già nei primi anni Duemila, non è quindi un fenomeno regressivo iniziato recentemente.

05 - dischi memorabilia
Il “disco trapano”, “Children” di Robert Miles e “Are You Insible” di Amazone

Scegli tre dischi che riportano la tua memoria ad altrettanti locali in cui hai suonato, spiegandone le ragioni.
Il primo era stampato su etichetta nera e vinile bianco. Anche la copertina era priva di qualsiasi riferimento. Quando lo mettevo all’Insomnia di Ponsacco venivano spesso in consolle per capire cosa fosse (“We Have Arrived” di Mescalinum United, Planet Core Productions, 1991, nda). In verità non era niente di così speciale, solo un rumore con cassa techno sotto. Lo ribattezzai “disco trapano” perché il noise sviluppato era davvero simile a quello di un trapano in funzione;
Il secondo è “Are You Invisible” di Amazone, uscito su Nova Zembla nel 1994. Fu il primo pezzo che misi al Kama Kama e quasi tremavo per l’emozione;
Il terzo è “Children” di Robert Miles (di cui parliamo qui, nda): forse fui tra i primi a suonarlo e lo mettevo così spesso al punto che tanti iniziarono a pensare che lo avessi fatto io. Una volta un tizio mi offrì da bere al bar (forse al Madame Claude in Piazza San Babila, a Milano) perché convinto che quel pezzo fosse il mio! Per non deluderlo non gli rivelai la verità ma era talmente su di giri che forse non se lo sarebbe neanche ricordato.

Hai dato avvio alla tua carriera da produttore discografico nel 1992 con “God” di Cody J., sulla Luxus Records, che prima rimaneggiava “The House Of God” di D.H.S. sul minimalismo di una Casio VL-Tone VL-1 (“God”), poi scombinava l’hoover sound di “Dominator” degli Human Resource (“Loose Controll”) ed infine, imprevedibilmente, virava verso paradisiache soluzioni house venate di jazz in “All Right”. Cosa ricordi di questo disco?
Essendo trascorsi ormai trent’anni le memorie sono davvero vaghe. Rammento di essere andato nello studio livornese di Diego Persi Paoli e Luigi Agostini in cui c’erano un campionatore, una tastiera, un computer e un masterizzatore CD della Marantz, forse la “macchina” più all’avanguardia tra tutte. In buona sostanza il disco era frutto di un puzzle di campionamenti da collegare e mischiare, sia per “God” che “Loose Controll”. Persi Paoli era un musicista e quindi, di comune accordo, decidemmo di fare un pezzo suonato dal vivo senza uso del campionatore allo scopo di dare un po’ di “anima” al tutto con un tocco umano, e così nacque “All Right”. Tutte le tracce comunque furono realizzate a mo’ di prove, non pensavo che qualche etichetta le avrebbe potute stampate sul serio. Fu una sorpresa decisamente inaspettata e la presi per tale, difatti con una copia realizzai un orologio da parete.

06 - le produzioni discografiche
Corrado Monti e le sue produzioni discografiche uscite negli anni Novanta

Nel corso degli anni Novanta intensifichi l’attività da produttore incidendo per etichette come Acid Milano, S.O.B., Tuscania Movement, Sushi (una delle label dell’American Records di cui parliamo qui) e Tabloid Trance, oltre a remixare “Everybody” di Ensaime per la Signal del gruppo Media Records. Consideri l’attività discografica un’appendice di quella da DJ? Sono due ruoli che possono viaggiare in parallelo oppure bisognerebbe fare un distinguo netto, perché saper far ballare il pubblico non equivale ad essere un asso in studio e viceversa?
Sono sincero: io e la tecnologia abitiamo da sempre su mondi differenti. I pezzi del mio repertorio nacquero da mie idee ma vennero sviluppati, di volta in volta, da chi sapeva usare le macchine in studio (come spiegato in questo ampio approfondimento, nda). Ritengo comunque che il DJing e l’attività discografica possano procedere di pari passo, non a caso ci sono personaggi diventati DJ solo perché hanno inciso produzioni importanti e, al contrario, ottimi DJ che invece hanno inciso pochissimo o proprio nulla. Adesso, per chi è sconosciuto e non ha alle spalle un background solido o un locale-vetrina, forse quello di buttarsi a capofitto nel mondo delle produzioni è l’unico modo per tentare di emergere dall’anonimato.

Quanto contava, ai tempi, affiancare al DJing l’attività in studio di registrazione? Essere ingaggiato da etichette discografiche di successo poteva fungere da volano per la propria carriera?
Certamente. Incidere un disco che superasse un certo numero di copie vendute dava senza ombra di dubbio uno slancio alla carriera e spesso riusciva persino ad aprire le porte dell’estero.

The Moab
Il disco di The Moab edito da Looking Forward nel ’93

Nel 1993, per la Looking Forward del gruppo LED Records guidato da Luigi Stanga intervistato qui, realizzi “Overtribe” di The Moab in coppia con Joy Kitikonti. Secondo i crediti, il concept fu di Marco Mottoi, a firmarlo per la SIAE invece fu Francesco Farfa. Fu quindi un lavoro di gruppo?
Il “conceived” riportato sul centrino fu oggetto di un qui pro quo: il disco avrebbe dovuto raccogliere anche una traccia tribale di un mio carissimo amico sardo, Marco Mottoi per l’appunto, ma alla fine quel pezzo fu escluso dalla stampa. Poiché le grafiche erano state già approntate, fu deciso di lasciarle così. Farfa (intervistato qui, nda) invece firmò i pezzi in SIAE perché, banalmente, né io né tantomeno Joy e Marco eravamo iscritti.

L’anno seguente, sempre con Kitikonti intervistato qui, remixi “I’m In Heaven” di Candice destinato ancora alla Looking Forward. Ci sono brani sui quali ti sarebbe piaciuto mettere le mani o produrre in quel periodo?
Non ho dubbi, in quei memorabili anni mi sarebbe piaciuto essere l’artefice di “Children” di Robert Miles, un successo planetario.

Hai mai remixato o composto musica con l’unico fine di proporla nelle tue serate senza pubblicarla in modo ufficiale?
Sì, seppur abbia iniziato piuttosto in ritardo rispetto ad altri colleghi, intorno ai primi anni Duemila quando andai a vivere in Sardegna e l’amico Marco Mottoi installò Reason sul mio PC. Con quel software realizzai qualche demo che poi suonai durante le serate.

L’ultimo tassello della tua carriera discografica risale al 2002, anno in cui la Presslab Records di Omar Neri pubblica “She Loves Sunshine” di Moody Mas. Hai accantonato l’attività in studio per qualche particolare ragione?
Fondamentalmente mollai perché mi trasferii in Sardegna, intenzionato a rimanerci per il resto della vita. Poi le vicissitudini mi hanno riportato in Toscana ma ormai avevo perso i contatti con amici e studi di registrazione. In seguito la morte di mia mamma e la nascita di mio figlio mi allontanarono del tutto dal mondo delle produzioni, volevo dedicarmi solo alla famiglia. Colgo però l’occasione per annunciare un possibile ritorno discografico in un futuro non lontano.

Escludendo il profilo tecnico soggetto ad ovvi upgrade, quanto e come è cambiato il DJing negli ultimi due decenni? Te la senti di fare previsioni sul prossimo futuro?
Io vengo dalla generazione che ha visto nascere i giradischi con la regolazione dei giri, quando iniziai avevo due Lenco con la rotella. Poi, per due decenni, non cambiò quasi nulla, sino all’avvento dei CDJ, seguiti dal “finto vinile” collegato al PC e dagli MP3. È stato tutto talmente veloce che non sono stato in grado di stare al passo coi tempi e sono rimasto al primo scalino, quello dei CDJ. Non nego che andare a suonare con una chiavetta USB sia decisamente meno faticoso e più pratico rispetto agli ingombranti e pesanti flight case ma in questo quadro manca tutta la poesia e il fascino che avevano i dischi, insieme alla memoria fotografica legata alla copertina o all’etichetta centrale. Adesso si fa davvero fatica a ricordarsi titoli ed autori, escono migliaia di tracce ogni settimana e fare ricerche è oggettivamente assai complicato. Futuro? Visti i tempi che viviamo spero solo ci sia la salute.

Estrai dalla tua collezione dieci dischi a cui sei particolarmente legato.

The Police - Reggatta De BlancThe Police – Reggatta De Blanc
Un LP del 1979 che include vari brani di reggae bianco. Tra i miei preferiti “The Bed’s Too Big Without You”, l’arcinota “Message In A Bottle” e “Walking On The Moon” trainata da quel bassone ed atmosfere dark, un pezzo che mi faceva venire i brividi e continua a farmi impazzire ancora adesso.

Sugarhill Gang - Rapper's DelightSugarhill Gang – Rapper’s Delight
Ancora un pezzo risalente alla fine degli anni Settanta. “Rapper’s Delight” è stato il 45 giri che accese in me la passione per l’hip hop che ascolto regolarmente ancora oggi. Ai tempi del liceo facevo francese così cercai qualche amico che, studiando invece la lingua inglese, potesse scrivermi il testo. Lo imparai a memoria senza conoscerne il significato, tranne qualche parola. Quando lo mettevo in discoteca spesso mi armavo di microfono e lo rappavo dal vivo. Nonostante siano trascorsi più di quarant’anni me lo ricordo ancora.

Pink Floyd - The WallPink Floyd – The Wall
Conoscevo già i dischi precedenti della band ma questo è irresistibile. Quando capita di ascoltarlo mi viene la pelle d’oca e certamente non a caso ne possiedo due copie. Rimasi affascinato dal fatto che tutti i brani della tracklist fossero legati tra loro con varie storie all’interno, come un’unica traccia. All’epoca vidi anche il film (“The Wall”, diretto nel 1982 da Alan Parker, nda) ed infatti appena arrivò eMule, una ventina di anni fa circa, uno dei primi file che scaricai fu proprio quello. Possiedo anche il 7″ di “Another Brick In The Wall” che suonavo in discoteca negli anni Ottanta perché in quella versione partiva con la cassa, soprattutto a fine serata nel cosiddetto “momento revival”, e con quello non rischiavo mai di deludere il pubblico. Mi piace tutto di quel disco, il basso, la chitarra, il cantato, i cori… e poi inevitabilmente nella mia memoria riappaiono le scene del film.

Tangerine Dream - ExitTangerine Dream – Exit
Grazie ai Tangerine Dream, nei primi anni Ottanta, partì il mio amore per la musica elettronica, spronato tanto da melodie ed armonie quanto dai suoni spaziali. “Exit” fu il primo LP che comprai della band fondata da Edgar Froese, Conrad Schnitzler e Klaus Schulze. Alcuni brani racchiusi all’interno, come “Choronzon” e l’omonimo “Exit”, li mettevo quando suonavo il sabato pomeriggio al Paco ma sul finire della serata, per i pochi afecionados ed amanti della cosiddetta “afro”. Curiosità: ad aprire il disco era la traccia intitolata “Kiew Mission” che sembra scritta oggi. La citazione dei vari continenti nasceva per scongiurare la minaccia nucleare che si temeva durante la Guerra Fredda. Gli stessi timori continuiamo a provarli ancora adesso, purtroppo.

Yellowman - Nobody Move Nobody Get HurtYellowman – Nobody Move Nobody Get Hurt
Un LP che mi fece scoprire ed appassionare al raggamuffin e che ho cercato a lungo dopo aver ascoltato alcune tracce di esso in una cassetta afro, probabilmente di TBC. In seguito ho ampliato la conoscenza ed ho acquistato altri album del giamaicano Winston Foster alias Yellowman che si prestavano perfettamente al DJing perché essendo incisi a 33 giri potevano essere suonati a 45. Aumentandone la velocità, i pezzi risultavano più accattivanti e funzionavano meglio in pista.

The Cure - Standing On A BeachThe Cure – Standing On A Beach
Uscita nel 1986, questa è una raccolta dei singoli più venduti durante la prima decade della carriera dei Cure. Menzione particolare per “A Forest”, uno dei miei brani preferiti da sempre, che peraltro mi ha ispirato nella produzione di una traccia contenuta nel mio “Triaxis” su Acid Milano ossia la Nocturnal Vibe In After Version. I Cure rientravano nella rosa di quelle band rock, new wave e punk, come Cult, Siouxsie & The Banshees, Smiths, U2 o Clash, a cui ricorrevo a fine serata per far pogare il pubblico, specialmente quello composto dai più scalmanati. La pista si apriva, la gente si metteva in cerchio ed apparivano i dark seguiti dai punk, ed era il finimondo.

Bruce & Bongo - GeilBruce & Bongo ‎- Geil
Un mix che comprai quasi per scommessa dopo uno scherzoso battibecco nato nel sopraccitato Magic Sound di Pontedera con un altro DJ e i titolari dello stesso negozio che ne dicevano peste e corna. Non che a me piacesse così tanto ma ero convinto che avrebbe funzionato alla grande. Alla fine la pista mi ha dato ragione e la stessa cosa avvenne anche per un singolo di Spagna, forse “Easy Lady”. Nessuno dei due ha conquistato il mio gusto personale ma non nego che servivano entrambi per riempire la pista.

Frankie Knuckles - Your LoveFrankie Knuckles – Your Love
Mi risulta difficile non citare Knuckles con uno dei brani che hanno fatto parte della mia carriera da DJ. “Your Love” mi piaceva perché era trasversale tra house ed elettronica, e fu il disco che usavo maggiormente per iniziare la serata dopo il preascolto. Da lì in poi partivo con l’house ma anche con la new beat e le prime cose techno che arrivavano in Europa. Mi è sempre piaciuto mescolare i vari generi, chiaramente lì dove la situazione lo permetteva, ed infatti nel corso degli anni Novanta amavo propormi sia in serate house che techno. Questo giovò non poco alle mie finanze, visto che non relegarmi esclusivamente ad un filone musicale mi diede la possibilità di moltiplicare il numero delle serate mensili.

Jaydee - Plastic DreamsJaydee – Plastic Dreams
Un altro disco che ho sfruttato davvero tanto è stato “Plastic Dreams” (di cui parliamo qui, nda). Lo amavo per le atmosfere che riusciva a creare e forse, inconsciamente, anche perché la tastiera suonata in quel modo mi ricordava il tocco di Ray Manzarek dei Doors, altra band a me particolarmente cara, col suo mitico Vox Continental.

Massive Attack - ProtectionMassive Attack ‎- Protection
Intorno alla metà degli anni Novanta si affacciò un nuovo genere musicale che mi investì come un tir in discesa senza freni, il trip hop. Rimasi ammaliato dai Portishead e da Tricky ma a stregarmi letteralmente furono i Massive Attack, prima con “Protection” e poi con “Mezzanine”. Quando abitavo a Milano andai ad un loro concerto che è rimasto indelebilmente impresso nella mia memoria. Da allora mi hanno accompagnato nei pre e nei post serate, la loro musica mi svuotava la mente e mi rilassava le orecchie. Da “Protection” e “Mezzanine”, tra l’altro, ho preso alcuni spunti che ho inserito in un paio di tracce del mio “The Bass EP”: campionai “Weather Storm” e “Dissolved Girl” rispettivamente per “Mental Bass” e “Massive Bass”.

(Giosuè Impellizzeri)

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Quando il remix batte l’originale

Di solito nella musica destinata alle discoteche le versioni originali restano imbattibili ma è capitato che a fare la differenza siano stati i remix, soprattutto negli anni Novanta quando tale pratica raggiunge probabilmente l’apice per esiti creativi e popolarità. A testimonianza ci sono brani noti unicamente attraverso i remix e di cui oggi è difficile recuperare le versioni originali, sepolte e dimenticate persino dagli stessi autori. L’articolo di Giosuè Impellizzeri che segue si pone il fine quindi di riassumere quanto avvenuto grazie ai remix nel decennio compreso indicativamente tra il 1990 e il 2000, sia a hit da milioni di copie che a brani dal successo più contenuto, per offrire al lettore un vero viaggio immersivo che conta oltre cento casi, in rigoroso ordine alfabetico e a cavallo dei generi più disparati, dall’eurodance alla house, dalla trance alla progressive. Non manca qualche particolare episodio in cui sarebbe più pertinente parlare di rivisitazione o dove il termine remix è stato usato in modo improprio. L’indagine evidenzia inoltre il ruolo tutt’altro che marginale rivestito dagli italiani, artefici in più di qualche sporadica occasione di autentiche hit mondiali. Il tutto senza la pretesa di essere esaustivo, probabilmente è utopico stilare una lista omnicomprensiva e per turare le falle della ricerca non è escluso che nel corso del tempo possano aggiungersi altri titoli e quindi nuove storie e testimonianze.

49ers - Baby, I'm Yours49ers – Baby, I’m Yours
La versione iniziale di “Baby, I’m Yours”, in chiave hi nrg, è pensata per essere esportata nel mercato orientale, quello a cui la Media Records destina diverse produzioni raccolte sotto il brand Media Sound For Japan. Il caso però vuole che Mario Scalambrin senta il pezzo negli studi roncadelliani e si offra spontaneamente per reinterpretarlo. A venir fuori è la versione più nota, la Van S Hard Mix (il Van è un tributo ad Armand Van Helden, la S invece sta per Scalambrin), completamente diversa da quella di partenza, col cantato di Ann-Marie Smith ridotto all’osso ed uno spingente giro di basso. «All’inizio non piacque a Bortolotti tanto che dovetti insistere parecchio per farla inserire sul 12″» racconta lo stesso Scalambrin in questa intervista. Finito alla fine del ’96 nel catalogo della Heartbeat, etichetta a cui abbiamo dedicato una monografia qui, “Baby, I’m Yours” rilancia il nome dei 49ers dopo alcuni pezzi passati inosservati soprattutto in Italia come spieghiamo qui ed apre un’elettrizzante fase per Scalambrin, A&R in carica della citata Heartbeat e da lì a breve autore (insieme a Roberto Guiotto) della versione più forte di “Gipsy Boy” di Sharada House Gang, una miscellanea tra “Hideaway” di De’Lacy e i suoni della sua reinterpretazione di “Baby, I’m Yours”.

740 Boyz - Shimmy Shake740 Boyz – Shimmy Shake
In scia alla rinnovata formula hip house in grande spolvero dopo i fasti iniziali sviluppati a Chicago, i 740 Boyz prodotti da Winston Rosa debuttano nel ’92 con “It’s Your Party”. Due anni più tardi arriva “Shimmy Shake” in stile miami bass, passato completamente inosservato. A cambiare le sorti del brano, nei primi mesi del 1995, è il remix realizzato in Italia da Costantino ‘Mixmaster’ Padovano e Ciro Sasso che lo stravolgono interamente ispirandosi in modo piuttosto palese allo stile degli Outhere Brothers, team chicagoano che in quel periodo si impone in Europa con diverse hit. Un autentico colpaccio per la Cutting Records dei fratelli Aldo ed Amado Marin che, archiviata l’electrofunk di Hashim, Imperial Brothers e Nitro Deluxe, vive una seconda giovinezza grazie ai 2 In A Room con “Wiggle It” ed altri fortunati singoli come “El Trago (The Drink)”, “Ahora! (Now!)”, “Giddy Up” e “Carnival” a cui i 740 Boyz (più avanti remixati anche da Fargetta, si senta “Party Over Here” del 1996) fanno da cornice.

Age Of Love - The Age Of LoveAge Of Love – The Age Of Love
Nel 1990 nessuno alla DiKi Records immagina cosa sarebbe diventato questo brano nel corso del tempo. Prodotto dall’italiano Bruno Sanchioni che assembla vari sample (tra cui quelli di “Native House” di MTS And RTT e “Native Love (Step By Step)” di Divine) a cui aggiunge una breve parte vocale femminile registrata ad hoc ed uno pseudo rap maschile scritto ed interpretato da un altro italiano, Giuseppe Chierchia meglio noto come Pino D’Angiò, “The Age Of Love” si trasforma in uno dei primi prototipi trance. Ai tempi della pubblicazione totalizza appena una manciata di licenze e circa duemila copie, soglia davvero risibile. La situazione si ribalta due anni più tardi quando, su iniziativa dell’etichetta britannica React, “The Age Of Love” viene remixata dall’emergente duo tedesco Jam & Spoon. La Watch Out For Stella Club Mix, come descritto in questo articolo, rimette tutto in discussione attraverso una schematizzazione diversa degli elementi di partenza che esalta il potere ipnotico dell’originale raggiungendo esiti virtuosistici inaspettati. Ad oggi è difficile stabilire con precisione quante copie siano state vendute ma, considerando la sfilza di remix e ristampe giunte sul mercato in circa un trentennio, è ipotizzabile stimarne oltre un milione.

AK Soul - FreeAK Soul – Free
Col fine di tornare al successo raccolto tra 1991 e 1993 con gli Euphoria, l’australiano Andrew Klippel si ribattezza prima Elastic e poi AK Soul. I primi tentativi sono vani ma è solo questione di tempo. Un suo pezzo intitolato “Free”, incluso nell’album omonimo in circolazione dal 1996 ed interpretato da Jocelyn Brown, stuzzica l’interesse di Joe T. Vannelli che lo prende in licenza dalla Festival Records e lo pubblica su Dream Beat prima coi remix (house) di Marco ‘Polo’ Cecere e poi con quello (eurodance) di Fargetta, particolarmente fortunato nel mainstream nostrano. Spazio anche a due reinterpretazioni dello stesso Vannelli, la Club Mix e la Corvette Mix (Corvette è il nome con cui in quegli anni il DJ sigla decine di remix tra cui quelli di “Return Of The Mack” di Mark Morrison, “Love Shine” di Rhythm Source, “Nite Life” di Kim English e “Looking At You” dei Sunscreem). Impreziosito da tutto ciò, nei primi mesi del 1998 “Free” esce dall’anonimato e vive un’ottima parabola europea a cui la Dream Beat cerca di dare un continuum attraverso i remix di un altro pezzo dell’album, “Show You Love”, ma raggiungendo inferiori risultati.

Amos - Only Saw TodayAmos – Only Saw Today
Collaboratore di vecchia data di Boy George, nella primavera del 1994 Amos Pizzey vive uno dei momenti più esaltanti della carriera. La More Protein, nata nel 1989 con “Everything Begins With An ‘E'” degli E-Zee Possee, un classico dell’acid house britannica, pubblica “Only Saw Today”, un brano house che Pizzey produce insieme ad Andronicus dei Diss-Cuss e in cui campeggia un sample di “Instant Karma!” di John Lennon. All’inizio la Murder Mix incuriosisce solo i DJ specializzati ma a mutare le sorti è il remix realizzato in Italia dal Factory Team composto per l’occasione da Fabio Serra, Mauro Farina e Johnny Di Martino che trasformano la house in eurodance, rendendo accessibile al grande pubblico ciò che invece è riservato ad una ristretta nicchia di ascoltatori. Visto il successo internazionale la versione approntata negli studi della Saifam, a Verona, viene scelta per sincronizzare il videoclip. Il Factory Team metterà mano pure ai successivi “Sweet Music” e “Let Love Shine” ma con esiti calanti.

Andreas Dorau - Girls In LoveAndreas Dorau – Girls In Love
Finito nelle classifiche nel 1981 con “Fred Vom Jupiter” realizzato quando è ancora adolescente, il musicista tedesco Andreas Dorau scrive musica per film e si interessa di video. Negli anni Novanta collabora con Tommi Eckart col quale realizza il brano “Girls In Love”. La versione originale, aperta dall’urlo preso da “Scream For Daddy” di Ish Ledesma, inclusa nell’album “70 Minuten Musik Ungeklärter Herkunft” ed accompagnata dal relativo videoclip è un’allegra canzoncina da intonare sotto la doccia. In Italia però ad avere la meglio è il remix di Wolfgang Voigt alias Grungerman. Riducendo la struttura e gli elementi al minimo indispensabile, il prolifico produttore di Colonia, co-fondatore della nota Kompakt, ottiene una traccia meno pop e scanzonata che però riesce incredibilmente a fare crossover tra le discoteche specializzate e le radio. Autentico collante tra la compassata griglia ritmica e le strofe in lingua tedesca è il ritornello, in inglese, ricavato da “Girl’s In Love” di Shirley Kim del ’78 e reinterpretato da Inga Humpe, che qualche anno più tardi forma col citato Eckart il duo 2raumwohnung. A pubblicare in Italia i remix di “Girls In Love” (ma escludendo la versione originale) è la PRG del gruppo Expanded Music. Parti del remix di “Girls In Love” si ritroveranno in un pezzo prodotto nella nostra penisola che, tra la fine del 1997 e il primi mesi del 1998, si afferma sulla piazza internazionale, “Repeated Love” di A.T.G.O.C., acronimo di A Thousand Girls One Condom.

Ayla - AylaAyla – Ayla
Praticamente sconosciuto in Italia ma non nel nord Europa dove vende svariate migliaia di copie, “Ayla” è il brano con cui, nel 1996, il tedesco Ingo Kunzi, già noto come DJ Tandu, inaugura un nuovo corso della sua carriera da produttore. Edita dalla Maddog del gruppo Intercord, la versione originale della traccia plana su incantati pad a cui si sovrappone, in progressione, una melodia di pianoforte. Poi arriva l’onda acida della TB-303 che si infrange portando schegge taglienti ed arroventate. A fare la differenza nelle classifiche è però il remix di Ralph Armand Beck alias Taucher in cui viene sviluppata una linea melodica più marcata che garantisce un’incredibile longevità ulteriormente riverberata dal remake di Kosmonova giunto nel 1997. A cimentarsi in un rifacimento è pure l’italiano Luca Moretti in “Ayla” su Italian Style Production, firmato come Sunrise nel 1998. Alla luce del successo ottenuto, Kunzi produrrà “Ayla Part II” avvalendosi del supporto di Taucher e dell’inseparabile Torsten Stenzel intervistato qui.

Azzido Da Bass - Dooms NightAzzido Da Bass – Dooms Night
Nel 1999 è la Club Tools del gruppo Edel a pubblicare il brano con cui il tedesco Ingo Martens materializza il progetto Azzido Da Bass. La Club Mix, prodotta ed arrangiata con Stevo Wilcken, è trance assemblata senza particolari doti creative e che rasenta la banalità per stesura e scelta di suoni (basso in levare, cassa con riverbero, accenni acid, melodia monocorde ed un sample estorto ad una hit di quell’anno, “Flat Beat” di Mr. Oizo). Tra i remix commissionati e pubblicati in seguito però ce n’è uno che cambia tutto, quello di Timo Maas (affiancato da Andy Bolleshon e Martin Buttrich), che trasforma Azzido Da Bass in una star internazionale con una soglia stimata di circa un milione di copie vendute. «Il primo remix che realizzammo di “Dooms Night” fu rifiutato dalla Edel perché all’interno non c’era nessun elemento tratto della traccia originale» racconta Maas in questa intervista. «Riprovammo usando solo il basso e dopo circa quattro ore il secondo remix, quello che oggi tutti conoscono, era pronto. Il primo lo riciclammo qualche tempo dopo e divenne la mia “Ubik”». Una cosa simile avviene anche in Italia giusto un paio di anni prima: il remix di “Back To The 70’s” di Carl si trasforma in “Disco Fever” di Carl Feat. Music Mind, così come lo stesso Fanini svela qui.

Basic Connection - Hablame LunaBasic Connection – Hablame Luna
Corre il 1996 quando la No Colors, etichetta del gruppo F.M.A., pubblica il 12″ di debutto di Basic Connection. Ad armeggiare dietro le quinte del progetto è il compositore e musicista Mauro Tondini, uno dei Tipinifini scritturati da Claudio Cecchetto per la sua Ibiza Records nel 1985, affiancato dalla vocalist Daniela Gorgoni. Il brano si intitola “Faithless (Hablame Luna)” ed è quasi interamente strumentale. L’Original Mix gira su un intensivo arpeggio che pare tributare “Where The Street Have No Name” degli U2 (proprio quell’anno ripreso in “Landslide” dagli Harmonix, sull’esempio offerto dall’australiano Mystic Force nel brano omonimo del ’94 a cui si ispirano pure Mario Più e Mauro Picotto per “No Name” nel ’97) mentre la Progressive Mix si adagia sull’annunciata formula progressive con tanto di graffiate acide che nel ’96 tiene banco in Italia spodestando l’eurodance nella sua forma più classica. “Faithless (Hablame Luna)” si perde nel marasma delle produzioni simili piombate quell’anno ma tutto cambia nell’autunno del 1997 quando riappare in una nuova versione, questa volta sviluppata sulla song structure ed intitolata “Hablame Luna”. Ridotta la componente progressive in favore di quella pop, il pezzo esplode in tutta Europa, trainato dal relativo videoclip in heavy rotation su MTV. Sul 12″ c’è pure il remix firmato da uno dei guru della house statunitense, Todd Terry, forse pensato per introdurre i Basic Connection in una scena parallela a quella pop ma in questo caso non determinante per il successo come invece avvenuto in altre occasioni.

Billie Ray Martin - Your Loving ArmsBillie Ray Martin – Your Loving Arms
A produrre “Your Loving Arms”, estratto come primo singolo da “Deadline For My Memories”, sono i Grid (quelli di “Texas Cowboys”) e il musicista David Harrow alias James Hardway. È proprio quest’ultimo ad approntare la base su cui la cantante, ex componente degli Electribe 101, scrive il testo. «Conservo ancora la cassetta su cui Hardway incise il demo, sopra c’era scritto “little techno demo”» racconta Billie Ray Martin in questa intervista. La versione più nota però non è l’Original, con arrangiamenti tangenti l’eurodance, bensì la Soundfactory Vocal realizzata da Junior Vasquez, che fa di “Your Loving Arms” una hit mondiale da circa due milioni di copie. «Non scelsi Vasquez personalmente ma fui entusiasta del suo lavoro» prosegue l’artista. «Senza il suo intervento il disco non sarebbe diventato quello che è stato».

Black Connection - Give Me RhythmBlack Connection – Give Me Rhythm
Black Connection è il progetto dietro cui operano i DJ capitolini Corrado Rizza e Gino ‘Woody’ Bianchi affiancati dal musicista Domenico Scuteri. Il nome sottolinea l’amore che gli autori nutrono per il funk, il soul e la musica black in generale. Nel 1997 realizzano, per la loro Lemon Records, il brano “Rhythm”, in cui figurano vari campioni vocali e ritmici presi dal mondo del philly sound. Quando Alex Gold dell’Xtravaganza Recordings si mostra interessato a licenziare il brano nel Regno Unito i tre decidono però di apportare delle modifiche e chiedono ad Orlando Johnson di scrivere un testo e cantarlo col fine di dare al risultato finale un’impronta più pop. Dopo queste variazioni la traccia viene reintitolata “Give Me Rhythm” ed affidata ai Full Intention che realizzano un nuovo remix che va ad affiancare quello di Victor Simonelli già presente sulla prima tiratura. A quel punto, come Corrado Rizza racconta in questo articolo, «il pezzo entrò nella classifica britannica e venne suonato da tutte le radio. Pete Tong lo inserì nella sua raccolta annuale, “Essential Selection – Spring 1998” e finì in tante altre compilation come quella del tour australiano del Ministry Of Sound e quella dello Space di Ibiza. Nei club dell’isla blanca divenne una vera hit! In Italia lo cedemmo alla VCI Recordings, divisione dance della Virgin che si fece avanti dopo il clamore suscitato oltremanica». Per i Black Connection, dunque, si rivela propizia la scelta di far cantare il brano ed è simile la sorte di altri pezzi commercializzati in forma strumentale ma diventati successi con la versione cantata, da “Needin’ You” di David Morales/The Face ad “Horny” di Mousse T., da “Right On!” dei Silicone Soul a “Da Hype” di Junior Jack passando per “Hindu Lover” di Djaimin, “Groovejet” di Spiller e “Jambe Myth” degli Starchaser.

Blackwood - Ride On The RhythmBlackwood – Ride On The Rhythm
Attivo sin dal 1992 ma più noto all’estero che in Italia, il progetto Blackwood si impone anche in patria alla fine del 1996 con “Ride On The Rhythm”. Scritto ed interpretato dalla vocalist americana Taborah Adams e prodotto da Toni Verde e Sandro Murru, il brano non sortisce grandi risultati con la prima tornata di remix tra cui quello di Marascia scopiazzato dal trattamento dei Deep Dish su “Hideaway” dei De’Lacy. Va diversamente però quando arriva la versione di Alex Natale, composta sulla falsariga del remix realizzato pochi mesi prima per “What Goes Around Comes Around” di Bob Marley, usata per il videoclip e cruciale per il successo. Il momento è galvanizzante per l’etichetta romana A&D Music And Vision che per un biennio circa continuerà a scommettere su Blackwood ed altri progetti complementari come Chase e Gate.

Blast - Crayzy ManBlast – Crayzy Man
Partiti nel 1993 col poco noto “Take You Right”, i siculi Blast (Fabio Fiorentino, Roberto Masi e il cantante Vito De Canzio alias V.D.C.) si impongono a livello internazionale l’anno dopo con “Crayzy Man”, oggetto di numerose licenze estere, Regno Unito e Stati Uniti inclusi. Sul 12″ edito dalla napoletana UMM la versione originale del brano, la Club On Blast, finisce sul lato b. A prevalere è il remix realizzato dai Fathers Of Sound (Gianni Bini e Fulvio Perniola) che traina il pezzo dalle discoteche specializzate alle classifiche radiofoniche e di vendita. «Con la loro versione chiamata F.O.S. In Progress i Fathers Of Sound stravolsero l’originale dotandola di sonorità più aperte e tipiche della house internazionale» afferma De Canzio in questa intervista qualche anno fa. «Riuscirono a valorizzare ulteriormente le nostre idee portando il brano ad un livello superiore, facendolo uscire dai confini della house da club traghettandolo nel mondo commerciale (nel senso positivo del termine), con un appeal vendibile e radiofonico». A supporto di “Crayzy Man” è pure il video girato al cretto di Burri e sincronizzato sulla F.O.S. In Progress. Saranno sempre i Fathers Of Sound a mettere mano al follow-up, “Princes Of The Night” mentre a “Sex And Infidelity” del ’95 ci penseranno gli svedesi StoneBridge e Nick Nice e i Ti.Pi.Cal. che, come i Blast, sono originari dell’isola della trinacria.

Bloodhound Gang - The Bad TouchBloodhound Gang – The Bad Touch
Corrono i primi mesi del 2000 quando la band indie rock statunitense Bloodhound Gang si ritrova proiettata inaspettatamente nell’eurodance. Ciò avviene attraverso il remix di un brano estratto dal terzo album “Hooray For Boobies”, pubblicato nel ’99 dalla Geffen e in circolazione attraverso un ironico videoclip. A dirla tutta la versione originale mostra già propaggini ballabili ma il trattamento riservato ad essa dagli Eiffel 65, ovviamente sullo schema di “Blue (Da Ba Dee)”, ne amplifica la portata sino a farne un classico proposto ancora oggi a distanza di oltre vent’anni. Per Lobina, Ponte e Randone è un momento magico sancito da decine di remix e dall’uscita del loro primo album, “Europop”, per cui pare la Universal abbia sborsato 500.000 dollari per assicurarsi i diritti.

Bob Marley - What Goes Around Comes AroundBob Marley – What Goes Around Comes Around
Così come riportato nelle note del 12″ e del CD su JAD Records, le parti vocali di “What Goes Around Comes Around” vengono registrate in Jamaica nel 1967 ma restano nel cassetto sino al 1996, anno in cui sul mercato arrivano diverse versioni come quelle di Fabian Cooke e di Christopher Troy e Zack Harmon. A fare la differenza però, senza timore di smentita, è quella realizzata in Italia da Alex Natale (affiancato da Alex Baraldi con cui l’anno dopo mette mano a “Oh What A Life”, un inedito di Gloria Gaynor), diventata una hit estiva. A pubblicare da noi “What Goes Around Comes Around” è la Dance Factory del gruppo EMI che, parimenti alla JAD Records, sottolinea l’inedicità del pezzo apponendo la dicitura “previously unreleased” in copertina. Natale e Baraldi ci riprovano l’anno seguente ritoccando “Fallin’ In & Out Of Love” ma non riuscendo nel difficile compito di eguagliare i risultati. Va meglio invece a “Sun Is Shining”, riconfezionata nel 1999 dal danese Funkstar De Luxe. Ps: tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97 un altro protagonista del reggae finisce in classifica con un remix, il giamaicano Jimmy Cliff. A curare la nuova versione di “Breakout” sono i fratelli Visnadi.

Bobby Brown - Two Can Play That GameBobby Brown – Two Can Play That Game
Ex componente dei New Edition, Bobby Brown si costruisce una solida carriera solista sin dal 1986, anno in cui debutta con “Girlfriend”. Svariati i successi incisi nel corso del tempo tra cui “My Prerogative” (remixato da Joe T. Vannelli), “Every Little Step”, “Something In Common”, duettando con la moglie Whitney Houston, e “Two Can Play That Game”, presente nella tracklist del suo quarto album, “Bobby”, uscito nel 1992. Il remix che consegna il brano r&b alla storia però arriva due anni dopo ed è firmato dai britannici K-Klass, abili nel ricostruire la tessitura ritmica in cui trova ricollocazione la voce di Brown. Il videoclip, programmatissimo da MTV, funge da propellente per la diffusione del pezzo finito nella top ten dei singoli più venduti nei Paesi Bassi e nella top twenty nel Regno Unito. In Italia il disco giunge nel 1995 grazie alla ZAC Records su licenza MCA. Negli advertising pubblicitari l’artista viene definito, con non poca esagerazione ed immodestia, “il re della dance music”.

B-Zet - Everlasting PicturesB-Zet – Everlasting Pictures
All’anagrafe è Steffen Britzke ma il mondo della musica lo conosce come B-Zet. Artefice, insieme a Matthias Hoffmann, Ralf Hildenbeutel e Sven Väth, di progetti come Mosaic, Odyssee Of Noises e They, il tedesco veste i panni di B-Zet dal 1993, anno in cui pubblica il primo album da solista, “Archaic Modulation”. I suoi interessi primari risiedono nella trance e nell’ambient, i due filoni entro cui si inscrive il brano “Everlasting Pictures (The Way I See)”, incluso nel secondo album intitolato “When I See…” e in cui si apprezza una breve parte cantata da Darlesia Cearcy. Nella tracklist dell’LP edito da Eye Q esiste una seconda versione, “Everlasting Pictures (Right Through Infinity)”, con maggiori concessioni al downtempo ed alla song structure. Nell’autunno del 1995 a decretare la fortuna di Britzke, riconosciuto come straordinario tastierista, è proprio uno dei remix di “Everlasting Pictures – Right Through Infinity”. A firmarlo sono StoneBridge e Nick Nice che continuano a riciclare la formula utilizzata per un altro epocale remix di cui si parlerà più avanti, quello di “Show Me Love” di Robin S.

Cappella - U Got 2 Let The MusicCappella – U Got 2 Let The Music
Quello dei Cappella è un caso non legato propriamente a un remix bensì a una reinterpretazione di un pezzo preesistente. Tutto ha inizio nel 1992 quando la Aries Records pubblica “Let The Music” di Legend, un brano eurodance costruito sul riff preso da “Sounds Like A Melody” degli Alphaville e un frammento vocale di “Let The Music Take Control” dei J.M. Silk. A produrlo è Pierre Feroldi, DJ bresciano particolarmente prolifico allora, seppur sulla white label promozionale, si dice limitata a una tiratura di poche decine di copie, non vengano riportate molte informazioni. Nell’autunno dell’anno dopo la rielaborazione del brano riappare sulla Media Records diventando la hit planetaria dei Cappella. «Due transfughi della Media Records tentarono di mettersi in proprio fondando una nuova etichetta, la Aries, ma si ritrovarono in seria difficoltà pochi mesi dopo essersene andati» racconta Gianfranco Bortolotti in questa intervista del 2015. «Pentiti della loro fuga, mi pregarono di aiutarli e salvarli dal fallimento così affidai il compito a Vicky, la figlia del mio socio Diego Leoni, di gestire quell’azienda mentre chiudevamo i rapporti coi fornitori e i creditori e valutavamo il prodotto ereditato. Tra i brani che avevano realizzato ne scovai uno che mi colpì e, seppur i miei collaboratori più stretti mi criticarono a lungo convinti che l’idea non avrebbe sortito buoni risultati, decisi che quello dovesse essere il punto di partenza per il follow-up di “U Got 2 Know” dei Cappella. Così, dopo circa quindici/venti rimaneggiamenti, trovai la soluzione, il mixaggio adeguato, l’alchimia giusta e fu un massacro, top in tutto il mondo». Delle tantissime versioni di “U Got 2 Let The Music” approntate negli studi a Roncadelle, la KM 1972 Mix di Pagany è quella più nota ed efficace. Analogamente a Cappella, anche altri brani trovano fortuna attraverso rielaborazioni: si segnalano “Technotronic” di The Pro 24’s da cui nasce “Pump Up The Jam” dei Technotronic, “Babe Babe” di Joy & Joyce e “Try Me Out” di Lee Marrow, diventati rispettivamente “Baby Baby” e “Try Me Out” di Corona, “Don’t You Worry” di Caminita Feat. Lorena Haarkur ricostruito per generare “Don’t Worry” di Clutch e “Get Together” di DJ-@K Floyd Presents Spotlight Avenue trasformata in “Move Your Feet” di Jack Floyd (parliamo dettagliatamente di entrambe qui e qui), “Future Love” di Brahama premiata quando diventa “Future Woman (Future Love)” di Brahama / Rockets e “Mutation” di Pivot convertita, ma pare senza alcun intervento, nella Stromboli Mix di “Sicilia…You Got It!” firmata Tony H.

Ce Ce Peniston - FinallyCe Ce Peniston – Finally
Quando il produttore Manny Lehman sente la voce della Peniston in alcuni brani di Overweight Pooch chiede al DJ Felipe Delgado, che pare avesse spronato l’amica cantante a collaborare con la rapper, di preparare un pezzo ad hoc per lei. A sua volta Delgado interpella un amico, Rodney Jackson, ed insieme approntano la versione originale di “Finally”. Per la A&M Records è un successo quasi istantaneo, la canzone entra nella Hot 100 di Billboard rimanendoci per ben 33 settimane e raggiungendo la quinta posizione il 18 gennaio 1992. A supporto giunge un remix che porta la giovane nativa di Dayton, in Ohio, a sfiorare la vetta della classifica di vendita dei singoli nel Regno Unito. Artefice è David Morales, l’anno prima all’opera su “Deep In My Heart” dei nostri Club House, che realizza la Choice Mix ispirato dal riff di pianoforte di “Someday”, successo di Ce Ce Rogers del 1987 prodotto da Marshall Jefferson. Da Ce Ce (Rogers) a Ce Ce (Peniston) è un attimo.

Cenith X - FeelCenith X – Feel
Dietro Cenith X c’è Achim Schönherr, compositore presumibilmente tedesco che nel 1995 debutta con “Feel”. La versione originale del pezzo incisa sul lato b, la SMP-Club Mix, scorre su layer di hammond e pianoforte, elementi tipicamente house ma per l’occasione piantati su una base ritmica a velocità sostenuta. A fare da collante tra le parti è un breve campione vocale femminile da cui deriva il titolo del brano. La 3 Lanka che pubblica il disco però scommette tutto sul remix realizzato dai Legend B (Peter Blase e Jens Ahrens), costruito sulla falsariga della loro “Lost In Love” uscita pochi mesi prima. È proprio questa versione, diventata un classico dell’hard trance, ad essere sincronizzata col videoclip e a decretare il successo in patria e in altri Paesi europei, Italia inclusa dove “Feel” gode del supporto di Molella nella prima edizione del programma Molly 4 DeeJay di cui parliamo qui. A licenziarla da noi è la Discomagic che la convoglia su una delle sue innumerevoli etichette, la Hard Dance. Sul 12″ c’è pure un secondo remix a firma CZ 101, stilisticamente più affine alla versione di Schönherr.

Charlie Dore - Time Goes ByCharlie Dore – Time Goes By
Attrice, musicista e cantautrice pop/folk, la britannica Charlie Dore incide dischi sin dal 1979 col supporto della Island. Nel corso del tempo scrive prevalentemente per artisti di alto calibro come Tina Turner e Celine Dion (è suo il testo di “Refuse To Dance”, da “The Colour Of My Love” del ’93) ma non perde mai la voglia di riproporsi come interprete ed infatti nel 1995, a quattordici anni dal precedente, incide il terzo album, “Things Change”. All’interno, tra le altre, c’è “Time Goes By” che nella sua versione originale passa totalmente inosservata. Sono gli italiani Souled Out a stravolgere le sorti della canzone, data in pasto al popolo che anima le discoteche tra la fine del ’96 e l’inizio del ’97. Il successo è tale da richiedere anche un videoclip. La Bustin’ Loose Recordings, ai tempi guidata dall’A&R Stefano Silvestri, completa il quadro con ulteriori versioni affidate ad altri remixer di pregio tra cui Mike Delgado, Ivan Iacobucci e i fratelli Visnadi.

Chase - Stay With MeChase – Stay With Me
Come avvenuto a Blackwood, anche i primi anni del progetto Chase sono legati al “nemo propheta in patria”. Con “Obsession” però, inizialmente pubblicato con l’omonimo nome artistico e prodotto in scia al remix di “Missing” degli Everything But The Girl (da cui trae, oltre ad un sample ritmico, pure l’atmosfera tra romantico e malinconico), anche l’Italia cede al progetto eurodance che spopola tra la primavera e l’estate ’97. Da quel momento voce ed immagine vengono affidate alla cantante Cindy Wyffels. La fortuna di “Stay With Me”, uscito in autunno, risiede nel remix realizzato dagli stessi autori, Toni Verde e Sandro Murru, affiancati da Marascia, che puntano alla miscela del precedente così come vuole la ricetta del classico follow-up. La versione originale invece è una ballata pop rock, inserita nell’album “Barefoot” ma poco nota al grande pubblico. Anche per il singolo seguente, “Gotta Lot Of Love”, uscito ad inizio ’98, è determinante il remix questa volta affidato a Mario Fargetta coadiuvato in studio da Graziano Fanelli e Max Castrezzati.

Chicane - OffshoreChicane – Offshore
Gran Bretagna, 1996: Nicholas Bracegirdle è un musicista venticinquenne con studi classici maturati alle spalle ma attratto sin dall’infanzia dall’elettronica di compositori come Vangelis, Jean-Michel Jarre o Harold Faltermeyer e di gruppi come Yazoo. Durante la rave age scocca la scintilla per la nuova dance grazie ad “Anthem” degli N-Joi: «era una traccia ballabile con fantastici cambi di tonalità e melodia» spiega in un’intervista a Top Magazine ad aprile del 2000. Nel suo futuro però c’è musica piuttosto diversa da quella degli N-Joi, più rilassata, distesa e sognante, impregnata di una sorta di romanticismo misto a malinconia. «Tutto nasce dalle lunghe vacanze estive che trascorrevo coi miei genitori da bambino» spiega ancora in quell’intervista. «Ero sempre l’ultimo in spiaggia, quello che non voleva mai andarsene quando la bella stagione finiva. Credo di essermi sempre portato dietro questa sensazione di malinconia». È quell’atmosfera a contraddistinguere i suoi primi lavori discografici tra cui “Offshore EP #1”, uscito nel ’96 sull’etichetta pare creata dallo stesso autore, la Cyanide. Uno dei quattro brani racchiusi all’interno dell’extended play e prodotti in coppia con Leo Elstob è “Offshore”, crocevia tra contorte porzioni ritmiche breakkate e melodie che disegnano paesaggi incontrastati, ispirate da “Love On A Real Train” dei Tangerine Dream e “The Boys Of Summer” di Don Henley. Realizzata con modesti mezzi, inizialmente la traccia desta poca attenzione perché poco ballabile e quindi scarsamente utilizzabile in discoteca se non in particolari situazioni, quelle gergalmente dette “da decompressione”. La situazione viene capovolta però da un remix realizzato dagli stessi Bracegirdle ed Elstob nascosti dietro il nome Disco Citizens, pseudonimo con cui avevano già firmato “Right Here Right Now” l’anno prima per la Deconstruction. Ora dotato di un impianto ritmico in 4/4, “Offshore” viene acquisito dalla neonata Xtravaganza Recordings di Alex Gold e volta alto nelle classifiche di tutto il mondo (Stati Uniti inclusi) col suo carico “chill-trance”, ulteriormente riverberato in un videoclip sincronizzato proprio sul remix. Nel 1997 viene ufficializzata anche la versione cantata, realizzata a mo’ di mash-up dal DJ australiano Anthony Pappa incrociando la base del remix di “Offshore” all’acappella di “A Little Love A Little Life” dei Power Circle. Questa rivisitazione conquista il pubblico britannico e finisce anche nella tracklist del primo album di Chicane, “Far From The Maddening Crowds”, insieme ad altri singoli estratti, “Sunstroke”, “Red Skies” e “Lost You Somewhere”. Per Bracegirdle è solo l’inizio di una sfolgorante carriera che tocca l’apice tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila grazie a “Saltwater”, rilettura di “Theme From Harry’s Game” dei Clannad, e “Don’t Give Up” che vanta un featuring d’eccezione, quello di Bryan Adams.

CJ Bolland - Sugar Is SweeterCJ Bolland – Sugar Is Sweeter
Estratto dall’album “The Analogue Theatre” del 1996, lo stesso da cui proviene “The Prophet”, “Sugar Is Sweeter” è il brano in cui l’autore condensa una breakbeat rabbiosa ed intensa, sullo stile di “Poison” dei Prodigy a cui pare essersi ispirato scatenando peraltro le ire dei fan del gruppo di Liam Howlett. Il pezzo di Bolland non ha la forza di diventare trasversale però avviene comunque qualcosa che ne cambia gli esiti. Col suo remix, Armand Van Helden sostituisce la radice della traccia spostandola dalle sincopi del breakbeat alle misure quaternarie della house, nonostante il nome della versione, Drum ‘n Bass Mix, faccia pensare ad altro. Un ruolo più marginale spetta alla parte vocale della belga Jade 4 U a cui spetta un trattamento simile a quello riservato a Tori Amos e la sua “Professional Widow” di cui si parla più avanti.

Cornershop - Brimful Of AshaCornershop – Brimful Of Asha
Similmente ai Bloodhound Gang di cui si è già detto sopra, i britannici Cornershop vengono dall’indie rock. Quando “Brimful Of Asha”, uno dei brani del loro terzo album pubblicato nel ’97 ed intitolato “When I Was Born For The 7th Time”, finisce nelle mani di Norman Cook, dell’indie rock di partenza però rimane ben poco. Il DJ di Brighton, ribatezzatosi Fatboy Slim nel 1995 con “Santa Cruz” ed “Everybody Needs A 303”, ne ricava un incalzante inno big beat spinto da un hook che resta impresso a fuoco nella memoria di una generazione, “everybody needs a bosom for a pillow”. Cook conferma dunque la sua straordinaria versatilità dopo alcune prove ben riuscite tra ’96 e ’97 (“I’m Alive” di Stretch & Vern, “Renegade Master” di Wildchild) a cui se ne aggiungeranno molte altre in futuro (“Body Movin'” dei Beastie Boys, “King Of Snake” degli Underworld, “I See You Baby” dei Groove Armada, “Ride The Pony” dei Peplab, “I Get Live” di Mike & Charlie giusto per citarne alcune) ad eternare l’apice creativo.

CRW - I Feel LoveCRW – I Feel Love
Le prime due versioni di “I Feel Love”, l’Extended Mix e la Clubby Mix, escono nel 1998 su una delle tante etichette della Media Records, la Inside, e battono il percorso progressive trance. A produrle sono Mauro Picotto ed Andrea Remondini. In Italia non avviene niente a differenza dei Paesi mitteleuropei dove escono alcuni remix tra cui quello degli olandesi Klubbheads, richiestissimi dopo le hit “Discohopping” e “Kickin’ Hard”. Tuttavia a fare la differenza qualche tempo dopo è una versione riconfezionata in Italia, la R.A.F. Zone Mix, dagli stessi Picotto e Remondini che rivedono sia la parte ritmica che quella melodica, scardinando l’impostazione iniziale a favore di un costrutto che si rifà ai bassi ragga della speed garage e che viene decorato dalla sibillina voce di Veronica Coassolo. A pubblicare la nuova versione oltremanica è la Nukleuz e da quel momento è un effetto domino che contagia, tra le altre, la VC Recordings del gruppo Virgin e la statunitense Jellybean Recordings di John “Jellybean” Benitez. A ben poco servono ulteriori remix come quello di JamX & De Leon alias DuMonde e DJ Isaac. In scia al successo di “I Feel Love” Picotto e Remondini, sempre nelle vesti di CRW, contribuiscono sensibilmente al successo di “On The Beach” di York con una versione di cui si parla nello specifico più avanti.

Cunnie Williams Feat. Monie Love - SaturdayCunnie Williams Feat. Monie Love – Saturday
Cantante r&b dalla potente voce paragonata più volte a quella di Barry White, Cunnie Williams debutta nel 1993 con l’album “Comin’ From The Heart Of The Ghetto” prodotto da Ralf Droesemeyer dei Mo’ Horizons. Nel ’99, messo sotto contratto dalla Peppermint Jam, incide “Star Hotel”, il terzo LP in cui presenzia, tra le altre, “Saturday”, un brano a cui partecipano Inaya Day e Monie Love. La versione che gli garantisce massima visibilità nei primi mesi del 1999 però è la Welcome To The Star-Hotel Mix approntata da Mousse T. campionando abilmente “Perdoni Tenente”, un vecchio pezzo di Pino D’Angiò contenuto nel suo primo album del 1981. Il DJ tedesco di origini turche era finito sotto i riflettori già l’estate precedente con “Horny ’98”, versione cantata dell’omonimo brano strumentale passato del tutto inosservato e realizzato riciclando parti ritmiche del remix confezionato per “Ghosts” di Michael Jackson uscito nel 1997, quando altresì remixa “All My Time” di Paid & Live Feat. Lauryn Hill. È sempre Mousse T. a mettere mano a un altro singolo di Cunnie Williams, “A World Celebration”, rigato dal rap di Heavy D.

Da Hool - Meet Her At The Love ParadeDa Hool – Meet Her At The Love Parade
Il tedesco Frank Tomiczek inizia a produrre musica nei primi anni Novanta come DJ Hooligan (è tra i nomi citati dagli Scooter in “Hyper Hyper”). Nel 1996, anno in cui vara l’etichetta B-Sides, modifica lo pseudonimo in Da Hool. Proprio su B-Sides, in autunno, esce un EP intitolato “Meet Her At The Love Parade” aperto dalla traccia omonima. Ritmicamente rasenta la banalità ma contiene un riff di sintetizzatore che resta appiccicato alle orecchie come un chewing gum sotto le scarpe. «Contrariamente a quanto diffuso su internet, il brano non fu dedicato a nessuna donna» chiarisce Tomiczek contattato per l’occasione qualche tempo fa. «Lo realizzai in una sola notte, dopo essere tornato dalla Love Parade. Forse a causa dell’esagerata euforia non riuscivo a prendere sonno, mi chiusi in studio e “Meet Her At The Love Parade” fu il risultato. Colsi al volo l’ispirazione che mi diede la parata berlinese con le sue impareggiabili atmosfere e fu l’ironia a suggerirmi quel titolo, era praticamente impossibile trovare qualcuno che si conoscesse in mezzo ad una folla di un milione di persone». I responsi raccolti dal brano non sono entusiasmanti ma la situazione cambia nel 1997 quando la Kosmo Records lo reimmette sul mercato col remix più accattivante realizzato da Nalin & Kane che quell’anno spopolano con “Beachball”. Il successo è clamoroso (si parla di circa sei milioni di copie vendute) e il titolo trasforma il brano di Da Hool nell’inno non ufficiale della Love Parade ’97 (l’ufficiale è “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam). In Italia è un’esclusiva della Bonzai Records Italy del gruppo Arsenic Sound guidato da Paolino Nobile intervistato qui.

Dakar & Grinser - Stay With MeDakar & Grinser – Stay With Me
Formato da Christian ‘Dakar’ Kreuz (sintetizzatori, voce) e Michael ‘Grinser’ Kuhn (sintetizzatori, batteria elettronica), il duo Dakar & Grinser debutta nel ’96 con “Shot Down In Reno”. Supportati dalla Disko B, tre anni dopo i tedeschi incidono un album, “Are You Really Satisfied Now”, che si inserisce a pieno titolo nel vasto campionario pre-electroclash con rimandi a suoni e musiche del passato (come “I Wanna Be Your Dog”, cover dell’omonimo degli Stooges di Iggy Pop uscito trent’anni prima). Nella playlist dell’LP c’è pure “Stay With Me”, una traccia costruita sul formato canzone ma senza tradire ambizioni schiettamente commerciali. Non succede nulla sino a quando l’etichetta di Peter Wacha lo ripubblica come singolo, nella primavera del 2001, dotandolo di nuove versioni remix a firma Patrick Pulsinger, Abe Duque, Portofino Rockers e Gary Wilkinson. Tuttavia a trascinare la traccia nelle programmazioni radiofoniche è la 2001 Mix (ribattezzata Murphy’s Law Single Mix sul CD singolo) realizzata da Christian Kreuz e Tobi Neumann, una rivisitazione scandita da un ammiccante giro di chitarra ed un fascinoso retrogusto retrò che manda subito in solluchero quei DJ che hanno lasciato parte di cuore negli anni Ottanta. In Italia a descrivere il pezzo in toni entusiastici attraverso le pagine del magazine DiscoiD ad aprile 2001 sono Vincenzo Viceversa, che definisce Dakar & Grinser «i campioni assoluto del nuovo techno-pop», e Massimo Cominotto che invece parla di “Stay With Me” come «il suo pezzo del momento». L’interesse cresce al punto da creare i presupposti per una licenza rilevata dalla Ultralab, neonata etichetta dance del gruppo Virgin curata da Ilario Drago che sul 12″, oltre alla Murphy’s Law Single Mix (sincronizzata sul videoclip e finita persino nella compilation del Festivalbar) e al remix di Abe Duque, solca pure una versione realizzata in loco dai P&F ossia Paolino Rossato e Francesco Marchetti, che garantisce a Dakar & Grinser la presenza in altre compilation di dance generalista come la “Deejay Parade” di Albertino e la “Discomania Mix” di Radio 105.

Dana Dawson - 3 Is FamilyDana Dawson – 3 Is Family
Dana Dawson incide il primo disco per la CBS, “Ready To Follow You”, nel 1988 quando ha appena quattordici anni. Nel ’91 esce l’album “Paris New-York And Me” che la aiuta a farsi notare anche in Europa ma per la consacrazione definitiva dovrà attendere ancora qualche tempo. Nel 1995, sotto contratto con la EMI, arriva il secondo LP “Black Butterfly” prodotto da Narada Michael Walden. Uno dei pezzi racchiusi al suo interno è “3 Is Family” in cui la cantante statunitense esprime al massimo la vocazione soul/r&b anche se a spopolare è uno dei remix, quello di Dancing Divaz. Velocizzato e trascinato su una base disco house impostata su un ammaliante giro di pianoforte che pare citare “Drive My Car” dei Beatles e che anni dopo forse ispira “Gimme Fantasy” dei Red Zone da cui nel 2002 Gianni Coletti trae il suo più grande successo, il brano si impone nelle discoteche di tutto il mondo. La EMI prova a replicare i risultati attraverso “Got To Give Me Love”, “How I Wanna Be Loved” e “Show Me” dati in pasto al mondo della notte ma con risultati calanti. L’obiettivo della Dawson non è la dance (seppur nel ’97 interpreti “More More More” di Dolce & Gabbana, remake dell’omonimo di Andrea True Connection) ma i musical di Broadway dove approda nel 2000. La sua carriera si ferma nel 2010 quando perde la lotta contro il cancro. Ha solo trentasei anni.

Datura - Mystic MotionDatura – Mystic Motion
Insieme a “Devotion e “Passion”, “Mystic Motion” è tra i brani nati sull’asse Italia-Germania nel 1993, scritti dai Datura (che ai tempi sono in quattro, i musicisti Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani e i DJ Cirillo e Ricci) e la cantante tedesca Billie Ray Martin. “Devotion” si impone proprio quell’anno come hit estiva ma gli altri due restano confinati alla tracklist di “Eternity”, il primo (ed unico) album che il team bolognese incide per la Irma Records. Nel 1995 Pagano e Mazzavillani passano alla Time Records firmando “Infinity” con gli U.S.U.R.A. a cui segue, in autunno, “Angeli Domini”. In parallelo la Irma rispolvera “Mystic Motion” attraverso vari remix tra cui quello dei Bum Bum Club che, strizzando l’occhio allo stile di StoneBridge, ne fanno un successo stagionale. Ulteriori rivisitazioni, come quella di Charles Webster, giungono dall’estero. Visti i risultati, nel ’96 ai Bum Bum Club viene commissionato anche il remix di “Passion” che però ottiene responsi più contenuti.

Deejay Punk-Roc - My BeatboxDeejay Punk-Roc – My Beatbox
Tra 1997 e 1998 la fortuna di alcuni brani come “Sunshine” di Dr. Motte & WestBam, “Sonic Empire” di Members Of Mayday, “Super Sonic” di Music Instructor ed “Energie” di U96 riportano sotto i riflettori del panorama mainstream l’electrofunk di inizio anni Ottanta. In questo contesto stilistico si inserisce “My Beatbox” di Deejay Punk-Roc, progetto che batte bandiera britannica ma gestito secondo una metodologia tipicamente italiana: in studio opera Jon Paul Davies mentre le esibizioni pubbliche toccano al DJ americano Charles Gettis. “My Beatbox” catalizza l’attenzione generale col supporto di MTV che manda in onda il video più volte al giorno. A decretare una diffusione maggiore del brano, qualche tempo dopo finito nella colonna sonora del videogioco per PlayStation “Thrasher Presents Skate and Destroy”, è il remix di Stuart Price alias Les Rythmes Digitales che la Independiente riversa pure sul successivo “Far Out”. Il DJ e produttore anglosassone, noto anche come Jacques Lu Cont, Man With Guitar e Thin White Duke, linearizza il ritmo trasformandolo nel pianale su cui installare la filastrocca eseguita col talkbox e la spirale di basso rotolante che prefigura con lungimiranza gli stilemi dell’electro house post electroclash, gli stessi che utilizzerà anni dopo per produrre “Confessions On A Dance Floor” di Madonna trainato dai singoli strapazzaclassifiche “Hung Up” e “Sorry”.

De'Lacy - HideawayDe’Lacy – Hideaway
La versione originale di “Hideaway”, prodotta dai Blaze e cantata da Rainie Lassiter, esce nel 1994 su Easy Street Records. Pare un pezzo garage come tanti che escono ai tempi, destinato a non lasciare il segno, ma quando l’anno dopo arriva il remix dei Deep Dish tutte le previsioni vengono azzerate. La versione di Dubfire e Sharam, lunga quasi dodici minuti, conta su un’irresistibile sezione ritmica su cui si arrampica gradualmente l’anima del brano, con la voce della Lassiter abbinata agli accordi di un organo liturgico. Il successo contagia tutta l’Europa al punto da spingere la casa discografica a girare un videoclip sincronizzato proprio sul remix dei Deep Dish. Quasi irrilevante invece la versione dei K-Klass, esclusa dalla stampa italiana sulla rediviva Full Time tornata in attività dopo un periodo di pausa. Ai Deep Dish spetta remixare il follow-up, “That Look”, ma è difficile o forse impossibile bissare i risultati di “Hideaway”. Decisiva invece la versione di “All I Need Is Love” realizzata a fine ’97 dall’italiano Massimo Braghieri alias Paramour.

Delerium Feat. Sarah McLachlan - SilenceDelerium Feat. Sarah McLachlan – Silence
Nato da una costola dei Front Line Assembly, Delerium è un progetto partito nel 1988 che si muove nei territori industrial e dark ambient. Nel 1999 la Nettwerk pubblica il remix di “Silence”, uno dei brani dell’album “Karma” uscito nel ’97. La versione originale, in bilico tra new age e downtempo, pare pagare il tributo agli Enigma di Michael Cretu. Nella loro Sanctuary Mix i Fade (Chris Fortier e Neil Kolo) ricostruiscono il pezzo rendendolo ballabile ma nel contempo preservando parte della caratteristica atmosfera gregoriana. Tutto ciò però non basta. È un olandese a fare la differenza: Tiësto, da Breda, con gli oltre undici minuti del suo In Search Of Sunrise Remix, trasforma “Silence” in un inno, valorizzando la voce di Sarah McLachlan con una serie di plananti pad. Più euforica la versione degli Airscape ma incapace di reggere il confronto con quella di Tiësto destinato ad una sfolgorante carriera da DJ.

DNA Featuring Suzanne Vega - Tom's DinerDNA Featuring Suzanne Vega – Tom’s Diner
Incluso in una raccolta del 1984 allegata alla rivista Fast Folk Musical Magazine, “Tom’s Diner” è il brano acappella scritto qualche tempo prima dalla cantautrice californiana Suzanne Vega ispirata da un piccolo ristorante, il Tom’s Restaurant per l’appunto, situato a Broadway. Nel 1987 il pezzo viene incluso nell’album “Solitude Standing” ed estratto come singolo ma senza raccogliere grandi consensi. A creare i giusti presupposti per il successo internazionale sono i DNA ossia i produttori britannici Nick Batt e Neal Slateford che nel 1990 ricollocano la voce della Vega su una base downtempo carpendo un sample a “Keep On Movin” dei Soul II Soul dell’anno prima. In assenza delle autorizzazioni necessarie, i due si vedono costretti a solcare la versione su un’anonima white label sulla fittizia S+B Records che inizialmente circola solo nelle discoteche. In qualche modo quella rivisitazione giunge alla Vega e il verdetto positivo convince i dirigenti della sua etichetta, la A&M Records, a credere nel progetto e pubblicarlo ufficialmente. “Tom’s Diner” così, supportato adeguatamente dal videoclip diretto da Gareth Roberts, si impone in tutto il mondo, conquistando la top 5 delle due classifiche più ambite di allora, quella britannica e quella statunitense. Per la canzone si apre un secondo ciclo biologico, ben più fortunato rispetto al primo, scandito da nuovi remix, remake (tra i più recenti quello firmato da Giorgio Moroder con l’ausilio vocale di Britney Spears), campionamenti e, non meno importante, l’utilizzo da parte dell’ingegnere del suono Karlheinz Brandenburg per mettere a punto il sistema di compressione di un formato che avrebbe stravolto la musica nel nuovo millennio, l’MP3 (per approfondire si rimanda a questo articolo). Entusiasmati dai risultati, i DNA scommettono ancora sui campionamenti come avviene in “Rebel Woman”, in cui riciclano il riff di “Rebel Rebel” di David Bowie, o ne “La Serenissima”, cover dell’omonimo dei nostri Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi.

Duke - So In Love With YouDuke – So In Love With You
Cantautore e polistrumentista, Mark Adams nasce a Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell’Inghilterra. I suoi modelli di riferimento in età adolescenziale sono idoli del soul come Marvin Gaye, Isaac Hayes e Sly & The Family Stone ma pure eroi della generazione rock n roll, da Buddy Holly a Little Richard passando per Gene Vincent ed Eddie Cochran. Insieme alla sua band chiamata Catch 22 si esibisce nei locali della città natale con un repertorio di cover di classici degli anni Cinquanta. Poi, complice l’annuncio su una tv privata, entra nella formazione dei One Hand One Heart incidendo, nei tardi anni Ottanta, alcuni singoli ed un album per la Epic. Per la sua carriera solista si ribattezza Duke debuttando con “New Beginning”, prodotto da Tony Mansfield e remixato, tra gli altri, da Jaydee ma senza grandi risultati. Poi arriva “So In Love With You” in cui fa sfoggio delle sue abilità vocali di chiara matrice soul. A spalancargli le porte del successo è uno dei remix del pezzo, quello realizzato da Norman Cook (prossimo ad imporsi come Fatboy Slim) e firmato con lo pseudonimo Pizzaman. Come afferma lo stesso Adams nella sua biografia, tutto inizia nei Paesi Bassi dove DJ Marcello suona per primo il remix di “So In Love With You” all’Escape di Amsterdam. L’interesse della Virgin fa il resto, trasformando Duke in uno dei protagonisti della scena dance/house nell’autunno 1995 e facendone una sorta di nuovo Jimmy Somerville. Ad accaparrarsi la licenza in Italia è la Propio Records di Stefano Secchi che, sfruttando il momento propizio, commissiona altre versioni (tra cui quelle di Miky B, Max Baffa, Franco Moiraghi e del compianto Mauro M.B.S.) raccolte in un doppio vinile.

Elektrochemie LK - SchallElektrochemie LK – Schall
Coniato nel 1995 col brano “Da Phonk”, Elektrochemie LK è uno degli pseudonimi utilizzati dal tedesco Thomas Schumacher. Nel 1996 la Confused Recordings pubblica “Schall & Rauch” aperto proprio da “Schall” in cui il DJ originario di Brema sovrappone balbuzienti tessere vocali campionate da “Acid Poke” di Adonis (ma ignorandone il significato, come lui stesso ammette qui) ad un basso sbilenco che funge da argano per tirarsi dietro un granitico beat. La traccia funziona bene nei club di matrice techno ma non è memorabile. Nel 1999 è sempre la Confused Recordings a rimettere in circolazione “Schall” attraverso un remix realizzato da Schumacher stesso che ricostruisce il mosaico questa volta adoperando un basso distorto ed un reticolo ritmico più incisivo. Grazie a queste nuove caratteristiche si fa avanti la Leaded, etichetta del gruppo Warner che ripubblica il brano in Germania sia su 12″ che CD, abbinandolo ad ulteriori remix (Toktok, Pascal F.E.O.S., Thomas P. Heckmann). L’attenzione cresce e contagia pure il Regno Unito dove se lo aggiudica la FFRR che nel pacchetto inserisce la versione di Trevor Rockcliffe. Si accodano poi altre nazioni europee come Francia, Spagna, Paesi Bassi e Danimarca. A prenderlo in licenza in Italia invece è la Media Records che lo convoglia sulla sua etichetta di punta, la BXR. Tra 2000 e 2001 il fortunato remix di “Schall” approntato da Schumacher fa ingresso in decine di compilation e finisce pure nella programmazione delle tv musicali grazie al videoclip. Il successo è tale da spingere la Leaded a scommettere sull’album, “Gold!”, da cui viene estratto “Girl!”, abilmente costruito su un vecchio pezzo rock dei Kinks, “All Day And All Of The Night”, e in cui figura, tra le altre, “When I Rock”, un pezzo che Schumacher firma col suo nome anagrafico nel ’97 vendendo ben 25.000 copie e che la Warner decide di rilanciare e ripubblicare come Elektrochemie LK abbinandolo ad un paio di remix realizzati per l’occasione da DJ Rush e dall’italiano Santos.

Energy 52 - Cafe Del MarEnergy 52 – Café Del Mar
Partito nel 1991 da un’idea del DJ tedesco Paul Schmitz-Moormann meglio noto come Kid Paul, il progetto Energy 52 emerge due anni più tardi quando la nota Eye Q Records di Sven Väth, Matthias Hoffmann ed Heinz Roth pubblica “Café Del Mar”. Ispirata nel titolo dal noto bar ibizenco e nel suono da “Struggle For Pleasure” del compositore belga Wim Mertens, la traccia diventa un caposaldo della prima ondata trance teutonica istigata dalla MFS di Mark Reeder. Sul 12″ della Eye Q ci sono due versioni, quella di Kid Paul e quella di Harald Blüchel alias Cosmic Baby ma il pezzo non riesce ad andare oltre la scena dei club seppur maturi la presenza in una serie di compilation tematiche tra cui la “Logic Trance 2”. Tre anni più tardi “Café Del Mar” è già considerato materiale d’archivio ed infatti la Bonzai lo ristampa sulla branch Classics che tra gli altri annovera “My Name Is Barbarella” di Barbarella, “Body Motion” degli italiani Sadomasy & DJ One, “My Noise” di Master Techno e “Perfect Motion” dei Sunscreem. C’è qualcuno però ad auspicare ancora una seconda vita della traccia come Red Jerry della Hooj Choons, che affida ad una pagina di Bandcamp i suoi ricordi: «Abbiamo passato circa diciotto mesi a remixarlo e non ricordo neanche i nomi di tutti coloro che ci hanno provato fallendo ripetutamente. Il problema di base era rappresentato dalla scala del riff principale e dalla progressione dei relativi accordi che nessuno riusciva a combinare con un certo impatto. Risultato? Ogni versione andava alla deriva, sommersa dalle melodie. Poi, ad inizio ’97, accadde qualcosa:  tornai a casa con una cassetta su cui era inciso l’ennesimo remix di “Café Del Mar”». A realizzare la nuova versione sono i Three ‘N One (André Strässer e Sharam Jey), reduci dal successo ottenuto con “Reflect”. «Seduto a casa a Kentish Town, con la luce dell’alba dopo una notte in discoteca, ascoltai per la prima volta quel remix su un impianto audio decente. Fu uno di quei momenti che non si dimenticano facilmente» conclude Red Jerry. I Three ‘N One riescono dove tanti altri avevano fallito. Sarà il loro remix ad iniettare nuova linfa vitale nelle melodie di “Café Del Mar” che questa volta, complice l’affermazione della trance su larga scala, segna inequivocabilmente lo zenit per Energy 52. La Hooj Choons mette sul mercato due ulteriori rivisitazioni a firma Solar Stone e Universal State Of Mind a cui se ne aggiungeranno altre ancora tra cui quelle di Oliver Lieb e di Nalin & Kane. Tra 1997 e 1998 il pezzo conosce dunque una nuova giovinezza che lo trasforma in un classico, oggetto di continui rimaneggiamenti nonché in fonte d’ispirazione per altri artisti come gli olandesi Three Drives e la loro “Greece 2000”.

Everything But The Girl - MissingEverything But The Girl – Missing
Insieme sin dal 1982 quando debuttano con “Night And Day”, cover dell’omonimo di Cole Porter, Ben Watt e la moglie Tracey Thorn sono gli Everything But The Girl. Prendono il nome d’arte dallo slogan usato da un negozio d’abbigliamento su Beverley Road ad Hull, il Turners, e fanno pop rock ai confini col jazz. Pur maturando una carriera di tutto rispetto che, tra le altre cose, annovera la collaborazione coi Massive Attack per un paio di brani finiti in “Protection”, riescono a conquistare il grande pubblico generalista solo nel 1995 con un remix. “Missing”, dalla tracklist del loro ottavo album intitolato “Amplified Heart”, è una ballata unplugged che passa inosservata ma grazie al tocco di Todd Terry cambia tutto. Il DJ/produttore statunitense, tra i decani dell’house music, trasforma quella ballata in un classico che vende oltre un milione di copie e per cui viene girato un nuovo videoclip diretto da Mark Szaszy. Il remix inizia a girare nell’autunno del 1994 ma il successo non è immediato specialmente in Europa (Italia compresa) dove bisogna attendere la primavera dell’anno seguente per sentire “Missing” in radio e in discoteca. Todd Terry si occuperà poi di “Wrong” (estratto dall’album “Walking Wounded” del ’96) ma con risultati inferiori. Ps: esiste una versione di “Missing” prodotta in Italia, la Rockin’ Blue Mix, realizzata da Alex Natale e i Visnadi.

Face On Mars - The BugFace On Mars – The Bug
Il progetto one-shot Face On Mars batte bandiera britannica ed è prodotto da Kenny Young e dal duo ManMadeMan (Paul Baguley e Sonya Bailey). Entrati nelle grazie di Judge Jules, Pete Tong, Sasha e John Digweed con dischi firmati con vari pseudonimi, riescono a raccogliere modesti consensi tra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000 grazie a “The Bug” che, come testimonia anche la copertina, fa leva sui timori, poi rivelatisi quasi del tutto infondati, derivati dal presunto millennium bug che avrebbe mandato in tilt i sistemi informatici di tutto il mondo al cambio di data tra il 31 dicembre 1999 e il primo gennaio 2000. La versione originale chiamata Teotwawki si inserisce nel filone hard house, sullo stile di artisti come Da Junkies, Knuckleheadz e BK, ma resta confinata al quasi totale anonimato. A rendere “The Bug” un pezzo appetibile per le radio e le tv musicali a cui è destinato il videoclip sono Marco Baroni ed Alex Neri con il loro remix firmato Kamasutra. In Italia è un’esclusiva della napoletana Bustin’ Loose Recordings che in catalogo vanta, tra gli altri, Individual (“Sky High” è cantato da Billie Ray Martin ma in incognito), Charlie Dore e soprattutto Karen Ramirez.

Felix - Don't You Want MeFelix – Don’t You Want Me
Regno Unito, 1992: Francis Wright è un diciottenne come tanti, desideroso di entrare a far parte del mondo della musica. Si diletta a comporre nella sua cameretta con pochi strumenti presi in prestito dallo zio e dal fratello maggiore che gestiscono una società di noleggio strumentazioni. Dispone di un campionatore Akai S950 e qualche sintetizzatore come un Korg MS-20, un Roland JX-1 ed un Oberheim Matrix 1000. Il tutto pilotato dal Notator installato su un computer Atari 1040 ST. Un giorno riceve la telefonata di Jeremy Dickens alias Red Jerry, uno dei titolari dell’etichetta Hooj Choons a cui ha mandato alcuni demo qualche settimana prima. A catalizzare l’attenzione del discografico è un brano in particolare, “Don’t You Want Me”, che Wright realizza ispirandosi allo stile di Steve “Silk” Hurley e in cui piazza un sample vocale preso da “Don’t You Want My Love” delle Jomanda. A Dickens piace ma gli chiede di sviluppare l’idea in modo alternativo. Wright allora piazza un organo al posto del pianoforte e crea la base di quella che sarebbe diventata la Hooj Mix, la versione più nota. «A quel punto Red Jerry mi invitò a Londra per registrare le due versioni» racconta Wright in questo articolo. «L’Original Mix rimase praticamente la stessa del demo mentre alla Hooj Mix aggiungemmo ulteriori elementi. Purtroppo fu fatta confusione coi crediti sul disco che attribuiscono la paternità della Hooj Mix ai soli Red Jerry e Rollo, cosa che non è esatta visto che fu un lavoro interamente sinergico». Il successo di “Don’t You Want Me” è stellare, grazie all’interesse mostrato dalla Deconstruction. Il brano, da noi licenziato dalla GFB, etichetta della Media Records, conquista la prima posizione in molte classifiche sparse per il mondo e si stima abbia venduto oltre tre milioni di copie.

Fifty Fifty - Tonight I'm DreamingFifty Fifty – Tonight I’m Dreaming
I britannici Fifty Fifty (il produttore Jason Smith e il cantante Steve Trowell) esordiscono in sordina nel 1996 col poco noto “Crazy Thing” ma balzano agli onori della cronaca due anni dopo con “Tonight I’m Dreaming”, un brano di matrice progressive house pubblicato dalla Jackpot impreziosito subito da vari remix tra cui quello di Eric Kupper proteso verso la garage. A far cambiare profondamente aspetto al pezzo è però la Blue Moon Mix approntata in Italia negli studi milanesi della Dancework da Fabrizio Gatto, Roberto Zucchini, Germano ‘Jerma’ Polli e Marco ‘China B’ Brugognone. «L’idea di fare un remix fu nostra» racconta Gatto contattato per l’occasione. «”Tonight I’m Dreaming” era una bella canzone ma non abbastanza commerciale, così ci attivammo e realizzammo alcuni remix più adatti al mercato italiano dell’epoca». A spiccare dalle tre versioni pubblicate dalla @rt Records, sublabel del gruppo Dancework, è la citata Blue Moon Mix che imperversa nelle discoteche e in radio nell’autunno ’98. La Rosa Shocking Mix riprende lo stile latineggiante di Paradisio mentre la Tribe Art Production Mix, realizzata da Massimiliano Falchi ed Umberto Ferraro, resta ancorata alle atmosfere house di partenza. «Il mix vendette dalle ventimila alle venticinquemila copie e il brano entrò in svariate compilation» prosegue Gatto. «Quella volta mi firmai come El Zigeuner, nome nato pochi anni prima da una telefonata che un mio promoter fece ad un suo amico. Essendo di Bolzano, ogni tanto parlava in tedesco e quella volta al telefono disse “el Zigeuner” (lo zingaro), una parola che mi piacque subito e che decisi di adottare come pseudonimo». I tentativi di mantenere alte le quotazioni dei Fifty Fifty vanno a vuoto nonostante il remix del successivo “Listen To Me” a firma StoneBridge. Riscontri flebili giungono pure quando nel ’99 Smith e Trowell si ripresentano come Apple 9 firmando “What You Do To Me” per la Time Records.

Freddie Mercury - Living On My OwnFreddie Mercury – Living On My Own
Estratto come singolo dall’album “Mr. Bad Guy”, il primo che Mercury realizza come solista dopo aver abbandonato i Queen, “Living On My Own”, del 1985, è un pezzo synth pop che non riscuote consensi memorabili. Decisamente diversi però i risultati raccolti circa otto anni più tardi quando l’artista è già prematuramente passato a miglior vita e sul mercato arriva il remix realizzato dai No More Brothers (Carl Ward, Colin Peter e Serge Ramaekers) nel loro studio ad Anversa, in Belgio, ad aprile del ’93: con un taglio house friendly corroborato da un cristallino arpeggio, i tre conferiscono a “Living On My Own” la spinta necessaria per essere apprezzato dal pubblico trasversale di tutto il mondo che non si è ancora stancato di ascoltarlo. Per avere un’idea della longevità è sufficiente aprire YouTube: ad oggi la somma delle visualizzazioni ottenute dal remix oltrepassa i cento milioni. Proprio nello stesso periodo in cui imperversa “Living On My Own”, sul mercato arrivano i remix di un altro brano pop internazionale, “Dreams” di Gabrielle. La House Mix degli Our Tribe (Rollo, futuro membro dei Faithless nonché fratello della cantante Dido, e Rob Dougan) è tra le versioni che si distinguono meglio, con un retrogusto à la “Plastic Dreams” di Jaydee. Nel contempo in Italia finiscono in discoteca “Delusa” di Vasco Rossi e “Ricordati Di Me” di Fiorello, rispettivamente remixati dagli U.S.U.R.A. e Digital Boy.

Fun Factory - Close To YouFun Factory – Close To You
Tra la miriade di gruppi eurodance tedeschi emersi nei primi anni Novanta, i Fun Factory si fanno notare a livello europeo tra 1993 e 1994 con “Groove Me”, “Pain”, “Close To You” e “Take Your Chance”, tutti estratti dal primo album intitolato “Nonstop!”. “Close To You”, per cui viene girato questo videoclip, sfiora il plagio delle hit messe a segno dai connazionali Culture Beat (“Mr. Vain”, “Got To Get It”, “Anything”) ma sono tempi in cui clonare talvolta può portare buoni risultati. In Italia la versione originale di “Close To You” passa inosservata a differenza del remix dei Positive Groove, side project degli stessi Fun Factory. Nella reinterpretazione, intitolata Energy Trance e licenziata nell’estate ’94 da Dig It International, la componente vocale è ridotta ai minimi termini per privilegiare un costrutto di matrice trance. Eliminata la parte rappata, dopo un lungo intro strumentale filo acid affiora un brandello dell’inciso, unico elemento tratto dalla versione di partenza. Anche per il remix i Fun Factory però si ispirano palesemente a qualcosa di preesistente, il Fruit Loops Remix dei Jens di cui si parla dettagliatamente più avanti.

Gayà - It's LoveGayà – It’s Love
Nel ’98 la J&Q diretta da Enzo Martino pubblica il terzo singolo del progetto Gayà, partito tre anni prima con “Lovin’ The Way”. A produrre “It’s Love”, un brano house ai confini con la garage colorito da un virtuosismo vocale a mo’ di scat, sono Daniele Soriani e Marco Mazzantini, ma il successo arriva poco tempo dopo col remix curato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che riadatta tutto in chiave eurodance. Gli apprezzabili risultati vengono sottolineati dal videoclip in cui appare l’americana Stephanie Haley, scelta come immagine del progetto e per le esibizioni live come quella ad Italia Unz. Sarà sempre Fargetta a confezionare le versioni di punta dei successivi singoli di Gayà, “Shine On Me”, “I Keep On Dreaming” e “Never Meet”, utili a trainare altri artisti della J&Q come Jola, Underfish e Bibi Schön.

Gigi D'Agostino - L'Amour ToujoursGigi D’Agostino – L’Amour Toujours
In virtù della popolarità raggiunta, “L’Amour Toujours” è diventato il brano più noto del repertorio d’agostiniano. La versione originale, apparsa nel 1999 nell’album omonimo, gira su ritmi sincopati, un basso in ottava (forse “stimolato” da un preset dell’Hohner HS-1, versione tedesca del Casio FZ-1) ed armonie ispirate da “But Not Tonight” dei Depeche Mode, così come già descritto in Decadance. A decretare il successo è però il remix che la Media Records pubblica nel 2000 attraverso l’EP “Tecno Fes”: arrangiato insieme a Paolo Sandrini, il Tanzen Vision Remix fa leva sulla caratteristica frase di tastiera evidenziata ulteriormente nella versione usata per il videoclip ad oggi visualizzato su YouTube più di 320 milioni di volte. A seguire arrivano altre reinterpretazioni, come la Cielo Mix e L’Amour Vision, ed un indefinito numero di cover che garantiscono ulteriore longevità ad un pezzo italodance ormai diventato transgenerazionale.

Gigi D'Agostino & Daniele Gas - Creative NatureGigi D’Agostino & Daniele Gas – Creative Nature
La prima versione di “Creative Nature” esce nel 1994 sulla Subway. A distanza di qualche mese sulla stessa etichetta appaiono due versioni (Fly Side ed Eternity Side) realizzate dagli stessi autori ma a lasciare il segno nel cuore degli irriducibili della progressive italiana è il remix edito dalla Metrotraxx, altra sussidiaria della Discomagic di Severo Lombardoni, intitolato Giallone e contenuto nel doppio “Creative Nature Vol. 2”. A dirla tutta pare più una sorta di re-edit con variazione della stesura e non del banco suoni che rimane pressoché invariato ma i risultati, specialmente a partire dall’autunno del 1995, sono ben diversi. Con un sample di campana sincronizzato su un basso ottavato ed un riff d’atmosfera giocato anch’esso sulle ottave, D’Agostino (che riciclerà tutto nel 2000 per la sua “Campane”) e Gas si confermano tra gli artefici di un sound presto ribattezzato e sdoganato come mediterranean progressive in cui minimalismo e struggenti melodie vanno a braccetto. «Una notte ero al Le Palace di Torino con Gigi e Francesco Farfa» racconta Daniele Gas in questa intervista. «Prima della serata chiacchierammo anche di produzioni e Francesco ci propose di fare una nuova versione del “giallone”, riferendosi al remix di “Creative Nature” pubblicato dalla Subway su un’etichetta di colore giallo per l’appunto. Da quel momento lo chiamammo amichevolmente Giallone Remix, proprio in ricordo del suggerimento di Farfa che, ovviamente, fu tra i primi a ricevere il promo».

Gisele Jackson - Love CommandmentsGisele Jackson – Love Commandments
È il pezzo più noto della Jackson, cantante nativa di Baltimora messa sotto contratto dalla Waako Records di Bob Shami. La versione originale di “Love Commandments”, un pezzo garage non particolarmente pretenzioso, inizia a circolare nel 1996 quando viene pubblicato anche in Italia dalla UMM. La spallata determinante giunge l’anno dopo con vari remix firmati, tra gli altri, da Danny Tenaglia, Jason Nevins, StoneBridge, Dancing Divaz e Loop Da Loop. Quest’ultimo, in particolare, con qualche occhiata non velata al tocco di Van Helden, catalizza l’attenzione generale introducendo la Jackson nel segmento speed garage. A pubblicare in Italia quattro remix di “Love Commandments”, incluso ovviamente quello di Loop Da Loop, è la D:vision.

Hanky Panky - Hanky PankyHanky Panky – Hanky Panky
Pubblicato inizialmente dalla Love, una delle etichette della EMI tedesca, “Hanky Panky” del progetto omonimo segue il corso eurodance in salsa house, utilizzando i suoni “tubati” resi popolarissimi da StoneBridge abbinati ad una specie di filastrocca scritta da Najib Hachim e Carolin Schwarz e musicata dagli stessi insieme a Jürgen Hildebrandt. Di loro si sa davvero poco e niente. Di certo è che ad aiutarli ad uscire dall’anonimato, riservato invece ad altri brani del loro risicato repertorio come ad esempio “Me & Mr. Fantasy” di Cosma Das Sternenkind, è il remix realizzato da Mousse T: con una versione che occhieggia ai Max-A-Million prodotti dai 20 Fingers ed ai Reel 2 Real di Morillo ma in chiave ancora più scanzonata, “Hanky Panky” riesce a raccogliere qualche licenza in Europa. A crederci in Italia è la Dance Factory del gruppo EMI ma pure Albertino che propone il brano in radio e lo vuole nel sesto volume della compilation “Alba” uscita nell’autunno del 1996.

Jamiroquai - Space CowboyJamiroquai – Space Cowboy
La versione originale di “Space Cowboy”, inclusa nell’album “The Return Of The Space Cowboy” del 1994, non è certamente passata inosservata ma il remix di David Morales, uscito l’anno dopo, ha il merito di aver ingigantito la notorietà della band britannica. Con un lavoro magistrale curato tanto nella parte ritmica quanto in quella degli arrangiamenti, il DJ tocca uno dei momenti clou della propria carriera. Tuttavia Jay Kay gli riserva toni piuttosto polemici, almeno inizialmente: «non capisco perché devo dare quindicimila sterline ad un tizio americano quando un qualsiasi mio collaboratore può fare la stessa cosa, ma ho imparato che i remix fanno parte del gioco, così come i video» afferma il cantante in un’intervista risalente al gennaio 1997. «Devo essere onesto, i remix di Morales (oltre a “Space Cowboy” anche quello di “Cosmic Girl”, nda) hanno funzionato molto bene ed hanno aumentato la mia popolarità. La gente voleva ballare i miei pezzi in discoteca e lui la ha accontentata».

Jens - Loops & TingsJens – Loops & Tings
Contenuta nel “Glomb EP” pubblicato nel 1993, “Loops & Tings” è il pezzo che Jens Mahlstedt, Gerret Frerichs ed Hans Jürgen Vogel realizzano assemblando magnetiche onde trance a svasati beat che ogni tanto vedono rompere il 4/4 metronomico sotto la spinta di inserti raggamuffin, striature acide e sincopi breakbeat. Nel momento in cui la Superstition pubblica i remix del brano, le cose prendono una piega diversa. È il Fruit Loops Remix, realizzato dagli stessi Mahlstedt e Frerichs, a tracciare una nuova strada per il progetto Jens, sino a quel momento rimasto a solo appannaggio dei DJ specializzati. Merito di una vena melodica più pronunciata issata da un riff riciclato dai menzionati Fun Factory nel remix di “Close To You” ed una struttura ritmica maggiormente trascinante, resa tale anche da un rotolante bassline. Il remix di “Loops & Tings” diventa così un autentico classico nel 1994, anno in cui viene pubblicato anche in Italia dalla Downtown del gruppo Time Records. Seguirà un’infinita serie di altre versioni più o meno fortunate tra qui quella di Marco V che nel 2003 rilancia per l’ennesima volta uno dei maggiori inni della hard trance tedesca degli anni Novanta.

Jestofunk - Special LoveJestofunk – Special Love
Con un background che affonda saldamente le radici nel funk, nel soul e nel jazz, i Jestofunk (Alessandro ‘Blade’ Staderini, Francesco Farias e Claudio ‘Moz-Art’ Rispoli) debuttano nel 1991 con “I’m Gonna Love You” supportati dalla bolognese Irma Records. “Say It Again” e “Can We Live”, entrambi interpretati da Ce Ce Rogers, li aiutano ad imporsi anche nel mainstream ma senza scendere a compromessi. Nel 1998 è tempo di un’altra hit trasversale, “Special Love”, estratta da “Universal Mother”, il loro terzo album. Jazzdance rigata di funk, r&b e disco, la traccia gode di un featuring vocale d’eccezione, quello di Jocelyn Brown, protagonista del videoclip. A far prendere il volo però è la Special House Mix realizzata da Steve “Silk” Hurley, uno dei pionieri della house statunitense che in quel periodo torna al successo con “The Word Is Love”. Sul 12″ presenzia una seconda reinterpretazione, la Disco Fusion Mix di Joey Negro probabilmente più vicina al mondo dei Jestofunk ma con minori potenzialità commerciali.

Josh One - ContemplationJosh One – Contemplation
DJ e produttore losangelino, Josh One debutta nel 2001 con “Contemplation”, un pezzo che lascia sfilare i lascivi vocalizzi di Julie Walehwa su una base downtempo altrettanto seducente costruita insieme al musicista Patrick Bailey. Annessa alla musica lounge e chillout che nei primi anni Duemila vive un fortissimo boom così come raccontiamo qui, la traccia riesce a conquistare anche le discoteche grazie a King Britt ed alla sua Funke Mix che proietta tutto su uno schema house dagli evidenti richiami funk giocati in modo sampledelico. Riscontri ancora più tangibili giungono con una seconda versione realizzata in Italia da Alex Neri: nel Road Trip Remix resta intatto un frammento di voce della Walehwa ma il resto scorre su un binario decisamente diverso, fatto da suoni cristallini messi in sequenza in un ossessivo ed inarrestabile arpeggio. Proprio grazie ai remix, nel 2002 Josh One fa il giro d’Europa spinto da etichette come Prolifica, Ministry Of Sound e Vendetta Records. A pubblicarlo da noi è la Rise del gruppo maioliniano Time.

Karen Ramirez - If We TryKaren Ramirez – If We Try
La carriera della londinese Karen Ramirez mostra diverse analogie con quella dei Jestofunk descritti poche righe sopra. Anche lei parte dalla musica black, dal soul e dal jazz, generi che il team di produzione Souled Out (da cui nasceranno poco tempo dopo i Planet Funk) affronta con maestria nell’album “Distant Dreams” da cui vengono estratti diversi singoli, da “Troubled Girl” a “Looking For Love” (cover di “I Didn’t Know I Was Looking For Love” degli Everything But The Girl) passando per “Lies” ed “If We Try”. Tutti godono di numerosi remix realizzati da pesi massimi della house internazionale ma quest’ultimo, in particolare, si distingue per la rivisitazione di Steve “Silk” Hurley, richiestissimo dopo l’exploit a fine ’97 di “The Word Is Love”.

KC Flightt - Bang!KC Flightt – Bang!
Franklin Toson Jr. alias KC Flightt prende parte alla prima ondata hip house che si propaga a fine anni Ottanta da Chicago, riuscendo ad entrare nelle grazie della RCA che pubblica un album e diversi singoli tra cui “Planet E”, “Summer Madness” e “Voices”. Dopo qualche tempo sottotono, riappare con “Bot Dun Bot” e soprattutto “Bang!” che nella versione originale riavvolge il nastro sino a dove tutto era cominciato nella città del vento. A fare la fortuna del pezzo nell’autunno 1995 è la Mixmaster Club realizzata da Costantino Padovano e Mirko Braida, sincronizzata col video e in linea con quanto già fatto per “Shimmy Shake” dei 740 Boyz analizzata più sopra.

Kim Lukas - All I Really WantKim Lukas – All I Really Want
Nata nella contea di Surrey, nell’Inghilterra sud-orientale, Kim Woodcock è la cantante che si fa spazio nel circuito eurodance nel 1999 con “All I Really Want”, prodotto dal team G.R.S. composto da Gino Zandonà, Roberto Turatti e Silvio Melloni. L’Original Single Mix fa leva su una base dai richiami disco / funk, senz’altro gradevole ma con un tiro forse non adatto ad accontentare del tutto il pubblico a cui il progetto è destinato. Ci pensano gli Eiffel 65 a ricostruire la stesura in un remix creato sul fortunato modello di “Blue (Da Ba Dee)”. È quindi loro la versione che spopola e fa la fortuna della biondina che nel 2000 incide un album, “With A K”, da cui vengono prelevati altri tre singoli più o meno fortunati, “Let It Be The Night”, “To Be You” e “Cloud 9”.

L'Homme Van Renn - The (Real) Love ThangL’Homme Van Renn – The (Real) Love Thang
A pubblicare “The Real Thang” nel 1993 è la Nocturnal Images Records, piccola etichetta di Davina Bussey distribuita dalla Submerge di Detroit. È la stessa Bussey a curare tre versioni fatte di house intrecciata al soul che mettono in evidenza le doti canore di Paul Randolph. Nel 1995 la 430 West, in cooperazione con la Network Records di Neil Rushton e Dave Barker e con la filiale britannica della KMS di Kevin Saunderson, rimettono in circolazione il brano ma con un titolo leggermente diverso, “The (Real) Love Thang”, e vari remix di Rob Dougan, Parks & Wilson e Mike Banks. «Credo che l’operazione nacque con l’obiettivo di portare il mio nome ad un pubblico più vasto e non più solo quello dei DJ specializzati visto che il pezzo aveva un grande potenziale» racconta qui Randolph. Effettivamente le cose vanno proprio così e “The (Real) Love Thang” inizia la “mainstreamizzazione” attraverso la versione del citato Dougan in cui la stesura viene interamente ricostruita giocando sull’alternanza di parti beatless ed altre più incisive legate alla progressive house britannica. Ciò garantisce un risultato apprezzabile in Europa dove il brano viene licenziato in più Paesi ed incuriosisce anche chi non conosceva affatto la versione iniziale. A pubblicarlo in Italia a gennaio 1996 è la milanese Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, che aggiunge al pacchetto due ulteriori versioni a firma M2 ed Italia House Nation.

Lisa Marie Experience - Keep On Jumpin'Lisa Marie Experience – Keep On Jumpin’
Inizialmente pubblicato col titolo “Jumpin”, la hit dei Lisa Marie Experience (il duo britannico formato da Dean Marriott e Neil Hinde) si afferma nel vecchio continente tra l’inverno e la primavera del 1996 come “Keep On Jumpin'”. Il pezzo entra nella top ten dei più venduti nel Regno Unito ed è uno dei tanti di quel periodo a rinvigorire il fil rouge tra la house music e discomusic mediante il campionamento di un classico di fine anni Settanta, “Keep On Jumpin'” dei Musique, ripreso peraltro pochi mesi più tardi pure da Todd Terry con le voci di Martha Wash e Jocelyn Brown. La versione che funziona di più e che viene scelta per accompagnare il videoclip è però quella dei redivivi Bizarre Inc, autentici protagonisti tra 1991 e 1992 con successi come “Playing With Knives”, “Such A Feeling” ed “I’m Gonna Get You”. Con una stesura più d’impatto ed un’elaborazione del sample (a cura di Dave Lee alias Joey Negro ed Andrew “Doc” Livingstone, così come chiariscono i crediti in copertina) maggiormente incisiva, il Bizarre Inc Remix è pertanto quello che decreta il temporaneo momento di gloria dei Lisa Marie Experience, incapaci di mantenere intatto il successo col successivo “Keep On Dreaming”. In compenso però ricevono una sfilza di richieste di remix e tra i tanti mettono mano a “Bamboogie” di Bamboo, act messo su con eclatante riscontri dal citato Livingstone ad inizio ’98 mutuando un sample da un altro evergreen disco, “Get Down Tonight” di KC & The Sunshine Band.

Love Connection - The BombLove Connection – The Bomb
Dietro Love Connection, act one shot creato nel 2000 con “The Bomb”, opera il team di produttori francesi formato da Rabah Djafer, Omar Lazouni e Michel Fages. Il pezzo è costruito su un doppio campionamento: da un lato c’è la melodia di “Love Magic” di John Davis & The Monster Orchestra, un vecchio successo del 1979, dall’altro invece la parte vocale presa da “Love Generation” degli italiani Lost Angels, pubblicato originariamente nel 1996 dalla Volumex del gruppo Dancework ma senza grandi risultati, specialmente in patria. Unendo i due elementi, corroborati da una trascinante base disco house, i transalpini ricavano un pezzo orecchiabile e a presa rapida ma a perfezionarlo ulteriormente è il duo Triple X (Luca Moretti e Ricky Romanini), reduce dal successo europeo di “Feel The Same”. È il loro remix infatti ad avere la meglio e ad essere sincronizzato col videoclip. In Italia è un’esclusiva della Time di Giacomo Maiolini il cui supporto, pare, sia stato determinante per ottenere il clearance del sample di “Love Magic”.

Mario Più - CommunicationMario Più – Communication
Il DJ toscano è stato molto abile nel tenere un piede nelle produzioni destinate a discoteche di tipo progressive/trance e l’altro in quelle più dichiaratamente commerciali. Così, mentre da un lato sforna pezzi come “Your Love”, “Unicorn” o “Serendipity”, dall’altro finisce nelle classifiche di vendita con successi radiofonici tipo “All I Need”, “Sexy Rhythm” e “Runaway”. Nel 1999 però è capitato che un suo brano tendenzialmente rivolto ai club si sia trasformato in una hit trasversale. Tutto ha inizio a ridosso dell’estate quando nei negozi arriva “Communication”, un pezzo creato sul telaio picottiano di “Lizard” e caratterizzato dal suono dell’interferenza creata dal telefono cellulare in una cassa spia (idea che, praticamente nel medesimo periodo, viene sfruttata in “GSM” dai Dual Band – Paolo Kighine e Francesco Zappalà). I responsi nelle discoteche sono ottimi ma a decretare il successo su scala internazionale con oltre 200.000 copie vendute è la versione approntata oltremanica pochi mesi dopo da Paul Masterson alias Yomanda. Diventata “Communication (Somebody Answer The Phone)” ed accompagnata da un videoclip sincronizzato proprio sul remix, la traccia assume una veste hard house in cui compare, oltre all’interferenza, anche il trillo di un telefono cellulare, immortalato in copertina dalla BXR.

Mato Grosso - LoveMato Grosso – Love
Partiti nel 1990 come Neverland, Graziano Pegoraro, Marco Biondi e Claudio Tarantola si ribattezzano Mato Grosso con “Thunder” per motivi illustrati in questo articolo e diventano uno dei nomi più longevi in campo eurodance/italodance, area notoriamente soggetta a successi che difficilmente riescono a reggere più di qualche stagione. “Love” esce intorno alla fine del 1993 sulla B4, etichetta fondata dallo stesso team insieme al gruppo Expanded Music, ma gode di poca attenzione. Pochi mesi più tardi, in soccorso, giungono due remix realizzati dagli stessi Pegoraro e Biondi. In particolare è la Fuzzy Mix a risollevare le sorti del pezzo non partito col piede giusto, col beneplacito di Albertino e dei suoi soci del DBM (Fargetta la sceglie e mixa in “Original Megamix 2”) a cui poi si accodano altre emittenti e varie compilation italiane ed estere. «La versione originale, per ammissione dello stesso Pegoraro, peccò a causa di un mixaggio non del tutto riuscito» racconta oggi Marco Biondi contattato per l’occasione. «La Shuttle ‘N’ Space ‘N’ Love Mix iniziava con un intro caratterizzato dal countdown della NASA, senza dubbio d’effetto ma privo di quell’immediatezza che ai tempi serviva alla dance per farsi notare. Facendo tesoro degli errori quindi, rielaborammo tutto in un remix più incisivo, dinamico ed efficace, doti premiate da Albertino che lo tenne nella DeeJay Parade per circa due mesi (dal 26 febbraio al 23 aprile, nda). Il suo supporto fu determinante per raggiungere un buon risultato in termini di vendite, tra mix e remix infatti “Love” contò tra le 16.000 e le 17.000 copie. A scandire marcatamente la nuova versione era un hook vocale realizzato con la mia voce seppur davvero in pochi la riconobbero nonostante conducessi un programma quotidiano su Radio DeeJay. Pure nel follow-up, “Mistery”, figuravano voci vere: il “mistery mistery” era di Miko Mission mentre ad interpretare il “bebele simele amele” era Nikki, mio collega in via Massena. L’idea di partenza era campionare un frammento di “Just A Gigolo” di David Lee Roth ma non avremmo mai avuto il clearance così optammo per quell’alternativa che si rivelò particolarmente fortunata» conclude Biondi.

Mauro Picotto - LizardMauro Picotto – Lizard
Quando le prime copie di “Lizard” raggiungono gli scaffali dei negozi di dischi, nella primavera del 1998, nessuno è in grado di pronosticare cosa sarebbe avvenuto poco tempo dopo. Picotto stesso, nella recensione apparsa sulla rivista Trend Discotec di aprile, è ben lontano da pomposi annunci e ne parla sommessamente come «un mix che forse è un EP, tanto sono differenti le versioni in esso contenute». In effetti le quattro versioni presenti sul 12″ della BXR mostrano evidenti diversità: la Picotto Mix (promossa “Disco Strobo” da Tony H in From Disco To Disco il 7 marzo) punta dritta alla trance, la Nation Mix irrigidisce i suoni tirando dentro un frammento vocale di Martin Luther King, la Mondo Bongo Mix introduce la componente tribale e la Tea Mix, fondamentale per gli sviluppi futuri, riduce tutto a pochi elementi, scroscianti cascate di snare e soprattutto un caratteristico basso. Come descritto dal musicista Andrea Remondini nell’intervista finita in Decadance Appendix nel 2012, la Tea Mix viene realizzata in buona parte un lunedì mattina. «Durante il fine settimana Mauro si esibì in una discoteca in cui il DJ che lo aveva preceduto in consolle terminò il set con un disco che finiva con una lunghissima nota bassa» racconta. «A quel punto lui si sovrappose con un altro brano che iniziava con battute di sola cassa. Il risultato creò un effetto imprevisto: ogni colpo di cassa soffocava la nota bassa, che tornava poi a farsi sentire nelle pause tra un colpo e l’altro. Ipotizzai che la causa del fenomeno fosse un compressore applicato all’uscita del mixer» (ma Picotto, nel libro “Vita Da DJ – From Heart To Techno” recensito qui, parla di un microfono lasciato inavvertitamente aperto da cui «entrò il rumore dell’effetto Larsen sull’impianto audio della sala – il Joy’s di Mondovì – una risonanza che determinò un suono simile alla coda di un boato», nda). Vista l’euforica reazione del pubblico di fronte a quel fortuito abbinamento di suoni, i due cercano di riprodurre l’effetto in studio e il risultato lo si sente per l’appunto nella Tea Mix. La prima tiratura di “Lizard” passa abbastanza inosservata ma l’indifferenza si trasforma in enorme curiosità quando arrivano i remix. In particolare è la Megavoices Mix, realizzata dallo stesso Picotto e sviluppata partendo dalla Tea Mix, a cambiare lo status quo. Con una stesura che sfiora i dieci minuti, la traccia (adorata da Pete Tong che ribattezza Picotto con l’appellativo “The Lizard Man”) si ripresenta in una formula più organica, arricchita da un sample vocale ed una lunga pausa melodica centrale ispirata da “1998” dei Binary Finary. In pochi mesi “Lizard” fa il giro del mondo, Stati Uniti compresi, aprendo una fase carrieristica dal sapore internazionale per Picotto debitamente irrorata da altre hit come “Iguana” e “Komodo” che insieme a “Lizard” costituiscono l’ideale trilogia rettiliana. I suoni di “Lizard” diventano presto un autentico marchio di fabbrica per la BXR ed innescano centinaia di campionamenti ed imitazioni di ogni tipo. «A quel punto, così come era già avvenuto con la mediterranean progressive, abbandonammo quel suono per primi, dopo averlo inventato» aggiunge Remondini nella menzionata intervista. Curiosità: per il remix la BXR usa un numero di catalogo inferiore (1047) rispetto a quello del disco che ospita invece le prime versioni del brano (1048) nonostante la pubblicazione sia successiva.

Moby – Everytime You Touch Me
Archiviata la disputa legale con la Instinct Records che pubblica i primi due album, Moby firma per la Mute di Daniel Miller. È proprio questa a mandare in stampa il suo terzo LP, “Everything Is Wrong”, l’ultimo con cui l’artista newyorkese cavalca la dance music, un filone che gli fa guadagnare, seppur a malincuore, le critiche di certa stampa convinta che non sia capace di suonare alcuno strumento. «È una fissa mettere in dubbio le mie capacità» afferma in un’intervista realizzata a Londra da Piergiorgio “P.G.” Brunelli ed apparsa su Dance Music Magazine a maggio 1995. «Suono la chitarra da venti anni, perché dovrei usare un campionamento? Ho suonato di tutto, dalla chitarra al basso, dalle tastiere alle percussioni sino alla batteria. Ammetto che la maggioranza dei musicisti dance non sappia suonare musica ma io sono tutt’altro che un idiota. Qualsiasi cosa che esca da uno speaker e genera in me emozioni è positiva, non importa che sia un campionamento o un assolo di chitarra. Vorrei che fosse possibile apprezzare allo stesso tempo la gay-disco e i Biohazard, senza barriere mentali». Uno dei singoli estratti da “Everything Is Wrong” è “Everytime You Touch Me”: la versione originale contiene ancora retaggi del breakbeat di memoria rave ma con meno asperità ritmiche ed inselvaggimenti ridotti praticamente a zero, rimpiazzati da evidenti slanci melodici (vocali e pianistici) intarsiati a brevi parentesi raggamuffin ai tempi parecchio in auge nell’eurodance. A garantire il successo al brano nei primi mesi del 1995 però è uno dei tanti remix giunti sul mercato, quello degli infaticabili Beatmasters che nella loro Uplifting Mix lo ricostruiscono interamente edificando all’interno di esso due blocchi, uno più felice e radioso alimentato dalle voci di Rozz Morehead e Kochie Banton, l’altro più ombroso da cui riaffiora la sensibilità ravey. La Beatmasters 7″, una sorta di re-edit ma con un appeal più radiofonico, viene scelta invece per il videoclip. «Preferisco remixare le mie canzoni da solo perché è divertente ed economico, ma non sono geloso di ciò che faccio e se qualcuno vuole lavorare su un mio pezzo solitamente lascio fare» prosegue l’artista nella sopraccitata intervista. «Non tutti i miei brani però sono a disposizione, quelli molto personali non voglio darli a nessuno. Sono come i miei bambini ed hanno un significato particolare che non va stravolto». A prendere in licenza per l’Italia “Everytime You Touch Me” è la napoletana Flying Records che lo abbina ad una copertina di Patrizio Squeglia e lo convoglia sulla neonata Drohm varata a fine ’94 con “I Let U Go” dei KK e trainata dal successo di “Wonder” di DJ Cerla & Moratto. Sul 12″, oltre alle due versioni dei Beatmasters, ci sono pure la Na Feel Mix e la Freestyle Mix ad opera dello stesso Moby, e a completamento quella di Jude Sebastian, vincitore di una remix-competition a cui partecipano ben quattrocento persone. Da noi il successo è palpabile, il pezzo entra nell’airplay radiofonico e in decine di compilation. Pochi anni più tardi il musicista statunitense rimette tutto in discussione aprendo una nuova fase della carriera caratterizzata da caleidoscopiche sollecitazioni che lo trasformeranno in una sorta di cantautore electronic pop del nuovo millennio. Risultano profetiche, a tal proposito, le parole con cui chiude quell’intervista del 1995 in cui Brunelli gli domanda se abbia una band: «Io sono il gruppo, suonerò tutto eccetto le percussioni. Ho poca pazienza coi musicisti che non sono capaci di fare ciò che gli chiedo, ed io ho grosse pretese».

Moloko - Sing It BackMoloko – Sing It Back
Il duo dei Moloko (il compositore/produttore Mark Brydon e la cantante Róisín Murphy) non impiega molto a raggiungere il successo: già nel 1995, anno del debutto, si impone un po’ ovunque con “Fun For Me”, estratto dall’album “Do You Like My Tight Sweater?”. Nel successivo, “I Am Not A Doctor” uscito nel 1998, figura “Sing It Back”, un brano che plana magicamente su una coltre di materia fumosa dalla singolare consistenza. A dargli la spinta necessaria per trasformarlo in un successo pop è una delle versioni che appaiono nei primi mesi del ’99, la Boris Musical Mix del DJ tedesco Boris Dlugosch, affermatosi nel ’96 con “Keep Pushin'”, nonostante l’etichetta avesse puntato tutto sul remix di Todd Terry, la Tee’s Freeze Mix, sperando che potesse seguire lo stesso corso di “Missing” degli Everything But The Girl. Corre voce che Brydon e la Murphy abbiano faticato non poco per convincere i dirigenti della Echo ad inserire sul disco la versione di Dlugosch (affiancato dal fido collaboratore Michi Lange con cui incide altri discreti successi come “Check It Out! (Everybody)” di BMR, “Azzurro” di Fiorello e i remix per “Blen Blen” di Edesio e “Never Enough” della stessa Murphy) a conti fatti quella che ha trasformato “Sing It Back” in una hit mondiale.

Moratto - WarriorsMoratto – Warriors
Analogamente ad altri dischi trattati in questo articolo, pure “Warriors” viene immesso sul mercato con un remix ad affiancare la versione originale. Nella Bat Mix Elvio Moratto riversa la passione che ai tempi nutre per la dance di matrice mitteleuropea, quella che prende le mosse da generi come hard trance, progressive, rave techno ed happy hardcore, ma nel contempo la farcisce con una vena melodica tipicamente all’italiana. Cantato da Jo Smith, “Warriors” esce nei primi mesi del 1995 raccogliendo discreto successo grazie al remix dei Datura intitolato, forse non casualmente, Main Mix. Pagano, Mazzavillani e Ricci DJ approntano una versione che non differisce molto da quella originale ma risultando d’impatto e garantendo un buon airplay radiofonico ed un’apprezzabile resa in termini di vendite seppur non paragonabile a quella di altri pezzi del repertorio morattiano, su tutti “La Pastilla Del Fuego” dell’anno prima, peraltro remixato sempre dai bolognesi Datura in una sorta di mash-up con la loro “Eternity”. «L’idea di affidare il remix ai Datura fu mia, trattandosi di un team con cui avevo piacere di collaborare» dichiara oggi Moratto contattato per l’occasione. «La scelta di puntare su quella versione come principale però non dipese da me. “Warriors” vendette 20.000 copie in Italia, compreso il Live Remix che feci successivamente e che viene ancora suonato in alcuni club oltremanica». Discutibile, forse, la scelta della Flying Records di commercializzare “Warriors” proprio mentre imperversa “Wonder” che Moratto realizza a quattro mani con DJ Cerla per un’etichetta della stessa società, la neonata Drohm, ritrovandosi paradossalmente a far concorrenza a se stesso. «Entrambi i brani furono prodotti nello stesso periodo ma non credo sia stato controproducente pubblicarli quasi in contemporanea. “Wonder” abbracciò il pubblico commerciale e vendette molto di più ma poiché editi dallo stesso gruppo discografico, alla Flying decisero di investire solo in un video, quello di “Wonder”» conclude Moratto.

Mulu - PussycatMulu – Pussycat
Autentica meteora nella seconda metà degli anni Novanta, i Mulu (Alan Edmunds e Laura Campbell) debuttano nel ’96 con “Desire”, primo singolo estratto da “Smiles Like A Shark”. Nel ’97, tratto dallo stesso LP, tocca a “Pussycat”, un brano downtempo per cui viene girato un videoclip e che, come si usa fare allora, viene dato in pasto a vari remixer. Tra loro c’è François Kevorkian che rende il pezzo appetibile alle piste da ballo trasformandolo in una gioiosa cantilena. A pubblicarlo in Italia è la Nitelite The Club Records, etichetta del gruppo Do It Yourself che in copertina piazza un bel “n° 1 club hit”.

Negrocan - Cada VezNegrocan – Cada Vez
Nati a Londra nei primi anni Novanta dalla collaborazione tra diversi musicisti provenienti da più parti del globo (tra cui il percussionista triestino Davide Giovannini), i Negrocan incidono il primo album intitolato “Medio Mundo” nel 1996. Uno dei pezzi racchiusi all’interno ed estratto come singolo è “Cada Vez”, scandito da ritmi caraibici, elementi bossanova e dalla voce della brasiliana Liliana Chachian. I responsi sono impietosi e il brano finisce presto nel dimenticatoio. Alla fine del 1999 però il remix del britannico Grant Nelson, che trasla il mood latino di partenza nel mondo della house facendo il verso allo stile dei Masters At Work, apre nuove ed inaspettate prospettive. In verità a sancire la rinascita del brano nel 2000 è un’altra versione, quella realizzata da Jerry Ropero, belga trapiantato in Spagna, capace di enfatizzare ulteriormente le potenzialità del brano dei Negrocan. L’Avant Garde Remix (Avant Garde è il progetto con cui nel ’99 Ropero & soci catalizzano l’attenzione europea attraverso “Get Down”) conquista prima i DJ dei club e poi anche i programmatori radiofonici, e nell’arco di pochi mesi il pezzo esplode in buona parte del vecchio continente. A pubblicarlo in Italia (inclusa la Album Version) è la Heartbeat del gruppo Media Records che, in seconda ripresa, mette in circolazione due ulteriori rivisitazioni, quella di Intrallazzi & Fratty e quella di Gigi D’Agostino che, all’apice della popolarità, alimenta ulteriormente il successo trasversale e momentaneo dei Negrocan.

Neja - RestlessNeja – Restless
Dopo l’esordio in sordina del ’97 con “Hallo”, per Agnese Cacciola alias Neja si aprono le porte del successo. Ciò avviene con “Restless”, un pezzo prodotto da Alex Bagnoli presso il suo Alby Studio, a Modena, che si impone come hit estiva in Italia e poi fa il giro del mondo ma soltanto a diversi mesi dall’uscita del disco. L’Extended Version è gradevole ma poco impattante a livello pop. Ci pensano i Bum Bum Club a riconfezionare la canzone in un efficace remix perfettamente calato in una dimensione che sposa le capacità vocali della cantante piemontese alle caratteristiche dell’italodance di fine decennio. Tale versione è scelta per accompagnare il videoclip. Alla luce dei risultati, i Bum Bum Club vengono ingaggiati per il follow-up, l’autunnale “Shock!”, che però raggiunge risultati più contenuti. Il tutto sotto la direzione di Pippo Landro della New Music International che vuole Neja su LUP Records, etichetta partita con “Illusion” dei Ti.Pi.Cal. nel 1994.

New Atlantic - The Sunshine After The RainNew Atlantic – The Sunshine After The Rain
Sino al 1994 la popolarità dei New Atlantic (Richard Lloyd e Cameron Saunders, da Southport, a pochi chilometri da Liverpool) non riesce ad andare oltre i confini patri. I tentativi di replicare il buon successo ottenuto con “I Know” vanno a vuoto ma quando tutte le speranze sembrano perdute accade qualcosa di inaspettato. Sulla scrivania di Jon Barlow, manager della 3 Beat Music che ha messo sotto contratto il duo, arriva “The Sunshine After The Rain”, cover dell’omonimo di Ellie Greenwich del ’68 e già ripreso con successo da Elkie Brooks nel ’77. La versione originale, pare realizzata da Neil Bowser alias U4EA, è inchiodata ad una base breakbeat, piena di asperità ritmiche. Il successo è assicurato dal remix realizzato in Italia da Roberto Gallo Salsotto in cui vengono sapientemente bilanciate ariose melodie eurodance al rigore meccanico di un bassline di moroderiana memoria. «Alla 3 Beat furono entusiasti del risultato e, per dare al disco una spinta maggiore in scia al successo di “Everybody Gonfi-Gon” che avevano licenziato pochi mesi prima, mi chiesero di usare il marchio Two Cowboys che condividevo con Maurizio Braccagni, nonostante avessi eseguito quel remix da solo» racconta qui Gallo Salsotto. La sua versione viene scelta sia per sincronizzare il videoclip che per accompagnare le apparizioni televisive come quella a Top Of The Pops. L’immagine è affidata invece a Rebecca Sleight alias Berri che dal 1995 diventa unica interprete del brano pubblicato in tutto il mondo con oltre 200.000 copie vendute.

Nick Beat - TechnodiscoNick Beat – Technodisco
Partito nel 1996 con “Bow Chi Bow” che attinge dal classico dei Vicious Delicious intitolato “Hocus Pocus”, Nick Beat è il progetto tedesco messo su da Tom Keil e Thorsten Adler. I due fanno centro nel 2000 con “Technodisco”, un pezzo che inizia a circolare in formato white label e che in breve tempo conquista le attenzioni della Zeitgeist del gruppo Polydor, probabilmente attratta dalla evidente somiglianza con una hit di poco tempo prima, “Kernkraft 400” degli Zombie Nation. La versione originale, la Technodiscomix, fa incetta dei tipici elementi della dance tedesca di allora con retaggi hard trance misti a suonini che sembrano saltare fuori da un vecchio coin-op degli anni Ottanta. Dei diversi remix giunti sul mercato quello di Axel Konrad, figura chiave della handsup teutonica, si distingue meglio per il grande pubblico. Più “picchiaduro”, per restare ancorati al mondo dei videogiochi d’antan, sono le versioni del compianto Pascal F.E.O.S. e di Thomas P. Heckmann. A pubblicare il disco in Italia è la Green Force del gruppo Arsenic Sound, lo stesso che prende in licenza “Kernkraft 400″ e che, a distanza di qualche settimana, mette in vendita un 12” con due ulteriori remix di “Technodisco” a firma DJ Gius, l’artefice del successo mondiale di Zombie Nation di cui si parla più avanti.

Nightcrawlers - Push The Feeling OnNightcrawlers – Push The Feeling On
Ispirata da “Pass The Feelin’ On” dei Creative Source, “Push The Feeling On” esce nel 1992 e prova a ritagliarsi un posto nel mercato acid jazz a cui la band dei Nightcrawlers, guidata dal cantante John Reid, approccia già l’anno prima con “Living Inside A Dream”. Il destino però ha in serbo altri progetti. La Nocturnal Dub realizzata dal DJ americano Marc ‘MK’ Kinchen, fratello di Scott Kinchen alias Scotti Deep, dona al brano una veste completamente diversa, ritmicamente (con una base in stile StoneBridge) e sotto il profilo dell’arrangiamento con un assolo di sax che, insieme ad una filastrocca di loop vocali concatenati, diventa un autentico tormentone. Sarà sempre Kinchen a perfezionare ulteriormente “Push The Feeling On” nella MK Mix 95 giunta, per l’appunto, nel 1995, anno in cui si cerca, proprio col suo aiuto, di bissare il successo con altri singoli (“Surrender Your Love”, “Don’t Let The Feeling Go”, “Let’s Push It”) ma con risultati inferiori. Difficile o forse impossibile tenere il conto dei remix, riadattamenti (si senta, ad esempio, “Control Your Body” di Wagamama) e cover di “Push The Feeling On” usciti nell’arco di quasi un trentennio a cui si è recentemente aggiunta la fortunata versione di Riton.

Nina - I'm So ExcitedNina – I’m So Excited
La croata Nina Badric inizia la carriera da cantante nei primi anni Novanta ma con pochi risultati che valicano i confini. La situazione cambia alla fine del 1998 grazie al brano “I’m So Excited”, remake dell’omonimo delle Pointer Sisters prodotto da Albert Koler, che invece fa il giro di buona parte d’Europa conquistando in particolar modo Austria, Francia, Spagna, Grecia ed Italia. La main version, la NYC RnB Mix, è una slow ballad r&b per l’appunto. Koler appronta comunque una versione destinata alle discoteche, la Exciting House Mix. In Italia però Nina spopola grazie ad uno dei due remix realizzati da Alex Voghi e Filippo ‘Sir H’ Soracca, precisamente il Solid State Dance, che tiene banco sino all’estate 1999. A pubblicare il brano, sia su 12″ che CD singolo, è la Dance Excess del gruppo Hitland. Per il follow-up, “One & Only”, la casa discografica scommette sulla versione di DJ Dado realizzata insieme a Roberto Gallo Salsotto presso il suo Stockhouse Studio.

Olive- You're Not AloneOlive – You’re Not Alone
Londra, 1994: il musicista Tim Kellett, ex componente dei Simply Red, e Robin Taylor-Firth, dalla formazione dei Nightmares On Wax, si conoscono attraverso un amico comune ed iniziano a buttare giù idee nello studio casalingo di Kellett. Approntano tre demo, strumentali. Uno di quelli diventa “You’re Not Alone” con la voce di Ruth-Ann Boyle che proprio Kellett sente per caso, attraverso una registrazione, durante una tappa del tour dei Durutti Column per cui quell’anno è ingaggiato come tastierista. La Boyle, tra le coriste dell’album “Sex And Death” degli stessi Durutti Column, si diletta a cantare con band locali della sua città natale, Sunderland, ma sino a quel momento non ha maturato significative esperienze professionali. A settembre del 1995 i tre firmano un contratto con la RCA che nel 1996 pubblica l’album “Extra Virgin”. L’LP, come dichiara Taylor-Firth in questa intervista del 2007, viene realizzato con un paio di sintetizzatori (Roland Juno-60 ed E-mu Vintage Keys) e tre campionatori Akai S3000. Il primo singolo ad essere estratto è “You’re Not Alone”, accompagnato dal relativo videoclip. I responsi sono impietosi, il mix tra rarefatte atmosfere ambientali ed accartocciamenti trip hop non sortisce grandi risultati, e neanche i remix firmati da nomi blasonati come X-Press 2 e Tin Tin Out, tempestivamente pubblicati anche in Italia dalla Flying Records, riescono ad invertire la rotta. Nel 1997 arrivano nuove versioni tra cui quelle di Roni Size, The Ganja Kru, Rollo & Sister Bliss dei Faithless e Paul Oakenfold & Steve Osborne e per gli Olive le cose cambiano radicalmente, in modo simile a quanto avvenuto pochi anni prima ai connazionali N-Trance con “Set You Free”. “You’re Not Alone” entra nella classifica britannica e vende oltre 500.000 copie trainando “Extra Virgin” che la RCA ovviamente ristampa distribuendolo in tutto il mondo, ma curiosamente solo in formato CD e cassetta (il vinile arriva quasi venti anni dopo, nel 2016). A maggio del 1997 ad osannare gli Olive è anche il pubblico di Top Of The Pops mentre arriva un secondo video di “You’re Not Alone” che fa da cornice ad un tour internazionale. Così come la Boyle raccontava anni fa sul suo sito, Madonna assiste ad una performance in Germania proprio durante quel tour e, con entusiasmo, propone alla band di incidere un nuovo album per la sua etichetta, la Maverick. Il disco arriva nel 2000 e si intitola “Trickle”. Più di qualche critico musicale (tra cui Larry Flick in una recensione apparsa su Billboard l’11 aprile 1998) però fa notare che la fascinazione su Madonna prende già corpo con “Frozen”, prodotta da William Orbit, remixata per i club da Victor Calderone e contenente i parametri di “You’re Not Alone”. La hit degli Olive continuerà ad essere motivo d’ispirazione come testimoniano molteplici cover uscite nel corso degli anni a partire da quella del tedesco ATB risalente al 2002.

Paul van Dyk - For An AngelPaul van Dyk – For An Angel
“For An Angel” è uno dei brani racchiusi in “45 RPM”, album di debutto per Paul van Dyk nonché il primo dei due che il DJ destina alla MFS di Mark Reeder. Co-prodotta con l’ingegnere del suono Johnny Klimek, la traccia è imperniata su un breve riff melodico innestato su una base più vicina alla progressive house che alla trance. Nota essenzialmente a chi ha comprato quell’album, nel 1998 per “For An Angel” si apre una seconda vita, molto più intensa della precedente. La britannica Deviant Records del compianto Rob Deacon pubblica un 12″ con tre remix della traccia per lanciare il tedesco oltremanica. Tra quelle nuove versioni c’è la E-Werk Club Mix, approntata dallo stesso van Dyk: grazie ad un ritmo più euforico simile a quello costruito per il remix di “1998” dei Binary Finary, il brano adesso conquista l’intera platea europea, complici la Love Parade di Berlino dove è consacrata allo status di inno ed un videoclip girato per l’occasione. A pubblicare il disco in Italia è la Milk’n Honey, una delle etichette del gruppo More Music curata artisticamente da Raffaela Travisano intervistata qui.

Powerhouse Featuring Duane Harden - What You NeedPowerhouse Featuring Duane Harden – What You Need
Powerhouse è il nome con cui il DJ newyorkese Lenny Fontana firma un successo mondiale nel 1999. Avvalendosi della graffiante voce di Duane Harden, lo stesso che interpreta “You Don’t Know Me” di Armand Van Helden, e sfruttando abilmente un campionamento tratto da “I’m Here Again” di Thelma Houston, Fontana assembla un brano irresistibile, legato tanto alla house quanto alla disco. La versione passata alla storia però non è l’Original Mix bensì il remix dei britannici Full Intention (Jon Pearn e Michael Gray), da anni attratti da quel tipo di fusione stilistica a cui peraltro devono gran parte della loro popolarità (si pensi a brani del repertorio come “Uptown Downtown”, “America (I Love America)” e “Shake Your Body (Down To The Ground)”). È proprio il remix dei Full Intention ad essere sincronizzato sul videoclip programmato dalle tv musicali sparse in tutto il pianeta.

Rachid - PrideRachid – Pride
Figlio del compianto Ronald Nathan Bell, uno dei fondatori dei Kool & The Gang, l’allora ventiquattrenne Rachid non intende affatto usare il nome del padre come scorciatoia per raggiungere il successo o grimaldello per aprire porte nel music biz. Si propone piuttosto come un sedicente poeta punk, ispirato da Björk, Bauhaus, Sonic Youth, Chaka Khan, David Bowie e Marcel Proust, e mostra interessi plurimi che passano dal trip hop all’industrial, dal drum n bass al folk e al soul con l’intenzione di creare il prototipo della musica del futuro. Non a caso “Prototype” è il titolo del suo primo (ed unico) album che Universal pubblica nel 1997 raccogliendo rincuoranti consensi dalla critica che ne parla come disco candidato a ridefinire i confini del pop. Anche il primo singolo estratto, “Pride”, promette molto bene. «È stata la prima canzone che ho registrato, musicandola con un sample hip hop e il suono del violoncello, credo sia perfetta per introdurre il pubblico a ciò che rappresento» spiega l’artista in un’intervista a cura di Michael A. Gonzales apparsa a settembre 1998 sulla rivista americana Vibe. In circolazione finisce pure il video destinato al circuito delle tv musicali. Una serie di remix poi traghetta Rachid anche nel mondo dei DJ e delle discoteche: in particolare è la versione dei Mood II Swing ad essere salutata con maggior entusiasmo, pure in Italia dove viene pubblicata ad inizio ’98 dalla Nitelite The Club Records del gruppo Do It Yourself guidato da Max Moroldo che rimarca la presenza di quella versione in copertina. Sul trampolino di lancio c’è già il secondo singolo, “Charade”, ma dissapori con la Universal, causati da un presunto cambio di politica aziendale, bloccano tutto. Di “Charade” inoltre è pronto un remix realizzato da Grooverider ma la fine del rapporto con la casa discografica vanifica tutto. Nel 2007 lo stesso Grooverider manda in onda quel remix nel suo radio show su BBC Radio 1, invitando gli ascoltatori a registrarlo perché rarissimo ed inciso su pochissimi acetati.

Rahsaan Patterson - Where You AreRahsaan Patterson – Where You Are
Dopo alcune esperienze come attore, Patterson approda alla musica figurando come corista per vari artisti, su tutti Brandy nel brano “Baby” del ’94. L’anno dopo viene scritturato dalla MCA che nel ’97 pubblica il suo primo album intitolato “Rahsaan Patterson”, un condensato di soul ed r&b. In questo LP c’è “Where You Are”, una ballata romantica supportata dal relativo video. A portare la musica di Patterson al grande pubblico è però il remix di Steve “Silk” Hurley, praticamente in stato di grazia dopo “The Word Is Love” realizzata pochi mesi prima con Sharon Pass e a cui i suoi tanti remix di quel periodo, incluso quello per Rahsaan Patterson, sono direttamente connessi.

Ralphi Rosario Featuring Donna Blakely - Take Me Up (Gotta Get Up)Ralphi Rosario – Take Me Up (Gotta Get Up)
Tra i veterani della scena house chicagoana nonché membro del collettivo Hot Mix 5, Ralphi Rosario incide un inno monolitico nel 1987, “You Used To Hold Me”. Instancabile DJ e produttore/remixer, torna al successo trasversale capace di abbracciare pure il frangente mainstream esattamente dieci anni più tardi, a fine ’97, quando circola un doppio mix su Underground Construction intitolato “Take Me Up (Gotta Get Up)”. La versione originale del brano, interpretato dalla compianta Donna Blakely che mette bene in mostra le proprie potenzialità vocali, gira su un ossessivo basso su cui si innesta a ventaglio tutta una serie di elementi, da fiati ad inserti di tastiere. È perfetto per i club specializzati, meno per le radio e le grandi platee. Uno dei quattro remix incisi sul doppio però, quello di Rafael Rodriguez alias Lego che un paio dopo spopola grazie ad “El Ritmo De Verdad”, capovolge la situazione. Con un ipnotico loop ritmico su cui cresce rigogliosamente la voce della Blakely, il pezzo esplode nei primi mesi del 1998 affermandosi in buona parte d’Europa. A licenziarlo in Italia è la Rise, neonata etichetta della Time Records curata da Alex Gaudino che sul 12″, oltre alla Lego’s Mix ovviamente piazzata in posizione A1, vuole pure la versione dei Fire Island. L’Original Club Mix di Rosario è relegata invece al lato b. Sul CD singolo finiscono infine altri due remix, quelli di Kevin Halstead (anche lui passato a miglior vita) e JJ Flores ma ininfluenti per il successo commerciale del brano.

Reel 2 Real - Go On MoveReel 2 Real – Go On Move
Balzati all’attenzione generale tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994 con “I Like To Move It”, i Reel 2 Real capitanati dal compianto Erick Morillo cavalcano la seconda ondata hip house insieme ad artisti come 2 In A Room, 740 Boyz, Outhere Brothers e KC Flightt. Il follow-up del citato “I Like To Move It” è proprio “Go On Move”, un brano risalente all’anno prima quando la Strictly Rhythm lo pubblica ma senza raccogliere grandi risultati. Nella Erick “More” Mix si sente bene l’imprinting morilliano ma solo grazie alla Erick “More” 94 Vocal Mix, accompagnata dal relativo videoclip e da una parte vocale più estesa interpretata da Mark Quashie alias The Mad Stuntman, il brano diventa un successo estivo. In Italia è un’esclusiva della napoletana UMM che in autunno pubblica anche l’album “Move It!” da cui verranno estratti altri singoli più o meno fortunati come “Can You Feel It?”, “Raise Your Hands” e “Conway”.

Rexanthony - Capturing MatrixRexanthony – Capturing Matrix
Le prime versioni di “Capturing Matrix”, tra cui svetta la Trancegression, iniziano a circolare nella primavera del 1995 attraverso un mix edito dalla S.O.B. del gruppo Dig It International. Quella dell’allora diciottenne Anthony Bartoccetti, figlio dei musicisti Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui) ed Antonio Bartoccetti, è indiavolata hard trance in cui scorre una spiccata vena melodica che gli apre le porte del mainstream. A decretare il successo del brano a fine estate è il remix realizzato dallo stesso Rexanthony che la S.O.B. immette sul mercato su un 12″ contenente “Cocoacceleration”, realizzata a quattro mani con Molella, e “Deltasygma”. Il successo è tale da conquistare la vetta della classifica dance ai tempi più monitorata ed influente d’Italia, la DeeJay Parade, e generare più di qualche clone realizzato in copia carbone come “Melody In Motion” di Liberty. Ps: si narra che la linea melodica di “Capturing Matrix” sia stata ispirata da “Capturing Universe”, un brano composto dai genitori di Bartoccetti nel 1980 per l’album “Praeternatural” ma di cui non vi è traccia sino al 2003, anno in cui viene pubblicato dalla Black Widow Records. Pare più plausibile invece la relazione tra “Capturing Matrix” (e il follow-up autunnale “Polaris Dream”) e “Universe Of Love” del tedesco RMB, uscita nel ’94 e di cui parliamo qui nel dettaglio.

Robert Miles - ChildrenRobert Miles – Children
Quando si accorge che in circolazione c’è un altro Roberto Milani, pseudonimo utilizzato per alcuni dischi che non riescono ad uscire dall’anonimato, Roberto Concina modifica il suo alter ego ed opta per l’inglesizzazione, Robert Miles. Il primo 12″ firmato col nuovo nome è “Soundtracks”, pubblicato nei primi mesi del 1995 da una delle etichette di Joe T. Vannelli, la DBX Records. Uno dei quattro brani inclusi è “Children”, seppur storpiato da un errore tipografico, sia sulla copertina che sull’etichetta centrale, in “Childrtens”. Questa versione, un ibrido tra progressive house e progressive trance con arcate melodiche in grande evidenza, viene completamente snobbata. Quando la Platipus di Simon Berry prende in licenza “Children” per il territorio britannico però cambia tutto. All’etichetta d’oltremanica Concina destina anche un remix del brano in cui la vena melodica è implementata da un assolo di pianoforte che anni dopo si scoprirà essere parzialmente ispirato da “Napoi Menia Vodoi” del musicista russo Garik Sukachov, sembra col suo benestare. Ad onor del vero anche l’impostazione armonica di stampo new age, già presente nell’Original Version, pare non essere farina del suo sacco: come si legge in questo articolo del 18 settembre 1997, il musicista Patrick O’Hearn accusa Concina di plagio ai danni del suo “At First Light”, contenuto nell’album “Ancient Dreams” del 1985, e chiede oltre dieci milioni di dollari come risarcimento. Comunque siano andate le cose, quel remix del brano, poi diventato la definitiva Dream Version, cambia la vita di Concina, conquistando la vetta delle classifiche in ben diciotto Paesi del mondo e vendendo milioni di copie, dai tre e mezzo ai cinque, secondo diverse interviste. Il resto lo potete leggere in questo dettagliato articolo.

Robin S - Show Me LoveRobin S – Show Me Love
Nata nel 1962 a New York, Robin Stone debutta nel 1990 col brano “Show Me Love”, scritto e prodotto per la londinese Champion da Allen George e Fred McFarlane incontrati, come lei stessa racconta in un’intervista rilasciata nell’autunno del 1994, durante una delle serate che tiene nei dinner club e nei privée delle discoteche dell’area newyorkese insieme alla sua band, i Top Shelf. La versione principale, la Montego Mix, è mixata da Anthony King e scorre su partiture house garage, non pretenziose ed un filo banali seppur ben realizzate. In pochi si fanno avanti, la ZYX per la Germania, la Carrere per la Francia e la Media Records per l’Italia che lo pubblica sulla Whole Records ma con risultati deludenti. “Show Me Love” finisce presto nel dimenticatoio. Un paio di anni dopo circa però un remix proveniente dalla Svezia cambia il corso degli eventi. A realizzarlo sono StoneBridge e Nick Nice della SweMix, un collettivo di DJ e produttori in cui figurano, tra gli altri, anche il compianto Denniz Pop e Douglas Carr. Gli svedesi dotano il pezzo di un apparato ritmico/sonoro interamente nuovo che fornisce a “Show Me Love”, ora ripubblicato in tutto il mondo, una seconda vita che di fatto non si è mai conclusa a giudicare dal numero di remake e remix usciti sino ad oggi. Anche la cantante, coinvolta nel videoclip sincronizzato sulla nuova versione, si ripresenta al pubblico con un nome parzialmente diverso, Robin S. Ad accaparrarsi i diritti per la pubblicazione in Italia è D:Vision Records del gruppo Energy Production, la stessa che si aggiudica il follow-up “Luv 4 Luv”, ancora remixato da StoneBridge.

Roc & Kato - AlrightRoc & Kato – Alright
Il duo americano formato da Ramon Ray Checo e Juan Kato incide house music sin dal 1991 ma senza velleità commerciali. Il loro sound è fedelmente ancorato alla scena house newyorkese come testimoniato dai vari dischi del repertorio, incluso “Alright” che la Slip ‘n’ Slide pubblica nella primavera del 1995. La Original Vocal Mix è spassionata house garage, cantata da Charmaine Radcliff e Bendel Holt con inserti di pad ed un organo hammond. Sul doppio figurano già un paio di remix, tra cui quello di Davidson Ospina, che ingolosiscono gli adepti della garage e che stuzzicano qualcuno alla sede della Discomagic che prende in licenza il brano per l’Italia ristampandolo su etichetta Reform. A far cambiare traiettoria ad “Alright” sarà, qualche mese più tardi, il remix firmato da Mario ‘Get Far’ Fargetta che da noi diventa un discreto successo autunnale. La nuova versione, pubblicata sempre da Reform e realizzata negli studi della bresciana DJ Movement insieme al musicista Pieradis Rossini, mantiene pochi elementi dell’originale puntando ad una ricostruzione fatta di suoni eurodance ed un cantato che fa leva sull’hook di facile memorizzazione.

Rosie Gaines - Closer Than CloseRosie Gaines – Closer Than Close
La versione originale, in stile r&b, risale al 1995 ed è inclusa nell’album omonimo su Motown, “Closer Than Close”, il secondo inciso dalla cantante californiana, ex corista dei New Power Generation. A conquistare il mondo delle discoteche e le classifiche di vendita europee (soprattutto quella britannica di cui raggiunge la vetta) è però il remix esploso due anni più tardi. A realizzarlo sono i Mentor (Hippie Torrales e Mark Mendoza) che con la loro rielaborazione garage house, in circolazione già dal 1996 in formato white label e supportata da molti DJ tra cui il nostro Coccoluto come si legge qui, garantisticono alla Gaines un momento di inaspettata popolarità riuscendo a dare filo da torcere agli altri remixer coinvolti, i londinesi Tuff Jam e l’indimenticato Frankie Knuckles. Per l’occasione viene girato un videoclip diretto da Steve Price. Nella sua biografia Torrales parla di oltre otto milioni di copie vendute, una soglia incredibile per un pezzo che nella versione di partenza aveva rivelato ben poche speranze di sviluppo. Con lo scopo di rendere quanto più longevo possibile l’exploit di Rosie Gaines, la Bigbang Records commissiona sempre ai Mentor il remix del follow-up, “I Surrender”, ma fallendo l’obiettivo.

Run Feat. Justine Simmons - Praise My DJ's (My Funny Valentine)Run Feat. Justine Simmons – Praise My DJ’s (My Funny Valentine)
Inizialmente pubblicato dalla britannica Positivity Records diretta dall’A&R Carlton Brady, “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” è un pezzo hip house modellato sulle liriche di una vecchia canzone scritta negli anni Quaranta da Richard Rodgers e Lorenz Hart, “My Funny Valentine”. Ad interpretarlo sono Joseph Simmons alias Run (il Run dei Run-DMC) e la moglie Justine, ma i risultati ottenuti con le versioni iniziali prodotte da Kirwin Rolle e Remano Dunkley sono particolarmente deludenti. Il remix invece, realizzato in Italia dal team dei Mach 3, capovolge letteralmente la situazione trasformando la traccia in un successo dalle dimensioni internazionali. Merito di un trattamento che gli autori (Alessandro Zullo, Andrea Monta e Luca Neuburg, coadiuvati dagli scratch di DJ Aladyn) edificano rispolverando il mood nevinsiano di “It’s Like That” abbinato a stab di memoria rave ma soprattutto ad un riff fischiettato, vero elemento identificativo che fa di “Praise My DJ’s (My Funny Valentine)” un tormentone tra la primavera e l’estate 1999, accompagnato dal relativo videoclip ovviamente sincronizzato sul remix. A commissionare il lavoro ai Mach 3 (e al veneto Spiller, prossimo ad esplodere con la sua “Groovejet”) è la More Music Italy, ai tempi guidata dalla citata Raffaela Travisano, che convoglia il brano su etichetta Priveé. «Super programmato in radio e in discoteca e presente nelle top ten di vendita, a dimostrazione che le diffidenze delle prime settimane erano totalmente ingiustificate» scrive in merito Eugenio Tovini sulle pagine di Trend Discotec a luglio di quell’anno. Il follow-up, “Check Out The Floor (Summer Breeze)”, remixato ancora dai Mach 3 in quella che pare davvero la fotocopia del precedente, arriva solo nel 2001 sulla 909 Records, una delle label di Joe T. Vannelli, ma ormai fuori tempo massimo.

Run-DMC - It's Like ThatRun-DMC – It’s Like That
Nel 1997, quattordici anni dopo la pubblicazione sulla Profile Records, un remix (in Italia pubblicato dalla bresciana Time) riporta in vita “It’s Like That”, singolo d’esordio dei Run-DMC, dando ad esso una nuova veste sonora ed un’inedita prospettiva. L’artefice, il newyorkese Jason Nevins, sovrappone l’acappella originale ad una trascinante base e il risultato piace talmente tanto da conquistare la prima posizione delle classifiche di vendita in svariate nazioni e macinando oltre cinque milioni di copie anche se Nevins, pare, abbia incassato solo 5000 sterline così come riportato qui dalla BBC. Per far fronte al successo inaspettato viene girato un videoclip che proietta il gruppo in una scena ben diversa rispetto a quella hip hop e ciò provoca, prevedibilmente, aspre critiche degli integralisti, poco propensi a mandare giù una versione più volte definita “pacchiana”. Si parla anche di screzi e risentimenti tra il remixer e gli autori emersi nel 1999 attraverso la rivista XXL Magazine. Comunque sia il particolare beat, una sorta di brutalizzazione di “The House Of God” di DHS, diventa una tag identificativa per Nevins, pronto a riutilizzarlo per altri remix come quello di “It’s Tricky”, ancora dei Run-DMC, e “We Want Some Pussy!” dei 2 Live Crew a cui seguono anche vari tentativi di imitazione come “Work It” di Junkfood Junkies e “I Know You’ve Got Soul” di Trade Secrets.

Sandy B - Make The World Go RoundSandy B – Make The World Go Round
Contrariamente a quanto avviene di solito nel mondo della musica, la carriera della cantante statunitense Sandra Barber decolla dopo aver mollato le multinazionali in favore di etichette indipendenti. Negli anni Ottanta milita prima nei Chew (per la Capitol Records) e poi nei Blue Moderne, sotto contratto con l’Atlantic, ma il successo internazionale giunge nel ’92 grazie a “Feel Like Singin'”, edito da Nervous Records ed impreziosito da un remix di David Morales. Il vero botto nel 1996 con “Make The World Go Round”, pubblicato dalla Champion pare bypassando del tutto la versione originale rimasta, secondo quanto riportato ai tempi da un magazine tedesco, nel cassetto ed allo stato di demo. Scritto da Brinsley Evans e Thomas Del Grosso, il brano si impone in tutto il mondo grazie al remix dei Deep Dish, colorito da un caratteristico disegno di basso che risulterà l’indiscusso punto di forza tanto da essere riproposto in innumerevoli salse, a partire da “Let Me Show You” di Camisra. Con il loro Round The World Remix dunque, Dubfire e Sharam surclassano le rivisitazioni di esimi colleghi come StoneBridge e Kerri Chandler, e dimostrano che il successo ottenuto l’anno prima col remix di “Hideaway” dei De’Lacy, di cui si è già detto sopra, non fu solo frutto della fortuna. Commercialmente meno entusiasmante sarà invece il follow-up, “Ain’t No Need To Hide”, che i Deep Dish rileggono nella Sequel Mix in Italia pubblicata, analogamente a “Make The World Go Round”, dalla D:Vision Records.

Scott Grooves - Mothership ReconnectionScott Grooves – Mothership Reconnection
A portare grande popolarità a Patrick Scott, DJ e produttore di Detroit meglio noto come Scott Grooves, è “Mothership Reconnection”, rielaborazione house di “Mothership Connection (Star Child)” dei Parliament di George Clinton anche se, come chiariscono i crediti, i frammenti campionati non sono del brano uscito nel 1975 bensì quelli presi dal Live di Houston registrato dieci anni più tardi. Ai tempi la versione di Scott viene incanalata nel French Touch seppur la traccia provenga dagli States: col suo metti e togli di fiati e scampoli di batteria, pare davvero un pezzo uscito dallo studio dei Motorbass, I:Cube o Dimitri From Paris. Magari sarà stata proprio questa somiglianza a spingere i vertici della scozzese Soma a commissionare un remix ad un duo francese su cui avevano scommesso per primi nel ’94, i Daft Punk. Così, dal Daft House di Parigi, arriva un remix che sintetizza le idee di partenza di Scott centrifugate in un energetico puzzle da cui affiorano tessere electrofunk. Il risultato è irresistibile e finisce col mettere in ombra la versione originale inclusa nell’album “Pieces Of A Dream” pubblicato sempre dalla Soma di Glasgow.

Shamen - Move Any MountainShamen – Move Any Mountain
Analogamente ai connazionali Underworld, pure gli Shamen iniziano con un nome diverso (Alone Again Or) abbracciando il rock alternativo seppur senza vantare un successo simile per dimensioni a “Doot-Doot”. Quando si ribattezzano col nuovo moniker, nel 1985, le differenze con quanto avvenuto degli anni precedenti non sono ancora evidenti ma le prospettive muteranno presto. I riscontri raccolti con “Jesus Loves Amerika” ed altri singoli estratti dall’album “In Gorbachev We Trust” contribuiscono ad edificare la nuova estetica sonica della band fondata da Colin Angus e dai fratelli Derek e Keith McKenzie, a cui si aggiungono altri componenti come Richard West meglio noto come Mr. C (proprio quello del londinese The End), il bassista Will Sin e la cantante Plavka Lonich, pochi anni dopo voce dei pezzi commercialmente più fortunati dei Jam & Spoon. In “En-Tact”, del ’90, le matrici rock collidono in scenari elettronici. Uno dei brani contenuti è “Progen”, antesignano del chemical beat e di tutta quella che, a posteriori, la critica definirà indie dance. Gli inserti rappati dal citato West stuzzicano ricordi hip house ma sarebbe un errore annettere il brano a tale corrente. Estratto come singolo e mixato da Paul Oakenfold, “Progen” conquista una serie di licenze sparse in Europa (Italia compresa, su Ricordi International) ma vedrà la completa affermazione soltanto l’anno seguente quando viene remixato e ripubblicato col titolo “Move Any Mountain” (e il sottotitolo “Progen 91”). Tra le tante versioni approntate risulta decisiva e determinante quella dei Beatmasters, pionieri della house music d’oltremanica con pezzi come “Rok Da House”, “Burn It Up”, “Warm Love” ed “Hey DJ / I Can’t Dance (To That Music You’re Playing)”. È la loro rivisitazione dunque a permettere alla band scozzese di varcare per la prima volta la soglia della top ten dei dischi più venduti in patria e conquistare la quarta posizione nonché piazzarsi alla 38esima piazza dell’ambita Billboard Hot 100 dall’altra parte dell’Atlantico. La Beat Edit mette insieme con lungimiranza spunti breakbeat, rock ed hip hop su uno sfondo psichedelico, vero leitmotiv della produzione shameniana di quegli anni, ed è sincronizzata col video girato nella primavera del 1991 alle pendici del vulcano Teide, a Tenerife. Al termine delle riprese Will Sin, poco più che trentenne, muore annegato nelle acque dell’isola vicina di Gomera, risucchiato da insidiose correnti marine. La tragedia comunque non impedisce di proseguire la carriera agli Shamen che incidono nuovi album da cui vengono prelevati singoli di successo tra cui “Ebeneezer Goode”, “Phorever People”, “L.S.I. (Love Sex Intelligence)”, “Comin’ On”, “Transamazonia” e “Destination Eschaton” e rivelandosi, così come scrive Rita Ferrauto su Dance Music Magazine a novembre del 1995, «la band che allaccia circuiti musicali e mentali tra l’antica mitologia, lo sciamanesimo e le nuove tecnologie informatiche».

Shauna Davis - Get AwayShauna Davis – Get Away
Nata Stéphane Moraille, Shauna Davis debutta come solista nel 1995 col brano “Get Away” pubblicato dalla canadese Hi-Bias Records e in Italia licenziato su Downtown (gruppo Time Records). L’Original Mix resta praticamente ignota al contrario della Club Mix firmata da StoneBridge e Nick Nice: gli svedesi continuano abilmente a sfruttare l’onda innescata dai tempi di “Show Me Love” di Robin S riuscendo a trasformare in successo quasi qualsiasi cosa tocchino. Dello stesso periodo si segnalano infatti, oltre ad “Everlasting Pictures – Right Through Infinity” di B-Zet e “Sex And Infidelity” dei nostri Blast di cui abbiamo già parlato sopra, altri loro fortunati remix come quelli per “Boombastic” di Shaggy, “This Time I’m Free” di Dr. Album e “Deep In You” di Tanya Louise. La Davis inciderà altri due singoli sino al 1998, anno in cui sarebbe dovuto uscire un album rimasto però nel cassetto. La cantante si rifà interpretando “Drinking In L.A.”, hit estiva dei Bran Van 3000.

Simian - We Are Your FriendsSimian – We Are Your Friends
Nel 2002 la Source pubblica “Never Be Alone” dei Simian, brano indie rock estratto dall’album “We Are Your Friends” che non riscuote significativi consensi. L’anno dopo gli allora sconosciuti Justice (i francesi Gaspard Augé e Xavier de Rosnay) realizzano, per un contest, un remix che gli apre le porte della neonata Ed Banger Records. In questa nuova versione, finita su un 12″ della label di Busy P, resta parte della voce originale (un mix tra Iggy Pop e Robert Smith) incastrata in una graffiante e flessuosa base electro house. Qualcosa inizia a muoversi nel 2004 grazie a DJ Hell che intuisce le potenzialità del brano e lo licenzia sulla International Deejay Gigolo, ma la consacrazione pop arriva solo nel 2006 quando la 10 Records del gruppo Virgin ripubblica la traccia reintitolata “We Are Your Friends” e premiata agli MTV Europe Music Awards per il video diretto da Rozan & Schmeltz.

Smoke City - Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)Smoke City – Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)
Non si può dire che la versione originale di “Mr Gorgeous (And Miss Curvaceous)”, presente nell’album “Flying Away”, sia passata proprio inosservata. Con un seducente mix tra trip hop ed acid jazz saldato da richiami latini analogamente a quanto avviene in “Underwater Love” scelta per lo spot Levi’s, la band britannica conquista spazi sempre più consistenti nell’audience internazionale. Tuttavia è il remix del brano a sancire una popolarità ancora più trasversale abbracciando anche il mondo delle discoteche. Merito della Vocal Mix approntata dai Mood II Swing (gli americani John Ciafone e Lem Springsteen, quell’anno all’opera su “Free” di Ultra Naté) in cui le avvolgenti atmosfere evocate dalla voce sibillina di Nina Miranda vengono preservate e fatte confluire in una gabbia di ritmo irresistibile che ne fa una hit nell’estate 1997 e riesce a reggere ottimamente il confronto col remix di “Underwater Love” realizzato da David Morales.

Steam System - Barraca DestroySteam System – Barraca Destroy
“Barraca Destroy” esce nella primavera del 1993 segnando il debutto del progetto Steam System dietro cui armeggiano Claudio Collino (che all’attivo ha già le hit di Sueño Latino ed Atahualpa), Piero Pizzul, e Michele Menegon alias Michael Hammer, futuro direttore di Italia Network. Come racconta proprio Menegon in questa intervista, «”Barraca Destroy” fu una produzione commissionata dall’Expanded Music per la nota discoteca spagnola Barraca. Doveva essere l’inno del locale e il lavoro fu piuttosto semplice: una melodia orecchiabile, parole spagnole comprensibili ed una buona dose di energia, tutti elementi convogliati della Destruction Version. Una volta terminato, il brano fu spedito in Spagna ma appena duemila copie furono stampate per l’Italia. Soltanto Italia Network lo programmò, credo per farmi un piacere. Poi il disco finì nel dimenticatoio. Un giorno di fine estate mi chiamò Giovanni Natale, boss dell’Expanded Music, dicendomi che Molella, di ritorno dalla Spagna, aveva acquistato il disco e che lo fece ascoltare ad Albertino e Fargetta. Tutti erano convinti che si trattasse di una hit. A quel punto mi chiese di rientrare in studio e realizzare un remix che ne esaltasse la forza. Con Claudio e Piero componemmo quindi la traccia oggi nota a tutti». La versione che arriva al grande pubblico è proprio tra i remix, la En Directo, colorita dal battito di mani di “We Will Rock You” dei Queen.

Sven Väth - Dein SchweissSven Väth – Dein Schweiss
La versione originale di “Dein Schweiss”, inclusa nell’album “Contact” edito dalla Virgin nel 2000, è frutto del lavoro sinergico tra Sven Väth e Johannes Heil. Supportata da un videoclip in cui il DJ biondo di Obertshausen domina la scena con la sua solita verve e spigliatezza, la traccia mischia elementi techno ed electro. Quando, tra fine 1999 ed inizio 2000, la Virgin pubblica il singolo però alla Master Mix aggiunge un feroce remix che nell’arco di pochi mesi finisce col diventare decisamente più noto dell’originale: a realizzarlo, spingendosi sino a lambire sponde EBM, è Thomas P. Heckmann, prolifico produttore di Magonza con un eccelso repertorio da cui svettano pure successi dalle dimensioni europee come “Amphetamine” di Drax e “Sync In” di Silent Breed.

Sweetbox Feat. Tempest - Booyah (Here We Go)Sweetbox Feat. Tempest – Booyah (Here We Go)
Prodotto da Roberto ‘Geo’ Rosan e partito dalla tedesca Maad Records, “Booyah (Here We Go)” è un pezzo che si fa lentamente strada nei primi mesi del 1995 unendo una base simile a quella di “Short Dick Man” dei 20 Fingers alla voce di Kimberly ‘Tempest’ Kearney che ammicca invece all’eurorap in stile Technotronic, Leila K o Daisy Dee. La versione originale, supportata dal relativo videoclip, fa presa nei locali e in radio ma a garantire un airplay ancora più incisivo specialmente nel nostro Paese è uno dei remix intitolato Hot Pants Club Mix realizzato da Nique a mo’ di mash-up tra l’acappella di Tempest e la base di “We Are Family” delle Sister Sledge. A pubblicare il brano in Italia è la Discomagic di Severo Lombardoni, la stessa che in autunno licenzia il follow-up “Shakalaka”, una specie di incrocio tra Outhere Brothers e Reel 2 Real che però si rivela meno fortunato nonostante annoveri il remix di Mousse T.

T42 - Melody BlueT42 – Melody Blue
Partito nel ’97 con “Every Life Unfolds” e “Children’s Voices” editi dalla Dance Factory del gruppo EMI, il progetto T42 si fa notare meglio due anni più tardi quando passa all’indipendente No Colors (gruppo F.M.A.) che pubblica “Melody Blue”. L’Original Mix, prodotta dal compianto Graziano Pegoraro, finisce sul lato b mentre a torreggiare è il remix di Fargetta, arrangiato da Graziano Fanelli e Max Castrezzati sul classico modello italodance di fine anni Novanta. Sarà sempre Fargetta a tenere alte le quotazioni di T42 firmando le versioni più note dei successivi “Run To You”, “Find Time” e “Set Me Free” usciti tra 2000 e 2002.

Technohead - I Wanna Be A HippyTechnohead – I Wanna Be A Hippy
I coniugi britannici Lee Newman e Michael Wells, già noti come GTO e Tricky Disco, vestono i panni dei Technohead dal 1993, incidendo primariamente hardcore e gabber. Nel 1995, quando l’happy hardcore e la musica ad alta velocità vive la sua parentesi commerciale più importante, riescono ad intrufolarsi nel mainstream col brano “I Wanna Be A Hippy” pubblicato dall’olandese Mokum Records. A fare da cassa da risonanza però non è l’agitata Original Mix bensì il remix realizzato da Flamman & Abraxas scelto per sincronizzare il videoclip. Il successo è tale da portare, ad inizio ’96, i Technohead persino a Top Of The Pops seppur con due censure nel testo ( si veda qui e qui). Sul palco però non c’è la Newman, morta di cancro ad agosto dell’anno prima ed ignara del successo raccolto da “I Wanna Be A Hippy” di cui si stima siano state vendute oltre 150.000 copie. Curiosità: c’è chi propone il brano a 33 giri anziché 45 come fa in Italia Albertino nel DeeJay Time e nella DeeJay Parade.

The Corrs - DreamsThe Corrs – Dreams
Quartetto irlandese formato dai fratelli Corr, i Corrs si costruiscono una solida carriera nel ramo rock/folk. Nel 1998 aderiscono al progetto patrocinato dall’Atlantic per una raccolta celebrativa sui Fleetwood Mac, “Legacy: A Tribute To Fleetwood Mac’s Rumours”, che al suo interno raccoglie cover del gruppo londinese. Insieme a loro, tra gli altri, Elton John, The Cranberries e Goo Goo Dolls. I Corrs ricantano “Dreams”, con la produzione di Oliver Leiber e Peter Rafelson, ma a decretare il successo è il remix firmato da Todd Terry, lanciato nella top ten britannica dei singoli con evidenti richiami a quello realizzato qualche anno prima per “Missing” degli Everything But The Girl. Incoraggianti responsi giungono pure per il video approntato per l’occasione entrato nelle nomination ai Billboard Music Video Awards come Best New Clip. Considerato il grande successo, l’etichetta discografica ristampa l’album “Talk On Corners” uscito l’anno prima inserendo in tracklist anche il remix di “Dreams”. A sugellare il tutto è il concerto alla Royal Albert Hall dove i Corrs eseguono dal vivo il brano insieme a Mick Fleetwood, batterista e cofondatore dei Fleetwood Mac.

The Original - I Luv U BabyThe Original – I Love U Baby
Nato su iniziativa di Walter Taieb, DJ parigino di stanza a New York, il progetto The Original prende corpo nella primavera del 1994 con l’arrivo di Giuseppe ‘DJ Pippi’ Nuzzo, italiano trapiantato ad Ibiza dove è resident al Pacha. È lui a suggerire le linee guida di un brano che si completa grazie al supporto vocale del cantante turnista Everett Bradley. Ultimate le due versioni, la Swing Mix e la No! Swing Mix, Taieb e Nuzzo le sottopongono all’attenzione di una multinazionale ma ricevendo picche. Per non vanificare tutto, Taieb opta per l’autoproduzione e pubblica il disco su un’etichetta creata per l’occasione, la WT Records. Fiocca qualche licenza in Europa ma nulla di realmente esaltante, almeno sino a quando giungono i remix dal Regno Unito. A realizzare una delle nuove versioni è Ian Bland alias Dancing Divaz: la sua Club Mix è una cannonata per le classifiche che smonta l’apparato originario della traccia, fondato su un giro di organo contrapposto all’assolo di sax, a favore di arrangiamenti dal sapore più epico e malinconico, con pianate in grande evidenza ad incorniciare la voce di Bradley. Dal 1995 in poi è un tripudio di riconoscimenti, specialmente oltremanica, culminati con l’apparizione a Top Of The Pops dove il brano viene eseguito sulla base del remix, scelto ovviamente anche per accompagnare il videoclip. A pubblicare da noi “I Love U Baby” è la partenopea Flying Records che prende in licenza pure il follow-up, “B 2Gether”, ancora remixato da Dancing Divaz ma con resa inferiore. Taieb e Nuzzo torneranno al successo internazionale nel 1998 grazie a “On The Top Of The World” di Diva Surprise, cantato da Georgia Jones e scandito da un campionamento preso da “YMCA” dei Village People.

The Presence - Forever On My MindThe Presence – Forever On My Mind
Non è stata una hit con centinaia di migliaia di copie all’attivo ma un discreto successo nazionale nella primavera del 1996: “Forever On My Mind”, realizzata dal duo formato da Mauro Di Martino e Carlo Di Rosa nel loro Mad Studio a Ragusa, è una traccia house impreziosita dal contributo vocale del cantante statunitense Stefan Ashton Frank. A fare la differenza però è il remix dei Ti.Pi.Cal., solcato sul lato a del disco e realizzato sul modello garage d’oltreoceano, con la vocalità incastonata all’interno di paratie melodiche. Il 12″ apre il catalogo della Entroterra Records, etichetta creata dagli stessi Ti.Pi.Cal. in collaborazione con la bresciana Time Records ma la cui operatività è ricondotta ad una sola pubblicazione, analogamente a quanto avviene, peraltro nel medesimo periodo, alla E.S.P. – Extra Sensorial Productions, con “Electro Sound Generator” di Neutopia. Saranno sempre i Ti.Pi.Cal. a firmare il remix del follow-up, “Tonight”, pare rifiutato dalla Time di Maiolini e pubblicato dalla Nitelite Records del gruppo Do It Yourself, la stessa che chiude il cerchio con “Wanna Be The One” ritoccato ancora da Tignino, Piparo e Callea.

Tom Jones - Sex BombTom Jones – Sex Bomb
La Album Version ha il retrogusto di un vecchia canzone degli anni Sessanta pur essendo scritta e composta alle porte del nuovo millennio. A fare la differenza è la Peppermint Disco Mix realizzata da Mousse T. e i Royal Garden, pensata a mo’ di mash-up tra l’acappella del brano e la base ricavata da “All American Girls”, un successo del 1981 delle Sister Sledge. Per Mousse T. è l’inizio della fase pop della carriera che si evolve con una serie di successi radiofonici come “Fire” ed “Is It ‘Cos I’m Cool?”, entrambi cantati da Emma Lanford, e “Il Grande Baboomba” che lo vede impegnato insieme al nostro Zucchero con cui si esibisce alla Royal Albert Hall di Londra nel 2004 come testimonia questa clip.

Tomcraft - ProsacTomcraft – Prosac
La versione originale di “Prosac”, inchiodata ad un battente bassline e scivolosi suoni in reverse, esce nel 1997 ma senza raccogliere particolari elogi. A quattro anni di distanza la Kosmo Records pubblica due remix realizzati dallo stesso autore affiancato da Eniac, e a quel punto per la traccia si prospetta una seconda giovinezza dal più ampio respiro. Alla New Clubmix ed alla TC-THC Mix, elaborate meglio sul piano melodico rispetto alla prima, si somma il videoclip che fa presa sulle tv musicali. Il brano viene licenziato pure in Italia dalla Wild! Entertainment di Raffaela Travisano, a cui abbiamo dedicato una monografia qui, che però opta per due remix ex novo commissionati per l’occasione a Tony H e Karin De Ponti.

Tony Di Bart - The Real ThingTony Di Bart – The Real Thing
Il britannico Antonio Carmine Di Bartolomeo, nato a pochi chilometri da Londra ma di chiare origini italiane, viene baciato dal successo nel 1994 grazie a “The Real Thing”. La versione originale, scritta dallo stesso Di Bartolomeo insieme a Luce Drayton ed Andy Blissett e in circolazione dall’autunno del ’93, è una ballata pop con influssi jazzati poco nota e passata decisamente inosservata. A dare ad essa un taglio completamente diverso è il team dei Joy Brothers, artefice di un remix che si pone sulla linea di mezzeria tra house ed eurodance e conquista l’intera Europa incuriosendo anche Stati Uniti e Canada (in Italia arriva curiosamente attraverso due etichette, la X-Energy Records e la UDP del gruppo Disco Più di Lino Dentico). Sul 12″ c’è pure una seconda versione, la Original Dance Mix, parecchio simile alla prima ma firmata da Rhyme Time Productions (non è chiaro se gli artefici siano proprio gli stessi). Al di là dell’uso di pseudonimi e nickname, Di Bart porta il remix del pezzo a Top Of The Pops ad aprile, cantandolo dal vivo e non ricorrendo, come allora fa la maggior parte degli artisti, al playback. Segue una caterva di date nelle discoteche di tutta Europa, Italia compresa, e la nomination agli International Dance Awards, tenutisi a Londra il 22 gennaio 1995 dove “The Real Thing” è in lizza insieme a pezzi come “Anytime You Need A Friend” di Mariah Carey ed “Incredible” di M-Beat Featuring General Levy. La Cleveland City tenterà di tenere alto l’interesse nei confronti dell’artista con altri singoli come “Do It”, “Why Did Ya” e “Turn Your Love Around”, ma riuscendo solo parzialmente nell’intento.

Tori Amos - Professional WidowTori Amos – Professional Widow
Inclusa nell’album “Boys For Pele”, “Professional Widow” è una canzone che Tori Amos scrive attingendo alcuni versi da “La Sfinge”, il racconto di Edgar Allan Poe. Musicalmente è legata al rock alternativo ma il remix che ne decreta il successo mondiale la traghetta in un mondo completamente differente. Nella sua Star Trunk Funkin’ Mix Armand Van Helden ricostruisce il pezzo partendo, pare, da un frammento ritmico carpito a “Trinidad” di John Gibbs & The U.S. Steel Orchestra, e poi prosegue verso un universo fatto di house music squarciata da un basso funk assassino e sbilenco in cui dondolano brevi cellule vocali della Amos. Sembra più una traccia inedita che un remix tanto è il divario col brano originale e pare che questa audace rilettura sia piaciuta parecchio anche all’autrice, felice che il DJ non abbia tenuto saldi i tasselli di partenza preferendo invece andare in una direzione totalmente diversa. Sul 12″ edito dalla Atlantic figura pure un secondo remix a firma MK che però risulta irrilevante se messo a confronto col primo. A curare la post-produzione della celebre Star Trunk Funkin’ Mix è Johnny De Mairo, fondatore della Henry Street Music per cui Van Helden incide dal ’94 e ai tempi A&R per l’Atlantic. La versione di Van Helden, infine, viene scelta per un videoclip realizzato riciclando ed assemblando frame tratti da altri video della cantante come quelli di “Crucify”, “Winter” e “Silent All These Years”.

Wamdue Project - King Of My CastleWamdue Project – King Of My Castle
La versione originale di “King Of My Castle” è inclusa in “Program Yourself”, il secondo dei tre album che Christopher Brånn, da Atlanta, firma Wamdue Project. Pubblicata dalla Strictly Rhythm, la traccia vive in una bolla di deep house tinta di funk ed è irrorata dalla voce di Gaelle Adisson, la stessa che si sente in “You’re The Reason”, un altro pezzo dell’LP che a tratti ricorda lo stile di “Disco’s Revenge” di Gusto uscito qualche anno prima. A trasformare quello che è destinato ad una ristretta cerchia di eletti in un successo mainstream dalle dimensioni colossali è il remix realizzato in Italia da Mauro Ferrucci per l’occasione trincerato dietro lo pseudonimo Roy Malone. Insieme a lui, nel Cotton Fields Studio di Padova, c’è Walterino, quello del team L.W.S. ed Olga intervistato qui. La King Mix mostra pochi punti in comune con l’originale: l’armatura ritmica corazzata incornicia arrangiamenti essenziali e la sezione vocale della Adisson, finita ovviamente nel videoclip che ad oggi conta più di nove milioni di visualizzazioni su YouTube. Altri remix si sommano al pacchetto, da quello di Roger ‘The S-Man’ Sanchez a quello di Charles Schillings (editi, insieme alla versione di Malone, dalla veneta Airplane! Records) passando per quelli di Armin van Buuren e di Bini & Martini usciti nel 1999.

Whatever, Girl - Activator (You Need Some)Whatever, Girl – Activator (You Need Some)
Col suo incedere ipnotico abbinato ad inserti tribaleggianti, nel 1994 “Activator (You Need Some)” diventa un autentico tormentone nelle discoteche specializzate. A produrlo sono Bill Coleman e Louie Guzman uniti come Whatever, Girl ma le loro versioni, la Gee, Your Hair Smells Terrific! Mix e la T.C.B. Mix, non sono depositarie del successo. A fare la differenza è invece la Jheri Curl Sucker Wearin’ High Heeled Boots Mix incisa sul lato a ed approntata da Johnny Vicious, che peraltro pubblica il disco sulla sua etichetta, la Vicious Muzik Records. In Italia arriva attraverso la bresciana Downtown del gruppo Time che assegna erroneamente la paternità proprio a Johnny Vicious, annunciato sull’adesivo rettangolare applicato in copertina come “the next David Morales”.

Whigfield - Saturday NightWhigfield – Saturday Night
È un caso strano quello di Whigfield, progetto ideato da Davide Riva (intervistato qui) e Larry Pignagnoli e giunto sul mercato nel 1993 con “Saturday Night”. La versione incisa sul lato a, la Dida Mix, è figlia di quanto avvenuto nel biennio precedente con l’esplosione e massificazione di suoni tendenzialmente legati alla eurotechno, e contiene quindi i retaggi di tutto quel serbatoio con cui il mainstream italiano approccia ad un genere messo in antitesi alla house fatto da casse marcate, suoni di sintetizzatore in grande evidenza, arrangiamenti dalle espressività meccaniche, voci campionate ed usate a mo’ di strumenti. Probabilmente, proprio in relazione a questa attinenza stilistica, alla Energy Production decidono di pubblicare il 12″ su Extreme, etichetta usata in prevalenza per produzioni di estrazione filo techno e sulla quale, peraltro, poco tempo prima trovano spazio fortunatissime licenze come “The House Of God” di D.H.S. ed “Ambulance” di Robert Armani. Sul lato b finiscono altre due versioni, la Nite Mix, inserita a giugno ’93 dal team dell’AID su uno dei dischi destinati al servizio per corrispondenza Promo Mix, e la Beagle Mix, radicalmente differenti dalla prima. Per circa un anno non avviene nulla fatta eccezione in Spagna dove “Saturday Night” raccoglie discreti consensi anche grazie ad un particolare balletto abbinato, pare inventato in una discoteca iberica. Whigfield sembra comunque destinato a finire nell’oblio, tra la miriade di brand usciti dagli studi di registrazione italiani negli anni più floridi e prolifici dell’eurodance. Alla fine dell’estate ’94 però la Nite Mix entra nella classifica britannica dei singoli direttamente al primo posto forte di 500.000 copie vendute, togliendo lo scettro ai Wet Wet Wet con “Love Is All Around” e ritrovandosi a dividere la parte più alta di quella chart con un’altra hit made in Italy, “The Rhythm Of The Night” di Corona. Da quel momento in poi per Pignagnoli e Riva cambia davvero tutto: l’interesse mostrato dal Regno Unito, ai tempi autentica cartina tornasole delle tendenze musicali europee, innesca un effetto domino che si propaga ovunque. Fioccano richieste di licenze da ogni angolo del globo (un anno prima erano state appena un paio) e viene girato un videoclip in cui la scena è dominata da Sannie Charlotte Carlson, modella danese ventiquattrenne scelta come frontwoman del progetto (a cantare è invece la britannica Annerley Gordon). Immancabile l’ospitata a Top Of The Pops col debutto il 15 settembre ’94 a cui si somma la puntata natalizia in cui la Carlson è introdotta da due presentatori d’eccezione, Howard Donald e Jason Orange dei Take That. Per gestire meglio tutto ciò la Energy Production ristampa il disco (affiancandolo al CD singolo), questa volta sulla label principale del gruppo, la X-Energy Records, aggiungendo una manciata di rivisitazioni a firma Fishbone Beat e la dicitura “remix ’94” seppur a spopolare non sia affatto un remix ma la Nite Mix, adesso finita sul lato a (la Dida Mix invece viene relegata alla posizione periferica B3). Più di qualcuno quindi pensa erroneamente che a cambiare le sorti della canzone sia un remix, alimentando in buona fede un falso storico. Sul retro della copertina trova spazio inoltre l’accurata guida (anche fotografica) per il sopraccitato balletto a cui è abbinato il brano di Pignagnoli e Riva, in seguito oggetto di qualche accusa di plagio ai danni di “Rub A Dub Dub” degli Equals e “Fog On The Tyne” degli Lindisfarne ma a quanto pare caduta in assenza di oggettivi appigli legali. Alla fine di “Saturday Night”, «inno pigolante con una tastierina che si infilava nel cervello e non lo lasciava più», come scrivono Carlo Antonelli e Fabio De Luca in “Discoinferno”, ne vengono vendute oltre due milioni di copie.

York - On The BeachYork – On The Beach
Il progetto York gestito dai fratelli Jörg e Torsten Stenzel debutta nel 1997 con “The Big Brother Is Watching You” ripubblicato poco tempo dopo come “The Awakening”. Nel 1999 tocca a “On The Beach”, rivisitazione dell’omonimo di Chris Rea del 1986 immersa in una soluzione a metà strada tra house e trance. «Registrammo l’assolo di chitarra nel mio studio, risuonandolo e non campionandolo come qualcuno potrebbe immaginare» racconta Torsten Stenzel in questa intervista. «Una volta completato il brano, lo licenziammo alla Sony e alla Manifesto che commissionarono vari remix». Tra le tante nuove versioni ce n’è una che spicca in modo particolare, quella realizzata in Italia negli studi della Media Records da Mauro Picotto ed Andrea Remondini e firmata CRW. Ritmicamente potenziato, il pezzo rivive nella dimensione eurotrance conquistando il favore del Regno Unito e rivelandosi determinante per raggiungere lo strepitoso risultato di oltre 300.000 copie vendute. A pubblicare in Italia “On The Beach” è la No Colors del gruppo F.M.A. che sul 12″ e sul CD singolo inserisce il remix dei CRW ma attribuendolo, per ragioni mai chiarite, a Basic Connection, un marchio di cui abbiamo parlato sopra. Ciò scatena una controversia tra la F.M.A. e la Media Records. Quest’ultima ristamperà il remix in questione su W/BXR, sussidiaria pop della BXR, ma con un nome artistico diverso, Lesson Number 1.

Ziggy Marley And The Melody Makers - Power To Move YaZiggy Marley And The Melody Makers – Power To Move Ya
Così come avvenuto al padre Bob, anche Ziggy Marley e i suoi Melody Makers vengono trascinati nella musica da discoteca attraverso un remix. Incluso nell’album “Free Like We Want 2 B”, il brano originale oltrepassa la soglia della classica formula reggae adoperando una base downtempo in cui fanno capolino persino chitarre elettriche. Per i remix l’Elektra coinvolge vari artisti: Hani e DJ Dmitry, artefici della Kundalini Rising Mix, Longsy D, Mousse T. ed E-Smoove. È la versione di quest’ultimo a svettare su tutte, la Smoove Power, che adatta perfettamente “Power To Move Ya” in una cornice house garage, con grandi pianate in evidenza. Ziggy Marley diventa così un protagonista dell’estate ’95 facendo la staffetta con altri fortunati remix già descritti sopra (De’Lacy, Bobby Brown, Jamiroquai, Dana Dawson, Everything But The Girl…). Nel ’97 l’Elektra tenta di fare il bis affidando ancora ad E-Smoove il remix di “Everyone Wants To Be” estratto dall’album successivo di Ziggy Marley And The Melody Makers, “Fallen Is Babylon”, ma l’impresa non riesce. Il DJ americano si rifarà comunque nel 2001 incidendo “Shined On Me” come Praise Cats.

Zombie Nation - Kernkraft 400Zombie Nation – Kernkraft 400
Nei primi mesi del 1999 a pubblicare il primo disco degli Zombie Nation (Florian ‘Splank!’ Senfter ed Emanuel ‘Mooner’ Günther), da Monaco di Baviera, è l’International DeeJay Gigolo Records di DJ Hell. Uno dei cinque brani dell’EP è “Kernkraft 400”, «un pezzo electro cadenzato da incastri di suonini in stile chiptune, un sample vocale che ripete il nome del gruppo, un basso in ottava e soprattutto il riff di “Stardust” composto da David Whittaker per il videogioco “Lazy Jones” del 1984» (da Gigolography, 2017). Immerso tra retaggi di Kraftwerk e Yellow Magic Orchestra, “Kernkraft 400” è destinato all’underground più settoriale da poche migliaia di copie ma poi arriva un remix che lo trasforma in un successo pop mondiale. Artefice è l’italiano Cristiano ‘DJ Gius’ Giusberti, la cui versione, frutto di una semplificazione degli elementi di partenza, viene scelta per accompagnare il video che sostituisce il più macabro e violento realizzato qualche tempo prima sulla base dell’originale e in cui compare Senfter. È sempre il remix italiano ad essere utilizzato per gli spettacoli televisivi tra cui l’apparizione a Top Of The Pops per cui Zombie Nation viene trasformato in una sorta di gruppo carnevalesco: l’effetto finale rammenta quanto avvenuto pochi anni prima ai Technohead con “I Wanna Be A Hippy” di cui si è già detto prima. Grazie alla rivisitazione di Giusberti “Kernkraft 400” diventa una hit planetaria anche se Splank!, nel frattempo diventato unico componente del progetto Zombie Nation, non risparmierà toni fortemente polemici nei confronti dell’etichetta italiana che fa realizzare il remix ed una Live Version correlata, la Spectra Records del gruppo bolognese Arsenic Sound diretto da Paolino Nobile intervistato qui.

(Giosuè Impellizzeri)

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Age Of Love – The Age Of Love (DiKi Records)

Age Of Love - The Age Of Love

I dibattiti sulla genesi di vari generi musicali infiammano costantemente gli animi degli appassionati, specialmente ai tempi dei social network. Su house e techno le teorie si sprecano ed aumentano di volta in volta per mano di chi cerca a tutti i costi la retrodatazione forse ambendo ad uno scoop giornalistico. Il discorso riguarda pure la trance le cui origini vengono solitamente ricondotte ad una triade di brani: “What Time Is Love?” dei britannici KLF (col sottotitolo Pure Trance 1 esplicitato in copertina), “We Came In Peace” dei tedeschi Dance 2 Trance e “The Age Of Love” degli italiani Age Of Love. Da qualche anno a questa parte qualcuno tende ad aggiungerne pure un quarto, prodotto in Italia nonostante il titolo in lingua teutonica, “Neue Dimensionen” di Techno Bert di cui parliamo qui. A livello di nomenclatura invece, se da un lato DJ Dag, qua, pare rivendicarne la paternità, dall’altro c’è chi attribuirebbe il merito a Klaus Schulze con l’album “En=Trance” del 1988 o a Chris & Cosey con “Trance” del 1982 (a cui nel 1985 si aggiunge “Technø Primitiv”, a rimarcare un certo senso di preveggenza su musiche future). Annoverando nell’indagine anche quei pezzi che parrebbero proto trance (come alcuni dei Delerium, nati da una costola dei Front Line Assembly, o il raro “Trance” del compianto Angus MacLise, 1987) si finirebbe però col perdere la bussola ed anche il senso della ricerca stessa. Scovare similitudini a posteriori non proverebbe granché visto che tutta la musica è costruita su continui rimandi a cose preesistenti. È fuor di dubbio comunque allacciare i primordi e l’innesco della trance a soluzioni armoniche e melodiche che diventano il nucleo della composizione, propellente ideale per imprimere una spinta nonché quid perfetto per differenziare quel filone stilistico da altri nati poco prima come house e techno. Tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi Novanta però le categorizzazioni non esistono ancora, le nuove musiche che si sviluppano tra Stati Uniti ed Europa appartengono ad un substrato culturale che assimila di tutto.

La trance di quel periodo è figlia della techno europea che punta a cullare l’emozionalità e non solo a soddisfare le esigenze del movimento, limitando gli elementi più aggressivi tipici della rave music a favore di impalcature armonico e melodiche intrise di retaggi new age, ambient e suoni tipici delle sonorizzazioni. “Musica per mente e spirito” dirà più di qualcuno tempo dopo. “The Age Of Love” sposa esattamente questo concept. La Flying Mix, incisa sulla Vocal Side (a cui si sommano altre due versioni annesse alla Deep Side, la New Age Mix e la Boeing Mix, derivate dalla stessa idea, oltre ad una più stringata Radio Version) è un sogno lungo poco meno di sei minuti in cui ghirigori paradisiaci ammorbidiscono il martellio della cassa in quattro. Un sinuoso arpeggio si somma ad un breve inserto vocale sinora attribuito, persino da fonti considerate attendibili come Wikipedia e Discogs, a Karen Mulder, celebre modella olandese, ma come si vedrà più avanti il suo coinvolgimento risulta totalmente infondato. Una voce maschile più roca poi fa da contraltare alla prima. È quella di Giuseppe Chierchia che il grande pubblico conosce come Pino D’Angiò, finito negli annali per la hit del 1980 “Ma Quale Idea”, trainata da un caratteristico disegno di basso ispirato da “Ain’t No Stoppin’ Us Now” di McFadden & Whitehead di poco tempo prima. Ad orchestrare tutto in “The Age Of Love” è un musicista italiano residente in Francia, Bruno Sanchioni. A pubblicare il disco nel 1990, sia su 12″ che 7″, è invece un’etichetta belga, la DiKi Records di Roger Samyn, nata nel retrobottega del suo negozio di dischi, il Disco King di Mouscron a cui il nome stesso fa riferimento (DiKi è l’acronimo di Disco King). Nel 1990 però non succede niente. Una manciata appena di licenze (in Francia e in Germania, rispettivamente su Airplay Records e ZYX Records che infilano il pezzo in qualche compilation sperando di rientrare almeno nei costi) lascerebbero supporre un flop discografico.

01) Age Of Love - The Age Of Love (J&S Remix)
La copertina che accompagna i remix di “The Age Of Love” realizzati da Jam & Spoon e pubblicati nel 1992

Bisogna attendere due anni affinché la situazione si ribalti completamente e ciò avviene per merito di un remix ad opera di un duo tedesco formatosi a Francoforte nel ’91, Jam & Spoon. La loro Watch Out For Stella Club Mix rimette tutto in discussione attraverso una schematizzazione diversa degli elementi di partenza che esalta il potere ipnotico della versione originale raggiungendo esiti virtuosistici inaspettati. Da quel momento per “The Age Of Love” cambia davvero tutto. «Ricevemmo la proposta di remix da un’etichetta britannica, la React» rammenta oggi Jam El Mar. «Per me la versione originale era già un successo e nei club specializzati di Francoforte la suonavano tutti. Ricordo quando Mark (Spoon, nda) entrò in studio dicendo “hey, allora dobbiamo remixare “The Age Of Love!”. Gli risposi “diavolo, è proprio così!”. Ci vollero appena due giorni per completare il lavoro, eravamo in una fase particolarmente creativa ed ispirata, trovammo il giusto flow, cosa che purtroppo non avveniva molto spesso. Ricostruimmo la sequenza originale con uno Yamaha TX802 ed un campionatore Akai S1000, i suoni sognanti erano di un Oberheim Xpander, i cori nel break di un E-mu Proteus mentre il pad di un Roland D-50. Alla Watch Out For Stella Club Mix aggiungemmo una seconda versione, la Sign Of The Time Mix in battuta spezzata che era una sorta di Dub Mix, per usare un termine in voga ai tempi. I diritti, negli anni, sono transitati attraverso diverse etichette e sono abbastanza sicuro che siano state vendute oltre 500.000 copie, magari anche di più, ma non ho certezze in tal senso. Il compenso per il remix fu pari a 1000 sterline e non sapemmo nient’altro dopo averlo consegnato. Purtroppo non ho mai avuto occasione di incontrare Sanchioni e Chierchia nonostante abbia suonato spesso in Belgio. Credo che abbiano apprezzato la nostra versione perché ci proposero di produrre un intero album di Age Of Love, progetto che non andò in porto perché eravamo già impegnati con l’LP di Jam & Spoon. “The Age Of Love” resta senza dubbio uno dei primi brani trance della storia, diventato una specie di modello per tante produzioni successive. La scena techno si è legata maggiormente al remix (in questi anni ho sentito suonarlo più volte da Nina Kraviz) e sono felice quanto onorato di aver messo le mani insieme a Mark su un pezzo di tale fattura, ma non dovremmo dimenticare ciò che fecero Sanchioni e Chierchia: senza la versione originale non ci sarebbe mai stato il nostro remix».

Dalle risicate licenze del 1990 si passa a decine di richieste provenienti da tutta Europa e persino dagli Stati Uniti. Ad accaparrarsi i diritti per l’Italia è la milanese Dig It International che ristampa il brano nel ’92 su una delle sue tante etichette, la S.O.B. (Sound Of The Bomb). Una nuova tornata di remix giunge nel 1997 quando arrivano le versioni di Paul van Dyk, Secret Knowledge, Baby Doc ed Emmanuel Top a cui ne seguono altre ancora, nel ’98, realizzate da Brainbug e Johnny Vicious. Ma la lista diventa interminabile se si estende la ricerca al nuovo millennio con ulteriori remix di Marco V, Mr. Sam & Fred Baker, Marc Et Claude, Cosmic Gate, Wrecked Angle, Abel Ramos & Matt Correa, Manu Kenton, Koen Groeneveld, Wippenberg, Franco Maldini, Manuel De La Mare, Tempered DJ’s, Sub Scape, Syndaesia, Ed Solo, David Forbes, Solomun ed altri ancora, non sempre ufficiali. Appare palese dunque che a poco più di trent’anni dalla pubblicazione, “The Age Of Love” si sia trasformato in un autentico evergreen, proposto ed apprezzato anche da DJ di una generazione diversa rispetto a quella che lo vede giungere nei negozi di dischi per la prima volta.

02) cartolina usata da Patrick Gypen
La cartolina sacra a cui Patrick Gypen si ispira per realizzare la copertina di “The Age Of Love”

Allo stesso modo pure la copertina, legata all’iconografia sacra, è diventata un elemento distintivo. A realizzarla è Patrick Gypen che, contattato per l’occasione, racconta: «Sono cresciuto in una famiglia cattolica con una solida educazione religiosa. Nella mia stanza c’era una piccola statua della Madonna che mia madre mi portò da Lourdes. Durante il giorno “assorbiva” la luce solare per rilasciarla durante le ore notturne attraverso un bagliore verdastro, simile a quello delle lucciole. La Madonna è il simbolo dell’amore così mi parve adeguato usare la sua immagine quando, anni dopo, dovetti elaborare la copertina per un brano chiamato “The Age Of Love”. Ho iniziato a curare il design di copertine di dischi sin dai primi anni Settanta. Intorno alla metà del decennio successivo lavoravo per case discografiche belghe ed olandesi come Indisc, USA Import Records, ARS Records, Sony, EMI, R&S, DiKi Records e parecchie altre che sorsero in Belgio durante l’epopea della new beat, dal 1988 in poi. Il mio lavoro subì una drastica accelerazione dopo aver acquistato un Apple Macintosh SE/30, nel 1989, con cui finalmente potevo creare un’intera copertina (artwork vettoriale, scritte coi caratteri da me disegnati, logo ed altro ancora) senza più ricorrere all’intervento di chi eseguiva fotocomposizione o di studi specializzati in repro, ossia il processo di copia di documenti o immagini su diversi supporti. Il disegno veniva salvato su un floppy disc per poi essere trasferito direttamente su pellicola usando PostScript abbinato ad una Linotronic o una Compugraphic. Se la musica poteva essere registrata digitalmente usando computer, drum machine e campionatori, altrettanto avveniva sul fronte grafico con le copertine prodotte completamente in digitale utilizzando beta software della Adobe come Illustrator 88 e Separator. La maggior parte delle copertine che ho realizzato però le feci senza aver ascoltato il brano, e questo avvenne anche per “The Age Of Love”. Roger Samyn ai tempi era un frequentatore abituale della USA Import Records, ad Anversa, aveva stretto una partnership per importare dischi dagli Stati Uniti. Le consegne avvenivano ogni giovedì, giorno in cui il materiale proveniente d’oltreoceano veniva sdoganato. In pratica José Pascual, proprietario del negozio USA Import, Dieter Hessel di Music Man a Gand e Samyn col suo Disko King a Mouscron, si aggiudicavano singoli ed album poco reperibili in Belgio dividendosi le spese di spedizione. Mentre ascoltavano i dischi che avevano ordinato io, da DJ, sceglievo quelli che a mio parere erano i migliori per poterli proporre nei locali in cui suonavo. Sia l’appartamento in cui vivevo che lo studio in cui lavoravo erano ubicati nello stesso stabile del negozio di dischi ma al piano superiore, quindi il rapporto coi clienti era ottimo e veloce. Gran parte delle commissioni per le nuove copertine giungevano il giovedì proprio come avvenne per “The Age Of Love” ed altre che realizzai per la DiKi Records tra cui “Baby Phibes” di Dr. Phibes ed “Acid Rock” di Rhythm Device. Quella di “The Age Of Love” però, per me, resta particolarmente speciale.

03) alcune copertine di patrick Gypen
Alcune copertine firmate da Gypen tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta

Da quando comprai il Macintosh SE/30 entrai a far parte di TypeLab, un consorzio di designer di caratteri tipografici che si poneva l’obiettivo di rompere il monopolio detenuto dai grandi produttori come Linotype, Monotype ed altri principali fornitori di font grafici. Nel nostro gruppo c’erano anche famosi designer del calibro di Martin Majoor ed Erik Spiekermann oltre ad alcuni “rivoluzionari” come Neville Brody ed io stesso. Brody era il designer che si occupava di due rinomate riviste di tendenza britanniche, The Face ed Arena. Mi ha ispirato moltissimo usando Illustrator 88 come strumento di progettazione di lettere vettoriali, nella realizzazione dei caratteri che destinai prima ad “Elle Et Moi” di Max Berlin e poi a “Pump Up The Jam” dei Technotronic, oltre a tanti altri giunti in seguito. Nel momento in cui questi caratteri divennero originali e disponibili in PostScript, usati su piattaforma Macintosh, cercammo di trovare la possibilità di distribuirli e venderli. Nonostante fossi solo un piccolo novizio nel campo dei software, riuscii a diventare beta tester e consulente per Adobe, azienda con la quale stavo instaurando uno stretto rapporto di collaborazione. Esattamente una settimana prima di avere da Samyn la richiesta di progettare la copertina di “The Age Of Love”, Adobe mi inviò cinque floppy contenenti la versione alpha di Photoshop. Quel giorno ricevetti anche il prototipo di uno scanner a colori da una società di Anversa con cui collaboravo in veste di beta tester, la Agfa-Gevaert. Ero ansioso di provare entrambe le allettanti novità il più presto possibile. L’impostazione dello scanner mi portò via parecchio tempo ed energie. Bisognava collegarlo usando un’interfaccia SCSI e per farlo funzionare correttamente impiegai più di una giornata. Per testarlo cercai nel mio studio un’immagine adatta e, tra varie cose, saltò fuori una cartolina con la Madonna e il cuore in fiamme. Era stampata a colori su un vecchio cartoncino che misurava 7 x 11 centimetri, destinata a commemorare la prima comunione di qualcuno. Una volta scannerizzata in 72DPI (il massimo della risoluzione che poteva raggiungere quello scanner) memorizzai il file su un floppy e passai all’installazione di Photoshop. Prima di tutto dovetti fare spazio sull’hard disk cancellando 40 MB e riversandone il contenuto su altri floppy da 1.44 MB. A quel punto ero pronto per installare il software ed imparare ad usarlo. Lo schermo quadrato del Macintosh SE/30 era di 23 centimetri, in bianco e nero ovviamente. La colorazione dell’immagine avveniva attraverso colori definiti in parte dall’RGB e dalla scala di grigi, senza poter contare su prove poiché non erano ancora disponibili stampanti a colori. Sul sistema Apple 6.0 purtroppo la versione alpha di Photoshop andava in crash ogni dieci minuti ma mi impegnai al massimo affinché la copertina di quel disco fosse realizzata nel migliore dei modi. La scritta bianca mostra i pixel sulle lettere perché Photoshop non riusciva a smussare i caratteri vettoriali. Dopo aver modificato l’immagine ed aver disegnato un nuovo cuore, aprii il file con Illustrator, lo ingrandii ed aggiunsi il titolo in rosso. L’unico software con cui ai tempi potevo separare i colori dell’immagine era Separator, sempre di Adobe, che però funzionava solo coi file generati da Illustrator 88. Prima di quel momento non avevo mai provato ad inserire un’immagine a colori basata su pixel su una pagina vettoriale per poi separare i colori da RGB a CMYK (necessari per la stampa) su quattro differenti pellicole. A lavoro ultimato, mettemmo al sicuro il file su un hard disc (con un salvataggio che richiese quindici minuti!) e poi mandammo il fronte della copertina, su un floppy da 1.44 MB, all’unica azienda che in Belgio aveva un typesetter PostScript. Giunse a destinazione oltre l’orario di lavoro ma un mio amico che gestiva quel posto decise di avviare comunque il processo di imaging, intorno alle otto della sera. Verso mezzanotte ricevetti la sua telefonata: il Raster Image Processor, apparecchio che serviva a trasformare i vettori e i pixel dell’immagine e convertire i colori RGB in CMYK, stava lavorando alacremente ed era evidente dalla luce lampeggiante sul Mac, ma l’immagine finale non si vedeva ancora. Solo la mattina dopo i quattro file erano finalmente pronti per lo sviluppo. A quel punto il mio amico tipografo mi chiese come diamine fossi riuscito a combinare file a colori basati su pixel a tipografie vettoriali, fondendo il tutto in un file. Per lui si trattò di una “repro revolution” ed aveva ragione. Felice che quell’esperimento fosse andato a buon fine, iniziai ad usare frammenti della copertina frontale e fare nuovi disegni in Photoshop, passandoli in Illustrator 88 per aggiungere i titoli delle tracce e le info di produzione. Una volta ottenute le separazioni dei colori, mancava un’ultima operazione prima di consegnare tutto all’azienda che avrebbe stampato le copertine. Gli studi dattilografici avevano un formato standard per le immagini su carta fotografica o pellicola. Le dimensioni delle copertine degli LP e dei 12″ erano di 31,5 x 31,5 centimetri, con un ulteriore margine di 0,3 centimetri su tutti i lati e 0,5 per la costola laterale. Il formato massimo della pagina era di 27,9 centimetri, non sufficienti. Per ovviare al problema realizzai molte copertine con un bordo bianco, oltre a comprare una camera repro con cui poter ingrandire le immagini e riprodurle autonomamente su una pellicola nella camera oscura. Erano anni in cui tutto stava cambiando nel settore della grafica e, in seguito a pure coincidenze, nel mio studio giunsero tutti gli strumenti che mi consentirono di aderire immediatamente a quella rivoluzione in atto. Visto il pionierismo nel settore, fui immediatamente assunto come consulente e sviluppatore da Adobe, Apple, Agfa-Gevaert, Mannesmann Scangraphic, Compugraphic ed altre grandi aziende specializzate in quel ramo. Dall’uscita di “The Age Of Love” sono trascorsi ormai più di trent’anni ma ritengo che sia il brano che la copertina restino più attuali che mai. In circolazione sono finite anche versioni grafiche realizzate da altri ma penso che nessuna riesca ad eguagliare o battere l’originale. Quell’immagine era pura, evolutiva, emozionale, sognante, sensuale, calda, astratta, ispirata, religiosa e controversa, tutto allo stesso tempo. Per tale ragione non cambierei nulla di essa».

Paradossalmente i meno disposti a parlare di “The Age Of Love” sono gli autori. Sanchioni, da sempre restio a farsi intervistare (questa può considerarsi decisamente un’eccezione) non ha mai risposto ai nostri ripetuti inviti di rilasciare qualche dichiarazione. Chierchia invece rivela qualcosa nell’intervista di Alessandro Dell’Orto pubblicata il 27 agosto 2011 su Libero, in cui si definisce, senza mezze misure, «l’inventore della musica tecno trance», parlando della bozza iniziale di “The Age Of Love”, piuttosto ingenerosamente, come «una specie di jingle assurdo». «Presi un microfono ripetendo cose a vanvera tipo “come on” ed aggiunsi suoni per riempire. Dopo qualche mese l’amico mi spedì un CD con “The Age Of Love” che ha venduto quattro milioni di copie ed è il brano di riferimento per chi ascolta questa musica, presente in quattrocento compilation. Ho inventato qualcosa e non so cosa!». Diverse le inesattezze e le informazioni fuorvianti a partire dalle parti vocali col “come on”, scritte ed interpretate precedentemente da una giovane cantante, alla cronologia degli eventi: ci vollero almeno due anni prima che “The Age Of Love” diventasse una hit, e ciò avvenne grazie al remix realizzato in Germania da Jam & Spoon. Da tali dichiarazioni si evincerebbe inoltre che Chierchia abbia contribuito anche alla scrittura della base musicale ma documenti ufficiali recuperati recentemente dagli archivi della DiKi Records lo sconfesserebbero in toto, attribuendogli unicamente la paternità del testo del brano, depositato in SABAM ad aprile del 1990 e in quell’occasione definito “rap dance”. Chierchia rincara ulteriormente la dose nell’intervista curata da Stefano Di Trapani alias Demented Burrocacao e pubblicata da Vice il 26 maggio 2016: «Ero in Belgio a casa di un amico, un grande editore franco-belga, Philippe De Keukeleire, che mi disse: “Dai vieni in studio, ho una base musicale e vorrei che la sentissi, magari se ne fa qualcosa”. Era davvero oscena, insopportabile, orrenda, una batteria tutta di piatti e bordo rullante, senza corpo, un basso senza capo né coda, una tastiera che gemeva in sottofondo come una gallina muta con le coliche. Un vero incidente musicale! Non sapevo che fare. Suonai una sequenza ripetuta all’infinito, cambiai tutti i pad e mi inventai un testo a vanvera, in inglese, lì in piedi di fronte al microfono, tanto per fare qualcosa. Poi uscii dallo studio e dissi al mio amico: “Fanne quello che vuoi, ma non metterci il mio nome sopra, abbi pietà! Mi raccomando”. Dopo sei mesi era il primo successo mondiale di un nuovo genere musicale, ma nonostante io risulti come autore, ancora mi gratto la testa e non capisco. Non so cosa fosse. Si racconta che Fleming scoprì la penicillina più o meno nello stesso modo… Da morire dal ridere». Polemiche a parte su chi abbia fatto cosa, da queste testimonianze e pure da quelle che seguono emerge come la genesi di “The Age Of Love” sia stata letteralmente casuale, imprevedibile, priva di una regia e frutto di un impeto creativo giunto da chissà dove. Se Chierchia e Sanchioni però si defilano, preferendo parlare poco e nulla di quell’episodio o aggiungendo, come si è visto, dettagli poco circostanziati ed oggetto di possibili smentite, di tutt’altro avviso è Jean-François Samyn, figlio del compianto Roger Samyn della DiKi Records, ben lieto di ripercorrere una fase della sua vita, forse la più emozionante.

La testimonianza di Jean-François Samyn della DiKi Records

04) Disco King al 56 di Rue du Christ, Mouscron
Una foto scattata negli anni Ottanta al negozio Disco King, ai tempi al 56 di Rue du Christ a Mouscron

Come parte l’avventura del Disco King?
All’inizio degli anni Settanta papà, un vero appassionato di musica, aprì un piccolo locale a Mouscron, nel sud del Belgio, ai confini con la Francia. Qualche anno più tardi affiancò a quell’attività un piccolo negozio di dischi specializzato in importazioni dagli Stati Uniti e Regno Unito. Si chiamava Disco King e si trovava al 56 di Rue du Christ, sempre a Mouscron. A spingerlo in quell’avventura fu la necessità di comprare dischi per il suo locale ed allora non era affatto semplice trovare un rivenditore che trattasse un certo tipo di musica. Nel corso del tempo entrò in contatto con altri titolari di rinomati negozi di dischi e grossisti come Hessel Tieter della Music Man, José Pascual di USA Import, Renaat Vandepapeliere di R&S Records e Laurent Vanmeerhaeghe della Big Time. Quello del mercato discografico era un universo nuovo e molto emozionante e non ci volle molto tempo prima che papà abbinasse alla vendita anche la produzione di musica.

Il passo successivo fu quindi la produzione discografica?
Esattamente. Iniziò nel 1982 con “Why Can’t We Live Together…” di Mike Anthony, su Ca$h Records, a cui l’anno dopo seguirono “Beats Of Love” di Nacht Und Nebel, “La Vie En Rose” di Martinique ed “Ha Chica” di Tony McKenzie. Avevo solo diciotto anni ed andavo ancora a scuola, ma ogni weekend frequentavo le discoteche, orgoglioso del lavoro che svolgeva il mio papà. Tempo dopo, quando iniziò a farsi strada la musica new beat, conoscemmo per caso Bruno Sanchioni, un giovane e sconosciuto musicista nato in Italia ma residente a Roubaix, molto appassionato e motivato. Era alla ricerca di un produttore e così firmammo presto il primo accordo, il 7 marzo 1988, a cui pochi mesi più tardi, precisamente il 12 ottobre, se ne aggiunse un secondo che riguardava il progetto Dr. Phibes. Il contratto non prevedeva un termine, eravamo certi che stesse arrivando il grande successo. Grazie al supporto del negozio fu facile accedere a tutti i nuovi arrivi dagli Stati Uniti e dall’Europa e scoprire prima di altri le nuove tendenze sonore. Poi, per fortuna, la new beat era un genere piuttosto facile da comporre se paragonato alle canzoni delle grosse band americane o britanniche. Mio padre mi diede l’opportunità di impratichirmi e vendere dischi nel negozio durante il weekend ma per me, come del resto per chiunque amasse la musica, quello non era affatto un lavoro bensì puro piacere. Non avevo alcuna voce in capitolo sulle produzioni ma mi era concesso dare qualche giudizio. Sanchioni, dunque, iniziò ad incidere dischi con mio padre nel 1988 ma i risultati non furono immediati. Cercai di dargli qualche consiglio facendo leva sulla mia visione da giovane clubber. Lui accolse di buon grado i suggerimenti al fine di ottenere i suoni giusti dalle grandiose macchine di cui disponeva in studio (Korg, Ensoniq, Roland, Akai) ed iniziò ad usare qualche sample. Qualche mese più tardi mi fece ascoltare una nuova traccia incisa su cassetta chiedendomi cosa ne pensassi. Fui completamente rapito da quei suoni e corsi a dirlo a mio padre. Finalmente un pezzo forte! Era “Acid Story”, secondo singolo di Dr. Phibes. L’entusiasmo crebbe ulteriormente quando mi chiesero di metter su un gruppo per far fronte alle live performance nei club visto che la new beat stava diventando un fenomeno di grossa portata nelle discoteche. “Acid Story” fu un autentico successo ed aprì un periodo rigoglioso della DiKi Records dopo qualche singolo non particolarmente fortunato (“Noise Gate” di Chico Crew, “”Vachillia” …6?” di Dr. Phibes ed “Hardcore Movies” di Doc And Co, tutti orchestrati da Sanchioni, nda). Durante il periodo dorato della new beat, io, Sanchioni e i ragazzi coinvolti nei progetti Dr. Phibes e Bazz facemmo davvero un mucchio di live, ogni weekend in una discoteca diversa. A quel periodo sono legati tantissimi ricordi ed incontri. Appena due anni più tardi però un nuovo genere musicale si profilò all’orizzonte, la techno. Pezzi come quelli degli Inner City di Kevin Saunderson fecero da apripista e in breve fummo letteralmente sommersi da un numero abissale di etichette e brani provenienti da ogni parte del mondo. Non bastò più mettere insieme una serie di sample ma fu necessario cercare anche parti vocali e Sanchioni a quel punto parve un po’ in preda al panico.

05) Sanchioni e Roger Samyn nel primo studio della DiKi Records (al n. 56)
Bruno Sanchioni e Roger Samyn nel primo studio della DiKi Records,1988 circa

Come affrontaste quella nuova fase stilistica che avrebbe interessato e coinvolto gran parte d’Europa?
Il negozio di dischi continuava a raccogliere enorme successo. Un numero sempre più corposo di DJ, anche molto popolari, veniva al Disco King a fare acquisti e ciò avviò una sorta di competizione coi semplici appassionati che cercavano a tutti i costi di mettere le mani sulle rarità destinate prevalentemente ai professionisti della consolle. Nel periodo in cui la new beat lasciò spazio alla techno arrivò Emmanuel Top. Ricordo come se fosse ieri il momento in cui lo incontrai per la prima volta. Quando varcò la soglia d’ingresso del negozio provai una strana sensazione, sentii qualcosa di positivo nella sua presenza. Mi chiese se avessimo “Rhyme Fighter” di Mellow Man Ace e “The House Of God” di DHS e gli risposi «certo!». Rimase quasi senza parole. «Finalmente, cerco questi titoli da settimane ma senza risultato!» disse. A quel punto gli domandai se avesse mai sentito parlare del nostro negozio. «No, ma ho visto Jean Vanesse, DJ del Fifty Five a Kuurne (oggi CEO della N.E.W.S. di Gand) andare in un altro negozio di dischi a Menin, il Disco Smash, e a quel punto lo ho seguito con la mia auto perché ero certo che stesse facendo il giro degli store in cerca di novità da proporre durante il weekend». Il nostro era un negozio piccolo ma altamente specializzato, proprio quello che stava cercando. Fu l’inizio di un vero rapporto di amicizia. Emmanuel Top rimase un cliente abituale del Disco King per circa un anno. Poi decise di investire del denaro nell’acquisto di vari sintetizzatori e fare coppia fissa in studio con Bruno. In quello stesso anno, il 1990, Sanchioni incontrò pure Gregory Dewindt (Master Techno, Total Groove, Deee Maestro etc) ed insieme realizzarono i singoli “1990 Is Our Space” e “Waresnare” di Dr. Phibes. Per l’occasione Gregory utilizzò due pseudonimi, Gregg Jones e Teddy Jones. L’arrivo di Emmanuel Top, di fatto diventato co-autore con Sanchioni, lasciò deluso Dewindt che a quel punto cercò nuove strade e firmò un contratto con la Sarema. Tuttavia grazie ai buoni contatti stretti con Rabah Djafer, manager della società francese, collaborammo ancora in occasione di alcuni dischi di Master Techno. Nel ’93 inoltre Dewindt incise per la DiKi Records “Pacific” di Pacific Trance a cui fece seguito, due anni dopo, “Jesus Trip” sulla sublabel X-Stream realizzato con Philippe Toutlemonde alias Phi-Phi (intervistato qui, nda), ai tempi uno dei DJ più famosi in Belgio in virtù dei dischi pubblicati su Bonzai. Grazie al successo e alla notorietà raggiunta sia col negozio che con le produzioni discografiche, ci trasferimmo in una sede più grande, sempre nella stessa via ma al numero civico 101. Lì avremmo avuto più spazio per lo studio e per la sala ascolto, allestita con una serie di Technics SL-1200 messi a disposizione dei clienti. Quel trasferimento alimenterà ulteriormente l’incredibile successo della DiKi Records.

06) Bruno Sanchioni e lo studio della DiKi (1991)
Sopra Sanchioni nel secondo studio della DiKi Records, sotto uno scatto che immortala alcuni degli strumenti utilizzati nel medesimo studio (1991)

Nel post new beat la Diki Records pubblica un disco seminale per la trance, “The Age Of Love”. Cosa ricordi in merito?
All’inizio del 1990 il negozio era ancora al numero 56 di Rue du Christ e Sanchioni lavorava in studio da solo. Quando non c’erano clienti, aprivo le porte della sala e lo sentivo suonare. A lui piaceva molto comporre ad alto volume e ciò mi diede la possibilità di sentire la costruzione di quel pezzo dall’inizio alla fine. L’ultimo suo successo, “Te Quiero” di Pedro Ramon, portato nei club con tantissimi live show, ormai era alle spalle e Bruno iniziò ad annoiarsi perché non riusciva a realizzare nuove tracce con vocal inediti e di pregio. Nella nostra zona era davvero difficile trovare cantanti capaci di interpretare testi in inglese senza tradire l’accento francese. In quel periodo stava lavorando ad una traccia strumentale che, pur essendo ancora allo stato di demo, prometteva piuttosto bene. All’interno aveva piazzato alcuni sample ed effetti tra cui il rumore di un aereo (e ciò spiega la ragione del nome di due versioni, Flying Mix e Boeing Mix, nda), l’ansimare di un orgasmo femminile ed un campionamento vocale preso da “Native House” di MTS And RTT uscito sulla Trax Records di Chicago che a sua volta includeva un frammento di “Native Love (Step By Step)'” di Divine che usò come bassline. I rullanti invece erano influenzati da “Work That Mutha Fucker” di Steve Poindexter. Quando creò il primo loop gli dissi immediatamente che fosse un punto di partenza interessante, e lo spronai a continuare. Se da un lato era entusiasta, dall’altro però si mostrava frustrato perché non riusciva a disporre dei vocal che desiderava. Arrivò persino a noleggiare alcune videocassette con la speranza di carpire qualche buon campionamento. Le voci presenti in “House Of Pax” di Bazz che recitano “je suis venu en paix”, ad esempio, le prese dalla versione francese del film “Dark Angel”. Lascio a voi immaginare da che tipo di pellicole trasse i gemiti che si sentono in “The Age Of Love”. Non soddisfatto del tutto dal risultato, continuava a chiedere a mio padre di procurargli dei vocal da utilizzare. Lui si convinse dopo aver fatto ascoltare quella demo ad amici e clienti del negozio che avevano espresso, all’unanimità, reazioni assolutamente positive. Il bassline, effettivamente, era irresistibile. In quel periodo girava un pezzo, diventato parecchio popolare, con un sample che recitava “waouw, c’mon, waouw”, ossia “Yaaaaaaaaaah” di D-Shake. A Bruno (ma anche a me) piaceva molto quella traccia e un giorno, ascoltandola, mi disse che ciò che occorreva alla sua nuova demo fosse proprio un sample tipo “c’mon”, magari cantato da una donna.

07) Age of Love deposito Sabam
La ricevuta della SABAM relativa al deposito di “The Age Of Love” (13 aprile 1990). Il genere musicale del brano è indicato come “Rap Dance”

08) Valerie Honore
Una recente foto di Valérie Honoré, voce femminile di “The Age Of Love” da anni attribuita erroneamente alla modella olandese Karen Mulder

Quel sample arriva e la ragazza che lo interpreta viene spacciata su internet come Karen Mulder, vero?
Già. Da anni sul web si parla di un presunto incontro con la Mulder, invitata nel nostro studio per occuparsi di una piccola parte vocale in “The Age Of Love” ma tutto ciò è solo frutto della spiccata fantasia di qualcuno. Le cose andarono in modo molto diverso, la modella olandese non ha mai messo piede alla DiKi Records e tantomeno cantato per quel disco e spero che questo articolo / intervista, attraverso cui rivelo per la prima volta tale retroscena, possa servire a fare chiarezza. La voce femminile che si sente in “The Age Of Love” è di Valérie Honoré che oggi vive vicino Lille, in Francia. Ai tempi aveva diciannove anni e un pomeriggio Sanchioni le chiese, quando eravamo ancora al 56 di Rue du Christ, se le andasse di ballare sul palco in occasione dei live di Pedro Ramon. Accettò. Poche settimane più tardi, mentre rientravano da una serie di serate in alcuni club parigini, Bruno le disse che stava cercando voci femminili per le sue nuove produzioni e le propose di fare una prova in studio. Avrebbe dovuto cantare solo una breve parte, tipo i versi in francese in “Fade To Grey” dei Visage per intenderci. Valérie annuì. Una volta giunti in studio Sanchioni le fece ascoltare la base e lei rimase piuttosto spiazzata visto che niente di quel pezzo somigliava ai Visage. Tuttavia non si tirò indietro e scrisse un paio di frasi in inglese: “Come on dance with me, move your body you like the beat”. Bruno campionò la voce e nell’arco di due/tre ore la piazzò nel brano ma Valérie, stanca, ormai era andata via. Pochi mesi più tardi lei incontrò in un bar della città Stéphane Pauwels, ai tempi DJ ed oggi impegnato in tv in programmi sportivi. Andarono insieme in una discoteca e lì ascoltò per la prima volta il brano con la sua voce. Era rattristata dal fatto che Bruno non l’avesse più contattata per informarla sullo sviluppo della vicenda e per ringraziarla. Comunque non tornò alla DiKi Records e non avanzò mai alcuna pretesa, ormai era occupata da un altro lavoro. Stanco di assistere alla continua diffusione su internet di informazioni completamente infondate, tempo fa mi misi alla ricerca di questa misteriosa cantante contattando pure Sanchioni ed alcuni vecchi DJ e clienti del negozio ma purtroppo senza successo. L’unica informazione che ottenni era il suo nome, Valérie. Complice quest’intervista, adesso sono riuscito ad entrare in contatto con lei attraverso Facebook e qualche settimana fa mi ha finalmente raccontato dettagliatamente come andarono le cose nel 1990. Valérie si occupa di artigianato dal 1998, oggi lavora come tappezziera e decoratrice ed è mamma di un bellissimo bambino di dieci anni. Il cerchio si è finalmente chiuso. Mi impegnerò affinché il suo nome e il testo originale che scrisse vengano riportati sulle copertine delle prossime ristampe di “The Age Of Love”.

Quando entra in gioco invece Giuseppe Chierchia?
Nel periodo in cui Sanchioni lavorava alla base di “The Age Of Love” mio padre iniziò a pubblicare alcuni brani, come “Baby Phibes” di Dr. Phibes, “The Right Song” di Neal Fox e il citato “Te Quiero” di Pedro Ramon, in cooperazione con Philippe De Keukeleire dell’Alpina Records e Carrera Records. Philippe era il figlio di Marcel De Keukeleire, produttore di una canzone arcinota, “La Danse Des Canards” di J.J. Lionel (nota in Italia come “Il Ballo Del Qua Qua”, ricantata da Romina Power, nda). Sapendo che Sanchioni fosse alla disperata ricerca di un/una cantante, mio padre chiese aiuto a lui. Il caso volle che quel giorno De Keukeleire stesse insieme ad un cantante italiano, Giuseppe Chierchia meglio noto come Pino D’Angiò, andato a trovarlo visto che erano buoni amici. Mezz’ora dopo Chierchia era già nel nostro studio intento a registrare i vocal giacché la parte strumentale era stata già completata. Mio padre e Bruno decisero di intitolare il pezzo “The Age Of Love” ispirati dal sample proveniente da “Native Love (Step By Step)” prodotto da Bobby Orlando. Chierchia, a sua volta, si lasciò trasportare dal titolo per scrivere un testo e registrarlo in poche ore. Quel giorno Sanchioni era decisamente felice visto che in studio si trovava con un altro italiano con cui divertirsi e farsi un sacco di risate. Quando la partitura fu completata, venne depositata in SABAM ma con un errore: il passaggio vocale “you like the beat” fu sostituito da “your life is beat”. Non fu una cosa intenzionale però. Chierchia non aveva mai incontrato Valérie Honoré, le rispettive parti furono registrate in momenti differenti e poiché nessuno si era preoccupato di annotare il testo di quel breve inserto vocale inciso come prova, vennero trascritte le parole che sembrava fossero state pronunciate da Valérie in quei pochi secondi. Le quattro versioni furono completate e mandate in stampa poche settimane più tardi ma il successo non giunse subito, seppur tutte le copie della prima tiratura vennero vendute presto. Due anni dopo, a pochi giorni dalla fine del Midem, Hessel Tieter della Music Man disse a mio padre che fu un vero peccato che non fosse a Cannes perché Thomas Foley della britannica React era alla ricerca di un referente della DiKi Records per un pezzo del catalogo chiamato “The Age Of Love”. Rimanemmo parecchio sorpresi visto che si trattava di una vecchia produzione.

09) Sanchioni e Chierchia (1990), la partitura di AOL
Nella foto sopra Bruno Sanchioni e Giuseppe Chierchia immortalati in studio nel marzo 1990, sotto la partitura depositata in SABAM in cui si rinviene anche il testo scritto ed interpretato precedentemente da Valérie Honoré parzialmente modificato

Nel frattempo su DiKi Records erano usciti tanti altri brani.
Sì, esattamente, avevamo pubblicato parecchie tracce composte da Sanchioni ed Emmanuel Top, intuendo che l’arrivo di quest’ultimo rappresentasse una grande spinta motivazionale per Bruno. Al fine di alimentare quella fertilità creativa, acquistammo nuovi strumenti per lo studio come una Roland TB-303 ed una Roland TR-909. Emmanuel Top inoltre iniziò a suonare con regolarità in club come il Boccaccio, il Fifty Five e il Villa, tutti parecchio popolari in Belgio. A ciò si sommò la massiccia importazione di musica techno ed house dagli Stati Uniti, l’influenza di Chicago e Detroit per noi fu determinante. Si trattò di un periodo fantastico sotto tutti gli aspetti. Il primo vero grande successo per la DiKi Records, diventato un classico in Belgio, è stato “Cactus Rhythm” di Plexus, uscito nel ’91. Mentre ero intento a vendere dischi in negozio, Bruno ed Emmanuel componevano musica nello studio al piano superiore, alla perenne ricerca del giusto sound. In quel periodo lo stile di Frank De Wulf e della R&S Records era tra i più apprezzati e richiesti dai nostri clienti ma Emmanuel non riusciva ad ottenere suoni simili. Gli suggerii allora di prendere a modello “Mentasm” di Second Phase, e mettendo il disco sul piatto proposi di campionarlo ma riproducendo il sample al contrario, magari incrociandolo al “waouw” di “100% Of Disin’ You” di Armando, a sua volta preso da “My Loleatta” di Ellis-D che rimaneggiava la voce di Loleatta Holloway. Mi guardò e poi corse su in studio. Qualche ora dopo tornò con un DAT che suonai in negozio alla presenza di parecchi clienti. Corsero in massa a chiedermi una copia di quel pezzo, fu pazzesco, ed Emmanuel mi fece l’occhiolino. Poche settimane più tardi divenne un successo.

Come già detto, Sanchioni realizza parecchie produzioni per la DiKi Records prima di “The Age Of Love”. Uno dei suoi progetti più popolari resta il menzionato Dr. Phibes che fece da ponte tra la new beat e la house/techno. Come reagì il pubblico quando iniziarono a diffondersi le varie forme di “neo dance” nella seconda metà degli anni Ottanta?
Prima del celebre “The Age Of Love”, Sanchioni fece centro con Dr. Phibes e Bazz, ma anche Pedro Ramon andò discretamente. “Te Quiero”, del 1989, era ispirato in modo piuttosto chiaro dall’italiana “Sueño Latino” e riscosse particolari consensi in radio, oltre ad essere il primo brano che licenziammo alla britannica Network Records del gruppo Kool Kat. “Acid Story” di Dr. Phibes e “The Drop Deal” di Bazz rappresentarono perfettamente Bruno e la sua band durante il periodo new beat, con particolari riscontri in Belgio e Francia. Il pubblico andava in visibilio quando sul palco si esibivano gruppi new beat, abbigliati in modo speciale con grandi smile e loghi in metallo di brand automobilistici come Mercedes o Volkswagen. Se ai tempi possedevi un’automobile di quelle case produttrici dovevi stare attento a non farti rubare i simboli attaccati alla carrozzeria! Per andare in alcune discoteche allora bisognava quasi travestirsi. I brani di Dr. Phibes e Bazz erano sempre mixati con “The Sound Of C…” dei Confetti’s alla fine delle serate presso l’Amnesia di Ibiza. In quegli anni si svolsero eventi grossissimi con tanti gruppi new beat e a volte, grazie al successo che ci portava in cima alle hit parade, l’accoglienza riservata fu esagerata. I produttori di quella musica erano considerati quasi delle star. Per quanto riguarda altri brani, il successo fu meno evidente anche perché, in assenza di internet, per farti conoscere all’estero era necessario chiudere accordi di licenze con altre case discografiche al fine di contare su una distribuzione capillare dei propri prodotti. La concorrenza era spietata e non mancavano favoritismi verso talune etichette. Adesso le cose sono completamente differenti e ci rende felici ricevere messaggi da fan sparsi in tutto il mondo che si congratulano per la musica che abbiamo pubblicato trenta (ed oltre) anni fa. Per la DiKi Records fu importante far parte del movimento new beat a cui si può ricondurre l’inizio della dance elettronica. Durò pochi anni ma decisamente intensi. Nel 1990 l’arrivo della techno in Europa rese il tutto ancora più intrigante.

10) i Dr Phibes nella formazione live (a sinistra c'è Gianni Battistel, morto a novembre 2020)
Una foto promozionale di Dr. Phibes: al centro Bruno Sanchioni affiancato da due personaggi che lo aiutano a portare il progetto nella dimensione live nelle discoteche quando imperversa la musica new beat a fine anni Ottanta. A sinistra Gianni Battistel, morto a novembre 2020

Ritieni quindi che la musica new beat possa essere considerata un punto di inizio per la techno e trance europea?
Senza ombra di dubbio la new beat è parte integrante dell’avvio della dance continentale ma a mio avviso quel fenomeno iniziò poco tempo prima, sempre in Belgio, con la cosiddetta AB Music proposta presso l’Ancienne Belgique, un locale a Bruxelles in cui i brani registrati a 45 giri venivano suonati a 33 giri ma aumentati a +8 col pitch del giradischi. Nello stesso periodo in cui imperversava la musica new beat circolavano grosse hit uscite dai confini britannici, tedeschi e statunitensi come “Jesus Loves The Acid” di Ecstasy Club, “Monkey Say, Monkey Do” di WestBam e “The Party” di Kraze. La musica, rispetto ad oggi, era consumata in modo radicalmente differente. Era impensabile restare a casa ed accontentarsi di sentire la radio se cercavi certi pezzi, bisognava andare fisicamente nei negozi di dischi specializzati per comprare particolari generi.

Torniamo a parlare di “The Age Of Love”, uscita nel 1990 quando la trance è ancora una sorta di prototipo. Quante copie vennero vendute inizialmente?
Solitamente in quel periodo stampavamo dalle 1000 alle 2000 copie ad uscita. Recentemente ho ritrovato un vecchio documento in archivio relativo ad una ristampa avvenuta a settembre del 1990 del DIKI 47.12.12, “The Age Of Love” per l’appunto, pari a 720 copie. Insomma, fu un disco che ottenne consensi parecchio circoscritti nella fase iniziale e credo non si possa neanche parlare di successo nazionale. Reazioni più entusiasmanti riguardarono invece altri brani della DiKi Records come Plexus ad esempio, ma in passato era impossibile sapere immediatamente se la musica che pubblicavi stesse raccogliendo successo in altri Paesi, era necessario attendere. Capitava anche di scoprire che, a causa della poca disponibilità, qualcuno stampasse bootleg white label in forma del tutto illegale come avvenne oltremanica ad “Auto Shutter” di Plexus. Distribuire i propri prodotti a migliaia di chilometri di distanza era un problema ed ottenere informazioni dall’estero non era mica facile come oggi. Noi non ci accorgemmo dell’enorme potenziale di “The Age Of Love” ma soprattutto nessuno fu in grado di prevedere che quello sarebbe diventato uno dei più grandi classici trance di tutti i tempi.

Riguardo il remix di Jam & Spoon invece?
Ricordo esattamente quando lo ascoltai per la prima volta. Era estate ed eravamo nei pressi di un magazzino in Francia che usavamo per esportare dischi in Italia e in vari negozi del luogo. Mio padre mi chiamò e disse: «Jeff, ho appena ricevuto la cassetta col remix di “The Age Of Love”. Ascoltala in macchina e poi dimmi che ne pensi». La sentii in auto e rimasi subito sorpreso dalla parte ritmica, più marcata rispetto all’originale, ma soprattutto dall’intro: l’intensità dei suoni aumentava e fui costretto ad abbassare il volume per mantenere alta l’attenzione mentre guidavo. Mi domandai a cosa servisse quella strana costruzione ma pochi secondi dopo fu come immergersi in un sogno. Wow! La riascoltai diverse volte e quando tornai da mio padre gli dissi che sarebbe stata una hit, ne ero quasi certo. Se avessi potuto modificare qualcosa forse avrei cambiato lo stridio di suoni che si alzava prima dei fantastici cori ma lui mi incalzò dicendomi che fosse proprio quell’elemento a rendere fantastico il remix. Misi la cassetta in play più volte nel negozio, nel frattempo trasferitosi al numero 101, e tutti i clienti presenti mi chiesero il titolo. A quel punto mi convinsi definitivamente. Non ringrazierò mai abbastanza Jam & Spoon per il lavoro che fecero. Il destino ha voluto che proprio il giorno in cui Mark Spoon morì, sia nato uno dei miei figli. Il pensiero volò a lui, non lo dimenticherò mai. Credo che la loro versione resti ad oggi la migliore. Rappresentò un ottimo biglietto da visita sia per i DJ set nei club che le produzioni future. A commissionare il remix fu la React accaparrandosi la gestione di “The Age Of Love” in tutto il mondo ad eccezione di Benelux, Francia, Germania, Austria e Svizzera secondo un accordo sottoscritto il 6 aprile 1992. L’unica cosa che rimpiango è che i remix di “The Age Of Love” non siano mai stati pubblicati su DiKi Records. Sono sicuro che avrebbero garantito ulteriore prestigio alla label che, comunque sia andata, riuscì ugualmente a ritagliarsi un posto di rilievo con la sua musica e i propri artisti. Circa un anno più tardi fu eletta “label del mese” dal magazine tedesco Frontpage grazie alle produzioni di Joey Beltram (X-Buzz), Acid Kirk e Sebastian S. (Cyberpsychose), Kelli Hand (Etat Solide) ed Antoine Clamaran (GTD). Poi fu la volta di Luc Devriese che arrivò quando Emmanuel Top decise di continuare la carriera da indipendente fondando la Attack Records. La sua scelta mi rattristò parecchio perché prima di essere un compositore era un amico, ma forse è il destino di ogni artista cercare di riuscire a fare le cose senza l’aiuto altrui. Sanchioni, pur essendo appagato, lo seguì creando poco tempo dopo il progetto BBE a cui aderì pure Bruno Quartier. Riscossero un grandissimo successo ma fu inevitabile lavorare nuovamente insieme.

11) Bruno Quartier e Bruno Sanchioni Live come BBE 20-12-1996
Bruno Quartier (a sinistra) e Bruno Sanchioni (a destra) durante un live di BBE svoltosi il 20 dicembre 1996

“The Age Of Love” sarebbe stata completamente dimenticata senza la Watch Out For Stella Club Mix di Jam & Spoon?
Sono un estimatore della musica di Jam & Spoon. Tra i miei preferiti i due “Tripomatic Fairytales”, il remix di “Go” di Moby ed ovviamente le canzoni cantate da Plavka. In negozio vendemmo moltissimi dei loro dischi, “Tripomatic Fairytales 2001” divenne un autentico classico al Disco King. Sono fermamente convinto che “The Age Of Love” non avrebbe mai raccolto i sorprendenti risultati che tutti conoscono se non fosse stata supportata dai remix usciti nel corso degli anni. Durante la partnership con la React, sia mio padre che Thomas Foley hanno costantemente insistito che tutti i remixer si ispirassero alla versione originale di Sanchioni. A tal proposito ricordo che la React rifiutò il primo remix di Paul van Dyk perché troppo simile a quello di Jam & Spoon, chiedendone un secondo che contenesse più punti in comune con l’originale. Lui capì ma sapeva che sarebbe stato impossibile fare di meglio. Tutte le versioni successive, inclusa quella di Emmanuel Top, vennero composte e costruite col preciso intento di non assomigliare a quella di Jam & Spoon, era un obbligo da rispettare. A distanza di poco più di trent’anni, il remix maggiormente suonato nelle discoteche e nei grandi eventi resta quello di Jam & Spoon, nel frattempo diventato anche IL riferimento per nuove generazioni di artisti. Continuiamo tuttora a ricevere remix, fin troppi direi, ma tutti puntualmente simili. Ultimo, in ordine di apparizione, quello di Solomun, artista per cui nutro rispetto ma pure la sua reinterpretazione non si ispira affatto all’originale del 1990. Preferisco il lavoro svolto da Mr. Sam e Fred Baker che rivela una completa rivisitazione del brano ma comprendo che ormai, per un pubblico sempre più ampio, quella di Jam & Spoon sia considerata alla stregua della versione originale. Sarà difficile cambiare tale percezione. Per garantire la sopravvivenza del pezzo e spronare nuovi artisti a fare di meglio, siamo tuttora costretti a rifiutare moltissimi remix.

12) Jeff e il padre (199x)
Roger Samyn e il figlio Jeff nel Disco King intorno alla metà degli anni Novanta. In primo piano la copertina di “The Age Of Love” già considerato un classico

Ritieni che “The Age Of Love” possa essere considerato uno dei primi brani trance della storia?
Nei primi anni Novanta in circolazione c’erano tantissimi pezzi straordinari di svariati generi. Era un periodo favoloso e il meglio doveva ancora venire, ma in relazione al suo storico devo ammettere, con la massima umiltà, che possa essere uno dei brani ad aver dato avvio al movimento trance, oltre a restare uno dei migliori di quel filone. Quando cerco di ricordare altri pezzi trance che mi siano piaciuti, mi rendo conto che sono tutti posteriori a “The Age Of Love”. Non so per quanti anni ancora questo brano figurerà nei DJ set ma è innegabile che sia diventata parte integrante della storia della musica elettronica globale e riesca a parlare a più generazioni.

L’età dorata della musica solcata su vinile è ormai lontana ed irripetibile. Cosa ricordi dei migliori anni d’attività del Disco King?
Il Disco King che si trovava al 56 di Rue du Christ era a tutti gli effetti una “creatura” del mio papà, purtroppo scomparso prematuramente poco più di venti anni fa (il 9 dicembre 2000). Per tale ragione non posso indicare con certezza assoluta il periodo più redditizio e fortunato, ma per me quel negozio ha rappresentato l’inizio dell’avventura nell’universo della musica quindi lo ricordo con infinito affetto. Mio padre era felice come un pesce nell’acqua e i due anni che trascorsi lì dentro promisero tanti successi. Il Disco King che riaprì al 101 invece rappresentò un’autentica sfida per me, visto che fui io a convincere papà ad espanderci. Il mio obiettivo era entrare nella top 5 belga dei negozi di dischi e per giungere a quel risultato ci vollero anni. Ero alla costante ricerca di dischi esclusivi e i contatti diretti coi grossisti statunitensi ci aiutarono non poco ad attirare l’attenzione dei DJ dei locali più quotati che venivano a rifornirsi da noi.

13) Disco King (1996 circa)
La seconda sede del Disco King, al 101 di Rue du Christ, a Mouscron: a sinistra l’insegna esterna, a destra Jeff Samyn (1996 circa)

In questa intervista a firma Jacques De Size, pubblicata il 17 dicembre 2019 da Redbull, si legge che tra i vostri clienti ci fosse pure un italiano. Chi era?
Si trattava di un personaggio che comprava intere casse di dischi ed ascoltava i nuovi arrivi al telefono. Gli mandavo la lista delle novità ogni settimana, era davvero un grande fan. Sono riuscito a ritrovarlo proprio recentemente con l’aiuto di Google, si chiama Giuseppe Acquadro e vive ad Andorno Micca in provincia di Biella. Sembra che ora, come si legge in questo articolo, sia un personaggio piuttosto influente nel mondo del ciclismo. Ai tempi veniva a trovarci portando sempre una guantiera di pasticcini. Nel 1993, su DiKi Records, pubblicammo pure un suo disco, “Acid Illusion” di Jos Q And Niki Fox. “Dream Trance” di Acqua & Sphere invece finì sulla sublabel Hit The Beat, sempre nello stesso anno.

Cosa rammenti con maggior piacere della DiKi Records degli anni Novanta?
Come ho detto precedentemente, le produzioni discografiche erano gestite da mio padre. Dopo che Bruno Sanchioni ed Emmanuel Top mollarono per iniziare un nuovo corso da indipendenti, l’atmosfera cambiò. Ci sentimmo come orfani ed iniziammo a stringere rapporti con altri artisti che avevano già sentito parlare di noi. Cominciammo pure a prendere in licenza pezzi che funzionavano bene nelle discoteche ed essere un assiduo frequentatore di locali mi aiutò non poco ad individuare su quali brani scommettere ed investire denaro. Nel 1992 venne a trovarci in negozio Luc Devriese che lavorava al leggendario Boccaccio, e con lui instaurammo subito un ottimo rapporto. Era l’inizio della sua nuova avventura artistica dopo decine di pubblicazioni precedenti sulla Target Records. Aveva uno studio di registrazione a Gand e mi chiese qualche idea per creare brani forti. Insieme abbiamo prodotto diversi successi come “Acid Creak” di Spokesman, “Midnight In New York” di Michael Sanctorum, “Wake Up”, “Breath Of Life” ed “Emotive Skin” di Trance Team, “Spring Of Life” di Brainwave, “Just A Little Bit Of Love” di Bruce Bap’s ed altri ancora. A partire dal 1992/1993 tutto avvenne in maniera molto spontanea e naturale. Tanti DJ, compositori ed artisti si avvicinarono a noi contribuendo a scrivere la storia della DiKi Records. Erano tutti entusiasti di pubblicare la propria musica sulla nostra etichetta e alla fine ciò che ha decretato il successo della label fu, a mio avviso, la grande diversità di artisti e stili. Rammento davvero tantissimi aneddoti. Il primo riguarda “Rio” di DJ M.D.: dopo aver ascoltato il demo cercai di convincere mio padre a non pubblicare quel brano perché non mi piaceva affatto. Lui però non seguì il mio consiglio facendolo uscire sulla sublabel Porshe Records e fece bene perché nell’arco di poche settimane “Rio” divenne richiestissimo, diventando uno dei migliori successi della DiKi Records per vendite e numero di compilation in Belgio e Francia. Rimasi veramente sbalordito. Il secondo aneddoto è legato all’Italia visto che concerne “Children” di Robert Miles. Fummo i primi ad inserirlo in una compilation su CD, “Welcome To The Club”, ma ingenuamente non pensammo di assicurarci l’esclusiva. Roberto Concina ci confidò, in occasione di un evento svoltosi a dicembre del ’95 per celebrare il compleanno della DiKi Records, di essere stato ingaggiato per la prima volta all’estero proprio grazie a noi. Non essere stato lungimirante a sufficienza sulla sua “Children” (di cui parliamo qui, nda), da lì a poco diventata un successo mondiale, resta uno dei più grandi rimpianti che mi porto dietro. Il terzo aneddoto è legato a “Traky” di People Of Cactus: fui svegliato nel cuore della notte da un tale che stava sentendo musica ad altissimo volume in auto e che, fermatosi per far scendere o salire qualcuno proprio sotto casa mia, aprì la portiera. Il suono era talmente forte da destarmi immediatamente dal sonno. Non ci fu verso di riaddormentarmi e di far uscire quella melodia dalla mia testa. Il giorno dopo cercai il titolo (“Tracky” dei Formic, tratto dall’EP “Trick Tracks” su Formic Records, 1995, nda) e contattai il produttore mostrando l’intenzione di prenderlo in licenza e farlo remixare da Emmanuel Top. Non era interessato a quel tipo di accordo ma disposto a cederlo del tutto. A quel punto divenni compositore della traccia con Bruno Sanchioni e “Traky” si trasformò in una hit, proposta in tutte le discoteche del Belgio tra la fine del 1998 e i primi mesi del 1999. Perché People Of Cactus? Semplicemente per creare una sorta di connessione con “Cactus Rhythm” di Plexus, che realizzai anni prima con Sanchioni ed Emmanuel Top. Cercavo un modo per spiegare alla gente che fossimo sempre noi e così optai per quello pseudonimo, sicuro che i fan più attenti avrebbero afferrato. L’ultimo aneddoto, infine, riguarda l’artista scozzese Stephen Brown che doveva esibirsi in un DJ set il 17 dicembre 1999 in occasione di un’altra festa di compleanno della DiKi Records. L’evento fu organizzato presso La Bush, una delle più grandi discoteche in Belgio che era davvero pienissima. Il clima era perfetto e il pubblico eccitatissimo. Brown non immaginava affatto di essere così popolare e mi chiese di suggerirgli qualcosa per il suo programma di quella sera, sostenendo di essere abituato a suonare in un piccolo club ad Edinburgo e che non volesse rischiare di deludere tutta quella gente accorsa lì per lui. Quando mise la sua “My Drums”, pubblicata pochi mesi prima su DiKi Records, la discoteca sembrò esplodere.

14) Mikka (02 04 1973 - 13 12 2001)
Mikka, collaboratore del Disco King, prematuramente scomparso a dicembre del 2001

Tutto però è cambiato da quei tempi.
Oggi è semplicemente impossibile generare i numeri discografici degli anni Ottanta o Novanta. Esisteva un sistema che contava su negozi di dischi, discoteche e pubblicazioni discografiche: se volevi essere aggiornato dovevi necessariamente acquistare dischi ma per sapere quali comprare andavi nei locali cercando di “estorcere” i titoli al DJ oppure rimanendo appiccicato alla consolle sperando di poterli scovare da solo mentre giravano sui piatti. Insomma, un autentico circolo virtuoso che sosteneva l’intero comparto. Quando organizzavamo gli eventi speciali poi, il giorno dopo in centinaia si riversavano nel negozio chiedendo di comprare gli stessi dischi che aveva messo il DJ la notte precedente. Per timore di non trovarli, alcuni ragazzi arrivavano ad aspettare l’apertura fuori, non rientrando neppure a casa per dormire. C’era pure chi acquistava le cassette dai DJ e poi ce le portava chiedendo di ascoltarle per scovare tutti i titoli e comprarli. Al fine di smaltire la ressa che si creava ogni volta, feci installare parecchi giradischi dotati di cuffia in modo tale che ognuno potesse fare da sé. C’era però un rovescio della medaglia, in quel modo la gente maneggiava una grande quantità di materiale talvolta danneggiando qualche copia, ma non era un problema visto che vendevamo più di mille dischi a settimana. Adesso invece è tutto diverso. Puoi ascoltare musica con un semplice clic del mouse e quando compri un disco arriva intonso, ancora avvolto nel cellophane. Non credo che il nostro negozio avrebbe ancora ragione di esistere, almeno secondo la vecchia tradizione di vendere musica. Mi capita di entrare in qualche record store ma, in tutta onestà, non ho mai trovato la stessa atmosfera di quegli anni. Il 2000 e il 2001 sono stati decisamente difficili per me. Nel 2000 un infarto ha ucciso mio padre, a soli 58 anni, e nel 2001 è toccato pure al mio amico Mikka, collaboratore di lunga data del Disco King, amato dai clienti e particolarmente influente pure sulla musica che producevamo. Una malattia rara se lo è portato via ad appena 29 anni. Per me fu un vero shock nonché l’inizio della fine di questa meravigliosa avventura nel mondo della musica. Il clima lavorativo cambiò, non mi interessava più essere al top e la crisi del mercato discografico innescò la chiusura di tanti negozi di dischi. Temevo per il futuro del Disco King ed interruppi il lavoro da produttore. Se non ricordo male, le ultime uscite che misi in circolazione furono quelle di Alex Peace, Doug Van Zant e Robert Armani, tra 2004 e 2005. A quel punto avviai un impianto di pressaggio dischi chiamato Vinylium, sebbene l’epoca del digitale fosse vicinissima. Ero certo che il disco sarebbe sopravvissuto a quella tempesta.

Com’è andata con Vinylium?
L’attività è partita nel 2007 e in quel momento trasformai in realtà un sogno di mio padre. La vita però è imprevedibile ed appena due anni più tardi toccò a me vivere qualcosa di terribile. Iniziai ad avere qualche dolore e dopo essermi sottoposto ad una serie di esami medici mi diagnosticarono un tumore al midollo osseo. Per ovvie ragioni ho dovuto accantonare tutto. Il negozio è stato venduto mentre la fabbrica smantellata e il materiale esportato a Seul e destinato al mercato asiatico. È stato frustrante ma, dopo una lunga battaglia sostenuta dai progressi della medicina, sono riuscito a vincere la malattia. Vinylium è ripartito come servizio ed io lavoro come broker per la francese MPO che si occupa di stampaggio dischi. La proprietà della DiKi Records, incluso l’intero catalogo, è stata rilevata nel 2017 da un appassionato di musica che mi ha chiesto di continuare ad occuparmi di alcune pratiche, seppur a gestire il tutto sia la N.E.W.S., da contratto sino al 2021. Stiamo valutando la possibilità per un possibile ritorno sul mercato ma le regole del business sono radicalmente cambiate e quindi è necessario ponderare bene le scelte. Sono consapevole che tanti nostalgici vorrebbero rivivere certi momenti cult del passato ma i tempi sono cambiati e con essi anche i gusti, le preferenze e le attitudini delle generazioni più giovani. La voglia di tornare indietro nel tempo per recuperare emozioni perdute non riguarda soltanto la musica, ma bisogna andare avanti. Spero che le nuove generazioni possano divertirsi almeno quanto ci siamo divertiti noi. Sono certo che tante cose belle debbano ancora arrivare.

(Giosuè Impellizzeri)

Questo articolo è dedicato alla memoria di Roger Samyn (1942-2000)

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Eta Beta J. – On The Road (From “Rain Man”) (S.O.B.)

Eta Beta J - On The Road (From Rain Man)L’affermazione commerciale della progressive iniziata nell’autunno del 1995 e protrattasi per tutto il 1996 e parte del 1997, si è consolidata attraverso l’uso di elementi distintivi come basso in levare e suoni acidi ottenuti col BassLine Roland TB-303, ma anche in virtù di apparati melodici frequentemente attinti da temi cinematografici. Da “Profondo Rosso” di Flexter (già riadattata dai City Center tra 1983 e 1984 in chiave italo disco) a “Metropolis (The Legend Of Babel)” di DJ Dado, da “L’Arcano Incantatore” di Prophecy (di cui abbiamo parlato qui) a “Phenomena” di Argento, passando per “Notre Dame (S’Aggira S’Aggira)” dei K.R.T., “L’Ultima Profezia” di Nostradamus, “Braveheart” dei Q-Base (ma a valorizzare con più fortuna la melodia di James Horner saranno, pochi mesi più tardi, i tedeschi Sakin & Friends di cui si parla nel dettaglio qui), “L’Ultimo Dei Mohicani” di Arkimed e “Love Theme” di Oliva Project. La BMG Ricordi realizza persino una compilation fondata su questo concept, “Movie Dance”, a testimonianza di come quella parentesi di musica strumentale, scarsamente indicata al segmento mainstream sino a poco tempo prima, abbia vissuto un momento di autentico protagonismo.

Alla popgressive, così come quel contenitore potrebbe essere definito a posteriori per evidenziarne le componenti pop(olari), aderisce anche il team degli Eta Beta J., formato da Albino Barbero, Tiziano Romanello e Pietro Caiazzo. Barbero è il primo dei tre a fare ingresso nel mondo discografico, sin dai tempi dell’italo disco, proseguendo poi con l’house music e l’eurodance mediante collaborazioni sparse su varie etichette come Media Records (J. Cap), Time Records (Etoile), Propio Records (Sexilia, Babooshka) ed Energy Production (Gitanica, Namby Pamby), giusto per citarne alcune. «Io invece iniziai a fare il DJ nel 1992» racconta oggi Caiazzo. «Qualche anno più tardi, intorno al 1995, cominciai a collaborare in studio con Romanello e Barbero. Arrivavo dalla discoteca Sandokan di Gravellona Toce dove proponevo musica progressive ad una clientela fatta in prevalenza di ventenni. Con Tiziano condividevo la passione per il DJing e fu proprio lui a darmi la possibilità e la fortuna di conoscere Albino, entrando a far parte del gruppo».

Gli Eta Beta J. appaiono nella primavera del 1996 quando la progressive viene sdoganata su tutto il territorio nazionale anche per merito del successo della Dream Version di “Children” di Robert Miles di cui abbiamo parlato qui. «Il progetto nacque da un’idea embrionale di Tiziano poi completata grazie al contributo di tutti e tre» spiega ancora Caiazzo. «Optammo per quel nome dai rimandi disneyani perché, banalmente, nello studio di Albino c’era un fumetto di Topolino». Il singolo di debutto è “On The Road (From “Rain Man”)”, rilettura progressive trance del brano scritto da Hans Zimmer (artefice di una delle prime tracce house prodotte nel Regno Unito, come illustrato minuziosamente in questo reportage) per la colonna sonora del film “Rain Man – L’Uomo Della Pioggia” del 1988, che affronta in tempi non sospetti il tema dell’autismo. Gli elementi della popgressive ci sono davvero tutti: basso in levare, ghirigori acidi, voci robotiche ma specialmente la linea melodica che rende il tutto proponibile in radio. Non a caso tra i primi a supportare il brano è Molella nel programma Molly 4 DeeJay (a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui), in quel periodo all’apice del successo. Il noto disc jockey di Radio DeeJay inserisce il pezzo, promosso Disco Makina a metà aprile, anche nella “Molly 4 Dee Jay Compilation” diventata il manifesto della stagione più fortunata e popolare del suo programma radiofonico. Sul lato b del disco invece “Eternal Dream”, composto sulla falsariga di “Moon’s Waterfalls” di Roland Brant che in quei mesi si sente davvero ovunque, e “The Second Dimension”, derivata dalla stessa idea della main track ma con l’aggiunta di un pianoforte dream à la Robert Miles. «Realizzammo “On The Road (From “Rain Man”)” nel Rockhattle Studio di Barbero, a Cavallirio, con la famosa DAW di Steinberg, Cubase, avvalendoci di due storiche macchine Roland usatissime in quel periodo, TR-808 e TB-303» rammenta Caiazzo. «Il pezzo venne finalizzato in trenta ore circa. Decidemmo di far leva sulla colonna sonora di “Rain Man” perché allora riprendere melodie di film era diventato un po’ il trend imperante in Italia. Arrivammo alla S.O.B. del gruppo Dig It International (che in quel periodo utilizza come logo la ricolorazione del simbolo della Sega Saturn, nota consolle di videogiochi, nda) grazie alle conoscenze di Barbero che collaborava con tutte le etichette discografiche più in auge nel nostro Paese. L’A&R della S.O.B. era Max Moroldo della Do It Yourself: dopo aver ascoltato il pezzo fu subito entusiasta e decise di pubblicarlo. Non ci fu mai alcuna interferenza esterna, in studio ci affidavamo solamente alle nostre emozioni che Albino riusciva a trasformare in musica facendo leva su maestria e competenza tecnica. Grazie al determinante supporto di Molella e di Radio DeeJay, con cui non avevamo avuto alcun rapporto prima di quel momento, il disco andò benissimo, sia in Italia che all’estero, tra Francia, Spagna e Germania. Calcolando anche le compilation, oltrepassammo la soglia delle diecimila copie vendute».

Ziet'O

Francesco Farfa e Joy Kitikonti realizzano una cover del brano di Hans Zimmer nel 1993, pubblicandola su Area Records

Nel 1996 il mercato discografico della dance è ancora florido, seppur inizino ad intravedersi alcune flessioni nel comparto. Nulla di ancora seriamente preoccupante però, infatti le etichette continuano a stampare dischi a nastro continuo senza fare leva su particolari filtri selettivi. Il successo in ambito generalista della progressive, che negli anni precedenti è un fenomeno di scala regionale e dalle sfumature stilistiche diverse a seconda della collocazione geografica, fornisce la spinta cruciale e il mercato si ritrova, nell’arco di pochi mesi, completamente invaso da prodotti simili, alcuni creati persino su idee del tutto identiche. È il caso di “X-Files” di Mark Snow ripresentata sia da DJ Dado nell’omonimo brano, sia dal britannico Ian Anthony Stephens alias Trinity in “The Truth”, o della colonna sonora di “Mediterraneo” di Giancarlo Bigazzi, a cui si ispirano Fabrizio Risso per “Mediterraneo” e Gigi D’Agostino per “Fly”, seppur attingendo da temi diversi. Anche della stessa “On The Road (From “Rain Man”)” ne esistono più versioni. Già nel 1989, ai tempi dell’uscita del film nelle sale italiane, Riccardo Ballerini dà vita ad un remake downtempo come E.J. Robinson, registrato e mixato presso il Gian Burrasca Studio di Marcello Catalano. A riprendere il brano di Zimmer sono pure Francesco Farfa e Joy Kitikonti nascosti dietro il nome Ziet-O in “Rain Main”, edito dalla loro Area Records nel 1993 e riproposto in nuovi remix nel 1996 (forse per contrastare gli Eta Beta J.?) firmati dal compianto Roby J e Raoul Corya. Sempre su Area Records, tra 1994 e 1995, escono “The Sheltering Sky” di Ziet-O, rifacimento del main theme composto da Ryuichi Sakamoto per l’omonimo film di Bernardo Bertolucci, da noi noto come “Il Tè Nel Deserto”, e “Theme From Terminator II” del citato Risso, questa volta all’opera sul brano di Brad Fiedel appartenente al film di James Cameron, proprio lo stesso tema che rielaborano gli Eta Beta J. come follow-up di “On The Road (From “Rain Man”)”.

Eta Beta J - Terminator 2 Theme

La copertina di “Terminator 2 Theme”, secondo singolo degli Eta Beta J. pubblicato ancora da S.O.B. nel 1996

Nella loro “Terminator 2 Theme”, ancora su S.O.B., si rincorrono echi dream ed una svirgolata di hoover style, riportato in auge da Commander Tom con “Are Am Eye?” giusto pochi mesi prima. Il tutto immerso in immancabili atmosfere cinematografiche. «Preferivo “Terminator 2 Theme” a “On The Road (From “Rain Man”)”» sostiene Caiazzo, «perché rispecchiava meglio la mia essenza di DJ progressive. Delle cover realizzate su Area Records però non ne conoscevo proprio l’esistenza, le ho scoperte attraverso questa intervista». Sul 12″ c’è anche un altro brano, “Synthetico”, allineato alla corrente mediterranean progressive che trova nella BXR del gruppo Media Records i principali portabandiera. Per il ritorno degli Eta Beta J. bisogna attendere il 1997 quando riappaiono, con l’acronimo E.B.J., sulla Sativa del gruppo Dipiù di Lino Dentico. “System Working” resta saldamente ancorato alla formula progressive trance che però inizia a perdere terreno in Italia. Sul lato b il trio piemontese scommette ancora su una cover, “The Last Of The Mohicans” di Ciarán Brennan, resa celebre da Mohikana in “I Will Find You” del 1993. «Proseguimmo come E.B.J. con l’intento di dare avvio a produzioni e remix meno commerciali» rivela Caiazzo. «Continuammo a puntare sulle cover cinematografiche perché le intuizioni precedenti ci portarono fortuna ma preferimmo cambiare etichetta per una scelta commerciale». Sempre nel 1997, per un’altra delle label del gruppo Dipiù, la Sonica Records, i tre realizzano il remix di “Acid Fly” di Brain 3 (il tedesco Michael Baur). Nel ’98 invece, spingendosi verso l’hard trance, coniano per Sativa un progetto nuovo di zecca, Synthex, che debutta con “Come Into My World” entrato in numerose compilation. Nonostante i positivi riscontri però quella resta un’apparizione one shot. «A determinare la fugacità di Synthex fu la scena commerciale del periodo che ormai stava rivolgendo l’attenzione altrove» prosegue Caiazzo. «A quel punto si sciolse anche il progetto Eta Beta J. perché ognuno di noi prese strade diverse. Io mollai le produzioni e mi dedicai alle serate come DJ, diventando resident a Le Cave di Vintebbio, in provincia di Vercelli, e al Mirage di Arona, in provincia di Novara. Quella svolta mi fece perdere i contatti con Albino e Tiziano. Di quegli anni ricordo con piacere ogni esperienza maturata ma soprattutto l’importanza che rivestivano le discoteche nel mondo della notte. Poco più tardi, nel 2001, appesi le cuffie al chiodo. Abbandonai quando i miei artisti di riferimento erano Mario Più e Mauro Picotto. A distanza di quasi venti anni però sono tornato ad interessarmi di musica seguendo con particolare attenzione Armin van Buuren e la scena psy trance. Sono coinvolto inoltre in serate revival, precisamente quelle del format “Gli Anni 90” che coprirà tutto il centro e il nord Italia grazie al supporto dell’agenzia Jam For Live». (Giosuè Impellizzeri)

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Doris Norton, l’artista che veniva dal futuro

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L’intervista a cura di Giosuè Impellizzeri pubblicata da DJ Mag Italia n. 16, dicembre 2011

È il 1980 quando Doris Norton innesta retaggi prog rock ed elementi siderali della kosmische musik sul “rumore” legato all’urbanizzazione e al progresso terreno narrato dai Kraftwerk. Alle spalle le esperienze col marito, Antonio Bartoccetti, nelle band Jacula ed Antonius Rex che in vari album editi negli anni Settanta trattano argomentazioni su mistero, esoterismo e magia. La Norton scandisce metronomicamente la ribellione agli stereotipi cercando di rappresentare in musica l’incalzante rivoluzione scientifica. «Fu la curiosità il fattore trainante, i miei interessi erano sperimentazione e ricerca e in area sintetizzatori volevo capire come con un VCO e un ADSR si potesse ricreare il timbro di uno strumento tradizionale o generare timbri mai ascoltati sino a quel momento» racconta l’artista in un’intervista esclusiva che lo scrivente realizza nel 2011 per la rivista DJ Mag Italia.

Dalla collisione tra armonie scenografiche mistico/arcane e ritmi binari delle macchine emerge un suggestivo ambiente stilistico che da un lato vede intatto l’approccio manuale e dall’altro introduce l’operatività digitale presto proiettata verso techno e trance, generi che la Norton riprende nei Novanta quando dirige il magazine Future Style nato dalle ceneri della rivista Musik Research, omonima della loro etichetta (e da non confondere con la Music Research fondata in Germania da Talla 2XLC) ed incide, insieme al figlio Rexanthony, tracce dai titoli speranzosi come “Science Killed HIV” e “Stop The War” destinate alla generazione dei rave.

Gli anni Ottanta: dal prog rock alla computer music

Under GroundUnder Ground ed altri dischi misteriosi
Di “Under Ground” si sa veramente poco e nulla. Pare sia stato registrato con un otto piste presso lo Studio Fontana, a Milano, (come dichiara la Norton in questa intervista nel 2012) e stampato su vinile nel 1980 dalla Musik Research di proprietà degli stessi Bartoccetti/Norton (o dalla Gnome, come invece è indicato nel booklet di “Next Objective” del 1993?) in un numero limitatissimo di copie, tanto esiguo che ad oggi nessuno lo ha inserito su Discogs, il database dei supporti musicali più dettagliato al mondo. Nel 2011 viene annunciata la pubblicazione che però non vede concretizzazione. «Ai tempi non gestivo la discografia in prima persona» spiega oggi l’artista. «Più che un’operazione di marketing fu una stampa di pochissime copie per un “art portfolio”. Pianificammo il reissue diversi anni fa ma il progetto è stato interrotto perché erano già in corso altre ristampe ed avevamo molti impegni discografici che ci hanno impedito di seguire l’iniziativa».

In Rete i più scettici iniziano a sostenere che “Under Ground” non sia mai esistito, convinzione che va insinuandosi anche per vicende parallele riguardanti la discografia della famiglia Bartoccetti. In relazione a ciò è possibile tracciare un parallelismo con quanto scrive Valerio Mattioli nel libro “Superonda – Storia Segreta Della Musica Italiana”, riguardo “In Cauda Semper Stat Venenum” degli Jacula, a cui prende parte la stessa Norton. «Un disco (pare) stampato originariamente nel 1969 in poche copie per l’inesistente serie Gnome della Ariston (che fosse la Ariston Progressive che aveva uno gnomo nel logo?, nda), tutte andate misteriosamente perse». Mattioli afferma, senza giri di parole, che quell’album, pubblicato dalla Black Widow Records nel 2001, sia stato palesemente registrato in tempi molto più recenti. Dubbi simili vengono sollevati anche da “Praeternatural” indicato da Antonio Bartoccetti in questa intervista di Francesco Zenti come «ultimo documento degli Antonius Rex totalmente autoprodotto a maggio del 1980 a Milano» (precisamente negli studi Regson, come si legge qui). «Poi più niente primariamente per decisione presa e collateralmente perché la tastierista Doris Norton ha dato inizio alle sue sperimentazioni soliste prima con i synth e poi con il computer anticipando di un decennio i generi techno e trance che sarebbero nati nel 1990». In un’altra intervista rilasciata a Francesco Fabbri a marzo del 2003, Antonio Bartoccetti parla di uno dei brani racchiusi in “Praeternatural” ossia “Capturing Universe”, prodotto insieme alla Norton in Romania nel 1979 e da cui il figlio della coppia, Rexanthony, creerà nel 1995 una delle sue maggiori hit, “Capturing Matrix”. «Questo brano è passato del tutto inosservato fino a quando nel 1990 venne ripreso da un pianista tedesco e poi da un gruppo techno tedesco che lo chiamò “Universe Of Love”. Nel 1995 guardavo con pietà questi “furti” e convinsi mio figlio a riprendere il brano originale». Rolf Maier-Bode alias RMB effettivamente incide “Universe Of Love” per Le Petit Prince nel 1994, in cui peraltro sembra di scorgere dei fraseggi melodici finiti in “Polaris Dream” di Rexanthony, 1995, ma è difficile stabilire in che modo il tedesco sia riuscito ad ascoltare un brano racchiuso in un album che, per ammissione dello stesso Bartoccetti nella medesima intervista di Fabbri, «non fu volutamente mai messo in vendita». Del disco del 1980 infatti non vi è traccia se non nelle dichiarazioni di Bartoccetti e tra i crediti sulla stampa effettuata dalla Black Widow Records nel 2003. Insomma, le vicende che ruotano intorno ad “Under Ground”, “In Cauda Semper Stat Venenum” e “Praeternatural” presentano parecchie incognite, punti oscuri ed ipotizzabili retrodatazioni. Di “Under Ground” però qualcosa filtra nel corso degli anni, come ad esempio il brano che avrebbe dato il titolo all’intero album, “Under Ground” per l’appunto, finito nella compilation “Document 1” del 1994 insieme ad “Eightoeight”, ancora del 1980, e “Wave” del 1982, considerando veritiere le date indicate sulla copertina. I primi due figurano nella tracklist della più recente raccolta “Selection ’80-’90” risalente al 2006 e distribuita anche in digitale, ma diversi elementi lasciano pensare che entrambi siano stati prodotti almeno dieci anni più tardi rispetto alle presunte collocazioni temporali. Se tale teoria risultasse infondata, ci troveremmo di fronte a due sorprendenti esempi di proto electro/techno/acid che obbligherebbero a rivedere la storia o perlomeno a mettere un altro nome sulla mappa. “Wave” invece è compreso in “Next Objective 2” del 1994, e i crediti rivelano la presenza del figlio della Norton. Arduo pensare che ad appena cinque anni (1982) avesse potuto collaborare in studio con la madre ma è bene ricordare che Rexanthony abbia rivelato sorprendenti doti compositive in giovanissima età.

Si parla inoltre di lavori precedenti ad “Under Ground” rimasti nel cassetto. A tal proposito la Norton, nell’intervista su DJ Mag Italia di cui si è fatto menzione sopra, afferma di avere parecchi nastri inediti. «Ho sempre registrato tutto quello che sperimentavo ma il fine non era pubblicare bensì archiviare per poi riascoltare in futuro. Ci sono persone che riempiono album fotografici per riguardare la loro vita, io ho riempito nastri con registrazioni. Alcuni sono stati dati alle stampe, altri giacciono nella cassapanca in soffitta». In merito a questo approccio torna utile evidenziare un passaggio del libro “Come Funziona La Musica” di David Byrne, in cui l’autore si interroga sull’importanza attribuita da un artista al fatto che le proprie opere debbano arrivare al pubblico. «Molti artisti visivi che ammiro, come Henry Darger, Gordon Carter e James Castle, non hanno mai diffuso la propria opera. Hanno lavorato incessantemente ed accumulato le proprie creazioni che sono state scoperte solo alla loro morte o quando hanno lasciato il proprio appartamento. […] Fare musica racchiude in sé la propria ricompensa. È bello e può rappresentare uno sfogo terapeutico».

ParapsychoParapsycho (1981)
Il primo album solista ufficiale di Doris Norton («una ragazza dagli occhi di ghiaccio definita angelo nel cantare e demone nel suonare un vecchio armonium», riprendendo la descrizione di Francesco Zenti nell’intervista sopraccitata) è ancora visibilmente ancorato al mondo prog rock come attestano la title track “Parapsycho” ed “Obsession”, ma nel contempo comincia ad adoperare nuovi linguaggi che ne fanno un punto di incrocio e raccordo tra il periodo di militanza negli Antonius Rex e Jacula e quello dominato dalla cibernetica, anima degli elaborati giunti a metà decennio. “Parapsycho” viene registrato nei pressi di Ostrava, nella Repubblica Ceca, «dove avevo portato parte del mio gear per integrarlo con quello di un visionario gentiluomo che aveva l’hobby della musica elettronica ma che aveva ancora bisogno di qualcuno che gli svelasse i primi rudimenti» ricorda oggi la Norton. La compositrice declina melodie ambientali ed ancestrali (“Ludus”, il cui intro, si dice, abbia ispirato sia Angelo Badalamenti per “Laura Palmer’s Theme”, sia Moby per “Go”) e canti paradisiaci new age (“Tears”), per poi schiudere l’alveo del blippeggiante mondo del computer (“Psychic Research”) e calarsi in atmosfere miste tra tristezza e malinconia (“Telepathia”). Il flauto di Hugo Heredia introduce “Hypnotised By Norton”, un prototipo filotechno con un basso sequencerato à la A Number Of Names, inserti funk, destrezze ritmiche e scie melodiche prog rock. L’ibrido è il modello di sviluppo della Norton e di chi, come lei, allora vide il futuro nelle commistioni stilistiche e culturali. L’LP, a cui tra gli altri partecipa Tullio De Piscopo, è pubblicato dalla milanese Disco Più e viene presentato al TG2 con Mario Pastore. Ci pensa la Black Widow Records a ristamparlo, sia su vinile che CD, nel 2013 aggiungendo una bonus track inedita pare realizzata sempre nel 1981, “Precognition”. Resta inalterata invece la copertina originale realizzata appositamente dal pittore Osvaldo Pivetta.

RaptusRaptus (1981)
A poca distanza da “Parapsycho” giunge “Raptus” con cui la Norton approda sulla Durium, attiva sin dal 1935 e ai tempi diretta da Elisabel Mintanjan alla quale la sua musica piace al punto da stampare degli LP seppur non in linea con lo stile della label. Sulla sua tavolozza ci sono ancora matrici rock alternate a deviazioni elettroniche ottenute con sequencer (Roland CSQ-100, Roland CSQ-600), sintetizzatori (Roland SH-2000, Roland SH-09, Roland SH-7, Roland System 100m, Fairlight CMI), batterie elettroniche (Roland TR-808, un anno prima rispetto alla seminale “Planet Rock” di Afrika Bambaataa & Soulsonic Force), vocoder (Roland SVC-350) ed altro ancora. La title track, “Raptus”, selezionata da Com Truise in un suo set pochi anni fa, viene sviluppata in tre variazioni “causali” (“Psychoraptus”, “Erosraptus” – in entrambe c’è la batteria di Tullio De Piscopo, e “Drugraptus”). Arpeggiatori sintetici disegnano trame nervose su cui si posizionano chitarre umane e synth artificiali sfilando in atmosfere cinematografiche piuttosto noir. In posizione B2, come se fosse una bonus track, c’è “Doris Norton Lab”, brano di chiusura di un ipotetico b-movie poliziottesco anni Settanta e che da lì a breve diventa anche il nomignolo dello studio/laboratorio della Norton. Sulla costola della copertina è riportata la dicitura “Vol. 1”, logica conseguenza del “Vol. 0” presente su “Parapsycho” e questo lascia supporre una possibile sequenza di atti. «In realtà c’era in cantiere un progetto basato sugli “oscuri meandri della psiche umana” suddiviso in tre volumi» rivela oggi l’artista. «”Parapsycho” era il volume zero, “Raptus” il volume 1 a cui avrebbe dovuto far seguito un terzo disco che però non uscì per dare priorità a “Nortoncomputerforpeace” e “Personal Computer”. Nel 1982 avevo abbozzato molte tracce, Elisabel Mintanjan ascoltò tutti i nastri su cui avevo “congelato le idee” e mi chiese dei titoli che avevo in mente per i vari brani. Mi propose di uscire subito con “Nortoncomputerforpeace”, che trovava più “fruibile”, e “Personal Computer” che invece considerava “molto particolare”. Mi disse inoltre che aveva deciso di seguire i miei lavori musicali in sinergia con Francis Dreyfus (Durium per l’Italia e Disques Dreyfus per la Francia). Dreyfus aveva alcune mie demo sin dalla fine degli anni Settanta, forse giunte tramite Alain Trossat della PolyGram. Molte idee del terzo volume “congelato” a cui facevo prima riferimento le sviluppai proprio in “Nortoncomputerforpeace”, “Personal Computer” e nel seguente “Artificial Intelligence”».

Per “Psychoraptus” viene realizzato un videoclip diretto da Toni Occhiello che, contattato per l’occasione, racconta: «Vivevo a Los Angeles con la mia fidanzata, la stilista e costumista Marlene Stewart, e tornavo in Italia solo per le classiche vacanze estive. Proprio durante uno di questi soggiorni incontrai la pr olandese Erika van Tandem che da lì a breve avrebbe iniziato a lavorare per la RCA col mio amico Vincent Messina. Erika si propose come mia agente in Italia giacché avevo già girato tre/quattro videoclip tra cui quello di “Figli Delle Stelle” di Alan Sorrenti, del 1978. Ritengo di essere stato uno dei pionieri di quel nuovo modo di fruire la musica, MTV sarebbe stata lanciata solo ad agosto del 1981. Dopo qualche mese, a novembre se ben ricordo, la van Tandem mi chiamò annunciandomi che c’erano dei video da realizzare tra cui uno per Gino Paoli ed uno per una nuova artista messa sotto contratto dalla Durium, una certa Doris Norton, che incontrai per la prima volta, insieme alla mia fidanzata, in un albergo di Milano, giusto un paio di giorni prima di girare. In quell’occasione vagliammo le idee su ciò che avremmo dovuto fare e stilammo la trama della clip. Il video di “Psychoraptus” venne realizzato in appena due giorni, girato in una discoteca di Milano scelta perché provvista di uno schermo su cui proiettare le scritte laser, e nella mia casa a Roma, con le pareti spogliate intenzionalmente per ricreare un ambiente da cui doveva emergere povertà, solitudine ed anche un po’ di squallore. A prendere parte al cast furono, oltre alla Norton, un mio amico attore, l’italo-irlandese Patrick Persichetti, Giuseppe ‘Pino’ Sottile (un altro amico!) vestito col camice bianco da dottore, nonché un giovane assunto come comparsa che avrebbe dovuto interpretare il ragazzo da lobotomizzare. A suonare la chitarra invece era il compagno della Norton e suo manager, Antonio Bartoccetti. Lo girammo in due formati: le scene milanesi a 16mm su pellicola Kodak, quelle romane invece su video (3/4″) U-Matic, e ci avvalemmo anche di due diversi direttori della fotografia. A Roma c’era Gianni Mammolotti che proprio quest’anno ha ricevuto la nomination al David di Donatello per il film drammatico “Malarazza”. A prendersi cura del look fu Marlene, che poco prima di girare la portò in bagno e la truccò. Il look della Norton, per come l’avevamo conosciuta, ci parve un po’ inadeguato, troppo “square” e poco congruo per un contesto futuristico come quello di “Psychoraptus”. Cercammo inoltre di creare un contrasto tra le scene girate a Milano e quelle a Roma utilizzando l’immagine della Norton prima in veste di musicista e poi in quelle da scienziata. Da qui l’idea registica di usare due diversi supporti filmici, la pellicola granulosa per le scene musicali realistiche in discoteca e il video (più aderente alla realtà) per le scene di fantasy. Stilisticamente volevo così creare un chiasmo in cui alla realtà della musica corrispondesse la fantasy della pellicola e alla fantasy della trama la realtà del video. Per realizzare la clip furono necessari all’incirca sei milioni di lire stanziati dalla Durium che di fatto ci commissionò il lavoro, ma francamente non ho proprio idea su chi potesse trasmettere il video anche perché dopo averlo completato ripartimmo subito per Los Angeles. Erano gli anni in cui muovevano i primi passi le televisioni private quindi è possibile che i nastri finissero nei palinsesti notturni di quelle emittenti. Non ho più avuto modo di lavorare con la Norton che ricordo come una persona piuttosto schiva e riservata. Io avevo maturato esperienze come giornalista musicale scrivendo per Nuovo Sound, la rivista fondata da Elisabetta Ponti, e a Los Angeles ebbi modo di ascoltare tantissima musica d’avanguardia, dai Kraftwerk ai Devo con cui peraltro collaborai. Il suono di Doris Norton era senza dubbio gradevole ma non rivoluzionario. Si inseriva in un milieu praticabile allora ma non spiccava per particolare inventiva, almeno per me che familiarizzai con certa musica già qualche anno prima. A lasciarmi stupito fu piuttosto la Durium che mise sotto contratto un’artista simile, decisamente atipica per la scena in cui operava da decenni e per cui era nota (Little Tony, Fausto Papetti, Rocky Roberts, Aurelio Fierro, Roberto Murolo, Gino Paoli)» conclude Occhiello. È ipotizzabile, in tal senso, che i dirigenti della Durium stessero pensando a Doris Norton come un nome da esportare oltre i confini e a supportare la tesi è la pubblicazione del disco in Francia, preso in licenza da una multinazionale, la Polydor. “Raptus”, allora presentato a Discoring su Raiuno, viene ristampato nel 2011 in occasione del suo trentennale dalla genovese Black Widow Records che lo pubblica anche su CD, formato che consente di inserire pure il video di “Psychoraptus”.

NortoncomputerforpeaceNortoncomputerforpeace (1983)
Registrato presso il Doris Norton Lab, laboratorio straripante di aggeggi (inclusi prototipi) pieni di pulsanti e manopole che generano i suoni del futuro, “Nortoncomputerforpeace” è l’album con cui l’artista inizia a prendere maggiori distanze dal rock seppur un certo modo di riempire lo spartito riconduca ancora al mondo delle chitarre. A scandire il beat robotizzato di “Norton Computer For Peace” è un vocoder vox a cui si somma, nel corso dell’esecuzione, un saliscendi di virtuosi arpeggi. L’effetto pare una sorta di Kraftwerk ma con dosi maggiori di armonizzazioni. Il paragone col pop sperimentalista di Hütter e Schneider-Esleben regge anche per “The Hunger Problem In The World”, caratterizzato da una marzialità che strizza l’occhio a quella di “Trans-Europe Express” ma con molti più ghirigori e tessiture melodiche. “Don’t Shoot At Animals” invece è un ottimo lavoro di sonorizzazione ascrivibile alla library music: dieci minuti a mo’ di ouverture in stile Jean-Michel Jarre realizzati come colonna sonora di “Rumore Di Fondo”, radiodramma trasmesso dalla RAI scritto da Umberto Marino. Il lato b annovera un paio di esperimenti minimal synth (“War Mania Analysis”, “Warszawar”) ed altrettanti slanci verso lidi esotici ed orientaleggianti (“Salvasansalwar”, “Iran No Ra”, scritte col compianto Vittorio ‘Vitros’ Paltrinieri), con aderenze allo stile space age. Un foglio infilato nella copertina (su cui campeggia una foto tratta dallo shooting di “Psychoraptus” di due anni prima) rivela che oltre all’immancabile Antonio Bartoccetti e Rudy Luksch (addetto all’effettistica), a “Nortoncomputerforpeace” abbiano partecipato altri musicisti come Andy Jackson e Marco E. Nobili. L’album è edito dalla Durium sia su vinile che cassetta ma col logo Marche Estere, usato in prevalenza per quelle pubblicazioni firmate da artisti esteri appunto (James Brown, Telex, Plastic Bertrand, Village People, Boney M., Silver Convention, Donna Summer, Dee D. Jackson, Japan, Gibson Brothers, giusto per citarne alcuni). Nel 2010 sul mercato piomba una ristampa illegale su plastica rossa. Il reissue ufficiale giunge solo nel 2018.

Personal ComputerPersonal Computer (1984)
Secondo alcuni basterebbe la sola copertina per fare di “Personal Computer” un album di culto. Pubblicato dalla Durium su vinile e cassetta nel 1984, anno in cui la Apple lancia il Macintosh con uno spot diretto da Ridley Scott, il disco viene registrato tra gli Stati Uniti e l’Italia ed è quello in cui l’artista mostra una più chiara aderenza ai temi della “machine music” e, in virtù del titolo stesso, della “computer music” visto che le sue creazioni nascono usando anche un Apple IIe a cui si sommano varie Roland (CMU-800R, System 100, TR-808, CSQ-600, VP-330 Vocoder). Allora il computer è considerato la porta di accesso per il futuro, una sorta di pietra filosofale che permette di trasformare idee utopiche in realtà, oltre ad accentrare le emozioni e fornire prezioso carburante creativo. Il logo della mela addentata (colorata) in copertina simboleggia la relazione allacciata tra la Norton e l’azienda di Cupertino che ai tempi, pare, la sponsorizzi. “Personal Computer” risente dell’influsso dei Kraftwerk e la title track potrebbe essere considerata figlia di quanto i teutonici convogliano in “Computerwelt” del 1981. Le melodie della Norton però appaiono subito più contorte, disarticolate e dall’appeal e mood meno pop. Le tracce scorrono senza la rispondenza delle parti come avviene in una classica song structure e probabilmente è proprio l’assenza di linearità ad impedire un’affermazione di tipo commerciale. Tim Burgess dei Charlatans, nel suo libro “Telling Stories” del 2012, definisce questo album un anello di congiunzione tra i Kraftwerk e i New Order, ma nel trait d’union più o meno condivisibile mancano le melodie fischiettabili o replicabili sulla tastiera con una mano sola e, come già detto, il formato canzone. Alla luce di tali considerazioni appare quindi incorretto descrivere Doris Norton la “risposta italiana ai Kraftwerk” o attribuirle ingenerosamente il ruolo di “banale scopiazzatrice” come invece qualcuno asserisce tempo addietro. Probabilmente sussistono più similitudini a livello visivo che musicale, in particolare sul combo musica-scienza, senza comunque negare il rilevante influsso ispiratore dei tedeschi. Ma chi, tra i musicisti elettronici di allora, non restò ammaliato dalle intuizioni kraftwerkiane opponendo la forza necessaria per non cedere ad eventuali influenze ed infatuazioni più o meno evidenti e riscontrabili nelle proprie opere?

In perfetto equilibrio tra atmosfere sci-fi (“Norton Apple Software”) e una singolare forma di cybersinfonia (“Parallel Interface”, con assoli velocizzati in un glissando impazzito, “Caution Radiation Norton”, library music arricchita con un beat dalla costruzione atipica), l’artista edifica il suo mondo sonoro fatto di suoni artificiali ed ambientazioni futuristiche, tutto trattato con un piglio sperimentale. Un pizzico di epicità prog la si assapora in “A.D.A. Converter” mentre dalla ferrea “Binary Love” emerge la forma mentis scientifica della compositrice («da teenager ero attratta dalla fisica quantistica, dalle equazioni differenziali, dalla chimica organica ed anche dalla musica medievale, rinascimentale, barocca, dalle sperimentazioni di Cage e dalle combinazioni di suoni e rumori che caratterizzavano le sonorizzazioni delle opere cinematografiche di animazione», da un’intervista del 2012. Presenzia pure un reprise di “Personal Computer” con voce non robotizzata e qualche sottile variazione nella stesura e nell’assemblaggio delle parti. Insomma, considerando i precedenti elaborati, qui la Norton appare più padrona di quello stravagante universo che ai tempi lasciano prospettare i suoni delle macchine, e il suo alfabeto sonoro acquista più intensità e caratterizzazione assimilando la lezione dei gruppi tedeschi ma filtrando i risultati in una scomposizione personalizzata del genere (che si possa quindi parlare di kraut synth disco?)

A maggio di quell’anno, il 1984, Apple invita la Norton all’Hilton di Roma in occasione del lancio dell’Apple //c dove esegue proprio la title track del disco, affiancata da Antonio Bartoccetti. Ad organizzare la serata è Mauro Gandini, ai tempi responsabile della comunicazione di Apple Italia, che oggi racconta: «Ad ideare quello spettacolo all’Hilton insieme a me furono il compianto Gianni Boncompagni e Giancarlo Magalli. Nel programma, come si può evincere dalla registrazione presa da una vecchia VHS che ho inserito su YouTube nel 2014, figurò anche Doris Norton ma francamente non ricordo se quella performance prevedesse o meno un compenso. Non ebbi molto a che fare con l’artista, per noi più che altro era semplice curiosità e non una fonte di business. Inoltre non ricordo di averla mai sponsorizzata personalmente, non saprei se ciò avvenne in seguito. Allora il marchio Apple non era ancora legato ad un’area creativa come fu poi con l’avvento del Macintosh, e il logo era esclusivamente riservato ai rivenditori autorizzati. Ai tempi in cui lavoravo per Apple c’era la fila di coloro che chiedevano l’utilizzo della mela da apporre su magliette e gadget vari da vendere ma non diedi mai nessuna autorizzazione e sono abbastanza certo che nemmeno Marzia Santagostino, giunta dopo di me, abbia potuto autorizzare alcuno all’uso del logo di Apple».

Sul numero 32 della rivista MCmicrocomputer uscito a luglio del 1984, Corrado Giustozzi intervista la Norton e le chiede a cosa si ispiri e che senso abbia fare musica elettronica. Lei risponde: «Un centro tipo IRCAM è troppo chiuso in se stesso, è una torre d’avorio in cui si pensa troppo e si produce poco. D’altro canto i Tangerine Dream sono fermi da dieci anni al loro sequencer analogico e non hanno più niente da dire. La loro è musica con troppi interventi manuali». E prosegue: «La nostra computer music è matematica, fatta di programmazione e pulizia geometrica e non manualità. Non bisogna far dipendere il brano dall’esecutore che lo interpreta in base al suo stato d’animo e alla sua preparazione tecnica». Infatti, ben rimarcato da Giustozzi in chiusura dell’intervista, la Norton ci tiene ad essere chiamata programmatrice e non musicista.

De Crescenzo e Norton, 1984

Lo scatto, risalente a lunedì 26 novembre 1984, che immortala la presenza di Doris Norton come ospite di Bit, programma televisivo condotto da Luciano De Crescenzo e trasmesso da Italia 1

Come riportato in un trafiletto sul numero 36 della citata rivista MCmicrocomputer, diretta da Paolo Nuti e Marco Marinacci nella veste di condirettore, nell’autunno di quello stesso anno la Norton si esibisce presso l’Electronic Art Festival di Camerino, un evento ripreso dalle telecamere di Rai 3. Il 26 novembre invece è ospite di Bit, programma dedicato alle tecnologie informatiche condotto da Luciano De Crescenzo in onda su Italia 1, dove presenta alcuni brani in formato live tra cui, sembra, ci siano quelli contenuti proprio in “Personal Computer”.

Ad oggi “Personal Computer” è l’album più ricercato di Doris Norton e probabilmente anche il più rappresentativo della sua discografia legata agli anni Ottanta, riscoperto dai diggers e rivalutato ad un paio di decenni dalla sua pubblicazione originaria. Nel 2006 il brano “Personal Computer” finisce (insieme a “Norton Computer For Peace”) nella compilation (non ufficiale) “Cosmic Excursions”, nel 2007 Amplified Orchestra edita “Personal Computer” rinominandola (senza autorizzazione) in “Flash”, nel 2009, nel 2011 e nel 2013 “Personal Computer” viene scelta rispettivamente da Flemming Dalum, Helena Hauff e Trevor Jackson per “Boogie Down”, “Birds And Other Instruments #3” e “Metal Dance 2”, sempre nel 2013 “Norton Apple Software” è nella tracklist della raccolta “Mutazione: Italian Electronic & New Wave Underground 1980-1988”, nel 2016 “Personal Computer” e “Norton Computer For Peace” vengono stampate illegalmente su un 12″ dedicato ai re-edit di Ron Hardy e pare che “Caution Radiation Norton” sia finita persino in un set radiofonico degli Autechre. Nel 2010 qualcuno mette furbescamente in circolazione anche una tiratura bootleg su vinile colorato (verde e giallo). I fan mettono le mani sulla ristampa ufficiale nel 2018.

Artificial IntelligenceArtificial Intelligence (1985)
Terminato il contratto con la Durium, ormai sulla via dell’inesorabile declino che si concluderà nel 1989 col fallimento, Doris Norton incide il nuovo album sulla Globo Records, label brasiliana che ha una sede anche in Italia coordinata da Cesare Benvenuti. È bizzarro constatare che mentre sul mercato giungono i vinili e le cassette di “Artificial Intelligence” la Globo pubblica dischi di artisti che con la Norton non dividono davvero nulla, come Claudio Baglioni o la band latina dei Menudo in cui figura Ricky Martin appena quattordicenne. “Artificial Intelligence” lascia detonare le intuizioni avvistate in “Nortoncomputerforpeace” e proseguite in “Personal Computer”, facendo una summa e chiudendo l’ideale trilogia. Il risultato è un concentrato di musica che si avventura lungo sentieri futuristici con sconfinamenti melodici ai margini della sid music dei videogiochi in auge in quel periodo. Note che corrono su e giù per le ottave della tastiera (“Artificial Intelligence”, “Sylicon Valley”, “Norton Institute”), contemplazioni elettroniche (“Machine Language”), synth cervellotici che ululano (“Advanced Micro Music”): la Norton personalizza al meglio la sua creatività apparendo sempre più distante dai trascorsi prog rock. “Norton Musik Research”, tra i pezzi migliori del disco, è una sorta di inno celtico eseguito con strumentazione elettronica ma quel che colpisce di “Artificial Intelligence” è anche il collage di voci usate come se fossero citazioni sampledeliche simili a quelle che poi figureranno nell’esplosione europea della house qualche anno più tardi. Si senta “Oh Supermac” dove il messaggio Macintosh Computer viene disintegrato in frammenti alcuni dei quali mandati in reverse analogamente a quanto avviene in “Bit Killed Hertz”. «Il titolo provvisorio che diedi inizialmente all’album fu “Art-Physiol”, nato da un campione vocale che realizzai nel 1983 per cominciare a testare il Roland ADA-200R Converter» rivela l’artista. «Era una non-parola che mi dava l’idea di un connubio tra arte, fisiologia ed artificialità ma prima di andare in stampa optai per “Artificial Intelligence”, sia per il brano che per l’album intero, perché suonava meglio ed era più eloquente». Grazie ad un articolo apparso sul blog Mutant Sounds curato da Jim Bull si rinviene una spiegazione piuttosto dettagliata di quanto Doris Norton attua in quel lavoro, debitamente recuperata da un numero del 1985 della rivista ComputerMusik. Necessario porre l’accento anche sullo studio del ritmo che in più passaggi assume le sembianze di proto techno/hardcore. Quei martellamenti audaci e guerriglieschi potrebbero essere paragonati alle bizzarrie catalogate come IDM negli anni Novanta, e non meraviglierebbe se Ceephax Acid Crew un giorno dovesse rivelare di essersi ispirato alla Norton per alcuni dei suoi lavori. Poi, volendo trovare un appiglio più ovvio e banale per effettuare tale raffronto, ci sarebbe l’omonimia proprio con quella raccolta attraverso cui nel 1992 la Warp Records, come scrive Simon Reynolds in “Energy Flash”, «annuncia la nascita di un nuovo genere post rave battezzato “musica elettronica d’ascolto” a cui seguirono altri appellativi come armchair techno, ambient techno ed intelligent techno, ossia musica dance per sedentari casalinghi». Alla tracklist si aggiungono “Juno 106 Software” e “JX-3P Software” destinate ai musicisti che, come è illustrato sul retro della copertina, possono caricare le sequenze e i suoni per farli pilotare e sincronizzare da una batteria elettronica tramite trigger o da una tastiera mediante connessione MIDI. A realizzare il mastering è Piero Mannucci, sino a pochi anni prima operativo presso gli studi della RCA Italiana sulla via Tiburtina, a Roma, lì dove lavora pure Antonio Dojmi, il graphic designer che si occupa della copertina dominata da macchine Akai, Roland, Viscount ed un computer Macintosh. Un disco che meriterebbe senza dubbio di essere ristampato.

Automatic FeelingAutomatic Feeling (1986)
La Norton incide ancora per una label estranea al suo universo musicale e parecchio distante dalla computer music. Disco Più, Durium e Globo Records erano collegate a contesti pop, la Nuova Era, con sede a Pontelambro, in provincia di Como, invece è devota alla musica classica e in catalogo annovera dischi, tra gli altri, di Rossini, Verdi, Donizetti, Mozart e Schubert. A dirigerla è l’allora trentenne Alessandro Nava, che negli anni Novanta si occupa della serie Grammofono 2000 per la Fono Enterprise e nel nuovo millennio scrive libri come “Il Terzo Uomo Di Mussolini”, “Sindrome Meetic” e “La Macchina Del Tempo”. Il logo stesso della label pare alquanto contraddittorio: il font è quello degli schermi LCD (usato sulle copertine di “Raptus”, “Personal Computer” ed “Artificial Intelligence” e, in seguito, nelle prime annate del magazine Future Style), allora simbolo di modernità, futuro ed innovazione, ma messo a confronto coi contenuti sviluppati risulta atipico e, per certi versi, persino antitetico. Doris Norton nel frattempo diventa consulente per l’IBM, colosso americano dell’informatica che in tempi non sospetti appronta programmi per comporre musica (si vedano incisioni come “Computer Composities”, “Personal Music”, l’esplicativo “Computer-Musik” o l’ancora più remoto “Music From Mathematics” con l’IBM 7090 in copertina). «La cosa più rilevante che constatai allora fu che la maggior parte delle persone interessate ad usare computer IBM nel settore musicale erano compositori ed arrangiatori “classici”, abituati a scrivere le partiture sullo spartito cartaceo» dichiara l’artista. “Automatic Feeling” e il seguente “The Double Side Of The Science” vengono creati proprio adoperando sistemi IBM. Come ricorda la biografia diffusa da Musik Research anni addietro, “entrambi appartengono all’area new age / computer sound / psychoactive music”. I titoli che si rinvengono all’interno della tracklist rimandano al mondo dell’informatica, da “Megabyte” a “Digital Processor” passando per “Computerized Anderson” e “Business Machines” che pare una semi citazione dedicata proprio ad IBM (acronimo di International Business Machines). Gli “hit sound” di “Converted Cobham”, così tanto legati ad un genere nazionalpopolare come l’italodisco o la più gonfiata hi nrg, però non convincono del tutto. Come nel precedente “Artificial Intelligence”, anche qui presenziano degli “impulsi” raccolti in “Norton Rhythm Soft” e provenienti da Roland TR-707, Roland TR-727 e Yamaha RX5. “Automatic Feeling” viene pubblicato nella primavera del 1986 solo su CD, ai tempi considerato un formato rivoluzionario ambito per qualità, maneggevolezza e praticità nonché tra i simboli più rappresentativi legati alla riproducibilità della musica del futuro, come all’epoca rimarcano questi advertising di Sony e Philips. «La label curata da Nava era proiettata nella produzione digitale di CD-DDD. Ai tempi il formato CD rappresentava la novità e i cataloghi di CD musicali erano veramente poveri di titoli. Moltissimi erano invece i CD realizzati da master analogici. Per la masterizzazione di “Automatic Feeling” usai il processore digitale Sony PCM-F1 a 16 bit collegato ad un VCR Beta» ricorda oggi la Norton.

The Double Side Of The ScienceThe Double Side Of The Science (1990)
“The Double Side Of The Science”, come scrive Francesco Fabbri sul suo blog già citato, «per un attimo ci illude segnando un parziale ritorno alle antiche suggestioni create da organo e strumenti non elettronici, ma è solo un fuoco di paglia, giacché i Nostri si gettano anima e corpo nel mondo della musica rave-party divenendone apprezzati produttori. Purtroppo i tempi sono cambiati e Bartoccetti e la Norton vi si adeguano». Effettivamente nella tracklist di questo album si rinviene una certa voglia di tornare alla manualità del rock con virtuosismi al basso e alla batteria (“Double Side”, “Uranium”) e all’epicità soundtrackistica del mondo prog (“Protect And Survive”, “Natural In Agony”) ma nel contempo non manca la sequenzialità meccanica generata con IBM PS/2 ed IBM PS/2 P70 a cui la Norton ormai non sa o non vuole rinunciare, specialmente in riferimento a “Radioactive Gnome” imparentata col suono di “Personal Computer” ed “Artificial Intelligence”. Insomma, un lavoro in bilico tra tradizione ed innovazione che, nonostante esca nel 1990, è tendenzialmente legato alla decade precedente anche perché viene registrato nel triennio ’87-’90. In “Death From Chernobyl”, presumibilmente ispirata dal disastro del 26 aprile 1986, l’artista si rapporta ancora a temi affini al suo passato ricavandone un mosaico ridondante di note. Infine il piuttosto trascurabile “Loading The Folk Dance” che pare un file MIDI suonato con una vecchia tastiera workstation, e “Christmas In Memory” affossato in ambientazioni natalizie poco proporzionate allo stile nortoniano. Le otto tracce contano su uno special guest che suona le tastiere in real time, Anthony Bartoccetti, figlio tredicenne della Norton e di Antonio Bartoccetti che da lì a breve inizia la carriera come Rexanthony. Il tutto è inciso solo su CD autoprodotto dalla Musik Research. «Fu una decisione presa all’interno del team, intendevamo proseguire la discografia della nostra etichetta anche se dopo breve tempo iniziammo a collaborare stabilmente con la Sound Of Bomb continuando come Musik Research Productions» spiega la musicista.

Gli anni Novanta: dalla computer music alla techno

Negli anni Novanta la computer music non esercita più un vivo stupore come agli inizi. Un conto è comporre musica con le macchine nel 1980 (o prima), un conto è farlo dieci anni più tardi. Possedere e programmare batterie elettroniche, modulare suoni di un sintetizzatore mediante manopole, robotizzare la voce col vocoder ed assemblare il tutto attraverso un sequencer installato su un computer inizia ad essere un’operazione più accessibile e di conseguenza suscita molta meno meraviglia anche perché lo stesso computer entra con più facilità nelle case, primariamente con fini ludici, grazie alla diffusione di consolle di aziende come Commodore, Atari, Amiga, Sinclair, Sega ed Amstrad, seppur alcuni modelli restino ancora economicamente poco abbordabili – come il PC 1640 HD-ECD di Amstrad, dotato di un hard disk da 20 MB, RAM da 640K, tastiera, mouse e sistema MS-DOS, che nel 1988 costa oltre due milioni e mezzo di lire. Per Doris Norton sarebbe inutile ripetersi col rischio di banalizzarsi e veder sparire l’aura futuristica, meglio cercare nuove vie come la techno, “discendente” proprio di quel suono che aveva sperimentato nel corso del decennio precedente. Come afferma Antonio Bartoccetti nell’intervista di Zenti citata prima, «già dal 1980 Doris Norton porta avanti il concetto di musicista autonoma con produzioni senza l’apporto di collaboratori, quella che oggi è diventata una regola del business». La techno in effetti, che in quel periodo inizia a vivere la fase di europeizzazione e di sdoganamento commerciale su larga scala, è uno stile che si presta ad essere composto in solitaria, senza ausilio di musicisti. La Norton, tra l’altro, è un’individualista convinta e tra le dichiarazioni apparse nella menzionata intervista su DJ Mag Italia del 2011 c’è qualche passaggio che lo rivela apertamente: «Non amo lavorare in equipe, ho la mentalità dell’artigiano alchimista rinascimentale. Da sola non mi annoio mai, costretta a collaborare con altri mi sento un’aliena». Per chi, come lei, preferisce elaborare le proprie idee senza interferenze esterne la techno sembra perfetta ed infatti è quella la musica a cui si dedica. Ai nuovi generi però non corrisponde un cambiamento del suo processo creativo: «La materializzazione di un’idea, per me, avviene sempre nella stessa maniera. Cambiano i mezzi ma non il modo di operare che essenzialmente può essere paragonato ad una continua correzione di ciò che a me sembra un errore e che, nel complesso generale, stona. Similmente a quello che faccio quando disegno, butto giù uno schizzo e poi comincio a correggere tutte quelle linee o quei colori che mi appaiono fuori luogo fino a quando, senza cancellare nulla, riesco ad integrarli col tutto. Al disegno non impongo niente, è il disegno stesso a guidarmi» illustra oggi la compositrice.

tempo di singoliTempo di singoli su 12″
Nel 1991 si registra l’esplosione della techno in Europa, pure sotto il profilo commerciale. Britannici e tedeschi fanno la parte dei leoni, molte intuizioni sono le loro, ma anche gli italiani non scherzano a partire dalla Roma dei rave di Leo Anibaldi e Lory D che per un periodo non temono rivali. Pian piano la techno assume caratteristiche diverse da quelle delle matrici detroitiane ormai frantumate quasi del tutto, si fonde con la new beat, con esasperazioni house, con canovacci trance, con sample vocali, con le distorsioni hardcore e con gli spezzettamenti ritmici breakbeat. Si trasforma insomma, per alcuni in meglio, per altri decisamente in peggio. Come sostiene Andrea Benedetti in “Mondo Techno”, «in Italia si tenta di sfruttare il momento d’oro della techno, schematizzandone le caratteristiche e inserendola su binari semplici e riconoscibili (cassa di grande impatto, basso in levare, riff di synth armonicamente quasi rock. […]. Nell’immaginario collettivo italiano, la parola techno viene sempre più associata a sonorità dure e la diffusione sempre maggiore di rave ed afterhour, coi loro eccessi e problematiche, conferma agli occhi della gente questa impressione, anche per la mancanza di una controinformazione preparata».

Nel quadro di neo commistioni sonore e riformulazioni più o meno discutibili, si inserisce l’attività di Doris Norton che archivia il periodo della synth music ed approda ad una scena radicalmente diversa, quella del mercato della musica da discoteca, più rapido e veloce rispetto a quello del rock e della proto elettronica, che richiede soprattutto singoli da dare in pasto ai DJ e non più ponderati concept album. È il caso di “Ego Sum Qui Sum” edito dalla Meet Records, etichetta della New Music International di Pippo Landro. Realizzate con un IBM P-70, le due versioni (Magic Rave, Usa Cult) trascinano sul dancefloor il brano omonimo degli Antonius Rex contenuto nell’album “Anno Demoni” pubblicato sempre nel 1991, e ciò spiega la ragione del featuring indicato in copertina. L’ideale follow-up è “Pig In The Witch” firmato Antonius Rex ed uscito l’anno seguente sulla Dance And Waves del gruppo Expanded Music di Giovanni Natale. Ad essere campionato qui è il grugnito di un maiale secondo l’approccio cartoonesco tipico di quella techno “all’italiana” sdoganata al grande pubblico dalle radio e televisioni commerciali che fanno un uso/abuso erroneo e superficiale del termine techno «in parte per ignoranza in buona fede, in parte per tipica furbizia italica», riprendendo il pensiero di Benedetti dal libro citato poche righe sopra. Lo stile è simile a quello delle prime produzioni del figlio della coppia, Rexanthony, che debutta nel ’91 con “Gas Mask” ed “After Hours”. L’avvicinamento dei coniugi alla techno, tra l’altro, potrebbe essere imputato proprio al figlio, stando a quanto dichiara Antonio Bartoccetti in questo articolo: «Un giorno Anthony, che frequentava la terza media, arrivò a casa con un CD dei Technotronic. Lo ascoltai pensando che fosse un disco rovinato e registrato male ma il giorno seguente riuscii a contattare telefonicamente il loro produttore che viveva in Belgio e mi disse che di quel disco ne erano state vendute già un milione di copie. La cosa si fece interessante». Il 1991 vede anche l’uscita di “01 Rave”, sulla Top Secret Records della Dig It International. Composto ed arrangiato dalla Norton affiancata da Mario Di Giacomo (cofondatore della Cut Records insieme al compianto Zenith), il brano centrifuga chiare rimembranze della breakbeat/hardcore d’oltremanica con tanto di inserti pianistici à la Liquid. Non mancano interventi di Rexanthony e di due DJ, Livio Damiani ed Alexander Boss. Il tutto sotto la direzione di Antonio Bartoccetti e la supervisione di Roberto Fusar Poli, fondatore de Il Discotto e ai tempi diventato A&R per la Dig It International. Nel ’92 la Top Secret manda in stampa “08 Rave”, prodotto sulla falsariga di “An.Tho.Ny” di Rexanthony che a sua volta sembra imparentato in qualche modo con la formula del progetto bresciano degli Antico, esploso con “We Need Freedom” (ispirato da “Let Me Hear You (Say Yeah)” di PKA?) e su quel sentiero già dal 1990 con l’omonimo “Antico”. “01 Rave” e “08 Rave” sono accomunati anche dalla presenza dei numeri, motivo ricorrente nella discografia nortoniana sin dai tempi di “Parapsycho”. «Come addendum ai titoli, inserii in copertina una frase in codice binario che però tolsi prima di andare in stampa, dopo un ripensamento. Oggi ognuno potrebbe vedere in quei numeri ciò che più gli aggrada, del resto i misteri servono per mettere in moto e mantenere giovani le sinapsi cerebrali» oggi svela l’artista. Stilisticamente non dissimile “Tairah”, ancora su Top Secret nel ’93, registrato presso lo studio di Terry Williams a New York, rimaneggiato da Rexanthony con un campionatore/sintetizzatore Ensoniq ASR-10 e un computer IBM PS/1 e trainato da un vocal hook pensato forse come ipotetico tormentone. La fotografia sul retro della copertina è la stessa che appare su “Nortoncomputerforpeace” dieci anni prima. Del 1993 è pure “The Dust” finita nel primo volume di “Outer Space Communications” sulla barese Disturbance di Ivan Iusco (di cui abbiamo parlato dettagliatamente qui). In quell’ammirevole raccolta insieme alla Norton figurano artisti come Lagowski, 303 Nation, Atomu Shinzo, Pro-Pulse, Francesco Zappalà ma soprattutto Aphex Twin sotto l’alias Polygon Window.

L'electroshock diventa Techno ShockL’electroshock diventa Techno Shock
Nei primi anni Novanta i Bartoccetti iniziano a collaborare in modo stabile e continuativo con la milanese Dig It International che gli offre massimo sostegno, disponibilità e soprattutto i margini di quella libertà che talvolta viene negata agli artisti dai discografici per questioni legate al profitto economico. L’etichetta sulla quale sarebbero apparsi i loro lavori, inclusi quelli del giovane Rexanthony, è la S.O.B., acronimo di Sound Of Bomb, piattaforma destinata a tutte le produzioni incasellabili con (maldestra) approssimazione sotto la voce techno, sia italiane che licenziate dall’estero (come avviene a “Raw Mission” dei Plexus – Bruno Sanchioni, Emmanuel Top e Jean-François Samyn, “Poing” dei Rotterdam Termination Source e “The Age Of Love” degli Age Of Love). I tempi sono cambiati e l’electroshock di “Psychoraptus” si trasforma in “Techno Shock”, update doveroso per continuare a parlare la lingua del futuro. Nel ’92 la Sound Of Bomb pubblica il primo volume di “Techno Shock”, una “rave collection a 136 bpm” come viene indicato in copertina, commercializzata su vinile, cassetta e CD. Il mercato è florido per la dance, si vende tanto ed ovunque senza particolari sforzi. Il “Techno Shock” di Doris Norton è frutto di un lavoro condiviso col figlio Anthony e la pasta del suono che ne deriva lo rivela apertamente, soprattutto se si fa un confronto coi contenuti del suo primo album “Mega Dance”. Brani come “Wipe Out”, “Self Go”, “E.F.F.E.C.T.” e “Lesdonne” si inseriscono nel filone di quella techno rielaborata su basi europee con riferimenti ispirati a ciò che proviene specialmente da Germania, Belgio ed Olanda con elevata velocità di crociera, brevi inserti vocali, sequenze di sintetizzatori che intonano riff e melodie dall’impatto immediato. Per una come la Norton, veterana del prog rock e dalla proto computer music, fare quelle cose doveva essere un gioco da ragazzi o poco più ed infatti, come afferma Antonio Bartoccetti un paio di anni fa nell’articolo su “Cocoricò 3” linkato sopra, il primo volume di “Techno Shock” viene realizzato in appena quattro giorni.

Tutti i brani racchiusi sono curiosamente remixati da DJ più o meno identificati. Nessun dubbio su Roberto Onofri e Michael Hammer di Italia Network ma qualche perplessità sorge in merito al giapponese Satushi, agli spagnoli Hernandez e Villa, agli statunitensi Slamm, Terry Williams e Mackintosh, alla britannica Annie Taylor e al belga T.T.TecknoTerapy, di cui non filtra alcuna indiscrezione nel corso degli anni. «Nel nostro studio di incisione sono passate tante di quelle persone e collaboratori occasionali che per me è veramente impossibile ricordare, soprattutto a distanza di decenni» spiega oggi la Norton. «In linea generale, oltre all’entusiasmo dei raver per la techno di Musik Research degli anni Novanta, ricordo soprattutto le innumerevoli cene dopo il lavoro in studio. Tra il team Musik Research e i “consiglieri per il remix” c’era un continuo scambio di idee sul lavoro, sulla filosofia di vita in generale, sulle esperienze personali e sulle speranze per il futuro. Dei tantissimi remixer, solo alcuni sono nomi anagrafici, altri sono pseudonimi o nomignoli di gruppi di persone che, in quell’occasione si trovavano in studio, altri ancora erano DJ professionisti ma c’erano anche consiglieri che occasionalmente diventavano DJ». Nella tracklist del primo volume di “Techno Shock” c’è pure “Sample 4 U”, una serie di sample riciclati pochi anni più tardi dalla Dig It International per il bonus allegato alla compilation “Megamix Planet” di Molella e Fargetta del 1995 e che tanto ricorda le sequenze messe a disposizione dei più creativi in “Artificial Intelligence” e “Automatic Feeling” dieci anni prima. La copertina reca la firma di Max dello Studio Mariotti.

Visto il successo, la Sound Of Bomb non tergiversa e pubblica “Techno Shock 2” che riprende il discorso lì dove era stato interrotto pochi mesi prima ma spingendo sul pedale dell’acceleratore dei bpm che qui vanno dai 142 ai 160. La techno di Doris Norton (e del figlio Rexanthony) si avvicina sensibilmente all’hardcore e alla gabber. Pure qui compaiono nomi dall’identità dubbia come Amsterdam Teknobrain, Rotterdam Interface, Rome Teckno Resistance, Hard Rome Attack, Mauro D’Angelo e Phase Out. Su “Telescopic” invece si registra il contributo di Eddy De Clercq, noto DJ olandese. L’artwork demoniaco è ancora dello Studio Mariotti. Nel ’93 è tempo del terzo volume di “Techno Shock”, parecchio simile al predecessore sia per stile, velocità (aumentata sino al range 140-180 bpm) che impostazione timbrica. Altri nomi non meglio identificati (lo statunitense Techno Metal Trance, il russo Dmitry D.L., la rumena Sighisoara Tasnad che pare anticipare la medium Monika Tasnad che figurerà venti anni dopo in “Hystero Demonopathy” degli Antonius Rex) finiscono nella tracklist dove se ne trova uno appurato, quello di Luca Cucchetti, DJ capitolino fratello di Faber Cucchetti, che mette mano a “Live In Rome”. La copertina è ancora opera di Max dello Studio Mariotti. La serie dei “Techno Shock” proseguirà ininterrottamente sino al decimo atto uscito nel 2002 ma dal quarto, del 1994, l’autore diventa il solo Rexanthony.

Next Objective, l'obiettivo è ancora il futuroNext Objective, l’obiettivo è ancora il futuro
Mentre Rexanthony firma i restanti sette volumi di “Techno Shock”, Doris Norton inaugura un nuovo progetto chiamato “Next Objective”, ancora supportato dalla Sound Of Bomb. La cosiddetta rave techno va ormai esaurendo il potenziale commerciale e l’artista individua un nuovo punto d’interesse nella musica trance prima ed hard trance poi. «I “Techno Shock” sono stati un’esperienza divertente e concreta, i “Next Objective” invece provenivano da una visione più intimista della realtà» spiega oggi la Norton. «Le considero comunque due facce della stessa medaglia visto che nacquero e si svilupparono più o meno nello stesso periodo». Nel primo volume di “Next Objective”, uscito nell’autunno del 1993 e col titolo rafforzato dallo slogan in italiano “Obiettivo Futuro”, le velocità si smorzano e calano vistosamente inquadrando il segmento 120-134 bpm. Pure i suoni subiscono una trasformazione quasi radicale. È sufficiente ascoltare brani come “Hypnotized”, “Switch On Dream”, “Grunge Girls”, “Grungend You” o “Digital Rotation” per rendersi conto di quanto diverso sia lo scenario rispetto al passato, ora più vicino alla house. Qualche gancio metallico si sente in “Bit Killed Woman” e una vena ambientale emerge da “Next To One”. “Trancefiguraction”, col suono del pan flute in stile Dance 2 Trance, si muove in ritmiche e riferimenti quasi eurobeat con tanto di vocal femminile. La salsa viene ripresa in “Stop The War”. La trance poi ha la meglio in “Trance By Raptus”, graffiata da unghiate acid in “Radio Trancemission” sino a sfilare nelle atmosfere orrorifiche di “Sarajevo Crime”, probabile rimando alle vicende belliche che resero allora la capitale della Bosnia-Erzegovina teatro di un interminabile assedio durato ben quattro anni. Analogamente a quanto avviene in “Techno Shock”, anche qui la tracklist è costellata di nomi ambigui che i credit in copertina attribuiscono a personaggi provenienti da Europa ed America (Trancemission, Psychedelic Force, Dish Seattle, Hybrid Jazz, Hipe 2 Trend, Amorphous Project, Surface Tension, Detroit Out Now, Jolanda). Il tutto è prodotto insieme a Rexanthony. Nel 1994 è tempo del secondo volume di “Next Objective” con cui si vara un nuovo concept. I tredici brani, che marciano dai 116 ai 164 bpm, vengono raccolti in tre aree distinte che indicano altrettante declinazioni stilistiche in modo simile a quanto avviene in “Cocoricò 2”. Nella Trancegression finiscono quelli con atmosfere in bilico tra sogno ed incubo come “Trancefusion”, “Wave”, “Bahamas Trance” (che pare un reprise di “Fly Zone”, a cui collaborano i Krisma) e “Trance Gression”, in Virtual Ambient si fluttua, come annuncia il titolo, su nubi ambient (“Next Age Of Norton”, “Dreamzone”) con divagazioni downtempo (“Infatuation”) e lampi breakbeat (“Incantation”), ed infine nella Progressive si mandano in orbita i ritmi più marcatamente ballabili di “Voltage Controlled”, “Science Killed HIV”, “This Is A Trip” ed “Objective Two”. Chiude “Rhythmletter”, una dichiarazione d’intenti dell’autrice che racconta verbalmente cosa avviene nel disco in cui figurano ancora interventi esterni tra cui quelli di Alberto Fantoni ed Alfredo Zanca.

Nel 1995, uno degli anni più fortunati per il team della Musik Research anche in riferimento all’Italia per i successi mainstream di Rexanthony (“Capturing Matrix”, “Polaris Dream”), esce il terzo ed ultimo volume di “Next Objective” che si ributta nella techno e nell’hard trance più rumorosa. Bpm che vanno dai 150 ai 168 incorniciano suoni di estrazione ravey ma a differenza dei precedenti due volumi questa appare più propriamente una compilation giacché raccoglie brani di artisti diversi e pubblicati anche come singoli. Si possono citare i quattro pezzi di Moka DJ estratti da “Switch On Power” (“Switch On Power”, “Climax”, “Future Shock Five (Rmx)” e “Yestrance”, tutti prodotti nello studio della Musik Research, due versioni della citata “Capturing Matrix” e “Saving You” di Prysm, un’altra produzione del team marchigiano finita nel catalogo Reflex Records. Tra gli altri si segnala l’indiavolata “Exagon” di Surface Tension, “Next Objective 3” della stessa Norton, quasi trancecore, e “Charisma” di Loris Riccardi, art director del Cocoricò col quale la famiglia Bartoccetti coopera, tra 1994 e 1995, per gli album “Cocoricò 2” e “Cocoricò 3” in cui vengono riciclati diversi sample di brani editi in precedenza.

Anche le copertine dei tre volumi di “Next Objective”, analogamente a quelle dei primi tre “Techno Shock”, sono realizzate graficamente da Max dello Studio Mariotti, «quello dell’era dei mitici rave romani» ricorda oggi la Norton. «Entrammo in contatto nei primi anni Novanta quando loro curavano la grafica dei flyer degli eventi a cui ha partecipato Rexanthony come performer live. Oltre alla sede nella capitale, c’era una filiale a Rimini dove lavorava Massimo “Max” Imbastari che firmò diversi artwork per noi. Lo studio quindi ci proponeva immagini e soluzioni grafiche che valutavamo ed approvavamo o meno. Tutto avvenne nel periodo in cui, a Riccione, si tennero le riunioni tra noi di Musik Research e Bruno Palazzi per la pianificazione degli album “Cocoricò”».

Dall’underground più profondo degli anni Ottanta, la Norton si ritrova in decine di compilation che vendono migliaia di copie ma nonostante gli esaltanti riscontri, l’artista abbandona progressivamente la scena passando il testimone al figlio. Il suo nome lo si ritrova sparpagliato tra i credit delle innumerevoli pubblicazioni di Rexanthony ma dal 1996 non figurerà più come artista principale.

I tempi recentiI tempi recenti
Come dichiara la Musik Research, Doris Norton è da sempre impegnata anche nel campo delle arti visive attraverso molteplici pseudonimi. Con questo intento realizza, in veste di regista, i video di “Magic Ritual” (2005) e “Perpetual Adoration” (2006). Proprio il 2006 vede la riedizione digitale dei quattro brani di “Chagrin Et Plaisir – U Fisty Fussy”, originariamente racchiusi in “Cocoricò 3” del 1995, e la compilation “Selection ’80-’90” di cui si è già fatto cenno. Sul fronte rock invece torna a collaborare con gli Antonius Rex per gli arrangiamenti di “Switch On Dark”, esperienza ripetuta nel 2009 in “Per Viam” e nel 2013 in “Hystero Demonopathy”. Nell’autunno del 2015 esce, solo in digitale, “Don’t Stop Now (2012 Remake)” che profuma di dubstep. «La traccia era pronta già ad ottobre del 2011 ma ho deciso di non pubblicarla. Nel 2012 la ho re-editata e remixata ma scelsi comunque di non metterla in commercio, cosa avvenuta solo nel 2015» spiega l’artista. Per l’occasione Musik Research annuncia il ritorno di Doris Norton attraverso una serie di singoli che però, ad oggi, non vedono luce.

(Giosuè Impellizzeri)

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Various – Cocoricò 3 (S.O.B.)

Cocoricovol3Negli anni Novanta il Cocoricò ha rappresentato per moltissimi la mecca dell’estremismo sonoro legato a techno (specialmente la più esasperata) e hardcore. La “piramide” di viale Chieti diviene un simbolo preso a modello da molte discoteche sparse per l’Italia ma in poche riescono a tenergli testa. Loris Riccardi, art director di allora, lo rende un divertimentificio che crea dipendenza e non teme rivali. «Non chiamatela discoteca, il Cocoricò è una discoteca come la sedia elettrica è una sedia: interpreta infatti le violenze più trattenute e le necessità più vitali di un certo tipo di gioventù in corsa verso il girosecolo. E quello che ti mostra non è una festa, è un bordello dei sensi vietati. È guerriglia musicale, lotta mimata, gioco di attacco e difesa» scrive Roberto D’Agostino su Repubblica il 30 maggio 1994. Riccardi, appena venticinquenne, descrive la sua creatura come «il Dse, un dipartimento scuola educazione ma alloggiato nel sottosuolo generazionale. Nessuno esige un certo comportamento, un certo modo di vestirsi, di atteggiarsi. Chi viene qui trova una completa libertà di espressione, nel senso fisico e mentale. L’immensa energia che c’è al Cocoricò non è droga, non è musica: è solo un punto di riferimento per capire quello che farà la prossima generazione». Il logo del club (fusione tra i simboli dell’uomo e della donna) è un trofeo del marketing, tutti nell’ambiente sanno di cosa si tratta seppur bypassi la forma estesa del nome, un po’ come avviene con lo swoosh della Nike.

Cocoricò 2

La copertina di “Cocoricò 2”, pubblicato da S.O.B. (Sound Of Bomb) a giugno del 1994

Per creare un effetto altrettanto incisivo nel mondo discografico, nel 1994 viene creato l’album ufficiale affidando la produzione ad Antonio Bartoccetti che racconta: «Il progetto “Cocoricò” nacque da un incontro con Bruno Palazzi, l’allora proprietario del club, in un periodo di grandi cene e grandi somme di denaro. Palazzi propose ad Anthony (Rexanthony, figlio di Bartoccetti, nda) di realizzare dischi tematici sul suo locale. Cominciammo i lavori nel 1994 in collaborazione col grafico Marco Mussoni e l’art director Loris Riccardi, frequentando la discoteca per molte notti al fine di captarne l’atmosfera giusta, inglobarla nelle nostre menti e ri-vomitarla negli album. Circa due mesi dopo era pronto “Cocoricò 2”, con splendida copertina e contenuti decisamente progressive. Un paio di brani della tracklist vennero trasmessi da molte radio europee mentre in Italia passarono solo su Italia Network, 105 e parecchie piccole emittenti private. Ebbi una grossa soddisfazione quando trovai “Cocoricò 2” nello spazio classifiche su Rai 1. Aggiunsi il “2” al titolo perché esisteva già un fantomatico volume 1 ma privo di valore poiché non era un album bensì una compilation assemblata alla meglio e con poca cura. Non ricordo nemmeno se avesse il timbro SIAE. Il vero colpo gobbo avvenne comunque con “Cocoricò 3”, del 1995, un album studiato nei minimi particolari, di grande impegno e di immediate ed importanti classifiche e licenze. La copertina fu realizzata da me, Loris e da Massimone di Roma, nel suo studio grafico a Rimini: il logo del Cocoricò su tinte blu. L’artwork ed entrambi gli album sono miei sotto il profilo di publishing e copyright, cosa che mi è tornata utile per le dodici ristampe che sono riapparse negli anni passati e che verranno in futuro. Da quell’album abbiamo tratto svariati singoli ed anche “Capturing Matrix” nella sua versione più nota (che entra nella DeeJay Parade il 12 agosto, raggiunge la vetta il 30 settembre dove staziona per due settimane ed esce il 25 novembre, per essere sostituita la settimana successiva da “Polaris Dream”, nda).

Furono tantissimi i discografici che nel 1995 mi chiesero “Cocoricò 3” e “Capturing Matrix”, tra cui, degni di nota, Nicola Pollastri della Media Records e la britannica Warp Records, ma continuai a preferire il rapporto con Luigi Di Prisco della Dig It International, perché con quella label ero totalmente libero di fare ciò che volevo, dischi, grafiche, live, immagini. Per questo album, rimasto trasgressivo e mitico negli anni, decisi di fare grandi investimenti economici in termini di promozione, su Videomusic, Match Music, Italia Network, Radio DeeJay e Radio 105. La mia teoria è stata sempre quella secondo cui prima raggiungi i vertici delle classifiche del Paese dove vivi e poi prendi la “valigetta di Fantozzi” e giri il mondo a caccia di licenze con più facilità.

“Cocoricò 3” fu realizzato nel mio recording studio su un banco Yamaha a 48 canali e su piattaforma Apple Power Mac ProTools. I generatori di suono erano quasi tutti Roland a cui si aggiunse un Sequential Circuits Prophet-5 , un Sequential Circuits Prophet-600, un ARP 2600 ed un Oberheim OB-X. Le drum machine, inutile sottolinearlo, erano Roland TR-909 e TR-808, a cui si aggiunse l’immancabile Bassline TB-303. Poi microfoni Neumann, per le mie voci, di Anthony, di Loris, di Ricci, di Principe Maurice e di due vocalist, una credo fosse Nicoletta Magalotti, che ci mandò Bruno Palazzi. Per quanto riguarda i tempi operativi, cominciammo a gennaio e finimmo a maggio 1995. Poi lo presentammo in un concerto esclusivo, naturalmente al Cocoricò, generando il sold out di pubblico. A metà luglio Giuliano Saglia, manager della Dig It International, ci riferì che l’album cominciava a muoversi molto bene a livello di vendite e che Albertino iniziava ad amare il remix di “Capturing Matrix” di Rexanthony, che fu estratto come singolo (la “Trancegression Version” invece ottiene solo un paio di passaggi nel DeeJay Time a maggio di quell’anno, quando Albertino la annuncia erroneamente come “Computer Matrix”, nda). Da agosto in poi è storia.

“Cocoricò 3” rimane uno degli album più innovativi al mondo creati in Italia. Musiche e testi sono interamente del team di Musik Research, anche se la direzione del Cocoricò mandò nei nostri studi come testimonial due DJ, Saccoman e Ricci. Quest’ultimo arrivò carico, dinamico, unico. Entrammo nella sala A ed iniziò a cantare dicendo di voler fare un brano col testo che recitasse “co-co-ri-cò”. Continuava a ripetere quelle sillabe all’infinito, genialmente, incredibilmente e magistralmente. Registrai al volo la sua voce ed era già tutto finito. Un nuovo brano sarebbe entrato nella storia dell’immortale techno/trance. Poi giunse Rexanthony, accese le tastiere, scrisse tutte le musiche, gli arrangiamenti e i montaggi col suo Mac. Era nata “The Symbol”. Saccoman invece, molto ermetico, diede un contributo minimale. Nessuna idea dall’esterno, in nessuna misura o per lo meno in modo apprezzabile. Molella si coordinò con Anthony solo via telefono ed insieme ipotizzarono un paio di frasi che lo stesso Anthony trasformò in “Cocoacceleration”. Comunque nelle mie produzioni i DJ hanno sempre contato poco o niente. Loris Riccardi invece era un grande creativo. Aveva idee forti, anche utopistiche, e questa era la sua carta vincente. Decidemmo di incidere qualcosa che, seppur racchiuso in “Cocoricò 3”, avrebbe mantenuto l’indipendenza dal concept dello stesso. Divenne “Chagrin Et Plasir” della fantomatica band U Fisty Fussy, ossia Riccardi e Principe Maurice, sotto la direzione artistica di Doris Norton (a cui abbiamo dedicato una monografia qui, nda). Ricordo di averli chiusi in studio senza intervenire su quanto facevano. Il risultato (quattro brani destinati al solo CD, “Illegal”, “J’Accuse”, “Woulewu No” e “Contamination”, nda) mi convinse e diedi i miei tocchi finali per completare quella “follia”.

Grazie all’originalità musicale e timbrica, alla grafica, al nome, al testimonial che lo ha riprodotto in formato live e alla massiccia campagna pubblicitaria, “Cocoricò 3” vendette davvero tanto, macinando numeri incredibili, forse troppo grossi. Entrò in tutte le classifiche, anche le più orrende, persino in quella di TV Sorrisi e Canzoni. Mancava solo Radio Maria. Nel corso degli anni ha continuato a vendere con una costanza che effettivamente fa un po’ paura. Attualmente il doppio CD autografato lo vendiamo per 100 euro a copia, ed anche i vinili sono entrati di diritto nelle collezioni cult. Con la Dig It International la situazione era eccellente: non dovevamo far altro che chiedere e tutto veniva assecondato. Motivo? Gli avevamo fatto vendere decine di migliaia di copie e per il grande Luigi Di Prisco contavi anche per quello che i tuoi prodotti vendevano. Inoltre, tramite l’export manager Stefano Ghilardi, Dig It International lavorava ottimamente sul fronte esportazioni, quindi pur senza concedere licenze i prodotti finivano nei mercati americani o asiatici nel giro di 48 ore. Sento di dover ringraziare pure il citato Giuliano Saglia per aver portato Rexanthony in Giappone, dove ha creato un mito primariamente coi brani “An.Tho.Ny” e “Gener Action”, usciti prima dei due album tematici sul Cocoricò. Se ci fossimo trovati in Inghilterra ed avessimo avuto alle spalle la Virgin Records, come è avvenuto per i Chemical Brothers, probabilmente ci saremmo spostati da un quartiere all’altro di New York con l’elicottero ed avremmo posseduto un paio di navi e un’isola. Ma siamo italiani, accontentiamoci di come è andata. Tra il 1993 e il 1997 il Cocoricò era eccezionalmente eccezionale. Lì dentro respiravi trasgressione ed innovazione. Guardare questo video rende bene l’idea di ciò a cui mi riferisco».

Antonio Bartoccetti (1995)

Antonio Bartoccetti in una foto del 1995 in cui si scorge il 12″ di “Cocoricò 3” e il CD di “Techno Shock 5” del figlio Rexanthony

Oltre al fortunato remix di “Capturing Matrix” e “The Symbol” di Ricci DJ, “Cocoricò 3” annovera “Deltasygma” e “Sexo” di Doris Norton, “Biohazard” di Saccoman, “Pyramid Power” e “Nytzer Ebb” di Ricci DJ, “Cocoricò” e “Cocoacceleration” di Rexanthony ed “Exagon” di TSD Trance Mission Team (nessun legame col programma televisivo TSD – Tutto Sulla Disco Tutto Sulla Dance seppur ci fosse un grande rapporto con Musik Research visto che i live di Rexanthony erano spesso ospitati nei servizi, come testimonia questa clip), tutti nati sull’asse techno/hardcore in cui si fondono melodie incantatrici, spietati disegni di bassline TB-303 e ritmi metallurgici. La techno (e successivamente l’hardcore e l’hardstyle) diventa un marchio di fabbrica per Antonio Bartoccetti che si lascia alle spalle esperienze in area rock e metal gothic progressive (coi gruppi Jacula ed Antonius Rex negli anni Settanta) ed elettroniche (con la moglie Doris Norton negli anni Ottanta).

«Con l’arrivo dei Novanta entrammo nel mondo techno. Un giorno Anthony, che frequentava la terza media, arrivò a casa con un CD dei Technotronic. Lo ascoltai pensando che fosse un disco rovinato e registrato male, ma il giorno seguente riuscii a contattare telefonicamente il loro produttore che viveva in Belgio: mi disse che di quel disco ne erano state vendute già un milione di copie. La cosa si fece interessante. Nel 1992 Doris, in soli quattro giorni, realizzò il primo volume di “Techno Shock” che venne pubblicato su Sound Of The Bomb e raggiunse presto ottimi responsi di vendita, seppur con una promozione di appena due settimane su Italia Network. Seguì il secondo volume che venne spinto anche da Radio DeeJay e divenne un successo, sia per vendite che licenze. Proseguimmo con la saga sino al decimo volume. Erano a tutti gli effetti degli album ma in quel periodo praticamente nessuno produceva album techno perché si preferiva l’immediatezza dei singoli o degli EP. Poteva sembrare un’assurdità ma i nostri vendettero e diventarono dei cult. In particolare vengono ricordati i volumi 3 e 6 per essere state pietre miliari dell’hardcore. Oggi? Faccio lo psichiatra ma continuo a fare il produttore: in dirittura d’arrivo c’è “Colors” di Rexanthony e Principe Maurice, pronti anche in formato live, e stiamo progettando di riprendere “Blacklady Kiss” di Jacula per riaffidarlo alla loro creatività e farne un futuro inno del Cocoricò. Dal 2012 ho cominciato a fare anche il ghost producer».

La Piramide di vetro illuminata da abbacinanti luci stroboscopiche «trasformata dalla condensa causata dal calore dei corpi in un acquario dove pesciolini esotici ondeggiano paurosamente, si incrociano tirando occhiate, gesticolano come sordi ubriachi o come mute dee Kalì» parafrasando ancora quell’articolo di Roberto D’Agostino citato all’inizio, era il posto più adatto per i brani compressi in “Cocoricò 3”, dove la musica e l’atmosfera si fondevano generando qualcosa che, chi c’era, continua a considerare irripetibile. (Giosuè Impellizzeri)

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